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1Per approfondire i motivi della frattura fra tradizione analitica e tradizione continentale e i motivi
della tendenza antimetafisica nelle due tradizioni consiglio due libri di Franca D’Agostini: Analitici
e continentali (Raffaello Cortina, Milano 1997) e Realismo? Una questione non controversa (Bollati
Boringhieri, Torino 2013). In quest’ultimo testo si trova anche, oltre a una prospettiva originale
sulla questione del realismo, un’analisi storico-critica sulla rinascita della metafisica nella filosofia
contemporanea.
2 Nell’Introduzione all’antologia Metafisica. Classici contemporanei, Laterza 2008, Achille Varzi
scrive: «Da sempre uno dei settori principali della filosofia, la metafisica è oggi al centro di un
rinnovato e accresciuto interesse. Soprattutto nell’ambito della filosofia analitica, ma non solo, gli
ultimi anni hanno registrato un’impressionante progressione nel numero di studi e ricerche
dedicati ai temi classici di questo settore, e dopo la “svolta linguistica” del primo Novecento e la
“svolta cognitiva” degli ultimi decenni, il nuovo secolo sembra essere decollato all’insegna di
un’enfatica e per certi versi inattesa “svolta metafisica”»
scrive Kant in I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica.
I grandi metafisici moderni (Cartesio, Spinoza, Leibniz) avevano costruito
sistemi metafisici incompatibili l’uno rispetto all’altro, e forse è proprio a questi
autori e a questa situazione che Kant, anche se non lo ha voluto esplicitare,
pensava. Ma questa situazione della metafisica moderna era inevitabile? Io penso
che fosse principalmente dovuta al fatto che i filosofi si avventuravano nella ricerca
metafisica solitariamente. Ciascuno mettendo in gioco la propria capacità
individuale di confrontarsi con le teorie scientifiche, la propria capacità di trarre
insegnamento dalle esperienze soggettive, e il proprio personale rapporto con il
“senso comune” depositato nel linguaggio.3
Kant auspicava che i filosofi potessero abitare un “mondo comune” come
quello abitato dagli scienziati. E ancora oggi un auspicio del genere mi sembra
valido. Nell’ambito della tradizione analitica vi è molto più dialogo tra filosofi
rispetto al passato, ma siamo abbastanza lontani, credo, dal punto in cui sono
arrivati gli scienziati, che oggi sono in grado di organizzarsi in centinaia intorno a
un unico programma di ricerca, scambiandosi i risultati in tempo reale e
procedendo parallelamente.
È chiaro come sia assolutamente impossibile, per qualsiasi filosofo di oggi,
pretendere di arrivare a padroneggiare tutte le conoscenze scientifiche di frontiera
di cui servirebbe tenere conto nel costruire una visione metafisica generale
adeguata, nei contenuti, all’epoca contemporanea e all’altezza del compito
tradizionale (sistematico, sulla realtà nell’insieme, e proiettato verso l’etica) che la
metafisica aveva in passato. Ma è proprio per questo che anche i filosofi,
perseguendo un programma di ricerca metafisico, dovrebbero organizzarsi come gli
scienziati: suddividendosi i compiti e lavorando in gruppo, in costante dialogo sia
all’interno della comunità filosofica, sia con gli scienziati interessati alle questioni
fondamentali. In questa prospettiva non sono affatto da disprezzare, anzi sono da
incoraggiare e valorizzare, tutti quegli scienziati o operatori culturali che riescono a
fare della buona divulgazione, cioè che riescono a semplificare i risultati delle ricerche
scientifiche rendendone accessibile il senso senza tradirne l’essenza.
Che i filosofi lavorino in modo coordinato è forse un’utopia. Probabilmente,
anche partendo da questa intenzione comune, nascerebbero interminabili dispute
su chi debba essere a coordinare i lavori e su come suddividere il lavoro. Forse c’è
una componente irriducibilmente individuale nel lavoro filosofico. Si può forse
3 Franca D’Agostini, nel capitolo 6 di Realismo? Una questione non controversa (op. cit.) fornisce un
chiarimento essenziale sulle fonti su cui la ricerca metafisica può e deve basarsi. Innanzitutto non
si può dimenticare il senso comune, inteso come «le credenze condivise che ci orientano nell’uso
del linguaggio» o anche, in altri termini, «l’esperienza condivisa depositata nell’uso del
linguaggio». Poi occorre la scienza, sempre aperta alla propria rivedibilità (alla centralità del
riferimento alla scienza è dedicato tutto il capitolo 8), e infine l’”evidenza soggettiva”: «di volta in
volta un certo contenuto che riguarda il mio incontro con la realtà».
sostenere che la mancanza di coordinamento del lavoro filosofico è il prezzo che la
filosofia paga per la grande libertà (immaginativa, concettuale) con cui ciascun
filosofo si lancia nel campo della ricerca (pretendendo anche spesso di ridefinirne le
regole e gli obiettivi).
Un altro problema della metafisica attuale (penso soprattutto alla situazione
nella tradizione analitica) è secondo me il fatto che, essendo diventata (come ormai
tutti i vari “settori” della filosofia) una disciplina specializzata, tende a perdere la
sua vocazione sistematica. Mi chiedo allora quale potrebbe essere un “programma
di ricerca metafisico” che possa restituire alla metafisica la sua vocazione originaria.
Penso che in questa direzione si possano recuperare le antinomie di Kant
riguardo all’idea di mondo, riprendendone in particolare l’aspetto di problemi aperti
e ampliandone la portata. Problemi aperti (e forse eterni) rispondendo ai quali si
risponde anche, collegando le risposte, alla domanda che apre questo scritto. Provo
ad abbozzare, consapevole dell’approssimazione con cui esplico la portata delle
questioni.
4Per un esempio di ricerca che non parte da basi scientifiche ma può comunque dare un contributo
alla metafisica mi permetto di rimandare al mio breve scritto L’infinito non è di questo mondo. La
biblioteca di Babele e l’universo. (https://www.academia.edu/11296753/
Linfinito_non_è_di_questo_mondo._La_Biblioteca_di_Babele_e_luniverso)
5Cfr. ad esempio F. Berto - J. Tagliabue, The world is either digital or analogue, «Synthese» (2014)
191:481–497 (https://www.academia.edu/3469574/The_World_Is_Either_Digital_or_Analogue_-
_Synthèse ), e J. Tagliabue, Digital Philosophy
neuroscienze, scienze cognitive. Si tratta di una questione di cerniera fra
metafisica ed etica, ed è implicata anche nella disputa fra cognitivismo e anti-
cognitivismo in meta-etica. La questione è ovviamente connessa anche
all’interpretazione dei concetti di possibilità, contingenza, necessità, causa.
Tempo fa, Francesco Berto ha scritto una frase sulla sua pagina Facebook che mi ha
molto colpito. Era in atto, come a volte capita in Facebook, una vivace discussione a
colpi di battute e aforismi, intorno a un post sul mio blog (la discussione l’ho poi
ricostruita nel post successivo). A proposito dell’atteggiamento della filosofia
contemporanea nei confronti del problema del senso complessivo del mondo (o
eventualmente non-senso), Berto a un certo punto ha scritto: “Non c’è uno serio [tra
i filosofi] che ti dia la Weltanschauung”. Naturalmente si riferiva all’ambiente
accademico della filosofia analitica.
Il problema di una ricerca metafisica che voglia riprendere la sua portata
sistematica tradizionale non è però quello che ogni singolo filosofo si costruisca la
sua Weltanschauung, bensì che la filosofia (la comunità dei filosofi) riesca a far
emergere quale sia la Weltanschauung implicita e dispersa nelle conoscenze
scientifiche. Così come gli scienziati sono consapevoli della rivedibilità delle loro
teorie, così i filosofi dovrebbero essere consapevoli della rivedibilità della
metafisica, ma dovrebbero tendere a una metafisica condivisa: anche in metafisica,
come nelle altre scienze, si va cercando la (sola) verità.
Le conoscenze scientifiche hanno avuto spesso un forte impatto sulle
strutture valoriali. Due esempi ovvi: la teoria eliocentrica e la teoria dell’evoluzione.
Non sempre però è facile capire il senso delle teorie scientifiche rispetto alle
strutture valoriali, perché in alcuni casi il loro significato sembra completamente
contro-intuitivo rispetto al senso comune, oppure quando la complessità delle
teorie e la mancanza di coerenza o organicità fra teorie scientifiche diverse rende
l’interpretazione un lavoro lungo e arduo. In questi casi la filosofia è chiamata in
causa e nel rispondere non fa altro che costruire e rivedere la metafisica.
Inoltre solo la filosofia può sostituire il “vuoto” che la scienza sta creando
rispetto alle religioni tradizionali. Mi sembra abbastanza evidente (ma il problema
viene tuttora discusso nella teologia contemporanea) che nelle teorie scientifiche
attuali, per quanto non unitarie, resti poco spazio per un Dio concepito come nei
tradizionali monoteismi (Dio-persona, creatore onnipotente e sommamente buono).
Restano però il bisogno di orientamento dell’individuo, il bisogno di valorizzazione
e il bisogno di progettualità, di proiezione ideale verso mondi possibili migliori e
alternativi a quello attuale.
Se la filosofia riesce a riappropriarsi della sua vocazione metafisica
tradizionale (e qui penso ancora all’Etica di Spinoza come modello) potrà anche,
forse, suggerire forme di religiosità alternative a quelle tradizionali e compatibili
con i saperi scientifici attuali.
Chiediamoci infine: l’idea di ripartire dalle antinomie kantiane proponendosi
di dare delle risposte (aggiornate alla scienza attuale e in grado di porsi in relazione
sia con il linguaggio comune sia con le esperienze individuali) non contrasta con il
divieto che Kant stesso ha sostenuto riguardo ad esse? Non ha forse Kant detto che
sulle questioni che scaturiscono dall’idea di mondo non si può dare una risposta
scientifica? Kant sembra aver decretato una sorta di “incompletezza strutturale”
della ragione teoretica, ma su questo punto penso avesse torto e ritengo che la sua
operazione di trasferimento sul piano pratico di questioni teoriche abbia alla base
motivazioni legate al contesto storico-culturale.
«Ho dovuto dunque mettere da parte il sapere, per far posto alla
fede» (Critica della ragione pura, BXXX), ammette Kant nella Prefazione alla seconda
edizione della prima Critica. In altri termini: per poter ammettere, in sede etica,
l’esistenza di Dio, ha pensato di dover dichiarare irrisolvibile il problema riguardo
alla sua esistenza o inesistenza (IV antinomia). In questo modo anche l’atesimo
diventa una posizione “metafisica” (non, come invece penso che sia, una
conseguenza culturale delle scoperte scientifiche). La mia ipotesi è che Kant,
temendo che i progressi delle scienze potessero annullare la morale e la religione,
abbia preferito “ibernare” la metafisica sistematica.
Ha però messo a fuoco perfettamente, con i “problemi aperti” dell’idea di
mondo, il compito di una futura metafisica sistematica che voglia tenere conto della
scienza ed essere scientifica. E il suo “divieto” a teorizzare oltre su quelle questioni
non ha impedito che il problema cosmologico, o il problema del libero arbitrio,
abbiano continuato a produre dopo di lui ricerche di ogni tipo, teorie scientifiche e
filosofiche. Sono ancora problemi apertissimi e vivissimi, almeno fino a quando
saranno vive la scienza e la filosofia.