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ISBN: 9788875216597
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Donald Antrim
1. MATTIA
(L’ANNO PRIMA)
La festa
La madre sarebbe tornata. Dopo più di un mese in ospedale, tutto a casa era
pronto per accoglierla: Mattia e suo padre avevano curato ogni dettaglio.
Era martedì 1° febbraio 2005 e l’aria era fredda, ma c’era il sole. Ogni
cosa sembrava leggera.
Fermi in piedi, fuori dalla stanza di un ospedale di provincia, stavano in
attesa i barellieri: volontari – forse segnati da un lutto personale – che
regalano il proprio tempo ai bisognosi. Hanno il compito di predisporre la
lettiga per il trasporto del paziente da casa all’ospedale (e questo è un
viaggio triste) o, come ora con la madre di Mattia, dall’ospedale a casa (e
questo è un viaggio allegro). Si muovono rigorosamente in coppia – uno dei
due di solito ha più esperienza, l’altro cerca di imparare.
Quella volta i barellieri erano un ragazzo e un uomo anziano, e agli occhi
di Mattia persino il colore squillante delle loro divise sembrava voler
festeggiare la fine del ricovero. Con mille attenzioni avevano protetto sua
madre avvolgendola in una coperta pesante, ruvida al tatto. Non doveva
prendere freddo.
L’ambulanza avrebbe raggiunto la casa della paziente appena dimessa.
Un movimento speculare (ma al rallentatore, aveva pensato Mattia) a quello
che l’aveva condotta fin lì.
Dopo aver compiuto un’ultima ispezione alla stanza – nulla di lei doveva
restare lì dentro, neppure un fazzoletto –, Mattia seguì la madre. Spinta in
barella con molta prudenza dal ragazzo in divisa, attraversarono insieme i
corridoi, poi l’ascensore e infine raggiunsero l’uscita.
Non avrebbe più scordato l’esattezza con cui i raggi del sole, appena la
porta scorrevole si chiuse dietro di loro, colpirono il volto della madre. La
luce era perfetta, moltiplicava il biondo dei capelli radi e le illuminava i
lineamenti come una carezza; lei sorrise, poi disse qualcosa di dimenticabile
su quella giornata.
La festa proseguì a casa. Il padre di Mattia aveva invitato alcuni amici:
coppie con cui negli anni lui e la moglie avevano condiviso esperienze – fra
cui avere figli, tanto che c’erano persino un paio di coetanei di Mattia. E
ovviamente c’era la sua ragazza.
Erano tutti in cucina, attorno al tavolo su cui stavano dei bicchieri colmi
di spumante (il servizio delle grandi occasioni, quello che la madre non
voleva mai usare perché l’occasione non sembrava mai grande a
sufficienza) e una torta con il nome di lei fatto di lettere di cioccolato,
seguito dalla scritta BENTORNATA. Quel nome che qualcuno, sbagliandosi,
pronunciava mettendo una O dove c’era una A.
Poi alla spicciolata gli amici dei genitori se ne andarono, la sua ragazza
pure, e anche la nonna scortata dalla badante tornò a casa sua. Rimasero
loro tre, in cucina, fra bicchieri di spumante mezzi vuoti e piatti sporchi.
Padre e figlio in piedi, la donna seduta sulla poltrona.
Hai visto, disse lei non si capiva rivolta a chi, c’era anche l’ingegnere.
Perché ti vogliono bene, rispose con eccessiva sicurezza il marito.
Mattia fece sì con la testa.
E poi la madre tentò di alzarsi, senza riuscirci.
Fu allora che Mattia scattò, quasi gettandosi su di lei: Fai attenzione,
disse. Forse dovremmo... Poi rimase in silenzio, fulminato da uno sguardo
del padre.
La presero sottobraccio, disponendosi uno a sinistra e uno a destra, e con
pazienza inesauribile – un passo dopo l’altro, la sedia a portata di mano
quando lei diceva di essere stanca – l’accompagnarono di là.
Qualche ora prima, quando erano arrivati gli ospiti, la madre si era fatta
trovare già seduta in poltrona. Fra chiacchiere e ricordi inoffensivi tutto
aveva suggerito un’idea di normalità.
Ma niente più avrebbe avuto i contorni rassicuranti di una festa in
famiglia: la leggerezza esibita quel giorno era artificiosa, Mattia e suo padre
erano i principali responsabili di quella e delle tante farse che sarebbero
seguite.
Perché se era vero che la madre di Mattia era tornata a casa
dall’ospedale, era altrettanto vero che ci era tornata per morire.
Dorme ancora
Ogni giorno, Mattia si sveglia con la certezza e con il timore che quella che
è diventata la quotidianità – una quotidianità che in altri tempi non avrebbe
tollerato – stia per svanire.
Se ha dormito nel suo letto, c’è un momento sospeso che gli permette di
fingere che nulla esista. Ma quando poggia i piedi a terra, il contatto col
pavimento di legno della sua cameretta di bambino lo riporta all’oggi.
Ignora consapevolmente la stanza da letto dei suoi genitori – vuota – e
mentre scende di sotto incontra per primo il gatto, che gli si struscia
affettuoso sulle gambe per dargli il buongiorno; poi vede se stesso nello
specchio del bagno. Per ultimo ritrova il padre in cucina: un caffè davanti
bevuto per metà, la tv accesa sulle previsioni meteo e una sigaretta già
spenta a impuzzolentire il posacenere.
(Al risveglio, qualche secondo dopo aver aperto gli occhi, Mattia vorrebbe
richiuderli per ignorare la giornata che lo attende. Ma basta un accenno di
progresso – un guizzo inaspettato da parte di quel corpo metastatizzato, ad
esempio – e la giornata viene subito rubricata come piacevole. Tanto che la
sera cerca in ogni modo di ritardare il sonno: mangia dei biscotti, scambia
qualche sms con la sua ragazza, fa ordine fra le sue innumerevoli
videocassette.)
«Di là» è il modo convenzionale con cui Mattia e il padre hanno preso a
chiamare il basso fabbricato che, dopo il ritorno a casa successivo
all’ultimo ricovero, ospita la madre e la sua malattia. Un edificio costruito
una decina d’anni prima nell’ampio cortile: accanto all’officina del padre,
dove un tempo c’era un pollaio sorge una specie di dépendance dotata di
bagno e cucina. Mattia adolescente ci faceva le feste, lì dentro, e in questo
modo – sotto la custodia blanda dei genitori, rassicurati dall’avere il figlio
in casa – riusciva a ricavarsi uno spazio di libertà e divertimento. È in quel
fabbricato che Mattia ha iniziato a scoprire il mondo.
La madre, incapace di affrontare tre rampe di scale per raggiungere la
camera matrimoniale, è ora confinata in quella dépendance. Come se
mettendo pochi metri di distanza – quanti saranno, dieci? – dalla casa vera e
propria, il dolore potesse essere contenuto. Di là. Sembra quasi mimare
l’abitudine di pensarla «al di là».
Il basso fabbricato è diventato il luogo in cui padre e figlio, a giorni
alterni, dormono sul divano-letto a fianco del materasso ortopedico dove la
donna riposa. Vegliano la madre, la moglie, in un tempo che, anche se
sembra averne tutte le caratteristiche, non sarà infinito.
Stasera cenano insieme, madre e figlio, di là: due piatti apparecchiati sul
ripiano di un carrellino servitore. Un carrellino uguale a quello degli
ospedali, comprato in un negozio di sanitari ortopedici.
La madre durante il pasto rimane sul letto, ma seduta. Tiene le gambe
ciondoloni – gonfie per la scarsa circolazione – contro un fianco del
materasso, quasi dovesse scendere e mettersi a camminare all’improvviso
stupendo tutti. Ha un bavaglino legato intorno al collo, perché non si
sporchi né rischi di sporcare le lenzuola. Come sempre, si è fatta sistemare
dietro la schiena tre-quattro cuscini che, premendo contro la sponda di
contenimento, facciano da spessore – illudendola così di essere su una vera
sedia.
(Ogni sera, per un anno, si osserveranno l’un l’altra mangiare. I loro
modesti riti della cena subiranno modifiche dapprima impercettibili, poi
sempre più evidenti.)
Ora insieme a suo padre sistema la madre per la notte. Hanno un intero
mobiletto con l’occorrente: bende, pannoloni, traverse monouso, garze
sterili, cerotti, acqua ossigenata. C’è anche un botticino di alcol denaturato
che Mattia però trova sgradevole: ha un odore che non riesce ad associare
all’idea di disinfettante, un odore insistente.
Dapprima la cambiano: seguendo un copione collaudato la donna si
sdraia sul letto, afferra con forza le sponde di contenimento (si sono rese
indispensabili perché all’inizio il terrore della madre era quello di cadere a
terra) e si volta di lato, offrendo la schiena. Allora Mattia, sapendo che in
quella posizione è tutt’altro che comoda, rapido scolla gli adesivi del
pannolone, lo fa scivolare verso di sé e lo getta – pesante di urina – in un
secchio blu. Applica un po’ di pomata sulla ferita che la madre ha
all’altezza dell’osso sacro (un’oscena cicatrice che per fortuna va
rimarginandosi, dovuta ai prelievi di liquido cerebrospinale inflitti tramite
dolorosissime iniezioni lombari), e la spalma con movimenti concentrici
intorno a quella pelle nuova che fino a qualche giorno prima mostrava il
rosso della carne pulsante.
Poi spruzza sulla schiena, sulle natiche e sui polpacci un prodotto che ha
del miracoloso: spray per evitare le piaghe da decubito, aria gelida che –
dando una temporanea pennellata di vita – aiuta la pelle a mantenersi
elastica.
Nel frattempo, il padre ha già riempito la bacinella gialla con acqua
tiepida e sapone.
(Il gatto che hanno in casa sposta la sabbietta della lettiera con le zampe,
annusa il suo stesso odore, poi si accoccola e fa i suoi bisogni, che a Mattia
tocca poi buttare.)
(C’è una sequenza in Parla con lei di Pedro Almodóvar in cui viene
mostrata la cerimonia di vestizione del torero: prima di una corrida, ci si
abbiglia con cura per dare o ricevere la morte.)
Una volta girata furiosamente la manovella fino a rendere del tutto
orizzontale il materasso, Mattia e suo padre afferrano la madre sotto le
ascelle per trascinarla con un gesto energico ma non brusco verso la
testiera.
Non sempre però il malato riesce a controllare le funzioni corporali. Può
succedere che, proprio nel bel mezzo della preparazione per la notte, uno
spasmo involontario si concretizzi in un getto caldo di urina – l’odore acre
dei medicinali che si palesa negli umori è qualcosa che Mattia ha imparato a
riconoscere – vanificando tutto il lavoro.
E allora non resta che ricominciare da capo.
L’origine
Mattia e la sua ragazza erano in auto, sul ciglio di una strada: lui seduto sul
sedile posteriore, lei al posto del passeggero. Stavano parlando della serata
che si apprestavano a trascorrere insieme, l’alito si condensava in fumetti
intorno alle loro bocche. Aspettavano un’amica, scesa a prendere le
sigarette al distributore automatico. Era l’autunno del 2004, una manciata di
mesi prima di quel ricovero che avrebbe reso necessario l’allestimento di un
nuovo spazio in cui accogliere la madre una volta rientrata dall’ospedale.
All’improvviso il cellulare di Mattia squillò: una telefonata dal numero di
casa. Lui era pronto a rispondere al telefono con indifferenza, non scocciato
ma nemmeno particolarmente curioso. Però restò immobile, come se
qualcosa lo bloccasse.
L’auto aveva il motore acceso, il riscaldamento si sforzava di infondere
un po’ di calore a quell’abitacolo piantato nel cuore della provincia e della
notte del mondo. Il trillo si faceva via via più insistente, riempiendo lo
spazio con le note di una suoneria preimpostata.
La ragazza di Mattia si voltò verso di lui, ribadendogli con gli occhi che
il cellulare stava squillando: cosa aspettava? Ma proprio in quel momento
qualcuno bussò sul vetro con le nocche: era l’amica scesa per comprare le
sigarette, la proprietaria dell’auto. La ragazza di Mattia abbassò il
finestrino, e lui sentì appena la voce dell’amica chiedere in prestito venti
centesimi; era ipnotizzato dal suono del cellulare che stringeva in mano, e
che di lì a poco avrebbe smesso di squillare.
Il finestrino si era abbassato grazie a una semplice pressione su un tasto –
una ghigliottina al rovescio –, e un po’ d’aria calda era scivolata via,
sostituita da quella fresca che subito si era intrufolata.
La ragazza di Mattia, dopo aver frugato nella borsetta, diede alla sua
amica gli spiccioli che le mancavano, e lui nel frattempo rispose. All’altro
capo del cellulare la voce della madre gli chiese (tradendo una nota di
preoccupazione, ma Mattia non l’avvertì o finse di ignorarla) a che ora
sarebbe tornato. E dopo aver ricevuto da parte del figlio una risposta vaga,
lei – simulando una tranquillità sempre più vacillante – aggiunse in modo
apparentemente distratto che era successo un’altra volta.
Così, senza bisogno che la madre dicesse altro, lui capì: era di nuovo
caduta. Ma niente di grave, lo rassicurò lei con dolcezza, non mi sono fatta
male: stavo facendo le scale e devo aver poggiato storto il piede.
Dopo che Mattia ebbe riagganciato, la ragazza lo inchiodò con gli occhi.
Lui conosceva bene quello sguardo, era quello che non ammetteva giri di
parole – poteva soltanto dire la verità. Allora Mattia, quasi dovesse
confessare un tradimento, le raccontò un episodio che le aveva taciuto.
(Nella camera dei suoi genitori c’è uno specchio: lungo, rettangolare – se ci
si posiziona a un paio di metri è possibile vedersi a figura intera. Mattia
bambino studiava la madre di nascosto mentre, davanti a quello specchio, si
preparava prima di uscire. Ricorda il trucco che usava per colorire le
guance, ma soprattutto quello per mettere gli occhi in evidenza: un segno
nero ad avvolgere quell’azzurro impetuoso che in futuro, in un involucro di
madre buttato sul letto, il figlio non sarebbe più riuscito a trovare.)
Da quella prima caduta avevano avuto inizio dei dolori alla schiena che
nessuno, nella famiglia di Mattia – forse per motivi scaramantici –, aveva
associato ai due precedenti casi di cancro della madre.
Cancro. Questa parola era stata ripetuta talmente tante volte da tutti loro,
nel corso degli anni, che la forza spaventosa che possedeva – e che faceva
tremare la voce quando ne parlavano – era ormai un ricordo lontano. Mattia
si era convinto che il cancro fosse qualcosa che (se scoperto in tempo, ed
ecco perché la gente moriva: mancava la prevenzione) potesse essere
curato. Perché così era stato per sua madre fino ad allora: il potere feroce di
quel vocabolo assoluto, nel corpo di donna che ha generato Mattia, era stato
disinnescato per ben due volte.
(Quasi nessuno degli abitanti osa allontanarsi troppo, come se quel posto
fosse una maledizione da cui non ci si libera. Se uno di loro – Mattia l’ha
visto succedere ad alcuni suoi amici – sceglie di andarsene per studio o per
lavoro stabilendosi nelle città vicine, viene visto con sospetto. E nel caso in
cui dopo qualche tempo decida di tornare ad abitare in paese, non gli è più
possibile farne di nuovo parte: tacciato di alto tradimento, viene rigettato
dalla comunità e bollato come fallito.)
I genitori di Mattia hanno assecondato con poca convinzione quella che per
lui è una passione: ha studiato cinema. Non si è mai laureato (il file
Tesi.doc, lasciato a metà, dorme da anni nella pancia del suo computer
accanto al file Medicine.doc in continuo aggiornamento). Si è gingillato con
l’idea di poter fare della sua passione qualcosa che lo potesse far apparire
agli occhi altrui come un individuo dotato di talento. Ha diretto un paio di
cortometraggi – autoprodotti e mai distribuiti –, ha provato a partecipare a
qualche festival, ma senza successo.
Incapace di smarcarsi dalla condizione di figlio, l’occasione buona
poteva essere un master nella più prestigiosa scuola di cinema a livello
nazionale. Ma continuava a procrastinare il test d’ammissione: la sua
ragazza cosa avrebbe pensato del fatto che si dovesse trasferire a ottocento
chilometri di distanza? E i soldi dove li avrebbe trovati? In ogni caso, prima
avrebbe dovuto mettere la parola «fine» a quella maledetta tesi. La malattia
della madre è ora la scusa perfetta per rimandare ancora.
Da qualche tempo ha trovato rifugio ad appena tre chilometri da lì, nel
paese accanto, in una videoteca in cui lavora come commesso. Certo,
adesso che le videocassette sembrano condannate all’antiquariato è a tutti
gli effetti un controsenso chiamare videoteca quel negozio di dvd. Del resto
anche commesso è un termine difficile da maneggiare, e fa sorridere Mattia
ogni volta che lo pronuncia – non può impedirsi di ripensare a quel film di
successo di una decina d’anni prima –, è un termine che gli suona molto
meglio al femminile.
La verità è che a lui non interessa granché il suo lavoro.
Se ne sta seduto tutto il giorno su uno sgabello, sfogliando riviste che
parlano delle ultime novità. Sempre seduto sullo stesso sgabello, guarda con
scarsa attenzione un film dopo l’altro nella tv grande, poggiata sul bancone.
La gente entra ed esce dal negozio, gli fa domande di vario tipo, i clienti
scherzano con lui e lui scherza con loro.
A Mattia piace anche annoiarsi, in negozio. Sa che lì non potrà starci per
sempre, sa che è solo una pausa nella sua esistenza: un modo codardo di
prendere altro tempo. Riempire il tempo di nulla è comunque vivere.
(La parola vivere ora gli sembra più preziosa che mai, desidera mettersela in
bocca e impastarla di saliva, sminuzzarla coi denti per poi deglutirla, farla
sua, ingoiarla e assorbirla – non restituirla più al mondo.)
Si alza dal divano-letto col fiato mozzato, e cerca con gli occhi la realtà: la
madre dorme accanto a lui il sonno della malattia. Alla luce della luna la
osserva respirare, avvolta nelle coperte. I capelli finissimi della
chemioterapia le disegnano sentieri interrotti sulla testa piccola.
Mattia va in bagno: se fumasse sarebbe il momento ideale per farsi una
sigaretta, invece non ha mai fumato in vita sua. Deve solo fare un po’ di
pipì, però si siede sul water e sfoglia una rivista di giardinaggio. È pigro,
preferisce non rimanere in piedi nemmeno per quei pochi secondi necessari;
neanche si accorge di replicare la postura che tiene ogni giorno al lavoro.
La sua faccia appena sveglio (anche se il sonno è stato abbondante) è
sempre contorta, quando si guarda allo specchio del bagno si vede orribile:
gli occhi gonfi come dopo una sbornia, la pelle di un colore insano.
Da un po’ di tempo, inoltre, se è particolarmente affaticato o nervoso, la
vista di Mattia s’indebolisce per alcuni minuti: la parte centrale del campo
visivo è come fuori fuoco. Chi dovesse assistere a una di queste crisi visive
noterebbe nel suo sguardo una vacuità prossima a un dolore. Eppure
l’intervento al laser per la correzione della miopia che Mattia ha fatto anni
prima non gli ha mai dato alcun problema.
Deve decidersi ad andare dall’oculista, anche se il suo capo, sistemandosi
in testa il berretto, gli ha chiarito che se spera di aver trovato una scusa per
starsene a casa, quella è la porta e arrivederci. Mattia però non intende
rinunciare al pur ridicolo stipendio che porta a casa ogni mese, è convinto
che il giorno in cui s’iscriverà a una scuola di cinema quei soldi gli faranno
comodo.
Il lavoro che fa
Quando arriva in videoteca, per prima cosa posa la borsa a tracolla dietro il
bancone, poi accende la tv e infila nel lettore un film qualsiasi.
Il suo capo è quasi sempre fuori, dice di avere degli impegni urgenti da
sbrigare. Mattia sa benissimo che in realtà è al bar della stazione: starà
bevendo l’ennesimo aperitivo con gli amici. L’ha visto più volte, gli occhi
piccoli nascosti dal berretto ben calcato in testa, mentre ingoia noccioline
seduto a un tavolino. Glielo confermano anche i clienti – ormai conoscono
bene Mattia, e lui conosce bene loro.
Cos’è che tiene insieme una famiglia? è la scritta che compare sulla parte
bassa dello schermo tv, mentre il conduttore di un programma domenicale
intervista una diva del cinema sposata da trent’anni con un attore; insieme
hanno avuto una mezza dozzina di figli, diventati anche loro più o meno
celebri.
Il volume è azzerato, Mattia sta preparando il caffè del dopo pranzo.
Cos’ha tenuto insieme la sua, di famiglia? Non lo sa, ma ha la presunzione
di pensare che sua madre abbia giocato un ruolo importantissimo negli
equilibri quotidiani: se lei non avesse retto, lui e suo padre non avrebbero
mai trovato le forze per contrastare l’avanzata dell’orrore. Un orrore che ha
il suo inizio nel 1996.
Verso la fine del 2002, però (superata di slancio la soglia che i medici
considerano a rischio, cioè quella dei sei anni entro i quali un’eventuale
recidiva può manifestarsi), c’è una sorpresa. Una massa tumorale –
diagnosticata dopo settimane in cui la madre di Mattia accusava mal di testa
e difficoltà nel coordinare i movimenti – viene individuata in
corrispondenza del cervelletto.
Quella cinquantunenne con un curriculum di prim’ordine – un carcinoma
mammario e un successivo svuotamento preventivo – presentava infatti una
sola zona del corpo in cui la chemioterapia non sarebbe potuta arrivare: la
testa. La barriera emato-encefalica aveva svolto egregiamente il suo
compito, impedendo però al liquido chemioterapico iniettato anni prima di
proteggere il tessuto cerebrale da neoplasie.
(Quando sentiamo la mancanza di qualcosa o di qualcuno, noi sentiamo la
mancanza. Allo stesso modo per cui ciò che si ha non è un cancro, ma il
cancro stesso.)
(C’è una sequenza, nella Stanza del figlio, in cui il personaggio di Silvio
Orlando sta facendo una seduta dall’analista interpretato da Nanni Moretti.
A un certo punto Orlando gli confida di avere un cancro, e dice che
fondamentale ai fini della guarigione è l’atteggiamento psicologico del
paziente verso la malattia. Al che Moretti, neppure troppo seccato, gli
risponde che anche se il malato è combattivo, quando deve andare a finire
male non c’è scampo.)
Chi muore viene spesso accusato di una colpa assurda: quella di volersene
andare. Come se chi guarisce avesse un merito. E poiché tutti – nel tempo
immobile della malattia – hanno sempre lodato la madre per la sua forza di
volontà, forse la salvezza è ancora possibile.
Finché un prelievo di liquido spinale rivela, nel novembre del 2004, la
presenza di una carcinosi meningea inoperabile.
Dopo un ricovero durato poco più di un mese, una volta fissata la data del
rientro a casa della madre (martedì 1° febbraio 2005), il primario aveva
compilato in gran velocità un modello prestampato consegnandolo a Mattia.
Era un documento composto da due fogli. Il primo annunciava una serie di
sedute di fisioterapia a domicilio, nell’altro erano elencate le cose che
sarebbero servite da quel momento in poi: un letto a manovella, un
materasso ortopedico, un cuscino pneumatico antidecubito, un piccolo
compressore, un deambulatore, una sedia a rotelle.
Per via di quella carcinosi meningea la madre non camminava più: faceva
pochi passi – il tragitto dal letto al bagno – reggendosi al girello o al braccio
di un’infermiera, poi le gambe cedevano. A Mattia ronzava in testa una
frase che lei ripeteva spesso, distesa nel letto della sua camera d’ospedale:
Sono entrata qui con le mie gambe, esco che non so più camminare.
Lo diceva al figlio, al marito, ai medici. L’idea di non riuscire a
camminare era ben peggiore di quella di essere malata.
L’altra frase che diceva sempre, questa un po’ più sottovoce, era: Proprio
adesso che stavo per andare in pensione.
(L’inizio del declino che coincide con la pensione appare a Mattia come il
più scontato degli espedienti usati nei telefilm: lo sceriffo di una cittadina di
provincia che nell’ultimo giorno di servizio ci lascia le penne.)
Padre e figlio decisero senza dirselo di non mostrare subito la sedia a rotelle
alla madre. Anche se Mattia rischiò di infrangere subito quel patto perché,
conclusa la festa per la fine del ricovero, di fronte alla madre incapace di
alzarsi da sola dalla poltrona stava per proporre di usarla.
Per le settimane a venire avrebbero tenuto la carrozzina nascosta in
bagno, quasi fosse qualcosa di cui vergognarsi. Fu il fisioterapista, di
qualche anno più grande di Mattia, molto simpatico e determinato, a
ritenere che dopo le prime sedute fosse venuto il momento per la madre di
confrontarsi con la realtà – di provare a muoversi da quel letto con il quale
era ormai diventata un tutt’uno.
Il letto dà troppa sicurezza al malato: poi non riesce più a staccarsene,
regredisce..., spiegava loro. Il paziente va fatto ritornare a uno stato di
autosufficienza, deve dipendere solo da se stesso. Capivano che aveva
ragione, ma sembrava impossibile trovare il modo di separarla dal
materasso.
Allora, oggi vogliamo provare a farci un giro in carrozzina?, chiese un
giorno il fisioterapista alla sua paziente, sorridendo più del solito. Mattia e
il padre si guardarono: come reagirà?
La madre si passò una mano sopra l’orecchio destro – un gesto che
faceva spesso quando aveva i capelli lunghi – e li sorprese dicendo:
Proviamo.
La carrozzina, per poter entrare di là, aveva bisogno di una pedana: c’era un
gradino all’ingresso.
Il concetto di barriera architettonica non aveva mai attraversato la mente
di Mattia. E neppure i suoi genitori dovevano averci pensato quando
avevano edificato il posto dove sarebbero andati a vivere. Perché quando
costruisci una casa che si sviluppa su tre rampe di scale, e poi un basso
fabbricato dotato di bagno e cucina, non pensi che arriverà un giorno in cui
senza l’aiuto di qualcuno ti sarà impossibile affrontare un misero gradino.
Costruisci i posti per viverci, non per morirci.
Un brindisi
Nel corpo di mia madre è in corso una guerra forte e cruenta – prova a
spiegare Mattia –, per questo fa uso di immunosoppressori: per combattere
il cancro ad armi pari.
Seduto a un tavolino, beve un amaro al bar del centro commerciale: è lì
per comprare dei bavaglini per la madre, doveva andarci con la sua ragazza
ma lei è stata trattenuta da un impegno. Mattia però non è solo: ha
incontrato una coppia di amici che non vedeva dai tempi del liceo. Erano
fidanzati già allora, e adesso che si stanno per sposare girano i negozi per
compilare la lista nozze – un elenco non così diverso da quello compilato
per il negozio di articoli ospedalieri, ha pensato Mattia che, appresa la
notizia, ha voluto a tutti i costi offrire loro qualcosa al bar.
Lei ha optato per un caffè, mentre il futuro marito ha acconsentito con
non troppo entusiasmo all’amaro proposto da Mattia.
Mi spiace, dice la ragazza soffiando sulla tazzina, sapevamo che era
malata ma non ti abbiamo mai telefonato...
Non fa niente, replica Mattia. E riprende imperterrito la spiegazione: Che
poi è improprio chiamarla guerra, perché è il corpo che si ribella, ma
quando ci hanno detto che le metastasi erano meningee, e non andavano
confuse con una leucoencefalopatia progressiva multifocale...
Si accorge che il suo ex compagno anziché ascoltarlo sta guardando il
display del cellulare. Dovete andare?, domanda allora con finta gentilezza,
fissando entrambi.
Ma no, risponde l’altro rimettendo il cellulare in tasca, è che ho detto a
mia suocera che ci saremmo visti davanti all’agenzia viaggi, e siamo un po’
in ritardo...
Capisco, dice Mattia serafico. Allora facciamo un brindisi agli sposi, no?
Mattia si accorge però che i bicchieri sono vuoti, e ignorando le proteste
dell’amico ordina repentinamente altri due amari.
Al futuro, dice Mattia ispirato, sollevando verso i neon del centro
commerciale quel bicchiere oblungo dal vetro spesso. Poi ingolla d’un fiato
il secondo amaro. L’amico ne beve mezzo sorso, dopodiché si alza in piedi
e tira fuori il portafogli.
Ma ho già detto che offro io, ribadisce Mattia battendo il palmo aperto
sul tavolino.
Non insistere, dai, dice lei al futuro marito abbozzando un sorriso.
Si salutano, con la promessa di vedersi perlomeno il giorno delle nozze:
Ti mandiamo l’invito.
Mattia resta ancora un po’ al suo tavolino, mentre i due si allontanano
senza voltarsi neppure una volta.
Carezze
Più tardi, Mattia prepara sua madre per la notte. La distende con cura sul
letto e la lava, la pulisce, la cambia.
Poi quando ha finito la bacia, restituendole uno delle migliaia di baci
della buonanotte che quand’era bambino lei gli ha dato.
(Ogni volta che la sua ragazza lo sfiora, con il corpo o con gli occhi, Mattia
si accorge che gli è impossibile non paragonare qualsiasi carezza o sguardo
che riceve – e mai riceverà – con quelli ricevuti da sua madre.)
Un amico
Mattia apre la cassetta delle lettere: insieme alla bolletta del gas e alla
pubblicità di una ditta che distribuisce l’olio a domicilio, c’è una piccola
busta bianca. Se la rigira fra le
mani, curioso. Non è indicato nessun mittente, nessun indirizzo di
destinazione. C’è solo il nome di Mattia, scritto in inchiostro blu.
Apre la busta, e ci trova dentro un foglietto ripiegato in due. Non appena
legge quelle poche righe – l’occhio ancora non è arrivato alla fine del
messaggio, il cervello sì –, gli sembra di essere risucchiato dal pavimento.
Deve appoggiarsi al davanzale per non cadere. Il sorriso di curiosità è
scomparso, spazzato via da una smorfia. Chi scrive dice di essere un amico
di Mattia e della sua famiglia, ma è ovvio che quel messaggio non può
essere stato scritto da nessuno che possa definirsi «amico».
Non sa cosa fare, Mattia. Si guarda intorno, come se la persona che l’ha
recapitato a mano – magari di notte, magari per conto di qualcun altro –
potesse ancora essere lì vicino, nascosto da qualche parte a gustarsi la
scena.
Sono un amico di famiglia, recita il messaggio. E mi sembra giusto fare
sapere a Mattia che è una vera vergogna quello che sta succedendo a casa
sua. Suo padre nemmeno aspetta di avere seppellito la moglie al cimitero
prima di andare in giro con le troie. Non c’è rispetto neppure per chi soffre.
Rientra, e trova il padre che sta scendendo le scale. Decide di non dirgli
niente, almeno per ora. Lo osserva mentre sbocconcella un plum-cake,
nessuna espressione sul viso. Lo saluta prima di andare al lavoro, e il padre
ricambia come se quello fosse un giorno qualunque.
(Quando Mattia bambino guardava gli attori nei film, dopo che gli avevano
spiegato che quello moriva per finta, che quell’altro stava solo fingendo di
sparare, gli era rimasto un dubbio che nessun adulto sembrava capace di
sciogliere. Se un personaggio sta mangiando un panino, lo fa davvero o no?
Finita la ripresa, sputerà il boccone che ha in bocca? Anche lui e il padre
devono diventare attori.)
(Si dice che uno dei primi sintomi del cancro al cervello sia percepire odori
inesistenti, fra cui puzza di bruciato.)
Più tardi – era da un po’ che non gli succedeva più – Mattia ha una delle sue
crisi agli occhi. È un buco nella visione, non saprebbe come spiegarlo
diversamente, un cratere bianco che assorbe tutto il resto e impedisce allo
sguardo di registrare una parte di mondo. Può durare anche una mezz’ora, e
in quel lasso di tempo Mattia non riesce a fare niente. Gli conviene tenere
gli occhi chiusi, ma anche così sembra non trovare tregua: è come se avesse
fissato direttamente il sole, e anche nel buio dietro le palpebre quella luce
continuasse a riverberare. Poi passa.
(Nei suoi incubi, Mattia teme che le cellule impazzite, maligne e dunque
pensanti che divorano il corpo della madre vogliano aggregarsi per uscire,
manifestarsi, diventare qualcosa. Qualcuno.)
Collirio
Un mattino, sfogliando il giornale, Mattia si sofferma sulle notizie locali: un
piccolo biplano ha preso fuoco durante un volo notturno, precipitando non
distante dalla loro zona. Il pilota e i due passeggeri non si sono salvati.
Mattia pensa che qualche notte prima ha rischiato di esprimere il
desiderio di vedere sua madre salva mentre altri morivano.
Fa per uscire di casa, poi cambia idea: telefona al suo capo e gli dice che
si assenterà dal lavoro per una visita medica. Non specifica nel dettaglio di
cosa si tratti, né che la visita la farà lui e non sua madre (non gli ha mai
spiegato le condizioni di lei, ha sempre fatto riferimento a una generica
malattia: non gli va di condividere con quell’individuo il suo dolore).
Sentendo il grugnito nella cornetta, Mattia riesce a vedere il suo capo
mentre gli risponde stringendo gli occhietti piccoli: Però mi raccomando: ti
voglio qui nel pomeriggio.
Più tardi, sta tornando a casa per il pranzo. Si è fatto visitare dall’oculista,
ma – quando si è trovato seduto sulla poltroncina dello studio medico, di
fronte a uno degli apparecchi per controllare la vista – l’unico esempio che
gli è venuto alle labbra per descrivere la crisi che ha avuto alcune notti
prima è stato questo: Come quando guardi per un po’ il sole, e poi gli occhi
ti bruciano.
Quindi hai fissato direttamente il sole?, gli ha chiesto l’oculista regolando
una manopola per scrutare meglio dentro Mattia.
No, ma l’effetto è simile.
Comunque l’occhio è sano, ha stabilito il medico.
Senti, gli ha detto Mattia con voce ferma mentre l’altro era intento a
scrivere sul blocchetto delle ricette. È il suo oculista fin da quando Mattia
era bambino, è un amico di famiglia di cui ha totale fiducia: è stato lui a
correggergli la vista con il laser. Senti, riprende.
Lo so cosa stai pensando, l’ha interrotto il medico porgendogli un foglio
fitto di scrittura, e ti sbagli.
Gli ha prescritto un collirio: due-tre gocce quando sente un po’ di prurito,
uno dei sintomi che a detta di Mattia anticipano quel buco nella visione.
Solo quando è arrivato a casa e ha parcheggiato l’auto nel cortile, ha
trovato il termine di paragone che meglio spiega il suo disturbo. C’è una
tecnica – Mattia l’ha scoperta guardando un documentario sugli spaghetti
western – cui ricorrevano i registi squattrinati quando dovevano ottenere
visivamente l’effetto di uno sparo, di una pistola che esplode un colpo.
Costretti al risparmio per portare a termine le riprese nel minor tempo
possibile, prendevano il fotogramma in cui l’attore fingeva di sparare, e in
corrispondenza del primo piano della pistola bucavano con una sigaretta
accesa la pellicola. Il cerchietto che si otteneva, un foro, evocava tutto: la
polvere da sparo, il proiettile, il fuoco.
Anche solo darle una mano a salire in auto – «darle una mano» significa
trafficare con carrozzina, pannoloni e mille altri impedimenti – per andare
in un bar la domenica pomeriggio, e mangiare una fetta di torta tutti insieme
in un posto diverso dal solito, anche questo diventa un’avventura. Si è grati
persino se al ritorno, in auto, si incontra un acquazzone come non lo si vede
da tempo.
Mattia guida con prudenza, indicando dietro i tergicristalli l’insegna di un
locale nuovo che la madre non ha ancora visto, una fila di giovani platani
appena piantati lungo il viale, una rotonda spartitraffico in via di
allestimento. Il mondo che ha continuato a fare il suo corso, senza che lei
fosse testimone.
Hai visto che pioggia?, dice la madre al figlio una volta tornata al caldo
del suo letto, felice.
Mattia era seduto davanti al computer, aveva inserito nel motore di ricerca
le parole «cancro mammella», e leggendo queste informazioni si era
allarmato. Era il 1999, lui aveva la connessione a internet da due settimane.
Era la prima volta che gli veniva in mente, da quando aveva iniziato a
navigare – soprattutto di notte, che all’epoca costava meno –, di cercare
informazioni sulla causa che aveva portato la madre ad ammalarsi, tre anni
prima. Ad ammalarsi per poi guarire, questo era chiaro.
Se no per quale motivo lei – dopo aver scoperto di avere un cancro al
seno, ed essere stata operata, ed essere sopravvissuta – aveva smesso di
fumare? Per quale motivo, se non quello di provare a salvarsi?
Solo di tanto in tanto, quand’era particolarmente nervosa o quando
davvero voleva gustarsi il sapore della nicotina, accendeva una sigaretta,
che però spegneva presto, abbandonando il mozzicone a metà. Non era più
abituata al fumo, e quasi la disgustava sentirlo scendere nei polmoni. Mattia
sorrideva dentro di sé per quella reazione, e si convinceva di poter vedere
sua madre invecchiare. Come a tutte le madri dovrebbe essere concesso.
Da ragazza era stata una fumatrice per molti anni consecutivi, ma poi,
una volta scoperto di essere incinta, aveva subito smesso.
Mattia era dunque stato un adolescente con un padre fumatore e una
madre che non fumava più.
(Mattia non saprà mai se la prima cellula cancerosa che ha trovato spazio
nella madre risalga a tremilacinquecento anni prima, ai tempi del Papiro
Edwin Smith, o sia da collocare nel giorno in cui riprese a fumare. Sa
soltanto che quando frugava con le sue mani bambine alla ricerca di un
chewing-gum nella borsa di vimini che la madre portava a tracolla, sulle
dita gli rimaneva sempre un po’ di tabacco. Non annusarti le mani, lo
rimproverava lei.)
Allettare
Non riesce ad allontanare i pensieri dal foglietto osceno che ha trovato nella
cassetta delle lettere (l’ha trovato lui, quindi in qualche modo sente che è
anche colpa sua), quel messaggio che accusava suo padre di non aver
aspettato «di avere seppellito la moglie» – neppure fosse lui il becchino –
prima di tradirla.
Aveva letto e riletto quelle parole, per poi distruggerle: la falsa ipocrisia
di qualcuno che si spacciava per un amico e che diceva di volerlo aiutare,
metterlo in guardia. Era colpito dalla scelta del vocabolo – seppellito – e dal
modo in cui era stata calcata la penna su quella parola. La t sembrava
mimare la croce di una lapide, eppure sua madre se ne stava distesa su un
letto («allettata» è un vocabolo dal duplice significato, pensa Mattia: ma se
l’esattezza della lingua è l’unico alleato che ti è rimasto, non ci dovrebbe
mai essere possibilità di equivoco). Era ancora viva, ancora lucida, com’era
possibile che nella cassetta delle lettere si fosse materializzato tutto
quell’odio per lui e la sua famiglia?
Si dice che anziché bruciarlo avrebbe dovuto conservarlo, fotocopiarlo,
farne materiale da volantinaggio. Appenderlo in casa in una cornice,
sottovetro: non avendo una laurea da esibire, avrebbe potuto mostrare agli
amici quel documento, la testimonianza autografa della crudeltà del mondo.
È certo che l’accusa sia infondata, l’ha visto negli occhi di suo padre con
stupefacente chiarezza, ma... Non parliamone più, gli ha detto lui. Perché
non vuole parlarne? Hanno deciso insieme che quello sarà un segreto fra
loro, non devono esserci zone d’ombra. Se c’è qualcosa di irrisolto, un
equivoco, un motivo per cui quel foglietto è finito nella loro cassetta, è
giusto che Mattia lo sappia. Questo pensa, anche se non ha il coraggio di
tornare alla carica con il padre.
Ha in mente un paio di nomi di persone che possono essere responsabili
di quel gesto, ma non ha fatto nulla, finora.
(Ma «scoperchiare» non era la parola esatta; Mattia in quel periodo era
tormentato dai racconti sulle autopsie che gli erano stati fatti da un amico
medico. Una delle cose più raccapriccianti in assoluto, a quanto pare, non è
tanto vedere il colore degli organi interni, saggiarne il peso e la consistenza,
respirare l’odore di cadavere e sangue: il vero orrore si ha quando l’autopsia
richiede l’apertura del cranio. Dopo aver inciso la cute sagittalmente da
orecchio a orecchio, la si scolla dal cranio: rimane una sottile striscia di
pelle attaccata alla testa del cadavere. Una cerniera sulla fronte, qualcosa
che solo chi ha visto può raccontare: non a caso autopsia significa «vedere
con i propri occhi». Poi viene segata la scatola cranica, producendo un
suono che per Mattia è impossibile associare a qualcosa di umano. La pelle
della calotta nel frattempo è stata adagiata sul viso del cadavere; andrà
ricucita a indagine terminata. Quasi subito quel lembo di epidermide – che
nonostante il decesso mantiene una sua elasticità – si raggrinza sul volto
inerte. Come un frutto perfettamente spellato la cui buccia, rivoltata sul
frutto stesso, è incollata soltanto tramite un’esigua estremità.
Quest’immagine assillava Mattia, tanto che in ospedale, durante l’orario di
visita, si era accorto di fissare la frutta sui vassoi dei degenti quasi con
sospetto.)
Ora basta, diceva ogni tanto il padre fra sé e sé. Si alzava, raggiungeva con
due falcate i portelloni chiusi, si guardava intorno e poi si risedeva,
tornando a guardare l’orologio appeso sul muro di fronte.
Adesso sono sette ore, constatò Mattia a un certo punto.
Si accanivano col tempo che passava, come se la stanchezza e il
nervosismo accumulato in quei mesi dovessero trovare un punto di fuga.
Hai presente gli anelli negli alberi?, gli aveva detto il padre all’improvviso.
Come? Mattia aveva chiuso di scatto il manuale, arrossendo neanche
fosse stato un giornaletto porno.
Gli anelli, aveva detto fissando Mattia negli occhi, il fatto che puoi
stabilire l’età di un albero, e il periodo del suo abbattimento, dal numero e
dalla forma degli anelli presenti nella sezione del tronco.
Sì certo, aveva risposto credendo che suo padre stesse dando di matto, lo
sanno tutti...
Be’, lo sapevi che, in certi casi, si può risalire all’età che aveva l’albero
nel momento in cui gli esemplari intorno sono stati abbattuti, e invece lui se
l’è scampata? E poi aveva sorriso, soddisfatto.
Mattia stava per ribattere, ma di punto in bianco un uomo uscito dalla
sala operatoria – i portelloni oscillanti come quando in un western qualcuno
entra nel saloon – si era avvicinato a loro. Per una specie di riflesso
condizionato si erano alzati entrambi, e l’altro aveva detto: L’intervento è
finito.
Padre e figlio si erano guardati. Nessuno dei due sembrava capire quel
semplice messaggio: L’intervento è finito, L’intervento è finito. Una serie di
suoni senza significato.
Nel cervello di Mattia un impulso era partito alla ricerca di una chiave
interpretativa; funziona così, il cervello? Partono impulsi? Lui non lo
sapeva, né sapeva esattamente quale fosse il ruolo del cervelletto, l’organo
della madre su cui i medici erano appena intervenuti. Però di una cosa era
certo: quell’uomo non era il chirurgo che aveva operato sua madre, non era
l’uomo dalle mani bellissime e compassionevoli, su questo non c’erano
dubbi, e forse non era neanche un medico. Infatti, dopo quella sintetica
sentenza, il tizio (di certo un impostore, o qualcuno che li aveva scambiati
per altri) si era già allontanato.
Erano tornati a sedersi, un po’ storditi. Guardando meglio l’uomo che ora
premeva un tasto per chiamare l’ascensore, Mattia si era ricordato: era uno
dei tanti che entravano e uscivano dalla sala operatoria. Forse un’ora prima
– mettendosi fra lui e i portelloni – Mattia stesso gli aveva detto, con la
violenza di chi si sente nel giusto, che loro erano i parenti della signora (e
aveva pronunciato il cognome da nubile della madre) e che attendevano
notizie sull’intervento. Adesso, però, senza il camice, non lo aveva
riconosciuto.
Poi, quasi in sordina – sotto le luci al neon uguali a quelle di tutti gli
ospedali del pianeta –, era uscito finalmente il chirurgo.
Di nuovo Mattia e suo padre si erano alzati in un unico movimento, e gli
erano andati incontro con occhi indagatori. Lui con precisione studiata
aveva allentato la mascherina che teneva sul viso. L’intervento è riuscito,
queste erano le parole che si aspettavano di sentire.
Attendevano così tanto questa notizia che nel momento in cui
effettivamente il medico la comunicò, loro non gli credettero. Non tanto
perché erano tesi o scioccati, ma perché c’era qualcosa di incongruente fra
ciò che il chirurgo diceva con la bocca e ciò che invece sembravano voler
rivelare i suoi occhi. Sembrava che il suo corpo intendesse dire, Mi
dispiace, qualcosa è andato storto; oppure Mi dispiace, abbiamo fatto tutto
il possibile.
Quel chirurgo era carico di significato divino, essendo il messaggero di
qualcosa di definitivo: tornare a camminare o essere storpi per sempre, la
vita o la morte. Ecco a cosa pensava Mattia accorgendosi che anche suo
padre pareva aspettarsi qualcosa in più da quel medico che spostava il peso
da un piede all’altro. Anche se L’intervento è riuscito erano state le sue
parole, era evidente quanto faticasse ad andare avanti.
Solo dopo un po’ gli riuscì di aggiungere: Purtroppo.
Distesa sulla barella, lei stessa aveva detto: Guardate un po’, e poi aveva
mosso le gambe e le braccia in maniera quasi teatrale. Fu allora che il
marito l’aveva chiamata con quel nomignolo affettuoso che il figlio da
tantissimo tempo non sentiva più, e le aveva accarezzato i capelli, le
guance. Mattia aveva espresso un desiderio: provare quel senso di sollievo
per sempre.
Ora la portiamo in rianimazione, aveva spiegato qualcuno allontanando
la barella che trasportava il corpo amato.
Quando Mattia aveva afferrato il cellulare che teneva abbandonato nella
tasca della giacca – doveva fare un giro di telefonate, subito – aveva fatto
un’altra scoperta: la sua ragazza aveva preso trenta all’esame (ma senza
lode: meglio non disturbare la perfezione, meglio il cauto ottimismo).
Quella sera Mattia e il padre presero del cibo in un ristorante cinese. Una
volta a casa mangiarono avidamente, gustando le pietanze saporite, i palati
grati di quel cibo.
Al riparo dal resto del mondo – le festanti scatoline di alluminio aperte
tutt’intorno, i piatti colmi di riso e pollo, colorati quanto solo i cibi cinesi
sanno essere – si sentirono confortati come non accadeva da tempo. Si
vergognarono persino un po’ quando, alla fine di quella giornata così
complicata eppure così bella, tentarono di scherzare. I due individui seduti
al tavolo della cucina non erano soltanto il marito e il figlio di quella donna
che ora probabilmente stava dormendo nella sua camera d’ospedale. In quel
momento loro erano tornati a essere – senza accorgersene – padre e figlio.
La madre l’aveva messo in punizione. Non ricorda più che cosa avesse
combinato di preciso, se non che si trattava di una delle rare volte in cui
Mattia bambino era stato sgridato e punito. Niente di serio, gli aveva
proibito di guardare i cartoni animati per un paio di giorni, ma il figlio
cercava di elaborare una vendetta sufficientemente crudele per riscattare
quello che per lui era un torto gigantesco.
Alla fine aveva aperto un cassetto del salotto, vicino al giradischi, e si era
messo alla ricerca di una musicassetta alla quale la madre teneva molto, con
incise le canzoni di Aznavour (ogni volta che sentiva pronunciare quel
nome – alle sue orecchie terribilmente esotico – gli sembrava di essere al
cospetto di una formula magica). La musicassetta aveva un’etichetta
arancione, con sopra scritto a penna biro il nome dell’artista e nient’altro;
chissà quando e chissà chi l’aveva registrata, forse apparteneva a
quell’oscuro periodo della vita di sua madre in cui ancora non era sposata.
Lei ascoltava la voce malinconica di Aznavour accompagnata dal
pianoforte mentre faceva le pulizie, e ogni volta la faceva sorridere –
dunque forse era vero: quel nome, quella musica, avevano qualcosa di
magico.
Con un pennarello nero Mattia aveva scarabocchiato l’etichetta, tirando
righe fitte che cancellassero del tutto il nome di Aznavour. Non sazio, con
dita piccole e malvagie aveva pizzicato il nastro della musicassetta,
facendolo fuoriuscire dal suo alloggiamento. Voleva estrarre parte del nastro
– una specie di avvertimento –, ma poi ci aveva preso gusto: aveva
aggrovigliato e annodato goffamente il nastro tutt’intorno alla musicassetta
fino a renderne impossibile il recupero.
A delitto compiuto, aveva riposto la musicassetta dove l’aveva trovata, ci
aveva messo sopra altre cassette per nasconderla per bene e si era piazzato
sul divano facendo combattere degli animaletti di plastica con dei robot fino
a quando non era arrivata l’ora di cena.
Ovvio che poi il colpevole era stato scoperto subito: la prima volta in cui
la madre di Mattia era andata a cercare la musicassetta di Aznavour,
qualche settimana dopo (lui nel frattempo aveva già dimenticato tutto), lo
scempio compiuto ai danni del cantante francese non sarebbe stato
imputabile a nessun altro.
Sua madre, come poche volte nella vita, gli aveva dato una bella
sculacciata: incredibile come una mano tanto leggera potesse essere così
tagliente, così precisa.
Un’impresa rischiosa
Ciò che Mattia preferisce in assoluto del suo lavoro è un momento preciso,
poco prima della chiusura. Quando la serranda è già abbassata e il
proprietario – e insieme a lui il berretto d’ordinanza – se ne è andato da un
pezzo.
Accende il televisore più piccolo, e recupera la borsa a tracolla. Poi
sorridendo estrae dalla borsa una delle videocassette che si porta sempre
dietro. La infila nella bocca d’acciaio del videoregistratore: la cassetta
scivola dentro, innescando una sequenza di suoni, molle e meccanismi che
lamentandosi s’avviano.
Si siede, al buio, da solo. E attende.
Ha ormai fatto conoscenza di quasi tutti i barellieri della zona. Con alcuni
di loro ha persino stretto qualcosa di simile all’amicizia, quella fragile
complicità che si può instaurare solo fra gente che non si conosce ma che è
accomunata dalla sofferenza.
Si presentano puntuali a casa di Mattia, e con l’ambulanza scortano la
madre all’ospedale per la visita programmata. Lei li chiama per nome, li
conosce uno per uno – anche se ogni tanto si confonde. Sotto quei
cappellini siete tutti uguali, dice quasi per scusarsi, ma loro rispondono con
un sorriso. Solo Mattia resta serio; legge ogni piccolo appannamento come
una concessione alle tenebre.
Bambino bruciato
(Da quel momento Mattia avrà difficoltà nel mangiare le cervella. Gli
sembrerà un atto violento, qualcosa di simile al cannibalismo.)
Quando poi la ferita si era riassorbita, Mattia per un’estate intera – quella
del 2003: un’estate afosa, con una luce affilata e decisa – ha accompagnato
la madre a fare la radioterapia. Dopo l’intervento, infatti, i medici per
cautelarsi avevano richiesto un ciclo di radiazioni per eliminare tutte le
cellule cancerose che potevano ancora essere presenti.
Madre e figlio partivano insieme per l’ospedale di città (l’ospedale dove
Mattia è nato) caricando in auto una bottiglia d’acqua ghiacciata, perché a
fine terapia lei aveva sempre moltissima sete.
Prima del trattamento, però, i pazienti devono superare una specie di test,
per verificare che il loro organismo sia in grado di reggere il
bombardamento di radiazioni ionizzanti. Lo scoprire di non essere idonei –
alla madre di Mattia non è mai successo – è umiliante: come venire bocciati
a un esame dopo aver tanto studiato.
Al paziente che invece supera il test applicano sul viso una maschera
fatta su misura: infinite lamine di plastica appositamente deformate a caldo
e modellate secondo le fattezze di chi la deve indossare. La maschera –
dotata di buchi in corrispondenza degli occhi e della bocca, non così diversa
da quella indossata dagli schermidori – è necessaria per tenere la testa
perfettamente immobile durante la sessione. Chi si sottopone alla terapia
non deve tossire né starnutire né muoversi in nessun modo; le radiazioni
durano pochi minuti. In sé sono indolori, ma provocano stanchezza e
fastidiosissime eruzioni cutanee.
Quando la madre tornava in sala d’attesa, Mattia riusciva a sentirle
addosso alla pelle, ai vestiti, un odore simile a quello che c’è nell’aria dopo
una giornata di pioggia: azoto, ma più pungente.
Ho sete, diceva lei. Sul volto, la madre-pioggia aveva un’espressione che
il figlio non riusciva a decifrare. Di smarrimento e spossatezza, ma anche di
quieta accettazione.
Si è disposti a tutto, quando ti viene lasciato intendere che il miracolo
potrebbe avvenire.
Magazzino
Mattia e i suoi genitori sono davanti alla televisione. Guardano un film, una
commedia inglese con attori bellocci dalla battuta pronta e i denti
bianchissimi. È un tempo di poco successivo a quelle sessioni di
radioterapia, di là ancora non c’è un letto a manovella, né un compressore.
Figurarsi se c’è una sedia a rotelle.
Una confezione di wafer è poggiata sul tavolinetto, ogni tanto Mattia
prende un biscotto e lo sgranocchia. Suo padre e sua madre sono l’una
accanto all’altro, non hanno bisogno di tenersi la mano per godersi quel
momento di pace domestica.
(La madre di Mattia forse non è mai stata così bella come in quel periodo;
dopo l’intervento al cervelletto tutto sembra stia andando per il meglio, la
normalità sta tornando a riavvolgere senza fretta gli oggetti nelle stanze, e le
stanze nella casa – pulviscolo di felicità.)
Ora, in quel salotto, c’è solo una cosa: lo spasmo del labbro inferiore della
madre, un muscolo che si contrae e poi si rilassa come se tutto il sangue del
corpo si stesse concentrando nel punto da cui è uscita quella frase. Il padre
stringe con forza il telecomando, Mattia nel frattempo si è seduto vicino a
lei, le ha preso una mano e cerca di tranquillizzarla, anche se in realtà è
atterrito.
La madre prova a dire altro – qualcosa tipo «Balcone rana flacone sul
cenere!» –, ma si blocca quando si accorge che mancano collegamenti fra
ciò che pensa e ciò che dice. Nessuno sa esattamente cosa aspettarsi. Il
padre, intanto, le ha preso l’altra mano.
Ricrescite
Mattia si accorge senza sorprendersi che sua madre è diventata una lumaca.
Una chiocciola, per essere più precisi, di quelle col guscio a spirale.
Il corpo che la contiene sembra ogni giorno di più un guscio bellissimo
che tende al vuoto: dentro di lei ci sono tunnel profondi in cui gli organi
interni e il sangue e le ossa si consumano – un incendio segreto sta
divampando in quella carne, un incendio doloso come quello di chi brucia
alberi per ricavare terreno coltivabile.
(La madre, negli anni, è stata svuotata per essere salvata. Forse però, si dice
Mattia, è stato proprio lo svuotamento a permettere al cancro di trovare
altro spazio.)
Non ci sarebbero più state vacanze insieme, per loro: l’agosto precedente
Mattia aveva preferito rimanere a casa da solo anziché andare al mare con i
genitori, forse perché si considerava ormai un adulto; o forse perché avere
la casa tutta per sé e la sua ragazza era un’occasione troppo ghiotta per non
essere colta. Adesso però è ancora presto perché si penta di non esserci
andato.
La donna studiava la propria scintigrafia: la teneva davanti a sé, e Mattia
alle sue spalle osservava ipnotizzato quelle immagini. Sulle lastre c’era tutta
la storia segreta delle ossa di sua madre: le piccole modifiche del bacino
dovute a una caduta dalla bicicletta a sette anni, una lussazione a una spalla
provocata da una partita a tennis a diciotto, interi decenni di posture errate
su una sedia troppo bassa dietro uno sportello troppo alto all’ufficio postale,
e tutta una serie di disattenzioni e cattive abitudini che possono rimodellare
la struttura ossea di una persona.
Mattia ha sempre faticato ad accettare l’idea che la vita sia movimento:
piccoli smottamenti, cambi di gusti, di abitudini. Per lui la vita è sempre
stata un fermo immagine.
(Anni prima, la madre si era sottoposta a una visita ginecologica per via di
un dolore che la insospettiva. Era agosto, la ginecologa che da sempre la
seguiva era in vacanza, quindi si era rivolta a un altro specialista. Il pap-test
era stato eseguito da un medico molto chiacchierone, che alla fine della
visita, considerando che l’esito non sarebbe stato disponibile prima del 15
del mese, le aveva chiesto il numero di cellulare. In questo modo, aveva
spiegato sorridendo, non appena avesse avuto notizie dell’esame gliele
avrebbe comunicate via sms. E infatti così fu: il 14 di agosto di quell’anno
sua madre ricevette un messaggio con su scritto Pap-test nella norma.
L’attendo la prossima settimana per ritirare l’esito. Buon Ferragosto, e poi
il medico si era firmato con nome e cognome.)
Cuscini
Ora guardano la finestra del terzo piano, e Mattia è convinto che se fossero
ancora lì con lei, nella sua stanza, la madre continuerebbe a chiedere di
essere sistemata un pochino qua e un pochino là. Perché il dolore è ormai
diffuso in tutto il corpo, e non trovando più spazio da occupare tra poco
traboccherà, dilagando in ognuno di loro: Mattia e suo padre, la ragazza di
Mattia e tutte le persone vicine sono ormai diventate un’estensione di
quell’organismo canceroso.
Adesso hanno raggiunto l’auto, parcheggiata in mezzo a due blocchi di
neve grigia. Ed è solo nel momento in cui sono seduti una di fianco all’altro
– Mattia al posto di guida, la chiave già inserita nel quadro ma il motore
ancora spento – che lui dice le prime parole da quando è uscito da quella
stanza d’ospedale.
Dice: Mi spiace. E lo dice alla sua ragazza, perché gli spiace davvero che
lei sia stata testimone di quella scena pietosa. Lei lo accarezza, poi lo
abbraccia. Mi spiace, ripete, mi spiace. Ma non piange.
Quella sera faranno l’amore, e sarà come essersi ritrovati. La luce della
camera da letto di Mattia – la lampada orientata contro il muro per creare
penombra – disegnerà sulla schiena della ragazza dei ghirigori. Con un dito
Mattia le accarezzerà le scapole sottili, la pelle tesa.
E, dopo, resterà immobile per un po’ sul letto a una piazza, respirando
quel profumo inconfondibile di fazzoletti appena stirati che il corpo di lei
produce quando è felice.
Oltre la posizione
(Un figlio che muore, per un genitore è come un film che hai visto
dall’inizio e del quale sei certo di sapere tutto. Un genitore che muore, per
un figlio è come un film che hai visto da metà e del quale sei certo di
ignorare molto.)
E quando esce dal lavoro riflettendo sul fatto che anche quel giorno è stato
seduto tutto il tempo su uno sgabello mentre la persona che l’ha generato si
consumava distesa in un letto, sulla solita panchina del parco vede un’altra
coppia che si sta baciando. La ragazza assomiglia a quella della volta scorsa
(e di nuovo ha gli occhi chiusi: Forse è proprio la stessa, si dice Mattia),
mentre il ragazzo è sicuramente diverso.
Be’, poco male, pensa mentre raggiunge la fermata, a questa tizia piace
baciare i suoi fidanzati seduta lì, su quella panchina.
Il bonsai di un amore
Mattia era a casa della sua ragazza. Lei era chiusa in bagno da un po’,
intenta a truccarsi. Lui invece era già pronto – ma non aveva fretta. Mentre
lei finiva di prepararsi (da un momento all’altro si aspettava di vederla
sbucare dalla porta, i capelli sempre ordinatissimi e quell’aspetto da piccolo
elfo che tanto gli piace), Mattia se ne stava seduto sul divano della sala da
pranzo. Da quel punto intravedeva una porzione di piede – un tallone, rosa e
meraviglioso – spuntare appena dalla porta del bagno; si stava provando un
paio di scarpe coi tacchi.
Erano passate da poco le venti, e loro due erano attesi a casa di amici per
il veglione di Capodanno. I genitori di lei, invece, avevano preso parte a
una festa. Ed erano riusciti chissà come a portarsi dietro anche il padre di
lui.
Tutto questo, mentre la madre era ancora in ospedale.
Mattia vide la sua ragazza sfilare seminuda per un solo istante, muoversi
rapida passando da una stanza all’altra, e pensò alla sequenza d’apertura
dell’ultimo film di Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut: Nicole Kidman e Tom
Cruise magnifici, ricchi e apparentemente felici che – sulle note di un
walzer dall’incedere regale, eppure decadente – si preparano a uscire per
andare a un ricevimento. I protagonisti del film ignorano come gli equilibri
del loro rapporto di coppia verranno intaccati, mentre Mattia sapeva che il
suo legame con quel corpo femminile prima o poi avrebbe trovato una fine.
Solo, ancora non poteva dire quando, e in che modo: c’era come
un’interferenza. Il pensiero non riusciva ad allontanarsi da quella stanza
d’ospedale.
Quando la ragazza fu pronta, Mattia si alzò dal divano dove tante volte
avevano fatto l’amore e la baciò. Le luci si spensero in quella casa (l’anno
nuovo sarebbe arrivato in silenzio anche lì, nel buio), poi entrarono in auto.
Gli amici li stavano aspettando; sarebbe stata una cena tranquilla, ma lei e
Mattia li avevano già informati che un po’ prima di mezzanotte si sarebbero
assentati. Loro non avevano obiettato, né fatto domande.
Mattia mise in moto, e guardò la sua ragazza un attimo, mentre cercava
qualcosa nella borsetta. Avrebbe voluto dirle quanto si sentiva bene in quel
momento, ma non poté perché nemmeno lui lo sapeva.
(La ragazza ogni tanto dice a Mattia frasi come: Quando avrò un figlio –
mai «quando avremo», perché ha capito che per lui il futuro si coniuga al
singolare. D’altronde Mattia ha fatto in modo di congelare il loro rapporto a
uno stadio adolescenziale: si frequentano nei fine settimana, il resto del
tempo ognuno lo consuma solo con se stesso. Grazie a una subdola forma di
egoismo biforcuto, ha negato alla madre e alla ragazza l’occasione di essere
legate da un vincolo più forte, condannando la relazione a non crescere
mai.)
Sfumature
La madre sta meglio, hanno detto i medici a Mattia, ancora qualche esame e
la dimetteranno. Qualunque cosa voglia dire «stare meglio».
Il nipote riaccompagna la nonna a casa: fra cimitero e ospedale la
mattinata è stata lunga. Mentre lei si accomoda sul divano, lui si mette a
cercare un preciso contenitore di plastica che però non trova. Allora svita il
tappo di un flacone di ammorbidente e lo riempie di alcol etilico. Poi
costringe la vecchia a buttarci dentro la fede appartenuta alla bisnonna, e a
lavarsi con cura le mani.
Il contenitore deve rimanere sul davanzale della finestra almeno per una
notte: Mattia raccomanda alla badante di farci attenzione.
Colata
(E pensare che finora eri stata così brava, pensa Mattia. Eri andata così
bene.)
Il figlio comprende all’istante che, ora che l’ha visualizzata – una cascata di
cellule cancerogene che un po’ alla volta digerisce sua madre dall’interno –,
quell’immagine sarà sua per sempre.
Leggendo, informandosi, domandando a persone che hanno avuto casi di
cancro in famiglia, Mattia ha scoperto che ci sono diversi modi per
descrivere la diffusione delle metastasi, secondo la fantasia dei medici e dei
pazienti. C’è chi parla di macchie bianche che si allargano e tendono a
unirsi nel tempo come olio versato sull’acqua, chi di pallini sparsi come
dallo schioppo di un cacciatore, chi di frammenti appartenuti a una granata.
C’è chi scomoda la pelle del leopardo, chi s’immagina il cancro del marito
come il nodo di una grossa corda, altri invece parlano di una palla da tennis.
Chi racconta di essere stato operato perché aveva in corpo un cancro grande
quanto una susina – Ma una susina di quelle bianche e piccole o una di
quelle viola e grosse? –, oppure di aver perso la propria compagna perché
aveva metastasi disseminate lungo il corpo come tanti fiocchi di corn-
flakes. Le metafore alimentari abbondano. Del resto Mattia si ricorda che la
nonna materna un tempo raccontava sempre che la figlia maggiore, sua zia,
aveva «un grappolo» dentro l’intestino. Mattia bambino s’immaginava che
nel corpo della zia – del quale non aveva memoria: per lui era una signora
ritratta in qualche vecchia foto – ci fosse un grappolo d’uva nera dai chicchi
enormi, perfettamente intatto quasi la zia, ingorda, lo avesse ingoiato tutto
intero.
Per scacciare via le associazioni d’idee che gli si formulano in maniera
confusa in testa, Mattia sputa fuori la domanda. Che poi è il motivo
principale della visita: Quanto tempo resta?
La dottoressa da dietro le lenti lo fissa con coraggio, gli occhi nerissimi ora
sembrano brillare. Appoggia la lingua sul lato sinistro della guancia
facendola appena gonfiare, poi dice: Dieci-dodici... (e abbassa gli occhi.
Mattia prende un lunghissimo respiro e già pensa che dodici, ma anche solo
dieci anni in fondo non sono così pochi), e poi completa la frase: ...mesi.
Accompagnamenti
Avvolgere, proteggere
Le otto del mattino. In attesa che la madre si svegli, Mattia sta facendo
colazione. Ha dormito accanto a lei, e fra poco uscirà per andare al lavoro.
La donna apre gli occhi quando sente il rumore di un’auto che parcheggia
sulla ghiaia del cortile. Chi è?, domanda rimanendo immobile.
L’infermiera, risponde Mattia senza aver bisogno di controllare.
Silenzio.
Allora la osserva, e si accorge che sta soppesando quell’informazione nel
tentativo di stabilire se è una notizia buona, cattiva o neutra. Il cervello
metastatizzato della madre sembra fare ogni giorno più fatica a sintonizzarsi
sul presente.
Lui è ancora in pigiama, apre la porta del basso fabbricato per accogliere
l’infermiera che si occupa delle cure palliative.
(Il termine palliativo deriva dal sostantivo latino pallium, cioè mantello,
cappa. L’aggettivo, nella terminologia medica, vuole suggerire il senso di
qualcosa che avvolge, copre, protegge. Ma ciò che avvolge può anche
soffocare.)
È una ragazza della stessa età di Mattia; si prende cura di sua madre e di
chissà quanti altri malati terminali ogni giorno. Arriva sorridente, saluta, dà
un’occhiata alle condizioni generali, scambia due chiacchiere con la
paziente come se stesse facendo visita a un’amica, osserva le medicine sul
tavolo, annota qualcosa su un faldone violetto, e poi riparte verso un’altra
casa, un’altra storia. Ha una lunga treccia scura che le carezza le spalle a
ogni passo, seguendola come un cucciolo fedele.
(Spiando gli appunti su quel faldone, un giorno non lontano il figlio leggerà
l’andamento del declino: da un felice la paziente è lucida e collaborativa, a
un tragico la paziente è disorientata, estremamente apatica e risvegliabile
con difficoltà.)
Le vite altrui
C’è stata la volta in cui Mattia e la madre sono scappati. È stata un’idea che
il figlio ha avuto un pomeriggio: architettare una fuga. Loro due soli.
Sua madre sonnecchiava seduta sul letto, i cuscini tutt’intorno e la
televisione accesa in sottofondo. Il figlio ha proposto alla madre la sua idea,
e lei ha detto: Perché no?
Allora lui l’ha aiutata ad alzarsi dal letto – dunque gli esercizi suggeriti
dal fisioterapista funzionano davvero, hanno pensato insieme madre e figlio
– e l’ha fatta sedere con cura sulla carrozzina. Ha aperto la porta del basso
fabbricato, e collocato la pedana di legno di fronte all’ingresso, fuori, sulla
ghiaia del cortile.
(Quando ancora la cava d’amianto del paese era in attività, quando ancora
l’asbestosi era un nemico sconosciuto, proprio da quella miniera si
estraevano le pietre per riempire i cortili in terra battuta delle case private.
Anche la famiglia di Mattia ha subito la stessa sorte: la ghiaia che da
quarant’anni circonda casa loro – la ghiaia sulla quale ha giocato Mattia da
bambino, la stessa che già c’era quando sua madre, che ancora non era sua
madre, si è sposata – arrivava da quel posto maledetto. E all’epoca in cui
ogni nucleo famigliare del paese aveva almeno una persona che lavorava in
quella cava a cielo aperto – una persona che rientrando stanca a casa la sera
buttava in un angolo i vestiti impregnati e si sedeva a tavola per la cena –
gesti semplici come quello hanno contribuito a sparpagliare tutt’intorno
fibre d’amianto che di certo si sono depositate nell’acqua che hanno bevuto,
nella terra i cui prodotti hanno mangiato sia loro sia le bestie che macellate
sono state a loro volta mangiate, nell’aria che hanno respirato ogni giorno.
Una Černobyl’ portatile, silenziosa e molto meno celebre.)
Una volta dentro, la madre ha perlustrato con gli occhi lo spazio, sfiorando
con le mani tutto ciò che riusciva ad afferrare – la tenda di gomma della
cucina, un cuscino su una sedia, il portafrutta al centro del tavolo. Ha fatto
subito notare a Mattia le differenze rispetto a quello che ricordava,
differenze che lui altrimenti non avrebbe potuto apprezzare: il divano
leggermente spostato in avanti, l’assenza dei centrini sotto i vasi, quanto
l’edera che lei amava tanto – un’edera ricevuta in dono il giorno delle
nozze: un’altra forma di vita che le sarebbe sopravvissuta – fosse cresciuta
rigogliosa.
Ha voluto vedere anche la dispensa: Apri lì, gli ha chiesto esplicitamente,
e poi ha osservato per un po’ gli scaffali pieni di cibo. Sembrava cercasse
fra i prodotti qualcosa, un indizio, quasi da qualche parte fosse nascosta –
magari in una confezione di cereali, come la pistola all’inizio di Kill Bill –
Volume 1 di Quentin Tarantino – la chiave della sua malattia.
Poi sono andati in salotto, le ruote sulla moquette rossa hanno frenato la
foga con cui il figlio spingeva la carrozzina. Mattia sembrava un agente
immobiliare, impegnato a convincere un potenziale acquirente dei pregi di
uno stabile.
Tutto è andato bene, fino a quando girando per le stanze madre e figlio
sono arrivati davanti alle scale. La madre-carrozzina ha alzato lo sguardo
verso le rampe. Due piani più su c’era la sua camera da letto. Nessuno dei
due ha detto nulla, il giro è finito lì.
Super-occasioni
(C’è una foto di Mattia bambino in mezzo alla neve, ritratto nel prato dietro
la casa dei suoi nonni. È vestito con un buffo piumino bianco, tiene in mano
un laccio rosso come fosse il guinzaglio di un cane: all’altro capo c’è uno
slittino. D’inverno insieme alla madre si lanciava giù dal prato per quella
breve discesa, e poi quando si stufava dello slittino rotolavano insieme nella
neve, un corpo contro l’altro. Lei lo stringeva a sé, lo abbracciava. Negli
ultimi vent’anni, Mattia non è mai uscito da quell’abbraccio.)
(Nel 1997, i dvd vennero immessi sul mercato. Pochi mesi prima, nel corpo
della madre si erano manifestati i primi sintomi della malattia.)
(Il 28 dicembre 2008, Mattia all’epoca non può ancora saperlo, l’ultima
azienda distributrice di vhs ancora attiva sul pianeta cesserà la produzione.)
Ha appurato ciò che più di ogni altra cosa tormenta il suo capo: non si
occupano di noleggio.
Proprio vicino all’ingresso, però, c’è un cassone di metallo pieno zeppo
di cd e dvd scontatissimi. Film, e anche album musicali, che nessuno vuole
più: buttati lì alla rinfusa, a disposizione di chi voglia mettersi alla ricerca di
tesori. Sulle custodie le etichette strappate, e altre incollate sopra quelle
strappate, stanno a raccontare la stratificazione temporale di ogni prodotto.
Mattia affonda per curiosità la mano fra le custodie di plastica, rovista un
po’, finché trova quello che fa per lui.
Maledizioni
Ovviamente una delle prime cose che fece Mattia, quando la dottoressa con
gli occhiali tondi gli spiegò che per sua madre non c’era scampo, fu quella
di attaccarsi a Google alla ricerca di un altro parere. Sapeva di commettere
una sciocchezza, anche la sua ragazza gli aveva sconsigliato di farlo, ma lui
era cocciuto. Voleva approfondire, cercare il miracolo almeno nella rete,
dato che nella vita vera non sembrava possibile.
Lo faceva tutte le notti in cui dormiva in camera sua, e c’era suo padre a
vegliarla di là; avevano fatto installare un semplice sistema di allarme per
ogni evenienza: era sufficiente premere il tasto di un telecomando perché
una sirena svegliasse Mattia, o suo padre – chi fra loro due quella notte
dormiva in casa –, che rapidi accorrevano. Di solito si trattava di una banale
diarrea, o di un fastidioso principio di fecaloma da sbloccare con un
clistere, ma per cambiarle il pannolone era utile in effetti essere in due.
Bisognava vestirsi, sfidare il freddo della notte, e certe volte, dopo,
riaddormentarsi era difficile: allora se ne stava con gli occhi fissi allo
schermo del pc. Inseriva nel motore di ricerca termini, espressioni, intere
frasi pescate dai referti degli ultimi esami medici, e un po’ alla volta si
addentrava in ricostruzioni di casi clinici che spesso terminavano con la
terribile formula «la prognosi è infausta». C’era tutta una comunità di
persone che si affidavano unicamente ai consigli degli specialisti online –
medici, guaritori o studiosi di terapie alternative –, forum di discussioni fra
malati terminali in cui ciascuno ricapitolava il proprio percorso clinico e
attendeva di confrontarsi con altri disperati. I più coraggiosi ironizzavano
sul tempo di risposta da parte degli specialisti, che per forza di cose si
auguravano non fosse troppo lungo.
Più Mattia cercava notizie in rete, più si deprimeva. Certe volte gli
capitava di infilarsi nel letto – vestito, gli occhi dolenti per via dello
schermo e la bocca asciutta di chi ha camminato nel deserto – quando fuori
cominciava ad albeggiare.
(Ogni volta che Mattia berrà un sorso d’acqua fresca in una giornata afosa,
e sentirà il liquido carezzargli le pareti della gola, capirà che quella è la vita:
l’acqua che scende nei recessi bui del suo corpo per permettere alle cellule
di rigenerarsi. Al contrario dell’alcol, che gratta giù in fondo con le sue
unghie ricurve, e spazza via ogni cosa.)
Indirizzi
Da quando il bar della stazione è chiuso per ferie il suo capo sembra a lutto,
a volte in negozio non lo si vede per tutta la giornata. Mattia si è accorto di
come i clienti arrivino a ondate: certi giorni, come oggi, nessuno mette
piede in videoteca.
Ha estratto da sotto il bancone un modulo prestampato: lo usano per
registrare i nuovi clienti, ed emettere una tessera plastificata indispensabile
per usufruire del servizio di noleggio. Mattia lo osserva come se non lo
conoscesse a memoria, poi prende a compilarlo con cura.
NOME – COGNOME – INDIRIZZO... Quest’ultimo dato non lo sa. Apre il
motore di ricerca sul computer, e si mette a scorrere un po’ di pagine web.
Si spazientisce perché non trova l’indirizzo che gli serve – un indirizzo
fisico –, quando all’improvviso ne spunta fuori un altro che forse gli è
ancora più utile.
Si mette a scrivere di getto una mail, picchiando sui tasti con particolare
gusto:
Mattia elimina ancora una volta la frase, fa un lungo respiro. Digita una
serie di XXX, ci penserà dopo. In attesa di trovare l’obiezione giusta da
muovere alla Kübler Ross, scrive la conclusione della sua mail:
(Quella sera stessa porterà uno di quei moduli a casa, lo compilerà con i dati
personali della madre e con una scusa qualunque glielo farà firmare: la
grafia di lei, ridotta ai minimi termini come ogni altra cosa, gli darà una
stretta al cuore. Il giorno dopo immetterà la data di nascita e le generalità di
sua madre nella memoria del computer, e ne ricaverà una tessera a lei
intestata.)
Farse
Manuale d’istruzioni
Palloncini
(Come avrebbe potuto spiegarle, Mattia, l’idea folle e magnifica che aveva
avuto? Da giorni stava tentando di capire in quanto tempo i palloncini, una
volta gonfiati, si afflosciano. E se c’è un modo perché ciò non accada.
Osservando la madre respirare, gli era venuto in mente di riempire dei
palloncini con il suo fiato, per poi tenerli da qualche parte come provviste
per l’inverno. Quando la mancanza sarebbe stata insostenibile, Mattia
avrebbe potuto prendere uno di quei palloncini preziosi, avvicinarlo alla
bocca e aspirare quel fiato. Inalare sua madre.)
(Il cinema gli ha insegnato che tutto il mondo può stare in un’inquadratura.
Ciò che è fuori da quel recinto magico non esiste, così come per Mattia non
ha importanza ciò che è fuori da quella stanza. E allora forse quelle
rassicuranti quattro pareti che accolgono sua madre possono immortalarla.)
Lancette
La domenica, se non piove, il pranzo lo si fa tutti insieme in cucina, di qua,
non di là. È dal giorno in cui Mattia ha organizzato la piccola fuga in casa –
utilizzando la pedana come ponte levatoio – che è iniziato quel rito.
Come ogni domenica la badante fa vacanza, e la nonna è a pranzo a casa
di Mattia.
Il tavolo della cucina è sufficientemente alto perché i braccioli della
carrozzina non siano d’ostacolo e la madre possa (un cuscino antidecubito
sulla seduta e un bavaglino al collo) pranzare allo stesso posto che
occupava abitualmente quand’era sana. Se Mattia chiudesse gli occhi,
potrebbe illudersi che tutto sia normale.
Mattia sta tornando da casa della sua ragazza, dove ha passato la prima sera
dell’anno. Mai avrebbe pensato di ritrovarsi a rimpiangere il Capodanno
precedente, trascorso in un ospedale, ma anziché dirlo alla sua ragazza,
anziché sfogarsi con lei – che forse custodisce le parole per consolarlo – si è
limitato a piluccare svogliatamente una fetta di panettone.
Ora guida, concentrandosi sulla linea continua tracciata sull’asfalto.
Cerca di stare sveglio, incantato nell’osservare le zone d’ombra sulla strada,
che – man mano che i fari dell’auto si avvicinano – svaniscono al suo
passaggio. Vista da lì la provincia è un mare oscuro pronto a inghiottire tutti
loro, e Mattia si sente quasi a suo agio, all’idea di gettarsi in quei flutti.
È costretto a fermarsi al lato della carreggiata: la strada davanti a lui,
assecondando il suo desiderio di abbandono, è letteralmente scomparsa.
Chiude e riapre gli occhi, il bocchettone del riscaldamento gli spara aria
calda in faccia mentre il motore continua a ruggire. Non si è trattato di un
colpo di sonno, ne è certo: dopo tanto tempo in cui il problema non si era
più ripresentato, ha avuto di nuovo un buco nella visione.
Mentre attende che quel fenomeno se ne vada così come si è presentato,
Mattia pensa al fatto che se tutto ciò che lo circonda sparisse all’improvviso
– proprio come è successo con la strada – lui sarebbe felice. A patto che,
prima di scomparire, ogni cosa si decomponesse. Brama il giorno in cui
sopra il suo paese esploderanno le stelle, in cui creperà il terreno su cui
sorgono le case dei suoi vicini: gli strati di asfalto spezzandosi riveleranno
allora i tubi e i fili che corrono sotto come serpenti, mentre tutt’intorno i
palazzi collasseranno e i loro abitanti, che nulla sanno di quella madre e di
quel figlio, verranno sepolti dalle macerie.
Amicizia virile
Basta così, dice il marito posando il cucchiaio sul ripiano del carrellino.
Non se ne parla, risponde il figlio raccogliendolo.
La bocca della donna però è chiusa, sigillata.
Ma non vedi che ha sonno?, ribatte il padre cercando di allontanare la
mano insistente di Mattia.
Uno spintona l’altro, e il contenuto del cucchiaio si sparge: sulle
lenzuola, sulla coperta, sulla mano destra della madre. Lei scoppia a
piangere, non si sa se per il liquido bollente o per cosa.
Sei contento, adesso?, ringhia Mattia, cercando di rimediare al danno con
dei tovagliolini di carta.
Al che il padre si china, sparendo dietro il letto dove c’è quel corpo
catatonico con un tovagliolino al collo, e riemerge stringendo in mano una
ciabatta, che lancia contro il figlio.
Mattia è talmente sorpreso da quel gesto che rimane immobile: si prende
in piena fronte la ciabatta, che ricade sul carrellino urtando il piatto, in
un’ulteriore esplosione di minestrone tutt’intorno.
Prima di rendersi conto che la madre nel frattempo si è riaddormentata,
indifferente, padre e figlio si umilieranno ancora per qualche interminabile
secondo.
Quella sera nessuno di loro mangerà, e quel minestrone così
perfettamente vellutato verrà surgelato, pronto a essere disseppellito dai
ghiacci nei mesi a venire.
(L’Annona muricata è una pianta originaria delle Antille, che vive solo in
zone tropicali. Già nel 1976 è stato studiato come gli estratti ricavati dai
suoi semi – mai usati per fini farmaceutici – abbiano lo stesso principio
attivo dei farmaci chemioterapici, con la differenza che non intaccano le
cellule sane.)
Torna a casa con due sacchetti di carta traboccanti di pere. Erano in offerta,
si giustifica prima di qualsiasi obiezione. La sua ragazza ne lava e sbuccia
una, e dopo averla tagliata – In quattro fette mi raccomando, intima Mattia
– la poggia su un piatto: gli spicchi, disposti a raggiera, formano una X. Lui
intanto ha ruotato in fretta la manovella che alza lo schienale del letto e ha
messo un bavaglino sul petto della madre.
La donna assaggia un pezzetto di quella pera – la punta di un angolo di
uno spicchio – tenendolo in bocca per un tempo che pare interminabile.
Mattia immagina quel frammento di frutto zuccherino muoversi
lentamente dentro la bocca di sua madre, rimbalzare da un interno guancia
all’altro, sfarinarsi sul palato, sotto la lingua, fra i denti.
Che buona, dice lei. Poi si addormenta di nuovo.
Il resto della pera rimane sul piatto, poggiato accanto al lavandino, a
scurirsi nel caldo della stanza.
Mattia e la sua ragazza sono in auto. Stanno tornando a casa dopo essere
stati in città. Hanno mangiato una pizza, visto un film (lui non si è messo a
fare la solita lezioncina che imbastisce dopo ogni film che vedono insieme),
passeggiato sotto i portici del centro.
Lui ha parlato poco per tutta la sera, lei ha cercato di distrarlo in qualsiasi
modo. Adesso però tacciono entrambi da un po’. In tangenziale non c’è
nessuno a parte loro.
Sei poi riuscita a incontrare il relatore della tesi?, dice Mattia
all’improvviso.
Come?, la ragazza quasi balbetta. Non si aspettava la domanda. È vero
che le manca un solo esame, ma sa che Mattia non tocca mai
quell’argomento.
La tesi, insiste lui.
Dà una risposta vaga, e Mattia se la fa andare bene. Lei non riesce a
trovare null’altro da aggiungere, ma poco dopo è di nuovo lui a parlare: Sai,
dice, e si zittisce.
Lei si è voltata verso di lui, nel buio, e attende che il suo ragazzo
prosegua.
Ho pensato una cosa, accenna Mattia.
Cosa?
Il silenzio si allarga nell’abitacolo rischiando di prendersi tutto lo spazio
disponibile, come un gas. È lui a spezzarlo: La scuola di cinema, dice.
Sì..., fa lei senza capire.
Forse dovrei provare quel famoso test.
A lei scappa una risatina isterica: Adesso?, domanda.
Be’, sì, dopo che... Adesso, dice Mattia.
E noi?, chiede lei.
Noi cosa?
È incredula: è ottuso o ci fa?
Sì, è vero, concede Mattia, dovrei trasferirmi a ottocento chilometri da
qui. Ma... tu potresti venire con me, azzarda.
Come no.
Il giorno dopo chiede al suo capo di poter restare a casa dal lavoro, senza
dare spiegazioni e senza sapere il perché. L’altro non oppone resistenza.
Fatti vedere quando vuoi, gli accorda persino.
Dopo un po’ che gironzola per casa, decide di andare dalla nonna.
La temperatura è scesa ancora, e così la neve di gennaio si è trasformata
in ghiaccio. Le strade sono pericolose, ma lui guida piano: la nonna accanto
a lui – gli ha chiesto se poteva accompagnarla a casa di un’amica –
commenta il freddo di quell’inverno. Si ritrovano insieme una volta a
settimana, questi vecchi. Prima di uscire di casa la nonna ha frugato nella
sua borsetta dei trucchi e si è ripassata le labbra con un po’ di rossetto. Il
nipote è sbalordito dalla forza di volontà di quella donna, che con una
leggerezza invidiabile somma ogni giorno a una lista infinita di altri giorni.
È capace di domandarsi ancora cosa mangerà la domenica successiva. E di
decidere che l’anno prossimo nell’orto vorrebbe piantare anche le patate.
(Il libretto di circolazione dell’auto che guida Mattia è intestato alla madre.
Di lì a qualche mese, quando lei non ci sarà più, il postino recapiterà la
prima di alcune multe. Il verbale della polizia racconterà – in quella lingua
innaturale propria delle comunicazioni ufficiali – come la madre, chiamata
per nome e cognome, sia transitata con il veicolo targato in una zona
riservata solo ai residenti alle ore del giorno eccetera. Una data che striderà
terribilmente con quel nome raro e insolito – che ha assonanza, il figlio lo
scoprì al liceo, con la parola greca che significa «dolore» –, ma che getterà
un altro ponte fra il mondo dei vivi e quello dei morti.)
Ora che è tornato a casa, e ha nuovamente constatato che non può fare nulla
per sua madre – la donna continua a dormire di là, il rombo caldo dei
termosifoni in sottofondo come una colonna sonora costante –, si rende
conto che non sa come impiegare quelle ore in cui di solito sta seduto su
uno sgabello.
Se ne sta davanti alla tv, una bottiglia di coca sgasata sul tavolinetto
accanto a lui. Ci ha aggiunto un po’ di rum, giusto per insaporire la
bevanda. Si è sintonizzato su un canale che trasmette un documentario sugli
animali della savana: parlano di leonesse, di gazzelle, di gnu.
Pensa che sarebbe molto facile eccedere con la morfina. Ha letto su un
sito che incrementando in maniera significativa la dose somministrata
quotidianamente si possono ottenere effetti letali. Direbbe di essersi
sbagliato nel dosaggio, e tutti gli crederebbero senza fatica.
Ostacoli
Da tre giorni non parla più. Quell’unico occhio dal quale fino a qualche
tempo prima osservava il mondo si muove invano, forse alla ricerca di una
luce, di un volto. Mattia è lì accanto ma sa che la madre-occhio non lo sta
vedendo, sa che ciò a cui sta assistendo (lo sguardo cieco di lei, perso nel
vuoto) è privo di volontà e di intenzione, è un fenomeno meccanico: è solo
una palpebra che si è aperta e un bulbo che ruota. Anche se la madre è
ormai ridotta a un corpo da accudire, il figlio sarebbe disposto a rinunciare
a tutto pur di averla accanto per sempre così. Anche se lei sta soffrendo e lui
lo sa, vuole – pretende – che quel poco di vita che è rimasto in lei si possa
egoisticamente perpetuare.
Mattia si vede già con la sua ragazza il giorno delle nozze – la madre in
carrozzina, le flebo e tutti i macchinari che occorrono per permetterle di
vegetare – giurarsi amore per la vita. Rimboccando le coperte per la notte ai
suoi figli, racconterebbe la favola di una principessa addormentata, che
mentre attendeva la loro venuta al mondo – Non sapete quanto vi ha
sognato prima che arrivaste – è rimasta adagiata in un letto pieno di cuscini
morbidissimi. E poi li porterebbe a far visita alla nonna: così i nipoti che
tanto lei aveva desiderato la osserverebbero dormire immersa in quel sonno
eterno.
Si ritrova a fissare ciò che resta della donna che lo ha generato e si dice:
ogni respiro suo che mi perdo, non accadrà mai più.
Mattia è diventato una videocamera di carne e sangue che registra
incessantemente la madre. Quando però prova a immaginarla prima della
malattia, incontra una specie di ostacolo mentale che frena il ricordo. È
incapace di visualizzare il volto di lei se non sovrapponendolo con quello
che conosce ora: gonfiato dal cortisone, deturpato dalla chemioterapia, il
cranio calvo e rinsecchito, l’azzurro svanito dagli occhi. Ogni ricordo è un
corpo in cui l’ovale del viso è assente: un buco, come in una fotografia di
cui qualcuno ha ritagliato il volto del soggetto.
Insieme al padre, sulla spiaggia, Mattia bambino osservava la madre che
nuotava sul dorso, dando le spalle al sole che tramontava.
Salutala, gli diceva il padre.
E Mattia, vedendola diventare un punto sempre più lontano immersa in
quella sterminata distesa d’acqua, scoppiava a piangere: non capiva se era
lei a sparire alla vista di lui, o viceversa.
Mentre Mattia ripensa a se stesso bambino su quella spiaggia, vede un
ovale che si sposta nell’acqua, come una macchia bianca nel mare. Ecco
dunque il fenomeno che il suo oculista non è riuscito a spiegare, ecco forse
cosa sono quei buchi nella visione che tanto gli tormentano la vista: il volto
sano della madre. Il volto che vuole emergere a tutti i costi e che la sua
memoria rigetta come un organo sconosciuto.
Nebbia
Ha l’impressione che ci sia troppa gente, intorno al letto in cui sua madre
sta trascorrendo le ultime ore. Eppure, non saprebbe esattamente dire chi:
l’avvicendarsi di parenti, amici e conoscenti ficcanaso è difficile da
ricostruire, ha la consistenza di una nebbia indistinta.
Mattia se ne sta seduto di lato, stringendole la mano, carezzandole il viso,
perfetto nel ruolo di figlio addolorato.
Mattia fissa il soffitto, ascolta il vento che fischia fuori. Conosce quel
suono, ha imparato a decifrarne il rumore tra le foglie: è il ventre vuoto
della terra che cerca la madre. Di notte le viscere del mondo si spalancano,
rivelando una porzione di terreno grande esattamente quanto il corpo di lei.
Ma finché madre e figlio riescono a stare barricati lì dentro sono al
sicuro, finché quella notte persiste lasciando tutte le cose addormentate –
finché la tessera della videoteca, il libretto dell’automobile e tante altre cose
possiedono il suo nome –, la morte non potrà arrivare a reclamarli.
(C’è chi ipotizza che il cancro possa essere originato da una cellula rimasta
in qualche modo «giovane» in un organismo adulto. Come se la giovinezza
tentasse di aggredire dall’interno la vecchiaia. A Mattia piacerebbe poter
entrare in quella cellula della madre, e abitarci dentro, portare lì tutta quanta
la sua memoria, depositarla in scatoloni pronti per essere aperti quando si
cerca qualcosa da qualche parte nel tempo.)
Ogni giorno, col pensiero, Mattia inventa per sua madre nuove vite: lui che
da lei è nato, lui che da lei è stato inventato, la fa costantemente rinascere
perché possa continuare a esistere, almeno nell’invenzione. Perché sa bene
che quando anche il padre non ci sarà più, e quando Mattia stesso non ci
sarà più, nessuno potrà ricordare ciò che lei è stata.
Emme
Le legge un libro. Non è importante quale sia la storia, o chi l’abbia scritta.
Le uniche cose importanti sono le parole dirette alle orecchie di lei, che
dorme un sonno dal quale non si risveglierà.
Il figlio immagina le frasi da lui pronunciate riempirle il corpo. Toccarsi
fra di loro, urtarsi – le lettere che s’agganciano, che formano organi di
sintassi, intestini grammaticali. Le parole si infrangono e ricombinano come
solo le onde. Mescolandosi, danno origine a termini nuovi. Una seconda
circolazione sanguigna che percorre il corpo della madre e lo rigenera.
La prima emissione vocale dotata di senso, nel corso della vita umana,
spesso è quella che serve a chiamare la madre. I neonati con un verso
creano il loro mondo: utilizzano la parola chiave – depongono la prima
pietra – che permette fin da subito di edificare le fondamenta dei giorni che
verranno.
La lettera emme, dunque, è quella che di solito s’impara a pronunciare
per prima. È quella con cui inizia anche il nome di Mattia, oltre a essere la
stessa con cui inizia la parola madre, e ciò lo rassicura. Da sempre lui
preferisce visualizzarla per esteso, emme: un suono dolce e lungo, una
fisarmonica di quattro lettere chiusa fra elle ed enne, in quello che sembra il
ventre malleabile dell’alfabeto. A volersela figurare, con quelle due m,
risulta sorretta da tante gambette allineate una dopo l’altra come un esercito
in marcia.
Il fatto che quella lettera sia il principio di due vocaboli così importanti
garantisce, nella testa del figlio, una forma di speranza difficile da spiegare.
Ma emme – e Mattia non ci aveva mai pensato prima, davvero buffo notarlo
ora – è anche la prima lettera dell’ultima fra le cose. E all’improvviso, quel
tempo immobile sembra finalmente acquistare un significato. Perché
disponendo le tre parole in ordine alfabetico – mettendo le cose in fila si
annulla il caos – si sente protetto, perfettamente a suo agio in mezzo a
madre e morte.
Non si è mai pensato minuscolo, Mattia, la sua emme ha sempre svettato
su qualunque altra, ma accorgersi che le due emme che lo accerchiano sono
le iniziali di parole così centrali, e ripetersi che emme (come molte lettere,
se scritte per esteso) è anche un palindromo, gli infonde ancora più
sicurezza: comunque la si veda, gli estremi si toccano in ogni momento.
Madre e morte saranno per sempre in contatto, e chi le tiene insieme è
proprio lui – le braccia ben tese e i pugni serrati per stringerle entrambe a
sé.
2. MENTRE
(ALCUNE NOTTI DI GENNAIO)
Gesti
(L’espressione «in quei giorni», di solito, si usa per indicare due situazioni
precise, codificate: le sacre scritture, In quei giorni Gesù se ne andò sul
monte, e le mestruazioni negli spot, In quei giorni voglio sentirmi libera di.
Per raccontare il sangue di un uomo unico e quello di tutte le donne.)
Temporale
(Per quasi tre giorni – tanto sarebbe durata l’agonia – l’avrebbe avuta
ancora accanto a sé. Terminato quel tempo non ci sarebbero state altre
deroghe.)
Il mattino del 20 gennaio le apnee si fecero via via più lunghe e ravvicinate.
Il respiro – già compromesso dai polmoni pieni di liquido – si arrestava
all’improvviso, e il tempo che lei impiegava per tornare a buttare fuori
l’aria era ogni volta maggiore. Mattia contava i secondi in cui il respiro si
assentava come chi calcoli l’intervallo che si frappone tra il lampo e il
tuono, e ogni volta, quando sembrava che non potesse più esserci niente da
fare, il respiro tornava.
Sua madre era un temporale in progressivo allontanamento, e nessuno
poteva opporsi.
La sera del 20 la dottoressa dalla lunga treccia fece quella che sarebbe
diventata l’ultima visita. Con due dita sul polso ascoltò il battito (era molto
debole), provò la febbre (la temperatura stava salendo: diede loro qualche
consiglio per alleviare quel fastidio), regolò la flebo, finse di non dare peso
al rantolo che cresceva – al respiro che mutava forma –, e infine la
accarezzò.
Prima di uscire con la sua treccia al seguito lanciò un ultimo sguardo alla
donna e, indicando la sacca di plastica all’altra estremità del catetere
vescicale – ciondolava ai piedi del letto, mezza vuota –, disse: Quella potete
girarla. Non dovrebbe più farne altra.
Una frase che colpì molto il figlio: la pietà contenuta in
quell’osservazione gli parve un regalo inaspettato.
Vuoi un caffè?, domandò il padre alla ragazza di Mattia nel corso di quella
notte.
Lei ci pensò un istante: Sì, grazie, disse, cercando di rendersi utile in ogni
modo – anche semplicemente dicendo di sì.
L’uomo abbandonò la stanza, uscì chiudendo piano la porta, ma il rumore
fu sufficiente a spezzare il sonno fragilissimo di Mattia che si era assopito
sul divano.
Si rialzò con uno scatto scomposto, lasciandosi sfuggire un suono
strozzato: gli occhi corsero subito alla madre distesa sul letto, e con sollievo
Mattia constatò che il petto, anche se con crescente difficoltà, si alzava e si
abbassava. Allora si tranquillizzò, e la sua ragazza – quel piccolo elfo dai
capelli ordinatissimi – gli sorrise. Erano ancora una coppia felice.
Improvvisamente il respiro della donna cambiò ancora. Un suono roco
proveniva dalle profondità di quel corpo, un gorgoglio assoluto.
Gli occhi di Mattia incontrarono quelli della ragazza: Vallo a chiamare, le
disse.
Lei corse, cercando di fare il più in fretta possibile.
(Rimase solo per l’ultima volta con la madre viva: non gli venne in mente
neppure un pensiero.)
Specchi
Ed è allora che Mattia – la mano destra stringe la sinistra della madre, come
per trattenerla – dice al padre: Prendi lo specchio!
L’uomo corre in bagno, fruga nei cassetti, una spazzola cade sulle
piastrelle. Finalmente lo trova, torna indietro e rapido lo porge al figlio, che
con la mano libera lo appoggia – delicatamente – sotto il naso della madre,
proprio davanti alla bocca aperta. Ma il miracolo non avviene, la superficie
non si appanna.
Alcuni mesi prima, una volta in cui avevano fatto l’amore a casa di lei,
Mattia dopo l’orgasmo era rimasto dentro per qualche secondo – il
preservativo come un riparo sicuro tra i due corpi.
Poi si era sfilato; con stupore, si era accorto che il serbatoio del
preservativo sembrava vuoto. Lo aveva alzato verso la luce notando come
lo sperma – uscito da lui come un singhiozzo – proprio non si vedesse.
Allora senza dire niente si era precipitato in bagno, nudo, aveva aperto il
getto del rubinetto e (replicando un rituale che da bambino, d’estate, chissà
quante volte aveva fatto coi gavettoni) aveva riempito il preservativo
d’acqua. Il lattice si era deformato, e il contraccettivo si era allungato fino a
toccare la ceramica del lavandino. Poi con cautela Mattia l’aveva sollevato
gonfio e pesante davanti agli occhi: nessuna perdita. La sua ragazza si era
infilata le mutandine e l’aveva seguito fin lì, senza capire. Stava osservando
Mattia, preoccupata: lui continuava a interrogare con gli occhi il
preservativo come se da quel pezzo di lattice dovesse trarre un vaticinio.
Il fatto trovò una spiegazione che rassicurò entrambi nel momento in cui,
cercando in rete, lessero di fenomeni simili causati dalla poca consistenza
dello sperma in alcuni giorni. E poi venne dimenticato quando, con
regolarità, lei ebbe le mestruazioni.
Il pianto
Cosa faranno
Gli occhi
Una macchina si è fermata in cortile, Mattia dalla finestra vede quello che
dev’essere il medico di guardia: sta parlando con suo padre, e dal modo che
hanno i loro corpi di tendere uno verso l’altro – le parole non riesce a
sentirle – giurerebbe che i due si conoscano.
Quando apre la porta si trova davanti il medico: entrando borbotta
qualcosa, svogliate condoglianze.
Bisogna toglierle il catetere, dice Mattia constatando l’ovvio. Sì, risponde
questo medico che potrà avere sui trentacinque anni. E poi – mentre si
arrotola le maniche della camicia – fa una cosa che ferisce il figlio: sbuffa.
Come se fosse stato chiamato a svolgere un compito che non ha a che fare
con la sua professione. Sbuffa.
Magari vuoi uscire, mormora guardando Mattia. Lui fa cenno di sì a
quella che non è suonata come una richiesta ma un’imposizione, e
raggiunge il padre, seduto fuori.
Fa molto freddo, dice accomodandosi nella sedia a fianco.
Sì, risponde l’uomo aspirando una lunga boccata di fumo.
Il giardino di fronte a loro è immerso nell’oscurità. Mattia sa di essere
fuori luogo, fuori tempo, eppure si ascolta parlare: Di’ la verità, tu sai chi è
stato?
L’uomo soffia il fumo dalle narici, poi si volta e fissa il figlio: A fare
cosa?
Mattia riesce solo a pensare che il padre sembra improvvisamente
ringiovanito. Non sa come proseguire quella conversazione, è terrorizzato
dalle possibilità. Niente, dice alzandosi, quasi scappando via.
Entra in casa: la nonna è seduta sul divano della cucina, non sa bene cosa
fare.
Mattia si riempie un bicchiere d’acqua. La caffettiera è aperta, svitata
poco prima dal padre e poi abbandonata sul lavello. La ragazza armeggia
col barattolo del caffè.
È ora di andare a dormire, nonna. Ti riporto a casa, vuoi? Lei si limita a
scuotere la testa.
Quando anche il padre li raggiunge, la vecchia fa una domanda senza
rivolgersi a nessuno in particolare: Il gatto dov’è?
Perché?, domanda Mattia.
La nonna lo guarda come se lui non sapesse nulla del mondo, e in effetti
forse è così: Perché i gatti non devono stare vicino ai morti, dice lei.
È vero, incalza il padre.
Mattia e la sua ragazza si scambiano un’occhiata, lui con un bicchiere in
mano, lei mentre appoggia la caffettiera sui fornelli.
Come mai?, domanda la ragazza, muovendosi nervosa.
Ma come, non lo sapete?, dice la nonna, passando dall’italiano al dialetto.
I gatti mangiano gli occhi ai morti.
Mattia posa il bicchiere sul tavolo: Ma figuriamoci.
E mentre lo dice, visualizza la scena: immagina il loro gatto rosso –
quello che sua madre ha amato e accarezzato e nutrito e coccolato – chino
sul viso indifeso di lei, intento a divorarla.
Comunque di là c’è il dottore, osserva il padre.
Proprio in quel momento il medico bussa alla finestra della cucina.
Mattia esce subito fuori di casa – per poco non travolge il medico – e
raggiunge il basso fabbricato. La porta è socchiusa, Mattia la spalanca e la
madre è sempre lì, il catetere riposa in un angolo, disteso sopra un
asciugamano.
Il figlio si avvicina terrorizzato, ma la donna ha entrambi gli occhi chiusi,
apparentemente intatti. Le labbra appena aperte, così com’erano al
momento del trapasso.
Del gatto non c’è traccia.
Orme
Il cognome del medico, scritto sul referto in bella vista sul tavolo, non
lascia dubbi: si tratta del figlio del loro vecchio medico di base. Lo stesso
che Mattia bambino – in vacanza al mare – non aveva voluto come vicino
di posto, facendo il diavolo a quattro. Quel ragazzino è diventato un uomo
che, in virtù del suo ruolo, le ha estratto il catetere dalla vescica, ma
soprattutto l’ha auscultata e ne ha decretato la morte. Perché, a differenza di
Mattia, lui ha concluso gli studi, si è laureato seguendo le orme paterne e
adesso è stato disturbato per visitare la donna che durante l’estate di
vent’anni prima, con quelle stesse mani che ora riposano inerti, l’aveva
accarezzato.
(Perché non entrino le mosche, gli spiegherà la nonna. E perché non escano
i vermi, proseguirà l’immaginazione di Mattia. Ma il motivo non è quello:
per acconciare i morti ed esporli alla vista dei vivi si cerca di fare in modo
che i muscoli si blocchino per sempre in una posa che prevede – oltre alle
canoniche mani intrecciate sul grembo – una più armonica bocca chiusa.)
Poi il ragazzo chiede a Mattia, sempre con gentilezza, se può avere un po’
d’alcol.
È contento che l’abbia chiesto a lui; è certo che suo padre non ci avrebbe
fatto caso, gli avrebbe dato l’alcol sbagliato: quello che hanno nel
mobiletto, e che ha un odore insopportabile, insistente, tipo merce di
seconda scelta.
Mattia fa una rapida corsa in casa, apre l’armadietto dei medicinali e
recupera un boccettino di alcol. È piccolo, vuoto per metà, ma gli basta
svitare il tappo per sentire l’odore di disinfettante – stordente al punto
giusto – che l’altro non ha. Corre di nuovo di là, e lo porge al ragazzone.
Mia madre non è merce di seconda scelta, pensa.
(A poco serve il lavoro del tanatoprattore: la morte non risparmia i dettagli
peggiori. Gas nauseanti si sprigionano dai cadaveri, umori acquei e
putrescenti fuoriescono da ogni orifizio. Occorre procedere con la pulizia
preliminare tramite antisettici; con l’aspirazione dell’aria residua che stagna
nei polmoni; con un massaggio addominale per favorire l’evacuazione delle
formazioni gassose; con l’iniettare nelle arterie un liquido che rallenta i
processi di decomposizione; con l’applicazione di due piccole conchiglie di
plastica sotto le palpebre per evitare che si aprano gli occhi; con un punto di
legatura interna alla bocca che tenga serrate le mascelle; con l’introduzione
di cotone – imbevuto di una sostanza insetticida – nelle narici e nei
padiglioni auricolari, affinché nulla dal di fuori venga percepito. Un’ultima
mistificazione, insomma, che permetta ai vivi di tollerare l’intollerabile. La
miseria dei corpi.)
Ogni cosa è come l’ha lasciata qualche ora prima: il corpo sul letto con le
mani intrecciate, la bocca sigillata, gli occhi chiusi, le palpebre rosa prive di
qualsiasi vita. Nell’aria c’è un odore simile a vernice.
Posso averne una copia?, chiede Mattia a uno degli impresari delle
onoranze funebri, spiazzandolo. Si riferisce al manifesto mortuario con su
scritte le generalità del defunto e i dettagli della cerimonia; è stato appena
sottoposto all’approvazione della famiglia.
Nemmeno lui sa cosa se ne farà, eppure negli anni a venire lo conserverà
nell’armadio della camera da letto: per evitare che si gualcisca – per evitare
di vederlo –, lo metterà fra la locandina plastificata di un film horror che gli
piaceva tanto quand’era adolescente e il poster di un gruppo di musica
metal ormai in declino.
Mentre varie persone si presentano a casa di Mattia agli orari più disparati
per rendere omaggio alla madre e fare le condoglianze ai parenti, il figlio
ragiona su quali possano essere gli oggetti da sigillare per sempre con lei.
C’è gente – persone che Mattia conosce – che ha infilato nella bara insieme
al cadavere del marito o della sorella il portafogli con dei soldi, o dei
gioielli preziosi, o chissà cos’altro si pensa possa tornare utile nell’aldilà. Il
padre di Mattia ha chiarito di non volerne sapere niente, sostenendo che
queste cose da tribù primitiva le lascia volentieri a chi ci crede.
Un amico dei genitori, in mezzo a quel trambusto, lo prende da parte con
gentilezza. Guardandolo negli occhi lo ammonisce affinché non cada nella
facile tentazione di mettere nella bara insieme al corpo della madre oggetti
che magari, in futuro, Mattia adulto potrebbe rimpiangere. A lei ormai non
servono più, gli dice l’uomo.
Nonostante quel consiglio, il figlio cede alla tentazione.
(Alcune cose che non l’hanno uccisa: la caduta dal balcone quand’era
piccola – per miracolo rimbalzò sui fili del bucato –, il cane dei vicini il
giorno in cui la aggredì – ebbe la prontezza di voltarsi mentre l’animale
spiccava un salto –, la nuotata al lago col crampo che ne seguì – era con suo
marito, che si spaventò tantissimo –, il fibroma all’utero – Mattia aveva un
anno.)
Per non diventare schiavo delle proprie fantasie spesso il figlio si concentra
sull’apparecchio refrigerante. Somma o sottrae ossessivamente le cifre del
numero di serie, scomponendolo e cercando di trovare un senso in quella
sequenza numerica. Si allena a tenere al massimo livello di allerta i sensi
anche quando la stanchezza lo aggredisce: non vuole stordirsi con il sonno,
con gli psicofarmaci o con l’alcol come qualcuno gli ha suggerito.
Sotto l’apparecchio refrigerante – che «mantiene la cassa a una
temperatura costante di -3 gradi sottozero grazie al gas R404», così dice la
targhetta che Mattia non riesce a smettere di fissare – i tizi delle onoranze
funebri hanno piazzato un vaso di ottone: serve per raccogliere l’acqua che
sgocciola dal frigorifero formato persona che contiene la bara.
Quando il vaso è pieno di quel distillato di madre, Mattia lo versa nello
scarico del water. Tirando lo sciacquone, gli sembra di stare gettando via un
po’ di lei.
(Nel suo dialetto c’è questo modo di dire: se una persona ha un aspetto
particolarmente mogio si dice che «sembra che abbia sua madre morta in
grembo».)
La morte è scomoda
Uno dei primissimi approcci con la morte, Mattia bambino lo ebbe quando
ancora non frequentava la scuola.
Il padre era appena tornato dal lavoro, mancava una manciata di giorni al
Natale. Entrando in cucina quella sera, per prima cosa, l’uomo aveva dato la
notizia alla moglie: quel loro amico non aveva retto a un infarto. I due
adulti si erano guardati, e poi di comune accordo avevano stabilito: Stasera
andiamo a trovarlo. (E quanto di assurdo conteneva già quella frase.)
Terminata la cena, la madre era andata a cambiarsi d’abito senza lavare i
piatti; il padre era rimasto zitto di fronte alla televisione accesa, senza
mettersi comodo sul divano come sempre faceva la sera – non si era
nemmeno tolto le scarpe. La morte è lasciare i piatti sporchi sul lavello
perché può arrivare in qualunque momento, non indossare le ciabatte.
In quella casa Mattia c’era stato solo un paio di volte. La figlia del morto
era di poco maggiore rispetto a lui. Sarebbe stata tristissima, si diceva, e lui
avrebbe dovuto fare qualcosa per consolarla.
I suoi genitori avevano abbracciato la moglie del morto – Mattia aveva
notato all’ingresso un albero di Natale con le luci spente –, mentre qualcuno
l’aveva accompagnato al piano di sotto, dove c’erano altri bambini. E fra
quelle testoline, quasi subito, Mattia aveva individuato la bimba rimasta
orfana: era insieme a un’amica e – non ci poteva credere – stava giocando a
ping-pong.
Questo ricordo riaffiora nel momento in cui Mattia esce dalla stanza che è
diventata la camera ardente di sua madre.
Mescolata a volti più o meno dispiaciuti, tutti con le mani in tasca per il
freddo, nel cortile scorge quella stessa bambina, di qualche anno
irrimediabilmente più grande di lui. Quella donna, che oggi è venuta a fare
le condoglianze. Lei gli si fa incontro, lui la saluta. Lei recita la formuletta
di circostanza, e Mattia non resiste.
Rievoca la sera in cui era andato a far visita al padre morto di lei. Lo fa in
maniera subdola, omettendo la sorpresa che aveva avuto nel vederla giocare
a ping-pong, e racconta nei dettagli la sensazione di dolore provata quella
sera, l’albero di Natale spento e tutto il resto (fa come gli sceneggiatori dei
brutti film, insiste sui particolari che più facilmente muovono alla
commozione). Ed è a quel punto che lei non riesce a trattenere le lacrime, e
abbracciandolo singhiozza il suo cordoglio. Lui, compiaciuto, la abbraccia a
sua volta e la ringrazia.
Fare compere
C’è stato un momento, quando la madre era ancora viva ma per tutti non lo
era già più, in cui Mattia e il padre hanno dovuto decidere come l’avrebbero
vestita.
(Alcuni anni prima Mattia, come ogni domenica, era al cimitero. Davanti
alla tomba di famiglia la nonna – all’epoca energica, indipendente – aveva
preso a sistemare i fiori, mentre la madre stava togliendo le erbacce che
caparbie crescevano nelle commessure tra le piastrelle. Mattia era
ipnotizzato dai nomi e dalle date, da quei pezzi di plastica incollati alle
lapidi di pietra che col passare delle stagioni si staccavano e lasciavano un
vuoto. Molti cognomi si ripetevano: i morti in provincia sono tutti parenti.
All’improvviso si era fatto una domanda, talmente stupida da non poterla
tenere per sé: Ma quello spazio sotto il nonno, aveva chiesto ad alta voce,
come mai è libero? La madre l’aveva fissato con uno sguardo pieno di
compassione. Si era assicurata che la distanza dalla vecchia, sua madre,
fosse sufficiente e gli aveva sussurrato: È il posto che avrà nonna. Lui aveva
esclamato un: Oh, e dopo era arrossito. Per tutto il viaggio di ritorno Mattia
non aveva più detto una parola. La donna però si sbagliava: quel posto
sarebbe toccato a lei.)
Invasione
Fra le persone in attesa che la bara venga caricata sull’auto funebre, Mattia
riconosce il fisioterapista. Lo saluta, e prendono a chiacchierare un po’ –
come se si trovassero lì per caso. Mattia non può impedirsi di ripensare alle
primissime volte in cui veniva a casa loro e faceva fare esercizi di
mantenimento muscolare e articolare alla madre.
Con una pressione morbida e decisa delle mani esperte le piegava le
ginocchia, invitandola a flettere le gambe: gli occhi le si dilatavano, le
guance gonfie di cortisone si tendevano ancora di più nello sforzo; a quel
punto spalancava la bocca come un animale ferito producendosi in un urlo
dilaniante.
Mattia scorgeva un puntino marrone sulla lingua bianca: la compressa di
morfina che aveva assunto poco prima, ma non ancora inghiottito. Lei
gridava, e Mattia si domandava se tutta quella sofferenza fosse necessaria,
si domandava se quella bestia calva schiumante di rabbia fosse davvero la
persona che lui aveva tanto amato e dalla quale era stato tanto amato, se lì
dentro ci fosse lei o la malattia: proprio come in quel film di fantascienza
che da ragazzino non si stancava di rivedere (una delle scene più paurose
dell’Invasione degli ultracorpi di Don Siegel è quando il bambino si ostina
nel dire che quella non è sua madre). Si domandava, Mattia, se il cancro
l’avesse sostituita.
Attraversare
(Uno degli inconfessabili desideri del figlio, uno di quelli che gli avevano
solleticato la mente mentre studiava compiaciuto il viavai di gente che
entrava di là, era stato quello di poterla spogliare. Avrebbe voluto che tutti
loro potessero vederla nuda, osservare quel corpo sfatto, sfregiato dai
bisturi all’altezza dei seni, dalla cicatrice sul cranio vuoto di ossa, torturato
fino agli ultimi giorni dal catetere conficcato nella vescica, da cannule per
infusione posizionate nel torace. Avrebbe voluto che la gente capisse che la
morte è quello, non un po’ di trucco sul viso a tenderti la pelle in un sorriso
che non ti appartiene.)
Elenchi
Madre purissima, prega per noi; Madre castissima, prega per noi; Madre
sempre vergine, prega per noi; Madre degna d’amore, prega per noi...
(Quand’è stata l’ultima volta che i suoi genitori hanno fatto l’amore?)
Quando anche il funerale sarà finito e la cripta sarà stata richiusa, dopo gli
ultimi abbracci, gli ultimi baci sulle guance, gli ultimi fiori, Mattia e il
padre si ritireranno in casa. Saranno stanchi, e inspiegabilmente sollevati.
Ero felice e non lo sapevo, penserà Mattia spegnendo il cellulare,
togliendosi le scarpe.
Entrerà a piedi scalzi nella sua cameretta di bambino, e il passato si
chiuderà su di lui.
3. MADRE
(L’ANNO DOPO)
Tutto è fatidico
Ora che davvero lei non c’era più, tornava col pensiero alle chiacchiere
delle amiche fuori dalla stanza della madre. Quelle donne si scambiavano
parole e occhiate piene d’intesa, sussurrando a mezza bocca verdetti
spietati. Mattia però sentiva tutto, registrava, e si riprometteva di versare
quei bisbigli addosso a ciascuna di loro come lava bollente.
Gli ci vorrà un po’ per accettare, vittima dei pregiudizi e forse anche di
una certa formazione cattolica, che quelli sulla sofferenza che tarda ad
arrivare, sul senso di colpa, in realtà sono falsi problemi.
Non c’è altro da fare se non provare quel che c’è da provare, e lo spazio
per i sogni, per il dolore e per le lacrime – tutte queste cose arriveranno.
Un nuovo uso
Infettando ogni cosa la morte della madre ha imposto un anno zero, è come
se avesse resettato il mondo, dando il via a un secondo corso dell’esistenza.
Mattia non solo sente la mancanza di sua madre, ma sa che lei, ovunque sia,
qualunque cosa sia – puro spirito, energia, pensiero, nulla assoluto – avverte
(in misura ancora maggiore, eterna) la mancanza di lui. Dev’essere una
sofferenza intollerabile.
Qualche giorno dopo il funerale arriva la neve. Per una notte intera fiocchi
enormi cadono nel cortile di Mattia, sui tetti delle case vicine, sul paese
addormentato. Lui immagina i cristalli di ghiaccio posarsi sopra le lapidi
del cimitero, stratificarsi un po’ alla volta, fino a ricoprire anche la tomba di
famiglia.
Il telefono finalmente tace. Nessuno più li chiama per avere
aggiornamenti, né per fare condoglianze tardive. Mattia e il padre, immersi
nella quiete della casa, decidono di andare insieme al camposanto.
È la prima volta che ripercorrono quella strada, dopo la sepoltura. Binari
di neve schiacciata e sporca sono tracciati lungo le strade del paese: si
aggrovigliano e poi si separano per ricongiungersi di nuovo. Ma la via che
porta alla chiesa e infine conduce al cimitero è intatta, immacolata. Nessun
vivo, con quella neve che continua a cadere fitta, ha sentito il bisogno di
andare nella casa dei morti.
Non c’è ancora la foto, ma solo quella che l’agenzia funebre ha chiamato
«lapide provvisoria»: un rettangolo di pietra con il nome scritto su un
adesivo. A Mattia non dispiace affatto. Se la lapide è provvisoria, si dice,
forse c’è ancora la possibilità di tornare indietro.
I mazzi di fiori lasciati sulla tomba, e le corone generosamente disposte
tutt’intorno, spuntano appena occhieggiando in quel bianco perfetto che la
neve ha dipinto.
Dopo aver recuperato due piccole scope, Mattia e il padre prendono a
spazzare la neve fresca, cercando di far saltare i blocchi di ghiaccio che si
sono formati qua e là.
Si mettono d’impegno. Il figlio ha l’impressione di non aver mai
condiviso, prima, qualcosa di così intimo col padre: sarebbe potuto
accadere, se la madre fosse stata ancora viva? Per esprimere quella felicità
che gli sta crescendo dentro, Mattia vorrebbe quasi cantare. Spezzare il
silenzio del camposanto con la propria voce.
Una rosa che dev’essere appartenuta a un mazzo più ampio se ne sta da
sola vicino al muretto di cinta, leggermente al riparo dalla neve. Nonostante
il freddo non sembra essersi rovinata troppo. Mattia l’afferra per il gambo,
liscissimo sotto le dita. Depongono la rosa accanto alla lapide.
Oggi è successo.
Mattia aveva messo in conto il fatto che prima o poi sarebbe accaduto,
ma non pensava così presto.
Davanti allo specchio del bagno si sta rifinendo il pizzetto alternando
colpi leggeri – col tagliabasette del rasoio elettrico – ad altri più decisi –
aiutandosi con un paio di forbicine. A un certo punto suona il telefono fisso.
Lascia che si sfoghi per qualche squillo, poi risponde.
Dall’altro capo del telefono una voce maschile con un velato accento
meridionale dice qualcosa che Mattia è sicuro di aver capito, ma se la fa
ripetere comunque.
Contrordine: forse è stata solo un’allucinazione acustica, infatti ora la
persona in linea – anziché il nome e il cognome della madre, come gli
sembrava avesse detto – gli domanda se sta parlando con la famiglia il cui
numero è sull’elenco telefonico, e dice quindi il cognome di Mattia. Il
cognome del padre, non quello della madre da nubile. Ecco, si convince lui,
vedi che ho frainteso?
Ma poi, quando Mattia conferma il cognome, la voce maschile – stavolta
non c’è possibilità d’equivoco – chiede di parlare con la madre.
Mattia non riesce a pronunciare ciò che sarebbe naturale dire, e che molte
volte si è immaginato di dover comunicare – a un parente lontano, a un
vecchio amico o a un ex collega di lavoro del padre, a qualcuno che non ha
saputo – e infatti dice: Chi la desidera?
Il tizio abbozza una spiegazione: Noi siamo un’agenzia – e scandisce il
nome dell’agenzia –, ieri una mia collega ha parlato con la signora – ripete
il nome della madre – e ha lasciato un appunto di richiamare oggi.
Mentre il tizio gli riferisce queste cose, a Mattia sfuggono di mano le
forbicine. Con una sola emissione di voce dice: Guardi, non so con chi ha
parlato ieri ma lei si sbaglia, mia madre è mancata qualche settimana fa.
Dall’altro capo della linea – dopo un silenzio interrogativo – parte una
serie di: Mi scusi, Non sapevo, Mi scusi, Non sapevo (e l’accento
meridionale viene fuori con prepotenza). Allora la mia collega si dev’essere
sbagliata, dice la voce maschile. Poi aggiunge un altro: Mi scusi. La loro
agenzia – ripete il nome – vende biancheria intima femminile per
corrispondenza. La madre è nell’elenco perché evidentemente ha comprato
dei capi tempo fa, e loro ogni due-tre anni fanno un giro di telefonate per
contattare i vecchi clienti. Non la disturberemo più, dice il tizio. E riattacca.
Mattia prende in mano le forbicine da terra, torna in bagno. La mano gli
trema troppo perché riesca a radersi, se ne accorge quando si ferisce al collo
e una goccia di sangue cade nel lavandino.
Simulazioni
(Qualche sera fa, a casa di Mattia è venuta a cena la sua ragazza. Era la
prima volta che avevano ospiti da quando la madre non c’era più. Con la
scusa di voler festeggiare il suo ultimo esame all’università lei ha portato il
dolce, e il padre ha cucinato un arrosto delizioso. Ma lo sapevi che Mattia
da piccolo era convinto di fare le uova?, ha detto il padre alla ragazza,
facendole l’occhiolino. Non è vero!, ha replicato lui arrossendo, la bocca
ancora piena di patate al forno. E invece sì, ha insistito il padre, un giorno
mentre faceva colazione gli abbiamo fatto trovare un uovo sul letto, e lui
c’è cascato... Hanno riso, erano improvvisamente una famiglia. Quand’è
arrivato il momento del dolce, Mattia ha aperto il cassetto delle posate e
senza pensarci ha preso una forchettina in più. Resosi conto dell’inutilità di
quel gesto, stando ben attento che nessuno lo vedesse l’ha lasciata cadere, e
le stoviglie cozzando le une contro le altre hanno prodotto un rumore
sordo.)
Negli ultimi tempi lei aveva sempre la febbre. Mattia – con la scusa di
sentirle la temperatura – le appoggiava le labbra sulla fronte, depositando
baci silenziosi. Poi le scostava la camicetta del pigiama, e le infilava sotto
un’ascella il vecchio termometro a mercurio.
Oggi Mattia è influenzato. Prende il termometro, lo estrae dall’astuccio e
prima di scuoterlo gli occhi vanno alla colonnina di mercurio, ferma su
38.5. È l’ultima temperatura della madre, un paio d’ore prima che morisse.
Quell’oggetto inanimato ha conservato il suo tepore.
(Il nome di Mattia, per un curioso destino, è incistato nella parola malattia:
questa coincidenza gli dà un leggero capogiro.)
Promesse
(Ogni tanto Mattia riflette sul fatto che vorrebbe ingravidarla. Il desiderio
ridicolo di poter accontentare la madre – si è nonni anche da morti? –
invade i suoi pensieri.)
Ma quando noterà sulla spalla sinistra di lei quella piccola cicatrice che
conosce bene – se l’è procurata a dodici anni, cadendo dalla bicicletta – non
ci sarà più nulla da fare. Mattia scanserà la ragazza come se fosse una
sconosciuta, e si getterà sul letto: nelle sue narici le sale chirurgiche, i
copricassa, l’odore di disinfettante. Lei gli siederà accanto, insinuando una
mano dove il gonfiore intanto è sparito.
Lui dirà: Scusami, e rivestendosi si sentirà perduto.
Cimelio
(Questa storia di lui che fa i film, col tempo è diventato un equivoco che
non ha più tanta voglia di chiarire. Mattia ha collaborato come aiuto regista,
un paio di pomeriggi di qualche anno fa, ad alcune piccole produzioni
locali: roba che non è mai arrivata nelle sale, film cosiddetti «indipendenti»
– uno è un thriller vagamente soprannaturale scopiazzato dall’Esorcista,
l’altro un giallo incasinatissimo in cui lui fa anche la comparsa; opere che
sono circolate solo in qualche festival semisconosciuto. Le copie personali
di quei film sono impilate in uno scaffale di casa sua insieme alle altre
videocassette, eppure la gente ormai lo associa al cinema, tanto che ogni
tanto gli fanno battute imbecilli del tipo: Allora, quando lo vinci l’Oscar?)
(La tizia della tintoria omette di dirgli che in magazzino ha una gonna che la
madre aveva portato a smacchiare, e che nessuno è mai venuto a ritirare.
Quella gonna rimarrà per mesi nel negozio, fino a quando un giorno Mattia
– frugando in una borsetta della madre, uno dei tanti cimeli del suo
personale mausoleo – troverà un talloncino di quella lavanderia. Con
smarrimento ed eccitazione lo porterà alla tizia, e in cambio riceverà
l’ennesimo oggetto da inventariare.)
(Anni dopo, a cena da un amico, scoprirà che lui – per chissà quale motivo
– conserva ancora nella memoria del cellulare l’sms con cui Mattia gli
aveva comunicato la morte della madre. Gli chiederà di mostrarglielo.
Mattia leggerà il testo, e poi in calce comparirà la data che conosce così
bene: quella lo emozionerà più di tutto.)
Raggiunge una serie di palazzine tutte uguali. Trova il civico giusto, suona
il campanello. Chiunque gli verrà ad aprire, decide Mattia, dovrà fare i conti
con lui. Suona di nuovo, premendo con forza sul citofono.
Da una finestra del primo piano si affaccia una bambinetta, arriva a
malapena al davanzale: Chi è?
Mattia cerca di sfoderare il migliore dei sorrisi: Non c’è tuo padre o tua
madre?, dice. Devo dargli questo, e sventola il bigliettino di ringraziamento.
No, risponde la bambina. E poi, con un certo orgoglio: Io non posso
aprire a nessuno.
La guarda. È distante, in mezzo c’è una striscia di verde e una
staccionata, ma gli pare di vedere una somiglianza. Un’aria di famiglia.
E se quella non fosse semplicemente la figlia di chi ha scritto quelle
cose? Se il padre avesse davvero un’altra vita?
Poi per formulare il pensiero successivo allarga leggermente le gambe
assicurandosi di avere i piedi ben piantati, che non lo tradiscano.
E se invece un’altra vita l’avesse avuta sua madre, e ora che le ha perse
entrambe l’unica testimone di quel tradimento fosse quella bambinetta
insulsa?
Senti, sbotta Mattia come se il bigliettino scottasse, lo metto nella
cassetta. Posso lasciare un messaggio per quando tornano?
La bambina non sembra aver capito.
Mi fate tutti schifo, dice Mattia – o forse crede di dire – chiudendo gli
occhi.
(Per molti mesi a venire Mattia non riuscirà più a mettere piede di là –
s’inventerà ogni volta un pretesto diverso per non entrare, una scusa non
importa quanto verosimile: ciò che conta è non avvicinarsi a quel luogo.)
Si dice che forse può affrontare questi giorni di lutto fingendo di essere un
animale. La scomparsa della madre, per un cucciolo, possiede una forma di
dolore che gli sembra accettabile. Potrebbe fare come un gatto che è stato
allontanato dalla madre gatta. Cercarla negli angoli del cortile, aspettarla
fiducioso vicino alla cuccia, contemplare la possibilità di un ritorno,
pensarla fuori dal tempo. Fino ad accettare che lei non c’è più, o forse
dimenticandosi che ci sia mai stata.
(Ogni tanto vorrebbe essere come il protagonista di Memento di Christopher
Nolan. Ma con la memoria resettata un attimo prima, in un loop continuo e
virtuoso in cui sua madre gli canta la ninna-nanna.)
Comparse
(Uno dei film di M. Night Shyamalan forse meno amati dal pubblico è
Signs: tutti si ricordano Il sesto senso, e Mattia in videoteca cerca sempre di
suggerire anche gli altri del regista. In una scena di Signs, appunto, i
protagonisti assistono in silenzio alla comparsa di un personaggio che ha
cambiato le loro vite. Il film è famoso soprattutto per i «cerchi nel grano»,
perché fra le altre cose parla di un attacco alieno, ma in realtà racconta
sentimenti e situazioni umanissime. Mel Gibson è un reverendo che dopo la
morte della moglie ha perso la fede e abbandonato l’abito; il fratello
minore, Joaquin Phoenix, per dargli una mano con i bambini si è trasferito
da lui, in una fattoria piazzata in mezzo a sterminati campi di grano. Lo
spettatore percepisce un nucleo doloroso intorno a questa famiglia
rappresentato dall’assenza della madre, che sappiamo da alcuni flashback
essere morta in un incidente automobilistico. A un certo punto l’intera
famiglia – Gibson, Phoenix e i due bambini – è riunita intorno al tavolo di
un ristorante. Si apprestano a mangiare, spensierati. Ma all’improvviso Mel
Gibson intravede un uomo fuori dal locale, e il suo sguardo si congela; un
po’ alla volta, tutti gli altri alzano il capo e osservano quell’uomo che lo
spettatore ha visto a malapena ed è ora fuori dal campo visivo. E qualcuno,
forse uno dei bambini, chiede se si tratta di lui, al che gli altri confermano:
Sì, è lui. Dopodiché si vede l’uomo in questione – il regista stesso, che fa
un cameo – alzare lo sguardo come chi si senta osservato. Lo stanno
fissando perché l’incidente mortale è stato causato da una sua disattenzione
alla guida. E la sua esistenza, l’ostentazione di vita prodotta dal suo
aggirarsi per la città, rende ancora più insopportabile la morte della donna.)
Fermo in piedi mentre sta facendo benzina, Mattia ci mette un po’ a
riconoscerlo, poi capisce: quello è uno dei barellieri che gentili si
presentavano a casa sua con l’ambulanza per accompagnare la madre in
ospedale. Quel ragazzo, al contrario del personaggio del film di Shyamalan,
è una comparsa che in qualche modo ha contribuito a prolungare la vita
della madre.
Nei mesi a venire, incontrare per caso lui e gli altri barellieri mentre è
distratto e sta pensando ad altro, incappare al supermercato o al bar nei loro
corpi sorretti da due gambe, sarà per Mattia l’ennesima occasione per non
dimenticare – anche suo malgrado.
Immaginazioni
Posture
Oggi c’è un pranzo con i parenti, il padre ha invitato anche un paio di suoi
ex colleghi che a Mattia sono sempre stati simpatici. Comincia a fare caldo,
dunque si mangia all’aperto. Le risate si rincorrono sulla tavola, ogni tanto
Mattia tenta un sorriso. Gli sembra di stare sprecando il suo tempo, ma del
resto se non fosse lì dove altro potrebbe essere?
Si domanda se ha ancora un posto da chiamare casa, se possiede ancora
qualcosa che possa essere classificato sotto la parola «famiglia». Casa sua
non esiste più. O meglio, quello che continua a esistere è un involucro di
calce mattoni pareti oggetti, incapace di contenere quella che una volta era
la famiglia di Mattia.
(A scuola era affascinato dal criterio con cui si stabiliscono l’inizio e la fine
delle epoche. Le frasi riportate sui libri di storia, come: Il Medioevo
comincia e finisce con.)
Porzioni di mondo
Ora è estate, mesi pieni di nulla sono passati. Mattia è al mare, disteso sul
lettino, al fianco della sua ragazza. Lei nel frattempo si è laureata, a
settembre inizierà uno stage: il giorno in cui ha discusso la tesi, guarda
caso, a Mattia è venuta la febbre – Te lo giuro!, ha urlato nel telefono – ed è
rimasto a casa. Lei non gliel’ha perdonata, ma ora è con la testa da tutt’altra
parte: sta leggendo un libro concentratissima, gli occhiali da sole
leggermente scivolati sul naso, la pelle brunita luccicante di crema solare.
In spiaggia ci sono poche persone, è quasi ora di pranzo.
Mattia si gode il vento debole che gli accarezza la pelle, bagnata dopo
una breve nuotata al largo. Osserva una palma, poco distante. Era già così
alta quando la madre è morta? E gli edifici intorno, che visti dalla spiaggia
appaiono come una lunga teoria di teli mare sventagliati dall’aria e costumi
appesi ai balconi, quegli hotel erano già così, o c’è stata qualche modifica
(anche piccola, la ristrutturazione del tetto, il colore diverso dato a una
parete) da quando lei non c’è più?
È avido di capire il modo in cui la realtà è cambiata. Cerca di raccogliere
il maggior numero di informazioni, come se conservandole nella memoria,
cogliendo lo scarto fra il mondo della madre viva e quello della madre
morta, potesse condividere queste differenze con i ricordi che ha di lei,
mettendo in comunicazione due zone che stanno separate. (Quasi dovesse
poi riferire – chissà quando – questi cambiamenti a qualcuno.)
Secondo te ha sofferto?, domanda Mattia di punto in bianco alla sua
ragazza. Ma con un tono di voce come se stesse constatando la scomodità di
quel lettino.
Come dici?, chiede lei senza distogliere gli occhi dal libro.
Niente, fa Mattia, dicevo che ho fame.
Io no, obietta lei.
(Poiché durante l’ultimo periodo la pelle della madre scottava, la dottoressa
dalla lunga treccia aveva consigliato di avvolgere in uno straccio dei cubetti
di ghiaccio da appoggiare sulla fronte e sull’inguine, per dare un po’ di
sollievo al corpo sofferente. Mattia e il padre avevano preparato tanti
sacchetti di ghiaccio, più di quanti sarebbero stati necessari. Adesso era
giunto il momento di sciogliere nell’acqua, nel vino, nella cola, nella birra,
tutti quei cubetti formatisi in quei giorni di gennaio.)
Il giorno in cui torna dal mare – il padre è via chissà dove, la ragazza è già
dai suoi, il bagagliaio dell’auto ancora pieno di valigie da disfare – il
telefono fisso prende a squillare.
Pronto?, dice Mattia. Il gatto gli si fa incontro affettuoso, strusciandosi
contro le caviglie: pretende che la ciotola gli sia riempita il prima possibile.
All’altro capo della cornetta c’è un tizio che si spaccia per «cugino di tua
madre». Lei è morta da otto mesi, e tanto ci ha impiegato questo
sconosciuto prima di telefonare: perché fa capolino proprio ora? Dice che
c’è una cosa importante di cui vorrebbe parlargli, se per favore gli può dare
il suo indirizzo. A Mattia la voce di quell’estraneo non piace, né intende
proseguire oltre la conversazione.
Non so chi tu sia, dice il figlio, ma adesso non ho proprio tempo. Ciao.
E per un po’ il tizio scompare.
Ci sono mattine in cui è distratto, altri giorni in cui magari sta osservando il
paesaggio dal finestrino della corriera, domeniche pomeriggio trascorse
senza pensare a nulla in particolare. Attimi in cui gli viene in mente che
quella cosa che gli è capitata al lavoro, quella notizia sentita al telegiornale,
dovrebbe raccontarla a lei, dovrebbe proprio commentarla insieme a lei.
Dev’essere simile alla sensazione dell’arto fantasma: un prurito invisibile,
ecco cos’è diventata sua madre.
Diamanti di sangue
Convenevoli
Andare dal notaio – una giovane donna che si augura di raggiungere l’età
della signora più o meno con lo stesso grado di consapevolezza – è
umiliante, perché si scopre ciò che già si sapeva. Cioè che la nonna, in
qualità di vedova, ha ereditato metà dell’officina – «il lotto in questione»,
specifica il notaio – mentre l’altra metà che spetterebbe ai figli l’ha
ereditata il nipote, Mattia, in quanto orfano.
Orfano è una parola che stringe nelle spire delle o in apertura e in
chiusura chi la indossa: due catene circolari che ammanettano a un infinito
presente. Eppure è così facile da pronunciare, un suono che ricorda le fusa
dei gatti, un soffio morbido che arriva da dentro e getta fuori l’aria: orfano.
C’è molta roba, in quella vecchia officina che ormai è stata venduta e che
odora di muffa e gasolio. Mattia si è munito di un rotolo di sacchi neri della
spazzatura: se troverà anche una sola cosa che riguarda sua madre o la
propria infanzia – e si rende conto di come le due cose coincidano
indissolubilmente – le ore che avrà impiegato lì non saranno state sprecate.
Frugando nelle tasche di alcuni vestiti sdruciti, Mattia s’imbatte in
orologi, occhiali, pettini, oggetti logori e calcificati che hanno perso
l’aspetto originario e sono indecifrabili, simili a ossa di animali cotte dal
sole, pronte a sbriciolarsi fra le dita. Nascosta nella tasca interna di un
portafogli trova una fotografia della nonna materna. Nei suoi occhi – lei è
giovane in quel ritratto in bianco e nero, fiera – Mattia intravede i giorni che
la attendono. Pensa alla disperazione muta di chi perderà il marito e le figlie
e, nonostante tutto, non impazzirà.
Fare pulizia significa anche esaminare uno per uno i numeri della rivista di
automobili che suo nonno aveva collezionato per una vita intera. Due tavoli
da lavoro su cui stanno in ordine pile di riviste che raffigurano, in una bella
stampa a colori, i più svariati modelli automobilistici. Ogni esemplare della
rivista sembra incollato dal peso del tempo a tutti gli altri, ma può
succedere che fra una copia e l’altra si nasconda qualcosa.
Lui non ha fretta: fuori c’è un sole freddo che dà la luce giusta
all’officina. Anziché afferrare le riviste tutte insieme – come il buonsenso
detterebbe di fare, e Mattia è felice di essere lì da solo perché chiunque altro
a parte lui seguirebbe il buonsenso – si è imposto di spostarle una alla volta.
Può così capitare d’imbattersi in un sottile fascio di lettere di colore
verdino, tenute insieme da una cordicella dorata che lascia sulle dita dei
brillantini.
(L’idea stessa di dvd ha senso per lui solo per via dei contenuti speciali, che
offrono numerose curiosità rispetto alla narrazione canonica, o svelano i
retroscena. Dove sono nascosti – si è sempre chiesto lui – quelli
appartenenti alla storia della sua famiglia?)
Nel maneggiare quei pochi grammi di carta indirizzati alla madre c’è
devozione, struggimento, ma di certo anche tanta paura: quella di aver
ripescato dai fondali del passato una storia diversa da quella che Mattia
conosce. Una variante della madre, e quindi anche una sua variante:
qualcosa che rischia di contaminare le certezze. Quanti film, quanti libri,
quante narrazioni si basano proprio su un personaggio che illumina per caso
i luoghi oscuri del passato e scopre cose sconvolgenti?
Sta per sciogliere il nodo della cordicella dorata, poi riflette:
probabilmente è stato stretto proprio dalle mani di lei. Valuta che si possono
comunque sfilare una alla volta, man-
tenendo intatto il nodo. Ne prende una, e vede stampigliata sulla busta
una data anteriore non solo al matrimonio dei suoi genitori, ma anche
all’epoca in cui si sono conosciuti.
Ne legge una, poi un’altra, poi un’altra ancora. Il mittente è sempre lo
stesso: un militare con cui la madre ha chiacchierato un po’ durante una
festa di Capodanno. Sta facendo il servizio di leva come marconista, e
lettera dopo lettera racconta di quanto sia dura la naja, delle incomprensioni
col maresciallo, del tempo che non passa mai. Ma racconta anche – in modo
sdolcinato e però autentico – quanto senta nostalgia di lei in attesa della
prossima licenza, quanto la pensi e quanto sogni di rivederla al più presto.
In ogni lettera il giovane militare (che si firma «il tuo soldatino») chiama la
madre di Mattia per nome più e più volte, e il figlio ha un brivido nel
leggere il nome cristallino di lei.
S’immagina la madre, poco più che ragazzina, che sceglie di non buttare
quelle lettere quando conosce il suo futuro marito, ma decide di
impacchettarle da qualche parte nell’anima, e dimenticarle.
A un certo punto si concentra sulla t di «soldatino». La confronta con le
altre t, poi cerca con affanno crescente alcune parole precise: esamina la
parola «famiglia». E poi nelle altre lettere via via trova «casa», «rispetto»,
«giro», «vergogna», «amico». Ha fatto di tutto per non pensarci più, eppure
– sa che è assurdo, che non ha senso – sembrerebbe proprio quella grafia
che lo ossessiona. Quella che ha scritto la parola seppellito.
Trappole
Ha litigato con la sua ragazza. Lei voleva andare in città a vedere un piccolo
appartamento in affitto: il suo stage sta andando molto bene, ci sono buone
probabilità che la tengano, dunque vorrebbe trasferirsi. Gli ha chiesto di
accompagnarla, ma Mattia ha temuto fosse una trappola: e se invece
quell’appartamento lei lo stesse cercando per loro due? Se si fosse messa
d’accordo con il padrone di casa, e l’avesse già affittato, già arredato, e
volesse fargli una sorpresa? Riesce persino a immaginare una stanza
pensata come ripostiglio, pronta a essere riconvertita in cameretta quando
avranno un bambino.
Mia madre è morta e tu pensi a questo?, l’ha aggredita.
Ma sei impazzito? Cosa c’entra?
C’entra sempre, ha detto chiudendo la conversazione.
Ha condotto una lunga lotta perché nulla mai cambiasse, e adesso sente che
tutto gli sta fuggendo di mano. La sera decide di andare da solo al cinema,
prende l’auto e guida fino alla città: c’è il nuovo film di Richard Linklater,
Un oscuro scrutare.
In fila davanti a lui osserva distrattamente un uomo che paga il biglietto
per sé e per i suoi figli: Tre per Monster House, dice con voce sicura. Lo
vede porgere le banconote al cassiere, ricevere i biglietti, darli ai suoi figli,
e mentre l’uomo attende il resto – la mano destra nel gesto di chi chiede la
carità – Mattia si accorge che quelle mani appartengono al chirurgo che
operò la madre al cervelletto. Sono trascorsi anni, ma è certo di non
sbagliarsi.
Risalendo con lo sguardo raggiunge il volto: quel viso gli sembra
anonimo, anche se le mani sono inequivocabilmente le sue. Vorrebbe farsi
riconoscere, come si fa con i personaggi famosi: «Forse lei non si ricorda di
me, ma ci siamo visti quella volta...» E se non fosse lui? Se la sua memoria
lo stesse tradendo?
Poi Mattia si ritrova davanti al cassiere che gli domanda: Quale sala?
Lui tace, e l’altro lo incalza: Allora?
Non riesce a rispondere, esce dal cinema proprio nel momento in cui
scoppia un temporale. Non ha l’ombrello, ha parcheggiato distante e si
maledice: i pochi minuti che impiega per raggiungere l’auto lo inzuppano.
Mentre guida tiene il riscaldamento al massimo, i bocchettoni puntati
addosso; in radio c’è un concerto di musica classica, i tergicristalli
sembrano danzare.
Strisce di ricordi
(I cd e i dvd sono troppo sottili, hanno fatto perdere la manualità delle cose:
Mattia amava le videocassette perché erano un organismo complesso.)
È una sera di novembre, piove. Mattia dovrebbe uscire con la sua ragazza –
ma non ne ha voglia, ed è convinto che neppure lei ne abbia. In realtà, tutti
e due sanno bene che a mancare davvero è il coraggio di constatare la fine.
Le manda un sms dicendole che il gatto sta male, preferisce restare a
casa.
Ho capito. Buona serata, è ciò che risponde laconicamente lei.
In effetti, il gatto se ne sta immobile a fissare un angolo del muro,
inappetente. E quando Mattia lo chiama – osservandolo avvicinarsi su
quelle zampe instabili – sembra sempre sul punto di perdere l’equilibrio.
(Assieme all’edera decennale ricevuta dai suoi genitori in dono per le nozze
– un’edera che cresce felice e che Mattia cura quasi tutti i giorni, anche solo
rivolgendo un’occhiata affettuosa al contorcersi delle foglie – quel gatto è
uno dei prolungamenti del rapporto sempre più sottile con la madre.)
Il giorno dopo si decide a chiamare il veterinario, che lo palpa a lungo
prima di esprimersi (e il gatto si fa fare tutto, quieto come non mai).
È curabile?, chiede Mattia.
No, ma è trattabile, risponde il veterinario da dietro gli occhiali. Prescrive
una serie di iniezioni di cortisone, e intanto ricorre a espressioni ben note a
Mattia come «migliorare» o «salvaguardare» la «qualità della vita». Poi, già
sulla soglia e con la sua valigetta in mano, conclude: Capisci, è come se
avesse un grumo di metastasi lungo la colonna vertebrale.
Mattia si vedrà costretto a somministrare al gatto, inoperabile, lo
sciroppo per evacuare, le punture di cortisone – la stessa tipologia di
medicine che a suo tempo i medici avevano prescritto alla madre.
(Un’amica di Mattia che viveva in simbiosi col suo cane, dopo la morte
dell’animale ingrassò di undici chili – l’esatto peso del cane. Per
compensare la scomparsa della madre, Mattia dovrebbe ingrassare di
cinquantaquattro chili.)
È fermo con l’auto all’unico semaforo del paese. Osserva una vecchina
intenta a passare con energia la ramazza sul marciapiede dove, da vent’anni,
c’è un negozio di alimentari.
Il semaforo diventa verde, ma Mattia non se n’è accorto perché sta
continuando a osservare la vecchina che ramazza davanti a quello che un
tempo è stato il suo negozio, mentre ora ci lavora qualcun altro (ricorda
almeno tre cambi di gestione, tutti più o meno fallimentari). Abitando lei
presumibilmente sopra il negozio, quello continua a essere il suo
marciapiede.
Qualcuno suona il clacson, allora Mattia distoglie lo sguardo e riparte.
Pensa, con un cinismo che imparerà ad affinare col tempo: È ancora viva.
È ancora lì.
(In ogni angolo delle sue giornate, il figlio scopre la madre-gatto pronta a
fargli un agguato.)
CID
Mattia e la sua ragazza non si sentono più da qualche settimana. Dopo un
paio di volte in cui hanno provato invano a organizzare un’uscita, a darsi
appuntamento senza troppa convinzione, ora entrambi hanno desistito.
Spesso lui si è immaginato di dirle: «È finita». Ma è troppo codardo.
Il coraggio che gli manca, però, lo trova la sua ragazza. Che in quel
processo infinito in cui le cose cambiano stato è pronta ora per diventare la
sua ex ragazza.
È una domenica mattina di inizio dicembre. La sera precedente Mattia si
è visto con un paio di amici che non incontrava dai tempi del liceo. Ha
bevuto troppo, e quando è rientrato a casa non si è nemmeno tolto i vestiti:
si è buttato sul letto così, abbandonandosi a un sonno senza sogni.
Lo sveglia il telefono. Apre gli occhi e scopre che sono le undici passate.
Il telefono continua a suonare per un bel po’ e nessuno lo fa tacere – il
padre dev’essere fuori casa.
Quando finalmente Mattia riesce a rispondere, sente dall’altro capo la
voce della sua ragazza che gli dice: Hai il cellulare staccato.
Lui prova un formicolio alla base della nuca.
Decidono di vedersi quello stesso pomeriggio. Entrambi sanno che
avranno delle cose cruciali da dirsi, e il fatto che sia stata lei a farsi viva –
in quella ridicola gara del silenzio – è per Mattia motivo di fastidio e
piacere.
Hanno scelto un bar dove vanno spesso. Da poco è stata ingrandita una sala,
ridipinti i muri, sostituiti i tavolini: Mattia e la sua ragazza si sentono
entrambi a disagio, in quel luogo familiare eppure estraneo. Lei (i capelli
come sempre perfetti, quell’aspetto da piccolo elfo che già ora sa quanto gli
mancherà) ha un vestito che Mattia non ricorda di aver mai visto, mentre lui
si è rasato con una cura che non aveva da tempo.
A un tavolino, di fronte a due bicchieri, avviene la resa di un amore.
Lui non se l’era immaginata così. Seduti, scomodi, in mezzo ad altre
persone. A sussurrare la sconfitta. Non ci sono urla, c’è un rilevare da parte
di entrambi l’evidente impossibilità a proseguire: come se stessero parlando
di altri. Non di amore, ma di fatture commerciali.
Quello stesso luogo dove tante volte avevano bevuto un caffè
chiacchierando inconsapevoli, facendo progetti, rivelandosi debolezze e
condividendo gioie, si preparava in realtà ad accogliere quel preciso giorno.
Covava una fine, la loro.
(Si ricorda di quando lo tamponarono in auto. Mattia aveva fatto una falsa
partenza, l’auto dietro non era riuscita a frenare in tempo. Lui e l’altro
automobilista compilarono il modulo della constatazione amichevole sul
cofano dell’auto di Mattia, ai bordi della strada. Durò molto poco, poi
entrambi tornarono a casa.)
Luna park
Ovviamente nel cervello di Mattia non c’è nulla che non vada. Nulla che le
apparecchiature possano rivelare, almeno.
E allora cos’ho?, domanda all’oculista a cui ha portato i risultati.
Dall’occhio sinistro Mattia ogni tanto ci vede male come prima
dell’intervento laser, quando ha una delle sue crisi gli sembra di impazzire.
Spasmo del nervo ottico, risponde quello. Ci ho pensato, mi sembra
l’unica possibilità.
E quindi?
E quindi è come se il tuo occhio avesse... ripristinato le condizioni visive
di qualche anno fa.
Gli assicura che quel disturbo, così come è arrivato, se ne andrà.
Cesoie
Bianco
Quel giorno stesso, non appena Mattia metterà piede in negozio, il capo –
sistemandosi il berretto – gli dirà che è costretto a chiudere la videoteca.
Anche se hanno alcuni clienti fedeli, i costi complessivi dell’attività sono
diventati troppo alti. Ma gli verrà versato comunque l’ultimo stipendio, lo
rassicurerà il proprietario.
E quando Mattia, dispiaciuto ma sollevato, gli dirà con totale assenza di
tempismo: Questo comunque non era più il mio posto, il proprietario gli
risponderà stringendo gli occhietti piccoli: Questo non è mai stato il tuo
posto.
Farà per andarsene, quando l’uomo – Mattia ormai sulla soglia, l’ultima
volta in cui può contemplare le luccicanti locandine dei film – gli dirà: Ah,
poco fa ti ha cercato uno.
Gli allungherà un foglietto con su appuntato un numero di telefono:
cugino di tua madre, ci sarà scritto accanto.
Profondo è il pozzo del passato
C’era stato un periodo in cui le persone intorno a lui – visto che Mattia era
spesso in città, dove c’erano i suoi studi, le sue amicizie, e si pensava anche
la sua vita adulta – gli ripetevano «devi trasferirti». Intanto la sua ragazza,
un’estate dopo l’altra, giustamente pretendeva «devi venire in vacanza con
me». E gli amici, quando li sentiva al telefono, continuavano a dirgli «devi
uscire con noi»... Era come se tutti volessero sottrargli ore preziose in cui
poteva stare con la madre viva.
Il tempo ora è esploso prendendo direzioni inutili: il passato – fatto di
colori pastello, di tinte morbide e rassicuranti – è stato chiuso nella bara con
lei, il futuro – una luce in lontananza che ondeggia a ogni passo – si è
polverizzato. Resta un presente virato al seppia: quelle tonalità di colore di
cui spesso abusa chi ha da poco la videocamera, e cerca effetti visivi
particolari.
(Da qualche parte procede una linea temporale dove lei continua a vivere,
dove loro due esistono ancora come madre e figlio. Ma non è mai un
pensiero consolatorio. Perché questa vicinanza di spirito – che c’è, deve
esistere, Mattia ne è convinto: se due persone sono state tanto legate in vita
qualcosa dovranno avere smosso nell’ordine del cosmo – lo costringe a
domandarsi a quante di queste unioni lui non abbia accesso.)
1300
(Il giorno precedente, sul sedile del passeggero, ha trovato un capello della
sua ragazza – della sua ex ragazza, deve iniziare a pensarla così. Mattia si è
leccato l’indice come faceva sua madre alla posta quando contava le
banconote e l’ha poggiato sopra il capello, che subito si è incollato
all’epidermide. Portandoselo vicino agli occhi, ha osservato con meraviglia
quella microcarezza che chissà quanto tempo prima la sua ragazza aveva
abbandonato lì per lui.)
Quando si risveglia sono le otto del mattino, ha passato la notte sul divano.
Ha una gamba indolenzita e il segno del cuscino sulla faccia.
Indossa la giacca sopra il pigiama, vuole fare una passeggiata in cortile
per sgranchirsi un po’. Ma non appena s’infila una mano in tasca, trova un
foglietto: il numero del presunto cugino della madre. Come un automa,
compone sul cellulare quella sequenza di cifre.
Che vuoi?, lo aggredisce quando l’altro risponde al telefono con voce
assonnata.
Scoprirà allora che l’uomo – effettivamente un cugino di terzo grado
della madre, che abita in un’altra regione e di cui nessuno aveva fino ad
allora sospettato l’esistenza – possiede una foto di Mattia bambino, ritratto
insieme alla madre durante una rara visita presso casa sua. Vuole fargliene
omaggio perché ha scoperto molto tardi che lei è morta, e chiede l’indirizzo
a cui inviarla. Mattia gli detta il recapito, cercando di trattenere le lacrime.
(Si dice che i fantasmi perseguitino gli umani che hanno abbandonato la
casa dove essi risiedono.)
Ci sarà un punto, nel suo futuro, ancora così lontano da non poter essere
immaginato, in cui supererà l’età della madre. Avrà cinquantacinque anni,
Mattia, e vedrà cosa c’è al di là di quel punto.
Linea libera
Mattia estrae dalla tasca il telefono, e tenendo fissi gli occhi sull’uomo
addormentato chiama il numero di lei.
Ma a differenza delle altre volte in cui l’ha fatto, quel giorno la voce
registrata – che per un certo periodo gli ha detto che la persona cercata non
era disponibile, e poi lo ha informato che quel numero non era più attivo –
adesso non c’è più. È stata sostituita da uno squillo di linea libera, e Mattia
per poco non perde l’equilibrio sentendo quel suono solleticargli il timpano.
Poi un altro squillo, e un altro ancora – come una condanna. Sta per
riattaccare, quando una voce maschile dice: Sì?
Sembrerebbe un ragazzino. Mattia tentenna – cosa mai potrebbe dirgli? –
e riattacca. Poi d’istinto spegne il telefono, e solo allora capisce: il numero
che è appartenuto a sua madre è stato riassegnato a qualcun altro. Succede.
Del resto ogni cosa viene sostituita da un’altra, e lui non potrà di certo
opporsi.
(Un giorno, forse, potrà dire quella frase che dicono i registi: Sto girando un
film. Gli piace quel gerundio, perché è un verbo che si contraddice
all’evidenza: in quel preciso attimo quei registi sono intervistati, stanno
facendo altro, non stanno girando un film. È come quando affermi: Sto
leggendo un libro molto interessante, e lo dici stando in piedi alla fermata
dell’autobus con le mani in tasca. Sono verbi in cui passa la vita, in mezzo
alle azioni soffia l’alito delle cose che accadono, le pagine che leggi si
riempiono d’aria e di pensieri, le immagini che filmi si gonfiano di azioni e
di parole.)
Se «metastasi» significa anche «cambiamento», ora il figlio è pronto ad
affrontare quelli che gli si pareranno davanti. E che venga pure,
quell’anniversario. E quello dopo, e poi quello dopo ancora.
Subdoli, arriveranno anche gli anni della disperazione. Perché non è vero
che perdere un genitore a ventisei anni fa diventare adulti più in fretta:
Mattia resterà a lungo cristallizzato nella sua adolescenza.
Si è orfani una volta e per sempre.