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1) IL CINEMA DELLE ORIGINI

La prima proiezione pubblica a pagamento di immagini in movimento ebbe luogo il 28


dicembre 1825 a Parigi, presso il Salon Indien del Grand Café di Boulevard des Capucines, al
costo di un franco. I promotori erano i fratelli Lumière. In realtà l'invenzione del
cinematografo è un fenomeno internazionale che coinvolge tutti i paesi economicamente
più avanzati. nel 1891 negli Stati Uniti, Thomas A. Edison mette a punto il Kinetoscopio: Il
dispositivo consente la visione di un brevissimo film a un solo spettatore per volta, che si
china sull'apparecchio e vedere immagini in movimento attraverso un mirino. L'apparecchio
brevettato dai Lumière richiede: la proiezione su grande schermo, una pellicola su supporto
flessibile (CELLULOSA), Un trascinamento regolare della pellicola a 16 fotogrammi al
secondo, un movimento intermittente della ripresa. Il cinématographe Sintetizza molte delle
innovazioni elaborate da altri ricercatori, fornendone la sintesi tecnologica pronta per lo
sviluppo commerciale.
Nel giro di pochi anni si inizia a valorizzare la messa in scena e il film narrativo a scapito delle
riprese dal vero. Si precisa Inoltre la distinzione di ruoli tra l'operatore è la nuova figura del
regista. Il cinema diventa la forma di spettacolo più popolare. Nascono un po' ovunque le
prime sale cinematografiche permanenti che affiancano le imprese ambulanti. Il fenomeno
è particolarmente vistoso negli Stati Uniti, dove dopo il 1905 si moltiplicano i cosiddetti
nickelodeon. Si tratta di locali espressamente dedicati al cinema che attirano un pubblico
popolare. L’aumento esponenziale della domanda di film sollecita un passaggio alla
produzione di massa. Il paese più forte è la Francia. Un'altro grande Polo produttivo è
l'Italia. Tra il 1908 e il 1914 la qualità di successo dei film italiani sono un fenomeno
mondiale. L'Italia si specializza nella produzione di film storici monumentali per raggiungere
il successo più significativo con Cabiria del 1914 di Giovanni Pastrone. Gli altri generi
privilegiati dal cinema muto italiano sono il melodramma mondano di sfera dannunziana.
Dopo il 1908 la produzione assume dimensioni industriali. Dal 1906 nascono le le serie
comiche. Cambiano anche le forme dello spettacolo: il cinema narrativo diventa l'opzione
quasi esclusiva mentre alcuni generi entrano in crisi. I primi anni 10 segnano la rapida
espansione dell'Industria cinematografica americana: l'area centrale della produzione si
sposta da New York a Los Angeles, e in particolare nel piccolo sobborgo di Hollywood. La
California, che garantisce ottime condizioni climatiche per le riprese in esterni e
un’articolata varietà di paesaggi, diventa la meta privilegiata di case indipendenti. Le
cinematografie europee tendono a differenziarsi sempre più come scuole nazionali anche
per l'autonomia creativa dei singoli registi. Dopo il 1916 il cinema americano impone al
mondo un'egemonia che dura ancora oggi. Il cinema statunitense, nel corso degli anni 10,
mette a punto un apparato industriale di straordinaria efficienza. Le piccole compagnie di
distribuzione e produzione tendono a fondersi in aziende più grandi a concentrazione
verticale. Nascono nel corso del decennio l’Universal, la Paramount, la Warner Bros., la Fox
Film. La novità più importante in questa prospettiva è la nascita dello Star System. Se nel
cinema dei primi anni il nome dell'interprete non era nemmeno indicato nei titoli di testa o
nei manifesti pubblicati, a vantaggio del marchio della casa di produzione, adesso invece si
fa dell'attore principale il veicolo pubblico pubblicitario del film e fulcro del processo
produttivo.

M.R.P (MODO DI RAPPRESENTAZIONE PRIMITIVO)


Il linguaggio del cinema subisce un lungo processo di elaborazione interna che dura almeno
20 anni ( dal 1895 al 1917 circa, ma l'arco temporale varia molto a seconda dei diversi
contesti nazionali)
I cineasti delle origini del cinema ( operatori, registi, pionieri in generale) contribuiscono,
ciascuno a suo modo, all'evoluzione del linguaggio, ma i loro film risultano ancora costruiti
su una concezione arcaica del medium cinematografico. Noël Burch chiama tale concezione:
MODO DI RAPPRESENTAZIONE PRIMITIVO. L’elemento fondante del MRP Risiede in una
concezione tendenzialmente autonoma dell'inquadratura l'inquadratura del cinema
primitivo presenta alcuni elementi caratteristici: un'illuminazione uniforme, la cinepresa
tendenzialmente fissa è in posizione prevalentemente frontale, l'uso frequente del fondale
dipinto, il mantenimento di una considerevole distanza tra la macchina da presa e gli attori.
La concezione del piano come entità autonoma implica ovviamente una diversa logica di
montaggio punto si parla infatti di un montaggio non continuo, nel senso che non è ancora
stato messo a punto un sistema di raccordi tra le inquadrature che fluidifica l'inevitabile
discontinuità prodotta dai cambi di inquadratura. Conseguentemente può accadere che nel
passaggio tra due inquadrature si apra una brusca ellissi.
Il MRP (1895-1917) può essere suddiviso in:
1) Fase delle attrazioni mostrative (fino al 1908 ca.)
2) Fase dell’integrazione narrativa

M.R.I (MODO DI RAPPRESENTAZIONE ISTITUZIONALE)


Il passaggio dal cinema delle attrazioni al cinema dell'integrazione narrativa implica anche
un cambiamento nelle relazioni tra il film e lo spettatore. Nel regime dell’attrazione c'è uno
spettatore che guarda è un attore che sa di esibirsi di fronte al pubblico. Al termine del
processo di evoluzione del MRP, il linguaggio cinematografico raggiunge una configurazione
stabile. Burch definisce tale configurazione MODO DI RAPPRESENTAZIONE ISTITUZIONALE.
Essa corrisponde in buona parte al concetto di cinema classico. si tratta di un'impostazione
che le narrazioni audiovisive ad un certo livello conservano tuttora, nonostante le molte
innovazioni tecnologiche che sono intercorse (in primis l’introduzione del sonoro nel 1927) E
che naturalmente modificano in modo sostanziale la nostra esperienza di spettatori.

VISIONE E SPETTACOLO: LUMIÈRE, MÉLIÈS


Nella storia del cinema, I fratelli Lumière sono rimasti il simbolo dell'utilizzo del cinema
come apparato capace di cogliere la vita sul fatto (vocazione realistica). Méliès invece ha
mostrato subito come il cinema possa essere adoperato anche in una direzione
completamente diversa, ossia favorendo le riprese in teatro di posa, per mettere in scena
trucchi ed evocare mondi di fantasia (tendenza all’invenzione, alla finzione, alla
manipolazione dell’immagine). Sia i Lumière che Méliès in ogni caso uso nel cinema come
forma di attrazione spettacolare. La dimensione narrativa è invece ancora minoritaria in
entrambi i casi: pur essendo loro film diversissimi, essi tendono In ogni caso a lavorare non
sull'articolazione di un racconto complesso, ma in base ad una logica della mostrazione, per
fare sfoggio della nuova tecnologia e della sua potenza immaginifica.
Il film Lumière è un prodotto in serie, è costituito da una sola inquadratura di circa 50
secondi. La cinepresa è quasi sempre fissa, ma a volte è collocata su un supporto mobile, si
privilegia la veduta di un insieme, con un angolazione di ripresa preferibilmente decentrata
per evitare l'intasamento prospettico della ripresa frontale. Sul piano compositivo
l'immagine Lumière è centrifuga, nel senso che il movimento degli oggetti deborda i limiti
del quadro. Si pensi per esempio alla traiettoria del treno ne L’arrivée d’un train à la Ciotat:
il suo ingresso nel quadro fisso genera una sensazione di dinamismo, e l'uscita della
locomotiva oltre il quadro ricorda allo spettatore l'esistenza di uno spazio fuori campo
potenzialmente illimitato. I film Lumière non si impongono a lungo sui mercati: già a partire
dal 1898 la produzione accusa una netta recessione.
George Méliès è I primi a concepire la produzione di film nei termini dell'invenzione artistica
e del lavoro di messa in scena. Méliès rileva la gestione del teatro Robert Houdin. Sul piccolo
palcoscenico di questo teatro Méliès allestisce degli sketch in cui mescola numeri di
prestidigitazione, trucchi, scenette comiche. Méliès si concentra sulla produzione di film a
trucchi, trasformando il suo interesse per il cinema in un’imponente attività imprenditoriale.
fonda una casa di produzione, la Star Film. Méliès frequenta tutti i sottogeneri del film a
trucchi: dalla scenetta con giochi di prestigio ai viaggi immaginari. i procedimenti più
utilizzati sono l'arresto/sostituzione (arresto della ripresa, sostituzione di uno o più elementi
della scena, nuovo avvio della ripresa: la continuità apparente della ripresa veniva poi
ripristinata in sede di montaggio) e la sovrimpressione (che gli consente di giocare con una
sua ossessione, lo sdoppiamento e la scomposizione del corpo). L'unità di base dei suoi
racconti è sempre la singola scena. La cinepresa è tendenzialmente fissa, gli elementi
dinamici sono spesso un'illusione legata al movimento di elementi interni al profilmico.
questa immobilità, del punto di vista può sembrare paradossale, perché il tema narrativo
prediletto da Méliès è il viaggio. Questi elementi caratteristici del cinema delle attrazioni
non escludono comunque la presenza sporadica in strategie di racconto legate al
montaggio. nel finale di Le Voyage dans la Lune, per esempio, l'astronave precipita verso la
terra, si vede il proiettile uscire rapidamente di campo. Nell'inquadratura successiva il
proiettile è ripreso nel momento del tuffo nell'oceano. Nella terza inquadratura il proiettile,
visto attraverso un acquario, si infila nell'oceano e finisce sul fondo.

LA SCUOLA DI BRIGHTON
Un contributo decisivo ad accelerare il processo di evoluzione del linguaggio
cinematografico verso il modo di rappresentazione istituzionale viene riconosciuto a una
serie di cineasti inglesi operanti nel primo decennio del Novecento e che la storiografia
cinematografica accomunato sotto l'etichetta impropria di scuola di Brighton, dal nome
della città dove lavoravano solo alcuni di loro (George Albert Smith e James Williamson). In
realtà, questi cineasti, che hanno dato vita ai primi esperimenti compiuti di montaggio, si
conoscevano l’un l’altro ma non hanno mai collaborato insieme, non hanno avuto contatti
diretti, quindi ben difficilmente si possono definire una scuola.
Nei film dei pionieri inglesi si nota in primo luogo un'attenzione per la componente
attrazionale del trucco. Alcune tra le opere più riuscite di James Williamson sono quelle in
cui il debole pretesto narrativo è sorretto dall’efficacia del trucco. L’attrazione è spesso
anche il frutto di un gioco con il cinema stesso. In The Big Swallow, in particolare, un signore
che non vuole farsi riprendere si avvicina minacciosamente alla cinepresa fino ad occupare
l’interezza del quadro, spalanca la sua bocca ripresa in primissimo piano e inghiotte
l'apparecchio e l'operatore. La tendenza alla divisione dell'azione in diverse inquadrature
correlate ed è evidente in un film di Smith del 1899: The Kiss in the Tunnel: Qui l'azione è
sezionata in tre inquadrature ( il treno che entra nella galleria, l'interno dello
scompartimento con i due amanti che si baciano, il treno che esce dalla galleria). Grandma’s
Reading Glass di Smith è costruito sull'alternanza tra le inquadrature in campo totale di un
bambino e una nonna seduti allo stesso tavolo, e le inquadrature in piano ravvicinato degli
oggetti che il bambino vede attraverso la lente di ingrandimento della nonna.

2) L’AFFERMAZIONE DEL CINEMA NARRATIVO


Tra i registi che contribuiscono a fare del film di finzione la principale risorsa dell'Industria
cinematografica americana, Edwin S Porter e certamente il più significativo. Il contributo di
Porter è importante proprio perché si muove tra soluzione tipiche del MRP e strategie che
prefigurano le soluzioni narrative del MRI. Il film più celebre di Porter è The Great Train
Robbery che mescola elementi tipici del cinema delle attrazioni con importanti conquiste sul
piano della narrazione. il film racconta in 14 inquadrature la storia di una banda di rapinatori
che assalta un treno. Il montaggio cerca di costruire una certa continuità spazio-temporale
tra le inquadrature, ma non riesce ancora a rappresentare la simultaneità delle azioni con un
montaggio alternato. In The Great Train Robbery quindi coesistono delle inquadrature con
funzione puramente narrativa e piani più vicini ad una logica mostrativo-attrazionale.

NICKELODEON: LA NASCITA DELLE SALE


A partire dal 1905, esplode il fenomeno dei Nickelodeon, piccole sale da 200 posti situate
nei quartieri centrali di città e frequentate soprattutto da operai, segretarie, immigrati,
ragazzi: un intrattenimento alla portata di tutti, visto che il prezzo era appunto di un nichel. I
Nickelodeon offrivano programmi composti da numerosi film, che cambiavano
continuamente. I gestori Infatti, anziché comprare i film (come avveniva prima) li
noleggiavano, e quindi potevano variare di più la programmazione. Nei primi anni del boom
Nickelodeon, il mercato è ancora dominato dalle case europee, ma proprio alcuni gestori di
sale faranno fortuna e fonderanno grandi studios statunitensi.
NASCITA DEL LUNGOMETRAGGIO
Il cinema americano (come quello europeo) cerca di legittimarsi sul piano morale e
culturale, recuperando il consenso delle classi borghesi e colte. Questa finalità e il
consolidamento del sistema sale porta i produttori a investire il film dal respiro narrativo più
ampio, e dalla durata maggiore. Per alcuni anni, lo standard produttivo rimane quello di una
bobina (one reel, 200 mt., circa 12’ per 16 fot./sec). Ma Il successo di alcuni film europei
(francesi e italiani) più lunghi, spinse anche i produttori americani ad aumentare la durata,
portandola a 3 rulli in media intorno al 1911. Tra i primi lungometraggi americani c'è Oliver
Twist (1912, 5 rulli), una Passione di Cristo (From the Manger to the Cross; Sidney Olcott,
1912, 5 rulli) e un Riccardo III tratto da Shakespeare (Richard III; André Calmettes, James
Kean, 1912, 5 rulli).

DAVID W. GRIFFITH (1875-1948)


Un ruolo decisivo in questi cambiamenti che condurranno alla nascita del Mri è svolto da
David Wark Griffith. Nell'estate del 1908 Griffith e scritturato dalla Biograph of come regista.
Griffith si concentra in particolare sulle diverse opzioni di montaggio, ma studia anche le
risorse drammatiche della profondità di campo, è attirato dal dinamismo della composizione
interna al quadro e dall’eloquenza simbolica dei dettagli dei primi piani, dei contrasti di luce.
L’oggettiva importanza della sua attività si esprime piuttosto in un lavoro di sistemazione di
messa a punto delle risorse linguistiche spettacolari del cinema, finalizzato alla radicale
trasformazione del mrp. Questo lavoro si pone due obiettivi fortemente correlati: da un
lato si tratta di rendere comprensibili strutture narrative sempre più complesse, dall'altro
lato si vuole investire il cinema di responsabilità e ideologiche morali. Una delle
preoccupazioni dominanti di Griffith è quella di costruire attraverso il montaggio un
universo continuo e omogeneo a partire da un materiale essenzialmente discontinuo e
frammentario (le inquadrature). Questo sistema del racconto in formazione offre dunque
allo spettatore un punto di vista sempre più capace di spostarsi con relativa disinvoltura tra
spazi e tempi diversi. L'ubiquità dell'istanza narrante e la sua aspirazione al pieno
coinvolgimento dello spettatore sono particolarmente evidenti nella più nota tra le strutture
formali messe a punto da Griffith: il montaggio alternato. Grazie al montaggio alternato lo
spettatore inizia a capire che la successione tra due inquadrature non solo può significare
una relazione prima-dopo tra la prima e la seconda inquadratura, ma può anche esprimere
una relazione di simultaneità tra due azioni. La variante più celebre di questo meccanismo
sospensione/rinvio è il last minute rescue (salvataggio all'ultimo minuto). I suoi film sono
attraversati da un umanitarismo disincantato ma in fondo ottimista, da un’esaltazione dei
valori della comunità, dal mito della nuova nazione, da un tormentato manicheismo
puritano. L'attenzione ricorrente ai pericoli sociali aspira sempre alla ricomposizione
dell'unità familiare. Il lieto fine diventa la forma narrativa privilegiata di questa ideologia
della riconciliazione. L'inserzione del primo piano crea spesso un effetto di discontinuità. Il
valore del primo piano griffithiano eccede spesso la sua funzione narrativa, per assumere
una valenza simbolica quasi universale, soprattutto nel trattamento dei volti. Il volto in
primo piano è una valenza espressiva che allontana per un istante lo spettatore dal
racconto, per trasformare il personaggio stesso in emblema di una particolare condizione
interiore o sociale.
NASCITA DI UNA NAZIONE (1915)
Il film ricostruisce la storia della guerra civile americana (1861-65) attraverso le vicende di
due famiglie, una del Nord (Stoneman) e una del Sud (Cameron). Griffith aveva avuto un
rapporto diretto con la guerra. Il padre aveva combattuto dalla parte dei confederati sudisti
e del figlio era dunque cresciuto tra i racconti della guerra. A teatro, Griffith aveva
interpretato già il ruolo di un soldato sudista, e nel cinema ha dedicato ben 11 film di un
ruolo di guerra civile. Il film era tratto da The Clansman, un romanzo di Thomas Dixon del
1905, e fu presentato per la prima volta a Loving Opera House di Los Angeles nel giorno di
capodanno 1915, con il titolo originale e proiettato in 12 rulli. La locandina mette in
evidenza il fatto che il film era costato cinquecentomila dollari e ci erano voluti sei mesi di
riprese. in realtà il film costò circa 110000 dollari ma ne incassò oltre 10 milioni.
La prima ufficiale ci fu l’8 febbraio 1915 sempre a Los Angeles, preceduta da una Sfilata del
Ku Kux Klan. Il film Infatti esalta le gesta dei suprematisti bianchi del KKK. Proiettato in una
proiezione speciale alla Casa Bianca, il film fu esaltato dal Presidente Wilson, autore di una
controversa storia del Popolo americano, e compagno di scuola di Thomas Dixon, era stata
una delle fonti più seguite da Griffith, non solo sul piano della documentazione storica ma
anche sul piano dell'interpretazione, tesa a giustificare la nascita del KKK come risposta alla
violenza dei neri nel periodo della ricostruzione successivo alla guerra civile. Solo a New York
dove il film uscirà a marzo, fu proiettato per 44 settimane. Ma Nascita di una Nazione
attrasse subito anche controverse notevoli. Una prima campagna fu agitata già a febbraio
dal NAACP (National Association for the Advancement of Colored People, fondata nel 1908)
e da altre associazioni per i diritti civili. Il film fu vietato in diversi stati e numerosi storici
intellettuali denunciarono le inesattezze storiche del film. Ciononostante, la polemica ebbe
anche un effetto pubblicitario sul film, che continuò ad essere proiettato, tanto da
rappresentare il film muto più popolare in assoluto. Il KKK, che attraversava una fase di
appannamento, fu rinvigorito dal film ed i suoi membri organizzano parate celebrative in
grandi città arrivando a contare 5 milioni di associati. Griffith reagì a queste campagne
pubblicando un opuscolo dal titolo The Rise and The Fall of Free Speech in America, In cui
ribadì con forza le sue posizioni, lamentando l'ingiustizia delle accuse a suo dire ricevute. In
Europa il film venne distribuito solo dopo la prima guerra mondiale (in Francia per esempio
nel 1921) e in versioni tagliate: il suo impatto fu perciò ridotto e ritardato. Nonostante
l'ideologia aberrante che porta avanti, denunciata anche qualche anno fa da Spike Lee nel
suo BlacKKKlansman (2018), Ma rimane un'opera di capitale importanza per lo sviluppo del
linguaggio e delle tecniche di racconto nel cinema americano e internazionale.
INTOLERANCE (1916)
Con il film successivo, Intolerance, Griffith realizza un film dalle ambizioni ancora più vaste. il
regista intende offrire una rappresentazione del tema dell'intolleranza attraverso i secoli, e
per farlo costruisce una struttura narrativa innovativa, articolati in quattro episodi: la caduta
di Babilonia, alcuni momenti il Vangelo, Il massacro degli Ugonotti (i protestanti francesi)
nella Parigi del 500, una storia contemporanea di conflitti sociali, con il leitmotiv ricorrente
di una madre che dondola una culla. Un altro film mastodontico, per budget e per durata
(tra i 176 e 197 minuti, a seconda delle diverse copie preservate).
L'episodio babilonese è ispirato al filone storico-epico italiano ed in particolare al grande
successo riscosso da Cabiria (Giovanni Pastore, 19149. Primo film prodotto dalla Italia Film
di Torino, questo peplum ambientato durante le guerre puniche rappresenta il prototipo del
“film d'arte” italiano: le didascalie sono di Gabriele D'Annunzio, all'epoca massimo vate della
letteratura italiana.
L'episodio biblico rinvia alla tradizione delle prime passioni cinematografiche (una
successione di tableaux vivants).
L'episodio dedicato alla strage cinquecentesca dei protestanti francesi è invece ispirato al
cosiddetto Film d’Art transalpino, un filone ma anche una vera e propria casa di produzione
attiva tra il 1908 e il 1911 ed intenta a recuperare al cinema il pubblico più colto.
L'Assassinat du Duc de Guise (Charles Le Bargg, André Calmettes, 1908) era stata la prima
pellicola prodotta e poteva contare sull’interpretazione degli attori della Comédie Française
e sulla musica di Camille Saint- Saëns.
L'episodio contemporaneo invece riprende e sviluppa i temi della sperequazione sociale già
affrontati da Griffith in alcuni film Biograph. Griffith imprime al film un'accelerazione
progressiva: da un inizio lento, che consente allo spettatore di inserirsi nei differenti contesti
narrativi, si passa gradualmente alla corsa vertiginosa del finale: verso la conclusione si ha
quasi la sensazione che le storie tendono a fondersi l'una nell'altra. L'aumento
dell'interazione patetica tra i diversi episodi sottolinea il loro comune precipitare verso
l'eventualità di una vittoria dell'intolleranza.

3) IL CINEMA SOVIETICO DEGLI ANNI VENTI E L’OTTOBRE DEL CINEMA


Febbraio 1917: lo zar Nicola II viene deposto, il potere nelle mani di un governo provvisorio,
con a capo il partito riformista (menscevichi)
Ottobre 1917: il partito radicale dei bolscevichi, capeggiato da Lenin, prende il potere. Nasce
l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS).
L’OTTOBRE DELLE ARTI
Parola d’ordine: cancellare la tradizione artistica borghese a favore del proletariato della
fabbrica. L'arte non viene più concepita come un'emanazione dello spirito, come la
manifestazione di una genialità creativa individuale, ma come una pratica sociale, capace di
veicolare stimoli, emozioni, idee e modi di pensare politicamente.
Teoria cubo-futurista di Majakovskij, teatro sperimentale di Mejerchol’d, esperienze della
biomeccanica, del costruttivismo.
Sono anche gli anni della teorizzazione dei formalisti russi (Sklovskij, Tynjanov, Ejchenbaum,
Brik): L'opera d'arte è concepita come una struttura, e come tale si cerca di studiare la
possibilità di sfruttare tale struttura per una riflessione che sia estetica e politica. In questo
studio della struttura, per il cinema risulta essenziale il montaggio, che viene usato per
disautomatizzare la percezione abituale creando associazioni innovative. Questo periodo di
incredibile vivacità sperimentale termina poi con l'arrivo del cinema sonoro, e soprattutto
con la crescita del potere di Stalin alla fine degli anni Venti, che vuole allineare l'arte
Sovietica ed i dettami del realismo Socialista.
LEV KULEŠOV
Prima scenografo, poi regista e insegnante alla VGIK (Università Statale pan-russa di
Cinematografia), Avvia una serie di esperimenti, sulla base di materiale di repertorio, che
dimostrano la centralità del montaggio, considerato base estetica del film. Con il cosiddetto
esperimento di Kulešov, realizzato a partire da 3 primi piani identici dell'attore Ivan
Mozžuchin e tre diverse inquadrature, dimostra come il senso ultimo del film derivi dal
montaggio e venga aggiunto dallo spettatore. Molti tra i registi degli anni 20 si
ricollegheranno a questa lezione. Tra questi Ejzenštejn, suo allievo.
SERGEI M. EJZENŠTEJN
Ejzenštejn adopera il montaggio come conflitto: bisogna accostare inquadrature in contrasto
tra loro, per ingenerare insieme shock e pensiero (il “cine-pugno”). Ejzenštejn Teorizza il
montaggio delle attrazioni: egli mira cioè ad indurre nello spettatore una reazione psico-
sensoriale che lo faccia uscire da sé, conducendolo ad una presa di coscienza che ponga fine
agli automatismi della percezione e della riflessione: estasi dal greco ἔκστασις, Ekstasis
(uscita da una posizione statica e passiva). Le attrazioni non sono in contrapposizione con un
approccio riflessivo: anzi, esse sono finalizzate alla ricezione di un messaggio ideologico. Il
montaggio di Ejzenštejn è perciò anche un montaggio intellettuale.
● Sciopero (1925): Ripercorre uno sciopero del 1912; famosa la scena finale della
strage degli scioperanti
● La corazzata Potëmkin (1925): Ripercorre la rivolta antizarista del 1905; celeberrima
la scena della scalinata di Odessa (parodiata e omaggiata da Fantozzi), perfetto
esempio di montaggio ritmico
● Ottobre (1927): Il montaggio intellettuale raggiunge i suoi risultati più compiuti,
soprattutto nelle sequenze che illustrano la vanità e le tentazioni autoritarie di
Kerenski.
● Altri suoi grandi film saranno: Que viva Mexico! (1933), Aleksandr Nevskij (1938) e
Ivan il Terribile (1944 e 1958)
DZIGA VERTOV
Dziga Vertov (pseudonimo di Denis Arcad’erič Kaufman), Arriva al cinema durante la guerra
come cineoperatore di attualità, con alle spalle studi di musica, letteratura e medicina.
realizza prima cinegiornali (kiropravda) e poi, lavorando su materiali di repertorio, film di
montaggio, appoggiandosi a una cellula di Kiroki che comprende il fratello Michail
(cineoperatore) e la moglie Elizaveta (montatrice). Se Ejzenštejn parla di cine-pugno, lui
parla di “cine-occhio”. Secondo Vertov, “Il Cine-dramma è l'oppio dei popoli”, il cinema
tradizionale è uno strumento di asservimento delle classi subalterne. Viceversa, il cineocchio
e un occhio più perfetto di quello umano, capace di cogliere la vita alla sprovvista,
catturarne l'essenza. Tagli rapidi e ritmici, sovrimpressioni, composizioni anomale, schermo
diviso in due parti, riprese in velocità: il montaggio serve a organizzare il visibile, senza
passare per la sceneggiatura o la storia. E in questo modo, il montaggio, e in generale lo stile
di un cinema che sfrutti davvero le potenzialità del cineocchio, serve anche a oggettivare il
punto di vista del proletariato.
L’UOMO CON LA MACCHINA DA PRESA (1929)
La didascalia iniziale recita: "L'uomo con la macchina da presa, registrazione su 6 rulli. Si fa
presente che questo film è un esperimento di trascrizione cinematografica dei fenomeni
visibili, senza didascalie, senza scene, senza teatri di posa. Questo lavoro sperimentale ha
per fine la creazione di un linguaggio cinematografico assoluto, autenticamente
internazionale, sulla base di una piena separazione dal linguaggio della letteratura e del
teatro"

4) L’ESPRESSIONISMO TEDESCO
1918: Armistizio; inizio della crisi economica; moti rivoluzionari e istituzione della
Repubblica di Weimar
1919: La sconfitta della sinistra radicale porta ad un governo liberale; Trattato di Versailles
(richiesta di risarcimenti da parte dei paesi vincitori)
1923: Superinflazione (pagano pensionati e dipendenti pubblici; guadagna la grande
industria che produce per l’esportazione)
1933: Presa del potere del Nazional-Socialismo
La Germania conosce nel dopoguerra un'affermazione cinematografica di particolare livello,
grazie ad un'industria quanto mai articolata ed efficiente, seconda solo a quella americana.
L’industria tedesca si avvale di una organizzazione funzionale della produzione. Alla nascita
di numerose case di produzione già negli anni ‘10,si contrappone poi negli anni ‘20 una
tendenza verso la fusione di diverse società, che trova nella costituzione dell'UFA
(Universum Film Aktiengesellschaft) il momento di maggiore rilevanza. Fino al 1926 la
produzione tedesca segue una politica articolata che punta a creare un nuovo pubblico,
coinvolto nei progetti narrativi e spettacolari, ma insieme è attenta alla creazione di una
nuova esperienza di cultura di massa. Il cinema tedesco si propone insieme di porre la
cultura artistica, architettonica, teatrale e letteraria a servizio del nuovo medium, e di
sfruttare i valori culturali come elementi di assicurazione della validità del prodotto
cinematografico e della sua vendibilità. Non solo la cinematografia tedesca può contare su
architetti scenografi di prim’ordine, ma si avvale anche della collaborazione di scrittori,
drammaturghi, pittori che garantiscono un'interazione continua tra il gusto e le immagini
filmiche e i rispettivi universi culturali e artistici. Questa ricchezza di contributi non è poi
limitata alle esperienze più apertamente estetiche del cinema tedesco negli anni 20, ma
investe anche il cinema di genere.
Il cinema espressionista effettua una sintesi radicale e tra immaginario e stile, realizzando
attraverso una valorizzazione particolare del lavoro di messa in scena, una forma espressiva
di particolare intensità. Il cinema espressionista è certo segnato in primo luogo da una
ricerca forte sulla configurazione dell'immagine e quindi sullo spazio e sulla scenografia che
le inquadrature possono esaltare. Tutti gli elementi della scena (profilmico) sono rielaborati
in modo artificiale per affermare l'incisività e la forza espressiva. La messa in scena coordina
tutte le componenti per ottenere una forma caratterizzata da un'intensità e da una
vibrazione visiva e spirituale particolare. I contorni delle scenografie sono spesso alterati,
irregolari, segnati da una deformazione esplicita e tendenzialmente irrealistica. Anche i
costumi sono conformi agli spazi e ai personaggi. La tensione, la spinta utopica, l'angoscia, il
dolore, l'ossessione dei personaggi sono direttamente impressi nella materia scenica,
diventano configurazioni oggettive ed espressive grazie al lavoro della regia. La recitazione
degli attori riflette questo rafforzamento dell’espressività e rende più forti i gesti più
sottolineati movimenti, più marcata la mimica che si avvale di un trucco particolarmente
elaborato. Ai fini espressivi essenziale è poi lavoro sull'illuminazione. Il cinema
espressionista scompone il visibile attraverso un uso intenzionale di una luce fortemente
contrastata, mediante la contrapposizione di luci ed ombre. Il montaggio è funzionale
all'esibizione delle configurazioni visive, non è mai troppo rapido, in quanto deve
permettere all'immagine di essere pienamente vista dallo spettatore. I montaggi alternati, i
raccordi sono effettuati con progressiva abilità, segnando un passaggio verso la flessibilità e
la finezza della messa in scena. É un cinema metaforico-intensivo, che valorizza il piano più
della successione delle inquadrature, gli effetti figurativi del piano più di quelli ritmici, la
ricchezza delle componenti visive, informative ed emozionali della scena, più della velocità
dell'azione.
L’AUTORENFILM TEDESCO, ANTECEDENTE DEL CINEMA ESPRESSIONISTA
Lo studente di Praga (S. Rye, 1913) anticipa i temi dell'espressionismo. Tratto da un romanzo
di Hans Heinz Ewers, il film presenta un soggetto faustiano, raccontando la storia di uno
studente che vende il proprio riflesso al diavolo e viene perseguitato dal suo doppio. Una
trama in cui si rintraccia chiaramente l'ispirazione della letteratura fantastica del
Romanticismo ottocentesco (E.T.A Hoffman in particolare).
DOPPI PERTURBANTI
Il cinema tedesco degli anni 10 e 20 è attraversato da tanti doppi e non-morti (cloni, sosia,
Cyborg, vampiri, sonnambuli): tutta una serie di configurazioni che mettono in crisi e in
dubbio l'idea consueta della soggettività e della psiche umana, secondo linee su cui Sigmund
Freud stava riflettendo in quegli stessi anni, proprio a partire dalla letteratura di Hoffman (il
suo saggio sul Perturbante e del 1919). Il perturbante per Freud (in tedesco unheimlich) è
tutto ciò che ci dà ansia perché, se a prima vista ci sembra conosciuto e familiare, nasconde
in realtà un elemento misterioso e sconosciuto. Perturbanti sono ad esempio tutta una serie
di credenze animistiche (attribuzione di personalità e intenzioni agli oggetti) che
confondono i confini tra reale e immaginario, tra umano e non umano. Il cinema è
particolarmente adatto a esprimere l'idea del perturbante perché esso stesso forma di
raddoppiamento fantasmico della realtà.
L’ESPRESSIONISMO CINEMATOGRAFICO
L'affermazione del cinema espressionista è generalmente correlata al successo di Il
gabinetto del dottor Caligari di Robert Weine. Tuttavia altri film legati soprattutto al mondo
fantastico, ma anche al tema dell'identità, sono realizzati negli anni 10 e potrebbero essere
considerati come antecedenti del vero e proprio cinema espressionista: sono lo studente di
Praga di Stellan Rye e il Golem di Paul Wegener. Non bisogna dimenticare infatti che il
movimento espressionista nelle altre arti si afferma alla fine del primo decennio con il
gruppo di Die Brücke e che all'inizio degli anni 10 con la formazione di Der Blaue Reiter è già
in piena espansione.
UN CINEMA EIDETICO
L'espressionismo ha l'obiettivo di mettere la cultura artistica, teatrale, architettonica,
letteraria al servizio del nuovo medium. Non si tratta soltanto di esprimere una specifica
configurazione del gusto, ma una visione del mondo. Si cerca di fare in modo che le
immagini esprimono le idee (cinema eidetico), che i concetti -angoscia, dolore, ossessione-
prendono letteralmente riforma. L'espressionismo realizza insomma una sintesi di
particolare intensità tra immaginario e stile. Un cinema plastico, in cui il visibile si configura
come immediata traduzione in immagini del contenuto psichico e immaginario.

IL GABINETTO DEL DOTTOR CALIGARI


Il film inizia con Caligari che emerge dal basso, come dagli inferi e come dei recessi nascosti
della psiche. E poi si impone sulla scena punto il testo è puntellato di primi piani di caligari,
di grande intensità, che ribadiscono la sua figura come centro della tensione emozionale del
film e del suo narratore.
● Le inquadrature sono tendenzialmente centrate e quasi bidimensionali: i
movimenti di macchina da presa e il montaggio sono ridotti all’essenziale: la regia,
in sostanza, è primitiva.
● L’innovazione è tutta nella resa della scenografia e nell’uso dell’illuminazione e
delle ombre.
● La regia di Wiene è comunque caratterizzata anche dall’uso di una scala dei piani
abbastanza variegata.
Min: 14-25: Il Caligari è una delle molte storie su uno scienziato che supera i limiti consentiti
in un delirio di onnipotenza (un modello su tutti: Frankenstein). Nel rapporto tra lo
scienziato e il mostro, quest’ultimo serve al primo sia come forma di esibizionismo (come
prova della propria bravura) che di mascheramento (per nascondere la propria attività
criminale). In ogni caso Caligari è in una posizione demoniaca di controllo.
Il contesto della fiera e la modalità di presentazione del mostro sembrano rinviare anche ai
meccanismi psichici collettivi in cui si è affermato lo spettacolo nella modernità. In questo
senso, il meccanismo occulto di ipnosi collettiva, con potenzialità mostruose, è anche il
cinema stesso.
Min: 40-50: Jane si mostra curiosa, come andasse alla ricerca di un altro padre, un padre
malefico, fuori dalla legge. Che possa condurla fuori dagli steccati della sua educazione
borghese: verso la sessualità, l’eros. C’è una triangolazione tra padre perverso, suo
rappresentante (Cesare) e figura femminile. Ma forse tra la donna e il mostro, queste due
forme dell’alterità rispetto al controllo maschile patriarcale, si può creare un’alleanza, che
dunque Caligari decide di spezzare.
La scenografia: 4 strategie:
1. Distorsione metodica tramite scene palesemente dipinte
2. Sottolineatura eccessiva degli aspetti essenziali delle configurazioni spaziali
3. Articolazione di colori, linee e macchie nel segno costante del contrasto
4. Mancanza di simmetria e armonia nella composizione dell’immagine
Nel complesso, tramite la sua distorsione, la scenografia sembra quasi viva, richiamando
l’organicismo dell’architettura espressionista.
● Anche i costumi sono stilizzati, e parimenti la recitazione degli attori:
● Conrad Veidt (Cesare) riesce, tramite una recitazione stilizzata e fredda ma
anche iper-espressiva, riesce ad essere non-umano. Il suo stile attoriale
assomiglia alla scenografia: è una sorta di grafismo visivo, come fosse una linea
spezzata.
● Anche Werner Krauss (Caligari) recita nel segno dell’eccesso e dell’intensità, ma
senza essere mai enfatico o stucchevole.
Cruciale l’uso dell’iris: una sorta di primo piano particolare (ci si focalizza sul dettaglio del
volto, ma al tempo stesso si immerge il volto nel nero, nel buio):
● La prima apparizione di Caligari e l’ultima apparizione del direttore
dell’ospedale sono ambedue marcate dall’iris, creando chiaramente una rima.
Epilogo (min: 68-77):Le due sequenze di incarcerazione, quella di Caligari (69.35) e quella di
Francis (75.24) sono speculari: entrambe si concludono con un iris sulla persona che fa
ingabbiare l’altra.
Lo scontro tra Francis e Caligari è il centro di tutto. Si tratta di uno scontro:
● per la libertà
● per il potere
● per Jane (che Caligari vuole controllare tramite Cesare)
● per la verità

Nella sequenza del primo imprigionamento prevale il punto di vista di Francis: inquadrature
dalla spalla e soggettive, Francis è marcato come soggetto guardante.
Nella sequenza del II imprigionamento prevale una messa in scena meno soggettiva e più
oggettiva…
ll nostro protagonista è un malato di mente? O è l’unico sano? Il film ci conduce in un
universo irreale e fantastico, nel cui tessuto si aprono molte crepe e in cui il confine tra
realtà, fantasia, sogno e allucinazione è estremamente labile.
Il film invita lo spettatore a indagare come un detective. Ma l’inquadratura conclusiva, che
dovrebbe sancire la verità ritrovata, ci risprofonda nel dubbio. L’immagine non smentisce del
tutto il narrato, ma lo rende incerto.
Il film ha insomma la forza di strutturare un mistero ma di lasciarlo poi aperto. Il film nasconde
un segreto ma decide di non rivelarlo: è di fatto il primo film enigma della storia del cinema.
Caligari insiste insomma sulla disturbante irraggiungibilità di una verità condivisa e inaugura
una lunga tradizione di narrazioni complesse che culmineranno nei mind game films
contemporanei.
LA FINE DEL MONDO VERO
Il finale ambiguo costringe lo spettatore a convivere con l’incertezza. In questo Caligari è
moderno, perché mette in scena e in forma il dubbio radicale e fondante che sta alla base
della modernità quale età della crisi di ogni assiologia chiara.
Questo discorso sulla perdita di contorni netti della realtà ha una valenza epocale, ed è stato
ricollegato alla filosofia di Nietzsche e alla sua insistenza sulla fine dell’oggettività.
Anche l’identità cessa di essere qualcosa di stabile e fisso. Anziché forte e unitario, il
soggetto è ora scisso, dimidiato e la maschera, il travestimento sono essenziali nella
costruzione dell’io.
La realtà esterna si presenta all’espressionista come mera apparenza, mentre solo
l’interiorità è sentita come vera. Il cinema diventa così un modo di rappresentare la psiche
alterata e le immagini di cui essa si nutre. Con l’espressionismo il medium cinematografico
diventa per la prima volta, e nonostante la sua base fotorealistica, uno strumento per
restituire la potenza e l’importanza dell’irrealtà che attraversa il nostro quotidiano.

5) LA FRANCIA DEGLI ANNI ‘20, LE AVANGUARDIE E IL SURREALISMO


Nonostante il ruolo essenziale nella nascita del cinema svolto dalla Francia, la produzione
nazionale degli anni Venti riflette una situazione meno positiva della contemporanea realtà
tedesca e americana. Essenziale è la ricerca del cinema d'autore francese, definito
variamente “impressionismo”. I film di Delluc, Epstein, Gance, L’Herbier e Dulac Sono
progetti di realizzazione del cinema come arte, affermazione di una concezione particolare
del cinema come evento estetico.Il cinema è considerato come un’arte che dialoga
variamente con le altre Arti. Nel cinema corpi umani, spazi naturali, parti meccaniche,
movimenti del profilmico si mescolano e si intrecciano con i parametri tecnici della
macchina da presa e del montaggio in movimento coerente, formalizzato nello spazio
dell'immagine e articolato nel tempo, secondo un preciso ritmo visivo. Gli autori del
cosiddetto “impressionismo” lavorano prevalentemente su progetti di cinema caratterizzati
da una dicotomia interna. Da un lato soggetti e strutture narrative spesso tratti da romanzi e
racconti di gusto ottocentesco, tradizionale e postromantico, che assicurano lo schema
narrativo e il rapporto comunicativo con il pubblico. Sono soggetti legati a drammi personali
soddisfazione soggettiva e all'impossibilità a realizzare i propri desideri, a causa delle
costruzioni sociali o delle limitazioni imposte dal moralismo stantio. I film più famosi
raccontano storie obsolete, con un taglio e un tono narrativo non poco datato.
L’ETÀ DEL PRIMO PIANO
Secondo Béla Balàzs (L’uomo invisibile,1924): “I primi piani costituiscono la sfera più
peculiare del cinema. Nei primi piani si dischiude la terra inesplorata di questa nuova arte”.
D’altronde non si tratta solo di primi piani dei volti: il cinema svela l'anima delle cose stesse,
recuperando così una forma di percezione tipica dell'infanzia:”Ogni bambino conosce i volti
delle cose e attraversa col cuore palpitante una stanza semibuia, in cui tavolo, armadio e
divano paiono voler dire qualcosa. anche da adulti si può ancora vedere nelle nuvole strane
forme. non c'è nessun arte che abbia una simile vocazione a rappresentare questo volto
delle cose quanto il cinema”. Secondo Balàzs il cinema, ad un certo livello, trasforma
qualsiasi cosa in un primo piano perché dà agli oggetti del mondo un'enfasi e un pathos che
altrimenti non avverrebbe.
FOTOGENIA
Per Jean Epstein, il cinema “è animista, ovvero presta un'apparenza di vita a tutti gli oggetti
che designa. È stata spesso sottolineata l'importanza quasi divina che assumono in primo
piano i frammenti di corpi, gli elementi più freddi della natura! Una pistola in un cassetto,
una bottiglia rotta per terra, un occhio circoscritto dall'iride, si elevano, grazie al cinema, alla
dignità di personaggi del dramma. Le vite che il cinema crea, facendo emergere degli oggetti
dalle ombre dell'indifferenza per collocarli nelle luci dell'interesse drammatico sono simili
alla vita degli amuleti, dei talismani, degli oggetti minacciosi e tabù di certe religioni
primitive”.
ABEL GANCE
La rosa sulle rotaie (La Roue, 1922) di Gance è il resoconto di una passione semi-incestuosa
di un ferroviere per una giovane adottata, che non ha pochi accenti grotteschi. Ne La rosa
sulle rotaie gli aspetti più rilevanti sono gli effetti di dinamismo raggiunti grazie ad un
montaggio accelerato, che intreccia la velocità del treno, le ruote, le componenti
meccaniche, le rotaie e la locomotiva. Napoleone (Napoléon,1927) costituisce poi un
impegno produttivo maggiore e sviluppa una rappresentazione ad affresco di una pagina
della storia della Francia, illustrata con toni non estranei alla retorica nazionalistica.
Costruita attorno alla scesa del giovane Napoleone e alle battaglie più importanti, il film
monta sequenze legate alla storia individuale e alla nascita di un capo. in Napoléon troviamo
integrate tra loro le istanze dinamiche, analogiche e intensive, proprie del montaggio e dei
movimenti della macchina da presa più sperimentali, nonché un sofisticato lavoro di
moltiplicazione dell'immagine, effettuato con la sovrimpressione. Innanzitutto Gance
sviluppa un dinamismo assolutamente particolare della mdp, attraverso l'utilizzo di
movimenti di macchina estremamente elaborati realizzati con il supporto di piattaforme e
carrelli. Inoltre Gance ricorre anche al montaggio analogico, effettuando un parallelismo, di
notevole intensità, tra la tempesta marina e i contrasti politici all'interno della convenzione.
La sperimentazione linguistica di Gance, trova poi uno dei tuoi punti di maggiore
suggestione nella creazione del trittico, che consiste nella proiezione del film su tre schermi:
è una prospettiva di polivisione, che rafforza gli effetti e le potenzialità visive del cinema.
IL CINEMA D’AVANGUARDIA
In opposizione al cinema narrativo-rappresentativo si afferma negli anni 10 e poi più
ampiamente negli anni 20 un cinema che si propone esplicitamente di essere altro,
differente dal cinema diffuso. È la grande avventura del cinema d'avanguardia, debole sul
piano dei numeri ma essenziale nell'invenzione della sperimentazione. L'unità è in primo
luogo unità in negativo, realizzata sulla base di un rifiuto, di una radicale ed esplicita
estraneità al cinema ufficiale e alle sue leggi discorsive. Un processo di negazione del cinema
linguaggio-merce, un rifiuto della dialettica rappresentazione/mercato, della narratività
convertita in prodotto industriale sono ovviamente impliciti nell'area del cinema
d'avanguardia, sia come di una ricerca linguistica e di un atteggiamento estetico, sia come
conseguenza di un'azione di superamento. L'avanguardia intende spezzare il rapporto tra
segno visivo-cinetico e mercato, disgregare la connessione tra rappresentazione codificata
nel reale e prodotto filmico. Ma accanto al momento della rottura, essenziale è il momento
dell'inversione dell'altro. L'immagine e il flusso visivo dell'avanguardia devono avere una
forza supplementare per non diventare una serie di inquadrature casuali e caotiche, senza
rilevanza e senza senso. Le esperienze d'avanguardia sono ricerche che si svolgono dentro
una minorità scelta ed affermata come nuovo modello operativo, dentro lo spazio marginale
del laboratorio, che si contrappone apertamente all'apparato industriale del cinema
ufficiale. Nonostante la convinzione dell'avanguardia di esprimere la modernità, le
esperienze filmiche d'avanguardia si caratterizzano per il rifiuto della dimensione
tecnologica e l'affermarsi di una dimensione artigianale. La ricerca della forma essenziale del
cinema, Il progetto di definizione del cinema puro, come la sperimentazione del cinema di
principi e opzioni legate ai movimenti d'avanguardia, dal dada all'astrattismo al surrealismo,
sono pratiche formative variamente concepite e realizzate che pensano una possibile
differenza nel cinema.
IL SURREALISMO
“Il surrealismo è un automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere, sia
verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero.
Dettato di pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di
ogni preoccupazione estetica o morale" André Breton, Manifesto del Surrealismo, 1924.
Il metodo paranoico-critico è “un metodo spontaneo di conoscenze razionale fondato
sull'associazione interpretativo-critica dei fenomeni deliranti”, dirà Dalì nel 1935. L'idea è di
usare l'associazione tipiche della paranoia, ma spiegarle in direzione creativa anziché di
paura e di delirio. Il punto allora è: c'è un’attività interpretativa intenzionale oppure no?
I surrealisti si oppongono alla psicoanalisi, che considerano parte dei cascami problemi della
società borghese. Ciononostante, il loro pensiero e la loro produzione artistica è intrecciata
a doppio filo col discorso freudiano. Secondo Freud (L'interpretazione dei sogni, 1899), i due
principali meccanismi con cui funzionano astrologico onirica sono: considerazione (più
aspetti della vita psichica si coagulano in un solo elemento -personaggio, oggetto, evento-
del sogno); spostamento (una problematicità del vissuto psichico viene traslata da un
elemento -personaggio, oggetto, evento- ad un altro, magari legato al primo da qualche
logica associativa).
I due film surrealisti più noti sono Un chien andalou e L’âge d’or, realizzati da Luis Buñuel nel
1929 e nel 1930 e inventati insieme da Salvador Dalì e da Buñuel. I due film costituiscono
un'avventura complessa nell'inconscio e si avvalgono di immagini di natura differente in cui
l'orizzonte dei fantasmi, i sogni e le allucinazioni si intrecciano con le immagini fenomeniche.
In entrambi i film le ossessioni del desiderio si manifestano e si incrinano mostrando ora la
forza ora la fragilità, all'interno di figure di oggettivazione dell'inconscio di indubbia
intensità. fondamentale è il certo ruolo ideativo di Dalì, delle sue fissazioni e del suo metodo
paranoico-critico. Ma certo Buñuel si dimostra fin dall'inizio un regista capace di segmentare
le immagini e di costituire un tessuto di ossessioni visivo-dinamiche che riparano la ricchezza
e razionale dell'inconscio e aprono un nuovo orizzonte per il cinema.
UN CHIEN ANDALOU
Il punto di riferimento culturale più forte del film è lo scrittore Ramòn Gòmez de la Sema,
vero pontefice dell'avanguardia madrilena, che teorizza e pratica una scrittura metaforica
fatta di rotture e di decontestualizzazione, di sorprese e di analogie impreviste, rigorosa e
rifiuto dei modelli realistici e caratterizzata da una grande libertà di invenzione e da una
carica di umorismo dissacrante, la greguerìa. L'effetto sorpresa si ottiene attraverso:
l'associazione visiva di due immagini (“la luna e l'occhio di bue della barca della notte");
l'inversione di una relazione logica ("la polvere e piena di vecchi e dimenticati starnuti");
l'associazione libera di concetti legati ("le due uova che prendiamo sembra siano gemelle, e
invece non sono nemmeno cugine di terzo grado"); l'associazione libera di concetti
contrapposti ("ciò che più importa nella vita e non essere morti").
Se Ramòn Gòmez de la Sema rappresenta per Buñuel un modello di intellettuale e
controcorrente aggressivo, ironico e all'avanguardia al tempo stesso, Salvador Dalì è invece
per Buñuel l'amico e l'artista con cui elaborare non solo un'esperienza fondamentale di
cinema d'avanguardia, ma anche un metodo di creatività e di scrittura assolutamente
nuovo.
Buñuel propone un cinema in cui si esercita qualcosa che è proibito e si parla di un
argomento profondamente autentico e abitualmente rimosso. C'è dunque nello stesso
momento un'opzione di verità e una volontà di trasgressione, una vocazione interpretativa e
conoscitiva e una pratica provocatoria e aggressiva. La verità nascosta è la verità
dell'inconscio, la sua scena enigmatica in cui la libido, il desiderio coatto tentano
costantemente di espandersi, diventando una forza potenzialmente sovversiva, che punta a
distruggere tutti gli ostacoli, mentali e sociali che si frappongono al suo sviluppo. L'apertura
del film si presenta subito come una sequenza dall'alta implicazione eidetica e metaforica,
che non solo parla del film e del suo modo di vedere, ma anche del cinema, della sua verità
e del rapporto con le convenzioni mentali con lo spettatore. Com’è noto il prologo mostra
sullo schermo un uomo intento ad affilare un rasoio, che poi usa per selezionare l'occhio di
una donna, mentre in evidente enologia visiva, una nuvola lunga e stretta sembra tagliare la
Luna. L’uomo che esercita la violenza è Buñuel stesso, mentre la donna che subisce la
violenza è la protagonista femminile del film. Il segmento presenta sicuramente almeno una
doppia Valenza semantica, un doppio regime di significazione. In primo luogo tematizza
l'aggressività del desiderio e la violenza implicita nel rapporto uomo donna dominato dalla
mera espansione in condizione della libido. In secondo luogo la sequenza assume una
valenza metacinematografica e diventa una sorta di epigrafe, di dichiarazione di intenti, di
manifesto di poetica di tutto il cinema di Buñuel, direttamente realizzato nel tessuto visivo
del film. La presenza del regista stesso assicura infatti che si sta parlando non solo del film
ma di cinema; non solo degli eventi del film, ma dello stesso atteggiamento dell'autore; non
solo dei personaggi, ma dalla stessa struttura interiore di Un chien andalou. Se tuttavia le
implicazioni metafilmiche sono, al limite, facilmente comprensibili e interpretabili, più
problematiche sono invece le questioni di lettura relative all'operatività semantica e
compositiva del "taglio dell'occhio" rispetto al film stesso. La protagonista femminile è
dunque, oltre a essere oggetto di una violazione che ha ovvie implicazioni sessuali, anche un
oggetto cui viene alterato e quindi modificato lo sguardo. Se il primo gruppo di inquadrature
del prologo inizia presentando prima all'oggetto della visione e poi il soggetto che
percepisce, si dovrà pensare che il segmento centrale del film presenti lo stesso
meccanismo. Ma la forza delle immagini, o più banalmente la quantità di immagini dedicate
al personaggio maschile, sembra attestare una prevalenza e una centralità dell'uomo e dei
suoi dinamismi psichici e desideranti all'interno del film. Le immagini dello schermo vanno
quindi considerate come prodotto dell'inconscio o, oppure la donna vede con l'occhio
tagliato e rigenerato la verità dell'uomo e dunque ad un tempo la verità del suo
comportamento del tuo inconscio? L'ipotesi più complessa, ma forse più suggestiva, è che la
donna sia il centro di focalizzazione e l'inconscio dell'uomo l'oggetto visualizzato. Ma
all'interno del film ci sono segmenti in cui il personaggio maschile stesso sembra diventare il
centro di ocularizzazione visibile, cioè il soggetto che percepisce e che orienta lo stesso
vedere nella macchina da presa. E allora è probabile che il sistema della visione della
focalizzazione di Un chien andalou sia un sistema misto, in cui l'inconscio dell'uomo e
l'inconscio della donna sono variamente oggettivati nell'ambito di un processo creativo che
oggettiva in primo luogo l'inconscio di Buñuel e di Dalì. D'altronde lo stesso carattere non
narrativo del film, il suo procedere per ossessioni e fantasmi implica una logica della
versione diversa da quella del cinema narrativo e più condizionata alla razionalità,
dall’enigmaticità e dall’ossessività dell'inconscio. Uno degli interpreti più attenti di Buñuel
ha proposto un'interpretazione organica del film come "il racconto appena cifrato di una
maturazione sessuale" articolata in tre grandi fasi. Un'altra ipotesi di lettura considera
invece il film come la registrazione delle avventure del desiderio maschile, delle sue
modificazioni e delle sue frustrazioni, non dei suoi successi.
Dopo il prologo, la prima tappa dello sviluppo sessuale del personaggio mostra un individuo
dall'identità ancora indefinita, che presenta nelle sue fattezze, nell'abbigliamento e nel
comportamento caratteri ambigui e anche contraddittori. La prima sequenza lo presenta in
bicicletta, vestito con giacca e cravatta, ma con un piccolo martello, un gonnellino di tela
bianca, nonché una cuffia in testa. A tracolla porta una scatola rettangolare. Lo sviluppo del
film dimostrerà come il possesso della scatola implichi una relativa autonomia ed una
impossibilità di realizzazione dei desideri. La donna che lo vede dalla finestra e lo soccorre
dopo una caduta presenta aperte caratteristiche materne e sviluppa nei suoi confronti un
atteggiamento protettivo e affettuoso. È una fantasmatizzazione del soggetto, la creazione
di un corpo assente, che riprende l'androginia del personaggio in bicicletta e la configura in
rapporto con l'atteggiamento della donna-madre. Ma accanto al corpo assente androgino
disegnato dalla madre, appare ancora nella camera il personaggio maschile che contempla il
proprio palmo della mano invaso dalle formiche. L'immagine, riconosciuta come un
prodotto onirico di Dalì, hai infatti il carattere di un'ossessione figurale che ritorna nei
disegni del giovane Dalì, come la “mano cortada” presente nella sequenza della giovane
androgina.
Subito dopo, ancora dalla finestra, la donna e il giovane guardano nella strada un'altra
donna dai caratteri androgeni che muove con un bastone una mano di legno abbandonata
sul selciato. Ma l'androginia presente da prima nel soggetto stesso, poi in un personaggio
viene eliminata dall'orizzonte fantasmatico mediante un incidente d'auto che travolgerà la
giovane donna ambigua. E subito, come svincolato dall’ immaturità e dalle inibizioni che
caratterizzavano la prima fase di sviluppo della sua identità, il personaggio maschile lascia
che il suo desiderio si espanda e si scateni e inizia con la donna protagonista una lunga
dinamica di seduzione e di aggressione. La donna è trasformata in puro oggetto di desiderio,
perde ogni connotazione di tipo materno e viene inserita in un rapporto dominato dal rifiuto
e dalla frustrazione. L'esplosione del desiderio altera l'uomo, lo rende bestiale, e al tempo
stesso sembra avvicinarlo alla morte.
In una delle sequenze più note del film, l'aggressione dell'uomo costringerà la donna in un
angolo. Ma mentre la donna afferra una racchetta da tennis per difendersi, l'uomo
d'improvviso si ferma e rivolgere l'attenzione su se medesimo, riflettendo sugli ostacoli che
lo trattengono nell’oggettivazione del desiderio. Raccoglie da terra due grosse corde e
trascina faticosamente un insieme costituito da due frati maristi e due pianoforti a coda su
cui sono adagiati e due carogne d'asino. Alcuni piani ravvicinati del muso dell'asino con gli
occhi crepati e riempiti di pece, collocato sopra la tastiera del piano assumono una forza
visiva particolare. Qui Buñuel e Dalì inventano una sorta di fantasmatizzazione visiva di una
scena inconscia, in cui Es e Super-Io si fronteggiano e si oppongono. Evidentemente la
cultura, la buona educazione e la religione giocano un ruolo di palese inibizione nella
realizzazione del desiderio: ma l'invenzione di un'immagine così complessa e così ricca di
concrezioni semantiche costituisce un'apertura radicale sulla scena dell'inconscio, che fa di
Un chien andalou la prima avventura metodica e dissennata nelle profondità
contraddittorie, conflittuali e metaforiche della psiche.
Gli asini putrefatti sono un tema e un'ossessione daliniana che connotano in maniera
fortemente negativa aspetti oggetti della vita e delle convenzioni sociali. Il pianoforte è un
asino putrefatto, perché l'arte e la sensibilità culturale sono asini putrefatti, concrezioni
marcite di rituali interpersonali caratterizzate dalla distruzione o dalla sublimazione della
libido. Il tema figurato del "burro podrido" è legato al lavoro creativo di Dalì nel periodo
1927-1929 e si articola in un quadro “La miel es más dulce que la sangre”.
La frustrazione del desiderio, in ogni modo, rinvia il personaggio ad uno stadio psico-fisico
più arretrato. Ritorna alla mano con le formiche e lo stesso protagonista appare poi a letto
con la mantellina, la gonna e la cuffia di tela bianca: il processo di maturazione si è
interrotto; riemergono il tema daliniano del aperte "Grand masturbateur" e la figura
simbolica della androginia. Con la didascalia “vers trois heures du matin” comincia la terza
fase di sviluppo dell'identità del protagonista. Una sorta di Alter Ego, arriva all'improvviso e
con un piglio autoritario libera il giovane di tutti gli orpelli d'abbigliamento e dalla stessa
scatola misteriosa, lanciandoli dalla finestra. Poi, al rallentì, "come in un sogno" un flashback
"16 ans auparavant”mostra ancora l'alter Ego che si sforza di eliminare i ricordi di scuola del
protagonista, finché il protagonista, trasformando due libri in pistole, non uccide quel super-
io particolare. La figura dell'alter Ego presenta quindi componenti contraddittorie: da un
lato sembra svolgere una funzione autoritaria e paterna, ma dall'altro, cerca di accelerare il
processo di crescita del giovane. E l'uccisione della figura paterna, se da un lato rappresenta
un'istanza di ribellione, dall'altro è anche un intervento contro la figura che sembrava svolge
una funzione positiva di maturazione: e quindi si carica di ambiguità ulteriori. Risulta in
qualche modo la questione del super-io invadente, il protagonista può nuovamente tentare
la seduzione della donna, riavvalendo un rapporto di desiderio, destinato ad essere tuttavia
ancora una volta frustrato. Nel faccia a faccia con la donna, appare poi una serie di figure
fantasmatiche, di concrezioni metamorfiche ulteriori.
Montate in alternanza con un primo piano della donna che guarda verso la macchina, l'iris di
una farfalla appare sempre più riavvicinata, mostra alla fine sul dorso dell'insetto l'immagine
di un teschio: è una prima apertura aperta formulazione del nesso amore/morte,
Eros/thanatos, che Buñuel tematizzerà sistematicamente nel suo cinema. Poi in uno
scambio di campi e controcampi l'uomo e la donna che si guardano, l'uomo perde dapprima
la bocca d'improvviso sostituita da una peluria che si rivela provenire per slittamento
metamorfico dall'ascella della donna. Poi la donna rigetta il desiderio del protagonista, lo
condanna alla frustrazione e fugge sulla spiaggia con un altro partner, mentre nella risacca
dell'onda appaiono abbandonati la mantellina e gli altri indumenti femminili e la scatola
rettangolare ormai rotta. Ma come il prologo aveva inscritto metaforicamente la violenza
erotica e metafisica, così l'epilogo sancisce esemplarmente il nesso amore/morte e presenta
in un'unica inquadratura sormontata dall'iscrizione aperte "Au printemps" i due protagonisti
interrati nella sabbia fino al petto. L'itinerario di maturazione sessuale dell'individuo si
conclude con l'immagine di morte. La scena inconscia dell'eros è una scena di ambiguità e di
frustazioni, di contraddizioni e di enigmaticità, dominato dalla morte.

6) IL CINEMA CLASSICO HOLLYWOODIANO


L'introduzione del sonoro coincide, per la nazione statunitense con un momento di grave
crisi economica generale. Il crollo di Wall Street nel 1929 determina una profonda
Depressione che si protrae per tutti gli anni Trenta, per poi risolversi, con ripresa clamorosa,
negli anni della seconda guerra mondiale. Eletto presidente nel 1932, Franklin Delano
Roosevelt, attua immediatamente una politica economica di sostegno all'industria che ha su
Hollywood un impatto fondamentale, confermando quel sistema oligopolistico che rimarrà
indiscusso fino al 1948. Gli anni di Roosevelt coincidono quindi con una forte ripresa
dell'industria dello spettacolo cinematografico che, affrontando in una posizione leader la
transizione al sonoro, riesce portare e a estendere i propri prodotti, ma anche la propria
influenza culturale e ideologica in senso lato, in tutto il mondo. Si può dire, almeno in senso
quantitativo, che tra il 1930 e il 1945 la storia del cinema coincide in buona misura con la
storia del cinema hollywoodiano. Nella stagione aurea del cinema statunitense la figura del
produttore acquista un'importanza determinante, rispetto al periodo del muto, nel controllo
assoluto di tutti quegli aspetti della produzione, da quelli strettamente economici a quelli
artistici, sulla base di attente strategie di marketing e di studio dei gusti del pubblico.
L'introduzione del sonoro accresce e potenzia questo meccanismo, venendo a completare
quella ricerca di persuasività e illusione di realtà che sta alla base della narrazione del
linguaggio proprio della produzione hollywoodiana. L'integrazione del suono all'interno di
questo spettacolo costituisce un gesto determinante, in qualche modo definitivo. È
significativo notare che un ruolo determinante verso la conquista del sonoro riprodotto è
svolta negli Stati Uniti in primo luogo da case produttrici che alla fine degli anni Venti non
sono ancora nel novero delle big. La Warner, piccola ma in espansione, il 6 agosto del 1926
proietta Don Giovanni e Lucrezia Borgia di Alan Crosland, il primo film con musica registrata,
senza dialoghi, realizzato con il sistema Vitaphone, fornito dalla Western Electric. Poco più di
un anno dopo, il 6 ottobre del 1927, ha luogo invece la prima proiezione pubblica di il
cantante di Jazz (The Jazz Singer), ancora di Crosland, in cui in alcune sequenze il cantante Al
Jolson cantava e addirittura riusciva a pronunciare qualche parola. Solo nel 1928, tuttavia,
esce il primo film Warner all-talkie “The lights of New York”.
Nella fase di transizione tra il muto e il sonoro, il suono e il colore furono usati anche come
strumenti per sperimentazioni visionare (pur integrate nel racconto). Si veda ad esempio
Lonesome (Primo amore, Paul Fejos, 1928), in cui i colori e il suono servono a mettere in
scena l'ampliamento dell'esperienza che accompagna la l'innamoramento. In seguito, il
sonoro verrà usato in una modalità più integralmente narrativa. Il colore rimarrà invece, per
molti anni, nelle mente associato alla meraviglia, alla fantasia, alla nostalgia.
Nei primi anni 50 Hollywood torna a ricordare il passato dal muto al sonoro, come l'esempio
in Singing in the rain, ambientato ad Hollywood nel 1927 con protagonista Gene Kelly. La
stessa cosa è stata fatta in The Artist (2011) di Michael Hazanavicius, dove viene raccontato
il passaggio dal muto al sonoro di un famoso divo di film muti. Molti divi di Hollywood
soccombono al passaggio tra il muto e il sonoro come l'esempio Buster Keaton e John
Gilbert, partner famoso di Greta Garbo, che non riuscì mai a fare la transizione al sonoro a
causa della sua voce, mentre la sua compagna Greta Garbo Ci riuscì. Il primo film sonoro
della Garbo fu Anna Christie (1930), da un adattamento di uno spettacolo teatrale. Sunset
Boulevard (1950) racconta in tono più noir la transizione dal muto al sonoro. Racconta di
una diva del cinema muto ormai in decadenza, trovata da uno sceneggiatore che vuole
ritornare le scene, pur avendo perso il senso della realtà.
PRODUZIONE, TECNOLOGIA, STORIA E STILE
Il cinema classico hollywoodiano come sistema produttivo dura per un periodo molto lungo,
pressappoco dal 1917 al 1960. Al netto delle innovazioni tecnologiche (come il sonoro),
l'organizzazione economica rimane inalterata per tutto il periodo. A livello stilistico, però, ci
sono delle profonde metamorfosi interne. Con il mutare della situazione storica (i stili di
vita, il contesto socio-politico nazionale e internazionale) muta anche la dimensione estetica
(gli stili di regia, l'utilizzo del linguaggio cinematografico).
LA SVOLTA DEGLI ANNI TRENTA
Come abbiamo detto, nel 1933 diventa presidente degli Stati Uniti Franklin Delano
Roosevelt, e si inaugura il New Deal, un "nuovo corso" marcato da una rinnovata attenzione
ai problemi delle classi più povere. Occorre ricostruire la fiducia nelle istituzioni sociali, nella
famiglia, nel lavoro, e il cinema può fare la sua parte. La produzione hollywoodiana degli
anni Trenta vede perciò il passaggio da modelli di soggettività e desiderio più trasgressivo a
modelli più normativi. Anche il codice di censura (codice Hays) risponde a questa necessità
di un cinema che proponga valori identitari positivi. Design for Living (Partita a
quattro,1933), una spregiudicata commedia è un esempio da della Hollywood pre-code.
DIVI PRE-CODE: Rodolph Valentino, Clara Bow, Marlene Dietrich
DIVI POST-CODE: Shirley Temple, John Wayne, Fred Astaire & Ginger Rogers
LO STILE CLASSICO
● Continuità narrativa: inquadrature e scene durano lo stretto necessario, le scene
sono legate l'una all'altra da un rapporto di causa-effetto (non un elemento è di
troppo)
● Spazio continuo, integrato e prospettico in cui lo spettatore può orientarsi e quasi
"abitare" (lo spettatore è al centro del mondo)
● illuminazione il più possibile piana, chiara, gerarchica tra primo piano e sfondo, mai
eccessiva profondità di campo (non troppe cose a fuoco): l'immagine deve essere
innanzitutto leggibile (l'obiettivo è una messa in scena limpida)
● Linguaggio trasparente: lo stile deve essere il più possibile invisibile, lo spettatore
non deve rendersi conto dei tagli di montaggio o delle posizioni della macchina da
presa
● Il centro di tutto e la figura umana: cinema “antropomorfo"
● Armonia e ordine: l'elemento spettacolare è tenuto a freno, trionfa la spinta
narrativa ("lo spettatore è suturato al film")
DINAMICHE DEI GENERI HOLLYWOODIANI
Abbiamo due generi: il genere dell'ordine e il genere dell'integrazione. Del genere
dell'ordine fanno parte il Western, il Gangster film, e i polizieschi. Del genere
dell'integrazione fanno parte la commedia, il musical, Il melodramma. Il problema di fondo è
sempre la collocazione di un individuo rispetto alla struttura sociale. In genere abbiamo due
linee narrative: l'amore (formazione della coppia, assunzione delle corrette posizioni di
gender) e il lavoro (avventura).
FRANK CAPRA E LE SCREWBALL COMEDIES
Nel cinema hollywoodiano le screwball comedy -letteralmente "palla girata a vite"- è uno
dei sottogeneri classici più importanti. Nata nel clima sociale della Depressione, la screwball
durerà poco più di una decina d'anni, creando tuttavia le matrici di tutto il cinema brillante
prodotto in America nella seconda metà del Novecento. Dalla precedente slapstick comedy,
la screwball si distingue per un umorismo più maturo e raffinato, aggraziato e rassicurante,
ricco di riferimenti arguti al costume sessuale. Caratterizza da attori brillanti, ritmo
sostenuto e battute spiritose, le commedie "svitate" hanno al centro storie scatenate e
veloci e personaggi dei comportamenti eccentrici e stravaganti. "Screwball "indica infatti nel
baseball, la palla lanciata a massima velocità da un'angolazione spiazzante e irregolare,
mentre nel inglese britannico di qualche decennio prima il termine "screwy" veniva riferito a
qualcuno che si fosse concessa una bottiglia di troppo, che avesse svitato parecchi tappi.

IT HAPPENED ONE NIGHT (ACCADDE UNA NOTTE, FRANK CAPRA, 1934)


Accadde una notte racconta di un viaggio e della ricongiunzione di una coppia. Il viaggio è la
forma più tipica del racconto classico, assieme allo sviluppo psicologico dei personaggi.
Come in tutti i film di Capra, Accadde una notte è costruito su una linea in costante ascesa
che a un certo punto precipita di colpo per poi risollevarsi e raggiungere il picco più alto,
garantito dall'immancabile happy ending. Ma il film non è soltanto il racconto di un viaggio,
e anche il racconto di un racconto: la storia che Peter vuole scrivere e di cui si ritrova ad
essere involontariamente protagonista. Queste due storie, nel film, si intrecciano
continuamente.
La formazione della coppia avviene tramite: la ribellione iniziale alle figure paterne (Mr
Andrews e il direttore del giornale), il viaggio insieme che che produrrà in entrambi una
trasformazione (per il cinema classico il racconto è sempre una traiettoria, un viaggio -
talvolta solo metaforicamente- con cui personaggi arrivano ed esaudire i propri desideri e a
capire meglio se stessi), e la riconciliazione finale con le figure paterne, che diventano
alleate della coppia).
Nel rapporto tra i sessi è soprattutto la figura femminile a dover cambiare: Ellie deve
perdere i tratti da ricca ereditiera viziata e dimostrare di poter essere la giusta per Peter,
"The King of the people". Il film mostra la subordinazione del modello anni ‘20 della flapper
(giovane donna dinamica indipendente). Ciononostante, è cruciale la scena dell'autostop in
cui è lei a salvare la situazione: c'è uno spazio per una certa reciprocità nel rapporto tra i
sessi.
LE MURA DI GERICO
Nella Bibbia, nel libro di Giosuè si narra di come gli ebrei si siano impossessati della
Palestina. Le mura sono evidentemente una metafora della verginità della donna, e la
tromba deve essere usata dall'uomo. Ma significativamente Peter identifica gli israeliti (cioè
gli ebrei) in Ellie: la forza d'assedio è lei. Una delle caratteristiche essenziali di questo genere
di commedia è lasciare nell'ambiguità se sia l'uomo o la donna in partner più attivo.
UN PAESE CHE HA FAME
Il film si può essere dire una finestra sulla Depressione degli anni ‘30. Infatti Peter insegna
ad Ellie che deve imparare a gestire il cibo (non mangiare cioccolatini, inzuppare le
ciambelle, ad accettare le carote)e il denaro e, più in generale, fare i conti con la Grande
Depressione (la Panoramica sul campo di fortuna e le docce all'aperto, la dimensione
comunitaria nell'autobus con il canto collettivo, il treno dei poveracci che salutano
amichevoli Peter.
UNA MODERNITÀ LENTA
Il film contrappone lento viaggio dei due protagonisti, con mezzi poveri e di fortuna, con le
modalità di spostamento del padre di lei (l'aereo privato) e del fidanzato, funambolico asso
dell'aviazione. Alla vanità superficiale di King Wesley si contrappone Peter, che è “The King
of the people”. Anche la canzone di Daring Young Man On The Flying Trapeze sembra
potersi interpretare in questo senso In relazione alla contrapposizione tra i due modelli di
mascolinità. Nel cinema classico ogni aspetto della trama e della messa in scena (dai dettagli
sui personaggi ai numeri musicali) serve al discorso narrativo principale, non ci sono
digressioni o elementi spuri in eccedenza.
LE RECIPROCITÀ
Nonostante sia soprattutto Ellie a dover imparare da Peter, è vero anche il contrario.
Cruciale, da questo punto di vista, la scena dell'autostop, in cui è lei a salvare la situazione:
c’è uno spazio di reciprocità nel rapporto tra i sessi. Altri film propagandano ancora più
esplicitamente l'idea di un matrimonio cameratesco. si veda per esempio The Thin Man
(L'uomo ombra, 1934) primo di una serie di commedie gialle incentrate sulla coppia di
investigatori sposati Nick e Nora Charles (William Powell e Myrna Loy).
PERCHÉ PETER NON RISPONDE ALLA DICHIARAZIONE DI ELLIE?
A. Perché sorpreso dalla "realtà" di lei, era più a suo agio con l'immaginazione
romantica che con la sua concretizzazione;
B. perché, per essere economicamente indipendente, prova a raccontare la storia
all'esterno, facendo lo scoop comunque. E invece la loro storia non deve finire sui
giornali, in pasto all'intera società di massa, ma deve sottostare semmai
all'approvazione della vera struttura sociale che conta: la famiglia.
LIETO FINE SOTTO IL SEGNO DEL PATRIARCATO
Nel finale, grazie alla comprensione e all'alleanza con entrambe le figure paterne, Peter
riesce a coronare il sogno d'amore. Come le società tribali, gli uomini si scambiano le donne.
Il finale è dunque pienamente patriarcale e mette necessariamente scena la subordinazione
del femminile al maschile.
LA COPPIA COME UTOPIA INTERCLASSISTA
Allo stesso tempo però, il film, come molte altre screwball comedies (L'impareggiabile
Godfrey, Un colpo di fortuna, L'eterna illusione), propone una soluzione utopica di
matrimonio interclassista. Il lieto fine è la risposta fiduciosa di Capra, immigrati italiano che
crede profondamente nel Sogno Americano e diventa il vero regista simbolo dell'ottimismo
del New Deal di Roosevelt. Il regista girerà in realtà alcuni film anche fortemente critici
dell'establishment politico, ma considerati a tutt'oggi dei classici dell'idealismo politico
americano.

7) IL NEOREALISMO ITALIANO
CENNI STORICI
● Istituto LUCE (1924; I cinegiornale 1927)
● Mostra d’arte cinematografica a Venezia (dal 1932)
● Direzione generale per la cinematografia creata nel 1934 presso il MinCulPop
(Ministero della Cultura Popolare), affidata a Luigi Freddi e deputata al controllo
di tutte le attività cinematografiche, pubbliche e private
● Centro Sperimentale di Cinematografia (1935)
● Cinecittà (1937)
● inaugurazione con Scipione l’africano (C. Gallone)
● Presso la BNL viene creata una sezione autonoma per il credito cinematografico:
nascono Lux, Titanus, Scalera, ERA, Manenti.
● Tassa sul doppiaggio nel 1933 e obbligo di proiettare almeno un film italiano su 3
stranieri.
Protezionismo: (Legge Alfieri, 6 giugno 1938), legato alla svolta autarchica dell’anno
precedente: si limitano drasticamente le importazioni impennata produttiva: 50 film nel
1939, 83 nel 1940, 119 nel 1942.
Il cinema svolge un ruolo fondamentale nel compromesso tra la diffusione di inediti modelli
socio-culturali, ineludibile per un paese che si vuole moderno, e la tutela di un sistema di
valori reazionari.
Il cinema dei telefoni bianchi
I telefoni bianchi sono il simbolo dell’immagine luccicante e posticcia del mondo che questi film
offrivano.
Le riprese avvenivano per lo più in teatro di posa: scenografie art-déco che vogliono proiettare un’idea
di modernità cosmopolita.
Altri status symbol che attraversano questo cinema sono l’auto, il treno, la radio, il grand hotel
e il locale notturno (tabarin o tabarino).
Atmosfere rarefatte, intrecci ingarbugliati, scambi e camuffamenti di identità: un’estetica
dell’artificio.

Il Centro Sperimentale di Cinematografia (1935) sotto la direzione di Luigi Chiarini gode di


grande autonomia dai dettami più stretti del regime fascista. Sulle riviste «Bianco & Nero» e
«Cinema» (nonostante quest’ultima fosse diretta da Vittorio Mussolini, figlio del Duce)
scrivono, piuttosto liberamente, alcuni più grandi intellettuali della generazione a venire, che
nel dopoguerra si affermeranno come registi (Antonioni, De Santis, Visconti).
I PROTAGONISTI DEL NEOREALISMO
Il Neorealismo cinematografico italiano non ha avuto una lunga vita. Si è manifestato solo
per una breve ed intensa stagione, sia che se ne valuti la spinta propulsiva tra il 1945 di
Roma città aperta di Roberto Rossellini e il 1948, con l'uscita di Ladri di biciclette di Vittorio
De Sica e de La terra trema di Luchino Visconti, sia, invece, che si consideri riemergere per
chiudersi poi definitivamente, in termini di poetica, nel 1952 con Umberto D di De Sica. Una
breve stagione del nostro cinema, che a ben vedere non può essere nemmeno fatta
coincidere con una scuola né tantomeno con movimento consapevole e organizzato. Il
Neorealismo fu semplicemente un periodo irripetibile in cui un buon numero di
professionisti del mondo del cinema, accompagnati da una serie di intellettuali, si trova a
discutere animatamente per riformulare l'identità del nostro cinema in un periodo in cui il
nostro paese stava risollevandosi dopo la guerra. Per questo motivo il Neorealismo
cinematografico italiano è stato spesso paragonato ad un coro, ad "un insieme di voci", non
sempre in accordo sulla loro, ma comunque solitari nel portare avanti un nuovo modo di
pensare e di fare cinema. L'essenziale poliedricità dell'esperienza neorealista, che ha reso
questi pochi anni della nostra cinematografia riconosciuti a livello internazionale, si è
manifestata tanto a livello di teoria che di prassi filmica.
Già nel 1941, Giuseppe De Santis e Massimo Mida scrivono su «Cinema» un articolo intitolato
Verità e poesia. Verga e il cinema italiano, in cui auspicano un cambiamento dell’utilizzo del
paesaggio da parte del cinema nazionale in direzione di una maggiore aderenza ai dettami
realistici della letteratura della seconda metà dell’Ottocento.
E il modello del Verismo sarà effettivamente importante per l’idea neorealista di
un’osservazione oggettiva e imparziale degli avvenimenti, anche se questa rimarrà più una
idea – un atteggiamento etico – che non una concreta scelta di stile.
Nel 1948, Visconti adatterà I Malavoglia di Verga attualizzandolo al presente postbellico: il
suo La terra trema è uno dei capolavori del neorealismo, ma è molto lontano da una messa
in scena meramente cronachistica dei fatti. Il regista attua invece una forte estetizzazione
della messa in scena.
Un'importante posizione teorica del Neorealismo è rappresentata da Cesare Zavattini e
viene spesso sintetizzata nella sua riflessione intorno al "pedinamento del reale": "il tempo
è maturo per buttar via i copioni e per pedinare gli uomini con la macchina da presa".
Seguire da vicino la realtà significa dunque prospettare un cinema per nulla sceneggiato ma
vincolato in maniera esistenziale al solo momento rivelatore e sacro della ripresa. Se ne può
trovare un esempio nel film Sciuscià (1946), in cui la mdp di De Sica si abbassa per stare
all’altezza dei giovani lustrascarpe protagonisti. Tale attenzione ai lenti gesti quotidiani dà
anche luogo agli esperimenti più innovativi del neorealismo, nell’ambito della temporalità
cinematografica. "Il banale non esiste" per Zavattini, e proprio facendo leva su questa
convinzione, il cinema deve essere in grado di incontrare quindi diffondere le molteplici
possibilità spettacolari che la realtà porta naturalmente scritte in sé. Ricordiamo il suo
sodalizio con Vittorio De Sica. La coppia rappresenta infatti uno dei quattro possibili punti di
vista che compongono lo sguardo neorealista. a Zavattini-De Sica si affiancano infatti, in
questa ricca polifonia di personalità, le figure di Roberto Rossellini, di Luchino Visconti e di
Giuseppe De Santis. Quattro punti di vista distanti, quattro posizioni a volte in netta
contrapposizione e soprattutto con formazioni differenti: Rossellini arriva al neorealismo
dopo aver fatto film di propaganda fascista, Visconti fa leva su una profonda conoscenza
della letteratura e del teatro americano, delle arti figurative e della cultura europea del
decadentismo, De Santis arriva da una vivace militanza nella critica e dall'impegno, durante
la guerra, nelle fila della Resistenza, mentre De Sica può vantare una grande esperienza
d'attore.
Per quanto riguarda la coppia Zavattini-De Sica possiamo far coincidere la loro marca di
riconoscibilità nella definizione di un modo particolare di pensare la struttura narrativa dei
loro film. Sciuscià (1946) come Ladri di biciclette, per arrivare fino a Umberto D (1952), sono
lavori che procedono verso una riduzione, quasi una minimalizzazione, dell'intreccio
narrativo, favorendo i tempi morti, valorizzando il gesto minimo della quotidianità,
"pedinando" l'individualità della sua semplicità, con l'intento di scoprire in queste realtà
microcellulari infiniti universi di verità da rendere universalmente conoscibili.
Anche Rossellini cerca l'impatto tra macchina da presa e flusso delle cose. Anche i suoi film
sono mossi da un intento divulgativo della realtà, resa massimamente comunicabile e
decifrabile proprio dal cinema. L'umanità pervasiva del cinema di Rossellini, il suo insistere
sull'uomo come cardine di una storia dove sostanzialmente non esistono né buoni né cattivi,
non sembra essere molto distante dalla purezza dei semplici di cuore cantata da Zavattini-
De Sica. Nella sua trilogia resistenziale, composta da Roma città aperta, Paisà e Germania
anno Zero, l'atteggiamento dell'autore trovo un immediato corrispettivo in un innovativo e
personalissimo stile "antispettacolare". Roma città aperta celebra la Resistenza come forma
di collaborazione interclassista. Ma questo neorealismo che celebra lo spirito di
collaborazione, solidarietà e sacrificio collettivo in nome del bene comune cede presto il
posto ad un neorealismo diverso, pervaso di disperazione per le condizioni difficilissime del
dopoguerra, di disillusione e di solitudine.
Se Roma città aperta è un successo strepitoso al botteghino, i film successivi, che raccontano
la drammatica situazione postbellica, trovano un riscontro molto più positivo all’estero (in
Francia e negli Stati Uniti soprattutto) che in patria: gli italiani non hanno davvero voglia di
vedere film così prossimi alla loro realtà quotidiana.
Rossellini rivela un'attenzione inusuale alle piccole cose, ai fatti insignificanti, alla realtà così
come si offre all'improvviso. Anche il suo è un atteggiamento sostanzialmente sottrattivo: se
non rifiuta lo spettacolo, lo svuota tuttavia dalle sue composizioni canoniche, preferendo
alle scene madri le attese, le stasi e le sospensioni.
Se per Rossellini è abbastanza semplice definire una fase neorealista, di fronte la produzione
di Luchino Visconti si avverte un certo imbarazzo. Infatti se, è proprio per Ossessione che il
marchio "Neorealismo" viene apposto alla nostra cinematografia, tuttavia lo stile di questo
regista sembra allontanarsi notevolmente dei parametri neorealisti così come sono delineati
per i precedenti autori. (Ossessione suscita scandalo perché, si suol dire, fa irrompere la
realtà sugli schermi italiani. Ma in cosa consiste questa «realtà»? Oltre all’uso
effettivamente innovativo del paesaggio (la Bassa Padana), quello che fa del film di Visconti
un’opera autenticamente innovativa è l’utilizzo dei corpi degli attori, enfatizzati nella loro
fisicità, espressività e carica erotica. Ossessione mette in scena una storia di desiderio,
amoralità e crimine che ne fanno un film di genere, a tutti gli effetti un noir. Ed in effetti si
tratta dell’adattamento di un romanzo americano del 1934, The Postman Always Rings
Twice (Il postino suona sempre due volte) di James M. Cain che è a tutti gli effetti un noir e
sarà adattato per lo schermo anche in USA nel 1946 con il suo titolo originale). In primo
luogo per Visconti la distanza tra il momento dell'ideazione del soggetto e la fase finale di
edizione del film è molto ampia: tutto il materiale destinato a l'immagine è sottoposto a un
preventivo processo di selezione ed entra a far parte del caso solo quando strettamente
necessario. Nulla viene lasciato al caso. Anche per La terra trema, film emblema di
un'apparente spontaneità, il rapporto con i pescatori siciliani protagonisti è frutto di un
lungo processo di elaborazione tanto a livello recitativo quanto a livello di presenza scenica
per la inquadratura. In seconda istanza e sconti ricorre spesso a fonti letterarie come
soggetti per i nuovi film.
Il quarto punto di vista che compone lo sguardo neorealista è rappresentato da Giuseppe De
Santis. Anche per questo regista possiamo rintracciare una cifra stilistica particolare
coincidente con una profonda sensibilità nei confronti dei gusti del pubblico. Questo regista
ha indubbiamente il merito di aver operato un abbassamento dei canoni neorealisti per una
resa popolare dei suoi film, non disdegnando frequenti contaminazioni con il cinema
americano e con la cultura popolare italiana veicolata da un sistema mediale in via di
complessificazione. La cultura contadina, il melodramma, il cinema e la letteratura vengono
saccheggiate a piene mani da De Santis che, unitamente ad un'attenzione verso le forme
basse del cine e fotoromanzo, riescono a comporre film, pensiamo solo a Riso amaro (1949),
con una forte carica innovativa e densi di riferimenti popolarmente riconoscibili.
TRATTI COMUNI E PRESUNTE CARATTERISTICHE DEL NEOREALISMO ITALIANO
● Riprese in esterni reali
● Illuminazione naturale
● Predominanza di campi medi e lunghi
● Inquadrature più lunghe della media
● Montaggio non intrusivo
● Attori non professionisti
● Uso del dialetto nei dialoghi
● Protagonisti appartenenti alle classi più povere
● Trame quotidiane, contemporanee e cronachistiche
● Critica sociale esplicita o implicita
● Budget limitato, produzione ‘indipendente’
Il neorealismo si presenta con come un orizzonte variegato, fatto di momenti di
convergenza, ma anche di fenomeni di contraddizione, difficilmente generalizzabile. I tratti
comuni vengono ravvisati soprattutto nella strenua vocazione antifascista e nella diffusione
di una nuova morale, di un “etica dell'estetica"che affida all'intellettuale all'artista precisi
compiti e responsabilità nella società. È vero però che una tensione comune anima i registi.
Una tensione che si sviluppa in tre direzioni.
In primo luogo esiste forte la comune volontà di ampliare l'orizzonte del visibile
cinematografico: sullo schermo vengono promossi soggetti e situazioni marginalizzate dal
cinema precedente.
In secondo luogo viene avviata una profonda riflessione sulle strategie di narrazione del
reale. Lo spirito neorealista lavora intensamente tra i concetti di verità e di verosimiglianza
della materia rappresentata sullo schermo.
In terzo luogo si mette a punto nuovo modello di comunicazione diretta e interpersonale tra
i personaggi e pubblico, da una parte producendo fenomeni di rispecchiamento, dall'altra
utilizzando modelli di rappresentazione fortemente vincolati alla cultura popolare di natura
mediale.
In sostanza ci troviamo di fronte a tre punti di convergenza che vanno al di là delle
differenze promossa dai singoli autori.
UN FENOMENO IBRIDO
Il neorealismo è fortemente diseguale al suo interno: i suoi 4 registi principali hanno stili
assai diversi, e in nessun film troviamo realizzate tutte insieme le caratteristiche stilistiche
elencate nella slide precedente.
In generale, il neorealismo non è esente da una contaminazione con gli stilemi del cinema
classico (attenzione ai dettagli, controllo della messa in scena) e del cinema di genere (il
melodramma, il noir), che si trovano frammisti ad aspetti più rigorosamente realistici
(ibridazione tra documentario e finzione, attenzione ai gesti quotidiani, lavoro sui tempi
morti).

LADRI DI BICICLETTE (DE SICA, ZAVATTINI,1948)


Ladri di biciclette è tratto dall'omonimo romanzo di Luigi Bartolini. Per esaltare la capacità di
De Sica nel trasformare una piccola storia anodina in un dramma dalla tensione fortissima, si
è spesso detto che la vicenda di Ladri di biciclette è così insignificante da non meritare
neppure un trafiletto sul giornale. E il film mostra esplicitamente l’irrilevanza della propria
trama.
De Sica parte da un plot di natura eminentemente non spettacolare, ma solo per costruirvi
attorno un grande spettacolo. Ladri di biciclette, non è un'opera d'avanguardia. De Sica
rifiuta la trama hollywoodiana, ma non opta per l'anti-narrazione; il tema di Ladri di
biciclette estraneo alla tradizione di Hollywood o del cinema dei telefoni bianchi, ma ciò non
toglie che il film di De Sica presenti, comunque, una complessa organizzazione narrativa.
La vicenda di Ladri di biciclette si svolge nell'arco di 3 giorni, da venerdì a domenica.
Venerdì: Antonio trova il lavoro e, con l'aiuto di Maria, riscatta la bicicletta al monte di pietà;
sabato: Antonio prende servizio, ma gli viene subito rubata la bicicletta; Domenica: Antonio
e Bruno cercano invano la bicicletta. Come si può vedere, il film ha una organizzazione
estremamente compatta: un gruppo molto ristretto di personaggi svolge un'unica attività in
un tempo limitato. Il film di De Sica ha la struttura chiusa, organizzata sulle unità di tempo
luogo e azione, proprie della tragedia classica.
Il film è costruito in modo da creare progressivamente, una sempre più forte sensazione di
continuità, fino a far quasi coincidere il tempo della storia e il tempo del discorso. Nelle
prime 18 sequenze il passaggio da una sequenza all'altra è ottenuto prevalentemente
attraverso una dissolvenza; e la dissolvenza indica un salto temporale. Nella seconda parte
del film domina invece lo stacco, ovvero una figura di montaggio che non marca uno iato
cronologico.
La prima parte di Ladri di biciclette tende fortemente alla sintesi. Si pensi alla descrizione del
primo giorno di lavoro di Antonio. Il tempo della storia corrisponde a circa 12 ore, ma il
tempo il discorso è di soli 10 minuti. in questo blocco, composto da ben 10 sequenze, ve ne
sono soltanto tre (Antonio e Bruno che escono di casa, il furto e il commissariato) Che
presentano un'azione articolata o un fitto dialogo. Le due dissolvenze in chiusura
coincidono, rispettivamente, con la notte del venerdì e la notte del sabato.
Nella seconda parte di Ladri di biciclette nei passaggi da una sequenza all'altra prevale lo
stacco, proprio in virtù della maggiore omogeneità temporale che caratterizza questa
porzione dell'opera. Molte scene si susseguono senza nessuna cesura cronologica o con
un’ellissi molto breve. L'esempio più chiaro è rappresentato dalle sequenze 30,31 e 32.
Antonio e Bruno vanno dalla Santona, escono, incontrano il ladro, Antonio lo insegue nella
casa di tolleranza, esce con lui dal postribolo, tenta di farlo arrestare e poi si allontana
sconfitto, insieme al figlio. Tutta questa lunga e complessa azione dura 15 minuti e si tratta
di un quarto d'ora reale, in cui nel tessuto del racconto non c'è neppure una pausa: il tempo
della storia è quello del discorso coincidono perfettamente.
Anche quando compaiono delle dissolvenze incrociate, queste segnano un salto piuttosto
breve. Qui, le ellissi sono molto più brevi rispetto alla prima parte del film, dove facevano
procedere l'azione di ore, anziché di minuti. Inoltre, le sequenze della seconda parte sono
nettamente più lunghe di quelle della prima: la narrazione è più distesa, tanto che talvolta
quasi non procede.
In Ladri di biciclette è reperibile una frattura tra una prima parte sintetica e una seconda
parte analitica. Nella mezz'ora iniziale la struttura cronologica del film presenta i segni
evidenti della costruzione al tavolo di montaggio, mentre nei 60 minuti successivi il tempo
artificiale della rappresentazione coincide con il tempo reale della proiezione. La seconda
parte del film è indubbiamente quella più significativa e complessa, in quanto è interamente
costruita sul lungo climax che cresce progressivamente che conduce all'ultima, cocente,
umiliazione di Antonio.
Se l'organizzazione temporale di Ladri di biciclette è tutta pensata in funzione mimetica, la
scelta dei campi di ripresa e dei movimenti di macchina, invece, ha caratteristiche
decisamente meno univoche.
In Ladri di biciclette, vi è un uso frequente di campi medi e lunghi per inquadrare
protagonisti: spesso vediamo Antonio e Bruno al centro del panorama desolante della città
deserta oppure in mezzo alla folla, che addirittura occulta la presenza dei due. È come se la
macchina da presa, attraverso la lontananza fisica, volesse marcare un distaccato riserbo
rispetto al dramma del protagonista.
Questo uso della macchina da presa è chiaramente funzionale a quella poetica dei tempi
morti. anche in altre parti del film, Antonio viene inopinatamente escluso dal campo.
Ma se in diversi momenti di Ladri di biciclette è riscontrabile un uso anti-drammatico della
macchina da presa, che si limita a riprendere i personaggi da lontano, oppure li esclude dal
campo, bisogna notare che in altre sequenze l'obiettivo insiste sul viso di Lamberto
Maggiorani (Antonio). In Ladri di biciclette non è raro che la macchina da presa parte da un
campo medio, per poi avvicinarsi al protagonista, con il chiaro intento di far salire la
tensione drammatica e rafforzare il naturale processo di identificazione tra personaggio e
spettatore. Si tratta di un impiego sostanzialmente convenzionale del primo piano, che va
nella direzione opposta rispetto all'oggettività del campo medio/lungo.
Si è spesso lodata la grande capacità di De Sica nel dirigere gli attori non professionisti,
segno antropologico del desiderio di una realtà che anima il testo.
Un altro tratto del film che rientra in un progetto mimetico è rappresentato dall'uso di
ambienti reali, invece di scenografie costruite ad hoc. Nel complesso, l'utilizzo degli ambienti
non ricostruiti risponde a una logica realista di tipo denotativo, ma, in alcuni momenti del
film, il paesaggio urbano appare fortemente stilizzato, assumendo una chiara valenza
simbolica, che male si accorda con un progetto di scrittura di grado zero.
In Ladri di biciclette è reperibile una continua iterazione di oggetti, parole, situazioni, il cui
senso lievita lentamente, a mano a mano che procede il lungo percorso di Antonio e Bruno.
Al di là della scoperta valenza simbolica di alcune di queste pause, come nel caso della scena
dei bambini che chiedono l'elemosina, anche quelle interruzioni apparentemente prive di
significato, come l'episodio di Bruno che si ferma a orinare, assolvono un compito specifico
nella costruzione del realismo del testo. Ma la breve digressione su Bruno che fa pipì può
essere letta come un puro artificio, come una delle delle tecniche che De Sica utilizza per dar
vita a un racconto realista. Non si tratta di rivelazione della realtà, bensì della sua
simulazione.La scena di Bruno che si ferma a fare pipì è proprio in dettaglio inutile, una
divagazione che registra si permette per dimostrare che non sta raccontando una storia,
dalla quale siano stati eliminati preventivamente gli elementi in congruenti.
D'altra parte, l'intera storia di Ladri di biciclette è presentata come una tranche de vie, come
un frammento di realtà isolato dalla macchina da presa. Il film si apre sull'immagine
disoccupati che circondano l'impiegato dell'ufficio di collocamento; poi sopraggiunge
Antonio. La scena si svolge sulla scalinata d'ingresso di un caseggiato popolare: Il funzionario
è in cima ai gradini, mentre sotto di lui si trovano tutti gli altri. Viene chiamato Antonio, il
quale si fa largo tra la gente e giunge di fronte al dipendente dell'ufficio di collocamento. La
conversazione tra i due è costruita sul continuo gioco di campo-controcampo, in cui Antonio
è inquadrato dall'alto, mentre il funzionario è inquadrato dal basso. La posizione della
macchina da presa esprime molto chiaramente la debolezza psicologica di Antonio, fiaccato
da due anni di disoccupazione, il quale si presenta umile e remissivo davanti all'uomo che
può cambiare cambiargli la vita. Inoltre, la valenza simbolica della scala (metafora
tradizionale dell’ascesa sociale) è chiarissima: salire i gradini significa migliorare la propria
condizione economica.
La presenza di elementi estranei alla alle basi teoriche del Neorealismo è evidente
nell'ultima sequenza del film. Antonio e Bruno arrivano nei pressi dello stadio. Sentiamo il
bordo dei tifosi, vediamo la gente passeggiare: il clima festoso della domenica pomeriggio è
in aperto contrasto con la disperazione del protagonista. La contrapposizione tra i piani
ravvicinati di Bruno e Antonio e i campi lunghi della folla, con il sottofondo delle urla, danno
il senso dell'indifferenza e della collettività nei confronti della tragedia individuale. Le grida
dello stadio sembrano quasi grida di dileggio nei confronti di Antonio stesso, che ha appena
subito i lazzi degli amici del ladro. Fuori dallo stadio sono allineate le lunghe file delle
biciclette degli spettatori: tutti posseggono una bicicletta, tutti tranne Antonio Ricci.
In questa prima parte della scena finale del film, De Sica costruisce un climax molto
raffinato, attraverso il montaggio e l'uso della musica che enfatizza il senso del dramma
imminente. Ogni suono, ogni inquadratura, ogni raccordo, è inserito in un preciso schema
ascendente e conduce alla decisione di Antonio di rubare la bicicletta. E Antonio prende la
decisione fatale dopo il passaggio della gara ciclistica. La comparsa di questo gruppo di
ciclisti è assolutamente surreale, quasi una visualizzazione del delirio di Antonio, che ormai
vedi biciclette dappertutto.
Nella seconda porzione della sequenza ritroviamo un découpage altrettanto complesso,
giocato sul montaggio alternato delle inquadrature di Antonio, che tenta di rubare la
bicicletta e viene catturato dai passanti, e quelle di Bruno che osserva atterrito il padre.
La scena di chiusura di Ladri di biciclette è una scena di grande complessità, tutta costruita
sotto il segno del cinema classico: si tratta di una sequenza d'azione in cui non vi è traccia di
quei tempi morti di cui abbiamo parlato a proposito di altre parti del film. Queste due
sequenze sembrano volerci mettere in guardia contro un'interpretazione sbrigativa e una
dimensione unidirezionale del film. Ladri di biciclette è un film realista, e il suo realismo
annuncia molti elementi della modernità. Ma in Ladri di biciclette sono presenti anche altri
tradizioni, se pure in maniera quasi sotterranea: il muto, il cinema classico, le avanguardie
storiche.

8) IL NOIR
In USA i film che oggi designiamo come «noir» si chiamavano comunemente «Blood
Melodramas». Il termine noir fu invece coniato dai critici francesi, nell’immediato
dopoguerra, e si diffonderà oltreoceano solo a partire dagli anni ‘70.
In precedenza la definizione era già stata applicata, sempre in Francia, ai film del cosiddetto
«realismo poetico»: Il porto delle nebbie (1938) e Alba tragica (1939) di Marcel Carné,
L’angelo del male (1938) di Jean Renoir e altri.
Gli anni Quaranta in America sono gli anni della Pop-psychoanalysis, ovvero della diffusione,
anche a livello divulgativo, delle teorie di Sigmund Freud (morto a Londra nel 1938).
Concetti come quello del complesso edipico o della paura di castrazione, e i discorsi relativi al
funzionamento dell’inconscio e del mondo onirico compaiono spesso nelle trame dei film
dell’epoca, in modo sia implicito che esplicito.
A partire soprattutto dal 1947 si diffonde la pratica di girare in esterni reali, sia grazie
all’avanzamento tecnologico verificatosi durante la guerra (macchine da presa più leggere,
maggior capacità di filmare in notturna) sia per influenza dell’estetica del neorealismo
italiano.
I tratti più caratteristici del Noir sono il trattamento dello spazio e del tempo. Per quanto
riguarda lo spazio la parola chiave è "claustrofobia". Le angolazioni di ripresa, il décor e la
fotografia contribuiscono insieme alla composizione di inquadrature nelle quali gli ambienti
sembrano prima del personaggio, togliergli il respiro, intrappolarlo. Sul piano temporale è
opinione comune che il Noir sia essenzialmente contraddistinto dall’ingombrante e
incombente presenza del passato: i personaggi devono spesso reggere il fardello di una colpa
commessa in gioventù, di cui provano invano a sbarazzarsi, cambiando città, quando non
addirittura nome e vita. Tuttavia, tali sforzi vengono immancabilmente vanificati dal risorgere
del passato, che di solito si concretizza in una figura che viene a chiedere conto al protagonista
dei suoi misfatti, obbligandolo a prendersi le proprie responsabilità.
È interessante notare che nell'analisi sul Noir la categoria temporale e quella spaziale
vengono quasi sempre tenute rigorosamente distinte, quasi si trattasse di due elementi che
non hanno, in questi film, nulla a che fare l'uno con l'altro. Invece, a rendere peculiare il Noir
e a distinguerlo dai generi che pure gli sono affini sotto profilo tematico e iconografico, è
proprio la continua, reciproca contaminazione del piano temporale e di quello spaziale, in
particolare la tendenza del secondo a tradurlo in termini figurativi le articolazioni e le
configurazioni del primo.
C'è anche quella che si definisce aperte "un'assenza strutturale nel film noir", quella della
casa, dello spazio domestico, con cui contraltare un'iconografia dominata da luoghi
concepiti per soste brevi e provvisorie: stanze d'albergo, camere in affitto, taverne, motel,
bar, ristoranti, locali notturni. Ma quel che è più importante, lasciano trapelare l'immagine
di una società costellata di individui sfaccendati e ambigui, che rimandano puntualmente a
una temporalità sospesa, vuota, priva di senso e di valore. Nella maggior parte dei casi si
tratta di uomini costretti dalle circostanze a vivere alla giornata, di fatto impossibilitati a
vedere al di là del proprio presente. Personaggi braccati da malviventi che li vogliono
eliminare, innocenti ricercati dalla polizia per delitti che non hanno commesso (Al Roberts in
Detour), evasi di prigione decisi a non farsi arrestare un'altra volta. Talvolta si tratta invece
di individui che, schiantati le esperienze passate, non intendono più cimentarsi con l'arduo
compito di costruirsi un'esistenza, e preferiscono dunque, per così dire, abitare la
provvisorietà.
Una delle prime conseguenze, e che nel Noir, rispetto a generi che pure gli sono attigui
come il poliziesco o il melodramma, il tempo della storia è spesso estremamente breve,
tanto da estendersi, non di rado, lungo l'arco di qualche giornata, quando non di sole 24 ore.
A proposito del noir, spesso si parla appunto di "territorio" nella notte, a sancire una
divisione netta tra la fase diurna e le ore successive al tramonto. Sia sul piano narrativo che
iconografico, la notte nel Noir non appare mai come il prolungamento naturale del giorno,
semmai assumere la forma di un universo a sé stante, autonomo, attraversato da azioni
(delitti, tranelli, adulteri) e immagini (personaggi fermi nell'ombra, ambienti trasfigurati
dall'oscurità, strade male illuminate ecc,) che seguono tutt’altri percorsi. → influenza del
cinema espressionista tedesco sulla manipolazione della messa in scena per dare angoscia (Il
Terzo Uomo, C. Reed e Lo Sconosciuto del terzo piano di B. Ingster, 1940).
Mentre il cinema più propriamente classico vuole creare delle immagini che siano
soprattutto armoniose e leggibili, per produrre una narrazione efficace, lo stile noir si
sostanzia invece di immagini potentemente evocative. Il suo fine non è la chiarezza o la
trasparenza, ma una messa in scena carica di pathos, che manifesta anche una importante
dimensione estetica.
Un tecnica molto utilizzata nel noir è la soggettiva che è una tecnica di ripresa
cinematografica in cui la scena viene inquadrata esattamente dal punto di vista di uno dei
personaggi, come se la si vedesse attraverso i suoi occhi. Può essere composta da due
inquadrature (nella prima viene mostrato il soggetto che guarda e nella seconda ciò che egli
vede) oppure da una sola (viene mostrato solo ciò che il personaggio vede).
La soggettiva è a volte enfatizzata attraverso l'uso di particolari accorgimenti, per esempio
una visione sfocata per un ubriaco o la forma del binocolo per un personaggio che lo stia
usando. Viene inoltre a volte utilizzata per ottenere effetti di suspense, per esempio quando
lo spettatore non sa chi sia il soggetto che sta vedendo la scena. Nel 1947 Robert
Montgomery gira La donna nel lago (Lady in the Lake, qui a sx), interamente girato in
soggettiva. Meno radicale ma molto più riuscito La fuga (Dark Passage, D. Daves), film dello
stesso anno con Humphrey Bogart e Lauren Bacall che pure sfrutta moltissimo la soggettiva
in tutta la prima parte. Il noir ci racconta di una soggettività pienamente fisica, e cerca di
utilizzare i mezzi stilistici del cinema per trasmettere tutta la gamma percettiva del soggetto.
Siamo piuttosto lontani dalla visione ordinata del cinema classico.
Molti tra i noir oggi più celebri non furono prodotti dalle case di produzione principali, o
comunque non erano considerati film di serie A. Nonostante si possa dire che questi sono i
film dell’epoca più visti e amati ancora oggi, in origine si trattava di prodotti di serie B e non
prestigiosi. L’esempio migliore è forse proprio Detour (E.G. Ulmer, 1945), realizzato in soli 6
giorni dall’immigrato austriaco Ulmer per la piccola casa di produzione PRC. L’idea che la
mancanza di denaro aguzzi l’ingegno creativo e faccia sì che si trovino delle soluzioni
espressive innovative è una delle traiettorie essenziali della storia del cinema. E infatti il noir
di serie B sarà un modello per i cineasti della Nouvelle Vague francese degli anni Sessanta:
Jean-Luc Godard dedicherà il suo À bout de souffle alla Monogram Pictures, uno di questi
studi minori della cosiddetta Poverty Row di Hollywood. Da una parte, questi film
appartengono alla cultura popolare, all’immaginazione pulp, basata sull’aspetto scandaloso
del sesso e della violenza. Non a caso si chiamavano Blood Melodramas. D’altra parte, le
narrazioni a tinte forti dei noir veicolano anche delle riflessioni sulla condizione umana
(specialmente, ma non solo, da un punto di vista maschile) nel contesto della modernità
metropolitana. L’immagine del mondo che ne emerge è quella di un universo caotico e
spesso disperato, in cui i soggetti sono intrappolati e/o smarriti e privi di punti di
riferimento. In tal modo, questi film partecipano delle riflessioni della cultura alta sulla crisi
del soggetto e sulla modernità come età dell’ansia pervasiva.
LA SITUAZIONE ITALIANA
Si può dire che il noir sia il modo in cui i registi italiani si lasciano alle spalle il cinema fascista
ed entrano nel neorealismo (Ossessione di Visconti, 1943) e poi anche il modo in cui
abbandonano il neorealismo in direzione delle sperimentazioni del cinema moderno
(Cronaca di un amore di Antonioni, 1950).
ELEMENTI SALIENTI DEL NOIR AMERICANO
● Vicende criminose
● Mascolinità tormentata (alcolizzati, reduci, violenti forse assassini)
● Donne fatali
● Strutture narrative complesse
● Stile marcato
LO STILE DEL NOIR
● Ombre espressioniste e nebbie atmosferiche
● Profondità di campo
● Angolazioni inusuali della mdp
● Inquadrature lunghe e piani sequenza
● Riprese in esterni reali
UN FILM DI SVOLTA: CITIZEN KANE (QUARTO POTERE, ORSON WELLES, 1941)
Quarto potere aveva inaugurato un modo di narrare che eccedeva da tutti i punti di vista;
da quello immediatamente tematico, dilatando la vicenda sul piano storico realistico,
morale, psicologico, e su quello drammaturgico, forzando e reinventando il linguaggio
classico nella rappresentazione di una realtà che è anche stilisticamente prospettica,
sfaccettata, contraddittoria come i suoi personaggi, spesso interpretati da Welles stesso.
Quarto potere non è un noir, ma la sua lezione stilistica sarà assorbita e rinnovata dai noir
veri e propri degli anni successivi.
● Narrazione dalla complessa struttura a flashback multipli
● Angolazioni inusuali della mdp
● Illuminazione fortemente contrastata
● Profondità di campo
● Long-takes (inquadrature lunghe) e piani sequenza
DETOUR (DEVIAZIONE PER L’INFERNO, EDGAR G. ULMER, 1945)
Al Roberts, un pianista squattrinato di New York, suona in uno modesto locale dove si
esibisce come cantante la sua ragazza Sue Harvey. I due sono insoddisfatti della loro vita e
pur avendo intenzione di sposarsi, non hanno prospettive future. Un giorno Sue decide di
andare a cercare fortuna a Los Angeles nonostante la delusione di Al. Passano del tempo e
Al decide di raggiungere la ragazza, viaggiando con l'autostop, avendo con se solo pochi
dollari. Quando è già nell'Arizona ottiene un passaggio dal facoltoso signor Haskell. Questi si
offre di portarlo fino a destinazione, dato che è diretto a Los Angeles per effettuare una
scommessa su un cavallo. Al nota delle ferite sulla mano dell'uomo, questo gli spiega che
sono i graffi di una ragazza che ha lasciato lungo la strada dopo un litigio. Quindi, dopo una
sosta per la cena, Al sostituisce alla guida Haskell, che si addormenta profondamente.
Fermatosi per alzare la capote dell'auto per ripararsi dalla pioggia, Al non riesce a svegliare
Haskell che, aperta la portiera, cade rovinosamente a terra restando morto. Convinto che
nessuno crederà mai ad un incidente, Al ritiene che potrà portare a termine il suo viaggio
solo nascondendo il cadavere e riprendendo la strada con i documenti e i soldi sottratti al
morto. Così entra in California spacciandosi per Haskell, quindi dopo una sosta in un motel
dà un passaggio ad una ragazza cui però non può mentire. Infatti lei è Vera, la ragazza con
cui Haskell aveva litigato e che ora, raggiunto Al, lo crede un impostore e un assassino. Vera
minaccia di denunciarlo, così Al accetta le sue condizioni e, giunti nei pressi di Los Angeles,
affitta con lei una piccola abitazione. Alla notizia che il ricchissimo padre di Haskell è in fin di
vita, Vera vuole che Al impersoni suo figlio per riscuoterne l'eredità. Dal momento che lui
non se la sente di spingersi fino a questo, lei minaccia di telefonare alla polizia. Al, nel
cercare di strappare il filo del telefono che lei ha già impugnato, ne determina l'accidentale
morte. Stavolta, sebbene involontariamente, è stato certamente lui a causare questa nuova
morte e dunque la sua posizione è notevolmente aggravata. Al sente che un inesorabile
destino lo ha segnato, impedendogli di raggiungere l'amata Sue e tracciando suo malgrado
una scia di sangue dietro di sé, che, benché lui provi a fuggire, lo porterà inevitabilmente ad
essere arrestato e a pagare ben oltre le sue responsabilità.
● Lavoro sull’illuminazione e sul potere evocativo degli oggetti, per trasmettere la
sensazione del tormento interiore e dell’alterazione della percezione
● La musica come dispositivo di innesco memoriale
● Messa in scena così scarna da tendere all’astrazione
Il film sembra collocarsi interamente in quello spazio liminale della coscienza collocato tra la
notte e l’alba (il locale iniziale si chiama «Break O’ Dawn»). Un ruolo importante nella messa
in scena lo svolgono anche fenomeni atmosferici come la nebbia e la pioggia.
Il noir pullula di spazi di transito e di attesa, non-luoghi sempre uguali, freddi e impersonali
come autogrill, stazioni di servizio, motel, che esprimono l’impossibilità del soggetto di
trovare una dimensione di Casa.
LA METAFORA DELLA STRADA
Il film è tutto incentrato sulla metafora della strada (una metafora che sarà essenziale anche
per il cinema neo-noir di David Lynch): dai segnali stradali iniziali a New York all’autostop che
svolge un ruolo fondamentale nella parte centrale del film. La strada smette di rappresentare
la possibilità di arrivare concretamente in qualche luogo, raggiungere la destinazione
desiderata e la felicità, e diventa invece lo spazio del pericolo, in cui non ci si può che scontrare
con un fato implacabilmente maligno. La traiettoria lineare, di causa-effetto del cinema
classico devia e va a schiantarsi e accartocciarsi di fronte alla messa in scena di una crisi totale
nel rapporto tra uomo e mondo.
UN SOGGETTO SCISSO
Nel finale, il protagonista rimane sospeso tra New York e Los Angeles, non può fermarsi né
in una città nell’altra: a New York è dato per morto come Al Roberts, a Los Angeles è
ricercato come Charlie Haskell.
La sua è dunque un’identità irrimediabilmente scissa, dimidiata, che non è possibile
ricomporre.
Il percorso di sconfitta esistenziale di questo protagonista dà misura della statura
autenticamente filosofica della riflessione del noir sullo spazio, il tempo e la soggettività.
E d’altronde ci si potrebbe chiedere: ma Al Roberts è poi davvero un narratore affidabile?
9) IL CINEMA D’AUTORE IN GIAPPONE
Nel dopoguerra si afferma con sempre più forza il concetto del cinema d’Autore, soprattutto
grazie alla Politique des Auteurs di una rivista come i «Cahiers du cinéma». Il regista si
occupa di tutte le diverse fasi della realizzazione del film, con particolare attenzione alla
sceneggiatura, di cui è firmatario o co-firmatario. Il film è considerato un oggetto culturale e
non ci si preoccupa della questione commerciale. I contenuti sono spesso complessi, di non
facile lettura, ed hanno a che vedere con la peculiare visione del mondo dell’Autore. Anche
sul piano dello stile, si sperimenta in modo originale, al di fuori dei canoni del cinema
classico. Non si vuole tanto divertire lo spettatore, quanto spingerlo a crescere
culturalmente e riflettere; lo spettatore deve essere attivo ed interpretante nei confronti del
testo filmico. Il singolo film va visto anche in connessione con gli altri dello stesso Autore,
con cui compone la sua Opera complessiva.
Di tutte le cinematografie non occidentali, la giapponese è stata indubbiamente quella che
ha saputo meglio imporsi nell'ambito dell'intera storia del cinema. Nel determinare ciò
hanno assunto un ruolo essenziale alcuni autori, come Yasujirō Ozu, Kenji Mizoguchi e Akira
Kurosawa. Sino agli anni Sessanta, il cinema nipponico si è retto su un vasto e articolato
sistema produttivo il cui modello era chiaramente quello hollywoodiano. Un sistema che
faceva del cinema una vera e propria industria, garantiva un alto numero di film, formava
del personale specializzato, suddivideva la produzione in generi (i principali erano due: i
jidaigeki, in altre parole i film ambientati nel passato, e i gendaigeki, quelli, invece,
d’ambiente contemporaneo) e controllava abilmente il mercato.
YASUJIRŌ OZU
Ozu girerà sempre dei gendaigeki, in particolare shomingeki (drammi della gente comune),
film dedicati al mondo della piccola borghesia, alle cose di tutti i giorni, alla vita familiare, ai
problemi coniugali, ai rapporti fra genitori e figli. Non per questo dimenticando l'analisi di
certe contraddizioni sociali in attenta equilibrio fra dramma e commedia, come ben
testimoniano fra gli altri Figlio unico del 1936 e Viaggio a Tokyo del 1953. Sul piano della
costruzione narrativa i suoi film propongono spesso la figura della "rivelazione",
configurandosi così come un cammino verso una verità fino a quel momento sconosciuta, ai
personaggi come lo spettatore. La scoperta di questa verità modifica rapporti fra individui,
generando da prima, un momento di profonda crisi che approda però, poi, ad un'autentica
comprensione e ad una maggiore armonia fra le parti.
Fra gli elementi salienti dello stile del regista possiamo ricordare la posizione bassa e la
staticità della macchina da presa, il ricorso ad immagini in transizione, quasi delle nature
morte che interrompono il fluire degli eventi e sospendono il racconto, l'uso di uno spazio a
360°, le inquadrature frontali, e non di sbieco, sui volti dei personaggi, che quando parlano
sembrano così rivolgersi direttamente allo spettatore, un montaggio che privilegia i criteri
grafici a quelli narrativi, la funzione ritmica dei rumori, la recitazione scarnificata dei suoi
attori, che tende quasi all'assenza di espressione, una narrazione che ricorda i tempi morti,
ai vuoti, che, mentre procede verso qualcosa, si ripete, ruota su se stessa, ritornando a ciò
che è già stato per mostrare le piccole e grandi variazioni in rapporto a ciò che invece è.
KENJI MIZOGUCHI
Mizoguchi è autore di un nutrito corpus di opere che spaziano tanto nell'ambito dei
gendaigeki che in quello dei jidaigeki. Ciò che colpì parte della critica occidentale, ed in
particolare i "giovani turchi" dei "Cahiers du Cinéma”, quando i suoi film iniziarono ad essere
visti nell'Europa degli anni Cinquanta, fu la modernità del suo stile. Uno stile di regia e messa
in scena che si affida ai piani sequenza, alle immagini distanziate, agli elaborati movimenti di
macchina, alle inquadrature in profondità di campo e al complesso intrecciarsi e sovrapporsi
di più dati iconicamente insignificanti. Soluzioni che vanno tutte in una direzione ben
precisa, privilegiano i modi del montaggio interno, invitano lo spettatore ad un lavoro
maggiore e ad uno sguardo più critico e attivo. I racconti della Luna pallida d'agosto del
1953 è il suo prestigio internazionale. Dominante tutto il cinema di Mizoguchi è la
rappresentazione dell'universo femminile, tramite cui, da una parte, denuncia apertamente
come una società patriarcale, che rimane sostanzialmente uguale a se stessa nonostante il
passare dei secoli, sfrutti ed emargini la donna; dall'altra, tuttavia, Mizoguchi fa delle sue
eroine degli oggetti di culto ed ammirazione, frutto di una concezione in qualche modo
astratta e trascendentale della donna. Tre sono i modelli che il regista privilegia: la ribelle, la
principessa e la sacerdotessa. La prima è la donna vendicativa, fatalmente destinata a venire
sconfitta. L’archetipo della principessa è costituita da donne aristocratiche, costrette
tuttavia a confrontarsi con gli aspetti più bassi della società che le circonda ma che
rimangono nell'animo pure ed incontaminate. La sacerdotessa rappresenta il ruolo forte
ideale per Mizoguchi: è la donna che può amare tramite un’altruistica devozione rivolta al
proprio uomo, che per lui si sacrifica, divenendone la guida spirituale, morale e talvolta
anche finanziaria.
AKIRA KUROSAWA
Kurosawa realizza i suoi primi film negli anni della seconda guerra mondiale. Si tratta di un
insieme di opere che appartengono pienamente a quella cosiddetta Politica Nazionale che
imponeva all'esaltazione dello spirito di sacrificio del singolo per il bene del paese. Alla fine
della guerra, Kurosawa può finalmente esprimersi con più libertà e dirige, spaziando fra
gendaigeki e jidaigeki alcune delle sue opere più significative. In molti film Kurosawa
racconta la storia di un uomo in caparbia lotta contro i mali e le ingiustizie della società. I
suoi eroi positivi non sono dei personaggi piatti e manichei ma assai complessi; il loro è un
impulso quasi irrazionale che si accompagna ad aspetti, talvolta, oscuri e ambigui. Il ruolo
comune fondamentale che il personaggio assume nei suoi film fa, del cinema di Kurosawa,
uno dei vertici di quel cosiddetto "umanesimo" che contrassegna il cinema giapponese del
secondo dopoguerra.
Rispetto agli altri registi che si muovono in questa direzione, Kurosawa coniuga questa
tendenza con uno stile più spettacolare e un ritmo più sostenuto. L'influenza del cinema
americano e dei modelli occidentali è molto evidente, così come lo è la capacità del regista
di piegare tali influenze alle proprie esigenze espressive e alle forme della tradizionale
estetica giapponese. Questa varietà di fonti e forme - rinvenibile anche sul piano degli
adattamenti: da Shakespeare a Dostoevskij e Gor’kij, da Ryūnosuke Akutagawa a Shigoro
Yamamoto- non è del resto che uno dei tanti elementi che determinano la forte tensione
caratterizzante l'intera opera dell'autore e che dà vita a quel dinamismo che è forse il
marchio di stile e poetica più significativo del regista. Ed è proprio attraverso il suo ruvido e
diseguale montaggio, i raccordi a 180°, le frequenti e costanti giustapposizioni di primi piani
e campi lunghi, l'alternanza di inquadrature statiche ed altre piene di movimento, i raccordi
che giocano su conflitti di linee direzione, in sostanza sugli scarti operati in rapporto a quel
modello di rappresentazione classico pur riproposto nella sua globalità, che Kurosawa riesce
a dar vita ad uno stile assai peculiare pari per intensità e originalità di risultati a quello dei
grandi maestri della tradizione.

RASHŌMON, AKIRA KUROSAWA, 1950


Rashōmon è un mix tra jidaigeki e gendaigeki. Il film è l’adattamento di diverse opere
letterarie: due racconti dello scrittore Akutagawa Ryūnosuke (1892-1927), ispirati a loro
volta ad un’antologia di racconti dell’età Heian (784-1185).
in una giornata di pioggia incessante, un boscaiolo, un monaco e un passante si fermano a
parlare di un fatto increscioso avvenuto qualche tempo prima.
Si tratta dell'uccisione di un samurai, avvenuta per mano di un brigante che avrebbe anche
abusato della moglie di lui. Il monaco (Minoru Chiaki), che aveva deposto al processo come
testimone in quanto aveva incrociato lungo la strada la coppia prima del fattaccio, inizia a
raccontare in flashback la storia come vi ha assistito nel tribunale. Riporta così le versioni del
brigante-violentatore Tajōmaru, della moglie del samurai, e anche della vittima (che
avrebbe parlato attraverso una medium). Le versioni sono contrastanti e non si capisce bene
quale sia la verità. Infine il boscaiolo, che era colui che aveva rinvenuto il cadavere nel
bosco, confessa agli uomini che attendono al fine della pioggia che anche lui è stato un
testimone diretto, ma che non lo ha riferito al tribunale per non rimanere invischiato nella
vicenda.
L'ultima versione è apparentemente la più realistica, perché non enfatizza il ruolo di ciascun
protagonista nella vicenda, anzi li sminuisce nella loro vigliaccheria. Tuttavia anche la sua
versione viene messa in discussione alla fine del film, quando si capisce che ha rubato dei
preziosi oggetti delle vittime.
Infine viene rinvenuto un bambino abbandonato che uno dei tre uomini decide di prendere
con sé con spirito di altruismo, e questo ristora il monaco assai turbato fino ad allora dal
comportamento scellerato degli uomini.
Tutto il racconto si è svolto al riparo della porta in rovina ai limiti della città di Kyōto, che
nell'ultima scena viene identificata da un segnale come Rashōmon.
Il titolo indica il portale sud della città di Kyoto, che è l’edificio in rovina e battuto dalla pioggia
dove si svolgono gli eventi-cornice del film. I titoli di testa sono 11 frammenti dell’edificio
(prima che lo si veda nella sua interezza), che sono come pezzi di un puzzle che alludono
all’enigma da risolvere. Si tratta già di un invito allo spettatore ad essere attivo e
interpretante: ci viene già suggerito che l’enigma non sarà risolto all’interno delle singole
immagini, ma combinandole insieme. Poi ancora nella I sequenza le parole del boscaiolo -
«Non capisco, proprio non capisco» - sollecitano ulteriormente lo spettatore
all’interpretazione.
I PERSONAGGI
Tajomaru, il bandito
Masago, la donna
Takehiro, il Samurai

Il boscaiolo
Il monaco
Il viandante

Il poliziotto, la medium, il neonato


STRUTTURA
1. Al portale, fino a che inizia la rievocazione del boscaiolo
a. Il racconto del boscaiolo, nel bosco e poi presso il tribunale
b. Il racconto del monaco
c. Il racconto del poliziotto
d. Il racconto di Tajomaru
2. Ritorno al portale, fino a che inizia la rievocazione del monaco
e. Il racconto di Masago
3. Ritorno al portale, fino a che inizia la seconda rievocazione del monaco (?)
f. Il racconto del samurai per mezzo della medium
4. Ritorno al portale, fino a che inizia la seconda rievocazione del boscaiolo
5. Ritorno al portale e finale
TRE SPAZI
1. Il portale
2. Il tribunale
3. Il bosco
TRE STILI VISIVI
Kurosawa usa tre retoriche visive diverse (ciascuna sperimentale a suo modo) per
rappresentare i tre tempi del racconto:
● Per il presente viene usato un grandangolo per comprendere quanto più spazio
possibile (lo spazio fortemente simbolico del portale).
● Il passato recente, quello del processo, vede l’uso di composizioni frontali, con i
personaggi in mezza figura ampia inquadrati con un obbiettivo 50mm, in cui la
profondità di campo è limitata soprattutto dal fatto che alle spalle hanno un
muro bianco o poco più. Si noti anche la totale assenza delle voci del giudice
istruttore o di altre persone che compiono l’interrogatorio.
● Nel passato (relativamente) più lontano, quello del bosco, Kurosawa propone uno
sfoggio stilistico che caratterizza tutti gli elementi del linguaggio: organizzazione
del profilmico, illuminazione, scala dei piani, angolazione delle inquadrature,
montaggio.
IL GIOCO DEI 3
3 luoghi principali del racconto, 3 piani temporali distinti, 3 protagonisti (bandito, samurai,
donna), 3 personaggi al portale (boscaiolo, monaco, viandante), 3 testimoni (boscaiolo,
monaco, poliziotto), 3 giorni tra l’uccisione del samurai e il processo, 3 identità sessuali (M, F
e transgender).
Ma poi sono 4 le versioni dell’omicidio, e insomma col 3 non arriviamo a nessuna sintesi.
MUSICA
La partitura musicale è complessa e ibrida, talvolta vicina a modelli occidentali (in particolare
il Bolero di Ravel), altrove invece più marcatamente nipponica, specie nel finale di speranza.
La dimensione di dialogo transnazionale è stata evidentemente fondamentale sia nella
concezione del film che nella sua ricezione (ricordiamo che vinse il Leone d’oro a Venezia,
lanciando la moda nipponista nei festival occidentali, che dura ancora oggi).
LE DOMANDE
● Chi ha ucciso il samurai (o è stato un sappuku)?
● Con quale movente?
● Il rapporto sessuale è stato consensuale o meno?
● Come sono fuggiti il bandito e la donna?
● Che fine ha fatto il pugnale?
Più in generale, come spettatori interpretanti, ci si può chiedere in senso più generale:
● Chi racconta?
● Chi guarda?
● C’è corrispondenza/coerenza rispetto a queste due problematiche?
E dunque in fin dei conti il vero interrogativo è:
● Di cosa parla davvero questa storia (a livello anche metaforico)?
CI SI PUÒ FIDARE DEI NARRATORI?
È fondamentale ricordare che quasi tutte le visualizzazioni/flashback sono frutto di una
doppia stratificazione: le testimonianze del processo sono ri-raccontate dai personaggi
presenti presso il portale, nella cornice. Insomma quelli del bosco sono «flashback di
flashback». Solo i racconti del boscaiolo sono flashback ‘diretti’. E nel caso del racconto del
samurai per il tramite della medium non è chiaro quale dei personaggi del portale faccia
partire la rievocazione.
Dunque: sono soltanto i tre protagonisti principali a mentire o omettere dei fatti, oppure le
‘bugie’ di Tajomaru, Masago e Takehiro sono imputabili (anche) al boscaiolo e al monaco,
testimoni poco attendibili?
Le immagini del flashback sono la visualizzazione precisa dell’immagine mentale o delle parole
dei personaggi che testimoniano?
No, c’è sempre la presenza di una istanza esterna, ‘oggettiva’, che decide autonomamente
come organizzare la narrazione, scegliendo il modo migliore di restituire sentimenti,
convinzioni e bugie dei narratori intradiegetici.
DOVE STA LA VERITÀ?
Nell’ultima parte, una versione plausibile dei fatti sembra, in fin dei conti, emergere, in
accordo con la svolta allegorica e consolatoria dell’ultima parte (il ritrovamento del neonato).
La rilevanza del film però – il ruolo che ha svolto nella storia del cinema – sta proprio nell’aver
reso questo scioglimento quasi irrilevante. Il processo con cui si giunge alla verità è talmente
tortuoso che, in conclusione, stabilire i fatti non conta poi molto, perché nulla può arginare il
senso di confusione e arbitrarietà dominante.
Anche come spettatori, ciò che ci si ricorda di Rashōmon non è certo la conclusione precisa
dell’enigma, quanto la moltiplicazione dei piani di realtà e la superfetazione del racconto in
direzione di una complessità prima inusitata.
SOGGETTIVE PROBLEMATICHE
● Il boscaiolo trova il cadavere nella II sequenza (sequenza che poi si rivelerà
menzognera): invece dell’oggetto del suo sguardo abbiamo una semi-soggettiva
del cadavere (min. 10.44)
● Tajomaru legato nel cortile del tribunale guarda il cielo in modo del tutto
estemporaneo (min. 13.25)
● Masago cede nell’amplesso a Tajomaru e l’inquadratura si sfoca… ma il racconto
è di Tajomaru stesso (min. 29.01)
LA CONFUSIONE TRA SOGGETTIVO E OGGETTIVO
Anche le inquadrature oggettive sembrano a volte ‘sporcarsi’ di soggettività:
● Masago attende i due uomini che si sono allontanati ed è inquadrata in modo
estremamente pittorico, come se a vederla fosse l’occhio attratto di Tajomaru
(min. 21.18+)
Kurosawa costruisce un universo diegetico in cui la separazione tra soggettivo e oggettivo
diventa viene messa in discussione, e dunque i consueti modi di comprensione e costruzione
del senso risultano alterati.
Si segnalano anche alcuni campi/controcampi arditissimi che collegano spazi e tempi diversi.
Si tratta di tre transizioni bosco/cortile:
1. PP del bandito in tribunale sembra una soggettiva della donna nel bosco (min. 25.25)
2. La donna in tribunale sembra una soggettiva del marito (min. 40.33)
3. Il samurai sembra una soggettiva della medium (min. 50.57)
Passato prossimo e remoto della storia si accavallano senza creare un distacco netto, ma
accentuando la permeabilità dei diversi racconti.
IL FUORICAMPO
Conta moltissimo anche ciò che non si vede: la città, il giudice, il cadavere, lo stupro, il
boscaiolo nascosto, il bambino che viene abbandonato nel finale – il non-visto acquista il
medesimo valore di quanto è mostrato, se non ancora maggiore.
Quando scopriamo che il boscaiolo è stato presente per tutto il tempo abbiamo davvero la
sensazione che il bosco non sia fitto solo di vegetazione, ma anche affollato degli sguardi e
dei percorsi incrociati di questi personaggi.
In generale la pulsione di guardare è al centro del film, ma anche l’impossibilità di controllare
e capire il mondo e l’Altro tramite lo sguardo.
GLI SGUARDI
1. Per il bandito, gli occhi della donna quando egli la assale sono «di ghiaccio, la
sua espressione intensa come quella di un bambino».
2. Per la donna invece, dopo che lei ha subito la violenza, negli occhi del marito
scintilla non «rabbia, né tristezza, ma una luce fredda, uno sguardo di disprezzo
e nient’altro».
3. Infine per il Samurai, quando vede la reazione positiva della moglie alle avances
di Tajomaru, la donna è come «in trance».
Si tratta in ogni caso di espressioni disumane, che indicano una difficoltà nel relazionarsi allo
sguardo altrui, una generalizzata incapacità di reggere lo sguardo.
L’ALLEGORIA SOCIALE
Il film è racconto allegorico, ovvero dotato di un significato concettuale nascosto e di un fine
etico e pedagogico.
Il bosco si configura così come un luogo antropologico e presociale, in cui possono emergere
le istanze umane meno nobili.
Sembra possibile leggere questa metafora in relazione al contesto in cui il film fu prodotto,
ovvero come apologo sulla difficoltà della società Giappone di rinnovare la propria immagine
nel suo complesso, dopo la devastazione e il caos della guerra e della caduta del potere
costituito.
Il portale, luogo sacro che dovrebbe separare il dentro sociale da un fuori caotico, è distrutto
e in stato di abbandono – con la scultura decorativa (onigawara) che dovrebbe proteggere
dai demoni lasciata riversa in terra e preda degli elementi.
Il portale dunque non fa più da filtro tra la città e ciò che c’è all’esterno e che non è sicuro. E
quindi non ci sono più gruppi sociali saldi e solidali: ogni individuo pensa solo a sé stesso,
nemmeno la coppia può avere una funzione salvifica.
Ognuno pensa solo alla salvaguardia del proprio onore, mentendo per il proprio tornaconto
e credendo solo a ciò che gli conviene: il patto sociale è rotto.
Il finale avrebbe in questo senso un valore consolatorio, alludendo ad una possibile rinascita
della fiducia nel prossimo.
L’ALLEGORIA FILOSOFICA
Ma più ancora che il legame con il contesto, pur suggestivo, sono rilevanti le valenze
filosofiche ampie dell’allegoria proposta dal film. Si tratta di una riflessione:
● sulla complessità del ricordo
● sull’intreccio tra racconto, desiderio e sguardo (voyeurismo)
● e soprattutto sull’impossibilità della conoscenza.
Il film apre il reale a una continua rilettura, in cui ogni punto di approdo del senso è fatalmente
parziale e temporaneo. La sfida proposta da Kurosawa non è la risoluzione dell’enigma, ma la
sospensione del giudizio: sia su quanto sia effettivamente avvenuto, sia, ad un certo livello,
sulla ‘verità’ morale di fondo proposta dal film.
SPECULAZIONE FREDDA, PERCEZIONE CALDA
Al di là della stimolazione della nostra curiosità intellettuale e speculativa, o del discorso etico-
morale, il film coinvolge lo spettatore anche grazie ad una forte stimolazione estetica e
sensoriale:
● Pittoricità delle riprese nel bosco (le foglie creano continui giochi di luce e
movimento sui corpi, decorandoli, nascondendoli e svelandoli, disturbando la
linearità della lettura dell’immagine).
● Sensualità dell’ambiente caldo del bosco, dove i personaggi si comportano con
fare animalesco, e la regia ne enfatizza la corporeità, la pelle, il sudore, il respiro.
● Deformazione eccessiva e finanche grottesca dell’atteggiamento dei personaggi,
specie per quanto riguarda gli elementi fisici del riso del bandito, e del pianto della
donna: quando d’improvviso lei muta il pianto in riso, viene a galla il carattere di
convenzione sociale del suo comportamento precedente (il pianto come forma di
espressione tipica della presunta debolezza femminile). In generale riso e pianto sono
espressioni simboliche, quasi ritualizzate.
IL DESIDERIO FEMMINILE
La dialettica fra samurai e bandito è mediata dalla presenza femminile, che è
profondamente contraddittoria.
I due uomini danno la colpa interamente alla donna, alleggerendo la posizione di entrambi
rispetto al tradimento di lei; la donna disprezza entrambi, ma non si libera della colpa dello
stupro e del tradimento. La donna è il personaggio più complesso di tutti, anche perché in
fondo il film ruota attorno ad una scena non visualizzata che è una vera e propria scena
primaria: l’amplesso adulterino.
L’enigma di fondo del film, il vero tabù che fonda la rappresentazione, sembra riguardare il
desiderio e il piacere femminile.

10) HITCHCOCK E LA FINESTRA SUL CORTILE


Alfred Hitchcock è considerato un "autore". L’opera di Hitchcock prosegue per oltre
vent'anni ed è indubbio che complessivamente ci si trova di fronte a una coerenza tematica
e stilistica straordinaria, oltre che all'estrema specificità e riconoscibilità di un linguaggio
non parassitario dello stile classico, anzi innovatore. La sua opera e il suo stile, e la
disponibilità a raccontare all'interno dei canoni di genere, riescono a raggiungere il grande
pubblico, non entrando mai in conflitto con le ragioni dell'industria. Anzi, proprio la
popolarità e la commercialità del cinema hitchcockiano hanno a lungo pesato sulla
valutazione da parte della critica miope, sospettosa nei confronti dell'industria
hollywoodiana e dalla narrativa di genere, secondo un atteggiamento che la rivoluzione
attuata dalla politique des auteurs ha certamente contribuito a smuovere. Già nei film
realizzati in Inghilterra, suo paese natale, Hitchcock inaugura un percorso interamente
incentrato sul genere giallo e sul motivo della suspense, in cui alla lettera degli intrecci
raccontati corrispondono a teoremi morali nei quali la colpa il peccato, la dicotomia tra
realtà e apparenza, l'angoscia e il sospetto acquistano una dimensione più profonda,
universale, in modo che i personaggi, gli uomini di cui si parla, rinviino ad altrettante
modalità di essere dell’uomo tout court. In film come The Lodger, (1927), Blackmail (1929),
The Man Who Knew Too Much (1934), Hitchcock metti scena progressivamente un universo
morale e psicologico in cui le ossessioni si traducono in una precisa iconografia visiva che la
produzione hollywoodiana (da Rebecca, 1939) perfezionerà e approfondirà. Di film in film il
giallo hitchcockiano si configura sempre più come uno scenario onirico in cui il problema
fondamentale dell'identità dell'individuo, tra conscio e inconscio, normalità e follia, morale
e istinto, si pone attraverso accadimenti e situazioni che assumono un valore simbolico
anche nella rappresentazione e nella ricerca formale. Si veda per esempio il motivo della
vertigine, del precipitare, dello sprofondare, presente in molti film: dalla dimensione
fattuale dell'intreccio, il tema acquista una consistenza ulteriore, una dimensione è più
sottile della ricorrenza di inquadrature dall'alto, di movimenti di macchina a spirale, i piani
ravvicinati su oggetti o dettagli della scena o dei personaggi che diventano forme
iconografiche astratte, direttamente simboliche. Un livello di astrazione è, di fatto, sempre
presente nei film e negli intrecci talvolta apparentemente grossolani messi in scena da
Hitchcock. Così, anche quando il genere si avvicina alla commedia non è assente una
dimensione sotterranea e quell'atmosfera onirica che consente di attuare letture più e
considerare il film come tappa di un percorso coerente di analisi della natura umana, svolte
lungo tutta la sua opera. Lo stile corrisponde in Hitchcock ad una sperimentazione e
innovazione costante che lo conducono, da un lato, a una vistosa forzatura del linguaggio
classico; dall'altro alla sfida esplicita. Una ricerca e una tensione formale che rivelano una
grande consapevolezza estetica da parte di un regista a lungo considerato, in senso
limitativo, come il “maestro del brivido".
La chiave del successo perdurante del cinema di Alfred Hitchcock sta nella capacità del
regista di articolare intrecci formidabili carichi di tensione, conciliando l’armonia stilistica e
narrativa del cinema classico (un cinema pieno, avvolgente, che cattura la fantasia dello
spettatore catapultandolo nel mondo diegetico con forza mitopoietica) e lo sperimentalismo
spericolato del cinema moderno (un cinema più intellettuale, autoriflessivo, che tramite
ardite scelte stilistiche mette lo spettatore a parte del processo costruttivo della macchina
finzionale).
Hitchcock fu capace di creare una cifra stilistica inconfondibile, basata su un controllo
assoluto del processo creativo: arrivava infatti sul set del tutto pronto a girare, avendo già
immaginato ogni movimento di macchina e ogni dettaglio della messa in scena tramite degli
storyboard (aveva d’altronde studiato brevemente disegno all’Università di Londra).
L’idea di Hitchcock come Maestro della Suspense, che poteva disporre a piacimento dei
propri spettatori, facendoli spaventare, eccitare o divertire, fu coltivata attivamente dal
regista stesso, che gestì sapientemente la propria immagine pubblica: la sua silhouette
pingue divenne un vero e proprio marchio di fabbrica, in particolare a partire dal suo
impegno nella serie televisiva Alfred Hitchcock Presents (Alfred Hitchcock presenta, 1955-
1962) di cui egli introduceva tutti gli episodi con un breve prologo in cui faceva interpellava
direttamente il pubblico e faceva mostra del suo proverbiale gusto per l’orrore e soprattutto
del suo humor tipicamente inglese.
D’altronde, questa dimensione di complicità esplicita con il pubblico era già stata anticipata
dalla divertente abitudine di fare una comparsata, muta e fugace, in ciascuno dei propri film,
invitando lo spettatore affezionato a stare attento a ogni dettaglio della messa in scena,
delle inquadrature e dei movimenti di macchina per non perdersi il cameo registico.
SORPRESA E SUSPENSE
Mentre la sorpresa si verifica quando rimaniamo sbalorditi perché sullo schermo accade
qualche cosa d’inaspettato, la suspense implica invece un discorso più complesso, relativo
ad un’accuratissima gestione del posizionamento del pubblico.
Nel caso della struttura a suspense, infatti, lo spettatore viene collocato in una posizione
intermedia tra il sapere assoluto di cui è naturalmente depositario l’Autore e il sapere
irrimediabilmente parziale dei personaggi. Accordando allo spettatore più informazioni di
quante ne abbia il personaggio, Hitchcock è capace di instillare nel primo una forma di ansia
e di attesa assolutamente peculiare.

LA FINESTRA SUL CORTILE (REAR WINDOW, 1954)


Rear Window è uno dei grandi film sul cinema. Ma è un film in cui l'analisi del cinema è
effettuata senza rappresentare esplicitamente nulla dell'universo del cinema, senza
mostrarne né il mondo, né la tecnica, né la macchina realizzativa. Rear Window parla del
cinema senza descriverlo palesemente, e senza inserire alcune evidente elemento
metalinguistico nel tessuto testuale. Attraverso lo sviluppo della narrazione il film propone
le componenti costitutive del cinema, mostrandoci come il cinema articoli il racconto visivo,
di quali componenti tecnico-linguistiche si avvalga, e come lo spettatore viva la relazione
percettiva con l'immagine schermica.
Hitchcock sviluppa quindi un duplice livello di organizzazione del testo: da un lato struttura
la narrazione filmica attorno alla suspense e all'indagine investigativa condotta dai
protagonisti. Dall'altro intesse il testo filmico di una serie sistematica di elementi che
riguardano la struttura del cinema, rendendoli particolarmente evidenti.
Subito in apertura, il duplice spazio del film è gradualmente rivelato. La mdp inquadra un
settore limitato di una stanza con un'ampia finestra tripartita e registra il progressivo
sollevarsi delle tre veneziane che rivelano un cortile e le finestre dei palazzi di fronte.
Quando i titoli di testa sono finiti con la scritta "Directed by Alfred Hitchcock", la mdp
avanza, fino ad affacciarsi attraverso la finestra centrale e mostrare più direttamente la
parte frontale degli edifici e gli spazi del cortile. Il meccanismo di presentazione dello spazio
e dunque articolato in due momenti, esattamente calibrati. Il primo è effetuato nel
profilmico e consiste nella eliminazione graduale del filtro che limitava o impediva la visione.
Il secondo è un movimento di macchina che permette allo spettatore di avvicinarsi alla
finestra e quasi superarla, e di vedere più direttamente il configurarsi dello spazio
scenografico determinato in cui il film si svilupperà. La seconda inquadratura presenta
invece un movimento di macchina complesso ed elaborato. La mdp inquadra inizialmente in
basso su una scala di pietra esterna un gatto nero, poi sale verso le facciate interne di
quattro case con le relative finestre sul cortile. L'inquadratura non si conclude nella
panoramica dell'esterno,
ma rientra verso la stanza sino a scoprire alla fine del suo percorso la presenza di un uomo
seduto che sta dormendo. Questa connessione tra l'esterno e l'interno, tra il mondo
circostante l'uomo seduto definisce già lo spazio di pertinenza del film e insieme qualifica
apertamente l'inquadratura come un’oggettiva irreale che sottolinea singolarità artificiale
della visione cinematografica e il suo carattere di prodotto tecnologico complesso.
L'attenzione alle tecnologie di ripresa, alle macchine e meccanismi di riproduzione del
visibile, in ogni modo, attraversa tutto il film ed è ovviamente favorita dalla stessa attività
professione del protagonista, L.B. Jefferies (Jeff), che è un fotografo. Lo sguardo rafforzato
delle apparecchiature ottiche, d'altronde, è una sorta di oggettivazione dello sguardo della
mdp e della visione del cinema. Hitchcock ci fa vedere lo sguardo raddoppiato e tecnologico
di Jeff per alludere sistematicamente allo sguardo tecnologico e potente del cinema, ci
presenta modi di percezione raddoppiati grazie all'ottica per mostrare le tecnologie di
percezione e di raddoppiamento del visibile proprie della registrazione cinematografica.
La finestra di Jeff, le altre finestre, gli iris del teleobiettivo: il film costruisce tutta
un’alternanza, una dialettica tra vedere e non vedere, tra palesare ed occultare che replica
di fatto la struttura del racconto e della messa in scena cinematografica.
Hitchcock fa un uso insistito delle soggettive e della focalizzazione interna (tranne che nella
notte fatale), oltre che enfatizzare continuamente i dispositivi foto-cinematografici per
sottolineare la capacità di queste tecnologie di rivelare un mondo e penetrarlo visivamente.
Il cinema di Hitchcock è un’estesa indagine sul crimine e sul delitto, ma anche sulla
dimensione di coppia, sul matrimonio e sul rapporto tra i sessi.
Tutte le vicende dei vicini (non solo i signori Thorwald ma Miss Lonelyhearts, Miss Torso, il
musicista, gli sposini) sembrano aver a che fare con questioni legate al sesso e ai sentimenti.
Le teorie psicoanalitiche risultano particolarmente adatte ad interpretarlo, anche perché lo
stesso Hitchcock ne era edotto e le utilizzava consapevolmente in modo esplicito e implicito
nella costruzione della messa in scena e della messa in racconto.
LA PSICOANALISI E IL VOYEURISMO
In particolare, risulta essenziale il concetto di voyeurismo, ovvero il particolare piacere che si
prova a guardare un oggetto del desiderio senza essere visti. Nel cinema classico è
generalmente l’uomo il soggetto guardante e la donna è soltanto l’oggetto guardato, il
feticcio erotico che si esibisce per il piacere del personaggio maschile e del pubblico.
Il cinema di Hitchcock talvolta conferma questa struttura dello sguardo, a volte la ribalta
dando alla donna un ruolo molto più attivo. In ogni caso problematizza queste dinamiche.
È d’altronde evidente come il discorso sul voyeurismo non descriva soltanto una particolare
perversione scopica, ma sia anche un elemento fondamentale del funzionamento del
dispositivo cinematografico.
«We’ve grown to be a race of peeping Toms!», afferma Stella a proposito del voyeurismo
diffuso nella società contemporanea.
Il voyeurismo è caratterizzato dalla sottomotricità e dall’iperpercettività del soggetto, che
prova un piacere di guardare che è del tutto rimosso dal desiderio di contatto e relazione
Jeff è un voyeur ancor prima dell’investigazione (a differenza di Stella e Lisa)
Quest’ultima diventa veramente interessante per lui solo quando entra nell’antro
dell’assassino, sconfinando nello scenario fantasmatico del pericolo e dello spettacolo.
Finché Lisa è vicina, sembra quasi che Jeff non sappia cosa farsene di lei (!), mentre il suo
interesse si desta improvvisamente quando lei si allontana.
Al tempo stesso, si potrebbe dire che la gamba ingessata di Jeff sia una metafora della sua
impotenza/castrazione…

11) NOUVELLE VAGUE


Nel maggio del 1959 viene presentato al Festival di Cannes, I quattrocento colpi di François
Truffaut; da questa data, viene fatto iniziare il nuovo corso del cinema francese degli anni
60: la nouvelle vague (nuova ondata). Se vogliamo parlare di Nouvelle Vague in senso
stretto, conviene rifarsi al gruppo di autori cresciuti come critici negli anni precedenti
attorno alla rivista "Cahiers du Cinéma": Godard, Truffaut, Rohmer, Chabrol, Rivette. A
questi vanno affiancati registi che hanno già una pratica, più o meno lunga, nel
documentario, come Agnès Varda e Alain Resnais. Pur con queste restrizioni dell’"oggetto"
in esame, va precisato che non si intende con ciò riferirsi ad un movimento, o ad un gruppo
omogeneo con precisi intenti programmatici; converrà parlare, più opportunamente, di
un’ipotesi di cinema. Dietro i loro film c'è però anche il ritratto, sia pure a grandi linee, di un
disagio generale o generazionale legata alla politica (Guerra in Algeria 1954-1962). Senza
decolonizzazione, non ci sarebbe Nouvelle Vague: è forse il primo filone post-coloniale del
cinema.Si intuisce soprattutto una nuova concezione del cinema.
Si possono comunque rinvenire talune linee di tendenza. la prima si sostanzia in un
atteggiamento di reazione, non tanto non solo contro il cinema pienamente commerciale,
quanto nei confronti di una certa tendenza del cinema francese (Le cinéma de papa= Claude
Autant-Lara, Marcel Carné, André Cayatte, René Clair, René Clement, Henri-George Clouzot).
Contro gli elementi che stanno alla base di questi film "garantiti" occorre reagire,
proponendo innanzitutto prodotti a basso costo. I minori costi sono dovuti anche dalla
diffusione del di attrezzature “leggere", che permettono le riprese all'aperto, con minore
illuminazione, con la macchina da presa "a spalla".
Il cinema è moderno di per sé stesso, per le caratteristiche del suo dispositivo: ovvero in
quanto procedimento tecnologico, utilizzato per la produzione di merci indirizzate ad un
pubblico di massa. Tutte caratteristiche che lo calano completamente nella modernità intesa
in senso storico (rivoluzione copernicana, industrializzazione, espansione del capitalismo,
crescita demografica e urbanizzazione, movimenti sociali di massa, comunicazione di massa)
D’altronde la modernità non è soltanto un fatto storico. Ma è anche un modo di pensare e di
approcciarsi alla conoscenza, al sapere e all’arte: la modernità è l’età dell’evoluzione, del
cambiamento, della rivoluzione ma anche del dubbio, della crisi.
L’arte (cinema incluso) per essere autenticamente moderna deve trovare delle forme
espressive proprie per parlare delle idee che caratterizzano la modernità: appunto le idee di
metamorfosi, di crisi, di rivoluzione, di frattura dell’individuo.
ll cinema moderno sarà dunque un cinema che restituisce tramite l’uso del linguaggio stesso
un’idea di rottura con lo stile precedente, con lo stile classico.
Se il classico era dominato dall’imperativo di una narrazione chiara e armonica, il moderno si
muoverà evidentemente in direzione diversa, decostruendo le strutture ordinate del testo,
della sequenza e dell’inquadratura. Le norme classiche faticosamente elaborate durante i
primi decenni del cinema vengono ignorate volutamente e infrante.
SPINTA REALISTA: Recupero dell’aspetto riproduttivo del dispositivo cinematografico,
ricerca di «un certo tipo di verità» (Metz) tramite il riavvicinamento del dispositivo al mondo
esterno, alla realtà fenomenica, alla vita vissuta, all’esperienza e alla presenza.
RIFLESSIONE METALINGUISTICA: Spinta autoriflessiva, legata ad un’interrogazione costante
dei modi con cui il cinema non si limita a rispecchiare il modo ma lo «media», influenzando
le nostre stesse modalità di elaborazione del senso (fino all’interrogativo radicale sulla
possibilità stessa di produrre senso).
Secondo il filosofo Gilles Deleuze, il cinema del dopoguerra (già con il neorealismo, ma in
modo più netto con la Nouvelle Vague), è la sede di un passaggio fondamentale.
Mentre il cinema classico viene definito da Deleuze come il cinema dell’immagine-
movimento, incentrato su personaggi che compiono azioni precise e dominano lo spazio
circostante, viceversa il cinema moderno è per Deleuze il cinema dell’immagine-tempo.
Il ritmo si allenta, i personaggi vagano senza scopo e senza meta (la forma della passeggiata
assume una preminenza fondamentale) e il cinema diventa un dispositivo che riflette
soprattutto sulle stratificazioni dell’esperienza soggettiva e collettiva.
CARATTERI FONDAMENTALI DELLA NOUVELLE VAGUE
● A differenza di molti altri movimenti, erano davvero persone che si conoscevano e
collaboravano: un ‘gruppo di amici’ che girava intorno alla rivista Cahiers du cinéma
● Realizzano film personali, quasi sempre scritti dal regista stesso, e legati alla sua
esperienza personale e generazionale: spirito del tempo, atmosfera giovanile, vita
urbana alternativa
● Autoproduzione: piccoli budget e troupe leggere
● Suono in presa diretta, illuminazione il più possibile naturale
● Improvvisazione, attori per lo più esordienti (alcuni diventeranno celeberrimi)
● Libertà narrativa e stilistica, specialmente tramite:
● Montaggio
● Inquadrature lunghe e piani sequenza
Dunque in generale innovazione nella gestione del TEMPO
LE ALTRE NOUVELLES VAGUES IN EUROPA E NEL MONDO
● Cecoslovacchia – Nová vlna: Miloš Forman, Věra Chytilová, Jan Němec.
● Polonia: Jerzy Skolimowski, Roman Polanski.
● Ungheria: Miklós Jancsó, Judith Elek.
● Jugoslavia: Dušan Makavejev.
● Germania – Neuer Deutscher Film: Volker Schlöndorff, Werner Herzog, Rainer
Werner Fassbinder, Wim Wenders.
● Inghilterra – Free Cinema: Lindsay Anderson, Karel Reisz, Tony Richardson, John
Schlesinger, Joseph Losey.
● Italia: Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio, Ermanno Olmi, Lina
Wertmüller
● Stati Uniti - New Hollywood: John Cassavetes, Mike Nichols, Arthur Penn, Francis
Ford Coppola, Martin Scorsese
● Brasile: Glauber Rocha, Ruy Guerra

A BOUT DE SOUFFLE (FINO ALL’ULTIMO RESPIRO, JEAN-LUC GODARD, 1960)


A bout de souffle non è solo un film. È un mito. È il manifesto delle Nouvelles Vagues
internazionali e l’affermazione assoluta e romantica della libertà dei nuovi soggetti
metropolitani. Nel tempo, in A bout de souffle si sono stratificati figure, affezioni,
investimenti che riguardano l'immaginario del cinema e degli spettatori in un modo così
forte e profondo da diventare una realtà aggiunta al film, che fa parte della vita storica del
film.
I SEQUENZA
Sin dall'inizio A bout de souffle rivela strategie di messa in scena complesse, diversificate ed
esplicitamente contraddittore, ora attivate all'interno della medesima sequenza ora
effettuate in sequenze differenti, concepite proprio le une In opposizione alle altre. Invece
di essere un testo semplice omogeneo, A bout de souffle si rivela come un testo conflittuale
attraversato da procedure e logiche differenti, esattamente programmate e realizzate con
piena consapevolezza progettuale. Al tempo stesso c’è un forte livello di autenticità ed
immediatezza della messa in scena, soprattutto grazie all’utilizzo della luce naturale e in
generale grazie alla fotografia di Raoul Coutard.
Già la prima inquadratura della prima sequenza si apre con una successione di immagini
diverse, che presentano una complessità di elementi e una stratificazione di sensi. Dopo la
dedica alla casa di produzione americana di Serie B, la Monogram, la prima immagine del
film non inquadra una persona o un paesaggio, ma un giornale: la dimensione dell’artificio
mass-mediale è inscritta da subito come orizzonte del testo. D’altronde, l’abbigliamento e
gli atteggiamenti di Michel, il suo volto e i suoi gesti, sono chiaramente sopra le righe. La
prima immagine del film propone quindi non una presenza antropomorfica, né un
paesaggio, ma un giornale ed introduce subito il mondo artificiale dei mass media, destinato
ad avere un grande rilievo nel cinema di Godard. Poi il giornale viene rapidamente
abbassato e in piano ravvicinato appare il volto di un personaggio, interpretato da Jean Paul
Belmondo.
La struttura anfibolica della messa in scena: L’immagine di Belmondo /Michel Poiccard, il
suo volto, la sua gestualità appaiono subito connotati in maniera contraddittoria, secondo
una struttura anfibolica dello stile di messa in scena, che caratterizza tutto il film, al di là
dell'apparente omogeneità di superficie, ovvero di un testo conflittuale in cui si rintracciano
perfettamente entrambe le spinte che caratterizzano il cinema moderno: quella
dell’immersione nella realtà fenomenica e quella dello stile esibito
metacinematograficamente.
L’immagine fenomenica e la recitazione eccessiva: Innanzitutto l'immagine del protagonista
presenta un livello di autenticità fenomenica forte, una verità presuntiva del visibile, che
fanno pensare a un'immagine che certamente è iconica. L'immagine risulta quindi
caratterizzato sul piano di una referenzialità scarsamente rielaborata. Ma insieme, e in
opposizione, le componenti del volto e del vestiario del protagonista, il suo atteggiamento e
la sua gestualità, presentano aspetti di singolarità e di anomalia particolari. Il protagonista è
un giovane della fine degli anni 50 con una giacca sportiva e una cravatta appesa al collo,
caratterizzato da alcuni aspetti particolari: porta un cappello troppo schiacciato sulla fronte,
ha una sigaretta sul lato della bocca con un'angolatura eccessiva, da fumatore incallito.
Michel Poiccard comunica a gesti e a sguardi con un'amica, per organizzare il rapido furto di
un'auto. Il gioco di occhiate, espressioni del volto, sono eccessivamente espliciti, troppo
sottolineati e sopra le righe, e puntano ad aggettivare non solo un microevento particolare,
ma anche e soprattutto le procedure specifiche della messa in scena e della recitazione e
diversi livelli di esplicitazione della macchina cinematografica. C’è molta esibizione recitativa
intenzionale e quindi molto cinema esibito nelle prime sequenze, apparentemente neutre.
Bogart: Il primo gesto particolare è significativo di Poiccard, il passaggio del pollice sopra le
labbra, rinvia ad un gesto simile effettuato abitualmente da Humphrey Bogart e introduce
quindi un ulteriore elemento che investe ad un tempo il personaggio e il film stesso. La
citazione del gesto di Bogart innanzitutto definisce un primo fantasma e una prima mitologia
del personaggio, che si costruisce anche relazione al modello del duro o del Gangster
americano, magistralmente delineato da Bogart.
II SEQUENZA
La messa in scena godardiana si fa ben più esplicita nei suoi tratti peculiari e nella sua
volontà di rovesciamento delle tecniche del cinema classico.
La sequenza è narrativamente centrale, ma orchestrata in modo del tutto peculiare:
inquadrature brevi del protagonista, della strada, del paesaggio con passaggio sistematico e
fluido tra oggettive e soggettive. Lo spettatore vede Michel, vede con Michel, vede
attraverso Michel.
C’è un monologo ad alta voce, divagante e apparentemente casuale, che serve a introdurci
al carattere di Michel (alla sua energia, misoginia, arroganza, esuberanza, estroversione,
esibizionismo): un soggetto rivolto totalmente verso l’esterno e risolto integralmente in una
dimensione comportamentale. Si rompe la IV parete tramite una interpellazione diretta
dello spettatore: il cinema smette di essere una semplice finestra sul mondo e viene
valorizzato in quanto medium.
L’episodio dell’omicidio del poliziotto è del tutto rimarchevole. Invece di sfruttare
l’elemento drammatico sul piano rappresentativo ed emozionale, Godard lo riduce al
minimo: è più breve del frammento dedicato alle autostoppiste! Una dedrammatizzazione
che si ripete con l’incidente d’auto più in là nel film. Se ne fa un momento dominato dal
caso: l’irrompere improvviso e inatteso del fato nella vita di un uomo. solo l’ultima
inquadratura, della fuga nei campi, ha un’emozionalità dovuta soprattutto alla musica in
fortissimo. ( L’irrilevante diventa evento, l’evento diventa irrilevante.)
Il jump-cut: Non ci sono raccordi ma salti, ovvero i jump-cuts: non si tratta di raccordi
sbagliati, beninteso, ma di salti prodotti tramite la rimozione di un tot di pellicola filmata in
continuità: l’inquadratura è la stessa, ma ne vengono giustapposti due momenti diversi con
un’ellissi temporale. Si tratta della più palese ostentazione del rifiuto delle regole del cinema
tradizionale. In questa sequenza sono 10, generalmente riguardano le riprese dalla
macchina verso la strada. Nel complesso del film sono 75 (secondo l’analisi di Michel Marie),
e si trovano soprattutto quando Michel e Patricia girano per Parigi (dove i salti sembrano
mimare il linguaggio in versi della poesia), nella stanza d’albergo e più in là durante la corsa
in taxi. Godard racconta che il primo montaggio del film era di 135 minuti e la scelta dei salti
nacque della necessità di abbreviarlo. Ma al di là di questo si tratta chiaramente una scelta
ESTETICA VOLUTA, un effetto di provocazione e svecchiamento ricercato consapevolmente.
È anche una questione di RITMO: serve a creare un concatenamento visivo più libero e
spezzato. Inoltre possiamo dire che questo montaggio è anomalo, arbitrario e assurdo
esattamente come il comportamento di Michel, dunque c’è corrispondenza tra stile del film
e ‘stile’ del personaggio.

L'unità delle quattro sequenze iniziali non è quindi soltanto narrativa, ma è


prevalentemente connessa alle strutture e alle tecniche di messa in scena di
formalizzazione. Le quattro sequenze iniziali sono quindi caratterizzate da un uso
differenziante della ripresa e del montaggio, che realizzano una sistematica violazione delle
regole compositive del cinema classico. In luogo di un'organizzazione lineare delle sequenze,
Godard propone una composizione frammentata, irregolare, segnata dalla instabilità, dal
rovesciamento, dall'anomalia. Così la scrittura di Godard a nelle prime quattro sequenze
appare innanzitutto palesemente irregolare, provocatoria e apertamente in contrasto con le
regole della tradizione del cinema di qualità. Infine delinea uno stile di messa in scena
fondato sulla frantumazione e sull’irregolarità, impegnato più nella scrittura compositiva che
nella trasformazione del profilmico, attivando alcune opzioni recitative particolari, che ora
vanno verso la finzione esibita, ora verso l'autenticità. Per Godard (come esplicitato nel
saggio del 1956, Montage mon beau souci) il montaggio è marca autoriale centrale: “Se
mettere in scena è uno sguardo, montare è un battito di cuore”. Si tratta di un autore che
non mostra particolare interesse nella configurazione formale dello spazio, la sua è un’idea
di spazio fluido, dinamico, non costruito né organico. Il tempo gli interessa ben di più.
LONG TAKES E PIANI SEQUENZA
Il gruppo successivo di sequenze presenta invece caratteri diversi e delinea un modello di
messa in scena differente, che opera palesemente nella prospettiva dell’idea di cinema
moderno teorizzata da Bazin. Alcune sequenze sono realizzate palesemente con long takes o
piani sequenza di durata particolare, che riflettono la volontà di Godard di fare anche un
cinema baziniano. L'articolazione delle sequenze prevede segmenti lunghi e segmenti molto
brevi. Dopo il brevissimo episodio della prima visita all’Agence Interamérican, la sequenza
dell'incontro a Michel e Patricia sugli Champs-Elysées delinea una delle icone fondamentali
del film, quasi la sua immagine mitologica. La sequenza si configura palesemente come una
ballade, uno spostamento nello spazio della città, finalizzato non a realizzare obiettivi
particolari, ma piuttosto a far passare il tempo, a riempire di microeventi il tempo
dell'esistenza. La macchina da presa segue il personaggio con grande libertà nel suo
peregrinare della città con Patricia o alla sua ricerca o all'inseguimento dei soldi che deve
incassare. Godard allenta i legamenti senso-motori per potenziare “situazioni ottiche e
sonore”, come scrive Deleuze, che propone un'idea nuova della modernità cinematografica.
“La passeggiata o l'erranza, la ballata, gli avvenimenti non-concernenti”, delineano le nuove
forme di oggettivazione del personaggio, immerso in una condizione di esistenza al grado
zero e registrato dalla macchina da presa in situazioni pure, svincolato dall'azione e dai
legami stretti di causa-effetto, che caratterizzano l'azione dei personaggi nel cinema
classico.
La sequenza dei Champs-Elysées è realizzata con un lunghissimo piano di 2’49’’, cui si
aggiunge un'ultima breve inquadratura dall'alto di Patricia che va ad abbracciare Michel. La
mdp è nascosta in un furgoncino, alcuni passanti si frappongono.
L'intenzione di Godard sembra infatti quella di proporre sistematicamente una serie di long
takes o di piani sequenza di diversa struttura, capaci quindi di presentare una sorta di
gamma esemplare dei modelli possibili di piano sequenza. Il movimento di macchina registra
blocchi di realtà, punta a rivelare l’essente, ma insieme lavora sulla dimensione temporale: è
una sperimentazione visiva che investe l'orizzonte temporale e costituisce una riflessione in
sé sui rapporti tra tempo delle cose e degli eventi e tempo filmico. Il piano sequenza e long
take non sono solo strumenti per assorbire gli spazi, ma duttili forme di ricerca nell'orizzonte
del tempo.
CITAZIONE E CINEFILIA
In questo quadro va letta anche una delle procedure godardiane più ricordata e forse anche
sopravvalutata: la citazione. Nel film sono molteplici i riferimenti al cinema, articolati in
forme diverse, ma tutti dedicati al cinema americano classico. le citazioni di Bogart, dal
gesto con il pollice sul labbro alle immagini pubblicitarie esposte da un cinema degli
Champs-Elysées, attestano un doppio rapporto autenticità/tradizione che investe insieme il
personaggio di Michel e il cinema di Godard. Come Michel costruisce la propria personalità e
il proprio progetto esistenziale anche in rapporto ai modelli di personalità disegnati da
Bogart nei suoi film, così Godard definisce l'autenticità innovativa del suo progetto di
cinema anche in rapporto alla tradizione del cinema classico, ai suoi miti e alle sue
procedure. Michel è un personaggio impregnato della negatività propria dell'esistenzialismo
europeo. Michel è un personaggio contraddittorio, che insieme cerca l’autenticità
esistenziale ma costruisce anche la propria vita tramite il riferimento a modelli immaginari
proposti dal cinema (in particolare il mitico Bogart): non c’è separazione netta tra la realtà e
la finzione, le due si permeano e bi-implicano come un nastro di Moebius. Ma la dialettica
aperta con la tradizione resta come una componente essenziale nella costituzione del
nuovo. i titoli e le scritte sui manifesti di cinema americano, delineano un universo di
riferimento con cui si intreccia la stessa avventura del personaggio di Michel: una scritta
come "Vivre dangéreusement jusqu’au bout!”, sul manifesto di Ten Seconds to Hell (Dieci
secondi con il diavolo, 1959) di Aldrich, o un titolo come Plus dure sera ta chute (The Harder
They Fall, Il colosso di argilla, 1956) di Robson sono una sorta di sintesi degli aspetti
essenziali del percorso diegetico e del modello esistenziale di Michel. Altri film sono evocati
soltanto dalla banda sonora durante gli attraversamenti delle sale cinematografiche nella
fuga di Patricia dal pedinamento dell'ispettore: sono il noir Whirpool (Il segreto di una
donna, 1949) di Preminger e il western Westbound (L’oro della California, 1959) di
Boetticher. Ma poi è Godard stesso a dichiarare di aver realizzato A bout de souffle
pensando a Fallen Angel (Un angelo è caduto, 1945) di Preminger. E il nome di Preminger
ritorna ancora per il personaggio di Patricia, ripreso secondo Godard dalla protagonista di
Bonjour tristesse che nel film del regista americano era interpretato appunto da Jean Seberg
(Patricia di A bout de souffle).
L'intertestualità intenzionale di Godard riflette dunque un'attitudine di consapevolezza delle
condizioni di saturazione del simbolico in cui opera l'immaginazione narrativa. Per Godard
non c'è enunciato che non si collochi dentro un orizzonte di enunciati capillarmente diffusi e
lo stesso sviluppo di un progetto originale si misura con il già detto e il già narrato. La ricerca
dell'autenticità del mondo deve passare attraverso la verifica del vissuto e del già vissuto,
all'interno di un sistema complesso di trasformazioni, citazioni e variazioni, che investono
l'immaginario e il simbolico.
HÔTEL DE SUÈDE
La sequenza all’Hôtel de Suède è certo uno dei segmenti più commentati del film. Si tratta di
una sequenza girata tutta in una camera dell’albergo citato, con Michelle e Patricia che
dialogano e si baciano tra il letto e il piccolo bagno contiguo. Una sequenza in cui non
succede veramente nulla di rilevante - se non l'atto sessuale tra i due che naturalmente è
omesso - i protagonisti parlano di vari argomenti con la massima libertà: ancora una volta
l’irrilevante diventa evento. Ma l'aspetto più significativo della sequenza è ovviamente
costituito dalla sua durata abnorme, in assoluto e nell'economia del film: la sequenza infatti
dura 22’52’’ ed è costituita da 64 piani di diversa lunghezza, escluse le due panoramiche
aeree finali, che mostrano un altro spazio visivo. L'organizzazione delle riprese è effettuata
attraverso la definizione di un campo visivo di 180 °, che si allarga ulteriormente in alcune
inquadrature dedicate a Patricia che attacca al muro di fronte a letto alcune riproduzioni di
dipinti.

La libertà, il nulla e l’essere per la morte: L'affermazione della libertà è essenziale per
entrambi i protagonisti e costituisce la filosofia esistenziale fondamentale del film. Ma la
libertà di Michel è nelle cose, nella scelta per l'illegalità, nella realizzazione immediata dei
desideri, nella pratica delle aggressioni e delle trasgressioni sociali. Michel è un personaggio
alla ricerca della libertà e dell’autenticità esistenziale, e questo implica anche la possibilità
dello scacco. Michel vive in pieno la crisi dei valori tradizionali della modernità
novecentesca, e in particolare del dopoguerra.Mentre la libertà di Patricia è certo nei
comportamenti, ma è anche nelle interrogazioni ripetute sul senso della libertà, nella
microsperimentazione esistenziale, nella ricerca di percorsi di vita nuovi, autentici e liberi.
Michel e Patricia sono infondo i prototipi dei nuovi soggetti esistenziali delle Nouvelles
Vagues del cinema degli anni 60.
I protagonisti trasgressivi di Godard sono caratterizzati da un eroismo tardo romantico: sono
personaggi ispirati al noir, ma anche carichi della negatività dell’esistenzialismo europeo:
legame con Camus, Boris Vian, Sartre, de Beauvoir… (ma anche con il cinema del realismo
poetico degli anni Trenta, in particolare quello della coppia Carné-Gabin).
La ricerca della libertà da parte del personaggio va di pari passo con quella del suo regista. Il
cinema di Godard il cinema della disponibilità esistenziale, del mondo come possibilità,
come orizzonte di aperture. (Sperimentazione esistenziale e sperimentazione della messa in
scena vanno di pari passo.)

12)LA NEW HOLLYWOOD


Alla fine degli anni 60 il panorama complessivo dell'industria del cinema americano è
fortemente mutato rispetto a quello dell'epoca d'oro dello studio system. Le grandi case
svolgono soltanto il ruolo di distributori. Allo stesso modo, si è modificata radicalmente
anche la composizione del pubblico. La Hollywood classica aveva sempre avuto come
referente principale la famiglia. Ora gli spettatori sono quasi unicamente persone sotto i 30
anni: le famiglie rimangono a casa a guardare la televisione, mentre andare al cinema sono i
giovani. Lo spostamento della popolazione dai centri urbani alle zone suburbane implica
un’ulteriore perdita di pubblico per le sale cinematografiche (solo a partire dagli anni
Settanta/Ottanta si diffondono gli Shopping Malls con dentro anche le sale
cinematografiche). Nel giro di un ventennio (1948-1968) Hollywood perde i 2/3 del proprio
pubblico: negli anni Quaranta, il 60% degli americani va al cinema una volta alla settimana,
negli anni Sessanta solo il 20%. La domanda di fondo è: senza la visione in sala, il cinema è
ancora il cinema? Una domanda ampiamente rilevante anche oggi. Al cinema continua ad
andare soprattutto il pubblico urbano, e in particolare quello giovane: questo provoca una
frattura tra la visione del mondo dei grandi produttori hollywoodiani tradizionali
(tendenzialmente di destra, o comunque conservatori) e il pubblico giovane e alternativo.
Le tendenze di maggior importanza sono:
● Cinema giovanilista di genere: Horror, Sci-Fi, Surf Movies, Bikers Movies (Roger
Corman; i Drive-In)
● Cinema indipendente americano ma anche straniero (Antonioni, Polanski; le art
houses, o cinema d’essai)
● Cinema sperimentale vero e proprio: New American Cinema (Jonas Mekas, Stan
Brakhage, Shirley Clark, Andy Warhol)
Il processo si intensifica nel corso del decennio successivo, provocando l'abbandono del
codice Hays nel 1968, il cui puritanesimo mal si accordava ai gusti della generazione degli
anni 60. C’è dunque una nuova libertà di affrontare argomenti scomodi, di portare critiche
forti alla società americana, di mostrare (e denunciare) la violenza insita in essa, e di trattare
il sesso in modo più franco. Un uomo da marciapiede (J. Schlesinger, 1969) è il primo film
vietato ai minori di 18 anni a vincere l’Oscar per il miglior film.
LA SVOLTA DEL 1967
Con l'espressione New Hollywood si indica quel vasto processo di ridefinizione dei caratteri
dell'industria del cinema americano che si verifica alla fine degli anni sessanta, e la cui spinta
propulsiva si spinge sino alle soglie dei primissimi anni 80. Gli anni 60 vedono una
progressiva crisi del cinema delle Majors hollywoodiane, costrette a subire non solo la
concorrenza della televisione (un lungo processo che dura all’incirca dal 1941 al 1955,
quando ormai metà delle case americane ha una televisione), ma anche delle produzioni
indipendenti, spesso più dinamiche e in sintonia con gli spettatori più giovani. (Leggi
antitrust →Sentenza Paramount, 1948 →Smantellamento dell’organizzazione verticale degli
Studios.). Sul piano dell'organizzazione del racconto e dell'idea di fondo di ciò che il cinema
deve essere (ovvero, raccontare una storia “forte”, capace di “catturare” il pubblico), la
nuova Hollywood mantiene uno stretto legame con la vecchia. La new Hollywood è
caratterizzata proprio da questo complesso equilibrio tra innovazione e continuità, apertura
verso il nuovo e culto della tradizione. Fino a poco tempo prima sarebbe stato impensabile
produrre film così radicali, sia nei temi che nello stile.
2 generazioni:
1922-1931 Mike Nichols, Arthur Penn, Sam Peckinpah, Robert Altman
1939-1946 Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, George Lucas, Steven Spielberg, Brian De
Palma
Più i «vecchi leoni» John Huston e Elia Kazan
INNOVAZIONI: Eroi deboli, privi di motivazioni forti
● Nuovi modelli divistici, soprattutto maschili (Robert De Niro, Al Pacino, Dustin
Hoffman) ma non solo (Jane Fonda)
● Impiego di stilemi di rottura con il cinema classico, anche per influenza della
Nouvelle Vague francese.
CONTINUITÀ: I film spesso sono ancora prodotti, o almeno distribuiti, dalle Majors
● La macchina affabulatoria rimane comunque assai forte
● Cambiano i contenuti ma non veramente lo stile o le modalità di racconto
● Non ci sono rotture veramente radicali delle convenzioni del racconto lineare.

THE GRADUATE (IL LAUREATO, MIKE NICHOLS, 1967)


Il film è un bildungsroman (romanzo di formazione),imperniato sulle esperienze formative
del protagonista, il quale viene maturando progressivamente il proprio carattere e la propria
identità morale (proprio come sarà Star Wars, da cui pure è lontano anni luce). Il laureato ha
per protagonista un ragazzo borghese, interpretato da Dustin Hoffman (la New Hollywood
impone nuovi modelli anche sul piano fisico: attori come Hoffman o Al Pacino sono antitetici
allo stereotipo del divo alla John Wayne), il quale, dopo la laurea, non sa cosa fare della
propria vita, ha una relazione nevrotica con una donna più vecchia di lui, ma poi si innamora
della figlia. Il film colpì il pubblico sia per la franchezza con cui tratta il tema del sesso, sia
per l'uso della musica della controcultura (la colonna sonora è firmata da Simon &
Garfunkel). Il protagonista è un debole, smarrito, talvolta stravagante. È una messa in scena
di un malessere, di una crisi e di una ribellione antiborghese che poi sarebbe sfociato in
manifestazioni più consapevoli, più esplicitamente politicizzate.

IL POSTMODERNO CON STAR WARS (GUERRE STELLARI, GEORGE LUCAS,


1977)
Il postmoderno cinematografico prevede un’alternanza costante tra forme dell’immersione
e forme dell’identificazione. C’è sempre una dimensione cognitiva (razionale), una emotiva
(dinamiche psicologiche, identificative) ed una affettivo-sensoriale (coinvolgimento fisico)
nell’esperienza della visione.
Un nuovo cambiamento nelle dinamiche di potere hollywoodiane: nonostante Lucas fosse a
tutti gli effetti uno degli enfant prodige della stagione della New Hollywood, il successo
straordinario del suo film porta ad un ritorno dello strapotere delle case di produzione,
uniche entità che possono produrre film a budget così alto. A partire dagli anni Novanta, le
case di produzione inizieranno a guadagnare di più con la vendita del merchandise legato ai
film (alle trilogie, alle serie) che ai film stessi.

Il progetto originale di George Lucas era un adattamento di Flash Gordon. Il film ha legami
con la fiaba e col mito: L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell (1949) è un libro che
analizza la traiettoria tipica dell’eroe, ed era il libro che Lucas stava leggendo durante il
tortuoso processo di scrittura.
La vicenda di Luke ripercorre d’altronde le tappe della traiettoria edipica caratteristica del
cinema classico (identificazione/conflitto con la figura paterna) ed in particolare del
western.
Il legame con il western si può rintracciare anche nelle ambientazioni desertiche: in
particolare il capolavoro di Ford, Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956).
Per Laurent Jullier in L’écran post-moderne, Star Wars è il primo esempio di film-concerto,
ovvero di un film che investe lo spettatore con un vero e proprio bagno di sensazioni
(questo discorso giungerà a ulteriore compimento con la diffusione del dolby surround nei
primi anni Ottanta). Lo spettatore si trova davanti ad un’esperienza intensiva e immersiva,
che coinvolge l’interezza della sua sfera sensoriale, non soltanto lo sguardo. La visione non si
configura tanto come forma di conoscenza, ma di percezione allucinata, di iperstimolazione
sensoriale. Come nel cinema delle origini, trionfa l’identificazione primaria, con la macchina
da presa stessa, con l’istanza che mette in moto lo spettacolo.
Nelle scene più attrazionali, la macchina da presa si emancipa dalla visione antropomorfa,
diventando, grazie all’avanzamento tecnologico, un testimone invisibile al di fuori
dell’umano. Anziché essere centrato sul personaggio come veicolo di una storia (come il
cinema classico), o sul personaggio come alter ego dell’autore (come il cinema moderno),
questo cinema è centrato… sullo spettatore e sulla sua esperienza, che deve essere
pirotecnica. Secondo Jullier, l’esperienza spettatoriale del cinema postmoderno inaugurata
da Star Wars, è più simile a quella dell’avventore di un luna park che all’esperienza
cinematografica tradizionale.
IL TRAVELLING
Il film non cerca di stabilire con il pubblico una semplice comunicazione, ma propone invece
una fusione tra spettatore e schermo. La figura chiave di questa tonalità intensiva è il
travelling, movimento di macchina in avanti, che viene adoperato proprio per immergere lo
spettatore nel mondo rappresentato, consentendogli di partecipare al brivido della velocità.
Tale dimensione di immersione nella profondità dello spazio rappresentato (ovvero dello
spazio galattico) è già presente nei titoli di testa, e torna anche nelle scene in cui il
Millenium Falcon compie il salto nell’iperspazio. Ma esso giunge al massimo grado con l’uso
insistito del travelling nella lunga sequenza della battaglia finale.
Gli effetti speciali del film furono realizzati dalla compagnia fondata appositamente da
Lucas, la Industrial Light & Magic, attivissima ancora oggi.
UN’ESPERIENZA SPETTATORIALE DUALE
Secondo Pravadelli, l’esperienza spettatoriale che caratterizza Star Wars è un’esperienza
duale, perché prevede un’oscillazione costante tra due regimi dell’immagine, un’alternanza
tra l’intensità immersiva delle scene d’azione e una dimensione emotivo-identificativa più
tradizionale. Mentre l’inizio e il prefinale del film sono fortemente immersivi, il film contiene
molti episodi fortemente narrativi, che sono caratterizzati anche da uno stile di ripresa più
tradizionale: inquadratura centrata sul personaggio, movimenti di macchina diegeticamente
motivati → identificazione secondaria ‘classica’.
UN ECOSISTEMA NARRATIVO TRANSMEDIALE
Le trilogie successive, gli altri film, le serie tv, i libri, i fumetti, i videogiochi e le attrazioni da
parco dei divertimenti: quello di Star Wars si configura come un vero e proprio ecosistema
narrativo. Si tratta dunque di un esempio perfetto di transmedia storytelling (definizione di
Henry Jenkins) perché il mondo creato da Lucas è del tutto serializzato e ‘spalmato’ su
diverse forme mediali e modalità narrative. La logica del franchise è la logica dominante
della produzione hollywoodiana contemporanea, di cui i film dei supereroi Marvel sono
naturalmente l’inveramento più pieno. La Disney è in questo momento protagonista di un
tentativo di monopolio dell’immaginario collettivo senza precedenti, avendo acquisito, tra il
2006 ed oggi, la Pixar (2006), la Marvel (2009), la Lucasfilm (2012) e la 21st Century Fox
(2017).

13) FELLINI E IL CINEMA D’AUTORE ITALIANO DEGLI ANNI SESSANTA


Gli anni Sessanta sono un momento di grande forza del cinema italiano, che si impone anche
a livello europeo ed internazionale. Abbiamo vari registi già attivi (Luchino Visconti,
Michelangelo Antonioni, Fellini stesso)che raggiungono nuove vette creative, ma anche
moltissimi esordi eccellenti (Pierpaolo Pasolini, Bernardo Bertolucci, Ermanno Olmi, Vittorio
De Seta, Marco Bellocchio, i fratelli Taviani).

Fellini esordisce come sceneggiatore alla fine del periodo fascista, partecipando ad alcune
tra le più importanti sceneggiature neorealiste (Roma città aperta, Paisà, Caccia tragica, Il
cammino della speranza). Poi il suo percorso vedrà il passaggio progressivo dal racconto del
Mondo al racconto del Sé. E finirà per diventare celeberrimo proprio come narratore della
soggettività e dell’inconscio. La nuova poetica di Fellini emerge dalla consapevolezza della
fine del momento storico eccezionale del dopoguerra e del neorealismo: «Di fronte a questa
realtà appiattita, normalizzata, bisogna essere poeti – afferma Fellini – bisogna inventare
qualcosa e avere qualcosa da dire. Il documento non basta più».
I PRIMI SETTE FILM E MEZZO
● Luci del varietà (1950) co-diretto con Alberto Lattuada (½)
● Lo sceicco bianco (1952) (1)
● Amore in città (1953) film a episodi a 14 mani (2)
● I vitelloni (1953) (3)
● La strada (1954) (4)
● Il bidone (1955) (5)
● Le notti di Cabiria (1957) (6)
● La dolce vita (1960) (7)
● 8 ½ (1963)

LA DOLCE VITA, FEDERICO FELLINI, 1960


La dolce vita è un film del 1960 diretto da Fellini e considerato uno dei capolavori di Fellini e
tra i più celebri della storia del cinema. Per la sua capacità di narrare un’epoca - affresco è la
definizione che la critica ha spesso usato a proposito del film di Fellini - La dolce vita
costituisce un testo importante per vedere all’opera dinamiche culturali più ampie: a metà
Novecento può essere un film, piuttosto che un romanzo o un saggio, o al pari di un
romanzo o un saggio, a mostrare e a raccontare il rapporto tra soggetto e mondo. La dolce
vita è un’opera mondo, un racconto epico moderno.→ la spinta epica costituisce un aspetto
forte del film e lo distanzia dal resto della produzione del cinema moderno. [ colpiscono in
particolare due aspetti: da un lato come la transizione dall’epica antica a quella moderna in
letteratura sia paragonabile al passaggio dal cinema classico al cinema moderno. Il cinema
classico è il cinema dell’immagine-azione ed entra in crisi con il Neorealismo e in seguito il
cinema d’autore degli anni ‘60 che rappresentano l’avvento di una “nuova immagine”. La
nuova forma cinematografica è un “cinema veggente” non definito dall’azione ma da
“situazione puramente ottiche [e sonore]”.] Personaggio centrale è il giornalista Marcello
Rubini, testimone e complice di un mondo caotico e volgare, cinico, privo di valori e
soprattutto minato da un'insopportabile noia di vivere.
La messa in scena del personaggio come spettatore costituisce un tratto fondamentale del
cinema di Fellini e caratterizza in particolare il suo capolavoro La dolce vita (1960).
Attraverso la figura dello spettatore si realizza anche una convergenza importante tra il
regista e Marcello Mastroianni, il suo attore più rappresentativo. La configurazione del
personaggio come spettatore, come soggetto passivo che si lascia trascinare in dinamiche e
situazioni particolari dalle donne che incontra, si realizza in modo articolato ne La dolce vita
attraverso il personaggio di Marcello Rubini→ l’essere spettatore del mondo è da un lato
una condizione esistenziale della modernità/contemporaneità e dall’altro una declinazione
particolare del soggetto maschile e della mascolinità dell’epoca. La dolce vita mostra una
convergenza particolare tra la crisi dell’eroe, la passività del personaggio e la messa in scena
di Roma come spettacolo. A questo scopo l’immagine divistica di Marcello Mastroianni si
fonde mirabilmente con la sceneggiatura e la regia. Attraverso le dicotomie lavoro/sesso,
azione/corpo, attività/passività, l’immaginario cinematografico ci ha restituito una serie di
figure femminili, forti, autonome e al tempo stesso eccitanti, un vero spettacolo, anche
erotico, per lo sguardo di chi sta in sala. Questo binomio costituisce la peculiarità della diva
rispetto al divo. Negli anni ‘50 assistiamo a trasformazioni importanti nelle forme divistiche.
Per quanto riguarda l’immagine femminile sia un Europa che negli USA si verifica un
passaggio dal “divismo del volto” al “divismo del corpo”.così, l’immagine maschile subisce
una sorta di “femminilizzazione”, la figura di Mastroianni può, per certi versi essere inserita
in questa traiettoria, anche se l’immagine del divo italiano va considerata anche in relazione
al contesto culturale nazionale. La figura di Mastroianni è composta da tratti contraddittori:
Marcello non incarna semplicemente l’immagine del latin lover, ma anche quella dell’inetto,
un tipo di mascolinità italiana che inizierebbe al cinema con I vitelloni (1953). L’inetto è
frivolo e ozioso, è senza lavoro, sostenuto economicamente da parenti donne (madri,
sorelle, zie) e refrattario al matrimonio. Questi personaggi sono femminilizzati per tutto il
film.
La dolce vita condivide alcuni elementi con la linea esistenzialista del cinema moderno.
Marcello è un personaggio melanconico. Incapace di realizzare il proprio desiderio di
diventare scrittore, deve accontentarsi di un impiego meno degno: è un giornalista che
segue la vita notturna e gli eventi culturali romani per conto di un quotidiano, avvalendosi
della complicità di alcuni paparazzi. Esplora le strade e i caffè della città e va a feste e
ricevimenti in appartamenti privati e ville. Come Antonioni, Fellini ritrae le vacuità della vita
delle classi agiate. Come i film di Antonioni, anche La dolce vita mostra la modernizzazione
dell’Italia enfatizzando l’atmosfera internazionale di Roma. Marcello cammina notte e
giorno per le strade della città, la città di Roma è filmata nella sua stupefacente bellezza
notturna. La passeggiata di Marcello e Sylvia tra le piazze e i monumenti barocchi e
l’episodio della Fontana di Trevi sono resi ancora più appariscenti dalla fotografia in bianco e
nero a focale corta. Se Roma è uno spettacolo per gli occhi di Marcello, l’immagine è a sua
volta uno spettacolo per lo spettatore del film. La dolce vita è innanzitutto un film sulla
spettacolarizzazione della vita moderna, tutto può essere trasformato in uno spettacolo e gli
eventi sono importanti solo in quanto vengono tramutati dai media in qualcosa che fa
notizia. Bisogna infatti notare come nel film qualsiasi aspetto della vita sociale possa
diventare uno spettacolo: dagli elementi più ovvi, come la bellezza femminile, a quelli meno
evidenti, come la religione. Quando Marcello guarda Sylvia fare il bagno nella fontana, il film
sembra ricorrere al noto paradigma di Laura Mulvey dello sguardo maschile sul corpo
femminile sexy→ Nel cinema classico lo sguardo voyeuristico maschile controlla il corpo
femminile, mentre attraverso l’azione egli controlla la diegesi. Ma nel nuovo scenario del
cinema moderno, l’uomo perde il controllo dello spazio e della diegesi e diventa spettatore
inerte. L’anti-eroe moderno viene agito da ciò che lo circonda, avendone perso il controllo.
Si può dire che nel film la bellezza e lo spettacolo agiscono su Marcello rendendolo passivo,
uno spettatore piuttosto che un agente dell’azione. Sotto questo aspetto anche se il film
conserva il paradigma “classico” teorizzato da Mulvey è Sylvia che possiede Marcello e non
viceversa.
La dinamica sessuale esemplificata dalla scena della Fontana di Trevi costituisce una
componente essenziale dell’immaginario di Fellini. L’immaginario sessuale del regista è
diviso tra due modelli opposti di femminilità: la donna dalle grandi forme, spontanea e
tradizionale e il corpo magro, intellettuale e moderno. Il primo modello ha una presenza
dominante rispetto al secondo, che invece caratterizza il cinema degli anni ‘50 ed è
alimentato da attrici del nuovo cinema, in particolare della Nouvelle Vague (ne La dolce vita
e in 81⁄2 è rappresentata da Anouk Aimée). La sequenza al castello di Bassano di Sutri verso
la fine del film, in particolare la parte centrale quando Marcello è con Maddalena (Aimée) è
per molti versi speculare alla scena della Fontana di Trevi con Sylvia. Dopo aver incontrato il
protagonista Maddalena lo prende per mano e lo porta nella “stanza dei discorsi seri”.
Marcello si lascia portare passivamente, Maddalena lo fa sedere e lei invece si reca in una
stanza vicina per parlargli. La voce di Maddalena giunge come un eco nella stanza in cui
Marcello siede. L’efficacia e l’interesse di quella scena risiede nell’esperienza sensoriale e
affettiva di Marcello, scena definita da Chion “voce acusmatica”. L’acusma è un suono di cui
non vediamo la sorgente. Visto in relazione alla scena con Sylvia questo episodio
rappresenta una regressione evidente. Da spettatore stupito e incantato Marcello diventa
“ascoltatore” rapito e soggiogato dalla inaspettata dichiarazione d’amore di Maddalena.
Regredito a una fase di radicale passività, Marcello si spoglia di ogni residua virilità.
Nell’epoca in cui dominano le immagini, e per estensione i media, la spettatorialità
rappresenta una condizione necessaria nel rapporto col mondo ed è tramite questa figura
che la differenza tra maschile e femminile si può attenuare radicalmente. Emblema
dell’antropologia occidentale, oltre che l’identità italiana, La dolce vita si è ridotto come
sappiamo a una passerella di pose e vestiti che da 50 anni nutre di continuo il mondo della
pubblicità, della moda, del turismo. Anche se sono noti gli scandali, le scomuniche, le
interrogazioni parlamentari e tutto lo scompiglio generato alla sua uscita, tale mito tuttavia
divora le tracce dell’urto frontale tra il film e la società dell’epoca. Esaurito il suo carico di
provocazioni, La dolce vita entrava a far parte della memoria collettiva con quel che di
nostalgico per gli anni euforici dell’Italia del boom. Già all’epoca in molti si resero conto che
il film non poneva solo un problema al comune senso del pudore, funzionava semmai come
un enorme specchio deformante puntato contro un’intera società e il rapido ricambio di
valori che la attraversava. Se le rovine del paesaggio italiano dei film neorealisti erano state
rimosse con la ricostruzione, Fellini mostrava le rovine spirituali lasciate dietro di sé dal
boom italiano. Anziché tornare sui temi più noti de La dolce vita (la perdita dei valori e la
modernizzazione, la crisi del sacro e l’avvento della società dello spettacolo, la vacuità del
ceto intellettuale) anziché analizzare lo stile, può essere utile mostrarne gli effetti e le
acquisizioni simboliche in contesti assai eterogenei tra loro. Il regista Paolo Sorrentino
interviene per sottolineare l’attualità del film: “Mimetizzato dietro la grande bellezza della
dolce vita, Fellini sondava in realtà la paura delle paure: l’impossibilità della costruzione di
senso della vita. è questo il dramma di Marcello: un impotente girovagare senza meta
dentro una città che si autocelebra nei suoi rituali annoiati. La sequenza in cui Marcello e
suo padre, in visita a Roma, si recano al night è esemplare: Come al solito in Fellini, illusione
e disillusione si annodano tra loro, e in questa scena lascia emergere tutto il carico di
solitudine e mestizia che preme sotto l’euforia della “dolce vita”. Se, nel 1960, La dolce vita
fece scandalo per il suo intreccio interclassista di aristocrazia, mondo dello spettacolo,
borghesia e sottoproletariato, è solo oggi che si apprezza la straordinaria portata
dell’intuizione felliniana. Mentre in molti gridavano la propria indignazione e invitavano a
boicottare il film, qualcuno notava già, il nervo scoperto da Fellini. [[L’opera in cui più di
altre risuona l’eco de La dolce vita è allora quella di Andy Warhol, con la sua interminabile,
ripetitiva galleria di volti celebri immortalati con la polaroid. Come per La dolce vita, agli
occhi del grande pubblico anche la “Factory” era l’emblema dell’effervescenza glamour di
NY e in pochi ne coglievano il carico di solitudine, di sottile disperazione. Sia Warhol che
Fellini, insomma, goderono di una celebrità che si costruì in modo imprescindibile anche a
partire da questo malinteso. ]] Come sappiamo, la fonte di ispirazione de La dolce vita si
trova nel mondo dei rotocalchi(*) e dei servizi scandalistici nell’epoca d’oro della cosiddetta
Hollywood sul Tevere. L’attività di Cinecittà era frenetica, all’inizio degli anni ‘50
incoraggiate dall’abbassamento dei costi, numerose produzioni americane si trasferivano a
Roma col loro carico di divi e dive. Una manna per l’universo di riviste del pettegolezzo
mondano, in particolare, il film si rifà alla celebre estate romana del 1958, passata alla storia
per le continue baruffe e gli inseguimenti di star e fotografi a caccia di scoop, su e giù per via
Veneto. Tuttavia, Fellini non si limita a trasferire lo spunto narrativo di quei servizi in un film.
Lo attira, semmai, la produzione di immagini a partire da altre immagini. Intravede cioè nei
rotocalchi, nei servizi scandalistici, il loro carattere mitologico e archetipico; e con La dolce
vita riesce a trasformare dei documenti sociali in monumenti dell’immaginario. (“I rotocalchi
sono stati lo specchio inquietante di una società che si autocelebrava in continuazione, si
rappresentava, si premiava”). La dolce vita svelava insomma, e con grande anticipo, l’idea di
messa in scena che stava dietro le pose, gli spogliarelli e le baruffe di via Veneto
immortalate dai fotografi. Raccontava l’inizio di quella partecipata drammaturgia del nulla e
spettacolarizzazione del niente in cui oggi siamo immersi. Gran parte dell’enorme successo
di pubblico si deve a l’eco costante che i giornali diedero al film, orchestrandone lo scandalo
e l’impatto dirompente nella società italiana. Si parla, inoltre, si struttura circolare: i giornali
sono la fonte privilegiata che rappresenta e interpreta la realtà della Dolce vita per il film La
dolce vita. A sua volta il film trasforma la Dolce vita nella sua retorica, ovvero in un discorso
sulla Dolce vita, e diventa la principale ispirazione dei giornali che la vogliono raccontare.
Tutti gli spunti da cui prende forma La dolce vita (il servizio fotografico di Anita Ekberg(*), il
presunto miracolo della Madonna di Terni, ecc) sono di per sé degli pseudoeventi che Fellini
dilata ulteriormente nell’immaginario cinematografico. (*) la diva, impersonata da Anita
Ekberg, scende dall’aereo di fronte a una folla di fotografi e giornalisti che l’attende.
Tuttavia, appena inizia a scendere dalla scaletta, questi le chiedono di tornare indietro e
simulare di nuovo la discesa per trovare l’inquadratura ideale, lei ritorna sui suoi passi e si
offre agli obiettivi e cineprese come se fosse appena tornata. → in tal senso, accorgersi che i
fotografi stavano diventando importanti quanto i fotografati, decidendo di rendere anche
loro protagonisti del film, fu una trovata decisiva di Fellini. La dolce vita era infatti un “dietro
le quinte” della Roma cinematografica e mondana che mostrava i meccanismi di costruzione
del pettegolezzo e della celebrità. La messa in scena di Fellini, tuttavia, si pone al di là del
riferimento all’universo dei media e del pettegolezzo e interpreta la spettacolarità come la
forma simbolica della modernità. Con il caso Montesi prese il via uno spettacolare circuito
mediatico-giudiziario puntellato dalla costruzione di micro celebrità, di personaggi che col
tempo sarebbero stati “famosi per il loro essere famosi”. Le analogie con La dolce vita non
sono poche, dal caso Montesi il trauma dello smascheramento delle ipocrisie della società
italiana si prolunga sin dentro a La dolce vita. Fellini elabora la cosiddetta sequenza del falso
miracolo, tra le più formidabili de La dolce vita. Lo spunto di partenza neorealista della scena
si muta nel suo contrario, si offre come una riflessione sulle forme del falso e della
simulazione mediatica. Fellini immagina che l’attesa dell’evento miracoloso avvenga sotto il
fuoco delle telecamere della televisione e dei flash dei paparazzi giunti assieme a molti
giornalisti (Marcello compreso) per raccontare l’evento. La scena dell’apparizione si
trasforma pertanto in un enorme set. Giunto sul posto, Paparazzo si lancia alla ricerca di
immagini vendibili, mentre Marcello accompagnato da Emma, intervista gli estanti e prende
appunti. Al cinismo dei cronisti, Fellini contrappone la genuina sensibilità di Emma sconvolta
da tanto caos, ma più in generale, gli preme mostrare la logica spettacolare (le prove, le
pose per i fotografi, le interviste pilotate, ecc) che regge e dà significato all’evento. Il tutto
poi culmina nell’assurdo inseguimento dei bambini che, per gioco, cominciano ad additare
l’apparizione della Madonna.
14) JANE CAMPION E LEZIONI DI PIANO (THE PIANO, 1992)
Dopo i successi di Sweetie e Un angelo alla mia tavola, Jane Campion realizza nel 1992 il suo
quarto lungometraggio, Lezioni di piano. L'idea originaria risaliva all'epoca della scuola di
cinema e alla passione di Jane per il corredo fotografico della neozelandese Alexander
Turnbull Library, un patrimonio straordinario sulla colonizzazione dell'isola oceanica e sui
coevi albori della fotografia. La regista nutriva una forte curiosità sui suoi antenati e sul
confronto tra la loro cultura puritana e quelli indigena. Il richiamo alla letteratura romantica
si manifesta tanto sul versante tematico del film, ossia nel conflitto tra desiderio e norme
sociali, quanto nell'atmosfera e nell'ambientazione, una natura selvaggia e ineffabile dove
imperversano le passioni umane. Va inoltre ricordato che la prima e maggiore
colonizzazione della Nuova Zelanda avvenne all'incirca nello stesso periodo in cui scrivevano
le sorelle Brontë. E Campion aveva inizialmente pensato a un adattamento dell'unico e
celebre romanzo di Emily Brontë, Wuthering Heights (Cime tempestose, del 1847). Il
progetto non andò in porto, ma le spiagge solitarie e ventose di Lezioni di piano (il bush
neozelandese) divennero l'equivalente coloniale delle spoglie brughiere di Emily, che la
cineasta aveva visitato. Ancora alle sorelle Brontë è legata un'altra suggestiva coincidenza
nell'ideazione del film. Campion scoprì Infatti i diari di Mary Taylor, una cara amica di
Charlotte emigrata in Nuova Zelanda nel 1847, che gestiva uno dei primi negozi di
Wellington e al tempo stesso insegna pianoforte alla comunità locale. Il rapporto con la
letteratura riguarda anche la poesia, come esplicitato dai versi di Thomas Hood (poeta
inglese coevo delle sorelle Brontë) citati alla fine.
Girato nell’Isola Nord della Nuova Zelanda, Lezioni di piano è dedicato alla madre della
regista. L’autrice affianco in quest’opera il profilo di una donna dell'800, Ada, impegnandosi
in un lungo e approfondito confronto con il repertorio di riflessione consegnato alla nostra
cultura dalla letteratura romantica femminile. Conosciamo questa giovane donna attraverso
la sua voce fuori campo, in apertura del film, che ci informa del misterioso mutismo da cui è
afflitta sin dall’infanzia. Quindi non ha voce (tranne che di quella mentale, che però
sentiamo solo all’inizio e alla fine). Ada trova però altri canali espressivi: la lingua dei segni,
che condivide con la figlia, e soprattutto la musica. Coglie d’istinto suoni e gesti con esperta
immediatezza. Di inabissamenti, come il suo pianoforte alla fine, Ada è fine intenditrice, e
Campion li esplora assegnando piena centralità al corpo e all’epifania della materia. Una
centralità che appare evidente sin dal livello diegetico del film - dal mutismo all’esplosione
dell’Eros, fino al suicidio sfiorato -, e che problematizza il paradigma oculocentrico del cinem
a favore di una costruzione “tattile” del visibile. Il film si apre nel segno di una esaltazione
del rapporto tra sguardo e tatto, e l’intero racconto si sviluppa nel segno della centralità del
corpo, della pelle e della concretezza materica. La pelle (e le dita in particolare) svolgeranno
un ruolo centrale: il film esalta la conoscenza epidermica e corporeizzata, associata nel film
alle forze minoritarie (le donne, i nativi) al posto della visione distanziata della cultura
tradizionale, maschile e patriarcale. The Piano è uno dei film più lucidi nel riflettere sulla
spettatorialità cinematografica come dimensione in cui non contano soltanto lo sguardo e
l’udito, ma le forme della percezione incarnata (come teorizzato da Vivian Sobchack nel suo
Carnal Thoughts). L’immagine dell’oggetto pianoforte (nucleo d’ispirazione iniziale, che in
originale dà anche titolo al film) abbandonato in scenari mozzafiato ha avuto un’importanza
cruciale nel far scaturire in Campion l’idea del racconto: un’immagine icastica che racconta
della continuità tra natura e cultura, tra comprensione intellettuale e estasi sensoriale.
STEWART
Il nuovo marito di Ada non comprende affatto l’importanza che il canale espressivo musicale
riveste per lei. D’altronde, egli è completamente catturato all’interno dello schema mentale
patriarcale e tratta la donna come una sua proprietà. Pur non essendo malvagio, non riesce
minimamente a entrare in contatto con lei da pari a pari. Significativamente, usa l’immagine
di lei come specchio (non riesce, narcisisticamente, a vedere altro che sé stesso).
BAINES

Se Ada è muta, Baines è analfabeta. Entrambi mettono dunque in crisi il logocentrismo


(centralità della parola) della società occidentale tradizionale. Ada e Baines mettono in crisi
il logocentrismo e l’oculocentrismo della società patriarcale (e del cinema tradizionale).
Baines sa sintonizzarsi sul linguaggio non verbale della donna (si innamora di lei sentendola
suonare) perché è già abituato a comunicare con i Maori, cui appartiene putativamente. La
scoperta dell’eros è associata alla potenza del paesaggio naturale e primitivo neozelandese.
Se il pianoforte è il primo canale per l’espressione della sensualità di Ada, essa trova poi uno
sfogo non sublimato nel rapporto con Baines.
L’UOMO OGGETTO DELLO SGUARDO
Il rapporto tra Ada e Baines diventa una scoperta della pelle come primo medium di
comunicazione: il sesso diventa una forma di conoscenza ed espansione del sé, mettendo in
discussione i consueti binarismi del pensiero occidentale: mente/corpo, natura/cultura,
teoria/prassi. Baines conquista Ada anche perché si mette in una posizione di consueto
marcata culturalmente come femminile, esponendosi nudo al suo sguardo. In questo modo
egli ribalta le consuete gerarchie del rapporto tra i sessi del patriarcato, secondo cui l’uomo
è sempre e solo il soggetto dello sguardo e la donna il suo oggetto passivo.
MADRE E FIGLIA
Il film è anche il racconto della necessaria rottura della simbiosi tra i due principali
personaggi femminili: una ferita necessaria perché Ada possa affrontare la vita con una
nuova consapevolezza di sé e muovere verso una nuova, pur sofferta, pienezza.

15) ALMODOVAR E IL QUEER CINEMA


IL POSTMODERNO E LA MOLTIPLICAZIONI DELLE NARRAZIONI
Il postmoderno è la stagione della decostruzione di ogni interpretazione univoca della realtà
tramite una singola Grande Narrazione (le ideologie che avevano dominato Otto e
Novecento crolleranno definitivamente con la caduta del muro di Berlino nel 1989).
Il postmoderno si configura perciò come l’epoca della moltiplicazione dei discorsi e dei punti
di vista. A parlare non sono più soltanto i maschi bianchi occidentali eterosessuali; prendono
il centro della scena culturale tante altre soggettività minoritarie, spesso più consapevoli
della propria stessa frammentazione.
La perdita del pensiero unico, se può provocare smarrimento e confusione, costituisce
anche l’occasione di una maggiore libertà.
QUEER CINEMA

L’idea di soggettività «queer» prevede:

● la consapevolezza del proprio posizionamento sovversivo rispetto alle pratiche


identitarie tradizionali (dimensione che appartiene al cinema di Almodovar sin
dall’inizio);
● il rifiuto di ogni semplicistica opposizione binaria come strumento di costruzione
dell’identità: uomo/donna, omosessuale/eterosessuale, travestito/transessuale ecc.;
● la consapevolezza, anche ludica, che l’identità non è un dato bensì un processo, una
performance. La soggettività è mobile ed è fortemente influenzata dalle dinamiche
culturali.

TUTTO SU MIA MADRE (TODO SOBRE MI MADRE, PEDRO ALMODOVAR, 1999


Riflessione su:
o Femminilità
o Maternità
o Performance
o Creatività
oDolore
o Nuove configurazioni della famiglia
o Dimensione socio-politica,
legata alle dittature argentina e spagnola, e alla piaga dell’HIV

Manuela non ha fatto in tempo a svelare a suo figlio Esteban chi fosse suo padre: un'auto lo
ha investito tutti i suoi occhi, all'uscita di un teatro, proprio quando aveva promesso di
raccontargli la verità. Ora questa madre, spezzata al dolore, accetta di compiere “a rovescio”
l'ultima volontà del ragazzo e va in cerca del padre, da cui era fuggita incinta 18 anni prima,
per dirgli che aveva avuto un figlio, che il ragazzo è morto e che si chiamava Esteban come
lui prima che diventasse Lola. Lasciata a Madrid per Barcellona, Manuela cerca dunque l'ex
compagno nei luoghi della prostituzione transessuale. Rincontra Agrado, che aveva vissuto
con la coppia 20 anni prima. Neppure lei sa nulla di Lola ma d’ora in poi le due amiche non si
perdono di vista. A Barcellona intanto è in cartellone Un tram che si chiama desiderio con
Huma Rojo e Nina Cruz nelle parti delle protagoniste Blanche e Stella. Casualmente Manuela
entra in contatto con loro e una sera finisce per sostituire Nina, che la tossicodipendenza
rende inaffidabile, durante una rappresentazione. Nel ruolo di Stella aveva già recitato in
Argentina, accanto a Esteban-padre. Ma Manuela non è ambiziosa e lascia presto la parte ad
Agrado per continuare le sue ricerche. Conosce così suor Rosa, che ha assistito Lola durante
un tentativo di disintossicazione: la giovane suora è però rimasta incinta di Lola/Esteban e
ha contratto l’Aids. Manuela l'aiuta durante la gravidanza benché contro la malattia non
possa fare nulla. Al cimitero riappare Lola, su cui Manuela riversa con rabbia la propria
sofferenza. Ma la sua umanità, il ricordo del figlio e le drammatiche condizioni di salute di
Lola non le consentono di serbarle rancore. Perciò porta a termine la propria missione, e
racconta del loro Esteban e, qualche settimana dopo, le permette di stringere tra le braccia
il terzo Esteban, figlio di suor Rosa, che di fatto Manuela adotta e porta con sé a Madrid
perché la nonna materna rifiuta di avere contatti con lui per paura del contagio. Il piccolo
però negativizza il virus: il suo caso diviene oggetto di studio per la comunità scientifica e
Manuela può finalmente tornare a Barcellona per la prima volta senza fuggire da niente e da
nessuno.

Tutto su mia madre di Almodovar riflette sul rapporto tra genitori e figli con un'audace
contaminazione di generi che diviene elemento strutturante dei risvolti profondi e viscerali,
a livello tanto dell'espressione del contenuto. La dedica, che apre i titoli di coda, è una sorta
di summa analettica del film, il quale a sua volta assolve la stessa funzione rispetto all'opera
cinematografica di Almodovar. La dedica viene fatta a tre “attrici che hanno interpretato
attrici”: Bette Davis in Eva contro Eva (All about Eve, di Joseph L. Mankiewicz, 1950), Gena
Rowlands in La sera prima (Opening Night, di John Cassavetes, 1977) e Romy Schneider in
L’importante è amare. Dopo una breve sequenza iniziale, Esteban, scrittore in erba, dialoga
con sua madre Manuela mentre sta per essere trasmesso alla televisione Eva contro Eva.
Qualche tempo dopo Huma dice di essersi scelta come nome d'arte Huma in omaggio a
un'altra accanita fumatrice che sin dalla gioventù si è sforzata di imitare in tutto: Bette
Davis. Un primo cerchio si chiude. Ma se ne intersecano subito altri. Huma infatti è
impegnata nelle repliche di Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams. Dal
teatro viene altro materiale per la diegesi filmica. Liberata dalla dipendenza affettiva e
professionale da Nina, Huma prepara nuovo lavoro su un testo di Garcia Lorca: Bodas de
sangre. Tutti questi sono collegamenti intertestuali: La rivalità femminile di Eva contro Eva si
muta in amicizia e comunanza; Un tram che si chiama desiderio, invece, riguarda la
mascolinità come abuso e prevaricazione.

Ritornando al titolo, Esteban e il suo gesto di scrittura danno il titolo al racconto con una
soggettiva impossibile. È come se, alla sua morte, prendesse lui il posto del regista e
raccontasse la storia della madre che stava scrivendo. Il maschile, rimane una figura
inconoscibile, mentre il resto del film si trasforma in un’avventura del femminile come forza
positiva, capace di unire forza e dolcezza. Il femminile è la forza positiva perché è
consapevole del proprio posizionamento identitario, della propria performance, e dunque
agisce di conseguenza.L’amicizia come famiglia alternativa (emancipando tale concetto dai
semplici vincoli di sangue e parentela): un gruppo alternativo ma saldo, legato alla capacità
di prendersi cura. In questa idea dell’altruismo il film ravvisa la possibilità di una forma di
rinascita.

Aldilà dell' innegabile impatto visivo ed emotivo, la scena della morte di Esteban costringe lo
spettatore a riprendere posizione rispetto all'intero film: da questo momento inizia infatti
l’inattesa peregrinazione di Manuela e con essa quella del pubblico. Il regista utilizza il
dolore largamente condivisibile di una madre come strumento di captatio benevolentiae nei
confronti dello spettatore e fa scattare in modo raffinato la trappola psicologica della
identificazione: l'ottica di Manuela diviene perciò quella del pubblico, che ne condividerà
emozioni, giudizi e ripensamenti. Almodovar riesce dunque a portare il suo discorso e la sua
morale su un terreno comprensibile a tutti senza abiure. E lo fa trattando al solito modo
naturale personaggi e situazioni “limite”, statisticamente poco rappresentati, ma
psicologicamente emblematici. Inutile dunque cercare in essi una verosimiglianza
naturalistica. In questo film è come se Almodovar scoprisse che si può morire per caso (lo
sconosciuto dei titoli di testa e Esteban) o per malattia ( Rosa, Lola) in qualsiasi momento: il
“romanzo di formazione” è giunto al capitolo della maturità. E la malattia rientrati peso. Tre
volte: con l'Alzheimer del padre di Rosa e con l'aids che uccide Rosa e Lola. Non inganni
tuttavia la presenza di temi tradizionali: benché si sfiori talvolta il moralismo,si resta
comunque sui generis. Prendiamo la famiglia. Dopo averne demolita la struttura patriarcale
o nucleare, Almodovar la ricostruisce solo come luogo degli affetti liberamente scelti,
faticosamente conquistati. C'è soprattutto la scelta di essere madri, al di là del genere
biologico. La metamorfosi di Lola illustra bene tale concetto: è la prima volta che Almodovar
si spinge a costruire un personaggio dal simbolismo scoperto. Nel dialogo tra Manuela e
l'amica transessuale Agrado emerge la verità sull'ex compagno di Manuela, divenuto
appunto Lola. Si delinea a partire da questo momento, in absentia, la caratterizzazione di un
personaggio diabolico: inaffidabile, drogato, egoista. La transessualità è d’altronde mostrata
anche nella sua versione negativa, ancora legata alle forme del potere oppressivo e
mortifero di Lola, che si fa strumento di sofferenza per le donne che incontra.

La mescolanza tra eccesso melodrammatico e humor è la chiave per affrontare il quotidiano


proposta da Tutto su mia madre. Il dolore viene affrontato sia estetizzandolo nel pathos del
melodramma che cercando di ritrovare una dimensione di leggerezza ironica. C'è sempre un
personaggio dalla psicologia elementare, fragile e ingenuo quanto generoso nei sentimenti,
deputato a far sentire la voce del comico evitando la deriva nel sentimentalismo. In questo
film è Agrado. A lei il regista affida parole che sono una vera e propria poetica
dell’autenticità secondo Almodovar. Che si tratti di qualcosa di più delle solite battute è
dimostrato dal fatto che l'esilarante discorso è strutturato in forma di monologo teatrale. La
conclusione non ha bisogno di commenti:«una es más auténtica cuanto más se parece a lo
que ha soñado de sí misma». Agrado non ha completato la transizione, ma l’identità
femminile non è determinata unicamente dagli organi genitali, bensì da un’illusione estetica
complessiva (performance) che comprende caratteri fisici e identitari. L’autenticità
identitaria perde il fondamento nella biologia – si rivendicano invece le forme della messa in
scena, della rappresentazione allegramente ibrida. Il tema della finzione dentro la finzione
ha consentito ad Almodovar di imbastire una delle sue trame più intense e complesse. Un
nuovo senso “riflessivo” può allora essere individuato nella metatestualità: quella del
cinema che riflette sul cinema, sul teatro, sulla letteratura come “doppio” della vita. Oltre il
genere biologico, oltre il genere cinematografico, oltre il il codice cinematografico.

16) WONG KAR-WAI E IL CINEMA ORIENTALE CONTEMPORANEO

IN THE MOOD FOR LOVE, WONG KAR-WAI, 2000

Hong Kong, 1962. Chow Mo-wah, Creature di un quotidiano locale, si trasferisce con la
moglie in uno stabile abitato in prevalenza da shangaiesi. Nello stesso giorno, Su Lizhen
trasloca con il marito, il signor Chan, in una stanza dell'appartamento accanto a quello di
Chow, di proprietà della signora Suen. Su fa la segretaria in una società di Import-Export: tra
i suoi vari lavori, c'è anche quello di aiutare il signor Ho, suo principale, a gestire le
complicazioni di una relazione extraconiugale. Il marito di Su invece viaggia spesso all'estero
per affari, soprattutto in Giappone. Chow e Su, entrambi molto riservati, si incontrano ogni
tanto nel corridoio dello stabile o quando escono per comprare cibo. Gradualmente, da
alcuni piccoli indizi, i due capiscono che loro coniugi hanno una relazione. Chow e Su
iniziano a frequentarsi, per condividere le sofferenze del tradimento, ma soprattutto per
capire come loro consorti siano giunti all'adulterio. Tra i due nasce un sentimento che va
oltre la semplice solidarietà reciproca. Chow vorrebbe scrivere un romanzo cavalieresco di
arti marziali: sapendo che il genere letterario piace molto a Su, le propone di farlo insieme.
La donna accetta e i due iniziano a vedersi spesso, con discrezione, per non alimentare
pettegolezzi. Chow affitta la stanza di un albergo, per allontanarsi dalla moglie ma anche per
scrivere con Su al riparo dagli sguardi del vicinato. Un giorno la signora Suen, notando che
Su è spesso fuori casa, le consiglia di tenere la testa sulle spalle. La donna raccoglie
l’avvertimento e decide di non vedere più Chow. Quest’ultimo però la cerca, e i due si
incontrano: Chow le dichiara il suo amore ma certo che la donna non lascerà mai suo
marito, le comunica la sua intenzione di lasciare Hong Kong per trasferirsi a Singapore.
Quando Chow sta per lasciare la città, chiede a Su se vuole partire con lui ma la donna non
accetta.

Singapore, 1963. Su è arrivata da Hong Kong per rivedere Chow. Si reca a casa sua, ma non
lo trova. Chow è a pranzo con un amico, al quale racconta di un’antica leggenda: un tempo
chi voleva conservare un segreto forava un tronco di un albero di montagna, vi bisbigliava il
suo segreto e richiudeva il buco con la terra, in modo da nasconderlo per sempre. Su intanto
è riuscita ad introdursi nell’appartamento di Chow. La donna prova ancora a cercare Chow a
lavoro, questi gli risponde, ma lei non parla, e attacca il ricevitore. Chow, ritornato a casa,
capisce che Su è stata da lui.

Hong Kong, 1966. Su, da tempo trasferitasi in un’altra zona della città, fa visita alla signora
Suen. Quest’ultima sta per raggiungere la figlia negli Stati Uniti, ed è preoccupata per il
destino del suo appartamento. Su si mostra interessata ad affittarlo. Qualche tempo dopo,
Chow, rientrato da Singapore, ritorna nel suo vecchio appartamento per salutare il su ex
padrone di casa, ma il suo nuovo inquilino gli dice che l’uomo ha traslocato. Chow chiede
allora notizie della signora Suen. L’inquilino gli risponde che si è trasferita e che il suo
appartamento è abitato da una donna e un bambino. Chow capisce che si tratta di Su e il
figlio. Nello stesso anno, Chow, inviato dal suo giornale in Cambogia per seguire la visita di
De Gaulle, si reca al tempio di Angkor Wat. Qui si avvicina alla piccola fessura di un muro e
sussurra qualcosa: il suo segreto. Quindi chiude il buco con la terra e, mentre scende la sera,
se ne va.

In the Mood for Love nasce da un'idea più ampia: il regista inizialmente aveva pensato un
film in 3 episodi (Tre storie di cibo), ciascuno incentrato su un personaggio diverso (uno
scrittore, un cuoco, il titolare di un fast food). La trilogia avrebbe dovuto raccontare la
trasformazione delle relazioni tra uomo e donna a Hong Kong dagli anni Sessanta a oggi
attraverso i cambiamenti legati all’alimentazione. Nel progetto originario, la storia d’amore
tra i due vicini doveva alternarsi tra gli anni Sessanta e i giorni nostri, a sottolineare la
continuità delle emozioni. Ma dopo aver constatato che le sequenze contemporanee non si
discostavano da quanto aveva già realizzato negli ultimi tre film, Wong Kar-wai decide di
ambientare In the Mood for Love interamente negli anni Sessanta. Il racconto si sarebbe
comunque dovuto estendere fino al 1972, cioè fino all’apertura di un decennio di svolta nei
costumi degli abitanti di Hong Kong, ma l’idea di una storia lunga dieci anni si rivela troppo
impegnativa. Il film riprende in modo del tutto autonomo alcuni personaggi (in particolare
quello di Maggie Cheung, Su Li-zhen) di Days of Being Wild (1990). Wong-Kar Wai sarà poi
costretto per obblighi contrattuali a iniziare a girare il proprio film successivo, 2046 (2004),
mentre sta ancora finendo In the Mood for Love. 2046 è ad un certo livello un seguito di In
the Mood for Love, del cui protagonista maschile racconta la vita sentimentale in modo più
ampio. 2046 è d’altronde anche il numero della stanza d’albergo dei due protagonisti nel
film del 2000. Con In the Mood for Love la tendenza alla rarefazione narrativa e alla
dilatazione ritmica già presente in Happy Together diventa dominante: Wong Kar-wai
costruisce un dramma lineare a due voci, inesorabile nell’evidenza dei suoi pochi momenti
essenziali (il contatto, l’incontro, la separazione, il lutto). La triste parabola di una coppia
mai nata, che vanifica il proprio amore per le coercizioni della repressione sociale e simula la
propria esistenza giocando in modo autodistruttivo con le identità dei rispettivi coniugi,
porta al più alto vertice d’intensità melodrammatica i temi che il regista aveva sviluppato nei
film precedenti: l’impossibilità di un incontro nel qui e ora, la solitudine dell’Io, la memoria
come resistenza alla sparizione del presente. La messa in scena di questa parabola è
sorvegliata da Wong Kar-wai con un lavoro di disarticolazione del tempo, di svuotamento
degli spazi e di progressiva rimozione dei corpi di eccezionale coerenza e misura. Agli occhi
di un regista che in quel decennio ha vissuto la sua infanzia, gli anni Sessanta alimentano
numerosi ricordi, come gli scontri tra studenti e polizia, o il sovraffollamento degli
appartamenti, legato all’intensificazione del flusso migratorio dalla Cina Popolare: un
fenomeno incontenibile che determina una grave crisi delle abitazioni, portando alla
convivenza forzata tra nuclei familiari e alla pratica del subaffitto. Gli stessi genitori di Wong
Karwai, come ricorda il regista, subaffittavano il loro appartamento agli studenti: la
conseguente mescolanza di storie, linguaggi e immagini aveva esercitato un grande fascino
sul piccolo Wong. In the Mood for Love “fotografa” proprio questa situazione di promiscuità
forzata. Ma per Wong Kar-wai gli anni Sessanta sono anche quelli che vedono crescere, nella
comunità mandarina, la prima generazione realmente hongkonghese, proprio quella del
regista: specularmente, quindi, rappresentano anche l’ultimo decennio in cui gli immigrati di
prima generazione cercano ancora di conservare un legame identitario con la madrepatria. Il
film vuole anche “documentare” il mood di questa comunità sradicata, fatta di persone che,
come ricorda lo stesso Wong Kar-wai, avevano «il loro linguaggio, il loro cibo, i loro cinema, i
loro rituali». Anche la musica concorre a sostanziare la recollection di un periodo lontano,
evocando non solo gli anni Sessanta ma risalendo anche ai Quaranta e ai Cinquanta. La
tradizione cinese è evocata in In the Mood for Love dal ricorso a brani musicali tratti
dall’opera di Pechino, oppure ripresi dal teatro cantonese. L’ibridazione e l’apertura al
nuovo degli anni Sessanta sono invece espresse musicalmente da motivi di origine latino-
americana, ma anche da un brano come Bengawan Solo, celebre canzone indonesiana
interpretata in inglese, nei primi anni Sessanta, da una Rebecca Pan diciottenne. Proprio
quest’ultima, cantante molto popolare soprattutto in quel decennio, originaria di Shanghai
ma trasferitasi a Hong Kong nel 1949, crea con la sua presenza nel film una sorta di
cortocircuito temporale: la sua figura invecchiata si cala negli anni della sua giovinezza,
creando un suggestivo effetto di simultaneità tra presente e passato e diventando così una
sorta di “matriarca” delle radici perdute di una comunità. La scelta di Nat King Cole, di cui si
riprendono comunque le cover latinoamericane, è invece ispirata da motivi più intimi, ma
sempre legati a quel decennio: il musicista americano era tra i preferiti dalla madre del
regista.

Ciò che distingue però In the Mood for Love è l’attenzione alla cura dei particolari. La cultura
di un’epoca e di una comunità si reifica nei dettagli, e si generalizza nella concretezza della
sua estetizzazione, per risultare comprensibile a un pubblico internazionale che poco sa
delle sue peculiarità. La pienezza dei dettagli scenici e musicali serve a Wong Kar-wai per
mettere in rilievo l’evanescenza del passato, l’imminente vuoto della memoria. La metafisica
della perdita e dell’assenza si dà a vedere attraverso una fisica (cioè una visibilità) della
nostalgia. Il rapporto con il passato e con la tradizione si esprime nel film anche con il
riferimento al genere cinematografico del wenyipian, in quegli anni al centro di un felice
revival. Il termine deriva dall’abbreviazione di wenxue (letteratura), yishu (arte) e pian (film),
e indica principalmente il mélo colto ed elegante, di forte matrice letteraria, diverso dal film
di intrattenimento ma disponibile ad accogliere suggestioni della cultura popolare
(soprattutto musicale): un genere molto attento alla centralità dei personaggi femminili,
meno incandescente del mélo cinematografico occidentale e incardinato sull’etica della
rinuncia. Alberto Pezzotta è uno dei primi studiosi a indicare come autorevole fonte
d’ispirazione di In the Mood for Love uno dei capolavori del wenyipian degli anni Quaranta,
il superbo dramma familiare Xiao cheng zhi chun (Primavera in una piccola città, 1948) di Fei
Mu.

Il confronto di In the Mood for Love con il cinema del passato non esclude tuttavia una
revisione delle dinamiche di relazione. Se è vero, come ha osservato Stephen Teo, che la
scelta finale – più voluta da Su che da Chow – del definitivo “ritorno a casa” si rifà alla
pedagogia della rettitudine che informa la tradizione, a tratti moralistica, del melò cinese, è
altresì vero che il rischio del moralismo si stempera nella volontà dei due coniugi traditi di
sottrarsi al conformismo dell’adulterio borghese. Quel «noi non saremo mai come loro»
suona allora non tanto come un giudizio morale quanto come il desiderio orgoglioso di
affermare – anche al costo della sua negazione – un’esclusività amorosa libera dai vincoli
sociali, dai sotterfugi, dalle bugie, dagli sdoppiamenti di ruolo (conosciuti molto bene da Su,
efficiente e professionale complice dell’adulterio del suo datore di lavoro). Wong Kar-wai
d’altronde non è un moralista: a testimoniarlo è l’inquadratura della moglie di Chow ripresa
in lacrime all’interno della doccia.

La fine di In the Mood for Love è scandita da un cartello che è quasi una dichiarazione di
sguardo. «Quando ripensa a quegli anni lontani è come se li guardasse attraverso un vetro
impolverato. Il passato è qualcosa che può vedere, ma non può toccare. E tutto ciò che vede
è sfocato e indistinto». I testi evocano la difficoltà di mettere a fuoco il passato, ma
soprattutto di toccarlo: poter toccare significa sentire l’altro, mentre il vedere è lo statuto
della distanza, quindi della solitudine e del ricordo. Nel film questa difficoltà legata
all’opacità della memoria si esprime con precise scelte di stile: la più importante consiste nel
ridurre lo spazio abitabile della scena attraverso l’uso quasi ordinario dello slit staging.
Spesso le stanze sono filmate attraverso una porta spalancata o socchiusa, i vetri di una
finestra, l’apertura di una tenda, altre volte invece la settorializzazione del campo è dettata
dalla struttura stessa della location (un corridoio, le scale). In tutti i casi la scena è visibile
solo in una sua minima porzione, di solito in una sezione verticale centrale o laterale, chiusa
tra una o più bande verticali scure. Lo slit staging posiziona la cinepresa all’esterno di una
soglia: il punto di vista fa sentire la sua presenza e rafforza una divisione tra vedente e
veduto che non può colmarsi, anche quando le distanze sono ridotte. È un punto di vista
distaccato ma intrusivo, come se volesse insinuarsi nella scena per intravedere di nascosto,
con un gesto che ha sicuramente qualcosa di voyeuristico (amplificato dalla presenza di
tende, veli, finestre, fessure di porte ecc.). A volte però lo sguardo è anche limitato e
parziale, perché, proprio come i voyeur, non riesce a guardare come e dove vuole. Lo
spettatore, come ha dichiarato lo stesso Wong Kar-wai, deve sentirsi come se uno dei vicini
della coppia guardasse per lui, insinuando il suo sguardo attraverso un metaforico (ma non
troppo) buco della serratura, tra le fessure di una storia che non gli appartiene ma che si sta
sviluppando lì accanto. È davvero il contrario esatto del posizionamento classico, in cui lo
spettatore era sempre nella posizione migliore per ricevere tutte le informazioni necessarie.
Altre volte invece lo sguardo della cinepresa si libera da ostacoli e condizionamenti,
diventando quasi ubiquo e onnipotente, capace di infilarsi con disinvoltura in ogni spazio (ad
esempio all’interno di un armadio, accanto alla moglie di Chow piangente sotto la doccia,
sotto il letto della stanza d’albergo a Singapore). In alcuni momenti sembra anche che la
cinepresa dimentichi la preoccupazione di non farsi vedere, cercando di incontrare lo
sguardo dei due protagonisti. Il punto di vista oggettivo della macchina da presa è come se
volesse attestare la propria presenza dentro la scena, in quel momento. In tutti i casi è come
se la cinepresa volesse attestare la propria presenza dentro la scena, in quel momento:
immergersi dentro il passato e «presentificarlo». Contemporaneamente, ribadisce però la
propria arbitraria esclusione di frammenti fondamentali del mondo rappresentato:
l’esempio più macroscopico sono i volti dei due coniugi, naturalmente.

Un’altra messa a distanza importante è quella che separa il corridoio dagli appartamenti. Se
questi nascondono la visibilità, istituendo una parvenza d’intimità ma anche un’interdizione
(Su vorrebbe entrare nell’appartamento di Chow e sua moglie per vedere se il marito è con
quest’ultima, ma non può farlo), il corridoio è invece uno spazio pubblico che predispone i
due protagonisti ai primi contatti, ma è anche uno spazio normativo e repressivo che li
espone anche agli occhi giudicanti del vicinato. Un’analoga strategia di riduzione della
visibilità della scena e di divisione tra campo e fuori campo è data dall’uso degli specchi: le
ricorrenti immagini riflesse, infatti, sono l’impronta visibile di qualcosa che esiste ma che
non è visibile direttamente, proprio perché collocato nel fuori campo. Invece di estendere e
approfondire la visione, gli specchi aumentano le distanze rispetto a ciò che riflettono, quasi
come le lenti di un cannocchiale rovesciato. Le immagini riflesse creano un disorientamento
percettivo, al punto che in alcune inquadrature non è chiaro se i personaggi sono filmati
direttamente oppure attraverso lo specchio. La confusione nasce anche dalla
moltiplicazione, spesso metaforica, dei doppi. La trasformazione della materialità del corpo
nell’inconsistenza replicabile di un’immagine riflessa compromette una rappresentazione
completa dei personaggi e la loro centralità nello spazio. Questa messa in crisi del corpo si
esprime anche attraverso altre soluzioni di cadrage. Per esempio nell’evidenza figurativa e
plastica degli oggetti, spesso inquadrati in dettaglio, con una solidità quasi tangibile che
contrasta con la sfocatura delle figure umane talora percepibili sullo sfondo. Un’ulteriore
aggressione alla centralità della figura umana è data dal frequente sezionamento del corpo,
una scelta stilistica chiaramente influenzata da Bresson, dal primo Godard e da Antonioni. Il
film è pieno di inquadrature che riprendono solo alcuni elementi dei corpi.

L’estrema conseguenza del ridimensionamento della figura umana è la sua sparizione: una
circostanza che si realizza non solo, come si vedrà, nel finale, ma anche in altri luoghi del
film, scanditi dalla ricorrenza di campi vuoti, privi di personaggi. L’evidenza degli oggetti, il
sezionamento dei corpi, la loro provvisoria o definitiva sparizione dall’inquadratura sono
solo aspetti di una più ampia prevaricazione degli spazi sui corpi. I primi sembrano esistere a
prescindere dai secondi. Molto spesso, per esempio, come osserva lo stesso regista, la
macchina da presa parte dall’ambiente, cioè apre l’inquadratura su un oggetto, un muro o
un elemento scenografico, per poi spostarsi lateralmente a riprendere Chow o Su. I muri
scrostati che chiudono il perimetro delle conversazioni notturne dei due protagonisti
precludono all’immagine la possibilità di aprirsi una fuga almeno lungo l’asse della
profondità. Il destino dei personaggi resta la claustrazione, il soffocamento, persino la
paralisi. Verso il finale, quando ormai è chiaro che tra Chow e Su non potrà nascere alcuna
relazione, lo spazio immobilizza letteralmente i due protagonisti. Fino alla sparizione dei
corpi stessi (che giungerà a compimento nel finale): ci si sofferma su campi vuoti, per
mostrare allo spettatore che la figura umana non esaurisce mai il discorso, che l’ambiente
ha una sua autonomia significante.

Gli stessi vestiti (i qipao) di Maggie Cheung sono superfici che esercitano sul personaggio la
stessa egemonia soffocante dei muri appena descritti, innalzando una sorta di parete tra la
donna e l’uomo che la ama. Parimenti, il tatto è importante nel film, ma – a differenza che in
Lezioni di piano – solo per sottolineare l’assenza di contatto tra i due protagonisti (in una
prima versione i due dovevano amarsi appassionatamente nella stanza 2046). Al di là di
queste soluzioni di chiusura dello spazio e dei corpi, si può notare come la prospettiva di
costruzione della scena sia al tempo stesso pluriscopica e selettiva. Wong Kar-wai moltiplica
i punti di vista, muovendosi a 360° dentro il set degli ambienti, con angolazioni marcate e
inconsuete, frequenti disorientamenti percettivi, scavalcamenti di campo, falsi raccordi. A
questa estensività dello sguardo corrisponde una tendenza alla frammentazione irreversibile
della scena, il cui sezionamento non restituisce mai le coordinate di uno spazio omogeneo.

Il prima e il dopo non ricompongono un racconto leggibile, ma aprono dei vuoti, denunciano
delle mancanze, non tanto sul piano dell’ordine degli eventi, quanto piuttosto sul piano
della durata. Wong Kar-wai ricorre spesso alla logica sottrattiva dell’ellissi, cioè
all’eliminazione di eventi e porzioni di tempo. Si pensi all’ellissi forse più intensa del film:
Chow attende l’arrivo di Su nella sua stanza d’albergo. Wong Kar-wai filma l’approssimarsi di
Su alla stanza attraverso un montaggio iterativo: moltiplica con brevi inquadrature il passo
della donna e il suo ripetuto saliscendi lungo le scale, indizio di un’evidente esitazione. Alla
dilatazione di questo micro-evento segue la totale elisione dell’incontro tra i due
protagonisti. La sfaldatura del tempo narrativo passa anche attraverso la logica della
ripetizione. La struttura ritmica del film è scandita da temi musicali, visivi e narrativi che si
ripetono incessantemente. La ripetizione di eventi simili serve soprattutto per mettere in
luce le loro differenze. Nella prima parte del film, Wong Kar-wai riprende una situazione
pressoché identica che si ripropone in tre momenti diversi: Su, filmata in ralenti, si reca di
sera al noodle shop per comprare delle cibarie e sulla strada incontra Chow.

Wong Kar-wai ama ripetere che In the Mood for Love è quasi un thriller hitchcockiano,
perché alcuni eventi essenziali accadono nel fuori campo, alimentando la suspense negli
spettatori. Il paragone, per quanto suggerito dal regista, non convince del tutto, ma è
indubbio che al centro del film vi sia una detection. Su e Chow vogliono riportare alla luce
l’inenarrato (la storia clandestina dei loro partner) per interrogarsi su un mistero (il movente
e la genesi dell’adulterio). Indagare vuol dire provare a ricostruire i pensieri e le azioni dei
potenziali colpevoli, o calarsi dentro il punto di vista di ciò che si sta osservando. E
soprattutto significa ricomporre una storia, attività prediletta dai protagonisti, se si ricorda
che i due sono appassionati lettori, e che i momenti di più forte intimità li raggiungono
quando scrivono insieme racconti di arti marziali. Chow e Su tentano quindi di ricostruire la
storia dell’altra coppia. Il regista decide di non far vedere mai i volti dei coniugi, in modo da
rendere più efficace la presa in carico delle loro identità da parte dei due protagonisti. La
possibile contrapposizione tra due modelli femminili (fot. 82) non trova però successive
conferme: da quando Su decide di recitare il ruolo della moglie di Chow, quest’ultima
scompare dal film. L’identificazione tra il personaggio e il suo doppio porta spesso al
disorientamento: in alcune sequenze sembra che i due protagonisti si parlino direttamente,
e solo in un secondo momento si capisce che in realtà stanno provando una scena, usando
le parole che forse potrebbero aver pronunciato i loro partner. Gradualmente, tuttavia, essi
trasformano la ricerca di una soluzione alla domanda che li tortura (perché è accaduto?) in
un’indagine su loro stessi, proprio come avviene nelle detection più moderne.Il loro
incontro, segnato insieme dal pudore e da una sperimentazione spregiudicata, è soprattutto
legato alla creatività: la scrittura si configura non come attività solitaria ma come processo
di coppia. Ma perché mettono su questo teatro personale in cui fingono di essere i propri
coniugi fedifraghi? Ciò che gli impedisce di vivere in prima persona una storia d’amore non è
semplicemente un giudizio morale sull’altra coppia, né un timore di degradarsi
personalmente. Al contrario, lungi da ogni moralismo, c’è un elemento creativo anche in
questo aspetto del loro incontro. I due cercano infatti di investigare i sentimenti degli altri,
ed evidentemente anche i propri, tramite la performance. Se i due scelgono
consapevolmente di non amarsi, è anche perché è come se sentissero che nella perdita
stessa, nella mancanza, stesse il nodo stesso del desiderio. Sono consapevoli della natura
per definizione inafferrabile del desiderio, che condanna il soggetto ad una inesauribile
melanconia per un oggetto perduto o forse, appunto, mai afferrato. Nel film c’è dunque una
dimensione di nostalgia legata al passato effettivamente perduto; ma il senso di vuoto
incolmabile riguarda in verità ogni aspetto del vissuto, anche il presente. Come se l’intera
esistenza umana fosse caratterizzata dall’impossibilità di possedere e catturare alcunché.

La sparizione finale di Chow, con la macchina da presa che invece, continua a filmare lo
spazio delle rovine, è il trionfo del fuori campo, dell’invisibile, dell’assente: tutte dimensioni
a cui le immagini del film sembrano rinviare, a volte contrastandole, ma senza successo. Il
film intero sembra generato da un fuori campo assoluto quasi mai reversibile, che
comprende molte cose: lo spazio di Hong Kong al di fuori della comunità di Shanghai, le due
storie d’amore, quella consumata e quella mai vissuta, l’infanzia di Wong Kar-wai.
17) GLI UNIVERSI DI DAVID LYNCH
Lynch è una figura eccentrica nelle industrie mediali contemporanee. Col suo cinema, egli
crea universi articolati e complessi, ma caratterizzati dalla ricorrenza di alcuni elementi
dell’immaginario che li rendono fortemente riconoscibili. Gli universi che costruisce sono
decisamente distaccati da qualunque idea di «narrazione verosimile», e orientati invece a
una proliferazione apparentemente incontrollata, spesso oscura e morbosa, di traiettorie
narrative e dinamiche della soggettività.

LA PRIMA FASE DELLA CARRIERA

● L’esordio sperimentale nel 1977 (Eraserhead)


● Successo di pubblico con un film più classico (The Elephant Man, 1980)
● Flop del prestigioso adattamento del romanzo di Frank Herbert (Dune, 1984)

VELLUTO BLU, 1986

Una cittadina di provincia rivela gli elementi disturbanti e orripilanti nascosti sotto la sua
superficie.Influenza surrealista e dei discorsi psicoanalitici (complesso edipico).

LA PSICHE E IL CORPO
La chiave di tutta l’opera di Lynch è quella dell’oggettivazione di complesse configurazioni
psichiche in una forma narrativa e visiva. Questo significa andare molto oltre la dimensione
cognitiva e intellettuale. Un cinema del SENTIRE (sia nel senso del percepire le emozioni, sia
in senso uditivo → importanza del sonoro e della musica). Tentativo di immergere lo
spettatore in un incontro con l’irrappresentabile e l’ineffabile, con tutto ciò che resiste
all’interpretazione e alla parola, con l’orrore del fantasma originario, che si colloca al di là
del linguaggio in una dimensione di pura intensità.

I SEGRETI DI TWIN PEAKS (ABC 1990-91) E LA QUALITY TV


● Complessità narrativa e “soapizzazione” della serialità
● Compresenza di dimensione autoriale (Lynch) e industriale (Mark Frost)
● Rottura delle consuetudini stilistiche e narrative della tv mainstream e viceversa
riferimento a codici visivi e narrativi legati al cinema e ai suoi generi
● Narrazione infinitamente differita
● Incredibile capacità di unire pathos e ironia
LO SCONTRO CON LE CONVENZIONI TELEVISIVE

L’incontro con la tv rappresenta per Lynch «un punto di non ritorno»: le travagliate vicende
produttive lo ispirano a rompere e rifrangere tutte le narrazioni successive (con l’eccezione
di A Straight Story, Una storia vera, 1999), sperimentando con racconti dai percorsi sempre
più lunghi e complessi. Anche il sequel che gli viene proposto per risolvere la narrazione
rimasta sospesa di Twin Peaks, viene trasformato in un prequel che complica ancora di più le
cose: Fire Walk with Me (Fuoco cammina con me, 1992). Lo stesso Mulholland Drive in
origine doveva essere una serie televisiva, che viene poi cancellata dai produttori prima
ancora di mandare in onda l’episodio pilota. Il girato diventa poi un film, integrato con
materiale nuovo, grazie all’arrivo di capitali francesi.

IL MIND GAME FILM

Il film si presenta come enigma da interpretare sia per i personaggi che per gli
spettatori.L’esperienza sensoriale – magari in uno stato di percezione alterata - è
importante in tutta la sua complessità, proprio a fronte di una difficoltà di leggere il mondo
secondo le consuete categorie razionali.

ESEMPI:
The Game e Fight Club (David Fincher, 1997 e 1999)

The Sixth Sense (Il sesto senso, M. Night Shyamalan, 1999)

Memento, The Prestige e Inception (Christopher Nolan, 2000, 2006 e 2010)

A Beautiful Mind (Ron Howard, 2001)

Donnie Darko (Richard Kelly, 2001)

The Others (Alejandro Amenabar, 2001)

Eternal Sunshine of the Spotless Mind (Se mi lasci ti cancello, Michel Gondry, 2004)

Caché (Niente da nascondere, Michael Haneke, 2005)

Shutter Island (Martin Scorsese, 2010)

Source Code (Duncan Jones, 2011)

Life of Pi (Vita di Pi, Ang Lee, 2012)

I FILM ENIGMA DEL PASSATO

Il gabinetto del dottor Caligari e l’espressionismo tedesco, il noir (in particolare film come La
donna del ritratto di Lang e Vertigine/Laura di Preminger, entrambi del 1944), Rashomon di
Kurosawa, L’année dernière à Marienbad (L’anno scorso a Marienbad, Alain Resnais, 1961),
Blow Up (Michelangelo Antonioni, 1966), L’homme qui ment (L’uomo che mente, Alain
Robbe-Grillet, 1968) e tutto il cinema di Buñuel.

MULHOLLAND DRIVE, DAVID LYNCH, 2001

LE 3 MODALITÀ INTERPRETATIVE POSSIBILI

1.Saperi esterni al discorso cinematografico (filosofia, psicoanalisi, storia dell’arte ecc.)

2.Lavoro sulla messa in scena del film


3.Configurazioni della soggettività e dei meccanismi spettatoriali
Queste tre linee sono perseguibili separatamente o insieme. In ogni caso servono a
interpretare l’immaginario proposto dal film.
LE 3 FASI DELL’INTERPRETAZIONE

1.Decostruzione del testo


2.Individuazione dei punti di vibrazione
3.Ricomposizione

Punti di vibrazione: punti oscuri, in cui il film espone la propria struttura in maniera più
complessa e proprio per questo potenzialmente chiarificatrice. Il più importante di tutti
riguarda la sequenza del Club Silencio e gli avvenimenti immediatamente successivi. Ma anche
l’inizio è una sede interpretativa cruciale.
BIPARTIZIONE DEL FILM

SOGNO: (⅗ del film) Paradossalmente organizzato in modo più lineare, anche se su più fili
narrativi. Betty ringrazia la zia di averla ospitata «in this dreamplace».
REALTÀ: (⅖ del film) Strutturata su rimandi continui con una dimensione allucinatoria e
soprattutto su andirivieni tra passato e presente. L’intero materiale narrativo si concentra
però sul personaggio di Diane.

Tra la prima e la seconda parte i rapporti di potere tra i personaggi femminili sono rovesciati.
Nella prima parte, Betty è una delle incarnazioni del Bene come concepito da Lynch: ha un
grande entusiasmo, un forte senso dell’avventura e uno spirito investigativo spiccato, ma
anche una straordinaria capacità recitativa. Domina insomma sia il registro del vero che quello
del falso, quello della realtà e quello della performance.
Nel fugace incontro/scambio di sguardi con Adam all’audizione, sembra adombrarsi un
riconoscimento delle sue qualità e forse perfino un interesse romantico.

Un film come Mulholland Drive si presenta subito con un’ambiguità testuale così evidente
da richiedere non solo all’analista, ma anche allo spettatore l’impegno di un lavoro
interpretativo; è un film che occulta una serie di elementi diegetici rilevanti e quindi esprime
la necessità di scoprire quello che non è esplicitamente oggettivato. All’ambiguità
strutturale di un testo non scientifico, Mulholland Drive aggiunge un’ambiguità ulteriore e
molto particolare. Com’è noto, poco dopo la metà del film, le due attrici protagoniste
assumono nell’orizzonte diegetico ruoli narrativi, identità di personaggi e nomi differenti.
Betty Elms diventa Diane Selwyn e Rita diventa Camilla Rhodes. Lo spettatore non può non
interrogarsi sulla logica narrativa di questo cambiamento. Il testo impone allo spettatore di
dare una o più risposte logiche a questa mutazione di soggettività, e al conseguente
rovesciamento di ruoli psicologici e di rapporti interpersonali tra le due protagoniste.
Mulholland Drive, come L’année dernière à Marienbad (L’anno scorso a Marienbad, Alain
Resnais, 1961), come Le charme discret de la bourgeoisie (Il fascino discreto della borghesia,
Luis Buñuel, 1972), come L’homme qui ment (L’uomo che mente, Alain Robbe-Grillet, 1968),
è un film che installa lo spettatore nell’enigma e lo fa diventare, volente o nolente, uno
spettatore attivo e problematico, uno spettatore che cerca di capire un testo che non è
chiaro, né lineare: lo fa diventare un interprete necessariamente impegnato.

Mulholland Drive non è tuttavia il primo film di Lynch che presenta rovesciamenti improvvisi
della scena diegetica, cambiamenti della struttura dei personaggi, situazioni oscure o
misteriose che è difficile interpretare. Da Eraserhead (Eraserhead – La mente che cancella,
1978) a Twin Peaks (serie tv, 1990-1991) e Twin Peaks. Fire Walk with Me (Fuoco cammina
con me, 1992) sino a Lost Highway (Strade perdute, 1996), Lynch lavora ossessivamente
sull’orizzonte dell’inatteso, dell’irrazionale e dell’enigma, radicati all’interno
dell’esistente.Nell’interpretazione sembra più produttivo scegliere i passaggi di maggiore
pregnanza, che sono spesso i passaggi più oscuri, più contraddittori: quei luoghi del testo
che possono essere interpretati solo in relazione al non esplicitato, alle latenze. Si tratta di
scegliere cioè i punti di oscurità del testo che ne sono anche i punti di vibrazione, i momenti
di maggiore intensità, i luoghi in cui il senso è meno chiaro e, proprio per questo, più
problematico e forse più interessante. I punti di vibrazione sono gli aspetti di particolarità e
di singolarità testuale che possiamo incontrare in un film o in un romanzo. La particolarità si
configura quindi come differenza, come anomalia rispetto agli standard diffusi, come
singolarità di un’opzione compositiva. Spesso i punti oscuri sono anche punti in cui è attiva
una componente di autoanalisi del testo stesso, che insieme esibisce e nasconde il proprio
senso. L’attenzione prioritaria ai punti di vibrazione ha una rilevanza metodologica, pur
senza minimamente consolidarsi in una regola di metodo.

IL SOGNO E LE CONFIGURAZIONI DEL TEMPO

L’analisi può iniziare dal segmento finale della prima parte di Mulholland Drive, nel
momento del passaggio da un mondo diegetico a un altro, da un’identità all’altra delle due
protagoniste. È un segmento che presenta immagini ambigue ed enigmatiche che si
sviluppano in spazi e contesti diversi. Dopo l’esperienza al Club Silencio, Rita, con la parrucca
bionda, e Betty rientrano a casa. Betty posa la scatoletta blu sul letto e scompare. Rita
prende la cappelliera ed estrae una borsa. Poi cerca Betty invano. Dalla borsa prende una
piccola chiave blu con cui riesce ad aprire la scatoletta. La mdp entra all’interno della scatola
e si immerge in profondità nella prima immagine tutta in nero. Poi la scatola cade a terra.
Nella camera vuota entra la zia di Betty, si guarda intorno ed esce. Immagine di uno spazio
immerso nell’oscurità con l’unica luce di una finestra. Altra immagine della camera da letto.
Seconda immagine dello spazio oscuro con la luce: la mdp si muove, scopre un’altra luce e
infine mostra una donna sul letto, nella stessa posizione in cui era il cadavere del bungalow
17. Appare il cowboy e dice: «Hey, pretty girl… Time to wake up». Nero. Nuova immagine
della donna a letto: il corpo è in decomposizione. Ancora il cowboy. Lungo nero. Di nuovo lo
spazio della camera del bungalow. La mdp si avvicina al letto: la donna comincia a muoversi
e si alza. Ha le fattezze di Betty, ma l’espressione è diversa.A questo punto inizia la seconda
parte del film, il segmento B. Betty è diventata Diane Selwyn e Rita è Camilla Rhodes. Siamo
ancora a Los Angeles, ma tutto (o quasi) è diverso: caratteri e funzioni dei personaggi,
interrelazioni tra gli stessi, rapporti psicologici e di potere, figure dell’immaginario.
Mulholland Drive presenta un altro mondo immaginario, parallelo, alternativo o intrecciato
al primo. Diventa un altro film, e insieme resta lo stesso film, realizzando una nuova forma,
multipla, contraddittoria e indubbiamente affascinante. Il cambiamento del nome,
dell’identità dei ruoli e dei rapporti tra le due protagoniste femminili si precisa
ulteriormente nelle sequenze successive, che propongono personaggi inseriti in contesti
operativi e psichici profondamente diversi. Lo spettatore osserva una differente dinamica di
rapporti e rileva innanzitutto che la relazione di dipendenza di Rita da Betty è nel mondo
diegetico successivamente delineato, sostanzialmente rovesciato. Nella seconda parte del
film la donna che gestisce il potere è la bruna, che ora si chiama Camilla Rhodes, mentre la
bionda Diane si trova in una posizione di doppia subalternità. È lasciata dalla donna di cui è
innamorata e si trova in una situazione di emarginazione sul lavoro e nella vita sociale. Poi lo
spettatore incontra altri personaggi, che aveva già visto nella prima parte. Sono personaggi
che presentano due tipologie. Alcuni giocano un ruolo diverso da quello svolto nel primo
macrosegmento: ad esempio Coco, la tuttofare del complesso residenziale della zia di Betty,
diventa la madre di Adam; il misterioso cowboy del segmento A diventa nel segmento B un
commensale secondario del pranzo da Adam. Altri personaggi recitano il medesimo ruolo,
ma presentano caratteristiche opposte. Il regista Adam che nella prima parte è tradito dalla
moglie, non può fare il proprio film ed è perseguitato dalla mafia; nella seconda parte è
invece un regista affermato che annuncia di sposarsi con Camilla. Il killer a pagamento, che
dimostrava un’assoluta approssimazione professionale nel primo segmento, si rivela invece
efficiente nella seconda parte, compiendo l’omicidio di Camilla commissionato da Diane.
Questo impegno analitico dedicato alle configurazioni del mondo diegetico, naturalmente, è
qualcosa che la struttura testuale stessa impone e che riflette quindi l’esigenza di
decifrazione della rifigurazione dell’orizzonte del racconto che caratterizza il film in
profondità. Il film è costruito secondo un modo particolare di configurazione degli eventi,
che costituisce di per sé un esplicito elemento di autoqualificazione e di autodecostruzione
del testo stesso. Le configurazioni narrative del tempo, inoltre, costituiscono un aspetto
essenziale nella produzione del senso. In Mulholland Drive la configurazione temporale degli
eventi narrati costituisce un’evidente anomalia rispetto ai mondi diegetici e alle strutture
narrative diffuse, e l’interpretazione non può non cercare di comprenderla.
La comprensione del mondo diegetico e dell’immaginario può in ogni modo articolarsi in
almeno tre prospettive di interpretazione. Secondo una prima linea, l’interpretazione
dell’immaginario può avvalersi di molteplici saperi, che vanno dalla psicoanalisi alla
psicologia sociale, dalla filosofia agli studi letterari e di storia dell’arte, oltre che di cinema, e
cogliere nel testo la presenza di strutture e di situazioni immaginarie forti. Una seconda
linea analitica, non meno importante, punta invece all’interpretazione delle configurazioni
dell’immaginario, cioè dei modi di configurazione del visibile e degli eventi delineati nella
scena immaginaria, e quindi ai modi di oggettivazione e di formalizzazione dell’immaginario
stesso. In una terza prospettiva, l’interpretazione dell’immaginario si lega ai modi di
oggettivazione immaginaria del soggetto e ai meccanismi di autoriconoscimento dello
spettatore. L’analisi di Mulholland Drive può quindi svilupparsi su più linee. Da un lato, può
studiare le molteplici configurazioni visive del film e i differenti registri dell’immagine che vi
sono attivati. Dall’altro, può individuare le figure profonde dell’inconscio e dell’immaginario
che vivono nel film e interpretarne la funzione nel testo. La disgregazione del mondo visibile
e il suo dissolvimento, infatti, sono esplicitamente realizzati nel segmento citato, in cui si
condensa una serie di immagini di particolare intensità e di indubbia enigmaticità. Il
segmento in cui appare la scatola blu è infatti assolutamente ambiguo e misterioso, e si
configura come un tessuto filmico dall’alto coefficiente simbolico, oltre che dall’indubbia
forza emozionale. La penetrazione nell’interno della scatola blu grazie alla chiave –
anch’essa blu – determina una svolta nel tessuto del film, aprendo alla produzione di
molteplici significazioni possibili e di ulteriori potenzialità interpretative. L’enigmaticità della
scatola, fra l’altro, non può non ricordare l’enigmaticità di un’altra scatola famosa
dell’universo del cinema, la scatola di Un chien andalou (Luis Buñuel, 1929). Il segmento
della scatola blu e poi del risveglio di Diane nella propria casa costituisce quindi il momento
oscuro di passaggio da un regime dell’immagine all’altro, forse dal sogno alla veglia, e al
tempo stesso rivela due orizzonti esistenziali e alcune configurazioni di personaggi
radicalmente diversi. La dialettica di rivelazione delle situazioni e dei personaggi
dell’orizzonte onirico grazie alla finale irruzione del mondo, riflette d’altronde un modello
strutturale che ha in Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, Robert
Wiene, 1920) e in The Woman in the Window (La donna del ritratto, Fritz Lang, 1944) due
modelli estremamente significativi: nella seconda parte del film, i personaggi e le scene della
prima parte si rivelano interni a un racconto allucinatorio o onirico e assumono la loro
configurazione veridica. Insieme, nell’orizzonte dei riferimenti cinematografici, Mulholland
Drive diventa nel 2000 la rielaborazione e il doppio differenziale e simbolico di Sunset
Boulevard (Viale del tramonto, Billy Wilder, 1950), che era stato insieme un film e un luogo
simbolico del cinema hollywoodiano: non a caso, nella parte iniziale del film, dopo l’insegna
stradale di Mulholland Drive, vediamo anche l’insegna di Sunset Boulevard. Nella
toponomastica di Los Angeles, Mulholland Drive si sostituisce a Sunset Boulevard: una
strada che sale sulle colline a nord sopra Hollywood, che si sviluppa tortuosa, una strada
anche pericolosa subentra allo splendore di Sunset Boulevard (West), che era la strada dei
divi e delle grandi ville con parchi. La grande Hollywood è svanita. Resta l’ambiguità e il
pericolo della nuova Los Angeles. Il meccanismo della citazione diretta o indiretta, che
ritorna più volte nel film, è d’altra parte attivato in diversi altri film di Lynch, e segnatamente
in Lost Highway, in cui le immagini e i personaggi del noir e del thriller classico sono più volte
e variamente rifigurati: da Double Indemnity (La fiamma del peccato, Billy Wilder, 1944) a
Vertigo (La donna che visse due volte, Alfred Hitchcock, 1958), da Kiss Me, Deadly (Un bacio
e una pistola, Robert Aldrich, 1955) allo stesso Sunset Boulevard, mentre la protagonista
riprende il modello iconico di Barbara Stanwick. Nel film hanno importanza cruciale gli
oggetti: la chiave (che rimanda a Hitchcock, sia in Notorious, 1946 che in Dial M for Murder,
Delitto perfetto, 1954 e Rear Window, La finestra sul cortile, 1954), i telefoni, la lampada, le
tazzine, la borsa, la scatola (cfr. la scatola misteriosa di Un chien andalou). La (seconda)
chiave blu e il posacenere sono gli oggetti che nel segmento B, con la loro presenza, ci fanno
capire in che momento temporale siamo (presente = chiave; passato = posacenere). Un
riferimento particolare è Meshes of the Afternoon (1944), film sperimentale della regista
Maya Deren che condivide con Mulholland Drive l’ambientazione losangelina molto
suggestiva, una protagonista femminile e la centralità accordata ad una misteriosa chiave.

Grazie alla precisa indicazione della dimensione del sogno e del risveglio, il film può quindi
apparire come una struttura narrativa caratterizzata da una prima lunga sezione onirica e da
una seconda sezione in cui alcuni momenti del presente sono integrati da segmenti
memoriali e da immagini palesemente allucinatorie. Attraverso un processo di
interpretazione delle tracce inscritte nella sequenza centrale e mediante una decifrazione
degli eventi narrati nella seconda parte, nell’universo di Diane, è possibile quindi ridefinire
l’orizzonte diegetico del film, collocando gli eventi narrati secondo un asse cronologico e
attraverso un’identificazione del registro particolare delle immagini. Al contrario, la
dimensione temporale sembra presentare una sorta di linearità progressiva e non attiva
nessun salto o nessuna inversione. Nella seconda parte, nell’universo di Diane, riconducibile
all’orizzonte fenomenico e memoriale, invece, la temporalità è fortemente frammentata e le
immagini del passato, fra l’altro proposte in maniera discontinua e non cronologica, sono al
contrario dominanti. Alla discontinuità temporale si contrappone tuttavia una continuità
narrativa, perché tutte le immagini della seconda parte ruotano attorno a Diane, che ne
costituisce il vettore centrale. L’irragionevolezza della prima parte è quindi interpretabile
secondo i saperi e le metodologie di Freud, che, com’è noto, ha individuato nel lavoro del
sogno la mescolanza di fantasmi inconsci e di materiali mnestici legati al quotidiano e vi ha
distinto quattro fasi: la condensazione, lo spostamento della libido, la considerazione di
raffigurabilità del materiale onirico e la revisione finale. In questo intreccio di materiali così
diversificati le immagini del film sembrano appartenere quindi a orizzonti diversi del visibile
e rivelare statuti differenti.

DOPPIO SOGNO

All’interno del film ci siano sequenze che sembrano assumere un senso molteplice, in
quanto diventano rivelatrici di qualcosa che va al di là del mero evento raccontato.
Prendiamo ad esempio il racconto del sogno che un personaggio, Dan, effettua,
probabilmente al proprio psicoanalista, nella prima parte del film. È una sequenza che si
colloca tra due immagini di Rita che dapprima si addormenta e poi si sveglia. Potrebbe
quindi essere considerata come un sogno di Rita, che a sua volta si inserisce in un sogno di
Diane: un meccanismo, piuttosto anomalo, di sogno nel sogno.

Nell’economia narrativa del film, il segmento risulta apparentemente superfluo o irrilevante.


Ma proprio la sua apparente inutilità può suscitare una nostra attenzione ulteriore, come è
giusto che talvolta avvenga di fronte a un apparente punto debole del testo. Dan, dunque,
evoca un sogno, anzi due sogni che si concludono con la morte del sognatore ossessionato
da un’immagine di terrore. Ma due sogni che si concludono con la morte del sognatore per
un’ossessione terrorizzante sono forse un’immagine en abîme del film stesso, un raccourci
microscopique che rinvia alla struttura generale del film. Due sogni della stessa protagonista
che si concludono con la sua scomparsa e la sua morte. I due sogni di Dan potrebbero cioè
essere una proiezione di due sogni della stessa protagonista, una oggettivazione, in un
sogno ripetuto di un personaggio, dei due sogni di Diane, che forse costituiscono il film
stesso. Dan sarebbe quindi una sorta di proiezione di Diane, qualcuno che sperimenta in una
sola scena quello che Diane in modo diverso attiva e sperimenta nel corso di tutto il film. La
considerazione del personaggio di Dan come possibile proiezione di Diane sembra
d’altronde confermata dalla stessa assonanza vocale tra i due nomi, che sono
indubbiamente molto simili. Inoltre il nome di Diane compare proprio per la prima volta
all’interno del Winkie’s sulla targhetta della cameriera. Un’identificazione di Diane con la
cameriera non è evidentemente sensata. Ma un’identificazione con Dan che fa due sogni di
morte e muore effettivamente alla fine della scena (ancora onirica) è invece possibile. Il
nome potrebbe quindi essere la traccia di una proiezione di Diane su Dan, che fa slittare il
proprio nome su un’altra figura, meno rilevante, secondo la dinamica onirica dello
spostamento. Quindi il film, che nel quadro della prima ipotesi sembra proporci l’orizzonte
del sogno e l’orizzonte del presente e del ricordo, potrebbe anche essere costituito da due
sogni, diversamente strutturati, che portano alla fine alla morte della protagonista dopo un
breve momento di veglia seguito da un incubo allucinatorio. In questa logica di
interpretazione, alla fine di entrambi i macrosegmenti, cioè di entrambi i possibili sogni, la
protagonista appare a letto, nella condizione ideale per sognare. E il film può essere
interpretato in questa prospettiva come la somma di due sogni effettuati dalla stessa
protagonista e che rivelano una condizione esistenziale di frustrazione e di angoscia,
conclusa da un tragico suicidio, anche in seguito all’apparizione di due personaggi (i due
vecchi incontrati all’inizio del film) improvvisamente minacciosi e potenzialmente punitivi.
Secondo questa ulteriore ipotesi, lo spettatore vedrebbe nel film due differenti sogni che
rivelano due condizioni nettamente diverse del soggetto sognante e della sua situazione
esistenziale, e che sembrano attraversati non solo dalle particolarità significanti del lavoro
onirico, ma anche da una sua alterazione delirante, da una presenza intermittente e
crescente di emergenze di delirio. I due sogni, cioè, potrebbero anche riflettere due universi
prodotti dal delirio psicotico della protagonista, essere due deliri caratterizzati
dall’esplosione di processi allucinatori in un soggetto psicotico, che ha ormai perduto la
possibilità di sviluppare rapporti produttivi ed equilibrati con il mondo. E il primo delirio
potrebbe riflettere uno sforzo di configurazione di un mondo compensativo e consolatorio
in cui le difficoltà dell’esistenza vengono recuperate e ribaltate in una fantasia delirante, che
idealizza un’età d’oro della vita, mentre il secondo delirio avrebbe il carattere di un incubo
ossessivo cui è impossibile sfuggire.

METACINEMA

L’orizzonte della psicoanalisi non è in ogni modo l’unica prospettiva interpretativa sollecitata
dal testo. Ci sono anche altre componenti di autoanalisi del film che acquistano una
rilevanza ulteriore nel processo di comprensione. Una delle sequenze più misteriose e più
significative è quella del Club Silencio. La sequenza del Club Silencio e in particolare
l’intervento del presentatore attivano un’esplicita enunciazione del tema e dell’orizzonte del
falso e dell’artificiale che segnano l’inizio del film, vari passaggi del testo e, forse, la sua
stessa struttura generale. Sul palcoscenico del Club Silencio, infatti, il presentatore dice
ripetutamente «Silencio… No hay banda», e più avanti ripete chiaramente «It’s all
recorded», «È tutto registrato», e poi «It’s all a tape», «È tutto un nastro», «It is an illusion»,
«È solo un’illusione». Queste affermazioni enunciano verbalmente quello che lo spettatore
vede, ma che forse non percepisce sempre nella sua significazione piena. La lacrima che la
cantante ha sul volto, infatti, è disegnata, è finta, mentre vere – nell’universo diegetico –
sono soltanto le lacrime e le emozioni delle spettatrici, Betty e Rita. In questo orizzonte di
oggettivazione di un microspettacolo sembra quasi che lo spettatore (le due spettatrici in
questo caso) garantisca l’unica dimensione di autenticità dello spettacolo stesso. Tutto è
artificiale, falso, illusivo. Solo la percezione dello spettatore e le sue reazioni emozionali
sono effettuali, cioè autentiche. Il resto è illusione. Ma uno spettacolo fittizio in cui le uniche
cose vere sono le reazioni degli spettatori è una proiezione cinematografica (in uno
spettacolo teatrale gli attori, le loro performance e le loro parole sono concreti). Lo
spettacolo del Club Silencio dunque assume un’esplicita valenza metacinematografica (e
non metateatrale) e si costituisce come un’evocazione metaforica del dispositivo
cinematografico e del rapporto spettatoriale.

MONDI PARALLELI

Il film in fondo, quale che sia l’interpretazione che scegliamo, mette in scena due mondi
paralleli, entrambi credibili (nel senso di affascinanti e coinvolgenti). Il reale non appare più
univoco, ma doppio e anzi forse molteplice. Nell’immaginario di Lynch, realtà e fantasia,
veglia e sogno, verità e mito, mondo quotidiano e finzione cinematografica, si intrecciano
costantemente ed hanno la medesima importanza. Spesso ci si può – ed anzi ci si deve –
chiedere a quale di questi mondi appartengano le immagini che stiamo vedendo.
Il suo cinema è postmoderno proprio per questo, perché caratterizzato da un dubbio costante
sullo statuto delle immagini.
IL POTENZIALE E IL PERTURBANTE

Nel film, in ogni modo, l’orizzonte del potenziale sembra assumere due articolazioni, due
regimi di attivazione: a) da un lato, il potenziale è l’apertura alla possibilità come
compresenza di universi paralleli, come pluralità dei mondi; b) dall’altro, è l’enigmatico
inquietante e il perturbante. Innanzitutto, il film produce la creazione di una dimensione
ulteriore, che in fondo si costituisce come sintesi di tutti i piani: non solo i piani del sogno,
della memoria, dei fenomeni, dell’allucinazione, ma anche l’orizzonte del possibile. Questa
affermazione del potenziale implica un superamento dell’idea tradizionale di realtà e in
qualche modo l’oltrepassamento della nozione di un essere forte, presente nelle cose.
L’orizzonte del surrealismo è naturalmente un riferimento fondamentale per il mondo
perturbante di Lynch.

IL DOPPIO E L’IDENTITÀ

Il meccanismo dello sdoppiamento dei personaggi femminili, tuttavia, non si attiva soltanto
nei due mondi diegetici diversi che si susseguono nel film, ma investe anche gli stessi
personaggi di Betty/Diane e di Rita-Camilla e le loro dinamiche dell’identità. Nella prima
parte del film la donna bruna, che sfugge ai gangster, e che nel trauma dell’incidente perde
la memoria, è un soggetto debolissimo che cerca con difficoltà la propria identità e tenta di
costruirsi gradualmente una coscienza di sé. Il meccanismo del raddoppiamento e della
duplicazione del soggetto si attiva ulteriormente nell’operazione di travestimento e di
mutazione dell’identità che Rita attua nel primo macrosegmento, quando indossa una
parrucca bionda che la rende un doppio di Betty. Perché Rita con la parrucca bionda
rappresenta in primo luogo proprio la volontà di identificazione del soggetto debole con
l’altro personaggio, che appare come un soggetto più forte, e riflette quindi un tentativo di
costituzione di un’identità solida attraverso l’identità di un altro. Il meccanismo di
duplicazione della soggettività e di identificazione della soggettività debole con la
soggettività forte appare poi ancora più articolato. Perché in uno degli orizzonti di
interpretazione del primo macrosegmento del film, le immagini dello schermo sono il
prodotto del sogno di Diane e quindi si configurano come scene oniriche fortemente
segnate dal desiderio della sognatrice. L’identificazione di Rita/Camilla con Betty/Diane è
quindi l’oggettivazione onirico-schermica del desiderio di Diane di esercitare una funzione
dominante e insieme di modello nei confronti dell’altra donna e diventa quindi la
compensazione psichica realizzata da un soggetto immerso nella frustrazione e nella
disperazione. Tutto è raddoppiato: non solo i piani narrativi e le protagoniste, ma le frasi
riecheggiano ripetutamente, come significanti mobili («This is the Girl/È lei la ragazza»).
Anche l’immagine dei ballerini è sdoppiata, all’inizio. E d’altronde il doppio non caratterizza
le protagoniste solo in relazione alla biforcazione del materiale narrativo, ma anche come
configurazione dei loro percorsi identitari all’interno della storia.
STRADE PERDUTE (1997) E MULHOLLAND DRIVE
Il ruolo del doppio ha sempre avuto un’importanza cruciale nel cinema perturbante di
Lynch. In questi film però tale discorso si estremizza: non sono soltanto i personaggi a
sdoppiarsi, ma l’intera narrazione.
LOS ANGELES
Lost Highway, Mulholland Drive e il successivo Inland Empire portano avanti l’indagine sullo
spazio (si veda il riferimento costante alla categoria della strada) come modo per indagare il
labirinto della psiche, con le sue scorciatoie e i suoi incroci inaspettati. Non si tratta di un
spazio urbano qualsiasi, ma di Los Angeles, città postmoderna per eccellenza. Lo spazio
urbano di Los Angeles è caratterizzato infatti dallo sprawl, ovvero da un’espansione
urbanistica da sempre priva di centro.
Los Angeles è naturalmente uno spazio dominato dalla macchina dei sogni di Hollywood. La
superficie luccicante della città, inquadrata dall’alto, è il regno del trionfo delle immagini.
Lo spazio di Los Angeles è il correlato dello spazio della mente, nel cinema di Lynch, proprio
perché ambedue si alimentano di immagini. E nell’orizzonte di Lynch, il riferimento al
cinema del passato non va visto come semplice citazionismo. Si tratta piuttosto di un vero e
proprio mondo di riferimento, posto sullo stesso piano di tanti altri mondi possibili, o
addirittura più importante di essi.
IDENTIFICAZIONE E DESIDERIO

Il film parla anche dell’intreccio indissolubile – più evidente nelle relazioni omosessuali ma
caratterizzante anche quelle eterosessuali – tra la dimensione dell’identificazione e quella del
desiderio. L’identità stessa non è qualcosa che scaturisce semplicemente dall’interno del
soggetto, bensì un processo di costruzione che può avvenire solo mediante e grazie al
costante confronto/supporto/riscontro dell’Altro.
INTENSITÀ E IMMERSIVITÀ

Lynch costruisce sempre una messa in scena caratterizzata dall’intensità e dall’immersività.


Lo stile del film è caratterizzato soprattutto da una macchina da presa che perlustra lo
spazio. Lo sguardo della macchina accompagna e precede quello curioso della ‘protagonista
ideale’ Betty. Questa dimensione di profonda curiosità, di desiderio di immergersi in una
rappresentazione intensa, è sintetizzato al meglio dal carrello in avanti che ci porta
all’ingresso del Club Silencio.

18) ROMA DI CUARÒN E LA SITUAZIONE CONTEMPORANEA


IL CONCETTO DI “RILOCAZIONE”

Il cinema viene ormai esperito sempre più spesso fuori dalle sale cinematografiche. Si tratta
di una situazione già avviatasi, naturalmente, con la televisione negli anni Cinquanta del
Novecento, e negli anni Ottanta con le VHS e l’home video. Oggi il fenomeno acquista però
una rilevanza cruciale, perché con internet e le piattaforme online, c’è una tendenza alla
vera e propria sostituzione delle sale con il contesto domestico. Il salotto di casa non è
d’altronde l’unico spazio in cui il cinema si riloca: si pensi anche alle sale museali, in cui le
immagini in movimento hanno sempre maggiore rilevanza. La domanda di fondo è: con
queste nuove configurazioni dell’ambiente di visione, l’esperienza cambia al punto tale che
ciò che vediamo non può essere più chiamato cinema?Il cinema insomma risiede nei film
come oggetti (a prescindere dalle loro migrazioni tra dispositivi diversi) o in una modalità
specifica di visione? L’unica risposta possibile è l’auspicio di poter continuare a scegliere tra
tutte queste diverse opzioni di visione, ad ognuna delle quali corrisponde una esperienza
spettatoriale diversa.
STORIA DI NETFLIX
● 1997: Reed Hastings e Marc Randolph fondano la compagnia, che fornisce un
servizio di noleggio di film a domicilio
● 2008: implementazione del servizio di streaming on demand
● 2011: scorporazione della consegna a domicilio dei dvd
● q 2013: ingresso nel campo della produzione televisiva, con la serie House of Cards,
creata da Beau Willimon, la cui prima stagione debutta il 1° febbraio di quell’anno (la
serie si concluderà nel 2018).
● 2015: produzione del primo film Netflix, Beasts of No Nation, diretto da Cary
Fukunaga e distribuito il 16 ottobre
● Netflix è disponibile in Italia dal 2015. Il primo film italiano co-prodotto da Netflix è
Slam – tutto per una ragazza (A. Molaioli, 2017), ma il primo film realmente
d’impatto sarà Sulla mia pelle (A. Cremonini, 2018) sulla vicenda Stefano Cucchi; la
prima serie tv co-prodotta da Netflix in Italia è invece Suburra (2017-).
● Ad oggi è accessibile in tutti i paesi del mondo meno Cina, Corea del Nord, Crimea e
Siria. L’interfaccia supporta 23 lingue diverse
● Le piattaforme concorrenti si moltiplicano: non solo Amazon Prime ma Infinity,
NowTv, Tim Vision, AppleTv, Disney+ ecc.

ROMA, ALFONSO CUARÒN, 2018


Dove: Colonia Roma, quartiere borghese di Città del Messico
Quando: ottobre 1970-giugno 1971
TRANSNAZIONALE, DIASPORICO, SUBALTERNO, POSTCOLONIALE

● Il film, come si evince dal cartello iniziale, è caratterizzato dal plurilinguismo:


significativamente, per l’inglese non sono previsti sottotitoli.
● Netflix ha scelto, molto argutamente, di affermarsi come produttore di opere di alta
qualità artistica non con un film meramente hollywoodiano, ma con l’opera
parzialmente autobiografica di un autore transnazionale, dall’identità diasporica.
● Roma è un film di sintesi: da una parte presenta molte caratteristiche del world
cinema contemporaneo (ovvero un cinema attento alle identità subalterne degli
scenari postcoloniali); dall’altro ha riscosso uno strepitoso successo anche negli Stati
Uniti, vincendo 3 Oscar su 10 nominations.
LA RICERCA ESTETICA

● Il film è girato in pellicola 70 mm


● Il formato panoramico è essenziale alla riuscita del film, sia in relazione agli interni
della casa che agli esterni urbani e soprattutto a quelli legati al paesaggio
● L’attenzione con cui Cuarón cura la composizione dell’immagine rende esplicita la
ricerca estetica del regista
● Tra i più importanti riferimenti iconografici c’è la fotografia di Manuel Álvarez Bravo

L’INFLUENZA DEL NEOREALISMO

Oltre che una sorta di autobiografia obliqua, il film sembra essere anche un chiaro omaggio
ad una delle più famose scene del neorealismo italiano, ovvero l’incipit di Umberto D, con la
cameriera osservata nei gesti minuti con cui prepara la colazione, afflitta dalla
preoccupazione di una gravidanza fuori dal matrimonio.

Cuarón, con il suo slow cinema, sembra mettere in pratica i precetti del pedinamento
teorizzato da Zavattini al tempo del neorealismo.

LO STILE DI CUARÒN

•La regia di Cuaron è caratterizzata soprattutto da carrelli laterali e panoramiche (talvolta a


360°) che consentono di concentrarsi sui gesti quotidiani di Cleo

•La cinepresa indugia a osservare gli spazi della casa, compie come una fenomenologia della
vita della famiglia

•La durata prolungata delle inquadrature (tendenza al long take e al piano sequenza) e l’uso
narrativo della profondità di campo suscitano l’empatia dello spettatore ma richiedono
anche uno sguardo attento

•Questo impiego della cinepresa in modo fortemente osservativo non manca talvolta di
lavorare a fini ironici, come quando ci fa osservare, laconicamente, le cacche del cane nel
vialetto, o le problematiche legate alla macchina troppo grande guidata dai due coniugi

LA DIMENSIONE UDITIVA

Il film manca completamente di colonna sonora extra-diegetica, ma non per questo i suoni
sono meno importanti.
IL RAPPORTO CON IL PASSATO

Nonostante l’attentissimo lavoro di ricostruzione storica, quella di Cuarón non è


un’operazione nostalgica. Il bianco e nero, oltre a contribuire significativamente alla bellezza
delle immagini del film, costruisce bene anche il senso di una lontananza, ma senza il pathos
tipico della nostalgia. Quello del regista è piuttosto uno sguardo che si reimmerge nella
fenomenologia della propria infanzia per interpretarla con occhi completamente diversi,
ridando rilevanza ad una prospettiva, quella di Cleo, da sempre marginalizzata.
L’osservazione attenta dei dettagli, delle scenografie e delle architetture serve ad
attualizzare il passato, allo scopo di capire diversamente il presente. Questo ‘cortocircuito’
temporale è espresso perfettamente dal piccolo Pepe, che parla del suo futuro di adulto
usando i verbi al passato.

COSCIENZA DI CLASSE

● Roma lavora per restituire dignità a un’umanità subalterna e invisibile che


continuamente ha nutrito e curato l’Occidente; è uno sguardo sul «Terzo Mondo»
privo di esotismi e di patetismi.
● I domestici danno forma e struttura alla vita della famiglia borghese, e la presenza di
Cleo guida il nostro sguardo nel film. Allo stesso tempo lei non fa e non farà mai
veramente parte del nucleo familiare, e i domestici in generale sono sempre relegati
a vivere in un altrove, in un cantuccio separato.

“ […] The moments the family comes "closer" are fleeting... "She saved our lives" is
promptly followed by "Can you make me a banana shake?”

● Il film è tutto giocato sulle diverse strutture spaziali che oggettivano le differenze di
classe.

“The Class stratas are represented in the film not only in the family but within the
family and the land-owning relatives and even between Fermin and Cleo- when he
insults her in the practice field.”

LE SCENE AL CINEMA

La prima parte del film è puntellata di scene in cui si va (o si dovrebbe andare) al cinema:

1)Cleo si fa convincere da Fermin a non andare al cinema ma a girare per la città con lui… e
andarci a letto;

2)Cleo dice a Fermin di essere incinta, lui finge di reagire bene e poi scappa. Il film in
questione è una commedia su degli aviatori durante la II guerra mondiale, intitolata
significativamente Tre uomini in fuga (La Grande vadrouille, in spagnolo La fuga fantástica,
Gerard Oury, 1966);

3)Anche la terza scena legata al cinema finisce per esporre l’irresponsabilità di un


personaggio maschile, perché Cleo e i bambini vedono il padre, che dovrebbe essere in
Canada per lavoro, con la sua giovane amante. Il film che viene proiettato è Abbandonati
nello spazio (Marooned, John Sturges, 1969) che è la storia di tre astronauti alla deriva nello
spazio per un guasto alla loro navicella: un film che ha chiaramente ispirato Cuaron per
Gravity.

LA MASCOLINITÀ RIDICOLA E VIOLENTA

oLe svolte narrative del film sono tutte e due incentrate sulla fuga delle figure maschili
o Roma è un film sulla resilienza dei personaggi femminili, lasciati soli da uomini inetti e
codardi, ove non ridicoli e violenti
o Questo discorso non rimane circoscritto all’ambito del privato, ma si sposta, con la figura
di Fermin, anche sul piano storico-politico.
FILM FEMMINISTA O ANTI-FEMMINISTA?

La descrizione di questa alleanza tra donne di diverse classi è un’utopia ingenua, che rischia
di cancellare la crudeltà delle gerarchie sociali? Fare della padrona di Cleo una donna
comprensiva e accudente è un elemento narrativo che annacqua le potenzialità politiche del
film, promuovendo piuttosto una quieta accettazione dello status quo? Critiche ideologiche
come queste non tengono conto che, proprio con lo stile imperturbabile che caratterizza il
film, Cuaron ci rende testimoni di come i vari momenti di vicinanza affettiva tra Cleo e la
famiglia non smentiscano mai la sua collocazione in un ruolo subordinato. Cleo viene
valorizzata dal film nella pienezza della sua posizione intersezionale, ovvero come figura
doppiamente subalterna, in quanto donna e in quanto mizteca.

LA DIMENSIONE STORICO POLITICA

Uno dei momenti cruciali del film si svolge durante il Massacro del giorno del Corpus Christi
(10 giugno 1971), in cui gli Halcones, formazioni paramilitari utilizzate dal governo di Luis
Echeverría con finalità repressive, caricarono gli studenti che manifestavano per una società
più democratica, uccidendo almeno 25 persone. Si fa più volte menzione del film anche di
un’altra vicenda dolente e problematica della politica messicana di quegli anni, ovvero
l’espropriazione dei terreni dei campesinos da parte del governo stesso.

IL RIGORE DELLO SGUARDO

Il film è attraversato da presagi di una sciagura incombente: il terremoto, il bicchiere che si


rompe. Questi segni, così come anche quella delle coincidenze infauste che accompagnano
la traiettoria di Cleo e la sua gravidanza, sembrano rispondere ad una logica fatalista che si
potrebbe facilmente prestare ad una messa in scena melodrammatica. Il film invece, con il
suo sguardo rigoroso, rifiuta di abbandonarsi all’eccesso emotivo, preferendo mantenere
una distanza empatica ma lucida.

CIELO E TERRA…

L’inizio e la fine del film enfatizzano questa dimensione di essere «sotto al cielo»,
sottolineando l’irriconciliabile distanza con la terra. La prima immagine del film è infatti
quella del pavimento del vialetto che Cleo sta pulendo dalle feci del cane: il cielo si vede, ma
solo riflesso nell’acqua di cui si copre la terra. Questo rapporto con il cielo riemerge in altri
momenti del film, per esempio quando Cleo e il piccolo Pepe si rilassano fingendo di essere
morti. Anche i film citati nel film, cui facevamo menzione prima, sono film sempre legati al
volare nel cielo, allo spazio. L’impossibilità di superare la distanza tra cielo e terra
corrisponde all’impossibilità di superare le differenze di classe.

...E ACQUA

“The opening shot suggests that earth (the shit-infested ground) and heaven (the plane) are
irreconcilably far even if they are joined -momentarily- and revealed, by water (the
reflection). All truths in ROMA are revealed by water.”

“These planes of existence, like the separation within classes in the household cannot be
broached. […]”.

GLI ELEMENTI E LE EMOZIONI

Come già in Y tu mamà tambien (2002), l’acqua funziona qui come elemento catartico, che
permette, in modi e tempi inaspettati, sia a Cleo che alla famiglia di processare i traumi
affrontati, di sopravvivere ed elaborare la perdita e di andare avanti.
LA GRAZIA DELLA COMBATTENTE

Cleo si afferma nel suo status di vera e propria eroina salvatrice, combatte con le forze della
natura e vince, nonostante non sappia nuotare. Non ci si può illudere che questo cambi
effettivamente la sua vita o la sua posizione all’interno della famiglia, ma almeno costituisce
un percorso di crescita molto significativo. Da un punto di vista simbolico è cruciale infatti
che la sua posizione cambi tra l’inizio e la fine del film: nell’ultima scena la donna si muove
liberamente nello spazio della casa, raggiungendo con la scala il tetto e quasi il cielo.

IL LINGUAGGIO CINEMATOGRAFICO

1) L’INQUADRATURA
Un’abitudine consolidata alla visione ci porta a considerare naturale la successione delle
immagini di un film (o di qualsiasi altro audiovisivo). In realtà il cinema è un linguaggio molto
complesso, frutto di un’attenta costruzione che mira a catturare la fantasia dello spettatore,
ad intrattenerlo e a farlo riflettere sul mondo e su sé stesso.

IL CAMPO

•CAMPO: tutto ciò che è compreso nell’inquadratura


•FUORI CAMPO: tutto ciò che non fa parte dell’inquadratura in corso ma che potrebbe farne
parte
Il fuori campo è particolarmente importante per creare suspense nel thriller e nell’horror.
L’INQUADRATURA
•SUCCESSIONE DI IMMAGINI CINEMATOGRAFICHE (FOTOGRAMMI) SENZA DISCONTINUITÀ
DI RIPRESA
•UNITÀ MINIMA DI MONTAGGIO
LA SCALA DEI CAMPI E DEI PIANI
dal paesaggio al corpo al particolare

•Campo lunghissimo (CLL)


•Campo lungo (CL)
•Campo totale (CT)
•Campo medio (CM)
•Figura intera (FI)
•Piano americano (PA)
•Mezza figura (MF)
•Mezzo primo piano (MPP)
•Primo piano (PP)
•Primissimo piano (PPP)
•Dettaglio
CAMPO LUNGHISSIMO

CAMPO LUNGO
TOTALE

CAMPO MEDIO

FIGURA INTERA

PIANO AMERICANO

MEZZA FIGURA
MEZZO PRIMO PIANO

PRIMO PIANO

PRIMISSIMO PIANO

DETTAGLIO

ANGOLAZIONI DELLA MDP


INQUADRATURA OBLIQUA

INQUADRATURA A PIOMBO

INQUADRATURA DAL BASSO

MOVIMENTI DELLA MDP all’interno di una stessa inquadratura


•Panoramica
•Carrello
•[Zoom]
•Dolly
•Gru
•Macchina a mano
•Steadycam
PANORAMICA
La mdp ruota sul cavalletto (sul suo asse) in senso orizzontale (da sinistra a destra e/o
viceversa) o in senso verticale (dall’alto in basso e/o viceversa).
Una panoramica particolarmente veloce viene definita panoramica a schiaffo.
Il primo e più rudimentale modo per far muovere la macchina da presa fu quello di
collocarla su un mezzo di locomozione. Il primo a fare una cosa del genere fu un operatore
dei Lumière, Alexandre Promio, che portò con sé la mdp su una gondola. Ancora oggi
spessola mdp viene montatasulle auto (camera car) o su altri mezzi di locomozione come ad
esempio elicotteri. Oggi è assai comune utilizzare droni.
CARRELLO
La mdp, montata su binari o su ruote, si sposta sul set. Spesso questo movimento viene
combinato con la panoramica per avvicinarsi o allontanarsi dall’oggetto ripreso
mantenendolo centrato nell’inquadratura. Si parla invece di zoom quando l’effetto di
avvicinamento o allontanamento viene effettuato tramite l'uso di lenti e non tramite un
movimento reale della mdp.
DOLLY E GRU
Si tratta di movimenti di una mdp montata su un braccio meccanico, più piccolo nel caso del
dolly (e quindi con una minore capacità di movimento) e più grande nel caso della gru. Un
uso massiccio di entrambi i movimenti si nota a partire da Via col vento (Gone with the
Wind, Victor Fleming, 1939), ad esempio nella scena della Battaglia di Atlanta.
IL DOLLY-ZOOM
Uso combinato di dolly e zoom, inventato da Alfred Hitchcock per
La donna che visse due volte (Vertigo, 1958), allo scopo di restituire la sensazione di vertigini
che attanaglia il protagonista.
LA MACCHINA A MANO
La macchina a mano produce naturalmente un’immagine traballante che è spesso usata per
situazioni caotiche e disturbanti. Ne fa ampio uso Spielberg in Salvate il Soldato Ryan (1998)
per raccontare la Seconda Guerra Mondiale.
STEADYCAM
La mdp viene ancorata al corpo dell’operatore, ma l’inquadratura resta estremamente
stabile grazie ad un articolato braccio meccanico.
Questo movimento di mdp fu usato per la prima volta e reso famoso nel film Shining
(Stanley Kubrick, 1980); celebri sono le lunghe inquadrature del bambino sul triciclo
attraverso i corridoi dell'Overlook Hotel.
LA SEQUENZA
•PORZIONE DI TESTO FILMICO CARATTERIZZATA DALLA PRESENZA DELLE UNITÀ
ARISTOTELICHE DI SPAZIO, TEMPO E AZIONE
•UNITÀ MINIMA DI NARRAZIONE
IL PIANO SEQUENZA
Si tratta di un’intera sequenza girata tramite un’unica inquadratura. Il piano sequenza era la
norma nel cinema delle origini, perché i film erano molto brevi. Con il passar del tempo il
piano sequenza è divenuto sempre più un virtuosismo, una dimostrazione di bravura da
parte del regista (oltre che dell’operatore e del direttore della fotografia). Celebri ad
esempio i piani sequenza di Ettore Scola (Una giornata particolare, 1977), Robert Altman
(all’inizio de I protagonisti, 1992), Brian De Palma (Omicidio in diretta, 1998).Tra gli esempi
più recenti, si veda anche lo spettacolare inizio di La La Land (Damien Chazelle, 2016).
Con Nodo alla gola (1948), Alfred Hitchcock cercò di approssimarsi alla realizzazione di un film
senza stacchi, tutto girato in un unico piano sequenza (in realtà i tagli ci sono, ma la maggior
parte sono abilmente nascosti). L’idea sarà portata a compimento, in tempi molto più recenti,
da Aleksandr Sokurov (Arca russa, 2002) e Alejandro Gonzàles Iñarritu (Birdman, 2014).
LE PORZIONI DELLO SCHERMO
L’aspect ratio è rimasto a lungo invariato: dalla nascita del cinema a fine ‘800 fino agli anni
’50, tutti i film erano in 4/3 (1.33:1). Poi la concorrenza della televisione spinse il cinema a
sperimentare sempre di più col formato panoramico. Nel 1953 vennero girati i primi film in
Cinemascope.
LO SCHERMO È UN RETTANGOLO
Ormai il 16/9 (1.85:1) è assai comune, e possiamo dire che oggi c’è una nuova sensibilità al
formato, anche grazie al diffondersi di diversi modi di “inquadrare il mondo” grazie agli
smartphone e a social media come Instagram.
Cfr. Mommy (Xavier Dolan, 2014)

2) IL MONTAGGIO
Cucire insieme le diverse inquadrature serve a far orientare lo spettatore nello spazio del
film, quasi come se ci potesse abitare. La maggior parte dei film funzionano con un
montaggio il più possibile invisibile, per non distrarre lo spettatore dalla storia che viene
raccontata. Queste regole sono state perfezionate soprattutto a Hollywood tra gli anni ‘10 e
gli anni ‘30.
I DIVERSI TIPI DI MONTAGGIO

1)MONTAGGIO CONTIGUO: segue un’azione che da un luogo a porta ad un luogo b


2)MONTAGGIO ANALITICO: scompone in più inquadrature un’azione che si svolge in un
unico luogo
3)MONTAGGIO ALTERNATO: mette in relazione due azioni contemporanee che si svolgono
in luoghi diversi
4)MONTAGGIO PARALLELO: mette in relazione due azioni che si svolgono in luoghi e tempi
diversi, suggerendo una similitudine tra esse
REGOLA DEI 180°
Nel montaggio analitico, dopo ogni inquadratura, in quella successiva la macchina da presa
non deve superare la linea che segna la “quarta parete” immaginaria dell’ambiente in cui ci
si trova.
SCAVALCAMENTO DI CAMPO
Se la regola dei 180° non viene rispettata, avremo uno scavalcamento di campo: lo
spettatore si troverà disorientato perché improvvisamente ciò che sullo schermo era a
destra si trova a sinistra e viceversa.
Esempio: Ladies' Skirts Nailed to a Fence, Bamforth Company, 1900 ca.
I RACCORDI DI MONTAGGIO:
le regole di base della continuità
•Raccordo sull’asse
•Raccordo sul movimento
•Raccordo sonoro
•Raccordo di sguardo
•Campo/Controcampo
•Soggettiva
RACCORDO SULL’ASSE
Viene modificato il piano di ripresa di un oggetto, ma la macchina da presa resta sullo stesso
asse.
RACCORDO SUL MOVIMENTO
La successione delle inquadrature montate insieme segue il movimento di un personaggio o
di un oggetto all’interno della scena:
•Prima inquadratura: il personaggio si muove da sinistra verso destra
•Seconda inquadratura: il personaggio entra nell’inquadratura da sinistra
RACCORDO SONORO
La successione fra le inquadrature viene motivata dall’intervento di un suono (che è
intradiegetico, cioè interno al mondo narrato, ma proveniente dal fuoricampo, cioè esterno
alla prima inquadratura):
•Prima inquadratura: si sente qualcosa proveniente dal fuoricampo
•Seconda inquadratura: viene inquadrato ciò che ha prodotto il suono sentito nella prima
inquadratura
RACCORDO DI SGUARDO
Le inquadrature si succedono collegate dallo sguardo nel fuori campo di uno dei personaggi;
quindi, abbiamo almeno due inquadrature:
•Prima inquadratura: il personaggio guarda fuori campo
•Seconda inquadratura: l’oggetto guardato
COLAZIONE DA TIFFANY (BREAKFAST AT TIFFANY’S, BLAKE EDWARDS, 1961)
Scena in cui Audrey Hepburn canta Moon River:
1.Raccordo di sguardo (dettaglio del foglio su cui Paul sta scrivendo)
2.Raccordo di movimento (Paul si affaccia alla finestra ed è ripreso prima dall’interno e poi
dall’esterno della stanza)
3.Raccordo di sguardo (Holly ripresa dall’alto)
4.Raccordo sull’asse (Holly ripresa più da vicino)
5.Raccordo di sguardo (Paul guarda Holly)
6.Raccordo di sguardo e sonoro (Holly guarda Paul e lo saluta)
CAMPO/CONTROCAMPO
Questa figura del montaggio è caratterizzata dal succedersi di almeno tre inquadrature:
•Prima inquadratura: i personaggi che dialogano inquadrati insieme in MF (mezza figura) o
PA (piano americano)
•Seconda inquadratura: MF o PP (primo piano) del personaggio che parla
•Terza inquadratura: MF o PP di reazione del personaggio che ascolta (e magari parla a sua
volta)
Le inquadrature ravvicinate solitamente vengono alternate più volte, sovrapponendo
piani di reazione (ascolto) e parola; inoltre, in casi di dialogo prolungato si può anche
tornare all’inquadratura a due iniziale e ricominciare la catena di alternanze.

Il campo/controcampo è un modo di connettere due personaggi (soprattutto due che


possono avere un futuro romantico insieme, ma non solo).
Viceversa, esso può anche essere un modo di tenere separati due personaggi, di
sottolineare la loro incapacità di comunicare: ognuno rimane nella sua porzione di spazio,
chiuso nella propria inquadratura e nel proprio modo di vedere il mondo.
In generale, dunque, il campo/controcampo serve a riflettere sulle relazioni e sui rapporti
interpersonali.
SOGGETTIVA
Le inquadrature si succedono come nel raccordo di sguardo, ma l’oggetto guardato è
inquadrato dall’esatta posizione in cui si trova il soggetto che guarda.
Inoltre, per avere una soggettiva propriamente detta, sarà aggiunta una terza inquadratura
che ritorna sul soggetto che guarda.
Solitamente, la soggettiva esprime un sentimento o un collegamento forte fra gli elementi
inquadrati rispetto al raccordo di sguardo; soggettive sono spesso ad esempio quelle che
legano due personaggi di cui uno prova una forte attrazione per l’altro/a. Oppure, come nel
caso di Notorious (Alfred Hitchcock, 1946), esse servono a sottolineare la percezione
alterata del personaggio.
Le sperimentazioni con la soggettiva si intensificarono negli anni Quaranta, quando furono
girati svariati film con inquadrature in soggettiva assai prolungate, come La fuga (Dark
Passage, Delmer Daves, 1947). O addirittura interamente girati in soggettiva, come Lady in
the Lake (La donna del lago, Robert Montgomery, 1947).
MONTAGGIO ALTERNATO
Vengono montate insieme inquadrature che raccontano azioni che hanno luogo in spazi
differenti.
Questo serve ad indicare che esse si svolgono contemporaneamente.
La vicenda complessiva è comunque una sola.
MONTAGGIO PARALLELO
Si succedono inquadrature che non solo si svolgono in luoghi diversi, ma anche in un altro
momento temporale e/o con personaggi diversi. Montate insieme, queste inquadrature
producono similitudini tematiche fra azioni altrimenti prive di contatto.
L’uso più celebre di questo tipo di montaggio è nel film di Griffith Intolerance, del 1916.
MONTAGGIO INTELLETTUALE
All’interno dello scorrere regolare del montaggio di una scena, vengono inserite delle
inquadrature non correlate, che servono ad esprimere un preciso significato o giudizio su
quanto accade.
Se n’è fatto ampio uso nel cinema sovietico degli anni Venti, per esprimere delle metafore
ideologiche.
DISSOLVENZE
•Dissolvenza dal nero, o in apertura
•Dissolvenza al nero, o in chiusura
•Dissolvenza incrociata
Solitamente segnano uno spostamento nel tempo o nello spazio, quindi spesso vengono
considerate la punteggiatura principe per marcare l’inizio e la fine delle sequenze.
LA SEQUENZA PIÙ COMUNE
•Dissolvenza dal nero
•[Esterno]
•[Dissolvenza incrociata]
•Totale (establishing shot) in presenza dei personaggi
•Raccordo sull’asse di avvicinamento ai personaggi
•Primo piano o mezza figura di uno dei personaggi che parla
•Campo/controcampo durante il dialogo
•Ritorno al totale
Possono esserci diverse ripetizioni di questa successione prima di una
•Dissolvenza al nero
L’INTENSIFICAZIONE
Nel cinema contemporaneo, le regole del montaggio sono esattamente le stesse che sono
state elaborate circa 100 anni fa.
Per adattarsi al ritmo più sostenuto delle narrazioni contemporanee, però, il montaggio può
essere reso molto più veloce e intenso, soprattutto nei film d’azione, come ad esempio
Captain America: The Winter Soldier (Anthony e Joe Russo, 2014).

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