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LA SCUOLA DI BRIGHTON
Un contributo decisivo ad accelerare il processo di evoluzione del linguaggio
cinematografico verso il modo di rappresentazione istituzionale viene riconosciuto a una
serie di cineasti inglesi operanti nel primo decennio del Novecento e che la storiografia
cinematografica accomunato sotto l'etichetta impropria di scuola di Brighton, dal nome
della città dove lavoravano solo alcuni di loro (George Albert Smith e James Williamson). In
realtà, questi cineasti, che hanno dato vita ai primi esperimenti compiuti di montaggio, si
conoscevano l’un l’altro ma non hanno mai collaborato insieme, non hanno avuto contatti
diretti, quindi ben difficilmente si possono definire una scuola.
Nei film dei pionieri inglesi si nota in primo luogo un'attenzione per la componente
attrazionale del trucco. Alcune tra le opere più riuscite di James Williamson sono quelle in
cui il debole pretesto narrativo è sorretto dall’efficacia del trucco. L’attrazione è spesso
anche il frutto di un gioco con il cinema stesso. In The Big Swallow, in particolare, un signore
che non vuole farsi riprendere si avvicina minacciosamente alla cinepresa fino ad occupare
l’interezza del quadro, spalanca la sua bocca ripresa in primissimo piano e inghiotte
l'apparecchio e l'operatore. La tendenza alla divisione dell'azione in diverse inquadrature
correlate ed è evidente in un film di Smith del 1899: The Kiss in the Tunnel: Qui l'azione è
sezionata in tre inquadrature ( il treno che entra nella galleria, l'interno dello
scompartimento con i due amanti che si baciano, il treno che esce dalla galleria). Grandma’s
Reading Glass di Smith è costruito sull'alternanza tra le inquadrature in campo totale di un
bambino e una nonna seduti allo stesso tavolo, e le inquadrature in piano ravvicinato degli
oggetti che il bambino vede attraverso la lente di ingrandimento della nonna.
4) L’ESPRESSIONISMO TEDESCO
1918: Armistizio; inizio della crisi economica; moti rivoluzionari e istituzione della
Repubblica di Weimar
1919: La sconfitta della sinistra radicale porta ad un governo liberale; Trattato di Versailles
(richiesta di risarcimenti da parte dei paesi vincitori)
1923: Superinflazione (pagano pensionati e dipendenti pubblici; guadagna la grande
industria che produce per l’esportazione)
1933: Presa del potere del Nazional-Socialismo
La Germania conosce nel dopoguerra un'affermazione cinematografica di particolare livello,
grazie ad un'industria quanto mai articolata ed efficiente, seconda solo a quella americana.
L’industria tedesca si avvale di una organizzazione funzionale della produzione. Alla nascita
di numerose case di produzione già negli anni ‘10,si contrappone poi negli anni ‘20 una
tendenza verso la fusione di diverse società, che trova nella costituzione dell'UFA
(Universum Film Aktiengesellschaft) il momento di maggiore rilevanza. Fino al 1926 la
produzione tedesca segue una politica articolata che punta a creare un nuovo pubblico,
coinvolto nei progetti narrativi e spettacolari, ma insieme è attenta alla creazione di una
nuova esperienza di cultura di massa. Il cinema tedesco si propone insieme di porre la
cultura artistica, architettonica, teatrale e letteraria a servizio del nuovo medium, e di
sfruttare i valori culturali come elementi di assicurazione della validità del prodotto
cinematografico e della sua vendibilità. Non solo la cinematografia tedesca può contare su
architetti scenografi di prim’ordine, ma si avvale anche della collaborazione di scrittori,
drammaturghi, pittori che garantiscono un'interazione continua tra il gusto e le immagini
filmiche e i rispettivi universi culturali e artistici. Questa ricchezza di contributi non è poi
limitata alle esperienze più apertamente estetiche del cinema tedesco negli anni 20, ma
investe anche il cinema di genere.
Il cinema espressionista effettua una sintesi radicale e tra immaginario e stile, realizzando
attraverso una valorizzazione particolare del lavoro di messa in scena, una forma espressiva
di particolare intensità. Il cinema espressionista è certo segnato in primo luogo da una
ricerca forte sulla configurazione dell'immagine e quindi sullo spazio e sulla scenografia che
le inquadrature possono esaltare. Tutti gli elementi della scena (profilmico) sono rielaborati
in modo artificiale per affermare l'incisività e la forza espressiva. La messa in scena coordina
tutte le componenti per ottenere una forma caratterizzata da un'intensità e da una
vibrazione visiva e spirituale particolare. I contorni delle scenografie sono spesso alterati,
irregolari, segnati da una deformazione esplicita e tendenzialmente irrealistica. Anche i
costumi sono conformi agli spazi e ai personaggi. La tensione, la spinta utopica, l'angoscia, il
dolore, l'ossessione dei personaggi sono direttamente impressi nella materia scenica,
diventano configurazioni oggettive ed espressive grazie al lavoro della regia. La recitazione
degli attori riflette questo rafforzamento dell’espressività e rende più forti i gesti più
sottolineati movimenti, più marcata la mimica che si avvale di un trucco particolarmente
elaborato. Ai fini espressivi essenziale è poi lavoro sull'illuminazione. Il cinema
espressionista scompone il visibile attraverso un uso intenzionale di una luce fortemente
contrastata, mediante la contrapposizione di luci ed ombre. Il montaggio è funzionale
all'esibizione delle configurazioni visive, non è mai troppo rapido, in quanto deve
permettere all'immagine di essere pienamente vista dallo spettatore. I montaggi alternati, i
raccordi sono effettuati con progressiva abilità, segnando un passaggio verso la flessibilità e
la finezza della messa in scena. É un cinema metaforico-intensivo, che valorizza il piano più
della successione delle inquadrature, gli effetti figurativi del piano più di quelli ritmici, la
ricchezza delle componenti visive, informative ed emozionali della scena, più della velocità
dell'azione.
L’AUTORENFILM TEDESCO, ANTECEDENTE DEL CINEMA ESPRESSIONISTA
Lo studente di Praga (S. Rye, 1913) anticipa i temi dell'espressionismo. Tratto da un romanzo
di Hans Heinz Ewers, il film presenta un soggetto faustiano, raccontando la storia di uno
studente che vende il proprio riflesso al diavolo e viene perseguitato dal suo doppio. Una
trama in cui si rintraccia chiaramente l'ispirazione della letteratura fantastica del
Romanticismo ottocentesco (E.T.A Hoffman in particolare).
DOPPI PERTURBANTI
Il cinema tedesco degli anni 10 e 20 è attraversato da tanti doppi e non-morti (cloni, sosia,
Cyborg, vampiri, sonnambuli): tutta una serie di configurazioni che mettono in crisi e in
dubbio l'idea consueta della soggettività e della psiche umana, secondo linee su cui Sigmund
Freud stava riflettendo in quegli stessi anni, proprio a partire dalla letteratura di Hoffman (il
suo saggio sul Perturbante e del 1919). Il perturbante per Freud (in tedesco unheimlich) è
tutto ciò che ci dà ansia perché, se a prima vista ci sembra conosciuto e familiare, nasconde
in realtà un elemento misterioso e sconosciuto. Perturbanti sono ad esempio tutta una serie
di credenze animistiche (attribuzione di personalità e intenzioni agli oggetti) che
confondono i confini tra reale e immaginario, tra umano e non umano. Il cinema è
particolarmente adatto a esprimere l'idea del perturbante perché esso stesso forma di
raddoppiamento fantasmico della realtà.
L’ESPRESSIONISMO CINEMATOGRAFICO
L'affermazione del cinema espressionista è generalmente correlata al successo di Il
gabinetto del dottor Caligari di Robert Weine. Tuttavia altri film legati soprattutto al mondo
fantastico, ma anche al tema dell'identità, sono realizzati negli anni 10 e potrebbero essere
considerati come antecedenti del vero e proprio cinema espressionista: sono lo studente di
Praga di Stellan Rye e il Golem di Paul Wegener. Non bisogna dimenticare infatti che il
movimento espressionista nelle altre arti si afferma alla fine del primo decennio con il
gruppo di Die Brücke e che all'inizio degli anni 10 con la formazione di Der Blaue Reiter è già
in piena espansione.
UN CINEMA EIDETICO
L'espressionismo ha l'obiettivo di mettere la cultura artistica, teatrale, architettonica,
letteraria al servizio del nuovo medium. Non si tratta soltanto di esprimere una specifica
configurazione del gusto, ma una visione del mondo. Si cerca di fare in modo che le
immagini esprimono le idee (cinema eidetico), che i concetti -angoscia, dolore, ossessione-
prendono letteralmente riforma. L'espressionismo realizza insomma una sintesi di
particolare intensità tra immaginario e stile. Un cinema plastico, in cui il visibile si configura
come immediata traduzione in immagini del contenuto psichico e immaginario.
7) IL NEOREALISMO ITALIANO
CENNI STORICI
● Istituto LUCE (1924; I cinegiornale 1927)
● Mostra d’arte cinematografica a Venezia (dal 1932)
● Direzione generale per la cinematografia creata nel 1934 presso il MinCulPop
(Ministero della Cultura Popolare), affidata a Luigi Freddi e deputata al controllo
di tutte le attività cinematografiche, pubbliche e private
● Centro Sperimentale di Cinematografia (1935)
● Cinecittà (1937)
● inaugurazione con Scipione l’africano (C. Gallone)
● Presso la BNL viene creata una sezione autonoma per il credito cinematografico:
nascono Lux, Titanus, Scalera, ERA, Manenti.
● Tassa sul doppiaggio nel 1933 e obbligo di proiettare almeno un film italiano su 3
stranieri.
Protezionismo: (Legge Alfieri, 6 giugno 1938), legato alla svolta autarchica dell’anno
precedente: si limitano drasticamente le importazioni impennata produttiva: 50 film nel
1939, 83 nel 1940, 119 nel 1942.
Il cinema svolge un ruolo fondamentale nel compromesso tra la diffusione di inediti modelli
socio-culturali, ineludibile per un paese che si vuole moderno, e la tutela di un sistema di
valori reazionari.
Il cinema dei telefoni bianchi
I telefoni bianchi sono il simbolo dell’immagine luccicante e posticcia del mondo che questi film
offrivano.
Le riprese avvenivano per lo più in teatro di posa: scenografie art-déco che vogliono proiettare un’idea
di modernità cosmopolita.
Altri status symbol che attraversano questo cinema sono l’auto, il treno, la radio, il grand hotel
e il locale notturno (tabarin o tabarino).
Atmosfere rarefatte, intrecci ingarbugliati, scambi e camuffamenti di identità: un’estetica
dell’artificio.
8) IL NOIR
In USA i film che oggi designiamo come «noir» si chiamavano comunemente «Blood
Melodramas». Il termine noir fu invece coniato dai critici francesi, nell’immediato
dopoguerra, e si diffonderà oltreoceano solo a partire dagli anni ‘70.
In precedenza la definizione era già stata applicata, sempre in Francia, ai film del cosiddetto
«realismo poetico»: Il porto delle nebbie (1938) e Alba tragica (1939) di Marcel Carné,
L’angelo del male (1938) di Jean Renoir e altri.
Gli anni Quaranta in America sono gli anni della Pop-psychoanalysis, ovvero della diffusione,
anche a livello divulgativo, delle teorie di Sigmund Freud (morto a Londra nel 1938).
Concetti come quello del complesso edipico o della paura di castrazione, e i discorsi relativi al
funzionamento dell’inconscio e del mondo onirico compaiono spesso nelle trame dei film
dell’epoca, in modo sia implicito che esplicito.
A partire soprattutto dal 1947 si diffonde la pratica di girare in esterni reali, sia grazie
all’avanzamento tecnologico verificatosi durante la guerra (macchine da presa più leggere,
maggior capacità di filmare in notturna) sia per influenza dell’estetica del neorealismo
italiano.
I tratti più caratteristici del Noir sono il trattamento dello spazio e del tempo. Per quanto
riguarda lo spazio la parola chiave è "claustrofobia". Le angolazioni di ripresa, il décor e la
fotografia contribuiscono insieme alla composizione di inquadrature nelle quali gli ambienti
sembrano prima del personaggio, togliergli il respiro, intrappolarlo. Sul piano temporale è
opinione comune che il Noir sia essenzialmente contraddistinto dall’ingombrante e
incombente presenza del passato: i personaggi devono spesso reggere il fardello di una colpa
commessa in gioventù, di cui provano invano a sbarazzarsi, cambiando città, quando non
addirittura nome e vita. Tuttavia, tali sforzi vengono immancabilmente vanificati dal risorgere
del passato, che di solito si concretizza in una figura che viene a chiedere conto al protagonista
dei suoi misfatti, obbligandolo a prendersi le proprie responsabilità.
È interessante notare che nell'analisi sul Noir la categoria temporale e quella spaziale
vengono quasi sempre tenute rigorosamente distinte, quasi si trattasse di due elementi che
non hanno, in questi film, nulla a che fare l'uno con l'altro. Invece, a rendere peculiare il Noir
e a distinguerlo dai generi che pure gli sono affini sotto profilo tematico e iconografico, è
proprio la continua, reciproca contaminazione del piano temporale e di quello spaziale, in
particolare la tendenza del secondo a tradurlo in termini figurativi le articolazioni e le
configurazioni del primo.
C'è anche quella che si definisce aperte "un'assenza strutturale nel film noir", quella della
casa, dello spazio domestico, con cui contraltare un'iconografia dominata da luoghi
concepiti per soste brevi e provvisorie: stanze d'albergo, camere in affitto, taverne, motel,
bar, ristoranti, locali notturni. Ma quel che è più importante, lasciano trapelare l'immagine
di una società costellata di individui sfaccendati e ambigui, che rimandano puntualmente a
una temporalità sospesa, vuota, priva di senso e di valore. Nella maggior parte dei casi si
tratta di uomini costretti dalle circostanze a vivere alla giornata, di fatto impossibilitati a
vedere al di là del proprio presente. Personaggi braccati da malviventi che li vogliono
eliminare, innocenti ricercati dalla polizia per delitti che non hanno commesso (Al Roberts in
Detour), evasi di prigione decisi a non farsi arrestare un'altra volta. Talvolta si tratta invece
di individui che, schiantati le esperienze passate, non intendono più cimentarsi con l'arduo
compito di costruirsi un'esistenza, e preferiscono dunque, per così dire, abitare la
provvisorietà.
Una delle prime conseguenze, e che nel Noir, rispetto a generi che pure gli sono attigui
come il poliziesco o il melodramma, il tempo della storia è spesso estremamente breve,
tanto da estendersi, non di rado, lungo l'arco di qualche giornata, quando non di sole 24 ore.
A proposito del noir, spesso si parla appunto di "territorio" nella notte, a sancire una
divisione netta tra la fase diurna e le ore successive al tramonto. Sia sul piano narrativo che
iconografico, la notte nel Noir non appare mai come il prolungamento naturale del giorno,
semmai assumere la forma di un universo a sé stante, autonomo, attraversato da azioni
(delitti, tranelli, adulteri) e immagini (personaggi fermi nell'ombra, ambienti trasfigurati
dall'oscurità, strade male illuminate ecc,) che seguono tutt’altri percorsi. → influenza del
cinema espressionista tedesco sulla manipolazione della messa in scena per dare angoscia (Il
Terzo Uomo, C. Reed e Lo Sconosciuto del terzo piano di B. Ingster, 1940).
Mentre il cinema più propriamente classico vuole creare delle immagini che siano
soprattutto armoniose e leggibili, per produrre una narrazione efficace, lo stile noir si
sostanzia invece di immagini potentemente evocative. Il suo fine non è la chiarezza o la
trasparenza, ma una messa in scena carica di pathos, che manifesta anche una importante
dimensione estetica.
Un tecnica molto utilizzata nel noir è la soggettiva che è una tecnica di ripresa
cinematografica in cui la scena viene inquadrata esattamente dal punto di vista di uno dei
personaggi, come se la si vedesse attraverso i suoi occhi. Può essere composta da due
inquadrature (nella prima viene mostrato il soggetto che guarda e nella seconda ciò che egli
vede) oppure da una sola (viene mostrato solo ciò che il personaggio vede).
La soggettiva è a volte enfatizzata attraverso l'uso di particolari accorgimenti, per esempio
una visione sfocata per un ubriaco o la forma del binocolo per un personaggio che lo stia
usando. Viene inoltre a volte utilizzata per ottenere effetti di suspense, per esempio quando
lo spettatore non sa chi sia il soggetto che sta vedendo la scena. Nel 1947 Robert
Montgomery gira La donna nel lago (Lady in the Lake, qui a sx), interamente girato in
soggettiva. Meno radicale ma molto più riuscito La fuga (Dark Passage, D. Daves), film dello
stesso anno con Humphrey Bogart e Lauren Bacall che pure sfrutta moltissimo la soggettiva
in tutta la prima parte. Il noir ci racconta di una soggettività pienamente fisica, e cerca di
utilizzare i mezzi stilistici del cinema per trasmettere tutta la gamma percettiva del soggetto.
Siamo piuttosto lontani dalla visione ordinata del cinema classico.
Molti tra i noir oggi più celebri non furono prodotti dalle case di produzione principali, o
comunque non erano considerati film di serie A. Nonostante si possa dire che questi sono i
film dell’epoca più visti e amati ancora oggi, in origine si trattava di prodotti di serie B e non
prestigiosi. L’esempio migliore è forse proprio Detour (E.G. Ulmer, 1945), realizzato in soli 6
giorni dall’immigrato austriaco Ulmer per la piccola casa di produzione PRC. L’idea che la
mancanza di denaro aguzzi l’ingegno creativo e faccia sì che si trovino delle soluzioni
espressive innovative è una delle traiettorie essenziali della storia del cinema. E infatti il noir
di serie B sarà un modello per i cineasti della Nouvelle Vague francese degli anni Sessanta:
Jean-Luc Godard dedicherà il suo À bout de souffle alla Monogram Pictures, uno di questi
studi minori della cosiddetta Poverty Row di Hollywood. Da una parte, questi film
appartengono alla cultura popolare, all’immaginazione pulp, basata sull’aspetto scandaloso
del sesso e della violenza. Non a caso si chiamavano Blood Melodramas. D’altra parte, le
narrazioni a tinte forti dei noir veicolano anche delle riflessioni sulla condizione umana
(specialmente, ma non solo, da un punto di vista maschile) nel contesto della modernità
metropolitana. L’immagine del mondo che ne emerge è quella di un universo caotico e
spesso disperato, in cui i soggetti sono intrappolati e/o smarriti e privi di punti di
riferimento. In tal modo, questi film partecipano delle riflessioni della cultura alta sulla crisi
del soggetto e sulla modernità come età dell’ansia pervasiva.
LA SITUAZIONE ITALIANA
Si può dire che il noir sia il modo in cui i registi italiani si lasciano alle spalle il cinema fascista
ed entrano nel neorealismo (Ossessione di Visconti, 1943) e poi anche il modo in cui
abbandonano il neorealismo in direzione delle sperimentazioni del cinema moderno
(Cronaca di un amore di Antonioni, 1950).
ELEMENTI SALIENTI DEL NOIR AMERICANO
● Vicende criminose
● Mascolinità tormentata (alcolizzati, reduci, violenti forse assassini)
● Donne fatali
● Strutture narrative complesse
● Stile marcato
LO STILE DEL NOIR
● Ombre espressioniste e nebbie atmosferiche
● Profondità di campo
● Angolazioni inusuali della mdp
● Inquadrature lunghe e piani sequenza
● Riprese in esterni reali
UN FILM DI SVOLTA: CITIZEN KANE (QUARTO POTERE, ORSON WELLES, 1941)
Quarto potere aveva inaugurato un modo di narrare che eccedeva da tutti i punti di vista;
da quello immediatamente tematico, dilatando la vicenda sul piano storico realistico,
morale, psicologico, e su quello drammaturgico, forzando e reinventando il linguaggio
classico nella rappresentazione di una realtà che è anche stilisticamente prospettica,
sfaccettata, contraddittoria come i suoi personaggi, spesso interpretati da Welles stesso.
Quarto potere non è un noir, ma la sua lezione stilistica sarà assorbita e rinnovata dai noir
veri e propri degli anni successivi.
● Narrazione dalla complessa struttura a flashback multipli
● Angolazioni inusuali della mdp
● Illuminazione fortemente contrastata
● Profondità di campo
● Long-takes (inquadrature lunghe) e piani sequenza
DETOUR (DEVIAZIONE PER L’INFERNO, EDGAR G. ULMER, 1945)
Al Roberts, un pianista squattrinato di New York, suona in uno modesto locale dove si
esibisce come cantante la sua ragazza Sue Harvey. I due sono insoddisfatti della loro vita e
pur avendo intenzione di sposarsi, non hanno prospettive future. Un giorno Sue decide di
andare a cercare fortuna a Los Angeles nonostante la delusione di Al. Passano del tempo e
Al decide di raggiungere la ragazza, viaggiando con l'autostop, avendo con se solo pochi
dollari. Quando è già nell'Arizona ottiene un passaggio dal facoltoso signor Haskell. Questi si
offre di portarlo fino a destinazione, dato che è diretto a Los Angeles per effettuare una
scommessa su un cavallo. Al nota delle ferite sulla mano dell'uomo, questo gli spiega che
sono i graffi di una ragazza che ha lasciato lungo la strada dopo un litigio. Quindi, dopo una
sosta per la cena, Al sostituisce alla guida Haskell, che si addormenta profondamente.
Fermatosi per alzare la capote dell'auto per ripararsi dalla pioggia, Al non riesce a svegliare
Haskell che, aperta la portiera, cade rovinosamente a terra restando morto. Convinto che
nessuno crederà mai ad un incidente, Al ritiene che potrà portare a termine il suo viaggio
solo nascondendo il cadavere e riprendendo la strada con i documenti e i soldi sottratti al
morto. Così entra in California spacciandosi per Haskell, quindi dopo una sosta in un motel
dà un passaggio ad una ragazza cui però non può mentire. Infatti lei è Vera, la ragazza con
cui Haskell aveva litigato e che ora, raggiunto Al, lo crede un impostore e un assassino. Vera
minaccia di denunciarlo, così Al accetta le sue condizioni e, giunti nei pressi di Los Angeles,
affitta con lei una piccola abitazione. Alla notizia che il ricchissimo padre di Haskell è in fin di
vita, Vera vuole che Al impersoni suo figlio per riscuoterne l'eredità. Dal momento che lui
non se la sente di spingersi fino a questo, lei minaccia di telefonare alla polizia. Al, nel
cercare di strappare il filo del telefono che lei ha già impugnato, ne determina l'accidentale
morte. Stavolta, sebbene involontariamente, è stato certamente lui a causare questa nuova
morte e dunque la sua posizione è notevolmente aggravata. Al sente che un inesorabile
destino lo ha segnato, impedendogli di raggiungere l'amata Sue e tracciando suo malgrado
una scia di sangue dietro di sé, che, benché lui provi a fuggire, lo porterà inevitabilmente ad
essere arrestato e a pagare ben oltre le sue responsabilità.
● Lavoro sull’illuminazione e sul potere evocativo degli oggetti, per trasmettere la
sensazione del tormento interiore e dell’alterazione della percezione
● La musica come dispositivo di innesco memoriale
● Messa in scena così scarna da tendere all’astrazione
Il film sembra collocarsi interamente in quello spazio liminale della coscienza collocato tra la
notte e l’alba (il locale iniziale si chiama «Break O’ Dawn»). Un ruolo importante nella messa
in scena lo svolgono anche fenomeni atmosferici come la nebbia e la pioggia.
Il noir pullula di spazi di transito e di attesa, non-luoghi sempre uguali, freddi e impersonali
come autogrill, stazioni di servizio, motel, che esprimono l’impossibilità del soggetto di
trovare una dimensione di Casa.
LA METAFORA DELLA STRADA
Il film è tutto incentrato sulla metafora della strada (una metafora che sarà essenziale anche
per il cinema neo-noir di David Lynch): dai segnali stradali iniziali a New York all’autostop che
svolge un ruolo fondamentale nella parte centrale del film. La strada smette di rappresentare
la possibilità di arrivare concretamente in qualche luogo, raggiungere la destinazione
desiderata e la felicità, e diventa invece lo spazio del pericolo, in cui non ci si può che scontrare
con un fato implacabilmente maligno. La traiettoria lineare, di causa-effetto del cinema
classico devia e va a schiantarsi e accartocciarsi di fronte alla messa in scena di una crisi totale
nel rapporto tra uomo e mondo.
UN SOGGETTO SCISSO
Nel finale, il protagonista rimane sospeso tra New York e Los Angeles, non può fermarsi né
in una città nell’altra: a New York è dato per morto come Al Roberts, a Los Angeles è
ricercato come Charlie Haskell.
La sua è dunque un’identità irrimediabilmente scissa, dimidiata, che non è possibile
ricomporre.
Il percorso di sconfitta esistenziale di questo protagonista dà misura della statura
autenticamente filosofica della riflessione del noir sullo spazio, il tempo e la soggettività.
E d’altronde ci si potrebbe chiedere: ma Al Roberts è poi davvero un narratore affidabile?
9) IL CINEMA D’AUTORE IN GIAPPONE
Nel dopoguerra si afferma con sempre più forza il concetto del cinema d’Autore, soprattutto
grazie alla Politique des Auteurs di una rivista come i «Cahiers du cinéma». Il regista si
occupa di tutte le diverse fasi della realizzazione del film, con particolare attenzione alla
sceneggiatura, di cui è firmatario o co-firmatario. Il film è considerato un oggetto culturale e
non ci si preoccupa della questione commerciale. I contenuti sono spesso complessi, di non
facile lettura, ed hanno a che vedere con la peculiare visione del mondo dell’Autore. Anche
sul piano dello stile, si sperimenta in modo originale, al di fuori dei canoni del cinema
classico. Non si vuole tanto divertire lo spettatore, quanto spingerlo a crescere
culturalmente e riflettere; lo spettatore deve essere attivo ed interpretante nei confronti del
testo filmico. Il singolo film va visto anche in connessione con gli altri dello stesso Autore,
con cui compone la sua Opera complessiva.
Di tutte le cinematografie non occidentali, la giapponese è stata indubbiamente quella che
ha saputo meglio imporsi nell'ambito dell'intera storia del cinema. Nel determinare ciò
hanno assunto un ruolo essenziale alcuni autori, come Yasujirō Ozu, Kenji Mizoguchi e Akira
Kurosawa. Sino agli anni Sessanta, il cinema nipponico si è retto su un vasto e articolato
sistema produttivo il cui modello era chiaramente quello hollywoodiano. Un sistema che
faceva del cinema una vera e propria industria, garantiva un alto numero di film, formava
del personale specializzato, suddivideva la produzione in generi (i principali erano due: i
jidaigeki, in altre parole i film ambientati nel passato, e i gendaigeki, quelli, invece,
d’ambiente contemporaneo) e controllava abilmente il mercato.
YASUJIRŌ OZU
Ozu girerà sempre dei gendaigeki, in particolare shomingeki (drammi della gente comune),
film dedicati al mondo della piccola borghesia, alle cose di tutti i giorni, alla vita familiare, ai
problemi coniugali, ai rapporti fra genitori e figli. Non per questo dimenticando l'analisi di
certe contraddizioni sociali in attenta equilibrio fra dramma e commedia, come ben
testimoniano fra gli altri Figlio unico del 1936 e Viaggio a Tokyo del 1953. Sul piano della
costruzione narrativa i suoi film propongono spesso la figura della "rivelazione",
configurandosi così come un cammino verso una verità fino a quel momento sconosciuta, ai
personaggi come lo spettatore. La scoperta di questa verità modifica rapporti fra individui,
generando da prima, un momento di profonda crisi che approda però, poi, ad un'autentica
comprensione e ad una maggiore armonia fra le parti.
Fra gli elementi salienti dello stile del regista possiamo ricordare la posizione bassa e la
staticità della macchina da presa, il ricorso ad immagini in transizione, quasi delle nature
morte che interrompono il fluire degli eventi e sospendono il racconto, l'uso di uno spazio a
360°, le inquadrature frontali, e non di sbieco, sui volti dei personaggi, che quando parlano
sembrano così rivolgersi direttamente allo spettatore, un montaggio che privilegia i criteri
grafici a quelli narrativi, la funzione ritmica dei rumori, la recitazione scarnificata dei suoi
attori, che tende quasi all'assenza di espressione, una narrazione che ricorda i tempi morti,
ai vuoti, che, mentre procede verso qualcosa, si ripete, ruota su se stessa, ritornando a ciò
che è già stato per mostrare le piccole e grandi variazioni in rapporto a ciò che invece è.
KENJI MIZOGUCHI
Mizoguchi è autore di un nutrito corpus di opere che spaziano tanto nell'ambito dei
gendaigeki che in quello dei jidaigeki. Ciò che colpì parte della critica occidentale, ed in
particolare i "giovani turchi" dei "Cahiers du Cinéma”, quando i suoi film iniziarono ad essere
visti nell'Europa degli anni Cinquanta, fu la modernità del suo stile. Uno stile di regia e messa
in scena che si affida ai piani sequenza, alle immagini distanziate, agli elaborati movimenti di
macchina, alle inquadrature in profondità di campo e al complesso intrecciarsi e sovrapporsi
di più dati iconicamente insignificanti. Soluzioni che vanno tutte in una direzione ben
precisa, privilegiano i modi del montaggio interno, invitano lo spettatore ad un lavoro
maggiore e ad uno sguardo più critico e attivo. I racconti della Luna pallida d'agosto del
1953 è il suo prestigio internazionale. Dominante tutto il cinema di Mizoguchi è la
rappresentazione dell'universo femminile, tramite cui, da una parte, denuncia apertamente
come una società patriarcale, che rimane sostanzialmente uguale a se stessa nonostante il
passare dei secoli, sfrutti ed emargini la donna; dall'altra, tuttavia, Mizoguchi fa delle sue
eroine degli oggetti di culto ed ammirazione, frutto di una concezione in qualche modo
astratta e trascendentale della donna. Tre sono i modelli che il regista privilegia: la ribelle, la
principessa e la sacerdotessa. La prima è la donna vendicativa, fatalmente destinata a venire
sconfitta. L’archetipo della principessa è costituita da donne aristocratiche, costrette
tuttavia a confrontarsi con gli aspetti più bassi della società che le circonda ma che
rimangono nell'animo pure ed incontaminate. La sacerdotessa rappresenta il ruolo forte
ideale per Mizoguchi: è la donna che può amare tramite un’altruistica devozione rivolta al
proprio uomo, che per lui si sacrifica, divenendone la guida spirituale, morale e talvolta
anche finanziaria.
AKIRA KUROSAWA
Kurosawa realizza i suoi primi film negli anni della seconda guerra mondiale. Si tratta di un
insieme di opere che appartengono pienamente a quella cosiddetta Politica Nazionale che
imponeva all'esaltazione dello spirito di sacrificio del singolo per il bene del paese. Alla fine
della guerra, Kurosawa può finalmente esprimersi con più libertà e dirige, spaziando fra
gendaigeki e jidaigeki alcune delle sue opere più significative. In molti film Kurosawa
racconta la storia di un uomo in caparbia lotta contro i mali e le ingiustizie della società. I
suoi eroi positivi non sono dei personaggi piatti e manichei ma assai complessi; il loro è un
impulso quasi irrazionale che si accompagna ad aspetti, talvolta, oscuri e ambigui. Il ruolo
comune fondamentale che il personaggio assume nei suoi film fa, del cinema di Kurosawa,
uno dei vertici di quel cosiddetto "umanesimo" che contrassegna il cinema giapponese del
secondo dopoguerra.
Rispetto agli altri registi che si muovono in questa direzione, Kurosawa coniuga questa
tendenza con uno stile più spettacolare e un ritmo più sostenuto. L'influenza del cinema
americano e dei modelli occidentali è molto evidente, così come lo è la capacità del regista
di piegare tali influenze alle proprie esigenze espressive e alle forme della tradizionale
estetica giapponese. Questa varietà di fonti e forme - rinvenibile anche sul piano degli
adattamenti: da Shakespeare a Dostoevskij e Gor’kij, da Ryūnosuke Akutagawa a Shigoro
Yamamoto- non è del resto che uno dei tanti elementi che determinano la forte tensione
caratterizzante l'intera opera dell'autore e che dà vita a quel dinamismo che è forse il
marchio di stile e poetica più significativo del regista. Ed è proprio attraverso il suo ruvido e
diseguale montaggio, i raccordi a 180°, le frequenti e costanti giustapposizioni di primi piani
e campi lunghi, l'alternanza di inquadrature statiche ed altre piene di movimento, i raccordi
che giocano su conflitti di linee direzione, in sostanza sugli scarti operati in rapporto a quel
modello di rappresentazione classico pur riproposto nella sua globalità, che Kurosawa riesce
a dar vita ad uno stile assai peculiare pari per intensità e originalità di risultati a quello dei
grandi maestri della tradizione.
Il boscaiolo
Il monaco
Il viandante
La libertà, il nulla e l’essere per la morte: L'affermazione della libertà è essenziale per
entrambi i protagonisti e costituisce la filosofia esistenziale fondamentale del film. Ma la
libertà di Michel è nelle cose, nella scelta per l'illegalità, nella realizzazione immediata dei
desideri, nella pratica delle aggressioni e delle trasgressioni sociali. Michel è un personaggio
alla ricerca della libertà e dell’autenticità esistenziale, e questo implica anche la possibilità
dello scacco. Michel vive in pieno la crisi dei valori tradizionali della modernità
novecentesca, e in particolare del dopoguerra.Mentre la libertà di Patricia è certo nei
comportamenti, ma è anche nelle interrogazioni ripetute sul senso della libertà, nella
microsperimentazione esistenziale, nella ricerca di percorsi di vita nuovi, autentici e liberi.
Michel e Patricia sono infondo i prototipi dei nuovi soggetti esistenziali delle Nouvelles
Vagues del cinema degli anni 60.
I protagonisti trasgressivi di Godard sono caratterizzati da un eroismo tardo romantico: sono
personaggi ispirati al noir, ma anche carichi della negatività dell’esistenzialismo europeo:
legame con Camus, Boris Vian, Sartre, de Beauvoir… (ma anche con il cinema del realismo
poetico degli anni Trenta, in particolare quello della coppia Carné-Gabin).
La ricerca della libertà da parte del personaggio va di pari passo con quella del suo regista. Il
cinema di Godard il cinema della disponibilità esistenziale, del mondo come possibilità,
come orizzonte di aperture. (Sperimentazione esistenziale e sperimentazione della messa in
scena vanno di pari passo.)
Il progetto originale di George Lucas era un adattamento di Flash Gordon. Il film ha legami
con la fiaba e col mito: L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell (1949) è un libro che
analizza la traiettoria tipica dell’eroe, ed era il libro che Lucas stava leggendo durante il
tortuoso processo di scrittura.
La vicenda di Luke ripercorre d’altronde le tappe della traiettoria edipica caratteristica del
cinema classico (identificazione/conflitto con la figura paterna) ed in particolare del
western.
Il legame con il western si può rintracciare anche nelle ambientazioni desertiche: in
particolare il capolavoro di Ford, Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956).
Per Laurent Jullier in L’écran post-moderne, Star Wars è il primo esempio di film-concerto,
ovvero di un film che investe lo spettatore con un vero e proprio bagno di sensazioni
(questo discorso giungerà a ulteriore compimento con la diffusione del dolby surround nei
primi anni Ottanta). Lo spettatore si trova davanti ad un’esperienza intensiva e immersiva,
che coinvolge l’interezza della sua sfera sensoriale, non soltanto lo sguardo. La visione non si
configura tanto come forma di conoscenza, ma di percezione allucinata, di iperstimolazione
sensoriale. Come nel cinema delle origini, trionfa l’identificazione primaria, con la macchina
da presa stessa, con l’istanza che mette in moto lo spettacolo.
Nelle scene più attrazionali, la macchina da presa si emancipa dalla visione antropomorfa,
diventando, grazie all’avanzamento tecnologico, un testimone invisibile al di fuori
dell’umano. Anziché essere centrato sul personaggio come veicolo di una storia (come il
cinema classico), o sul personaggio come alter ego dell’autore (come il cinema moderno),
questo cinema è centrato… sullo spettatore e sulla sua esperienza, che deve essere
pirotecnica. Secondo Jullier, l’esperienza spettatoriale del cinema postmoderno inaugurata
da Star Wars, è più simile a quella dell’avventore di un luna park che all’esperienza
cinematografica tradizionale.
IL TRAVELLING
Il film non cerca di stabilire con il pubblico una semplice comunicazione, ma propone invece
una fusione tra spettatore e schermo. La figura chiave di questa tonalità intensiva è il
travelling, movimento di macchina in avanti, che viene adoperato proprio per immergere lo
spettatore nel mondo rappresentato, consentendogli di partecipare al brivido della velocità.
Tale dimensione di immersione nella profondità dello spazio rappresentato (ovvero dello
spazio galattico) è già presente nei titoli di testa, e torna anche nelle scene in cui il
Millenium Falcon compie il salto nell’iperspazio. Ma esso giunge al massimo grado con l’uso
insistito del travelling nella lunga sequenza della battaglia finale.
Gli effetti speciali del film furono realizzati dalla compagnia fondata appositamente da
Lucas, la Industrial Light & Magic, attivissima ancora oggi.
UN’ESPERIENZA SPETTATORIALE DUALE
Secondo Pravadelli, l’esperienza spettatoriale che caratterizza Star Wars è un’esperienza
duale, perché prevede un’oscillazione costante tra due regimi dell’immagine, un’alternanza
tra l’intensità immersiva delle scene d’azione e una dimensione emotivo-identificativa più
tradizionale. Mentre l’inizio e il prefinale del film sono fortemente immersivi, il film contiene
molti episodi fortemente narrativi, che sono caratterizzati anche da uno stile di ripresa più
tradizionale: inquadratura centrata sul personaggio, movimenti di macchina diegeticamente
motivati → identificazione secondaria ‘classica’.
UN ECOSISTEMA NARRATIVO TRANSMEDIALE
Le trilogie successive, gli altri film, le serie tv, i libri, i fumetti, i videogiochi e le attrazioni da
parco dei divertimenti: quello di Star Wars si configura come un vero e proprio ecosistema
narrativo. Si tratta dunque di un esempio perfetto di transmedia storytelling (definizione di
Henry Jenkins) perché il mondo creato da Lucas è del tutto serializzato e ‘spalmato’ su
diverse forme mediali e modalità narrative. La logica del franchise è la logica dominante
della produzione hollywoodiana contemporanea, di cui i film dei supereroi Marvel sono
naturalmente l’inveramento più pieno. La Disney è in questo momento protagonista di un
tentativo di monopolio dell’immaginario collettivo senza precedenti, avendo acquisito, tra il
2006 ed oggi, la Pixar (2006), la Marvel (2009), la Lucasfilm (2012) e la 21st Century Fox
(2017).
Fellini esordisce come sceneggiatore alla fine del periodo fascista, partecipando ad alcune
tra le più importanti sceneggiature neorealiste (Roma città aperta, Paisà, Caccia tragica, Il
cammino della speranza). Poi il suo percorso vedrà il passaggio progressivo dal racconto del
Mondo al racconto del Sé. E finirà per diventare celeberrimo proprio come narratore della
soggettività e dell’inconscio. La nuova poetica di Fellini emerge dalla consapevolezza della
fine del momento storico eccezionale del dopoguerra e del neorealismo: «Di fronte a questa
realtà appiattita, normalizzata, bisogna essere poeti – afferma Fellini – bisogna inventare
qualcosa e avere qualcosa da dire. Il documento non basta più».
I PRIMI SETTE FILM E MEZZO
● Luci del varietà (1950) co-diretto con Alberto Lattuada (½)
● Lo sceicco bianco (1952) (1)
● Amore in città (1953) film a episodi a 14 mani (2)
● I vitelloni (1953) (3)
● La strada (1954) (4)
● Il bidone (1955) (5)
● Le notti di Cabiria (1957) (6)
● La dolce vita (1960) (7)
● 8 ½ (1963)
Manuela non ha fatto in tempo a svelare a suo figlio Esteban chi fosse suo padre: un'auto lo
ha investito tutti i suoi occhi, all'uscita di un teatro, proprio quando aveva promesso di
raccontargli la verità. Ora questa madre, spezzata al dolore, accetta di compiere “a rovescio”
l'ultima volontà del ragazzo e va in cerca del padre, da cui era fuggita incinta 18 anni prima,
per dirgli che aveva avuto un figlio, che il ragazzo è morto e che si chiamava Esteban come
lui prima che diventasse Lola. Lasciata a Madrid per Barcellona, Manuela cerca dunque l'ex
compagno nei luoghi della prostituzione transessuale. Rincontra Agrado, che aveva vissuto
con la coppia 20 anni prima. Neppure lei sa nulla di Lola ma d’ora in poi le due amiche non si
perdono di vista. A Barcellona intanto è in cartellone Un tram che si chiama desiderio con
Huma Rojo e Nina Cruz nelle parti delle protagoniste Blanche e Stella. Casualmente Manuela
entra in contatto con loro e una sera finisce per sostituire Nina, che la tossicodipendenza
rende inaffidabile, durante una rappresentazione. Nel ruolo di Stella aveva già recitato in
Argentina, accanto a Esteban-padre. Ma Manuela non è ambiziosa e lascia presto la parte ad
Agrado per continuare le sue ricerche. Conosce così suor Rosa, che ha assistito Lola durante
un tentativo di disintossicazione: la giovane suora è però rimasta incinta di Lola/Esteban e
ha contratto l’Aids. Manuela l'aiuta durante la gravidanza benché contro la malattia non
possa fare nulla. Al cimitero riappare Lola, su cui Manuela riversa con rabbia la propria
sofferenza. Ma la sua umanità, il ricordo del figlio e le drammatiche condizioni di salute di
Lola non le consentono di serbarle rancore. Perciò porta a termine la propria missione, e
racconta del loro Esteban e, qualche settimana dopo, le permette di stringere tra le braccia
il terzo Esteban, figlio di suor Rosa, che di fatto Manuela adotta e porta con sé a Madrid
perché la nonna materna rifiuta di avere contatti con lui per paura del contagio. Il piccolo
però negativizza il virus: il suo caso diviene oggetto di studio per la comunità scientifica e
Manuela può finalmente tornare a Barcellona per la prima volta senza fuggire da niente e da
nessuno.
Tutto su mia madre di Almodovar riflette sul rapporto tra genitori e figli con un'audace
contaminazione di generi che diviene elemento strutturante dei risvolti profondi e viscerali,
a livello tanto dell'espressione del contenuto. La dedica, che apre i titoli di coda, è una sorta
di summa analettica del film, il quale a sua volta assolve la stessa funzione rispetto all'opera
cinematografica di Almodovar. La dedica viene fatta a tre “attrici che hanno interpretato
attrici”: Bette Davis in Eva contro Eva (All about Eve, di Joseph L. Mankiewicz, 1950), Gena
Rowlands in La sera prima (Opening Night, di John Cassavetes, 1977) e Romy Schneider in
L’importante è amare. Dopo una breve sequenza iniziale, Esteban, scrittore in erba, dialoga
con sua madre Manuela mentre sta per essere trasmesso alla televisione Eva contro Eva.
Qualche tempo dopo Huma dice di essersi scelta come nome d'arte Huma in omaggio a
un'altra accanita fumatrice che sin dalla gioventù si è sforzata di imitare in tutto: Bette
Davis. Un primo cerchio si chiude. Ma se ne intersecano subito altri. Huma infatti è
impegnata nelle repliche di Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams. Dal
teatro viene altro materiale per la diegesi filmica. Liberata dalla dipendenza affettiva e
professionale da Nina, Huma prepara nuovo lavoro su un testo di Garcia Lorca: Bodas de
sangre. Tutti questi sono collegamenti intertestuali: La rivalità femminile di Eva contro Eva si
muta in amicizia e comunanza; Un tram che si chiama desiderio, invece, riguarda la
mascolinità come abuso e prevaricazione.
Ritornando al titolo, Esteban e il suo gesto di scrittura danno il titolo al racconto con una
soggettiva impossibile. È come se, alla sua morte, prendesse lui il posto del regista e
raccontasse la storia della madre che stava scrivendo. Il maschile, rimane una figura
inconoscibile, mentre il resto del film si trasforma in un’avventura del femminile come forza
positiva, capace di unire forza e dolcezza. Il femminile è la forza positiva perché è
consapevole del proprio posizionamento identitario, della propria performance, e dunque
agisce di conseguenza.L’amicizia come famiglia alternativa (emancipando tale concetto dai
semplici vincoli di sangue e parentela): un gruppo alternativo ma saldo, legato alla capacità
di prendersi cura. In questa idea dell’altruismo il film ravvisa la possibilità di una forma di
rinascita.
Aldilà dell' innegabile impatto visivo ed emotivo, la scena della morte di Esteban costringe lo
spettatore a riprendere posizione rispetto all'intero film: da questo momento inizia infatti
l’inattesa peregrinazione di Manuela e con essa quella del pubblico. Il regista utilizza il
dolore largamente condivisibile di una madre come strumento di captatio benevolentiae nei
confronti dello spettatore e fa scattare in modo raffinato la trappola psicologica della
identificazione: l'ottica di Manuela diviene perciò quella del pubblico, che ne condividerà
emozioni, giudizi e ripensamenti. Almodovar riesce dunque a portare il suo discorso e la sua
morale su un terreno comprensibile a tutti senza abiure. E lo fa trattando al solito modo
naturale personaggi e situazioni “limite”, statisticamente poco rappresentati, ma
psicologicamente emblematici. Inutile dunque cercare in essi una verosimiglianza
naturalistica. In questo film è come se Almodovar scoprisse che si può morire per caso (lo
sconosciuto dei titoli di testa e Esteban) o per malattia ( Rosa, Lola) in qualsiasi momento: il
“romanzo di formazione” è giunto al capitolo della maturità. E la malattia rientrati peso. Tre
volte: con l'Alzheimer del padre di Rosa e con l'aids che uccide Rosa e Lola. Non inganni
tuttavia la presenza di temi tradizionali: benché si sfiori talvolta il moralismo,si resta
comunque sui generis. Prendiamo la famiglia. Dopo averne demolita la struttura patriarcale
o nucleare, Almodovar la ricostruisce solo come luogo degli affetti liberamente scelti,
faticosamente conquistati. C'è soprattutto la scelta di essere madri, al di là del genere
biologico. La metamorfosi di Lola illustra bene tale concetto: è la prima volta che Almodovar
si spinge a costruire un personaggio dal simbolismo scoperto. Nel dialogo tra Manuela e
l'amica transessuale Agrado emerge la verità sull'ex compagno di Manuela, divenuto
appunto Lola. Si delinea a partire da questo momento, in absentia, la caratterizzazione di un
personaggio diabolico: inaffidabile, drogato, egoista. La transessualità è d’altronde mostrata
anche nella sua versione negativa, ancora legata alle forme del potere oppressivo e
mortifero di Lola, che si fa strumento di sofferenza per le donne che incontra.
Hong Kong, 1962. Chow Mo-wah, Creature di un quotidiano locale, si trasferisce con la
moglie in uno stabile abitato in prevalenza da shangaiesi. Nello stesso giorno, Su Lizhen
trasloca con il marito, il signor Chan, in una stanza dell'appartamento accanto a quello di
Chow, di proprietà della signora Suen. Su fa la segretaria in una società di Import-Export: tra
i suoi vari lavori, c'è anche quello di aiutare il signor Ho, suo principale, a gestire le
complicazioni di una relazione extraconiugale. Il marito di Su invece viaggia spesso all'estero
per affari, soprattutto in Giappone. Chow e Su, entrambi molto riservati, si incontrano ogni
tanto nel corridoio dello stabile o quando escono per comprare cibo. Gradualmente, da
alcuni piccoli indizi, i due capiscono che loro coniugi hanno una relazione. Chow e Su
iniziano a frequentarsi, per condividere le sofferenze del tradimento, ma soprattutto per
capire come loro consorti siano giunti all'adulterio. Tra i due nasce un sentimento che va
oltre la semplice solidarietà reciproca. Chow vorrebbe scrivere un romanzo cavalieresco di
arti marziali: sapendo che il genere letterario piace molto a Su, le propone di farlo insieme.
La donna accetta e i due iniziano a vedersi spesso, con discrezione, per non alimentare
pettegolezzi. Chow affitta la stanza di un albergo, per allontanarsi dalla moglie ma anche per
scrivere con Su al riparo dagli sguardi del vicinato. Un giorno la signora Suen, notando che
Su è spesso fuori casa, le consiglia di tenere la testa sulle spalle. La donna raccoglie
l’avvertimento e decide di non vedere più Chow. Quest’ultimo però la cerca, e i due si
incontrano: Chow le dichiara il suo amore ma certo che la donna non lascerà mai suo
marito, le comunica la sua intenzione di lasciare Hong Kong per trasferirsi a Singapore.
Quando Chow sta per lasciare la città, chiede a Su se vuole partire con lui ma la donna non
accetta.
Singapore, 1963. Su è arrivata da Hong Kong per rivedere Chow. Si reca a casa sua, ma non
lo trova. Chow è a pranzo con un amico, al quale racconta di un’antica leggenda: un tempo
chi voleva conservare un segreto forava un tronco di un albero di montagna, vi bisbigliava il
suo segreto e richiudeva il buco con la terra, in modo da nasconderlo per sempre. Su intanto
è riuscita ad introdursi nell’appartamento di Chow. La donna prova ancora a cercare Chow a
lavoro, questi gli risponde, ma lei non parla, e attacca il ricevitore. Chow, ritornato a casa,
capisce che Su è stata da lui.
Hong Kong, 1966. Su, da tempo trasferitasi in un’altra zona della città, fa visita alla signora
Suen. Quest’ultima sta per raggiungere la figlia negli Stati Uniti, ed è preoccupata per il
destino del suo appartamento. Su si mostra interessata ad affittarlo. Qualche tempo dopo,
Chow, rientrato da Singapore, ritorna nel suo vecchio appartamento per salutare il su ex
padrone di casa, ma il suo nuovo inquilino gli dice che l’uomo ha traslocato. Chow chiede
allora notizie della signora Suen. L’inquilino gli risponde che si è trasferita e che il suo
appartamento è abitato da una donna e un bambino. Chow capisce che si tratta di Su e il
figlio. Nello stesso anno, Chow, inviato dal suo giornale in Cambogia per seguire la visita di
De Gaulle, si reca al tempio di Angkor Wat. Qui si avvicina alla piccola fessura di un muro e
sussurra qualcosa: il suo segreto. Quindi chiude il buco con la terra e, mentre scende la sera,
se ne va.
In the Mood for Love nasce da un'idea più ampia: il regista inizialmente aveva pensato un
film in 3 episodi (Tre storie di cibo), ciascuno incentrato su un personaggio diverso (uno
scrittore, un cuoco, il titolare di un fast food). La trilogia avrebbe dovuto raccontare la
trasformazione delle relazioni tra uomo e donna a Hong Kong dagli anni Sessanta a oggi
attraverso i cambiamenti legati all’alimentazione. Nel progetto originario, la storia d’amore
tra i due vicini doveva alternarsi tra gli anni Sessanta e i giorni nostri, a sottolineare la
continuità delle emozioni. Ma dopo aver constatato che le sequenze contemporanee non si
discostavano da quanto aveva già realizzato negli ultimi tre film, Wong Kar-wai decide di
ambientare In the Mood for Love interamente negli anni Sessanta. Il racconto si sarebbe
comunque dovuto estendere fino al 1972, cioè fino all’apertura di un decennio di svolta nei
costumi degli abitanti di Hong Kong, ma l’idea di una storia lunga dieci anni si rivela troppo
impegnativa. Il film riprende in modo del tutto autonomo alcuni personaggi (in particolare
quello di Maggie Cheung, Su Li-zhen) di Days of Being Wild (1990). Wong-Kar Wai sarà poi
costretto per obblighi contrattuali a iniziare a girare il proprio film successivo, 2046 (2004),
mentre sta ancora finendo In the Mood for Love. 2046 è ad un certo livello un seguito di In
the Mood for Love, del cui protagonista maschile racconta la vita sentimentale in modo più
ampio. 2046 è d’altronde anche il numero della stanza d’albergo dei due protagonisti nel
film del 2000. Con In the Mood for Love la tendenza alla rarefazione narrativa e alla
dilatazione ritmica già presente in Happy Together diventa dominante: Wong Kar-wai
costruisce un dramma lineare a due voci, inesorabile nell’evidenza dei suoi pochi momenti
essenziali (il contatto, l’incontro, la separazione, il lutto). La triste parabola di una coppia
mai nata, che vanifica il proprio amore per le coercizioni della repressione sociale e simula la
propria esistenza giocando in modo autodistruttivo con le identità dei rispettivi coniugi,
porta al più alto vertice d’intensità melodrammatica i temi che il regista aveva sviluppato nei
film precedenti: l’impossibilità di un incontro nel qui e ora, la solitudine dell’Io, la memoria
come resistenza alla sparizione del presente. La messa in scena di questa parabola è
sorvegliata da Wong Kar-wai con un lavoro di disarticolazione del tempo, di svuotamento
degli spazi e di progressiva rimozione dei corpi di eccezionale coerenza e misura. Agli occhi
di un regista che in quel decennio ha vissuto la sua infanzia, gli anni Sessanta alimentano
numerosi ricordi, come gli scontri tra studenti e polizia, o il sovraffollamento degli
appartamenti, legato all’intensificazione del flusso migratorio dalla Cina Popolare: un
fenomeno incontenibile che determina una grave crisi delle abitazioni, portando alla
convivenza forzata tra nuclei familiari e alla pratica del subaffitto. Gli stessi genitori di Wong
Karwai, come ricorda il regista, subaffittavano il loro appartamento agli studenti: la
conseguente mescolanza di storie, linguaggi e immagini aveva esercitato un grande fascino
sul piccolo Wong. In the Mood for Love “fotografa” proprio questa situazione di promiscuità
forzata. Ma per Wong Kar-wai gli anni Sessanta sono anche quelli che vedono crescere, nella
comunità mandarina, la prima generazione realmente hongkonghese, proprio quella del
regista: specularmente, quindi, rappresentano anche l’ultimo decennio in cui gli immigrati di
prima generazione cercano ancora di conservare un legame identitario con la madrepatria. Il
film vuole anche “documentare” il mood di questa comunità sradicata, fatta di persone che,
come ricorda lo stesso Wong Kar-wai, avevano «il loro linguaggio, il loro cibo, i loro cinema, i
loro rituali». Anche la musica concorre a sostanziare la recollection di un periodo lontano,
evocando non solo gli anni Sessanta ma risalendo anche ai Quaranta e ai Cinquanta. La
tradizione cinese è evocata in In the Mood for Love dal ricorso a brani musicali tratti
dall’opera di Pechino, oppure ripresi dal teatro cantonese. L’ibridazione e l’apertura al
nuovo degli anni Sessanta sono invece espresse musicalmente da motivi di origine latino-
americana, ma anche da un brano come Bengawan Solo, celebre canzone indonesiana
interpretata in inglese, nei primi anni Sessanta, da una Rebecca Pan diciottenne. Proprio
quest’ultima, cantante molto popolare soprattutto in quel decennio, originaria di Shanghai
ma trasferitasi a Hong Kong nel 1949, crea con la sua presenza nel film una sorta di
cortocircuito temporale: la sua figura invecchiata si cala negli anni della sua giovinezza,
creando un suggestivo effetto di simultaneità tra presente e passato e diventando così una
sorta di “matriarca” delle radici perdute di una comunità. La scelta di Nat King Cole, di cui si
riprendono comunque le cover latinoamericane, è invece ispirata da motivi più intimi, ma
sempre legati a quel decennio: il musicista americano era tra i preferiti dalla madre del
regista.
Ciò che distingue però In the Mood for Love è l’attenzione alla cura dei particolari. La cultura
di un’epoca e di una comunità si reifica nei dettagli, e si generalizza nella concretezza della
sua estetizzazione, per risultare comprensibile a un pubblico internazionale che poco sa
delle sue peculiarità. La pienezza dei dettagli scenici e musicali serve a Wong Kar-wai per
mettere in rilievo l’evanescenza del passato, l’imminente vuoto della memoria. La metafisica
della perdita e dell’assenza si dà a vedere attraverso una fisica (cioè una visibilità) della
nostalgia. Il rapporto con il passato e con la tradizione si esprime nel film anche con il
riferimento al genere cinematografico del wenyipian, in quegli anni al centro di un felice
revival. Il termine deriva dall’abbreviazione di wenxue (letteratura), yishu (arte) e pian (film),
e indica principalmente il mélo colto ed elegante, di forte matrice letteraria, diverso dal film
di intrattenimento ma disponibile ad accogliere suggestioni della cultura popolare
(soprattutto musicale): un genere molto attento alla centralità dei personaggi femminili,
meno incandescente del mélo cinematografico occidentale e incardinato sull’etica della
rinuncia. Alberto Pezzotta è uno dei primi studiosi a indicare come autorevole fonte
d’ispirazione di In the Mood for Love uno dei capolavori del wenyipian degli anni Quaranta,
il superbo dramma familiare Xiao cheng zhi chun (Primavera in una piccola città, 1948) di Fei
Mu.
Il confronto di In the Mood for Love con il cinema del passato non esclude tuttavia una
revisione delle dinamiche di relazione. Se è vero, come ha osservato Stephen Teo, che la
scelta finale – più voluta da Su che da Chow – del definitivo “ritorno a casa” si rifà alla
pedagogia della rettitudine che informa la tradizione, a tratti moralistica, del melò cinese, è
altresì vero che il rischio del moralismo si stempera nella volontà dei due coniugi traditi di
sottrarsi al conformismo dell’adulterio borghese. Quel «noi non saremo mai come loro»
suona allora non tanto come un giudizio morale quanto come il desiderio orgoglioso di
affermare – anche al costo della sua negazione – un’esclusività amorosa libera dai vincoli
sociali, dai sotterfugi, dalle bugie, dagli sdoppiamenti di ruolo (conosciuti molto bene da Su,
efficiente e professionale complice dell’adulterio del suo datore di lavoro). Wong Kar-wai
d’altronde non è un moralista: a testimoniarlo è l’inquadratura della moglie di Chow ripresa
in lacrime all’interno della doccia.
La fine di In the Mood for Love è scandita da un cartello che è quasi una dichiarazione di
sguardo. «Quando ripensa a quegli anni lontani è come se li guardasse attraverso un vetro
impolverato. Il passato è qualcosa che può vedere, ma non può toccare. E tutto ciò che vede
è sfocato e indistinto». I testi evocano la difficoltà di mettere a fuoco il passato, ma
soprattutto di toccarlo: poter toccare significa sentire l’altro, mentre il vedere è lo statuto
della distanza, quindi della solitudine e del ricordo. Nel film questa difficoltà legata
all’opacità della memoria si esprime con precise scelte di stile: la più importante consiste nel
ridurre lo spazio abitabile della scena attraverso l’uso quasi ordinario dello slit staging.
Spesso le stanze sono filmate attraverso una porta spalancata o socchiusa, i vetri di una
finestra, l’apertura di una tenda, altre volte invece la settorializzazione del campo è dettata
dalla struttura stessa della location (un corridoio, le scale). In tutti i casi la scena è visibile
solo in una sua minima porzione, di solito in una sezione verticale centrale o laterale, chiusa
tra una o più bande verticali scure. Lo slit staging posiziona la cinepresa all’esterno di una
soglia: il punto di vista fa sentire la sua presenza e rafforza una divisione tra vedente e
veduto che non può colmarsi, anche quando le distanze sono ridotte. È un punto di vista
distaccato ma intrusivo, come se volesse insinuarsi nella scena per intravedere di nascosto,
con un gesto che ha sicuramente qualcosa di voyeuristico (amplificato dalla presenza di
tende, veli, finestre, fessure di porte ecc.). A volte però lo sguardo è anche limitato e
parziale, perché, proprio come i voyeur, non riesce a guardare come e dove vuole. Lo
spettatore, come ha dichiarato lo stesso Wong Kar-wai, deve sentirsi come se uno dei vicini
della coppia guardasse per lui, insinuando il suo sguardo attraverso un metaforico (ma non
troppo) buco della serratura, tra le fessure di una storia che non gli appartiene ma che si sta
sviluppando lì accanto. È davvero il contrario esatto del posizionamento classico, in cui lo
spettatore era sempre nella posizione migliore per ricevere tutte le informazioni necessarie.
Altre volte invece lo sguardo della cinepresa si libera da ostacoli e condizionamenti,
diventando quasi ubiquo e onnipotente, capace di infilarsi con disinvoltura in ogni spazio (ad
esempio all’interno di un armadio, accanto alla moglie di Chow piangente sotto la doccia,
sotto il letto della stanza d’albergo a Singapore). In alcuni momenti sembra anche che la
cinepresa dimentichi la preoccupazione di non farsi vedere, cercando di incontrare lo
sguardo dei due protagonisti. Il punto di vista oggettivo della macchina da presa è come se
volesse attestare la propria presenza dentro la scena, in quel momento. In tutti i casi è come
se la cinepresa volesse attestare la propria presenza dentro la scena, in quel momento:
immergersi dentro il passato e «presentificarlo». Contemporaneamente, ribadisce però la
propria arbitraria esclusione di frammenti fondamentali del mondo rappresentato:
l’esempio più macroscopico sono i volti dei due coniugi, naturalmente.
Un’altra messa a distanza importante è quella che separa il corridoio dagli appartamenti. Se
questi nascondono la visibilità, istituendo una parvenza d’intimità ma anche un’interdizione
(Su vorrebbe entrare nell’appartamento di Chow e sua moglie per vedere se il marito è con
quest’ultima, ma non può farlo), il corridoio è invece uno spazio pubblico che predispone i
due protagonisti ai primi contatti, ma è anche uno spazio normativo e repressivo che li
espone anche agli occhi giudicanti del vicinato. Un’analoga strategia di riduzione della
visibilità della scena e di divisione tra campo e fuori campo è data dall’uso degli specchi: le
ricorrenti immagini riflesse, infatti, sono l’impronta visibile di qualcosa che esiste ma che
non è visibile direttamente, proprio perché collocato nel fuori campo. Invece di estendere e
approfondire la visione, gli specchi aumentano le distanze rispetto a ciò che riflettono, quasi
come le lenti di un cannocchiale rovesciato. Le immagini riflesse creano un disorientamento
percettivo, al punto che in alcune inquadrature non è chiaro se i personaggi sono filmati
direttamente oppure attraverso lo specchio. La confusione nasce anche dalla
moltiplicazione, spesso metaforica, dei doppi. La trasformazione della materialità del corpo
nell’inconsistenza replicabile di un’immagine riflessa compromette una rappresentazione
completa dei personaggi e la loro centralità nello spazio. Questa messa in crisi del corpo si
esprime anche attraverso altre soluzioni di cadrage. Per esempio nell’evidenza figurativa e
plastica degli oggetti, spesso inquadrati in dettaglio, con una solidità quasi tangibile che
contrasta con la sfocatura delle figure umane talora percepibili sullo sfondo. Un’ulteriore
aggressione alla centralità della figura umana è data dal frequente sezionamento del corpo,
una scelta stilistica chiaramente influenzata da Bresson, dal primo Godard e da Antonioni. Il
film è pieno di inquadrature che riprendono solo alcuni elementi dei corpi.
L’estrema conseguenza del ridimensionamento della figura umana è la sua sparizione: una
circostanza che si realizza non solo, come si vedrà, nel finale, ma anche in altri luoghi del
film, scanditi dalla ricorrenza di campi vuoti, privi di personaggi. L’evidenza degli oggetti, il
sezionamento dei corpi, la loro provvisoria o definitiva sparizione dall’inquadratura sono
solo aspetti di una più ampia prevaricazione degli spazi sui corpi. I primi sembrano esistere a
prescindere dai secondi. Molto spesso, per esempio, come osserva lo stesso regista, la
macchina da presa parte dall’ambiente, cioè apre l’inquadratura su un oggetto, un muro o
un elemento scenografico, per poi spostarsi lateralmente a riprendere Chow o Su. I muri
scrostati che chiudono il perimetro delle conversazioni notturne dei due protagonisti
precludono all’immagine la possibilità di aprirsi una fuga almeno lungo l’asse della
profondità. Il destino dei personaggi resta la claustrazione, il soffocamento, persino la
paralisi. Verso il finale, quando ormai è chiaro che tra Chow e Su non potrà nascere alcuna
relazione, lo spazio immobilizza letteralmente i due protagonisti. Fino alla sparizione dei
corpi stessi (che giungerà a compimento nel finale): ci si sofferma su campi vuoti, per
mostrare allo spettatore che la figura umana non esaurisce mai il discorso, che l’ambiente
ha una sua autonomia significante.
Gli stessi vestiti (i qipao) di Maggie Cheung sono superfici che esercitano sul personaggio la
stessa egemonia soffocante dei muri appena descritti, innalzando una sorta di parete tra la
donna e l’uomo che la ama. Parimenti, il tatto è importante nel film, ma – a differenza che in
Lezioni di piano – solo per sottolineare l’assenza di contatto tra i due protagonisti (in una
prima versione i due dovevano amarsi appassionatamente nella stanza 2046). Al di là di
queste soluzioni di chiusura dello spazio e dei corpi, si può notare come la prospettiva di
costruzione della scena sia al tempo stesso pluriscopica e selettiva. Wong Kar-wai moltiplica
i punti di vista, muovendosi a 360° dentro il set degli ambienti, con angolazioni marcate e
inconsuete, frequenti disorientamenti percettivi, scavalcamenti di campo, falsi raccordi. A
questa estensività dello sguardo corrisponde una tendenza alla frammentazione irreversibile
della scena, il cui sezionamento non restituisce mai le coordinate di uno spazio omogeneo.
Il prima e il dopo non ricompongono un racconto leggibile, ma aprono dei vuoti, denunciano
delle mancanze, non tanto sul piano dell’ordine degli eventi, quanto piuttosto sul piano
della durata. Wong Kar-wai ricorre spesso alla logica sottrattiva dell’ellissi, cioè
all’eliminazione di eventi e porzioni di tempo. Si pensi all’ellissi forse più intensa del film:
Chow attende l’arrivo di Su nella sua stanza d’albergo. Wong Kar-wai filma l’approssimarsi di
Su alla stanza attraverso un montaggio iterativo: moltiplica con brevi inquadrature il passo
della donna e il suo ripetuto saliscendi lungo le scale, indizio di un’evidente esitazione. Alla
dilatazione di questo micro-evento segue la totale elisione dell’incontro tra i due
protagonisti. La sfaldatura del tempo narrativo passa anche attraverso la logica della
ripetizione. La struttura ritmica del film è scandita da temi musicali, visivi e narrativi che si
ripetono incessantemente. La ripetizione di eventi simili serve soprattutto per mettere in
luce le loro differenze. Nella prima parte del film, Wong Kar-wai riprende una situazione
pressoché identica che si ripropone in tre momenti diversi: Su, filmata in ralenti, si reca di
sera al noodle shop per comprare delle cibarie e sulla strada incontra Chow.
Wong Kar-wai ama ripetere che In the Mood for Love è quasi un thriller hitchcockiano,
perché alcuni eventi essenziali accadono nel fuori campo, alimentando la suspense negli
spettatori. Il paragone, per quanto suggerito dal regista, non convince del tutto, ma è
indubbio che al centro del film vi sia una detection. Su e Chow vogliono riportare alla luce
l’inenarrato (la storia clandestina dei loro partner) per interrogarsi su un mistero (il movente
e la genesi dell’adulterio). Indagare vuol dire provare a ricostruire i pensieri e le azioni dei
potenziali colpevoli, o calarsi dentro il punto di vista di ciò che si sta osservando. E
soprattutto significa ricomporre una storia, attività prediletta dai protagonisti, se si ricorda
che i due sono appassionati lettori, e che i momenti di più forte intimità li raggiungono
quando scrivono insieme racconti di arti marziali. Chow e Su tentano quindi di ricostruire la
storia dell’altra coppia. Il regista decide di non far vedere mai i volti dei coniugi, in modo da
rendere più efficace la presa in carico delle loro identità da parte dei due protagonisti. La
possibile contrapposizione tra due modelli femminili (fot. 82) non trova però successive
conferme: da quando Su decide di recitare il ruolo della moglie di Chow, quest’ultima
scompare dal film. L’identificazione tra il personaggio e il suo doppio porta spesso al
disorientamento: in alcune sequenze sembra che i due protagonisti si parlino direttamente,
e solo in un secondo momento si capisce che in realtà stanno provando una scena, usando
le parole che forse potrebbero aver pronunciato i loro partner. Gradualmente, tuttavia, essi
trasformano la ricerca di una soluzione alla domanda che li tortura (perché è accaduto?) in
un’indagine su loro stessi, proprio come avviene nelle detection più moderne.Il loro
incontro, segnato insieme dal pudore e da una sperimentazione spregiudicata, è soprattutto
legato alla creatività: la scrittura si configura non come attività solitaria ma come processo
di coppia. Ma perché mettono su questo teatro personale in cui fingono di essere i propri
coniugi fedifraghi? Ciò che gli impedisce di vivere in prima persona una storia d’amore non è
semplicemente un giudizio morale sull’altra coppia, né un timore di degradarsi
personalmente. Al contrario, lungi da ogni moralismo, c’è un elemento creativo anche in
questo aspetto del loro incontro. I due cercano infatti di investigare i sentimenti degli altri,
ed evidentemente anche i propri, tramite la performance. Se i due scelgono
consapevolmente di non amarsi, è anche perché è come se sentissero che nella perdita
stessa, nella mancanza, stesse il nodo stesso del desiderio. Sono consapevoli della natura
per definizione inafferrabile del desiderio, che condanna il soggetto ad una inesauribile
melanconia per un oggetto perduto o forse, appunto, mai afferrato. Nel film c’è dunque una
dimensione di nostalgia legata al passato effettivamente perduto; ma il senso di vuoto
incolmabile riguarda in verità ogni aspetto del vissuto, anche il presente. Come se l’intera
esistenza umana fosse caratterizzata dall’impossibilità di possedere e catturare alcunché.
La sparizione finale di Chow, con la macchina da presa che invece, continua a filmare lo
spazio delle rovine, è il trionfo del fuori campo, dell’invisibile, dell’assente: tutte dimensioni
a cui le immagini del film sembrano rinviare, a volte contrastandole, ma senza successo. Il
film intero sembra generato da un fuori campo assoluto quasi mai reversibile, che
comprende molte cose: lo spazio di Hong Kong al di fuori della comunità di Shanghai, le due
storie d’amore, quella consumata e quella mai vissuta, l’infanzia di Wong Kar-wai.
17) GLI UNIVERSI DI DAVID LYNCH
Lynch è una figura eccentrica nelle industrie mediali contemporanee. Col suo cinema, egli
crea universi articolati e complessi, ma caratterizzati dalla ricorrenza di alcuni elementi
dell’immaginario che li rendono fortemente riconoscibili. Gli universi che costruisce sono
decisamente distaccati da qualunque idea di «narrazione verosimile», e orientati invece a
una proliferazione apparentemente incontrollata, spesso oscura e morbosa, di traiettorie
narrative e dinamiche della soggettività.
Una cittadina di provincia rivela gli elementi disturbanti e orripilanti nascosti sotto la sua
superficie.Influenza surrealista e dei discorsi psicoanalitici (complesso edipico).
LA PSICHE E IL CORPO
La chiave di tutta l’opera di Lynch è quella dell’oggettivazione di complesse configurazioni
psichiche in una forma narrativa e visiva. Questo significa andare molto oltre la dimensione
cognitiva e intellettuale. Un cinema del SENTIRE (sia nel senso del percepire le emozioni, sia
in senso uditivo → importanza del sonoro e della musica). Tentativo di immergere lo
spettatore in un incontro con l’irrappresentabile e l’ineffabile, con tutto ciò che resiste
all’interpretazione e alla parola, con l’orrore del fantasma originario, che si colloca al di là
del linguaggio in una dimensione di pura intensità.
L’incontro con la tv rappresenta per Lynch «un punto di non ritorno»: le travagliate vicende
produttive lo ispirano a rompere e rifrangere tutte le narrazioni successive (con l’eccezione
di A Straight Story, Una storia vera, 1999), sperimentando con racconti dai percorsi sempre
più lunghi e complessi. Anche il sequel che gli viene proposto per risolvere la narrazione
rimasta sospesa di Twin Peaks, viene trasformato in un prequel che complica ancora di più le
cose: Fire Walk with Me (Fuoco cammina con me, 1992). Lo stesso Mulholland Drive in
origine doveva essere una serie televisiva, che viene poi cancellata dai produttori prima
ancora di mandare in onda l’episodio pilota. Il girato diventa poi un film, integrato con
materiale nuovo, grazie all’arrivo di capitali francesi.
Il film si presenta come enigma da interpretare sia per i personaggi che per gli
spettatori.L’esperienza sensoriale – magari in uno stato di percezione alterata - è
importante in tutta la sua complessità, proprio a fronte di una difficoltà di leggere il mondo
secondo le consuete categorie razionali.
ESEMPI:
The Game e Fight Club (David Fincher, 1997 e 1999)
Eternal Sunshine of the Spotless Mind (Se mi lasci ti cancello, Michel Gondry, 2004)
Il gabinetto del dottor Caligari e l’espressionismo tedesco, il noir (in particolare film come La
donna del ritratto di Lang e Vertigine/Laura di Preminger, entrambi del 1944), Rashomon di
Kurosawa, L’année dernière à Marienbad (L’anno scorso a Marienbad, Alain Resnais, 1961),
Blow Up (Michelangelo Antonioni, 1966), L’homme qui ment (L’uomo che mente, Alain
Robbe-Grillet, 1968) e tutto il cinema di Buñuel.
Punti di vibrazione: punti oscuri, in cui il film espone la propria struttura in maniera più
complessa e proprio per questo potenzialmente chiarificatrice. Il più importante di tutti
riguarda la sequenza del Club Silencio e gli avvenimenti immediatamente successivi. Ma anche
l’inizio è una sede interpretativa cruciale.
BIPARTIZIONE DEL FILM
SOGNO: (⅗ del film) Paradossalmente organizzato in modo più lineare, anche se su più fili
narrativi. Betty ringrazia la zia di averla ospitata «in this dreamplace».
REALTÀ: (⅖ del film) Strutturata su rimandi continui con una dimensione allucinatoria e
soprattutto su andirivieni tra passato e presente. L’intero materiale narrativo si concentra
però sul personaggio di Diane.
Tra la prima e la seconda parte i rapporti di potere tra i personaggi femminili sono rovesciati.
Nella prima parte, Betty è una delle incarnazioni del Bene come concepito da Lynch: ha un
grande entusiasmo, un forte senso dell’avventura e uno spirito investigativo spiccato, ma
anche una straordinaria capacità recitativa. Domina insomma sia il registro del vero che quello
del falso, quello della realtà e quello della performance.
Nel fugace incontro/scambio di sguardi con Adam all’audizione, sembra adombrarsi un
riconoscimento delle sue qualità e forse perfino un interesse romantico.
Un film come Mulholland Drive si presenta subito con un’ambiguità testuale così evidente
da richiedere non solo all’analista, ma anche allo spettatore l’impegno di un lavoro
interpretativo; è un film che occulta una serie di elementi diegetici rilevanti e quindi esprime
la necessità di scoprire quello che non è esplicitamente oggettivato. All’ambiguità
strutturale di un testo non scientifico, Mulholland Drive aggiunge un’ambiguità ulteriore e
molto particolare. Com’è noto, poco dopo la metà del film, le due attrici protagoniste
assumono nell’orizzonte diegetico ruoli narrativi, identità di personaggi e nomi differenti.
Betty Elms diventa Diane Selwyn e Rita diventa Camilla Rhodes. Lo spettatore non può non
interrogarsi sulla logica narrativa di questo cambiamento. Il testo impone allo spettatore di
dare una o più risposte logiche a questa mutazione di soggettività, e al conseguente
rovesciamento di ruoli psicologici e di rapporti interpersonali tra le due protagoniste.
Mulholland Drive, come L’année dernière à Marienbad (L’anno scorso a Marienbad, Alain
Resnais, 1961), come Le charme discret de la bourgeoisie (Il fascino discreto della borghesia,
Luis Buñuel, 1972), come L’homme qui ment (L’uomo che mente, Alain Robbe-Grillet, 1968),
è un film che installa lo spettatore nell’enigma e lo fa diventare, volente o nolente, uno
spettatore attivo e problematico, uno spettatore che cerca di capire un testo che non è
chiaro, né lineare: lo fa diventare un interprete necessariamente impegnato.
Mulholland Drive non è tuttavia il primo film di Lynch che presenta rovesciamenti improvvisi
della scena diegetica, cambiamenti della struttura dei personaggi, situazioni oscure o
misteriose che è difficile interpretare. Da Eraserhead (Eraserhead – La mente che cancella,
1978) a Twin Peaks (serie tv, 1990-1991) e Twin Peaks. Fire Walk with Me (Fuoco cammina
con me, 1992) sino a Lost Highway (Strade perdute, 1996), Lynch lavora ossessivamente
sull’orizzonte dell’inatteso, dell’irrazionale e dell’enigma, radicati all’interno
dell’esistente.Nell’interpretazione sembra più produttivo scegliere i passaggi di maggiore
pregnanza, che sono spesso i passaggi più oscuri, più contraddittori: quei luoghi del testo
che possono essere interpretati solo in relazione al non esplicitato, alle latenze. Si tratta di
scegliere cioè i punti di oscurità del testo che ne sono anche i punti di vibrazione, i momenti
di maggiore intensità, i luoghi in cui il senso è meno chiaro e, proprio per questo, più
problematico e forse più interessante. I punti di vibrazione sono gli aspetti di particolarità e
di singolarità testuale che possiamo incontrare in un film o in un romanzo. La particolarità si
configura quindi come differenza, come anomalia rispetto agli standard diffusi, come
singolarità di un’opzione compositiva. Spesso i punti oscuri sono anche punti in cui è attiva
una componente di autoanalisi del testo stesso, che insieme esibisce e nasconde il proprio
senso. L’attenzione prioritaria ai punti di vibrazione ha una rilevanza metodologica, pur
senza minimamente consolidarsi in una regola di metodo.
L’analisi può iniziare dal segmento finale della prima parte di Mulholland Drive, nel
momento del passaggio da un mondo diegetico a un altro, da un’identità all’altra delle due
protagoniste. È un segmento che presenta immagini ambigue ed enigmatiche che si
sviluppano in spazi e contesti diversi. Dopo l’esperienza al Club Silencio, Rita, con la parrucca
bionda, e Betty rientrano a casa. Betty posa la scatoletta blu sul letto e scompare. Rita
prende la cappelliera ed estrae una borsa. Poi cerca Betty invano. Dalla borsa prende una
piccola chiave blu con cui riesce ad aprire la scatoletta. La mdp entra all’interno della scatola
e si immerge in profondità nella prima immagine tutta in nero. Poi la scatola cade a terra.
Nella camera vuota entra la zia di Betty, si guarda intorno ed esce. Immagine di uno spazio
immerso nell’oscurità con l’unica luce di una finestra. Altra immagine della camera da letto.
Seconda immagine dello spazio oscuro con la luce: la mdp si muove, scopre un’altra luce e
infine mostra una donna sul letto, nella stessa posizione in cui era il cadavere del bungalow
17. Appare il cowboy e dice: «Hey, pretty girl… Time to wake up». Nero. Nuova immagine
della donna a letto: il corpo è in decomposizione. Ancora il cowboy. Lungo nero. Di nuovo lo
spazio della camera del bungalow. La mdp si avvicina al letto: la donna comincia a muoversi
e si alza. Ha le fattezze di Betty, ma l’espressione è diversa.A questo punto inizia la seconda
parte del film, il segmento B. Betty è diventata Diane Selwyn e Rita è Camilla Rhodes. Siamo
ancora a Los Angeles, ma tutto (o quasi) è diverso: caratteri e funzioni dei personaggi,
interrelazioni tra gli stessi, rapporti psicologici e di potere, figure dell’immaginario.
Mulholland Drive presenta un altro mondo immaginario, parallelo, alternativo o intrecciato
al primo. Diventa un altro film, e insieme resta lo stesso film, realizzando una nuova forma,
multipla, contraddittoria e indubbiamente affascinante. Il cambiamento del nome,
dell’identità dei ruoli e dei rapporti tra le due protagoniste femminili si precisa
ulteriormente nelle sequenze successive, che propongono personaggi inseriti in contesti
operativi e psichici profondamente diversi. Lo spettatore osserva una differente dinamica di
rapporti e rileva innanzitutto che la relazione di dipendenza di Rita da Betty è nel mondo
diegetico successivamente delineato, sostanzialmente rovesciato. Nella seconda parte del
film la donna che gestisce il potere è la bruna, che ora si chiama Camilla Rhodes, mentre la
bionda Diane si trova in una posizione di doppia subalternità. È lasciata dalla donna di cui è
innamorata e si trova in una situazione di emarginazione sul lavoro e nella vita sociale. Poi lo
spettatore incontra altri personaggi, che aveva già visto nella prima parte. Sono personaggi
che presentano due tipologie. Alcuni giocano un ruolo diverso da quello svolto nel primo
macrosegmento: ad esempio Coco, la tuttofare del complesso residenziale della zia di Betty,
diventa la madre di Adam; il misterioso cowboy del segmento A diventa nel segmento B un
commensale secondario del pranzo da Adam. Altri personaggi recitano il medesimo ruolo,
ma presentano caratteristiche opposte. Il regista Adam che nella prima parte è tradito dalla
moglie, non può fare il proprio film ed è perseguitato dalla mafia; nella seconda parte è
invece un regista affermato che annuncia di sposarsi con Camilla. Il killer a pagamento, che
dimostrava un’assoluta approssimazione professionale nel primo segmento, si rivela invece
efficiente nella seconda parte, compiendo l’omicidio di Camilla commissionato da Diane.
Questo impegno analitico dedicato alle configurazioni del mondo diegetico, naturalmente, è
qualcosa che la struttura testuale stessa impone e che riflette quindi l’esigenza di
decifrazione della rifigurazione dell’orizzonte del racconto che caratterizza il film in
profondità. Il film è costruito secondo un modo particolare di configurazione degli eventi,
che costituisce di per sé un esplicito elemento di autoqualificazione e di autodecostruzione
del testo stesso. Le configurazioni narrative del tempo, inoltre, costituiscono un aspetto
essenziale nella produzione del senso. In Mulholland Drive la configurazione temporale degli
eventi narrati costituisce un’evidente anomalia rispetto ai mondi diegetici e alle strutture
narrative diffuse, e l’interpretazione non può non cercare di comprenderla.
La comprensione del mondo diegetico e dell’immaginario può in ogni modo articolarsi in
almeno tre prospettive di interpretazione. Secondo una prima linea, l’interpretazione
dell’immaginario può avvalersi di molteplici saperi, che vanno dalla psicoanalisi alla
psicologia sociale, dalla filosofia agli studi letterari e di storia dell’arte, oltre che di cinema, e
cogliere nel testo la presenza di strutture e di situazioni immaginarie forti. Una seconda
linea analitica, non meno importante, punta invece all’interpretazione delle configurazioni
dell’immaginario, cioè dei modi di configurazione del visibile e degli eventi delineati nella
scena immaginaria, e quindi ai modi di oggettivazione e di formalizzazione dell’immaginario
stesso. In una terza prospettiva, l’interpretazione dell’immaginario si lega ai modi di
oggettivazione immaginaria del soggetto e ai meccanismi di autoriconoscimento dello
spettatore. L’analisi di Mulholland Drive può quindi svilupparsi su più linee. Da un lato, può
studiare le molteplici configurazioni visive del film e i differenti registri dell’immagine che vi
sono attivati. Dall’altro, può individuare le figure profonde dell’inconscio e dell’immaginario
che vivono nel film e interpretarne la funzione nel testo. La disgregazione del mondo visibile
e il suo dissolvimento, infatti, sono esplicitamente realizzati nel segmento citato, in cui si
condensa una serie di immagini di particolare intensità e di indubbia enigmaticità. Il
segmento in cui appare la scatola blu è infatti assolutamente ambiguo e misterioso, e si
configura come un tessuto filmico dall’alto coefficiente simbolico, oltre che dall’indubbia
forza emozionale. La penetrazione nell’interno della scatola blu grazie alla chiave –
anch’essa blu – determina una svolta nel tessuto del film, aprendo alla produzione di
molteplici significazioni possibili e di ulteriori potenzialità interpretative. L’enigmaticità della
scatola, fra l’altro, non può non ricordare l’enigmaticità di un’altra scatola famosa
dell’universo del cinema, la scatola di Un chien andalou (Luis Buñuel, 1929). Il segmento
della scatola blu e poi del risveglio di Diane nella propria casa costituisce quindi il momento
oscuro di passaggio da un regime dell’immagine all’altro, forse dal sogno alla veglia, e al
tempo stesso rivela due orizzonti esistenziali e alcune configurazioni di personaggi
radicalmente diversi. La dialettica di rivelazione delle situazioni e dei personaggi
dell’orizzonte onirico grazie alla finale irruzione del mondo, riflette d’altronde un modello
strutturale che ha in Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, Robert
Wiene, 1920) e in The Woman in the Window (La donna del ritratto, Fritz Lang, 1944) due
modelli estremamente significativi: nella seconda parte del film, i personaggi e le scene della
prima parte si rivelano interni a un racconto allucinatorio o onirico e assumono la loro
configurazione veridica. Insieme, nell’orizzonte dei riferimenti cinematografici, Mulholland
Drive diventa nel 2000 la rielaborazione e il doppio differenziale e simbolico di Sunset
Boulevard (Viale del tramonto, Billy Wilder, 1950), che era stato insieme un film e un luogo
simbolico del cinema hollywoodiano: non a caso, nella parte iniziale del film, dopo l’insegna
stradale di Mulholland Drive, vediamo anche l’insegna di Sunset Boulevard. Nella
toponomastica di Los Angeles, Mulholland Drive si sostituisce a Sunset Boulevard: una
strada che sale sulle colline a nord sopra Hollywood, che si sviluppa tortuosa, una strada
anche pericolosa subentra allo splendore di Sunset Boulevard (West), che era la strada dei
divi e delle grandi ville con parchi. La grande Hollywood è svanita. Resta l’ambiguità e il
pericolo della nuova Los Angeles. Il meccanismo della citazione diretta o indiretta, che
ritorna più volte nel film, è d’altra parte attivato in diversi altri film di Lynch, e segnatamente
in Lost Highway, in cui le immagini e i personaggi del noir e del thriller classico sono più volte
e variamente rifigurati: da Double Indemnity (La fiamma del peccato, Billy Wilder, 1944) a
Vertigo (La donna che visse due volte, Alfred Hitchcock, 1958), da Kiss Me, Deadly (Un bacio
e una pistola, Robert Aldrich, 1955) allo stesso Sunset Boulevard, mentre la protagonista
riprende il modello iconico di Barbara Stanwick. Nel film hanno importanza cruciale gli
oggetti: la chiave (che rimanda a Hitchcock, sia in Notorious, 1946 che in Dial M for Murder,
Delitto perfetto, 1954 e Rear Window, La finestra sul cortile, 1954), i telefoni, la lampada, le
tazzine, la borsa, la scatola (cfr. la scatola misteriosa di Un chien andalou). La (seconda)
chiave blu e il posacenere sono gli oggetti che nel segmento B, con la loro presenza, ci fanno
capire in che momento temporale siamo (presente = chiave; passato = posacenere). Un
riferimento particolare è Meshes of the Afternoon (1944), film sperimentale della regista
Maya Deren che condivide con Mulholland Drive l’ambientazione losangelina molto
suggestiva, una protagonista femminile e la centralità accordata ad una misteriosa chiave.
Grazie alla precisa indicazione della dimensione del sogno e del risveglio, il film può quindi
apparire come una struttura narrativa caratterizzata da una prima lunga sezione onirica e da
una seconda sezione in cui alcuni momenti del presente sono integrati da segmenti
memoriali e da immagini palesemente allucinatorie. Attraverso un processo di
interpretazione delle tracce inscritte nella sequenza centrale e mediante una decifrazione
degli eventi narrati nella seconda parte, nell’universo di Diane, è possibile quindi ridefinire
l’orizzonte diegetico del film, collocando gli eventi narrati secondo un asse cronologico e
attraverso un’identificazione del registro particolare delle immagini. Al contrario, la
dimensione temporale sembra presentare una sorta di linearità progressiva e non attiva
nessun salto o nessuna inversione. Nella seconda parte, nell’universo di Diane, riconducibile
all’orizzonte fenomenico e memoriale, invece, la temporalità è fortemente frammentata e le
immagini del passato, fra l’altro proposte in maniera discontinua e non cronologica, sono al
contrario dominanti. Alla discontinuità temporale si contrappone tuttavia una continuità
narrativa, perché tutte le immagini della seconda parte ruotano attorno a Diane, che ne
costituisce il vettore centrale. L’irragionevolezza della prima parte è quindi interpretabile
secondo i saperi e le metodologie di Freud, che, com’è noto, ha individuato nel lavoro del
sogno la mescolanza di fantasmi inconsci e di materiali mnestici legati al quotidiano e vi ha
distinto quattro fasi: la condensazione, lo spostamento della libido, la considerazione di
raffigurabilità del materiale onirico e la revisione finale. In questo intreccio di materiali così
diversificati le immagini del film sembrano appartenere quindi a orizzonti diversi del visibile
e rivelare statuti differenti.
DOPPIO SOGNO
All’interno del film ci siano sequenze che sembrano assumere un senso molteplice, in
quanto diventano rivelatrici di qualcosa che va al di là del mero evento raccontato.
Prendiamo ad esempio il racconto del sogno che un personaggio, Dan, effettua,
probabilmente al proprio psicoanalista, nella prima parte del film. È una sequenza che si
colloca tra due immagini di Rita che dapprima si addormenta e poi si sveglia. Potrebbe
quindi essere considerata come un sogno di Rita, che a sua volta si inserisce in un sogno di
Diane: un meccanismo, piuttosto anomalo, di sogno nel sogno.
METACINEMA
L’orizzonte della psicoanalisi non è in ogni modo l’unica prospettiva interpretativa sollecitata
dal testo. Ci sono anche altre componenti di autoanalisi del film che acquistano una
rilevanza ulteriore nel processo di comprensione. Una delle sequenze più misteriose e più
significative è quella del Club Silencio. La sequenza del Club Silencio e in particolare
l’intervento del presentatore attivano un’esplicita enunciazione del tema e dell’orizzonte del
falso e dell’artificiale che segnano l’inizio del film, vari passaggi del testo e, forse, la sua
stessa struttura generale. Sul palcoscenico del Club Silencio, infatti, il presentatore dice
ripetutamente «Silencio… No hay banda», e più avanti ripete chiaramente «It’s all
recorded», «È tutto registrato», e poi «It’s all a tape», «È tutto un nastro», «It is an illusion»,
«È solo un’illusione». Queste affermazioni enunciano verbalmente quello che lo spettatore
vede, ma che forse non percepisce sempre nella sua significazione piena. La lacrima che la
cantante ha sul volto, infatti, è disegnata, è finta, mentre vere – nell’universo diegetico –
sono soltanto le lacrime e le emozioni delle spettatrici, Betty e Rita. In questo orizzonte di
oggettivazione di un microspettacolo sembra quasi che lo spettatore (le due spettatrici in
questo caso) garantisca l’unica dimensione di autenticità dello spettacolo stesso. Tutto è
artificiale, falso, illusivo. Solo la percezione dello spettatore e le sue reazioni emozionali
sono effettuali, cioè autentiche. Il resto è illusione. Ma uno spettacolo fittizio in cui le uniche
cose vere sono le reazioni degli spettatori è una proiezione cinematografica (in uno
spettacolo teatrale gli attori, le loro performance e le loro parole sono concreti). Lo
spettacolo del Club Silencio dunque assume un’esplicita valenza metacinematografica (e
non metateatrale) e si costituisce come un’evocazione metaforica del dispositivo
cinematografico e del rapporto spettatoriale.
MONDI PARALLELI
Il film in fondo, quale che sia l’interpretazione che scegliamo, mette in scena due mondi
paralleli, entrambi credibili (nel senso di affascinanti e coinvolgenti). Il reale non appare più
univoco, ma doppio e anzi forse molteplice. Nell’immaginario di Lynch, realtà e fantasia,
veglia e sogno, verità e mito, mondo quotidiano e finzione cinematografica, si intrecciano
costantemente ed hanno la medesima importanza. Spesso ci si può – ed anzi ci si deve –
chiedere a quale di questi mondi appartengano le immagini che stiamo vedendo.
Il suo cinema è postmoderno proprio per questo, perché caratterizzato da un dubbio costante
sullo statuto delle immagini.
IL POTENZIALE E IL PERTURBANTE
Nel film, in ogni modo, l’orizzonte del potenziale sembra assumere due articolazioni, due
regimi di attivazione: a) da un lato, il potenziale è l’apertura alla possibilità come
compresenza di universi paralleli, come pluralità dei mondi; b) dall’altro, è l’enigmatico
inquietante e il perturbante. Innanzitutto, il film produce la creazione di una dimensione
ulteriore, che in fondo si costituisce come sintesi di tutti i piani: non solo i piani del sogno,
della memoria, dei fenomeni, dell’allucinazione, ma anche l’orizzonte del possibile. Questa
affermazione del potenziale implica un superamento dell’idea tradizionale di realtà e in
qualche modo l’oltrepassamento della nozione di un essere forte, presente nelle cose.
L’orizzonte del surrealismo è naturalmente un riferimento fondamentale per il mondo
perturbante di Lynch.
IL DOPPIO E L’IDENTITÀ
Il meccanismo dello sdoppiamento dei personaggi femminili, tuttavia, non si attiva soltanto
nei due mondi diegetici diversi che si susseguono nel film, ma investe anche gli stessi
personaggi di Betty/Diane e di Rita-Camilla e le loro dinamiche dell’identità. Nella prima
parte del film la donna bruna, che sfugge ai gangster, e che nel trauma dell’incidente perde
la memoria, è un soggetto debolissimo che cerca con difficoltà la propria identità e tenta di
costruirsi gradualmente una coscienza di sé. Il meccanismo del raddoppiamento e della
duplicazione del soggetto si attiva ulteriormente nell’operazione di travestimento e di
mutazione dell’identità che Rita attua nel primo macrosegmento, quando indossa una
parrucca bionda che la rende un doppio di Betty. Perché Rita con la parrucca bionda
rappresenta in primo luogo proprio la volontà di identificazione del soggetto debole con
l’altro personaggio, che appare come un soggetto più forte, e riflette quindi un tentativo di
costituzione di un’identità solida attraverso l’identità di un altro. Il meccanismo di
duplicazione della soggettività e di identificazione della soggettività debole con la
soggettività forte appare poi ancora più articolato. Perché in uno degli orizzonti di
interpretazione del primo macrosegmento del film, le immagini dello schermo sono il
prodotto del sogno di Diane e quindi si configurano come scene oniriche fortemente
segnate dal desiderio della sognatrice. L’identificazione di Rita/Camilla con Betty/Diane è
quindi l’oggettivazione onirico-schermica del desiderio di Diane di esercitare una funzione
dominante e insieme di modello nei confronti dell’altra donna e diventa quindi la
compensazione psichica realizzata da un soggetto immerso nella frustrazione e nella
disperazione. Tutto è raddoppiato: non solo i piani narrativi e le protagoniste, ma le frasi
riecheggiano ripetutamente, come significanti mobili («This is the Girl/È lei la ragazza»).
Anche l’immagine dei ballerini è sdoppiata, all’inizio. E d’altronde il doppio non caratterizza
le protagoniste solo in relazione alla biforcazione del materiale narrativo, ma anche come
configurazione dei loro percorsi identitari all’interno della storia.
STRADE PERDUTE (1997) E MULHOLLAND DRIVE
Il ruolo del doppio ha sempre avuto un’importanza cruciale nel cinema perturbante di
Lynch. In questi film però tale discorso si estremizza: non sono soltanto i personaggi a
sdoppiarsi, ma l’intera narrazione.
LOS ANGELES
Lost Highway, Mulholland Drive e il successivo Inland Empire portano avanti l’indagine sullo
spazio (si veda il riferimento costante alla categoria della strada) come modo per indagare il
labirinto della psiche, con le sue scorciatoie e i suoi incroci inaspettati. Non si tratta di un
spazio urbano qualsiasi, ma di Los Angeles, città postmoderna per eccellenza. Lo spazio
urbano di Los Angeles è caratterizzato infatti dallo sprawl, ovvero da un’espansione
urbanistica da sempre priva di centro.
Los Angeles è naturalmente uno spazio dominato dalla macchina dei sogni di Hollywood. La
superficie luccicante della città, inquadrata dall’alto, è il regno del trionfo delle immagini.
Lo spazio di Los Angeles è il correlato dello spazio della mente, nel cinema di Lynch, proprio
perché ambedue si alimentano di immagini. E nell’orizzonte di Lynch, il riferimento al
cinema del passato non va visto come semplice citazionismo. Si tratta piuttosto di un vero e
proprio mondo di riferimento, posto sullo stesso piano di tanti altri mondi possibili, o
addirittura più importante di essi.
IDENTIFICAZIONE E DESIDERIO
Il film parla anche dell’intreccio indissolubile – più evidente nelle relazioni omosessuali ma
caratterizzante anche quelle eterosessuali – tra la dimensione dell’identificazione e quella del
desiderio. L’identità stessa non è qualcosa che scaturisce semplicemente dall’interno del
soggetto, bensì un processo di costruzione che può avvenire solo mediante e grazie al
costante confronto/supporto/riscontro dell’Altro.
INTENSITÀ E IMMERSIVITÀ
Il cinema viene ormai esperito sempre più spesso fuori dalle sale cinematografiche. Si tratta
di una situazione già avviatasi, naturalmente, con la televisione negli anni Cinquanta del
Novecento, e negli anni Ottanta con le VHS e l’home video. Oggi il fenomeno acquista però
una rilevanza cruciale, perché con internet e le piattaforme online, c’è una tendenza alla
vera e propria sostituzione delle sale con il contesto domestico. Il salotto di casa non è
d’altronde l’unico spazio in cui il cinema si riloca: si pensi anche alle sale museali, in cui le
immagini in movimento hanno sempre maggiore rilevanza. La domanda di fondo è: con
queste nuove configurazioni dell’ambiente di visione, l’esperienza cambia al punto tale che
ciò che vediamo non può essere più chiamato cinema?Il cinema insomma risiede nei film
come oggetti (a prescindere dalle loro migrazioni tra dispositivi diversi) o in una modalità
specifica di visione? L’unica risposta possibile è l’auspicio di poter continuare a scegliere tra
tutte queste diverse opzioni di visione, ad ognuna delle quali corrisponde una esperienza
spettatoriale diversa.
STORIA DI NETFLIX
● 1997: Reed Hastings e Marc Randolph fondano la compagnia, che fornisce un
servizio di noleggio di film a domicilio
● 2008: implementazione del servizio di streaming on demand
● 2011: scorporazione della consegna a domicilio dei dvd
● q 2013: ingresso nel campo della produzione televisiva, con la serie House of Cards,
creata da Beau Willimon, la cui prima stagione debutta il 1° febbraio di quell’anno (la
serie si concluderà nel 2018).
● 2015: produzione del primo film Netflix, Beasts of No Nation, diretto da Cary
Fukunaga e distribuito il 16 ottobre
● Netflix è disponibile in Italia dal 2015. Il primo film italiano co-prodotto da Netflix è
Slam – tutto per una ragazza (A. Molaioli, 2017), ma il primo film realmente
d’impatto sarà Sulla mia pelle (A. Cremonini, 2018) sulla vicenda Stefano Cucchi; la
prima serie tv co-prodotta da Netflix in Italia è invece Suburra (2017-).
● Ad oggi è accessibile in tutti i paesi del mondo meno Cina, Corea del Nord, Crimea e
Siria. L’interfaccia supporta 23 lingue diverse
● Le piattaforme concorrenti si moltiplicano: non solo Amazon Prime ma Infinity,
NowTv, Tim Vision, AppleTv, Disney+ ecc.
Oltre che una sorta di autobiografia obliqua, il film sembra essere anche un chiaro omaggio
ad una delle più famose scene del neorealismo italiano, ovvero l’incipit di Umberto D, con la
cameriera osservata nei gesti minuti con cui prepara la colazione, afflitta dalla
preoccupazione di una gravidanza fuori dal matrimonio.
Cuarón, con il suo slow cinema, sembra mettere in pratica i precetti del pedinamento
teorizzato da Zavattini al tempo del neorealismo.
LO STILE DI CUARÒN
•La cinepresa indugia a osservare gli spazi della casa, compie come una fenomenologia della
vita della famiglia
•La durata prolungata delle inquadrature (tendenza al long take e al piano sequenza) e l’uso
narrativo della profondità di campo suscitano l’empatia dello spettatore ma richiedono
anche uno sguardo attento
•Questo impiego della cinepresa in modo fortemente osservativo non manca talvolta di
lavorare a fini ironici, come quando ci fa osservare, laconicamente, le cacche del cane nel
vialetto, o le problematiche legate alla macchina troppo grande guidata dai due coniugi
LA DIMENSIONE UDITIVA
Il film manca completamente di colonna sonora extra-diegetica, ma non per questo i suoni
sono meno importanti.
IL RAPPORTO CON IL PASSATO
COSCIENZA DI CLASSE
“ […] The moments the family comes "closer" are fleeting... "She saved our lives" is
promptly followed by "Can you make me a banana shake?”
● Il film è tutto giocato sulle diverse strutture spaziali che oggettivano le differenze di
classe.
“The Class stratas are represented in the film not only in the family but within the
family and the land-owning relatives and even between Fermin and Cleo- when he
insults her in the practice field.”
LE SCENE AL CINEMA
La prima parte del film è puntellata di scene in cui si va (o si dovrebbe andare) al cinema:
1)Cleo si fa convincere da Fermin a non andare al cinema ma a girare per la città con lui… e
andarci a letto;
2)Cleo dice a Fermin di essere incinta, lui finge di reagire bene e poi scappa. Il film in
questione è una commedia su degli aviatori durante la II guerra mondiale, intitolata
significativamente Tre uomini in fuga (La Grande vadrouille, in spagnolo La fuga fantástica,
Gerard Oury, 1966);
oLe svolte narrative del film sono tutte e due incentrate sulla fuga delle figure maschili
o Roma è un film sulla resilienza dei personaggi femminili, lasciati soli da uomini inetti e
codardi, ove non ridicoli e violenti
o Questo discorso non rimane circoscritto all’ambito del privato, ma si sposta, con la figura
di Fermin, anche sul piano storico-politico.
FILM FEMMINISTA O ANTI-FEMMINISTA?
La descrizione di questa alleanza tra donne di diverse classi è un’utopia ingenua, che rischia
di cancellare la crudeltà delle gerarchie sociali? Fare della padrona di Cleo una donna
comprensiva e accudente è un elemento narrativo che annacqua le potenzialità politiche del
film, promuovendo piuttosto una quieta accettazione dello status quo? Critiche ideologiche
come queste non tengono conto che, proprio con lo stile imperturbabile che caratterizza il
film, Cuaron ci rende testimoni di come i vari momenti di vicinanza affettiva tra Cleo e la
famiglia non smentiscano mai la sua collocazione in un ruolo subordinato. Cleo viene
valorizzata dal film nella pienezza della sua posizione intersezionale, ovvero come figura
doppiamente subalterna, in quanto donna e in quanto mizteca.
Uno dei momenti cruciali del film si svolge durante il Massacro del giorno del Corpus Christi
(10 giugno 1971), in cui gli Halcones, formazioni paramilitari utilizzate dal governo di Luis
Echeverría con finalità repressive, caricarono gli studenti che manifestavano per una società
più democratica, uccidendo almeno 25 persone. Si fa più volte menzione del film anche di
un’altra vicenda dolente e problematica della politica messicana di quegli anni, ovvero
l’espropriazione dei terreni dei campesinos da parte del governo stesso.
CIELO E TERRA…
L’inizio e la fine del film enfatizzano questa dimensione di essere «sotto al cielo»,
sottolineando l’irriconciliabile distanza con la terra. La prima immagine del film è infatti
quella del pavimento del vialetto che Cleo sta pulendo dalle feci del cane: il cielo si vede, ma
solo riflesso nell’acqua di cui si copre la terra. Questo rapporto con il cielo riemerge in altri
momenti del film, per esempio quando Cleo e il piccolo Pepe si rilassano fingendo di essere
morti. Anche i film citati nel film, cui facevamo menzione prima, sono film sempre legati al
volare nel cielo, allo spazio. L’impossibilità di superare la distanza tra cielo e terra
corrisponde all’impossibilità di superare le differenze di classe.
...E ACQUA
“The opening shot suggests that earth (the shit-infested ground) and heaven (the plane) are
irreconcilably far even if they are joined -momentarily- and revealed, by water (the
reflection). All truths in ROMA are revealed by water.”
“These planes of existence, like the separation within classes in the household cannot be
broached. […]”.
Come già in Y tu mamà tambien (2002), l’acqua funziona qui come elemento catartico, che
permette, in modi e tempi inaspettati, sia a Cleo che alla famiglia di processare i traumi
affrontati, di sopravvivere ed elaborare la perdita e di andare avanti.
LA GRAZIA DELLA COMBATTENTE
Cleo si afferma nel suo status di vera e propria eroina salvatrice, combatte con le forze della
natura e vince, nonostante non sappia nuotare. Non ci si può illudere che questo cambi
effettivamente la sua vita o la sua posizione all’interno della famiglia, ma almeno costituisce
un percorso di crescita molto significativo. Da un punto di vista simbolico è cruciale infatti
che la sua posizione cambi tra l’inizio e la fine del film: nell’ultima scena la donna si muove
liberamente nello spazio della casa, raggiungendo con la scala il tetto e quasi il cielo.
IL LINGUAGGIO CINEMATOGRAFICO
1) L’INQUADRATURA
Un’abitudine consolidata alla visione ci porta a considerare naturale la successione delle
immagini di un film (o di qualsiasi altro audiovisivo). In realtà il cinema è un linguaggio molto
complesso, frutto di un’attenta costruzione che mira a catturare la fantasia dello spettatore,
ad intrattenerlo e a farlo riflettere sul mondo e su sé stesso.
IL CAMPO
CAMPO LUNGO
TOTALE
CAMPO MEDIO
FIGURA INTERA
PIANO AMERICANO
MEZZA FIGURA
MEZZO PRIMO PIANO
PRIMO PIANO
PRIMISSIMO PIANO
DETTAGLIO
INQUADRATURA A PIOMBO
2) IL MONTAGGIO
Cucire insieme le diverse inquadrature serve a far orientare lo spettatore nello spazio del
film, quasi come se ci potesse abitare. La maggior parte dei film funzionano con un
montaggio il più possibile invisibile, per non distrarre lo spettatore dalla storia che viene
raccontata. Queste regole sono state perfezionate soprattutto a Hollywood tra gli anni ‘10 e
gli anni ‘30.
I DIVERSI TIPI DI MONTAGGIO