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grammaticale o l’insieme dei morfemi grammaticali di una parola è detto anche
desinenza. Se i morfemi grammaticali hanno la funzione principale di variare
la parola per darci le forme del genere, numero, tempo, aspetto, ecc. parliamo
di morfemi flessivi;; se invece hanno anche il potere di cambiare il significato
della parola ed eventualmente la sua categoria grammaticale, parliamo di
morfemi derivativi:
morfemi morfemi morfemi morfemi
lessicali grammaticali - lessicali grammaticali
flessivi derivativi
ragazz- -o ragazz- -ata
am- -are am- -abile
cant- -erei cant- -ata
bell- -e bell- -ezza
La morfologia flessiva è dunque quella che si occupa delle trasformazioni
che la stessa parola subisce per trasmettere diverse informazioni grammaticali
(genere e numero per i nomi, tempo, modo, aspetto, persona per i verbi, ecc.).
La morfologia derivazionale o lessicale si occupa delle trasformazioni di una
parola in un’altra parola di diverso significato e riguarda quindi la formazione
delle parole.
La flessione ha un’importante funzione di economia linguistica: risparmia un
alto numero di elementi linguistici riuscendo a esprimere più cose con forme
sintetiche.
La flessione grammaticale in italiano si realizza attraverso i morfemi
grammaticali che si legano direttamente al morfema lessicale con qualche
eccezione come alcuni tempi verbali che si formano con l’aggiunta
dell’ausiliare (ho mangiato, avevo letto, ecc.);; come i casi in cui si realizza
tramite il cambiamento della vocale radicale (feci/faccio) o lo spostamento
dell’accento (amo/amò).
Anche in italiano quindi esistono casi di morfologia analitica, ma sono in
numero molto minore rispetto alle forme sintetiche. La distinzione tra lingue
analitiche e lingue sintetiche, infatti, si basa sul numero prevalente di forme
autonome (morfemi liberi) o di parole sintetiche (morfemi legati);; la tipologia è
valutata in base alle caratteristiche predominanti.
In ogni lingua dunque esistono sia elementi analitici sia elementi sintetici.
Anche in italiano possiamo avere formazioni analitiche (i verbi con ausiliare;; il
comparativo: più bello, meno grasso, ma a volte convive la forma sintetica
come nel caso di più cattivo e peggiore). Anche in italiano abbiamo morfemi
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legati come le congiunzioni (e, che, ecc.) gli articoli e i pronomi. In qualche
caso alcuni di questi morfemi sono detti semiliberi, perché, come avviene per
gli articoli, possono svolgere la loro funzione solo se legati a un nome.
L’italiano deriva il suo carattere flessivo dal latino. La lentezza con cui l’italiano
è cambiato nei secoli in cui è stata lingua prevalentemente scritta ha fatto sì
che si generasse una forte allomorfia: convivono cioè forme diverse per
esprimere la stessa informazione grammaticale oppure si hanno esiti irregolari,
che cambiano nonostante ci si trovi davanti allo stesso contesto fonetico.
Per es. il plurale di amico è amici (con l’affricata palatale), ma il plurale di cuoco
è cuochi con occlusiva velare. Abbiamo paradigmi di verbi in cui cambia la
vocale della radice: tiene ma teniamo, irregolarità come posso, puoi, possiamo,
potevo, alternanza di radici come vado/andiamo.
Di solito questi allomorfi sono complementari: si escludono a vicenda,
possiamo cioè usare o l’uno o l’altro (non possiamo dire *ando o *vadiamo).
Esiste però anche un’allomorfia libera che fino agli inizi del Novecento si
incontrava spesso soprattutto nei testi scritti: la prima persona dell’imperfetto
poteva essere io amavo o io amava, questione/quistione, ecc. Oggi è rimasta
solo qualche traccia come nell’alternanza devo/debbo che è anche nel
congiuntivo deva/debba, anche se ormai deva quasi non si usa più.
Il carattere flessivo dell’italiano deriva, come si è detto, dal latino, che però
possedeva un grado maggiore di flessività. Il latino, infatti, cambiava desinenza
anche per esprimere la funzione sintattica:
ROS-A (“la rosa”) femminile, singolare, soggetto;;
ROS-AE (“della rosa”) femminile, singolare, genitivo, ecc.;;
Ora in italiano l’espressione della funzione sintattica è esterna alla parola:
avviene tramite preposizioni o tramite la posizione nella frase.
Tutte le forme che possono assumere nomi, verbi, pronomi, ecc.
rappresentano il paradigma (l’insieme di tutte le flessioni possibili). L’italiano
eredita dal latino paradigmi complessi con molte possibilità di flessioni, spesso
irregolari.
I paradigmi nominali sono più opachi: abbiamo gli invariabili, il morfema –e che
può indicare femminile plurale (rose) ma anche maschile singolare (cane);; il
morfema –i che può indicare anche il plurale femminile (mani), ecc.
Molto più trasparenti sono i paradigmi dei verbi, che indicano in un solo
morfema la persona, il tempo, il modo, l’aspetto (cant-avamo).
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1. La classe dei nomi in -o / plur. -i: soldato/-i, lupo/-i, fatto/-i. Sono tutti
maschili, con eccezioni come mano/-i che è femminile.
2. La classe dei nomi in -a / plur. -e: donna/-e, cicala/-e, causa/-e. Sono tutti
femminili.
3. La classe dei nomi in -e / plur. -i: occasione/-i, fiore/-i. Sono sia maschili
sia femminili, con l’eccezione di il carcere maschile al singolare e
femminile al plurale: le carceri.
4. La classe dei nomi invariabili: re, virtù, caffè, città, ecc. Sono sia maschili
sia femminili.
5. La classe dei nomi in -a / plur. -i: poeta/-i, papa/-i. Sono maschili con
l’eccezione di arma/-i, ala/-i che sono femminili.
6. La classe dei nomi in -o / plur. -a: dito/-a, ciglio/-a. Sono maschili al
singolare e femminili al plurale.
Le classi 1, 2 e 4 sono ancora produttive: si formano cioè ancora parole
maschili in -o/-i e femminili in -a/-e e il patrimonio lessicale continua ad
arricchirsi di parole invariabili. Sono ancora attive anche la classe 3, per le
parole formate con -tore, -trice, -zione e dai participi presenti (redattore,
redattrice, attore, cantante), e la classe 5 per la formazione di parole che
finiscono in -ista (giornalista) o in -ma per formazioni dal greco (enzima).
La classe 6 non è più produttiva. Non si formano più plurali in -a che derivavano
direttamente dal latino. Per molte di queste parole, infatti, si è affiancato anche
un plurale in -i: il lenzuolo, le lenzuola/i lenzuoli;; il braccio, le braccia/i bracci;; il
muro, le mura/i muri, ma in molti casi il significato dei due plurali può essere
diverso.
La classe 4 nell’italiano antico comprendeva soltanto i monosillabi (re, gru, tre,
ecc.);; in seguito si sono aggiunte le parole tronche (accentate sull’ultima
vocale) derivate da parole che avevano subito un’apocope:
virtu(de)/virtu(di) > virtù
Oggi le parole invariabili, riconducibili alla classe 4, sono molte di più e
comprendono:
- prestiti da altre lingue: bar, computer, sport;;
- parole in -a: mascara;;
- parole in -e: specie;;
- parole in -i: crisi;;
- parole in -o: radio.
È una classe di parole che in italiano si va sempre più ampliando, anche grazie
al fatto che i recenti prestiti dalle lingue straniere non sono più adattati alle
forme della nostra lingua.
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La categoria del numero in questi casi è espressa dagli articoli o anche dal
verbo o dal contesto e così via. La stessa cosa in questi casi e per i nomi della
classe 3 vale per il genere che non è espresso dalla desinenza ma da altri
elementi.
I prestiti integrali dalle lingue straniere e, in particolare, dall’inglese vanno di
solito ad arricchire il serbatoio delle parole invariabili. La norma prevede infatti
che il plurale con –s finale in italiano non sia espresso (il computer / i
computer). La norma è bene rispettata anche per i prestiti che terminano in –o
e che potrebbero essere assimilati ai nomi della classe 1 (il video / i video, il
jumbo / i jumbo). Nell’italiano popolare accade spesso però che la –s del
plurale non solo sia mantenuta ma sia estesa anche al singolare (i jeans ma
anche un jeans, un fans e, per lingue diverse dall’inglese, un murales). In
alcuni casi più rari il plurale originario si è stabilizzato (i Lieder, plurale tedesco
di un genere musicale, da Lied “romanza”, o anche i marines).
AGGETTIVI
Gli aggettivi si dividono in tre classi:
1. la classe in -o/-i per il maschile e -a/-e per il femminile, che comprende
le desinenze per entrambi i numeri ed entrambi i generi
(bello/belli/bella/belle);;
2. la classe in -e/-i con una sola desinenza per il singolare e una per il
plurale, senza distinzione tra maschile e femminile (triste/tristi);;
3. la classe degli aggettivi invariabili che comprende l’aggettivo pari,
alcuni aggettivi che indicano colori (rosa, viola, avana, ecc.), i prestiti
(trendy, ecc.) e altri elementi usati come aggettivi (è un locale in;; una
giornata no, ecc.).
Il comparativo in italiano è di tipo analitico:
più ricco, più triste, ecc.
Ma esistono relitti di comparativo sintetico modellati sul latino:
migliore, minore, peggiore, inferiore (accanto a più buono, più piccolo, più
cattivo, più basso).
Il superlativo assoluto è di tipo sintetico:
ricchissimo, tristissimo, ecc.
Sul latino sono modellati ottimo, minimo, pessimo, infimo (accanto a
buonissimo, piccolissimo, cattivissimo, bassissimo).
Oggi in italiano si affermano sempe di più, soprattutto nel parlato, superlativi
formati con prefissi: super-eroe, maxi-schermo, ecc.
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b. Per il tipo di referenza, se questa è univoca si usa il determinativo:
Non sforzare l’occhio destro;;
ma se il referente non è univoco usiamo l’indeterminativo:
Si è fatto male a un occhio.
c. Per la struttura informativa, si usa l’articolo determinativo se ci riferiamo a
un elemento dato, cioè a un referente già introdotto nel testo, o ben noto a chi
ascolta, o presente nel luogo in cui parliamo:
- Nel paese delle fate viveva una fanciulla... Un giorno la fanciulla decise
di partire…
- Questa mattina il postino non è venuto.
- Chiudi la porta.
Ma se l’elemento è introdotto per la prima volta, non è noto a chi ascolta, non
è presente nel luogo in cui parliamo, si usa l’indeterminativo:
- C’era una volta una fanciulla.
- Oggi è venuto un postino nuovo.
- Nell’aula dovrebbe essere rimasto un ombrello.
L’alternanza tra lo/gli e il/i o tra uno e un si è andata fissando nel corso del
tempo: a volte si tratta di convenzioni recenti (nell’italiano antico ancora fino
all’Ottocento era diffuso l’articolo lo davanti all’affricata alveolare z), in altri casi,
di relitti che si sono trasmessi inalterati. Oggi l’uso di lo è previsto davanti a s
preconsonantica, laterale palatale, nasale palatale, fricativa palatale, affricata
alveolare, semivocale j (lo Ionio) e vocale, davanti alla quale si elide. Si usa
talvolta anche per gruppi consonantici estranei alla tradizione italiana (lo
psicologo, ma la psicologia) e oscilla nel caso della semivocale w (l’uomo ma
il week end).
I PRONOMI PERSONALI
I paradigmi dei pronomi sono più complessi di quelli di nomi. Distinguiamo
prima di tutto tra pronomi tonici e atoni, cioè pronomi accentati e pronomi privi
di accento. I primi sono forme autonome e sono quindi considerati morfemi
liberi. I secondi, detti anche clitici, si appoggiano sempre alla parola che segue
(proclitici: mi piace) o si legano alla parola che precede (enclitici: dimmi);; per
questo motivo sono considerati morfemi semiliberi.
I pronomi, oltre a esprimere nella flessione la persona, il numero e, talvolta per
la terza persona, il genere, esprimono anche la funzione sintattica: spesso cioè
cambiano in base al ruolo che debbono svolgere.
I pronomi tonici possono svolgere la funzione di soggetto o di complemento;;
per il complemento indiretto si associano a una preposizione (che un tempo si
chiamava segnacaso: a me, con te, per lui, ecc.). Nel paradigma dei pronomi
tonici in qualche caso le forme per il soggetto e per il complemento coincidono:
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Pronomi tonici
Ruolo di soggetto Ruolo di complemento
Io Me
Tu Te
Egli/ella/lui/lei [esso/essa] Lui/lei
Noi Noi
Voi Voi
Essi/esse/loro Loro
Come si vede, le forme di prima e seconda persona plurale sono identiche per
entrambi i ruoli sintattici. Anche per la terza persona, a dire il vero, è da tempo
in atto, nell’italiano di uso comune, un’ulteriore semplificazione. Si tende
sempre più a usare le forme del complemento per il soggetto: nel parlato è
quasi prevalente il ricorso a lui e lei;; sopravvive nello scritto molto formale egli,
mentre è considerato sempre più arcaico ed è visibilmente in regresso il
femminile ella.
In alcune aree della penisola, inoltre, si tende ad adoperare la forma del
complemento te in luogo del soggetto tu e, a causa dell’influenza dei media,
l’uso si sta estendendo. La distinzione più salda rimane dunque quella tra io e
me.
I pronomi atoni si adoperano solo per le funzioni sintattiche di complemento
diretto (oggetto) o indiretto (di termine). Per quanto riguarda la distribuzione, i
clitici hanno delle restrizioni: devono infatti sempre precedere o seguire il verbo
(ti regalo un libro;; regalati un momento di pausa;; non voglio regalarti niente).
La posizione sintattica dei pronomi clitici inoltre segue delle regole. Di norma
si pongono prima dei verbi, tranne nel caso degli imperativi e dei modi verbali
non finiti:
lo ascolti;; ascoltalo;; ascoltandolo impari.
La posizione è libera con l’imperativo negativo:
Non ascoltarlo, ma anche non lo ascoltare.
Oggi sta diventando libera anche la posizione in presenza di infinito dipendente
da un verbo, soprattutto se verbo modale come potere, dovere, ecc.:
Mario deve ascoltarlo ogni giorno tende a diventare, soprattutto nel parlato,
Mario lo deve ascoltare ogni giorno.
Si parla in questi casi di risalita o anticipazione del clitico, un fenomeno recente,
frequente nel parlato ma solo parzialmente ammesso nello scritto. D’altro canto
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l’anticipazione del clitico è obbligatoria in casi come lo fai dormire o lo sento
cantare.
Rimane ancora in uso l’enclisi in forme come affittasi, vendesi o, come si legge
in alcuni testi burocratici, pregasi. È il relitto arcaico dell’enclisi pronominale
che nell’antico italiano si poteva avere anche dopo le forme coniugate del
verbo.
Anche il paradigma dei pronomi atoni presenta delle semplificazioni:
Pronomi atoni (o clitici)
Complemento oggetto Complemento di termine
Mi Mi
Ti Ti
Lo/la Gli/le
Ci Ci
Vi Vi
Li/le Gli/[loro]
Come si vede i pronomi di prima e seconda persona, singolari e plurali,
coincidono per entrambi i ruoli sintattici, mentre variano per l’oggetto o il
complemento di termine i clitici di terza persona.
Un caso particolare è rappresentato da loro usato per il complemento di
termine. Si tratta di una forma in forte regresso, anche a causa delle sue
limitazioni d’uso:
1) prima di tutto è bisillabo e quindi non è un pronome atono;; è estraneo
alla serie dei pronomi che servono per i complementi e non può
combinarsi, a differenza di gli, con altri pronomi atoni. Con loro, cioè, non
sono possibili combinazioni come diglielo, mentre dirlo loro è ormai
arcaico e totalmente in disuso anche nelle situazioni più formali.
2) Il pronome loro in funzione di complemento indiretto ha poche possibilità
di movimento nella frase: deve collocarsi sempre dopo il verbo (ho detto
loro).
Anche per questi motivi dunque il pronome loro nel ruolo di complemento di
termine sta quasi scomparendo. Nel cosiddetto italiano neostandard e, in
generale, nell’uso vivo e comune, il sistema dei pronomi atoni per il
complimento di termine si sta riducendo a due sole caselle: gli per il maschile
singolare e per il plurale sia maschile sia femminile;; le per il femminile
singolare.
Nell’italiano popolare (o substandard) si assiste ancora a un’ulteriore
semplificazione, con il ricorso al solo gli anche per il femminile singolare, ma si
tratta ancora di una tendenza marcata come bassa.
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Il pronome riflessivo ha una forma tonica (sé) per il ruolo del complemento e
una forma atona tanto per il complemento oggetto quanto per il complemento
di termine (si).
Il pronome si è adoperato anche per le costruzioni impersonali: si dice bene di
te;; si parla poco quando non si sa, ecc. Richiede in questi casi l’ausiliare essere
e l’accordo al maschile nelle forme composte: quando si è vecchi. Il si è
adoperato anche nelle costruzioni passive, soprattutto in assenza di agente (si
è votato ieri), ma non è sempre facile distinguere la funzione impersonale da
quella passivante: si è scritto molto su questo tema. Sul piano semantico non
c’è molta differenza ma sul piano grammaticale la distinzione non è chiara.
In più di un caso i clitici perdono la funzione pronominale per assumere altri
ruoli, grammaticali e lessicali. Sono sempre più numerosi i verbi transitivi usati
come se fossero pronominali: mi bevo una birra, ci facciamo un bagno. Si tratta
però di usi ancora riservati al parlato più che allo scritto. Il pronome la assume
un valore indefinito in presenza di alcuni verbi: la sa lunga;; se la passa male,
anche con funzione soggetto in alcune espressioni fisse: o la va o la spacca.
Il pronome ne, i locativi ci e vi
Tra i pronomi atoni sono da includere anche ne, ci, vi (con funzioni diverse da
quelle dei personali ci e vi)
Ne svolge funzioni di partitivo (non ne voglio), di complemento di argomento
(non ne voglio parlare), di moto da luogo (non se ne andrà) ma in questo ruolo
sopravvive ormai quasi esclusivamente con il verbo andarsene;;
ci ha funzioni di locativo (non ci sono fiori, non ci vado), di complemento
indiretto se riferito a oggetti inanimati (non ci penso mai = “non penso mai a
ciò”) o talvolta a persone ma soprattutto in alcune espressioni tipiche del
parlato (non ci conto = “su di lui”;; non ci vado mai insieme = “con lui”);;
vi svolge il ruolo di locativo, ma è sempre più in disuso anche nello scritto.
Si assiste oggi a una sovraestensione della particella ci: si dice spesso nel
parlato molto informale ci parlo per dire “parlo a lui, lei, loro” invece di dire gli
parlo.
In generale ci è usato ormai in moltissimi contesti nei quali perde la propria
natura pronominale:
- ha preso quasi totalmente il posto di vi come locativo;; del resto con
essere è obbligatorio: c’è polvere e anche c’è polvere in casa (non è
possibile *è polvere in casa);; qui c’è il maestro (non è possibile *qui è
polvere, ma è possibile il maestro è qui);;
- ha valore attualizzante soprattutto con il verbo avere usato nel suo
significato pieno e non come ausiliare: ci ho mal di testa
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in corso, non delimitata. Non c’è in italiano una vera e propria marca
morfologica, un elemento interno alla desinenza che esprima l’spetto.
Anche per esprimere la diatesi il verbo non varia attraverso l’alternarsi delle
desinenze. La diatesi è il modo con cui la persona o la cosa indicata dal
soggetto partecipa all’evento descritto dal verbo;; si ha diatesi attiva, passiva,
media. Quest’ultima in italiano si realizza con il pronome riflessivo: io mi lavo
(con azione consapevole del soggetto su sé stesso) e io mi pento, io mi
ammalo (per la ricaduta dell’azione sull’interiorità o comunque all’interno del
soggetto).
La flessione verbale esprime anche la persona e il numero, distinguendo tra
persona singolare e plurale.
Il participio passato ha uno statuto diverso, perché partecipa delle
caratteristiche della flessione nominale, variando per il genere e il numero. Nei
tempi composti il participio si accorda con il soggetto se è coniugato con il
verbo essere, o con l’oggetto se è coniugato con il verbo avere e si trova in
particolari costruzioni:
Maria è arrivata presto;;
Maria ha comprato una casa e Giovanni l’ha arredata con i suoi vecchi mobili
(in quest’ultima frase il participio si accorda con l’oggetto, rappresentato dal
pronome la, che lo precede).
La flessione morfologica dei verbi ha una maggiore complessità rispetto a
quella dei nomi;; in molti casi possiamo individuare al suo interno più
componenti. Al morfema lessicale può seguire la vocale tematica che indica la
coniugazione (a- amare;; e- leggere;; i- partire), subito dopo può seguire la
marca temporale e modale e infine la marca che indica la persona:
am-a-v-o // am-a-v-ate
legg-e-v-o
sent-i-v-o
ma non sempre è così: non sempre tutte le componenti sono rappresentate;; al
futuro per esempio abbiamo: am-er-ò, dove si annulla la vocale tematica, e al
congiuntivo am-i, con un’unica marca, che peraltro coincide con la seconda
persona del presente indicativo, segnalando qualche opacità anche nei
paradigmi verbali.
Il tempo
Le categorie temporali più importanti sono il presente e il passato e sono
espresse in tutti i paradigmi indipendentemente dal modo;; anche il congiuntivo
o il condizionale hanno un passato. Dunque la distinzione tra presente e
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passato rispetto al momento dell’enunciato si trova in tutti i modi del verbo, con
la sola eccezione dell’imperativo, che in italiano si esprime solo al presente.
I paradigmi dei verbi italiani comprendono molti più tempi al passato;; il modo
indicativo, per esempio, possiede il passato prossimo, l’imperfetto, il passato
remoto, il trapassato prossimo, il futuro anteriore (cui si potrebbe aggiungere
l’ormai arcaico e non più usato trapassato remoto).
Tra le due principali categorie del tempo, il presente è quella centrale, perché
sul piano semantico ha possibilità di esprimere più informazioni:
indica coincidenza tra il momento dell’evento e il momento
dell’enunciazione (mangio un gelato);;
indica un’azione abituale al presente (bevo latte ogni mattina);;
indica una verità universale, priva di temporalità (il ferro è un metallo);;
nel modo indicativo il futuro ha una sua forma, ma, soprattutto nel parlato,
può essere sostituito dal presente (ci vado domani);; in tutti gli altri modi
il presente include direttamente il futuro.
Il passato serve per eventi che precedono il momento dell’enunciazione.
Per capire bene la funzione temporale dei verbi, dobbiamo ricordare che il
tempo fisico, quello che viviamo nella realtà extralinguistica, è cosa ben diversa
dal tempo grammaticale espresso dai verbi. Il tempo fisico è misurabile e infatti
abbiamo un sistema preciso di suddivisione dei secondi, dei minuti e così via.
Il tempo grammaticale invece esprime soltanto una relazione tra il tempo
dell’avvenimento di cui stiamo dicendo qualcosa e quello del momento in cui
lo diciamo.
Il momento dell’avvenimento è indicato di solito con la sigla MA, mentre si
segnala con la sigla ME il momento dell’enunciato: MA può essersi verificato,
prima, dopo o contemporaneamente a ME. ME è una sorta di ancora, di punto
di ancoraggio rispetto al quale giudichiamo presente, passato o futuro
l’avvenimento.
I tempi deittici hanno un solo punto di ancoraggio:
MA ME
Ieri ho incontrato tuo padre
Passato ß |ß (punto di ancoraggio)
ME MA
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L’imperfetto codifica:
• eventi passati abituali (vestivamo di bianco);;
• eventi durativi (ascoltavo la musica mentre leggevo);;
• eventi finiti in testi narrativi di tipo biografico o cronachistico (Nel 1840
Manzoni pubblicava i Promessi Sposi).
Un’azione perfettiva individua il punto iniziale e finale dell’avvenimento, mentre
un’azione imperfettiva individua il punto iniziale e non sempre mostra con
chiarezza quello finale.
Per comprendere la differenza tra passato remoto, passato prossimo e
imperfetto, ricorriamo, secondo le indicazioni di Luca Serianni, a tre esempi:
1) da giovane leggevo molto;;
2) da giovane lessi molto;;
3) da giovane ho letto molto.
L’azione descritta è la stessa, ma cambia il modo di percepirla da parte del
parlante. La frase (1) indica l’abitualità dell’azione e sfuma sui contorni (sulla
quantità, sull’accaduto successivo, ecc.);; la frase (2) inserisce l’azione in
coordinate temporali molto ben definite;; ne sottolinea la compiutezza e il
distacco dal presente;; la frase (3) rivive il processo nelle sue ricadute
successive: collega implicitamente l’enunciato a un risultato attuale («… e
quindi sono istruito», «… mentre oggi non posso più farlo», ecc.).
È chiara, per esempio, la distinzione tra è nato nel 1941, detto di persona
ancora vivente e nacque nel 1915 di persona non più in vita.
Nella percezione di chi parla o scrive l’azione espressa con il passato prossimo
perdura nel presente. L’azione designata dal passato prossimo, dunque, è
sentita come vicina soprattutto dal punto di vista psicologico più che
cronologico. Il parlante tenderà a dire, per esempio, «mio padre ha cominciato
a lavorare giovanissimo» invece di «mio padre cominciò a lavorare
giovanissimo». Allo stesso modo può accadere di rappresentare con il passato
remoto un’azione vicina guardata con distacco mi telefonò ieri.
Il presente non prevede categorie d’aspetto (azioni finite o in via di
svolgimento), ma quando la sua funzione è strettamente deittica, cioè l’evento
riferito è strettamente connesso al momento dell’enunciazione, si ha
(soprattutto nel parlato) l’uso della forma progressiva: sto mangiando il gelato.
Le funzioni aspettuali rappresentate da perifrasi, in particolare da quelle che
indicano un’azione progressiva, formate dal verbo stare seguito dal gerundio
(sto parlando a telefono;; stavo studiando a casa di Giovanni) sono oggi in
espansione in italiano. Si tratta di un aspetto imperfettivo, che serve a indicare
l’azione nel suo svolgimento.
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In alcuni verbi i suffissi posti tra il morfema lessicale e il morfema grammaticale
danno informazioni vicine a quelle aspettuali: fischi-ett-are, cant-erell-are,
leggiucchiare. Sono suffissi o, più esattamente, interfissi che indicano
un’azione continuativa ma priva di attenzione e impegno.
Il modo
In italiano esistono sette modi verbali: quattro finiti (indicativo, congiuntivo,
condizionale e imperativo) e tre non finiti (infinito, gerundio, participio). I modi
finiti subiscono flessione verbale per esprimere la persona;; quelli non finiti sono
privi di flessione personale.
L’atteggiamento del parlante verso l’enunciato, oltre che dal modo verbale, può
essere espresso, soprattutto nel parlato, anche da avverbi come forse,
sicuramente, ecc., dall’intonazione, dai gesti.
La principale funzione del modo, essendo legata a ciò che il parlante pensa di
ciò che dice, è di carattere semantico. Di solito, infatti, si lega il modo indicativo
alla certezza, il condizionale a qualcosa di possibile o di subordinato ad alcune
condizioni e il congiuntivo a qualcosa di possibile, di auspicabile, di desiderato
e così via. Tuttavia le cose non sono sempre così lineari e schematiche: al
modo si legano anche componenti, sintattiche e pragmatiche;; inoltre anche il
tempo può talvolta assumere le funzioni del modo.
Pensiamo, per esempio, al futuro epistemico di cui abbiamo detto. Nella frase
Che ore sono? Mah, saranno le 10, il futuro indica una possibilità e anche un
dubbio, un’incertezza da parte del parlante su ciò che sta dicendo. Dunque in
questo caso il modo indicativo non segnala una certezza del parlante e il
significato dubitativo è affidato al tempo e non al modo. Ricordiamo anche ciò
che abbiamo detto a proposito del presente che esprime verità universali: è
ancora un tempo, cioè, che assume le funzioni semantiche del modo. Anche il
condizionale al passato, che abbiamo appena visto (Giovanni disse che
sarebbe partito per l’America), è un modo che adoperiamo in alcuni contesti
per esprimere un contenuto temporale, il tempo futuro al passato. In
conclusione con un tempo, il futuro, possiamo esprimere le funzioni
semantiche del modo e con un modo, come il condizionale, possiamo
esprimere le funzioni temporali.
Il modo congiuntivo può svolgere le funzioni semantiche tipiche del modo,
spaziando dalla probabilità all’impossibilità degli eventi, ma può anche
svolgere funzioni sintattiche. In generale si può dire che il congiuntivo è, molto
frequentemente, una marca della subordinazione e infatti, sebbene si continui
a parlare di morte del congiuntivo, in realtà in italiano resiste molto bene in
diverse costruzioni sintattiche. Nel parlato può effettivamente accadere che per
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i processi di semplificazione si dica credo che hai capito invece di credo che tu
abbia capito;; l’importante, tuttavia, è sapere come funzioni e quali siano gli usi
del congiuntivo, per poter scegliere sempre il registro e la varietà giusta al
momento giusto. La vera competenza linguistica, infatti, non consiste solo nella
conoscenza delle norme ma anche nella capacità di passare consapevolmente
da un registro all’altro e da una varietà all’altra.
Il congiuntivo si può adoperare anche in proposizioni indipendenti, dove
assume il valore di:
- esortativo (anche con il senso di imperativo): si decida in fretta, signore e
scelga bene;;
- dubitativo: e se avesse preso la macchina?
- ottativo (augurio o anche timore): volesse il cielo!;; che Dio ci guardi!
- esclamativo: Vedessi che prezzi!
Nelle proposizioni subordinate, il quadro è più articolato e complesso e, come
si diceva, non sempre la scelta del congiuntivo dipende dall’espressione
dell’incerto o dell’impossibile. Nella scelta del congiuntivo è molto importante il
verbo della proposizione principale.
Reggono sempre il congiuntivo:
• i verbi che esprimono un ordine, una preghiera o un permesso (ordinò
che tutte le truppe fossero pronte per l’attacco;; voglio che tu sia qui per
le 9,00;; pregò che il Signore la esaudisse;; consento che la cena sia
spostata alle 21);;
• i verbi che esprimono opinione (suppongo che tu sia pronto);;
Con alcuni verbi si usa l’indicativo o il congiuntivo ma con sfumature diverse di
significato. Traiamo alcuni esempi dalla Grammatica italiana di Luca Serianni:
• ammettere, ind. 'riconoscere': ammisi davanti al professore che non
avevo studiato bene;; cong. 'supporre, permettere': ammettendo che tu
abbia ragione, che cosa dovrei fare?;;
• badare, ind. 'osservare': cercò di non badare all'effetto che gli faceva
quella strana voce;; cong. 'aver cura': mi consigliava di badare che non
cadessi;;
• capire, comprendere, ind. 'rendersi conto': non vuole capire che io non
sono un suo dipendente;; cong. 'trovare naturale': capisco che tu voglia
andartene;;
• pensare, ind. 'essere convinto': penso anch'io che tu sei stanco;; cong.
'supporre': penso che tu sia stanco.
Il congiuntivo si usa inoltre:
1) con alcune congiunzioni subordinanti, come affinché, benché, sebbene, a
meno che, ecc. (sebbene sia stanco andrò a cena fuori);;
21
LA MORFOLOGIA LESSICALE
Abbiamo già visto la differenza tra morfologia flessionale e morfologia
derivazionale che viene anche detta morfologia lessicale, visto che studia il
modo in cui si formano nuovi significati, nuove parole che hanno ampliato e
possono ancora ampliare il lessico italiano. I meccanismi di cui si serve sono
la derivazione e la composizione, che sono ancora oggi i modi più produttivi
per la formazione di parole nuove nella nostra lingua. Come informa Massimo
Palermo, anche solo indagando nel lessico del vocabolario di base, possiamo
notare che ben il 35% delle parole non viene dal latino e non è un prestito da
altre lingue: si tratta infatti di termini che sono stati ottenuti attraverso i
procedimenti della derivazione o della composizione.
La derivazione si realizza tramite gli affissi. Questi si distinguono in suffissi,
che si aggiungono di seguito alla parola base (decis-o > decis-ion-e), e prefissi
che si premettono alla parola base (deciso > in-deciso). Si parla anche di
interfissi quando si interpongono tra il morfema lessicale e il suffisso: regol-
abil-ità o tra il morfema lessicale e il morfema grammaticale: cant-icchi-are
I suffissi in realtà si interpongono il più delle volte tra la parola base e la
desinenza (forn-ai-o, pan-ific-are). Modificano il significato della parola base,
ma possono modificare anche la categoria grammaticale, possono cioè
operare una transcategorizzazione (deciso > decisione, lavorare > lavoratore,
bianco > biancheggiare, ecc. ).
Buona parte dei suffissi italiani deriva dal latino (arius > aio, ibilis > ibile, ecc.);;
altri sono stati introdotti attraverso altre lingue, come il suffisso -iere, che è
stato tratto da francesismi affermatisi nel medioevo, come cavaliere, destriero
(anticamente destriere), ecc.
I prefissi, a differenza dei suffissi, si premettono alla base lessicale e
soprattutto non consentono la transcategorizzazione: con la prefissazione,
cioè, da un sostantivo si avrà sempre un sostantivo o da un aggettivo un
aggettivo e così via (deciso > indeciso, visione > previsione, ecc.).
I suffissi non sono mai morfemi autonomi, mentre i prefissi possono avere
anche funzione di preposizioni o avverbi: sotto, con, sopra, ecc.
Altra proprietà dei suffissi è la ricorsività, la possibilità cioè di derivare un’altra
parola da quella già derivata tramite l’aggiunta di un suffisso, come nel caso di
socio > sociale (aggettivo) > socializzare (verbo) > socializzazione (sostantivo),
dove, come può accadere con la ricorsività, si ha una successione di
cambiamenti di categoria morfologica (transcategorizzazioni)
23
La ricorsività è possibile più raramente e solo in alcuni casi anche con i prefissi:
stabilizzare > de-stabilizzare > ri-de-stabilizzare
Nel parlato sono anche frequenti coniazioni spontanee come ex-ex-marito o
iper-iper-attivo, ma non sono formazioni stabili.
Molti verbi si sono formati a partire da un nome o da un aggettivo (denominali
o deaggettivali) con l’aggiunta di un prefisso e del morfema grammaticale
dell’infinito: bello > abbellire, nervoso > innervosire, coppia > accoppiare,
briciola > sbriciolare, ecc. Si parla in questi casi verbi parasintetici. Perché si
possa parlare di formazione parasintetica, non deve esistere una parola che
abbia solo quel prefisso o solo quel morfema grammaticale: abbellire,
innervosire, accoppiare, sbriciolare sono, infatti, parasintetici perché non
esistono *abbello, *innervoso, *accoppia, *sbriciola e neppure *bellire,
*nervosire, *coppiare, *briciolare. La derivazione è dunque avvenuta
aggiungendo contemporaneamente alla base lessicale il prefisso e la
desinenza. Si tratta di un procedimento ancora molto produttivo in italiano: si
pensi a formazioni nate soprattutto nei linguaggi giovanili come impasticcarsi,
incasinare, smanettare, ecc.
Si possono anche avere derivazioni di parole nuove senza l’aggiunta di suffissi:
si parla in questi casi di derivazione a suffisso zero. Si tratta quasi sempre di
sostantivi derivati da verbi, che sono anche definiti deverbali a suffisso zero,
come nel caso di verificare > verifica, arrestare > arresto. Sono piuttosto
frequenti nel linguaggio burocratico amministrativo che tende a produrne
anche di specifici come inoltrare > inoltro, reintegrare > reintegro, ripristinare >
ripristino, ecc.
Senza suffisso e in realtà non per derivazione può anche cambiare la categoria
morfologica di una parola: la congiunzione perché può diventare un sostantivo:
il perché delle cose;; il participio presente di cantare è divenuto stabilmente un
sostantivo: cantante, e così il verbo piacere è diventato un sostantivo: il
piacere. Parliamo in questi casi di conversione.
La derivazione è un procedimento che si introietta subito imparando l’italiano
e che rimane vivo nella coscienza dei parlanti. Ne abbiamo la prova quando i
bambini o anche gli stranieri, imparando la lingua, tendono a derivare per
analogia parole che non esistono, partendo però non da una base lessicale,
ma da una forma già derivata, per esempio *aviare da aviatore. Il fenomeno è
definito retroformazione perché al contrario di quanto avviene con la
derivazione, tramite la quale si aggiungono elementi per formare parole nuove,
in questo caso da una parola derivata si sottraggono elementi. Sono errori, ma
a volte alcune di queste formazioni errate con il passare del tempo si
affermano, e non vengono più percepite come erronee dalla comunità parlante.
24
prima, come cantante, sono lessicalizzazioni e si pensi al participio passato al
genere femminile condotta che ha assunto il significato di “tubatura”.
La lessicalizzazione, come si è detto, si verifica spesso con gli alterati. In
qualche caso con il suffisso –ino e qualche volta anche con il suffisso –one, si
verifica sia lessicalizzazione sia cambio di genere: capanna > capannone, rosa
> rosone, calza > calzino, spazzola > spazzolino, ecc. Quando un alterato si
lessicalizza non può più essere usato come alterato e quindi ricorriamo spesso
a una sostituzione di suffisso o a un doppio suffisso: carrozzella, fiorellino
(perché fioretto ha assunto un altro significato).
L’alterazione riguarda principalmente i nomi e gli aggettivi, ma come abbiamo
visto può interessare anche i verbi in forme come canticchiare, fischiettare, che
assumono un significato particolare. In questo caso l’alterazione si ottiene con
un interfisso invece che con un suffisso. Possiamo formare alterati anche con
prefissoidi come super, mega, maxi, mini, ecc.
La composizione
La composizione è il secondo più importante procedimento in italiano per la
formazione delle parole. Anche nel caso della composizione si ricavano parole
nuove partendo da basi già esistenti, ma a differenza della derivazione la
nuova parola non si forma aggiungendo un morfema derivazionale (un affisso)
al morfema lessicale, ma unendo due parole distinte e autonome per ottenerne
una di nuovo significato (chiaro + scuro > chiaroscuro;; porta + bagagli >
portabagagli).
I composti si distinguono principalmente in verbali e nominali. I composti
verbali sono formati dall’unione di verbo + nome (asciugamano, portabagagli)
o dall’unione di verbo + avverbio (benedire). I composti nominali derivano
dall’unione di due nomi (cassapanca), di nome + aggettivo (pellerossa), di due
aggettivi (agrodolce).
Le parole composte hanno di solito una grafia univerbata (portaombrelli,
pellerossa, agrodolce, ecc.), ma si possono incontrare anche composti
separati (croce rossa) o divisi da un trattino da un trattino (fono-morfologico,
afro-americano), che tuttavia si comportano sul piano morfologico esattamente
come tutti gli altri composti.
Il fatto che i composti si comportino e siano percepiti a tutti gli effetti come
termini autonomi del lessico è confermato dalla possibilità, non molto
frequente, di ottenere anche dei derivati, aggiungendo come sempre un
morfema legato (perlopiù un suffisso): pallavolo > pallavolista.
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Distinguiamo dunque tre gruppi:
a) Nel tipo 'x è il capo di y' il secondo nome ha la funzione di determinatore:
i due membri non formano un blocco unico e il segnale del plurale si aggiunge
al primo: il capogruppo > i capigruppo, il capostazione > i capistazione, ecc.
b) Nel tipo 'x è capo tra tanti x' capo è in funzione appositiva rispetto al
secondo nome;; il composto viene percepito come un'unica parola e il segnale
del plurale di aggiunge al secondo membro: il capocuoco > i capocuochi, il
caporedattore > i caporedattori, ecc. Rimane invece sempre invariato il
costituente capo- nel plurale dei nomi femminili, sia nel tipo la caporeparto > le
caporeparto, la coposala > le caposala, sia nel tipo la capoimpiegata > le
capoimpiegate, la caporedattrice > le caporedattrici.
c) Anche nel tipo 'un capo-x', affine al precedente, il costituente capo- ha
funzione appositiva e il plurale si forma modificando il secondo membro del
composto: il capoluogo > i capoluoghi, il capolavoro > i capolavori.
Struttura dei composti
La derivazione e la composizione si differenziano anche sul piano diacronico:
mentre la derivazione, infatti, è stato un procedimento attivo e importante fin
dalle origini della nostra storia linguistica, i composti, tranne qualche eccezione
più antica, come biancospino, hanno cominciato a essere prodotti con sempre
maggiore frequenza a partire dalla fine del Settecento.
Nei composti italiani possiamo molto spesso distinguere una testa e un
modificatore: in questo caso li definiamo composti endocentrici, composti
cioè in cui la testa è rappresentata da uno dei componenti della parola. Se
prendiamo l’esempio di caposquadra, vediamo che la testa del composto è a
sinistra e oltre a guidare il comportamento morfologico del composto ne
indirizza anche i tratti semantici. Nella flessione morfologica, infatti, per il
maschile il plurale è dato dalla testa (capisquadra – per il femminile la forma
rimane invariata, le caposquadra);; inoltre noi ricaviamo tratti rilevanti del
significato sempre dalla testa, poiché sappiamo che nel significato di questa
parola è presente il tratto [+ animato] da capo e non [- animato] da squadra (si
tratta di una “persona che comanda la squadra”).
In base all’ordine proprio dell’italiano, che prevede la successione determinato
+ determinante (il libro di Mario, la bottiglia vuota), nei composti la testa è quasi
sempre rappresentata dal componente di sinistra e il modificatore da quello di
destra (cassapanca “cassa a forma di o con funzione di panca”;; pescespada,
portaombrelli, ecc.). Ci sono però delle eccezioni, come i composti che
derivano o sono formati basandosi su elementi delle lingue classiche
28
Non dobbiamo confondere lemma e lessema con parola. Parola è una
definizione impropria che adoperiamo comunemente e che ha un significato
ampio e generico. Possono per esempio svolgere la funzione di parole anche
alcuni sintagmi fissi o polirematiche
Se consideriamo il significato delle parole composte, come aspirapolvere,
capodanno, ecc., siamo di fronte a parole distinte da quelle che costituiscono
la base della loro formazione (aspirare – polvere, capo di anno). È una
distinzione evidente sia per la diversità della forma sia e soprattutto per la
diversità di significato. Nei dizionari, infatti, i composti sono quasi sempre
considerati come lemmi e viene loro riconosciuto lo statuto di parola.
Diverse sono le espressioni ferro da stiro, carta di credito o anche chiedere
scusa, dove la natura di costituente semantico è meno evidente, perché il
significato si deduce dal significato dei singoli elementi che le compongono. Le
polirematiche, inoltre, a differenza dei composti presentano quasi sempre,
nelle costruzioni nominali, elementi di raccordo espliciti, come congiunzioni o
preposizioni (giacca a vento).
Tuttavia anche in casi come carta di credito o ferro da stiro dobbiamo
ammettere che si tratta di sequenze particolari: non possiamo sostituire un
elemento e dire *attrezzo da stiro, non possiamo neppure modificarne le
singole parti con l’aggiunta di determinanti: *la carta nuova di credito, *il ferro
caldo da stiro ecc. Diremo al contrario la carta di credito nuova o la nuova carta
di credito o anche il ferro da stiro caldo. Non sono possibili né le inversioni
(acqua e sapone e non *sapone e acqua) né le pronominalizzazioni: non
possiamo dire, per esempio, quelli animati sono i cartoni che mi piacciono. Una
maggiore possibilità di separabilità tra gli elementi si ha invece con le
polirematiche frutto di costruzioni verbali, come rendere conto, dove possiamo
anche inserire un avverbio: rendere adeguatamente conto.
Queste espressioni, che hanno un significato unitario, anche se è deducibile
dai significati delle parti che le compongono (sala d’aspetto), hanno
comportamenti particolari che le assimilano a parole semplici. Sono
espressioni linguistiche costituite da più parole chiamate in vari modi:
unità lessicali superiori, sintagmi fissi, unità polirematiche o
semplicemente polirematiche.
Se consideriamo infine espressioni nominali come palla al piede, vicolo cieco,
lacrime di coccodrillo, sala d’aspetto, carta di credito o espressioni verbali
come vuotare il sacco, prendere sotto gamba, chiedere scusa, ci troviamo di
fronte a casi molto diversi tra loro. Tuttavia se il criterio principale in base al
quale distinguiamo le parole una dall’altra è quello semantico, queste
31
sequenze, pur essendo costituite da più elementi, si avvicinano molto di più,
dal punto di vista lessicologico, a delle parole autonome, perché esprimono un
concetto e un significato nella loro globalità, un significato unitario. Sono, sia
pure con modalità diverse, un costituente semantico.
Il fatto che espressioni come palla al piede, lacrime di coccodrillo, vuotare il
sacco, che appartengono alla fraseologia italiana, siano costituenti semantici
è dimostrabile facilmente: la palla al piede non è una palla, ma una persona o
una situazione che rappresentano un peso e un ostacolo;; una persona che
piange lacrime di coccodrillo, non versa dagli occhi le lacrime dell’animale
feroce, ma mostra un falso pentimento. Allo stesso modo chi vuota il sacco non
svuota un contenitore di tela ma racconta la verità.
32
IL TESTO
Testualità e sintassi sono strettamente connesse tra loro e tuttavia si occupano
di cose sensibilmente differenti: la sintassi guarda al modo in cui le parole si
organizzano per formare sintagmi o frasi, mentre la testualità si occupa
soprattutto di capire come i componenti di una frase o più frasi instaurino
relazioni per fornire al testo coerenza e coesione. In sostanza la testualità
guarda ai rapporti tra le frasi o a quelli tra gli elementi che le compongono da
un punto di vista diverso.
Per testo possiamo intendere una qualsiasi comunicazione che abbia una
chiara relazione con un contesto e che abbia un senso coerente: anche un
saluto come buongiorno può costituire un testo, se è un saluto riconosciuto da
chi mi ascolta e se viene detto nel momento opportuno, non di notte per
esempio né a una persona che è stata appena investita da un’automobile. Non
esiste comunicazione senza i testi.
Una sola frase o anche una parte di frase che siano collocate in un adeguato
contesto e abbiano un significato costituiscono un enunciato. Un solo
enunciato, come abbiamo appena visto, può costituire un testo;; più
frequentemente un testo è costituito da una combinazione di enunciati e può
essere realizzato oralmente, essere scritto o trasmesso. Le caratteristiche che
però assumono maggiore rilevanza per l’esistenza di un testo sono possedere
un senso, essere collegato a un determinato contesto e possedere funzioni
comunicative.
Se io produco un enunciato come la spider rossa parlava con la berlina azzurra
ho prodotto un testo che ha una sua correttezza grammaticale e sintattica, ma
non è un testo perché è privo di senso e non realizza alcuna comunicazione;;
tuttavia se la frase fosse inserita nel racconto di un cartone animato potrebbe
acquistare un senso e riuscire a comunicarci qualcosa. Ancora se produco un
enunciato come Giovanni cammina da solo sulla spiaggia, attribuisco alla frase
un determinato senso nel caso Giovanni sia un adulto e può comunicare molti
altri messaggi in base alla conoscenza che ho di Giovanni e di ciò che gli è
capitato, ma può cambiare completamente senso se Giovanni è un bambino
di tre anni, suscitando allarme per il fatto che si trova da solo sulla spiaggia.
Dunque ogni frase ha un significato letterale e invariabile (che in questo caso
potremmo sintetizzare in “un essere animato e umano si sta spostando lungo
una spiaggia”), ma ha anche un significato che cambia in base al contesto e
ciò che conosciamo del contesto.
La testualità dunque non si occupa della correttezza grammaticale dei testi, né
studia le loro relazioni grammaticali, ma del modo in cui i testi riescono a
comunicare con efficacia qualcosa. Le relazioni testuali sono più difficili da
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individuare rispetto a quelle grammaticali e tuttavia se il parlante o lo scrivente
non è capace di rispettarle la comunicazione non è sufficientemente efficace o
può anche non andare a buon fine.
La comunicazione avviene proprio attraverso lo scambio di testi e per avere
successo deve poter mettere in relazione le conoscenze condivise da
emittente e ricevente. Le conoscenze condivise, il contesto, i riferimenti corretti
alla realtà esterna sono essenziali nella produzione dei testi: se ne deduce che
come il lessico anche il testo è l’aspetto della lingua che più collega sistema
linguistico e realtà extralinguistica.
Per comprendere il significato essenziale di una frase di solito mettiamo in atto
un processo di decodifica, ovvero individuiamo le più piccole unità e a mano
a mano le colleghiamo per comporre unità più ampia (fonemi, parole dotate di
senso, nomi, verbi, ecc. fino alla frase, all’insieme di frasi, ecc.). Tutto ciò non
basta per comprendere un testo: abbiamo anche bisogno, infatti, di partire,
come abbiamo detto, dalle nostre conoscenze extralinguistiche o dal contesto
per giungere al significato di ciò che leggiamo o ascoltiamo. È un procedimento
contrario al precedente, perché con il primo da unità più piccole passiamo a
unità più grandi;; con il secondo compiamo il cammino inverso, compiamo
dunque un’inferenza.
Un testo si comprende inoltre nel suo insieme: non lasciamo separati gli
elementi informativi che di volta in volta vengono aggiunti, ma li combiniamo
insieme. Dunque comprendere un testo è un’operazione complessa che
richiede competenze linguistiche vere e proprie (morfologiche, sintattiche,
ecc.), competenze testuali, conoscenza del mondo e del contesto in cui il testo
è prodotto.
Se volessimo schematizzare queste competenze, potremmo dire che
fonologia, morfologia, sintassi, lessico e testualità sono tutte competenze
linguistiche, ma il lessico e la testualità richiedono anche conoscenze
extralinguistiche.
Principi costitutivi del testo
Un testo compie la sua funzione comunicativa solo se è dotato di un senso,
ovvero di coerenza, e se è adeguatamente costruito sul piano grammaticale
(coesione). I principi costitutivi del testo sono la coerenza, la coesione.
La coerenza riguarda il livello profondo del testo, l’unità concettuale, e
coinvolge la visione e la conoscenza del mondo di ciascun parlante. Diciamo,
tuttavia, che sul piano linguistico consiste nel collegamento logico di tutti i
contenuti del testo e nella sua continuità semantica. Senza una coerenza
semantica non esisterebbe alcun testo: non posso dire Giovanni respira con la
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mano perché piange tutto il giorno, perché (a meno che non si tratti di una
costruzione narrativa fantastica) ho detto parole inconcludenti, non ho costruito
un testo coerente.
La coesione è ugualmente importante, perché tutti gli elementi di un testo
devono essere ben connessi tra loro e costituire un insieme coeso, altrimenti
si pregiudica la comprensione.
La coesione consiste sia nel collegamento grammaticale tra tutte le parti di un
enunciato (coeso: Maria è una bella ragazza, ma è molto timida – non coeso:
Giovanni sono un bel ragazzo, ma è molto timida), sia nel legare tra loro le
parti del testo tramite mezzi di varia natura linguistica, detti coesivi, come il
ma degli esempi precedenti.
I mezzi con cui si attua la coesione sono molti:
• i connettivi (infatti, perché, ma ecc.);;
• sequenze che segnalano le relazioni endoforiche (che legano cioè tra loro
elementi interni al testo), per esempio le espressioni come si è detto, come
si è visto anche come vedremo, ecc., che rinviano a passi del testo già
pronunciati o già scritti o a passi del testo ancora da vedere;;
• le forme sostituenti (o proforme), che hanno funzione coesiva quando
rinviano a un elemento di cui si è già parlato e di cui non si vuole ripetere il
nome (Maria ha dato molti consigli a Giovanni, ma lui non le ha dato retta;;
Manzoni non era soddisfatto della prima stesura del romanzo: lo scrittore
lombardo cercava una lingua più efficace).
Coerenza e coesione sono dunque essenziali per la costituzione di un testo,
ma non sono sullo stesso piano. Se un parlante poco istruito, che domina male
la morfologia e la sintassi della lingua pronuncia una frase come Giovanni ha
arrivato con ritardo e non ha portato i chiavi, noi faremo comunque uno sforzo
per capirlo e in base alla nostra capacità di collegare ciò che ascoltiamo o
leggiamo a ciò che conosciamo daremo un senso all’enunciato. Se invece
ascoltassimo un testo come I bambini sono sempre belli, perché il parlamento
ha votato la legge elettorale non riusciremmo a trovare un senso, pur
trattandosi di un testo ben costruito sul piano grammaticale. Dunque la
condizione veramente indispensabile perché un testo ci sia e riesca a
comunicare è la coerenza;; la coesione è di estrema importanza ma svolge
soprattutto un ruolo di supporto.
Come abbiamo detto, per la buona realizzazione di un testo e per la sua
comprensione, il contesto è essenziale. Il contesto è caratterizzato da molti
elementi e in una comunicazione orale è fondamentale il luogo che
condividiamo con il nostro interlocutore;; in un testo scritto dobbiamo
immaginare il contesto cui si riferisce chi scrive, ma ci vengono in soccorso le
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È anche opportuno segnalare quale sia l’oggetto che vogliamo trattare, oggetto
che in un testo lungo e articolato rimarrà come sfondo, e quali le informazioni
che a mano a mano intendiamo aggiungere su quell’oggetto. In un enunciato
l’oggetto di cui parliamo e che rappresenta il punto di partenza per realizzare
la comunicazione è il tema, le informazioni che aggiungiamo (cioè l’insieme
della nostra “predicazione”) costituiscono il rema. Di solito il tema coincide con
le informazioni già note all’interlocutore (o che riteniamo note per
l’interlocutore) e il rema con le informazioni nuove (o che riteniamo nuove) per
l’interlocuore.
Una semplice frase come
Mario ha regalato un libro a Giovanni
può essere analizzata da diversi punti di vista, quello della distribuzione delle
informazioni, cioè della struttura tematica e della struttura delle
conoscenze, e quello delle funzioni logico-sintattiche:
Struttura tematica:
Mario (tema) ha regalato un libro a Giovanni (rema).
Struttura delle conoscenze:
Mario (dato) ha regalato un libro a Giovanni (nuovo).
Struttura logico-sintattica:
Mario (soggetto) ha regalato (predicato) un libro (complemento oggetto) a
Giovanni (complemento di termine).
Nella frase che abbiamo analizzato il tema e il soggetto coincidono e si trovano
a sinistra dell’enunciato, mentre il predicato coincide con il rema e si trova a
destra dell’enunciato. Si tratta della successione statisticamente più diffusa in
italiano e che più caratterizza le costruzioni tematiche della nostra lingua,
tuttavia sono possibili anche costruzioni differenti. Sul piano della struttura
logico-sintattica ogni componente della frase continuerà a svolgere sempre lo
stesso ruolo in qualsiasi comunicazione io inserisca la frase, ma sul piano della
struttura delle conoscenze non è sempre così. Se la frase è una risposta alla
domanda Che cosa è successo? L’intera frase si presenta per chi la riceve
come informazione nuova:
Che cosa è successo? Mario ha regalato un libro a Giovanni (nuovo).
Supponiamo, invece, che la frase sia una risposta alla domanda Chi ha
regalato un libro a Giovanni? Nella risposta, magari espressa con un diverso
tono di voce, avremo una diversa struttura delle conoscenze:
Chi ha regalato un libro a Giovanni? Mario (nuovo) ha regalato un libro a
Giovanni (dato).
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L’italiano, inoltre, ha la possibilità di modificare l’ordine dei componenti di una
frase e ciò offre, come vedremo, la possibilità di mettere più in evidenza alcune
parti lasciandone sullo sfondo altre in costruzioni che sono denominate
costruzioni marcate.
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SINTASSI
Le singole unità di cui si compone la sintassi italiana sono il sintagma, la frase
semplice e la frase complessa.
Rapporti paradigmatici e sintagmatici
Le parole non vivono isolate le une dalle altre ma instaurano legami tra loro. I
rapporti che le parole possono avere tra loro sono o di natura
sintagmatica o di natura paradigmatica.
I rapporti sintagmatici sono i legami che si instaurano tra le parole che
compaiono in una stessa frase: nella frase Il fratello di Mario ha indossato
una camicia verde osserviamo almeno due tipi di rapporti sintagmatici. Una
relazione sintagmatica, infatti, intercorre tra due o più elementi quando sono
combinati per formare unità linguistiche più complesse come i sintagmi e le
frasi.
I rapporti paradigmatici sono detti anche associativi;; sono relazioni che si
stabiliscono tra due elementi di una lingua sulla base di un’associazione
grammaticale, morfologica, lessicale. L’associazione che compiamo è
un’operazione mentale che ci induce ad accostare parole che condividono
qualcosa.
Quando l’associazione è fondata sulla forma, possono aversi insiemi di parole
come libro, libricino, libraio, libreria. Tutte queste parole hanno in comune la
presenza del morfema lessicale libr-. Quando l’associazione è basata
principalmente sul significato può dare vita a insiemi come libro, volume, testo,
tomo, ecc. Queste parole sono accomunate da uno o più aspetti del loro
significato: tutte hanno a che fare con l’oggetto indicato dalla parola libro. Molto
spesso le relazioni basate sulla forma e sul significato si intrecciano, come per
esempio nel caso delle parole libro e libreria: c’è una relazione formale perché
condividono la stessa base lessicale, ma anche una relazione semantica. Le
associazioni tra le parole possono avvenire anche in base alla loro categoria
grammaticale (nomi, verbi, ecc.).
I rapporti paradigmatici si creano dunque per associazione tra parole che in
una frase potrebbero essere sostituite le une con le altre in una stessa
posizione sintagmatica: sono rappresentati, cioè, dai legami tra le parole che
in un enunciato possono comparire nello stesso posto:
Il fratello di Mario ha indossato una camicia verde
Azzurra
Gialla
Il fratello di Mario ha indossato una camicia verde
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Cravatta
Sciarpa
Il fratello di Mario ha indossato una camicia verde
Il cugino
Il padre
L’amico
La relazione paradigmatica, come si è detto, può essere vista anche dal punto
di vista grammaticale: nei punti della frase in cui abbiamo operato delle
sostituzioni possono stare solo sostantivi;; tutti i sostantivi hanno una relazione
paradigmatica.
Il linguista Hjelmslev ha definito i rapporti paradigmatici come rapporti in
absentia che rispondono alla funzione “o l’uno o l’altro”: può comparire cioè o
l’uno o l’altro elemento;; i rapporti sintagmatici sono invece rapporti in
praesentia che rispondono alla funzione “entrambi” e devono comparire uno
dopo l’altro.
I sintagmi sono sequenze strettamente legate, unità coese che all’interno della
frase possono spostarsi solo tenendo insieme tutti gli elementi che le
compongono. Nella frase che abbiamo visto, Il fratello di Mario ha indossato
una camicia verde, non posso spostare singoli componenti dei sintagmi: *di
Mario ha indossato verde il fratello una camicia. D’altro canto anche l’intero
sintagma non sempre si muove con facilità all’interno della frase: ha indossato
una camicia verde, il fratello di Mario (dove è anche da immaginare un diverso
tono di voce).
Abbiamo sintagmi nominali (SN: Il fratello di Mario), verbali (SV: ha indossato
una camicia verde), preposizionali (SP: ho studiato per l’esame), aggettivali
(SA: sono contento di te), avverbiali (SAvv: ho viaggiato assai comodamente).
Ciò che determina la natura del sintagma è la testa, da cui dipendono il suo
nome e le sue funzioni sintattiche: la testa di un sintagma nominale è un nome,
di un sintagma preposizionale una preposizione e così via.
Gli altri elementi che si legano alla testa sono modificatori o complementi.
La testa del sintagma è sempre essenziale e indispensabile. C’è una
differenza, tuttavia, tra i SN, SV, SA, SAvv e i SP: nei primi quattro la testa è
autonoma, mentre nel sintagma preposizionale deve necessariamente essere
accompagnata da un modificatore, perché rappresenta la funzione sintattica
ma non è autonoma.
I sintagmi dell’italiano sono detti continui. Gli elementi che compongono i
sintagmi, infatti, tendono a non essere separati da altri elementi o hanno molte
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restrizioni: non possiamo avere *Il fratello mio amico di Mario. Sono invece
sintagmi discontinui i cosiddetti verbi sintagmatici, accostabili in parte alle
polirematiche andare giù, tirare su, portare su, mettere sotto, ecc. Hanno una
struttura verbo + particella;; il verbo è di solito un verbo di movimento e la
particella un avverbio locativo. Sono discontinui perché è possibile spezzare la
sequenza interponendo altri elementi: non andare troppo giù con il colore.
Anche in questi casi però ci sono molte limitazioni.
Ordine dei costituenti
Come abbiamo detto più volte, l’ordine dei costituenti di una frase, dei
componenti di un enunciato e così via in italiano segue sempre la direzione da
sinistra a destra. Anche nel sintagma nominale la testa è posta a sinistra ed è
seguita dai complementi/modificatori: seguono quindi una costruzione
progressiva (contraria a quella delle lingue germaniche e anglosassoni che è
di tipo regressivo). Un ordine progressivo segue tendenzialmente anche il
sintagma verbale che preferibilmente pone prima il verbo, cioè la testa del
sintagma, poi l’oggetto e di seguito gli altri complementi (Il giovane portava
una valigia al deposito).
La prevalenza di questa struttura fa sì che l’ordine delle parole a base
dell’italiano sia SVO (Soggetto -Verbo - Oggetto), mentre il latino e altre lingue
moderne presentano l’ordine SOV, non progressivo dunque ma regressivo.
Come abbiamo detto più volte, questi tratti che caratterizzano una lingua sono
sempre tendenziali: sono cioè prevalenti ma non sono assoluti. Molte sono
infatti le eccezioni. Abbiamo notato questa costruzione progressiva in più
occasioni:
- le parole composte seguono perlopiù l’ordine testa + modificatore
(capostazione);;
- i SN seguono lo stesso ordine (il fratello di Mario);;
- il verbo pone dopo di sé l’oggetto e poi i complementi (diamo un fiore ai
caduti).
Anche nella sintassi del periodo le frasi principali tendono a precedere le
subordinate. Tuttavia abbiamo anche visto molte eccezioni: la composizione
neoclassica (archeologia), la posizione spesso libera dell’aggettivo (Il mio buon
amico), l’anticipazione stabile di possessivi e dimostrativi (il mio collega, questa
bottiglia). Allo stesso modo non sempre è stabile l’ordine SVO né è fissa la
successione principale – subordinate.
Si cerca in linguistica di capire le tendenze più frequenti per cercare di
ricostruire meglio il funzionamento delle lingue;; si compiono astrazioni che
facilitano la descrizione, ma ovviamente le lingue non rientrano mai in schemi
rigidi e fissi.
47
La frase
La frase è l’unità minima del discorso dotata di senso compiuto senza l’apporto
di altro contesto verbale o del contesto situazionale (piove, Giovanni è andato
al mare);; è anche detta l’unità di massima estensione della grammatica,
composta di unità inferiori (parole, sintagmi).
La frase semplice, detta anche frase nucleare, è costituita da una sola
proposizione e non dalla combinazione di più proposizioni, che si definisce
invece frase complessa. Nella grammatica tradizionale la frase complessa è
denominata periodo. Frase e proposizione non sono perfettamente sinonimi:
la seconda è da intendersi, infatti, come componente del periodo o della frase
complessa.
Guardandone la struttura dal punto di vista delle relazioni sintagmatiche, la
frase si presenta come una sequenza governata dai rapporti gerarchici che
legano i suoi componenti
(D = determinativo, S = sostantivo, V = verbo)
(di Carlo potrebbe anche classificarsi come SP)
Gli alberi rappresentano nelle immagini la struttura gerarchica che governa i
rapporti tra tutti i componenti della frase. Come si vede, alcuni sintagmi
possono contenerne altri: mangia l’osso o ha visto poca gente per strada sono
sintagmi verbali che però contengono al loro interno sintagmi nominali e
preposizionali. I sintagmi che ne contengono altri al loro interno sono sintagmi
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Gli operai hanno demolito il muro > la demolizione del muro da parte degli
operai
In alcune costruzioni il significato che potrebbe essere espresso da un solo
verbo è affidato a un sostantivo preceduto da un verbo più generico sul piano
semantico:
Il presidente ha dato lettura del nuovo provvedimento.
Ho preso la decisione di non partire.
In questi casi le categorie di tempo, modo, aspetto e persona sono affidate al
verbo, ma l’informazione semantica è demandata al nome.
A volte la nominalizzazione condensa un’intera frase e consente di racchiudere
due frasi in una:
Gli operai protestano perché gli stipendi sono stati ridotti > Gli operai
protestano per la riduzione degli stipendi
Con la nominalizzazione si riduce il numero delle frasi nel periodo, ma si
perdono informazioni su tempo, modo, aspetto e persona: si costruiscono testi
meno trasparenti, che spesso possono più facilmente nascondere l’agente:
Gli operai protestano perché il Consiglio d’amministrazione ha ridotto gli
stipendi
può diventare
Gli operai protestano per la riduzione degli stipendi
Con la cancellazione dell’agente. Lo stesso risultato si può spesso ottenere
con il passivo:
Gli operai protestano perché gli stipendi sono stati ridotti.
Nel passivo, infatti, il soggetto della frase è tale dal punto di vista grammaticale
ma non dal punto di vista logico-semantico: l’azione è da attribuire all’agente
che può anche essere cancellato.
La frase ellittica è diversa dalla frase nominale, perché il verbo assente è in
realtà sottinteso e si ricava da una frase precedente (Mario vorrebbe andare al
mare, sua moglie in montagna);; una frase, come sappiamo, può essere anche
ellittica del soggetto (La popolazione è infuriata, vuole giustizia)
Principali tipi di frase semplice
Le frasi dichiarative o enunciative: contengono un’affermazione positiva (i
giovani amano la musica), negativa totale (i giovani non amano la guerra),
negativa parziale (non tutti i giovani amano la musica).
Le frasi esclamative sono segnalate dal punto esclamativo nello scritto e da
un tono discendente nel parlato. Sono verbali (come passa il tempo!) o
nominali (Che bello!).
Le frasi volitive esprimono comando (torna presto), esortazione (state attenti),
concessione (fai con comodo), auspicio (abbiate la fortuna che meritate!).
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Le frasi interrogative dirette sono segnalate dal punto interrogativo nello
scritto da un tono ascendente nell’oralità e possono essere introdotte da un
pronome/aggettivo/avverbio interrogativo (chi viene a cena?). Sul piano
semantico abbiamo interrogative totali che riguardano l’intera frase e
richiedono una risposta sì/no (Verrai a cena?) e interrogative parziali che
riguardano un solo elemento (Che cosa vuoi per cena?). Diverse sono le
cosiddette interrogative retoriche che hanno già una risposta e non la
richiedono veramente (non vorrai comprare quel libro scadente?).
Principali tipi di frase complessa
La frase complessa (o periodo) è composta da proposizioni legate tra loro in
vario modo. È una costruzione macrosintattica essenziale che sostiene la
comunicazione e che assume particolare rilievo nello scritto. L’italiano
contemporaneo tende a semplificare la composizione dei periodi, ma un
eccesso di semplificazione ha talvolta conseguenze negative per
l’argomentazione e l’elaborazione della riflessione nella scrittura.
Il periodo può essere monoproposizionale, composto cioè da una sola
proposizione e quindi coincidente con la frase semplice, biproposizionale (il
tipo più frequente nel parlato e spesso anche nello scritto), triproposizionale,
pluriproposizionale. Quest’ultimo non si incontra quasi più nella sintassi
dell’italiano, mentre era frequente nell’italiano antico discendente dal modello
della prosa latineggiante del Boccaccio.
In ciascun periodo si distinguono proposizioni principali o reggenti o
sovraordinate e proposizioni secondarie o dipendenti o subordinate. Le
proposizioni nel periodo si legano per coordinazione o paratassi e per
subordinazione o ipotassi.
La coordinazione può legare tra loro sia principali sia subordinate. Può essere
sindetica, quando le frasi sono legate tra loro da congiunzioni (Studia e si
impegna), polisindetica quando più frasi sono connesse da più congiunzioni
(Studia e si impegna, ma va male a scuola) e asindetica quando si legano
senza congiunzioni e nello scritto sono separate da segni interpuntivi. La
coordinazione asindetica è detta anche giustapposizione (sono stanco, ho
sonno, vado a dormire).
Con la paratassi le proposizioni si allineano sullo stesso piano, senza
esplicitare rapporti di gerarchia o logico sintattici. Oggi tende a prevalere sulla
subordinazione, soprattutto nel parlato, anche quando due frasi non si trovano
sullo stesso piano dal punto di vista logico sintattico. Possiamo esprimere lo
stesso contenuto in modi diversi:
Poiché sono stanco, preferisco tornare a casa.
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tu smetta di pensare assumono funzione di soggetto del periodo. Queste frasi
vengono anche chiamate argomentali, perché si comportano come gli
argomenti del verbo della frase principale: che Giovanna è brava si comporta
come argomento di ammettere (che è verbo bivalente), come se fosse
un’espansione dell’oggetto la bravura di Giovanna;; allo stesso modo che tu sia
coraggioso è il soggetto che funge da argomento di è chiaro, quasi espansione
di Il tuo coraggio.
Interrogative indirette
Le interrogative indirette contengono un dubbio o esplicitano una domanda
contenuta nella reggente.
Mi chiedo che cosa pensi di me;;
Si possono considerate una sottospecie delle completive, perché si
comportano come oggettive e divengono argomento del verbo della principale.
Sono introdotte, tuttavia, da diverse congiunzioni di subordinazione (se,
quando, come, perché, che cosa...) e inoltre riferiscono un dubbio o una
domanda mentre le oggettive contengono un’enunciazione.
Abbiamo interrogative indirette esplicite che in un registro informale possono
servirsi dell’indicativo (non errato) e in un registro formale del congiuntivo,
preferibile quando la reggente è negativa (non so se sia arrivato). Le
interrogative indirette implicite sono costruite con l’infinito presente (mi
chiedo se uscire o restare) e i due soggetti, della reggente e della subordinata,
coincidono.
Le altre frasi subordinate non sono argomentali (non argomentali) e svolgono
lo stesso ruolo degli elementi extranucleari che abbiamo visto per la valenza
dei verbi;; consentono quindi di specificare, cause, tempo, circostanze e così
via.
Causali
Le proposizioni causali esprimono la causa di una determinata azione
espressa nella reggente (Non mangio perché non ho tanta fame).
Le causali esplicite sono costruite con l’indicativo e, in alcuni casi, con il
congiuntivo e il condizionale. Il congiuntivo, in particolare, compare quando si
tratta di una causa fittizia (Non mangio non perché non abbia fame ma perché
non mi piace la minestra) e il condizionale in causali con intento attenuativo e
valore desiderativo, potenziale (La chiamo perché vorrei parlarle della mia
attività).
Le proposizioni causali implicite sono introdotte da per/a/con/per il fatto di +
infinito o sono costruite con il gerundio (non torna per non soffrire;; avendo
perduto al gioco non sa come arrivare a fine mese).
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Finali
Indicano lo scopo, il fine (Sono uscito per cercare Mario;; ti pago affinché te ne
vada).
Possono essere implicite (con l’infinito) o esplicite (con il congiuntivo presente
o imperfetto), ma il costrutto implicito è oggi il più utilizzato, soprattutto nella
lingua parlata.
Consecutive
Indicano la conseguenza dell’azione della reggente. Esistono due tipi di
costrutti consecutivi: i primi presentano un antecedente nella reggente, i
secondi sono costrutti deboli semplicemente introdotti da una congiunzione o
da una locuzione congiuntiva (tanto che, che, sicché, ecc.):
Era così strana che tutti si giravano a guardarla;;
Non ho lavorato ieri, tanto che oggi mi trovo in difficoltà.
Anche le consecutive possono essere implicite e sono le più frequenti quando
il soggetto è lo stesso della reggente: è stato tanto sciocco da perdere tutto.
Ipotetiche
Indicano la condizione per cui accade o potrebbe accadere l’azione espressa
nella principale. La reggente (apodosi) e la subordinata ipotetica (protasi)
formano insieme il periodo ipotetico. Di solito la protasi, introdotta da
congiunzioni come se, qualora, nel caso che, ecc., precede l’apodosi ma può
avvenire anche il contrario:
Se tu fossi in casa, verrei;;
Verrei se tu fossi in casa.
Nel periodo ipotetico del primo tipo o della realtà i fatti sono presentati come
certi e si usa l’indicativo in entrambe le proposizioni:
se parli ti ascolto
Nel periodo ipotetico del secondo tipo o della possibilità i fatti sono presentati
come possibili e in quelli del terzo tipo o dell’irrealtà come impossibili;; si usano
il congiuntivo nella protasi e il condizionale nell’apodosi:
se ti riuscisse di venire, sarei contento;;
se fossi ricco, comprerei una Ferrari.
Nel parlato molto informale si sta diffondendo un periodo ipotetico con il doppio
imperfetto indicativo:
Se lo sapevo, non ci venivo.
La protasi può avere una costruzione implicita:
a saperlo sarei venuto;;
lavorando guadagneresti di più;;
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Talvolta l’elemento dislocato può anche essere un’intera frase:
Che tu sia bravo lo abbiamo sempre saputo.
A questo costrutto si può anche ricondurre l’oggetto diretto personale
anteposto e preceduto da a: a Maria non l'ha invitata
In tutti questi casi l’elemento spostato a sinistra è noto agli interlocutori: è
un tema dato e il pronome che riprende l’elemento dislocato ha valore
anaforico.
La dislocazione a sinistra è ormai da tempo ammessa anche nello scritto,
soprattutto nella scrittura giornalistica, nei testi di ampia e brillante
divulgazione, nelle scritture espositive e così via. È meno consentita nella
scrittura scientifica, dove, tuttavia, è possibile ottenere lo stesso effetto di
tematizzazione tramite il passivo. Se trasformo al passivo la frase
Il pane l’ha comprato Giuseppe
avrò il costrutto
Il pane è stato comprato da Giuseppe
Dove rimane al primo posto non l’agente, ma il soggetto grammaticale che
funge da tema dato. In entrambi i casi la frase risponde alla domanda Chi ha
comprato il pane? e in entrambi i casi il rema, coincidente con l’informazione
nuova, è Giovanni.
In un testo scientifico in cui l’autore voglia porre in evidenza il tema non potrà
scrivere La teoria della relatività l’ha elaborata Einstein, ma otterrà lo stesso
effetto ricorrendo al passivo: La teoria della relatività è stata elaborata da
Einstein.
Tema sospeso
A volte due costrutti distinti sono posti nella stessa frase;; il primo dei due
però rimane sospeso, mentre il secondo completa il senso della frase
seguendo un diverso percorso sintattico. Quando si lascia in sospeso il tema
noto (il tema-dato) dell’enunciato, introdotto a inizio di frase come se dovesse
svolgere il ruolo di soggetto, si ha un tema sospeso:
Io, non mi piace per niente questa cosa.
Questa storia, non ci credo proprio.
Luigi, non voglio più avere a che fare con lui.
Dolci, ne ho mangiati abbastanza a Natale.
In questo caso il tema introdotto è sempre ripreso o da un pronome o da
un dimostrativo o da un altro elemento e, pur non avendo una prosecuzione
sintattica, ha con il resto della frase una prosecuzione semantica.
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La dislocazione a destra e il tema sospeso sono solo del parlato e non sono
ammessi nello scritto, a meno che non si tratti di un testo letterario in cui si stia
riproducendo il parlato.
Nel caso delle dislocazione a sinistra e del tema sospeso parliamo di
costruzioni tematizzanti. Lievemente diverso è invece la costruzione della
cosiddetta dislocazione a destra.
Dislocazione a destra
Quando l’oggetto o un complemento non sono spostati ma sono isolati a destra
e anticipati da un pronome atono si ha dislocazione a destra:
Lo prendi un caffè?
Anche in questo caso la dislocazione a destra può interessare, oltre all’oggetto,
un complemento o una frase:
Non gli ho detto niente a Giovanni.
Ne abbiamo abbastanza di queste storie.
Ci torno sempre volentieri in questa città.
Lo sapevo che eri stato tu.
Nella dislocazione a destra il pronome che anticipa un costituente ha valore
cataforico.
Se l’elemento posto a destra della frase è preceduto da una pausa sospensiva
(che nello scritto potremmo rappresentare con una virgola), la dislocazione a
destra può essere una ripresa chiarificatrice di quanto già enunciato:
Lo hai comprato tu, il giornale?
Se non c’è pausa sospensiva, nella gran parte dei casi si intende dare rilievo
al rema, perlopiù rappresentato dal predicato, lasciando in secondo piano il
tema:
Fateli una buona volta questi compiti!
Ci vai o no a Roma?
Sul piano pragmatico la dislocazione a destra crea una sorta di comunicazione
confidenziale: sottintende all’inizio qualcosa la cui conoscenza gli interlocutori
condividono e che viene esplicitato alla fine.
Topicalizzazione (o anteposizione) contrastiva
Nel parlato possiamo dare enfasi al rema anche con il tono della voce:
IL PANE ha comprato Mario.
In questo caso la nostra frase può rispondere alla domanda Che cosa ha
comprato Mario? (e non come nella dislocazione a sinistra Chi ha comprato il
pane?). Dunque il rema coincidente con l’informazione nuova è il pane e noi lo
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In questi casi l’elemento in comune con la frase scissa è soprattutto la divisione
in due frasi di un unico contenuto informativo. Quasi sempre è il verbo essere,
verbo copulativo, che introduce l’elemento focalizzato.
La topicalizzazione contrastiva e la frase scissa sono dette costruzioni
focalizzanti.
Sia le costruzioni tematizzanti sia quelle focalizzanti fanno parte della sintassi
marcata. Con il termine marca in linguistica ci si riferisce alla particolarità che
distingue un elemento dall’altro: per esempio il fonema b ha una marca di
sonorità che lo distingue da p;; il femminile ragazza ha una marca morfologica
che lo distingue da ragazzo e così via dicendo. Da qui discende anche il
significato che oggi si dà al termine marcato per segnalare qualcosa che è
particolarmente caratterizzato rispetto a qualcos’altro considerato più usuale,
più frequente, talvolta anche più vicino alla norma scritta.
Quando parliamo di sintassi marcata, parliamo dunque di costruzioni in cui
l’ordine base dell’italiano SVO viene modificato. Ci si riferisce principalmente
allo spostamento nella frase degli elementi nucleari (quelli che, come si è detto,
costituiscono gli argomenti del verbo, formando il nucleo della frase), perché
gli elementi extranucleari possono invece disporsi con maggiore libertà.
Le costruzioni marcate hanno quasi sempre un valore pragmatico: tramite la
diversa collocazione dei costituenti della frase, infatti, è possibile comunicare
informazioni che vanno al di là del significato letterale. Nelle frasi fateli questi
compiti o che tu sia bravo lo sappiamo, come abbiamo visto, diamo un’enfasi
particolare ad alcuni componenti solo disponendoli in un particolare ordine.
Anche con le costruzioni sintattiche la marcatezza si oppone a qualcosa che
non è marcato. Con una marca fonologica, per esempio, la sonorità di b si
oppone alla sordità di p e viceversa. Allo stesso modo, le frasi appena viste si
oppongo a frasi non marcate che seguono un ordine lineare:
Fateli questi compiti (marcata) – Fate questi compiti (non marcata).
Che tu sia bravo lo sappiamo (marcata) – Sappiamo che sei bravo (non
marcato).
IL SOGGETTO NELLA FRASE
Il soggetto è l’elemento della frase più strettamente legato al verbo. Di solito lo
precede, tranne in alcune strutture in cui stabilmente lo segue come nel caso
di è successo qualcosa o è arrivato un acquazzone. Come abbiamo visto, però,
in italiano è possibile spostare il soggetto con finalità pragmatiche (Canta Mario
oggi;; qualcosa è successo).
62
L’accordo del verbo nella persona, nel numero e, con le forme composte con
il participio, anche nel genere è determinato dal soggetto.
La vecchia definizione per cui il soggetto è colui che compie l’azione è vera
solo in alcuni casi. Non possiamo dire che il soggetto compia l’azione in una
frase come Mario ha ricevuto uno schiaffo da sua madre. Molto dipende dal
significato del predicato, dal suo ruolo semantico, in base al quale il soggetto
può essere attivo o passivo. È la stessa distinzione che abbiamo esaminato a
proposito della costruzione passiva, specificando la differenza tra soggetto
grammaticale (con cui il verbo si accorda) e soggetto logico.
L’italiano è una lingua pro-drop che consente di non esprimere il pronome
soggetto. Tuttavia, l’espressione del soggetto è obbligatoria
nel caso in cui sia necessario distinguere tra forme verbali uguali (penso
che tu/lui sia stanco);;
quando per focalizzazione, in funzione pragmatica, lo posponiamo al verbo
o lo inseriamo in frasi scisse (lo faccio io;; è lui che piange);;
quando è sottolineato da un determinante (loro tre non sanno da che parte
andare;; io che sono la vittima devo sempre subire);;
quando si trova in correlazioni o disgiunzioni (né tu né lui ve la cavate bene;;
o tu o lui dovete uscire).
IL VERBO NELLA FRASE
Si è già detto altrove della diatesi del verbo e della distinzione tra verbi
predicativi che hanno un pieno significato lessicale e verbi copulativi che
mettono in relazione soggetto e verbo (La strada è tortuosa;; i tuoi voti
costituiscono un problema, ecc.).
Inergativi e inaccusativi
È ben nota la distinzione tra verbi transitivi e intransitivi. La loro differenza è
anche sottolineata dall’uso degli ausiliari nella formazione dei tempi composti.
Per quanto riguarda l’uso degli ausiliari, i verbi transitivi hanno sempre avere
alla forma attiva e essere per il passivo;; i verbi intransitivi a volta hanno
l’ausiliare essere a volte avere.
I verbi intransitivi che ricorrono all’ausiliare avere si definiscono verbi
inergativi (Mario ha dormito bene);; quelli che ricorrono all’ausiliare essere
sono detti verbi inaccusativi (Giovanni è caduto). L’italiano possiede, tra le
lingue romanze, il maggior numero di verbi inaccusativi.
In italiano, per distinguere i verbi inaccusativi dagli inergativi si usano di solito
alcuni test.
- La scelta dell’ausiliare (essere per gli inaccusativi, avere per gli inergativi).
Va osservato che l’ausiliare essere accomuna i verbi inaccusativi ai verbi
63
IL LESSICO
Il lessico non va confuso con il dizionario: il primo è l’insieme delle parole di
una lingua;; il secondo è la descrizione di questo insieme. Sono l’uno (il lessico)
il contenuto dell’altro (il dizionario). Il dizionario è un oggetto materiale, un libro
o, oggi, un testo consultabile online;; il lessico è un oggetto astratto, un insieme
di parole e di informazioni associate a queste parole, immagazzinato nella
nostra mente e descritto nel dizionario. Una relazione analoga troviamo tra le
regole sintattiche o morfologiche di una lingua, che costituiscono una struttura
della lingua stessa, e il libro di grammatica che le descrive.
La struttura del lessico non corrisponde alla struttura del dizionario.
Quest’ultimo organizza le informazioni in base alla leggibilità del testo, alle
esigenze del pubblico cui è destinato (comune nel caso di dizionari dell’uso,
specialistico nel caso di dizionari storici o specialistici), alla natura specifica del
dizionario (etimologico, storico, ecc.). Il dizionario monolingue, per esempio,
segue l’ordine alfabetico;; il lessico non è organizzato alfabeticamente, ma per
famiglie di parole legate dalle forme (fiore, fiorellino, rifiorire, ecc.;; o
sensazione, costruzione, fissazione, ecc.), per campi semantici (acquistare,
comperare, vendere, trattare, ecc.), per classi grammaticali (nomi, aggettivi,
verbi, ecc.).
Il dizionario in realtà non è la descrizione del lessico, ma piuttosto un tentativo
di descrizione;; non per nulla esistono più dizionari di una stessa lingua, che
presentano il lessico secondo aspetti diversi. Il dizionario non costituisce mai
una rappresentazione totale di tutte le parole di una lingua, dei loro usi, dei loro
significati. Rappresenta soltanto un repertorio incompleto. È difficile, infatti,
stabilire il numero esatto di parole che compongono una lingua ed è
ugualmente difficile individuare le proprietà di ogni singola parola.
D’altro canto la competenza lessicale dei parlanti non è tale da contenere tutte
le informazioni trasmesse da un dizionario: nessun parlante nativo conosce
tutte le parole e le informazioni specifiche trasmesse da un dizionario. È anche
vero del resto che molte espressioni che appartengono al nostro uso
quotidiano non sono contemplate dal dizionario perché considerate formazioni
ricreabili all’occorrenza. Se, per esempio, il diminutivo carrozzina, nel
significato oggi diffuso e diverso dall’originario “piccola carrozza”, è entrato nel
dizionario come voce autonoma grazie al suo specifico significato, altri
diminutivi, come, per esempio, caffeino, non sono accolti, pur venendo
adoperati da molti di noi nella comunicazione quotidiana.
Analogamente al lessico e al dizionario abbiamo le discipline rispettivamente
della lessicologia e della lessicografia. La prima studia il lessico di una lingua
65
interpretazione: vado auto lavoro otto mattina. Al contrario se togliamo tutte le
parole contenuto lasciando le parole funzione otteniamo una sequenza che
non esprime alcun significato: alle di a in: mancano le parole che forniscano
una base semantica.
Il significato delle parole contenuto è chiamato significato lessicale, quello
delle parole funzione significato grammaticale. Le parole della prima classe
hanno significato da sole e sono autonome dal punto di vista semantico,
mentre le parole funzione acquisiscono significato in relazione alle parole
contenuto cui si riferiscono.
La differenza tra parole contenuto e parole funzione è chiarita oltre che tramite
il riferimento alle categorie grammaticali anche grazie al fatto che le prime
costituiscono un insieme aperto, nel quale in continuazione possono entrare
nuovi elementi e dal quale possono uscire vecchi componenti;; le seconde al
contrario costituiscono un elenco finito di parole.
Mentre infatti l’entrata nel lessico di parole contenuto nuove è un fenomeno
comune e frequente, l’entrata di nuove parole funzione è possibile ma è un
fenomeno molto più raro e dal punto di vista diacronico richiede molto più
tempo. Spesso quando il fenomeno avviene è il risultato della trasformazione
di una parola contenuto in una parola funzione.
Una seconda distinzione è quella tra significato denotativo e significato
connotativo. Il significato denotativo è la proprietà di una parola di indicare
genericamente l’intera classe degli elementi che condividono le proprietà
dell’oggetto designato. Ad es., la parola cane denota genericamente tutti gli
elementi che appartengono al tipo «cane» (quadrupede, mammifero, ecc.), tra
i quali vi sono tuttavia cani di diverso tipo e dimensione. Il significato denotativo
è di solito quello riconosciuto da tutta la comunità linguistica;; talvolta, infatti, è
anche detto enciclopedico.
Il significato connotativo riguarda quegli aspetti del significato di una parola che
hanno carattere di attributo: sono cioè le proprietà che possono aggiungersi al
significato denotativo e specificarlo. Possono, per esempio, specificare
l’atteggiamento del parlante nei confronti del referente della parola: mamma è
connotato affettivamente rispetto a madre che non è connotato. Il significato
connotativo esprime valori affettivi, individuali, emotivi;; possiede sfumature
psicologiche e, talvolta, valutative. A volte si tratta di usi metaforici consolidati
nell’uso comune: deserto come ‘luogo geografico che possiede determinate
caratteristiche’ è un significato denotativo;; deserto come ‘solitudine’, ‘assenza
totale di ciò di cui abbiamo bisogno’, ecc. è un significato connotativo. A volte
la connotazione riguarda una sola parte della società: nero usato in senso
spregiativo è una connotazione data da gruppi razzisti.
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Le relazioni di significato
La branca della linguistica che studia specificamente i significati è la
semantica. Molte associazioni tra le parole si costituiscono in base al
significato che può variare nel tempo, per il contesto in cui si usa una parola,
per il registro linguistico cui viene associata e così via.
In base al significato, i tipi di associazione tra le parole possono essere:
Ø relazioni verticali o gerarchiche o di inclusione, in cui un elemento è
sovraordinato all’altro (fiore, rosa);;
Ø relazioni orizzontali o di equivalenza (barriera/ostacolo);;
Ø relazioni di opposizione (bello/brutto).
Esistono tuttavia molte associazioni che non sono riconducibili a nessuno di
questi tipi (dormire/russare). Inoltre le parole polisemiche attivano diverse
associazioni per ogni significato (acceso/sbiadito per il colore, acceso/spento
per il lume, accesa/pacata per la discussione, ecc.).
Iperonimia – iponimia
Per le relazioni gerarchiche o di inclusione abbiamo l’iperonimia che lega due
parole delle quali l’una, l’iponimo, ha un significato più specifico, l’altra,
l’iperonimo, più generico. Il significato dell’iponimo cioè è costituito dal
significato dell’iperonimo più qualche tratto aggiuntivo: fiore – rosa, giglio;;
veicolo – automobile, autobus.
Sinonimia
La relazione di equivalenza è la sinonimia. Genericamente i sinonimi sono due
parole che hanno lo stesso significato (miseria/povertà, sasso/pietra). Più
esattamente la sinonimia dovrebbe essere una relazione di perfetta
equivalenza dei significati tra due parole che possono essere sostituite una
all’altra senza che questo cambi il significato della frase. In realtà questa
definizione è poco praticabile perché raramente si trovano parole che possano
essere perfettamente intercambiabili in tutti i contesti.
Più frequenti sono i casi di sinonimia parziale, in cui due parole possono essere
scambiate soltanto in un contesto specifico, come biglietto che può essere
scambiato con banconota in una frase come «un biglietto da 10 euro», ma non
in «un biglietto del treno». Molte parole non possono definirsi sinonimi perché
appartengono a registri diversi (morire, scomparire, spegnersi, salire al cielo).
Per una definizione più accettabile di sinonimia dovremmo dire che la
sinonimia è una relazione tra due parole che in un dato contesto, e quindi in
un dato significato, possono essere sostituite una all’altra senza che ciò abbia
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conseguenze sull’interpretazione della frase. In questo caso due parole sono
sinonimi quando possono essere intercambiabili in almeno un contesto.
Antinomia
Nell’opposizione abbiamo coppie o serie di termini che si oppongono in
relazione a uno o più aspetti del loro significato.
Abbiamo diversi tipi di relazione di opposizione Gli antonimi sono coppie di
parole che designano una proprietà o un evento graduabili o scalari, come
facile/difficile, bello/brutto, basso/alto, pulire/sporcare, I due antonimi cioè sono
agli estremi, ai poli opposti di una scala possibile: si parla infatti di opposizione
polare. Tra facile e difficile, bello e brutto ci sono gradazioni intermedie e
qualcosa può essere né facile né difficile, ne troppo bella né troppo brutta.
Due termini sono invece complementari quando si escludono a vicenda
(vivo/morto, promosso/bocciato);; non sono cioè su due poli opposti congiunti
da gradazioni intermedie, ma su due sezioni totalmente separate. Si parla in
questo casi anche di opposizione binaria.
Si parla anche di inversione per due termini che esprimono la stessa relazione
semantica vista da due prospettive diverse: slegare non significa non legare e
così uscire non vale non entrare.
I dizionari dell’italiano
L’italiano, come la gran parte delle lingue, ha dizionari dell’uso, dizionari storici
e dizionari etimologici. Sono tutti strumenti indispensabili per chi lavora con le
lingue o le insegna e per chi si occupa di testi e di traduzioni.
Il primo vocabolario dell’italiano è stato il Vocabolario della Crusca, stampato
per la prima volta nel 1612. Oggi tutte le edizioni del vocabolario sono
consultabili sul sito: www.accademiadellacrusca.it
Un vocabolario storico si distingue perché, oltre alle parole e alle definizioni,
include anche le citazioni d’autore. Un tempo queste citazioni servivano anche
come esercitazione di stile per chi voleva cimentarsi nella scrittura elevata;;
oggi hanno una funzione di documentazione utile per le ricerche storiche e
linguistiche.
Oggi il vocabolario storico di riferimento dell’italiano è il GDLI, il Grande
dizionario della lingua italiana, iniziato da Salvatore Battaglia nel 1961 e
continuato interamente a Torino, presso la Utet, da Giorgio Bàrberi Squarotti
fino alla sua conclusione nel 2002 (con supplementi sui neologismi nel 2004 e
nel 2007).
69
Nella redazione dei primi volumi del GDLI si sono seguiti criteri tradizionali,
ancora molto legati alla lingua letteraria. L’interesse è sempre rilevare l’uso di
ogni voce nelle fonti scritte, ma nel corso del tempo ci sono stati alcuni
aggiustamenti come:
• l’attenuazione del carattere marcatamente letterario del vocabolario, che
si è sempre più caratterizzato come un’ampia raccolta della lingua scritta
nelle sue più diverse realizzazioni;;
• una maggiore ampiezza di voci scientifiche (tecnicismi), che per loro
natura sono prive di esempi d’autore;;
• un ampliamento delle fonti, che includono anche saggi e quotidiani, e
delle stesse fonti letterarie che originariamente privilegiavano i testi
toscani;;
• una maggiore apertura ai forestierismi sia pure con molta cautela.
Per quanto riguarda le lingue antiche, di estrema rilevanza è oggi il TLIO,
Tesoro della lingua italiana delle origini che arriva fino al 1375, data della morte
di Boccaccio. Il TLIO è redatto a cura del Centro di ricerca del CNR, l’Opera
del vocabolario italiano (OVI) che ha sede a Firenze, presso lo stessa Villa
medicea di Castello dove ha ancora sede l’Accademia della Crusca. È
interamente online ed è consultabile ai siti:
http://www.ovi.cnr.it/
http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/
I vocabolari etimologici offrono, rispetto ai dizionari storici, la prima attestazione
di ogni lemma, danno la genesi della parola in tutte le possibili implicazioni con
altre parole della stessa lingua ed eventualmente di altre lingue e ne seguono
l’evoluzione semantica.
I dizionari storici dell’italiano sono: il DEI, Dizionario etimologico dell’italiano, di
Carlo Battisti e Giovanni Alessio, Firenze, Barbera, 1950-57, molto ampio ma
spesso poco affidabile;; il DELI, Dizionario etimologico della lingua italiana,
stampato una prima volta a Bologna da Zanichelli tra il 1979 e il 1988 in 5
volumi e curato da Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli;; ristampato e rivisto nel
1999 a cura di Manlio e Michele Cortelazzo con il titolo Il nuovo etimologico,
consultabile anche in CD-Rom. Imprtante è anche il Dizionario etimologico di
Alberto Nocentini (Firenze, Le Monnier).
Una menzione a parte merita il LEI, Lessico etimologico italiano, fondato da
Max Pfister (Wiesbaden, Reichert, 1979 e seguenti) che ha un’impostazione
monumentale. Si propone, infatti, di raccogliere tutte le attestazioni dell’italiano
e dei suoi dialetti, antichi e moderni, dalle origini fino a oggi. Ciascuna voce,
considerabile una monografia, è distinta in tre parti, contrassegnate da numeri
romani e corrispondenti a una lettura etimologico-storica ben precisa. Il numero
I corrisponde alle parole di trafila popolare, il II a quelle di trafila dotta, il III ai
70
componente essenziale si collocano gli apporti che nel tempo hanno dato o
che ancora oggi danno le altre lingue, inclusi i dialetti della penisola, attraverso
i prestiti. A tutto ciò si aggiungono le neoformazioni che, come abbiamo visto,
si possono ottenere per derivazione o per composizione.
La maggioranza delle parole italiane proviene dal latino volgare, dal latino
parlato e quindi dall’uso orale e non dallo scritto, come è facile capire da alcuni
esempi.
Per il concetto di ‘casa’ i latini usavano la parola domus che indicava la casa
patrizia o in ogni caso l’abitazione agiata. Casa esisteva in latino ma con il
significato di ‘capanna, tugurio’. Nell’economia impoverita dell’impero ormai in
decadenza, nel prevalere delle campagne a discapito delle città, l’abitazione
‘casa’ divenne più diffusa insieme con la parola casa che la designava. Non
per nulla domus è sopravvissuta in italiano solo in duomo, la maestosa casa di
Dio. Ogni mutamento o spostamento semantico comporta nel sistema lessicale
di una lingua uno spostamento a catena. Il venir meno di domus ha indebolito
la coerenza della famiglia lessicale che da questa parola discendeva con dom-
inus/-a, dom-esticus, dom-icilium, ecc. Tant’è vero che alcune parole
appartenenti a questa famiglia o sono state recuperate con significato diverso
o sono state recuperate come cultismi in modo isolato.
La cosa rilevante da osservare è che a cambiare non sono solo le parole ma
gli stessi rapporti tra parole e parole e talvolta tra parole e cose. Il campo
semantico di casa si è allargato nel passaggio dal latino al volgare (non più
una specifica, povera abitazione, ma tutte le abitazioni);; al contrario quello di
domus si è ristretto. In altre parole casa è passata da un significato marcato a
uno neutro, domus da uno neutro a uno marcato (solo il duomo).
Un esempio analogo è quello di equus che viene soppiantato da caballus
(‘cavallo da tiro, da lavoro’, meno pregiato ma molto più utile nel ripiegamento
rurale dell’alto medioevo). Equus sopravvive solo in parole dotte come
equestre, equino. In altre lingue romanze periferiche (più conservative anche
per questo), a riprova dell’arbitrarietà anche nella storia linguistica, si è al
contrario continuata la parola al femminile equa nel rumeno iapa, nel sardo
logudorese ebba, nel catalano egua ecc.
Per riuscire a riconoscere tuttavia la trafila seguita da una parola per
giungere fino a noi è molto più rilevante osservare il mutamento fonetico
che quello semantico. Nel passaggio dal latino all’italiano si parla di una
doppia trafila, una dotta e una popolare e così si parla di parole dotte o cultismi
o anche latinismi e di forme popolari. Ritornando per esempio a cavallo,
quest’ultima è una forma popolare, perché dal lat. caballu(m) ha subito dei
cambiamenti fonetici, come la spirantizzazione della b. Esiste tuttavia una serie
di parole ancora legate alla forma classica, come equino, equestre,
72
equitazione. Queste ultime sono cultismi: non solo perché continuano la forma
latina classica, ma anche soprattutto perché sono state introdotte nella lingua
dai dotti, attraverso la scrittura. Non sono arrivate per trafila ininterrotta
attraverso l’oralità, la lingua parlata, ma sono state ripescate a tavolino: per
costruire l’aggettivo “relativo al cavallo” non si è partiti dalla forma popolare,
ma da quella perduta. Allo stesso modo da auru(m) abbiamo avuto oro con
chiusura del dittongo, ma abbiamo l’aggettivo aureo, occhio e oculare, oculista,
ecc:
AURU(M) > oro – OCULU(M) > occhio trafila popolare
ma
aureo, oculare, oculista – trafila dotta
Sono coniazioni dotte avvenute anche secoli orsono, ma altre si possono
ancora coniare soprattutto per i tecnicismi delle lingue scientifiche.
Il fenomeno d’altro canto non sempre si spiega con la coniazione dotta da parte
degli intellettuali. prendiamo l’esempio di rosa: dovrebbe aver dittongato come
buona o nuova. Si può in questo caso ipotizzare che la parola sia rimasta
intatta perché è un portato della tradizione poetica e in particolare della lirica,
una parola cioè sorvegliata dalla comunità degli scrittori. Ma non sempre è
facile trovare spiegazioni di questo tipo: nel caso di miracolo per esempio, che
certo appartiene al lessico religioso, non si può dire che la parola non sia stata
di uso comune e diffuso nella religiosità popolare, eppure non subisce gli stessi
mutamenti fonetici di occhio. C’è sempre una componente di arbitrarietà.
In alcuni casi dalla stessa base latina si sono avute doppie forme, una popolare
e una dotta, talvolta anche con diversificazione semantica: da angŭstia >
angoscia, e angustia, da plebe > pieve e plebe. In questi casi parliamo di
allotropi. Come si può vedere la definizione di popolare o dotta non dipende
né dal significato né dall’attuale diffusione della parola. Da dĭscu(m)
sopravvivono oggi disco e desco: la prima è la più diffusa nell’italiano odierno,
ma è quella che ha seguito la trafila dotta. Stesso discorso vale per vizio e
vezzo, pensione e pigione, occasione e cagione (entrambi da occasionem). La
parola dotta è dunque quella più vicina alla forma latina e il criterio per definirla
o per distinguere l’allotropo dotto da quello popolare è solo fonetico.
Gli allotropi sono dunque due forme, una dotta e una popolare, derivate dalla
stessa base latina con diversificazione semantica:
ANGŬSTIAM > angustia
angoscia
VĬTIUM > vizio
vezzo
73
Il prestito linguistico è un fenomeno di trasmissione culturale fra civiltà e gruppi
linguistici diversi. Non concerne solamente le interferenze tra lingue nazionali,
ma anche quelle che avvengono tra la lingua e il dialetto.
Tra le lingue da cui si ricavano i prestiti bisognerebbe includere anche il latino,
non per le parole ereditate direttamente, fin dalle origini, e divenute parole
italiane, ma per le formazioni colte che ancora oggi si attingono a questo
grande serbatoio. Al latino ricorrono per esempio diversi linguaggi specialistici,
in particolare il linguaggio del diritto (evizione “perdita di un diritto trasferito,
provocata dal preesistente diritto di un terzo”, fattispecie, fraudolento,
interdizione, ecc.)
Possiamo parlare di
1. prestiti non integrati (detti anche prestiti integrali o non adattati) quando
si tende ad accogliere l’elemento straniero senza modificarlo (bar, sport,
computer, ecc.);;
2. prestiti integrati (detti anche prestiti adattati) quando la parola straniera
è adattata al sistema grafico e fono-morfologico della lingua di arrivo
(bleu > blu, dollar > dollaro, beefsteak > bistecca);;
3. calchi di traduzione (detti anche calchi strutturali o calchi sintattici)
quando si forma un nuovo composto con termini italiani, traducendo
letteralmente i singoli componenti di una parola straniera, come
grattacielo su skyscraper, ferrovia (che convive con la forma endogena
strada ferrata) sul tedesco Eisenbahn, guerra fredda su cold war
basketball > pallacanestro;;
4. calchi semantici quando il significato di una parola italiana preesistente
si amplia accogliendo anche il significato di una corrispondente parola
straniera. Il calco semantico può essere omonimico, cioè basato anche
sulla somiglianza fonica, come in realizzare ‘capire’ sull’inglese to
realize, autorizzare ‘permettere’ sul francese autoriser, aperitivo
‘bevanda’ sul francese aperitif e suggestione ‘suggerimento’ sull’inglese
suggestion;; può essere anche sinonimico, cioè basato sull’assunzione
dello stesso significato da parte di un termine che sul piano fonetico non
ha nulla in comune con il termine straniero, come stella ‘diva del cinema’
sull’inglese star.
Possiamo anche distinguere tra prestiti di necessità e prestiti di lusso: i
primi riguardano oggetti o concetti sconosciuti alla comunità linguistica italiana
e sono quindi indispensabili per designare l’elemento nuovo (patata, caffè);; i
secondi sono indotti dalla moda o dal prestigio che in alcune fasi storiche
assumono alcune lingue ma potrebbero essere sostituiti da parole italiane:
trend si sovrappone a tendenza, baby sitter a bambinaia, ecc.
75
Tra i prestiti che sono arrivati all’italiano un gran numero di grecismi, cioè
forme, costrutti di origine greca introdotti in italiano, si era già acclimatato nel
latino d’età classica e postclassica, e da qui si è introdotto nella nostra lingua
a partire dai testi più antichi: si pensi ai nomi di oggetti quotidiani e domestici
(ampolla, borsa, canestro, ecc.), alla terminologia ittica (balena, delfino, cefalo,
ecc.), ai termini di base della filosofia e delle scienze dell’antichità (filosofia,
retorica, aritmetica, geometria, geografia, ecc.), alla lingua dei cristiani
(apostolo, battesimo, martirio, ecc.).
Il travaso di elementi lessicali greci è continuato anche in epoca altomedievale.
Al greco bizantino risalgono voci comuni (anguria, basilico, indivia, ecc.), voci
marinaresche – spesso penetrate attraverso Venezia e il suo territorio relative
a imbarcazioni (galera, gondola) o ad attrezzi e operazioni marittime (argano,
molo, ormeggiare, sartia, ecc.).
Per i germanismi più antichi dobbiamo distinguere gotismi, longobardismi e
franconismi. All’elemento gotico appartengono termini della vita militare
(bando, elmo, guardia), anche con evoluzioni semantiche successive, come
albergo «rifugio dell’esercito», oltre che parole della vita quotidiana e dell’uso
domestico (nastro, fiasco, rocca, spola, arredare).
Dalla dominazione longobarda entra il lascito più consistente, in molti casi vivo
ancora oggi, con tracce significative anche nella toponomastica e
nell’antroponimia: bara, biacca, federa, ricco, russare, scaffale, schermire,
sguattero, balcone, zuffa, parti del corpo umano (schiena, stinco, milza, anca,
guancia), staffa, strofinare, scranna, gruccia. Sono invece scomparsi dall’uso
termini strettamente legati alla cultura longobarda (arimanno);; altri sono
relegati all’uso letterario (strale).
Per i franconismi il problema è più complesso, perché i Franchi che arrivarono
in Italia dalla Gallia, dove si trovavano già stabilmente da due secoli, dovevano
essere bilingui, se non già romanizzati: pertanto non è facile attribuire una
parola al franco o al galloromanzo o alla probabile mediazione del latino
medievale.
Importanza rilevante hanno i francesismi che hanno cominciato il loro
cammino verso i nostri volgari già nella prima età medievale. Molti termini sono
relativi all’organizzazione feudale: conte e contea, marca «contea di confine»
e marchese, cavaliere (specializzato semanticamente rispetto all’allotropo
autoctono cavallaio / cavallaro), vassallo, cameriere «tesoriere», cugino (che
oltre a essere un nome di parentela valeva come titolo onorifico).
Un gran numero di francesismi arrivò nell’italiano nel XVIII sec. Il periodo
rivoluzionario (1796-1799) e il quindicennio napoleonico furono determinanti;;
76
per esempio, ricavarono dallo slogan di Umberto Bossi. Gli esempi nei
quotidiani sono molteplici: alcuni anni fa, per esempio, sono entrati termini
come mattarellum (“sistema elettorale maggioritario col correttivo di una quota
proporzionale”, così chiamato perché proposto da Sergio Mattarella),
rutellismo, veltronizzare, ecc.
Oggi la maggior parte dei dizionari dell’uso è molto prudente nel registrare gli
occasionalismi, per evitare di fornire ufficialità a parole effimere. Al contrario,
nel passato furono frettolosamente inserite nei dizionari occasionalismi come i
termini che designavano balli alla moda – lo shimmy (1921) o il black-bottom
(anni Trenta) –, che oggi nessuno più conosce e che appaiono inutilmente nei
dizionari dell’uso.
Alcune formazioni però si mantengono nel tempo: si pensi alla parola
buonismo (1995), ormai inserita in Devoto-Oli, GRADIT, Zingarelli e Sabatini-
Coletti, o alla voce dialettale napoletana inciucio nel significato di
“compromesso poco trasparente, accordo pasticciato” (1995), accezione
registrata da Devoto-Oli, GRADIT e Zingarelli.
Più difficile prevedere le sorti di parole come euroconvertitore, sempre meno
utile dopo la definitiva affermazione dell’euro, papamobile “particolare
autoveicolo costruito per favorire gli spostamenti dell’anziano Giovanni Paolo
II nelle visite”, o altre analoghe
Un utile strumento sono le raccolte di neologismi, come gli ultimi volumi del
GDLI e del GRADIT o lo studio importante di Giovanni Adamo e V. Della Valle,
Neologismi quotidiani. Un dizionario a cavallo del millennio (1998-2003),
Olschki, Firenze, 2003. Entrambi gli studiosi lavorano all’Osservatorio
neologico della lingua italiana.
Nel passato tali raccolte erano spesso compilate con intenti puristici, cioè con
l’idea di fornire un elenco di parole da non usare. Nonostante le intenzioni dei
compilatori, tuttavia, questi elenchi forniscono informazioni preziose. Molti
termini infatti sono attestati per la prima volta proprio in repertori del genere:
cartone animato nel Barbaro dominio di Paolo Monelli (Hoepli, Milano 1933),
contabile “ragioniere” e rivalsa in una raccolta ottocentesca del funzionario
napoleonico Giuseppe Bernardoni (Elenco di alcune parole oggidì
frequentemente in uso [...], Milano 1812).
79
FONETICA DELL’ITALIANO
La fonetica è la scienza che studia i suoni (o foni) sia nella produzione del
parlante sia nella ricezione dell’ascoltatore.
I suoni sono prodotti tramite l’apparato fonatorio, costituito da polmoni, bronchi,
trachea, laringe, cavità della bocca e cavità nasale.
Pochi foni si combinano in modi molteplici formano un altissimo numero di
parole (linguaggio verbale). Nessuna lingua utilizza tutti i foni possibili per
formare parole.
L’aria prodotta dai polmoni passa attraverso la laringe e nel fuoriuscire dalla
cavità orale subisce delle modificazioni che producono suoni distinti.
Ø Se nel passaggio dalla laringe le corde vocali poste ai suoi bordi vibrano,
si avranno suoni sonori;; se invece le corde vocali non si muovono,
avremo suoni sordi.
Ø Se l’aria passa attraverso le cavità nasali, si producono suoni nasali, ma
se il velo palatino (la parte posteriore e molle del palato) impedisce il
passaggio attraverso il naso, si avranno soltanto suoni orali. In italiano
80
i suoni nasali sono pochi e sono soltanto consonantici, mentre tra i foni
orali distinguiamo tra vocali e consonanti.
Ø Quando produciamo le vocali, l’aria che passa attraverso la cavità orale
non incontra ostacoli, ma solo, in qualche caso, un restringimento;; le
corde vocali vibrano sempre, per cui le vocali sono soltanto sonore. Le
vocali sono gli unici foni dell’italiano su cui può cadere l’accento.
Ø Le consonanti possono essere sorde o sonore e l’aria incontra degli
ostacoli lungo il passaggio.
Ø Le semiconsonanti o semivocali sono suoni intermedi, prodotti quasi
come le vocali ma con durata più breve per il sopraggiungere di un
ostacolo.
La fonetica studia dunque l’articolazione fisica dei suoni ed è diversa dalla
FONOLOGIA che studia il valore astratto dei foni;; si occupa cioè dei fonemi.
Il fono è il suono fisicamente prodotto dal parlante, mentre il fonema è la
rappresentazione mentale di un fono che ha funzione distintiva in un preciso
sistema linguistico, che consente, cioè, di distinguere il significato di una parola
dall’altra. Il fono si rappresenta con un simbolo dell’alfabeto fonetico racchiuso
tra parentesi quadre [ʎ];; il fonema con un simbolo fonetico racchiuso tra barre
oblique /ʎ/.
Il fono è un qualsiasi suono linguistico, mentre il fonema è l’unità minima
utilizzata da una lingua per distinguere una parola dall’altra.
81
Si tratta di una distinzione di estrema importanza per tutte le lingue. Ogni lingua
ha alcuni foni che corrispondono a fonemi distinti, che corrispondono cioè a
rappresentazioni mentali e astratte distinte. I parlanti però possono produrre
anche foni diversi e possono produrre anche in modi diversi il fono
corrispondente a un fonema;; possono dare cioè realizzazioni diverse dello
stesso fonema per variazioni personali, geografiche, sociali. Le realizzazioni
diverse dello stesso fonema si dicono allòfoni.
Pensiamo a un parlante che tenda a realizzare la s poggiando la punta della
lingua contro gli alveoli invece che contro i denti. Si tratterà solo di una
variazione, di un allofono cui non corrisponde un fonema specifico, diverso da
quello della /s/ italiana. Nell’ascoltarlo non terremo conto di questa variazione,
ma ricondurremo il suono al fonema dell’italiano. Si tratta dunque di una
variazione fonetica e non di una distinzione fonologica;; in una lingua, però,
esistono, come si vedrà, anche allofoni stabili, ovvero variazioni di suono
condizionati dal contesto fonetico.
La funzione distintiva dei fonemi è testimoniata dalla presenza di coppie
minime, cioè coppie di parole che si distinguono per un unico elemento:
rata ~ rada;; patto ~ matto;; pazzo ~ pozzo.
Se in una parola, sostituendo un fono con un altro, si ottiene un’altra parola di
senso compiuto, siamo di fronte a due fonemi (prova di commutazione) e a
una distinzione fonologica.
Il più diffuso sistema di trascrizione dei foni e dei fonemi è l’IPA (International
Phonetic Association).
I foni sono elementi della comunicazione orale, del parlato. Da secoli gli uomini
li fissano sulla carta attraverso segni grafici (grafemi). Lo studio dei grafemi e
dei segni paragrafematici che si adoperano solo nella scrittura (apostrofi,
accenti, interpunzione, ecc.) è detto grafematica.
Non bisogna mai confondere il segno grafico con il suono;; non sempre (e in
alcune lingue quasi mai) esiste un rapporto di esatta corrispondenza tra il fono
e la sua realizzazione grafica. La fonetica di una lingua muta più velocemente
della grafia, che registra spesso fasi più antiche.
Per lo studio delle lingue antiche, la grafia riveste una grande importanza,
mentre è secondaria nello studio delle lingue contemporanee.
In italiano il rapporto tra fonetica e grafia non pone grandi problemi, ma
esistono delle discordanze. Alcuni segni grafici, per esempio, non si realizzano
nella fonetica (si pensi al valore diacritico della i in parole come giallo o
82
ciondolo);; a volte lo stesso fonema è reso in modi diversi (si pensi all’occlusiva
velare che può essere rappresentata dal digramma <ch>, chilo, o dal solo <c>,
cane).
Il sistema fonologico dell’italiano è costituito da sette vocali, da due semivocali
e da 21 consonanti. Un numero complessivo molto superiore ai 21 segni
dell’alfabeto, senza contare che molte consonanti, quando si trovano tra due
vocali (posizione intervocalica), possono essere lunghe e brevi, dette anche
doppie e scempie con riferimento alla realizzazione grafica.
VOCALISMO
Il vocalismo tonico dell’italiano è formato da:
una vocale centrale di massima apertura, /a/;;
tre vocali anteriori, /i/, /e/, /ɛ/, o palatali (la lingua si sposta in avanti, verso il
palato duro), aprocheile (realizzate cioè con distensione delle labbra);;
tre vocali posteriori /u/, /o/, /ɔ/, o velari (la lingua si sposta indietro, verso il
palato molle), procheile (realizzate cioè con arrotondamento delle labbra).
In base all’altezza della lingua distinguiamo tra vocali alte (/i/, /u/), vocali medio
alte (/e/, /o/), vocali medio basse (/ɛ/, /ɔ/), vocale bassa (/a/). Le vocali alte sono
di massima chiusura.
La grafia dell’italiano non segna la differenza di apertura e chiusura delle vocali
medio alte e medio basse. Si tratta di una distinzione fonologica come prova
l’esistenza di alcuna coppie minime come
83
/bɔtte/ (plurale di botta) e /botte/ (recipiente per vino)
/pɛsca/ (‘frutto’) e /pesca/ (‘attività del pescare’).
Talvolta la distinzione si può segnare graficamente tramite l’accento. L’accento
acuto, è, segnala la vocale chiusa, quello grave, è, la vocale aperta.
La distinzione tra apertura e chiusura delle vocali medie si avverte soltanto
quando sono accentate (toniche);; se sono atone la distinzione si annulla e i
suoni vocalici si riducono a cinque.
La distribuzione dei suoni in ogni lingua ha delle restrizioni: non sempre tutti i
suoni, cioè, possono ricorrere in tutte le posizioni. Per quanto riguarda le vocali,
per esempio, in italiano la u non può ricorrere in fine di parola tranne nel caso
in cui non sia tonica (più, tribù, ecc.);; anche la o chiusa non ricorre mai in fine
di parola, dove si trova solo la /ɔ/ (però, contò, ecc.).
Quando due vocali appartengono a due sillabe diverse e si incontrano, si forma
uno iato: pa-é-se, le-ó-ne (diverso il caso dei dittonghi fài-da, buò-no). Quando
l’incontro tra le vocali di due sillabe distinte si realizza per l’incontro tra due
parole diverse (la entrata, lo impero), per evitare lo iato, spesso cade la vocale
finale della prima parola (l’entrata, l’impero). È un fenomeno fonosintattico (o
di fonetica sintattica) e di riduzione del corpo fonico della parola definito
elisione.
Si parla invece di iato quando due vocali accostate sono pronunciate in due
sillabe separate. Si verifica:
- quando nessuna delle due vocali contigue è una i o una u (be-ato, le-ale,
ero-e);;
- quando una delle due vocali è una i o una u colpite da accento (mío, búe);;
- in alcune parole formate con il prefisso ri- (ri-aprire, ri-avere) o, più in
generale, in cui la i è preceduta da r o da un gruppo consonantico con r: ori-
ente, ri-one, ecc.;;
- quando si tratti del derivato di una parola che aveva l’accento sulla i: vi-
abilità (da vì-a), spi-are (da spì-a).
L’italiano possiede anche due semiconsonanti o semivocali: la /j/ (o iod)
palatale e la /w/ velare che nella grafia dell’italiano sono rese con <i> e <u>.
La loro pronuncia è a metà tra le vocali e le consonanti;; si chiamano infatti
anche consonanti approssimanti, perché il canale dell’aria si restringe molto
ma non completamente come per le consonanti.
Questi foni possono comparire in italiano solo prima o dopo una vocale
appartenente alla stessa sillaba. Se compaiono prima formano un dittongo
84
ascendente, piede, buono, accentato cioè sul secondo elemento vocalico. Se
compaiono dopo formano un dittongo discendente, accentato cioè sul primo
elemento vocalico: càusa, pòi.
La /j/ non può mai co-occorrere con la /i/;; la /w/ non può mai co-occorrere con
la /u/ e non può formare dittonghi discendenti con /i/, /ɔ/ e /o/.
La /u/ non può mai apparire in fine di parola tranne nel caso in cui non sia
tonica (più).
CONSONANTI
Fonemi consonantici dell’italiano
Luogo di articolazione
Modo di Bilabiali Labiodent. Dentali Alveolari Palatali Velari
articolaz. s.da s.da s.ra s.da s.da s.ra s.da s.da
s.ra s.ra s.ra s.ra
Occlusive p b t d k g
Laterali l ʎ
Vibranti r
Fricative f v s z ʃ
Nasali m n
ɲ
Affricate ts dz ʧ dʒ
Occlusive: chiusura completa del canale
Costrittive: c’è un forte restringimento che tuttavia consente il passaggio
dell’aria:
- fricative si producono con una frizione
- vibranti con vibrazione della lingua
- laterali con passaggio dell’aria ai lati della lingua
Affricate: c’è un’occlusione e poi un restringimento
La presenza di quattro affricate tra i fonemi consonantici è considerato un tratto
tipico dell’italiano;; le altre principali lingue europee ne hanno al massimo due.
Bilabiali: chiusura delle labbra
Labiodentali: denti e labbro inferiore
Dentali: punta della lingua contro i denti
Alveolari: punta della lingua contro gli alveoli
Palatali: dorso della lingua contro il palato anteriore
Velari: dorso della lingua contro il velo
Le poche discrepanze tra grafia e fonetica nell’italiano riguardano le
consonanti.
85
L’occlusiva velare sorda /k/ha tre grafie differenti:
<c> davanti alla a e alle vocali velari o, u;;
il digramma <ch> davanti alle vocali palatali e, i;;
<q> in alcuni casi davanti a /w/: quando, quale, ecc., ma cuore, cuoco, ecc.
L’occlusiva velare sonora /g/ ha due grafie differenti:
<g> davanti alla a, alle vocali velari o, u, e alla semivocale /w/ (guanto);;
il digramma <gh> davanti alle vocali palatali e, i.
I suoni [kw] e [gw] sono definiti nessi labiovelari rispettivamente sordo e sonoro
e devono essere sempre seguiti da una vocale.
Le affricate palatali sorda e sonora, /ʧ/ e /dʒ/, hanno ciascuna due rese grafiche
differenti:
<c> e <g> davanti alle vocali palatali e, i (giallo, cena, ecc.);;
i digrammi <ci> e <gi> davanti alla a, alle vocali velari o, u (ciocco, giallo,
guancia, gancio, ecc.).
La i ha in questo caso solo valore diacritico. Nella fonetica dell’italiano standard
contemporaneo, anche in parole come cielo, dove la i aveva valore fonetico
(era la semivocale del dittongo /jε/) o in latinismi come superficie, igiene, la <i>
ha ormai solo valore diacritico.
Abbiamo anche casi contrari in cui due suoni differenti hanno un solo segno
grafico.
Le affricate alveolari sorda e sonora /ts/ e /dz/ si rendono in italiano con il solo
grafema <z>:
zaino /’dzajno/, zucca /’tsukka/.
In posizione intervocalica le affricate alveolari sono sempre lunghe (intense),
anche se nella grafia talvolta sono scempie e talvolta doppie:
mezzo /’meddzo/;; pizza /’pittsa/
ma azoto /ad’dzɔto/;; azione /at’tsjone/.
Anche le fricative alveolari sorda e sonora /s/ e /z/ si rendono in italiano con il
solo grafema <s>.
La fricativa alveolare sonora /z/ si può trovare all’inizio di parola prima di
un’altra consonante sonora: sdolcinato, svegliarsi, ecc.;;
in posizione intervocalica dove è sempre di grado tenue:rosa /’rɔza/.
86
In posizione preconsonantica le fricative alveolari sono sorde o sonore in base
al contesto fonetico.
In posizione intervocalica hanno valore fonologico:
fuso /’fuso/ (arnese per filare, fuso orario) e fuso /’fuzo/ participio passato di
fondere;;
chiese /’kjεse/ (participio passato di chiedere) e chiese /’kjεze/ (plurale di
chiesa).
Le consonanti laterale palatale, fricativa palatale e nasale palatale, /ʎ/, /ʃ/ /ɲ/,
in posizione intervocalica sono sempre lunghe, di grado intenso. Nella grafia
sono rese con un digramma o un trigramma.
/ʎ/ con il digramma <gl> davanti a /i/: gli, gliene, figli, ecc.
con il trigramma <gli> davanti alle altre vocali: aglio.
/ʃ/ con il digramma <sc> davanti alle vocali palatali: scena
con il trigramma <sci> davanti alle altre vocali: uscio
(fanno eccezione alcuni latinismi come scienza)
/ɲ/ con il solo digramma <gn>: pugno, ignorare
Nei digrammi <gli> e <sci> la i ha solo valore diacritico
Gli allofoni sono variazioni di suono che non hanno valore fonologico. La
variazione di suono è condizionata dal contesto fonetico.
Gli allofoni dell’italiano sono:
le velari che precedono la semivocale /j/, [kj] e [gj]: chiodo, chiesa, ghianda,
ghiotto – in alfabeto fonetico si indicano con [c] e [ɟ];;
la nasale che precede una velare [ŋ]: ancora, e la nasale che precede una
fricativa labiodentale [ɱ]: anfora.
Un tratto fonologico tipico dell’italiano è la lunghezza consonantica. È l’unica
delle lingue romanze ad aver conservato questo tratto dal latino e ha valore
distintivo:
pala/palla, cane/canne, fato/fatto
LA SILLABA
Anche all’interno delle parole i suoni non sono mai pronunciati isaolatamente
ma si legano l’uno all’altro in strutture che possono variare da lingua a lingua
e che costituiscono le sillabe.
87
Elemento essenziale della sillaba è il nucleo che in italiano è sempre costituito
da una vocale. Il nucleo è quasi sempre preceduto da un attacco (pa-ne) e può
essere seguito da una coda (tut-to).
In italiano, e anche questa è una specificità della nostra lingua possiamo avere
sillabe costituite dalla sola vocale, mentre non possiamo avere sillabe costituite
solo da consonanti, con l’eccezione di onomatopee, dette anche ideofoni,
come brrr, bzzz.
L’attacco può avere diverse composizioni:
V: o-ro
CV: ma-no
CCV: tre-no
CVC: den-te
CCVC: trop-po
CCCV: stra-da
CCCVC: stret-to
La coda è sempre costituita da una sola consonante. La sillaba chiusa da una
consonante non si trova in fine di parola, tranne che in alcuni monosillabi come
per, del, ecc.
Le sillabe sono aperte quando finiscono per vocale e chiuse quando è presente
la coda e si chiudono quindi in consonante:
sillaba aperta ma-no
sillaba chiusa can-to
La sillaba aperta tonica è lunga;; la sillaba chiusa è breve, ma questa distinzione
in italiano non ha valore fonologico.
L’ACCENTO
È un tratto soprasegmentale, cioè al di sopra della sequenza dei suoni.
Consiste nel far sentire con più forza una sillaba sulle altre o, più esattamente,
il nucleo della sillaba.
L’accento italiano è intensivo, il nucleo della sillaba è cioè articolato con più
forza (diversi i casi in cui l’accentuazione è data dalla durata o dall’altezza
melodica = tono più acuto della voce).
L’italiano ha un accento mobile la cui posizione è impredicibile.
Ha valore fonologico:
rétina/retìna, àncora/ancóra, sùbito/subìto, ecc.
Possiamo avere parole
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Elisione
L’elisione (dal lat. elisio «atto di rompere») consiste nella cancellazione di una
vocale atona in fine di parola, quando questa sia seguita da una parola
iniziante per vocale. Il fenomeno ha luogo quindi solo al confine di parola e fa
parte della cosiddetta fonologia di giuntura o fonetica sintattica. La
cancellazione della vocale atona finale serve a rendere più fluida l’articolazione
dei suoni ed evitare il formarsi di iati come accadrebbe in lo emporio, la
avarizia, ecc.
L’eliminazione della vocale per elisione nella grafia è segnalata
dall’apostrofo: l’amica, un’altra, senz’altro, ecc.
Apocope
L’apocope (o troncamento) consiste nella caduta della vocale atona finale o
della sillaba nell’incontro con un‘altra parola che inizi perlopiù con consonante.
Nell’italiano contemporaneo l’apocope sillabica sopravvive solo in gran, san,
bel (gran caldo, san Gennaro, bel ragazzo) e nelle preposizioni articolate
(del/dello, al/allo, ecc.).
L’apocope vocalica può essere obbligatoria in casi come:
buon giorno, buon viaggio, signor Mario;;
e facoltativa in casi quali:
cuor mio, bicchier d'acqua, ancor più, ecc.
Perché l’apocope vocalica si verifichi
- la vocale finale deve essere preceduta da l, r, n, m;;
- deve essere vocale diversa da a, tranne che per i composti in -ora (suor
Maria, ancor più, ecc.);;
- le vocali finali -e, -i non devono indicare plurale;;
- la parola non deve trovarsi in fine di frase.
Si tratta, tuttavia, di un fenomeno impredicibile: secondo le regole precedenti,
infatti, la sequenza car padre sarebbe ammessa, eppure non si produce.
Attenzione: anche qual è è un’apocope ed è per questo motivo che non si
apostrofa (così come non si apostrofa qual era). La caduta della vocale in quale
può infatti avvenire anche davanti a consonante (qual buon vento). Anche altre
forme, come tal o buon, si comportano allo stesso modo e nella grafia non
richiedono l’apostrofo quando si trovino davanti a vocale (è un buon amico).
La grafia qual'è si sta diffondendo, soprattutto nella scrittura giornalistica ma la
regola grafica è ancora stabile. È diverso, invece, il caso di qual’erano, dove si
ha un’elisione della i di quali che richiede l’apostrofo.
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Aferesi
L’aferesi consiste nella caduta di uno o più foni all’inizio di parola. Oggi è un
tratto caratteristico del parlato, soprattutto nei registri trascurati o informali, e
nel parlato regionale o popolare. L’aferesi riguarda più frequentemente la
vocale atona iniziale delle parole, soprattutto negli articoli e quando precedono
un nesso nasale + consonante:
«come stai?» «’nsomma»;;
oggi non fatto ’n tubo;;
t’ho aspettato tutto ‘l tempo.
Si ha anche aferesi della sillaba iniziale;; nel parlato contemporaneo, sempre
di registro informale, è frequente l’aferesi sillabica del dimostrativo:
Tutte ‘ste storie m’hanno scocciato.
Il dimostrativo, nella forma aferetica, perde l’accento e si comporta come un
clitico, appoggiandosi all’accento della parola che segue (enclitico):
sempre ‘sto chiasso tutte le sere!
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verso le varietà della propria lingua. Percepiscono quindi allo stesso modo il
valore e le funzioni delle varietà della propria lingua e il rapporto che questa
possiede con altre lingue.
Il repertorio linguistico è l’insieme delle varietà di una lingua. Se una
comunità linguistica possiede più di una lingua, avrà più di un repertorio.
La varietà linguistica è un sottoinsieme della lingua caratterizzato da tratti
linguistici adoperati da un certo gruppo di parlanti in certe situazioni. I tratti
possono essere fonetici, morfologici, sintattici, lessicali, testuali.
L’italiano è la lingua comune a tutto il territorio nazionale e convive da sempre
con i dialetti delle singole regioni. I dialetti non sono varietà dell’italiano ma
lingue autonome. Hanno tutti origine dal latino. Non sono “figli dell’italiano ma
fratelli”.
Ancora oggi molti italiani alternano l’uso del dialetto e l’uso dell’italiano a
seconda della situazione comunicativa. La situazione linguistica italiana però
non può definirsi né di bilinguismo né di diglossia.
Con bilinguismo si indica “una situazione linguistica in cui i parlanti possono
alternare due lingue considerate di uguale livello e prestigio”. Si ha un
bilinguismo comunitario quando tutta la popolazione di un territorio conosce
entrambe le lingue;; si dice invece bilinguismo bicomunitario, quando una parte
della popolazione, come accade in Alto Adige, parla e conosce una delle due
lingue e l’altra parla e conosce l’altra.
Con diglossia si indica una situazione linguistica in cui i parlanti usano una
lingua per le comunicazioni più alte e formali e un’altra per situazioni basse e
informali. La divisione è netta e gli ambiti delle due lingue sono sempre
nettamente distinti.
In caso di diglossia le due lingue non possono scambiarsi mai i ruoli. In Italia
invece il dialetto si usa solo per la comunicazione familiare e colloquiale,
mentre l’italiano si usa in tutte le situazioni. Fino agli inizi del Novecento si
poteva parlare di diglossia anche per l’Italia, ma da quando l’italiano ha
cominciato a farsi strada anche nella comunicazione familiare, quotidiana e
colloquiale, ciò non è stato più vero. Per questo motivo il linguista Gaetano
Berruto per definire la situazione italiana ha parlato di dilalia, con la quale
indichiamo l’esistenza di due lingue, una l’italiano, comune all’intera comunità
linguistica e adoperato in tutte le situazioni, l’altra il dialetto, diverso da regione
a regione e adoperato solo per gli usi privati e colloquiali.
93
94
I confini di una carta geolonguistica sono segnati dalle isoglosse. Un’isoglossa
è una linea immaginaria che unisce tutti i punti estremi di un’area geografica
che condivide lo stesso fenomeno linguistico. Il fenomeno può essere
fonologico (e in questo caso definiamo la linea isòfona), morfologico
(isomòrfa), sintattico, lessicale (isolessi).
L’isoglossa delimita pertanto un’area linguistica che possiede un determinato
fenomeno linguistico e la separa dal territorio confinante che non lo possiede.
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• Dialetti settentrionali parlati a nord della cosiddetta linea La Spezia - Rimini
che corre tra il Tirreno e l’Adriatico.
I dialetti settentrionali si possono distinguere in
- dialetti galloitalici, parlati in aree abitate anticamente da popolazioni
celtiche: Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia Romagna e, per effetto di
antiche migrazioni, in alcune piccole aree linguistiche della Basilicata e
della Sicilia;;
- dialetti veneti, parlati in aree abitate anticamente dai veneti: Veneto,
Trentino, Venezia Giulia.
• Dialetti centromeridionali parlati a sud della linea La Spezia - Rimini.
Tra i dialetti centromeridionali distinguiamo
- i dialetti toscani;;
- i dialetti còrsi, parlati nella Corsica che rientra nel territorio politico
francese;;
- i dialetti mediani, parlati nelle altre regioni dell’Italia centrale e in
particolare quelle a sud della cosiddetta linea Roma - Ancona, Marche
centrali, Lazio a est del Tevere, Abruzzo aquilano;; quelli a nord della
linea Roma - Ancona, detti mediani di transizione, condividono alcuni
tratti con i dialetti toscani.
• Dialetti meridionali o alto-meridionali, parlati nelle aree più a sud delle
Marche e del Lazio, in quasi tutto l’Abruzzo, in Molise, in Campania, in
Basilicata, nella Puglia centro settentrionale, nella Calabria settentrionale.
• Dialetti meridionali estremi, parlati nel Salento (Puglia meridionale), nella
Calabria centromeridionale e in Sicilia.
• Hanno sistemi linguistici autonomi nell’insieme delle varietà italo-romanze il
ladino, parlato in alcune vallate del Trentino-Alto Adige e del Veneto, e il
friulano, parlato nel Friuli. A parte vanno considerati i dialetti sardi, distinti
tra gallurese e sassarese, a nord (più vicini al toscano), logudorese,
campidanese.
In Italia esistono minoranze alloglotte che parlano lingue minoritarie, non
considerate nel novero delle varietà italo-romanze, come l’arbäresh, il grico, lo
sloveno, il francoprovenzale, ecc.
I dialetti settentrionali sono caratterizzati da sonorizzazione delle consonanti
sorde intervocaliche, caduta delle vocali atone, assenza di consonanti lunghe:
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Esempi dal calabrese meridionale
Dialetto arcaico Dialetto italianiz. Italiano
custureri sartu sarto
muccaturi fazzolettu fazzoletto
cantunera angulu angolo
LE VARIETÀ LINGUISTICHE E LE VARIETÀ DELL’ITALIANO
Le fondamentali dimensioni della variazione sincronica di TUTTE le lingue
sono costituite:
dall’area geografica in cui la lingua è usata (o più esattamente dall’area
di provenienza dei parlanti e dalla loro distribuzione geografica) -
variazione diatopica;;
dallo strato o gruppo sociale cui appartengono i parlanti (o più
specificamente dalla posizione che il parlante occupa nella stratificazione
sociale) - variazione diastratica;;
dalla situazione comunicativa nella quale si usa la lingua - variazione
situazionale o diafasica;;
dal mezzo fisico-ambientale attraverso cui si svolge la comunicazione,
dal canale attraverso cui la lingua è usata (scrittura o oralità) - variazione
diamesica.
La variazione diamesica riguarda le varietà dello scritto e del parlato, o anche
dello scritto trasmesso e del parlato trasmesso.
Per quanto riguarda la variazione diatopica, in Italia l’influenza dei diversi
dialetti sullo standard ha dato vita agli italiani regionali.
La varietà diastratica bassa dell’italiano, parlata e scritta da persone con un
basso grado di istruzione, è l’italiano popolare. Sono varietà diastratiche
anche quelle condizionate dall’età (linguaggi giovanili) o dall’appartenenza a
gruppi sociali come la malavita, gli emarginati ecc. (gerghi).
All’interno della variazione diafasica distinguiamo tra registri (formali e
informali) e sottocodici o lingue speciali.
La variazione diacronica è invece legata al tempo, che provoca mutamenti
nelle lingue. I mutamenti linguistici possono avvenire per cause interne alla
lingua, come la grammaticalizzazione e la lessicalizzazione.
Con la grammaticalizzazione alcune parole cambiano funzione grammaticale
oppure acquistano una funzione grammaticale che prima non avevano:
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il verbo venire in alcuni casi ha perso il suo significato e ha preso le funzioni
del verbo ausiliare essere per la costruzione del passivo:
forma attiva: gli studenti leggono il libro di testo;;
forma passiva con essere: il libro di testo è letto dagli studenti;;
forma passiva con venire: il libro viene letto dagli studenti.
Con la lessicalizzazione alcune forme grammaticali possono diventare parole
nuove:
il participio presente cantante (‘che canta’) è divenuto un sostantivo: il
cantante;;
la locuzione a fresco è diventato un sostantivo: l’affresco;;
la III persona del presente del verbo fare ha assunto una funzione temporale:
poco fa, un anno fa;;
anche sequenze come non so che possono diventare un sostantivo: un non so
che.
I mutamenti linguistici possono avvenire anche per cause esterne, come
l’influenza di altre lingue (prestiti come film, computer, ecc.) o cambiamenti
della società (per es. oggi si usano diversamente i pronomi di cortesia tu/lei e
il voi è scomparso dallo standard, si usa solo nell’italiano regionale
meridionale).
NEOSTANDARD O STANDARD APERTO A USI INNOVATIVI?
Se sul piano fonetico l’italiano standard è oggi una realtà sfuggente, sul piano
grammaticale si va modificando per influenza della lingua parlata, al punto che
molti linguisti parlano di un nuovo standard, detto appunto “neostandard”.
La sua prima descrizione si ebbe negli anni Ottanta del Novecento,
quando si misero in luce alcuni usi innovativi comuni a tutto il paese. Si diedero
definizioni come “italiano dell’uso medio” (Sabatini), “italiano tendenziale”
(Mioni), “italiano neostandard” (Berruto).
Il neostandard non investe il piano fonetico, influenzato dall’elemento
regionale, ma si caratterizza sul piano grammaticale. È diffuso nel parlato,
dove si può sovrapporre, sul piano fonetico, all’italiano regionale alto. Nella
scrittura è presente solo nella scrittura informale o, per alcuni tratti, in quella
mediamente formale.
Si preferisce la definizione di “neostandard” per la diffusa accettazione
da parte della comunità linguistica e per la sua continuità dallo standard
tradizionale e di più alto prestigio.
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L’italiano regionale è, pertanto, una varietà diatopica dell’italiano, che presenta
differenze fonetiche, tonetiche, sintattiche e lessicali.
La Toscana è la prima regione in cui, per la particolare storia linguistica del
paese, si forma un italiano regionale. L’italiano regionale toscano è unico non
tanto per essere stato il primo, ma per il modo in cui si è formato: in continuità
con l’uso.
Anche il romanesco è un esempio di precoce italiano regionale, determinatosi,
tuttavia, per storia e motivazioni differenti, dovute alle condizioni demografiche
e all’influenza dei papi fiorentini a partire dal XVI sec. Anche in questo caso,
però, la formazione dell’italiano regionale romano non è stata analoga a quella
degli altri italiani regionali, apparsi con più forza dopo il 1861.
Ogni parlante della comunità italofona è in grado di riconoscere se il suo
interlocutore proviene da un’area settentrionale, centrale o meridionale. Più
difficile è circoscrivere l’esatta zona di provenienza del parlante. In generale,
un settentrionale distingue con più esattezza la provenienza di un altro parlante
settentrionale o di un toscano e di un romano, ma include in una generica
definizione di “meridionale” i parlanti del Sud. Analogamente un parlante
meridionale individua la regione di un altro meridionale e la provenienza di
toscani e romani, ma include in un’unica area i settentrionali.
Alcuni tratti accomunano le grandi aree: sarà per esempio comune a buona
parte del Settentrione l’uso di tirare giù in luogo di “abbassare”, o a tutto il
Meridione il ricorso a tenere con il significato di “avere” o a cercare nel senso
di “chiedere”. Analogamente, sul piano fonetico, la tendenza a scempiare le
consonanti lunghe accomuna la più ampia area settentrionale, mentre quella
ad allungare le b e le g intervocaliche unifica la gran parte del Meridione.
Ci sono anche tratti, soprattutto lessicali, che aiutano a circoscrivere meglio le
singole aree. Se un parlante settentrionale, per esempio, usa il termine bigiare
per “marinare la scuola” è quasi sicuramente lombardo;; se dice conforme per
“dipende”, “a seconda”, sarà veneto, e se usa l’avverbio solo più per “solo”
verrà dal Piemonte. Analogamente se un parlante meridionale dirà perciò per
dire “sì” la sua provenienza sarà la Sicilia e se parlerà di scatolo invece che di
scatola verrà da Napoli o dalla Campania.
Non sempre nella conversazione ricorrono tratti specifici e più frequentemente
è la fonetica che può indirizzarci con maggiore precisione;; chiara è la tendenza
dei piemontesi a pronunciare quasi come dittonghi alcune vocali davanti a
nasale (pwonte per “ponte”) o quella dei milanesi a rendere con la vocale
aperta la e tonica finale ([per’kɛ] invece di [per’ke]) e così via.
101
VARIETÀ DIAFASICHE
Le varietà diafasiche sono determinate dalla situazione comunicativa,
costituita da molteplici fattori:
§ il contesto spazio-temporale;;
§ gli interlocutori;;
§ l’argomento;;
§ la chiave o tono del messaggio (serio, scherzoso, trascurato, ecc.);;
§ le intenzioni e gli scopi della comunicazione;;
§ le regole di interazione e interpretazione condivise dai membri di una
comunità parlante.
In base ai fattori situazionali che influiscono sulla variazione linguistica,
distinguiamo tra registri e lingue speciali.
I registri sono determinati dal grado di formalità della comunicazione, dal ruolo
degli interlocutori e dal rapporto che intercorre tra loro, dal grado di
sorveglianza che esercita il parlante su di sé.
Le lingue speciali sono connesse all’argomento di cui si parla, alla professione
degli interlocutori e alle finalità del messaggio. Il legame con la professione e
le conoscenze degli interlocutori inducono alcuni linguisti a considerarle varietà
sociali.
I REGISTRI
I registri sono sempre molto numerosi e difficili da circoscrivere. Sulla scala
del continuum si distinguono abitualmente registri alti e formali, di media
formalità e bassi e informali.
Per l’identificazione di un registro in italiano la resa fonetica è irrilevante (a
differenza di ciò che avviene con l’inglese o il francese e così via), anche se il
parlante nella situazione formale tende alla sorveglianza. Sono, al contrario,
fattori rilevanti le scelte lessicali.
I registri formali di solito si caratterizzano per
Ø pronuncia lenta e accurata;;
Ø sintassi elaborata con maggior uso di subordinate;;
Ø tendenza all’argomentazione;;
Ø pochi riferimenti al contesto (parlante, situazione, ecc.);;
Ø tendenza alla massima esplicitezza;;
Ø lessico ampio e ricercato.
103
LE LINGUE SPECIALI
Le lingue speciali sono contraddistinte da un lessico specialistico funzionale
alla trattazione di argomenti specifici nella comunicazione di alcuni ambienti
professionali. Possiamo dividerle in due gruppi.
Le lingue speciali del primo gruppo sono dette anche sottocodici o lingue
specialistiche e riguardano settori scientifici di alta specializzazione
(matematica, medicina, economia, linguistica, ecc.) che hanno necessità di
usare un lessico molto specifico. Si adoperano soprattutto all’interno dei gruppi
professionali, ma hanno in molti casi una circolazione esterna.
Le lingue speciali del secondo gruppo sono dette anche lingue settoriali e
riguardano ambiti di comunicazione non specialistica (giornali, politica,
pubblicità, ecc.). Non hanno un vero lessico specialistico e attingono al
vocabolario della lingua comune e di altre lingue speciali.
C’è uno scambio reciproco tra lingue speciali e lingua comune. Molti
tecnicismi passano alla lingua comune soprattutto attraverso i media. Nel
passaggio però perdono spesso la natura di tecnicismi e si genericizzano (si
pensi all’uso nella lingua comune di termini come nevrosi, paranoico, ecc.).
Anche le lingue speciali traggono termini dal lessico comune, facendogli però
subire il processo inverso. Si attribuisce, cioè, un significato specialistico a un
termine di uso quotidiano (si pensi a candela nella meccanica
automobilistica).
Il lessico delle lingue specialistiche ha natura internazionale;; circola tra le
lingue di cultura. A ciò si aggiunge il fatto che molti termini sono tratti dal latino
o dal greco.
Spesso si parla anche di linguaggi speciali oltre che di lingue. La lingua è un
linguaggio verbale e in molti casi le lingue specialistiche si servono di simboli
e grafici oltre che delle parole. Si osservi l’esempio riportato da Serianni:
Linguaggio non verbale:
BaO2 + H2SO4 = BaSO4 + H2O2;;
Linguaggio verbale:
Il perossido di bario combinato con l’acido solforico dà solfato di bario e acqua
ossigenata;;
Riformulazione divulgativa:
L’acqua ossigenata si ottiene comunemente combinando il perossido di bario,
un composto adoperato nell’industria come mezzo di sbiancamento, con
l’acido solforico, ossia con il potentissimo acido corrosivo noto popolarmente
come vetriolo.
105
VARIETÀ DIASTRATICHE
Le varietà sociali sono legate alle posizioni che occupa il parlante nella
struttura sociale e sono determinate da diversi fattori sociali:
lo strato sociale e il livello di istruzione, alla base delle differenze tra
italiano colto (varietà delle classi istruite) e italiano popolare (varietà delle
classi con basso livello di istruzione)
alcuni fattori demografici come l’età e il sesso (linguaggi giovanili,
femminili, maschili);;
l’appartenenza a un gruppo o a una categoria particolare (varietà
gergali).
ITALIANO POPOLARE
La varietà diastratica bassa dell’italiano, denominata talvolta italiano popolare,
talvolta substandard o lingua dei semicolti, è caratterizzata da tratti
considerati devianti, esclusi dall’accettazione comune.
È giusto ricordare che alcuni tratti considerati inaccettabili, con l’andare del
tempo, possono essere accolti nella varietà alta (es. gli usato per la terza
persona plurale).
L’italiano popolare è una varietà sociale connessa al basso livello di istruzione
dei parlanti, ma indipendente dalla formalità minore o maggiore della
situazione.
Le prime considerazioni sull’italiano popolare furono fatte da Leo Spitzer sulle
lettere dei soldati italiani, prigionieri di guerra, che leggeva grazie al suo lavoro
nell’ufficio di censura dell’esercito austriaco. Il primo studio sistematico fu
pubblicato da Manlio Cortelazzo nel 1972.
Spitzer e Cortelazzo sottolineavano il carattere unitario dell’italiano
popolare, poco influenzato dai dialetti. Ciò dipendeva soprattutto dal fatto che
le prime analisi erano state condotte su testi scritti.
I primi studi su questa varietà ritenevano che l’italiano popolare fosse nato
negli anni successivi all’Unità d’Italia e, in particolare, nella prima metà del
Novecento. La sempre più diffusa scolarizzazione, infatti, gli spostamenti più
frequenti, l’emigrazione, le guerre e così via avevano favorito la diffusione
dell’italiano tra i dialettofoni. Un’alfabetizzazione incompleta e una scarsa
competenza nella lingua appresa producevano testi di italiano popolare.
Francesco Bruni, però, nel 1984 ha evidenziato, già in testi dell’antichità, la
presenza di molti tratti linguistici che caratterizzano le scritture di italiano
popolare. Esistono delle costanti, legate all’interferenza dell’oralità, che si
108
VARIAZIONE DIAMESICA
Le differenze essenziali tra scritto e parlato possono essere ricondotte a fattori
quali il grado di pianificazione del discorso, massimo nello scritto e minimo
nel parlato e il modo pragmatico di organizzare il testo, facendo prevalere le
esigenze della semantica su quelle della forma corretta e dell’esplicitazione
sintattica.
La distanza tra scritto e parlato è determinata anche dal diverso legame con il
contesto e con gli interlocutori. Alla vicinanza comunicativa che caratterizza il
parlato si oppone la distanza comunicativa dello scritto.
Non dobbiamo dare giudizi di valore sul parlato o sullo scritto. Non è
ammissibile una penetrazione indebita del parlato nello scritto quando si
compongono alcuni tipi di testo, ma ciò non vuol dire che scritto e parlato
abbiano superiorità o inferiorità intrinseche. Sono strumenti adeguati a
situazioni comunicative differenti.
La differenza tra scritto e parlato è la più evidente anche per un parlante che
abbia una competenza metalinguistica ingenua. È la situazione comunicativa
che determina le principali differenze tra le due varietà.
Gli elementi che più influiscono sui caratteri del parlato sono:
1. il mezzo fonico-acustico;;
2. un contesto comune di enunciazione;;
3. la compresenza di parlante e interlocutore.
Il mezzo fonico-acustico condiziona la linearità e l’immediatezza del parlato
rispetto allo scritto.
Il parlato si produce in maniera lineare e continua, lo scritto in modo
discreto e dilatato. La produzione del parlato è lineare perché segue la
catena fonica: un suono segue l’altro sia nella produzione sia nella ricezione.
Al contrario, quando scriviamo, possiamo tornare indietro, lavorare su porzioni
di testo non contigue e così via.
Per quanto riguarda l’immediatezza, nel parlato, comunicazione e ricezione
avvengono immediatamente e contemporaneamente;; ciò richiede la
compresenza di ricevente ed emittente che si scambiano continuamente i
ruoli. Tutto ciò è assente dallo scritto, dove l’emittente può sospendere la
scrittura, può ritornarvi più volte, può pensare e progettare a lungo. D’altro
canto nel parlato non sono ammessi silenzi e pause troppo lunghi.
Da tutto ciò derivano tratti minori che caratterizzano il parlato.
113
In rapporto al mezzo fonico-acustico:
- scarsa possibilità di pianificazione → diversa strutturazione sintattica e
testuale;;
- impossibilità di cancellazione → autocorrezioni, modulazioni;;
- non permanenza → tendenza alla ridondanza, ripetizioni;;
- incidenza di intonazione e prosodia.
In rapporto al contesto di enunciazione comune:
- ricorso a mezzi non linguistici;;
- rinvio al contesto → frequente uso di deittici.
In rapporto alla compresenza degli interlocutori:
- coinvolgimento, funzione fàtica → fatismi, altre meccanismi di modulazione;;
- possibilità di riprendere il già detto → ripetizioni, frequenti interruzioni;;
- conoscenze condivise → implicitezza, ellissi.
ALCUNI TRATTI FONETICI DEL PARLATO ITALIANO.
Ø Elisioni: l'informazione, c'interessa.
Ø Fenomeni di «allegro»:
§ aferesi vocaliche: 'nsomma, 'nvece, e sillabiche: 'sto;;
§ apocopi sillabiche connotate regionalmente: vie' qua, venì, sapé, ma'
("mamma"), dottò (diverse dall'apocope vocalica dell'italiano);;
§ riduzioni della parola: 'giorno, 'sera.
Ø Variazioni o allungamenti nel timbro vocalico: na! ("no
particolarmente deciso"), see! ("sì come falso assenso").
Ø Metatesi provocate da nessi vocalici o consonantici difficili:
interpetrare invece di interpretare, areoplano invece di aeroplano,
areoporto invece di aeroporto, metereologo invece di meteorologo.
Ø Paretimologie (o etimologie popolari): innestare per innescare,
esaudiente per esauriente (hanno anche valore diastratico).
LA SINTASSI DEL PARLATO
Nella sintassi del parlato sono molto frequenti le costruzioni marcate
(dislocazione a sinistra, dislocazione a destra, topicalizzazione contrastiva,
tema sospeso e frasi scisse). Per quanto riguarda queste ultime, sono più
frequenti anche le particolari costruzioni scisse, come non è che mi piaccia
molto;; com'è che sei venuto? O le costruzioni con il c'è presentativo: c'è
qualcuno che parla male di te.
114
Una forma di scissione sempre più diffusa nel parlato, ma da evitare nello
scritto è anche la costruzione con quello/-i che è/sono:
Mi riferisco a quelli che sono gli interessi dei giovani in luogo di Mi riferisco agli
interessi dei giovani.
Altri fenomeni della sintassi del parlato sono:
Ø Concordanze a senso: la maggioranza dei giovani intervenuti erano
stranieri;;
§ con verbo singolare prima di soggetti plurali: non c'era tante comodità
come oggi;;
§ mancati accordi di genere e numero anche per attrazione di elementi
interposti: l'importanza dell'argomento è stato adeguatamente
sottolineato.
Ø Prevalenza di paratassi:
§ con congiunzioni e, ma, però, poi, così, allora, solo (che);;
§ per giustapposizione: passo da casa, mangio un boccone, ritorno.
Ø Caratteri prevalenti dell’ipotassi:
§ le subordinate tendono a collocarsi dopo la principale (con l'eccezione di
ipotetiche e causali);;
§ le congiunzioni subordinanti sono qualitativamente e quantitativamente
diverse: per le causali invece di poiché, giacché si ha siccome o locuzioni
formate con che (dato che, visto che, dal momento che);; per altre
dipendenti si ha a parte (il fatto) che, basta che, una volta che;;
§ le subordinate implicite sono perlopiù infinitive: stare + gerundio,
stare + a + infinito, andare, venire, riuscire a + infinito, cercare + infinito,
ecc.;;
§ la subordinata più diffusa è la relativa, spesso legata a un singolo
elemento della reggente che fa da «testa» al pronome;; sono assenti il/la
quale e prevale che.
Ø Il che indeclinato (già esaminato a proposito dei relativi), che ha rilevanza
diastratica o segnala una varietà diafasica molto trascurata:
una signora che conosco il marito;;
(con ripresa) un fatto che ne hanno parlato in televisione;; un posto che ci
vado volentieri;;
il postino, che l'ho incontrato uscendo, mi ha dato una lettera per te;;
§ molto meno connotato e sempre più diffuso è invece il che indeclinato
con valore temporale: la sera che ci siamo incontrati.
Ø Si sovrappone talvolta al che indeclinato il che polivalente, subordinante
generico:
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CARATTERI DELLO SCRITTO
La funzione principale della lingua scritta è quella di mantenere nel tempo e
nello spazio il messaggio verbale. È infatti indispensabile ed è stata usata per
fissare le leggi, garantire il rispetto degli accordi, conservare e trasmettere la
conoscenza, soprattutto storica e scientifica.
I segni grafici che riproducono i suoni del parlato si dispongono nello spazio e
il testo scritto nella sua interezza rimane sotto gli occhi di chi legge. Non può
contare sul supporto dell’intonazione e dei gesti.
Produzione e ricezione del testo scritto non sono simultanee. Chi scrive ha
pertanto il tempo di pianificare e di correggere, offrendo al lettore solo il testo
definitivo. Analogamente chi legge può ritornare sul testo tutte le volte che
vuole.
Chi scrive tendenzialmente non sa mai con assoluta certezza quanti e quali
saranno i suoi lettori. Emittente e destinatario non condividono la stessa
situazione e ciò impone nella scrittura una maggiore esplicitezza, un uso
minore di deittici e l’assenza di segnali fàtici. Ripetizioni e ridondanze
possono interferire con la lettura e la buona comprensione del testo;; saranno
dunque di natura molto diversa da quelle del parlato.
Lo scritto dura più a lungo nel tempo ed è dunque più soggetto a
valutazioni sociali. Chi scrive infatti tende ad adoperare una varietà linguistica
più elevata e a rispettare la norma. Il testo scritto presenta un’organizzazione
più regolare della sintassi e si serve con più frequenza della subordinazione. Il
lessico dello scritto è più ampio.
L’assenza dell’emittente riduce il grado di coinvolgimento ed emotività e ciò
rende lo scritto tendenzialmente più oggettivo. Sono invece più rilevanti nella
scrittura le funzioni informative.
Nella grafia sono in atto alcune tendenze innovative che tuttavia non
riguardano tutti i tipi di testo:
Ø Recupero di k: nelle scritture commerciali, negli scritti giovanili
(okkupazione);; sigla di Crotone KR,ecc.
Ø Definitiva affermazione delle forme univerbate: soprattutto, invece, peraltro,
pressoché, nonostante, ciononostante, perlopiù, ecc.
Ø Accento grafico:
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§ stabilizzata la differenza tra è per il verbo, cioè, ahimè (timbro aperto
– accento grave) e perché, affinché, ecc. (timbro chiuso accento
acuto);;
Ø Sempre oscillante l'uso delle maiuscole: in regresso grafie come Stato,
Paese, S. per Santo (tranne che per luoghi ed edifici religiosi)
Ø Sempre più diffuse le sigle ormai senza punti: Cgil piuttosto che C.G.I.L. e
le abbreviazioni, soprattutto in scritture burocratiche, sig., dott., pp. o pagg.
Ø Riduzione di elisioni e apocopi:
§ ci interessa prevale su c'interessa e viene fatto su vien fatto;;
§ l'articolo lo con le rispettive preposizioni articolate e i dimostrativi questo
e quello sono sistematicamente elisi davanti a vocale: l'ultimo film, il
freddo dell'inverno, quell'individuo, ma al femminile l'elisione è
generalizzata solo davanti alla a: l'antenna ma della iscrizione, anche per
l'indeterminativo una: una università meridionale;;
Ø Riduzione della d eufonica per evitare uno iato:
ad, ed prevalgono solo davanti a parola iniziante per la stessa vocale: ad
amico ma a una, o in pochi altri casi fissi: ad esempio, ad essi. Un tempo si
adoperava anche od, ora molto raro e arcaico.
Ø La i prostetica sopravvive solo in per iscritto.
Ø In espansione le virgolette per conferire significati particolari ad alcune
parole, spesso usate con la funzione attenuativa che la corrispondente
espressione tra virgolette ha assunto nel parlato.
Forme verbali nell'italiano scritto
L'italiano scritto utilizza tutte le forme verbali disponibili in base al tempo, al
modo, all'aspetto. Nello scritto è più alto il rispetto delle norme che regolano la
morfologia dell’italiano.
Ø Futuro:
§ può assumere valore di dovere in testi normativi: si recheranno
"dovranno recarsi";;
§ in testi narrativi può essere riferito a eventi passati, posteriori a quelli
indicati dal presente storico o dal passato: Un cambio di rotta si
verificherà con l'avvento della repubblica.
Ø Imperfetto:
§ in testi narrativi può assumere valore perfettivo indicando eventi
puntuali: In quell'anno Dante nasceva a Firenze.
Ø È ben conservata nello scritto la distinzione tra passato prossimo e
passato remoto.
Ø Trapassato prossimo e futuro remoto sono sempre attivi in funzione
anaforica: Parlavano solo quando avevano ricevuto il permesso di farlo;;
Finirò di scrivere quando avrò esposto tutte le mie ragioni.
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Ø Congiuntivo:
§ usato in molte proposizioni dipendenti, nelle completive (penso che i
fatti si siano svolti in questo modo), nelle interrogative indirette (non
sapeva chi fosse arrivato), nelle relative restrittive (cerco un collaboratore
che conosca bene la situazione).
Ø Condizionale:
§ si caratterizza nella prosa giornalistica come tipico delle notizie riportate
da altri (di dissociazione): l'indiziato sarebbe stato visto presso la casa.
Ø Passivo:
§ molto più frequente che nel parlato (è stato detto dai partecipanti al
colloquio che la situazione è difficile);;
§ si usa anche venire (più burocratico ma in estensione) in luogo di essere:
il contributo viene devoluto a favore dei disoccupati;;
§ è diffuso anche il si passivante: si vendono solo i giornali scandalistici.
SINTASSI DELLA FRASE NELLO SCRITTO
La struttura non marcata SVO è più frequente che nel parlato, ma la libertà
nell'ordine delle parole propria dell'italiano consente di collocare all'inizio della
frase elementi tematici con inversioni (ottimo intervento ha fatto il presidente
ieri alla Camera;; sono sempre felici gli abitanti di Pinerolo) e con il passivo (il
provvedimento sarà preso al più presto).
Sono ammesse solo le dislocazioni a sinistra, ma perdono la loro marcatezza
e sono molto meno frequenti rispetto al parlato. La ripresa pronominale del
resto si è quasi grammaticalizzata con i partitivi (di proposte ne sono state fatte
tante).
Estranei allo scritto sono il tema sospeso e la dislocazione a destra.
Tendono a essere sempre più accolti alcuni tipi di frase scissa: è a Parigi che
si verifica l'avvenimento culturale più importante del secolo;; al posto del che +
tempo finito si trova spesso a + infinito, possibile anche in posizione iniziale: a
prendere l'iniziativa è stato il capo del governo.
Gli accordi sintattici sono obbligatori, ma prende piede la concordanza a senso
in presenza di partitivo (la maggior parte delle opere sono conservate);; spesso
un verbo al singolare precede più soggetti posposti, coordinati e non citati nel
contesto precedente (alla cerimonia ha assistito il sindaco e il ministro degli
Interni). Sono però fenomeni ricorrenti soprattutto nella scrittura giornalistica.
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Una tendenza recente antepone gli aggettivi ai sostantivi cui si riferiscono
(segna un andamento sostenuto, enfatico, ecc.: l’incredibile avventura,
l’agghiacciante esperienza).
Soprattutto nella scrittura giornalistica si estende lo stile nominale con
tendenza a costruire enunciati privi di verbo o in cui gli elementi nominali sono
predominanti.
SINTASSI DEL PERIODO NELLO SCRITTO
C’è preferenza per la subordinazione sia perché si sfruttano le caratteristiche
del mezzo che consente di avere sotto gli occhi l'intero testo, sia per scelta
stilistica ispirata alla tradizione classica.
TENDENZE NUOVE NELL’USO DELL’INTERPUNZIONE
Nell’italiano scritto prevale ancora oggi un uso dell’interpunzione con funzione
logico-sintattica, tale cioè da segnalare le relazioni sintattiche tra le frasi.
Questo tipo di interpunzione rappresenta la norma dell’italiano scritto e va
rispettata nella stesura di testi formali, saggistici, argomentativi, ecc.
Si assiste però oggi a nuovi usi della punteggiatura, in particolare nella scrittura
giornalistica, dove il fenomeno si lega anche alla ricerca di una sintassi
costituita da periodi molto brevi, prevalentemente monoproposizionali.
Nella scrittura giornalistica i periodi monoproposizionali caratterizzano gran
parte degli articoli, tranne, forse, quelli più decisamente argomentativi, di
commento o settoriali. È certamente da collegare al generale influsso del
parlato e del parlato televisivo in particolare. Ma le finalità sottese alla forte
espansione di questo fenomeno sintattico nella scrittura giornalistica sono
anche altre. Da un lato, infatti, la preferenza per periodi brevissimi, molto
spesso coincidenti con una singola frase semplice, è da riportare all'esigenza
di chiarezza e incisività tipica della scrittura giornalistica, all'intento di una
informazione più diretta e semplice: dunque, a una finalità denotativa. Dall'altro
lato appare evidente come la spiccata tendenza alla spezzatura con il punto
fermo, non solo a separare tra loro frasi semplici, ma anche a separare
proposizioni collegate mediante paratassi o mediante ipotassi (per la presenza
di congiunzioni dell'uno e dell'altro tipo dopo il punto) e, soprattutto, a separare
sintagmi appartenenti ad una medesima frase semplice, sia da leggere anche
come un fatto espressivo, connotativo.
Ma va anche osservato come la spezzatura con il punto fermo di quello che
dovrebbe essere un insieme sintattico porti in molti casi a dare ai due segmenti
un senso in parte diverso, con effetti di focalizzazione dell'informazione e di
valorizzazione dei contenuti informativi, come si verifica nell'esempio
seguente:
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Ovociti e liquido seminale conservati sotto zero dei quali non si conoscono i donatori: niente
documentazione sanitaria, dunque nessuna informazione sulla sicurezza. Forse arrivano dalla
Spagna. Forse. Non hanno molte certezze i Nas dopo le perquisizioni negli studi di Roma e Milano
di Severino Antinori, noto ginecologo grande specialista di pma, procreazione medicalmente
assistita (LR agosto 2014).
Indubbiamente, queste implicazioni semantiche e informative sono tanto meno
presenti quanto più quella che è stata definita felicemente "triturazione
sintattica" (Garavelli Mortara) appare inflazionata, proprio come avviene nella
scrittura giornalistica.
Nell'ambito del periodare monoproposizionale possiamo distinguere
fondamentalmente i seguenti tipi:
a) successione di frasi semplici complete separate dal punto fermo;;
b) coordinate separate dal punto fermo;;
c) subordinate separate con il punto fermo dalla propria reggente;;
d) spezzoni di frase, sintagmi singoli o singole parole tra due punti fermi.
Il tipo (a) può presentarsi sia all'interno di pezzi dalla struttura periodale più
varia, in alternanza con periodi paratattici e ipotattici, nell'ambito di una
tipologia periodale non caratterizzata e consueta da sempre nel giornalismo,
oppure, molto frequentemente in articoli costruiti per immagini, flash, in un
martellante susseguirsi di singole frasi semplici, come nell’esempio seguente:
Il vertice inizia. Parla Junker. «Discorso ottimo», dice al suo staff il premier italiano. E subito parte la
rumba delle trattative. Che dopo qualche ora, nella notte deraglia. Rinvio al 30 agosto (LR luglio
2014).
Il tipo (b) è rappresentato dalle frasi iniziate con le congiunzioni coordinanti e,
la più frequente, ma e altre, che spesso acquistano il valore di congiunzioni
testuali. L'implicazione testuale è più evidente quando si ha cambio di soggetto
della coordinata rispetto alla principale, e il segmento periodale introdotto dalla
congiunzione dopo il punto fermo, oltre che coordinare due predicati verbali,
aggiunge una porzione di testo, con una funzione informativa forte, talvolta ad
inizio di capoverso e talvolta anche in unione con altro connettivo. Vediamo gli
esempi con e
Che il fondo monetario pensi a farsi i fatti suoi, che cerchi di lavorare meglio [...]: l'intervento del
capo-economista dell'Fmi Mussa non rientra assolutamente nei compiti del Fondo. [...] E intanto
Italia e Francia prendano nota. [...] Ecco in sostanza i duri moniti con cui il governo federale ieri ha
risposto alle critiche di Michael Mussa, secondo cui i tempi sarebbero maturi per un intervento della
Bce sui mercati a sostegno dell'euro. E ha criticato le idee di compensazione fiscale per i
consumatori a Parigi e a Roma (LR 20 settembre 2000).
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Il secondo avvio con e funge da ripresa;; in altri casi si tratta di un collegamento
più limitatamente interproposizionale, spesso con l'evidente finalità di spezzare
un periodo sentito come troppo lungo:
Il ministro ha già detto di sospettare la presenza di «un dossier della CIA», contenente informazioni
fuorvianti. E ha smentito anche le voci, diffuse nel Montenegro, che sua moglie Donatella Zincone,
avesse «degli interessi in questa storia» (CS 17 febbraio 2001).
La congiunzione ma in funzione testuale che può negare parte o tutto delle
affermazioni che precedono, con chiare funzioni di coesione e raccordo tra
segmenti dell'articolo, molto più spesso all'inizio di capoverso rispetto a e:
Il dispositivo del Tribunale era stato emesso questa mattina dopo che la revoca della misura
cautelare era stata chiesta direttamente dalla procura di Milano per un vizio di procedura commesso
dagli stessi pm che ha l'effetto di far saltare l'intero processo contro di lui. Ma subito dopo è arrivata
la contromossa della Procura: per ora, dunque, Schirripa resta in carcere (LR online novembre
2016).
Il tipo (c) è rappresentato soprattutto dalle relative ma anche da altri tipi di
subordinata:
- Fornisce dati parziali molto vicini a quelli definitivi. Che poco convincono (MA 27 settembre
2000);;
- Fino a novembre, infatti, lo scirocco africano ha portato tante piogge e un clima mite. Cui ora si
è sostituita l'alta pressione [...] (CS 25 febbraio 2001).
- Come abbiamo documentato con fotografie e video, ogni giorno i turisti arrivavano a cala
Zafferano sulle barche aggirando le regole e sfidando il pericolo. Perché un’ordinanza che vieta
l’accesso esiste da anni (LR agosto 2014).
- Berlusconi spera nel caos per tornare al tavolo delle trattative con Renzi in funzione di una nuova
legge elettorale e di una nuova riforma. Anche se il premier lo ha già avvisato che a quel tavolo
troverà Grillo e non lui (LR online novembre 2016).
Il tipo (d), esempio estremo del periodare spezzato, consiste in segmenti
brevissimi, sintagmi o anche singole parole, separati dal punto come abbiamo
visto nel primo esempio. Vediamo anche uno dei tanti esempi dello stile molto
noto di Ilvo Diamanti che ricorre a tante delle strategie riconducibili al
cosiddetto stile brillante:
D’Alema in pochi anni, infatti, ha proposto e sostenuto diversi modelli di partito parallelamente
all’evoluzione della sua biografia politica. Per verificarne e sancirne, ogni volta, l’impraticabilità.
D’Alema. Da segretario del PDS, vessillifero della riforma dei partiti di massa. Dimagriti. Ripuliti. Ma
con le radici ben piantate nella tradizione. D’Alema. Che dopo essere diventato premier si è
impegnato per affermare il “Partito del presidente” (Sole 24 Ore, 2000).
Questo stile di Ilvo Diamanti è stato definito da Francesco Sabatini “ipotassi
paratattizzata”. La spezzatura con continui punti fermi, che forse appare più
diffusa nella politica interna caricata spesso di un’enfasi maggiore rispetto alla
politica estera, nella scrittura di alcuni giornalisti in particolare è finalizzata a
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