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Analisi dei costi

CONTABILITÁ ANALITICA
CONTABILITÀ ANALITICA E ANALISI DEI COSTI NON SONO LA STESSA COSA: L’ANALISI DEI COSTI É UNA PARTE (QUELLA
PIÚ IMPORTANTE DELLA CONTABILITÀ ANALITICA).

Noi dovremo spesso occuparci del calcolo del costo di un oggetto di riferimento, cioè le metodiche che portano
ad attribuire un valore, in termini di costo, ad un determinato oggetto.

Supponiamo che l’oggetto sia un orologio appena prodotto; ho un’impresa che fabbrica un determinato modello di
orologio.

C’è un costo per quell’oggetto?

In un determinato istante di tempo, a fronte di un dato oggetto di riferimento, a fronte di una certa base
dati (quantità di informazioni di cui io dispongo) io sono nella condizione di calcolare un unico valore di
costo per quel dato oggetto? No perché qui trova piena applicazione il cd. principio di relativismo.

Supponiamo che la mia “esigenza conoscitiva” sia questa: io devo fissare, ancor prima congetturare/ipotizzare,
un prezzo di vendita che sia per me effettivamente remunerativo.
Poi dovrò poi vedere se un valore così determinato è compatibile oppure no con le dinamiche di mercato, con la
concorrenza. Però, per me diventa fondamentale, per fissare un prezzo che sia remuneratore o remunerativo
conoscere i miei COSTI.

Se l’esigenza fosse questa quali sarebbero gli addendi di costo che dovrei considerare?
[I costi sono qualificabili sulla base di una pluralità di criteri classificatori]

1 Prima devo progettare/costruire il prodotto —> COSTI DI FABBRICAZIONE

2 Prima ancora se ci sono stati dei costi di messa a punto del prodotto —> COSTI DI MESSA A PUNTO/PROGETTAZIONE

[Es: F35 cacciabombardiere —> il meno caro viene 90 mln; prima costava di più poi i volumi di produzione hanno
fatto sì che tutti quei costi di messa a punto/progettazione/realizzazione (anche prototipale) possano essere
ripartiti su una quantità superiore di aerei e quindi il costo unitario è sceso.
Questo per dire che nell’ambito dei costi di fabbricazione bisogna andare a ricomprendere anche quelli che
sono stati i costi di messa a punto, progettazione, R&S etc.]

3 Dopodiché ho il bene in magazzino: per poterlo vendere al cliente bisogna che prima il cliente l’abbia
acquistato —> COSTI DI NATURA COMMERCIALE

4 Dopo le funzioni industriale e commerciale, l’altra funzione che viene normalmente indicata a seguire è
quella amministrativa —> COSTI AMMINISTRATIVI

Finito? No: noi siamo alla ricerca di un costo, maggiorando il quale, troviamo un prezzo che effettivamente ci
garantisca che quell’operazione di vendita non è in perdita.

Quali altri costi devono trovare copertura attraverso i ricavi di vendita?

5 Anche gli oneri finanziari e le imposte devono essere ricompresi —> COSTI GENERALI AZIENDALI

Io vado a costruire una configurazione di costo che è la più completa fra quelle possibili. Cosa manca ancora?
Supponiamo che io riesca a definire a livello unitario (per es. che mi venga un costo di 100€) un costo di
prodotto: questo costo così calcolato si chiamerebbe COSTO COMPLESSIVO (è una particolare variante del full
cost). Se dunque io fisso un prezzo nella misura di 105 dovrei starci dentro sempre che il mercato me lo
conceda. 105 è il mio Ricavo di vendita unitario; 100 —> costo complessivo a livello unitario.
La differenza pari a 5 come verrebbe ad essere qualificabile? L’espressione margine la si usa per
economici lordi: qui ci ho messo dentro anche le imposte.
risultati
Questo è un utile netto —> utile netto a livello unitario

Ma, supponiamo che questa impresa si avvalga di un capitale Netto conferito dai soci per svariati milioni di
€.

Ogni scelta implica contestualmente anche almeno una rinuncia.

Fingiamo di essere un soggetto che detiene 100 mln di € liquidi: se oggi acquistassimo dei titoli del debito
pubblico italiano a 10 anni, investendo 100 mln in BTP decennali, avremmo un tasso di interesse del 3,3%. Il
che significa che, se quell’investimento fosse ragionevolmente sicuro, io me ne sarei potuto stare senza fare
niente e ogni anno per 10 anni mi sarei preso 3 mln e rotti di interessi al netto d’imposta.

Supponiamo che io voglia invece fare rendere di più questo mio capitale e che io abbia investito questi miei
danari in un’impresa che produce orologi. Se l’impresa fosse un’ impresa costituita ex novo e che non stava
operando, il primo anno sarà addirittura fisiologico avere una perdita: hai un problema di avviamento.

Dopo 10 anni però bisogna che quell’impresa generi utili: che differenza c’è fra utili e profitti?

L’utile è banalmente una differenza positiva fra ricavi e costi.

Se io ho conferito 100 mln di € nel Capitale sociale di un’impresa; questa impresa dal 4° anno mi genera
contabilmente un utile di 10€; contabilmente c’è un utile, il che vuol dire che i ricavi sono superiori ai co-
sti per 10€. Sono contento di un utile di 10€ in una società in cui ho investito 10 mln di €? No, non è
proporzionato: contabilmente l’utile c’è, ma dal punto di vista gestionale quell’utile per me è un utile
incapiente/insoddisfacente.
Perché? Perché bisognerebbe sempre fare una valutazione in termini di costo-opportunità.
Se io avrei potuto avere ogni anno 3,3 mln di € standomene al di fuori dell’attività d’impresa che per
definizione viene considerata rischiosa, se investo in un’attività ancora più rischiosa di quella dei titoli
di stato, io mi devo attendere una remunerazione media annuale che sia maggiore del 3,3%.

Il concetto di costo-opportunità è strettamente legato ai cd. oneri figurativi; ci sono degli oneri (costi)
che non possono essere contabilizzati: non posso fare una scrittura contabile per gli interessi che avrei
potuto percepire se avessi investito in titoli di stato e invece non percepisco perché ho investito nella mia
attività di impresa. Però quello per me è un parametro estremamente importante per capire se l’attività di
impresa si sta svolgendo in un modo per me conveniente oppure no.

Se a regime io, avendo investito 100 mln di €, ottengo un utile che è meno di 3,3 milioni di € al netto
d’imposta, io non ci sto guadagnando: io avrei potuto ottenere di più standomene fuori dal cd. rischio
d’impresa.

6 Quindi non è sufficiente che il ricavo di vendita unitario mi copra tutti i costi che io contabilizzo
(costi collegati alla funzione industriale, commerciale, amministrativa, costi finanziari e tributari), ma io
devo avere anche una copertura di quelli che sono i miei ONERI FIGURATIVI .

Almeno un onere figurativo ce l’ho sempre perché è connaturato al Capitale Netto, ai finanziamenti propri, ai
finanziamenti dei soci.

Questo onere figurativo che è sempre presente si chiama tecnicamente INTERESSE DI COMPUTO SUL CAPITALE PROPRIO
INVESTITO.

Se noi avessimo investito 100 mln di € ad un tasso di interesse del 3,3%, per noi complessivamente l’interesse
di computo sul capitale investito sarebbe pari a 3,3 mln di € —> i primi 3,3 mln di € di un eventuale utile
sono contabilmente un utile (questi interessi di computo non li posso contabilizzare), ma non sono un
effettivo beneficio per l’imprenditore perché quel beneficio lì lo si poteva ottenere anche in altro modo e
fin da subito.

Quand’è che un’impresa va bene? Quali condizioni devono essere verificate?


L’impresa non deve essere strutturalmente in perdita, ma, anzi, deve riuscire a dare un rendimento che sia
adeguato rispetto agli investimenti che hanno fatto i soci (ROE). Inoltre ci deve essere una certa proporzione
fra finanziamenti propri e finanziamenti da terzi: non devo essere troppo indebitato (se sono troppo
indebitato vuol dire che ho fatto molto ricorso alla leva finanziaria —> se il rapporto fra ROD, cioè il costo
dei finanziamenti da terzi, si impenna rispetto al ROI, cioè la redditività dei miei investimenti [se il ROI
scende e il ROD sale, lo spread o divario fra i tassi diventa negativo e io sono tanto più massacrato quanto
più ho fatto ricorso alla leva].

Queste cose si possono riassumere in un’unica condizione: che l’impresa dimostri l’attitudine/tendenza (non
sistematica annuale capacità) a generare adeguati livelli di reddito -> non è una condizione che debba essere
verificata sempre assiduamente —> è normale che in certi momenti della vita dell’impresa ci siano delle
perdite —> e se ci sono delle perdite il ROE è negativo —> e un ROE negativo non può essere soddisfacente in
termini assoluti.
Ma questo non comporta la morte dell’impresa, se prima e dopo abbiamo avuto dei livelli di redditività invece
molto elevati —> problema di attitudine/capacità mediamente di generare adeguati livelli di reddito.

Adeguato sta a dire che non è sufficiente che ci sia un utile contabile, o meglio che i ricavi superino i
costi: è necessario che quell’utile sia capiente, tale da coprire gli oneri figurativi -> quelle forme di
remunerazione che l’imprenditore o i soggetti che hanno conferito fattori produttivi nell’impresa potevano
avere e ai quali essi hanno rinunciato non investendo lì il loro danaro.

L’impresa è una realtà privata for profit: un’impresa sta in piedi solo se, rispetto all’obiettivo, si
rapporta in questo modo -> obiettivo di vantaggio economico, beneficio economico, di redditività.

Finora però l’assente è il vincolo: l’obiettivo ha a che fare col reddito (profitto), mentre il vincolo ha a
che fare con la dimensione finanziaria.

Nel perseguire questo obiettivo di una tendenziale adeguata redditività aziendale, l’impresa deve stare
attenta a non trovarsi mai, in nessun momento, in una condizione di insolvenza (condizione in cui non sono in
grado di far fronte alle obbligazioni assunte con normali mezzi di pagamento).

La solvibilità deve essere sempre presente, mentre la redditività entro certi limiti può attendere —> ci
possono essere periodi in cui non soltanto la redditività non è adeguata, ma addirittura la redditività è
negativa e c’è una perdita: pazienza purché prima ci siano stati periodi buoni e dopo ne seguiranno altri
altrettanto buoni —> è un’attitudine media/tendenziale quella che deve emergere.

Più della metà delle società di capitali italiane espongono nei loro bilanci strutturalmente delle perdite
d’esercizio: tu puoi essere in perdita per 1 anno o 2/3 anni, ma non puoi essere per 15 anni sistematicamente
in perdita, perché se sei strutturalmente in perdita per 10/15 anni vuol dire che la tua attività è
un’attività antieconomica e se tu applicassi la razionalità economica di comportamento quell’attività la
chiuderesti o la cambieresti.
Se invece non la chiudi o non la cambi la conseguenza che surrettiziamente in qualche modo si fa largo è che
forse quei bilanci non sono così “veritieri e corretti”.

1/4 delle imprese italiane dichiara di aver un Valore Aggiunto negativo: il valore di quello che produci è
inferiore rispetto al valori che consumi per produrre —> usi ebano per produrre carbonella per barbecue...

Per riassumere, quali sono i costi che ci devo mettere dentro nel mio conto per trovare un’ipotesi di prezzo
che sia effettivamente remunerativo?
ADDENDI DI COSTO DA CONSIDERARE:

·
·
COSTI DI FABBRICAZIONE

}
COSTI DI SVILUPPO/MESSA A PUNTO/PROGETTAZIONE
COSTI INDUSTRIALI

· COSTI COMMERCIALI

· COSTI AMMINISTRATIVI

· COSTI GENERALI AZIENDALI

Questi sopra sono costi che passano per la contabilità e vengono riflessi in bilancio; però non
bastano; bisogna inserire anche gli

· ONERI FIGURATIVI

Di oneri figurativi almeno uno c’è sempre: l’INTERESSE DI COMPUTO SUL CAPITALE PROPRIO INVESTITO
(collegato al capitale proprio).

Se la realtà aziendale è piccola ci possono essere anche altre situazioni che danno vita a oneri figurativi:
per esempio ci possono essere delle persone vicine ai soci, che lavorano apparentemente in modo gratuito per
l’impresa.

Es: in un ristorante la sera la figlia e la moglie del proprietario vanno a servire ai tavoli senza che
venga loro corrisposto uno stipendio —> non sono dipendenti: apparentemente lavorano gratis.
L’impresa ha un vantaggio perché si avvale di un fattore produttivo, il lavoro, senza per questo rilevare un
costo a C.E. Queste due persone lavorano gratuitamente per l’impresa perché si aspettano che l’impresa avrà
maggiori utili e una parte di quegli utili sono utili contabilmente parlando, ma se io ragionassi in termini
di profitto (extra-utile) non si tratta di un profitto —> io dovrei togliere dall’utile contabile, oltre
all’interesse di computo sul capitale proprio investito dovrei togliere anche queste retribuzioni figurative
questi stipendi figurativi.

Altro es: abbiamo costituito da poco una piccola S.r.l; siamo in 3 soci; siamo in una fase di start up e
cerchiamo di far decollare questa cosa; io ho un capannone inutilizzato; io potrei decidere che per i primi 3/5
anni do la disponibilità gratuita di questo capannone alla nostra società. Il capannone rimane di mia
proprietà; lo do in comodato gratuito quindi io non ottengo nessun tipo di compenso. La società ha un vantaggio
perché se avesse dovuto affittare o addirittura acquistare o ottenere in leasing un capannone di quel tipo,
avrebbe comunque sostenuto dei costi. Ma a regime bisogna che il risultato economico sia tale da coprire anche
questo onere figurativo —> fitto figurativo.

Quindi, io dovrei determinare, in questo caso, un costo nel modo più completo fra quelli possibili, andando non
solo a considerare i costi precedentemente elencati (costi industriali, commerciali, amministrativi e generali
aziendali), ma anche tutta l’incidenza a livello unitario o la quota unitaria degli oneri figurativi:
questa configurazione di costo tecnicamente si chiama COSTO ECONOMICO TECNICO.

É il costo economico tecnico che dovrebbe essere assunto come base per fissare il prezzo, se il mercato ce lo
consente.

Se il costo complessivo a livello unitario è 100; se il costo economico-tecnico (con gli oneri figurativi) a
livello unitario è 103; se io fisso il prezzo di vendita a 102 (posto che il mercato me lo consenta) e sono
monoprodotto, la mia impresa esporrà un utile perché 102 > 100.
Contabilmente ho un utile però questo utile non è capiente/soddisfacente in quanto non è in grado di coprire
gli oneri figurativi. Ci sarebbe un utile, ma non ci sarebbe profitto.

Se io, invece, fissassi il prezzo di vendita a 106 o a 105, io avrei non soltanto un utile sotto il profilo
contabile, ma avrei anche un profitto, dato che il ∆ (differenza fra ricavo complessivi e costo complessivi)
sarebbe tale da coprirmi anche gli oneri figurativi e lasciarmi qualcosa.

Pertanto, in una condizione di ottimo l’impresa deve sempre cercare di avere dei profitti e non soltanto degli
utili; io posso avere degli utili senza avere dei profitti; se ho dei profitti c’è anche l’utile sotto il
profilo contabile.

Questo perché il mio obiettivo era quello di trovare un costo che potesse essere utile per fissare un prezzo.

Ora, invece, cambiamo l’esigenza conoscitiva: io devo redigere il bilancio d’esercizio; vado in magazzino e
vedo che ho una giacenza di prodotti finiti di un determinato tipo (orologi da polso).

·
La mia esigenza è di trovare un valore di costo che sia funzionale alla redazione del bilancio di esercizio.
Devo valutare le rimanenza/magazzino.

Art. 2426, comma 9, c.c. —> criteri di valutazione —> valutazione delle rimanenze degli altri beni e
dell’attivo circolante —> la valutazione delle rimanenze deve avvenire al minor valore fra costo storico
(d’acquisto/di produzione) e supposto valore di realizzo —> devo quindi trovare un valore di costo.
Il costo viene determinato nel comma 1 —> con riferimento al costo di produzione il costo è dato dai costi
diretti di produzione + quote di costi indiretti di produzione —> non possono essere compresi nel valore di
costo i costi di distribuzione; d’altra parte, se il bene ce l’ho in magazzino vuol dire che il bene non è
ancora stato venduto: quindi non l’ho distribuito —> non posso ricomprendere in un bene che non è ancora
venduto dei costi che ancora non sono stati sostenuti. Il che vuol dire che non puoi ricomprendere costi di
natura commerciale nei beni che hai in magazzino —> se il bene è in magazzino vuol dire che ancora non è stato
venduto.
In sostanza la legge dice che la valutazione deve avvenire tenendo conto dei soli costi industriali —> sul
parametro costo la valutazione deve avvenire sulla base dei soli costi di fabbricazione, dei costi
industriali. Quindi se questa è l’esigenza conoscitiva non ci posso mettere né i costi commerciali né i
costi amministrativi: è cambiata l’esigenza conoscitiva, cambia il processo attraverso cui attribuisco il
valore.

E se la mia esigenza conoscitiva invece fosse quella di sapere, data una certa struttura produttiva, data
una certa capacità produttiva installata, dato un certo numero di dipendenti, con alcuni margini ulteriori
di capacità produttiva, quanto mi costerebbe produrre un pezzo in più?

Io produco 100.000 orologi all’anno; se ne voglio produrre 100.001, quell’uno in più quanto mi costa? Se
questa fosse la mia esigenza, quali sono gli addendi che dovrei metterci dentro?
Dovrei considerare i soli costi variabili, quelli che sono i costi addizionali in più, sulla base di una
logica marginalista —> i costi addizionali in più sarebbero solo e soltanto quelli collegati alla maggiore
quantità di materie prime, maggiore quantità di MOD, maggiore infinitesima quantità di energia elettrica...
tutti gli altri costi li sostengo comunque.

Quanto detto sopra è riassumibile nel cd. principio di relativismo: con riferimento ad un dato oggetto, con
riferimento ad un dato tempo, con riferimento ad una medesima base dati, sono individuabili tanti valori di
costo (potrei dire valori e basta, ma, nello specifico, si parla di analisi dei costi) quante sono le
diverse esigenze conoscitive possibili.

Questo vuol dire che, cambiando l’esigenza conoscitiva, cambiano gli elementi di costo da considerare,
cambia la metodologia di attribuzione dei valori e quindi cambia il valore di costo: il valore di costo è
funzione dell’esigenza conoscitiva.

Quindi non esiste “il” costo; non ha senso dire “il” costo di produzione; io posso avere diversi costi di pro-
duzione sulla base dello specifico problema/esigenza conoscitiva che in quel momento mi trovo a dover
affrontare.

Esiste quindi una correlazione fra le elaborazioni che hanno per oggetto anche i costi e le esigenze
conoscitive, non potendo elencare esaustivamente tutte le possibili concrete esigenze conoscitive, dobbiamo
cercare di fornire una sorta di quadro complessivo di riferimento.

Le esigenze conoscitive sono quelle che orientano i processi di calcolo in economia aziendale, anche con
riferimento al calcolo dei costi. Cambiando l’esigenza conoscitiva cambia la modalità di calcolo e cambiano
anche gli addendi da ricomprendere o da escludere all’interno del nostro computo.

Ci possono essere quindi una pluralità di situazioni che possono portare a dover fare delle elaborazioni che
hanno per oggetto i costi.

Io però devo cercare di razionalizzare: si può dire che esistono 3 macro-situazioni

µ posso avere tutta una serie di elaborazioni (che hanno per oggetto i costi, ma non solo) che servono per
1)
soddisfare le esigenze conoscitive di controllo economico-reddituale —> ELABORAZIONI CHE HANNO PER OGGETTO IL
CONTROLLO DELL’ANDAMENTO ECONOMICO REDDITUALE (costi per il controllo)

2)
A poi ci sono tutta una serie di elaborazioni che servono per supportare il processo decisionale —>
ELABORAZIONI CHE SERVONO PER PRENDERE DELLE DECISIONI/SUPPORTARE IL PROCESSO DECISIONALE

Queste 2 prime macro-tipologie sono potenzialmente presenti in qualunque tipo di realtà aziendale (azienda e
non necessariamente impresa [impresa —> azienda privata for profit; azienda —> strumento cui si dà vita per
perseguire determinate finalità —> entità più generalista].

Infatti qualunque realtà aziendale, se è un minimo complessa, ha bisogno di avere degli strumenti a supporto
del controllo della gestione e a supporto del processo di pianificazione e programmazione dell’attività
aziendale.

3)
A tipologia limitata a talune tipologie di imprese —> ELABORAZIONI CHE SERVONO PER REDIGERE IL BILANCIO DI
ESERCIZIO, CHE HANNO PER OGGETTO LA REDAZIONE DEL BILANCIO D’ESERCIZIO.

Se la mia è un’impresa manifatturiera, industriale, per redigere il bilancio devo valutare le rimanenze finali
dei prodotti; che differenza c’è fra un prodotto e una merce? Lo stesso oggetto può essere un prodotto o una
merce: per chi fabbrica quell’oggetto, lo stesso è un prodotto (oggetto che si ottiene al termine di un
processo di trasformazione fisico-tecnica); per un’impresa che compra questi oggetti all’ingrosso e li rivende
al dettaglio, l’oggetto è una merce perché non c’è una trasformazione —> io mi limito a trasferire nel tempo
e/o nello spazio questo tipo di oggetto.

Un bene in rimanenza di questo tipo, che può essere sia un prodotto che una merce,a seconda della realtà
aziendale, assume un significato differente.

Se io sono un’impresa mercantile, quando io ho comperato degli orologi all’ingrosso, io in cambio degli
orologi ho dato del danaro: ho un costo di acquisto (esso oggettivizza il valore che aveva questo oggetto
quanto meno nel momento in cui è avvenuta l’operazione) —> è un driver oggettivo (perché è un costo di natura
finanziaria che ha oggettivizzato in quel momento storico la misura del valore di quel dato oggetto). Quindi
non ho bisogno di avere un costo di produzione perché io non ho prodotto proprio niente.
Se invece questo oggetto me lo sono fabbricato io, io ho acquistato le materie prime, ho assunto dei
dipendenti, ho utilizzato dei macchinari, consumato energia elettrica, consumato tutta una serie di fattori
produttivi che hanno generato dei costi che si sono incorporati nell’oggetto prodotto; ma non ho un costo di
acquisto per valutare questo oggetto. Devo determinare io dei costi di produzione; la CoGe non li vede questi
valori; la CoGe ha bisogno della CoA per poter chiudere il bilancio perché la CoGe non è in grado di
determinare il costo di produzione —> la CoGe si attiva quando l’impresa entra in contatto con l’esterno; qui
stiamo parlando, invece, di operazioni di gestione interna, le quali non sono supportate dalla CoGe, ma dalla
CoA.

Quindi, per la valutazione di tutto ciò che viene valutato attraverso un costo di produzione (prodotti finiti,
prodotti in corso di lavorazione, semi-lavorati di produzione, produzioni interne, commesse in corso di
realizzazione per conto di soggetti terzi —> elementi patrimoniali) c’è bisogno di un COSTO DI PRODUZIONE;
e il costo di produzione non lo può dare la CoGe; ci sono quindi della apposite elaborazioni di CoA per poter
redigere il bilancio.
Ma se la mia è un’impresa di servizi, se la mia è un’impresa mercantile, questa esigenza non c’è: nelle
imprese di servizi in senso stretto (consulenza) non ho nemmeno delle rimanenze (se non beni di cancelleria,
toner, risme di carta...non sono rimanenze intese in senso stretto).

Quindi questa ultima esigenza non è univalente: riguarda solo e soltanto la necessità di redigere un bilancio
da parte di imprese,nelle
che hanno
qualiinè attivo un processo di produzione in senso fisico-tecnico.

Quali sono le macro-caratteristiche di queste elaborazioni?

· Le elaborazioni che hanno per oggetto il controllo sono pre-organizzabili? Posso predefinire lo schema
attraverso il quale dare le informazioni? Posso predefinire le modalità di calcolo dei miei oggetti di
riferimento? Posso predefinire la temporalità di elaborazione?
A tutte queste domande la risposta è sì: non solo posso, ma devo.

Supponiamo di avere un’unica società di capitali (S.p.A) che gestisce 3 plessi alberghieri, di cui ha la
proprietà: un albergo a Cortina; uno a Roma; uno a Porto Cervo.

Se io ragiono in termini di CoGe, che venga venduto un servizio di pernottamento nell’uno o nell’altro albergo
poco importa —> quello è un ricavo di vendita; tuttavia, dal punto di vista del controllo della gestione per me
non è la stessa cosa sapere dove è stata venduta quella camera. Quindi in primo luogo io dovrò disaggregare la
mia attività aziendale quanto meno per singola struttura alberghiera; dovrò avere dei dati di ricavo, ma anche
di costo (e quindi per differenza fra i due —> risultato) ai fini del controllo dell’andamento economico per
ciascuno di questi 3 alberghi.
Ovviamente la somma dei 3 mi darà i dati aziendali.
In alberghi di questa categoria inoltre vengono venduti ulteriori servizi (oltre al pernottamento): ristorante/
bar (aperto anche a clientela esterna); centro benessere; sala congressi/convegni...

Per me sarà importante sapere qual è la struttura di ricavi-costi-risultati in relazione a ciascuno di questi
servizi.

Mettiamoci nei panni non dell’amministratore delegato, ma dei 3 direttori degli alberghi cui l’amministratore
ha delegato una serie di responsabilità. Con ciascuno dei 3 direttori l’amministratore delegato negozierà in
via preventiva degli obiettivi di budget (ricavo-costo-risultato) e anche obiettivi di tipo finanziario.
Verrano concordati degli obiettivi di reddito/redditività per ciascuna struttura: ma io ho fatto riferimento a
strutture che hanno caratteristiche diverse. Un albergo a Porto Cervo sta aperto da Pasqua a fine settembre.
Cortina ha 2 stagioni: stagione invernale e stagione estiva; Roma ha un turismo sia di godimento che di affari
—> sta aperto 12 mesi all’anno.

Se però, in ciascuno dei 3 alberghi, quando l’albergo è aperto tu vendi: pernottamento, pasti, servizi
aggiuntivi di spa/centro benessere...

Se voglio sapere come va la baracca ho bisogno non solo di informazioni globali sull’intera società; non basta
nemmeno l’informazione globale sull’albergo di Porto Cervo anziché di Roma; devo avere per ciascun albergo
informazioni relative a servizi —> ricavi - costi - risultato (per differenza) per pernottamento camere; ricavi
- costi - risultato per gestione sala convegni; ricavi - costo - risultato per spa/benessere...

Quindi l’informazione va strutturata; ma, una volta che si ha strutturato l’informazione in un certo modo, con
determinati prospetti, non è che ogni mese la cambiamo l’informazione —> quell’informazione lì viene mantenuta
costante —> la griglia di presentazione dei dati rimane quella a meno che non si cambi qualcosa dal punto di
vista organizzativo (si decide di offrire un servizio in più che prima non c’era e dobbiamo aggiungerlo).

Questa griglia, in teoria, dovrebbe essere predisposta non soltanto a consuntivo, attraverso le cose di cui ci
occuperemo nel corso (con dati verificati e consuntivi, ex post) —> se un’impresa ha un sistema completamente
strutturato di pianificazione, programmazione e controllo, quella stessa griglia è anche quella che mi serve
per contenere i dati del budget economico: mettiamo i dati previsionali a inizio anno (questi dati dovranno
essere scanditi/disarticolati su base infra-annuale (quindi posso fare il dato preventivo annuale) e vado a
fare il confronto fra il dato preventivo e il dato consuntivo (non posso farlo una volta all’anno -> io ho
bisogno di avere informazioni molto più frequentemente di quanto non me ne produca la contabilità generale).

Ormai mediamente su base mensile devo essere in grado di fare un confronto fra i dati preventivi e i dati
consuntivi, perché devo essere in grado di rendermi conto se ci sono o meno degli SCOSTAMENTI significativi (io
devo capire perché si è prodotto -> si è prodotto questo scostamento perché si è verificato qualcosa che non si
sapeva si potesse verificare (e comunque cosa posso fare per rimediare se lo scostamento è sfavorevole) oppure
perché io ho mal definito il contesto di riferimento non tenendo adeguatamente conto di alcune dinamiche che
erano già in atto e pertanto conoscibili?

Io devo cercare di monitorare costantemente l’andamento della gestione.


La componente di dati consuntivi che serve per fare questi confronti è fornita attraverso la CoA.

Quindi quando si parla di elaborazioni che hanno per oggetto il controllo dell’andamento economico è tutto
predefinito: sono predefiniti i format, le griglie sulla base delle quali do le informazioni, che devono
essere disarticolate per tipologia di attività -> per l’impresa manifatturiera può essere la tipologia di
prodotto/famiglie di prodotto; per altri soggetti possono essere i canali distributivi —> i miei oggetti di
riferimento, quelli rispetto ai quali determino ricavi-costi-risultati devono comunque essere disarticolati
in qualche modo —> non posso fare riferimento solo e soltanto all’intera impresa come oggetto di riferimento.

· Quindi io definisco la griglia sulla base della quale dare le informazioni, definisco le modalità di
calcolo di configurazione del costo —> che costi ci metto dentro? Costi pieni o parziali?
Definisco io la periodicità —> bisettimanale? Mensile? Bimestrale? [una volta era normale avere delle
chiusure trimestrali in CoA, oggi non più perché passa troppo tempo e in 3 mesi possono succedere troppe
cose; oggi normalmente si è sul mese e vi sono aziende nelle quali si hanno addirittura chiusure ogni 15 gg o
ogni settimana. Problema: se tu assumi come arco temporale il trimestre, è accettabile che i dati di un
trimestre siano disponibili entro il mese successivo alla chiusura del trimestre; ma se l’infra-periodo
diventa mensile, io non ti posso dare i dati del mese alla fine del mese successivo perché avrei perso un
mese nel frattempo —> per un mese la situazione non è stata sotto controllo]. Tanto più frequenti sono le
elaborazioni, tanto più queste debbono essere tempestive; se ti porti dal trimestre al mese, come oggi succede
ormai normalmente, i dati devono essere disponibili entro e non oltre il 5° giorno lavorativo successivo alla
chiusura del mese.

Qui, in questa prima tipologia di elaborazioni, tutto deve essere strutturato: il come ti do l’informazione,
il come calcolo gli elementi collegati ai costi, la periodicità dell’elaborazione...

Può succedere che, proprio dai report, io veda che c’è qualcosa che non va: ho una tipologia di prodotti/servi-
zio che non sta andando così come io pensavo —> allora devo assumere delle decisioni —> se devo assumere delle
decisioni però devo essere messo nella condizione di prendere la decisione giusta.

Una decisione potrebbe essere se mantenere o eliminare una determinata area di attività; oppure se continuare
ad interiorizzare certi processi produttivi oppure esternalizzarli (make or buy —> lo faccio o lo faccio fare).

Oppure: sto definendo le caratteristiche di un nuovo prodotto sulla base di una serie di elementi che fanno
riferimento a prodotti simili che sono già in produzione cerco di congetturare un costo economico-tecnico per
definire un’ipotesi di prezzo, per capire se un prodotto con quelle caratteristiche può essere oppure no
convenientemente offerto al pubblico.

Altro caso in cui devo prendere una decisione: ho una certa capacità produttiva inespressa, mi conviene
utilizzare questa capacità produttiva per ottenere maggiori quantità del prodotto A, del prodotto B o del
prodotto C?

Ci sono una pluralità di situazioni rispetto alle quali devono essere prese delle decisioni; e, questo è ciò
che sta alla base del secondo blocco di elaborazioni, cioè quelle collegate al supporto del processo
decisionale.

Le elaborazioni collegate al supporto del processo decisionale sono pre-configurabili? Posso creare una sorta
di griglia per i dati? Posso definire ex ante, aprioristicamente, una periodicità di elaborazione? Sono
organizzabili, in qualche modo, in via preventiva? No, perché il tipo di elaborazione dipende dal problema.
Devo aspettare che si evidenzi il problema, capire qual è il tipo di problema che devo soddisfare (qual è
l’esigenza conoscitiva che deve essere soddisfatta) e, a quel punto, impostare, di volta in volta nel modo più
opportuno, i miei processi di calcolo.
Qui le ipotesi possono essere innumerevoli —> i problemi possibili sono ingentissimi: io non posso definire ex
ante tutte le possibili situazioni da cui può scaturire l’esigenza di operare un’elaborazione a supporto del
processo decisionale. Ho alcune situazioni classiche però: dati di costo per definire un prezzo di vendita;
scelta se mantenere o eliminare una produzione in perdita; decisione su come utilizzare una capacità
produttiva; scelta se mantenere o eliminare una produzione; scelta se produrre o fare produrre (scelte di make
or buy/scelte di analisi differenziale); scelte collegate al comincio a fare questa cosa oppure no...

Vi sono alcune situazioni classiche, ma non è possibile fare una sorta di resoconto completo di tutte le
possibili situazioni; quindi qui c’è un problema dal punto di vista tecnico —> io avrò un sistema informativo
che sarà sostanzialmente collegato alle esigenze, in via prevalente, relative al controllo: il mio sistema di
elaborazioni girerà continuamente per soddisfare le esigenze del primo tipo. Però il mio sistema informativo
contabile dev’essere sufficientemente flessibile per poter consentire all’occorrenza delle estrazioni di dati
che mi permettano di risolvere quel particolare problema che non è pre-conoscibile.

Quindi devo avere un sistema informativo che, pur essendo tarato e orientato per soddisfare le esigenze
collegate al controllo, deve avere dei margini di flessibilità tale da consentirmi all’occorrenza delle
estrazioni di dati e delle elaborazioni per soddisfare certe esigenze conoscitive anziché certe altre.

Quindi il sistema informativo deve mantenere comunque dei margini di flessibilità. Qui nulla può essere
prefigurato: tutto dipende dal manifestarsi di un’esigenza conoscitiva specifica/problema e dal capire come
quel problema debba essere impostato.

· La terza tipologia di elaborazioni ha a che fare solo con le imprese manifatturiere, quelle imprese che, per
redigere il proprio bilancio d’esercizio, devono valutare le rimanenze di prodotti finiti, le produzioni
interne, eventuali commesse in corso di esecuzione per soggetti terzi etc.
Qui nuovamente l’informazione è predefinibile perché so qual è il tipo di informazione che devo dare e so
anche qual è la periodicità —> queste informazioni servono una volta all’anno in occasione della
predisposizione del bilancio di esercizio; e le modalità di calcolo sono in questo caso fortemente orientate
dalle disposizioni civilistiche o dai principi contabili internazionali.

Non posso fare ciò che voglio perché queste elaborazioni non hanno una valenza interna: le prime due hanno una
valenza interna —> sono informazioni che servono per gestire le prime e supportare il processo decisionale le
seconde.

Questa terza tipologia di elaborazioni servono invece per redigere il bilancio di esercizio —> ho dei vincoli
nei processi di calcolo dei miei oggetti di riferimento.
LE PRINCIPALI CLASSIFICAZIONI DI COSTI

1 PER NATURA O TITOLO DI SOSTENIMENTO

La contabilità ufficiale è quella per natura. Tutte le elaborazioni di COA, in particolare quelle legate al
controllo, partono dalla ripresa ed adattamento dei costi dalla contabilità ufficiale.

2 CRITERIO FUNZIONALE O DESTINATIVO

Non è la natura del costo che rileva, ma è la funzione alla quale quel costo può essere associato.
Modalità di classificazione tipica dei paesi anglosassoni.

I criteri classificatori non sono necessariamente alternativi: possono coesistere. Nulla vieta che una volta
che ho scelto di utilizzare come criterio classificatorio dominante quello funzionale io all’interno di
questo non riattivi il criterio per natura. Esempio —> costi industriali: costo del lavoro industriale; costo
dei servizi industriali; ammortamenti industriali. Io individuo un criterio dominante all’interno del quale
posso utilizzare altri criteri ancora.

3 COSTI DIRETTI vs COSTI INDIRETTI


Si tratta non di una classificazione assoluta, bensì di una classificazione relativa: devo in primo luogo
definire qual è l’oggetto di riferimento al quale mi devo rapportare per le mie elaborazioni; una volta
individuato quell’oggetto potrò definire cosa sia costo diretto e cosa sia costo indiretto.

[Esempio: valigetta di cuoio —> oggetto di riferimento; COSTI DIRETTI —> materia prima, mano d’opera diretta
(MOD) - lavoro dell’operaio che ha fisicamente assemblato quei determinati pezzi.

La retribuzione del direttore generale si configura rispetto all’oggetto come un costo indiretto —> non c’è
una correlazione immediata fra quel costo e l’ottenimento fisico dell’oggetto.

Altri costi diretti? Supponiamo che ci sia uno stampo con delle figure che sono quelle che servono, una volta
assemblate, per comporre quel determinato oggetto. Quindi io ho uno stampo che monto su una pressa, sottometto
la pelle di cuoio, la pressa spinge giù lo stampo, lo stampo ritaglia sulla pezza di cuoio (riducendo il più
possibile gli sfridi) per ottenere le parti componenti che poi dovranno essere cucite assieme ed assemblate.

Si parla dunque di 2 beni strumentali: la pressa e lo stampo. Sulla pressa io posso montare una pluralità di
stampi; e ogni stampo mi serve per ottenere delle figure dalle quali otterrò degli oggetti diversi.

La quota di amm.to della pressa si configura rispetto all’oggetto di riferimento come un costo indiretto, in
quanto non c’è una relazione diretta ed esclusiva fra la pressa e l’oggetto di riferimento: sostituendo lo
stampo io posso ottenere una pluralità di oggetti.

Ragiono su base mensile; il mio problema è trovare il costo dei miei prodotti su base mensile; io ho 3 tipi di
prodotto che vengono ottenuti attraverso l’utilizzo della pressa: una borsa, un borsello e dei portafogli.
Tutti oggetti in pelle che prevedono la stessa materia prima e processi di lavorazione che non sono dissimili.

Supponiamo di avere determinato quella che è la parte della quota di amm.to annuale da considerarsi come di
competenza del mese in oggetto. La quota di amm.to in CoGe però la rilevo con riferimento alla chiusura
dell’esercizio.

Diciamo che ho trovato qual è il costo di amm.to da considerare relativamente al mese di ottobre: ma quello è
il costo di utilizzo della pressa. Io con la pressa ho ottenuto una pluralità di oggetti: prodotti del tipo A,
di tipo B e di tipo C.
Se io voglio calcolare un costo pieno industriale, un costo che comprenda tutti i costi di fabbricazione,
all’interno del costo di fabbricazione ci devo mettere anche una quota (quella che va su A, su B o su C) della
quota (mensile) della quota (annuale) di amm.to.
Io so qual è il totale mensile, ma non so quanta parte di quel totale mensile vada su A, su B o su C.

Viceversa, la quota di amm.to dello stampo col quale ottengo solo ed esclusivamente le pezze di cuoio (parti
componenti) che mi servono per ottenere un dato oggetto come si configura? Si configura come un costo diretto,
perché quel fattore produttivo di uso durevole serve soltanto per ottenere quel particolare prodotto. Quindi,
una volta che ho trovato la quota di amm.to mensile dello stampo del prodotto A, quella parte lì se la prende
tutta il prodotto A.
Invece, per la quota di amm.to della pressa io ho un totale che va ripartito su A, su B e su C. Questo è
diventato nel tempo un problema: il problema della ripartizione dei costi indiretti.

La FIAT 500 di una volta non aveva optional praticamente: la maggior parte degli interni era lamiera
verniciata. Tuttavia è stata in produzione per 30 anni —> si trattava di oggetti tecnologicamente molto
semplici, nei quali il processo produttivo non era affatto automatizzato. Non c’era il robot che assemblava i
pezzi di carrozzeria. C’erano degli operai che prendevano un pezzo di lamiera, lo mettevano sotto lo stampo,
prendevano il pezzo (spesso verniciato a mano) e assemblavano tutto quanto.

Era un processo produttivo relativamente semplice che richiedeva un forte utilizzo di mano d’opera e un molto
ridotto utilizzo di capitali: non c’era bisogno di macchine particolarmente sofisticate (non c’era
automazione). La nuova 500 è invece un oggetto incredibilmente sofisticato ottenuto con modalità differenti:
la maggior parte del processo produttivo è collegato all’utilizzo di macchine (e non di persone).

Il processo tecnologico dal dopoguerra in poi ha comportato una sistematica sostituzione del fattore
produttivo umano col fattore capitale: ciò non significa che non serva ancora una componente umana, ma questa
componente umana serve meno, in termini di numero di ore, e serve più qualificata.
Tutto questo ha portato a una fortissima modificazione nel rapporto fra costi diretti e costi indiretti
parlando di prodotto. Se in passato la stragrande maggioranza dei costi riferibili ad un prodotto erano costi
diretti, oggi il rapporto si è assolutamente capovolto. Oggi ad essere preponderanti sono i costi di indiretta
imputazione.

Questo ha delle conseguenze: i costi diretti sono e misurabili e riferibili al prodotto in modo estremamente
affidabile; un costo diretto è un costo attendibile; un costo indiretto invece dipende dalle scelte che io
opero nell’effettuare la ripartizione.

Supponiamo di avere il costo di riscaldamento totale di un edificio di proprietà; noi dobbiamo capire quanta
parte del costo che è stato complessivamente sostenuto in un determinato arco di tempo possiamo considerare come
relativo a un determinato ambiente: posso guardare i metri cubi (se si parlasse di pulizia del locale sarebbero
sufficienti i metri quadri). Ho un costo di riscaldamento da ripartire, so qual è la cubatura complessiva degli
ambienti riscaldati, trovo un costo al metro cubo e lo moltiplico per i metri cubi del locale.

Se io fossi particolarmente zelante potrei osservare che la temperatura desiderata in un ambiente dove si sta
seduti è più alta rispetto alla temperatura accettabile nei locali di solo transito/servizio (scale/corridoio/
bagno). Questo implicherebbe di applicare un coefficiente di equivalenza o di correzione ; se inoltre abbiamo
ambienti esposti ad est e altri ambienti esposti a nord, la disposizione dell’ambiente impatta sulla
temperatura: per mantenere la medesima temperatura io dovrò impostare diversamente il termostato in un
ambiente che sia esposto a sud o ad est piuttosto che in un ambiente che sia esposto a nord.
Inoltre influisce anche il numero di persone che normalmente abitano l’ambiente: ognuno di noi potenzialmente
è un calorifero; in ambienti più affollati il calore si manifesta (si potrebbe avere fin troppo caldo persino
in un ambiente non adeguatamente climatizzato) e viceversa.

Questo per dire che è il criterio di ripartizione di un costo può sempre essere ulteriormente affinato. Quindi
non c’è un unico criterio e il livello di affinamento del criterio può essere via via più complesso: ci si
ferma facendo un sano bilanciamento fra il costo dell’ottenimento dell’informazione e il beneficio relativo
che quell’informazione mi può dare. Se il costo supera il beneficio, non mi conviene affinare ulteriormente il
criterio di ripartizione. Infatti, in alcune situazioni non vale la pena di andare oltre una certa soglia di
complessità]

Un costo può dirsi diretto quando esiste una correlazione immediata fra il costo e l’oggetto di
riferimento.

Per contro, un costo è sì indiretto se la correlazione non esiste; tuttavia, un costo potrebbe essere
gestito contabilmente come indiretto anche nei casi in cui la correlazione esista, ma sia eccessivamente
oneroso e complesso gestirla in questo modo.

Il diretto/indiretto non è oggettivo non solo per il fatto che dipende dall’oggetto cui mi riferisco, ma
anche perché vi sono determinate tipologie di costo che potrebbero essere gestite come costi diretti (in
quanto esiste la correlazione) ma che si reputa non vantaggioso o troppo oneroso/complesso gestire come
tali.

Ci sono dunque dei costi che io considero e contabilmente attribuisco come costi diretti, ma che però
gestendomi le cose in altro modo avrei potuto in alternativa considerare anche come costi diretti. Ne è
un esempio l’energia elettrica rispetto ad un ambiente: si tratta di un costo che verrebbe
ragionevolmente considerato e trattato come un costo indiretto perché è oneroso avere un contatore per
ogni ambiente —> non so quanta parte dell’energia elettrica sia relativa all’uno o all’altro ambiente;
se avessi fatto una scelta diversa mettendo un contatore per ogni ambiente collegando quel contatore a
tutte le fonti di consumo di energia elettrica, a quel punto quel costo sarebbe diventato diretto
rispetto all’ambiente oggetto di osservazione (perché idealmente una correlazione esiste fra energia
elettrica ed ambiente).

4 COSTI SPECIFICI (O SPECIALI) vs COSTI COMUNI

Questa è una classificazione oggettiva perché fa riferimento all’esistenza o meno di un rapporto di inerenza
fra un costo e l’oggetto di riferimento.

Questa classificazione, che viene erroneamente considerata coincidente con quella di prima, è invece una
classificazione oggettiva perché si basa sull’esistenza o meno di un rapporto di inerenza fra il costo e
l’oggetto di riferimento.

Se la correlazione esiste, il costo è un costo speciale o specifico; se la correlazione non esiste, il costo è
un costo comune. La correlazione o c’è o non c’è; ma l’esistenza o l’assenza della correlazione non dipende da
scelte contabili, dipende da quella che è la situazione di fatto. L’energia elettrica, rispetto a un dato
ambiente, potrebbe essere un costo attribuibile oggettivamente all’ambiente stesso? C’è una relazione di
inerenza fra l’energia elettrica e il consumo di energia elettrica in quell’ambiente? Sì 👌 . Il costo
dell’energia elettrica è un costo speciale o specifico che però per comodità (in forza di una valutazione di
costi-benefici) rispetto alle modalità concrete di attribuzione del costo, viene normalmente considerato come
se fosse un costo indiretto.

COSTI COSTI
DIRETTI SPECIFICI

COSTI SPECIALI O SPECIFICI CHE IO HO


COSTI DECISO CONTABILMENTE DI TRATTARE COME

INDIRETTI COSTI COSTI INDIRETTI

COMUNI
Se un costo è comune invece non c’è storia: un costo comune può essere trattato sempre e soltanto come un
costo indiretto.

L’area grigia è solo per quei costi che sarebbero speciali, ma per convenienza si decide di trattare come
costi indiretti (ma che adottando altre soluzioni tecniche avrebbero potuto essere considerati in realtà come
costi diretti.

Oggi ci sono prodotti che per il 70/80% hanno componenti di costi indiretti.

Se io voglio calcolare il costo di un prodotto e ho per il 90% costi diretti (costi la cui misurazione è
piuttosto affidabile/attendibile) potrei essere abbastanza sportivo nel gestirmi il restante 10/15%, perché se
anche gestisco con una certa approssimazione quel 10/15%, il costo di prodotto nel suo complesso è comunque
altamente affidabile.

Se invece io ho un 20% di costi diretti e l’altro 80% di costi indiretti, il rapporto si capovolge: le
modalità, tempo per tempo scelte, per imputare/ripartire i costi indiretti modificano il costo di prodotto.

Torniamo alla quota di amm.to della pressa; supponiamo che sia pari a 10.000€ che devo ripartire su A, B, C.
Come posso fare? Quali criteri potrei utilizzare per ripartire su A, su B e su C questo costo come quota di
amm.to della pressa che io utilizzato sostituendo gli stampi per ottenere sia A che B che C?
Potrei usare le ore di utilizzo, cioè il minutaggio —> driver
Contatore che mi dice quante ore ha lavorato la pressa per ottenere A, quante ore ho utilizzato la pressa per
ottenere B, quante ore ho utilizzato la pressa per ottenere C.

Oppure potrei utilizzare un criterio più grezzo: potrei fare riferimento ai volumi di produzione se non c’è una
grossa differenza in termini di numero di pezzi ottenuti per ore di utilizzo dell’impianto.
Es: se il 50% della produzione ottenuta ha riguardato il prodotto A, allora il prodotto A si prende il 50%
della quota di amm.to.
Cambiando il. criterio cambia la quota di costi che va su A, su B e su C. Ma se i costi di cui stiamo parlando
sono complessivamente il 60/70% del totale, significa che cambiando il criterio mi cambiano i costi attribuiti
ad A, B o C. Fermi i ricavi (io so qual è il ricavo di A nel mese di ottobre), se io cambio le modalità di
attribuzione dei costi indiretti, si modifica il costo di A. Modificando il costo di A si modifica anche il
risultato/utile/margine/reddito (ciò che si ottiene quando dai ricavi tolgo quanto meno alcuni costi).

Questo mi porta a dire che, cambiando i criteri di ripartizione dei costi indiretti, una produzione che magari
mi sembra andare bene potrebbe in realtà stare andando male.
Viceversa potrei avere una produzione che potrebbe essere in perdita ed è in perdita soltanto perché io l’ho
massacrata di costi (l’ho caricata con una marea di costi che non sarebbero i suoi).

Dagli anni ‘90 ad oggi questo è un problema crescente: tanto più gli impianti sono impianti flessibili/
polifunzionali che ci consentono di passare da una produzione ad un’altra, tanto maggiore è presente la
componente di costi fissi indiretti, ovvero la cui misura a livello di singola attività/linea di prodotto si
modifica al modificarsi del criterio adottato per la loro determinazione.

5 COSTI VARIABILI vs COSTI FISSI

Questa distinzione è direttamente collegata alla break-even analysis, ossia alla analisi del punto di pareggio.

Un costo si definisce variabile quando, a livello totale, quel costo varia al variare dei volumi di attività:
un costo lo considero variabile quando il suo totale varia/si modifica al variare dei volumi.

Aumentano i volumi di attività, aumenta anche il totale di questa tipologia di costo; diminuisce il volume di
attività, diminuisce anche il totale di questo tipo di costo.

La variabilità potrebbe essere:

Direttamente proporzionale

Più che proporzionale

Men che proporzionale

Normalmente assumiamo i costi variabili come direttamente variabili, quindi con una proporzionalità diretta.

Se io mi riferisco al cuoio di una valigetta 💼 , il cuoio è una materia prima; con riferimento alla seconda
classificazione sarebbe un costo industriale; con riferimento alla terza classificazione sarebbe un costo
diretto; con riferimento alla quarta classificazione sarebbe un costo speciale (o specifico); con riferimento
alla quinta classificazione sarebbe un costo variabile. Io faccio finta che il costo che sostengo per produrre
una valigetta sia 1/10 del costo che sosterrei per produrre 10 valigette; quindi suppongo che all’aumentare
dei volumi di attività (in questo caso dei volumi di produzione) aumentino proporzionalmente anche i costi
variabili a livello totale.

Se faccio così i costi variabili come li posso rappresentare graficamente?


Costi variabili
A) B)

Costi Costi
var. var.
totali unitari

- Quantità Quantità Quantità

Costi fissi
C) D)

Costi
Costi fissi a
fissi tot livello
unitario

Q.max
- L
Quantità

Costi totali
E) F)

Ammontare
utile Costi
Costi totali a
totali livello
unitario

costi
TOTALI ↳
_ -
Ricavi a livello unitario
*.

{ \
"

Costi fissi è
è
totali è

Q “e” Quantità Quantità

In A) si evidenzia il fatto che normalmente all’aumentare dei volumi acquistati, questi costi in realtà
dovrebbero avere un andamento decrescente: la proporzionalità dovrebbe essere men che proporzionale.

A mano a mano che il mio personale si affina nei processi produttivi (e questo è collegato ai miei volumi di
attività) il mio personale diventerà più efficiente nello svolgere qell’attività —> quindi in realtà non è
vero che all’aumentare dei volumi di attività (in questo caso delle quantità prodotte) il costo variabile
unitario rimane costante. La proporzionalità diretta starebbe a dire invece che, a livello unitario, il costo
rimane costante indipendentemente da quelle che sono le quantità (B).

Un costo si dice fisso quando non è variabile, o meglio quando con riferimento al breve termine (e quindi con
riferimento a scelte che sono già state fatte) non varia al variare dei volumi di attività, entro un certo
tetto/limite di attività.

C) i costi fissi rimangono tali, ma fino a una determinata quantità (capacità produttiva installata); oltre
questa quantità il costo fisso varia “a gradoni”. Q.max = quantità massima ottenibile con la capacità
produttiva installata : esempio —> con un macchinario posso fare fino a 100.000 pezzi all’anno; fino a quella
soglia, il costo di utilizzo di quel macchinario, in termini di quota di amm.to, è un costo fisso; se però io
ho bisogno di fare 130.000 pezzi non è più un costo fisso: o compro un altro macchinario o vado a
esternalizzare una parte della mia produzione; se invece i pezzi che faccio sono 50.000/60.000, il costo del
macchinario, in termini di quota di amm.to lo assumo fisso.

In realtà non è proprio così perché il criterio di amm.to lo si suppone a quote costanti anche se,
laddove io avessi un fattore produttivo a fortissima obsolescenza, sarebbe più opportuno fare un piano
di amm.to a quote decrescenti: l’utilità del bene è massima quando il bene è al top della tecnologia.
Sempre di più la tecnologia fa sì che a determinare la vita utile di un bene non sia il parametro fisico e che
quindi non ci sia un problema di usura, ma che sia l’obsolescenza a determinare la vita utile: il che vuol
dire che il costo di utilizzo di un fattore produttivo è fisso anche se quel bene non lo usi —> anche se non
lo usi perde valore perché obsoleto —> questo mi permette di considerare quel costo (amm.to) come se fosse
fisso.

Per l’automezzo può essere una cosa diversa: anche se lo uso più di 5 anni non è che diventa obsoleto.

Quindi il concetto di costo fisso è un concetto tipicamente di breve termine: nel medio-lungo termine non ci
sono costi fissi, perché io posso anche rivedere le mie scelte di tipo strutturale.

Gli amm.ti tra l’altro sono un costo prepagato.

I costi fissi a livello unitario si spalmano (es. costo affitto).

Se non produci nulla, a livello unitario, i tuoi costi fissi sono pari a una carta misura: già se produci 2
prodotti la quantità di costi fissi a livello unitario si dimezza.

D) curva con andamento asintotico rispetto all’asse delle x, ma che non potrà mai arrivare a 0: si avvicina
allo 0, ma non può mai arrivare a 0 perché i costi fissi oltre una certa quantità fanno lo scalone.

Noi però andiamo a considerare i costi all’interno di una certa soglia di capacità produttiva: l’incidenza a
livello unitario del costo fisso si minimizza in corrispondenza della massima capacità produttiva consentita
dall’impianto —> importante utilizzare la maggior parte possibile di quella capacità produttiva —> è in
corrispondenza della capacità produttiva massima che io ho il massimo beneficio -> l’incidenza del costo fisso
a livello unitario lì si minimizza.

E)
I costi totali derivano dall’assemblaggio dei grafici dei costi fissi e variabili: io ho una retta che non
parte più dall’origine, perché se anche io non produco nulla, io ho un certo livello di costi fissi totali.
F)
A livello unitario, il costo totale sarà tutto il costo fisso più in misura relativamente modesta la quantità
di costi variabili.
Se produco 2 unità si dimezza l’incidenza dei costi fissi e rimane invece la misura, a livello unitario, di
costo variabile.

Io ho un determinato costo variabile unitario (costo minimo che io devo comunque sostenere) cui devo sommare la
quota di costi fissi che incide sul singolo prodotto: se produco un bene, il valore di quel bene sarà dato da
(mettiamo) 10€ di costi variabili e 1 mln di € di costi fissi: se produco un bene quanto mi costa? 10€ + 1 mln.
Se ne produco 2 di beni, ogni bene mi costa 10€ (componente variabile) + 500.000€ (1 mln / 2).

Se produco 1 mln di beni quanto mi costa ogni bene? 10 di costi variabili + 1€ come componente di costi fissi.

Quindi ogni prodotto mi costa almeno 10€ (costanti —> componente variabile inserita all’interno del costo
totale di prodotto) + una componente che a livello unitario varia perché è collegata all’incidenza dei costi
fissi (componente fissa —> si riduce mano a mano che aumentano i volumi di produzione).

Cosa c’entra questo discorso con la Break Even Analysis? Io posso inserire graficamente nel grafico F)
E ciò che
manca, ossia la curva dei ricavi.

—> se il ricavo unitario è almeno maggiore del costo variabile unitario, quindi ha un diverso coefficiente
angolare, sempre assumendo delle semplificazioni che mi consentono di considerare l’andamento della curva dei
ricavi come se fosse una retta, se io non vendo nulla la curva dei miei ricavi va a 0; a mano a mano che vendo
aumenta il mio fatturato, fino ad un punto in cui le 2 rette s’intersecano —> cd. QUANTITÀ DI EQUILIBRIO —> i
ricavi totali sono uguali ai costi totali -> condizione di utili pari a 0.

Se proseguissi ulteriormente alla destra della quantità di equilibrio , il segmento colorato, rapportato all’
asse delle ordinate, mi restituirebbe l’ammontare del mio utile.

E) Se le quantità prodotte e vendute stanno alla sinistra della quantità di equilibrio io ci sto rimettendo;
se io riesco ad andare oltre (alla destra della) mia quantità di equilibrio, io sono in una condizione di
profitti più propriamente di utili.

F) Ciò può avvenire solo se, a livello unitario, il ricavo è un ricavo che sta sopra alla curva dei costi
variabili; se il costo variabile è 10, e io vendo a 9, le due curve non si intersecheranno mai.

6 COSTI REALI VS. COSTI FIGURATIVI

In realtà sotto il profilo economico-sostanziale, gli oneri figurativi sono oneri reali; nel momento in cui io
investo 100 mln di € in un’attività d’impresa, anziché in titoli di stato che mi potrebbero rendere il 3,5%,
quei 3 mln e 1/2 ai quali io rinuncio, per me sono un costo reale sotto il profilo economico-sostanziale, anche
se questa roba non transita per le scritture contabili, né viene riflessa attraverso la contabilità generale.

L’espressione reali quindi intende riferirsi al fatto che ci possono essere costi che possono essere
contabilizzati nella contabilità ufficiale e altri che invece non lo sono; ma gli oneri figurativi sotto il
profilo sostanziale sono assolutamente delle grandezze reali perché sono il parametro della effettiva
convenienza o meno delle scelte che io ho fatto rispetto a quelle che avrei potuto compiere.

7 COSTI PREVENTIVI VS. COSTI CONSUNTIVI


Questa classificazione fa riferimento al momento di classificazione del costo. Un costo è PREVENTIVO quando
viene definito ex ante, quando io sto predisponendo un budget —> si tratta di costi “previsionali” più che
preventivi; sono in fase di predisposizione del budget e stimo che sulla base di una serie di considerazione
l’ammontare del costo potrà essere...

Poi mi serve sapere se il livello di costo congetturato è stato effettivamente tale oppure più alto/basso.
Quindi devo contrapporre ai costi preventivi i costi consuntivi; i costi di CoGe sono solo consuntivi
Ora, invece, ragioniamo in sede di budget —> strumento del controllo di gestione che cerca di avere un’azione
di controllo in via antecedente al verificarsi delle attività, cerca di programmare le attività in modo che si
abbiano degli esiti gestionali da considerarsi come soddisfacenti.

Se siamo in sede di budget stiamo parlando comunque di costi preventivi, all’interno dei quali, in sede di
budget io posso considerare che esistono 3 tipologie di costi.

8 COSTI PER LA PROGRAMMAZIONE

In sede di budget ho 3 situazioni /raggruppamenti:

· COSTI PARAMETRICI

Costi che sono collegati ai volumi di attività.

Facciamo subito un esempio: la mia è un’impresa che produce la bottiglietta vuota di plastica (contenitore
senza etichetta); per produrre questo tipo di prodotto serve una certa quantità di plastica (o meglio
plastiche: una per il corpo e una per il tappo); è possibile misurare oggettivamente quanta plastica è
necessaria per ottenere una unità di prodotto? Metto la bottiglietta vuota su una bilancia sensibile e vedo
quanti grammi di materiale plastico sono contenuti in questo oggetto.

Fisicamente questo oggetto viene prodotto con uno stampo; nello stampo viene iniettato a caldo del
granulare plastico fuso; se pesando questo oggetto venisse fuori che pesa 3 grammi, io so che per ottenere
una bottiglietta servono almeno 3 grammi perché se il processo produttivo non è monitorato con estrema
attenzione, se per esempio la temperatura della plastica che viene iniettata nello stampo non è quella
giusta, potrei avere degli scarti, potrei avere delle bottigliette che sono difettose e quindi invendibili.
Possono essere riconvertite in materiale plastico però io sostanzialmente giro a vuoto: potrei consumare
una parte di materiale plastico senza che questo si sia convertito in bottigliette.

Quindi io da un lato so quant’è la quantità minima di materiale plastico per ottenere una bottiglietta; ma,
statisticamente se mi sono organizzato posso anche sapere a me storicamente quanto materiale plastico è
effettivamente servito.

Dato che c’è una contabilità di magazzino, io sono in grado di quantificare, le quantità di materiale
plastico uscite dal Magazzino per andare sulle linee produttive; e quindi so quanti prodotti ho ottenuto;
facendo poi quantità di plastica consumata / prodotti ottenuti sono in grado di vedere qual è stato
mediamente il consumo effettivo di materiale plastico.

Se la quantità di materiale plastico teorica è di 3 grammi e il consumo effettivo fosse di 3,3 grammi io
avrei uno spreco significativo: ho uno spreco pari al 10% di materiale.

In sede di programmazione io devo definire quelli che sono i miei volumi di produzione: quante bottigliette
devo produrre —> ha a che fare anche con quante bottigliette credo di riuscire a vendere —> devo
considerare i volumi che il mercato sarà in grado di assorbire di quelle quantità. Se il mercato è in grado
di assorbire 2 mln di bottigliette, io potrei fare 1,9 mln o 2,2 mln: non sono costretto a fare 2 mln
perché ho il Magazzino; se il Magazzino è già carico potrei produrre meno di quanto vendo perché vado a
ridurre quelle che sono le mie scorte di prodotti finiti; viceversa se il mio Magazzino è quasi steso,
potrei ritenere opportuno produrre qualche decine di migliaio di bottigliette in più di quelle che venderò.

Una volta che ho definito la quantità di bottigliette da produrre, io devo trovare la quantità di materiale
plastico che mi serve. Se io dico che posso vendere e produrre 1 mln di bottigliette e so che servono
almeno 3 grammi di materiale plastico, ho bisogno almeno di 3 grammi x 1 mln.

Se però io so che mediamente ho consumato 3,3 grammi cercherò di pormi come obiettivo quello di essere più
efficiente e sprecare meno; mi pongo come obiettivo che mediamente ogni bottiglietta consumi effettivamente
3,2 grammi di materiale plastico anziché 3,3 —> diminuzione dei costi di produzione.

Stiamo però ancora parlando di parametri fisici (kg/quintali di materiale plastico) —> io dovrò valorizzare
queste quantità.

Cosa devo congetturare? Devo congetturare un costo medio di acquisto. Quale sarà mediamente nel 2019 il
costo medio al quintale/tonnellata per questo materiale plastico che mi serve?

Ma, data la quantità da produrre, dato il costo medio stimato per l’acquisto di questa materia prima, io ho
ambiti discrezionali? No —> stiamo parlando di costi parametrici.

I costi parametrici dipendono da che cosa? Dai volumi di produzione poste determinate condizioni di
efficienza e posto un determinato costo medio di acquisto; definiti questi oggetti non rimane nessuna
discrezionalità —> puoi incidere su questi costi soltanto se riduci i volumi di attività; ma se riduci i
volumi di attività riduci sì i costi ma anche i ricavi.

Quindi questi sono costi che possiamo definire come costi variabili, diretti, specifici, spesso
industriali.

La mia discrezionalità riguarda la definizione dei volumi di attività (la quale fa riferimento alle
opportunità di mercato) cercando di essere il più possibile efficiente nel corso della produzione.

La possibilità di incidere su questi costi, a fronte di determinati volumi di attività che sono collegati
ad opportunità di mercato, è minima per non dire nulla —> posso cercare di incidere un pochino sulle
condizioni di efficienza dell’impiego del fattore produttivo, consumare una quantità il più possibile
vicina ai 3 grammi (anziché 3,3 grammi) cercare di trattare coi fornitori alle migliori condizioni
possibili quel determinato fattore produttivo; ma, una volta poste queste condizioni nono posso fare altro.
· COSTI VINCOLATI

È un tipico esempio di costo vincolato l’acquisto già avvenuto del macchinario: l’acquisto mi genera quote
di amm.to.

Si tratta di costi che derivano da scelte pregresse —> COSTI FISSI il cui ammontare non dipende dai volumi
di attività; l’ammontare dei costi vincolanti è un’eredità del passato.

Altri esempi di costi vincolati: canoni leasing, costo di affitto del capannone; se non ho meccanismi di
flessibilità anche il costo del lavoro potrebbe considerarsi tale.[ho una certa quantità di dipendente che
devo pagare, sia che lavorino, sia che non lavorino —> eredità che deriva dal passato].
In sede di programmazione (budget = breve termine ≠ piano) su questi costi non posso agire, ho e mani
legate perché si tratta di costi vincolati.

· COSTI DISCREZIONALI

Un costo si definisce discrezionale quando, da un lato non dipende dai volumi di attività (in questo senso
è diverso da un costo parametrico ), ma non dipende neppure da scelte pregresse (non è un’eredità di deci-
sioni già assunte); quindi è un costo il cui ammontare può essere ridefinito anno per anno in sede di budget
—> per questo si dice discrezionale —> la misura di questo costo può essere decisa tempo per tempo.

Sono quei costi sui quali tagli in sede di budget quando la baracca va male.
C’è un problema: tipicamente questi sono costi collegati a R&S, formazione e addestramento del personale,
pubblicità, implementazione dei sistemi gestionali (o informativi)... tutti costi che hanno una forte
valenza strategica.
Oggi il vantaggio competitivo dipende in larga parte dal capitale umano : ma il capitale umano richiede
investimenti in formazione, sistemi di incentivazione adeguati, investimenti in R&S (con l’accorciamento
della vita media di un prodotto, nel momento in cui io ho dei prodotti che sono già in fase di maturità io
devo avere già qualcos’altro che sia in fase di lancio —> sono i prodotti in fase di maturità che
mediamente finanziano i prodotti che sono in fase di introduzione).

Quando le cose vanno male, la soluzione più banale che adottano le imprese è quella di agire sui costi
discrezionali tagliandoli; se lo si fa per un periodo ridotto di tempo può non succedere nulla, ma se il
taglio dei costi discrezionali si protrae, l’azienda è destinata a morire (viene meno il vantaggio
competitivo).

9 COSTI CESSANTI VS COSTI SORGENTI (ci sarebbero anche i costi irrilevanti)

Siamo all’interno dell’area collegata alle decisioni, in particolare questa classificazione è molto utile
per la cd. “analisi differenziale”, quando io devo decidere se fare o meno una certa cosa.

Esempio: supponiamo che io stia producendo internamente un dato prodotto; ho 4 prodotti (A,B,C,D); sarebbe
conveniente esternalizzare la produzione A a determinate condizioni (costo unitario d’acquisto se lo fa il
fornitore pari a... ipotizzando invariate le quantità vendibili, ipotizzando invariati i ricavi di vendita
unitari). Tutti i costi fissi specifici li consideriamo come cessanti. Il che vuol dire che se noi avessimo
esternalizzato quel processo produttivo, anziché fare noi quella produzione A, comperando quella produzione
dal fornitore, avremmo avuto dei costi che prima non avevamo (costi sorgenti, collegati all’acquisto di
queste che diventano merci —> costi che prima non avevo quando producevo io la produzione A). Però, a
fronte di questi costi sorgenti, io avrei avuto anche dei costi cessanti, perché i costi variabili e i
costi fissi specifici collegati al mio processo produttivo sarebbero venuti meno. Esternalizzare conviene
quando i sorgenti sono minori rispetto ai cessanti.

Ci sono anche dei costi irrilevanti: i costi fissi comuni, all’interno di questo meccanismo sono costi
irrilevanti perché sono costi che non sono suscettibili di modificazione rispetto alla questione posta: il
livello di questi costi non si modifica né con la situazione esistente né con la situazione prospettata.
Valutazione degli oggetti di riferimento più semplici
Se voglio calcolare il costo di prodotto di un determinato oggetto (es. valigetta), per determinare gli addendi di
costo da ricomprendere in quell’oggetto, devo a monte determinare il costo di alcuni fattori produttivi che lì dentro
sono confluiti.
Ci occuperemo delle modalità attraverso le quali si calcolano i consumi di materie prime; del come si deve calcolare
il costo del lavoro che è stato incorporato a quell’oggetto (con particolare riferimento alla MOD, ma i meccanismi
sono i medesimi per il costo del lavoro indiretto); infine andremo a vedere come dovrebbero essere valutati i costi
collegati all’utilizzo dei fattori produttivi durevoli (dipenderà da come quel fattore produttivo durevole è entrato
nella disponibilità dell’impresa: se si tratta di un macchinario che è stato acquistato/ottenuto in leasing/ottenuto in
affitto...).

Come si vanno a valorizzare i consumi delle materie prime che s’incorporano nei prodotti?

CONTABILITÀ DI MAGAZZINO
Modalità attraverso le quali si può tenere la contabilità di magazzino. Questi meccanismi non si applicano perciò
solo alle materie prime, ma a tutti quei beni che hanno la caratteristica di entrare, stazionare per qualche tempo e
poi uscire dal magazzino.
I beni che possono costituire il Magazzino/rimanenze finali?
· materie prime
· semi-lavorati di acquisto/produzione (dipende se è un semi-lavorato che ho acquistato io oppure che ho acquistato)
· prodotti in corso di lavorazione —> materialmente non stanno all’interno del magazzino, ma sono in un certo
senso spesso sulle linee produttive; però ai fini contabili li assimilo ai beni che fanno parte delle scorte
dell’azienda.
· prodotti finiti
· materiali di consumo —> per fare andare una pressa ogni tanto è necessario che faccia manutenzione (olio
lubrificanti, grasso, detergenti, prodotti chimici per trattare oggetti).

Queste elencate sono tipologie di rimanenze che caratterizzano l’impresa di produzione/industriale/


manifatturiera.

· merci —> che differenza c’è fra una merce e un prodotto? Non sono le caratteristiche tecniche: un oggetto
può essere contemporaneamente prodotto finito e una merce: sarà un prodotto finito per chi l’ha fabbricato;
sarà una merce per chi ha acquistato questo oggetto per poi rivenderlo.

Meccanismi che possono essere utilizzati per valorizzare i movimenti in uscita e le consistenze di magazzino ogni
volta che ho beni che sono suscettibili di stazionare per qualche tempo in un magazzino.

Art. 2426, comma 10, dice che la valutazione delle rimanenze e degli altri beni che compongono l’attivo circolante
(valutazione di titoli o di azioni per es.) può avvenire al LIFO, al FIFO o al Costo medio ponderato.
Io posso valutare, con riferimento al parametro costi, i beni presenti in magazzino con il FIFO, LIFO, Costo
medio ponderato.

Il Codice civile se ne occupa perché se io devo redigere il bilancio d’esercizio, fra i tanti, ho anche un problema di
valutazione delle rimanenze. Non posso chiudere il bilancio se non valuto le rimanenze.

Se il mio problema fosse solo quello di valutare le mie rimanenze ai fini della redazione del bilancio d’esercizio
questo problema si porrebbe una volta all’anno. soltanto.
$

Inventario—> qualcuno fisicamente conta quanti beni ci sono in magazzino per ogni tipologia di beni; dopodiché
quelle quantità fisiche devono essere opportunamente valorizzate in termini economici.

Inventario intermittente —> quello che si fa una volta all’anno

Tuttavia, ai fini del controllo di gestione, ai fini nostri, io ho un problema ulteriore: non ho solo il problema di sapere
a quanto ammontano le rimanenze (a dire il vero questo è un problema minore).

Se io voglio sapere qual è il costo di una valigetta che produco, io devo sapere ogni mese qual è il costo delle
materie prime e delle altre componenti metalliche, di tutto ciò che è confluito in quel prodotto.
Io devo avere la possibilità per ogni infra-periodo (mensile, bimestrale, trimestrale, bisettimanale..) -le elaborazioni
per il controllo devono essere calendarizzate su base infra-annuale- {tanto più frequenti sono le elaborazioni, tanto
più frequentemente io ho dei dati che mi servono per capire come va l’azienda} di sapere qual è il valore delle mate-
rie prime che ho in magazzino. Tuttavia, la mia esigenza informativa è collegata al sapere qual è il valore delle
materie prime che si è incorporata nel mio prodotto: io devo calcolare quello che è il mio costo di prodotto; ma per
calcolare il costo di ciò che è uscito dal mio magazzino io metto insieme dei meccanismi che mi dicono anche,
tempo per tempo qual è il valore di quello che rimane in magazzino.
Operare in questo modo significa tenere il cd. inventario permanente.

Ai fini interni, del controllo di gestione, io devo adottare un inventario permanente —> ogni volta che io ho un
movimento di magazzino, in entrata o in uscita, un movimento di carico (in ingresso) o un movimento di scarico
(in uscita), io devo quantificare/aggiornare il valore in termini fisici delle quantità entrate e il valore in termini
fisici delle quantità uscite.
Ogni volta io so quanto è entrato; quanto entrato lo sommo a quello che c’era e quindi ottengo il valore del mio
magazzino; ogni volta che so quanto è uscito, quanto è uscito lo sottraggo a quello che c’era e quindi, oltre a
valorizzare ciò che è uscito, valorizzo anche ciò che è entrato in magazzino —> ogni volta che ho un movimento.

Laddove io utilizzi, per la valorizzazione economica (per trasformare queste grandezze fisiche in grandezze
economiche, in valori di costo) uno dei metodi civilisticamente ammessi, il valore delle rimanenze che mi troverei
ad avere alla chiusura dell’esercizio, diventerebbe un valore potenzialmente utile anche per la valutazione delle
rimanenze ai fini della redazione del bilancio di esercizio.

Ai fini interni abbiamo 2 problemi:

1) collegato alla possibilità/impossibilità di attribuire ai beni che entrano in magazzino, vi stazionano per qualche
tempo e che escano dal magazzino, un costo specifico.

· Es: sono un antiquario: acquisto oggetti d’arte e li rivendo; supponiamo che debba redigere un bilancio
d’esercizio; devo valutare le mie rimanenze (rimanenze di opere d’arte). Ho oggetti identici? Posso avere delle
serigrafie con un numero limitato di tirature però questa serigrafia è numerata. Due oggetti perfettamente identici
non li ho. La possibilità che io ho rispetto invece a dei beni che sono identici e si confondono fra loro è quella di
attribuire ai beni in rimanenza un costo determinato dal costo d’acquisto su base specifica: ogni bene può essere
valutato sulla base del costo che al tempo si sostenne per acquisire quel dato oggetto. Sono nella condizione di
attribuire ad ogni oggetto il suo specifico costo (anche se ho acquistato delle serigrafie dato che sono numerate
{potrei aver acquistato la serigrafia 1 a un prezzo diverso dalla serigrafia 2}.
Non ha senso in questo caso usare il LIFO, FIFO o costo medio ponderato.

Quando, invece, o non è oggettivamente possibile o non si ritiene conveniente (sarebbe possibile ma è troppo onero-
so) considerare gli oggetti come degli oggetti a cui attribuire il correlativo specifico costo.

Es: sono un’ impresa mercantile; compro gessi e vendo gessi; un gesso non ha caratteristiche che lo identificano in modo
univoco e lo distinguono; se io avessi a magazzino dei gessi sfusi come faccio a sapere se un dato gesso è stato comperato prima
o dopo un altro? Non sono nella condizione di saperlo: sono beni fungibili/interscambiabili. Si tratta di un oggetto che non ha
nessun segno che lo contraddistingua in modo univoco.
Ipotizziamo invece che io non venda gessi sfusi bensì confezioni contenenti gessi: sulla confezione vi è un codice a barre, che
contiene delle informazioni.

La tecnologia ha ridotto il perimetro dei beni cd. fungibili; in passato avevamo molti più beni interscambiabili; oggi
ciascun oggetto che contenga un codice a barre consente almeno teoricamente di essere gestito col suo costo
specifico.

Ma per quanto la tecnologia sia progredita, rimane la fattispecie dei cd. beni fungibili: ne è un esempio la benzina.
La benzina viene pescata in un distributore da cisterne interrate. Se io gestisco un distributore e ho un’unica
cisterna di benzina devo evitare che la cisterna rimanga vuota per la mia operatività. Quando il livello della benzina
all’interno del serbatoio di questa cisterna arriva a un dato punto devo attivarmi per avere un riapprovvigionamento
I litri di benzina o gasolio si confondono e si mischiano indissolubilmente con la benzina e col gasolio che erano
ancora presenti nella cisterna: ma i prezzi del carburante cambiano continuamente. Si mischiano non soltanto
vecchia e nuova benzina, ma si mischiano anche quelli che sono per me i costi di approvvigionamento. Quando esce
della benzina per finire nel serbatoio di un’autovettura, io non sono in grado di individuare oggettivamente quella
molecola che sta finendo nel serbatoio se apparteneva alla benzina nuova o quella vecchia perchè si sono
indissolubilmente mischiate.
Quindi per tutte queste situazioni (idrocarburi, prodotti chimici, cemento, calce, granaglie, minuteria tipo chiodi)
anche se il periodo si è ridotto, continuiamo ad vere un problema: ci sono dei beni che per le loro caratteristiche
fisico tecniche, si mischiano e non possono che essere considerati come beni fungibili, quindi come beni che si
mischiano fra loro. Spesso non è impossibile tenerli separati (li tengo separati in magazzino) ma questo è
decisamente oneroso; e quindi si preferisce fare sì che questi beni materialmente si mischino.
Quando questi beni escono dal magazzino, non sono messo nella condizione di sapere, se questi beni appartengono
a più lotti acquistati in tempi diversi e a condizioni economiche differenti, quel bene che esce a quale lotto
appartiene e quindi quale sia stato il suo particolare costo (se fossero merci o materie prime —> costo di acquisto).

Questo primo problema è comune alla contabilità generale e al bilancio (per questo la normativa definisce i metodi
utilizzabili).

Quando entro in un’ottica di controllo, con riferimento a un prodotto finito ottenuto, ottenere un costo di
produzione che fosse il più aggiornato e vicino possibile alla realtà fattuale.

Un’impresa bolognese che anni fa produceva e commercializzava pavimenti in legno, facendo un’azzeccata
operazione speculativa, aveva un’eccedenza di liquidità (con un carattere di strutturalità: la gestione andava
talmente bene che non solo avevano elevati utili, ma anche un net cash di gestione corrente strutturalmente
elevato). Aveva generato attraverso la gestione reddituale una quantità importante di liquidità. Decise di investirle
approvvigionandosi in modo esorbitante, per quelle che erano le loro esigenze operative, di legname. Lavoravano
con legni costosi e pregiati che non compravano con la stessa valuta di conto che si usava in Italia, perché quel
mercato è un mercato normalmente collegato al dollaro; quindi hanno fatto una doppia operazione: hanno
scommesso sull’aumento del costo di queste materie prime; e hanno anche scommesso sul rapporto di cambio che
prevedesse una svalutazione della moneta nazionale rispetto al dollaro. E indovinarono: il prezzo del legname
espresso in dollari crebbe; e se veniva rapportato alla lira il rapporto diventava ancora più favorevole per chi aveva
già quella materia prima in casa.

Nel momento in cui tu usi quel legname lì per ottenere un pavimento che poi vendi, se tu vuoi sapere come vanno
le cose in un’ottica di normale mercato, ai fini interni (sapere come va la baracca), il consumo delle tue materie
prime lo dovresti fare sulla base dei costi che hai sostenuto a condizioni particolarmente favorevoli 2/3/4 anni
prima o lo dovresti fare sulla base di valori correnti?

Fattore produttivo —> consumo di materie prime che ho utilizzato per avere pavimenti in legno
Civilisticamente avrò un vantaggio perché dal punto di vista civilistico la valutazione è sempre basata sul costo
storico (LIFO, FIFO e costo medio ponderato sono comunque ancorati al costo storico). Ma se io voglio sapere
dal punto di vista gestionale se la mia attività va bene o non va bene senza tener conto del vantaggio che mi sono
procurato avendo fatto tre anni prima un affare azzeccato, come dovrei calcolare il mio costo di prodotto? Tenendo
conto delle distorsioni che comunque vengono indotti da valori storici o cercando di valutare le materie prime che
s’incorporano nel prodotto sulla base di valori correnti? Dal punto di vista gestionale se voglio sapere come vanno
effettivamente le cose io dovrei calcolare il mio costo di prodotto nel modo più aderente a quella che è la realtà
fattuale del momento. Non produce conseguenze: è un’elaborazione interna che non va in mano a qualcuno. Serve
a me; il ragionamento è: se io dovessi riapprovvigionarmi ora di queste materie prime, a quali condizioni lo potrei
fare? Qual è il mio costo di prodotto? É un costo di prodotto così determinato che rapportato a un ricavo di
vendita mi dice se ci sto dentro oppure no; le materie prime che ho acquistato n anni prima a condizioni
particolarmente vantaggiose prima o poi finiscono.

2) Io dovrei sempre calcolare il mio costo di prodotto nel modo più vicino possibile a quella che è la realtà del
momento, la realtà aggiornata; io dovrei avere un costo di prodotto determinato, se possibile, sulla base di costi
correnti, perché questo non mi trae in inganno: non mi fa emergere degli utili che derivano da condizioni contabili
o da operazioni che io ho azzeccato n anni prima (perché prima o poi i miei fattori produttivi li dovrò sostituire, li
dovrò rinnovare).

A ricavi che sono aggiornati dovrei contrapporre dei costi di produzione che se fossero espressivi di quello che
sarebbe stato il costo di produzione se tutto fosse ottenuto a costi correnti durante il mese in corso.

É una sorta di risultato drogato quello ottenuto contrapponendo a ricavi che sono ricavi aggiornati dei costi che
sono costi storici.
METODI CHE SI POSSONO UTILIZZARE PER L’INVENTARIO PERMANENTE
(i
¥I primi 3 sono anche utilizzabili ai fini civilistici, mentre il 4° si usa ai fini interni gestionali, ma non può essere utiliz-

zato ai fini del bilancio di esercizio (migliore ai fini interni).


Perché guardiamo anche i tre metodi civilistici nella loro variante continua anche se non sono i metodi migliori per
le finalità interne?
Perché capita spesso di incorrere in aziende dove si usa un unico metodo di valutazione delle rimanenze, che deve
servire sia ai fini interni/gestionali sia ai fini esterni del bilancio di esercizio.

A fronte di una medesima situazione cosa succede se applico il LIFO continuo anziché il FIFO continuo, anziché
il costo medio ponderato progressivo, anziché il metodo del costo dell’ultima partita?

METODI PER L’INVENTARIO PERMANENTE (O DI TENUTA DEL


MAGAZZINO)

1) FIFO CONTINUO

2) LIFO CONTINUO

3) COSTO MEDIO PONDERATO PROGRESSIVO

4) METODO DEL COSTO DELL’ULTIMA PARTITA

Supponiamo di ragionare su un’impresa mercantile (che compra merci e vende merci).


Prefiguriamoci una situazione di inflazione venezuelana [se i costi rimangono costanti, che io utilizzi
il LIFO, il FIFO, il costo medio ponderato o i costi specifici, se i prezzi rimangono costanti, dal punto
di vista dell’esito è la stessa cosa] .

I metodi che stiamo per vedere producono differenze che sono tanto più significative quanto più ci
sono in atto delle dinamiche inflattive o deflattive.

1) LIFO CONTINUO (LAST IN FIRST OUT)

L’ultimo che è entrato, quello che è entrato più recentemente, la roba appena entrata è la roba che per prima se ne
esce. Ergo in magazzino rimane la roba più vecchia. Quindi se c’è inflazione, con il LIFO si produce il seguente
effetto: io contrappongo a ricavi aggiornati costi che sono i più recenti che ho (last).

Parliamo di merci: se io utilizzo il LIFO vuol dire che faccio finta che la roba che vendo appartenga ai lotti più
recenti. Io contrappongo a ricavi di vendita aggiornati (ricavi che conseguo quando consegno o spedisco le mie
merci al cliente) un costo del venduto (delle merci vendute) quantificato sui costi più recenti. Se sui costi più
recenti c’è l’inflazione saranno anche i costi più alti, fra quelli che io ho sostenuto. Quindi calmiero/limito
potenziali effetti distorsivi dell’inflazione, perché a ricavi aggiornati io contrappongo i costi più aggiornati che ho.
In questo modo il risultato economico non è drogato/sovrastimato più di tanto (poi dipende dalla frequenza con
cui movimento i beni). Il prezzo che si paga dall’adozione di questo metodo è che i beni che mi trovo alla fine del
periodo in magazzino, sono valutati sulla base dei costi di acquisto più vecchi/remoti; e quindi se ho inflazione
sono quelli non più in linea coi valori aggiornati. Quindi ho una sottovalutazione delle mie rimanenze: il valore
reale delle mie rimanenze è più alto di quello indicato nel bilancio. E poiché il principio di prudenza continua ad
essere molto rilevante nel bilancio civilistico, il problema è quello di non sopravvalutare l’elemento attivo: io in
questo modo sottovaluto il magazzino. La situazione reale dell’impresa sarà migliore rispetto a quella che appare a
bilancio.

Il LIFO ha 3 varianti operative:


}
A) LIFO intermittente classico —> bilancio di esercizio modalità collegate all’inventario intermittente
B) LIFO intermittente fiscale —> bilancio di esercizio
C) LIFO continuo —> controllo di gestione —> ai fini del controllo interno ho bisogno di un inventario permanente e di u-
sare il LIFO nella sua variante continua
1) FIFO CONTINUO

—> CARICHI E SCARICHI AGISCONO SULLE GIACENZE

—> IPOTIZZIAMO DI RAGIONARE SU MERCI CHE NON SONO PRESENTI IN MAGAZZINO: COMINCIAMO ORA A TRATTARE QUESTA
MERCE

MOVIMENTI

1) IN DATA 02/01 ACQUISTO UN I LOTTO DI BENI A UN VALORE UNITARIO DI 10: COSTO DI ACQUISTO 20.000
—> DOPO QUESTA PRIMA OPERAZIONE IL MAGAZZINO VALE 20.000 ( 2.000 PEZZI X 10)

2) IN DATA 10/01 ACQUISTO UN II LOTTO DI BENI A UN VALORE UNITARIO DI 11 (PREZZO AUMENTATO DEL 10%)
FLUSSO DI CARICO CHE VALE 11.000.

—> STO USANDO IL LIFO: COL LIFO DEVO TENRE TRACCIA DELLA STRATIFICAZIONE; DEVO TENERE ISOLATI I SINGOLI
LOTTI

IN MAGAZZINO A QUESTO PUNTO HO 3.000 PEZZI CHE VALGONO COMPLESSIVAMENTE 31.000

3)IN DATA 12/01 ESCONO 1.500 PEZZI: OPERAZIONE DI SCARICO


LIFO = LAST IN FIRST OUT —> FACCIO FINTA CHE SIANO USCITI PRIMA I PEZZI APPARTENENTI AI LOTTI DI PIÚ
RECENTE FORMAZIONE; ERODO LA STRATIFICAZIONE ANDANDO DAL BASSO VERSO L’ALTO.

QUESTI 1.500 BENI SONO PARI A: II LOTTO 1.000 PEZZI AL COSTO UNITARIO DI 11, IL CUI VALORE É
COMPLESSIVAMENTE PARI A 11.000; PERÓ VISTO CHE I PEZZI CHE ESCONO SONO 1.500, NON É SUFFICIENTE IL SECON-
DO LOTTO; DEVO ANDARE AD INTACCARE ANCHE IL PRIMO LOTTO PER LA PARTE CHE RESIDUA.
COSTO COMPLESSIVO PER LE MERCI VENDUTE: 16.000

DOPO QUESTA OPERAZIONE IN MAGAZZINO RIMANGONO DEL I LOTTO 1.500 PEZZI CHE VALUTO A 10 E CHE MI DANNO UN
VALORE PARI A 15.000.

SE IO AVESSI VENDUTO QUESTI 1.500 PEZZI A 20 (RICAVO DI VENDITA UNITARIO), IL RICAVO DI VENDITA SAREBBE
STATO (1.500 X 20) 30.000. IL MARGINE SULLE VENDITE SAREBBE PARI A (30.000 - 16.000) 14.000.

4) IN DATA 16/01 ACQUISTO ULTERIORI 1.000 PEZZI ; I PREZZI SONO SALITI E IL PREZZO DI ACQUISTO A LIVELLO
UNITARIO É ORA PARI A 12 (1.000 X 12): COSTO COMPLESSIVO 12.000.
—> IN MAGAZZINO ERANO RIMASTI SOLTANTO 1.500 PEZZI DELLA PARTITA PIÚ VECCHIA VALUTATI A 10; ORA IO DEVO
SOMMARE QUESTO TERZO LOTTO DI 1.000 PEZZI; MI TROVO AD AVERE IN MAGAZZINO COMPLESSIVAMENTE 1.500 PEZZI
IL CUI VALORE COMPLESSIVO AL COSTO CON QUESTA METODICA É PARI A 27.000.

5)IL 22/01 VENDO 500 PEZZI: SONO TUTTI DEL III LOTTO; COSTO UNITARIO PARI A 12; QUESTO SCARICO DI MAGAZZINO
MI DAREBBERO UN COSTO DELLE MERCI VENDUTE PARI A 6.000; IO VENDO SEMPRE A 20; 500 X 20 = 10.000 RICAVI DI
VENDITA.

MARGINE TOTALE PARI A: 10.000 - 6.000 = 4.000

DOPO QUESTA OPERAZIONE COSA MI RIMANE A MAGAZZINO? MI RIMANE INALTERATO IL LOTTO PIÚ VECCHIO —> 1.500 PEZZI
VALUTATI A 10 (15.000); E MI RIMANGONO DEL III LOTTO SOLO 500 PEZZI VALUTATI A 12 PARI A 6.000.

I MIEI 2.000 PEZZI COMPLESSIVAMENTE VALGONO 21.000

—> COL LIFO ALLA FINE IL MAGAZZINO VALE 21.000

SUPPONIAMO CHE FINO ALLA FINE DEL MESE DI GENNAIO NON CI SIANO ALTRI MOVIMENTI: QUELLO SAREBBE IL VALORE
FINALE AL 31/01.

A LIVELLO DI RISULTATO ECONOMICO, IL MARGINE LORDO CHE SI SAREBBE GENERATO SAREBBE STATO PARI A: 30.000
+ 10.000 = 40.000 - (16.000 + 6.000) = MARGINE LORDO PARI A 18.000 —>DIFFERENZA FRA I RICAVI DI VENDITA
(10.000 VENDITA 1 + 30.000 VENDITA 2) E IL COSTO DEL VENDUTO (16.000 + 6.000).

VALORI ALL’INGRESSO VALORE DELLE SCORTE VALORE DI CIÓ CHE ESCE


DOPO OGNI MOVIMENTO DAL MAGAZZINO

MAG L CARICO MAGAZZINO SCARICO RV


DATA Lsessanta
Q C.U.
LOTTO -9 COSTO
Q CU MiaQ Q
LLOTTO C.U. VAL.TOT. DATA L Q C.U. V
LIFO
LIFO ppig
# == 21.000 18.000

02/01 IA
I 2.000 10 20.000 I 2.000 X 10 = 20.000

10/01 µ
IIII 1.000 11 11.000 II 1.000 X 11 = 11.000
3.000 31.000

12/01 II 1.000 X 11 = 11.000

I 1.500 X 10 = 15.000 I 500 X 10 = 5.000 20 X 1.500 = 30.000

1.500 16.000 Margine Lordo = 30.000 - 16.000


16/01 III 1.000 12 12.000 III 1.000 X 12 = 12.000
= 14.000
2.500 27.000
22/01 III 500 X 12 = 6.000 10.000

I 1.500 X 10 = 15.000 Margine Lordo = 4.000

III 500 X 12 = 6.000


2.000 21.000
CON QUESTA MODALITÀ HO UN VALORE PRUDENZIALE, PIÚ BASSO RISPETTO A QUELLO OTTENIBILE CON ALTRI METODI, PER QUANTO
ATTIENE ALLA VALUTAZIONE DEL MAGAZZINO; MA HO UN VALORE PIÚ PRUDENTE ANCHE PER QUANTO RIGUARDA IL RISULTATO PERCHÉ
A RICAVI DI VENDITA (20 CADAUNO) AGGIORNATI IO HO CONTRAPPOSTO DEI COSTI CHE SONO I PIÚ RECENTI CHE IO HO.

DAL PUNTO DI VISTA GESTIONALE HA SENSO CHE UN’OPERAZIONE DI VENDITA CHE AVVIENE IN UN UNICO ISTANTE PER UN’UNICA
QUANTITÀ DI BENI PER 1.500 PEZZI PREVEDA UNA DOPPIA VALORIZZAZIONE?

IO HO TROVATO UN COMPRATORE CHE MI COMPRA 1.500 PEZZI E MI COMPRA 1.500 PEZZI TUTTI IL 12/01 NON IN DUE TRANCHES.
DAL PUNTO DI VISTA GESTIONALE NON É LOGICO CHE IO DICA CHE QUESTI 1.500 PEZZI PER 1.000 VALGONO 11 COME COSTO PER
ME, E PER 500 PER ME VALGONO 10 COME COSTO.

SE ANZICHÉ MERCI FOSSERO MATERIE PRIME: STO CONSUMANDO MATERIE PRIME E HO DELLE VALIGETTE IN CUI FACCIO FINTA CHE
LA MEDESIMA PEZZA DI CUOIO VALGA 10; ALTRE VALIGETTE IN CUI FACCIO FINTA CHE QUELLA VALIGETTA DI CUOIO VALGA 11.
MA LA PEZZA DI CUOIO É QUELLA E LA STO CONSUMANDO IN QUEL MEDESIMO MOMENTO.

IL METODO LIFO IMPLICA QUESTO MECCANISMO DI VALUTAZIONE CHE NON HA RIPERCUSSIONI DAL PUNTOO DI VISTA CIVILISTICO;
MA DAL PUNTO DI VISTA GESTIONALE NON É LOGICO CHE IN UN MEDESIMO MOMENTO SI ABBIA UNO SCARICO DEL MAGAZZINO O PER
EFFETTO DI UNA VENDITA O PEGGIO PER EFFETTO DI UN CONSUMO DI MATERIE PRIME DELLO STESSO TIPO E CONSUMATE NELLO
STESSO MOMENTO PREVEDANO VALUTAZIONI CON DUE COSTI UNITARI DIFFERENTI.

2) LIFO CONTINUO

SI BASA SU UNA PRESUNZIONE OPPOSTA SECONDO CUI I BENI CHE ESCONO PER PRIMI SONO I BENI CHE SONO ENTRATI PER PRIMI
(FIRST IN FIRST OUT). QUINDI LA ROBA CHE ESCE PRIMA DAL MAGAZZINO É LA ROBA PIÚ VECCHIA; QUINDI LA ROBA CHE MI
RIMANE IN MAGAZZINO É LA ROBA PIÚ RECENTE.

—> SUI MOVIMENTI DI CARICO NON CAMBIA NULLLA PERCHÉ ATTIENE ALLA VALUTAZIONE DELLE MERCI IN INGRESSO IN MAGAZZINO.
I METODI NON IMPATTANO SULLA PRIMA PARTE DELLO SCHEMA MA IMPATTANO SUI CONSUMI E SULLE GIACENZE, NON SULLA
MOVIMENTAZIONE DEI BENI IN INGRESSO (LÍ HO DEI COSTI DI ACQUISTO).

—> SULLA SECONDA PARTE LE COSE CAMBIANO. SULLA VALUTAZIONE DELLE SCORTE DOPO IL PRIMO ACQUISTO NON CAMBIA NULLA;
SULLA VALUTAZIONE DEL MAGAZZINO DOPO IL SECONDO ACQUISTO NEPPURE; IL PROBLEMA SI HA NON QUANDO I BENI ENTRANO MA
QUANDO I BENI ESCONO.

—> QUANDO HO UNA PRIMA USCITA IN DATA 12/01 MI SONO USCITI 1.500 PEZZI; QUESTI 1.500 PEZZI SE APPLICO IL FIFO DI
CHE LOTTO SONO? PRIMA ABBIAMO EROSO LA STRATIFICAZIONE PARTENDO DAI LOTTI PIÚ RECENTI; ORA CAPOVOLGO LA LOGICA ED
ERODO IL MIO MAGAZZINO PARTENDO DAI LOTTI PIÚ REMOTI; QUINDI TUTTI QUESTI 1.500 PEZZI APPARTENGONO AL PRIMO LOTTO E
LI VALUTO A 10; IL VALORE DEL MIO SCARICO DUNQUE É PARI A 15.000 (COSTO DELLE MERCI VENDUTE).

DOPO QUESTA USCITA QUANTO VALE IL MIO MAGAZZINO? A ME SONO RIMASTI ORA 500 BENI DEL I LOTTO (500 X 10 = 5.000), POI
MI É RIMASTO COMPLETAMENTE INTONSO IL II LOTTO (1.000 PEZZI VALUTATI A 11 = 11.000) —> TOTALE MAGAZZINO: 16.000

IL MARGINE É CAMBIATO: HO VENDUTO 1.500 PEZZI A 20 CADAUNO (VALORE COMPLESSIVO IN TERMNI DI RICAVI DI VENDITA =
30.000), MA IL COSTO DEL VENDUTO É SCESO RISPETTO A PRIMA; AVREI GIÁ UN MARGINE PARI A (30.000 - 15.000) 15.000.
APPLICANDO IL LIFO IL COSTO DEL VENDUTO ERA PARI A 16.000.

—> IN DATA 16/01 ENTRANO DEI BENI, HO UN III LOTTO PER 1.000 PEZZI VALUTATI A 12 (12.000). COMPLESSIVAMENTE IN
MAGAZZINO HO, DOPO QUELL’APPROVVIGIONAMENTO, 2.500 PEZZI PER COMPLESSIVI 28.000.

—> IN DATA 22/01 MI ESCONO 500 PEZZI: VADO AD ESAURIMENTO DEL I LOTTO; 500 X 10 = 5.000
IL VALORE DEL RICAVO É PARI A 10.000; 10.000 - 5.000 = 5.000.

—> IL MARGINE LORDO DELLA PRIMA OPERAZIONE ERA 30.000 - 15.000 = 15.000; IL MARGINE SULLA SECONDA VENDITA SONO
ALTRI 5.000; IL MARGINE LORDO DELL’OPERAZIONE É GIÁ PIÚ ALTO: 20.000

—> DOPO QUESTA VENDITA COSA SUCCEDE AL MAGAZZINO? IL MAGAZZINO SI COMPONE DI: 2.000 PEZZI DEL II E III LOTTO (II
LOTTO : 1.000 PEZZI X 11 = 11.000 + III LOTTO: 1.000 PEZZI X 12 = 12.000); IL VALORE COMPLESSIVO DEL MIO MAGAZZINO
CHE É SEMPRE COME PRIMA, IN TERMINI FISICI, PARI A 2.000 PEZZI (IL NUMERI DI PEZZI NON É AUMENTATO; LA QUANTITÀ
FISICA É SEMPRE QUELLA), IN TERMINI DI VALORE ECONOMICO É STAVOLTA PARI A 23.000.

MAG L CARICO MAGAZZINO SCARICO RV

Afta
FIFO = 23.000 20.000 DATA L gazzette
Q C.U.
LOTTO Q CU COSTO LLOTTO
Q Q C.U. VAL.TOT. DATA L Q C.U. V

02/01 IA
I 2.000 10 20.000 I 2.000 X 10 = 20.000

10/01 µ
IIII 1.000 11 11.000 II 1.000 X 11 = 11.000

3.000 31.000
12/01 I 1.500 X 10 = 15.000 30.000

16/01 III 1.000 12 12.000 I 500 X 10 = 5.000

II 1.000 X 11 = 11.000

16.000

III 1.000 X 12 = 12.000

2.500 28.000
21/01 I 500 X 10 = 5.000 10.000

III
I 1.000 X 11 = 11.000

III
II 1.000 X 12 = 12.000

2.000 23.000
IN CONCLUSIONE, SE IO APPLICO IL FIFO HO IL VALORE DEL MAGAZZINO CHE É UN PO’ PIÚ VICINO A QUELLA CHE
É LA REALTA FATTUALE.

IL 23.000 DEL VALORE DELLE SCORTE ATTRIBUITO CON IL FIFO É AGGIORNATO IN TERMINI ASSOLUTI O IN TERMINI
RELATIVI? IL COSTO D’ACQUISTO PIÚ RECENTE CHE HO É DI 12. IO QUEI 23.000 LI VALUTO PER METÁ A 12, MA
PER METÁ A 11. QUINDI IN TERMINI RELATIVI QUEL 23.000 É SICURAMENTE PIÚ AGGIORNATO RISPETTO AL LIFO;
PASSO DA 21.000 A 23.000 —> IL VALORE DELLE SCORTE É PIÚ ALTO.

HO UNA MINORE SOTTOVALUTAZIONE DEL MAGAZZINO; PERÓ NON É UN VALORE CHE SIA AGGIORNATO IN TEMPO REAALE
AGLI ULTIMI COSTI DI ACQUISTO, PERCHÉ L’ULTIMO COSTO D’ACQUISTO É IN REALTÁ DI 12.

PERÓ ALMENO HO UNA MINORE DISTORSIONE SUL MAGAZZINO; C’É ANCORA UNA QUALCHE SOTTOVALUTAZIONE RISPETTO
AI VALORI CORRENTI, MA QUESTA SOTTO VALUTAZIONE É INFERIORE RISPETTO A QUELLA CHE HO DETERMINATO PRIMA
UTILIZZANDO IL LIFO.

MA, SE LA VALUTAZIONE DELLE RIMANENZE É UN PO’ PIÚ IN LINEA CON I VALORI REALI, FATTUALI, C’È UN
PROBLEMA: CON QUESTA MODALITÀ DROGO IL RISULTATO ECONOMICO.

IL MIO RISULTATO ECONOMICO É PIÚ ALTO; PRIMA ERA 18.000, ORA É 20.000. É PIÚ ALTO PERCHÉ IO HO
CONTRAPPOSTO AI RICAVI DI VENDITA CHE SONO AGGIORNATI (20), DEI COSTI CHE SONO COSTI PIÚ BASSI PERCHÉ
IO STO FACENDO FINTA CHE LA VENDITA ABBIA RIGUARDATO LE MERCI COMPERATE PER PRIME OVVERO SIA QUELLE
CON I COSTI UNITARI PIÚ BASSI.

QUINDI: COL LIFO HO UN RISULTATO ECONOMICO PIÚ ATTENDIBILE PERCHÉ AI RICAVI DI VENDITA CONTRAPPONGO
DEI COSTI DELLE MERCI CHE SONO PIÚ VICINI A QUELLA CHE É LA REALTÁ FATTUALE (I VALORI PIÚ AGGIORNATI
CHE HO). NON C’É UNA SOVRASTIMA DEL RISULTATO ECONOMICO. C’É UN RISULTATO ECONOMICO CHE É PIÚ VICINO
ALLA REALTÁ FATTUALE. PER QUESTO SI USA DIRE CHE IL METODO LIFO É UN CORRETTIVO PARZIALE
DELL’INFLAZIONE: PERCHÉ CORRELA RICAVI DI VENDITA AGGIORNATI CON COSTI CHE SONO ANCH’ESSI AGGIORNATI.
A FRONTE DI UNA DETERMINAZIONE PIÚ CORRETTA, PIÚ PRUDENZIALE DEL RISULTATO ECONOMICO HO PERÓ UNA
SOTTOSTIMA DEL VALORE DELLE RIMANENZE PERCHÉ COL METODO LIFO HO VALUTATO LE RIMANENZE AI VALORI PIÚ
VECCHI; MA I VALORI PIÚ VECCHI SE C’É INFLAZIONE SONO VALORI CHE NON HANNO PIÚ MOLTO A CHE FARE CON I
VALORI CORRENTI. QUINDI IL VALORE CHE ATTRIBUISCO ALLE MIE RIMANENZE IN MAGAZZINO É UN VALORE
SOTTOSTIMATO. QUESTO CI STA IN UN’OTTICA PRUDENZIALE; L’IMPORTANTE É CHE IO NON SOPRAVVALUTI IL VALORE
DELLE RIMANENZE.

COL METODO FIFO HO UNA VALUTAZIONE DELLE RIMANENZE CHE É PIÚ VICINA RISPETTO AL LIFO IN TERMINI
RELATIVI A QUELLI CHE SONO I VALORI AGGIORNATI; SE LA DINAMICA INFLATTIVA PREFIGURATA SI STABILIZZASSE
E IL COSTO DI ACQUISTO ALLA FINE DEL MESE DI GENNAIO FOSSE ANCORA PARI A 12, IL VALORE PIÚ AGGIORNATO
FRA QUELLI IDEALMENTE POSSIBILI SAREBBE 12. SE MOLTIPLICASSI 12 X 2.000 OTTERREI 24.000 —> VALORE PIÚ
AGGIORNATO POSSIBILE; COL FIFO OTTENGO 24.000 (NON MALE), COL LIFO SOLO 21.000.

COL FIFO VALUTO LE RIMANENZE IN UN MODO CHE É PIÚ VICINO, IN TERMINI RELATIVI (RISPETTO AL LIFO),
PERCHÉ VALUTO LE RIMANENZE PIÚ RECENTI, IN QUESTO CASO DEL II E III LOTTO; COL LIFO IO AVEVO UNA
VALUTAZIONE CHE AVVENIVA SULLA BASE DI VALORI PIÚ REMOTI. QUESTO É ESPRESSO SINTETICAMENTE DAI DUE
VALORI CHE OTTENIAMO CON RIFERIMENTO ALLA STESSA QUANTITÀ FISICA (2.000 PEZZI): QUESTI 2.000 PEZZI
VALGONO 21.000 SE APPLICO IL LIFO CONTINUO, VALGONO 23.000 SE APPLICO IL FIFO CONTINUO.

QUELLO CHE PERÓ IO GUADAGNO IN UNA PIÚ PUNTUALE VALUTAZIONE DELLE RIMANENZE LO PERDO IN ATTENDIBILITÀ
DEL RISULTATO ECONOMICO PERCHÉ SE VOGLIO AVERE UN RISULTATO CHE SIA VICINO A QUELLA CHE É LA DINAMICA
FATTUALE, A RICAVI AGGIORNATI DEVO CORRELARE COSTI CHE SIANO ANCH’ESSI AGGIORNATI. QUINDI PER ME É PIÚ
ATTENDIBILE IL 18.000 DI RISULTATO LORDO DEL LIFO PIUTTOSTO CHE I 20.000 DEL RISULTATO LORDO DEL FIFO,
PERCHÉ NEI 20.000 DEL RISULTATO LORDO DEL FIFO HO QUELLO CHE É UN EFFETTO DI DROGA: HO DROGATO IL
RISULTATO CORRELANDO A RICAVI AGGIORNATI DEI COSTI CHE SONO COSTI CHE NON LO SONO PIÚ.

3) CMPP (COSTO MEDIO PONDERATO PROGRESSIVO)


—> RISPETTO AI VALORI DI CARICO NON SUCCEDE NULLA: FINCHÉ HO MOVIMENTI DI CARICO NON CAMBIA NULLA, LE COSE
CAMBIANO QUANDO HO MOVIMENTI DI SCARICO;

SE HO UN MAGAZZINO CHE COMPLESSIVAMENTE VALE 31.000 E IN QUEL MAGAZZINO HO 3.000 PEZZI, MEDIAMENTE OGNI PEZZO
HA UN COSTO DI ACQUISTO DI (31.000 : 3.000) 10,33 —> COSTO MEDIO PONDERATO.

ADESSO CHE C’É UNA VENDITA, IO NON TENGO PIÚ CONTO DEL LOTTO; A ME NON INTERESSA PIÚ SAPERE CHE C’É STATO UN
PRIMO LOTTO A 10 E UN SECONDO A 11.

OGNI BENE CHE IO HO IN MAGAZZINO MEDIAMENTE V COSTATO 10,33. HO DETERMINATO IN QUESTO MODO IL COSTO MEDIO
PONDERATO DI CIÓ CHE HO IN MAGAZZINO. PONDERATO PERCHÉ SE IO GUARDASSI I VALORI UNITARI, IL VALORE DOVREBBE
ESSERE 10,5. NON È 10,5 PERCHÉ É PONDERATO PER LE DIVERSE QUANTITÀ.

—> QUANDO VENDO I 1.500 PEZZI, QUESTI 1.500 PEZZI A QUANTO LI VALORIZZO? A 10,33
VERRÁ 1.500 X 10,33 = 15.500

A MAGAZZINO, DOPO QUESTA OPERAZIONE MI RIMANGONO 1.500 PEZZI ANCH’ESSI VALORIZZATI A 10,33 IL CUI VALORE SARÁ
DUNQUE DI 15.500.

—> I LOTTI ORA NON MI SERVONO PIÚ (SERVONO SOLO PER LIFO E FIFO): É COME SE I BENI SI FONDESSERO FRA LORO. IO
NON SONO PIÚ IN GRADO DI SAPERE CHI APPARTIENE A CHE COSA, IO SO SOLO CHE MEDIAMENTE IN TUTTO IN MAGAZZINO HO
3.000 PEZZI CHE COMPLESSIVAMENTE MI SONO COSTATI 31.000; QUINDI MEDIAMENTE OGNI BENE MI É COSTATO 10,33.
QUESTO 10,33 LO USO PER VALORIZZARE TUTTI GLI SCARICHI FINO A CHE NON HO UN NUOVO MOVIMENTO DI CARICO.

—> 16/01 MI ENTRANO ALTRO 1.000 PEZZI IL CUI COSTO UNITARIO É 12; IN MAGAZZINO SCOPRO DI AVERE 2.500 PEZZI PER
UN VALORE COMPLESSIVO DI 27.500; QUESTO FA SÍ CHE IO ABBIA UN NUOVO CMP CHE É PARI A 11.

QUESTO 11 LO USO PER VALORIZZARE LO SCARICO CHE SI HA IN DATA 22/01: MI ESCONO 5 PEZZI CHE PER ME VALGONO 11.
QUINDI QUESTO SCARICO VALE 5.500. IN MAGAZZINO COSA MI RIMANE? 2.000 PEZZI AL COSTO MEDIO UNITARIO DI 11
22.000.

IL MARGINE COME DIVENTA? RICAVI: 40.000 - COSTI: (15.500 + 550) 21.000 —> MARGINE PARI A 19.000
MAG L
CARICO MAGAZZINO SCARICO RV
CMPP = 22.000 19.000
DATA L gazzette
Q C.U.
LOTTO Q CU COSTO LOTTO
L Q
MAMMAMIA Q C.U. VAL.TOT. DATA L Q C.U. V

02/01 IA
I 2.000 10 20.000 I 2.000 X 10 = 20.000

10/01 µ
IIII 1.000 11 11.000 II 1.000 X 11 = 11.000

3.000 31.000

( MPU = 10,33)
12/01 I| 1.500 X 10,33 = 15.000 30.000
1.500 X 10,33 = 15.000

1.000 X 12 = 12.000
16/01 III 1.000 12 12.000
2.500 27.500

(MPU = 11)

22/01 500 X 11 = 5.500 10.00 0


2.000 X 11 = 22.000

OGNI VOLTA CHE HO UN CARICO, IL VALORE DEI BENI ENTRATI SOMMATO AL VALORE DEI BENI CHE AVEVO IN MAGAZZINO MI
SERVE PER TROVARE IL NUOVO COSTO MEDIO PONDERATO COMPLESSIVO.

DIVIDO IL COSTO MEDIO PONDERATO COMPLESSIVO PER LA QUANTITÀ FISICA (NEL NOSTRO CASO 31.000/3.000) E TROVO UN
COSTO MEDIO PONDERATO COMPLESSIVO, CHE IO UTILIZZO PER VALORIZZARE TUTTI I CONSUMI E LE GIACENZE DI MAGAZZINO
(SCORTE) FINO A QUANDO NON HO UN ALTRO MOVIMENTO DI CARICO.

QUANDO HO UN ALTRO MOVIMENTO DI CARICO DEVO RIPETERE L’OPERAZIONE: E TROVERÒ UN NUOVO COSTO MEDIO PONDERATO
COMPLESSIVO, CHE UTILIZZERÒ PER VALORIZZARE TUTTI I CONSUMI E TUTTE LE SCORTE FINCHÉ NON AVRÓ UN ALTRO SCARICO.

QUESTO É UN METODO CHE CERCA DI MEDIARE GLI EFFETTI CHE SI OTTENGONO CON GLI ALTRI DUE METODI: IO MI ASPETTO
DI TROVARE CON QUESTO METODO DEI VALORI CHE SIANO RICOMPRESI ENTRO I VALORI MASSIMI E MINIMI DATI DAGLI
ALTRI METODI.

COL LIFO IL VALORE DELLE RIMANENZE ERA 21.000 —> SOTTOSTIMATO; COL FIFO ERA 23.000 —> PIÚ VICINO ALLA
REALTÁ; COL CMPP 22.000.

IL MARGINE COL LIFO ERA QUELLO PIÚ BASSO E ATTENDIBILE: 18.000; COL FIFO ERA UN PO’ DROGATO: 20.000; COL
CMPP: 19.000.

CMPP METODO MENO DISTORCENTE, DÁ UN COLPO AL CERCHIO E UNO ALLA BOTTE; IN PIÚ HA UN VANTAGGIO: QUANDO
VALORIZZO UN CONSUMO O UNO SCARICO DI BENI PER LA VENDITA NON HO PIÚ QUELL’EFFETTO DISTORSIVO CHE
POTENZIALMENTE HO COL LIFO O COL FIFO DI VALUTARE UN’UNICA USCITA DI BENI CON DUE VALORI UNITARI DIFFERENTI.

QUI OGNI USCITA DI BENI DAL MAGAZZINO VIENE VALUTATA SOLO ATTRAVERSO UN UNICO VALORE UNITARIO, VALORE UNITARIO
CHE NEL TEMPO SI ADEGUA: PER QUESTO É PROGRESSIVO IL COSTO MEDIO. A MANO A MANO CHE I COSTI DI ACQUISIZIONE
DEI FATTORI PRODUTTIVI CRESCONO, ANCHE IL COSTO MEDIO PONDERATO SI ADEGUA.

STO VALUTANDO A 11 QUELLO CHE HO GIÁ PAGATO 12 —> NON É PERFETTAMENTE IN LINEA

QUESTI TRE METODI POSSONO ESSERE UTILI ANCHE AI FINI DELLA REDAZIONE DEL BILANCIO DI ESERCIZIO (ART.2426 C.C).

PER LE AZIENDE CHE VOGLIONO AVERE UN UNICO METODO PER LA TENUTA DEL MAGAZZINO, CHE SIA POTENZIALMENTE UTILE E
AI FINI GESTIONALI (INTERNI) E AI FINI ESTERNI (BILANCIO D’ESERCIZIO), OGNUNO DI QUESTI TRE METODI É
IMPIEGABILE. DOVENDO FARE UNA SCELTA, NORMALMENTE SI FA RIFERIMENTO AL CMPP.

4) METODO DEL COSTO DELL’ULTIMA PARTITA —> CUP

METODO NON PIÚ APPLICABILE SOTTO IL PROFILO CIVILISTICO —> SI PUÓ USARE SOLO PER FINALITÀ INTERNE (O GESTIONALI)

—> COMPRO LA PRIMA PARTITA DI BENI (2.000 PEZZI) AL COSTO UNITARIO 10 : COMPLESSIVAMENTE VALGONO 20.000
—> SE 11 É IL COSTO DELL’ULTIMA PARTITA, CON QUESTO METODO QUELL’11 DIVENTA L’ELEMENTO ATTRAVERSO IL QUALE
RIVALORIZZO TUTTI I BENI PRESENTI IN MAGAZZINO

—> DEVO VALORIZZARE TUTTI I BENI PRESENTI IN MAGAZZINO (3.000) A 11, PERCHÉ 11 É IL COSTO DELL’ULTIMA PARTITA. CON
QUESTA MODALITÀ IL MIO MAGAZZINO COMPLESSIVAMENTE VALE 33.000.

—> UTILIZZO IL COSTO DI APPROVVIGIONAMENTO PIÚ RECENTE, IL COSTO DELL’ULTIMA PARTITA ACQUISTATA, PER RIESPRIMERE
IL VALORE DI TUTTI I BENI DI QUEL TIPO CHE HO IN MAGAZZINO.

—> QUANDO QUALCHE GIORNO DOPO VENDO 1.500 PEZZI, QUESTI 1.500 PEZZI SONO VALUTATI A 11. (1.500 X 11 = 16.500)

IN MAGAZZINO MI SONO ORA RIMASTI 1.500 PEZZI IL CUI VALORE É 11 VALUTATI COMPLESSIVAMENTE 16.500.

—> ENTRANO ALTRI 1.000 PEZZI: QUESTI SONO VALUTATI A 12. I MIEI 2.500 PEZZI SONO TUTTI QUANTI VALUTATI A 12; PER
UN TOTALE DI 30.000.

MAG L
CARICO MAGAZZINO SCARICO RV
CUP = 24.000 17.500 DATA L gazzette
Q C.U.
LOTTO Q CU COSTO MtDNA
LOTTO
L Q Q C.U. VAL.TOT. DATA L Q C.U. V

02/01 IA
I 2.000 10 20.000 I 2.000 X 10 = 20.000

10/01 µ
IIII 1.000 11 11.000 II 1.000 X 11 = 11.000

3.000 11 = 33.000
12/01 1.500 X 11 da
= 16.000
500 30.000

1.500 X 11 = 16.500

1.000 X 12 = 12.000
16/01 III 1.000 12 12.000
2.500 X 12 = 30.000

22/01 500 X 12 = 6.000 10.000


2.000 X
X 12 = 24.000

—> QUANDO QUALCHE GIORNO DOPO ESCONO I 500 PEZZI, QUESTI 500 PEZZI LI VALUTO A 12; QUINDI HO UN 6.000.

A MAGAZZINO DOPO QUESTA OPERAZIONE MI RIMANGONO 2.000 PEZZI X 12 = 24.000

VALORE DEI BENI A MAGAZZINO: 24.000

MARGINE: 40.000 - 22.500 = 17.500

LA VALUTAZIONE DEL MAGAZZINO É IN LINEA CON ALMENO GLI ULTIMI VALORI EFFETTIVAMENTE SOSTENUTI (TUTTO A 12);
QUINDI IN TERMINI ASSOLUTI.

DEI 4 METODI QUESTO É IL MIGLIORE PERCHÉ MI CONSENTE DI AVERE UNA VALUTAZIONE DELLE SCORTE DI MAGAZZINO CHE É
IN LINEA CON LA REALTÁ FATTUALE; É IL VALORE PIÚ ALTO DI QUELLI OTTENIBILI; VADO ADDIRITTURA OLTRE IL VALORE
FIFO (23.000)

SIMULTANEAMENTE MI CONSENTE DI AVERE UN VALORE SUL MIO MARGINE CHE É QUELLO PIÚ IN LINEA CON LA DINAMICA DEI
PREZZI, PERCHÉ AI RICAVI DI VENDITA (40.000) CONTRAPPONGO IL COSTO DEL VENDUTO PIÚ ALTO PERCHÉ É UN COSTO DEL
VENDUTO CHE IO HO COSTANTEMENTE AGGIORNATO.

C’É UN UNICO PROBLEMA: PERDE IL RIFERIMENTO AGLI EFFETTIVI COSTI STORICI —> ERGO NON É UN METODO UTILIZZABILE
SOTTO IL PROFILO CIVILISTICO

METODO CHE DAL PUNTO DI VISTA GESTIONALE É DECISAMENTE INTERESSANTE.

—> PUNTO DI CADUTA: IO COMUNQUE CONTINUO AD ASSUMERE IL VALORE SOSTENUTO PER L’ULTIMO APPROVVIGIONAMENTO PER UN
PERIODO CHE VA FINO AL SUCCESSIVO APPROVVIGIONAMENTO.

—> SE HO DEI BENI CHE NON MOVIMENTO COSÍ FREQUENTEMENTE, UN EFFETTO DISTORSIVO POTREI AVERLO LO STESSO

SE NEL MESE DI FEBBRAIO IO NON AVESSI ULTERIORI INGRESSI DI QUESTA TIPOLOGIA DI BENI, FINO AI 2.000 CHE HO
ANCORA IN SCORTA IO ANDREI A VALUTARE IL COSTO DEL VENDUTO USANDO SEMPRE 12. MAGARI PERÓ NEL FRATTEMPO I VALORI
DI MERCATO IN TERMINI DI COSTI DI RIAPPROVVIGIONAMENTO SONO SALITI A 13 O A 14; MA IO CONTINUEREI A UTILIZZARE
L’ULTIMO COSTO EFFETTIVAMENTE SOSTENUTO —> METODO CHE VA BENISSIMO PERÓ SE IO HO FREQUENTI RIAPPROVVIGIONAMENTI
CHE MI CONSENTONO OGNI VOLTA CHE ENTRA UN ULTIMO LOTTO, DI RIAGGIORNARE/RIVALUTARE IN QUESTO CASO I BENI CHE IO
HO IN MAGAZZINO

PER OVVIARE A QUESTO, UN ALTRO METODO CHE SI PUÓ UTILIZZARE É IL NIFO (NEXT IN FIRST OUT)
IO VALUTO I BENI CHE ESCONO SULLA BASE DI UN’IPOTESI DI RIAPPROVVIGIONAMENTO.
IO ANTICIPO UN COSTO DA SOSTENERE; VALUTO QUELLO CHE ESCE SULLA BASE DI QUELLO CHE RITENGO, AL MOMENTO DELLA
VENDITA, CHE SARÁ IL COSTO DI RIAPPROVVIGIONAMENTO.

NEL NOSTRO ESEMPIO AL 22/01, SE IL COSTO DI RIAPPROVVIGIONAMENTO NEL FRATTEMPO É SALITO, POTREMMO USARE UN
VALORE NON PIÚ DI 12, MA DI 13. DOVREI QUINDI VALUTARE QUELLO CHE ESCE DAL MAGAZZINO A 13.

PARTENDO DA COME SI DETERMINA IL COSTO INTESO COME VALORE DELLE MATERIE PRIME CONSUMATE/INCORPORATE IN UN PRODOTTO ABBIAMO
VISTO, IN TERMINI PIÚ GENERALI, TUTTO IL TEMA DI CONTABILITÀ DEL MAGAZZINO, O MEGLIO, I PRINCIPALI METODI ATTRAVERSO I
QUALI PUÓ ESSERE TENUTA LA CONTABILITÀ DI MAGAZZINO. AI FINI GESTIONALI, SI É EVIDENZIATA UNA PRIMA DIFFERENZA FRA
INVENTARIO INTERMITTENTE (SUFFICIENTE PER LE ESIGENZE CIVILISTICHE) E INVENTARIO PERMANENTE. OGNI VOLTA CHE HO UN MOVIMENTO
IN INGRESSO (CARICO) O IN USCITA (SCARICO), IO DEVO VALUTARE IL VALORE DEL CARICO E IL VALORE DELLE SCORTE O IL VALORE
DELLO SCARICO E IL VALORE DELLE SCORTE. I METODI UTILIZZABILI DEVONO ESSERE QUINDI METODI CONTINUI. I PRIMI TRE METODI SONO
RICONDUCIBILI ANCHE ALLE PRESCRIZIONI DEL C.C.

IL 4° METODO, QUELLO PIÚ IDONEO AI FINI GESTIONALI. NELLE IMPRESE DI GROSSE DIMENSIONI NULLA VIETA CHE SI ABBIA UNA DOPPIA
VALUTAZIONE DEL MAGAZZINO: CHE SI UTILIZZI, ANCHE PER RAGIONI FISCALI, IL LIFO PER REDIGERE IL BILANCIO DI ESERCIZIO E
DETERMINARE L’IMPONIBILE FISCALE; E GESTIONALMENTE SI OPERI INVECE UNA VALUTAZIONE A PRTE COL CUP O ADDIRITTURA COL NIFO.

ULTIMA OSSERVAZIONE: SE I PREZZI RIMANESSERO COSTANTI PER TUTTO IL PERIODO CONSIDERATO, CHE IO UTILIZZI L’UNO O L’ALTRO, DA
UN PUNTO DI VISTA SOSTANZIALE, SI PRODURREBBERO I MEDESIMI EFFETTI
Se io guardo quali sono i principali fattori produttivi che s’incorporano in un oggetto semplice, ci
sono: materie prime, lavoro e macchine.

COME SI QUANTIFICA IL COSTO DEI FATTORI PRODUTTIVI?

· COSTO DEL LAVORO

Ci occupiamo del tema del costo del lavoro rispetto alle finalità che sono quelle della contabilità
analitica, che sono diverse rispetto a quelle della contabilità generale

In CoGe il costo del lavoro viene rilevato attraverso una scrittura contabile che, su base mensile,
mediamente verso fine mese, ha comportato tempo per tempo la rilevazione dello stipendio e dei costi che
sono ad essi collegati nelle varie componenti (retribuzione, superminimi, oneri sociali etc.).

Inoltre, coloro che sono strutturati hanno una mensilità aggiuntiva: la 13esima.

Il problema che ha la CoGe è quello di rispettare il principio di competenza assumendo come arco
temporale il periodo amministrativo, in genere l’anno solare: tuttavia non è necessario che il periodo
amministrativo cui l’anno si riferisce coincida con l’anno solare: è estremamente diffuso, però non vi è
un obbligo in tal senso.

[Es: azienda che produce parti componenti per tende da sole; stagionalità: da aprile a ottobre; arco
temporale considerato: 12 mesi; periodo amministrativo: da ottobre a settembre; dopo ottobre l’azienda
lavora per il magazzino, nella seconda parte del suo anno, che è la prima parte dell’anno solare comincia
a vendere. Vendendo tuttavia anche a clienti dell’altro emisfero l’azienda è riuscita anche a
destagionalizzare il suo processo produttivo]

Che siano 12 mesi che coincidono con l’anno solare o che siano 12 mesi che cadono diversamente rispetto
all’anno solare, quando redigo il bilancio d’esercizio devo rispettare il principio di competenza
rispetto all’arco temporale considerato, comunque di 12 mesi. Quindi, che io rilevi nella mia CoGe una
mensilità aggiuntiva a giugno (13esima), un’altra a dicembre, e che in sede di assestamento io vada ad
integrare i costi del lavoro per tenere conto delle Indennità di Fine Rapporto (IFR) maturate nel
periodo, io questo lo posso fare anche durante il mese di dicembre perché comunque il mio oggetto di
riferimento è dato da un arco temporale che va dall’inizio alla fine del periodo amministrativo (per la
maggior parte delle imprese 01/01-31/12.

In Contabilità analitica però non funziona in questo modo: per le esigenze legate al controllo noi
abbiamo bisogno di avere delle elaborazioni che hanno un arco temporale infra-annuale come riferimento,
delle elaborazioni trimestrali/bimestrali/mensili..

Sorge un problema: se io andassi a incorporare nel costo di prodotto del mese di ottobre solo le
retribuzioni liquidate nel mese di ottobre, io compierei qualcosa che non è corretto, non è logico; i
prodotti del costo di dicembre dovrebbero costare molto di più dei prodotti del mese di novembre perché a
dicembre in CoGe rilevo, oltre che la retribuzione del mese di dicembre, anche la 13esima mensilità + le
IFR. A parità di ogni condizione produttiva, avrei un andamento del costo del lavoro imputato e quindi
del costo di prodotto che avrebbe dei picchi nei periodi in cui ho le retribuzioni aggiuntive oppure ho
anche le IFR. Non posso adottare la stessa metrica della CoGe.

Io posso stimare quello che sarà alla fine dell’anno il costo complessivamente atteso per il costo del
lavoro (so quanti dipendenti ho, che livello di inquadramento hanno questi dipendenti, il costo che devo
sostenere per ciascun dipendente inquadrato in un certo modo). Di aleatorio c’è il fatto che qualcuno
potrebbe morire/farsi licenziare; oppure potrei decidere di assumere qualcun altro. Con tutti questi
elementi posso stimare ex ante quello che nel 2019 potrebbe essere il mio complessivo costo del lavoro. A
quel punto come potrei ovviare al primo problema? Potrei dire: prendo il totale del costo del lavoro
atteso (con dentro le 12 mensilità dovute, la 13esima, l’IFR, se prevedo di fare straordinario i costi
legati allo straordinario...) dopodiché divido per 12 mesi; andrei in questo modo a normalizzare su base
mensile quello che è il costo del lavoro; è una prima soluzione non soddisfacente.

Poniamo che un locale venga assoggettato a lavori di ristrutturazione; se noi volessimo esternalizzare
questa ipotetica attività ad un fornitore chiediamo un preventivo (se sono un privato) faccio una gara
d’appalto e mi arrivano delle offerte (se sono un soggetto pubblico).
Capovolgiamo l’ottica: non sono un soggetto che conferirà l’appalto, sono l’impresa che è interessata a
partecipare alla gara facendo una proposta formalizzata. Cosa mi serve per costruire l’offerta? Devono
essere indicate le attività da svolgere (lo fa il committente); es. rifacimento dei soffitti. Noi azienda
dobbiamo stimare quanto tempo occorre alla squadra di operai/tecnici. Ma la retribuzione che prende un
apprendista non è quella di un operaio specializzato. In più ci sarà senz’altro un geometra o ingegnere
che supervisiona. Quindi l’azienda che intende presentare un’offerta dovrebbe in primis quantificare
un tempo previsto, articolando questo tempo per figura professionale; (20 ore operaio generico, 15
operaio specializzato, 4 tecnico che supervisiona...). Questi sono i parametri fisici necessari a
espletare questo tipo di attività. Questi parametri fisici devono poi essere convertiti in parametri
economici, cioè costi. Quindi per cosa moltiplichiamo le ore individuate? Per un costo orario. Come
viene determinato questo costo orario? Non può essere un costo orario nominale; non può essere il
costo della busta paga perché i dipendenti vengono remunerati anche quando sono in ferie. Il
dipendente potrebbe inoltre essere assente per altre ragioni: permessi retribuiti, permessi sindacali;
il dipendente potrebbe essere fisicamente presente in azienda, ma per svolgere un’attività che dal
punto di vista sostanziale non è produttiva (corsi di formazione o di aggiornamento).

I fattore produttivo lavoro, il dipendente, è fruttifero, concorre alla generazione di ricavi, quando
effettivamente è impiegato nei processi produttivi dell’impresa. Ma io non corrispondo una retribuzione
al dipendente solo quando fa questo, ma anche quando il dipendente svolge le altre sopracitate attività.

Ai fini della contabilità analitica, io devo individuare un particolare tipo di parametro per valorizzare
il costo del lavoro; questo parametro è dato dal costo medio orario onnicomprensivo.

Come si determina? Esso si basa su due stime.


MI

É un rapporto. Il dividendo è dato dal totale annuo del costo del lavoro atteso per quella tipologia di
dipendente. Quindi non avrò un unico costo medio orario onnicomprensivo, avrò tanti costi orari
onnicomprensivi quanti sono le fasce di inquadramento che ho in azienda. Il divisore è costituito dalle
ore che io ritengo che saranno effettivamente lavorate.

Va ricercato ex ante attraverso la quantificazione preventiva di queste due grandezze: il dividendo è


una grandezza economica (costo annuo stimato per quella categoria di dipendenti), il divisore è
nuovamente una grandezza stimata stavolta di tipo fisico: n° di ore di lavoro che si ritiene verranno
effettivamente lavorate nel periodo.

Queste due previsioni come faccio a farle accurate? Su cosa baso i dati che devo individuare? Per quanto
riguarda il costo io so quanti sono i dipendenti inquadrati in quella fattispecie, so qual è
contrattualmente la loro remunerazione, sono in grado di sapere se prevedo di assumere qualche
dipendente in più o di licenziare qualche dipendente.

Per quanto riguarda il parametro fisico, come faccio a stimare le ore che io penso saranno
effettivamente lavorate? Devo fare riferimento a dati di tipo storico-statistico.

Ho una procedura informatizzata di rilevazione delle rilevazione delle presenze dei dipendenti. Dati
consuntivi che posso utilizzare per fare delle proiezioni previsionali.

A cosa mi serve il costo medio orario medio comprensivo? Se io so che per fare la controsoffittatura mi
servono 20 ore di un operaio generico (fabbisogno di fattore produttivo Mano d’opera diretta di questo
tipo necessaria per svolgere determinate attività), trasformo quelle 20 ore in costo moltiplicando
queste 20 ore per il costo medio orario onnicomprensivo per quella tipologia di dipendente.

Il costo medio onnicomprensivo di un dipendente più qualificato sarà più alto.


Costruisco una tavola dei costi determinata sulla base delle attività da svolgere.

Se per ottenere il prodotto A so che nel mese di ottobre sono state consumate 1.400 ore di MOD (ipotizzo
che le persone che hanno lavorato siano inquadrate allo stesso modo), come faccio a quantificare
all’interno del costo che devo determinare come costo pieno industriale per questo tipo di oggetto, la
componente costo del lavoro? Ragiono per tipologia di prodotto e non per costo unitario.

Se sono state impiegate 1.400 ore di MOD, io dovrò fare: 1.400 x correlativo costo medio orario
onnicomprensivo.

Supponiamo che durante il mese di agosto l’impresa sia chiusa: ad agosto non ci saranno state dunque ore
effettive di lavoro (sebbene i lavoratori siano stati pagati ugualmente) —> nessuna attività produttiva
—> nessun costo che possa essere imputato ai prodotti.

Questo mi consente di attribuire il costo del lavoro diretto in modo proporzionato all’intensità
dell’attività: se in alcuni mesi i dipendenti lavorano di più, in quei mesi verrà considerato un maggior
costo, perché il costo è collegato all’utilizzo del fattore produttivo. Ovviamente se uso del lavoro
straordinario, al di sopra della linea di frazione devo considerare anche i costi aggiuntivi collegati
al lavoro straordinario; ma come divisore avrò come contropartita un aumento delle ore effettivamente
lavorate. Si postula che se sono pagate ore di straordinario quelle ore siano anche effettivamente
pagate.

Questa modalità è utilizzabile per tutti i dipendenti: io posso calcolare il costo medio orario
onnicomprensivo anche di un dirigente sapendo qual è il suo costo e le ore che effettivamente lavorerà.

· COSTO DI UTILIZZO DEI FATTORI PRODUTTIVI DUREVOLI

Come si fa a valorizzare il costo di utilizzo dei fattori produttivi durevoli? Beni durevoli —> beni
materiali (macchinari) + beni immateriali (B1 brevetti, software, marchi, licenze, concessioni, licenze
pluriennali, avviamento...). [differenza fra onere pluriennale e brevetto: il brevetto lo posso vendere
anche senza vendere l’intera impresa]

Ipotizziamo di avere un immobile in affitto; posso decidere, se il contratto d’affitto me lo permette, di


sobbarcarmi il costo della sostituzione degli infissi per ragioni di utilizzabilità? Sì ma a mie spese.
Se l’immobile fosse stato mio avrei potuto capitalizzare questo intervento che è migliorativo sul valore
del fabbricato. Se invece il bene non è mio, non posso appendere questo costo che ha una valenza
pluriennale sulle immobilizzazioni materiali, perché il bene non è mio; quindi questa miglioria apportata
ad un bene di terzi finisce per essere considerata all’interno delle immobilizzazioni immateriali, ma
questo non è un bene immateriale: questo è un costo pluriennale. Se io fossi in difficoltà non posso
realizzare questo investimento direttamente, perché questo investimento si è incorporato in un bene che
non è mio; ma se invece parlo di un brevetto o parlo di una licenza, io posso anche di un marchio (la
cessione lì avviene normalmente attraverso un ramo d’azienda) cedere un immobilizzazione immateriale
senza cedere l’intera impresa; ma questo solo e soltanto quando si parla di beni immateriali, non di
costi pluriennali.

I ragionamenti che seguono è più facile applicarli ai soliti impianti, macchinari, capannoni... però
sono ragionamenti che possiamo estendere anche agli altri investimenti durevoli di tipo tecnico
Modalità attraverso le quali un bene durevole può entrare a fare parte del patrimonio aziendale:

}
A- apporto dei soci
B- acquisto comportano il trasferimento della proprietà del bene, non soltanto l’utilizzabilità del bene
C- donazione
D- produzione interna
E- leasing —> un bene ottenuto in leasing non viene iscritto fra le immobilizzazioni materiali, non si farà
amm.to ma se ne darà notizia in nota integrativa: l’unico elemento che comparirà è il canone leasing
che comparirà nel C.E.

F - locazione

Nei casi A,B,C,D il costo di utilizzo del fattore produttivo si chiama “ammortamento”.
Gli elementi necessari per rediger un piano di amm.to sono:
1) valore da ammortare
2) vita utile del cespite
3) criterio di ripartizione (ammortamento a quote costanti; se sono beni assoggettati a una rapida
obsolescenza tecnologica —> meglio criterio di riparto a quote decrescenti)

In CoGe:

1) valore da ammortare: art. 2426, comma 1, il valore delle immobilizzazioni, anche quelle assoggettate ad
ammortamento è dato dal costo (storico), comprensivo (se è un costo di acquisto) degli oneri accessori di
diretta imputazione o dei costi diretti (se è un costo di produzione) ed eventuali quote di costi
indiretti non industriali collegati al processo di collocazione.
Se il bene, anziché essere acquistato (costo di acquisto)o prodotto (costo pieno industriale), è stato
apportato, il valore da ammortare è quello contenuto in una perizia giurata: ho comunque sempre un dato
storico.

2) vita utile: la normativa civilistica (art.2423, comma 2) dovrebbe essere tutta tesa a dare una
rappresentazione chiara, veritiera e corretta della situazione aziendale sotto il profilo finanziario,
patrimoniale e del risultato economico. Quindi, in relazione agli ammortamenti, c’è un disposto del c.c.
(art.2426 comma 2): il valore dei beni da ammortare va sistematicamente ammortizzato, con riferimento alla
loro residua possibilità di utilizzo —> valore delle immobilizzazioni che hanno una durata limitata nel
tempo —> con un terreno non si può fare perché trattasi di un’immobilizzazione a fecondità illimitata —>
il terreno non deperisce attraverso l’uso.

Per tutte le immobilizzazioni, materiali o immateriali, ad utilizzabilità limitata, io non posso fare il
cd. ammortamento economico (quello in virtù del quale io usavo la quota di amm.to come spugna o
fisarmonica per realizzare certe politiche di bilancio). [Ho un anno in cui le cose sono andate
particolarmente bene; maxi quota di amm.to ad assorbire il reddito; 2/3 anni dopo le cose vanno male —>
quota ridotta di amm.to —> attraverso un amm.to che fungeva da cassa di compensazione si pilota il
risultato economico —> vietato dal ‘91]

Devo dichiarare per legge all’inizio del periodo di utilizzo del bene, come quel bene verrà ammortato;
quindi devo definire lì la vita utile del bene; non posso pre-definire quindi dei coefficienti di amm.to
civilisticamente; perché il medesimo bene da due imprese che fanno la stessa cosa potrebbe essere
utilizzato con dei tassi di intensità molto diversi.

Le modalità di utilizzo del bene sono quelle da considerare per stimare la vita utile; però devo fare
riferimento alla residua possibilità di utilizzazione; ma all’inizio del periodo la residua possibilità di
utilizzazione è tutto il periodo di utilizzo. Quel costante riferimento alla residua possibilità di
utilizzo sta a dire che io predispongo un piano di amm.to sulla base di alcune ipotesi iniziali, ma poi
dovrò tempo per tempo verificare che queste ipotesi iniziali continuino ad essere verificate; se ipotizzo
che un bene lo posso utilizzare per 10 anni, ma dopo 4 anni mi accorgo che quel bene sta diventando
obsoleto, probabilmente dovrò accorciare la vita utile ed operare una svalutazione. Quindi non è che io
predispongo il piano di amm.to all’inizio del periodo poi me ne disinteresso finché non succedono cose. Io
devo anno dopo anno verificare se le condizioni, sulla base delle quali io ho predisposto il piano di
amm.to, continuano ad essere verificate oppure no.

Quindi civilisticamente non posso dire che l’amm.to deve essere fatto necessariamente a quote costanti o
impiegato un certo coefficiente di amm.to; però c’è qualcun altro che non può lasciare questa libertà di
manovra e questo qualcun altro è il fisco.

Il legislatore è unico, però anche nel comune parlare si parla di legislatore civilistico e di legislatore
fiscale; in concreto succede che quando il legislatore si occupa di norme tributarie è come se entrasse in
una situazione di schizofrenia rispetto a quando il legislatore si occupa di norme civilistiche. Nella
normativa civilistica il legislatore lascia la più ampia manovra agli amministratori per quanto riguarda
l’amm.to; non dice ai redattori del bilancio come devono fare l’amm.to; però deve essere coerente e
funzionale al rispetto della clausola generale (rappresentazione chiara, veritiera e corretta). Ma se io
facessi così, dal punto di vista tributario mi infilerei in un guaio. In Italia già le imposte non le paga
nessuno; ma se dessi anche la possibilità agli amministratori di poter orientare attraverso il
coefficiente di amm.to la base imponibile, diventerebbe un inferno..

Quindi, quando lo stesso tema viene interpretato dal punto di vista fiscale, le regole sono molto più
stringenti: il fisco individua per ogni tipologia di bene, rispetto al settore di appartenenza
dell’impresa, determinati coefficienti: coefficienti di amm.to ordinario. Questi coefficienti sono anche
stati statisticamente determinati sulla base del normale periodo di deperimento o consumo del bene. Il
deperimento ha a che fare con la dimensione tecnologica (obsolescenza), il consumo ha a che fare con la
dimensioe fisica.

·|lì necessariamente; Se il valore del bene è superiore a 513


Il fisco non impone di usare quel coefficiente,
€, puoi fare il cd. “Amm.to integrale”: anche se è un bene strumentale tu lo puoi considerare tutto come
competenza dell’esercizio; è una semplificazione fiscale abbastanza ragionevole; mi costerebbe di più la
procedura di ammortamento piuttosto che comperare ogni anno un bene; si pensi a una calcolatrice o a
un cellulare (bene strumentale utilizzabile per due/anni potenzialmente).

Se il bene è di modico valore quindi lo puoi ammortare fiscalmente tutto quanto nell’anno; il che vuol
dire che non fai l’amm.to, ma lo consideri tutto come un costo di esercizio. Se invece quel bene ha un
valore più elevato, a quel bene tu devi applicare quei coefficienti che suggerisce il fisco ai fini
della determinazione dell’imponibile; per i computer il coefficiente è del 25%, il che vuol dire che
la vita utile del computer è stimata in 4 anni.

Se però io opero in un settore in cui mi servono macchine estremamente capaci il computer va cambiato
già dopo 1/2 anni; allora succede in questo caso che si è costretti a portare a C.E. contabilmente e
civilisticamente una quota di amm.to che fiscalmente non mi viene riconosciuta: quindi ho una ripresa
tassazione della parte di amm.to che ho contabilmente imputato, ma che fiscalmente non è accolta/
accettata.
Dato che questo meccanismo è piuttosto complicato, accade in concreto che la maggior parte delle
imprese nell’andare a stimare la vita utile del bene, non fa riferimento a quelle che sono le proprie
effettive modalità di utilizzo, ma assume meccanicisticamente i coefficienti fiscali: non ci si chiede
per quanto tempo sia utilizzabile un dato bene, ma si guarda direttamente alla tabella ministeriale.
Chiaramente nella Nota Integrativa la scelta viene giustificata meglio.

In concreto in bilancio quasi mai si determina quella che è la vita utile del bene; c’è una profonda
interferenza fiscale sugli amm.ti; e questa interferenza si estende anche al terzo elemento, il
criterio di ripartizione, perché il fisco in mente ha un amm.to a quote costanti.

Se tu vuoi cambiare da un anno all’altro il coefficiente di amm.to adesso ti devi far fare una perizia
e andare con la perizia nell’agenzia delle entrate per motivare quella cosa; altrimenti ti potrebbero
contestare la modificazione del coefficiente, anche se il coefficiente rimane all’interno
dell’intervallo (perchè i coefficienti fiscali sono coefficienti massimi; se io ho un 20% vuol dire
che posso fare al massimo un 20%).

Quello che succede concretamente è che, nell’andare a definire la misura degli amm.ti si prende il
costo storico, il quale viene ripartito utilizzando dei coefficienti di tipo fiscale.

Quindi io mi ritrovo in bilancio delle quote di amm.to che raramente riflettono quello che è
l’effettivo utilizzo di quel fattore produttivo: c’è una certa convenzionalità nella quantificazione
delle quote di amm.to.

Ma se io voglio conoscere oggi effettivamente qual è stato nel mese di ottobre il costo di un oggetto,
una valigetta ad esempio, io devo quantificare la quota di amm.to che è confluita lì fra gli altri
costi industriali, con modalità differenti; perché altrimenti io, per proprietà transitiva, trasmetto
dei costi di produzione e delle modalità che sono in qualche modo convenzionali.

Quindi la quota di amm.to così come quantificata in CoGe non va bene ai fini della CoA.

In conclusione, in CoGe mi trovo ad avere quote di amm.to calcolate su valori storici, su costi storici,
rispetto alle quali la vita utile è spesso determinata in modo opportunistico: non andando a valutare
effettivamente la vita utile di quel bene nella nostra impresa rispetto alle modalità di utilizzo
previste, ma rispetto a quelli che sono i coefficienti fiscali; quindi la vita utile è suggerita da regole
di carattere tributario; normalmente per facilità e per agevolare la comparazione dei dati di bilancio, il
terzo elemento, il criterio di ripartizione, di fatto non viene considerato perché si assume come
implicito che sia sempre quello a quote costanti —> situazione nel civilistico-fiscale

Ora, ipotizziamo che due imprese producano uno stesso oggetto, un identico modello. Queste due imprese
sono gemelle: fanno le stesse cose utilizzando gli stessi macchinari; l’unica differenza è che l’impresa
Alfa ha appena comprato la macchina che serve per tagliare il cuoio. L’impresa Beta ha comperato la stessa
macchina uguale ma 10 anni prima (non è una macchina con rapida obsolescenza tecnologica). Probabilmente
la macchina acquistata adesso è quella che è stata pagata a un prezzo più alto. Il modello è lo stesso
quindi non è un problema di costa di più perché è una macchina che ha maggiori capacità. Dal punto di
vista civilistico-fiscale, ferma ogni altra condizione (a parità di fatturato, a parità di tutti gli altri
costi) e supponendo che entrambe le imprese espongano un utile, l’impresa che esporrebbe un utile più alto
è Beta, l’impresa che ha acquistato la macchina 10 anni fa. Perché Beta? Perché le quote di amm.to
sarebbero più basse in quanto verrebbero applicate ad un costo storico che è più basso. Ma dal punto di
vista sostanziale non è vero che Beta è più redditizia di Alfa: questo deriva semplicemente da una
convenzione contabile in forza della quale le quote di amm.to devono essere determinate sul costo storico
del bene.

Dal punto di vista gestionale, per finalità interne, non avrebbe senso mantenere questa modalità di
valorizzazione . Se io voglio sapere come va l’impresa devo avere dei dati che siano il più possibile
aggiornati, dei dati che misurino il costo dei fattori produttivi che io utilizzo oggi; che mi misurino
nel modo più aderente possibile alla realtà attuale.

Quindi in CoGe, per ragioni civilistico-fiscali, mi tocca assumere come valore da ammortare un costo
che è un costo storico; ma ai fini della CoA io sono libero di fare ciò che mi pare.

L’ideale sarebbe fare riferimento a valori correnti (valori aggiornati, che riflettano quello che è il
costo del fattore produttivo durevole oggi). Per avere dei dati che siano più utili.
Io devo calcolare il costo di utilizzo dei miei fattori produttivi, anche quelli durevoli, nel modo più
aderenti alla realtà fattuale, perché questo mi dà un’informazione utile ai fini del controllo.

Pensiamo alla seguente situazione: io sono Beta; suppongo che Beta calcoli il costo di prodotto
mettendoci dentro l’amm.to calcolato sul valore storico; il bene è già 10 anni che ce l’ho in uso; dopo
10 anni lo butto via e l’anno dopo compro lo stesso bene ma lo compro nuovo: cosa accadrebbe sul
bilancio e sul mio costo di produzione? Il mio costo di produzione aumenterebbe solo e soltanto perché
scopro che fino a quel momento ho drogato il mio costo di produzione sottostimandolo perchè lo
determinavo sul valore storico. Per evitare questa distorsione io dovrei sempre assumere il valore da
ammortare in termini di valore aggiornato/corrente. Il valore corrente come lo determino?
Se è un bene che è ancora in produzione e a listino io posso determinare il valore corrente banalmente
guardando il listino, qual è il valore oggi di quel bene.

Se quel bene è stato acquistato diverso tempo prima e non è più a listino devo applicare dei
coefficienti di rivalutazione: posso guardare qual è stata l’inflazione rispetto all’anno precedente;
ogni anno vado a rivalutare il valore applicando un determinato coefficiente di rivalutazione che ha a
che fare col deprezzamento della moneta (potere di acquisto della moneta). Qui dovrei avere non un
indice generale: l’indice ISTAT che si usa per misurare l’inflazione è collegato ad un paniere di beni
e servizi di consumo; non sarebbe quello l’indice che io dovrei considerare: dovrei considerare un
indice che sia collegato a quel particolare settore merceologico.

Se il bene invece l’ho prodotto internamente potrei fare una stima nel cercare di determinare quello
che sarebbe il costo di riproduzione/ricostruzione: quanto mi costerebbe riprodurre/ricostruire un
bene.

Non è semplice determinare il valore corrente, però ci sono diverse opzioni. Se voglio evitare una
distorsione non posso rifarmi a dei valori storici ma devo rifarmi a valori correnti.

Questo mi serve anche quando sono in un’ottica del seguente tipo: ho un’unica impresa che gestisce 3
alberghi; ho edifici che sono stati costruiti in tempi diversi; se io voglio calcolare per bene quelli
che sono i miei costi io non posso valutare anche la redditività dell’albergo A rispetto alla
redditività dell’albergo B senza tener conto che ci sono delle distorsioni collegate al fatto che
l’albergo B calcola le quote di amm.to su un valore più storico, un valore più basso rispetto
all’albergo A. Io devo rendere dal punto di vista gestionale risultati che siano il più possibile
omogenei e comparabili fra loro.

1) NO COSTO STORICO —> VALORE CORRENTE/VALORE A NUOVO (costo di riacquisto/costo di


riproduzione/costo storico annualmente rivalutato con coefficiente)

La seconda possibile forte interferenza è quella collegata alla determinazione della vita utile:
perché se io la vita utile l’ho fatta collegare a considerazione di carattere fiscale non va bene: io
devo, a fini interni, ricostruire il piano di amm.to (tanto non ho un problema di ripresa a tassazione
se uso coefficienti diversi da quelli fiscali) facendo riferimento a quella che io penso
effettivamente che sarà la vita utile di quel bene. Quindi non dovrebbe succedere dal punto di vista
gestionale che io possa avere ancora un bene in uso quando la procedura di amm.to è stata completata.
Nel momento in cui la procedura di amm.to sia stata completata quel bene sarebbe da prendere e buttare
via. Se il bene è ancora in uso qualcosa non ha funzionato.

Non si può calcolare il costo di produzione di un servizio o di un prodotto dicendo che non c’è quota
di amm.to perchè se il bene civilisticamente e fiscalmente è già stato completamente ammortato, quel
bene lì è come se non esistesse più. Quindi se vado a fare la somma dei costi per determinare quello
che è il costo del servizio o del prodotto, quell’addendo lì non c’è più. Quel bene già ammortato ma
ancora in uso concorre alla generazione di ricavi senza che per esso a C.E. sia più possibile imputare
un costo.

2) IO DOVREI ANDARE A STIMARE QUELLA CHE É L’EFFETTIVA VITA UTILE DEL BENE RISPETTO ALLE MIE
MODALITÀ DI UTILIZZO: SU QUESTO VADO A RIPARTIRE IL VALORE, NON PIÚ COME COSTO STORICO, MA
COME COSTO A NUOVO

INFINE c’è il criterio di riparto: nella maggior parte dei casi si sposa anche ai fini interni un
criterio a quote costanti perché è più semplice e consente di fare dei raffronti fra un mese e i
precedenti, fra gli anni e i precedenti; però non è detto: potrei avere dei beni a rapida obsolescenza
(computer ad alte prestazioni) per cui se questo bene in tre anni smetto di utilizzarlo perché diventa
obsoleto, non è sbagliato che il 50% del valore complessivo lo carichi il 1° anno —> amm.to a quote
decrescenti.

Si segnala che vi sono realtà particolarissime per le quali la quota di utilizzo del fattore produttivo
durevole su base annuale può essere misurata oggettivamente (di solito non è così). In Pianura Padana di
solito le discariche regolari sono a cielo aperto: si faceva un bel buco, si asportavano sabbia e ghiaia
e rimaneva il buco. Qualcuno ha pensato che il buco potesse contenere materiale di scarico: quello che si
fa oggi è di preveder un certo tipo di protezioni (telone termosaldato) e viene fatto una sorta di catino
impermeabile per evitare che finiscano dentro delle sostanze che generino percolato (sostanze tossiche
che se scendono vanno a inquinare le falde acquifere). Quindi si ha un catino che ha una sua cubatura:
quello è un impianto; come si fa a sapere quanta parte della capacità produttiva di quell’impianto è
stata utilizzata quest’anno? Si può fare una misurazione fisica. Se la discarica può contenere 20
milionni di metri cubi di materiale e quest’anno sono stati conferiti 2 milioni di metri cubi di
materiale, vuol dire che si è saturato il 10% della capacità produttiva —> quota di amm.to pari al 10%
del valore dell’impianto.

Fino ad ora si è parlato di quote annuali. Tuttavia, io le elaborazioni le faccio su base mensile o
comunque infra-annuale: quindi io devo capire qual è la quota, della quota annuale coì determinata,
da mettere sul mese di ottobre per esempio. Come si fa? Qui devo usare dei criteri di ripartizione.

Se io sto facendo nel corso dell’anno normali turni e la attività lavorativa è su 8 ore giornaliere
per 5 giorni settimanali tutti i mesi su un turno e ad agosto siamo chiusi, come potrei calcolare la
quota di amm.to del mese di ottobre? Ho trovato il valore annuale: come posso dal valore annuale
passare a quello mensile? Divido per 11 perché non posso imputare costi al mese in cui non c’è attività

Un’altra opzione si potrebbe avere ponderando le quote di amm.to sulla base del diverso consumo mensile.
Se per determinati periodi il bene di uso durevole viene usato più intensamente e in altri periodi meno,
io vado a fare una ponderazione sulla base di quelle che sono non i giorni di utilizzo ma addirittura le
ore di utilizzo.
Ho lanciato un prodotto nuovo; all’inizio non aveva preso più di tanto, poi il mercato lo scopre; ho una
forte richiesta; nei mesi in cui avevo più bassi volumi di produzione, quindi più bassi volumi di
attività, quindi più bassi volumi di utilizzo la quota di amm.to dovrebbe essere un po’ più bassa.

La quota di amm.to annuale quindi deve essere calata sui singoli periodi tenendo conto della o costanza
o fluttuazioni che può avere l’utilizzo del fattore durevole.

Se invece il bene è stato ottenuto in affitto cosa succede?


Ho un capannone in affitto; ho un costo annuale che è dato dal fitto passivo (B8 “godimento beni di
terzi”). Quel costo lì va bene per le finalità di CoA? Il problema è dato dal fatto che quel costo
possa non essere in linea con quelle che sono le condizioni correnti/aggiornate. Normalmente però nei
contratti d’affitto c’è una clausola che prevede una rivalutazione dei canoni d’affitto sulla base
degli indici ISTAT. Le clausole di rivalutazione previste dal contratto ci aiuterebbero a ottenere una
maggiore aderenza fra quello che è il costo che sostengo su base contrattuale rispetto al costo che
sosterrei oggi se andassi a rinegoziare quel contratto. Ma il problema è: a prescindere dal costo che
io solitamente sostengo, che ho contabilizzato in contabilità generale, se questo fattore produttivo lo
acquisissi oggi alle medesime condizioni, il canone d’affitto sarebbe lo stesso? Se risultasse più alto
io dovrei, per avere un dato che sia più attendibile fare riferimento ad un valore aggiornato. Però qui
l’effetto distorsivo è minore: i contratti d’affitto hanno una loro durata e in più possono essere
disdettate.

Devo cercare di vedere qual è il costo che oggi sosterremmo se ci dovessimo riapprovvigionare di quel bene
a condizioni di mercato, in questo caso attraverso un contratto di locazione. Normalmente il costo che
rilevo contabilmente va bene, soprattutto nella misura in cui ci siano clausole che prevedano il
riallineamento del valore di costo per effetto di dinamiche inflattive

Per il canone leasing ho un meccanismo simile con un’avvertenza: nel canone leasing sono comprese due
componenti. Col leasing posso dotarmi di un bene strumentale senza dover sopportare un esborso, un
impatto finanziario come quello richiesto dall’affitto. Però questa è un’operazione mista: il soggetto
che mi dà il bene in leasing, da un lato, mi fornisce un bene con determinate caratteristiche; ma
dall’altro, indirettamente mi sta finanziando.

Leasing finanziario —> un soggetto acquista per me un bene con determinate caratteristiche e me lo
concede in leasing (ma è lui che ha tirato fuori i soldi per comprare quel bene); io ne ho l’uso
(ricadono su di me le responsabilità collegate all’utilizzo del bene). Perché sia remunerativa questa
operazione per il soggetto che concede un bene in leasing bisogna che il canone ricomprenda, oltre al
deperimento/consumo del bene che si ha attraverso l’utilizzo (parte idealmente collegata alla quota di
amm.to —> quel bene attraverso l’utilizzo perde di valore)[costo che l’azienda avrebbe sostenuto se quel
bene l’azienda l’avesse comprato lei]anche gli interessi. L’altro soggetto che concede il bene in
leasing, comperandolo ha fatto un investimento di tipo finanziario (impiegato risorse finanziarie).

Gli interessi vanno a ristorare il soggetto che ha comperato il bene e lo ha dato in utilizzo all’impresa
utilizzatrice e riflettono quel finanziamento indiretto che si ha con l’operazione di leasing.

Il canone leasing quindi si compone di due parti: una parte è un costo operativo; l’altra parte è un
costo finanziario. Ma se io voglio calcolare il solo costo di produzione, in teoria, dovrei considerare
del canone leasing soltanto la componente di costo operativo. La parte collegata agli interessi passivi
dovrebbe essere scorporata e dovrebbe essere collegata agli oneri finanziari.

All’interno del canone leasing c’è quindi una componente finanziaria più o meno rilevante; questa
componente finanziaria ha a che fare con gli interessi passivi e non coi costi operativi. Se io voglio
calcolare il mio costo di prodotto non ci devo mettere tutto il mio canone leasing ma solo la parte che
ha a che fare con la gestione operativa; l’altra parte ha a che fare con le scelte di finanziamento che
l’impresa fa. L’impresa ha fatto una scelta di costi benefici: ha preferito avere il bene in leasing
piuttosto che accendere un mutuo col quale ottenere le risorse con cui comperare il bene, perché è più
conveniente.

Se io avessi acceso un mutuo, io avrei una quota d’ammortamento e avrei degli oneri finanziari: dentro al
leasing nel canone ci sono le due quote che ai fini interni dobbiamo tenere distinte.

Ai fini IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive —> imposta che colpisce il valore aggiunto che
colpisce non il processo di consumo ma quello di produzione del Valore Aggiunto) gli interessi passivi
non possono essere deducibili.

CONTO ECONOMICO ALLA TEDESCA


CAGATE
DIPENDENTI —>
DIPENDENTI —> COSTO DELCOSTO
LAVORO
DEL LAVORO
IRAP

- ^
CONSUMI

-
- MATERIE PRIME
TERZI FIN. ESPL. —> ONERITERZI
FINANZ.

= fate
- SERVIZI FIN. ESPL.
- AMM.TI E

PIL ACCANTONAMENTI —> ONERI


FINANZIARI
C

VAN C
STATO —> IMPOSTE

Atee
STATO
—> IMPOSTE
SOCI/IMPRESA
—> UTILE
SE L’IRAP COLPISCE IL VALORE AGGIUNTO IO NON POSSO ACCETTARE CHE AI FINI IRAP SIANO DEDUCIBILI I
COSTI DEL LAVORO E GLI ONERI FINANZIARI; PERCHÉ SE IO AL VALORE AGGIUNTO TOLGO COSTO DEL LAVORO
E ONERI FINANZIARI NON É PIÚ VALORE AGGIUNTO MA É UNA BASE IMPONIBILE CHE SI ASSOMIGLIA MOLTO AL
RAI, CHE É GIÁ L’ELEMENTO DI PARTENZA PER LA DETERMINAZIONE DELLA BASE IMPONIBILE AI FINI IRES
(IMPOSTA SUL REDDITO DELLE SOCIETÀ.

La parte di leasing non collegata agli oneri finanziari dunque non è da collegarsi al costo del prodotto
perché quella quota lì è qualcosa che esce dai costi operativi (ha a che fare con quelli finanziari).

Ovviamente il costo da considerare come di competenza potrebbe presentare delle difficoltà: è il caso
della maxirata. Io bisogna che determini un costo che è un costo di competenza. Devo normalizzare i
costi sostenuti rispetto a quello che è l’effettivo utilizzo che faccio di quel bene.

Se si tratta di un contratto di leasing molto lungo (immobiliare) si potrebbe porre il problema di


ridefinire quello che sarebbe oggi con le condizioni attuali il costo di un eventuale canone leasing se
io andassi a rinegoziare il contratto. Tuttavia, si ricorda che le maggiori distorsioni le abbiamo con
gli amm.ti.

Non c’è però soltanto un costo collegato alla quota di amm.to: ci sono anche altri costi che sono
legati alle RIPARAZIONI o alle MANUTENZIONI
La riparazione è un intervento che si cerca di evitare facendo la manutenzione programmata.

La riparazione è un intervento che si fa per ripristinare una funzionalità d’uso che è venuta meno per
effetto di un guasto, evento inatteso.

Il costo di una riparazione è un costo di esercizio; è un costo aggiornato che può finire all’interno
del costo di produzione.

Per quanto attiene alle manutenzioni ordinarie (quelle che fai ogni anno)?
Il costo di manutenzione ordinaria è un costo anch’esso di esercizio.

Ci sono però beni che, per le loro caratteristiche intrinseche, come navi e aeromobili oppure grandi
impianti industriali e altiforni, per poter essere assoggettati a tutte le manutenzioni necessarie
devono essere distolti dall’attività produttiva per periodi significativi.

Es: cargo —> nave da trasporto


Dopo un anno sotto lo scafo si cominciano a produrre tutto una serie di concrezioni: uno scafo
incrostato è uno scafo meno filante; per mantenere la stessa velocità si è costretti a consumare più
carburante. Di più: prima o poi si deve fare una revisione all’apparato motore o all’apparato radar. Ci
sono interventi manutentivi che si possono fare anche con la nave in utilizzo, ma se bisogna fare la
revisione dell’apparato motore o timoneria o apparato radar o pulire la carena, queste attività perché
avvengano bisogna mettere le navi in un bacino di carenaggio.

Si può mettere una volta all’anno la nave in un bacino di carenaggio per eseguire queste pulizie? É
eccessivamente oneroso; quindi si prevede che tutta una serie di attività di manutenzione vengano
concentrate in un periodo che ha una cadenza ultra-annuale.

Ogni 3 anni per es. ritiri per qualche tempo dal servizio attivo la nave: questo bene non produce e tu
concentri quei lavori; ma se il lavoro è di pulizia dello scafo tu non stai aggiungendo del valore, ma
stai semplicemente ripristinando una funzionalità d’uso che è venuta via via meno non per effetto di un
guasto ma per effetto del fatto che lo scafo si è sporcato; se fai la revisione dell’apparato motore
stai facendo una manutenzione ordinaria anche se la fai con ciclicità annuale.

Questo costo contabilmente va gestito così: devo fare un fondo per manutenzioni cicliche (f.do per spese
future —> B4 Passivo S.P.)

Nel momento in cui il bene entra in funzione il bene è nuovo e non ci sono particolari disgrazie: io
però dovrei definire fra quanti anni dovrò fare questi lavori di manutenzione. Sono io che lo decido
sulla base delle modalità di impiego del mio bene.

Supponiamo di fare questo intervento di manutenzione tra 4 anni: devo innanzitutto stimare quanto penso
di spendere per eseguire da lì a 4 anni tutti i lavori di manutenzione previsti; dopodiché, se le
modalità d’uso sono costanti dovrei dire che 1/4 della somma che spenderò tra 4 anni è di competenza di
questo periodo —> faccio quindi un accantonamento al f.do manutenzioni cicliche.

Nel 2° anno devo ripetere la stima; il costo da sostenere finanziariamente al 4° anno nel frattempo
potrebbe essere cresciuto. Quindi vado a determinare la quota di competenza dell’anno, che sarà pari a
1/4 del totale che penso di spendere; se però nel frattempo è cresciuto devo fare anche un’integrazione
dell’accantonamento che ho fatto nel 1° anno, perché sono a metà del periodo e l’ammontare del periodo e
quindi l’ammontare complessivamente accantonato dev’essere pari al 50% della cifra che penso di
spendere.

Alla fine, quando faccio effettivamente i lavori, utilizzo il f.do ed eventualmente avrò il costo che è
di competenza di quel periodo lì (quello per il quale non faccio in tempo a fare l’accantonamento). Però
se il lavoro è un lavoro soltanto di manutenzione ancorché ciclica, il costo da considerarsi come
accantonamento della quota operato ogni anno è un costo che può confluire nel costo dei servizi (del
servizio di trasporto che io sto computando): è un costo ordinario, è un costo di esercizio, è un costo
stimato però è d’esercizio. Mediamente però quando ho la nave nel bacino di carenaggio, potrei cogliere
l’occasione per fare anche altri interventi che potrebbero essere di miglioria -> interventi per effetto
dei quali il bene acquisisce caratteristiche diverse e migliori rispetto a quelle che aveva in
precedenza. Quindi il costo per queste migliorie è un costo che non può essere considerato come
d’esercizio: è un costo che dovrebbe essere portato ad incremento del valore del bene, successivamente
riassorbito attraverso una revisione del piano di amm.to.
Anche tutti questi costi qui potenzialmente entrano nel computo dei cd. costi di utilizzo dei fattori
produttivi durevoli: non c’è soltanto la quota di amm.to.

RIPARTIZIONE DEI COSTI INDIRETTI ATTRAVERSO LE CD. METODICHE TRADIZIONALI

· CRITERI DI RIPARTIZIONE

Esistono una pluralità di criteri di ripartizione.

Es: come ripartire i costi di riscaldamento di un locale —> metri quadri/cubi —> se abbiamo un unico
costo di riscaldamento per tutto il plesso dovremmo trovare dei coefficienti di correzione per
quanto riguarda i metri cubi (vi sono locali solo di transito)

I criteri di ripartizione possono essere ricondotti a due macro-tipologie:

1) criteri tecnico-obiettivi —> tipologia più usata

2) criteri graduato - soggettivi (o commerciali)

1) criteri tecnico-obiettivi

Il criterio di ripartizione fa riferimento ad un input o ad un parametro rispetto al quale possa


individuarsi una relazione di causa, uso o beneficio.

Es: nel ripartire il costo di riscaldamento sono stati assunti come parametro i metri cubi

Stando su situazioni più tradizionali, a questa prima famiglia fanno tipicamente riferimento i consumi
di materie prime, il lavoro e altre situazioni simili.

Supponiamo di dover ripartire dei costi che sono collegati al processo produttivo. [ripartire —> costi
indiretti; i costi diretti non hanno un problema di ripartizione perché vengono riferiti direttamente ai
prodotti]

Devo ripartire dei costi di lavorazione; non voglio usare metodiche particolarmente sofisticate; il
fattore produttivo più importante impiegato nei miei processi produttivi sono la materie prime; io
potrei usare come driver per ripartire i costi indiretti di lavorazione le materie prime.

Supponiamo che si utilizzi una sola materie prima per ottenere 3 tipologie di prodotto. Io uso del
granulare plastico per ottenere 3 oggetti diversi, 3 tipi di prodotto, che però sono sempre fatti di
plastica. A questo punto io potrei decidere di ripartire i costi indiretti sulla base della percentuale,
se la materia prima è la stessa, dei consumi di materie prime riferiti ad A, B, C.

Io ho 100.000 € di un costo di lavorazione da ripartire; ho consumato per semplicità di calcolo 100


quintali di materie prime; nell’infra-periodo considerato ho consumato in tutto 100 quintali di materie
prime —> quintali —> sto usando un parametro fisico.

La materia prima è la stessa sia per A che per B che per C.

Di questi 100 quintali di materiale plastico:

- 50 consumati per il prodotto A —> 50% delle materie prime consumate per ottenere A

- 35 consumati per il prodotto B —> 35% delle materie prime consumate per ottenere B

- 15 consumati per il prodotto C —> 15% delle materie prime consumate per ottenere C

Se volessi utilizzare come driver questo parametro, quindi la ripartizione dei costi indiretti sulla
base della quantità di materie prime consumate, dovrei prendere 100.000 €, dividerli per 100 quintali:
trovo la quantità di costi indiretti che va associata ad ogni quintale. 100.000 € / 100 = 1.000.

Ogni quintale di materia prima idealmente si porta dietro 1.000 di costi indiretti di lavorazione. Un
prodotto ha assorbito 50 quintali, quindi il 50% di tutto: il costo idiretto da attribuire a questo
prodotto sarà pari a (50 quintali x 1.000 costo che ogni quintale si porta dietro di costi indiretti;
oppure 100.000 x 0,5) 50.000 € —> se li prende il prodotto A; il prodotto B : 35.000; il prodotto C:
15.000.

Se invece vengono utilizzate materie prime differenti per A, B, C, il parametro quantità fisica non va
più bene perché il parametro fisico non è più omogeneo. Il prodotto C per esempio potrebbe avere 15
quintali solo come consumo fisico di materie prime, ma se quella materia prima è più costosa rispetto
alle altre non posso ragionare in termini di quantità fisiche.
In questo caso il riferimento sarebbe sempre alle materie prime, come criterio di riparto, ma non come
riferimento ai volumi/quantità fisiche di materie prime, ma al costo del consumo di materie prime.

Rimanendo ai numeri di prima e limitandosi alla produzione C, se la produzione C ha consumato il 15% di


materia prima, ma in termini di valorizzazione complessiva dei consumi di materie prime quel 15% ha
comportato un 25% del costo delle materie prime complessivamente sostenuto nel periodo, se io passo dal
parametro fisico al parametro economico, il prodotto C non si prende più il 15% dei 100.000 di costi
indiretti, ma si prenderebbe il 25%: 25.000.

Io ho dei processi di lavorazione in cui utilizzo: lamiera zincata, alluminio, rame.

Le grondaie possono essere fatte in diversi materiali. I profilati possono essere fatti allo stesso
modo; il processo di lavorazione potrebbe essere assolutamente identico; tu ottieni oggetti
assolutamente uguale, ma con materiale che è diverso.

Al quintale però costa di più il rame. Subito dopo il rame viene l’alluminio. Da ultimo la lamiera
zincata.

- prodotto A —> grondaie di lamiera zincata

- prodotto B —> grondaie di alluminio

- prodotto C —> grondaie in rame

Sarebbe ingenuo fare il calcolo sulla base di quintali di materia prima consumata, perché la materia
prima non è omogenea; il costo del rame è un multiplo del costo della lamiera zincata.

Quindi sono sempre sulle materie prime; ma, anzichè ragionare in termini di volumi fisici, consumi
fisici, io devo valorizzare i consumi per parametro economico, trovare il costo delle materie prime
consumate. Quindi la logica rimane simile, però le ripartizioni sarebbero differenti rispetto a quelle
prefigurate prima, se il prodotto C è quello che riguarda le grondaie in rame.

Sto sempre facendo riferimento ad un input: materie prime. Questo input lo posso assumere in certe
condizioni in termini di quantità fisica; in altre condizioni in termini di quantità economica.

Se invece il processo produttivo fosse fortemente connotato dall’impiego di Mano d’Opera Diretta (MOD),
quindi fosse quello il fattore produttivo più importante, potrebbe non essere sbagliato per ripartire
alcuni costi ragionare in termini di MOD come driver (= criterio di riparto).

Anche qua però si potrebbe riproporre lo stesso problema: se la MOD che io utilizzo fa riferimento ad
un’unica qualifica professionale (gli operai che lavorano per ottenere il prodotto A hanno lo stesso
standing/profilo professionale di quelli che lavorano al prodotto B e di quelli che lavorano al
prodotto C) a questo punto potrei ragionare in termini di ore di lavoro —> faccio riferimento al
parametro fisico.

Se, invece, il personale che utilizzo per una determinata area di attività, per il prodotto B, è molto
più qualificato (perché richiede un processo di lavorazione molto più complesso, che richiede di avere
maestranze altamente qualificate) non avrebbe senso ragionare in termini di parametro fisico. Dovrei
ragionare non più in ore di lavoro diretto, ma nel costo del lavoro diretto: i rapporti si potrebbero
modificare.

Supponiamo che io debba spedire dei beni a Napoli; ho un mezzo mio; carico sul cassone coperto del mio
mezzo pesante dei prodotti di tre tipi: A,B,C

Questi costi di trasporto -supponiamo di voler utilizzare una configurazione di costo piuttosto
completa e che quindi, a livello di costo di prodotto, non riguardi soltanto i costi industriali, ma
anche i costi commerciali e di tipo distributivo- che si riferiscono al trasporto da Bologna a Napoli,
io sono in grado di quantificarli: ci vanno dentro dei costi diretti (autostrada, costo collegato al
consumo del carburante) rispetto all’oggetto di riferimento, trasporto da Bologna a Napoli.

Ma se io volessi calcolare nel modo più completo possibile questo costo ci dovrei mettere dentro anche
una quota del costo che io sostengo in relazione all’addetto al trasporto —> questo riesco a farlo —>
conosco il costo medio orario onnicomprensivo —> so quante sono le ore necessarie per l’andata e il
ritorno

Poi c’è il problema anche del mezzo —> io sto in qualche modo consumando il mezzo —> dovrei definire
quello che è il costo al km di un determinato automezzo

Supponiamo di avere il dividendo: quella che era la nostra incognita è diventata la quantità da
ripartire fra A,B,C.
Una volta trovato questo costo come faccio a ripartirlo fra A, B e C?
A seconda di quanto di A, di B o di C ho all’interno del cassone potrei andare a ripartire; questo
quanto come lo potrei esprimere? Devo vedere qual è il fattore limitante: perché potrei avere degli
oggetti che magari non sono molto voluminoso ma sono pesanti (quindi saturo la capacità di carico
attraverso il peso, sulla base della portanza). Se fosse questo il fattore limitante noi dovremmo
(criterio tecnico-obiettivo) andare a vedere qual è il peso complessivamente caricato a bordo e
dovremmo andare ad esprimere percentualmente il peso del prodotto di tipo A, di tipo B o di tipo C.

Se il prodotto del tipo B ha assorbito il 37% del peso complessivo, quindi della capacità di carico, il
37% del costo di trasporto se lo prende questo prodotto.

Se invece sono oggetti poco pesanti la saturazione della capacità di carico potrebbe avvenire non per
via del peso, ma per via dei volumi. A quel punto il driver rimane sempre quello collegato alla
saturazione della capacità di carico; ho un rapporto di uso-beneficio; però dovrei riesprimere tutto in
termini di volumi
Questi sono dei criteri che cercano di mantenere un collegamento con un fattore produttivo o un fattore
limitante, cercando un qualche rapporto di utilizzo, beneficio, causalità fra quello che è il costo da
ripartire e il criterio di ripartizione.

2) CRITERI GRADUATO-SOGGETTIVI (O COMMERCIALI)

Il riferimento non è più all’input, ma all’output. Per esempio si suppone che i prodotti che hanno
generato i maggiori ricavi siano in grado di assorbire una maggiore quantità di costi.

ESEMPIO 1
Ho dei costi di una campagna pubblicità.

[Una campagna pubblicitaria può riferirsi a uno specifico prodotto —> costo di
pubblicità da considerarsi come diretto rispetto a quello specifico prodotto;
altre volte la campagna pubblicitaria può avere a che fare con alcuni modelli
—> il costo pubblicitario non si riferisce a tutti i prodotti dell’azienda, ma
a quel numero limitato di prodotti oggetto della campagna —> costo da
ripartire fra gli oggetti interessati; altre volte vi sono campagne
pubblicitarie generaliste, volte al sostegno del marchio, non dello specifico
prodotto/tipologia di prodotto —> classico costo indiretto]

Supponiamo che il costo della campagna pubblicitaria sia a sostegno del


marchio e non di uno specifico prodotto o famiglie di prodotti.

Il costo che io debbo ripartire (1.000) vado a ripartirlo così: C ha generato


il 40% del fatturato quindi si suppone che C abbia una maggiore capacità di
assorbimento del costo rispetto ad A e a B —> ci si prende il 40% del costo da
ripartire (400); il 35% se lo prende B; il restante 25% va attribuito ad A.

Io no so che se sia o meno vero che per effetto di quella campagna


pubblicitaria ho favorito più C rispetto ad A oppure a B? No. Io presumo che
dove c’è più fatturato vi sia più capacità di assorbimento di questi costi.

Quindi un tipico criterio sulla base del quale si traduce concretamente questa
seconda famiglia dei criteri graduato-soggettivi (o commerciali) è quella di
ripartire sulla base del fatturato.

Un altro modo potrebbe essere il seguente: ai ricavi di vendita, io tolgo i


costi diretti (se un costo è diretto vuol dire che non è influenzato dai
criteri di ripartizione.

RICAVI (FATTURATO)

TOT A B C

10.000 2.500 3.500 4.000


- COSTI C.P. - 1.000 (250) (350) (400)
- COSTI DIRETTI - 4
3.000
5Mai
(500) (2.000) (2.500)
MARGINE SUI
COSTI DIRETTI 5.000 2.000 1.500 1.500

Supponiamo che i costi diretti siano pari a 500 per A, 2.000 per B,
2.500 per C —> tot 5.000

Troverei un margine sui costi diretti, complessivamente pari a 5.000


dati per 2.000 da A, per 1.500 da B e per altri 1.500 da C
A questo punto non andiamo più a ripartire sulla base dei ricavi di vendita ma sulla base del margine
sui costi diretti. Vedo che questa volta il 40% del mio margine è stato generato da A e quindi A si
prenderebbe il 40% di quei 1.000; e un 30% B, 30% C.

I valori sono diversi rispetto a prima.

Pur rimanendo all’interno della stessa famiglia, criteri graduato-soggettivi o commerciali, non è la
stessa cosa se questi 1.000 li vado a ripartire sul fatturato o se questi 1.000 li vado a ripartire sul
margine che ho al netto dei costi diretti.

Nel 1° caso, quando usavo il fatturato, A si vedeva attribuito il 25% —> 250 di costi
Se io invece uso come criterio di riparto il margine sui costi diretti, A si prende il 40%.

Nel primo caso, a parità di ogni altra condizione, supponendo di trattare in modo uniforme tutti gli
altri costi, A si vedrebbe attribuire un risultato netto più alto di quello che si vedrebbe attribuire
un risultato netto più alto rispetto invece a quello che si vedrebbe attribuire se utilizzassimo come
criterio di riparto il margine sui costi diretti: non è la stessa cosa.

Queste sono elaborazioni che io svolgo tipicamente ai fini del controllo.

Se i dati sul quale io ragiono sono dati mal determinati, ottenuti con una certa leggerezza, io rischio
di credere che talune cose vadano bene quando in realtà quelle cose non stanno andando bene; vanno bene
soltanto perché io ho attribuito i costi in un certo modo piuttosto che in un certo altro.

Quelli visti non sono gli unici due criteri che si riconducono operativamente a questa famiglia, però
si ricorda che in questa seconda famiglia io faccio riferimento all’output.

Qui si è fatto riferimento agli output economici (fatturato); si sarebbe potuto utilizzare anche il
volume di produzione, vale a dire le quantità prodotte; ma se le quantità prodotte fanno riferimento a
beni con caratteristiche diverse, in questo caso io potrei avere fenomeni sovvenzionali.

Si prendano due prodotti diversi, uno dei quali è più complicato da ottenere: fare riferimento ai
volumi di produzione ddi A + B sarebbe un errore, perché in realtà uno dei due prodotti ha assorbito
più energie/risorse dell’altro. In termini di volumi, i 1.000 pezzi prodotti in un certo arco di tempo
di un prodotto non sono pari ai 1.000 pezzi ottenuti del prodotto più difficile da ottenere come
impegno. Sono due oggetti differenti: non ha senso fare riferimento all’output in questo caso in
termini fisici considerandolo come equivalente. É sbagliato dire: la produzione di A + B è stata di
2.000 pezzi: 1.000 —> A, 1.000 —> B; ripartisco i costi con un 50 e 50. Si parla di prezzi prodotti ma
in realtà si dovrebbe dire quantità vendute —> output non valorizzato a ricavo in termini economici ma
valorizzato in termini di quantità vendute
Divido i costi della campagna promozionale 50 e 50 perché sono 1.000 pezzi uno e 1.000 pezzi l’altro
—> non va bene: sono pezzi differenti.

Di criteri di riparto c’e n’è tanti.

L’output può essere dunque espresso in chiave economica attraverso un fatturato; potrebbe essere
espresso attraverso un margine il più possibile oggettivo; potrei avere anche un’espressione in
termini di volumi di vendita (quantità fisiche vendute).

In questa seconda famiglia di criteri il rischio di avere quel fenomeno distorsivo detto di
SOVVENZIONE INCROCIATA è tendenzialmente più forte.

QUALI SONO STATI NEL TEMPO I METODI PER LA GESTIONE DEI COSTI INDIRETTI?

C’è stata un’evoluzione. Nel rapporto fra capitale e lavoro, le due precondizioni perché si possa avere
un qualunque processo produttivo, fino agli anni ‘70 prevaleva nelle imprese manifatturiere il lavoro:
io avevo relativamente meno bisogno di impianti e macchinari sofisticati, quindi capitale, e utilizzavo
diffusamente e più intensamente il lavoro. A mano a mano che la tecnologia ha fatto passi in avanti e
sono cambiate anche le esigenze della clientela (la clientela è diventata più esigente) e il contesto
competitivo è diventato più severo, le cose sono andate via via modificandosi in termini generali: oggi
mediamente si usa di più il capitale rispetto al lavoro.

Il progresso tecnologico nel settore manifatturiero ha espulso forza lavoro. Hai bisogno di meno addetti
anche se hai bisogno di addetti più specializzati.

Oggi per le imprese industriali il fattore lavoro, in termini di incidenza, peso di meno rispetto al
capitale.

Nel terziario pure le cose si stanno modificando: le banche hanno persone di meno dipendenti, ma più
qualificati.

Questi cambiamenti hanno pesantemente modificato il rapporto fra COSTI DIRETTI e COSTI INDIRETTI.
Nel momento in cui tu prima usavi soprattutto MOD per ottenere i prodotti, pochi impianti, pochi e
semplici macchinari, il grosso dei tuoi costi era costituito da costi di diretta imputazione (materie
prime, costo del lavoro, altri costi diretti industriali).

Se ti dovevi gestire, a livello di totale, un 10/15% di costi indiretti e basta, se il costo dei
prodotti era dato per l’85/90% da costi diretti e per il restante 15/10% da costi indiretti, perché
sforzarsi tanto per individuare modalità ipersofisticate di imputazione dei costi indiretti?

Tanto la validità del dato era supportata dall’esorbitante incidenza della componente diretta; quindi la
prima modalità di imputazione, di ripartizione dei costi indiretti è stata quella della BASE UNICA
AZIENDALE.

La base unica aziendale funzionava così: i costi diretti vanno sui prodotti e tutte le tipologie di
costi indiretti venivano raggruppati in un unico coacervo, una sorta di aggregato estremamente
eterogeneo, dove dentro poteva esserci la retribuzione del direttore generale assieme ai costi di
illuminazione dei locali: tutti i costi che avevano come unico fattore comune quello di essere costi
indiretti venivano raggruppati; rispetto a questo unico raggruppamento io individuavo fra i tanti un
unico criterio di ripartizione (consumo delle materie prime, costo delle materie prime, costo della MOD,
ore di MOD) e andavo a ripartire questo aggregato di costi indiretti sulla base di un unico criterio,
appunto della base unica aziendale.
Quindi il mio costo di prodotto come emergeva? Avevo potenzialmente: costo diretto delle materie
consumate, costo della MOD, costo diretto per lavorazioni industriali esternalizzate —> TOT COSTI
DIRETTI + UNICA COMPLESSIVA QUOTA PER OGNI PRODOTTI DI COSTI INDIRETTI

Cambiando il criterio sarebbero cambiati i costi? Sì perché cambia la quota di costi indiretti. Se
passo dalle materie prime al costo del lavoro come criterio di ripartizione, il tot dei costi si
sarebbe modificato; ma non si sarebbe potuto modificare in modo drastico/radicale, perché
l’attendibilità del costo era in un certo senso “oggettivizzata” dal fatto che c’era un’ assoluta
prevalenza di costi diretti.

Quando il 90% dei costi è di diretta attribuzione, anche se sei grossolano sei grossolano sul restante
10%: non posso avere uno stravolgimento dei costi.

Però se io volessi separare i costi industriali dai costi commerciali e dai costi amministrativi, con
questa modalità non ho la possibilità di farlo.

Quindi la prima successiva evoluzione fu quella di adottare la BASE DUPLICE AZIENDALE —> uso 2 criteri
di ripartizione

Perché uso 2 criteri di ripartizione? Perché io non inserisco più in un unico contenitore tutti i costi
indiretti: quanto meno tengo separati i costi indiretti industriali (o di fabbricazione) dagli altri
costi indiretti.

Quindi: individuo 2 contenitori di costo —> in uno metto tutti i costi indiretti industriali (o di
fabbricazione); nell’altro , in via residuale, tutti gli altri costi indiretti; a questo punto devo
individuare 2 distinti criteri di ripartizione, perché se uso uno stesso criterio di ripartizione per
entrambi i miei raggruppamenti è come se io avessi mantenuto la base unica aziendale.

Quindi per ogni raggruppamento - in questo caso ne ho 2 - io debbo individuare uno specifico criterio di
ripartizione.

Però è ancora una modalità molto grezza. L’evoluzione successiva fu quella della BASE MULTIPLA
AZIENDALE.

Con la base multipla io vado da 2 compreso in poi.

Potrebbe capitare di leggere che la metodica della base multipla aziendale è una metodica molto
semplificata, grossolana. In realtà è discutibile. Se infatti individuo tre raggruppamenti di costo
forse sì. Se io ho il raggruppamento dei costi industriali indiretti, dei costi commerciali indiretti,
dei costi amministrativi indiretti ho 3 raggruppamenti e basta; per ognuno di questi raggruppamenti
individuo uno specifico criterio di ripartizione —> non è una metodica particolarmente sofisticata.

Ma multiplo non vuole dire necessariamente 2/3, ma vuole dire da 2 a n.


Se io infatti utilizzassi 100 diversi raggruppamenti di costi indiretti, vorrebbe dire che organizzo i
miei costi indiretti in 100 raggruppamenti specifici; e per ognuno di questi raggruppamenti individuo
quel particolare criterio di ripartizione che mi sembra rifletta meglio la situazione aziendale. Non può
certo dirsi grossolano o semplificato un tale metodo.

[Sotto un determinato aspetto, anche l’ABC è una base multipla aziendale: è una variante sofisticata
della base multipla aziendale; e l’ABC continua ad essere considerata come la forma più avanzata di
gestione dei costi indiretti]

Se io uso la base multipla aziendale limitatamente a 3 tipologie di costi indiretti, rispettivamente


industriali, commerciali e amministrativi, che cosa posso fare? Come potrebbe essere il mio costo? Io
potrei avere: costi diretti industriali cui sommeremmo una quota di costi indiretti (costi che sono
l’esito di un processo di ripartizione —> esito di una qualche scelta che è per forza di cose, in un
certo senso, discrezionale) [i costi diretti sono riferiti immediatamente al prodotto; i costi indiret-
ti, invece, sono gestiti attraverso delle opzioni]

Con questa prima somma potrei definire quello che è il mio costo industriale; poi al costo industriale
cosa dovrei sommare se voglio una configurazione più completa? I prodotti è auspicabile che io li riesca
a vendere: quindi sommo i costi diretti commerciali [es. di costo diretto commerciale è il costo della
spedizione se ho spedito solo quel bene particolare; altro esempio è la provvigione che riconosco al mio
agente monomandatario —> per ogni 100 € di fatturato mi si genera un costo pari al 2, 3,5% pattuito];
sommo inoltre (ciò che avrò più frequentemente) quote di costi indiretti commerciali; mancano ora i
costi amministrativi che per lo più sono indiretti. Non posso escludere a priori che non vi possano
essere dei costi diretti amministrativi, però si tratta di una fattispecie estremamente rara: io dovrei
avere un dipendente che si occupa solo e soltanto di quel prodotto].

Non si confondano i costi amministrativi coi costi generali aziendali. Gli interessi passivi e gli oneri
finanziari non sono un costo amministrativo, ma un costo generale aziendale. Le imposte sul reddito cosa
sono? La base imponibile dell’IRAS è riferita al totale delle attività aziendali: quindi le imposte sono
anch’esse un costo generale aziendale.

Quindi se volessi una configurazione ancora più articolata dovrei sommare anche quote di costi generali
aziendali —> non ha senso che dica costi indiretti perché se sono generali quel “generali” implica anche
che questi siano costi indiretti.

Quindi se io avessi 4 raggruppamenti di costo (sono sempre nella base multipla) [costi indiretti
industriali, costi indiretti commerciali, costi indiretti amministrativi, costi generali aziendali] io
avrei già il minimo necessario di informazioni per avere una strutturazione di questo tipo, per quanto
riguarda anche il costo dei miei prodotti; se anziché 4 ne ho 40, a maggior ragione, se rifletto un
po’ questo tipo di scansione posso avere questo tipo di impostazione di informazioni.
COSTI DIRETTI INDUSTRIALI

+ Q. DI COSTI INDIRETTI INDUSTRIALI

= COSTO INDUSTRIALE

+ COSTI DIRETTI COMMERCIALI

+ Q. COSTI INDIRETTI COMMERCIALI


-
AMMINISTRATIVI

Q. COSTI
+ Q. COSTI GENERALI
INDIRETTIAZIENDALI
AMMINISTRATIVI

+ Q. COSTI GENERALI AZIENDALI

Già da 15 anni ti trovi ad avere situazioni in cui i costi indiretti sono nettamente la maggioranza
rispetto ai costi diretti: quindi non puoi più gestire la componente di costi indiretti in modo
garibaldino come si faceva in passato: basta che tu utilizzi un criterio in un modo un po’ più
disinvolto rispetto ad una situazione piuttosto che un’ altra che il totale dei tuoi costi si sposta in
modo molto significativo; quindi il tema della CoA, almeno dalla fine degli anni ‘70, con un crescendo
fino ad oggi, è diventato quello di trovare delle modalità che consentano di individuare i costi
indiretti da attribuire ai prodotti nel modo più aderente alla realtà fattuale.

La proposta dell’Abc nacque da una feroce critica che attorno alla metà degli anni ‘80 alcuni studiosi
statunitensi fecero nei confronti dei cd. metodi di tipo tradizionale, dicendo che la contabilità di
tipo tradizionale non solo era inutile ma pericolosa, perché forniva informazioni sbagliate che
potevano indurre a prendere decisioni sbagliate.

Però, né in Francia né in Italia le cose stavano in questi termini perché da tempo (anni ‘60/‘70) in
Europa segnatamente in Francia e in Italia avevamo adottato delle metodiche tradizionali, ma più
sofisticate per la gestione dei conti.

Mentre pare che fino alla prima metà degli anni ‘80 nei paesi anglosassoni e in particolare negli USA
fossero ancora molto in dietro per questo tipo di tematiche, in Europa non era così. In particolare in
Francia e Italia già dagli anni ‘60 erano state individuate delle metodiche di ripartizione dei costi
indiretti, per i tempi assolutamente sofisticate. L’oggetto che veniva utilizzato era il cd. CENTRO DI
COSTO.

In un’ottica di tipo tecnico-contabile i centri di costo sono la risposta più sofisticata, la


metodologia più sofisticata fra quelle tradizionali al problema dell’imputazione dei costi indiretti
sui prodotti.

Essi sono uno strumento che serve per attribuire ai prodotti i costi indiretti nel modo più possibile
aderente alla realtà.

I CENTRI DI COSTO

Possono essere intesi in 2 modi:

- centri di costo intesi come entità contabile —> come strumenti rispetto al processo
di costificazione dei prodotti —> CoA

- centri di costo intesi come unità organizzative —> come centri di responsabilità:
ottica nella quale si considerano questi centri nell’ambito del controllo di gestione,
in particolare del processo budgettario

In realtà questa dicotomia è più apparente che reale perché spesso l’unità
organizzativa è anche un’entità contabile oppure più centri di costo intesi come
entità contabili sono riconducibili ad una stessa unità organizzativa.

Supponiamo di avere un’azienda che attua il proprio processo produttivo attraverso 4


reparti: reparto stampaggio, reparto meccanica, reparto verniciatura etc.

Reparto stampaggio —> reparto quindi quel centro di costo è anche un’unità
organizzativa (centro di responsabilità).

Se mi servisse da un punto di vista contabile, io potrei però individuare la pressa numero 1


come centro di costo contabile, la pressa n.2 come centro contabile, la pressa n.3 come
ulteriore distinto centro contabile; dopodiché pressa n. 1, 2 , 3 confluiscono nel reparto
stampaggio; quindi si cerca sempre una riconciliazione fra quelli che sono i centri di costo
intesi come entità contabili con quelle che sono le unità organizzative: questo perché il
controllo di gestione è un controllo di gestione unico.
Qui si parlerà in via prevalente di centri di costo intesi come entità contabili: il tema che
affrontiamo non è quella di trovare delle unità di misura per la valutazione delle performance del
reparto stampaggio (controllo di gestione); il nostro problema è cercare di calcolare il costo di
prodotto nel miglior modo fra quelli possibili.

Il centro di costo viene considerato come una porzione dell’attività aziendale che risulti
ragionevolmente omogenea sotto un predefinito aspetto. Io vedo quindi il centro di costo come un’area
della complessiva attività aziendale, in cui viene svolta un’attività ragionevolmente omogenea rispetto
ad un determinato aspetto.

Es: la quota di amm.to di una pressa, sulla quale io posso inserire diversi stampi, rispetto al prodotto
A, B, C come si configura? É un costo indiretto; la quota di amm.to degli stampi invece è un costo
diretto —> con lo stampo A ottengo solo il prodotto A.

Tuttavia, l’espressione “diretto” o “indiretto” non è assoluta ma relativa: prima bisogna individuare un
oggetto di riferimento; dopodiché io posso dire se quel costo è un costo diretto o indiretto.

Il trucco è quello di frapporre fra i costi indiretti e i prodotti un ulteriore oggetto di riferimento,
che è costituito dai centri di costo.

Quindi quando utilizzo i centri di costo, ho una prima attività contabile che si chiama LOCALIZZAZIONE
DEI COSTI NEI CENTRI. Nel processo di localizzazione, tutti quei costi che sono per definizione
indiretti rispetto al prodotto, normalmente possono essere considerati come diretti rispetto ai vari
centri di costo.

Se io individuo il reparto stampaggio, il reparto stampaggio individua il centro dove viene svolta
l’attività di utilizzo delle presse; quel costo collegato all’utilizzo delle presse in relazione al
prodotto continua ad essere un costo indiretto, ma rispetto al reparto stampaggio questo costo diventa
un costo diretto.

Tutta una serie di costo che continuano ad essere indiretti rispetto al prodotto saranno invece diretti
rispetto alle diverse tipologie di centro.

COME POSSONO ESSERE CLASSIFICATI I CENTRI DI COSTO?

Ci sono almeno 2. almeno classificazioni rilevanti, che non sono alternative, ma potenzialmente
complementari.

1
2 La prima distingue i centri di costo sulla base dell’attività che in essi viene svolta.

Sulla base di questo io posso distinguere i centri di costo innanzitutto in FITTIZI e OPERATIVI.

Un centro di costo è operativo quando in questo c’è qualcuno che fa qualcosa, quando viene svolta una
qualche attività ad opera del personale dipendente dell’impresa.

Un centro di costo, invece, si dirà fittizio quando è un mero contenitore di costi: quando raccoglie
costi indiretti che però non sono riferibili ad attività o non sono riferibili ad attività svolte da
personale dell’impresa.

I centri di costo operativi possono essere ulteriormente distinti in: DIRETTI e INDIRETTI

Quelli diretti sono quelli nei quali viene svolta un’attività che è direttamente connessa col processo
produttivo (di fabbricazione se fosse un’impresa industriale) —> è lì che vengono prodotti i beni
destinati alla vendita. Se si ragionasse in termini di servizi è dai centri operativi DIRETTI che
vengono svolti quei servizi che poi vengono erogati alla clientela.

Evidentemente nei centri operativi indiretti viene svolta un’attività che però non è direttamente
connessa col processo produttivo: quindi io questi li devo ulteriormente distinguere in CENTRI DI COSTO
OPERATIVI INDIRETTI COMUNI o AUSILIARI.

Un centro di costo operativo indiretto si dirà ausiliario, quando l’attività che in esso viene svolta va
in via prevalente, non necessariamente esclusiva, a favore e a sostegno dei centri operativi diretti.

Un centro si definisce invece operativo indiretto comune quando vien svolta un’attività che in qualche
modo è riferibile alla totalità dell’impresa.

Per semplicità possiamo dire che sulla base di questa classificazione sono individuabili 4 tipologie di
centro:

- DIRETTI

- AUSILIARI

- COMUNI

- FITTIZI

ESEMPIO:

Ho un’impresa metalmeccanica che produce determinati oggetti (carrelli semoventi). I profilati li


compri , poi vengono tagliati, saldati e sagomati in un certo modo; infine ci sarà qualcuno che andrà
ad assemblare i pezzi. Le parti verranno a un certo punto o lavorate internamente a livello di
verniciatura/zincatura o fatte fare all’esterno.

Ci potrebbero essere: un reparto stampaggio, un reparto verniciatura, un reparto montaggio...


Intanto devo avere almeno 2 prodotti sennò tutti questi costi sono costi diretti. Nel reparto montaggio
ci sono dei soggetti che prendono le singole parti componenti e le assemblano; altrimenti compongono un
kit che inscatolano con le istruzioni e gli attrezzi.

REPARTO MONTAGGIO —> centro operativo diretto perché direttamente connesso con l’ottenimento del prodotto

Supponiamo che ci sia un reparto relativo alla manutenzione (prevalentemente macchinari) —> centro
operativo indiretto ausiliario —> attività svolta va prevalentemente a favore dei centri operativi
diretti (può capitare però che svolgano un’attività a favore anche di qualche altro centro operativo.

Se io avessi il centro di amministrazione —> centro operativo perché si svolge un’attività: è a supporto
dei centri operativi diretti? No —> centro comune

Centro sistema informativo aziendale —> centro operativo indiretto comune

Servizio Legale —> centro operativo indiretto comune

Costo del riscaldamento —> centro operativo fittizio

Se io avessi un reparto che si occupa della manutenzione del riscaldamento potrei avere un altro centro
comune; se invece questa è un attività che ho esternalizzato, non c’è un’attività svolta a fronte del
sostenimento di questo costo. Questo è un costo che l’azienda sostiene ma a fronte di un’attività che
non c’è e che è semplicemente il consumo di una risorsa: costo che va imputato a uno o più centri
fittizi.

Altro esempio: a Mediaset c’è un servizio di guardie giurate che fa da filtro. Se quel tipo di attività
lì venisse svolto con personale dipendente dell’impresa, il centro di sorveglianza come verrebbe
considerato? Sarebbe un operativo indiretto comune. Se quel servizio lì invece viene esternalizzato
quindi compro questo servizio da qualcun altro, sarebbe un centro fittizio —> non è operativo perché
non ci lavora gente mia

Quindi nei centri fittizi metto dei costi che l’impresa sostiene, ma che non sono riconducibili ad
attività svolte direttamente dall’azienda: o non c’è attività (riscaldamento) oppure l’attività quando
c’è è svolta da personale “esterno”.

NÈI
:*
2 La seconda classificazione distingue i centri di costo sulla base delle elaborazioni che avverranno
in seno ai centri di costo.

Dopo il processo di localizzazione, noi abbiamo delle elaborazioni che avvengono fra centri di costo.
Questa schematizzazione è da prendere e ruotare in senso orario di 90°: ci troveremmo ad avere prima i
centri diretti, poi i centri ausiliari, poi i centri comuni e infine avrei uno o più centri fittizi.

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.
#
Quali sono le voci di costo metto qui? Di quali costi stiamo parlando se uso questa sofisticata ancorché
tradizionale metodica? Costi indiretti

Per esempio potrei avere C. Del lavoro —> 1.000


Non è MOD perché quella ha generato costi che sono già su A, B, C

Questo è quel costo che viene sostenuto per il processo produttivo con riferimento ai centri di costo
diretti, ma anche all’interno del personale che lavora per altri centri operativi, ma che non genera un
costo riferibile come diretto rispetto al prodotto.

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Supponiamo di avere nei centri ausiliari uno specifico centro di manutenzione e riparazione: cosa
faccio? Io devo prima determinare poi inserire il costo del personale addetto alla manutenzione e
riparazione con riferimento all’infra-periodo del mese di ottobre 2018/trimestre luglio-settembre...

Come faccio a sapere quanta parte di questo 1.000 va sotto manutenzione e riparazione?

Io so qual è il personale che lavora al centro manutenzione; io so quante sono le ore effettivamente
lavorate dal personale di manutenzione e riparazione nel mese di ottobre (ho la rilevazione delle
presenze). Come valorizzo il costo del lavoro per quelle persone?

Supponiamo che si tratti di 4 dipendenti; 40 ore settimanali; 4 settimane —> 160 ore x 3 dipendenti =
450 ore (c’è anche un po’ di straordinario) —> moltiplico ogni ora per il costo medio orario
onnicomprensivo di quel livello di inquadramento che ha quel dipendente.

Quindi questo costo quando va al reparto di manutenzione e riparazione non è l’esito di una
ripartizione: io lo sto localizzando come costo diretto rispetto al centro.

Sarebbe diverso se qua avessi il reparto stampaggio? No. Il reparto stampaggio è quello addetto alle
presse. So quanto sono i dipendenti, quante ore di lavoro hanno fatto, so qual per livello di
inquadramento qual è il costo medio orario onnicomprensivo —> non faccio altro che valorizzare le ore.

Potrei dire che 1.000 è il totale che ottengo dalla quantificazione dei singoli valori parziali; ma il
costo del lavoro che attribuisco al reparto manutenzione anziché al reparto stampaggio anziché
all’amministrazione generale (che suppongo sia un centro comune) come si configura il costo di questa
tipologia di dipendenti rispetto a quella unità organizzativa? É un costo diretto o indiretto? Il costo
del direttore amministrativo rispetto al prodotto A, prodotto B e prodotto C è un costo indiretto. Se io
individuo all’interno dei centri operativi indiretti comuni il centro di amministrazione generale, il
costo del direttore amministrativo rispetto al centro di amministrazione generale si configura come
diretto.

Non ho dunque difficoltà ad andare a localizzare questi costi in ciascun centro, perché questi costi,
rispetto all’oggetto di riferimento centro di costo, si configurano in linea di massima come costi
diretti —> io interpongo un’ulteriore oggetto di riferimento per i costi indiretti rispetto ai prodotti
e il prodotto. Nella fase di localizzazione, con qualche eccezione, in via prevalente i costi vengono
imputati ai centri in quanto costi diretti di centro.

Un’altra riga potrebbe essere collegata al consumo di materiali —> non materie prime perché le materie
prime generano dei costi diretti. Ma per esempio un consumo che ho di lubrificanti, di vernici, di
grassi, il consumo di materiale di cancelleria...

Supponiamo di ragionare sugli oli lubrificanti. Intanto la latta con gli oli lubrificanti qualcuno la va
a prendere in un magazzino. Anche per questi materiali ci sarà il problema se usare il LIFO,FIFO, costo
medio ponderato —> c’è un magazziniere che vuole una richiesta di prelievo firmata dal responsabile del
reparto da cui il tizio richiedente dipende. Preso il bene il magazziniere fa firmare un documento di
scarico: così nessuno può accusare il magazziniere di rubare.
Ci sono dei cali fisiologici nel magazzino: il processo di stagionatura del salame per esempio fa sì
che i salami perdano liquidi —> il peso dei salami vendibili è inferiore rispetto al peso della carne e
degli altri ingredienti che sono stati messi lì perché si sa che il processo di stagionatura comporta
un’essiccazione, una perdita di liquidi.

Ma se si tratta di latte d’olio, bulloni e pezzi di ferro se manca roba qualcosa non torna.

Per cui quando esce roba dal magazzino si sa non solo chi l’ha presa ma anche dove deve andare.
Quindi il costo che è stato prelevato dal magazzino è nuovamente direttamente imputabile ad un
particolare centro di costo: non c’è nessun processo di tipo discrezionale.

Supponiamo che ci siano anche dei costi per servizi: è stata richiesta una consulenza di tipo fiscale.
Deve averla richiesta il centro di amministrazione generale. Quindi il costo di questa consulenza se la
prende il centro di amministrazione generale.

Se una determinata unità organizzativa, in questo caso il centro di amministrazione generale, richiede
una consulenza tecnica di carattere fiscale all’esterno, questo costo si configura rispetto al prodotto
come un costo indiretto: è un costo indiretto ma rispetto al centro di costo di amministrazione
generale questo costo è diretto.

Se questo è un costo una tantum che non sostengo in via continuativa che è stato richiesto a fronte di
una specifica situazione, non lo posso considerare come un costo che va in un centro fittizio perché il
soggetto che mi ha generato questo costo è un centro di amministrazione generale: questo è un costo che
devo attribuire alla amministrazione generale.

Se invece io ho esternalizzato tutta una serie di attività (dichiarazione IVA, dichiarazione dei
redditi, redazione del bilancio...) queste attività sono costi da inserire nel costo fittizio.

Se il reparto verniciatura richiede delle attività che vengono esternalizzate, ma che sono industriali
e che sono collegate al processo di ottenimento del prodotto, questo costo per servizi industrali, ma
connesso all’attività di verniciatura diventa un costo per servizi relativi al centro di verniciatura.

Il costo se lo prende quel centro operativo che in qualche modo l’ha indotto/prodotto quel costo.

Io sto ibridando il centro di costo inteso come entità contabile con un centro che però è un centro di
responsabilità, perché la vedo anche come unità organizzativa..

Quindi qualcuno mi risponde di quel livello di costi di costi: è per questo che dovrei avere anche un
processo budgettario a monte. Tu dovresti definire qual è l’ammontare massimo, in condizioni normali, di
costi che dal punto di vista amministrativo puoi sostenere per chiedere consulenza all’esterno.

Io arrivo ad un punto in cui per ciascuna delle celle nelle quali è organizzabile la parte alta, nella
parte alta ho la localizzazione: ad ogni centro di costo io andrei ad imputare/localizzare quelli che
sono i suoi costi.

Da un certo punto in poi, a valle della doppia linea, io avrei tutte le elaborazioni che avvengono fra
i centri di costo.

La seconda classificazione riguarda una classificazione dei centri sulla base delle elaborazioni che
avvengono in seno ai centri stessi dopo il processo di localizzazione.
Io prima devo localizzare i costi nei singoli centri di costo —> i costi che vengono localizzati nei
singoli centri si configurano come costi diretti rispetto ai centri; quindi il costo del lavoro viene
imputato ai reparti operativi diretti, ai centri ausiliari, ai centri comuni —> non posso aver e il cos-
to del lavoro al centro fittizio, perché altrimenti verrebbe meno la stessa definizione di centro
fittizio.

Il costo dei materiali di consumo (cancelleria, toner...) verrà attribuito ai vari centri sulla base
del consumo di questo fattore produttivo che è avvenuto ad opera di ogni centro: ho le bolle di
consegna e tutti gli elementi per sapere chi ha ritirato cosa e quanto costava ciò che è stato
ritirato.

Arrivo a un punto in cui tutti i costi sono stati imputati ai correlativi rispettivi centri di costo.

Da quel punto in poi cominciano le elaborazioni fra i centri di costo, perché il mio obiettivo è far
sì che il costo arrivi sul prodotto.

Quindi ho bisogno di evocare una seconda classificazione, che avviene sulla base di quel che succede
fra i centri in relazione alle elaborazioni che avvengono in seno ai centri stessi.

Questa seconda
. classificazione distingue i centri di costo in 3 tipologie:

1) CENTRI DI COSTO PRELIMINARI

2) CENTRI DI COSTO INTERMEDI

3) CENTRI DI COSTO FINALI


1) CENTRO DI COSTO PRELIMINARE

Un centro di costo si definisce tale quando quel centro di costo nella fase di localizzazione si è
visto attribuire i suoi costi, ma immediatamente trasferisce (tecnicamente si dirà “ribalta”) i suoi
costi sugli altri centri di costo.

Quindi i costi che sono in un centro preliminare non rimangono lì: questi costi, nella fase che sta al
di sotto della linea grassettata vengono trasferiti dal centro di costo agli altri centri.

Tipicamente è un centro preliminare un centro fittizio: il centro fittizio i suoi costi li trasferisce
immediatamente agli altri centri.

Dopo il ribaltamento, all’interno del centro fittizio non vi è rimasto niente: questi costi sono stati
trasferiti sugli altri centri di costo.

2) CENTRO DI COSTO INTERMEDIO

Un centro di costo si dirà, invece, intermedio quando, nella fase di localizzazione, si è visto
attribuire i suoi costi, quando riceve anche quote di costi da altri centri (per esempio dai
centri preliminari) ma poi i suoi costi li trasferisce ad altri centri, in particolare ai centri
finali.

É un centro di costi di transito: accumula costi ma questi costi poi li trasferisce.

3) CENTRO DI COSTO FINALE

Un centro di costo, infine, si dirà finale quando al centro di costo vengono attribuiti, come negli
altri casi, in sede di localizzazione i propri costi, quando riceve però anche quote di costi dai
centri preliminari, dai centri intermedi, ma questi costi che si sono addensati lì alla fine vanno
finalmente sui prodotti.

É soltanto dai centri finali che si ha il trasferimento dei costi indiretti sui prodotti.

Mettendo fra loro in relazione fra loro le 2 classificazioni ho 2 elementi di certezza e un’opzione. Il
primo elemento di certezza è che i centri operativi diretti sono sempre anche centri finali.

I centri fittizi, viceversa, non lo possono essere mai.

Un centro operativo diretto quindi è sempre anche centro finale; un centro fittizio non lo è mai.

Io posso decidere (elemento di discrezionalità) di individuare altri ulteriori centri finali


all’interno dei centri ausiliari o dei centri comuni: è una mia scelta.

Quindi, è vero che i centri operativi diretti sono centri finali; non è vero che sono centri finali
solo i centri operativi diretti.

Io posso decidere di individuare uno o più altri ulteriori centri finali all’interno dei centri
ausiliari o dei centri comuni: dipende da cosa voglio ottenere.
FOGLIO DI DISTRIBUZIONE COSTI PER CENTRI (FDCC)

Questa rappresentazione farebbe riferimento alla tenuta della contabilità analitica in forma libera.
Quando io tengo la COA in forma libera normalmente uso delle tabelle/prospetti.

Questo foglio è idealmente articolato su due parti; le due parti sono suddivise da quel TOTALE; quello
che sta al di sopra di quel TOTALE ha a che fare con la localizzazione di costi nei centri di costo;
quello, invece, che avviene al di sotto di quella riga dove c’è TOTALE, ha invece a che fare con le
elaborazioni che hanno per oggetto i centri di costo.

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Ghezzi

Nella prima colonna ho voci di costo; ho la descrizione dei costi; dopodiché ho una colonna che
riporta i totali; questi valori TOTALI riferiti ai valori di costo sono i totali
dell’infraperiodo —> dati riferiti al mese di ottobre —> non è un totale annuale.

Indicati in alto ho i centri di costo, i quali sono organizzati sulla base di una modalità tradizio-
nale, che prevede che in sequenza andando da sx verso dx, dall’interno verso l’esterno del
foglio, vengano prima riportati i centri operativi diretti; qui semplificando ne abbiamo soltanto
4.

CENTRI OPERATIVI DIRETTI —> quei centri in seno ai quali avviene il processo produttivo in senso
fisico-tecnico.

Entro parentesi c’è scritto sotto “C.Finale” —> almeno i centri operativi diretti sono sempre anche
centri finali; mentre i centri fittizi non possono mai essere centri finali —> questo non significa
che però debbano essere centri finali solo i centri operativi diretti.

Qui si è fatta una scelta: la scelta fatta è che siano considerati come centri finali i soli centri
operativi diretti.

Vedremo sul retro del foglio che può anche non essere così.
Dopo i centri operativi diretti ci sarebbero i centri operativi indiretti; abbiamo visto che, in
sequenza, quelli anche idealmente più vicini al processo produttivo in senso fisico-tecnico sono i
CENTRI AUSILIARI.
In questo caso sono individuati due centri ausiliari.

Poi abbiamo un unico CENTRO COMUNE: è il centro di amministrazione generale; infine abbiamo un unico
CENTRO FITTIZIO.

La Piaggio quando utilizzava i centri di costo aveva un centinaio di centri di costo: questa è una
esemplificazione: almeno una tipologia di centro di costo qui è prefigurata.

Nella prima parte del prospetto, io parto da quelli che sono i costi (qui classificati per natura).
Io ho “consumi per materie”: non si tratta di materie prime perché, se lo fossero, il costo collegato
al consumo di materie prime è diretto e quindi va già sui prodotti.
Complessivamente l’importo di periodo è pari a 5.000 —> questa informazione mi viene fornita dalla
contabilità di magazzino.

Come faccio a sapere che 800 di questi 5.000 devono essere localizzati nel reparto verniciatura, 500
nel reparto montaggio e così via? —> non sto ripartendo costi —> io ho i documenti di scarico e la
presa in consegna da parte dell’addetto —> costi che vanno localizzati in quel centro perché è quel
centro che ha beneficiato del prelievo di quei beni dal magazzino —> non c’è nessuna ripartizione:
questi sono costi indiretti rispetto al prodotto, ma sono costi che sono da considerarsi come diretti
rispetto ai centri —> qui non c’è nessuna scelta soggettiva —> sono costi che vanno in capo ai singoli
centri di costo.

I 100 del centro fittizio che cosa potrebbero essere? Potrebbero essere dei detergenti o altre sostan-
ze di pulizia se siamo noi a dover dare questo tipo di materiali alla ditta che fa pulizie: normalmente
non è così. Oppure potrebbero essere il consumo di gasolio o di altre sostanze per il riscaldamento dei
locali. Non posso avere un consumo di materiali in un centro dove non c’è nessuna attività —> nel centro
fittizio non c’è nessuno che lavora.

Poi abbiamo il costo del lavoro riferito al mese in oggetto il cui valore totale è pari a 12.000. Come
faccio a sapere che di questi 12.000 al reparto verniciatura vanno 1.500, al reparto montaggio 3.000
etc.? Ho da un lato la procedura informatizzata che rileva le presenze per ore lavorate non le presenze
per assemblea sindacale/corso di formazione. Io so quante ore sono state lavorate dal personale addetto
in ogni centro; ma io so anche, sulla base dell’organigramma, chi lavora dove. Ho tutti gli elementi per
poter quantificare sulla base del costo medio orario onnicomprensivo per categoria di dipendente quello
che è il costo direttamente da attribuire ad ogni centro di costo

Di questi 8 centri di costo 7 sono anche unità organizzative: dove devo trovare 0 con riferimento al
costo del lavoro? Nel centro fittizio, dove per definizione non viene svolta nessuna attività dal
personale dell’impresa.

Dopodiché mi devo cimentare con i costi per forniture e servizi vari; il riferimento è a quei costi
collegati a servizi o ad attività di lavorazione che sono stati svolti al di fuori dell’impresa.

Qui ho un committente, ho qualcuno che ha una responsabilità per questi costi in condizioni normali.
Se il reparto montaggio o il reparto meccanica o il reparto verniciatura ha esternalizzato alcune
attività produttive o ha chiesto per esempio un intervento di manutenzione specialistica da parte di un
fornitore esterno, questo costo è un costo che va imputato al reparto che lo ha richiesto —> nuovamente
non si tratta di costi indiretti rispetto ai centri.
Ci sono costi che possono avere una valenza generale: se questi costi hanno valenza generale me li trovo
all’interno del centro fittizio.

Adesso ho gli ammortamenti: sono ammortamenti relativi a beni strumentali (ma anche beni potenzialmente
immateriali) che vengono utilizzati nell’ambito di tutti i processi produttivi; perchè se io ho uno
stampo che viene utilizzato soltanto per il prodotto A, la quota d’amm.to relativa a quello stampo se
la prende direttamente A, non passa per i centri di costo. Quindi devono essere amm.ti relativi a beni
riconducibili alla totalità dell’attività d’impresa, non ad una specifica linea produttiva.
Seconda cosa: quel 4.000 di quota di amm.to sulla base di quale logica è stato determinato?
Non sono costruite (queste quote) sulla base dei costi storici: dovrebbero essere determinate sulla
base di valori correnti (valori aggiornati); di più, ho la necessità di determinare un valore che non
è un valore annuale, ma è un valore “mensile”. [in CoGe io rilevo la quota di amm.to al 31/12; ma se
qui siamo a ottobre 2018, in CoGe ad ottobre 2018 non c’è nulla ancora; quindi io ho la necessità di
incorporare, mese per mese, nelle mie elaborazioni di costo (perché voglio determinare il costo dei
miei prodotti) dei costi che, in questo caso, dal punto di vista contabile, nella contabilità
ufficiale ancora non ci sono; quindi, se io volessi poi fare un confronto fra le rilevazioni che sto
facendo in COA e le correlative rilevazioni di CoGe, io qui avrei una differenza —> in CoGe questa
rilevazione viene fatta in un’unica soluzione a valenza dell’intero anno —> qui invece, mese dopo
mese, devo caricare la quota di competenza mensile dell’amm.to -> problema formale/procedurale: la
quota di amm.to qui va riparametrata sulla base di una competenza mensile, mentre in CoGe dev’essere
rispettata la competenza su base annuale. Ma non ho solo quel problema:: c’è un problema di carattere
sostanziale: la quota di amm.to in CoGe viene determinata sulla base a) del costo storico b)
normalmente tenendo conto di considerazioni di carattere fiscale c) standard assumendo come unico
criterio di riparto il criterio a quote costanti -> qui invece sono in COA: non sono rilevazioni
destinate ad uscire: non sono pericolose in questo senso —> le rilevazioni di COA possono dare un
rilevante vantaggio dal punto di vista competitivo ad un mio concorrente —> problema di sicurezza in
relazione alla non accessibilità di questi dati da parte di soggetti terzi, ma non per ragioni fiscali
non perché abbia qualcosa da occultare, semplicemente perché se i miei concorrenti conoscessero quella
che è la mia struttura dei costi se ne potrebbero avvantaggiare. Quindi, dal punto di vista
determinativo delle logiche di quantificazione, lo stesso tema delle quote di amm.to viene trattato con
finalità diverse: in COA il valore da ammortare sarà dato da un valore corrente; il periodo di utilizzo
dovrebbe riflettere la realtà fattuale; i coefficienti di ammortamento (che non è detto siano a quote
costanti) dovrebbero riflettere il più possibile le modalità di utilizzo del bene all’interno della mia
impresa. Quindi, se anche ragionassimo su annuale CoGe vs. annuale CoA ci sarebbe un’altra differenza e
di carattere sostanziale: la quota di amm.to annuale di CoA normalmente sarà più alta rispetto alla
quota di amm.to determinata sul costo storico —> è fisiologico. Fermo restando che non si può genera -
zare: normalmente è quello che succede, ma su alcuni beni potrebbe anche non essere così; se io uso il
bene più a lungo di quanto non emerga dalla quota di amm.to fiscale/amm.to ordinario, potrebbe anche
non succedere questo —> qui emergono differenze di tipo sostanziale che non derivano da un diverso
rispetto del principio di competenza, ma derivano ds una diversa modalità di quantificazione dei
prodotti. Sia come sia io non posso aspettare il 31/12 per caricare in COA la quota di amm.to: la quota
di amm.to dev’essere considerata sotto periodo per sotto periodo, mese per mese.

Ma come faccio a sapere che, a fronte di un totale di 4.000, 500 vanno al reparto verniciatura, 200 al
reparto montaggio e così via? Chi me lo dice? In realtà non è che devo ripartire il 4.000; il 4.000 è
nato dalla somma di singoli valori elementari; chi mi dà il singolo valore elementare? Come faccio io a
sapere che quel determinato reparto ha quote di amm.to di competenza del reparto rispetto al mese per
500?
Su ogni bene c’è un numero di inventario: il n° di inventario, anche per salvaguardare quello che è il
patrimonio aziendale, intanto di censire quelli che sono i beni di proprietà dell’impresa; ma non
soltanto di censirli, si sa anche chi ha in consegna cosa.

Quindi ci sarà un n° di inventario sulle presse, sugli arredi, sui computer.. (questa procedura è
onerosa da gestire quindi si fa per i beni da un certo valore in su). Quindi io impresa so attraverso
l’inventario non solo quali sono i beni di mia proprietà, ma so anche questi beni dove sono fisicamente
ubicati; il che vuol dire che, a livello di unità organizzativa, c’è anche qualcuno che è il
consegnatario di quei beni (soggetto che ha la responsabilità di custodia di quei beni)
Quindi in ogni reparto io so quali sono i beni in uso; ma se io so di ciascuno di quei beni anche il
valore a nuovo, io sono in grado di determinare per ciascuno dei beni in uso in ciascun reparto quelle
che sono le correlative quote di ammortamento.

Qui c’è una cosa particolare: se vado sempre sulla riga degli ammortamenti, nel centro fittizio trovo
0. Quello 0in postulerebbe o• che ogni bene è direttamente riferibile ad un solo centro (la pressa ce
l’ha in carico per es. il reparto stampaggio; un macchinario per verniciare a fuoco determinati
oggetti ce l’ha in carico il reparto verniciature; gli automezzi sono in carico al centro
trasporti...) Oppure?

Si pensi alla tipica situazione della piccola Srl che ha sede in zona industriale in una specie di paral-
lepipedo a 2 piani con annesso dietro un capannone. Nel capannone dietro avviene il processo
produttivo; nella palazzina adiacente ci sono gli uffici; qualche volta c’è la mostra dei prodotti;
e ci può essere anche il personale commerciale —> però è un unico fabbricato.

Se il fabbricato è di proprietà, il costo collegato alla quota di amm.to del fabbricato chi se lo
prende? Perché se nel centro fitizio sulla riga degli ammortamenti abbiamo messo 0 o il fabbricato non è
di proprietà (e allora all’interno dei 300 potrei avere il fitto passivo/canone leasing depurato della
parte relativa agli oneri finanziari) oppure è stata fatta un’altra cosa: la quota di amm.to del
fabbricato è stata ripartita fra i vari reparti.

Quindi per le quote di ammortamento si potrebbe già essere in una situazione di deroga rispetto alla
regola: la regola è che si tratta di costi che sono indiretti rispetto ai prodotti, ma diretti rispetto
ai centri; in realtà con la quota di amm.to io potrei trovarmi nella condizione di dover ripartire un
costo che è comune a più reparti. Quale criterio potrei utilizzare?
Io ho la quota di amm.to di tutto il fabbricato; potrei ragionare per metri quadri; potrei andare a
misurare fisicamente quali sono gli spazi che sono occupati in modo esclusivo da ciascun reparto, fare
questa quantità pari a 100 (quindi non tutta la metratura dell’immobile —> ci saranno delle aree comuni/
corridoi/piazzale/bagni non in uso comune) —> lascio stare le aree comuni —> vado a determinare il
computo dei metri quadri che sono assegnati a ciascun reparto —> il tot di questi metri quadri diventa
la mia base 100 —> rispetto a questa rapporto i metri quadri in uso da ogni singolo reparto —> trovo un
coefficiente di ripartizione —> poteri postulare che anche i metri quadri delle aree comuni vengano in
un certo senso proporzionalmente assegnati —> quindi quei coefficienti lì sono quelli suklla base dei
quali io vado poi a ripartire l’intera quota di amm.to —> ci sarebbe quindi già una sorta di
“assegnazione”.

In alternativa, tutta la quota di amm.to dell’immobile potrei considerarla come un costo generale
aziendale e lasciarlo all’interno del centro fittizio.

Qui non ci sono norme di legge; posso fare ciò che credo purchè ciò che faccio mi sia effettivamente
utile dal punto di vista interno/autodiagnostico;

La scelta discutibile di questo esercizio è quella di aver considerato all’interno dei centri di costo
anche gli oneri finanziari e gli oneri tributari -> normalmente quando voglio calcolare il costo di
prodotto al massimo faccio riferimento a tutti quelli che sono i miei costi operativi; gli oneri
finanziari sono costi che vengono sostenuti in modo indistinto per tutta l’attività d’impresa; gli oneri
tributari a maggior ragione —> l’imposta è sul reddito o sul valore aggiunto —> reddito o valore
aggiunto nascono dalla totalità delle attività poste in essere dall’impresa.

Qui è stata assunta questa decisione: a fronte di questa decisione che cosa si fa? Essendo questi costi
generali aziendali si sceglie che questi costi vengano tutti localizzati nel centro fittizio.

Nuovamente per gli oneri finanziari io potrei avere una soluzione alternativa: quale?
[all’interno dei finanziamenti da terzi ho fin. indiretti e fin. diretti (mutui passivi, P.O., fido su c/c
—> interessi passivi)]

Gli oneri finanziari sono il risvolto in C.E. dei fin. diretti da terzi; gli oneri fin. che io
contabilizzo come tali non sono tutti gli oneri finanziari realmente sostenuti perché vi sono anche oneri
finanziari impliciti —> il debito che io ho v/fornitori è prevalentemente costituito da una ragione
commerciale (ho un debito a fronte di beni/servizi che ho ottenuto), ma nel momento in cui concedo una
dilazione di pagamento su questa operazione si innesta anche una sorta di fin. indiretto: tant’è che se,
anziché chiedere l’ordinario pagamento a 30/60/90 gg. voi vi offrite di pagare subito potete chiedere uno
sconto —> sconto implica individuazione e scorporo degli interessi passivi che sono annessi all’interno di
quel valore.
Quindi gli oneri finanziari che io faccio girare lì dentro non sono in realtà tutti gli oneri
finanziari, ma sono solo quegli oneri finanziari che in CoGe sono stati rilevati come tali, cioè quelli
che derivano da fin. diretti (quelli aventi ad oggetto l’ottenimento di denaro, non l’ottenimento di
beni o servizi con pagamento posticipato).

Questi finanziamenti che ho ottenuto dove sono finiti? Il capitale acquisito è riversato nel capitale
investito. Un ragionamento più fine (se si fosse così zelanti da ricomprendere nel costo di prodotto
anche gli oneri finanziari) potrebbe essere:
· gli oneri finanziari espliciti derivano da fin. diretti da terzi
· ma quei fin. mi sono serviti per la copertura del fabbisogno finanziario connessa con gli
investimenti —> il capitale acquisito viene riversato per coprire i fabbisogni finanziari connessi con
i nostri investimenti
· quel che ho ottenuto ma non ho ancora impiegato me lo trovo nelle mie liquidità immediate (cassa, c/c
bancario o postale)
· c’è una qualche relazione fra il capitale ottenuto anche da soggetti terzi e il capitale investito
· io posso sapere qual è il capitale investito in ciascun reparto, almeno con riferimento alle
immobilizzazioni, visto che mi sto riferendo tendenzialmente a fin. da terzi a m/l termine (mutui
passivi, P.O.): sono quelle forme di finanziamento che dovrebbero essere precipuamente utilizzate per
coprire i fabbisogni finanziari con gli investimenti durevoli, con le immobilizzazioni —> me lo dice

-
l’inventario

· io dunque potrei, se volessi ripartire fra i vari centri di costo, fare nuovamente una proporzione:
se il 12% del capitale investito riguarda il reparto verniciatura, allora potrebbe essere sensato dire
che il reparto verniciatura si prenda il 12 % degli oneri finanziari: è un criterio di ripartizione che
potrebbe essere ragionevole.

Con le imposte questo non ha senso: le imposte sono collegate al reddito.. come faccio ad associare a
dei centri di costo il reddito.

Io di righe ne avrei altre in condizioni normali... ma semplificando posso arrivare a quella famosa
prima linea/totale di cui si è poc’anzi detto.

Abbiamo concluso quello che si chiama processo di localizzazione; se non per gli amm.ti e per gli oneri
finanziari non ho ripartito nulla -> ho attribuito a ciascun centro di costo i propri costi diretti. Se
ci si pensa questa è una tabella a doppia entrata: se ragiono sulle righe, i costi sono classificati
per natura; se li vedo sulle colonne sono organizzati per centri di costo. Ma io non ho tolto né
aggiunto nulla: il totale nel nostro caso continua sempre a fare 25.600.

Io ho 25.600 sia come somma della seconda colonna, quella che indica i valori totali di periodo, che
come somma della riga lì indicata: ho soltanto riclassificato questi costi.

Se io volessi associare i centri di costo alle diverse funzioni aziendali, i 4 reparti sono sì centri
di costo, ma sono centri di costo che hanno a che fare, in quanto centri di costo operativi diretti,
con il processo produttivo; quindi sono centri che rappresentano la funzione industriale.

Se io individuassi almeno un altro centro per ciascuna altra funzione, io potrei mettere in moto dei
meccanismi che mi consentono non solo di organizzare (con riferimento alle colonne) i costi per centri
di costo, ma [associando ai centri di costo le funzioni aziendali] passerei da una classificazione per
natura a una classificazione di tipo destinativo-funzionale (costi per destinazione o funzione).

[eventuale domanda aperta su questo argomento —> “i centri di costo: definizione, criteri di
classificazione, modalità di svolgimento delle elaborazioni”]

Le modalità di svolgimento delle elaborazioni riguardano il cosa io decido che sia centro finale; se
io, come in questa situazione ho deciso, a torto o a ragione, che siano centri finali i soli centri
operativi diretti (quelli che al minimo sono sempre centri finali), allora si produce la seguente
conseguenza: io ho solo e soltanto dei RIBALTAMENTI.

Ribaltamenti e retrocessioni sono l’esito di una decisione: la decisione è quella del definire cosa
debba essere centro finale; se io decido, come in questa prima modalità di svolgimento, che siano
centri finali solo ed esclusivamente i centri operativi diretti, allora la conseguenza che si produce
è che ho elaborazioni che danno vita solo ed unicamente a RIBALTAMENTI.

Se decido altrimenti, succedono cose diverse —> da non confondere la causa con l’effetto

Quando si parla di modalità di svolgimento, s’intendono quelle che sono le elaborazioni che hanno per
oggetto i centri di costo, cioè quello che avviene a valle del primo TOTALE; quello che succede sotto.

Quello che succede sotto dipende da una scelta che devo fare a monte: questa scelta riguarda il
decidere cosa debba essere considerato come centro finale; se io decido, come in questa prima opzione,
che debbano essere centri finali solo quelli che lo sono sempre, cioè i reparti produttivi (o centri
operativi diretti) se questa è la decisione che io assumo, in termini di elaborazione, in termini di
modalità di svolgimento, si produce un effetto (genera un fenomeno che tipicamente si chiama
ribaltamento).

Se, invece, faremo come dopo, cioè individueremo centri finali anche al di fuori dei soli centri
operativi diretti, non avremo solo ribaltamenti, ma avremo anche delle RETROCESSIONI.

Ribaltamenti e retrocessioni non sono modalità di svolgimento, ma sono gli effetti che derivano dalle
scelte che io faccio nel considerare cosa debba essere centro finale.

Se io opto per considerare come centri finali i soli centri operativi diretti, allora ho una modalità
di svolgimento che genera come conseguenza di questa decisione solo e soltanto dei ribaltamenti.

Cos’è un RIBALTAMENTO? Si prende il centro di costo più esterno (che sarà sempre costituito dal o
dai centri fittizi) e, con un opportuno criterio di riparto, questi costi vengono ribaltati sugli
altri centri di costo.
Il nostro centro di costo più esterno, quello fittizio, si è visto attribuire complessivamente costi
per 3.000; questi 3.000 devono essere trasferiti sui centri operativi.
Come? Devo trovare un criterio di ripartizione: non c’è un unico modo.

Una soluzione che spesso si utilizza è quella di sommare i costi che sono stati localizzati nei
centri operativi: il totale sarà pari a 25.600-3.000= 22.600.

Assumo 22.600 come base 100. Poi vado a vedere qual è il rapporto fra i 3.000 del reparto
verniciature su 22.600; mi verrà un valore (=0,13) —> il 13% dei costi attribuiti a centri operativi
è relativo al reparto verniciature. Quindi , il 13% dei costi relativi al centro fittizio vanno
ribaltati sul centro verniciatura.

[Il totale dei costi che io ho localizzato è pari a 25.600; ma questo 25.600 nasce tenendo conto
anche dei 3.000 del centro fittizio; ma visto che i 3.000 li devo ripartire, questi li devo togliere;
22.600 esprime i costi che sono stati localizzati nei 7 reparti: se io voglio attribuire i 3.000 in
ragione della incidenza percentuale dei costi localizzati in ciascun reparto rispetto al totale dei
costi localizzati nei 7 reparti, faccio il rapporto di prima]

0,13 è il coefficiente da applicare a 3.00 per determinare la quota di quei 3.000 del centro fittizio
che vanno ribaltati su verniciature; se faccio la stessa cosa con gli altri centri i conti tornano.
Sarebbe grossolano fare 22.600/7 ed attribuire a ciascun centro la stessa quota.

Io vado a ripartire (in questo caso ribaltare) i 3.000 del centro fittizio, in ragione della
proporzione dei costi localizzati in ciascun centro operativo rispetto al totale dei costi dei centri
operativi.

Il 13% di 3.000 se li prende il reparto verniciature; poi (4.000/22.600) il 17,6% di 3.000 se li prende
il reparto montaggio e così via. Se sommo queste percentuali il totale farà 100; se sommo le quote, che
sulla base di queste percentuali vado a ribaltare, il totale farà 3.000.

A questo punto, il centro di costo relativo al centro fittizio è chiuso contabilmente perché i costi
che avevo localizzato lì li ho ribaltati sugli altri centri.

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a L % ti
-
u

te
Di

%
Ora il centro più esterno è diventato quello di amministrazione generale; quanti saranno i costi lì
addensati? Erano 2.500 con la localizzazione + la quota che è stata ottenuta dal ribaltamento del
centro fittizio; quindi sarà un totale più alto; trovo un criterio di riparto: quale? Dipende dal tipo
di realtà aziendale; trovo fra i tanti un altro criterio e, sulla base di questo criterio faccio la
stessa cosa -> ribalto i costi di amministrazione generale sugli altri centri.

Se io utilizzassi sempre e soltanto un solo criterio sarebbe come se stessi usando la base unica
aziendale; quindi io devo trovare di volta in volta il criterio che mi sembra più adatto per riflettere
quello che sta succedendo; dopodiché si ripropone lo stesso tipo di meccanismo: qual è diventato il
centro con valori più esterno? É diventato il centro trasporti; quindi il totale di costi che si è
addensato nel centro trasporti viene ribaltato anch’esso sugli altri centri.

Arrivo al centro manutenzione e riparazione e anche i costi che si sono andati, via via , addensando
nel centro manutenzione e riparazione devono essere ribaltati sugli altri centri.

I 25.600 attraverso queste elaborazioni che hanno per oggetto i centri di costo, rispetto alla fase di
localizzazione, vengono a trovarsi diversamente collocati; quindi io mi occupo sempre solo e soltanto
dei costi che sono nel centro più esterno: solo questi costi qui vengono ribaltati; e ribalto i centri
di costo via via più esterni... fino a quando mi rimangono costi, solo e soltanto nei centri finali (in
questo caso nei 4 reparti).

Quando un centro di costo si vede attribuiti i propri costi nella fase di localizzazione poi riceve
quote di costi dai centri preliminari, quote di costi dai centri intermedi e alla fine trasferisce i
propri costi sui prodotti —> centro di costo finale

Ed è quindi dai centri finali che i costi vengono trasferiti in effetti sui prodotti; ciascun centro di
costo attribuirà/imputerà una parte dei propri costi sul prodotto A, una parte dei propri costi sul
prodotto B.

Ho dovuto prevedere almeno 2 prodotti perché se l’azienda fosse monoprodotto tutti i costi sarebbero
costi diretti; in realtà i prodotti potrebbero essere 40-50 e i centri finali 20.

Una volta che devo ripartire i costi dei centri finali sui prodotti devo trovare quello specifico
criterio di ripartizione; alla fine ottengo il mio costo di prodotto.

Ma il costo di prodotto ottenuto in questo modo che problema ha? Ha il problema che per i costi diretti
io so esattamente cosa c’è dentro; consumo di materie prime —> so qual è la causa gestionale che ci sta
dietro —> posso anche dire che è un costo direttamente connesso al processo di produzione (costo
industriale); costo della MOD —> so cosa c’è dietro e so che è un costo industriale; altri costi
diretti per eventuali lavorazioni fatte fare su quel prodotto all’esterno —> altro costo diretto
industriale; costi collegati alle commissioni/provvigioni riconosciute alla mia rete commerciale —>
costo diretto di natura commerciale.

I costi diretti li posso tenere separati idealmente; ma mi arriva un’ unica quota per ciascun centro
finale in cui dentro c’è il mondo. Nei costi che io trasferisco dal centro montaggio, con questa
modalità dentro ci sono anche dei costi amministrativi, degli oneri finanziari, delle imposte, dei
costi di trasporto... io non riesco a capire cosa c’è lì dentro: ho una quota di costi in cui le cose
si sono mischiate.

Se io non sono più in grado di sapere quanta parte dei costi che arrivano sul prodotto dal centro di
meccanica anziché montaggio anziché stampaggio hanno una valenza industriale anziché commerciale
anziché amministrativo: si è confuso tutto.

Oltretutto un costo di prodotto così determinato non potrebbe nemmeno essere utilizzato per la
valutazione delle rimanenze di prodotti perché il c.c. mi dice che posso considerare solo i costi
relativi alla fase industriale.

É una modalità che è teoricamente possibile ma è una modalità assai poco soddisfacente oggi.
Ora si ripropone per questa identica situazione l’altra opzione (due delle situazioni tipiche).

÷?.

!
.
.

#
po

"
ÉTÉ $ e
,
Rispetto alla parte alta dello schema, quella cd. Localizzazione, cosa è cambiato in confronto a prima?
Nulla sui valori; c’è solo una differenza: sono stati individuati come centri finali anche (oltre ai 4
reparti che in quanto centri operativi diretti rimangono centri finali) il centro trasporti e il centro
di amministrazione generale.

Da questa scelta si produrranno degli effetti all’interno degli svolgimenti/elaborazioni che avverranno
al di sotto della riga del primo TOTALE.
Qual è la ragione di questa scelta? Perché potremmo ritenere opportuno individuare come centri finali
anche il centro trasporti e il centro di amministrazione generale? La volontà potrebbe essere quella di
individuare almeno un centro finale all’interno di ciascuna fase funzionale; in modo che tutte le fasi
funzionali siano rappresentate: la fase industriale (4 reparti), ma anche la fase commerciale (centro
trasporti —> costi di trasporto che io sostengo prevalentemente per la consegna e distribuzione dei
prodotti); centro di amm. gen. -> centro finale relativo alla funzione amministrativa.

Se io accolgo questa seconda opzione quale sarebbero gli effetti che si producono? All’inizio non
cambia nulla, la prima cosa che facciamo è, come prima, il ribaltamento del centro fittizio (non può
mai essere centro finale -> va sempre ribaltato); il criterio di ripartizione potrebbe essere lo stesso
di prima.
Adesso c’è invece una novità: c’è un’operazione che non riguarda tutti i rimanenti centri di costo, ma
riguarda unicamente 2 centri: il centro trasporti e il centro di amm. gen.
Contrariamente a quanto abbiamo visto finora, qui abbiamo un processo che porta a togliere non tutti i
costi, ma alcuni costi dal centro trasporti e a trasferire questi costi ad un centro più esterno, in
questo caso il centro di amm.gen.

Questo tipo di elaborazione tecnicamente si chiama RETROCESSIONE.

La RETROCESSIONE è quella elaborazione che porta a trasferire una quota di costi da un centro più
interno ad un centro più esterno [con i ribaltamenti invece noi abbiamo sistematicamente il
trasferimento di tutti i costi da centri esterni a centri interni]
Qui invece non si svuota il centro: il centro trasporti, dopo la retrocessione avrebbe un totale: non
c’è la doppia riga,; non è un centro che venga chiuso.

Perché faccio questa retrocessione? Perché se la funzione del centro trasporti è quella di essere
rappresentativo dei centri commerciali, io devo ripulire il centro trasporti da quei costi che sono sì
di trasporto, ma che non hanno a che fare con la funzione commerciale.

Oltre ai furgoni, mezzi pesanti, TIR, autocarri, ci saranno anche alcune autovetture: le autovetture
verrano usate dal personale commerciale, ma potranno alla bisogna essere utilizzate anche dal personale
amministrativo. Spesso nelle imprese piccole ci sono alcune autovetture che sono autovetture di
servizio: sono le auto di proprietà dell’impresa; se il personale per esigenze di servizio deve
spostarsi (il direttore amministrativo deve andare in posti non ben serviti da servizi pubblici per una
riunione o convegno) cerco di evitare che utilizzi la sua vettura, perché poi c’è un rimborso con costo
chilometrico etc. Se si sposta il direttore amministrativo o un quadro amministrativo, si genera un
costo di trasporto, perché si utilizza un’autovettura che fa parte del parco automezzi dell’impresa, ma
quel viaggio non ha a che fare con la funzione commerciale: è un costo di trasporti amministrativi; io
dovrei quantificare questi costi e questi costi li tolgo dal centro trasporti e li carico/attribuisco
al centro di amministrazione generale -> perché chi comanda non è il fatto che sia un costo di
trasporto -> il criterio classificatorio è che quello è un costo di natura amministrativa

Come potrei fare a saperlo? Ogni volta che un soggetto prende in carico un’autovettura, che viene
utilizzata da più soggetti, normalmente c’è una rilevazione dei km che sono stati percorsi (data,
tratta...): quindi io so quanti km quell’autovettura complessivamente ha fatto nel corso del mese, so
quanti di quei km sono stati percorsi da personale amministrativo e quanto da personale commerciale:
quindi posso trovare un driver per andare a ripartire quei km per trasformarli in costi per l’utilizzo
dell’autovettura. Quindi, quantifico sulla base di un criterio di riparto piuttosto obiettivo (km
percorsi) la quota di costo che è sì di trasporto ma che non ha a che fare con la funzione
distributiva, però ha a che fare con la funzione commerciale; e questi si scorporano dai costi del
centro trasporti, qui visto come centro finale distributivo-commerciale, e questi vengono invece
attribuiti in aumento al centro di amministrazione generale.

Perché non li ho messi direttamente all’interno del centro di amministrazione generale? Perché io in
prima battuta ho localizzato sul centro trasporti tutti i costi che erano costi di trasporto: quindi il
criterio dominante all’inizio è questo.

Poi entro nel merito, distinguendo quelli che sono costi di trasporto commerciale da quelli che sono i
costi di trasporto amministrativi.

La retrocessione si rende necessaria perché io devo misurare nel modo più vicino possibile alla reaLtà
quelli che sono i costi di tipo amministrativo, perché questo è diventato un centro finale.

Le retrocessioni sono solo e soltanto se io decido di individuare come centri finali anche ulteriori
centri di costo rispetto ai centri operativi diretti.

Se sono centri di costo solo i centri operativi diretti, io ho soltanto dei ribaltamenti: quindi la
modalità di svolgimento dipende da cosa io decido debba essere un centro finale.
Nella prima modalità si decideva che fossero centri finali (minimo sindacale) unicamente i centri
operativi diretti. Se così faccio qual è la conseguenza? La conseguenza è che ci siano solo dei
ribaltamenti. Se invece, come in questa situazione, io voglio per ragioni conoscitive avere centri
finali anche all’interno della funzione commerciale e all’interno della funzione amministrativa, allora
avrò dei ribaltamenti, ma avrò anche alcune retrocessioni.

Dopodiché si ha u’altra retrocessione: questa volta i centri di costo coinvolti sono il centro
manutenzione e riparazione che cede una quota dei suoi costi al centro trasporti; è una retrocessione
perché i costi vanno in direzione ostinata e contraria —> con la retrocessione i costi anziché andare
dai centri più esterni ai centri più interni questi vanno in direzione opposta.

La ragione di questa retrocessione quale potrebbe essere? Ci sono delle attività di manutenzione che
sono relativamente semplici. Se devo cambiare l’olio, mettere su le gomme invernali, se devo cambiare
la spazzola del tergilunotto non porto l’auto in concessionaria: sono cose che se ho un servizio di
manutenzione faccio fare dentro.
Ma allora l’intervento è un intervento di manutenzione in senso stretto, però non ha avuto per oggetti
impianti o macchinari, ha avuto per oggetto gli automezzi; quindi come prima avevamo dei trasporti
amministrativi, questa è una manutenzione collegata ai trasporti.
Quindi cosa scorporo? Scorporo idealmente quei costi di manutenzione (e quindi che erano stati
originariamente localizzati nel centro di manutenzione) ma che non hanno a che fare con la funzione
industriale, hanno a che fare con la funzione di trasporto distributiva.

L’ordine della sequenza non è irrilevante. Dal punto di vista logico per quale motivo faccio
retrocedere prima i costi di trasporto sull’amministrazione e soltanto dopo quelli di manutenzione sui
trasporti? Logica vorrebbe che prima retrocedessi i costi di manutenzione sul centro trasporti; e dopo
se mai retrocedessi i costi di trasporto, a questo punto comprensivi anche della quota parte di
manutenzioni sul centro di amm. gen.
Non è irrilevante la sequenza all’interno delle retrocessioni: si modificano i costi all’interno dei
diversi centri; dal punto di vista logico, sarebbe stato meglio invertire la sequenza; a questo punto
finite le retrocessioni cosa faccio? Non posso toccare il centro di amministrazione generale perché è
centro finale; i centri finali non possono essere ribaltati —> vanno a finire sui prodotti i centri fin.
Non posso nemmeno toccare il centro trasporti perché anche questo in questa seconda modalità di
svolgimento è un centro finale; quindi qual è l’unico altro centro che non è stato considerato come
finale e quindi va gestito? É il centro manutenzioni e riparazioni; e quindi dopo quest’ultima
retrocessione, il centro di manutenzioni e riparazioni viene ribaltato, ma viene ribaltato solo su 4
parti, perché i costi che sono rimasto all’interno del centro manutenzioni e riparazioni dopo la
retrocessione sono solo e soltanto relativi a costi industriali; quindi io maggioro i 4 reparti di quei
costi che sono di manutenzione, ma di manutenzione industriale.

Quindi, rispetto a prima i centri finali non sono più 4 ma sono diventati 6. E quindi ogni prodotto si
vedrà attribuire una quota da ciascun centro finale —> quindi i costi che arriveranno sul prodotto non
non saranno più per quanto riguarda la componente indiretta, costituita da 4 quote che nel caso di
prima derivavano dai 4 reparti; qui avrò i costi collegati ai 4 reparti che saranno di meno di prima,
perché i costi di trasporto e i costi di amm. gen. sono stati gestiti separatamente; e andranno sul
prodotto anche quote dei costi commerciali-distribuitivi (quelli che derivano da trasporto) e quote
dei costi di amm. gen.

Questo che vantaggio produce? Sono più faticose le mie elaborazioni rispetto a prima
Questa modalità mi privilegia un aspetto di tipo informativo: a livello di prodotto, soprattutto se io
non ci avessi messo dentro anche gli interessi passivi e le imposte, io potrei tenere separati i costi
industriali dai costi commerciali e dai costi amministrativi; io posso a questo punto determinare il
contributo offerto, in termini di quantità di costi, di ciascuna funzione aziendale.
Ho i costi diretti industriali (costo materie prime, costo collegato alla MOD, altri costi diretti
industriali) + costi indiretti industriali, che sono quelli che mi derivano dalla quota del centro
stampaggio, quota del centro meccanica...

Con questa modalità posso tenere separati i costi per ciascuna funzione aziendale: posso tenere separati
i costi industriali dai costi commerciali e dai costi amministrativi; con la modalità di prima non
riuscivo a farlo perché si creava una sorta di coacervo di costi che mi arrivavano dai 4 reparti,
mischiati fra costi industriali, costi di trasporto e costi di amm. gen.

LE CONFIGURAZIONI DI COSTO DI PRODOTTO

Quando parliamo di costo con riferimento ad un prodotto cosa intendiamo? Dal punto di vista dottrinale
ci sono 2 posizioni, che per lungo tempo sono state viste come contrapposte, dalle quali derivano
configurazioni di costo diverse che sono diversamente utili.

Queste 2 impostazioni metodologiche, che per lungo tempo sono state viste come antitetiche, non sono
in realtà una “superiore” all’altra: sono diverse. In certe situazioni posso risolvere il problema
solo se uso una impostazione, per risolvere altri problemi mi serve l’altra impostazione.

1) FULL COST (o costo pieno)

2) DIRECT COST (o costo primo variabile)

1) FULL COST
Secondo questa impostazione, almeno in teoria, tutti i costi possono essere attribuiti ai prodotti —>
tutti i costi possono essere considerati come costi di prodotto

Nel full cost non ci sono “aree di esenzione”: tutti i costi che l’azienda sostiene possono essere
riferiti al prodotto.
Il principio che ci sta dietro è il principio di assorbimento integrale dei costi da parte dei prodotti.
Con il full cost però io non arrivo ad individuare un’unica configurazione di costi, ma ho una sequenza
progressiva di configurazioni, che avviene sulla base di una schematizzazione che si sta per proporre.
La sequenza riflette le fasi funzionali dell’impresa. Prima devo produrre il bene; quindi parto dai
costi industriali

prime (dirette)

Si tratta di costi tutti diretti. Il consumo delle materie prime dirette me la dà la contabilità di
magazzino; il costo della MOD me la dà quel meccanismo di calcolo del costo del lavoro valorizzato per
il costo medio orario onnicomprensivo; altri costi diretti —> quelli che possono essere ricondotti per
es. al costo dello stampo: la quota di amm.to dello stampo che utilizzo soltanto per A sarebbe un altro
costo diretto; lavorazioni fatte fare all’esterno per quel particolare prodotto.

Se voglio proseguire mi mancano i costi indiretti:


Queste informazioni mi vengono fornite
dai centri di costo (seconda modalità) o
dalla base multipla aziendale o dall’ABC

Mancano i costi commerciali: costi che riconosco ai miei agenti di vendita, costi collegati a campagna
pubblicitaria riferita a quella particolare tipologia di prodotto...
commerciali
commerciali

COMMERCIALE
non posso escludere che la fattispecie esista però in concreto è
una riga vuota il più delle volte

interessi passivi e imposte

QUOTE ONERI FIGURATIVI

Per gli oneri figurativi la parola “quote” si può omettere?

C’è almeno un onere figurativo che è sempre presente in un’impresa: l’interesse di computo sul capitale
proprio investito; ma come faccio a considerare l’interesse di computo sul capitale proprio investito
come un costo diretto sul prodotto A piuttosto che sul prodotto B?
Quello è un onere figurativo che riguarda la rinuncia che i soci hanno fatto agli interessi che
avrebbero potuto ottenere investendo in modo alternativo il loro capitale, piuttosto che conferire loro
capitale in azienda

Quindi almeno per l’interesse di computo sul capitale proprio investito sono sicuramente delle quote.

Per le retribuzioni figurative o per i fitti figurativi in realtà potrebbe anche non essere così: se io
utilizzo un determinato macchinario in un capannone soltanto per il prodotto A, allora un fitto
figurativo relativo a quel capannone sarebbe un costo diretto rispetto ad A.
Per le retribuzioni figurative è più difficile, anche perché di solito la retribuzione figurativa
riguarda personale che svolge attività di carattere direttivo all’interno dell’impresa.

Quindi non posso dire che sono solo e necessariamente quote, ma per prevalenza sì; anche perché, a mano
a mano che l’impresa passa dalla S.n.c a una società di capitali o ad una società per azioni, gli oneri
figurativi si riducono qualitativamente, fino a ricondursi all’unica tipologia che è sempre presente:
gli interessi di computo sul capitale proprio investito.

Il costo più full di tutti è l’ultimo. Non potevo andare a fare direttamente la somma di tutti questi
addendi fino a trovare solamente e direttamente il COSTO ECONOMICO-TECNICO?
Evidentemente no: io ho individuato qui 4 configurazioni full, via via successive, più un’altra che è
assai poco full, ma che comunque ha una sua “utilità”.

Quando mi riferisco al full cost io in teoria ho ben 5 configurazioni di costo di prodotto; perché è
opportuno distinguere anche delle configurazioni intermedie ancorché meno complete?
É il principio di relativismo: ognuna di queste configurazioni di costo ha una sua potenziale utilità,
una sua precisa funzione informativa.

Se io voglio valutare le rimanenze di prodotti finiti (devo redigere il bilancio d’esercizio), devo
usare il costo pieno industriale; se i beni sono in corso di fabbricazione può anche essere il costo
diretto industriale o qualcosa di intermedio fra il costo diretto e il costo pieno; ma non posso andare
oltre il costo pieno (art.2426 -> è fatto divieto di ricomprendere nella valutazione delle rimanenze di
prodotti finiti i costi di distribuzione —> io non posso ricomprendere nel costo di un bene che ho in
magazzino dei costi che, se il bene è in magazzino, non ho ancora sostenuto, perché i costi di
distribuzione sono quelli che si sostengono quando il bene esce dal magazzino).

Se io voglio congetturare un prezzo che possa essere effettivamente remunerativo, quale configurazione
di costo dovrei assumere come base? In una condizione di ottimo il costo economico-tecnico; perché se io
riesco ad aggiungere un margine, nel fissare il prezzo, al costo economico-tecnico non solo avrò un
utile su quel prodotto, ma avrei anche un profitto ancorché lordo. Ma se invece io voglio determinare un
prezzo che non mi generi una perdita, al di sotto del quale non devo andare, la soglia è il COSTO
COMPLESSIVO. Sarebbe opportuno che non scendessi mai al di sotto del costo complessivo. Se io fisso un
prezzo di vendita al di sotto del costo complessivo complessivo, almeno su quell’area di attività lì
vado in perdita.

E se io voglio fare delle analisi di efficienza interna mi interessa il costo diretto industriale; nel
costo diretto industriale la maggior parte dei costi, oltre che diretti, la maggior parte (non tutti)
sono anche costi variabili; quindi il costo diretto industriale risente meno delle altre configurazioni
di costo di quelli che sono i volumi di produzione.

Se volessi fare delle valutazioni in termini di produttività, invece, sarebbe nuovamente il costo pieno
industriale.

É importante sottolineare come, rifacendosi al full cost, non ci sia un’unica configurazione di costo e
le configurazioni che io individuo sono configurazioni, ognuna delle quali può avere un proprio preciso
utilizzo.

Ai fini del controllo, se io voglio sapere per A, per B e per C come sta andando l’azienda, non sarebbe
sempre meglio utilizzare il costo economico-tecnico o il costo complessivo?
Io voglio avere un prospetto che riporti per ciascun prodotto RICAVI-COSTI e mi sto orientando su questa
prima impostazione, quella del full cost: per sapere come sta andando l’azienda in termini di risultato
finale, quale configurazione di costo dovrei assumere? La più completa: un costo economico-tecnico mi
farebbe vedere se c’è stato per A, per B o per C un eventuale profitto oppure no.

Quanto meno dovrei rimanere sul costo complessivo; perché se faccio ricavo di vendita - costo
complessivo, quello che ottengo è qualificabile come utile o come perdita (se è un utile, al netto delle
imposte —> nei costi gen. az. ho anche le imposte).

In realtà nella maggior parte delle imprese, anche quando si fa riferimento al full cost, si usa una
configurazione assai meno completa: spesso ci si ferma al costo pieno industriale.

Bisogna idealmente pensare a questo tipo di situazione:

COSTI DIRETTI
COSTI INDUSTRIALI
Ho suddiviso i costi sulla base del
criterio destinativo-finanziario

COSTI COMMERCIALI
COSTI INDIRETTI

COSTI AMM. E GEN. AZ.

Se io oggi volessi provare a tirare una sorta di diagonale, che suddivida in alto a dx i costi diretti
e in basso a sx i costi indiretti come sarebbe la diagonale?
A mano a mano che io passo dalla funzione industriale alla funzione commerciale, alla funzione
amministrativa e costi generali aziendali cosa aumenta? L’incidenza dei costi indiretti.

Quindi c’è una sorta di correlazione inversa: tanto più completa è la configurazione, tanto maggiore è
l’incidenza e la presenza di costi indiretti; ma i costi indiretti sono quelli che vengono gestiti
attraverso scelte tecniche di tipo soggettivo/discrezionale
.
Bisogna trovare un punto di equilibrio fra due esigenze contrapposte: da un lato avere una
configurazione di costo che sia la più completa fra quelle possibili, ma dall’altro, avere dei dati di
costo che siano anche i più attendibili e meno discrezionali possibili.
Se mi fermo sul solo COSTO PIENO INDUSTRIALE, tutti questi sono comunque costi di diretta attribuzione;
ho quasi un 50 e 50; già se prendo dentro i costi commerciali il rapporto si modifica pesantemente: a
occhio ho un 70% di costi indiretti e solo un 30% diretti —> aumenta la discrezionalità/soggettività
della quantificazione del costo.
DIRECT COST -> COSTO PRIMO VARIABILE
É un’impostazione complementare rispetto al FULL COST.

Questa impostazione si basa su una logica di tipo marginalista. Il ragionamento di base che si fa
è questo: posto che noi impresa si abbia già una determinata capacità produttiva installata, una
determinata forza lavoro, una struttura che è data, QUANTO COSTEREBBE PRODURRE/VENDERE UN’UNITÁ
DI PRODOTTO IN PIÚ? QUALE SAREBBE IL COSTO MARGINALE RELATIVO AD UN AUMENTO DI UN’UNITÁ?

Ragionando così, non tutti i costi a livello di totale si modificano; a livello di totale SI
MODIFICANO SOLO I COSTI VARIABILI.

Quindi, l’assunto di questa seconda impostazione, sotto il profilo metodologico, è che


nell’impostazione classica di direct cost SONO COSTI DI PRODOTTO SOLO QUEI COSTI CHE VARIANO AL
VARIARE DEI VOLUMI DI ATTIVITÀ.

Quindi esistono costi di prodotto, i costi variabili; ma esistono anche i costi di periodo.
I costi di periodo sono costituiti dai costi fissi ; secondo questa impostazione è arbitrario e metodo-
logicamente sbagliato imputare ai prodotti i costi fissi; non tutti i costi possono essere attribuiti ai
prodotti; sono costi di prodotto soltanto i costi variabili; i costi fissi in quanto fissi, sono costi
che l’impresa sostiene indipendentemente dai volumi di attività, indipendentemente dell’esistenza o meno
di una stessa attività produttiva.

Ovviamente questa distinzione ha senso solo nel breve termine, quindi assumendo come arco temporale
futuro di riferimento l’esercizio.

Nel medio-lungo termine tutti i costi sono variabili; ma in un’ottica di breve termine io posso
distinguere fra costi variabili e costi fissi.

I costi di periodo devono essere imputati all’impresa in quanto tale: non possono essere ripartiti/
imputati sui prodotti; potrebbe capitare di leggere da qualche parte che con questa impostazione,
l’attribuzione dei costi ai prodotti è “oggettiva”: in senso stretto non è vero —> meglio dire che è
meno soggettiva —> se guardiamo nel dettaglio quali siano i costi variabili è vero che la maggior parte
dei costi variabili sono anche costi di diretta attribuzione; però questo non è vero in senso assoluto.

Il valore totale delle materie prime consumate dipende dai valori di produzione: sono un costo
variabile; ma oltre a essere un costo variabile sono anche costi diretti; per questo fattore produttivo
l’affermazione avrebbe anche un suo senso (posto che il costo consumo delle materie prime non è lo
stesso se io cambio la modalità di tenuta del magazzino —> quindi anche se è un costo diretto non
possiamo parlare di oggettività in senso stretto —> perché se c’è inflazione e io uso il LIFO continuo o
il FIFO continuo o il costo medio ponderato progressivo o il costo dell’ultima partita o il NIFO io
ottengo dei valori di consumo che sono differenti.

Il costo della MOD è anch’esso un costo variabile, è anch’esso un costo diretto.


I costi di talune elaborazioni che vengano fatte svolgere all’esterno sono anch’esse, se riguardano un
dato prodotto, costi variabili (il costo dipenderà dai volumi di attività che sono stati esternalizzati)
ma soprattutto diretti.

Il costo dell’energia elettrica (intesa come forza motrice) dipende dai volumi di attività? Sì quindi è
un costo variabile: però questo è un costo che viene normalmente attribuito come un costo indiretto.

Quindi, è vero che il grosso dei costi indiretti è costituito da taluni costi fissi (costi fissi che
sono per esempio relativi agli impianti comuni, costi fissi che sono relativi al fabbricato all’interno
del quale viene svolta l’attività d’impresa); però non è vero che siano costi variabili solo costi di
diretta attribuzione: in larga parte sì, ma c’è sempre una quota di costi variabili indiretti.

Quindi rispetto alle configurazioni di full cost viste in precedenza, non c’è dubbio che direct cost
arrivi ad una configurazione per forza parziale, però con minori margini di discrezionalità per la
ragione che gran parte dei costi variabili sono anche costi di diretta imputazione.

Però non è qualcosa di affermabile in termini assoluti: c’è sempre un’aliquota di costi che sono
variabili, e quindi di prodotto, ma che però vengono attribuiti in via indiretta/mediata.

Nell’impostazione classica il direct cost era questo: solo costi di prodotto i soli costi variabili;
tutti i costi fissi sono costi di periodo -> costi che non possono essere riferiti al prodotto, ma
devono essere riferiti alla complessiva unitaria attività d’impresa.

Da alcune perplessità derivò uno sviluppo di quest’impostazione: dal DIRECT COST CLASSICO si passò al
DIRECT COST cd. EVOLUTO.

É anche definito DIRECT COST A DUE LIVELLI.


Questa impostazione evoluta parte da un’ulteriore ragionamento: all’interno dei costi fissi ci sono
costi fissi di un certo tipo e costi fissi di un certo altro tipo.

Il costo fisso relativo alla quota di amm.to di uno stampo che io utilizzo unicamente per ottenere un
certo prodotto: ho lo stampo che uso unicamente per il prodotto A e lo stampo che uso unicamente per B;
poi ho la pressa sulla quale posso montare indifferentemente o lo stampo A o lo stampo B -> la quota di
amm.to della pressa è un costo fisso comune (che l’impresa sostiene nell’ambito delle sue attività
perché è un costo fisso in un certo senso indiretto); ma la quota di amm.to dello stampo con cui ottengo
solo il prodotto A è legata da un rapporto di inerenza di questo costo al prodotto A.

Quindi, all’interno di questo ragionamento, oltre ai costi variabili, che rimangono costi di prodotto, i
costi fissi vengono scissi in due tipi:

1) costi fissi speciali (specifici) —> costi fissi che risultano inerenti ad una e una sola tipologia di
prodotto, che diventano, ancorché fissi, costi di prodotto
2) costi fissi comuni -> costi fissi che, in quanto comuni a tutte le attività produttive e non solo,
svolte dall’impresa, vengono considerati come costi di periodo.

Quindi, rispetto a prima si fa una distinzione ulteriore all’interno dei costi fissi: i costi fissi
specifici in questa impostazione diventano costi di prodotto, ancorché fissi, mentre i costi fissi
comuni rimangono come costi di periodo, come costi riferiti a tutta l’attività che l’impresa svolge
(quindi questi non possono essere imputati ai prodotti).

In ogni modo, che io ragioni in termini di direct cost classico o evoluto, quello che rileva è che in
questa impostazione rimangono sempre ambiti di costo che non possono essere attribuiti al prodotto:
tutti i costi fissi nell’impostazione classica; i costi fissi comuni nell’impostazione cd. evoluta.

Talvolta nell’eserciziario alcuni costi fissi anche se comuni vengono ripartiti; quando si parla di
controllo di gestione non si applicano norme di legge: quindi non sono tenuto a rispettare comportamenti
vincolanti statuiti in disposizioni di tipo normativo o principi contabili. Per finalità interne io devo
avere dei comportamenti, delle linee guida che mi guidano sotto il profilo metodologico; però se, in
determinate condizioni particolari, io posso ritenere utile ai fini interni anche contravvenire a quella
che è l’indicazione dottrinale, questo può accadere.

Attenzione al fatto che il concetto di variabilità, in realtà, è un concetto relativo. Noi tipicamente
assumiamo la variabilità rispetto a volumi di attività/produzione/vendita. In realtà il discorso è un
po’ più sofisticato: c’è anche una variabilità rispetto al tempo e alle scelte gestionali.

Si pensi a un libro. La carta, rispetto ad un libro, si configura come materia prima, costo variabile.
La prima variabilità è data in relazione a quante pagine compongono il libro (un libro di 300 pagine
richiederà, a parità di formato, più fogli di carta rispetto ad un libro che sia soltanto 100 pagine).
Quindi, in teoria, un editore nel chiedere ad un autore di predisporre un manuale, potrebbe già dare un
vincolo in termini di numero di pagine. Perché dovrebbe farlo? Perché l’editore potrebbe dire all’autore
di stare entro 200 pagine? Perché ha già in mente il prezzo: conoscendo il mercato sa che un manuale di
600 pagine dovrebbe venderlo ad un prezzo che probabilmente diventerebbe poco appetibile per una parte
della clientela.
Questo in un certo senso vincola il n° di pagine e il consumo di carta per ogni unità di prodotto.

Però, normalmente, l’editore quando pubblica un libro deve promuoverlo e quindi sosterrà dei costi
anche per la promozione: questi sono costi discrezionali, ma sono discrezionali fino al momento in cui
ho deciso di effettuare una certa campagna pubblicitaria anziché una certa altra.

L’editore deve definire la prima tiratura: se si decide che vengano tirate 1.000 copie. Prima avevamo
dei fogli bianchi, che potevano anche essere tagliati in vario modo e composti in vari formati di libro
o in vari libri per quanto riguarda i contenuti. Dopo abbiamo 1.000 di quel dato tipo. Quindi, il costo
della carta è un costo variabile fino al momento in cui io stampo. Quando io ho stampato, io dopo ho
1.000 copie di quel libro; se lo vendo bene; se non lo vendo e va al macero, quelle sono materie prime
che io ho impiegato e che butto via.

Quindi, la variabilità non riguarda soltanto i volumi di produzione, ma anche le decisioni, gli atti
volitivi attraverso i quali si stabilisce una certa cosa anziché una certa altra.

Intuitivamente la carta rispetto ad un libro si configura come un costo variabile: ma nel momento in
cui si è già deciso e si sono stampate 1.000 copie di un determinato libro, la carta che è finita in
quelle 1.000 copie non è più un costo variabile per quel libro -> quello è diventato u costo fisso, un
costo già pre-sostenuto finanziariamente.

Altro esempio: nel momento in cui una compagnia aerea decide che da Bologna a Parigi debbano esserci 2
voli giornalieri, il costo del carburante, rispetto all’attività della compagnia aerea è un costo
variabile o fisso? In termini generali, il consumo di carburante dipende dalla tratta, ma ancora prima
da quali aeroporti voglio collegare e su quali tratte voglio volare poi vado a definire con quale
frequenza. Dopodiché ci sarebbe anche un problema che riguarda la scelta del tipo di aereo (anche da
questo dipende il consumo). In termini astratti, il costo del carburante rispetto ad una compagnia aerea
si configura come un costo variabile: dipende dai volumi di attività: ma nel momento in cui si decide
che la tratta fra Bologna e Parigi sia servita da 2 voli giornalieri, quello che era un costo variabile
è diventato un costo fisso. Poi è un fisso medio (indicativo): se ho il vento a favore il consumo di
carburante sarà inferiore, se ho vento contro sarà più elevato; dipende anche da quanto carburante in
più si ha imbarcato come soglia di sicurezza...

Il costo del carburante è tipicamente un costo variabile per una compagnia aerea, ma non lo è nel
momento in cui si è definito e ci si è impegnati a servire determinati collegamenti con una certa
frequenza e per questi si è assunto un impegno formale con la potenziale clientela.

Spesso quando una compagnia aerea ha venduto pochi biglietti annulla il volo accampando problemi di tipo
tecnico.

Noi per semplicità assumiamo sempre che la variabilità sia da riferirsi ai volumi di produzione, ma in
realtà non è vero: il discorso sarebbe un po’ più complicato. Ho diversi livelli di variabilità: ho una
variabilità elevata nel momento in cui devo ancora decidere cosa fare; nel momento in cui vado a
decidere di stampare dei libri di massimo 200 pp. prima tiratura 1.000 copie, un tipico costo variabile,
consumo di materia prima (carta) è diventata già un costo fisso.

C’è chi usa dire che, in un’ottica di breve/brevissimo termine,in termini contingenti (non strutturali),
il direct cost classico può costituire la base minima per costituire un prezzo di vendita —> nel breve
termine -> insostenibile come pratica durevole.

Perché? Stiamo parlando di costi (insieme a ricavi e margini di cui a breve stiamo per parlare) hanno a
che fare con la dimensione economico-reddituale (quella di cui la COA si occupa). Il direct cost è una
misura di costi; però dietro a questi costi, la maggior parte di questi costi (praticamente tutti) sono
anche costi che hanno natura finanziaria —> quindi questo è un costo uscita —> in un’ottica di breve/
brevissimo termine io, a fronte di questa uscita, dovrei cercare di avere un ricavo di vendita che fosse
almeno tale da generare una copertura dal punto di vista economico (si chiamerà margine di
contribuzione); ma questo margine di contribuzione ha già anche una nozione di carattere finanziario.

Se io fisso come prezzo di vendita, assumendo come base il costo primo variabile, io fisso un prezzo di
vendita come aspettativa di incasso o come incasso, che dovrebbe essere superiore agli esborsi che sono
collegati ai costi variabili. Quindi non posso avere una situazione soddisfacente dal punto di vista
economico perché sono tutt’altro che sicuro che il margine che mi si genera mi consente di coprire i
costi fissi, i costi che sono rimasti esclusi.

Però questa operazione è un’operazione che non produce un effetto negativo sotto il profilo finanziario
perché al prezzo aspettativa di entrata io contrappongo un costo uscita che è più basso —> un’operazione
come questa economicamente alla lunga non è sostenibile perché io devo anche coprire gli ammortamenti e
tutti i costi fissi. Però, nel breve/brevissimo termine, non mi danneggia sotto il profilo finanziario
perchè genera comunque autofinanziamento.

I costi variabili, semplificando, sono tutti costi che o hanno già avuto o a breve avranno come riflesso
un esborso monetario: sono costi uscita.

Un ricavo di vendita spero che anch’esso avrà (magari contestualmente o qualche tempo dopo) come
contropartita un incasso.

Se io strutturalmente determino il ricavo di vendita come più alto almeno del direct cost classico
(costo primo variabile), non faccio probabilmente molta strada sotto il profilo economico (perché i
costi fissi qualcuno li deve coprire —> mi deve rimanere un utile che sia congruo) però in un’ottica di
breve/brevissimo termine non faccio disastri perché sto cercando di assicurarmi un incasso di denaro che
è superiore rispetto ai correlativi esborsi.
Questa è un’operazione che in termini di net cash di gestione corrente, di flussi di gestione operativa,
produce un contributo positivo sotto il profilo finanziario; evidentemente non è sostenibile a lungo
perché prima o poi i macchinari e gli impianti li dovrò rinnovare e quindi anche le quote di amm.to
devono trovare una loro copertura (se non è così non vado molto lontano).

Dato che il direct cost viene utilizzato, oltre che per finalità di controllo, anche per supportare il
processo decisionale, passiamo ora al tema del CONTO ECONOMICO A BANDIERA.

CONTO ECONOMICO A BANDIERA

Il conto economico si dice a bandiera perché è tipico degli strumenti di programmazione e controllo
(qui stiamo parlando di COA e quindi di controllo).

É un C.E. che in termini assolutamente generali può essere proposto nel modo seguente

Se il C.E. è a bandiera io devo avere più aree di attività: le aree di attività che qua indico sono
quelle che contraddistinguono il mio oggetto di riferimento ultimo, cioè l’oggetto di riferimento
rispetto al quale io voglio determinare ricavi, costi e (per differenza) risultati rispetto ad un infra-
periodo. Molto spesso ancora sono le tipologie di prodotti.

Suppongo di avere 3 prodotti A, B, C —> aree rispetto alle quali voglio avere dei dati di tipo analitico
—> se sono monoprodotto non ha nessun senso ragionare sul prodotto (A, B, C potrebbero essere aree
geografiche o canali distributivi)

VOCI TOT A B C
R.V. ∑ RV RV A RV B RV C

--IMPUTATI
COSTI
∑ CI CI A CI B CI C

MARG.LORDO SU
COSTI
IMPUTATI
∑ ML ML A ML B ML C

COSTI COSTI
- COMUNI NON
IMPUTATI
∑ COMUNI NON
IMPUTATI

R.N. ∆
Siamo in COA: queste sono elaborazioni che io svolgo per il controllo e il controllo dev’essere più
frequente rispetto a quello della CoGe (e potenzialmente anche più tempestivo).

Questi sarebbero i costi, ricavi e risultati relativi al mese di ottobre. Da dove attingo i ricavi di
ottobre? La mia non è un’impresa industriale; sono merci; io compro beni e vendo beni —> tratto
soltanto 3 tipi di beni. Io saprei quando escono le merci dal mio magazzino; quindi io so cosa ho
venduto; gli scarichi ce li ho dal magazzino. Anche giuridicamente, per i beni mobili quali sono le
merci, l’operazione di passaggio di proprietà si considera conclusa quando le merci vengono consegnate
o spedite —> in CoGe si rilevano i ricavi

In CoGe nel mese di ottobre avrò alcune vendite fatturate ad ottobre ma che sono avvenute a settembre
(e queste non le devo considerare perché relative all’infra-periodo di competenza precedente), poi
avrò delle vendite avvenute ad ottobre e fatturate ad ottobre (queste vanno bene), ma mi mancheranno
delle vendite che sono già avvenute (i beni sono usciti dal magazzino) ma che però io non ho ancora
fatturato e che fatturerò a novembre —> i ricavi di vendita che devo considerare devono essere di
competenza dell’infra-periodo.

Io devo poi togliere i COSTI IMPUTATI: costi imputati ai prodotti —> espressione volutamente generica;
se uilizzo il full cost, costi imputati potrebbe essere lo stesso costo diretto industriale (più
frequentemente il costo pieno industriale); se voglio una configurazione ancora più completa potrebbe
essere il costo industriale commerciale; se sono particolarmente zelante la configurazione potrebbe
essere quella di costo complessivo o addirittura di costo economico-tecnico.

Trovo un MARGINE: grandezza differenziale RICAVI - taluni COSTI —> MARGINE LORDO SU COSTI IMPUTATI

LORDI questi margini perché? Se io anziché fare riferimento al full cost, utilizassi il direct cost
classico, quali sarebbero i costi imputati? Tutti i costi variabili. E allora facendo RICAVI DI VENDITA
- COSTI VARIABILI io avrei un margine che si chiamerebbe MARGINE LORDO DI CONTRIBUZIONE.

Ma dato che io non ho battezzato una scelta e lascio COSTI IMPUTATI in termini generici, quelli che
mancano sono i COSTI COMUNI O I COSTI NON IMPUTATI.

Io qua non posso che considerare i costi comuni a livello di totale: i costi comuni sono tali perché
non sono ripartiti fra i prodotti.

Ora cosa ottengo? Se faccio girare lì dentro ai costi comuni non imputati tutti i costi compresi gli
oneri finanziari e le imposte, qui sotto trovo un risultato netto.

Quand’è che io ho tutti gli elementi per definire il carico fiscale/imposte sul reddito del periodo?
Con riferimento al reddito dell’intero esercizio: è difficile che su base mensile io riesca a stimare
adeguatamente quello che è il carico fiscale di IRES/IRAP .

I costi che faccio girare qua dentro sono i costi operativi: hanno a che fare col processo di
investimento —> non ci sono dentro oneri fiscali/finanziari (li considero a fine esercizio)

Operativamente si determinano delle configurazioni di costo che possono essere addirittura ulteriori
rispetto a quelle che abbiamo visto parlando di full cost. Io passavo dal costo industriale commerciale
al costo complessivo: in realtà prima del costo complessivo potrei avere il costo operativo se tenessi
fuori i costi generali aziendali (oneri finanziari e interessi passivi).

Questo è uno schema generale.

ANDIAMO A VEDERE SE UTILIZZO IL DIRECT COST, COME PUÓ VENIR FUORI QUESTO SCHEMA

La prima riga rimane invariata; la seconda la devo personalizzare: ho deciso di adottare, fra le tante
possibili configurazioni il DIRECT COST CLASSICO —> sono per me costo di prodotto i soli costi variabili

DIRECT COST CLASSICO

VOCI TOT A B C
R.V. ∑ RV RV A RV B RV C

- C.V. ( ∑ CV) (CV ) A (CV ) B


(CV ) C

M.L.CONTR. ∑ MLC MLC MLC MLC

- C.F. ∑ CF i costi
considerati sono
soltanto alcuni
differenza ricavi-costi e non tutti
Margine Lordo di
contribuzione
R.N. ∆ posto che questa grandezza debba sempre
avere segno positivo (altrimenti con i RV
non copro nemmeno i CV), questo numero mi
esprime il CONTRIBUTO che ognuna di quelle
produzioni offre alla copertura dei costi
fissi (quelli che mancano); e poi è
sperabile che rimanga qualcosa in più
Quindi, questo margine di contribuzione indica già un risultato rilevante ancorché lordo, perché mi dà
una misura della capacità di ognuna delle mie aree di attività di coprire/farsi carico di costi fissi
e di lasciarmi anche un risultato economico sperabilmente positivo.

Se è un direct cost puro, mancano i costi fissi ; avrò il mio risultato netto come delta se ci ho messo
dentro tutto; potrebbe essere un risultato netto (se ometto d’inserire nello schemi gli interessi
passivi e le imposte sarebbe un risultato operativo —> ROC).

VARIANTE: Se io invece adottassi il DIRECT COST EVOLUTO?

DIRECT COST EVOLUTO

VOCI TOT A B C
R.V. ∑ RV RV A RV B RV C

- C.V. (∑ CV) (CV ) A (CV ) B (CV ) C

Margine primo
di M.L.CONTR. ∑ MLC MLC A MLC B MLC C
contribuzione

- C.F.S. (∑ CFS) (CFS ) (CFS ) A B (CFS ) C

io

Margine semi-
lordo di M.S.L.CONTR. ∑ MSLC MSLC MSLC A MSLC C
B
contribuzione
- C.F.C. ∑ CFC
R.N.
R.N.È
E- e. ∆
∆∆

Se uso il direct cost a 2 livelli i costi fissi specifici o speciali vengono considerati come costi di
prodotto, quindi - COSTI SPECIFICI (O SPECIALI);
Ottengo il Margine Lordo di contribuzione
Qual è il significato che assumerebbe il valore all’interno della cella C? Se avessi 30.000€ lì dentro cosa
vorrebbe dire? É sempre un margine di contribuzione: esprime sempre il contributo che il prodotto C offrirebbe
per coprire i costi fissi comuni e anche per generare utili.

Se questo valore fosse negativo vorrebbe dire che quel prodotto lì, almeno con riferimento all’infra-periodo da
cui questi dati derivano, quel prodotto lì non è stato in grado di coprire i propri costi.

Non si è coperto i propri costi: potrebbe avere coperto i costi variabili -> il primo margine mi aspetto che
sia sempre positivo; ma se questo primo margine non fosse in grado di dare copertura ai costi specifici, il
secondo margine sarebbe negativo.

Ma se C avesse un secondo margine negativo, vorrebbe dire che gli altri prodotti si dovrebbero fare carico o
almeno in questo periodo si sono fatti carico di andare ad assorbire la scopertura; quindi, oltre al dover
farsi carico di coprire i costi fissi comuni e generare utile, la parte di quel margine idealmente è andata a
coprire l’incapienza dei ricavi della produzione C.

Per finire mancano i costi fissi comuni —> - costi fissi comuni —> R.N.

SE UTILIZZASSI INVECE COME CONFIGURAZIONE DI COSTO IL FULL COST che cosa accadrebbe?

FULL COST
VOCI TOT A B C
R.V. ∑ RV RV A RV B RV C
.

-
- C.P. IND. ∑ CPI CPI A CPI B CPI C

R.L. IND. ∑ RLI RLI A RLI B RLI C

- C.COMM. ∑ C.COMM.

C. AMM. C. AMM.
- E GEN.
AZ.
∑ EAZ.GEN.
R.N. ∆
Facciamo finta di assumere come configurazione di costo di prodotto inteso come FULL COST il costo
pieno industriale.

É costo di prodotto il costo pieno industriale; - costo pieno industriale

Questo schema di C.E., nella parte non a bandiera, ricalca esattamente il costo economico a costo del
venduto (di impostazione anglosassone)..—> ho i costi suddivisi per funzione (industriali, comm., amm...)

RICAVO DI VENDITA - COSTO PIENO INDUSTRIALE = RISULTATO (O MARGINE LORDO INDUSTRIALE

CONTO ECONOMICO DI IMPOSTAZIONE ANGLOSASSONE


P.I.L.
- CONSUMI MAT. PRIME E SERVIZI

= VALC

- AMM./ACC. - C. LAV.

= VAN C = MOL C

- C. LAV. - AMM./ACC.

R.O.C.

Tolti i costi industriali cos’altro manca? Mancano i costi commerciali che io considero a livello di
totale; - COSTI AMMINISTRATIVO; - COSTI GENERALI E AZIENDALI.

Quello che trovo sarebbe sempre un Risultato Netto: utile se ha segno +, perdita se ha segno -.

Se invece io utilizzassi come schema , come configurazione di costo di prodotto, il costo industriale
commerciale , che è la seconda configurazione più completa fra quelle viste nel full cost, cosa cambie-
rebbe? Io voglio considerare come costi di prodotto non solo i costi industriali, ma anche i costi
commerciali: come cambia lo schema? Io devo sostanzialmente allargare una parte, perché dovrò ripartire
i costi commerciali anche su A, su B e su C; quindi avrò un ulteriore risultato che sarà un risultato
lordo industriale commerciale. Se uso come configurazione quella ulteriore del costo complessivo
succede che non ho più la bandiera: nel senso che io vado addirittura a ragionare in termini di utile e
perdita per A, per B, per C.

VOCI TOT A B C
R.V. ∑ RV RV A RV B RV C

-
- C.P. IND. ∑ CPI CPI A CPI B CPI C

R.L. IND. ∑ RLI RLI A RLI B RLI C

- C.COMM. ∑ C.COMM.

C. AMM. C. AMM.
- E GEN.
AZ.
∑ EAZ.GEN.
R.N. ∆

Tutto questo sforzo per dire che rispetto ad uno schema generico (costi imputati, costi comuni non
imputati) io ho poi degli effetti che sono diversi sulla base delle scelte che poi concretamente andrò
a compiere. Le configurazioni adottabili sono alla fine circa 5 in tutto:

2 se adotto il DIRECT COST (SEMPLICE —> sono costi imputati/di prodotto solo i costi variabili; EVOLUTO
—> sono costi di prodotto, oltre ai costi variabili anche i costi fissi specifici).

Se utilizzo il FULL COST normalmente assumo o il costo pieno industriale (quindi i costi commerciali,
amministrativi e gen.aziendali rimangono non attribuiti) oppure utilizzo il costo industriale
commerciale (e rimangono non attribuiti i costi amministrativi e generali aziendali) oppure utilizzo il
costo complessivo (e non rimane nulla di non imputato/attribuito).
Ovviamente ci sono delle varianti: potrei ripartire i soli costi industriali, commerciali e
amministrativi, lasciando fuori i costi generali aziendali (a quel punto avrei un costo operativo);
potrei addirittura utilizzare la configurazione di costo economico-tecnico quindi inserendo all’interno
del prospetto anche gli oneri figurativi (anche se non lo si fa mai operativamente.

Quindi il cd. C.E. A bandiera è il cd. DOCUMENTO DI SINTESI.

Ai fini del controllo tutte le distinzioni sino ad ora viste sono finalizzate ad ottenere un prospetto
di questo tipo.

Tutto lo sforzo sino a qui fatto serve a fornire questo tipo di report su base mensile/bimestrale/
trimestrale: un prospetto che, ai fini del controllo (o meglio elaborazioni che hanno per oggetto il
controllo dell’andamento economico) alla fine mi dica come stanno andando le mie attività.

Noi ci troviamo, con particolare riferimento al full cost, di fronte ad un potenziale dilemma: tanto
più utile sarebbe per noi avere un Risultato il più Netto possibile: l’ideale sarebbe poter usare il
Costo complessivo; se potessi usare il Costo complessivo io saprei addirittura qual è stata l’utile o
la perdita al netto delle imposte per ciascun area di attività; ma tanto più completa è la mia
configurazione di costo, tanto più arbitraria e soggettiva è la modalità scelta per ripartire i costi
indiretti: e l’incidenza dei costi indiretti aumenta a mano a mano che la configurazione si fa più
completa perché la maggior parte, in termini relativi, dei costi diretti è nella funzione industriale.
Quindi un costo pieno industriale sicuramente è un costo parziale, però è un costo che risente di meno
di configurazioni più complete delle scelte operate nel ripartire i costi indiretti: i costi
amministrativi sono tendenzialmente tutti costi indiretti ormai; per definizione sono costi indiretti
gli oneri finanziari e le imposte —> tento più completa è la configurazione di costo, tanto meno
attendibile, almeno potenzialmente, è la stessa.
Ma se io a dei ricavi che sono quelli contrappongo dei costi, la cui misura potrebbe variare al variare
del metodo scelto della ripartizione dei costi (base multipla/centri di costo/ABC), mi cambia il
risultato.

Quindi, io devo avere la capacità di percepire anche la qualità e affidabilità di questi risultati (e
in particolare dell’ultimo risultato).

Spesso, anche utilizzando il full cost, ci si accontenta di configurazioni che sono meno complete
(assai poco full), perché il costo pieno industriale in realtà considera soltanto i costi di
fabbricazione: i costi commerciali, i costi amministrativi e i costi generali aziendali vengono
acquisiti a livello di totale.

É una configurazione incompleta; però il grado di attendibilità di quei risultati lordi industriali è
relativamente più alto rispetto a quello che sarebbe il Risultato Netto di A, di B o di C (perché per
determinare il R.N. Di A, di B o di C io dovrei considerare un costo complessivo, ma nel costo
complessivo ho una fortissima incidenza di maggiori ulteriori nuovi costi amministrativi).

IL DIRECT COST PUÓ SÍ ESSERE UTILIZZATO AI FINI DEL CONTROLLO (NULLA VIETA CHE IO
UTILIZZI IL DIRECT COST PER TIRARE FUORI OGNI INFRA-PERIODO QUEL C.E. A BANDIERA VISTO
POC’ANZI), MA IN REALTÁ IL DIRECT COST É UTILE (IN ALCUNI CASI INDISPENSABILI) PER
FORNIRE DATI A SUPPORTO DELLE DECISIONI.

IL DIRECT COST É UTILE (TALVOLTA NECESSARIO) PER FORNIRE DATI A SUPPORTO DELLE
DECISIONI.
Mentre le elaborazioni che hanno per oggetto il controllo possono essere tutte quante pre-strutturabili
e in relazione alla periodicità (mensile) e in relazione a qual è l’oggetto di riferimento (prodotto A,
B, C; canale x,y,z; area di mercato 1,2,3) sono anche strutturabili in relazione alla configurazione di
costo assunta (utilizzo il full cost inteso come costo pieno industriale; full cost inteso come costo
complessivo), le elaborazioni che hanno per oggetto il supporto decisionale non sono elaborazioni pre-
definibili perché sono elaborazioni che devo predisporre alla bisogna a fronte di uno specifico problema
che si evidenzia.

Una volta compreso il problema devo capire come è meglio predisporre i dati per poter decidere cosa
fare.

Il direct cost risulta, in termini relativi, decisamente più utile rispetto al full cost per questo tipo
di situazioni.

· uno di questi casi riguarda la SCELTA SE MANTENERE OD ELIMINARE UNA PRODUZIONE IN PERDITA

Supponiamo di avere la seguente situazione

VOCI TOT A B C

RV 20.000 10.000 7.000 3.000

-C.COMPL. (17.000) (8.000) (5.500) ( 3.500)

RN 3.000 +2.000 +1.500 (500)


Per potere affermare che una produzione è in perdita, questa perdita dev’essere una perdita strutturale.
Se questo è un report mensile, non basta che in un mese ci presenti questi dati per poterci considerare
in perdita (può essere una congiuntura sfavorevole momentanea).

Supponiamo che C presenti (da tempo) risultati strutturalmente negativi. Il tema è decidere se mantenere
o eliminare una produzione in perdita: prima di capire come procedere devo vedere com’è messa l’azienda.
Devo vedere se per esempio i processi produttivi (si tratta di un’impresa industriale) attraverso i quali
io ottengo A, B, C sono omogenei. Produzioni del tipo A: tavoli e seggiole da pranzo in legno (tavolo +
4 sedie); produzione B: camere da letto in legno; produzione C: mobili da soggiorno in legno.

L’attività di A, B e C è omogenea sia rispetto alla materia prima lavorata, sia rispetto alle competenze
che devono avere le maestranze, sia alle macchine che servono per andare a lavorare il legno.

Se non ci sono vincoli di connessione fra i prodotti, cioè non sono prodotti che siano visti dal cliente
come un pacchetto (eliminando uno dei prodotti il cliente potrebbe perdere interesse per gli altri due
—> vincolo di connessione) e l’azienda non vende l’intero arredamento, se il prodotto A e il prodotto B
stanno andando bene, io potrei pensare senza fare ulteriori calcoli di eliminare la produzione C: la
capacità produttiva che in questo modo mi si libera la potrei ribaltare/utilizzare per produrre maggiori
quantità dei prodotti di tipo A e dei prodotti di tipo B.

Se questa fosse la situazione, ho una capacità produttiva omogenea rispetto ai prodotti A e B; quindi
smettendo di produrre C posso ottenere maggiori quantitativi di A e di B che sul mercato possono essere
collocati alle medesime condizioni (i maggiori quantitativi di A e di B non ne vanno a influenzare il
prezzo unitario -> cosa che potrebbe avvenire se operassi in un regime di oligopolio o monopolio) [il
mercato è in grado di assorbire maggiori quantità di A e di B].

Già se ci sono vincoli di connessione il problema diventa più complesso. Es: oggetto di riferimento —>
reparti vendita di un supermercato (ortofrutta, macelleria, pesce...) -> aree di attività
Molto spesso l’ipermercato mantiene la pescheria anche se il risultato di quel reparto è negativo.
Mettiamo che A = alimentari confezionati; B = tessile; C = pescheria
Pescheria -> margine spesso negativo —> il pesce costa parecchio e deperisce rapidamente (il prezzo è
alto perché deve coprire anche l’invenduto).
Spesso la nostra area C in un ipermercato è davvero una pescheria. Tuttavia, pur sapendo che questo è
probabilmente un esito strutturale lo si mantiene perché chi va all’ipermercato non è un cliente
specialista bensì un cliente che ha poco tempo e va nell’ipermercato per cercare di fare tutta la spesa.
In quest’ottica, eliminare un reparto come quello della pescheria può dirottare flussi importanti di
clientela da te ad un tuo concorrente (a poca distanza da te c’è un tuo concorrente che vende anche il
pesce). Questo è uno dei rari casi in cui c’è un vincolo di connessione: eliminare un’area di attività
si andrebbe a riverberare negativamente sulle altre aree di attività. Bisogna in questi casi dei conti e
ragionare in termini di costi cessanti e ricavi cessanti: se elimini quella determinata produzione ti
vengono meno dei costi, ma ti verrebbero meno anche dei ricavi che non riguardano soltanto C ma che
potrebbero riguardare anche altre aree di attività.

Ma nel caso in cui io sia in questa condizione: ho una capacità produttiva dedicata;"
L’impresa produce piccole imbarcazioni, piccoli natanti; la produzione A fa riferimento a scafi in vetro
resina, la produzione B fa riferimento a scafi in alluminio, la produzione C fa riferimento a scafi in
legno.
Se la produzione C è in perdita, non è che la capacità produttiva che tu liberi eliminando C la puoi
riversare su A e su B perché é diversa la materia prima lavorata, sono. Diverse le competenze che devono
avere i tuoi dipendenti e sono diverse anche le macchine con le quali tu ottieni quei prodotti; in
questo caso non ci sono vincoli di connessione: non è che uno compra la trilogia dei natanti —> tu
scegli quello che per te va meglio. Quindi, anche se elimini gli scafi in legno questa cosa
necessariamente non si va a riflettere negativamente su A e su B.

Supponiamo che la situazione sia questa: ho la produzione C, scafi i legno, che è strutturalmente in
perdita da un po’ di tempo; devo decidere (non è automatico) se mantenerla o eliminarla —> non è
sufficiente osservare che il risultato ultimo, sempre ammesso che io utilizzi il costo complessivo, è in
perdita per la produzione C —> ho bisogno di avere altre informazioni —> serve il DIRECT COST.

Qui potrei avere un problema. Avendo il mio sistema informativo settato ai fini del controllo sul full
cost, io riesco a fare delle query che mi consentano di estrarre i dati in termini di direct cost? Una
volta era complicato perché se tu taravi il tuo sistema informativo sulla base di un certo criterio
classificatorio, il sistema era rigido e a fatica di consentiva di fare delle estrazioni sulla base di
un altro criterio classificatorio (oggi questa cosa è relativamente più semplice). Supponiamo che sia
possibile. Come devo reimpostare la cosa? Sempre C.E. a bandiera

A —> PICCOLE IMBARCAZIONI CON LO SCAFO IN VETRO RESINA


B —> PICCOLE IMBARCAZIONI CON LO SCAFO IN ALLUMINIO
C —> PICCOLE IMBARCAZIONI CON LO SCAFO IN LEGNO

DEVO DECIDERE SE MANTENERE O ELIMINARE C; SE ELIMINO C POSSO RIVERSARE LA


CAPACITÀ PRODUTTIVA CHE MI SI LIBERA PER OTTENERE MAGGIORI QUANTITATIVI DI A
E DI B? NO PERCHÉ LA LAVORAZIONE DI BARCHE IN LEGNO É COMPLETAMENTE DIVERSA
(E PER MACCHINARI DA UTILIZZARE E PER MATERIA PRIMA DA UTILIZZARE E PER
COMPETENZE CHE DEVONO AVERE I MIEI OPERAI) RISPETTO A CIÓ CHE É RICHIESTO PER
OTTENERE PRODOTTI IN VETRO RESINA O IN ALLUMINIO. NON C’É NEPPURE VINCOLO DI
CONNESSIONE; NON É CHE SE IO SMETTO DI PRODURRE C, QUESTO SI RIVERBERI
NEGATIVAMENTE SU A E SU B; NON É CHE COMPRI IL PACCHETTO DI BARCHE; NE COMPRI
UNA, QUELLA CHE SECONDO TE VA MEGLIO.

I ricavi di vendita non si modificano riclassificando i dati sulla base di


una logica diversa. Direct cost: cosa devo togliere adesso? I costi variabili
Trovo il Primo margine di contribuzione: positivo pari a 10.500.
DIRECT COST EVOLUTO

VOCI TOT A B C
∑ RV

Eff

FiIm
:
•Ì
RVA RVB RVC
et Ia In
R.V. 20.000 10.000 7.000 3.000

- C.V. ((∑9.500
CV) ) ((4.000
CVA)) ((CVB))
3.500 (CVC))
( 2.000

Margine primo

BLAKEY
di
contribuzione
nooooo
I MC
M.L.CONTR. ∑Boa
MLC
10.500 MLCAo-E.EE3.500
6.000 MLCB MLC
E-
1.000 C

- C.F.S. ((Dagon
∑3.000 CFS )
CFS)) ((1.000
Pozzo ) ((1.200
A CFS ))
Beep B (CFS ))
(800 C


Ostessa
II MC
M.S.L.CONTR. ∑7.500
030000 MSLC
MSLC Bagassa
5.000 E-
MSLC
2.300
A B
MSLC
E-
200 C

- C.F.C. ∑ CFC
R.N.
-CFC
R.N. ∆
R.N. (4.500
∆∆
)∆
RN 3.000

Anche se C mi dà complessivamente un Risultato Negativo, qua vedo già una cosa importante: C con i
propri Ricavi più che copre i propri Costi variabili.

Ma questo problema lo si affronta utilizzando il direct cost a 2 livelli: tolgo ora i costi fissi
specifici. Ora io faccio il calcolo con tutti i costi fissi specifici: ma dopo diventerà rilevante
vedere se quei costi fissi specifici sono o non sono cessanti —> un costo è cessante quando viene meno
a fronte di una certa decisione. Facciamo finta in questo caso che tutti i costi fissi specifici siano
anche cessanti.

Un costo fisso specifico è un costo fisso che è inerente a quella e solo quella area di attività.
Ottengo un secondo margine di contribuzione (o margine semi-lordo di contribuzione o margine di
contribuzione di secondo livello).

I costi fissi comuni ammontano complessivamente a 4.500.

Se questi sono i numeri, ci conviene eliminare C? No perché C non soltanto copre tutti i suoi costi,
sia quelli variabili che quelli fissi specifici, ma dà anche un contributo limitato, ma comunque
positivo, alla copertura di costi fissi comuni e alla generazione del reddito netto. Se con questi
numeri, io eliminassi C che cosa accadrebbe?

Se io elimino C che cosa succede al risultato Netto? Diminuisce di 200 perché questi 200 non
aiuterebbero più la produzione A e B a coprire, in primo luogo, i costi fissi comuni e quindi anche a
generare reddito.

Con questi numeri non converrebbe eliminare C perché, se eliminassimo C, il RN complessivo peggiorerebbe.
SE ELIMINO C VENGONO MENO I 3.000 DI RICAVI; MA VENGONO MENO ANCHE I 2.000 E GLI 800 DI COSTI. IN ∆ É
200. SI IPOTIZZA CHE TUTTI I COSTI VARIABILI SIANO SEMPRE CESSANTI E, IN QUESTO CASO, ANCHE I COSTI
SPECIFICI SIANO CESSANTI.

Se il suggerimento dicesse che i costi fissi specifici sono cessanti solo nella misura del 20/30%,
allora nel fare il calcolo di convenienza bisognerebbe considerare soltanto la parte che è cessante,
perché la parte non cessante continuerebbe a gravare, almeno nel breve, sulle altre attività.

CAMBIAMO I DATI -> DIRECT COST EVOLUTO


CAMBIAMO I NUMERI:
VOCI TOT A B C
∑ RV

Eff
È
⇐ÉAI
•Ì
RVA RVB RVC
et Ia In
R.V. 20.000 10.000 7.000 3.000

- C.V. ((∑9.500
CV) ) ((4.000
CVA)) ((CVB))
3.500 (CVC))
( 2.000

Margine primo
MADAMA ∑Boa MLCA MLCB MLC

JEAN
di M.L.CONTR. MLC
10.500 6.000 3.500 1.000C
contribuzione

- C.F.S. ((o-E.EE#@BsaoaToaoa

3.400 CFS )
CFS)) ((1.000) (
A CFS )) ((CFS
Beep
(1.200 1.200
B )) C


∑ MSLC
M.S.L.CONTR. (7.100) MSLC
5.000ragazze
MSLC
A2.300 MSLC
E-
200 B C

- C.F.C.
- ∑ CFC)
C.F.C. (4.100
R.N.
R.N.
R.N. ∆



R.N. 3.000
SIMULO QUESTA VOLTA CHE I COSTI FISSI SPECIFICI SUPERINO IL PRIMO MARGINE DI CONTRIBUZIONE. PRIMA
ERANO 800 QUINDI AVEVO UN ∆ = +200. QUESTA VOLTA I COSTI SPECIFICI AMMONTANO A 1.200 E IL MARGINE DI
CONTRIBUZIONE DI 2° LIVELLO VIENE NEGATIVO.

IL 2° MARGINE DI CONTRIBUZIONE SCENDE A 7.100.

Perché RN rimanga invariato devo modificare anche i Costi fissi comuni.

La produzione C copre i propri costi variabili, ma non ce la fa a coprire i propri costi fissi
specifici; quindi mi dà un 2° margine di contribuzione che questa volta è negativo. Il che vuol dire
che una parte del Margine di Contribuzione di secondo livello di A e di B si deve occupare non
soltanto della copertura dei costi fissi comuni, ma deve andare a coprire anche la parte non coperta
dei costi fissi specifici di C.

Se io eliminassi la produzione C, cosa succederebbe al Risultato Netto? Questa volta aumenterebbe e


aumenterebbe di 200.

Io sono partito dall’assioma che il R.N. fosse di 3.000; ho aggiustato i conti di conseguenza.

La prima ipotesi è alternativa alla seconda; però in questo caso se io elimino la produzione C, fermi
gli altri dati, cosa accadrebbe al R.N.? Aumenterebbe di 200.

OGNI VOLTA CHE IO DEVO SCEGLIERE SE MANTENERE O ELIMINARE UNA PRODUZIONE, SE NON C’É VINCOLO DI
PRODUZIONE E SI TRATTA DI PRODUZIONI DEDICATE, IO DEVO UTILIZZARE IL DIRECT COST CON LA MODALITà A DUE
LIVELLI; ED É IL SECONDO MARGINE DI CONTRIBUZIONE QUELLO SUL QUALE NORMALMENTE DECIDO, POSTO CHE IL
PRIMO MARGINE DI CONTRIBUZIONE PER DEFINIZIONE DEV’ESSERE POSITIVO (ALTRIMENTI VORREBBE DIRE CHE QUEI
RICAVI DI VENDITA NON COPRONO NEMMENO I COSTI VARIABILI).

Ci sono tutta una serie di realtà aziendali, che di solito vendono servizi (spesso servizi di trasporto
o alberghiero) [—> buonA parte delle imprese che non hanno il magazzino] e che offrono servizi che si
rendono disponibili per un certo istante di tempo; perché queste aziende possono praticare last minute
tariffe scontatissime? Qual è la logica?
Se tu hai una struttura che è fortemente condizionata da costi fissi e non hai un magazzino, se tu hai
10 posti invenduti sull’aereo, il costo della trasvolata dell’aereo quello è (con dieci persone in più
non è che il consumo di carburante aumenta); a fronte di una struttura di costi che è quella, basta che
io venda quegli ultimi 10 biglietti ad un prezzo che mi consenta di avere un margine di contribuzione,
che a me già conviene perché i miei costi non si modificano in modo significativo.

Dal punto di vista della compagnia aerea low cost i costi variabili, da questo punto di vista, non è
che ci siano.

In certi momenti dell’anno se compri un biglietto per andare in Sardegna, fanno delle condizioni
particolarmente favorevoli: sei in bassa stagione —> si cerca di tenere i prezzi bassi per vendere il
più possibile. Non venderai a condizioni particolarmente vantaggiose, però è meglio avere un ricavo
basso e cioè un margine di contribuzione piuttosto che non avere nessun margine di contribuzione.

Il rischio di tutto questo però è quello di rovinare il mercato.

Il direct cost in alcune situazioni diventa la base minima per poter determinare un prezzo di
vendita; lo diventa non solo per le ragioni finanziarie viste in precedenza, ma anche perché mi dà
comunque un margine di contribuzione: il margine di contribuzione aiuta.

Convenienza economica comparata —> make or buy


Data una certa struttura di costi, impostata col direct cost, sto valutando se
esternalizzare una certa produzione: se esternalizzo questa produzione il fornitore mi fa un
determinato prezzo/costo; ma a me verrebbero meno dei costi.
Mi conviene o non mi conviene esternalizzare?

SCELTA DELLA PRODUZIONE PIÚ REMUNERATIVA

Supponiamo che io abbia un processo produttivo molto semplice; ho un unico impianto, fattore produttivo
durevole, che è quello attraverso il cui utilizzo posso ottenere indifferentemente o il prodotto X, o
il prodotto Y o il prodotto Z. per me è la stessa cosa.

Potrebbe trattarsi di un forno: sono un fornaio e i prodotti che posso mettere dentro il forno sono
pizzette, pane 🥖 , pinze o crescenta bolognese

Come mi conviene utilizzare il forno?


X Y Z
Ricavo Variabile Unitario RVU 1.000 2.000 3.000

Costo variabile Unitario CVU (800) (1.500) (1.800)


Margine di contribuzione
unitario MCU 200 500 1.200

Q per h/imp. 10 3 1

MARGINE DI
MCh 2.000 1.500 1.200
CONTRIBUZIONE ORARIO

Qui suppongo che non ci siano costi fissi specifici: ho un unico processo produttivo che mi genera come
output X o Y o Z —> vedi ipotesi

Noi stiamo decidendo che cosa ci conviene produrre. Ci conviene produrre X, Y o Z?

Qui il rischio è di cadere in errore: noi potremmo ritenere che la produzione più conveniente sia la
produzione Z, perché è quella che ha il margine di contribuzione più elevato.

Ma, in realtà, X, Y e Z, in termini di Margini di Contribuzione, non sono espressi in termini omogenei.
Serve sapere in un’unità di tempo (in un ora di utilizzo del mio impianto) quanti di questi beni posso
ottenere.

Supponiamo che le quantità di prodotto ottenibili in un’ora di utilizzo dell’impianto siano pari per X
a 10, 3 per Y e 1 per Z.

Ho un unico impianto con cui posso indifferentemente produrre X, o Y o Z: devo decidere che cosa mi
conviene fare, posto che il mercato me lo lasci fare.

Quando uso l’impianto per fare X, in un’ora di utilizzo dell’impianto suppongo di ottenere 10 pezzi; se
produco Y 3 pezzi; se produco Z 1 solo pezzo soltanto.

Cosa ottengo? Ottengo il MARGINE DI CONTRIBUZIONE ORARIO.

É su questo margine che io dovrei ragionare; quindi, in prima approssimazione, io dovrei utilizzare, se
non ci sono vincoli di produzione fra i prodotti, tutta la mia capacità produttiva per produrre solo X
—> X è quello che mi dà i maggiori margini di contribuzione

· Ora supponiamo che le ore a disposizione nel periodo considerato siano pari a 1.000. Quanti prodotti
di tipo X potrei ottenere? 10 per ora -> ho 1.000 ore —> 10.000 pezzi.
Se il mercato è in grado di assorbirne 10.000 pezzi io ho risolto; se il mercato, invece, fosse in grado
di assorbirmi 5.000 pezzi?

I 5.000 li andiamo a saturare. Per produrre 5.000 pezzi, io consumo 500 ore. Se 1.000 ore servono per
costruire 10.000 pezzi, per farne 5.000 mi servono la metà delle ore.

10 pezzi x 500 ore = 5.000

Mi rimangono però ulteriori 500 ore; queste 500 ore come le impiego? Qual è la più remunerativa delle 2
produzioni restanti? Y. Quanti pezzi di tipo Y potrei ottenere? 3 all’ora x 500 ore = 1.500 pezzi

Ma se il mercato fosse in grado di assorbirmi solo 750 pezzi cosa dovrei fare? Di queste 500 ore,
quindi, 250 vanno per Y e le restanti 250 ore andrò necessariamente a riversare su Z (sperando che il
mercato sia in grado di assorbirmi almeno 250 pezzi (1 ora di utilizzo x 250 ore = 250 pezzi).

500h

250h
1.000 h
VINCOLI DI
500h MERCATO

250h
CONTABILITÀ ANALITICA
La CoA è un complesso di rilevazioni sistematiche (da attuarsi con modalità e temporalità predefinite). Le
elaborazioni di CoA non possono essere episodiche; il riferimento è alle elaborazioni che hanno per oggetto il
controllo economico.

La CoA è un complesso di rilevazioni sistematiche svolte a periodicità infra-annuale, a differenza della CoGe
che produce un unico output all’anno (il bilancio d’esercizio è un bilancio annuale).

Devo avere ambiti di controllo più frequenti rispetto a quelli tipici della CoGe. Tipicamente una volta queste
elaborazioni erano trimestrali: oggi più frequentemente si hanno elaborazioni mensili o addirittura
bisettimanali. Il problema della frequenza si collega con il problema della tempestività. Se io prevedo
elaborazioni con cadenza trimestrale, è ragionevole che il report possa essere prodotto entro il mese
successivo alla chiusura del trimestre.

Se la mia periodicità invece è quella mensile, io non posso avere il report del mese di gennaio alla fine del
mese di febbraio perché altrimenti sul mese di febbraio io non agisco. Il report mi serve per capire se devo
prendere o non prendere delle decisioni.

Correlazione fra periodicità e tempestività: tanto più l’arco temporale di riferimento è ristretto, tanto più
rapidamente dovranno essere svolte le elaborazioni di CoA.

Tipicamente se il report è predisposto a cadenza mensile, il report dev’essere pronto entro e non oltre il 5°
giorno lavorativo della settimana successivo alla chiusura del mese.

Ovviamente, dato che si tratta di elaborazioni interne, bisogna trovare un punto di bilanciamento fra 2
esigenze contrapposte: da un lato fare in fretta, dall’altro fare bene.

Ci sta che ci possano essere delle squadrature rispetto alle correlative risultanze di CoGe, se si tratta di
squadrature per importi limitati: questo mi consente di disporre delle informazioni sostanziali prima.

Ci dev’essere un bilanciamento fra 2 esigenze contrapposte, che produce un impatto su un’altra necessità di
bilanciamento: la prima esigenza è quella di avere elaborazioni più frequenti, l’altra è quella di avere
elaborazioni il più possibile precise; ma, se devo avere elaborazioni più frequenti poniamo con cadenza
mensile, il report mi deve arrivare entro la settimana successiva alla chiusura del mese; dato che fare in
fretta e bene non è semplice, anche con gli strumenti di cui disponiamo ora, è difficile riuscire ad avere
sempre una precisa riconciliazione fra le elaborazioni che servono per il controllo interno (quelle di CoA) e
le risultanze della Contabilità ufficiale. Si può fare ma bisogna effettuare scelte che sono un po’ faticose
dal punto di vista della gestione del sistema informativo.

Quando così non è, ossia quando tengo la CoA in forma libera rispetto alla CoGe, nel sistema duplice misto
(molto diffuso nelle realtà di piccole dimensione) io devo cercare la riconciliazione; e quindi può succedere
che io abbia delle squadrature fra le elaborazioni che ho nel report ai fini gestionali (interni) e quelle che
sono invece le risultanze della Contabilità ufficiale. Può andare bene: la CoA non ha una valenza ufficiale;
se ti si squadra invece il bilancio ufficiale un problema evidentemente c’è; ma, sulle informazioni di
carattere interno non è così.

Bisogna trovare un punto di equilibrio fra il fare in fretta e il fare non il perfetto, ma il meglio; perché
quelle elaborazioni, ancorché magari non perfettamente riconciliate con le risultanze di CoGe, devono però
risultare affidabili —> su quei dati qualcuno monitora l’andamento dell’impresa e può trovarsi nella
condizione di dover assumere delle decisioni.

La CoA è un complesso di rilevazioni sistematiche tenuto a periodicità infra-annuale volto a determinare in


prescelte configurazioni costi, ricavi e(per differenza) risultati di determinate aree/porzioni dell’ attività
aziendale.

·
La CoA si occupa solo e soltanto di variazioni economiche di reddito.

Attenzione: “costi in prescelte condizioni” —> quando io definisco i costi in CoA devo decidere quale
configurazione di costo (cosa è per me costo di prodotto) assumere: direct cost o full-cost; se direct cost,
classico o evoluto; se full-cost, costo pieno industriale o industriale-commerciale o economico tecnico.

Costi, ricavi e risultati “di determinate aree/porzioni diattività”: cosa siano le aree lo decido io; spesso
sono le tipologie di prodotto, ma potrebbe essere anche il canale distributivo (come vendo i miei pacchetti)
oppure aree geografiche; oggi i sistemi informativi sono inoltre talmente spinti che io potrei simultaneamente
avere informazioni sia con riferimento ai prodotti che con riferimento ai mercati che con riferimento ai
canali distributivi: non ho più una condizione di esclusività (una assunzione esclude le altre); potrei avere
una duplicazione delle elaborazioni di CoA (normalmente però non è così).

I dati che assumo possono essere, e spesso sono, solo dati consuntivi; potrebbero anche essere dati consuntivo
e preventivo standard. Se c’è un processo budgettario e in quel processo si utilizza la tecnica dei costi
standard, la CoA può, con opportune scelte, far emergere già tutta una serie di scostamenti fra i dati
consuntivi e i dati preventivi.

Le elaborazioni di cui stiamo parlando arrivano anche per sommatoria algebrica di: risultati analitici (di A,
di B e di C), costi comuni non imputati (costi che non sono stati considerati come costi di prodotto) {non ho
costi comuni non imputati solo quando sono nella configurazione di full-cost complessivo e tutti i costi sono
imputati ai prodotti —> per cui non ho costi non imputati} e differenze varie (tutte quelle differenze che si
generano da come io tratto/gestisco i costi e ricavi in CoA, rispetto invece a come gli stessi vengono trattati
in CoGe).

Nel direct cost come costi non imputati come minimo ho i costi fissi comuni. Se uso il full-cost come costo
pieno industriale, come costi comuni non imputati mi rimangono tutti i costi commerciali, tutti i costi
amministrativi e tutti i costi generali aziendali.
Per finire mancano i costi fissi comuni —> - costi fissi comuni —> R.N.

La sommatoria algebrica dà come risultato il risultato economico che l’impresa avrebbe, con riferimento alla
CoGe, nel breve periodo.

SE UTILIZZASSI INVECE COME CONFIGURAZIONE DI COSTO IL FULL COST che cosa accadrebbe?
Conto economico a bandiera
FULL COST
VOCI TOT A B C
R.V. ∑ RV RV A RV B RV C

- COSTI
- IMPUTATI
C.P. IND. ∑ CPI
IMP CPI
IMP AA CPI
IMP B B CPI
IMP CC

R.L. IND.
MARG.LORDO ∑ MRLI
L RLI
MLA A RLI
MLB B RLI
ML
C
C

C.COMUNI
- IMPUTATI
- NON
C.COMM. ∑ C.COMM.

RIS.CoA
C. AMM. C. AMM.
- E GEN.
AZ.
∑ EAZ.GEN.
_
+ A
R.N.
RIS. CoGe

Esempio: contabilità analitica tenuta su base mensile


Supponiamo che la quota di amm.to annuale di un bene sia 12.000: questo è il valore che mi deriva dalla
CoGe.
Supponiamo almeno per ora che quel bene sia stato appena comprato; 12.000 sarebbe anche la quota di
amm.to ai fini della CoA.
Se io carico (e devo farlo) in CoA, nel mese di gennaio, una parte della quota di amm.to, supponendo per
semplificazione che l’impresa operi per 12 mesi e che questo bene venga utilizzato in maniera uniforme
per ciascuno dei 12 mesi, io potrei caricare in CoA, con riferimento al mese di gennaio, 1.000 —> quota
di costo da incorporare ai prodotti costruiti nel mese di gennaio con riferimento alla quota di amm.to
di questo mese.

Ma alla fine del mese di gennaio nella Contabilità ufficiale il Conto ammortamenti non è ancora stato
acceso: rilevo l’amm.to tutto alla fine dell’anno.
Quindi, se io voglio riconciliarmi, se io voglio quadrare le mie elaborazioni di CoA con le elaborazioni
di CoGe, io a monte fra i costi imputati ho dei costi non imputati (non so se questi 12.000 sono costi
di prodotto o sono costi di periodo però so che da qualche parte quei 1.000 ci sono).
Fermi i ricavi, facendo finta che nel mese di gennaio i ricavi siano gli stessi sia in CoGe che in CoA,
io andrei ad aver caricato maggiori costi per 1.000 a parità di altre condizioni.

Quindi, il risultato di CoA sarà rispetto a quello di CoGe peggiore di 1.000. Se io voglio riconciliare
il risultato di CoA col risultato di CoGe, in A dovrò mettere + 1.000.
Questo problema io l’avrò per 11 mesi all’anno fino al mese di novembre compreso; a dicembre accadrà
che caricherò in CoA 1.000 e in CoGe verrano caricati in una volta 12.000.

Quindi avrò una differenza anche in questo caso con riferimento al mese di dicembre, ma se io vado a
fare il cumulato di tutti i dati dell’anno, la differenza si è riassorbita.

Se io invece fossi in quest’altra situazione che segue: ho una quota di amm.to annuale in CoGe che è
12.000; il bene però non è un bene nuovo: è un bene che è in uso da tempo; per cui rideterminando la
quota di amm.to annuale ai fini della CoA su un valore a nuovo, quanto meno il valore su cui calcolare
la quota di amm.to dovrebbe essere differente; supponiamo che il valore annuale sia di 18.000.

12.000 —> quota annuale CoGe


18.000 —> quota annuale CoA

Questa differenza di 6.000 non si può riassorbire su base annuale —> differenza di tipo STRUTTURALE
(non temporanea).
Io ho determinato in modo diverso il valore del costo; sul costo storico in CoGe mi tocca per ragioni
civilistico fiscali; su un valore a nuovo per finalità di carattere gestionale.

Quindi, se io tengo la CoA su base mensile, quanto caricherò in CoA supponendo di ragionare su 12 mesi
e supponendo che ogni mese comporti la medesima quota di amm.to?
La quota di amm.to del mese di gennaio in CoA sarà (18.000 : 12 = ) 1.500. Io quindi avrò una
differenza di 500 rispetto alle correlative elaborazioni di CoGe; ma, in realtà non ho una differenza
per 1.500, io ho 2 differenze; ho una differenza di 1.000 e una differenza di 500.

Perché i primi 1.000 di differenza sono solo procedurali —> si riassorbiranno su base annuale
Gli altri 500 rimangono —> differenze strutturali che non si riassorbono

Però, tener conto di queste differenze mi permette di “riconciliare” o “quadrare” le elaborazioni di


CoA con le elaborazioni di CoGe.

Se questo, anziché essere il Conto Economico a bandiera del mese di gennaio/febbraio/marzo, fosse il
Conto Economico riepilogativo dell’anno, quali tipologie mi rimarrebbero come differenze? Solo e
soltanto quelle strutturali; quelle procedurali sono temporanee e pertanto si riassorbono su base
annuale.
Io vado per sommatoria algebrica di risultati analitici, costi comuni non imputati e differenze varie
a determinare il risultato di breve di CoGe; ma è un risultato non preciso, non puntuale: è quel
risultato che avrei se io facessi in quel momento un bilancio di verifica in CoGe, non è un dato in
termini di reddito netto d’imposta; è però quel dato che mi permette di riconciliare le elaborazioni di
CoA con quelle di CoGe.

ARTICOLAZIONE IN FASI DELLA CONTABILITÀ ANALITICA

Sono individuabili 3 fasi:

1) ANALISI DEI COSTI

2) ANALISI DEI RICAVI E DETERMINAZIONE DEI RISULTATI ANALITICI

3) DETERMINAZIONE DEL RISULTATO ECONOMICO DI BREVE TERMINE

1) L’analisi
ANALISI dei
DEI costi
COSTI si divide in 3 momenti/sottofasi:

· RIPRESA DEI DATI DALLA COGE (ma non solo dalla CoGe), LORO ADATTAMENTO ALLE SPECIFICHE ESIGENZE DELLA
COA E CARICAMENTO DEGLIO STESSI IN COA

Io devo caricare i dati in CoA perché non ci sono; quindi: prendo ad es. il costo del lavoro —> vado in
CoGe; con riferimento al mese di ottobre trovo le retribuzioni che sono state liquidate nel mese di
ottobre; ma io non posso prendere quel dato così com’è perché in CoA valorizziamo il costo del lavoro
sulla base del costo medio orario per tipologia di dipendente moltiplicato per le ore effettivamente
lavorate —> ho una ripresa della tipologia di costo in CoA, ma il valore non è quello di CoGe —> il
valore subisce un adattamento che è funzionale alle diverse specifiche esigenze conoscitive che ha la
CoA rispetto alla CoGe. Idem per quanto riguarda la quota di amm.to se ragionassimo su base annuale. Io
devo caricare in CoA i costi; ma i costi quando li carico in CoA non hanno il medesimo valore della
CoGe, perché CoGe e CoA riflettono logiche diverse, servono per soddisfare esigenze conoscitive
differenti.

Quindi in questa prima sottofase emergono tutta una serie di differenze: alcune sono procedurali e, su
base annuale, si riassorbiranno; altre differenze, invece, sono di tipo strutturale.

Le differenze strutturali sono riconducibili a 3 fattispecie:

A) differenze di incorporazione: ho un componente di costo che è presente sia in CoGe che in CoA,
però viene quantificato su base annuale con un valore che riflette logiche differenti e quindi
non si riassorbe —> es: quota amm.to annuale CoGe/CoA

Quota annuale amm.to CoGe —> 12.000

Quota annuale amm.to CoA —> 18.000 (calcolata su valori correnti)

Differenza —> 6.000 —> DIFFERENZA STRUTTURALE

Questa è una differenza di incorporazione perché non si riassorbe. Il costo c’è sia in CoGe
che in CoA: è diverso il valore che vado a considerare; ma è diverso in modo strutturale
perché non è una differenza che si riassorbe.

Altro es: se io tenessi il magazzino con il LIFO fiscale ai fini civilistici e usassi, invece,
il NIFO o il costo dell’ultima partita ai fini della CoA si tratterebbe una differenza di
carattere strutturale perché non si riassorbe.

B) Un’altra tipologia di differenza strutturale è quella che riguarda i componenti di natura


straordinaria: in CoGe se si verifica una plusvalenza o minusvalenza, sopravvenienza attiva/
passiva, svalutazione/rivalutazione, la devo contabilizzare (non posso lasciarla fuori dalle
risultanze di bilancio; ma, ai fini gestionali (interni) se io voglio calcolare il costo di
prodotto, le plusvalenze/minusvalenze per me sono elementi di disturbo: io non posso
incorporare nelle elaborazioni di CoA dei componenti straordinari, perché mi vanno ad
inquinare i valori; quindi, qui si ha un’ulteriore tipologia di differenza strutturale, che si
chiama componenti straordinari non incorporati —> componenti straordinari che io carico in CoA
(perché ci sono anche in CoGe), ma li tengo lì e non li faccio partecipare alle elaborazioni
tipiche della CoA (questi componenti non vanno sui costi di prodotto o sui centri di costo),
rimangono lì in un limbo e ricompariranno alla fine [sono differenze che io devo evidenziare
per riconciliarmi con la CoGe, ma che non partecipano alle elaborazioni di costo e quindi
nemmeno alle elaborazioni di risultato analitico].
Quindi si tratta di componenti straordinari che non vengono incorporati all’interno delle
elaborazioni di CoA, ma che per completezza, su un determinato tipo di conto, se io
utilizzassi la CoA nel sistema duplice contabile, io comunque devo riprendere: ma li riprendo
senza usarli più (li apro e li chiudo).

Può presentarsi anche il caso opposto. Infatti, quest’ultima differenza, quella dei componenti
straordinari non incorporati, fa sì che ci sia un componente di reddito, positivo o negativo,
presente in CoGe, che io però faccio finta che non ci sia in CoA (non mi partecipa ai calcoli
in CoA).

C) Posso avere il caso opposto: io potrei caricare in CoA degli elementi di costo che in CoGe non
ci sono. É il caso degli oneri figuratici: in questo caso io potrei avere dei componenti
supplementari (perché in CoGe non ci sono) incorporati (perché se io ottengo come costo di
prodotto il costo economico-tecnico allora anche gli oneri figurativi devono essere
ricompresi).

Possono emergere però anche altri tipi di differenze.


Ci possono anche essere tutta una serie di differenze che sono di tipo meramente procedurale; per
Ma ci
esempio in CoA rilevo un costo di acquisto nel momento in cui i beni entrano nel mio Magazzino; in CoGe
invece rilevo l’esistenza del costo quando mi arriva la fattura; ma la fattura mi potrebbe arrivare
anche settimane dopo; quindi qui ci potrebbe essere una differenza che è di tipo procedurale: io vado a
vedere gli acquisti del mese in CoGe e rilevo quelli che sono gli acquisti fatturati nel mese di
ottobre. Ma a ottobre io potrei avere ricevuto delle fatture relative ad acquisti avvenuti nel mese di
settembre; avrò acquisti avvenuti nel mese di ottobre; e potrebbero mancare le fatture relative ad
acquisti che sono già avvenuti, con consegne di beni che ci sono già state, ma la cui fatturazione mi
arriverà nel mese di novembre; mi aiuta a correggere il magazzino perché, a mano a mano che i beni
arrivano in Magazzino, io li carico: poco importa se la fattura arriva 2 settimane dopo, io intanto so
che quei beni sono entrati nella mia disponibilità; se sono molto agile, io potrei quando mi arriva la
fattura aver già trasformato quelle materie prime in prodotti.
Se sono, anziché acquisti di materie prime, acquisti di merci e se io sono svelto, potrei aver già
venduto quei beni quando mi arriva la fattura delle merci acquistate.
Quindi io devo correggere le elaborazioni di CoGe perché in CoA io devo riapplicare in un contesto
infra-annuale il principio di competenza

Qui è come se il problema delle “fattura da emettere/ricevere” noi ce lo dovessimo porre su base
mensile/bimestrale... per i servizi, invece, dove non ho un carico di Magazzino, io però ho una
procedura ordini: qualcuno che ha ordinato quel servizio c’è. Io devo chiedere al reparto che ha chiesto
la manutenzione se quella manutenzione è stata o non è stata eseguita; quindi non è sufficiente pescare
i dati dalla CoGe, perché altrimenti useremmo direttamente i dati della CoGe; noi dobbiamo sempre
caricare i dati di costo in CoA tenendo conto delle diverse logiche e delle specificità che ha la CoA
rispetto alla CoGe.

Questo primo momento/sottofase fa emergere tutta una serie di differenze: alcune sono procedurali(quelle
collegate alla fatturazione si riassorbirà su base annuale), altre sono differenze sostanziali.
A questo punto ho i costi in CoA? Cosa faccio di questi costi? Supponendo che questi costi possano essere
suddivisi in costi diretti e indiretti, se io stessi adottando come configurazione di costo un costo
complessivo (per me è costo di prodotto il costo industriale, il c.commerciale, il c.amministrativo) mi
chiedo: tu costo, sei diretto o indiretto rispetto ad A oppure a B oppure a C? I costi che sono diretti
vengono immediatamente attribuiti ai prodotti; i costi, invece, indiretti devono essere gestiti: qui
bisogna vedere qual è la scelta che io ho adottato per gestirli. Potrei aver adottato per esempio la
base multipla aziendale: in questo caso andrei a localizzare questi costi nei vari raggruppamenti che ho
previsto; oppure potrei, in un’ottica più tradizionale, avere usato in alternativa i centri di costo —>
costi localizzati nei singoli centri.
—> maggior parte dei costi indiretta rispetto ai prodotti ma diretta
rispetto ai centri.

· SCELTA DELLA CONFIGURAZIONE DI COSTO DI PRODOTTO

Il 2° momento in che cosa consiste? Questi costi devono essere localizzati. Dipenderà da 2 cose: A) qual
è la configurazione di costo che io assumo (cosa io considero essere costo di prodotto); B) scelte che
io opero per gestire i costi di indiretta attribuzione (base multipla aziendale, centri di costo,
ABC...).

Supponiamo di rimanere in una situazione classica; sto usando come configurazione di costo un costo
complessivo; quello che per me rileva è la distinzione di costi in diretti e indiretti; tutti i costi
che carico in CoA che sono di diretta attribuzione io li posso già essere attribuiti al prodotto.
I costi che ho caricato in CoA dopo averli adattati, se sono indiretti rispetto ai prodotti, se ragiono
per centri di costo, verranno localizzati sui centri di costi; dopodiché, sulla base delle decisioni che
abbiamo assunto (supponiamo la seconda modalità) sono stati individuati centri di costo all’interno di
ciascuna fase funzionale, avrò dei ribaltamenti, ma avrò anche delle retrocessioni; alla fine ottengo
che nei centri finali trovo quei costi che devono essere trasferiti ai prodotti.

Dopodiché, ed arriviamo alla terza e ultima sottofase, dai centri di costo questi costi vengono imputati
ai prodotti; quindi io completo tutta la roba che ha per oggetto i costi; a quel punto io so per A, per
B, per C qual è la componente di costi diretti e quali sono le quote di costi diretti.

· PROCESSO DI IMPUTAZIONE DEI COSTI INDIRETTI SUI PRODOTTI (dai centri di costo se uso i centri di
costo)

Nei costi imputati di A in questo caso avrei i costi diretti che non passano dai centri di costo e quote
di costo indiretti relativi ai vari centri di costo finali; sommatoria fra costi diretti e costi
indiretti; se sto usando il costo complessivo —> io avrei tutti i costi industriali, tutti i costi
commerciali e tutti i costi amministrativi.
Idealmente alla fine della prima fase, quella che ha per oggetto l’analisi dei costi, io sono in grado di
mettere dei valori dentro alla tabella vista in precedenza: tutti i dati di costo li ho gestiti e li posso
epilogare: se sono costi di prodotto, in via diretta o in via indiretta, vanno sui prodotti; quei costi che
non sono stati considerati come costi di prodotto sono all’interno della cella relativa ai costi comuni non
imputati.

2) ANALISI DEI RICAVI E DETERMINAZIONE DEI RISULTATI ANALITICI

Anche questa fase si compone idealmente di 3 sottofasi/momenti:

· RIPRESA IN COA DEI RICAVI


Anche in questo caso io avrò degli adattamenti; ma nella quasi totalità delle situazioni questi
adattamenti sono soltanto adattamenti di tipo procedurale, non sostanziale; sono adattamenti che
derivano dalla necessità di riparametrare la competenza su base mensile anziché considerarla soltanto
su base annuale.

Devo rispettare una competenza mensile; quindi, se il prospetto si riferisce al mese di ottobre, io
andrò a vedere quanto è stato fatturato nel mese di ottobre; ma ad ottobre, specularmente, io
all’inizio del mese avrò emesso fatture relative a vendite che sono avvenute a settembre —> quelle non
vanno bene perché io le devo avere già considerate a settembre. Quindi, questi ricavi di vendita
fatturati a ottobre e relativi al mese di settembre non vanno considerati —> li devo aver già
considerati il mese precedente.
Poi avrò, invece, delle vendite fatturate a ottobre per vendite avvenute a ottobre —> queste vanno
bene.
Poi mi mancheranno vendite che sono avvenute nell’ultima parte di ottobre per le quali io non ho
ancora emesso fattura —> la contabilità di Magazzino, relativa alle merci/prodotti finiti in uscita,
mi aiuta dicendomi che quella roba lì è stata venduta.
Per questo tengo un inventario permanente —> ogni volta che esce roba dal magazzino io la devo
valutare.
Quindi le merci che io ho venduto nel mese di ottobre io le so dal Magazzino.
Anche in questo caso emergeranno delle differenze fra i Ricavi di vendita fatturati in CoGe, con
riferimento a quel mese, e i ricavi di vendita che io invece devo considerare in CoA. Però queste sono
differenze che su base annuale si devono riassorbire —> con riferimento al 31/12 le vendite avvenute
nell’ultima parte del mese di dicembre ma non ancora fatturate vengono integrate con la scrittura del
conto “fatture da emettere”. Integro quindi i ricavi già fatturati con operazioni già avvenute, ma per
le quali la fattura formalmente non è ancora stata emessa: questo mi consente di rispettare per
competenza il principio della maturazione economica dei ricavi; qui più o meno il problema è lo stesso,
però anziché applicarlo su base annuale devo applicarlo su base mensile/trimestrale...

· QUESTI RICAVI DEVONO ESSERE RIFERITI AI SINGOLI PRODOTTI/AREE DI ATTIVITÀ

Normalmente questo non è un problema perché io non solo so che ho venduto, ma so anche che cosa ho
venduto; quindi non c’è un problema di ripartizione del ricavo: il ricavo normalmente è diretto.

Parliamo di servizi alberghieri: i servizi alberghieri generano dei ricavi. Quando si organizza una
vacanza in albergo i servizi che di solito si possono comprare sono: camera prima colazione oppure
camera mezza pensione oppure pensione completa. Se io sono l’albergo questo mi genera un problema
perché nel momento in cui io vendo pensione completa, in realtà sto vendendo in modo indistinto 2
servizi: uno che è di pernottamento e uno che è di ristorazione. Io dovrei quindi suddividere
quell’unico ricavo in una quota parte che metto in carico al reparto camere/servizio pernottamento e
un’altra parte di ricavo che invece va sulla ristorazione —> situazioni molto meno frequenti rispetto
alla situazione normale.

Alla fine di questo secondo momento, intanto inserisco nella tabella i ricavi di A,B,C; questo mi
consente di poter arrivare al terzo momento/sottofase.

· DETERMINAZIONE DEI RISULTATI ANALIITICI

Sottraggo dai ricavi di vendita i correlativi costi e trovo quello che è il risultato di A, il
risultato di B e il risultato di C —> sommatoria risultati.

Spesso le elaborazioni di CoA finiscono qui: in effetti dal punto di vista gestionale le informazioni
che mi servono io le avrei già tutte; io potrei anche andare a determinare, sapendo che ho i miei costi
comuni non imputati, i risultati di CoA. La parte alta dello schema io ce l’ho già tutta; dal punto di
vista gestionale le info che mi servono per controllare l’andamento economico-reddituale ce le ho già
tutte.

Ma se voglio avere il completamento dell’elaborazione anche per avere la validazione di queste elabo-
razioni con quelle della Contabilità ufficiale c’è una terza fase.

3) DETERMINAZIONE
3) DEL RISULTATO
3) DETERMINAZIONE
DETERMINAZIONE DEL ECONOMICO
DEL RISULTATO
RISULTATO DI BRVEDI
ECONOMICO
ECONOMICO TERMINE
DI BREVE
BREVE TERMINE
TERMINE

La terza fase prevede che io vada a determinare un risultato di breve periodo (riferito alla CoGe) per
sommatoria algebrica dei risultati analitici (es: sommatoria Z) - costi comuni non imputati +/- le
differenze.

Quindi la terza ed ultima fase (eventuale) è quella che consente di riconciliare le elaborazioni di
CoA con le elaborazioni di CoGe: questo si fa attraverso sommatoria algebrica (che richiede di
considerare i singoli risultati analitici —> ovviamente ogni Z potrà avere segno positivo o negativo.

Sommo le Z algebricamente; sottraggo i costi comuni non imputati; sommo/sottraggo le differenze varie:
questo mi consente di ricondurmi al dato che deriverebbe dalle elaborazioni di CoGe.
CoGe, nel breve periodo.

SE UTILIZZASSI INVECE COME CONFIGURAZIONE DI COSTO IL FULL COST che cosa accadrebbe?
Conto economico a bandiera
FULL COST
VOCI TOT A B C
R.V. ∑YRV RV
Y A RV
Y B RV
Y C

- COSTI
- IMPUTATI
C.P. IND. ∑ CPI
XIMP XIMP
CPI AA
XIMP
CPI B B
X
CPI
IMP CC

R.L. IND.
MARG.LORDO ∑ MRLI
ZL RLI
MZ
LA A MZL
RLI
B B RLI
MZ
L C
C

∑X
C.COMUNI
-
- NON
C.COMM.
IMPUTATI
C.COMM.

RIS.CoA
C. AMM. C. AMM.
- E GEN.
AZ.
∑ EAZ.GEN.
_
+ A
R.N.
RIS. CoGe

Come possono essere messe in condizione di interagire CoGe e CoA? La CoGe è non solo obbligatoria, ma sei
anche vincolato nel come tenerla. La CoGe deve essere tenuta col metodo della partita doppia.

Parliamo di SISTEMI CONTABILI

UNICO

SISTEMI CONTABILI
CONTABILE

DUPLICE

MISTO

·Il SISTEMA UNICO si chiama così perché io ho un unico sistema contabile, che simultaneamente deve soddisfare
sia le esigenze di CoGe che anche quelle di controllo interno tipiche della CoA.

Quindi io ho un unico sistema contabile, un unico piano dei conti che deve simultaneamente soddisfare sia le
esigenze di CoGe che quelle di CoA.

Il vantaggio è che, essendoci un unico sistema contabile, qui non ha neppure senso parlare di
riconciliazione fra CoA e CoGe perché sono fuse insieme. Qui il sistema è sempre coerente; qui non posso
avere delle squadrature fra CoA e CoGe —> sono insistenti su un’unica base dati —> sistema di elaborazione
che garantisce in ogni momento la coerenza fra le elaborazioni di CoA e di CoGe.

Però, dato che qui si usa un unico piano dei conti e tutto viene rilevato contabilmente col metodo della
partita doppia io ho un sistema che è pesante da gestire.

Esempio: l’output che la CoGe deve tirare fuori contabilmente col risultato di esercizio è il C.E.; il C.E.
è fatto in forma scalare seguendo le disposizioni del c.c. {Tuttavia, rispetto alle società di capitali, il
93% delle società italiane redigono il bilancio in forma abbreviata; nel restante 7% ci sono anche le
società quotate, quelle che redigono il bilancio sulla base delle disposizioni contabili internazionali.
Quindi il bilancio civilistico in forma ordinaria in Italia non lo fa quasi nessuno. Quella che dovrebbe
essere la regola (rendiconto finanziario) obbligatorio) è diventata l’eccezione.}
I costi sono ordinati per natura.

Se io opto per un sistema unico devo avere anche dei dati che mi dicano quali sono i miei risultati di A, di
B, di C. Quindi io avrò dei conti nel piano dei conti che sono accesi al prodotto A, al prodotto B e al
prodotto C, che sono accesi ai centri di costo; e se io utilizzo come configurazione di costo un full-cost,
quei costi io, ai fini interni, li devo anche suddividere per funzione: costi industriali, commerciali,
amministrativi.. quindi io devo predisporre un sistema di elaborazioni estremamente complicato, nel quale le
elaborazioni devono, da un lato necessariamente rispettare su base annuale i vincoli di legge, ma dall’altro
lato con frequenza infra-annuale devono dare degli output che siano riconducibili al mio Conto economico a
bandiera (alla possibilità di monitorare l’andamento economico della mia impresa). Quindi si tratta di un
sistema estremamente complesso da gestire; ancora più complesso nel momento in cui si ricorda che tutto deve
essere tenuto in partita doppia: non soltanto le elaborazioni proprie della CoGe, ma anche quelle
elaborazioni che sarebbero caratteristiche specifiche della CoA.
Si presenta un ulteriore problema: rispetto alle esigenze civilistiche, se io decido di mettere sul mercato
un prodotto nuovo, non cambia nulla; A1 —> ricavi di vendita —> non entra nel merito di che cosa hai
specificamente venduto; ai fini interni cambia invece perché idealmente è come se io dovessi aggiungere nel
C.E. a bandiera un ulteriore prodotto; ma se tutti i conti (sia quelli tipicamente di CoGe che quelli
tipicamente di CoA) sono in un unico piano dei conti, già l’introduzione di un nuovo prodotto implica che io
devo andare a modificare il mio piano dei conti integrandolo.
Se adotto, invece, una riorganizzazione all’interno dell’impresa, chiudo alcuni centri di responsabilità e
ne apro altri, questo (in condizioni normali) non dovrebbe produrre nessun effetto ai fini della CoGe:
questo è un problema tipicamente interno; ma se i conti relativi a questi centri di responsabilità sono
ricompresi in un unico piano dei conti, ogni volta che io ho una modifica organizzativa o l’inserimento di un
nuovo prodotto o tolgo dal mercato un prodotto precedentemente utilizzato, io devo andare a modificare il
piano dei conti.

La frequenza di queste modificazioni è molto più ravvicinata/verificata rispetto alle modificazioni che
impatterebbero esclusivamente sui prospetti contabili ufficiali.

[Codice Civile uscito nel 1942; limitatamente alle norme di bilancio non è cambiato nulla fino al 1974; poi
c’è stato il decreto 127 del 9 aprile 1991 che ha recepito la IV direttiva CEE; poi c’è stata la riforma del
diritto societario nel 2003; infine col decreto 139 del 2015].
Se la necessità fosse, all’interno di un sistema unico, di modificare il piano dei conti a fronte di modifiche
normative, bisogna osservare che non siamo particolarmente pressati.
Se invece adotto un sistema unico, ogni volta che io introduco un prodotto nuovo o che io apporto una modifica
di carattere organizzativo, io devo andare a modificare l’unico piano dei conti; lo farò limitatamente ai
conti che hanno per oggetto la CoA però devo modificare; diventa onerosa anche questa continua manutenzione
del sistema informativo; quindi non è che non si usi questa opzione.

In passato in Italia questa opzione era poco usata, mentre andava per la maggiore nei paesi anglosassoni (dato
che il C.E. anglosassone distingue i costi in industriali, commerciali, amministrativi —> tipico modo che si
usa per finalità interne —> la modalità d’informazione esterna è molto vicina alla medesima modalità di
informazione interna).

· Se il sistema si definisce come DUPLICE, quel duplice è oggettivo che mi dice che io non ho un unico sistema
ma che ne ho 2: uno ce l’ho per forza ed è quello che ha per oggetto la CoGe finalizzato a restituisci il bi-
lancio d’esercizio. Essendo il sistema duplice, questa parte del sistema può limitarsi a fare quello che
deve (può occuparsi solo del bilancio di esercizio): la CoGe è libera di poter perseguire le sue specifiche
proprie finalità informative.
Siamo liberi di modificare il piano dei conti quelle rare volte in cui cambia la normativa civilistica.

Invece la CoA come la tengo? Dipende; se io la tengo in forma LIBERA, non in modo formalizzato con
scritture contabili, la CoA non è tenuta col metodo duplice contabile della partita doppia: è tenuta in
forma libera.
Il C.E. a bandiera è un prospetto che necessariamente scaturisce da una riclassificazione. Il C.E. a
bandiera non può uscire così da un sistema contabile: è epilogativo di una serie di conti. Il foglio di
distribuzione costi per centri nuovamente è una tabella a doppia entrata in cui io sulle colonne ho i
centri di costo ed è nuovamente un prospetto che io tengo o in forma libera o come riclassificazione di
dati contabili. Però “in forma libera” in senso stretto vuol dire che io non ho un processo vincolato
all’utilizzo del Conto nel fare queste elaborazioni: io sto usando dei prospetti.

Il vantaggio di questa opzione del sistema duplice misto, ossia quello nel quale la CoA è tenuta in forma
libera, il vantaggio è che ho la massima flessibilità: ho un sistema fra i più flessibili possibili anche
per quanto riguarda gli adempimenti.

Lo svantaggio è che, se io voglio validare le elaborazioni di CoA, devo in qualche modo conciliare la CoGe:
qui la riconciliazione non è automatica, ma la devo cercare io.

Se voglio riconciliare le elaborazioni di CoA con quelle di CoGe (si pensi all’ultima fase fra le 3 viste
prima) qui la riconciliazione fra i dati di CoA e i dati di CoGe non è automatica, la devi ricercare tu.

La regola aurea dei sistemi informativi è che un dato venga immesso nel sistema informativo se possibile una
volta sola: più volte uno stesso dato, magari da persone diverse, viene immesso nel sistema e più facilmente
si possono verificare errori anche banali di imputazione. Uno stesso dato potrebbe entrare all’interno del
sistema informativo con valori che non sono gli stessi: non perché il valore sia oggettivamente diverso, ma
perché qualcuno ha compiuto materialmente un errore di emissione.

Col sistema unico il dato lo inserisci nel sistema una volta sola e da quello poi derivano le elaborazioni:
non c’è questo problema. Col sistema duplice, per il semplice fatto che è duplice, il dato viene messo nel
sistema almeno 2 volte con riferimento ai costi e ai ricavi.

Se tu usi la partita doppia, c’è un meccanismo che ti consente il prevenire il formarsi di errori; ma se tu
usi il sistema duplice misto, tu prendi un foglio di excel e all’interno della cella digiti un numero: quel
numero lì se tu l’hai tratto dalla CoA emendata dalla Contabilità di Magazzino etc., se tu ti sbagli,
quell’errore lì è un errore che non viene immediatamente evidenziato; il vantaggio della partita doppia è
quella di consentire immediatamente e sistematicamente ogni volta che vogliamo un confronto fra il totale
dei saldi dare col totale dei saldi avere, che debbono essere pari in ogni momento.

Una soluzione di compromesso è quella di usare il SISTEMA DUPLICE CONTABILE: il sistema continua ad essere
duplice (ognuna delle due contabilità può liberamente perseguire solo e soltanto i propri scopi: la CoGe sarà
tutta tesa alla redazione del bilancio d’esercizio, mentre la CoA si occuperà della determinazione di
risultati analitici per sommatoria algebrica di costi, ricavi e risultati in prescelte configurazioni etc.),
però, rispetto a prima, lo strumento contabile viene usato anche in CoA.

Quindi ci sono 2 piani dei conti distinti: c’è il piano dei conti di CoGe, ma ho anche uno specifico piano
dei conti di CoA.

Tuttavia, il primo problema che si pone è di carattere logico-metodologico. In CoGe il presupposto per poter
usare il metodo della partita doppia è che io rivedo un unico evento sotto 2 aspetti: quello originario —> io
ho variazioni di natura finanziaria, dopodiché è come se riclassificassi quell’evento in relazione
all’aspetto cd. derivato che è quello che ha natura economica.
La CoA però si occupa solo di variazioni economiche di reddito (costi, ricavi e, per differenza, risultati).
Il problema è il seguente: come faccio ad applicare la partita doppia all’interno di un sistema che è
monistico e non dualistico? Come faccio a bilanciare i conti?

A questo primo problema logico si è dato una risposte che diventa estremamente utile per risolvere anche un
altro problema che è quello della automatica riconciliazione dei dati di CoA coi dati di CoGe.
Con il sistema duplice contabile, con riferimento alla sola parte che riguarda le elaborazioni di CoA, si ha
un problema che però è stato risolto in un modo che ha consentito di generare una notevole opportunità.
Il problema è: come faccio ad applicare la partita doppia in un contesto in cui io vedo solo una tipologia di
variazioni? Mi occupo solo di variazioni economiche di reddito: come faccio a innescare un sistema che
garantisca sempre scritture autobilanciate?

Questo problema è stato risolto attraverso uno specifico tipo di conti.


Quando il sistema è duplice, ancorché contabile, io di piani dei conti ne ho 2: il piano dei conti di CoGe e
poi il piano dei conti di CoA.

La soluzione adottata è la seguente.


Centro di costo X Centro di costo Y

- -

Conti di CoGe Conti di CoA

Costo del lavoro


Costo del lavoro c/di riferimento
Costo del
1.000 1.000 lavoro CoA Conto Produzione A

1.200 700 400


MOD A
500
. . .

Costo del lavoro


c/conguagli Conto Produzione B

200 300
MOD B

In relazione ad un determinato mese (mettiamo che sia gennaio), io ho rilevato un costo del lavoro per
1.000 —> sezione di DARE.

In CoA utilizzo un conto che si chiamerà “costo del lavoro c/riferimento” (oppure “conto di
collegamento”/“a specchio”).

Questo conto è quello che mi consente di fare simultaneamente 2 cose: mi consente di innescare delle scritture
doppie bilancianti in CoA e mi consente anche di avere un costante/puntuale riferimento alle elaborazioni di
CoGe.
Supponiamo che io alla fine di gennaio voglia fare le mie elaborazioni di CoA: io vado a rideterminare il costo
del lavoro sulla base delle logiche tipiche della CoA, quindi sulla base delle ore effettivamente lavorate
valorizzate sulla base del costo medio orario onnicomprensivo suddiviso per tipologia di dipendenti.
Facciamo finta che il costo del lavoro in CoA sia invece di 1.200.

Quindi il valore che io carico in CoA è 1.200: io ho rideterminato il costo del mio fattore produttivo sulla
base di quelle che sono le logiche della CoA.

Si chiama “conto di riferimento” perché si riferisce alla CoGe, ma si chiama anche “conto a specchio” perché i
valori sono invertiti: inverto la sezione di conto —> i costi nel conto di riferimento lo metto nella sezione
AVERE.

Ma, se in CoGe c’è 1.000, il valore che qua indico nel conto di riferimento è sempre necessariamente 1.000;
però non bilancia perché ho 1.200 DARE e 1.000 AVERE.
Nel primo momento della prima fase (analisi dei costi), quello di ripresa e adattamento dei valori di CoGe ai
valori di CoA devo considerare un altro conto: “costo del lavoro c/conguaglio” —> conto acceso alle differenze
che si generano quando carico in CoA dei valori che sono diversi rispetto ai correlativi valori della CoGe.

La differenza sarà di 100 e la metterò in AVERE. Questa differenza riferita al costo del lavoro è temporanea: su
base annua si riassorbirà —> su base annua il costo del lavoro c/conguaglio sarà autobilanciante —> questo però
mi consente di caricare in CoA nella corretta sezione di conto il costo del lavoro.

Di questi 1.200, una volta caricati in CoA, la quota di costi diretti va evidentemente sui prodotti: se io ho
un “conto produzione A” e un “conto produzione B” faccio finta che siano complessivamente pari a 700 di cui 400
vanno a MOD A e 300 MOD B; indico 700 avendo come contropartita i conti appena citati.

Cosa mi rimane a saldo nel “costo del lavoro di CoA”? 500 che si riferisce al costo del lavoro indiretto: i
costi indiretti vanno nei centri di costo. Quando gli altri 550 vengono imputati qui questi hanno come
contropartita: “centro di costo X” e in ogni centro di costo io vado a mettere la quota di costo relativa
al centro di costo, diretta rispetto al centro di costo e indiretta rispetto al prodotto —> questo vale per
tutti i fattori produttivi.
Nel C.E. A bandiera ho un risultato di CoA: poi gli devo imputare tutte le differenze per ricondurmi al
risultato di CoGe. Dato che uso dei conti per ogni specifica tipologia di differenza, qui non corro il rischio
di dimenticarmi qualcosa. Ogni differenza viene censita e rilevata nel momento di caricamento dei costi e dei
ricavi in CoA. E tutti i conti accesi alle differenze dovranno essere mensilmente e bimestralmente chiusi:
quindi ho una riconciliazione garantita con questa modalità —> non devo, come nel sistema duplice misto
cercare io la riconciliazione —> la riconciliazione è automaticamente garantita dall’utilizzo del metodo della
partita doppia. Dal fatto che carico i valori di CoA, ho come riferimento i correlativi di CoGe, in quella
fase emergono le differenze: queste differenze poi dovranno essere chiuse ed epilogate quando devo
riconciliare il risultato di CoA col risultato di CoGe.

In sintesi, la soluzione tecnica costituita dai Conti di riferimento consente, per quanto riguarda le
elaborazioni di CoA, nel sistema duplice contabile di ottenere 2 esiti importanti: il primo è quello di potere
usare il metodo della partita doppia (perché è soltanto attraverso i conti di riferimento che io bilancio le
scritture iniziali, quelle che sono di caricamento dei ricavi e dei costi; ma, oltre a questo, i conti di
riferimento mi consentono anche di fare emergere in modo formalizzato e strutturato tutte le possibili
tipologie di differenze; quindi vengono contabilmente censite; se ne mantiene memoria sia dell’esistenza sia
dell’ammontare; e quindi qui è garantita in qualunque momento la riconciliazioni delle elaborazioni di CoA con
quelle delle correlative elaborazioni di CoGe, perché anche i conti accesi alle differenze dovranno essere
chiusi: chiudo quei conti quando devo usare un conto complessivo che si chiama “riepilogo risultati”, in cui
io prendo i risultati di CoA, imputo lì gli eventuali costi comuni non imputati e poi devo imputare
opportunamente nella sezione DARE o nella sezione AVERE tutte le differenze che io ho generato nel momento di
caricamento; quindi si garantisce la riconciliazione/quadratura formale fra le elaborazioni di CoA e le
elaborazioni di CoGe.
.

PRO: essendo un sistema duplice , ogni Contabilità è libera di seguire le proprie specifiche finalità conosci-
tive; un altro vantaggio è che con questa modalità è sempre tecnicamente garantita la riconciliazione
delle elaborazioni di CoA con quelle di CoGe. All’interno del primo pro c’è anche una maggiore
flessibilità: se io inserisco un prodotto nuovo, il prodotto nuovo impatta soltanto sul piano dei conti
della CoA —> non devo modificare tutto il piano dei conti —> devo modificare solo il piano dei conti
della CoA (CoGe fatta salva); se introduco un nuovo centro di costo, se c’è una ristrutturazione
organizzativa, questo impatta solo e soltanto sul piano dei conti di contabilità analitica —> il sistema
è più flessibile rispetto al sistema unico.

N.B.
Tutte le differenza sono conti conguaglio? No, sono battezzate come conti conguaglio solo le differenze di tipo
transitorio; “conguaglio” perché le differenze si conguagliano; se io avessi fatto riferimento agli
ammortamenti —> amm.to CoA = 18.000; amm.to annuale CoGe = 12.000 —> carico la quota d’amm.to in CoA —> non ho
solo un problema di conguagli, ma anche un problema di differenza di incorporazione —> ci sono poi conti
intestati a differenze di tipo specifico che sono di carattere sostanziale (differenze d’incorporazione,
componenti straordinari non incorporati e componenti supplementari incorporati).

CONTRO: tenere la partita doppia è più pesante rispetto all’avere un prospetto o dei file di excel nei quali
io carico dei dati; il processo di formalizzazione, per quanto supportato da un software, essendo più
strutturato è un processo un po’ più pesante.
Questo è il motivo per cui nelle imprese di piccole dimensioni se hai delle elaborazioni di questo tipo spesso
sono in forma libera, mentre invece se vai su una realtà di grande/media dimensione potrebbe capitare di
vedere adottata tutt’oggi questa soluzione.

Da anni ormai, tuttavia, ci sono dei prodotti gestionali che hanno un software e che si vanno imponendo: SAP
R3 —> hanno una loro modularità —> puoi comprare i moduli che ti servono. Il problema di questi prodotti è che
costano tanto; poi è un prodotto che viene customizzato sulla base delle esigenze del cliente, ma che comunque
è rigido. Il sistema informativo dovrebbe essere un abito cucito su misura: ogni azienda ha delle sue
specificità -> il sistema informativo dovrebbe essere modellato sulla base delle forma e delle necessità e
peculiarità dell’impresa; invece lì capita spesso che sia l’impresa a doversi adattare all’applicativo —>
flessibilità entro certi limiti -> riguarda, in ogni caso, realtà di grande e media dimensione.

Il vantaggio è che essendoci un progetto unitario alla base di questi gestionali, tu non sei costretto a fare
tutto subito: puoi nel tempo (se hai le risorse e senti l’esigenza) ad
# acquistare via via ulteriori moduli; ma
A
questi moduli sono coerenti rispetto a quelli che già hai.

Supponiamo che la quota di amm.to annua sia la stessa sia in CoA che in CoGe —> 12.000
La quota da caricare per il mese di gennaio è 1.000. Il mio conto di riferimento è vuoto; ma io devo caricare
1.000 in CoA quindi il conto di contropartita è amm.to conto conguagli per 1.000.
Nel conto conguaglio 1° mese 1.000, 2° mese 2.000... fine del mese di novembre ho 11.000.
Arrivo a dicembre: nel conto di CoGe ho imputato 12.000 —> si accende il conto di riferimento; il conto di
riferimento si accende per quanto? 12.000.
Ora chiudo il conto conguaglio e carico comunque 1.000 sulla CoA; il conto conguaglio è automaticamente
bilanciato. Il conto di riferimento viene caricato per 12.000.

Se avessi avuto un debito in CoGe non mi interesserebbe perché il debito ha a che fare con le variazioni
finanziarie: qui sto ragionando solo e soltanto su variazioni economiche di reddito.
MESE

Amm.to Amm.to c/rif. Amm.to c/cong. Amm.to CoA

1.000 1.000

DICEMBRE

Amm.to Amm.to c/rif. Amm.to c/cong. Amm.to CoA

12.000 12.000 11.000 1.000 1.000


.

!
. TOT
. 11.000
.
1.000"
"

ABC
Il problema nasce a fronte di una contestazione che nella prima metà degli anni ‘80 fecero alcuni studiosi
statunitensi. L’osservazione era che i metodi di Contabilità direzionale (più correttamente i metodi che
servivano per il controllo della gestione) di tipo tradizionale erano metodi non soltanto inesatti e
che, nella prima metà degli anni ‘80, fecero alcuni studiosi
imprecisi, ma erano metodi potenzialmente pericolosi, perché ti davano dei dati di costo che erano sbagliati;
tu assumevi delle decisione su base dati sbagliati, perché ti facevano ritenere che una certa attività fosse
remunerativa e un’altra non lo fosse o lo fosse meno; ma non perché in realtà le cose stessero così:
semplicemente perché si generavano dei fenomeni di sovvenzione incrociata fra i prodotti; mal attribuendo i
costi indiretti io finivo per caricare di eccessive quote di costi certi prodotti a favore e a vantaggio di
altri prodotti che invece avrebbero dovuto essere gravati ma non lo erano.

Questo era ulteriormente aggravato dall’utilizzo dei centri di costo, perché nei centri di costo, per effetto
dei processi di ribaltamento e di retrocessione, i costi si confondono. Quando i costi vengono imputati nei
centri finali sui prodotti, se ci sono stati ribaltamenti o retrocessioni, quei costi lì non si sa più
esattamente a che cosa si riferiscano.

I sistemi di contabilità direzionale, in particolare i centri di controllo di gestione, andavano bene quando
io avevo una assoluta prevalenza dei costi diretti rispetto ai costi indiretti: già a partire dagli anni ‘80
il rapporto si è capovolto —> bisogna trovare nuove metodiche per gestire i costi indiretti ed arrivare ad una
costificazione del costo di prodotto che sia più vicina a quella che è la realtà fattuale
Osservazione: non sono i prodotti a generare i costi —> i costi sono collegati ad un consumo di risorse —> i
costi sorgono a fronte di un consumo di risorse —> il consumo di risorse è quello indotto dalle attività —>
.

quindi sono le attività a generare i costi.

Quindi il collegamento è fra le attività e i costi —> io devo trasferire i costi indiretti
. sui prodotti sulla
base del grado di assorbimento di attività richieste: tanto più un prodotto richiede attività, tanto maggiore
sarà la quota di costo relativa a quella attività che deve arrivare sui prodotti.

I costi indiretti devono essere intermediati attraverso le attività. Ovviamente nulla cambia sulle attività
direttamente produttive perché le attività direttamente produttive normalmente generano costi diretti.

Ma questa impostazione ha prodotto effetti importanti sulle attività indirette. Si pensi a quelli che sono
definiti “centri ausiliari” o “centri comuni” —> lì ci sono delle attività che sono di logistica in entrata/
uscita, bilanciamento, attività di set-up, attività di manutenzione; quindi è soprattutto in seno a questi
ambiti che il metodo dispiega pienamente i suoi effetti.

Come funziona operativamente il metodo? Prima bisogna individuare le attività —> 1) RICOGNIZIONE DELLE ATTIVITÀ

Per tutte quelle attività che generano costi indiretti (Es: attività di set-up/riattrezzaggio delle macchine —>
per questa attività, rispetto al periodo di osservazione (chiusure mensili —> mese), io devo andare a
individuare i costi dell’attività. Io devo avere un sistema informativo che mi dice, rispetto all’oggetto di
riferimento intermedio “attività”, quali sono i costi che ho sostenuto nel mese di ottobre. Ma devo anche
individuare per ogni attività il cd. COST DRIVER o ACTIVITY DRIVER o, in italiano, la DETERMINANTE DI COSTO,
cioè l’evento, in cui si sostanzia l’attività, l’evento che consuma le risorse collegate a quell’attività.
Questo COST DRIVER diventa anche l’unità di misura per l’attività stessa. Nel caso dei costi di set-up,
l’evento è un intervento di set-up. Si pensi ad una pressa e ad uno stampo; arriva una squadra di operai; ho
lo stampo da montare; tolgo lo stampo che c’è su (quello del prodotto A) monto lo stampo del prodotto B; vedo
che la macchina sia settata bene —> possiamo produrre.

Ogni intervento di set-up è, in un certo senso, una transazione. Ipotizziamo che nel periodo (mese) io abbia
rilevato costi di set-up per 30.000€; nel mese ci sono stati 10 interventi di set-up; quindi io devo avere un
sistema informativo che tiene anche conto del numero di eventi/transazioni che si verificano; io con una certa
approssimazione posso calcolare il costo medio unitario di ogni transazione; nel nostro caso ogni intervento di
set-up mediamente è costato 3.000€.
Ma io so a favore di quali prodotti sono andati gli interventi di set-up; io so che ho sostituito lo stampo del
prodotto A e montato lo stampo del prodotto B —> quindi quando faccio un intervento, quel costo di intervento
lo devo caricare sul prodotto B.

Quindi alla fine del periodo io so non solo quanti interventi ci sono stati, ma quali sono i prodotti che hanno
fruito di questi interventi.

Quindi, se alla fine del mese so che il prodotto A ha avuto 2 interventi di set-up, il prodotto B ha avuto 3
interventi di set-up e il prodotto C ha avuto 5 interventi di set-up, i costi vanno ripartiti nel seguente
modo. So che ogni intervento di set-up mediamente è costato 3.000 (30.000 : 10); 3.000 x 2 = 6.000 per il
prodotto A; 3.000 x 3 = 9.000 per il prodotto B; 3.000 x 5 = 15.000 per il prodotto C —> senza che ci sia
nessun processo di ribaltamento o di retrocessione.

C’è una grossa differenza rispetto ai centri di costo: non ci sono mai dei processi che portano a trasferire
costi da un’attività all’altra —> non c’è qualcosa di equivalente ai ribaltamenti o alle retrocessioni —> i
costi di ogni attività vanno sui prodotti —> ma vanno sui prodotti sulla base del livello di fruizione di
quella specifica attività -> tanto più un prodotto ha indotto attività/transazioni, tanto più alta dev’essere
la quota di costi di quella attività (costi indiretti rispetto al prodotto) che dev’essere imputata al prodotto
stesso.

Punti di caduta: ci sono almeno 2 limiti. Un limite è collegato alla necessità di gestione operativa di questo
metodo. Parliamo di autovetture di manutenzione; se io controllo se l’olio è a livello e vedo che serve un po’
d’olio, apro il tappo che va dall’apparato motore e faccio un rabbocco d’olio; questa è già in un certo senso
un’attività di manutenzione (anche se porta via poco tempo). Oggi tendenzialmente ogni 20.000 chilometri
bisogna fare anche il cambio dell’olio. Qui la questione è un po’ più complicata: devi mettere la macchina sul
ponte, devi svitare il tappo, far defluire tutto l’olio vecchio, sostituire il filtro; dopodiché metti l’olio
nuovo. É sempre manutenzione però quest’ultimo è un intervento che porta via una mezz’oretta.

Periodicamente deve essere rifatta la cinghia di distribuzione; anche questo è un intervento di manutenzione
però in alcuni casi devi smontare mezza macchina 🚗 —> intervento da 3/4 ore.

Tutto questo per dire che: se io volessi mantenere separate le attività di manutenzione, qui dovrei avere
almeno 3 tipi di manutenzione, perché ogni intervento ha un grado di assorbimento di risorse che è
significativamente diverso sia rispetto al tempo che rispetto alle parti che consumo per fare la manutenzione.
Se devo accorpare può succedere che io accorpi queste robe qui in interventi di manutenzione. Ma il costo medio
è un costo medio che in realtà nasce dall’assemblare realtà molto differenti fra loro.

Un costo medio è un costo medio: io dopo carico lo stesso livello di costo (costo medio di transazione) per
transazioni che potrebbero aver comportato un impiego di risorse anche significativamente diverso.

Se mi gestisco 2.500 attività questa cosa non succede; se, invece, mi gestisco 250 attività o più
frequentemente 100, questa cosa può succedere.

A) Il costo medio dunque potrebbe non misurare correttamente la quantità di risorse effettivamente consumata
per ogni transazione

B) Ci sono dei costi indiretti che non sono riconducibili ad una specifica attività

Per esempio: la retribuzione del direttore di stabilimento (di solito un ingegnere) come si configura rispetto
a prodotto A, prodotto B o prodotto C? (Si tratta di un costo industriale). É un costo indiretto; ma io riesco
a trovare in una figura professionale di questo tipo un’attività omogenea che mi consenta l’applicazione del
metodo poc’anzi descritto? No non è possibile: questo svolge una pluralità di cose —> non riesco a trovare un
cost driver.

Quindi, anche applicando l’ABC, rimangono delle tipologie di costo indiretto che non posso che gestire alla
vecchia maniera, cioè con un criterio di RIPARTIZIONE.

Anche quando applico l’ABC non arrivo a gestire il 100% dei costi indiretti con questa metodica; e il problema
si fa tanto più acuto quanto più mi sposto dalla funzione industriale alla funzione commerciale o alla funzione
amministrativa.

Quindi, la caratteristica dell’ABC è quella implicitamente di rifarsi al full-cost; ma spesso è un full-cost


parziale. Anche se l’impresa è un’impresa manifatturiere spesso l’ABC lo applico assumendo come configurazione
di costi di prodotto il costo pieno industriale e non il costo complessivo (perché se io avessi per esempio
un’attività di carattere amministrativo il rischio di dover utilizzare molto frequentemente dei criteri di
riparto tradizionale si fa via via crescente).

Con l’ABC si può dire che si calcola più puntualmente il costo di prodotto rispetto a quanto non accada con
metodi tradizionali? Dipende da come hai organizzato i centri di costo e dipende dai criteri che hai tempo per
tempo utilizzato, dipende da come fai i ribaltamenti e dipende da come fai le retrocessioni.

Il fatto che l’ABC consenta sempre in ogni caso di avere un vantaggio competitivo rispetto ai dati di costo che
ottieni da una metodica tradizionale è alquanto discutibile.
C’è pero un aspetto per il quale l’ABC è insuperabile: proprio per il fatto che l’ABC postula a monte un’
analisi di tipo organizzativo, io devo fare un censimento di tutte le attività; ma non lo faccio in un’ottica
notarile: porta via un sacco di tempo fare questo lavoro quindi devo farlo fruttare il più possibile; quando
io faccio il censimento delle attività, io mi chiedo: questa attività ha un senso? Genera valore? É un
attività a valore o è un’attività non a valore? Perché le attività non a valore io le dovrei eliminare.
Cosa intendo per attività “a valore”? Ho delle attività che generano un valore che s’incorpora nell’attività o
servizio —> valore che va direttamente a vantaggio dell’utilizzatore/cliente.

Poi ho altre attività che sono a valore, ma non direttamente a favore del cliente: sono a valore per
l’impresa. Chi si occupa del controllo di gestione svolge un’attività; ma è un’attività che va direttamente a
vantaggio del cliente? No, però è un’attività che se svolta bene serve a supportare l’impresa.

Quindi c’è un valore —> non è un valore che s’incorpori nel prodotto/servizio, ma è un valore che serve per
gestire al meglio l’impresa.

É un altro modo d’intendere il valore, ma sempre di attività a valore si tratta. Ma se io faccio questo lavoro
qua, la conseguenza è che io devo rivedere tutti i miei processi e tutta la mia struttura organizzativa.
Io devo andare a capovolgere i processi e gli ambiti di responsabilità/potere perché non ha senso che io man-
tenga in essere delle attività che consumano risorse (producono costi) senza generare nessuna forma di valore/
beneficio.

Dunque l’incredibile pregio che ha questo tipo di metodica rispetto alle metodiche di tipo tradizionale è il
seguente. Nelle metodiche di tipo tradizionale il livello di costo è una sorta di variabile esogena; io ho
questi costi e il mio compito è quello di fare arrivare questi costi, nel modo più aderente possibile alla
realtà, sui prodotti.

Ma io non metto in discussione quel livello di costi: io non mi chiedo perché sostengo quel livello di costi.
Con l’ABC entro nel merito. Io con l’ABC ho un primo effetto “collaterale” che è quello di abbattere i costi.
Io, non solo i costi che mi rimangono cerco di farli arrivare sul prodotto nel modo più aderente possibile alla
realtà, ma io ho già un vantaggio perché in questo modo razionalizzando i processi io riduco i livelli di
costo. Questo i metodi di tipo tradizionale non lo consentono.

Il contesto imprenditoriale nazionale è costellato da una prevalenza di imprese di piccola/media dimensione.


Spesso ancora a conduzione familiare.

Il proprietario è identificabile con una persona fisica: quello col quale ti devi rapportare.
C’è una proprietà di tipo familiare che spesso è riconducibile con una persona, che è l’imprenditore
proprietario.

Quando ti rapporti con realtà di piccola dimensione tu devi convincere qualcuno: gli interventi di consulenza
costano.

Una modalità che a volte viene proposta per vincere le resistenze/diffidenze dei piccoli imprenditori è quella
di dire: mi darai per 3 anni il 20% dei costi che ti farò risparmiare.
É un gioco nel quale possono vincere entrambe le parti perché se l’intervento formativo non produce benefici
l’imprenditore non paga nulla; se l’intervento invece genera dei benefici in termine di riduzione dei costi ha
un vantaggio sia l’imprenditore sia il consulente.

Dopo c’è un passaparola.

· Tutto è basato sulle attività

·· i costi diretti continuano ad andare dove sempre andavo, vale a dire, direttamente sui prodotti

· i costi indiretti devono essere quando possibile riferiti alle attività: quando non è possibile vengono
gestiti con dei criteri di riparto di proporzionalità

Per quelli riferiti ad attività io ho bisogno di:

· individuare il costo del periodo per ciascuna delle attività censite; devo conoscere il cost driver o
activity driver, cioè la determinante di costo

· devo sapere quante transazioni si sono verificate nel periodo considerato

· devo calcolare il costo medio di ogni transazione

· devo attribuire una quota di costi al prodotto sulla base del numero di transizioni che quello ha
richiesto/fruito

· in questo modo determino il passaggio dei costi indiretti dalle attività sui prodotti

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