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PASQUA – QUARESIMA

La Pesach (parola ebraica tradotta lett. in lingua italiana con "passaggio") viene anche detta dal popolo
ebraico "Zman Cherutenu", cioè "tempo della nostra liberazione".

Il termine Pesach, infatti, trae origine da una vicenda del Libro dell'Esodo. In esso Dio annuncia al popolo di
Israele, ridotto in schiavitù in Egitto, che Lui lo libererà

3 comandamenti:

• cibarsi del pane non lievitato


• la proibizione di nutrirsi di qualsiasi cibo contenente lievito durante l'intero periodo della festività
• offerta dell'agnello
• ricordo del pane di cui gli Israeliti si cibarono durante l'Esodo: durante la loro fuga dall'Egitto non
ebbero il tempo di far lievitare il pane

Il numero Quaranta

è un numero fortemente presente per l’uomo biblico e indica, in modo generale, la quantità di tempo spesa
alla presenza di Dio (o qualunque nome tu voglia dare).

Designa sempre un tempo che segna una situazione provvisoria e di attesa:

• è il tempo del castigo e della penitenza, ma anche il tempo della misericordia e del perdono;
• è il tempo dell’intimità con Dio e del colloquio con lui;
• è il tempo in cui l’uomo prende coscienza di sé e si prepara ad accogliere i doni di Dio;
• è il tempo dell’Alleanza e della rivelazione.

Il numero 40 indica quindi la prova iniziata, il trapasso che permette una seconda nascita, quella spirituale.

Quaranta è il numero simbolico con cui l'Antico e il Nuovo testamento rappresentano i momenti salienti
dell'esperienza di fede del popolo di Dio. Esprime il tempo dell'attesa, della purificazione, del ritorno al
Signore, della consapevolezza che Dio è fedele alle sue promesse.

Il numero quaranta nella Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, si incontra spessissimo. E' una cifra simbolica
importante. Rappresenta momenti salienti dell'esperienza di fede del popolo di Dio e anche del singolo
credente. Questo numero, come anche il tre o il sette, non rappresenta, dunque, un tempo cronologico reale,
scandito dalla somma dei giorni. Indica piuttosto una lunga attesa, una lunga prova, un tempo sufficiente per
vedere le opere di Dio, un tempo entro il quale occorre decidersi ad assumere le proprie responsabilità senza
ulteriori rimandi. E' il tempo delle decisioni mature.

Il numero quaranta appare anzitutto nella storia di Noè. Noè, quest'uomo giusto, a causa del diluvio
trascorre quaranta giorni e quaranta notti nell'arca, insieme alla sua famiglia e agli animali che Dio gli aveva
detto di portare con sé. E attende altri quaranta giorni, dopo il diluvio, prima di toccare la terraferma, salvata
dalla distruzione (Gen 7,4.12;8,6).

Isacco, erede delle benedizioni che Dio aveva dato al suo padre Abramo, indeciso per carattere, finalmente,
a quaranta anni decide di costruirsi la sua famiglia. Le tappe fondamentali della vita di Mosè sono
simbolicamente scandite in tre periodi, ognuno di quaranta anni. Il libro dell'Esodo ricorda che Mosè ha
tratto il popolo fuori dall'Egitto quando aveva ottanta anni, la somma di quaranta (Es 7,7) e l'evangelista Luca
rilegge la sua storia nei tre periodi di quaranta anni ciascuna (Atti 7,20-43). Mosè rimane, poi, sul monte Sinai,
con il Signore, quaranta notti e quaranta giorni per accogliere la Legge. In tutto questo tempo digiuna (Es
24,18).

La cifra quaranta è il tempo adatto perché il popolo verifichi la fedeltà di Dio: «il Signore tuo Dio è stato con
te in questi quaranta anni e non ti è mancato nulla» (Dt 8, 2-5). Gli esploratori d'Israele impiegano quaranta
giorni per completare la ricognizione della terra promessa dopo la loro partenza dal deserto di Paran (Nm
13,25). Gli anni di pace di cui gode Israele sotto i giudici sono quaranta (Gdc 3,11.30), ma trascorso questo
tempo inizia la dimenticanza dei doni di Dio e il ritorno al peccato. Il profeta Elia impiega quaranta giorni per
raggiungere l'Oreb, il monte dove incontra Dio (1 Re 19,8).

Quaranta sono i giorni durante i quali i cittadini di Ninive fanno penitenza per ottenere il perdono di Dio (Gn
3,4). Quaranta sono anche gli anni del regno di Saul (At 13,21); di Davide (2Sam 5,4-5) e di Salomone (1Re
11,41).

Nel Nuovo Testamento, Gesù prima di iniziare la vita pubblica si ritira nel deserto per quaranta giorni, senza
mangiare né bere (Mt 4,2). Nel deserto, praticando il digiuno si nutre della parola di Dio, che usa come arma
per vincere il diavolo. Le tentazioni di Gesù richiamano quelle che anche il popolo di Dio visse nel deserto,
ma che non seppe vincere. Quaranta sono i giorni durante i quali Gesù risorto istruisce i suoi, prima di inviare
lo Spirito (At 1,3). Dopo questo tempo ascende al cielo e invia lo Spirito Santo.

• I salmi riflettono sul significato biblico dei quaranta anni. Soffermati su queste parole del salmo 95:
«Ascoltate oggi la sua voce; non indurite il cuore, come a Meriba, come nel giorno di Massa nel
deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere. Per
quarant'anni mi disgustai di quella generazione e dissi: sono un popolo dal cuore traviato, non
conoscono le mie vie».

• Nella liturgia cristiana vi è un tempo particolare, la Quaresima della durata di quaranta giorni, che
ha lo scopo di favorire un cammino di rinnovamento spirituale, alla luce di questa lunga esperienza
biblica e soprattutto per imparare ad imitare Gesù che nei quaranta giorni trascorsi nel deserto,
insegnò a vincere la tentazione vivendo la parola di Dio.

Digiuno e astinenza nella storia

Praticati sin dalle prime comunità di cristiani, sul modello stesso di Cristo, il digiuno e l'astinenza cristiani,
con le loro radici nelle Sacre Scritture e nella Tradizione della Chiesa, si distinguono nettamente da altre
pratiche di "rinuncia al cibo". Tratto persistente nell'intera Storia della Chiesa, lungo i secoli praticarono
digiuno ed astinenza eremiti (fra i quali i Padri del Deserto del IV secolo) e monaci.

Astinenza e digiuno: le differenze

• L'astinenza «proibisce l'uso delle carni, non però l'uso delle uova, dei latticini e di qualsiasi
condimento anche di grasso di animale» (Paolo VI, Cost. apost. Paenitemini, 17 febbraio 1966).

• Il digiuno «obbliga a fare un unico pasto durante la giornata, ma non proibisce di prendere un po' di
cibo al mattino e alla sera» (ivi).

Quando

Secondo le attuali prescrizioni della Chiesa, digiuno e astinenza devono essere osservati dai fedeli
il Mercoledì delle Ceneri e il Venerdì Santo, mentre la sola astinenza è prevista per tutti i venerdì di
Quaresima, come del resto per tutti i venerdì dell'anno, salvo quelli coincidenti con una solennità.
Dalla Regola dell’Ordine del Tempio

“Inoltre, tutti i fratelli del Tempio hanno l’obbligo di digiunare in occasione delle due quaresime: dal lunedì
che precede la festa di S. Martino che è in novembre, fino alla vigilia di Natale; dal lunedì che precede il
mercoledì delle Ceneri fino alla vigilia di Pasqua.”

“I fratelli del Tempio devono osservare altri quattro digiuni: il mercoledì, venerdì e sabato successivi al
mercoledì delle ceneri”

“Il primo mercoledì della grande quaresima, che viene detto mercoledì delle Ceneri, i fratelli devono avere il
capo cosparso di cenere dal cappellano, oppure da un altro sacerdote se non possono avere un cappellano,
affinché ricordino che cenere siamo e cenere ritorneremo.”

“Durante i digiuni, i fratelli devono ascoltare o recitare l’ora nona prima di desinare, dopodiché possono
desinare, a meno che non sia la grande Quaresima; poiché dopo la prima domenica di quella Quaresima, nei
giorni di digiuno, ciascun fratello può desinare solo dopo aver ascoltato o recitato i vespri.”

Padri del Deserto

E’ noto a tutti che il monachesimo iniziò con i Padri del deserto in Egitto. Siamo in Quaresima e i Padri del
deserto ci aiutano a comprendere di più il fine della penitenza che in linea con l’insegnamento di Gesù nel
vangelo deve essere prima di tutto una conversione o un riavvicinamento a Dio e al prossimo.

Ad essi guardarono sempre la futura generazione di monaci e non solo. Per esempio, il Beato Raimondo da
Capua nella “Vita di S Caterina da Siena” scrive che Caterina da bambina voleva diventare una eremita. Si
immagina ancora i Padri del deserto come coloro che facevano ogni genere di penitenza e che passavano la
vita a combattere e a scacciare demoni. Se ciò si può dire del primo ascetismo, certamente non è vero per il
monachesimo egiziano a cui fa capo S. Antonio. Per i monaci dell’Egitto le forme di penitenza e in particolare
il digiuno sono subordinate a valori più fondamentali quali l’umiltà e la carità fraterna. Su queste due virtù ci
sono alcuni detti che illustrano il loro insegnamento e il loro modo di vivere.

Sull’umiltà c’è il seguente detto di abbà Antonio,” Vidi tutte le trappole che il nemico mette nel mondo e io
dissi gemendo,’ cosa può superare queste trappole ? ‘ Sentii allora una voce che mi diceva, ‘ L’umiltà’.” Tra le
grandi ascete del deserto abbiamo Teodora. Essa disse che né l’ascetismo, né le veglie né qualsiasi genere di
pratica penitenziale possono salvare, solo l’umiltà lo può. C’era un anacoreta che riusciva a scacciare i
demoni; egli chiese loro, “Cosa vi fa andar via? E’ il digiuno? “ Risposero,” Noi non mangiamo né beviamo.” “
Sono le veglie? “ Risposero,” Noi non dormiamo.” “ E’ la separazione dal mondo? “ “ Noi viviamo nei deserti.”
“ Quale potere allora vi manda via?” Dissero,” niente ci può sopraffare, ma solo l’umiltà”. “ Vedete come
l’umiltà è vittoriosa sui demoni”.

Sull’umiltà abbiamo un bel detto di Macario. Fu uno dei pionieri del monastero di Scete e subì l’influsso di S.
Antonio che visitò almeno due volte. Si racconta che un giorno abbà Macario quando stava tornando dalla
palude portando delle foglie di palma, incontrò sulla strada il diavolo con una falce. Questo lo colpì a più non
posso, ma invano, e gli disse,” Qual è il tuo potere, Macario, che mi rende impotente contro di te? Tutto ciò
che tu fai, lo faccio anch’io; tu digiuni, io digiuno; tu fai la veglia, io non dormo affatto; mi batti solo in una
cosa.” Abba Macario chiese cos’era. Disse, “ La tua umiltà. A motivo di questa non posso far niente contro di
te”.

Passando, poi, alla carità si racconta che un cacciatore nel deserto vide Antonio che si divertiva con i fratelli
e rimase scandalizzato. Volendo dimostrargli che è necessario a volte venire incontro ai bisogni dei fratelli, il
vecchio gli disse,”Poni una freccia nel tuo arco e tirala.” Così egli fece. Allora il vecchio disse, “ tira un’altra”,
e lo fece. Allora il vecchio disse,” Tira ancora un’altra,” e il cacciatore rispose,” Se piego troppo l’arco lo
spezzo.” Allora il vecchio gli disse, “ E’ la stessa cosa con il lavoro di Dio. Se pieghiamo i fratelli oltre misura si
spezzeranno. A volte è necessario scendere giù per venire incontro ai loro bisogni.” Quando sentì queste
parole fu preso dal pentimento e, grandemente edificato dal vecchio, se ne andò. Quanto ai fratelli, essi se
ne andarono a casa fortificati.

L’uomo non può respingere i ricordi passionali se non fa attenzione alla concupiscenza e alla collera,
dissipando la prima con i digiuni, con veglie e col dormire per terra, e calmando la seconda con atti di
longanimità, pazienza, perdono e misericordia. Da queste due passioni sono infatti costituiti pressoché
tutti i pensieri demoniaci che spingono l’intelletto a rovina e perdizione…dobbiamo fare attenzione al medico
delle anime e vedere come egli curi la collera con l’elemosina, con la preghiera purifichi l’intelletto e, ancora,
dissecchi col digiuno la concupiscenza: in questo modo si costituisce il nuovo Adamo che si rinnova a
immagine di colui che l’ha creato, nel quale non c’è – in forza dell’impassibilità – né maschio né femmina, e
– in forza dell’unica fede – né greco né giudeo, né circoncisione né incirconcisione, né barbaro né scita, né
schiavo né libero, ma tutto e in tutto Cristo.

– Un fratello interrogò abba Poimen dicendo: “Che cosa devo fare?”. Gli disse l’anziano: “Quando Dio ci visita,
di che cosa dobbiamo preoccuparci?”. Gli disse il fratello: “Dei nostri peccati”. Gli disse l’anziano: “Allora
entriamo nella nostra cella e, seduti, facciamo memoria dei nostri peccati, e il Signore si unirà a noi in tutto”.

– Abba Macario disse: “È meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza le carni
dei fratelli!”.

– Un anziano disse: “Ricchezza dell’anima è la temperanza. Acquistiamola con un pensiero umile, fuggendo
la vanagloria, che è la madre dei vizi”.

San Basilio Magno

NON LIMITARE però il bene del digiuno all'astensione dal mangiare. Il vero digiuno è quello di non agire mai
in maniera ingiusta, di "sciogliere le catene inique". Perdona il tuo prossimo per il male commesso e
dimentica ciò che ti deve. "Il vostro digiuno deve essere libero da litigi e alterchi". Non mangi carne, ma stai
divorando tuo fratello. Sei astemio, ma allo stesso tempo, sei prodigo di ingiustizie. Aspetti che venga la sera
per mangiare, ma trascorri tutto il giorno in tribunale. "Guai a coloro che non si ubriacano di vino ma di
ingiustizie.

Evagrio il Monaco

Digiuna con tutto il cuore davanti a Dio. Questo digiuno pulirà le tue ingiustizie e i tuoi peccati [10]; corregge
l'anima, santifica la volontà, scaccia i demoni e ci rende degni di avvicinare Dio. Basta mangiare una sola volta
al giorno, per non diventare dispendioso e indebolire la tua volontà. In questa maniera risparmierai più soldi
per fare delle opere di beneficenza e paralizzerai le passioni del tuo corpo. Se incontri qualche fratello e
mangi due o tre volte, non angustiarti, ma sii contento di aver obbedito ad un bisogno e ringrazia Dio perché
ti ha fatto seguire la legge dell'amore e perché Lui stesso ha assunto il governo della tua vita. Ci sarà anche
un giorno in cui ti ammalerai e dovrai mangiare più volte. Non angustiarti però, non c'è bisogno di continuare
la fatica degli esercizi durante la malattia; se fai qualche compromesso, potrai riprendere gli esercizi più tardi.
Per quello che riguarda l'astensione da certi tipi di cibo, la Parola di Dio non proibisce nessuno, ma dice
invece: "Vi ho dato tutto questo, come già le verdi erbe, affinché mangiate senza indugi" e "Non quello che
entra nella bocca rende impuro l'uomo". L'astensione da certi tipi cibi costituisce dunque una scelta
personale e un esercizio dell'anima.
1. Il combattimento invisibile

La tentazione di mancare di temperanza, di irritarsi, o di commettere qualche altra colpa, è spesso provocata
da un'occasione esterna, dalla presenza di «oggetti», per usare il vocabolario di Evagrio Pontico. Ma, anche
in assenza di sollecitazioni esterne, la tentazione può nascere nell'anima, a partire da ricordi o da fantasie,
sotto forma di «pensieri» cattivi, cioè di tentazioni puramente interiori.

Evagrio nota che i laici che vivono nel mondo sono tentati soprattutto dagli oggetti, mentre i monaci, nella
loro solitudine, lo sono di più dai pensieri. Questa distinzione non è d'altra parte rigida, e chiunque vuole
impegnarsi seriamente nella vita spirituale deve fare questo combattimento invisibile, senza il quale l'ascesi
corporale e le opere esteriori non sarebbero sufficienti. Si può consumare il corpo col digiuno, le veglie e
tutti i tipi di lavoro, o moltiplicare le buone opere, e tuttavia rimanere agitati dai molti pensieri e dalle
fantasie, che possono portare all'orgoglio, alla fornicazione, alla perdita della fede in Dio e alla
disperazione.

Contro gli uomini che vivono nel mondo, i demoni lottano soprattutto attraverso gli oggetti, mentre contro i
monaci, lo fanno più spesso con i pensieri; la solitudine infatti li priva delle cose. Ma quanto più è facile
peccare col pensiero che con le azioni, tanto più è duro il combattimento che avviene nel pensiero rispetto
a quello che riguarda le cose. Il nous è infatti una cosa estremamente mobile, e, quanto alle fantasie illecite,
difficile da dominare (Evagrio Pontico).

Questa domanda fu posta all'abate Agatone: "Che cosa e meglio: l'ascesi corporale o la custodia del
cuore?" L’anziano rispose: «L'uomo è simile ad un albero: la fatica del corpo è il fogliame, e la custodia del
cuore il frutto. Poiché, secondo la Scrittura, ogni albero che non produce buon frutto viene tagliato e gettato
nel fuoco (Mt 3 10) è chiaro che tutta la nostra cura deve essere per il frutto cioè per la custodia del cuore,
ma è necessaria anche la protezione e l'ornamento delle foglie che sono la fatica del corpo» (Agatone).

Quando un uomo, dopo aver udito la parola di Dio, intraprende la lotta, rigetta tutte le faccende di questa
vita, i legami di questo mondo, tutti i piaceri carnali, rinnegandoli e liberandosene, e se rimane
con perseveranza davanti al Signore, consacrandogli tutto il proprio tempo, scoprirà che nel cuore vi è
un'altra lotta, un'altra battaglia, segreta, e una nuova guerra, contro i pensieri suggeriti dagli spiriti
di malizia, e che lo attende un altro combattimento. Così, se non cede e invoca il Signore con una
fede incrollabile e una grande pazienza, aspettando il suo aiuto, potrà ottenere da lui la liberazione
dai legami, dai lacci, dalle sbarre e dalle tenebre degli spiriti di malizia, cioè dalle operazioni delle passioni
nascoste [...].

Per tutto il tempo in cui un uomo è preso dalle cose visibili di questo mondo, circondato dalle varie catene
della terra, trascinato dalle passioni malvagie, non sa nemmeno che vi è un altro combattimento, un'altra
lotta, un'altra guerra dentro se stesso. Infatti, soltanto quando un uomo si alza per combattere e liberarsi da
ogni legame visibile di questo mondo, dagli affari materiali e dai piaceri carnali, e comincia a stare con
perseveranza davanti al Signore svuotandosi di questo mondo, può conoscere il combattimento interiore delle
passioni che si agitano in lui, la guerra interiore e i pensieri malvagi. Come si è detto, per tutto il tempo in cui
uno non lotta, non rinuncia al mondo, non si distacca con tutto il cuore dalle bramosie terrene e non vuole
unirsi totalmente e senza riserve al Signore, costui non conosce né le astuzie segrete degli spiriti di malizia,
né le passioni malvagie nascoste in lui. Ma è estraneo a se stesso, non sapendo di portare in sé piaghe e
passioni segrete; è ancora prigioniero delle cose visibili e volontariamente schiavo degli affari di questo
mondo (San Macario l'Egiziano).
Ma come identificare questi pensieri cattivi?

Evagrio Pontico ne ha composto un elenco, che è rimasto classico. Sarà ripreso, in Occidente, da san Cassiano
di Marsiglia, poi, con qualche modifica, da papa san Gregorio Magno (540-604), che porterà a sette i «peccati
capitali».

I pensieri cattivi possono essere tutti ricondotti a otto principali.

1. Il primo è la golosità,
2. il secondo la lussuria,
3. il terzo l'amore del denaro,
4. il quarto la tristezza,
5. il quinto la collera,
6. il sesto l'accidia,
7. il settimo la vanagloria,
8. l'ottavo l'orgoglio.

Che tutti questi pensieri agitino o meno la nostra anima, non dipende da noi; ma che si attardino in noi e
mettano in movimento la passione o no, ciò dipende invece da noi.

Il pensiero della golosità suggerisce al monaco di abbandonare al più presto l'ascesi, prospettandogli dolori
allo stomaco, al fegato e alla milza, l'idropisia, una lunga malattia, la mancanza del necessario, l'assenza di
medicine. Spesso gli suggerisce il ricordo dei fratelli che furono così provati; e talvolta suggerisce a costoro di
andare a trovare quelli che si dedicano alla temperanza, per descrivere loro dettagliatamente le proprie
malattie, attribuendole all'ascesi.

Il demone della lussuria costringe a desiderare dei corpi, attacca con la più grande violenza coloro che si
dedicano alla temperanza, per spingerli alla rilassatezza, persuadendoli che si affaticano invano. Assilla
talmente l'anima da inclinarla verso tali azioni, fa si che pronunci parole e ne oda, come se la cosa fosse là
sotto i suoi occhi.

L'amore del denaro suggerisce una lunga vecchiaia, il non poter più lavorare con le proprie mani, la minaccia
della fame, le malattie che sopraggiungeranno, l'amarezza della povertà, e com'è disonorevole dover
mendicare il necessario.

La tristezza o nasce dalla privazione di una cosa desiderata, oppure accompagna la collera. Ecco come
nasce dalla privazione di una cosa desiderata: sono i pensieri a dare l'inizio col riportare alla memoria del
monaco la sua casa, i suoi genitori, la sua vita passata; poi, quando essi vedono che, invece di resistere egli vi
presta volentieri attenzione e si abbandona con la mente a questi piaceri, si impadroniscono di lui e lo fanno
precipitare nella tristezza all'idea che le cose passate non ci sono più e che il suo genere di vita attuale
impedisce il loro ritorno. Perciò, più l'infelice anima si è abbandonata con piacere ai primi pensieri, più è
abbattuta dai secondi.

Quanto alla collera, essa è una passione estremamente ardente. È infatti un ribollimento e un movimento
dell'irascibile contro chi ci ha offeso o è sembrato offenderci. Essa riempie l'anima di una continua acredine
e si impossessa dello spirito, soprattutto durante la preghiera, agitando sotto i suoi occhi l'immagine di colui
che l'ha contrariata [...].

C'è poi il demone dell'accidia, detto anche demonio meridiano (cfr. SaI 90, 6), ed è il più pesante di tutti i
demoni. Egli attacca il monaco verso la quarta ora e assedia la sua anima fino all'ora ottava. Comincia
dandogli l'impressione che il sole sia lentissimo nella sua corsa o perfino immobile, e che il giorno abbia
cinquanta ore. Poi lo spinge a guardare sempre dalla finestra, lo getta fuori dalla sua cella per scrutare il sole
e vedere se l'ora nona è vicina, infine lo sollecita a guardarsi attorno nell'attesa della visita di un fratello. Gli
genera avversione verso il luogo in cui dimora, il suo genere di vita, il lavoro delle sue mani; gli insinua il
pensiero che non c'è più carità tra i fratelli e che non può contare su nessuno. Se in quei momenti qualcuno
viene a rattristarlo, il demonio ne approfitta per aumentare ancora più questa avversione. Gli fa desiderare
altri luoghi, dove gli sarà più facile procurarsi il necessario, dove troverà un mestiere più facile e nel quale
riuscirà meglio. A questo aggiunge il pensiero che, per piacere a Dio, poco importa il luogo in cui ci si trova,
perché è possibile ovunque adorare la divinità. Gli ricorda ancora i genitori e la vita di un tempo. Gli prospetta
la lunghezza della vita e gli mette sotto gli occhi le fatiche dell'ascesi. In una parola, lo scuote da capo a piedi,
fino al punto che il monaco, abbandonata la sua cella, fugga fuori dallo stadio. Tuttavia, a questo demone
non ne segue alcun altro, per cui, se supera il combattimento, l'anima si ritrova in uno stato di pace e in
una gioia ineffabile.

Il pensiero della vanagloria è estremamente sottile, e nasce facilmente in coloro che praticano l'ascesi: cerca
in tutti i modi di rendere note le loro lotte, ricerca la gloria che viene dagli uomini, fa loro immaginare demoni
che gridano, donne sanate, folle che cercano di toccare i loro abiti; poi predice loro il sacerdozio, fa apparire
alla loro porta persone che bramano di vederli al punto di costringerli, se mai non volessero. Dopo averli così
innalzati con speranze piene di vanità, li abbandona a se stessi o alle tentazioni del demone dell'orgoglio o
a quello della tristezza, che li assalgono con pensieri contrari alla speranza. Consegna infine al demone
della lussuria colui che, proprio un istante prima, era un sacerdote così santo da doverlo perfino legare per
poterlo ordinare.

Il demone dell'orgoglio provoca all'anima le cadute più terribili. La persuade a non riconoscere che l'aiuto
gli viene da Dio; a pensare di stare praticando l'ascesi con successo e di innalzarsi al di sopra degli altri,
stimandoli tardi di mente perché non ne riconoscono la superiorità. In seguito, sopraggiungono la collera, la
tristezza, e - male supremo - lo smarrimento dello spirito e la follia, così come anche visioni di folle di demoni
nell'aria (Evagrio Pontico).

2. LA SOBRIETA' SPIRITUALE E IL DISCERNIMENTO DEGLI SPIRITI

Le cose sarebbero relativamente semplici se la tentazione si presentasse sempre a viso scoperto. Ma già
l'apostolo Paolo metteva in guardia i Corinzi di quanto Satana era capace di trasformarsi in angelo di luce (cfr.
2Cor li, 14). Molte sono le illusioni che attendono al varco il novizio inesperto. Le consolazioni nella
preghiera, le lacrime, gli stessi colloqui spirituali possono nascondere delle trappole per chi non è vigilante.

Le lacrime, se sono causate dal timore, hanno in se stesse la garanzia. Ma se sono causate dall'amore, quando
è ancora a uno stadio imperfetti o, come può accadere per certuni, possono facilmente cambiarsi in illusione.
A meno che il pensiero del fuoco eterno non abbia acceso il cuore nel momento dell'azione. Ed è significativo
notare che in quel momento il fuoco meno nobile è anche il più sicuro.

Nel tempo della tentazione, ho sperimentato come questo lupo producesse ingannevolmente nella mia
anima una gioia, delle lacrime e una consolazione che erano prive di un ragionevole fondamento; e io ero
come un bambino: credevo di cogliere un frutto buono, non un oggetto che mi corrompeva (San Giovanni
Climaco).

Esaminiamo, soppesiamo, sorvegliamo le dolcezze che sentiamo durante la salmodia, per distinguere quali
provengono dal demone della lussuria e quali dalle parole dello Spirito e dalla grazia e dalla forza che esse
contengono. Non ingannarti, o giovane. Ho visto infatti uomini pregare con tutta l'anima per quanti erano
loro cari. Credevano di adempiere alla legge dell'amore, ed erano invece mossi dallo spirito di lussuria. Voi
tutti che avete deciso di custodire la purezza, ascoltate un'altra furbizia e un altro espediente di quell'astuto,
e guardatevene. Qualcuno che aveva esperienza di questa scaltrezza mi ha riferito che molto spesso il demone
della lussuria si nasconde completamente, e mentre il monaco siede e conversa con delle donne, gli ispira
grandi sentimenti di pietà e forse anche torrenti di lacrime, e gli suggerisce di ammaestrarle parlando loro del
ricordo della morte, del giudizio e della castità. Allora le sventurate, ingannate da questi discorsi e dalla sua
falsa pietà, accorrono da quel lupo come fosse un pastore, e quando i rapporti sono diventati più familiari
ecco che l'infelice viene travolto nella caduta. Esamina attentamente la soavità che provi nella tua anima,
per timore che non sia stata preparata con inganno da medici crudeli, anzi da traditori (San Giovanni
Climaco).

Come discernere la moneta falsa? Nulla può sostituire la chiaroveggenza del padre spirituale. Tuttavia, sin
dalle origini del monachesimo, sant'Antonio aveva fissato alcuni criteri che possono aiutare a scovare
l'illusione. Antonio considerava soprattutto il caso delle apparizioni angeliche o demoniache. Ma la portata
delle sue osservazioni è più ampia. Un pensiero, un moto interiore o una ispirazione accompagnata da
pace, gioia, umiltà, è "spirito buono". Al contrario, tutto ciò che fa nascere nell'anima turbamento,
agitazione e durezza porta il segno dello spirito cattivo, anche se l'apparenza è buona.

È possibile e facile, se Dio ne fa la grazia, discernere la presenza degli spiriti buoni da quelli cattivi.
L'apparizione dei santi non genera turbamento: "Non griderà, non alzerà il tono, non farà udire la sua voce
nelle strade (Is 42, 2). La loro presenza è così dolce e tranquilla che colma immediatamente l'anima di gioia,
esultanza e fiducia. Perché con loro c'è il Signore, il quale è la nostra gioia e la potenza di Dio Padre. I pensieri
dell’anima rimangono tranquilli e senza turbamento. Essa stessa, immersa nella luce, può contemplare da
sola coloro che le sono apparsi. Allora il desiderio delle cose divine e future si impossessa di lei, e vorrebbe
assolutamente unirsi i con loro. Se avviene che, essendo mortali, alcuni temono alla vista degli spiriti buoni,
la carità di questi è tale da dissipare questo timore. Allo stesso modo fece Gabriele con Zaccaria (cfr. Lc 1, 13),
e l'angelo che apparve alle donne presso il divino sepolcro (cfr. Mt 28, 5), e quello che secondo il Vangelo,
apparve ai pastori e disse "Non temete" (Lc 2, 10). Perché questo timore non proviene dall'infermità
dell'anima, ma dal fatto che essa riconosce la presenza di esseri che le sono superiori. Tali sono le apparizioni
dei santi spiriti. Al contrario, l'incursione e l'apparizione dei cattivi spiriti getta nel turbamento; essi vengono
con rumore, strepito e grida, e si agitano come giovani senza educazione o briganti. Subito nascono
nell'anima il timore, il turbamento e il disordine dei pensieri; la tristezza, il rancore verso gli asceti; l'accidia,
l'afflizione, il ricordo dei genitori; la paura della morte; infine i desideri malvagi, il disprezzo della virtù e il
disordine dei costumi. Perciò, quando qualche apparizione vi spaventa, se questo timore si dissipa subito e al
suo posto provate una gioia ineffabile, ardore, fiducia, conforto, tranquillità nei pensieri, generosità e amor
di Dio, e tutto ciò che è stato già detto, prendete coraggio e pregate, perché questa gioia e questo stato quieto
dell'anima manifestano la santità di colui che si rende presente (Sant’ Atanasio di Alessandria).

Mille anni dopo, san Massimo Capsocaliva si esprimerà quasi negli stessi termini nel corso di un colloquio
con san Gregorio Sinaita.

Altri sono i segni dell'inganno, e altri quelli della grazia e della verità dello Spirito. Ecco quelli
dell'inganno: quando il Maligno entra in contatto con noi, suscita nell'intelletto il turbamento; lo rende
ribelle e indurisce il cuore; gli ispira mollezza e sfiducia; effonde tenebre sui suoi pensieri; rende cattivo lo
sguardo; confonde la mente; consegna il povero corpo al tremore; fa apparire davanti agli occhi il fuoco
fascinoso dell'errore, e non quello che diffonde una luce chiara e serena. Fa uscire poi di senno e rende
l'intelletto demoniaco. Infine, fa uscire dalla bocca parole sconvenienti e bestemmie. L'uomo diventa così
soltanto irritazione e collera. In lui non vi è più né umiltà, né preghiere, né lacrime; egli trae continuamente
motivo di vanto dalla sua virtù e se ne gloria. Resta chiuso nelle sue passioni, finché perde il senno e va in
perdizione. Da questo inganno del Maligno, o Padre santo, il Signore ci liberi. Quanto ai segni della grazia,
eccoli: quando il Santo entra contatto con noi, unifica l'intelletto donandogli sapienza, umiltà e misura.
Pone nell'anima il pensiero della morte, del giudizio, dei nostri peccati, e anche del castigo del fuoco. Dona al
cuore la perfetta compunzione, l'afflizione e il pianto; rende lo sguardo più dolce, e le lacrime scendono dagli
occhi. Più il contatto è ravvicinato, più l'anima trova dolcezza e consolazione nella preziosa Passione di Cristo
e nel suo immenso amore per gli uomini. Egli suscita nell'intelletto contemplazioni altissime scevre da inganno
[...]. In questo modo lo illumina con lo splendore della conoscenza divina. E quando l'intelletto è rapito, nello
Spirito Santo, da questa inaccessibile luce divina, esso viene illuminato da questa stessa luce divina e
splendente. Ciò rende il cuore quieto, e colui che ha ricevuto tali doni ottiene nel suo intelletto, nel suo cuore,
nella sua ragione e nel suo spirito una beatitudine e una gioia ineffabili.

Dopo che è stata riscontrata la natura cattiva di un pensiero, com'è possibile resistergli efficacemente? A
questo scopo è utile conoscere il processo della tentazione, al fine di opporle resistenza al momento
opportuno. San Giovanni Climaco ha così descritto le varie fasi della tentazione:

I padri, dotati di discernimento, hanno distinto gli uni dagli altri l'approccio, l'adesione, il consenso, la
prigionia, il combattimento e ciò che viene chiamata passione dell'anima. Questi uomini beati definiscono
l'approccio come la prima apparizione, nel cuore, del semplice pensiero o dell'immagine di un oggetto che si
presenta. L'adesione consiste nell'accettare il dialogo con ciò che si è manifestato, seguito o meno da
passione. Il consenso è l'acquiescenza dell'anima, accompagnata da diletto, a ciò che le viene proposto. La
prigionia è un impulso violento e involontario del cuore; o anche un continuo attaccamento all'oggetto in
questione tale da distruggere la buona disposizione della nostra anima. Il combattimento è definito come un
confronto, ancora a parità di forze, con l'avversario, in cui l'anima, secondo la scelta della sua volontà, riporta
la vittoria o subisce una sconfitta. Essi dicono che la passione, in senso proprio, è un male che da tempo
affliggeva segretamente l'anima e che l'ha portata a contrarre un intimo legame con sé, costringendola, con
disposizione abituale, a piegarsi ad essa spontaneamente e connaturalmente. Di tutti questi movimenti, il
primo è senza peccato; il secondo non sempre lo è; quanto al terzo, è colpevole o no secondo lo stato interiore
del combattente. Il combattimento infine è l'occasione che procura corona o castigo (San Giovanni Climaco).

L'approccio o suggestione è la semplice apparizione nella coscienza del pensiero di una cosa cattiva, e di
un'attrazione verso di essa; potrà essere, per esempio, un pensiero di vendetta, di golosità, un invito a
compiacersi in una cattiva tristezza, ecc. Esso è involontario, e sarebbe vano pretendere di impedire che
nascano in noi questi moti. Al contrario, dandoci l'occasione di dimostrare il nostro amore per il Signore e
mantenendoci nell'umiltà, la tentazione ha un ruolo importante nell'opera della nostra santificazione. È in
questo senso che Evagrio Pontico poteva dire: «Togli le tentazioni, e nessuno sarà salvato».

Nell'adesione o dialogo, riflettiamo sulla tentazione e, in qualche modo, ci intratteniamo con essa. Ciò può
non comportare nessuna connivenza segreta con essa e non avere altro fine che opporgli ragioni contrarie.
E questo un metodo che non è senza pericolo e che i Padri generalmente sconsigliano, soprattutto agli asceti
inesperti. Perché il dialogo può nascondere già un mezzo consenso, un compiacimento inconfessato che non
è del tutto esente dal peccato.

Il consenso è una presa di posizione personale: accettiamo di far consistere il nostro piacere nella gioia
cattiva che ci è proposta: aderiamo a questa tensione disordinata e identifichiamo, in qualche modo, il nostro
io con essa.

Se consensi simili si ripetono, generano dapprima la passione, che è la tendenza cattiva promossa a stato di
seconda natura, poi la prigionia, vera ossessione, impulso irresistibile in cui la libertà non ha più posto.

S'impone quindi un'estrema vigilanza che i Padri chiamano custodia del cuore o sobrietà (nepsis). Bisogna
combattere i pensieri sin dal loro apparire, sin dallo stadio in cui sono semplici suggestioni:

Dobbiamo perciò costantemente ricordarci di questo precetto: «Custodisci il tuo cuore con tutte le possibili
attenzioni» (Prv 4, 23), e, secondo il comandamento dato da Dio al principio, sorvegliare la testa velenosa
del serpente (cfr. Gn 3, 15), cioè l'inizio dei pensieri cattivi, coi quali il diavolo tenta di penetrare nella nostra
anima. Non lasciamo che, per negligenza, il resto del suo corpo, cioè il consenso al piacere cattivo, entri nel
nostro cuore; se vi entrasse, certamente il suo morso velenoso darebbe la morte all'anima divenuta sua
prigioniera. Dobbiamo anche mettere a morte sin dal mattino i peccatori della terra» (SaI 100, 8), cioè i
pensieri carnali, e «sbattere contro la pietra i figli di Babilonia» (Salì 36, 9), quando sono ancora piccoli, perché
se non li sterminiamo nella loro infanzia, cresceranno grazie alla nostra connivenza e ci combatteranno con
ancora più forza per la nostra perdizione - oppure non potremo vincere se non con molta pena e fatica (San
Cassiano).

Dal Catechismo della Chiesa Cattolica di oggi

La penitenza interiore

1430 Come già nei profeti, l'appello di Gesù alla conversione e alla penitenza non riguarda anzitutto opere
esteriori, «il sacco e la cenere», i digiuni e le mortificazioni, ma la conversione del cuore, la penitenza interiore.
Senza di essa, le opere di penitenza rimangono sterili e menzognere; la conversione interiore spinge invece
all'espressione di questo atteggiamento in segni visibili, gesti e opere di penitenza.

1431 La penitenza interiore è un radicale nuovo orientamento di tutta la vita, un ritorno, una conversione a
Dio con tutto il cuore, una rottura con il peccato, un'avversione per il male, insieme con la riprovazione nei
confronti delle cattive azioni che abbiamo commesse. Nello stesso tempo, essa comporta il desiderio e la
risoluzione di cambiare vita con la speranza nella misericordia di Dio e la fiducia nell'aiuto della sua grazia.
Questa conversione del cuore è accompagnata da un dolore e da una tristezza salutari, che i Padri hanno
chiamato «animi cruciatus [afflizione dello spirito]», «compunctio cordis [contrizione del cuore]».

1432 Il cuore dell'uomo è pesante e indurito. Bisogna che Dio conceda all'uomo un cuore nuovo. La
conversione è anzitutto un'opera della grazia di Dio che fa ritornare a lui i nostri cuori: «Facci ritornare a te,
Signore, e noi ritorneremo» (Lam 5,21). Dio ci dona la forza di ricominciare. È scoprendo la grandezza
dell'amore di Dio che il nostro cuore viene scosso dall'orrore e dal peso del peccato e comincia a temere di
offendere Dio con il peccato e di essere separato da lui. Il cuore umano si converte guardando a colui che è
stato trafitto dai nostri peccati.21

« Teniamo fisso lo sguardo sul sangue di Cristo, e consideriamo quanto sia prezioso per Dio, suo Padre; infatti,
sparso per la nostra salvezza, offrì al mondo intero la grazia della conversione ».

1433 Dopo la Pasqua, è lo Spirito Santo che convince il mondo quanto al peccato, cioè al fatto che il mondo
non ha creduto in colui che il Padre ha inviato. Ma questo stesso Spirito, che svela il peccato, è
Consolatore24 che dona al cuore dell'uomo la grazia del pentimento e della conversione.

V. Le molteplici forme della penitenza nella vita cristiana

1434 La penitenza interiore del cristiano può avere espressioni molto varie. La Scrittura e i Padri insistono
soprattutto su tre forme: il digiuno, la preghiera, l'elemosina,26 che esprimono la conversione in rapporto a
se stessi, in rapporto a Dio e in rapporto agli altri. Accanto alla purificazione radicale operata dal Battesimo o
dal martirio, essi indicano, come mezzo per ottenere il perdono dei peccati, gli sforzi compiuti per riconciliarsi
con il prossimo, le lacrime di penitenza, la preoccupazione per la salvezza del prossimo,27 l'intercessione dei
santi e la pratica della carità che « copre una moltitudine di peccati » (1 Pt 4,8).

1435 La conversione si realizza nella vita quotidiana attraverso gesti di riconciliazione, attraverso la
sollecitudine per i poveri, l'esercizio e la difesa della giustizia e del diritto,28 attraverso la confessione delle
colpe ai fratelli, la correzione fraterna, la revisione di vita, l'esame di coscienza, la direzione spirituale,
l'accettazione delle sofferenze, la perseveranza nella persecuzione a causa della giustizia. Prendere la propria
croce, ogni giorno, e seguire Gesù è la via più sicura della penitenza.29
1436 Eucaristia e Penitenza. La conversione e la penitenza quotidiane trovano la loro sorgente e il loro
alimento nell'Eucaristia, poiché in essa è reso presente il sacrificio di Cristo che ci ha riconciliati con Dio; per
suo mezzo vengono nutriti e fortificati coloro che vivono della vita di Cristo; essa « è come l'antidoto con cui
essere liberati dalle colpe di ogni giorno e preservati dai peccati mortali ».30

1437 La lettura della Sacra Scrittura, la preghiera della liturgia delle Ore e del « Padre nostro », ogni atto
sincero di culto o di pietà ravviva in noi lo spirito di conversione e di penitenza e contribuisce al perdono dei
nostri peccati.

1438 I tempi e i giorni di penitenza nel corso dell'anno liturgico (il tempo della Quaresima, ogni venerdì in
memoria della morte del Signore) sono momenti forti della pratica penitenziale della Chiesa.31 Questi tempi
sono particolarmente adatti per gli esercizi spirituali, le liturgie penitenziali, i pellegrinaggi in segno di
penitenza, le privazioni volontarie come il digiuno e l'elemosina, la condivisione fraterna (opere caritative e
missionarie).

1439 Il dinamismo della conversione e della penitenza è stato meravigliosamente descritto da Gesù nella
parabola detta « del figlio prodigo » il cui centro è « il padre misericordioso »:32 il fascino di una libertà
illusoria, l'abbandono della casa paterna; la miseria estrema nella quale il figlio viene a trovarsi dopo aver
dilapidato la sua fortuna; l'umiliazione profonda di vedersi costretto a pascolare i porci, e, peggio ancora,
quella di desiderare di nutrirsi delle carrube che mangiavano i maiali; la riflessione sui beni perduti; il
pentimento e la decisione di dichiararsi colpevole davanti a suo padre; il cammino del ritorno; l'accoglienza
generosa da parte del padre; la gioia del padre: ecco alcuni tratti propri del processo di conversione. L'abito
bello, l'anello e il banchetto di festa sono simboli della vita nuova, pura, dignitosa, piena di gioia che è la vita
dell'uomo che ritorna a Dio e in seno alla sua famiglia, la Chiesa. Soltanto il cuore di Cristo, che conosce le
profondità dell'amore di suo Padre, ha potuto rivelarci l'abisso della sua misericordia in una maniera così
piena di semplicità e di bellezza.

La contrizione

1451 Tra gli atti del penitente, la contrizione occupa il primo posto. Essa è « il dolore dell'animo e la
riprovazione del peccato commesso, accompagnati dal proposito di non peccare più in avvenire ».43

1452 Quando proviene dall'amore di Dio amato sopra ogni cosa, la contrizione è detta « perfetta »
(contrizione di carità). Tale contrizione rimette le colpe veniali; ottiene anche il perdono dei peccati mortali,
qualora comporti la ferma risoluzione di ricorrere, appena possibile, alla confessione sacramentale.44

1453 La contrizione detta «imperfetta» (o « attrizione ») è, anch'essa, un dono di Dio, un impulso dello Spirito
Santo. Nasce dalla considerazione della bruttura del peccato o dal timore della dannazione eterna e delle
altre pene la cui minaccia incombe sul peccatore (contrizione da timore). Quando la coscienza viene così
scossa, può aver inizio un'evoluzione interiore che sarà portata a compimento, sotto l'azione della grazia,
dall'assoluzione sacramentale. Da sola, tuttavia, la contrizione imperfetta non ottiene il perdono dei peccati
gravi, ma dispone a riceverlo nel sacramento della Penitenza.45

1454 È bene prepararsi a ricevere questo sacramento con un esame di coscienza fatto alla luce della Parola
di Dio. I testi più adatti a questo scopo sono da cercarsi nel Decalogo e nella catechesi morale dei Vangeli e
delle lettere degli Apostoli: il discorso della montagna, gli insegnamenti apostolici.

La confessione dei peccati

1455 La confessione dei peccati (l'accusa), anche da un punto di vista semplicemente umano, ci libera e
facilita la nostra riconciliazione con gli altri. Con l'accusa, l'uomo guarda in faccia i peccati di cui si è reso
colpevole; se ne assume la responsabilità e, in tal modo, si apre nuovamente a Dio e alla comunione della
Chiesa al fine di rendere possibile un nuovo avvenire.
1456 La confessione al sacerdote costituisce una parte essenziale del sacramento della Penitenza: « È
necessario che i penitenti enumerino nella confessione tutti i peccati mortali, di cui hanno consapevolezza
dopo un diligente esame di coscienza, anche se si tratta dei peccati più nascosti e commessi soltanto contro
i due ultimi comandamenti del Decalogo,47 perché spesso feriscono più gravemente l'anima e si rivelano più
pericolosi di quelli chiaramente commessi »:48

« I cristiani [che] si sforzano di confessare tutti i peccati che vengono loro in mente, senza dubbio li mettono
tutti davanti alla divina misericordia perché li perdoni. Quelli, invece, che fanno diversamente e tacciono
consapevolmente qualche peccato, è come se non sottoponessero nulla alla divina bontà perché sia
perdonato per mezzo del sacerdote. "Se infatti l'ammalato si vergognasse di mostrare al medico la ferita, il
medico non può curare quello che non conosce"

1458 Sebbene non sia strettamente necessaria, la confessione delle colpe quotidiane (peccati veniali) è
tuttavia vivamente raccomandata dalla Chiesa.54 In effetti, la confessione regolare dei peccati veniali ci aiuta
a formare la nostra coscienza, a lottare contro le cattive inclinazioni, a lasciarci guarire da Cristo, a progredire
nella vita dello Spirito. Ricevendo più frequentemente, attraverso questo sacramento, il dono della
misericordia del Padre, siamo spinti ad essere misericordiosi come lui.

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