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21/1/2019 Dal Postmodernismo al Nuovo Realismo.

Note sull’architettura italiana negli ultimi trent’anni

Rivista di estetica
61 | 2016 :
contemporaneo

Dal Postmodernismo al Nuovo


Realismo. Note sull’architettura
italiana negli ultimi trent’anni
F P
p. 152-170

Résumés
Italiano English
A partire dal riepilogo per fasi temporali distinte delle vicende dell’architettura italiana del
Novecento si propone in queste note un’interpretazione del suo ultimo trentennio. Si tratta di un
periodo particolarmente importante, situato tra la fine del “secolo breve” e l’inizio del nuovo, nel
quale l’eredità moderna si confronta in Italia, come in altri paesi, con tematiche contemporanee.
Tale eredità dà vita a una molteplicità talmente accentuata di orientamenti da risultare a volte
difficilmente decifrabile nelle intenzioni che esprime e nei risultati conseguiti. Qualche paragrafo
del testo è stato dedicato a illustrare la singolarità teorica e operativa dell’architettura italiana,
soprattutto per ciò che concerne il suo rapporto con la modernità. Un rapporto contrattato più
volte, sulla base di alcune condizioni ritenute essenziali, che appare ancora oggi incompleto e
controverso. Tornando al trentennio in esame lo si è diviso in tre stagioni, identificate sia da
logiche interne all’architettura italiana sia da fenomeni e da avvenimenti esterni. Esso vede il
dibattito disciplinare confrontarsi con alcune nuove situazioni che lo stanno modificando in
profondità. La rivoluzione digitale, la globalizzazione, il primato della tecnica, la presenza degli
specialismi, la pressione mediatica, la prevalenza del presente, la sostenibilità definiscono nel
loro insieme un campo problematico quanto mai complesso e contradditorio. La cultura
architettonica italiana reagisce a questa condizione dividendosi tra il rifletterla e il contrastarla.
Nell’analisi di questo periodo si è cercato non tanto di esporre opinioni e giudizi su ciò che è stato
sintetizzato, quanto di costruire un elenco di temi e di motivi il più possibile completo che
mettesse il lettore in grado di formulare liberamente alcune possibili ipotesi interpretative
riguardanti un arco temporale denso di elementi di notevole interesse storico e critico.

Starting from the summary of distinct time phases of the events of twentieth century Italian
architecture, these notes offer an interpretation of its last thirty years. This is a particularly
important period, situated between the end of the "short century" and the beginning of the new
century in which, in Italy as in other countries, modern heritage is compared with contemporary
issues. This heritage gives rise to such a pronounced multiplicity of orientations as to make the
intentions that it expresses and the results achieved sometimes difficult to decipher. A few
paragraphs of text have been devoted to illustrating the theoretical and operational singularity of
Italian architecture, especially as regards its relationship with modernity; a much-negotiated
relationship, based on certain conditions considered essential, which still seems incomplete and
controversial today. Returning to the thirty years in question, these notes are divided into three
seasons, identified by both the internal logics of Italian architecture and by external phenomena
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and events. The disciplinary debate is compared with some new situations that are changing it
profoundly. Together, the digital revolution, globalisation, the primacy of technique, the presence
of specialisms, media pressure, the prevalence of the present and sustainability define a
problematic field which is extremely complex and contradictory. Italian architectural culture
reacts to this condition by dividing itself between reflecting it and countering it. In the analysis of
this period, we have attempted not so much to expose opinions and judgements about what has
been synthesised, as to build as complete as possible a list of themes and reasons that would put
the reader in a position to freely formulate some possible interpretative hypotheses regarding a
dense time frame of elements that are of significant historical and critical interest.

Entrées d’index
Keywords : globalization, mass-media, technology, specialized knoweledge, contradiction
Parole chiave : globalizzazione, mass-media, tecnologia, conoscenza specializzata,
contraddizione

Texte intégral

Una premessa
1 Ricostruire le vicende dell’architettura italiana dal 1980 a oggi può risultare più
agevole, e senza dubbio più esauriente ed efficace, se questo obiettivo viene collocato
all’interno di una periodizzazione di ciò che la cultura architettonica italiana ha
prodotto a partire dall’inizio del secolo scorso. Una periodizzazione che se non è
oggettiva, in quanto se ne potrebbero proporre molte altre secondo i diversi punti di
vista che si assumono, può comunque suggerire alcuni parametri temporali e qualche
traccia tematica in grado di orientare meglio il discorso sul segmento terminale di
queste vicende. Un periodo non solo così ravvicinato da non avere finora permesso di
essere interpretato con la necessaria distanza temporale, ma anche piuttosto complesso
nonché, per molti motivi, indeterminato e controverso. Questa premessa sarà quindi
una sorta di prequel che può permettere di entrare nel campo vasto e accidentato degli
ultimi trent’anni. Un tempo, quest’ultimo, nel quale la distinzione tra moderno e
contemporaneo si è imposta come un fattore determinante per una comprensione più
vasta e articolata delle dinamiche culturali che saranno analizzate in queste note.

1911-1936
2 Una prima fase dell’architettura italiana del Novecento e dei primi quindici anni del
nuovo secolo è compresa tra il 1911 e il 1936. La prima data coincide con
l’inaugurazione del Vittoriano, il monumento a Vittorio Emanuele II e all’unità
nazionale che conclude, con un’opera ancora oggi molto discussa, l’età incerta
dell’eclettismo, ricca peraltro di elementi positivi e di opere singolari. Tre anni dopo
viene pubblicato il Manifesto dell’architettura futurista, di Antonio Sant’Elia, un testo
con il quale la cultura architettonica italiana fa il suo esordio a livello internazionale. In
esso viene annunciata la rottura radicale non solo con il passato, ma anche con la
ricerca architettonica che in quegli anni era ritenuta la più avanzata. La città futurista,
che è figlia della macchina, è dominata dal dinamismo, dalla velocità, dal flusso
incessante delle comunicazioni. Pervasa da un’atmosfera febbrile, che si esalta nelle
vertigini dimensionali e nel caos indotto dall’energia sovrumana che la pervade e
l’alimenta, essa si configura come un colossale accumulo di edifici sospesi sugli abissi di
un mondo sotterraneo di autostrade e di ferrovie. Effimera, in quanto dovrà essere
ricostruita ogni volta dalle generazioni che verranno, la città futurista è costituita da
una moltitudine di edifici dalle facciate inclinate che le torri degli ascensori, in ferro e
vetro, segnano con le loro ombre. In un gioco di opacità e di trasparenze, queste
architetture verticali sono realizzate con materiali nuovi, dai colori accesi, che danno

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vita a un paesaggio urbano eroico e sorprendente. Dopo il conflitto mondiale iniziato, e


la coincidenza non sembra priva di significato, lo stesso anno dal programma
architettonico di Antonio Sant’Elia, le avanguardie, compreso il Futurismo, arrestano la
loro corsa. Si diffonde nella cultura europea il richiamo di Jean Cocteau al “ritorno
all’ordine” che implica la ripresa di modalità delle scritture artistiche premoderne, con
una particolare attenzione all’eredità classica. Artisti come Ardengo Soffici, Carlo Carrà
e Gino Severini aderiscono a questa linea. Anche in riferimento al nuovo clima del
dopoguerra l’avvicinamento alle problematiche architettoniche moderne si associa in
Italia al movimento Novecento, sostenuto da Margherita Sarfatti, nel quale una serie di
elementi simbolico-decorativi sono immersi in una dimensione sospesa e straniata. In
questa situazione il realismo magico di Massimo Bontempelli si configura come un
ossimoro. L’attenzione alla realtà si coniuga infatti con una sua sublimazione poetica
nella quale risuonano le armonie segrete della Metafisica. Nel 1926, che chiude questo
periodo, fa il suo esordio il Gruppo 7, formato da giovani architetti italiani che
inventano, per così dire, l’architettura moderna italiana introducendo nella cultura
disciplinare della Penisola gli elementi principali della rivoluzione avanguardistica. I
membri del Gruppo 7 sono fortemente interessati all’innovazione ma nello stesso tempo
non vogliono rompere con la tradizione. Tre anni prima era uscito in Francia uno dei
libri più importanti della cultura architettonica moderna. È Vers une architecture di Le
Corbusier, nel quale molte delle idee futuriste sono inserite, che definisce in un vero e
proprio trattato un nuovo orizzonte tematico problematico e le corrispondenti modalità
progettuali per renderlo operante.

1927-1936
3 La seconda stagione dell’architettura italiana del Novecento inizia con il 1927 e si
chiude con il 1936. Sono gli anni che vedono la diffusione del cemento armato, che un
filosofo come Salvatore Vitale, vicino a Benedetto Croce, legittimerà, nel libro Estetica
dell’architettura del 1928, non solo come un nuovo strumento tecnico, ma soprattutto
come il luogo di una nuova espressività. Marcello Piacentini, un protagonista di gran
parte dell’architettura italiana del Novecento, pubblica nel 1930 un libro dal titolo
Architettura d’oggi. Con una prosa agile e sintetica egli traccia un bilancio
dell’architettura mondiale, delineando al contempo una strategia per l’architettura
italiana consistente in una apertura alle nuove tematiche e ai nuovi linguaggi
condizionata, però, dalle specificità del clima e soprattutto della tradizione nazionale,
materializzata in città stratificate, dalla spazialità complessa e dalla grande varietà di
linguaggi architettonici. Marcello Piacentini invita i giovani architetti innovatori a
confrontarsi con la complessità testuale dei paesaggi e delle città per dare vita a un
compromesso tra istanze moderne e richiami a esempi notevoli dell’architettura storica.
Contrario a questa linea è il più grande critico di architettura italiano del secolo scorso,
Edoardo Persico, che è stato anche autore di allestimenti di grande rigore compositivo
unito a un lirismo formale che tende all’assolutezza. Con lui, scomparso nel 1936, viene
meno la posizione più chiara e lungimirante sulla situazione dell’architettura italiana la
quale, secondo le sue idee, doveva guardare all’Europa senza cedere alle seduzioni del
passato e al fascino della mediterraneità. C’è da ricordare che l’incessante richiamo del
critico napoletano alla necessità di un rigore logico e morale si scontra con il consenso,
anche internazionale, che l’architettura del regime registra allora. La Bonifica della
Pianura Pontina con la realizzazione di alcune nuove città, tra le quali Sabaudia, la più
moderna tra queste, è sicuramente un intervento di straordinario valore. Anche
l’Università di Roma, progettata nel suo impianto urbano e nel Rettorato da Marcello
Piacentini, che coinvolge in questa grande operazione alcuni architetti emergenti tra i
quali Giovanni Michelucci, Pietro Aschieri, Giuseppe Capponi, Giò Ponti, Giuseppe
Pagano, costituisce una tra le più riuscite imprese architettoniche di quegli anni.
L’architettura arte di stato, secondo la visione di Pietro Maria Bardi, che milita nell’ala
degli innovatori, trova la sua espressione più autorevole negli esperimenti radicali dei
giovani razionalisti come Giuseppe Terragni, che nel 1936 ultima la sua opera più

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importante, la Casa del Fascio a Como. Va ricordato che nel 1933 si svolge sulla nave
Patris II, in viaggio da Marsiglia ad Atene e poi nella capitale greca, la quarta edizione
dei C (Convegni Internazionali di Architettura Moderna). Il risultato di questo
incontro è la Carta d’Atene, che rappresenta la più autorevole e completa sintesi teorica
sulla città moderna, un testo che vede comunque la sua applicazione più estesa nel
secondo dopoguerra.

1937-1945
4 Il terzo periodo dell’architettura italiana del Novecento va dal 1937 al 1945.
L’architettura diventa sempre di più uno strumento celebrativo del Fascismo
culminando nell’E42, l’Esposizione Universale che avrebbe dovuto mostrare al mondo
intero il trionfo del regime a vent’anni di distanza dal suo inizio. È la fase in cui esplode
la polemica, interna al regime stesso, tra Marcello Piacentini e Ugo Ojetti, fautore di
una rinascita nell’architettura di un linguaggio di archi e colonne. Sono gli anni
dell’autarchia, che vede il mondo della produzione edilizia cercare soluzioni nuove,
spesso di notevole livello, in merito ai materiali e ai sistemi costruttivi. Gli esperimenti
più interessanti sul piano dell’architettura, così come le proposte teoriche più
convincenti, sono documentate da Casabella e da Domus, mentre il fronte
piacentiniano si riconosce nella rivista Architettura, organo ufficiale della cultura di
progetto che si specchia nel regime. Questo periodo viene letto dalla storiografia del
secondo dopoguerra come una fase di isolamento internazionale dell’architettura
italiana, priva per questo di conoscenze dirette di ciò che avveniva in altri contesti. In
realtà, anche durante la stagione delle sanzioni gli architetti italiani erano al corrente di
ciò che veniva prodotto all’estero continuando a trarre da esempi stranieri temi e motivi
per la propria ricerca.

1946-1960
5 La quarta fase, dalla ricostruzione alle Olimpiadi di Roma ricopre circa un
quindicennio, dal 1946, l’anno in cui l’Italia diventa repubblicana, al 1960. Nella sua
prima parte questo periodo è l’età del Neorealismo, il movimento, nato nel cinema e
nella letteratura, che trova un suo puntuale ma anche autonomo rispecchiamento
nell’architettura. La vicenda dell’I C , al cui interno si affronta il problema
dell’abitazione, si traduce in una cospicua serie di interventi in tutto il paese nei quali si
sperimentano modalità progettuali ispirate alla ripresa di temi popolari. I quartieri
neorealisti, più vernacolari al centro e al sud, più attenti a una continuità con il
razionalismo al nord, si configurano come parti compiute di città. In qualche caso, per
esempio a Roma, gli interventi sono pensati come altrettanti paesi che dovevano
ricordare ai contadini inurbati i piccoli centri rurali che avevano abbandonato. In altre
situazioni, come a Bologna e a Milano, tali interventi sono concepiti come frammenti di
una città che non rinuncia alla modernità, anche se vuole intrattenere un dialogo con la
compattezza dei tessuti storici. Nel 1950 Bruno Zevi pubblica la sua Storia
dell’architettura moderna, centrata sulla figura di Frank Lloyd Wright e sulla sua
concezione organica dell’architettura, considerata dall’autore del volume come il punto
di arrivo delle tematiche moderne. A questa tesi risponde nel 1960 Leonardo Benevolo
che contrappone alla visione zeviana, con la sua Storia dell’architettura moderna una
lettura ortodossa del Movimento Moderno, nella quale l’architettura è sostanzialmente
l’esito di dinamiche politiche, economiche e produttive. In questo modo all’arte del
costruire viene negata un’identità specifica. Un’esperienza per più motivi straordinaria
è quella di Comunità, il movimento promosso da Adriano Olivetti a partire da
un’alleanza tra l’industria e la cultura. Comunità promuove alcune iniziative importanti
quali la trasformazione di Ivrea in una città d’arte, nella quale l’utopia si fa dimensione
concreta. Verso la fine del quindicennio nasce quasi improvvisamente un interesse, che
negli anni successivi diventerà sempre più diffuso, per quella che sarà chiamata la

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grande dimensione, con la categoria correlata della città-territorio o città-regione, alla


cui definizione Giancarlo De Carlo dà un prezioso contributo. È in questo contesto che
comincia a delinearsi la questione dei centri direzionali, indagati poi in molti concorsi
che purtroppo rimarranno quasi sempre sulla carta. Va anche ricordato che questa fase
è contrassegnata da una polemica di rilievo internazionale. Il teorico e critico inglese
Reyner Banham, fautore di una concezione macchinista dell’architettura, accusa gli
architetti italiani di aver abbandonato gli ideali moderni per rifugiarsi nelle certezze del
passato. Il pretesto è la realizzazione a Milano della Torre Velasca, contemporanea al
Grattacielo Pirelli con il quale è in competizione. Si tratta di un edificio alto che nella
sua volumetria, fittamente segnata da articolazioni plastico-costruttive, evoca memorie
della Milano medievale. La mole neogotica è opera dello studio B il cui membro più
rappresentativo è Ernesto Nathan Rogers, allora direttore di Casabella, convinto
sostenitore della corrente neoliberty, alla quale aderiscono molti giovani architetti,
soprattutto torinesi e milanesi, ma anche Paolo Portoghesi, un architetto romano che
tornerà ancora in queste note. Il maestro milanese difende non solo la sua opera,
apprezzata peraltro da Le Corbusier, ma afferma soprattutto che è necessario superare
gli assunti teorici dell’architettura moderna, svuotati dei loro contenuti
dall’International Style e diventando così formule convenzionali e ripetitive per
ritrovare, in un rapporto critico e creativo con la storia, uno spazio di ricerca più libero
e avanzato.

1961-1973
6 Un’ulteriore fase dell’architettura italiana del Novecento copre l’arco temporale dal
1961 al 1973. In questi anni, nel corso dei quali il fervore ricostruttivo si attenua mentre
cominciano, dopo il grande sviluppo del decennio precedente, le prime difficoltà
economiche, si apre nel mondo dell’architettura una consistente frattura tra il mondo
professionale e quello della ricerca. Le Facoltà di Architettura, e i loro docenti più
sensibili, constatano che la professione, anche se esercitata in modo appropriato e con
volontà sperimentale, non è più in grado di comprendere i mutamenti culturali che
attraversano la società. Mutamenti che gli studenti di allora, assieme ai professori più
attenti e partecipi, registrano puntualmente in una serie di occupazioni che coinvolgono
molte Facoltà. Negli stessi anni la liberalizzazione degli accessi agli studi universitari dà
origine a una crescita imponente degli iscritti. Nasce l’università di massa, una nuova
entità che non trova nelle precedenti strutture didattiche, logistiche e rappresentative
degli atenei le strutture adatte a renderla pienamente operante, anche per questo
motivo essa si configura sempre di più come un ambiente formativo sempre più
approssimativo e carente. All’interno del fronte degli architetti che criticano, assieme al
professionismo, la città della speculazione ‒ il film Le mani sulla città, di Francesco
Rosi, è del 1963 ‒ si sceglie, anche sulla base della lettura dei testi del filosofo Galvano
Della Volpe, la concezione autonoma dell’architettura in opposizione all’idea che questa
arte sia un’entità eteronoma che dipende in prima istanza, come sosteneva Leonardo
Benevolo, da logiche del tutto esterne all’ambito più strettamente progettuale.
L’architettura possiede invece un suo statuto specifico o, se si preferisce, più
orientamenti logico-formali consolidati, una sua evoluzione storica, propri processi di
definizione, modalità costruttive che rispondono a criteri invarianti. Mentre nelle
Facoltà di architettura si discutono questi temi sorgono nelle periferie italiane i grandi
interventi residenziali promossi dalla legge 167. Rozzol Melara a Trieste, lo Zen a
Palermo, il Corviale a Roma, Librino a Catania sono quartieri-città i quali dimostrano
che i programmi per l’edilizia popolare erano stati elaborati quando ormai le condizioni
della periferia, e soprattutto dei destinatari di queste nuove parti di città, erano
profondamente cambiate. Alla metà degli Anni Sessanta escono alcuni libri che non
solo segnano questa stagione ma che esportano nel mondo i risultati di una ricerca
fortemente innovativa. Origine e sviluppo della città moderna, di Carlo Aymonino, del
1965; Il territorio dell’architettura di Vittorio Gregotti, del 1966 e, sempre dello stesso
anno, L’architettura della città di Aldo Rossi individuano un campo tematico nel quale

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alcuni elementi comuni alle tesi esposte nei tre volumi si confrontano con
interpretazioni divergenti, dando vita a una dialettica ancora oggi presente nel dibattito
disciplinare nazionale e internazionale. Il 1973, l’anno in cui si conclude questo periodo,
è anche quello in cui Aldo Rossi, uno dei protagonisti della svolta autonomista,
organizza alla Triennale di Milano una grande mostra dal titolo Architettura razionale.
Si tratta di un’iniziativa fondamentale per l’architettura italiana, che avrà un vasto eco
internazionale suscitando un notevole interesse soprattutto negli Stati Uniti, in Francia,
in Germania, in Inghilterra e in America Latina. La mostra propone un’idea di progetto
come atto conoscitivo della realtà, esito di un esercizio della ragione fondato sulla
natura collettiva della città e dell’architettura. A fronte del soggettivismo empirico della
professione si sosteneva la necessità per l’architetto di muovere da una visione teorica
del proprio mestiere basata su principi oggettivi, dotati per questo di una loro
consistenza scientifica. Ciò al fine di sottrarre le scelte progettuali alla casualità, a
contingenze momentanee e a questioni di gusto. Resta da dire che al centro di questi
dodici anni c’è il Sessantotto, il momento in cui una serie di esigenze maturate nel
mondo giovanile si confrontano duramente con un assetto sociale rigido e arretrato. Nel
1973 esce il libro di Manfredo Tafuri, Progetto e utopia, in cui lo storico romano
esercita una critica lucida e a suo modo estremista alle illusioni di cambiare il mondo
coltivate dagli architetti, il cui ruolo sovrastrutturale è destinato invece a scontrarsi
sempre con i condizionamenti che volta per volta il potere capitalista semina sulla loro
strada. Resta da dire che in questi anni si verifica la rottura del rapporto, d’importanza
storica, tra industria e cultura, il cui principale esponente, dopo Adriano Olivetti e con
una funzione diversa, era stato Leonardo Sinisgalli, che con la sua rivista Civiltà delle
macchine aveva avviato un intenso e produttivo dialogo tra i due ambiti. Si è trattato di
una grave frattura tra due mondi prima in contatto che non è stata ancora ricomposta,
con un danno consistente non solo per l’architettura ma per tutta la cultura italiana.

1974-1979
7 Il quinto periodo dura pochi anni, dal 1974 al 1980. È un periodo di transizione, nel
quale l’architettura italiana, soprattutto per quanto riguarda le teorie e i progetti che
hanno come tema la città, ottiene consensi in tutto il mondo. Nel 1976 La Biennale di
Venezia si apre all’architettura, in modo non estemporaneo ma strutturale, con Vittorio
Gregotti, nominato Direttore del settore Arti visive. Anche nel 1978 l’architettura è
presente nella mostra veneziana, seguita da un pubblico sempre crescente. Il
Settantasette vede i movimenti che facevano riferimento ad Autonomia Operaia
appropriarsi della città seminando disorientamento e timore. A Roma, per iniziativa di
Renato Nicolini, l’Estate Romana contrasta la desertificazione della città causata da
dimostrazioni continue e violente, favorendo una riscoperta collettiva di luoghi
straordinari come la Basilica di Massenzio, sede di proiezioni cinematografiche che
richiamano un pubblico numeroso ed entusiasta. Nell’edizione del 1979, le
manifestazioni sono due, entrambe entrate nella storia recente della città. La prima è il
Festival dei poeti, a Castelporziano, che mette a confronto la singolarità dei diversi
protagonisti del reading con la volontà del pubblico di vivere un’esperienza unitaria,
quasi gli spettatori fossero una mente collettiva. La seconda, Parco Centrale, un titolo
tratto dagli studi su Parigi di Walter Benjamin, dà vita alla compresenza in più punti
della città di più linguaggi artistici, che si compongono in una sorta di lessico
metropolitano totale ma mescola teatro, musica e danza. L’anno prima il rapimento e
l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse danno inizio a un processo di
dissoluzione della struttura politica del paese che avrà negli anni successivi sviluppi
imprevisti. Nel 1980 il Postmodernismo fa il suo esordio clamoroso nell’architettura.
Con la mostra La presenza del passato Paolo Portoghesi inventa la Via Novissima alle
Corderie. Venti facciate effimere ripropongono attraverso la spazialità della strada,
condannata a suo tempo da Le Corbusier, il nucleo originario di una città nuovamente
umana. Premiata da una notorietà mondiale questa grande installazione sarà
riproposta, con significative variazioni, a Parigi e a San Francisco.

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Alcuni caratteri dell’architettura italiana


dal Novecento a oggi
8 Prima di inoltrarsi nell’ultimo trentennio dell’architettura italiana è necessario
soffermarsi su alcuni suoi caratteri principali. L’Italia arriva tardi nel contesto degli altri
paesi. Per di più il percorso che porta all’unità nazionale avviene senza che prima della
sua conclusione ci si chiedesse in modo consapevole e operativo quali dovessero essere i
programmi da mettere in atto per dare un senso completo e innovativo alle finalità della
nuova realtà politica. Solo Camillo Boito si pone coscientemente il problema di quale
linguaggio architettonico sarebbe stato il più adeguato a rappresentare le istituzioni del
paese, ma le sue tesi non riescono a contrastare una dispersione regionalistica delle
tematiche disciplinari, che per inciso dura ancora oggi. Il regionalismo si presenta da
allora a oggi come una costante dal carattere duplice. Per un verso esso ha infatti un
significato positivo, nel senso che mette in evidenza le differenze in quanto valori che
evidenziano la specificità delle culture progettuali locali; per l’altro, invece, induce una
frammentazione tematica e una molteplicità di scritture architettoniche che rendono
l’architettura italiana talmente diversificata da non essere agevolmente identificabile
nei suoi caratteri principali. Oltre a questa ambivalenza va anche chiarito che la
mancanza di un orientamento preciso che rappresenti il paese unificato, e l’essere
arrivati tardi non solo all’unità, ma anche all’industrializzazione, causa agli architetti
italiani un forte senso di inferiorità, quasi la coscienza di essere esclusi dalla vita
culturale europea, un timore che tornerà ciclicamente nel Novecento. In breve, essi si
rendono conto che, non avendo inventato loro l’architettura moderna debbano
importarla. Per questo motivo l’architettura italiana inizia a guardarsi attorno
prelevando temi e motivi da architetture straniere. Questa apertura verso lessici esteri
preoccupa Marcello Piacentini, grande regista per molti decenni del Novecento del
dibattito architettonico il quale, anche in relazione alle tematiche urbane proposte da
Gustavo Giovannoni, consiglia ai giovani architetti di orientamento modernista di
operare una mediazione tra le istanze innovative e gli stratificati contesti urbani italiani.
Nasce così una delle componenti storiche dell’architettura italiana del secolo scorso,
l’equilibrio tra innovazione e tradizione, un compromesso che viene confermato
periodo per periodo fino a oggi. Tale equidistanza ha anche un’altra origine. Rispetto ai
principi sui quali si fonda l’architettura moderna – il funzionalismo, la distanza dal
passato, il meccanicismo – l’architettura italiana opera una correzione determinante.
Le avanguardie, compreso il Futurismo, concepiscono il nuovo come una presenza che
deve essere per sua natura dissonante nei confronti della città, quasi un edificio
moderno debba opporre per principio la propria alterità e la sua radicale unicità a una
compagine edilizia tipologicamente omogenea. L’architettura italiana, dagli Anni
Trenta in poi, non accetta questo antagonismo avanguardista tra edificio e
insediamento costruendosi invece attorno all’idea che il fine dell’edificio stesso è la sua
integrazione, attraverso affinità profonde, architettonicamente espresse con tutti i
livelli espliciti o impliciti della città, con il tessuto urbano. All’inverso la città non
sarebbe tale senza che una sua dimensione architettonica che la pervada interamente
determinandone la struttura morfologica, l’articolazione fino al più minuto dei suoi
tracciati, la disposizione dei vuoti, delle aree verdi e la consistenza della sua materia
edilizia. Nasce così la categoria dell’architettura ambientale nella quale non è il solo
edificio che conta ma il modo con il quale esso collabora e crea un insieme di situazioni
spaziali omogenee e allo stesso tempo opportunamente differenziate. Un’altra costante
dell’architettura italiana moderna e contemporanea è rappresentata dalla forte
pressione della storia. Il territorio italiano, le città che lo strutturano, le architetture
che fanno di queste stesse città altrettanti testi stratificati nei quali le varie epoche si
sommano in una straordinaria mescolanza di tempi e di stili si configurano, nelle
suggestioni che emanano, come un resistente ostacolo al cambiamento. Tuttavia tale
pressione ha anche un significato positivo. La cultura del restauro, di cui l’Italia
esprime il livello più elevato, è una conseguenza diretta di questa insistente presenza.
All’avanguardia nell’elaborazione dei fondamenti della conservazione e del restauro,

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due ambiti fortemente distinti (in qualche modo alternativi), la cultura architettonica
italiana dà in questo settore un contributo conoscitivo decisivo e risposte tecniche a
tutt’oggi insuperate. C’è ancora un altro aspetto che deriva dalla presenza della storia
che ha un suo grande rilievo. Anche a causa di questa incombenza del passato
l’architettura italiana non fa che contrattare volta per volta la sua adesione alla
modernità, che attraverso l’avanguardia è nata negando la dimensione del passato. L’ha
fatto con Marcello Piacentini negli Anni Trenta, con Bruno Zevi, Ernesto Rogers,
Saverio Muratori, Ludovico Quaroni subito dopo il secondo conflitto mondiale. Dopo di
loro Vittorio Gregotti, Paolo Portoghesi e Manfredo Tafuri hanno continuato su questa
linea, ispirata dalla necessità di distinguere le poche aree nelle quali la modernità
poteva dispiegarsi totalmente da quelle che occorreva difendere in ogni modo possibile
dalle mutazioni indotte da uno sviluppo sempre più ampio e veloce. Un’ulteriore
invariante dell’architettura italiana si riconosce in un interesse limitato per la tecnica,
che deriva molto probabilmente dalla forte e duratura influenza che l’idealismo
crociano ha esercitato sulla cultura italiana, compresa quella architettonica. Ai caratteri
invarianti finora ricordati dell’architettura italiana va poi aggiunta una forte
ideologizzazione delle scelte disciplinari nonché il modello della crisi, vale a dire il
diffuso e persistente ricorso a una sorta di vocazione al fallimento che caratterizzerebbe
ogni stagione della riflessione teorica italiana e della sua traduzione in opere costruite.
Gli scritti di critici come Edoardo Persico, Giulia Veronesi, Bruno Zevi, Ernesto Rogers,
Saverio Muratori, Ludovico Quaroni, Vittorio Gregotti, Manfredo Tafuri – ma l’elenco
completo sarebbe molto più lungo – sono pervasi da un pessimismo della ragione per il
quale gli architetti italiani, per tutta una serie di motivi che lo spazio di queste note non
consente di elencare e tanto meno approfondire, sarebbero condannati a vivere una
condizione immutabile e frustrante di inoperosità. Per contro è proprio l’idea di una
congenita impossibilità di ottenere i risultati sperati che forse ha fatto sì che gli
architetti italiani considerino la teoria un ambito privilegiato. Ereditato dalla storia,
questo interesse pervade ogni aspetto della cultura architettonica della Penisola.

Una periodizzazione finale


9 Il trentennio che va dal 1980 al 2015, anche esso da dividere in fasi distinte, mentre si
pone in continuità con quanto è stato riassunto, presenta nello stesso tempo una serie
di elementi che interrompono le continuità con le vicende precedenti, rendendo ancora
più articolato e conflittuale il quadro problematico fin qui descritto. Il primo segmento
temporale del trentennio può avere come inizio il 1981, l’anno dopo la famosa mostra
alla Biennale di Venezia sul tema La presenza del passato. Questo periodo si conclude
nel 1988 con un’altra mostra importante, Deconstructivist Architecture, curata da
Philip Johnson e Mark Wigley, che si inaugura al MoMA (Museum of Modern Art) di
New York. Le due mostre, che aprono e chiudono questo periodo, si configurano come
vere e proprie enunciazioni teoriche e poetiche attraverso le quali si definiscono al
livello più alto nuove tematiche disciplinari. La risposta del mondo architettonico è in
entrambi i casi così ampia e intensa da dare luogo a un’adesione di scala mondiale alle
tesi proposte. Segue questo quindicennio un blocco di tredici anni che inizia con il
crollo del Muro di Berlino concludendosi con Ground Zero. Si tratta della stagione che
vede nascere in modo consapevole il fenomeno della globalizzazione, che sovverte
categorie, in vigore da qualche secolo, centrate sull’idea di un primato dell’Occidente
nel mondo. Un primato che la nuova situazione mette radicalmente in crisi attraverso
un confronto diretto e sempre più ravvicinato tra culture lontane e a volte opposte. Il
terzo periodo va dal 2002 a oggi. Si tratta di un lasso di tempo nel quale l’architettura si
trova coinvolta non solo nella tragedia newyorkese, ma anche nel naufragio della
strategia economica promossa dalla globalizzazione in merito allo sviluppo urbano. La
cosiddetta bolla immobiliare collassa nel 2008 producendo una crisi finanziaria
mondiale così violenta e durevole da fare impallidire anche quella del 1929. Con questo
disastro economico si esaurisce quasi del tutto l’energia speculativa che aveva
interessato pressoché tutte le città e le metropoli dalla fine del Novecento ai primi anni

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21/1/2019 Dal Postmodernismo al Nuovo Realismo. Note sull’architettura italiana negli ultimi trent’anni

del nuovo secolo. La mostra di Paolo Portoghesi, del 1980, segna l’affermazione del
Postmodernismo in architettura. Le venti facciate, costruite alle Corderie dell’Arsenale
da altrettanti architetti, danno vita con la Via Novissima a una stagione che intende
superare la concezione del progetto nata con le avanguardie storiche. Un’idea
caratterizzata da un senso dell’emergenza, dalla volontà di operare velocemente, di
considerare ogni previsione come una scelta che non poteva più essere messa in
discussione. Governato da un pronunciato efficientismo tecnico, il progetto moderno si
pone come un’azione totalizzante caratterizzata da una radicale autoreferenzialità. La
sua essenza dogmatica e prescrittiva ha avuto una conseguenza fortemente negativa,
consistente nell’interruzione quasi definitiva del dialogo tra l’architettura e i suoi
fruitori. Ermetica e intransitiva, l’architettura espressa da questa progettualità
impositiva si pone a servizio della ricerca di un nuovo che tende a escludere qualsiasi
risonanza storica a partire dal rapporto con il luogo, negato a favore di una concezione
atopica e generica dell’edificio. La durezza programmatica del progetto moderno, la
sua astrattezza e la sua assertività sono sostituite dal Postmodernismo con un’apertura
all’ascolto dei luoghi, con la ricerca di una capacità di esprimere le differenze delle
aspettative e dei punti di vista, con la volontà di dare vita ad ambienti amichevoli,
sicuri, variati nella forma, nei quali l’alto e il basso possono convivere. Ambienti urbani
e architettonici che devono essere anche emozionanti, a volte spettacolari, nei quali la
decorazione, condannata dall’ascetismo di Adolf Loos, viene riabilitata. “La fine del
proibizionismo”, come l’ha chiamata Paolo Portoghesi, la rimozione di un divieto che in
base a un rigorismo moralista ostacolava un’immaginazione aperta e libera consente
all’architetto, finalmente affrancato da vincoli ideologici, di abbracciare il mondo
sempre più esteso e pervasivo dei media. L’architettura si fa essa stessa potente mezzo
di comunicazione di massa che per i molti nemici del Postmodernismo significa la
celebrazione del mercato e del consumo, mentre per i sostenitori di questo
orientamento è il risultato di una nuova sensibilità per il pubblico dell’architettura. In
effetti è questo il periodo in cui la comunicazione si configura in modo sempre più
consistente come il vero fine di un edificio. Ogni nuovo manufatto crea un consenso
sempre più vasto proponendosi come un’esperienza che suscita stupore, che trasmette a
chi lo vede, lo visita o lo abita un senso di avventura o, più semplicemente il piacere di
osservarne gli spazi, i materiali, la luce. Come uno strumento di intrattenimento,
l’edificio vuole entrare direttamente in relazione con i suoi fruitori, eliminando quella
distanza che impedisce la comprensione delle algide volumetrie moderne
intrinsecamente ermetiche, ricorrendo alle modalità più diffuse di valutare
l’architettura. Tuttavia la strategia postmoderna dell’incontro tra un edificio e le
persone che in un modo o nell’altro lo vivranno ha una motivazione più profonda.
Nell’architettura moderna si è prodotta una divisione costitutiva tra il linguaggio e i
suoi contenuti. Da un lato una scrittura architettonica che si fa sempre più enigmatica,
chiusa nella propria concettualità avanguardistica; dall’altro una serie di contenuti
sociali in costante evoluzione che riguardano gli aspetti fondamentali della vita
individuale e collettiva. Queste due sfere sono distinte e autonome. L’architetto, come
nel caso di Giuseppe Terragni, propone ordinamenti formali complessi ed ermetici, nei
quali la grammatica e la sintassi, anticipando Noam Chomsky, evolvono quasi
autonomamente in una fioritura incessante di schemi compositivi che si presentano
come altrettanti teoremi di difficile comprensione; all’opposto il pubblico si limita a
registrare la singolarità delle architetture e il loro carattere esclusivo non potendo
comprenderne pienamente il significato, che resta conseguentemente limitato agli
aspetti più utilitari dell’architettura. Il Postmodernismo ‒ per inciso definito nei suoi
aspetti filosofici soprattutto dalle opere di Jean-François Lyotard, Jacques Derrida,
Gianni Vattimo, Renato Barilli, e in architettura dagli scritti di Charles Jencks e di
Paolo Portoghesi ‒ ha cercato di far coincidere di nuovo il linguaggio con i suoi
contenuti, trovando in questo obbiettivo una sua positività che si aggiunge alla
rivalutazione della memoria. Intesa, questa, non tanto come un repertorio di temi e di
stili del passato ma come la forma propria dell’autocoscienza dell’architetto rispetto al
mondo. Per contro la spettacolarità postmodernista è stata oggetto di critica in quanto
elemento celebrativo che nella sua enfasi tende a sospendere qualsiasi giudizio critico
su ciò che si costruisce e si abita, quando non finisce con il negarlo del tutto.
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1980-1988
10 Gli Anni Ottanta iniziano in Italia all’insegna dell’euforia. Tutto sembra funzionare. È
il tempo del craxismo, sul quale manca ancora una seria riflessione storica, date le
vicende giudiziarie del suo protagonista. È il periodo della “Milano da bere”, nel quale
la vita appare facile e piena di opportunità per tutti. Il paese vuole riconciliarsi con il
suo passato, soprattutto con quello che si tende a ignorare o a condannare. Una grande
mostra sugli Anni Trenta cerca di leggere questa stagione italiana al di fuori di
schematismi ideologici. Tuttavia è proprio in questa stagione, apparentemente felice,
che ci si rende conto ancora una volta di quanto sia fragile il territorio italiano e come lo
sviluppo dei decenni precedenti non sia stato così virtuoso come si pensava. Nel 1985
gli argini di tre bacini di decantazione cedono. Accelerata dalla forte pendenza l’acqua
travolge il paese di Stava nel Trentino causando la morte di 268 persone. In altre parti
della penisola si moltiplicano frane, inondazioni, danni alle infrastrutture. Dal
terremoto del 1980, che colpisce Napoli, scaturisce un grande piano per la ricostruzione
della periferia partenopea, alla quale partecipa con importanti proposte teoriche e
operative Gianfranco Caniggia, che lega le nuove architetture alla genesi dei tracciati
storici presenti nelle aree di intervento. Lo stesso evento sismico colpisce l’Irpinia.
Sempre nel 1980, su iniziativa di Pier Luigi Nicolin, si svolge il Laboratorio Belice ’80,
con il quale ha inizio la seconda fase della ricostruzione dei centri della Sicilia Orientale
distrutti o danneggiati dal terremoto del 1968. A seguito del lavoro di numerosi gruppi
di progettazione guidati da importanti architetti, tra i quali Alvaro Siza, la ricostruzione
riprende con più vigore e, soprattutto, con obiettivi più vasti e avanzati. Al nord un
problema analogo, la ricostruzione del Friuli colpito dal sisma del 1976, propone un
modello di intervento che, a differenza dei due casi di Napoli e del Belice, non prevede
lo spostamento degli abitanti dei centri coinvolti in nuovi insediamenti, ma ricostruisce
gli edifici distrutti sul loro stesso sedime. Esemplare, in questa direzione, il nuovo
Municipio di Osoppo di Luciano Semerani. Tornando al Postmodernismo, il suo
istantaneo e diffuso successo ha, almeno in Italia, una vita piuttosto breve. Esso
implode con la III Mostra Internazionale della Biennale di Venezia del 1985, curata da
Aldo Rossi. Le sale del Padiglione Italia si riempiono di una moltitudine di tavole
montate in una monumentale quadreria. L’offerta di architettura è talmente ricca da
impedire la propria metabolizzazione. Un senso di vertigine e di sazietà sconfigge infatti
qualsiasi volontà di trovare percorsi interpretativi che rendano possibile dare una
coerenza a questa imponente invasione di immagini. Comincia dopo questa prova di
forza quantitativa il superamento del Postmodernismo, di cui si comincia a tracciare un
bilancio sia per quanto riguarda i suoi caratteri generali, sia per ciò che concerne la sua
influenza sull’architettura. Si è concordi sul fatto che esso ha contribuito a superare
l’ideologismo moderno, proponendo una nuova idea di tempo non più concepito come
la successione lineare di momenti che si annullano uno dopo l’altro in nome del
presente e del futuro, ma inteso come una circolarità di eventi che si attraversano
scambiandosi valori e motivi. Un tempo che non è più considerato in modo finalistico,
ma come uno spazio nel quale possono convergere elementi diversi in una suggestiva
simultaneità. In sintesi il Postmodernismo vive delle relazioni tra le cose più che delle
cose stesse, trovando nell’interpretazione la chiave per individuare volta per volta
significati non stabili ma ipotetici, transitori ed evolutivi. Ciò in quanto le varie
circostanze in cui l’interpretazione stessa viene formulata modificano il quadro
problematico complessivo. A fronte di questi caratteri positivi si registra invece una
deriva storicista sempre più pronunciata, che indugia nel fenomeno del citazionismo.
La storia è vista come uno sterminato deposito di materiali linguistici che è possibile
campionare dando vita a collage tematici nei quali l’architettura si appropria di codici
contigui come quelli dell’arte, del cinema, della moda e della pubblicità. Il tutto
all’interno di una volontà performativa che rinuncia a una vera necessità nella scelta
degli elementi e nella loro composizione, elementi assemblati per questo con un forte
gradiente di casualità e di gioco. L’atmosfera festosamente combinatoria del
Postmodernismo, che crea un mondo parallelo, si infrange nel 1988 contro una nuova
situazione, formalizzata nella mostra newyorkese nella quale il Decostruttivismo fa il

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suo esordio. Con le sue geometrie sghembe, pericolanti, intrise di motivi frattali questo
nuovo movimento, se così si può chiamare data la sua interna molteplicità, riafferma
energicamente il riemergere di un pensiero neoavanguardista rivolto decisamente verso
il futuro. La metafora spaziale del crollo anticipa in effetti la distruzione l’anno
successivo del Muro di Berlino, simbolo della divisione del mondo in due sistemi
contrapposti. I volumi scomposti e posttettonici disegnati da Frank O. Gehry, Daniel
Libeskind, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Zaha Hadid, Bernard Tschumi, Coop
Himmelb(l)au, architetti peraltro molto diversi tra di loro, producono un indubbio salto
di qualità nella complessità costruttiva. A fronte della rinascita favorita dal
Postmodernismo di un edificare storico, il decostruttivismo richiede una tecnica più
evoluta la quale esautorando, come scrive Kurt Forster, il paradigma trilitico del
vitruvianesimo, apre la strada a una ridefinizione complessiva del costruire nella
direzione di una pronunciata e molto spesso gratuita complessità plastico-tecnologica.
Una ridefinizione nella quale non è più la tettonica a dettare legge ma una nuova
relazione tra spazio e struttura basata su superfici portanti avvolgenti, su involucri
sofisticati, su materiali nuovi. Il tutto all’insegna dell’immateriale ‒ si pensi alla mostra
parigina Les Immateriaux, del 1985, curata da Jean-François Lyotard con Thierry
Chaput, una forte dichiarazione di intenti in questa direzione ‒ che va considerata come
una rassegna degli effetti prodotti dalla prevalenza dell’immagine sulla cosa.

1989-2001
11 Con il 1989, che segna ufficialmente l’inizio della globalizzazione, si apre il secondo
segmento del trentennio 1980-2015. Si tratta di un periodo dominato dal
coinvolgimento dell’architettura nella rivoluzione digitale, un avvenimento che alcuni
storici e critici considerano, per gli effetti che produce, analogo all’invenzione
brunelleschiana della prospettiva avvenuta nella prima metà del Quattrocento. Come si
è già detto il Postmodernismo viene sostituito nella sua pervasività e nelle capacità di
influenzare in profondità la scrittura architettonica dal Decostruttivismo, ma in realtà
alcuni caratteri postmoderni permangono anche nella nuova situazione. Non a caso
Frank O. Gehry, che realizza nel 1997 l’opera più significativa di questa seconda
frazione del trentennio che si sta esaminando, il Guggenheim Museum di Bilbao, era
anche presente nella Via Novissima. L’alleanza tra la stagione precedente e questa
seconda consiste quindi nel ritorno a un’idea del futuro come elemento dominante. Il
futuro non è più considerato come qualcosa che avverrà dopo un certo tempo, ma come
una condizione che si realizza nel presente. Per l’architettura italiana questi anni sono
contraddittori. Sotto la guida illuminata di Antonio Ruberti l’università conquista la sua
autonomia dotandosi, al contempo, di nuove modalità di insegnamento, che peraltro
non ottengono i risultati sperati per l’inadeguatezza delle strutture e per la natura
intermedia dell’insegnamento, diviso tra internazionalizzazione e permanenza di
tematiche locali, due limiti resi ancora più gravi dalla grande massa di studenti.
Vengono fondate nuove Facoltà di Architettura, che se individuano come aree di studio
i territori nei quali sorgono, finiscono con l’esaltare quella dimensione regionalista che
costituisce dall’unità nazionale in poi un limite per la cultura architettonica italiana. A
una serie di importanti interventi ‒ un nuovo quartiere milanese alla Bicocca, di
Vittorio Gregotti, la Moschea di Roma di Paolo Portoghesi, la ricostruzione del Teatro
Carlo Felice a Genova, di Ignazio Gardella e Aldo Rossi ‒ corrisponde una produzione
teorica senz’altro valida ma priva della capacità di interagire in profondità con il
dibattito internazionale. La Biennale di Venezia e la Triennale di Milano continuano a
interessarsi delle città ma senza prefigurare scenari veramente innovativi. Nel
frattempo emerge in tutta la sua complessità la questione della città diffusa, una nuova
realtà insediativa presente soprattutto nel Nordest della penisola alla quale Bernardo
Secchi e i suoi allievi dedicano analisi esemplari. Nel 2001 le Twin Towers di Minoru
Yamasaki vengono abbattute. Questa tragedia segna un drammatico momento di
arresto nella evoluzione dell’idea di metropoli e di megalopoli. Per la prima volta, dopo
il precedente di Beirut, l’architettura moderna dimostra di poter produrre, come quella

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antica, un piranesiano paesaggio di rovine. Le foto di Joel Meyerowitz mostrano


Ground Zero come un’immensa maceria nella quale la dismisura superumana dei due
grattacieli si inverte nella loro polverizzazione. Un numero sterminato di frammenti
muti è incapace di alludere a una loro potenziale ricomposizione.

2001-2015
12 Dal 2002 al 2015, il terzo segmento del periodo dell’architettura italiana che si sta
ripercorrendo si assiste al tentativo, specialmente da parte dei giovani, di superare i
confini nazionali per cercare occasioni di lavoro nel mondo globalizzato. Arrivati
all’iperbolica e per più versi inspiegabile cifra di centocinquantamila, gli architetti
italiani vedono diminuire quasi giorno per giorno le possibilità di praticare il proprio
mestiere. In effetti costituisce un vero e proprio paradosso il fatto che, mentre il paese
mostra segni di un degrado progressivo, che parte dall’instabilità del suo stesso suolo,
sottoposto a rischi crescenti da interventi speculativi, dalla cattiva manutenzione, da
infrastrutture costruite in modo approssimativo e dal progressivo abbandono di estese
aree agricole, la straordinaria offerta progettuale generata dal grande numero di
progettisti, che potrebbe risolvere molti problemi legati alla critica situazione
ambientale, sia del tutto ignorata. In questo contesto, già per suo conto preoccupante,
un’altra emergenza si propone all’attenzione della cultura architettonica, quella di dare
vita al più presto a una nuova generazione di edifici ispirati al paradigma della
sostenibilità. La questione ambientale è giustamente al centro della problematica
progettuale, in quanto il ricorso dall’inizio della rivoluzione industriale a oggi alle
energie non rinnovabili ha superato la propria soglia critica, rendendo problematico il
futuro del pianeta. C’è da dire, però, che mentre in altri paesi la questione ambientale
ha inaugurato una nuova età del progetto, espressa da soluzioni tecniche avanzate, in
Italia la sostenibilità sembra aver dato vita più a uno stile che a soluzioni veramente
efficaci. Uno stile fatto di facciate ventilate, di vetri speciali, di rivestimenti in legno e di
giardini verticali. Di positivo in questi tredici anni c’è sicuramente il declino delle
archistar, figure che, al di là del loro talento, spesso notevole, si configurano come
entità intermedie tra le rockstar, gli stilisti e gli artisti. Esse erano chiamate a dare
risonanza spettacolare agli interventi urbani legati alla bolla immobiliare esplosa nel
2008. Ridimensionate come proiezioni mediatiche queste figure ‒ si pensi a Rem
Koolhaas, senza dubbio l’esempio più notevole di questo genere di architetti, oggi
impegnato in un’autocritica importante e sincera ‒ stanno cercando di riformulare i
propri programmi di ricerca con motivazioni più convincenti. Per fortuna il fenomeno
della sovraesposizione mediatica è poco presente in Italia, un paese nel quale le
necessità di una posizione criticamente fondata non è mai venuta meno, rendendo gli
architetti più misurati e responsabili. Metabolizzato Ground Zero con il conseguente
timore della fine della città, fantasma teorico sul quale Leonardo Benevolo ha scritto
recentemente pagine di grande lucidità, gli architetti italiani guardano al futuro con lo
spirito di matrice gramsciana di un pessimismo della ragione, non abbastanza
compensato dall’ottimismo della volontà.

Una conclusione provvisoria


13 Il trentennio analizzato in questo scritto è attraversato e condizionato da una serie di
fenomeni, da circostanze inaspettate, da trasformazioni istituzionali di particolare
rilievo, da modificazioni profonde dei modi di produzione dell’architettura, da eventi di
portata mondiale. La legge riguardante l’elezione dei sindaci ha notevolmente
modificato in Italia il rapporto tra il potere locale e l’architettura, conferendo a queste
figure la possibilità di caratterizzare il loro mandato politico con decisioni importanti
anche sul piano del futuro insediativo e architettonico dei centri urbani amministrati.
Francesco Rutelli e Walter Veltroni a Roma, Vincenzo De Luca a Salerno, Giuliano
Pisapia a Milano, Massimo Cacciari a Venezia, hanno potuto concepire strategie urbane

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avanzate la cui concretizzazione ha profondamente influito sull’assetto delle rispettive


città. Sul piano della formazione degli architetti nell’ultimo trentennio si sono verificate
due innovazioni fondamentali, l’istituzione dell’Erasmus e del Dottorato. Gli studenti e i
giovani architetti italiani hanno potuto così sia prendere contatto con luoghi e con
ambienti culturali diversi, sia acquisire una preparazione scientifica più autonoma e
profonda. Parallelamente, però, l’estensione della rete ha messo a disposizione della
Generazione Erasmus, che è anche quella dei nativi digitali, risorse informative molto
estese ma non certo paragonabili a quelle che offre la lettura dei libri. È infatti sempre
più diffuso il disinteresse per la saggistica stampata, sostituita dalle sintesi offerte da
Wikipedia e da siti specialistici, riassunti generici e spesso costellati di imprecisioni che
ricordano i Bignami, volumetti semplificativi di varie discipline usati fino a mezzo
secolo fa dagli studenti meno motivati. Nasce in questo modo una evidente
contraddizione. Il Dottorato introduce i laureati a un livello più alto di preparazione,
ma l’approfondimento conoscitivo che ne consegue è limitato da vistose lacune relative
all’esercizio interpretativo dei testi. Il digitale ha un ruolo decisivo anche per quanto
riguarda il progetto. Se è vero infatti che il disegno elettronico e, più in generale, il
computer mettono a disposizione dell’architetto strumenti efficaci, è anche vero che
questi, proprio per la loro disponibilità a una pluralità di prestazioni, favoriscono una
considerevole omologazione dei saperi necessari all’attività progettuale. Lo stesso B
(Building Information Modeling), il più avanzato sistema di gestione dei dati necessari
per una progettazione completa e avanzata, si presenta come una sorta di luogo di
scambio virtuale nel quale è possibile all’architetto reperire una serie di indicazioni e di
orientamenti, tratti da altri progetti o da altre costruzioni, da utilizzare nel proprio
lavoro. Riferendosi a questo esempio è facile rendersi conto che l’universo digitale è
molto lontano da quella dimensione critica che alimentava per logiche differenziali e
spesso conflittuali l’attività progettuale delle generazioni di architetti precedenti quella
dei nativi digitali. Comunque non è solo la rete che sembra promettere più di quello che
può mantenere. La quantità e la velocità delle informazioni che raggiungono oggi ogni
individuo, che in molti considerano una straordinaria risorsa, sono tali da impedire di
stabilire tra le informazioni stesse e chi le riceve quella distanza senza la quale non è
possibile una comprensione orientata di ciò che avviene. C’è poi da ricordare che in
Italia, per la Legge Merloni, il progetto non è più un’opera di ingegno ma la semplice
prestazione di un servizio. Nata per regolamentare il progetto dal punto di vista
normativo all’interno di una volontà efficientistica, la negazione dei valori conoscitivi e
artistici del progetto di architettura si traduce nella sua riduzione a un’espressione
puramente meccanica ed economica, i cui i valori utilitari oscurano ogni altro
contenuto, a partire da quelli, fondamentali, relativi all’abitare, oltre a negare la natura,
intrinsecamente critica, di ogni operazione architettonica. Accanto alla fine o, se si
vuole essere meno apodittici, alla sospensione della critica si affianca un altro elemento,
il primato del presente. Il passato, ma anche il futuro, hanno subìto un’eclisse. Solo
l’attualità sembra contare, togliendo al progetto le sue capacità di entrare in relazione
con quella estensione totale del tempo la quale fa sì, ricordando le osservazioni di
Sigmund Freud su Roma esposte nel suo libro Il disagio della civiltà, che il passato, il
presente e il futuro convivono in una misteriosa unità pensante nella quale la memoria,
anche quella di ciò che si è pensato potrebbe accadere, ha un ruolo intrinsecamente
creativo. Un altro aspetto da tenere presente nel descrivere il trentennio architettonico
appena concluso è la prevalenza degli specialismi. Il sapere architettonico è stato
sempre un sapere generale, unitario interconnesso con tutte le sue componenti, che si
articolava successivamente in ambiti limitati, che rimandavano sempre al carattere
completo e organico del sapere. Oggi la situazione è del tutto capovolta. Il sapere
unitario è stato sostituito da blocchi conoscitivi separati che difficilmente si mettono in
relazione tra di loro. Cento anni fa Gustavo Giovannoni, uno dei protagonisti del lungo
e faticoso processo che portò alla fondazione della Facoltà di Architettura, teorizzava
l’architetto integrale, una figura in grado di produrre sintesi orientate dei vari saperi
necessari alla concezione e alla costruzione di un edificio considerato nei suoi rapporti
con l’ambiente paesaggistico e urbano in cui è inserito, nelle relazioni con i suoi utenti e
con il contesto sociale che lo accoglie. Purtroppo, dopo un secolo questa concezione non
è più valida. Nel corso del Novecento la presenza progressivamente crescente ed
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esclusiva della tecnica ha fatto sì che il centro del progetto non coincidesse più con i
suoi contenuti intrinseci riguardanti il senso dell’abitare, ma si riconoscesse nei mezzi
con i quali esso veniva realizzato. Mezzi sempre più sofisticati e alienanti. Il come ha
quindi sostituito il perché. Questo rovesciamento fa sì che oggi sia necessario, dal
momento che non è possibile negare gli specialismi, risalire da questi a una visione
generale, l’unica, peraltro, che permetta all’architettura di avere un rapporto reale con
altre espressioni umane. Si tratta di un percorso difficile, che nonostante le resistenze
che incontra appare, comunque, sempre più urgente intraprendere se non si vuole
rinunciare per sempre a quella visione d’insieme che riduce il progetto a un collage di
scelte prive di una reale consistenza. Senza dimenticare un altro compito che gli
architetti devono assumersi. Negli ultimi anni l’architettura ha scelto di non
rappresentare più l’istituzione. Sottoposta, come ricorda Peter Eisenman, alla doppia
influenza del computer e dei media, essa si è configurata come un’attività utilitaristica,
da valutare quasi esclusivamente sul piano delle prestazioni che offre, al punto che si
può parlare oggi del neofunzionalismo, attraversato da tematiche sociologiche, come
orientamento prevalente. L’idea dell’architettura come un’arte che si interroga sui
contenuti primari e per questo invarianti del costruire, un’arte che esprime il rapporto
tra l’individuo e la comunità considerandolo come un campo tematico nel quale ha un
ruolo centrale la memoria, è condivisa ormai da una ristretta minoranza. Una memoria
non intesa come un elemento nostalgico, ma come autocoscienza della città e
dell’architettura, luogo teorico e operativo nel quale la tipologia come principio
evolutivo, e insieme come risultato architettonico di questo stesso principio, incontra in
una ideale identificazione la dimensione morfologica. Solo se l’architetto riconquisterà
il controllo dell’intero processo progettuale, a partire dalla riaffermazione del suo
contenuto conoscitivo la scrittura architettonica non sarà più, come è oggi,
unidimensionale, priva di adeguate tessiture tematiche, incapace di andare oltre
l’illustrazione celebrativa della tecnica, che per inciso non avrebbe dovuto trasformarsi
in tecnologia. Per concludere, suscita qualche speranza il Nuovo Realismo di Maurizio
Ferraris, che ha suscitato un grande interesse tra gli architetti più attenti al futuro del
loro mestiere. Il richiamo del filosofo torinese alla responsabilità potrebbe, una volta
raccolto dai giovani architetti, fare in modo che l’attuale presenza nella cultura di
progetto di una molteplicità di orientamenti, talmente accentuata da produrre
incertezza e confusione, sia superata a favore di poche ma più chiare visioni
dell’architettura. Visioni che per questo motivo sarebbero più riconoscibili e operanti.

Pour citer cet article


Référence papier
Franco Purini, « Dal Postmodernismo al Nuovo Realismo. Note sull’architettura italiana negli
ultimi trent’anni », Rivista di estetica, 61 | 2016, 152-170.

Référence électronique
Franco Purini, « Dal Postmodernismo al Nuovo Realismo. Note sull’architettura italiana negli
ultimi trent’anni », Rivista di estetica [En ligne], 61 | 2016, mis en ligne le 01 avril 2016, consulté
le 21 janvier 2019. URL : http://journals.openedition.org/estetica/1103 ; DOI :
10.4000/estetica.1103

Auteur
Franco Purini

Droits d’auteur

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