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Conflitti

II
Arte, Musica, Pensiero, Società

a cura di
Nadia Amendola e Giacomo Sciommeri

UniversItalia
II
Arte, Musica, Pensiero, Società

a cura di
Nadia Amendola
Giacomo Sciommeri

UniversItalia
Volume pubblicato come iniziativa finanziata dall’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA


© Copyright 2017 - UniversItalia - Roma
ISBN 978-88-6507-828-0

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Indice

Prefazione
di Emore Paoli e Franco Salvatori IX

Introduzione
di Nadia Amendola e Giacomo Sciommeri XI

CHIARA SPENUSO
La Niobe ferita. Il «sacrificio umano» di Camille Claudel 1

CARLOTTA SYLOS CALÒ


Occuparsi di miracoli. Per un uomo alienato di Alighiero Boetti 9

SERENA DE DOMINICIS
Esercizi di opposizione al paradigma economico. Esempi di analisi critica
del concetto di crescita nell’arte contemporanea 19

ROBERTO MANNU
«L’histoire littéraire est à récrire»: l’elaborazione di un anti-canone
letterario secondo il progetto surrealista 31

MIRIAM POLLI
Pirandello. Eterno conflitto tra testo e messa in scena 41

EMANUELA FERRAUTO
Il teatro del soldato al fronte. La Prima guerra mondiale attraverso
gli occhi degli artisti napoletani, in Italia e in America 51

LINO CABRAS
Le coreografie astratte di Oskar Schlemmer: conciliazione del dissidio
interiore e sociale agli inizi del XX secolo 61

FRANCESCA TOMASSINI
Il conflitto in versi nei teatri di Eliot e Pasolini 71
VI INDICE

MARIALAURA SIMEONE
Limiti, confini, conflitti. L’esperienza teatrale al Carcere di Benevento 79

NADIA AMENDOLA
Linguaggio guerresco, disputa filosofica e contrasto interiore:
il conflitto nella poesia per musica di Domenico Benigni 87

GIACOMO SCIOMMERI
Il conflitto psicologico nella cantata-lamento: «L’Arianna» di Giacomo Buonaccorsi
e Carlo Francesco Cesarini tra echi rinucciniani e scelte musicali 99

NASTASJA GANDOLFO
Il conflitto tra dovere morale e sentimento passionale: le cantate di Lavinia e Achille
di Giovanni Alberto Ristori (1692-1753) e Carl Heinrich Graun (1704-1759) 113

MATTEO COSSU
Conflittualità e tradizione nel Violinkonzert di Alban Berg 127

FEDERICA MARSICO
Il conflitto in prospettiva queer: Der Prinz von Homburg di Hans Werner Henze 137

MARIA LETTIERO
Pagine di guerra. Fanfare e bande in giallo-verde 149

GIUSEPPE GIORDANO
Pratiche musicali e conflitti rituali in Sicilia 161

MARIA RIZZUTO
«Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore,
produce molto frutto» (Gv 12, 24): il canto liturgico copto protagonista vincente
della storia d’Egitto 175

ALESSANDRO COSENTINO
Tra matrici musicali africane e canto gregoriano: l’esperienza romana
di Emmanuel Cola Lubamba, prete e compositore congolese 183

FILIPPO KULBERG TAUB - MICHELA PAOLETTI


Conflitti e vendette: la vedova di guerra israeliana through the barricades 195

GIULIO PIATTI
Vertov e Ėjzenštejn a partire da Deleuze. Un conflitto estetico, politico e filosofico 205
INDICE VII

SALVATORE SPINA
Il conflitto tra Eigentlichkeit e Uneigentlichkeit nell’analitica esistenziale
di Essere e tempo di Martin Heidegger 215

DANIELE FAZIO
Die Totale Mobilmachung. Ernst Jünger e l’analisi metafisica
del Primo conflitto mondiale 225

ANGELA CIMATO
Tipo e anti-tipo. Il conflitto nell’ideologia nazionalsocialista 233

PIETRO LEMBO
Ego protesico: per un’archeologia del conflitto a partire dalla decostruzione
di Jacques Derrida 241

GIULIA CERVO
Filosofia della Notte: polemos ed Europa nei Saggi eretici di Jan Patočka 251

VALERIO FABBRIZI
Dalla «teoria del conflitto» alla «teoria del partigiano».
Un approccio filosofico-politico 261

FABIO DOMENICO PALUMBO


Eros e distruttività nel discorso della psicoanalisi 273

MASSIMILIANO NAPOLI
Conflitti per l’identità. La strutturazione narrativa dell’esperienza
e la costituzione del Sé 283

LAURA KHASIEV
I conflitti in Pinocchio. ‘Conflitti’ del testo, ‘conflitti’ nel testo 295

ROSSANA PENSABENE
Il conflitto come risorsa nella pratica pedagogica 307

CARLO MACALE
La pedagogia del conflitto di classe e il depauperamento antropologico.
La risposta di Jacques Maritain e l’impegno per un’educazione della persona 317

CARMELO RUSSO
Italiani di Tunisia: dalle naturalizzazioni francesi all’indipendenza tunisina.
Attrazioni, ambivalenze, conflitti nelle percezioni identitarie 327
VIII INDICE

STEFANIA PINCI
L’insostenibile pesantezza dei conflitti per lo sviluppo. Sicurezza, pace
e sviluppo in Africa Occidentale e Sub-sahariana 337

Indice dei nomi 347


GIULIO P IATTI
Vertov e Ėjzenštejn a partire da Deleuze.
Un conflitto estetico, politico e filosofico

Dziga Vertov era considerato da Sergej Michailovič Ėjzenštejn un formalista


impreciso, autore di «ingiustificati effetti speciali della macchina da presa»1, così
come di «deviazioni e stramberie»2. Allo stesso modo, è difficile non pensare
all’opera di Ėjzenštejn quando Vertov liquidava gran parte del cinema a lui contem-
poraneo perché ancora troppo legato alle forme mimetiche proprie del teatro e del-
la letteratura3.
Obiettivo di questo lavoro è analizzare il conflitto estetico, filosofico e politico
che, ben al di là di sterili accuse o antipatie personali, divide Ėjzenštejn e Vertov.
Ben lontano dalla pretesa di illuminare nel dettaglio le poetiche dei due registi e il
contesto storico-culturale di appartenenza, lo studio che si vuole qui proporre
prende piuttosto le sue mosse da una serie di intuizioni di Gilles Deleuze, che ha
dedicato alcune parti de L’immagine-movimento e de L’immagine-tempo a Vertov
e Ėjzenštejn4: a partire da queste intuizioni, si cercherà di rendere chiaro il conflitto
che divide i due registi, compresente in almeno tre ambiti tematici differenti, seppur
tra loro strettamente legati.

Un conflitto estetico. Le inquietudini della rappresentazione

È tratto comune ai movimenti di avanguardia novecenteschi una forte inquietu-


dine nei confronti della mimesis di ascendenza platonica: l’opera d’arte non deve
più essere specchio del reale, ma costituirsi come una realtà autonoma. In questo
contesto si inseriscono le poetiche di Vertov e Ėjzenštejn, che manifestano entram-
be una certa insofferenza nei confronti del concetto di rappresentazione, declinata
però in due sensi differenti.

1
ĖJZENŠTEJN 2003A, p. 46.
2
ĖJZENŠTEJN 2012, p. 411.
3
Cfr. VERTOV 1975, p. 70.
4
Cfr. DELEUZE 2010A, pp. 47-55, 101-108; DELEUZE 2010B, pp. 175-182.
206 GIULIO PIATTI

Dziga Vertov è un convinto oppositore del concetto di mimesis, inteso come re-
siduo di incrostazioni teatrali e letterarie da cui il cinema avrebbe dovuto liberarsi:
ecco perché Vertov si rifiuta categoricamente di utilizzare attori professionisti così
come di scrivere una ‘classica’ sceneggiatura. Per comprendere il rifiuto vertoviano
della rappresentazione bisogna esplicitare la proposta pratica e teorica avanzata dal
regista, ovvero quella del cineocchio (Kinoglaz). Il cineocchio altro non è che
l’occhio della macchina da presa, sganciato da ogni soggettivismo: se l’uomo perce-
pisce soltanto una piccola porzione del reale, il cineocchio intende superare le abi-
tudini percettive umane, restaurando quelle vaste zone acentrate invisibili all’occhio
umano5. L’obiettivo di Vertov è quello di «emancipare la macchina da presa, op-
pressa da una triste schiavitù, soggetta a un occhio umano imperfetto e poco acu-
to»6. Liberandosi dal punto di vista umano sulle cose, il cineocchio vuole arrivare a
cogliere la ‘grana’ del reale, la sua profonda materialità, costituita da una serie di re-
lazioni che scorrono, invisibili, al di sotto delle percezione umana. Ecco allora per-
ché il cineocchio non vuole essere «copia di copia»7, come il cinema americano
d’azione, ma intende riprendere scene reali e quotidiane, mostrandole attraverso un
occhio onnisciente.
Non è in realtà difficile mostrare quanto una poetica, così intesa, non sfugga al
soggettivismo che intende denunciare: se è vero che l’occhio della macchina da pre-
sa è infinitamente più potente dell’occhio umano, permane in ogni caso il problema
del punto di vista: l’immagine, per quanto caratterizzata da punti di ripresa inusuali,
resta pur sempre ‘centrata’, inevitabilmente relativa a una percezione umana8. Se il
cineocchio supera il punto di vista umano sulla realtà, decostruendo una volta per
tutte il principio mimetico, questo accade perché Vertov mette in pratica un mon-
taggio di tipo costruttivista, di matrice fortemente creativa. Si tratta di mettere in
relazione immagini eterogenee, rivolgendo un’attenzione particolare al ritmo di
montaggio e all’intervallo tra le sequenze9. Il meccanismo rappresentativo-oculare è
così smontato dall’interno, attraverso la giustapposizione di elementi eterogenei
capaci di cogliere le relazioni che disegnano il reale: è quello che accade, per esem-
pio, ne La sesta parte del mondo (1926), dove sono affiancate sequenze che mo-
strano una serie di lavoratori disseminati sul suolo sovietico, ma uniti da un unico
fine socialista.

5
Cfr. DELEUZE 2010A, p. 83.
6
VERTOV 1975, p. 36.
7
VERTOV 1975, p. 27.
8
Cfr. ZOURABICHVILI 2000, p. 146.
9
VERTOV 1975, p. 29.
VERTOV E ĖJZENŠTEJN A PARTIRE DA DELEUZE 207

Anche per Ėjzenštejn il mezzo cinematografico non può essere legato indissolu-
bilmente al concetto di rappresentazione: un cinema soltanto mimetico è un’opera
‘a metà’, che non raggiunge la sua componente essenzialmente artistica, espressa
dal concetto di ‘immaginità’ (obraznost’)10: con ‘immaginità’ si intende la capacità,
propria di un’opera d’arte, di passare da semplice rappresentazione del reale a
emersione dell’idea. Ogni creazione artistica dovrebbe esibire un perfetto equilibrio
tra rappresentazione e immagine. Se infatti un’arte solo mimetica è incapace di fare
emergere la sua qualità artistica, un’arte composta soltanto da immagini ricade nello
sterile formalismo dell’arte borghese decadente, sclerotizzata nei suoi ‘ismi’ autore-
ferenziali11, a cui Ėjzenštejn aggiunge significativamente il cineocchio vertoviano.
Per comprendere meglio il binomio tra rappresentazione e immagine, può essere
utile fare riferimento a un esempio proposto da Ėjzenštejn stesso12. Nel riprendere
una barricata, si può agire in due modi: o, con una certa neutralità, fare emergere
soltanto la verosimiglianza, permettendo il riconoscimento dell’oggetto che si sta
filmando oppure rendere, attraverso una studiata soluzione compositiva, l’idea che
sottostà all’oggetto, quella della lotta, del movimento e del disordine. In questo caso,
senza abbandonare la verosimiglianza – si comprende senza fatica che continua a trat-
tarsi di una barricata – il regista è in grado di fare emergere l’immagine dell’oggetto, il
suo significato profondo. Obiettivo di Ėjzenštejn è insomma quello di superare la rap-
presentazione con la rappresentazione, attraverso una sorta di Aufhebung hegeliana ca-
pace di oltrepassare e insieme conservare l’istanza mimetica.

Da una sostanziale insoddisfazione, espressa da entrambi i registi nei confronti degli


stretti limiti di un cinema che faccia da specchio al reale, Vertov e Ėjzenštejn si incam-
minano così su due strade differenti: se il regista del cineocchio intende sbarazzarsi
completamente del principio mimetico, Ėjzenštejn vuole tenere insieme verosimiglian-
za e immagine. Perfetta sintesi dell’opposizione tra i due registi su questo punto è la
concezione del fotogramma. Se ne L’uomo con la macchina da presa (1929) questo,
inteso come elemento genetico del cinema stesso, è esibito nella sua finzione – si pensi
all’inquadratura del bambino che si scompone in una serie di fotogrammi – in
Ėjzenštejn esso costituisce invece il passaggio dalla prima rappresentazione – il singolo
fotogramma che ci mostra staticamente il reale – alla prima immagine, ovvero alla mes-

10
Sulla scelta di questa traduzione, cfr. ĖJZENŠTEJN 2012, pp. 419-420, nota 4.
11
Cfr. ĖJZENŠTEJN 2012, p. 396.
12
Cfr. ĖJZENŠTEJN 2012, pp. 27-41.
208 GIULIO PIATTI

sa in movimento di due fotogrammi, in grado di far apparire miracolosamente


l’immagine del movimento, l’essenza stessa del cinema13.

Un conflitto politico. Cinema e rivoluzione, emozione e decifrazione

A dividere Ėjzenštejn e Vertov non è soltanto una questione strettamente esteti-


ca, ma, più profondamente, una certa idea del rapporto tra cinema e società. Tro-
vandosi nel contesto in cui un regime socialista prende effettivamente il potere, si
pone inevitabilmente un problema di natura politica: «per la prima volta», scrive
Ėjzenštejn, «l’ordinamento sociale ha sopravanzato i creatori di opere artistiche
nella soluzione di questi problemi»14. Quale deve essere allora la funzione dell’arte,
all’interno di uno stato in cui è esplosa una vera e propria rivoluzione politica ed
economica? Ancora una volta il conflitto tra Ėjzenštejn e Vertov è radicale e indica
due differenti tipi di atteggiamento nei confronti di una realtà sociale in pieno fermento.
La didattica vertoviana, in perfetto accordo con la poetica del cineocchio, inten-
de rendere consapevole lo spettatore delle complesse relazioni che sottostanno
all’apparenza percettiva: l’occhio pre-umano della macchina da presa è l’universo
delle relazioni, delle comunanze. Obiettivo del cineocchio è quello di rendere visi-
bile il collegamento tra il mondo di prima dell’uomo e l’uomo comunista di doma-
ni15. Un esempio paradigmatico è contenuto ne Il cineocchio (1924), dove la ripre-
sa di un processo di panificazione si arresta, facendo apparire la didascalia «il ci-
neocchio può fermare il tempo»: da questo momento in poi si assiste all’intero
processo mostrato al contrario, attraverso la tecnica del rovesciamento del nastro.
Con questo artificio tecnico si vuole mostrare ciò che un singolo uomo, nella sua
limitatezza percettiva, non potrebbe percepire: quel mondo di relazioni tra differen-
ti lavoratori e luoghi, in grado di rendere concretamente applicabile l’idea socialista.
Per Vertov, insomma, l’obiettivo del cineocchio deve essere quello della «decifra-
zione comunista del mondo»16.
Diventa così comprensibile da un nuovo punto di vista il rifiuto vertoviano dei resi-
dui letterari e teatrali che ancora sopravvivevano nel cinema. Se il mezzo cinematografi-

13
Cfr. ĖJZENŠTEJN 2012, pp. 129-150. Questa idea ha avuto una grande influenza sia su Deleuze, nella
teorizzazione del cinema come insieme di immagini-movimento sia su Merleau-Ponty, quando ne L’occhio
e lo spirito fa, come Ėjzenštein, riferimento a Rodin per comprendere il ‘miracolo’ del movimento (cfr.
MERLEAU-PONTY 1989, pp. 54-55).
14
ĖJZENŠTEJN 2003B, p. 418.
15
Cfr. DELEUZE 2010A, p. 103.
16
VERTOV 1975, p. 78.
VERTOV E ĖJZENŠTEJN A PARTIRE DA DELEUZE 209

co deve arrivare a decifrare un reale pienamente rivoluzionario, il cineocchio dovrà allo-


ra porsi come una vera rivoluzione all’interno della storia del cinema: dalla rivoluzione
politico-economica si sarebbe dovuti passare a una rivoluzione cinematografica. Vertov
propone insomma il rovesciamento dell’intera logica culturale17 dentro cui si era mossa
la cinematografia fino a quel momento, facendosi portavoce di un nuovo cinema rivolu-
zionario di massa, capace sia di educare ‘dal basso’ sia di far partecipare attivamente la
popolazione all’instaurazione di un vero regime socialista.
La didattica ejzenštejniana si pone agli antipodi di quella proposta da Vertov. Per
Ėjzenštejn ciò che conta è l’effetto che un film è in grado di produrre sullo spettatore.
Dall’occhio della macchina da presa si passa così all’occhio dello spettatore18. Il cinema,
infatti, è in grado di (ri)produrre un vero e proprio «pensiero sensoriale»19, che riesce a
pervenire all’origine della disgiunzione tra intelletto ed emozione, trasmettendo così,
fuse assieme, componenti intellettuali e patiche. Obiettivo di Ėjzenštejn è allora la
costruzione di un’opera intrisa di pathos20 e coinvolgimento.
Il regista si dedica a un preciso studio dei rapporti tra singole sequenze, guidati dal
noto criterio delle opposizioni e dei passaggi di stato: il pathos viene infatti raggiunto
grazie alla capacità, propria di un regista, di far passare il film da un’emozione all’altra, in
una continua ekstasis21. Il passaggio dal lutto alla collera ne La corazzata Potëmkin
(1925) o la transizione dalla lunga attesa alla gioia per lo sgorgare della panna ne Il vec-
chio e il nuovo (1929) oppure ancora le successive reazioni dello Zar alla morte della
moglie in Ivan il terribile (1944) si offrono come esempi paradigmatici. Nei film
ejzenštejniani si assiste a ogni tipo di balzi di qualità22, cesure, analogie e conflitti: in
questo modo Ėjzenštejn riesce a conquistare il coinvolgimento del pubblico, che aderi-
sce emotivamente all’idea espressa dall’autore. Siamo agli antipodi della rivoluzione del
cinema proposta da Vertov: Ėjzenštejn introduce a questo proposito e non senza ironia
l’istanza di un cinepugno che, a differenza del cineocchio intellettualista, «deve aprire i
crani»23, investendo il pubblico con uno vero e proprio effetto di choc24. Alla base della

17
Cfr. l’introduzione di Montani in VERTOV 1975, p. 5.
18
Cfr. ĖJZENŠTEJN 2012, p. 352.
19
ĖJZENŠTEJN 2003A, pp. 130-157.
20
Sul concetto ejzenštejniano di pathos, cfr. soprattutto ĖJZENŠTEJN 2003B, pp. 45-227.
21
Cfr. ĖJZENŠTEJN 2003B, pp. 32-43.
22
Ėjzenštejn li equipara a veri e propri passaggi di stato tra elementi (cfr. ĖJZENŠTEJN 2003B, p. 188).
23
ĖJZENŠTEJN 2012, p. 411.
24
Cfr. ĖJZENŠTEJN 2003B, p. 62. Il rapporto tra choc e pensiero è un tema costante nella riflessione
filosofica di Deleuze (cfr. DELEUZE 1997, pp. 196-198). Quando si tratta di analizzarla nella storia del
cinema, non manca il riferimento esplicito a Ėjzenštein (cfr. DELEUZE 2010B, pp. 176-178, dove è
presente anche un riferimento a Vertov).
210 GIULIO PIATTI

didattica ejzenštejniana grande importanza riveste ovviamente l’atteggiamento


dell’autore nei confronti dell’oggetto da filmare25. Ogni volta che si vuole uscire dai limi-
ti angusti della sola rappresentazione, lo si può fare soltanto guidati da una certa idea, da
un certo punto di vista sul mondo.
Il conflitto politico tra Ėjzenštejn e Vertov si situa così sulla linea che divide
l’emozione dalla decifrazione: se Vertov vuole cogliere la ‘grana’ socialista del reale, rivo-
luzionando di fatto il linguaggio cinematografico e istruendo ‘dal basso’ il pubblico so-
vietico, Ėjzenštejn si concentra sugli effetti emozionali e insieme intellettuali che il suo
cinema avrebbe dovuto ingenerare nello spettatore, calcolandone minuziosamente gli
effetti sulla base di un certo atteggiamento nei confronti della materia da filmare.

Un conflitto filosofico. Dialettica, materia e natura

Non è affatto complicato riconoscere nella scuola sovietica del cinema una vi-
sione dialettica del reale26. È su questo punto che Ėjzenštejn, Vertov, Pudovkin e
Dovženko, pur nelle loro evidenti differenze, si pongono in aperto conflitto con il
cinema americano a loro contemporaneo. Dove questo, guidato da un empirismo
statico, partiva dalla constatazione di un universo diviso tra due classi sociali in lot-
ta, il cinema sovietico problematizzava questo punto di partenza, andando a coglie-
re dialetticamente le ragioni di questa dicotomia27.
Vertov è l’alfiere di una dialettica in sé, della e nella materia28: come si è detto,
l’obiettivo del cineocchio è quello di cogliere le relazioni che scorrono al di sotto
della soglia di percezione umana. In questo modo, però, il pensiero dialettico perde
il proprio ‘centro’ umano, superando la percezione abitudinaria e aprendosi così a
un mondo impersonale, composto da materia, luce e vibrazione. Per questo Deleu-
ze sostiene che Vertov ha in qualche modo realizzato il programma materialista
bergsoniano contenuto nel primo capitolo di Materia e memoria29, nel quale si su-
pera la prospettiva umana in favore di un puro campo trascendentale di immagini
che si riflettono tra loro30. Negando il punto di vista antropologico sulle cose, si
giunge nei pressi della materia e delle sue vibrazioni energetiche. Il grande merito di

25
Cfr. ĖJZENŠTEJN 2012, p. 168.
26
Cfr. DELEUZE 2010A, pp. 54-55.
27
Cfr. ĖJZENŠTEJN 2003A, pp. 204-266.
28
Cfr. DELEUZE 2010A, p. 55.
29
Cfr. DELEUZE 2010A, p. 102.
30
Cfr. BERGSON 2009, pp.13-61.
VERTOV E ĖJZENŠTEJN A PARTIRE DA DELEUZE 211

Vertov è stato proprio quello di aver aperto la strada a un cinema capace di prende-
re sul serio il problema della materialità e della percezione; questi interessi coinci-
dono però con un radicato impegno politico. Il mondo della pura materia è anche il
mondo del socialismo: l’energetismo coincide così con un universo di relazioni so-
cialiste non visibili da una prospettiva singola, ma immerse nell’in sé della realtà.
Interessante conseguenza filosofica della dialettica vertoviana è un rinnovato
rapporto tra costruzione e scoperta. Il mondo pre-umano delle relazioni a cui Ver-
tov vuole pervenire è già esistente, si tratta solo di farlo emergere: il cineocchio in
questo caso solleva un velo che, coincidendo con la percezione antropologicamente
orientata, impedisce di cogliere la ‘grana’ del reale. È tuttavia Vertov stesso a inten-
dere i propri prodotti come dei cineoggetti31, il cui tratto ‘costruito’ assume un
grande rilievo. Si tocca qui il punto filosoficamente più complesso interno alla pro-
posta vertoviana: qual è il rapporto tra costruzione e verità? La verità cui Vertov
vuole giungere non è tanto quella di uno svelamento, quanto piuttosto quella di una
vera e propria creazione:

La variazione universale, l’interazione universale (la modulazione), è già ciò che Cézanne chiama-
va il mondo prima dell’uomo, «alba di noi stessi», «caos iridato», «verginità del mondo». Nulla
di stupefacente che si debba costruirlo, perché è dato solo all’occhio che non abbiamo32.

In Vertov scoperta e costruzione arrivano così a coincidere, sull’onda lunga


dell’influenza di avanguardie russe come il costruttivismo, a loro volta debitrici della teo-
logia ortodossa di ascendenza sofianica33.
In Ėjzenštejn il pensiero dialettico assume un’altra forma: si tratta di una dialet-
tica che parte innanzitutto dal rapporto tra uomo e natura34. Ėjzenštejn possiede
una visione sostanzialmente organicista e monista del reale: ogni organismo è costi-
tuito da un insieme di parti che non sussistono se non in quanto unite tra loro in un
‘tutto’35. Ciò significa sia che ogni film ha alla base un’unica idea (l’immagine) che
dà consistenza a ogni sua componente interna sia che, a un livello più profondo,
l’intero insieme della natura risponde a leggi organicistiche e moniste. Ėjzenštejn
possiede insomma una visione storico-materialista dell’evoluzione, organica e in-
cludente. Il cammino dell’arte è allora un ‘tutto’ organico che raggiunge la sintesi

31
Cfr. VERTOV 1975, p. 71.
32
DELEUZE 2010A, p. 102.
33
Si tratta di un dibattito centrale nel mondo culturale russo nel Novecento (cfr. KRAISKI 1968; FINK
1999; MALEVIČ 2000).
34
Cfr. DELEUZE 2010A, p. 105.
35
Cfr. ĖJZENŠTEJN 2003B, p. 22
212 GIULIO PIATTI

perfetta nel cinema36: ecco perché il mezzo cinematografico viene interpretato in


continuità con la storia culturale dell’uomo, in assoluta opposizione con la rottura
proposta da Vertov.
Al centro della dialettica ejzenštejniana si pone in definitiva l’uomo, in quanto
centro dello sviluppo organico della natura. Questa si presenta, agli occhi di
Ėjzenštejn, come «non indifferente» all’essere umano37: il processo dialettico trova
nell’uomo il suo centro di significazione e nel continuo confronto organicità e pa-
thos il suo codice evolutivo. Ne La natura non indifferente, ultima opera quasi
compiuta38 di Ėjzenštejn, il nesso rappresentazione-immagine lascia infatti il posto a
quello tra organicità e pathos, esteso a tutto il mondo naturale e da sempre presente
nell’uomo nella doppia attività dell’intrecciare canestri e del cacciare39. Qui più che
mai l’omologia tra fenomeni naturali e creazioni artistiche diventa assolutamente
evidente, accompagnata da una dialettica tra due principi, uno richiuso in sé, l’altro
incessantemente in fuga.
Se si dovesse in pochi cenni individuare il cuore del conflitto filosofico – e quindi
estetico e politico – che divide Ėjzenštejn e Vertov, questo dovrebbe essere rinvenuto
nella differente valutazione che i due registi assegnano all’uomo. Se Vertov reputa
l’uomo un animale percettivamente limitato, che deve essere superato in favore di una
macchina da presa onnisciente e di un montaggio creativamente eterogeneo, per rag-
giungere così l’assoluta oggettività della materia socialista, Ėjzenštejn assegna all’uomo –
autore, spettatore e, più profondamente, fulcro dello sviluppo evolutivo della realtà – un
ruolo centrale e ineludibile.

Limiti e limitazioni. Un nuovo conflitto?

Al di là delle differenze qui messe in luce, ci sembra che ci sia almeno un forte
punto di contatto tra le poetiche di Vertov e Ėjzenštejn. Si tratta, molto in generale,
di una riflessione condotta da entrambi sui limiti del mezzo cinematografico.
Se il cineocchio vertoviano intende superare la curva umana dell’esperienza, per
arrivare a un campo impersonale di variazioni universali, il punto di approdo ulti-
mo, appena concepibile, altro non sarebbe che una pura coincidenza tra cinema e

36
Cfr. ĖJZENŠTEJN 2003A, p. 233.
37
Cfr. ĖJZENŠTEJN 2003B, p. 440.
38
Su questi punti cfr. l’introduzione di Montani in ĖJZENŠTEJN 2003B, p. XI.
39
Cfr. ĖJZENŠTEJN 2003B, p. 303.
VERTOV E ĖJZENŠTEJN A PARTIRE DA DELEUZE 213

realtà. Si arriverebbe a una sorta di metacinema dell’universo40, caratterizzato da


un’identità assoluta tra realtà e finzione, oltre ogni rappresentazione. La ricerca di
un’oggettività trasparente, senza alcun ostacolo umano, porta forse alla sparizione
del cinema classicamente inteso, aprendo a un’arte cosmica dell’universo, lente as-
soluta che rende indiscernibili arte e scienza, realtà e mimesis, in nome di un’oggettività
assoluta.
D’altra parte, l’insistere di Ėjzenštejn sulla nozione di immagine e sull’estasi co-
me continuo passaggio di qualità in qualità, sia all’interno dell’evoluzione naturale e
culturale sia all’interno del mezzo cinematografico, ci pone già all’interno di una
tendenza a oltrepassare continuamente ogni temporaneo punto di approdo. Di più,
se il cinema è davvero quell’arte sintetica capace di superare e conservare tutte le
precedenti fasi della storia della cultura, si può ragionevolmente presumere che
possano formarsi in futuro nuove e superiori sintesi, al di là del mezzo cinematogra-
fico stesso. L’estasi è infatti ogni volta in grado di ‘bucare’ la rappresentazione, ap-
prodando verso il limite stesso del cinema, quello sfondo bianco che balenava già
nello sguardo del saggio verso il ‘nulla’, tipico della pittura cinese medievale:

Se si segue mentalmente lo sguardo del saggio ci si accorge che, dopo aver percorso i contorni sfumati
della vegetazione, delle valli e dei monti, questo è immancabilmente teso verso il «nulla» – verso lo
sfondo bianco del quadro –, libero da qualsiasi allusione ad oggetti o a rappresentazioni!41

Al di là di un simile punto in comune, rimane evidente la profonda differenza tra


le teorie e le opere dei due cineasti. Ci sembra tuttavia, in conclusione, che tale ete-
rogeneità, costituisca in fondo l’anticamera di un altro conflitto, presente nelle bio-
grafie di entrambi i registi nei confronti di un ‘nemico’ comune, il regime socialista
sovietico, nel suo costante tentativo di normalizzare qualsiasi eccesso in campo arti-
stico. Rimane così una certa dose di rammarico: chissà a quali sperimentazioni e
verso quali sfide Vertov e Ėjzenštejn si sarebbero orientati se il contesto che ini-
zialmente li aveva così bene stimolati allo sviluppo di un’originale poetica non li
avesse, con il passare del tempo, inevitabilmente condizionati. Non potendo preve-
dere l’impossibile, non ci resta che analizzare le opere effettivamente realizzate, nel-
le quali, come si è tentato di mostrare, un conflitto esteso su tre livelli ‘concentrici’ –
estetico, politico e filosofico – si rivela segno di una grande vitalità artistica, capace
di lasciare alla storia del cinema – e della cultura – un’eredità davvero unica.

40
Cfr. DELEUZE 2010A, p. 78.
41
ĖJZENŠTEJN 2003B, p. 396. Su questi punti cfr. anche l’introduzione di Montani in ĖJZENŠTEJN 1981,
pp. XXX-XL.
214 GIULIO PIATTI

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