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L’organizzazione sanitaria del

Comune di Milano nel XIX secolo


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1. Il tema della vigilanza delle amministrazioni comunali sull’igiene urbana e sulla salu-
te pubblica in Italia nel corso dell’Ottocento risulta in generale ancora poco studiato e
in particolare è poco conosciuta l’organizzazione degli uffici e la fisionomia del perso-
nale che di queste funzioni era incaricato. Una ricostruzione di questo tipo può essere
tuttavia molto utile a far luce sia sulle diverse strategie messe in atto dagli stati preuni-
tari di fronte ai pericoli che incombevano sulla salute pubblica, sia sulle modalità con
cui gli stessi comuni, dopo l’Unità, dovettero adattarsi alla nuova legislazione italiana.
Se abbiamo infatti alcuni studi sul periodo postunitario1, manca quasi sempre il ter-
mine di paragone con il periodo precedente, indubbiamente il meno indagato sotto
questi aspetti. Occorrerebbero quindi ricerche sistematiche almeno sulle più impor-
tanti realtà urbane del paese, dove le novità venivano generalmente recepite con anti-
cipo rispetto ai comuni minori e fungevano poi da modelli per questi ultimi.
Può essere dunque interessante riportare in questa sede i principali risultati
emersi da uno studio sulla specificità dell’organizzazione milanese nell’Ottocento
preunitario (Zocchi 2006)2, cercando anche di fornire qualche notizia sul suo svi-
luppo successivo, per il quale manca ancora un’indagine a tutto campo.
Molti elementi facevano indubbiamente di Milano una città all’avanguardia nel
panorama sanitario italiano: primo fra tutti, la fitta ed antica rete di istituzioni assi-
stenziali che caratterizzavano il capoluogo lombardo, alla quale approdava non solo
quella parte dei cittadini sempre in bilico tra povertà e miseria, ma anche un nume-
ro consistente di indigenti provenienti dalle campagne.
Fra le strutture sanitarie spiccava senza dubbio per imponenza l’Ospedale
Maggiore, fondato da Francesco Sforza nel 1456 e giunto a ricoverare, intorno alla
metà dell’Ottocento, più di 2.000 persone. Da questo dipendevano amministrativa-
mente altre tre strutture portanti della sanità milanese: il Pio Istituto di Santa
Corona per l’assistenza ai poveri a domicilio, che dal 1497 stipendiava gli addetti al
servizio medico, chirurgico e ostetrico della città, il manicomio della Senavra e la
Pia Casa degli esposti e delle partorienti di S. Caterina alla ruota, entrambe aperte
nel 1781 in seguito alle riforme teresiano-giuseppine.
Completavano il quadro i due ospedali dei Fatebenefratelli e delle
Fatebenesorelle, una clinica privata (la «Casa di salute», aperta nel 1835) e un
numero elevato di «case di ricovero per pazzi e mentecatti» inaugurate prevalente-
mente negli anni ’20 dell’Ottocento, quali la Senavretta, l’Ospizio Dufour, la Villa
Antonini e l’Ospizio Colombo.

M. Breschi, L. Pozzi (a cura di), Salute, malattia e sopravvivenza in Italia fra ’800 e ’900, Forum, Udine 2007,
pp. 37-57.
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Tutte le strutture sanitarie milanesi (eccettuato un piccolo ospedale destinato


alla cura delle prostitute sifilitiche affidato all’amministrazione comunale dopo la
Restaurazione) avevano dunque amministrazioni proprie, indipendenti dal
Municipio e soggette, semmai (quando non erano private) al controllo dello Stato,
che non solo nominava gli amministratori e i direttori degli ospedali e dei luoghi pii,
ma si impegnava direttamente nel mantenimento di alcune categorie di ricoverati
come i pazzi, gli esposti e le partorienti.
Le malattie più frequenti in città erano soprattutto quelle dell’apparato respira-
torio (bronchiti, polmoniti, tubercolosi), in gran parte dovute al clima, seguite da
quelle reumatiche e infettive, mentre nei mesi più caldi, in concomitanza con il
generale peggioramento delle condizioni igieniche, prevalevano le malattie
gastroenteriche.
Per quanto riguarda la salubrità urbana, Milano risentiva, soprattutto nella sua
parte meridionale, dell’umidità dei terreni circostanti, dove si estendevano prati
irrigui, marcite e risaie. In primavera e in autunno, infatti, gli abitanti erano spesso
colpiti da febbri malariche, di cui soffrivano anche gli inquilini di alcune case pro-
spicienti i canali, specialmente durante l’asciutta, quando si svolgevano i lavori
autunnali di pulizia e di manutenzione.
Milano era infatti solcata, nell’Ottocento, da numerosissimi canali scoperti,
alcuni dei quali traevano l’acqua da fonti proprie, altri invece dal naviglio della
Martesana, che entrava in città da nord e con il nome di Fossa interna scorreva
lungo gran parte del perimetro urbano. La Fossa era utilizzata sia per la navigazio-
ne, sia come canale fognario, in cui si riversavano dalle case e dalle strade acque pio-
vane, scoli e le deiezioni di ogni genere. Quando si trattava di adottare provvedi-
menti per la tutela dell’igiene pubblica, del resto, il gran numero di utenti privati e
di proprietari a cui erano demandate le operazioni di pulizia e manutenzione ren-
deva difficoltose e spesso inefficaci le ordinanze del Comune.
Dal Naviglio della Martesana e dalla Fossa interna si dipartivano poi altri 29
canali, che lambivano o attraversavano in vario modo la città: tra i più importanti vi
era il Seveso, quasi interamente coperto, utilizzato anch’esso come un vero e pro-
prio canale di fognatura. Nel suo percorso circolare, interno rispetto alla Fossa, esso
raccoglieva tutti gli scarichi dei quartieri più centrali e popolosi di Milano, scari-
candosi poi a sud, fuori città, nel canale scoperto della Vettabbia.
In tutte le tratte scoperte dei canali urbani, e soprattutto in quelle del Seveso, gli
inquilini gettavano abusivamente dalle finestre ogni sorta di immondizie, mentre
chi abitava vicino ai canali coperti era obbligato a far costruire dei condotti di sca-
rico sotterranei per le acque sporche e per le latrine.
Nelle zone della città più interne, che non avevano l’affaccio diretto sui canali,
esisteva invece il sistema dei pozzi neri, grandi cisterne sotterranee in cui si racco-
glievano gli scarichi fognari. Il problema di questo sistema riguardava soprattutto le
operazioni periodiche di vuotatura, ributtanti e malsane, affidate per consuetudine
a uno stuolo di contadini «cisternieri» e «navazzari» che operavano con mezzi rudi-
mentali e trasportavano poi il materiale di spurgo fuori città per utilizzarlo come
concime. Essi intervenivano su richiesta dei proprietari dei pozzi neri, ma per ogni

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operazione dovevano richiedere un’apposita licenza all’Ufficio di sanità del


Comune, che cercava così di controllarne l’operato.
Allo stesso modo la città si serviva di contadini «letamajuoli» per liberarsi dei
rifiuti organici presenti sulle pubbliche vie, mentre affidava ad appaltatori il lavag-
gio delle strade, lo smaltimento delle nevi e del fango e la raccolta dei rifiuti solidi
non organici.
Per quanto concerne l’eliminazione complessiva dei rifiuti urbani, svolsero
indubbiamente un ruolo fondamentale, a partire dalla fine del Settecento e soprat-
tutto nel corso dell’Ottocento, i sobborghi della città (amministrati dal Comune dei
Corpi Santi), che divennero progressivamente il luogo di smaltimento e di ricetto di
tutte le attività identificate come «disgustose», «insalubri» o «nocive». La tendenza
a confinarvi ospedali per contagiosi, cimiteri, macelli, manifatture, industrie,
immondezzai e tutto ciò che poteva minacciare in qualche modo la salute della
popolazione milanese si accentuò infatti sensibilmente nei decenni preunitari, ren-
dendo sempre più evidente l’inadeguatezza di un sistema amministrativo che, man-
tenendo separati i due comuni, impediva di fatto lo sviluppo di un’organica politi-
ca igienico-sanitaria nell’area milanese nel suo complesso. Le conseguenze della
progressiva insalubrità dei vicini e sempre più affollati Corpi Santi finivano quindi
spesso per ricadere sulla città, nella quale quotidianamente si riversava «l’onda di
popolazione» dei sobborghi con il suo corteggio di miseria e malattia.
Sul versante dell’approvvigionamento idrico, invece, la grande abbondanza
d’acqua di buona qualità presente nel sottosuolo della città, attinta dai pozzi situa-
ti in quasi tutti i caseggiati, non creava se non sporadicamente problemi alla salute
pubblica, nonostante la crescente preoccupazione di medici e igienisti nei confron-
ti delle infiltrazioni dei canali e dei pozzi neri nella falda freatica.
Il motivo di maggiore allarme per gli amministratori municipali del periodo
preunitario furono però soprattutto le ondate epidemiche di colera che sconvolse-
ro l’Europa nel corso dell’Ottocento. Sappiamo che l’arrivo di questo nuovo «fla-
gello» pose infatti le classi dirigenti di fronte alla necessità e all’urgenza di incidere
sulle principali cause di insalubrità dei centri urbani, ove la malattia colpiva con
maggiore intensità infierendo soprattutto nei quartieri abitati dagli strati più pove-
ri della popolazione. Rispetto ai grandi interventi di risanamento eseguiti negli anni
’50 in Inghilterra e in Francia, tuttavia, a Milano – almeno nel periodo preunitario
– ci si limitò alla copertura di alcuni tratti di canali scoperti e all’abbattimento di
alcuni edifici particolarmente degradati nelle zone periferiche della città, mentre i
grandi e più organici interventi urbanistici furono effettuati, come vedremo, all’in-
domani dell’Unità.
Fu invece l’organizzazione stessa del Comune di Milano a consentire una buona
gestione delle epidemie coleriche ed è quindi interessante capire quale fosse la spe-
cificità milanese in questo campo.

2. Le origini della struttura amministrativa municipale ottocentesca di Milano risal-


gono alle riforme giuseppine del 1786, in base alle quali furono abolite non solo
tutte le magistrature centrali della Lombardia austriaca (tra cui il Magistrato di

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sanità), ma anche i numerosi organi del governo locale milanese, che svolgevano
funzioni insieme giurisdizionali ed esecutive e che da secoli erano in mano al ceto
dirigente patrizio. Le magistrature centrali furono allora sostituite da un’unica
struttura burocratica statale di nomina governativa, il Consiglio di governo, che ne
ereditò le competenze giurisdizionali, mentre gli organi del governo locale furono
sostituiti da un’unica Congregazione municipale, strettamente dipendente dalle
autorità governative, che ereditò le sole competenze amministrative ed esecutive
degli antichi corpi (Pagano 2002, 4-10).
La vigilanza sanitaria ed annonaria all’interno della città, prima demandata
rispettivamente al Magistrato di sanità e ai Giudici delle strade e delle vettovaglie,
divenne dunque da quel momento competenza della Congregazione municipale e
in particolare dei suoi due nuovi uffici «di sanità» e «delle vettovaglie e strade», i
quali, solo abbozzati dopo le riforme giuseppine, si strutturarono durante l’età
napoleonica e si organizzarono definitivamente e più razionalmente con la
Restaurazione.
Il Regolamento generale per gli oggetti di sanità da osservarsi nella Lombardia
austriaca, del 29 marzo 1787, sancì il passaggio di consegne dal soppresso
Magistrato di sanità al Comune, mentre la Grida generale degli ordini del Magistrato
alla sanità del 26 aprile 1781 aveva già posto le basi della legislazione igienico-sani-
taria per lo Stato, la città e i Corpi Santi di Milano. Si trattava, in realtà, di un rie-
pilogo di tutte le ordinanze emanate da questa magistratura nel corso degli anni,
che erano rimaste in gran parte disattese e avevano bisogno di una più efficace ed
organica codificazione. La Grida del 1781 e il Regolamento del 1787 furono in
seguito adottati come modello per i regolamenti delle altre città della Lombardia
austriaca e costituirono anche nell’Ottocento la normativa sanitaria di riferimento
per la città, nonostante l’emanazione successiva di norme specifiche per alcuni set-
tori particolari.
Non avendo a disposizione i regolamenti interni degli uffici municipali preuni-
tari, possiamo solo ricostruire a grandi linee le mansioni che l’Ufficio di sanità ere-
ditò dall’antico Magistrato. Indubbiamente esso acquisì tutte le competenze un
tempo affidate ai «commissari urbani» e agli «apparitori», gli impiegati del
Magistrato che perlustravano quotidianamente i quartieri e le vie di Milano accor-
rendo alle chiamate dei cittadini e denunciando ogni contravvenzione ai regola-
menti sanitari.
Come l’antico Magistrato, inoltre, l’Ufficio partecipava alle elezioni degli anzia-
ni delle parrocchie e sorvegliava il loro operato sul territorio; si occupava della poli-
zia mortuaria rilasciando i permessi di sepoltura e di trasporto delle salme, certifi-
cando le cause di morte e vigilando sia sul sistema di esazione delle tasse mortuarie,
sia sulla corretta costruzione dei cimiteri. Nel campo dell’igiene urbana rilasciava le
licenze per lo spurgo dei pozzi neri e multava i contravventori, vigilava sulla salu-
brità delle acque e delle strade, eseguiva i controlli sulle industrie insalubri; si occu-
pava di igiene annonaria in collaborazione con l’ufficio delle vettovaglie e strade,
controllando i cibi e le bevande in commercio ed ispezionando macelli, mercati e
negozi; eseguiva le visite sanitarie in occasione di malattie contagiose o di epizoo-

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zie, emanando provvedimenti di contumacia e di disinfezione e rilasciando ai chi-


rurghi i permessi per le autopsie; faceva catturare ed uccidere i cani rabbiosi; vigi-
lava sulla corretta distanza delle risaie e delle marcite dall’abitato; conferiva premi
ai soccorritori degli annegati; interveniva in caso di rinvenimento di «corpicciuoli
di parti abortivi morti senza battesimo» e si occupava del seppellimento delle car-
casse degli animali abbandonate sulle strade.
Durante il periodo napoleonico la Deputazione comunale di sanità (che con la
Restaurazione diventerà Ufficio di sanità municipale) era composta solo da cinque
impiegati: un «delegato», uno «scrittore», un «portiere», un «perito veterinario con
funzioni anche di inserviente» e un «ammazzacani». Si trattava di personale impie-
gatizio o di servizio, privo quindi di particolari cognizioni medico-scientifiche, che
rimase in carica anche dopo il rientro degli austriaci nel 1814. Le cose cambiarono
però nei decenni successivi, caratterizzati, come vedremo, da una crescente profes-
sionalizzazione del personale sanitario.

3. L’impianto istituzionale del Regno Lombardo-Veneto era costituito, com’è noto,


da due governi residenti rispettivamente a Milano e a Venezia, dai quali dipende-
vano, nelle singole province, le delegazioni provinciali. A livello governativo, l’au-
torità preposta alla vigilanza igienico-sanitaria era il consigliere protomedico, che
sedeva nel Consiglio di Governo, mentre a garantire l’esecuzione delle leggi e dei
decreti governativi nella provincia vi era il medico di delegazione (o medico provin-
ciale), dipendente appunto dalla Delegazione provinciale. Molti degli individui che
nell’Ottocento preunitario furono destinati a questi incarichi, tuttavia, si rivelarono
impreparati o inadeguati al loro ruolo, quando non palesemente corrotti, cosicché
il Comune ebbe sempre difficoltà di rapporti con i referenti sanitari delle autorità
tutorie.
A livello locale, invece, vi erano i medici condotti e i medici municipali, questi
ultimi probabilmente solo nelle maggiori città. Il «probabilmente» è d’obbligo, in
quanto sappiamo che a Milano nel 1817 fu assunto un medico municipale, ma non
vi sono ancora studi che ne confermino la presenza anche negli altri capoluoghi
lombardo-veneti. Sappiamo invece che nelle realtà di provincia vi erano solo i medi-
ci condotti, liberi professionisti stipendiati dai comuni, che a Milano, come abbia-
mo visto, dipendevano dal Pio Istituto di Santa Corona.
All’assunzione del medico municipale nel 1817 fecero seguito nel corso del
periodo preunitario numerose altre assunzioni di «professionisti della salute» che
indubbiamente mutarono il volto prima meramente amministrativo-burocratico
dell’Ufficio di sanità, relegando sempre più in secondo piano il personale impiega-
tizio che lo aveva caratterizzato in età napoleonica.
Nel 1821, infatti, fu assunto un veterinario municipale in sostituzione del vec-
chio perito, un «beccajo», ovvero una sorta di macellaio affatto privo di prepara-
zione scientifica; nel 1829, in seguito all’approvazione del Regolamento per l’intro-
duzione e macellazione nella città di Milano, furono create le quattro nuove figure
dei «veterinari alle porte»; nel 1831 l’Ufficio di sanità fu dotato di un medico sup-
plente, inizialmente destinato a coadiuvare il medico municipale nel rilascio dei cer-

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tificati di sanità per l’espatrio nei luoghi colpiti dal colera e in seguito rimasto ad
affiancare e sostituire il collega in ogni caso di necessità; nel 1848 il Comune assun-
se sei vaccinatori comunali, riuscendo dopo l’ennesima epidemia vaiolosa del 1847
ad assumere direttamente tutta la gestione della vaccinazione, fino a quel momento
affidata ai troppo impegnati chirurghi condotti di Santa Corona. Infine nel 1857 il
medico supplente fu introdotto stabilmente nell’organico municipale come «medi-
co aggiunto» al medico municipale.
Queste nuove assunzioni e promozioni furono tuttavia effettuate dal Comune
solo dopo lunghe trattative e discussioni con il Governo, sempre contrario agli
aumenti di spesa, capillare e asfissiante nei controlli amministrativi e poco incline ad
approvare i progetti del Municipio (Colombo 1996; Mannori 1996). La
Congregazione municipale fu così costretta per tutto il periodo preunitario a dotarsi
del personale necessario al funzionamento dei suoi numerosi uffici mediante assun-
zioni provvisorie, assegni ad personam e gratificazioni straordinarie, tentando così di
mitigare la diffusa insoddisfazione e il senso di precarietà dei funzionari e degli impie-
gati. Grazie a questa politica di compromesso, comunque, il Comune poté assumere
persone sempre più specializzate e ‘professionalizzate’, modernizzando nel comples-
so la propria struttura amministrativa e rendendola, nei limiti del possibile, efficiente.
Il caso dell’Ufficio di sanità, da questo punto di vista, appare emblematico.
Con l’approvazione della nuova pianta degli impiegati del 1820, vediamo infat-
ti l’organico dell’ufficio già accresciuto con l’assunzione del medico municipale,
mentre la qualifica di «delegato», cioè di capo ufficio, si tramutò in quella di uffi-
ciale sanitario. Nell’arco di un decennio, poi, comparvero nella pianta del 1831
anche due cancellisti, un veterinario municipale, un «visitatore dei campi santi» e
due commessi, per un totale di nove impiegati. Rimasero invece fuori dalla pianta
organica, perché assunti ancora in via provvisoria, i quattro nuovi «veterinari alle
porte», che svolgevano comunque il loro lavoro (e continuarono a svolgerlo fino
all’Unità) proprio alle dipendenze dell’Ufficio di sanità.
L’Ufficio aveva inoltre a disposizione dal 1809, per il controllo sul territorio, un
gran numero di commessi di sanità gratuiti che vivevano grazie alle entrate derivan-
ti dal servizio mortuario: si trattava dei vecchi anziani delle parrocchie, che da sem-
pre svolgevano questo ruolo nella città, perlustrando i quartieri e denunciando ogni
contravvenzione ai regolamenti annonari e sanitari. Ad essi erano inoltre affidate
molte pratiche di polizia mortuaria, quali la verifica delle cause di morte, il tra-
sporto e la tumulazione dei cadaveri, la compilazione dell’apposita «modula»
richiesta dal Municipio e l’esazione delle tasse funerarie. Uniche fonti di guadagno
per i commessi di sanità, le tasse risultavano però in molti casi insufficienti e non
adeguate al carico di lavoro, anche perché il Comune continuò ad affidare loro, per
tutto il periodo preunitario, una serie crescente di incarichi straordinari che ne
aggravarono le già precarie condizioni economiche. La presenza capillare nelle par-
rocchie e il servizio gratuito, del resto, facevano degli anziani i funzionari ideali del
Municipio, il quale senza alcun aggravio al bilancio se ne serviva indifferentemente
per ogni mansione che comportasse un rapporto diretto con la popolazione e una
funzione di controllo sul territorio.

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Meno noti, invece, gli incarichi degli impiegati assunti in pianta stabile
nell’Ufficio di sanità, per i quali non ci è giunta alcuna normativa o regolamenta-
zione. In quanto capo dell’Ufficio di sanità, l’ufficiale sanitario svolgeva probabil-
mente le funzioni un tempo attribuite al cancelliere generale dell’antico Magistrato,
ma solo per la parte concernente il circondario urbano e l’applicazione delle nor-
mative emanate a livello governativo. Con ogni probabilità, quindi, egli organizza-
va il lavoro dell’ufficio, distribuiva gli incarichi, stendeva le minute delle ordinanze,
compilava relazioni e rapporti per il Governo e per la Delegazione provinciale, pre-
senziava all’elezione degli anziani delle parrocchie, sovrintendeva allo spurgo dei
cavi sotterranei, firmava le molte licenze di spurgo dei pozzi neri, rilasciava i per-
messi per le inumazioni precoci, compilava le statistiche mortuarie indicando la
causa dei decessi ed era presente tutte le mattine in ufficio. Il suo ruolo cessò nel
1849, quando l’Ufficio di sanità fu accorpato con quello delle Vettovaglie e strade,
dando vita ad un unico Ufficio di pubblica sorveglianza, suddiviso al suo interno in
due rami amministrativi, uno annonario e uno sanitario, affidati ciascuno alla super-
visione di un aggiunto.
Quanto al medico municipale, la sua figura si differenziava notevolmente da
quella di un pubblico funzionario portavoce sul territorio delle direttive di governo
– ruolo incarnato ad esempio dal «medico civico» delle città trentine (Taiani 1995,
105-113)3 o dal «medico condotto» di molti comuni lombardi. Egli, infatti, di fron-
te alle autorità tutorie dello Stato appariva piuttosto come un fedele portavoce delle
istanze municipali, essendo a tutti gli effetti un funzionario del Comune. A diffe-
renza dei medici condotti stipendiati in modo precario e temporaneo dai comuni
minori, egli era inoltre meno soggetto ai rovesci della fortuna e agli arbitrî del nota-
bilato locale, avendo la sicurezza di un impiego stabile a tempo indeterminato e non
avendo il gravoso impegno della condotta.
Il medico milanese era però sottoposto all’autorità di un capo ufficio, l’ufficiale
sanitario, e aveva, almeno nei primi decenni dopo la Restaurazione, un’autonomia
decisionale molto limitata, che lo faceva somigliare più spesso a un burocrate che a
un «professionista della salute». Tra i suoi compiti vi erano infatti le visite agli
ammalati poveri da ricoverare a spese del Comune (cronici, pazzi o «venerei»),
quelle agli impiegati municipali che si assentavano dal lavoro per malattia, l’esame
degli alimenti insalubri sequestrati durante le ispezioni annonarie e, inizialmente,
anche l’esecuzione della vaccinazione. Il suo intervento diveniva invece fondamen-
tale nei casi di malattie epidemiche o contagiose, quando la sua professionalità
poteva emergere con più evidenza, nonostante a Milano la presenza di una folta
schiera di medici formatisi all’Università di Pavia e specializzatisi nelle corsie
dell’Ospedale Maggiore potesse a volte mettere in ombra il suo ruolo nell’organiz-
zazione dei soccorsi.
Si direbbe comunque che intorno agli anni ’40, e forse grazie alla presenza di un
professionista di fama come Giovanni Strambio (succeduto nel 1832 al meno cono-
sciuto Giuseppe Macchi), la figura del medico municipale cominciasse ad acquisi-
re un maggiore prestigio all’interno dell’Ufficio di sanità, mettendo in ombra pro-
gressivamente quella dell’ufficiale sanitario. Giuseppe Canziani, autore nel 1844 di

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un articolo sul «Politecnico» riguardante l’ordinamento sanitario delle province


lombarde, scriveva infatti – in modo alquanto impreciso – «che le amministrazioni
delle principali città sono assistite da un proprio medico municipale, il quale, tutto-
ché stipendiato dal rispettivo Municipio, presta un servizio che può riguardarsi
come un complemento di quello de’ medici regj. Questo medico è capo e direttore
dell’Officio di sanità ed annona, che pure spetta al corpo municipale» (Canziani
1844, 225-226).
Egli dava quindi per scontato che il medico municipale fosse il capo e il diretto-
re dell’Ufficio sanitario, compito invece, come abbiamo visto, assegnato fino al 1849
all’ufficiale di sanità e in seguito al capo dell’Ufficio di pubblica sorveglianza (qui
prefigurato, tra l’altro, in un «Ufficio di sanità e di annona» che nel 1844 ancora
non esisteva). Il suo ruolo veniva inoltre paragonato a quello dei medici regi, cioè
del protomedico e del medico provinciale, come se egli li rappresentasse e ne
svolgesse le funzioni a livello locale. Ma se indubbiamente qualche similitudine vi
poteva essere, non sembra tuttavia che questo legame con lo Stato fosse più forte
di quello con il Municipio, al quale egli doveva la propria nomina e il proprio sti-
pendio.
Come si vedrà più avanti, inoltre, le ripetute epidemie di colera che colpirono la
città a partire dal 1836 resero sempre più necessario affidare al medico, almeno in
questi frangenti, maggiori responsabilità e più ampie facoltà decisionali, rafforzan-
do di fatto il suo ruolo all’interno della struttura municipale e la sua immagine di
fronte all’opinione pubblica. Con queste premesse fu poi possibile dopo l’Unità – e
precisamente con la ristrutturazione amministrativa del 1869 – porre la figura del
medico municipale a capo dell’Ufficio sanitario del Comune (Guida 1869; Bono
1872).

4. Un altro esempio di progressiva ‘professionalizzazione’ delle figure municipali


deputate alla vigilanza igienico-sanitaria fu senza dubbio quello dei veterinari
assunti dal Comune a partire dal 1820, ai quali furono affidate le visite annonarie e
veterinarie prima demandate al personale impiegatizio o ad empirici senza titolo di
studio.
Milano era certamente avvantaggiata, dal punto di vista della disponibilità di
personale qualificato, dalla presenza dell’Istituto veterinario, aperto da Giuseppe II
nel 1787 e successivamente ampliato e rimodernato sul modello francese nell’età
napoleonica, quando vi confluirono anche le scuole di Padova, Ferrara e Modena4.
Un regolamento del 25 maggio 1807 stabiliva che i dipartimenti e le principali città
del Regno dovessero inviare obbligatoriamente uno studente nell’Istituto mante-
nendolo agli studi, in modo da costituire con il tempo un ‘serbatoio’ di personale a
cui attingere per i diversi incarichi.
Fu così che quando il vecchio «beccajo» dell’Ufficio sanitario morì, nell’ottobre
1820, la Congregazione municipale poté sostituirlo con il professionista che aveva
«allevato» nell’Istituto: Domenico Griffini (1785-1853), padre del più celebre
medico e patriota Romolo (1825-1888), che prese servizio ufficialmente nel 1821.
Nonostante questa attenzione per la professione veterinaria, tra le accuse mosse

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più volte al Comune di Milano nel periodo preunitario vi fu quella di non aver rea-
lizzato un macello pubblico, richiesto fin dal 1827 dallo stesso governo austriaco ma
portato a termine solo dopo l’Unità, nel 1863. Indubbiamente il progetto, più volte
discusso dal Consiglio comunale, contrastava con gli interessi dei gestori privati,
proprietari dei tanti macelli disseminati nella città. Ma pur non arrivando a uno
scontro diretto con i privati, il Comune non rinunciò ad attuare una politica di con-
trollo sulla qualità delle carni e sulle modalità di macellazione all’interno delle
mura: proprio alla fine degli anni ’20, infatti, deciso a metter mano al riordino di
tutta la vigilanza annonaria sulle carni, emanò due regolamenti che dettarono le
norme per la vendita, la macellazione e l’introduzione in città di tutti i capi di
bestiame destinati a comparire sulle tavole dei milanesi fino all’Unità.
Il Regolamento pei venditorj di carni del 15 luglio 1828 stabilì una netta separa-
zione tra i macelli e le nuove rivendite di carni, introducendo anche per queste ulti-
me l’obbligo di una licenza municipale di validità triennale, da rilasciarsi dopo una
visita sanitaria ai locali e il consenso degli abitanti vicini. Per ottenere le licenze, gli
esercenti erano chiamati a fornire dati molto precisi sulla loro attività e a indicare
presso quale macello intendessero rifornirsi. In ogni negozio era consentita la ven-
dita di una sola qualità di carne (mastra, soriana, di vitello o di castrato) e le dispo-
sizioni igieniche per la sistemazione dei locali erano numerose e molto dettagliate,
come del resto le norme tendenti ad assicurare la corretta conservazione delle carni
in apposite ghiacciaie da notificare alla Congregazione municipale, la quale mante-
neva così la possibilità di eseguire i controlli sanitari.
Dopo aver disciplinato le modalità di apertura e di gestione delle rivendite, il
Municipio si accinse a regolamentare la macellazione e l’introduzione in città degli
animali, rafforzando soprattutto la vigilanza veterinaria. Pochi mesi dopo l’appro-
vazione del regolamento sui macelli, infatti, il 17 luglio 1829 la Congregazione
municipale emanò un Regolamento per l’introduzione e macellazione nella città di
Milano, nel quale l’obiettivo di tutela della sanità pubblica era evidente fin dal
primo articolo: «Nessuna bestia destinata al macello può essere introdotta in città
se prima non ne è verificato lo stato di salute». A tal fine, da quel momento in poi
l’ingresso degli animali fu consentito soltanto attraverso quattro porte della città
(Vercellina, Lodovica, Tosa e Comasina), in un orario ben determinato. Limitando
i luoghi e i tempi di accesso, infatti, il Comune poteva stringere le maglie della sor-
veglianza, collocandovi i propri funzionari.
Nascevano così i «veterinari alle porte», ad ognuno dei quali era affiancato un
commesso per la compilazione di un registro sul quale si annotavano il macellaio a
cui era destinato l’animale, il giorno, l’ora e la porta d’introduzione, la qualità e le
caratteristiche della bestia, il nome del conducente. Il bollettario era controllato
quotidianamente dalla Congregazione municipale e le bollette rilasciate ai condu-
centi erano valide soltanto per 24 ore.
L’altra importante novità introdotta dal regolamento era quella dei certificati
sanitari: ogni capo di bestiame, infatti, doveva essere visitato preliminarmente dal
veterinario (o perito) del luogo di provenienza e munito di un certificato che anda-
va consegnato ai funzionari municipali alle porte della città. Questi ultimi doveva-

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PA O L A Z O C C H I

no verificare l’effettivo stato di salute degli animali, escludendo «ogni sospetto di


provenienza da mandrie o da località affette da contagio» e impedendone l’ingres-
so in caso di dubbio. Se però l’animale presentava già i sintomi di una malattia con-
tagiosa o proveniva da paesi sicuramente infetti, i veterinari alle porte dovevano
ordinarne l’immediato sequestro e contattare il Comune dei Corpi Santi per con-
cordare le misure profilattiche necessarie ad arginare il pericolo.
Anche l’approvazione nel 1834 di un Regolamento pei mercati della Regia Città
di Milano, ovvero di una nuova normativa che consentiva la vendita delle derrate
solo in alcuni mercati indicati dal Municipio, denota indubbiamente una maggiore
volontà, da parte degli amministratori locali, di rafforzare i controlli in questo set-
tore. Durante l’intero periodo preunitario, tuttavia, i funzionari municipali ebbero
non poche difficoltà a svolgere l’attività di vigilanza annonaria, sia per la notevole
dispersione dei mercati e dei macelli sul territorio urbano, sia per la cronica caren-
za di personale nell’Ufficio delle vettovaglie. Vi era inoltre un problema di scarso
coordinamento tra città e campagna nell’esecuzione delle visite sanitarie al bestia-
me, dovuto al permanere nei comuni minori di un sistema ancora primitivo e spes-
so palesemente corrotto di vigilanza veterinaria.

5. Vi fu però un settore in cui l’organizzazione sanitaria del Comune di Milano


dimostrò tutta la sua forza e tutte le sue potenzialità: quello delle emergenze epide-
miche.
Come dimostra lo studio condotto da Faron sull’anagrafe milanese, nella prima
metà dell’Ottocento Milano non conobbe crisi di mortalità paragonabili a quelle
d’ancien régime (Faron 1997, 338). Anche la crisi del 1836, dovuta all’arrivo del
colera, che pure vide innalzarsi notevolmente il numero dei morti nella città, non
toccò le punte drammatiche di molte altre realtà italiane e lombardo-venete.
Le quattro epidemie di colera che colpirono Milano nell’età preunitaria (1836,
1849, 1854 e 1855) misero indubbiamente alla prova l’amministrazione municipa-
le, costringendo il Comune a potenziare e riorganizzare l’Ufficio sanitario. Sembra
questo, infatti, il dato più interessante della strategia comunale, poiché l’Ufficio di
sanità acquisì progressivamente una funzione centrale e direttiva nel prestare i soc-
corsi.
Nel 1817, quando fu necessario affrontare l’epidemia di tifo petecchiale, l’uffi-
cio partecipò con il suo neoassunto medico municipale a una Commissione riunita
di sanità provinciale e comunale, che risentiva ancora dell’organizzazione centraliz-
zata napoleonica. Durante le successive epidemie coleriche, invece, i ruoli del
Comune e dell’autorità provinciale rimasero nettamente distinti: il Governo con-
cesse infatti al Municipio una maggiore autonomia direttiva, che gli consentì di
assumere nel 1836 tutta l’organizzazione e la gestione degli uffici di soccorso sul ter-
ritorio, di affidarne poi la direzione, nel 1849, ad un unico responsabile (il vicese-
gretario della prima sezione municipale5) e di trasformare contemporaneamente
l’Ufficio di sanità municipale in Ufficio centrale di soccorso, caratterizzato dalla
sempre più numerosa presenza di medici professionisti. Grazie a questi ultimi, che
fin dai primi istanti, pur nell’incertezza generale sull’eziologia e sulla cura della

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L’organizzazione sanitaria del Comune di Milano nel XIX secolo

malattia, optarono per un sistema di sequestri e disinfezioni applicati rigidamente,


fu possibile contenere il contagio entro limiti accettabili.
In base a un decreto del 5 settembre 1806, le spese generali per l’organizzazio-
ne dell’assistenza in occasione di malattie epidemiche e contagiose erano a carico
dello Stato, mentre i comuni, gli enti di beneficenza e la carità privata erano chia-
mati a sostenere tutte le spese particolari come la somministrazione di vitto e medi-
cinali agli ammalati poveri, la retribuzione di medici, infermieri e portantini, la for-
nitura di carri per il trasporto dei morti e così via (Fontana 1846, 117). Queste
disposizioni furono poi ribadite dal Governo austriaco con il regolamento del 16
gennaio 1817 che rimase alla base di tutta la normativa successiva in materia di epi-
demie. Esso cercava soprattutto di rafforzare il coordinamento tra il Comune, la
Delegazione provinciale e il Governo stesso, in modo che tutte le autorità fossero
sempre al corrente dei progressi della malattia e delle decisioni prese a livello loca-
le (Istruzioni 1817).
Ripubblicato il 14 ottobre 1835, all’avvicinarsi del colera al Lombardo-Veneto,
questo regolamento demandava alle autorità comunali l’istituzione e la gestione
degli ospedali «provvisionali» (o «case di soccorso»), cioè legati soltanto all’emer-
genza epidemica, il cui organico doveva comprendere almeno un medico, un chi-
rurgo, un sacerdote e un numero sufficiente di infermieri e di inservienti. Qui si
dovevano collocare i malati contagiosi che non era possibile curare a domicilio sotto
«rigoroso sequestro». Il regolamento prevedeva anche l’obbligo delle disinfezioni e
del trasporto dei cadaveri «direttamente dalla casa al cimitero», per rendere più
rapide le sepolture, puntualizzando infine i compiti delle autorità provinciali, chia-
mate ad esercitare la loro supervisione sugli enti locali e ad impartire tutte le dispo-
sizioni necessarie per la dislocazione dei soccorsi sul territorio.
Il Comune di Milano emanò quindi a sua volta, nell’ottobre 1835, due regola-
menti, uno sanitario e di beneficenza, l’altro per le case di soccorso, illustrando le stra-
tegie di intervento e l’organizzazione delle strutture municipali predisposte in vista
dell’epidemia.
Il primo articolo del Regolamento sanitario e di beneficenza sanciva che «la dire-
zione del servizio sanitario» era demandata esclusivamente alla Congregazione
municipale, che in tempo di emergenza epidemica assumeva dunque un ruolo cen-
trale e fondamentale rispetto alle autorità di governo. La gestione dei soccorsi ai
malati indigenti e alle loro famiglie era invece delegata una Commissione di benefi-
cenza e ai Luoghi pii elemosinieri, sempre però in stretto collegamento con il
Comune.
La città doveva essere divisa in circondari di soccorso, a loro volta suddivisi in
sezioni: ad ogni circondario era assegnato un medico, dipendente dalla
Congregazione municipale e dalla Delegazione provinciale, il quale doveva sorve-
gliare e coordinare l’attività delle sezioni, ispezionare i cadaveri, ordinare le auto-
psie, controllare la qualità degli alimenti in commercio e compilare i prospetti gior-
nalieri degli ammalati, dei ricoverati e dei morti, coadiuvando in caso di bisogno il
medico provinciale e quello municipale.
In ogni sezione era prevista l’apertura di un ufficio di soccorso, affidato ad un

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PA O L A Z O C C H I

medico di sezione dipendente dal medico di circondario, il quale doveva occuparsi


principalmente della cura gratuita dei colerosi poveri, disponendone il trasporto
nelle case di soccorso ove non fosse possibile curarli a domicilio. Egli era inoltre
affiancato da due deputati di sezione dipendenti dalla Commissione di beneficenza
e addetti alla distribuzione dei soccorsi domiciliari. Sia i medici che i deputati ave-
vano ampie possibilità di intervento sul territorio, dove eseguivano continue ispe-
zioni alla ricerca di ammalati abbandonati nelle abitazioni o non notificati al
Comune. Aperti a turno giorno e notte, gli uffici di soccorso si configuravano dun-
que come le prime strutture di riferimento per la popolazione, segno tangibile della
presenza e dell’impegno del Comune sul territorio a garanzia della salute pubblica
(Regolamento sanitario 1835).
Il Regolamento delle case di soccorso conteneva invece precise istruzioni per la
gestione e l’attività di questi ricoveri: esse erano affidate alla direzione di medici-
chirurghi dipendenti dalla Congregazione municipale (poi, come vedremo, dal
direttore dell’Ospedale Maggiore) ai quali era concessa una larghissima autonomia
in merito al ricovero, alla cura e alla dimissione dei pazienti. Dal medico direttore
dipendevano tutti coloro che lavoravano nella casa di soccorso (e vi risiedevano a
tempo pieno), ovvero – con alcune modifiche rispetto ai progetti iniziali – due
medici «secondari» o «aggiunti» presenti sia di giorno che di notte; un sacerdote;
due capi infermieri con un sufficiente numero di infermieri (almeno uno ogni dieci
malati); un economo, un portinaio registrante, due inservienti e quattro portantini.
Particolare attenzione era poi riservata alla stesura, da parte dei medici, del
movimento giornaliero dei ricoverati, che consentiva al Comune non solo di con-
trollare lo sviluppo dell’epidemia preventivando le spese necessarie, ma anche di
aggiornare i registri anagrafici e di informare le famiglie degli ammalati. Ai medici
era richiesta inoltre la compilazione di «registri per la storia nosologica di ciascun
malato», ma solo «per quanto sarà compatibile colla urgenza del servizio, od alme-
no coi cenni più essenziali» (Regolamento case 1835): ciò denota indubbiamente,
negli amministratori municipali e nelle autorità di governo, una sostanziale consa-
pevolezza delle priorità da seguire durante le emergenze epidemiche e una piena
fiducia nelle capacità organizzative dei direttori.
Il governo austriaco, dal canto suo, si limitò a rinnovare le disposizioni sanitarie
già esistenti contro la peste e le altre malattie contagiose, senza contemplare la chiu-
sura dei confini con rigidi cordoni sanitari, onde evitare la paralisi dei commerci.
Non lesinò però i finanziamenti al Comune, perché di fronte al colera mutava radi-
calmente l’ordine delle priorità: una larghezza insolita e dovuta all’emergenza, che
permise però agli amministratori di sfruttare al massimo le potenzialità della mac-
china municipale.
Preparata dunque con anticipo la strategia difensiva, il Comune si trovò pronto
ad affrontare l’epidemia quando il colera irruppe in Lombardia dal Piemonte, attra-
verso il Veneto, nella primavera del 1836. Il primo caso si verificò intorno alla metà
di aprile, ma la malattia divenne epidemica solo verso la fine di giugno6. In seguito
alla denuncia del primo caso, giunse in città il medico provinciale di Venezia,
Giuseppe Vallenzasca, per illustrare ai medici milanesi e alle autorità locali i meto-

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L’organizzazione sanitaria del Comune di Milano nel XIX secolo

di di cura e profilassi recentemente sperimentati nel capoluogo veneto, che consi-


stevano principalmente nell’affidare la gestione diretta delle case di soccorso al
direttore dell’ospedale più importante della città, lasciando al Comune solo l’onere
delle spese.
Seguendo questo suggerimento, dunque, il Comune di Milano da quel momen-
to mantenne esclusivamente la gestione degli uffici di soccorso sul territorio,
lasciando all’Ospedale Maggiore quella degli ospedali provvisionali.
Fin dalla prima epidemia, inoltre, alcuni milanesi di conosciuta probità e retti-
tudine, per la maggior parte nobili o ricchi professionisti e commercianti, si presta-
rono ad assumere gratuitamente l’incarico di «deputati di sezione», per «rilevare i
bisogni dei poveri» e garantire che fossero adeguatamente assistiti (Gazzetta 1836,
789-790). Si instaurava dunque, con l’arrivo del colera, non solo una piena colla-
borazione e suddivisione dei compiti tra la Municipalità e l’Ospedale Maggiore, in
una sorta di dualismo direttivo che in quei frangenti funzionò senza problemi, ma
anche una partecipazione attiva della società civile, in un clima di tensione che tut-
tavia, in città, non sfociò mai in vere e proprie scene di panico collettivo.
L’epidemia del 1836 durò tre lunghi mesi, da giugno a settembre, e colpì tra l’al-
tro, in modo impressionante, l’Ospizio della Senavra e il Pio Albergo Trivulzio,
dove lo «stivamento dei ricoverati» e il «sudiciume» avevano creato un terreno
molto fertile alla sua diffusione (Clerici 1837, 431 e 485). Ma su una popolazione di
156.617 abitanti (tra «stabili» e «mobili»), la città contò nel complesso solo 1.456
contagiati (0,93%) e 992 morti (0,63%), perdendo in sostanza circa 6 persone su
mille. Rispetto ai 4.000 casi di Genova, ai circa 3.000 di Brescia e alle cifre cata-
strofiche di Napoli (30.000) e di Palermo (26.000), Milano parve dunque fronteg-
giare bene il contagio, al contrario dei Corpi Santi, che su 25.768 abitanti ne vide-
ro ammalarsi 758 (3% circa) e morire 485 (1,9% circa)7.
Non fu però grazie ad un ridotto afflusso di forestieri, come accadde a Pavia (Pasi
1998, 84), che il capoluogo lombardo poté ottenere questo risultato: i fattori che pro-
babilmente lo favorirono, accomunandolo alla realtà pavese, furono la mancanza di
un acquedotto, facile tramite alla diffusione del vibrione nei quartieri della città e l’ef-
ficacia dell’azione municipale, che indubbiamente fu tempestiva nella predisposizio-
ne dei soccorsi e nell’isolamento degli infetti. Nel gennaio 1848, infatti, quando la
«Gazzetta medica lombarda» annunciò che quasi tutte le città inglesi si preparavano
ad una nuova ondata epidemica, istituendo «commissioni di architetti e di ingegneri»
che visitassero le case e obbligassero i proprietari a «recar riparo a tutto quanto può
rendere le abitazioni insalubri e nocive», dovette anche constatare che nel 1836 il
Municipio di Milano aveva già attivato «una simile misura di precauzione e filantro-
pia», ottenendo risultati «quasi oltre l’aspettativa» (Gazzetta 1848).
La strategia comunale si basava poi anche su altri fattori, sintetizzabili in cinque
punti:
1) consapevolezza del pericolo e stanziamento in bilancio, con notevole anticipo,
delle somme da utilizzare in caso di epidemia (già nel settembre 1831, alle prime
notizie giunte dai paesi europei colpiti dal colera, il Consiglio comunale si era
attivato in questo senso);

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PA O L A Z O C C H I

2) invio preventivo nei paesi colpiti (in particolare in Piemonte e a Genova nel
1835), a spese del Municipio, di alcuni medici che studiassero la malattia e rima-
nessero poi a disposizione del Comune per assumere incarichi direttivi e di
responsabilità nelle case e negli uffici di soccorso;
3) ampia generosità nella gratificazione economica dei medici e del personale di
soccorso; assimilazione del loro ruolo a quello di veri e propri «eroi» votati alla
difesa della salute pubblica;
4) snellimento delle pratiche burocratiche relative alle fedi di miserabilità dei biso-
gnosi e accettazione nelle case di soccorso di tutti i colerosi senza distinzione;
5) massimo rigore nell’isolamento dei malati e nell’esecuzione dei sequestri e delle
disinfezioni.
Questa strategia si dimostrò sostanzialmente valida in tutte le epidemie, anche
se il Comune introdusse nel tempo alcuni correttivi: nel 18498 «la soprintendenza
generale» per il colera fu affidata ad un’unica persona, il vicesegretario della prima
sezione municipale (che già nel 1836 era stato tra i più impegnati e lautamente retri-
buiti), mentre nel Palazzo del Broletto, alle dipendenze immediate del Municipio,
fu istituito un Ufficio centrale di soccorso. Composto da un medico direttore (il
medico municipale), dal medico aggiunto, dall’ufficiale di sanità e da due ama-
nuensi, esso doveva prendere tutte le decisioni operative in merito all’epidemia.
Questo ufficio si identificava dunque in sostanza con il nucleo centrale dell’Ufficio
di sanità del Comune e aveva a disposizione lettighieri, infermieri, addetti agli spur-
ghi e guardie per i sequestri, oltre ad una carrozza sempre pronta per i sopralluo-
ghi e le chiamate urgenti.
Grande collaborazione le autorità municipali ottennero anche, nel 1849, dal
clero, poiché durante l’emergenza epidemica la popolazione fu dispensata dall’ob-
bligo del digiuno e autorizzata a cibarsi di carne nei giorni di magro, mentre fu sol-
lecitata dal pulpito a curare l’igiene personale e delle abitazioni, ad evitare cibi indi-
gesti e a non lasciarsi suggestionare dai «volgari pregiudizi» sul colera fidandosi dei
medici e dei provvedimenti sanitari del Comune. I cittadini milanesi accettarono
infatti in modo abbastanza disciplinato le disinfezioni e i provvedimenti di contu-
macia, mentre qualche resistenza si manifestò tra gli abitanti del circondario ester-
no, i quali non si abbandonarono mai, tuttavia, alle scene di panico collettivo
denunciate in altre località.
Questa seconda epidemia, di minore intensità rispetto alla prima, colpì preva-
lentemente i grandi istituti ospedalieri e di ricovero della città, risparmiando la mag-
gior parte delle abitazioni private: su una popolazione di 172.327 abitanti, infatti,
Milano contò solo 284 contagiati (poco più dell’1,6 per mille) e 206 morti, dei quali
soltanto 70 si ammalarono nelle proprie case, mentre la maggior parte fu contagia-
ta all’interno di ospizi e ospedali. Questo spiega anche l’alta incidenza della morta-
lità rispetto agli ammalati, trattandosi di soggetti già indeboliti dalla vecchiaia e da
altre malattie preesistenti. Ancora una volta, inoltre, i Corpi Santi ebbero una per-
centuale maggiore di colerosi rispetto alla città (72 contagiati e 52 morti su una
popolazione di 32.830 persone, ovvero un malato ogni 456 abitanti).
Durante la successiva ondata epidemica del 1854 l’Ufficio centrale di soccorso

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L’organizzazione sanitaria del Comune di Milano nel XIX secolo

(o Commissione sanitaria) del Comune fu caratterizzato da una presenza più mas-


siccia ed esclusiva di professionisti: se infatti nel 1849 esso comprendeva ancora
l’ufficiale di sanità e due amanuensi, ora gli impiegati erano scomparsi, sostituiti da
altri due medici, uno dei quali era quel Luigi Bono che prenderà poi le redini
dell’Ufficio sanitario municipale dopo l’Unità.
Anche la Direzione dell’Ospedale Maggiore si dotò in questo periodo di un
nuovo organismo: l’Ufficio dell’Ispettorato per il colera, composto da due medici,
con l’incarico di organizzare i soccorsi all’interno del nosocomio e mantenere il
coordinamento con il Municipio.
Nel complesso, anche nel 1854 l’epidemia si mantenne entro limiti contenuti: su
una popolazione di circa 180.000 abitanti, infatti, si ebbero 371 colerosi e 279 morti,
nonostante la città fosse «da ogni lato circondata» dal morbo (Relazione 1855). A
Torino, per contro, i contagiati furono 2.476 e i morti 1.402 (Roccia 2000, 450).
Scomparso da Milano nel gennaio 1855, il colera continuò però a serpeggiare
nei mesi successivi in Toscana, nello Stato Pontificio e in alcune zone del Veneto,
finché in primavera «divampò furibondo» in tutto il territorio veneto. Gli operai
lombardi impegnati nella costruzione delle strade ferrate fuggirono allora precipi-
tosamente, recando in patria i germi della malattia, seguiti dai numerosi negozianti
che si erano recati in quella zona ad acquistare i bozzoli per le loro filande e dai mol-
tissimi militari che rientrando dalla guerra di Crimea attraversavano «lentamente
larghi tratti di paese fieramente infestati dall’indica malattia» (Relazione 1856, 5).
Il morbo raggiunse quindi nuovamente Milano in giugno, ma divenne epidemi-
co solo intorno alla metà di luglio. L’organizzazione comunale non diede comunque
segni di cedimento e quando l’epidemia cominciò ad intensificarsi fu aggregato al
personale dell’Ufficio centrale di soccorso un quinto medico. Il problema principa-
le che si dovette affrontare in questo caso fu invece la cronica inefficienza delle
amministrazioni dei comuni minori, con le quali l’Ufficio centrale di soccorso non
riuscì ad instaurare quel rapporto di collaborazione che avrebbe permesso di cir-
coscrivere il contagio facendo applicare più rigorosamente le misure di isolamento
e disinfezione. Inoltre la minore familiarità delle popolazioni rurali con i precetti
dell’igiene e della pulizia, nonché la maggiore diffusione in quelle contrade dei pre-
giudizi e delle paure legati al colera non fecero altro che ostacolare gli interventi
sanitari, rendendo nel complesso le campagne milanesi veri e propri focolai di
germi, da cui la città, cinta d’assedio, dovette strenuamente difendersi.
Milano riuscì comunque, ancora una volta, a contenere i danni: alla fine dell’e-
pidemia si contarono 1.403 contagiati (0,74% della popolazione) e 1.024 morti
(0,54%), ma se le cifre assolute si avvicinarono a quelle del 1836 (1.456 casi e 992
morti), in quei vent’anni gli abitanti della città erano cresciuti da 156.000 a 188.000
circa.
Tutti furono quindi nuovamente concordi nell’apprezzare l’opera del Comune e
del personale medico («eletta schiera d’uomini nel vigor dell’età», dotata di «soda
dottrina», di «sviscerata devozione al pubblico bene» e amante della scienza e dei
suoi progressi), ma certo questa volta il colera lasciò un segno più visibile nelle
finanze municipali, essendo costato al Comune ben 471.675 lire (ASCM, b. 49, fasc.
923).

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PA O L A Z O C C H I

Tab. 1. Contagiati e morti per colera a Milano durante le quattro epidemie preunitarie (1836-
1855)9
Epidemia Popolazione Contagiati % Morti %

1836 156.617 1456 0,92 992 0,63


1849 172.327 284 0,16 206 0,11
1854 178.000 371 0,20 279 0,15
1855 188.272 1403 0,74 1024 0,54

6. Proteggere la città dai contagi fu dunque uno dei compiti che il Comune svolse
o tentò di svolgere con maggiore responsabilità nei decenni qui considerati. Ma se
nel complesso la sua organizzazione resse egregiamente ed anzi si consolidò in que-
sti frangenti, in altre circostanze ebbe invece difficoltà ad opporsi a una politica evi-
dentemente miope delle autorità di governo.
Nel caso ad esempio della profilassi antivaiolosa, la gratuità del servizio imposta
dal Governo ai medici dell’Ospedale Maggiore e poi ai chirurghi di Santa Corona
provocò ritardi e inadempienze proprio in quella Milano che vantava i primi espe-
rimenti e le prime campagne di vaccinazione in età napoleonica. Anche se il
Comune riuscì a riappropriarsi gradualmente delle competenze che gli erano state
sottratte con il regolamento governativo del 182110, fino ad assumere, nel 1848, sei
vaccinatori comunali e riacquistare così il completo controllo della profilassi, le epi-
demie di vaiolo continuarono fin dopo l’Unità a mietere molte vittime, costringen-
do l’Ufficio sanitario a ordinare sempre più spesso la rivaccinazione periodica della
popolazione.
Ben poco si può rilevare di innovativo, nel periodo preunitario, anche in quasi
tutti i settori riguardanti l’igiene urbana, nei quali l’amministrazione municipale
milanese continuò ad oscillare tra arretratezza e modernità. Il Comune appariva
infatti ancora in difficoltà nell’assumere definitivamente quella funzione di garante
della salute collettiva che gli competeva già a partire dalle riforme giuseppine e nel
vincere le numerose resistenze frapposte dagli interessi privati. Solo dopo l’Unità la
situazione cominciò a mutare visibilmente, quando la libertà dal controllo soffo-
cante dell’Austria e le nuove politiche sanitarie promosse dagli igienisti consentiro-
no al Comune di realizzare molti dei progetti che prima del 1859 erano stati più
volte presentati senza successo.
Alcuni studi esistenti sul periodo postunitario restituiscono un quadro a tinte
fosche dell’inquinamento della città e delle condizioni di vita dei milanesi nella secon-
da metà del secolo, caratterizzata dal massiccio inurbamento e dall’avvio dell’indu-
strializzazione (Panzeri 1978; Faccini 1984, 730-731). Se tuttavia questo peggioramen-
to indubbiamente vi fu, certo non fu tale da incidere sulla mortalità complessiva dei
milanesi, né fu così evidente da stravolgere le condizioni igieniche della città, che rima-
sero complessivamente migliori di quelle di altre realtà urbane italiane ed europee.
Le molte realizzazioni e gli interventi urbanistici della seconda metà
dell’Ottocento, infatti, uniti alla campagna igienista di fine secolo e alle scoperte nel
campo della batteriologia riuscirono nel giro di un ventennio (1884-1904) a far

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L’organizzazione sanitaria del Comune di Milano nel XIX secolo

scendere notevolmente la mortalità dovuta alle malattie infettive, che passò dal 6,19
al 2,76 per mille, mentre la mortalità infantile scese anch’essa dall’8,60 al 5,31 per
mille. Già nel 1881, inoltre, il medico municipale Felice Dell’Acqua assicurava che
da diversi anni la mortalità complessiva dei milanesi appariva in diminuzione e che
la città si trovava «in discrete condizioni così di benessere e di agiatezza in genera-
le, come di igiene in particolare» (Dell’Acqua 1881, 8-9).
Tra le prime realizzazioni che la nuova Giunta comunale portò a termine dopo
l’Unità vi furono l’istituzione di un sifilicomio nel 1861, l’apertura tra il 1862 e il
1872 di tre mercati coperti per la vendita dei prodotti alimentari e soprattutto la
costruzione del macello pubblico nel 1863. Qui si concentrarono tutte le attività di
macellazione della città e i controlli sanitari al bestiame, rendendo quindi superflua
la presenza dei quattro veterinari alle porte. Essi furono assunti nella nuova strut-
tura, il cui esercizio fu appaltato a una apposita società, mentre la loro qualifica
scomparve dalla pianta organica del Comune (Guida 1864, Grottanelli 1984).
L’altra grande opera pubblica, più volte progettata e mai realizzata nei decenni
preunitari, fu il Cimitero monumentale, che fu inaugurato nel 1867 ed ospitò, a par-
tire dal 1876, anche i primi esperimenti di cremazione dei cadaveri.
Quanto alle grandi infrastrutture urbane, i primi lavori di costruzione di una
moderna rete fognaria cominciarono nel 1868 nel centro della città e si conclusero
poi in tutta la cerchia urbana nei primi decenni del Novecento. In seguito all’ap-
provazione nel 1888-89 del grande piano regolatore dell’ingegnere Cesare Beruto,
negli anni ’90 si impresse infatti un’accelerazione a tutti i lavori di risanamento,
dando il via anche alla costruzione dell’acquedotto comunale, realizzato tra il 1889
e il primo decennio del XX secolo (Morandi 1992, 201-205).
Per adeguarsi ai progressi della scienza, inoltre, il Comune aprì nel 1884 il primo
Laboratorio chimico municipale, seguito nel 1893 dal Laboratorio batteriologico,
che resero più efficaci i controlli annonari e igienico-sanitari (Beltramini 1964, 10).
La lotta alle malattie infettive portò invece nel 1888 – anno di promulgazione
della legge sanitaria – all’avvio dei lavori di costruzione dell’Ospedale dei contagio-
si di Dergano (inaugurato nel 1896), dove fu installato anche uno stabilimento di
disinfezione con annessa lavanderia comunale (Ferrari 1904; Deiana 2005-2006).
Continuò però a mietere un gran numero di vittime a Milano, come in altre città
industriali, la tubercolosi, contro la quale il Comune impiegò molte risorse, coordi-
nandosi con la rete assistenziale cittadina in una vera e propria gara di iniziative
profilattiche, terapeutiche e di propaganda igienica (Cosmacini, De Filippis,
Sanseverino 2004).
Per quanto riguarda i mutamenti avvenuti all’interno dell’Ufficio di sanità, inve-
ce, non esistono ancora studi specifici sull’argomento, ma sappiamo che la promul-
gazione della legge sanitaria del 1865 comportò un mutamento di rotta rispetto al
progetto di riforma in corso di studio dal 1861. Quest’ultimo mirava infatti ad affi-
dare all’Ufficio sanitario un ruolo molto più importante ed autonomo rispetto al
passato. In particolare, riconoscendo l’importanza del medico municipale all’inter-
no della struttura, prevedeva per lui la nomina a capo dell’ufficio e un’ampia fun-
zione consultiva in tutte le questioni riguardanti l’igiene e la sanità cittadine.

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PA O L A Z O C C H I

La legge del 1865 costrinse invece il Comune ad uniformarsi agli altri comuni
del Regno e a nominare una Commissione permanente di sanità municipale presie-
duta dal sindaco e composta da otto membri tra cui medici, consiglieri comunali e
un ingegnere. La Commissione aveva le seguenti attribuzioni:
1) rimozione di ogni causa di insalubrità dal territorio comunale;
2) sorveglianza sull’esatto adempimento dei regolamenti di polizia urbana e rurale
adottati dal Municipio;
3) sorveglianza sulla salubrità e sulle condizioni igieniche degli ospedali, delle
scuole, degli asili d’infanzia, degli stabilimenti di beneficenza, degli orfanotrofi,
ecc.;
4) sorveglianza sull’esatta osservanza delle prescrizioni igieniche relative alle inu-
mazioni nei cimiteri comunali.
La successiva riforma approvata dal Consiglio comunale nel 1869 decretava in
modo definitivo questi cambiamenti e se poneva ufficialmente a capo dell’Ufficio
sanitario il medico, subordinava però il suo operato alle direttive della
Commissione di sanità, di cui era segretario. Tutto il settore riguardante la polizia
mortuaria, inoltre, fu scorporato dall’Ufficio di sanità e delegato ad un apposito
Ufficio funerario, nel quale trovarono posto, fra gli altri, anche i vecchi commessi
di sanità (ex anziani delle parrocchie), ora assunti direttamente dal Comune con la
qualifica di «ufficiali sanitari» (Atti 1869, seduta 8 gennaio).
Con l’aggregazione alla città, nel 1874, del circondario esterno dei Corpi Santi,
il numero degli abitanti conobbe una forte impennata, passando dai 200.000 circa
del 1871 ai 300.000 circa del 1879. L’Ufficio di sanità di Milano subì indubbiamen-
te un sovraccarico di lavoro in questo periodo e dovette assumere direttamente
anche il servizio medico-ostetrico delle condotte del circondario, che non dipende-
vano dall’Istituto di Santa Corona ma erano finanziate dal Comune dei Corpi Santi
(Guida 1876). Se la politica igienico-sanitaria della municipalità milanese poteva
ora estendersi in modo più uniforme anche al di fuori del ristretto confine delle
mura, le ampliate sfere di competenza contribuirono anche a rallentare notevol-
mente l’approvazione del regolamento d’igiene, in corso di studio dal 1865 (Boriani
1992). Solo con l’arrivo a Milano nel 1896 del nuovo medico capo Guido Bordoni
Uffreduzzi, proveniente dall’Ufficio d’igiene di Torino, il Regolamento poté essere
finalmente completato ed entrò in vigore il 1° gennaio 1902 (Forti Messina 2006).

1 Si vedano ad esempio Grottanelli 1980; effetti un funzionario statale, una realizzazione


Pogliano 1984; Faccini 1984; Piccinato 1989; di quel disegno perseguito nella seconda metà
Pancino 1989; Alaimo 1990; Boriani 1992; del Settecento dai grandi teorici della «polizia
Giovannini 1996; Nonnis Vigilante 2001; medica» (Gerard van Swieten, Samuel August
Colombo 2005. Tissot, Johann Peter Frank) che avevano inteso
2 D’ora in poi, salvo diversa indicazione, resta dotare lo Stato di un «esercito» di medici che
sottointeso il rimando a questo volume per agissero sul territorio individuando le cause di
eventuali approfondimenti e per una più detta- malattie ed epizoozie e proponendone i rimedi.
gliata rassegna delle fonti bibliografiche e 4 Sulle vicende dell’Istituto veterinario di

archivistiche. Milano cfr. Arvedi e Minoia 1844; [Canziani]


3 Il medico civico trentino risultava a tutti gli 1844; Paltrinieri 1947; Armocida e Cozzi 1992.

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L’organizzazione sanitaria del Comune di Milano nel XIX secolo

5 Per dispiegare la propria attività, il Comune to solo come indicativo, data l’approssimazio-
di Milano era organizzato in tre «sezioni» ne delle statistiche coeve circa la popolazione
destinate ad occuparsi di determinati settori di Milano. In quest’ultima è comunque com-
amministrativi. Ogni sezione era presieduta da presa sia la popolazione mobile che quella resi-
una coppia di assessori e affidata a un vicese- dente in città.
gretario municipale, che operava sotto la guida 10 Il regolamento governativo del 13 novembre
e la supervisione dei due assessori e del segre- 1821, adattando la regolamentazione napoleo-
tario municipale (Verga 1914, XLIV-XLV). Sia nica ed uniformandola alle norme già in vigore
l’igiene annonaria che la sanità pubblica erano dal 1817 negli altri territori della monarchia,
competenza della prima sezione municipale. avocò al Governo, e in particolare al consiglie-
6 Sul colera del 1836 cfr. Calderini 1837;
re protomedico, la direzione superiore della
Gazzetta 1837; Radice 1986; AOM-2, b. 299;
vaccinazione. La nuova normativa prevedeva la
Clerici 1837; ASCM, b. 32, fasc. 532 e b. 33,
suddivisione della città in circondari di vacci-
fasc. 547.
7 Per i dati relativi all’epidemia milanese cfr. nazione corrispondenti a quelli delle parroc-
Relazione 1856, 47; Ferrario 1855, 16. Sulle chie, a ciascuno dei quali la Delegazione pro-
altre realtà italiane cfr. Della Peruta 1992, 36; vinciale doveva destinare un vaccinatore, sce-
Onger 1993, 131; Forti Messina 1979, 109. gliendolo preferibilmente tra i medici e i chi-
8 Sul colera del 1849 cfr. Strambio, Ambrosoli rurghi condotti o stipendiati dagli istituti di
1849; Dubini 1849 e 1850, nonché le varie pubblica beneficenza, i quali dovevano pre-
Notizie del cholera, apparse in quei mesi sulla starsi gratuitamente a questo servizio (Rego-
«Gazzetta medica lombarda». lamento a fine di provvedere alla più regolare
9 Il calcolo della mortalità complessiva rispetto esecuzione della vaccinazione, in Gride 1850,
al numero degli abitanti deve essere considera- 70-76).

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