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La Divina Commedia

PARADISO (3 cantica)

I canto

Argomento del Canto


Proemio della Cantica. Dante e Beatrice ascendono al Paradiso. Dubbi di Dante e spiegazione di Beatrice circa l'ordine dell'Universo.
È mezzogiorno di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.

Proemio della Cantica (1-36)


Dante dichiara di essere stato nel Cielo del Paradiso (l'Empireo) che riceve maggiormente la luce divina che si diffonde nell'Universo: lì ha visto cose
difficili da riferire a parole, poiché l'intelletto umano non riesce a ricordare ciò che vede quando penetra in Dio. Il poeta tenterà di descrivere il
regno santo nella III Cantica e per questo invoca l'assistenza di Apollo, in quanto l'aiuto delle Muse non gli è più sufficiente. Il dio pagano dovrà
ispirarlo col suo canto, come fece quando vinse il satiro Marsia, tanto da permettergli di affrontare l'alta materia del Paradiso e meritare così l'alloro
poetico. Apollo dovrebbe essere lieto che qualcuno desideri esserne incoronato, poiché ciò accade raramente nei tempi moderni; Dante si augura
che il suo esempio sia seguito da altri poeti dopo di lui.

Ascesa di Dante e Beatrice (37-63)


Il sole sorge sull'orizzonte da diversi punti, ma quello da cui sorge quando è l'equinozio di primavera si trova in congiunzione con la costellazione
dell'Ariete, quindi i raggi del sole allora sono più benefici per il mondo. Quel punto dell'orizzonte divide l'emisfero nord, in cui è già notte, da quello
sud, in cui è giorno pieno: in questo momento Dante vede Beatrice rivolta a sinistra e intenta a fissare il sole come farebbe un'aquila. L'atto della
donna induce Dante a imitarla, proprio come un raggio di sole riflesso si leva con lo stesso angolo del primo raggio, per cui il poeta fissa il sole più di
quanto farebbe sulla Terra. Nell'Eden le facoltà umane sono accresciute e Dante può vedere la luce aumentare tutt'intorno, come se fosse spuntato
un secondo sole. Dante dichiara di essere stato nel Cielo del Paradiso (l'Empireo) che riceve maggiormente la luce divina che si diffonde
nell'Universo: lì ha visto cose difficili da riferire a parole, poiché l'intelletto umano non riesce a ricordare ciò che vede quando penetra in Dio. Il
poeta tenterà di descrivere il regno santo nella III Cantica e per questo invoca l'assistenza di Apollo, in quanto l'aiuto delle Muse non gli è più
sufficiente. Il dio pagano dovrà ispirarlo col suo canto, come fece quando vinse il satiro Marsia, tanto da permettergli di affrontare l'alta materia del
Paradiso e meritare così l'alloro poetico. Apollo dovrebbe essere lieto che qualcuno desideri esserne incoronato, poiché ciò accade raramente nei
tempi moderni; Dante si augura che il suo esempio sia seguito da altri poeti dopo di lui.

Ascesa di Dante e Beatrice (37-63)


Il sole sorge sull'orizzonte da diversi punti, ma quello da cui sorge quando è l'equinozio di primavera si trova in congiunzione con la costellazione
dell'Ariete, quindi i raggi del sole allora sono più benefici per il mondo. Quel punto dell'orizzonte divide l'emisfero nord, in cui è già notte, da quello
sud, in cui è giorno pieno: in questo momento Dante vede Beatrice rivolta a sinistra e intenta a fissare il sole come farebbe un'aquila. L'atto della
donna induce Dante a imitarla, proprio come un raggio di sole riflesso si leva con lo stesso angolo del primo raggio, per cui il poeta fissa il sole più di
quanto farebbe sulla Terra. Nell'Eden le facoltà umane sono accresciute e Dante può vedere la luce aumentare tutt'intorno, come se fosse spuntato
un secondo sole.

Trasumanazione di Dante (64-81)

Dante distoglie lo sguardo dal sole e osserva Beatrice, che a sua volta fissa il Cielo. Il poeta si perde a tal punto nel suo aspetto che subisce una
trasformazione simile a quella di Glauco quando divenne una creatura marina: è impossibile descrivere a parole l'andare oltre alla natura umana,
perciò il lettore dovrà accontentarsi dell'esempio mitologico e sperare di averne esperienza diretta in Paradiso. Dante non sa dire se, in questo
momento, sia ancora in possesso del suo corpo mortale o sia soltanto anima, ma di certo fissa il suo sguardo nei Cieli che ruotano con una melodia
armoniosa e gli sembra che la luce del sole abbia acceso in modo straordinario tutto lo spazio circostante.

Primo dubbio di Dante e spiegazione di Beatrice (82-93)


Nel poeta si accende un fortissimo desiderio di conoscere l'origine del suono e della luce, per cui Beatrice, che legge nella sua mente ogni pensiero,
si rivolge subito a lui per placare il suo animo. La donna spiega che Dante immagina cose errate, poiché non si trova più in Terra come ancora crede:
egli sta salendo in Paradiso e nessuna folgore, cadendo dalla sfera del fuoco in basso, fu tanto rapida quanto lui che torna al luogo che gli è proprio
(il Paradiso).

Secondo dubbio di Dante: l'ordine dell'Universo (94-142)

Beatrice ha risolto il primo dubbio di Dante, ma ora il poeta è tormentato da un altro e chiede alla donna come sia possibile che lui, dotato di un
corpo mortale, stia salendo oltre l'aria e il fuoco. Beatrice trae un profondo sospiro, quindi guarda Dante come farebbe una madre col figlio che dice
cose insensate e spiega che tutte le cose dell'Universo sono ordinate tra loro, così da formare un tutto armonico. In questo ordine le creature
razionali (uomini e angeli) scorgono l'impronta di Dio, che è il fine cui tendono tutte le cose. Tutte le creature, infatti, sono inclini verso Dio in base
alla loro natura e tendono a fini diversi per diverse strade, secondo l'impulso che è dato loro. Questo fa sì che il fuoco salga verso l'alto, che si
muova il cuore degli esseri irrazionali, che la Terra stia coesa in se stessa; tale condizione è comune alle creature irrazionali e a quelle dotate di
intelletto. Dio risiede nell'Empireo come vuole la Provvidenza, e Dante e Beatrice si dirigono lì in quanto il loro istinto naturale li spinge verso il loro
principio, che è Dio. È pur vero, spiega Beatrice, che talvolta la creatura non asseconda questo impulso e devia dal suo corso naturale in virtù del
suo libero arbitrio; così l'uomo talvolta si piega verso i beni terreni e non verso il Cielo, come una saetta tende verso il basso e non verso l'alto.
Dante, se riflette bene, non deve più stupirsi della sua ascesa proprio come di un fiume che scorre dalla montagna a valle; dovrebbe stupirsi del
contrario, se cioè non salisse pur privo di impedimenti, come un fuoco che sulla Terra restasse fermo. Alla fine delle sue parole, Beatrice torna a
fissare il Cielo.

Interpretazione complessiva

Il Canto si apre con il proemio alla III Cantica, che si distende per ben 36 versi e risulta così di ampiezza tripla rispetto al proemio del Purgatorio (I, 1-
12) e addirittura quadrupla rispetto a quello dell'Inferno (II, 1-9): la maggiore ampiezza e solennità si spiega con l'accresciuta importanza della
materia trattata, dal momento che il poeta si accinge a descrivere il regno santo come mai nessuno prima di lui aveva fatto e dovrà misurarsi con la
difficoltà di riferire cose difficili anche solo da ricordare, anticipando il tema della visione inesprimibile che tanta parte avrà nel Paradiso. Ciò spiega
anche perché Dante debba invocare l'assistenza di Apollo oltre che delle Muse, chiedendo al dio pagano (che naturalmente è personificazione
dell'ispirazione divina) di aiutarlo nell'ardua impresa e consentirgli di cingere l'agognato alloro poetico: Apollo dovrà ispirarlo con lo stesso canto
con cui vinse il satiro Marsia che lo aveva sfidato, in maniera analoga a Calliope che aveva sconfitto le Pieridi (Purg., I, 9-12) e sottolineando il fatto
che la poesia di Dante dovrà essere ispirata da Dio e non un folle tentativo di gareggiare con la divinità nella rappresentazione di ciò che supera i
limiti umani (ciò sarà ribadito anche nell'esordio del Canto seguente, vv. 7-9). Dante ribadisce anche il fatto che pochi, ormai, desiderano l'alloro,
per cui la sua ambizione dovrebbe rallegrare Apollo ed essere di stimolo ad altri poeti dopo di lui perché seguano il suo esempio, nel che c'è forse
una fin troppo modesta excusatio propter infirmitatem, dal momento che più volte nella Cantica egli esprimerà l'orgoglio di essere il primo a
percorrere questa strada poetica.
Dopo l'ampia e complessa descrizione astronomica che indica la stagione primaverile e l'ora del mezzogiorno (è questa l'interpretazione più ovvia,
mentre è improbabile che il poeta intenda l'alba), Dante vede Beatrice fissare il sole e imita il suo gesto, sperimentando l'accresciuto acume dei suoi
sensi nell'Eden. I due hanno iniziato a salire verso la sfera del fuoco che divide il mondo terreno dal Cielo della Luna, anche se Dante non se n'è
ancora reso conto e ha notato solo l'aumento straordinario della luce: il poeta si sente trasumanar, diventare qualcosa di più che un essere umano
e non può descrivere questa sensazione se non con l'esempio ovidiano del pastore Glauco, che si tramutò in una creatura acquatica e si gettò in
mare dicendo addio alla Terra (come vedremo, Dante ricorrerà spesso nella Cantica a similitudini mitologiche per rappresentare situazioni prive di
termini di paragone «terreni»). L'aumento progressivo della luce e il dolce suono con cui ruotano le sfere celesti accendono in Dante il desiderio di
capirne la ragione e Beatrice è sollecita a spiegargli che i due stanno salendo verso il Cielo, come un fulmine che cade dall'alto contro la sua natura;
ciò naturalmente suscita un nuovo dubbio nel poeta che si chiede come sia possibile per lui, dotato di un corpo in carne e ossa, salire contro la legge
di gravità, dubbio che sarà sciolto da Beatrice con una complessa spiegazione che occupa l'ultima parte del Canto. La donna assume fin dall'inizio
l'atteggiamento che avrà sempre nella Cantica, ovvero di maestra che sospira e sorride delle ingenue domande del discepolo e fornisce spiegazioni
di carattere dottrinale: anche qui, infatti, la sua spiegazione non chiarisce il dubbio di Dante di natura fisica (come fa un corpo grave a trascendere i
corpi lievi, l'aria e il fuoco) ma inquadra il problema nell'ambito dell'ordinamento generale dell'Universo, collegandosi ai versi iniziali che
descrivevano il riflettersi della luce divina di Cielo in Cielo. Beatrice spiega infatti che tutte le creature, razionali e non, fanno parte di un tutto
armonico che è stato creato da Dio e ordinato in modo preciso, così che ogni cosa tende al suo fine attraverso strade diverse, come navi che
giungono in porto solcando il gran mar de l'essere. Ciò vale per le cose inanimate, come il fuoco che tende a salire verso l'alto per sua natura e la
terra che è attratta verso il centro dell'Universo, ma anche per gli esseri intelligenti, la cui anima razionale tende naturalmente a muoversi verso Dio;
ovviamente essi sono dotati di libero arbitrio, per cui può avvenire che anziché volgersi in quella direzione siano attratti dai beni terreni, ma questo
non è il caso di Dante che ha ormai purificato la sua anima nel viaggio attraverso Inferno e Purgatorio. Egli tende dunque verso Dio che risiede
nell'Empireo e ciò è un atto del tutto naturale, come quello di un fiume che scorre dall'alto verso il basso, mentre sarebbe innaturale per Dante
restare a terra, come un fuoco la cui fiamma non tendesse verso l'alto. Tale spiegazione di natura metafisica anticipa quella che sarà la cifra stilistica
di gran parte della III Cantica, in cui spesso i dubbi scientifici di Dante verranno risolti con argomenti dottrinali e verrà ribadito che la sola filosofia
umana è di per sé insufficiente a capire i misteri dell'Universo, proprio come lo stesso Virgilio aveva detto più volte rimandando alle chiose di
Beatrice-teologia: ciò sarà evidente anche nella spiegazione circa le macchie lunari al centro del Canto seguente, in quanto laddove la ragione
umana non può arrivare deve intervenire la fede e dunque Dante deve credere che sta salendo con tutto il corpo in Paradiso, non essendo in grado
di comprenderlo.
È interessante inoltre che Beatrice usi per tre volte l'immagine del fuoco per spiegare il movimento di Dante, prima paragonandolo a un fulmine che
corre verso la Terra (mentre lui corre verso il Cielo), poi spiegando che il fuoco tende a salire verso il Cielo della Luna (cioè verso la sfera del fuoco,
dove è diretto Dante) e infine paragonando il fulmine che cade in basso contro la sua natura a un uomo che, altrettanto forzatamente, è attratto
verso i beni terreni. La luce come elemento visivo domina largamente l'episodio, segnando il passaggio di Dante dalla dimensione terrena a quella
celeste, anche attraverso l'immagine del sole che è evocato nella spiegazione astronomica, poi indicato come oggetto dello sguardo di Beatrice,
infine chiamato in causa con l'immagine di un secondo sole che sembra illuminare col suo splendore il cielo: il viaggio di Dante verso la luce è
ovviamente il suo percorso verso Dio e tale immagine si ricollega a quella dei versi iniziali in cui la gloria divina si riverberava in tutto l'Universo, e
dove si diceva che Dante è giunto nel Cielo che più de la sua luce prende, ovvero quell'Empireo verso il quale ha iniziato a salire in modo prodigioso.

Note e passi controversi

Il Parnaso citato al v. 16 è il monte della Grecia centrale che, secondo il mito, era sede di Apollo e aveva una doppia cima; nel Medioevo si diffuse
l'errata convinzione (attestata da Isidoro di Siviglia, Etym., XIV, 8) che le due cime fossero il Citerone e l'Elicona, abitate rispettivamente da Apollo e
dalle Muse, mentre in realtà l'Elicona è un monte diverso. È possibile che qui Dante cada nella stessa confusione e indichi l'un giogo come il
Citerone e l'altro con l'Elicona.
Il satiro Marsia (vv. 20-21) è protagonista di un racconto di Ovidio (Met., VI, 382 ss.), in cui sfida Apollo in una gara musicale e, vinto, viene
scorticato vivo dal dio.
Apollo è detto delfica deità (v. 32) perché molto venerato anticamente a Delfi, mentre l'alloro è definito fronda / peneia in riferimento al mito di
Dafne, la figlia di Peneo trasformatasi in alloro per sfuggire ad Apollo (Met., I, 452 ss.).
Cirra (v. 36) era una città sul golfo di Corinto collegata con Delfi e indicata per designare Apollo stesso.
La complessa spiegazione astronomica dei vv. 37-42 è stata variamente interpretata dai commentatori, anche se probabilmente indica che è
l'equinozio di primavera e il sole è in congiunzione con l'Ariete. I quattro cerchi sono forse l'Equatore, l'Eclittica, il Coluro equinoziale e l'orizzonte
di Gerusalemme e Purgatorio, che si intersecano formando tre croci (benché non perpendicolari). I vv. 43-45 indicano con ogni probabilità che è
mezzogiorno, come detto in Purg., XXXIII, 104, e non l'alba come alcuni hanno ipotizzato (nell'emisfero sud è giorno pieno, mentre in quello opposto
è notte).
Il pelegrin del v. 51 può essere il pellegrino che torna in patria, ma anche il falco pellegrino.
L'aumento della luce ai vv. 61-63 indica che Dante si avvicina alla sfera del fuoco, che divide il I Cielo dall'atmosfera.
La similitudine ai vv. 67-69 è tratta da Met., XIII, 898 ss. e si riferisce al pescatore della Beozia Glauco che, avendo notato che i pesci pescati
mangiavano un'erba che li faceva balzare di nuovo in acqua, fece lo stesso e si trasformò in una creatura acquatica, gettandosi in mare.
Il sito da cui fugge la folgore (v. 92) è sicuramente la sfera del fuoco, verso cui invece Dante si avvicina.
Il ciel del v. 122 è l'Empireo, nel quale ruota velocissimo il Primo Mobile.

III canto

Argomento del Canto

Ancora nel I Cielo della Luna. Apparizione degli spiriti difettivi: colloquio con Piccarda Donati. Piccarda spiega i gradi di beatitudine e l'inadempienza
del voto. Viene mostrata l'anima dell'imperatrice Costanza.
È il primo pomeriggio di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.

Apparizione delle anime beate (1-33)

Beatrice ha svelato a Dante col suo ragionamento logico la verità circa l'origine delle macchie lunari, quindi il poeta leva il capo per rivolgersi alla
donna, ma un'improvvisa visione attira il suo sguardo e lo distoglie dal suo proposito. Dante vede le figure di spiriti pronti a parlare, talmente
evanescenti da sembrargli il riflesso di un'immagine sul pelo dell'acqua, così il poeta cade nell'errore opposto a quello che indusse Narciso a
innamorarsi della propria immagine riflessa. Infatti Dante si volta per vedere le figure reali che pensa siano dietro di lui, senza però vedere nulla; poi
guarda Beatrice, che sorride del suo errore. La donna lo invita a non stupirsi del fatto che lei rida al suo ingenuo pensiero e spiega che le figure che
vede sono creature reali, relegate in questo Cielo per non aver rispettato il voto. Beatrice lo invita a parlare liberamente con loro, in quanto la luce
di Dio che li illumina non gli consente di allontanarsi dalla verità.

Piccarda Donati (34-57)

Dante si rivolge all'anima che gli sembra più desiderosa di parlare e le chiede di rivelare il suo nome e la condizione degli altri beati, appellandosi ai
raggi di vita eterna che lo spirito fruisce. L'anima risponde con occhi sorridenti e dichiara che la carità che li accende fa sì che rispondano volentieri
alle giuste preghiere: rivela dunque di essere stata in vita una suora e se Dante la guarderà meglio, la riconoscerà come Piccarda Donati. Rivela di
essere posta lì con gli altri spiriti difettivi e di essere relegata nel Cielo più basso, quello della Luna, benché lei e gli altri gioiscano di partecipare
all'ordine voluto da Dio. Essi hanno il grado più basso di beatitudine perché i loro voti furono non adempiuti o trascurati in parte.

Spiegazione dei vari gradi di beatitudine (58-90)


Dante risponde e spiega a Piccarda che nel loro aspetto risplende qualcosa di divino che li rende diversi da come erano in vita e che questo gli ha
impedito di riconoscerla subito, poi chiede se lei o gli altri beati desiderino acquisire un grado più elevato di beatitudine. Piccarda sorride un poco
con le altre anime, poi risponde lietamente e spiega che la carità placa ogni loro desiderio e li induce a volere solo ciò che hanno e non altro. Se
desiderassero essere in un grado superiore di beatitudine, i loro desideri sarebbero discordi dalla volontà di Dio che li colloca lì, il che è impossibile
in Paradiso dove è inevitabile essere in carità. Anzi, aggiunge, l'essere beati comporta necessariamente l'adeguarsi alla volontà divina, per cui la
posizione occupata dai beati in Paradiso trova l'approvazione di Dio come di tutti i beati. Questo dà loro la pace, perché Dio è il termine ultimo al
quale si muovono tutte le creature dell'Universo.

L'inadempienza del voto. Costanza d'Altavilla (91-120)

Dante ha compreso il fatto che tutti i beati godono della felicità eterna, anche se in grado diverso, ma se la risposta di Piccarda ha sciolto un suo
dubbio ne ha acceso subito un altro, per cui il poeta le chiede quale sia il voto che lei non ha portato a compimento. La beata spiega che un Cielo più
alto ospita santa Chiara d'Assisi, fondatrice nel mondo dell'Ordine delle Clarisse alla cui regola molte donne si votano e prendono il velo. Piccarda,
da giovinetta, indossò quell'abito e pronunciò i voti monastici, ma degli uomini più avvezzi al male che al bene la rapirono dal convento e la
obbligarono a una vita diversa. Piccarda indica poi un'anima splendente alla sua destra, che ha vissuto la stessa esperienza poiché fu suora e le fu
tolto forzatamente il velo, anche se in seguito rimase in cuore fedele alla regola monastica: è l'imperatrice Costanza d'Altavilla, che da Enrico VI
generò Federico II di Svevia.

Sparizione delle anime (121-130)


Alla fine delle sue parole, Piccarda intona l'Ave, Maria e pian piano svanisce, come un oggetto che cade nell'acqua profonda. Dante la segue con lo
sguardo quanto può, poi torna a osservare Beatrice che però col suo splendore abbaglia la vista del poeta, così che i suoi occhi dapprima non
riescono a sopportare tanto fulgore. Questo rende Dante più restio a domandare.

Interpretazione complessiva

Il Canto presenta la prima schiera di beati incontrati da Dante nel I Cielo e la protagonista assoluta è Piccarda Donati, che spiega al poeta il motivo
per cui lei e le altre anime sono rilegate nel Cielo più basso e qual è la legge che regola i diversi gradi di beatitudine in Paradiso. La collocazione in
Cielo di Piccarda era già stata preannunciata dal fratello Forese in Purg., XXIV, 13-15 («La mia sorella, che tra bella e buona / non so qual fosse più,
triunfa lieta / ne l'alto Olimpo già di sua corona»), in contrapposizione alla futura dannazione di Corso, su domanda diretta di Dante che quindi
conosceva la giovane; ciò è confermato in questo episodio, nel quale Dante non riconosce subito Piccarda e se ne scusa adducendo il diverso
aspetto di queste anime rispetto a quello che avevano in vita, per cui non è stato a rimembrar festino. In effetti gli spiriti difettivi, che in vita non
portarono a compimento il voto e perciò godono del più basso grado di felicità eterna, sono gli unici beati a mostrarsi a Dante con un'immagine
vagamente umana, talmente evanescente da sembrare riflessi nell'acqua: Dante ricorre a una doppia preziosa similitudine per descrivere queste
figure diafane, quella di volti riflessi su un vetro o su uno specchio d'acqua tersa e quella di perle bianche che si distinguono appena sulla bianca
fronte di una giovane donna (ciò rientrava nella moda del tempo ed era tipico delle giovani aristocratiche, per cui l'immagine aggiunge raffinatezza
alla scena). Il ricorso alla mefatora dell'acqua non è naturalmente nuovo, poiché Dante ha già paragonato la descrizione del Paradiso a un viaggio
per mare (II, 1 ss.; e Beatrice aveva parlato di gran mar de l'essere in I, 113) e più avanti la scomparsa di Piccarda e degli altri beati sarà assimilata a
quella di un corpo che affonda nell'acqua profonda, così come gli spiriti del Cielo di Mercurio sembreranno pesci che si avvicinano al pelo dell'acqua
per prendere il cibo (V, 100-105).
Beatrice dichiara che gli spiriti difettivi sono confinati in questo I Cielo per manco di voto, anche se in realtà lei stessa spiegherà più avanti che i beati
risiedono tutti nell'Empireo e semplicemente appaiono a Dante nel Cielo il cui influsso hanno subìto in vita: il poeta chiede infatti a Piccarda di
rivelare il proprio nome e la sorte sua e degli altri beati, per cui la giovane si presenta e spiega che essi godono il grado più basso di beatitudine,
proprio perché indotti o forzati in vita a non rispettare il proprio voto, come nel suo caso il voto di castità seguente alla monacazione. Questo
naturalmente accende in Dante la curiosità di sapere se i beati desiderino un più alto grado di beatitudine e la domanda fa sorridere le anime, dal
momento che un simile desiderio sarebbe impossibile in Paradiso. La risposta di Piccarda precisa una legge che coinvolge tutti i beati del terzo
regno, ovvero il fatto che essi ardono della virtù di carità e quindi, grazie ad essa, non possono che conformarsi alla volontà di Dio che li cerne, li
colloca in quella posizione; se i loro desideri fossero discordi da quelli divini ciò sarebbe incompatibile con la loro condizione stessa di beati, proprio
perché verrebbe meno l'ardore di carità che è premessa indispensabile alla beatitudine (secondo la filosofia scolastica la carità comportava
l'adeguamento alla volontà dell'oggetto amato). Il discorso di Piccarda è conciso e stringente nella sua logica e si avvale di un preciso linguaggio
filosofico, che include latinismi puri (necesse, beato esse) e tecnicismi (formale, nel senso di causa essenziale) che saranno usati spesso dal poeta nel
corso della III Cantica; l'idea stessa della gradazione della beatitudine e della divisione dei beati in varie schiere, se da un lato risponde a un criterio
analogo rispetto a Inferno e Purgatorio, dall'altro risponde alla trattazione che ne dà san Tommaso e che verrà ripresa nel Canto seguente, specie
nel tentativo di correggere l'opinione espressa da Platone nel Timeo riguardo alla collocazione delle anime dopo la morte.
L'ultima parte del Canto è dedicata a Piccarda personaggio, la fanciulla conosciuta da Dante a Firenze e costretta dal fratello Corso a sposarsi contro
il suo volere, rapita de la dolce chiostra ad opera di Corso medesimo e dei suoi complici, definiti da lei uomini... a mal più ch'a bene usi (con sereno
distacco dalle vicende terrene e senza l'ombra di rancore verso l'ingiustizia patita); la conclusione della sua vicenda personale è affidata a un verso
lapidario quanto allusivo, Iddio si sa qual poi mia vita fusi, che è stato giustamente accostato ad altre celebri chiuse di personaggi danteschi,
da Ulisse (Inf., XXVI, infin che 'l mar fu sovra noi richiuso), al conte Ugolino (XXXIII, 75 Poscia, più che 'l dolor poté 'l digiuno), senza contare il
manzoniano La sventurata rispose relativo alla monaca di Monza e per il quale il grande romanziere potrebbe essersi ispirato proprio a questo
passo. Piccarda rievoca la sua vicenda umana per spiegare quale voto non ha portato a termine e per farlo indica a Dante due diverse donne, che
costituiscono due diversi esempi di devozione religiosa: la prima è santa Chiara d'Assisi, la fondatrice delle Clarisse alla cui regola Piccarda si era
votata, mentre la seconda è l'imperatrice Costanza d'Altavilla, la madre di Federico II di Svevia che ha subìto il suo stesso destino e ora risplende
accanto a lei in questo Cielo. Dante accoglie la leggenda della monacazione di Costanza e dell'obbligo impostole di sposare Enrico VI, matrimonio da
cui era nato Federico II (accusato dalla pubblicistica guelfa di essere l'Anticristo in quanto frutto di un'unione peccaminosa, come del resto suo
figlio Manfredi); il fatto era totalmente falso, tuttavia non impedisce a Dante di collocare la donna in Paradiso come, del resto, Manfredi in
Purgatorio, a significare che la via della salvezza non è necessariamente legata alle vicende terrene o alla condanna della Chiesa, come più volte è
stato affermato nella II Cantica e sarà ancora ribadito nella III, specie nei Canti dedicati al problema della giustizia. La spiegazione di Piccarda
accende due nuovi dubbi in Dante, relativi all'inadempienza del voto e alla collocazione effettiva dei beati in Paradiso, che saranno spiegati da
Beatrice nei Canti IV-V, mentre alla fine di questo il fulgore con cui la guida di Dante abbaglia la sua vista lo rende a dimandar più tardo, proprio
come lo sarà all'inizio del successivo perché incerto su quale domanda rivolgerle per prima.

Note e passi controversi

Al v. 1 il sole è naturalmente Beatrice, in quanto primo amore di Dante e luce in grado di chiarire i suoi dubbi in materia di fede.
I verbi provando e riprovando (v. 3) sono tecnicismi della Scolastica, poiché indicano i due momenti dell'argomentazione di Beatrice del Canto
precedente («riprovare» significa confutare, «provare» vuol dire portare argomenti a favore della propria tesi).
Al v. 13 le postille sono le immagini riflesse sull'acqua.
Il v. 14 allude alla moda femminile del Due-Trecento di portare in fronte una perla appesa a una coroncina o a una reticella.
I vv. 17-18 ricordano il mito di Narciso, che vedendo la propria immagine riflessa nell'acqua se ne innamorò credendola reale (Dante incorre nello
sbaglio opposto, poiché crede immagini riflesse quelle reali). La fonte è Ovidio, Met., III, 407 ss.
Al v. 26 coto deriva da «cotare», «cogitare» e vuol dire «pensiero».
La spera più tarda (v. 51) è il Cielo della Luna, che è il più vicino alla Terra e quello che ha minor raggio, quindi ruota più lento.
Al v. 57 è presente il bisticcio vóti / vòti, ovvero «voti» / «vuoti» (nel senso di non compiuti).
Al v. 63 latino significa «chiaro», «facile a intendersi» ed è attestato nella lingua del tempo.
Il primo foco del v. 69 è certamente lo Spirito Santo, cioè Dio in quanto primo amore; altri hanno pensato al primo amore per cui arde una donna,
ma sembra immagine poco adatta a raffigurare una beata.
Capére (v. 76) significa «aver luogo» ed è termine della Scolastica che deriva dal lat. capere.
Ai vv. 95-96 il voto non portato a termine è paragonato a una tela non finita di tessere.
Al v. 97 inciela («colloca in cielo») è neologismo dantesco con quest'unica occorrenza nel poema.
Lo sposo citato al v. 101 è naturalmente Cristo, poiché la donna che diventava monaca si sposava con Lui (la metafora delle nozze mistiche deriva
dalle Scritture ed è largamente usata dagli scrittori della letteratura religiosa del Due-Trecento).
Il secondo vento di Soave (v. 119) è Enrico VI, secondo imperatore della casa sveva, mentre il terzo e ultimo è Federico II. Il termine vento è stato
interpretato come «gloria», «potenza» e anche «superbia».

VI canto

Argomento del Canto

Ancora nel II Cielo di Mercurio. Giustiniano si presenta a Dante. Digressione sulla storia dell'Impero romano. Invettiva contro i Guelfi e i Ghibellini.
Condizione degli spiriti operanti per la gloria terrena. Presentazione di Romeo di Villanova.
È la sera di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.

Giustiniano narra la sua vita (1-27)

Giustiniano risponde alla prima domanda di Dante, spiegando che dopo che Costantino aveva portato l'aquila imperiale (la capitale dell'Impero) a
Costantinopoli erano passati più di duecento anni, durante i quali l'uccello sacro era passato di mano in mano giungendo infine nelle sue. Egli si
presenta dunque come imperatore romano e dice di chiamarsi Giustiniano, colui che su ispirazione dello Spirito Santo riformò la legislazione
romana. Prima di dedicarsi a tale opera egli aveva aderito all'eresia monofisita, credendo che in Cristo vi fosse solo la natura divina, ma poi papa
Agapito lo aveva ricondotto alla vera fede e a quella verità che, adesso, egli legge nella mente di Dio. Non appena l'imperatore fu tornato in seno
alla Chiesa, Dio gli ispirò l'alta opera legislativa e si dedicò tutto ad essa, affidando le spedizioni militari al generale Belisario che ebbe il favore del
Cielo.

Ragioni della digressione sul'Impero (28-36)


Fin qui Giustiniano avrebbe risposto alla prima domanda di Dante, ma la sua risposta lo obbliga a far seguire un'aggiunta, affinché il poeta si renda
conto quanto sbagliano coloro che si oppongono al simbolo sacro dell'aquila (i Guelfi) e coloro che se ne appropriano per i loro fini (i Ghibellini). Il
simbolo imperiale è degno del massimo rispetto, e ciò è iniziato dal primo momento in cui Pallante morì eroicamente per assicurare la vittoria
di Enea.

Storia dell'aquila: dai re alla Repubblica (37-54)

Giustiniano ripercorre le vicende storiche dell'aquila imperiale, da quando dimorò per trecento anni in Alba Longa fino al momento in cui Orazi e
Curiazi si batterono fra loro. Seguì il ratto delle Sabine, l'oltraggio a Lucrezia che causò la cacciata dei re e le prime vittorie contro i popoli vicini
a Roma; in seguito i Romani portarono l'aquila contro i Galli di Brenno, contro Pirro, contro altri popoli italici, guerre che diedero gloria a Torquato,
a Quinzio Cincinnato, ai Deci e ai Fabi. L'aquila sbaragliò i Cartaginesi che passarono le Alpi al seguito di Annibale, là dove nasce il fiume Po; sotto le
insegne imperiali conobbero i loro primi trionfi Scipione e Pompeo, e l'aquila parve amara al colle di Fiesole, sotto il quale nacque Dante.

Storia dell'aquila: l'età imperiale (55-96)

Nel periodo vicino alla nascita di Cristo, l'aquila venne presa in mano da Cesare, che realizzò straordinarie imprese in Gallia lungo i fiumi Varo, Reno,
Isère, Loira, Senna, Rodano. Cesare passò poi il Rubicone e iniziò la guerra civile con Pompeo, portandosi prima in Spagna, poi a Durazzo, vincendo
infine la battaglia di Farsàlo e costringendo Pompeo a riparare in Egitto. Dopo una breve deviazione nella Troade, sconfisse Tolomeo in Egitto e Iuba,
re della Mauritania, per poi tornare in Occidente dove erano gli ultimi pompeiani. Il suo successore Augusto sconfisse Bruto e Cassio, poi fece guerra
a Modena e Perugia, infine sconfisse Cleopatra che si uccise facendosi mordere da un serpente. Augusto portò l'aquila fino al Mar Rosso,
garantendo a Roma la pace e facendo addirittura chiudere per sempre il tempio di Giano. Ma tutto ciò che l'aquila aveva fatto fino ad allora diventa
poca cosa se si guarda al terzo imperatore (Tiberio), poiché la giustizia divina gli concesse di compiere la vendetta del peccato originale, con la
crocifissione di Cristo. Successivamente con Tito punì la stessa vendetta, con la conquista di Gerusalemme; poi, quando la Chiesa di Roma fu
minacciata dai Longobardi, fu soccorsa da Carlo Magno.

Invettiva contro Guelfi e Ghibellini (97-111)

Terminata la sua digressione, Giustiniano invita Dante a giudicare l'operato di Guelfi e Ghibellini che è causa dei mali del mondo: i primi si
oppongono al simbolo imperiale dell'aquila appoggiandosi ai gigli d'oro della casa di Francia, i secondi se ne appropriano per i loro fini politici, per
cui è arduo stabilire chi dei due sbagli di più. I Ghibellini dovrebbero fare i loro maneggi sotto un altro simbolo, poiché essi lo separano dalla
giustizia; Carlo II d'Angiò, d'altronde, non creda di poterlo abbattere coi suoi Guelfi, dal momento che l'aquila coi suoi artigli ha scuoiato leoni più
feroci di lui. I figli spesso pagano le colpe dei padri e Dio non cambierà certo il simbolo dell'aquila con quello dei gigli della monarchia francese.

Condizione degli spiriti nel II Cielo (112-126)


Giustiniano risponde alla seconda domanda di Dante e spiega che il Cielo di Mercurio ospita gli spiriti che in vita hanno perseguito onore e fama, per
cui quando i desideri sono rivolti alla gloria terrena è inevitabile che si ricerchi in minor misura l'amor divino. Tuttavia, spiega Giustiniano, lui e gli
altri beati sono lieti della loro condizione, in quanto i premi sono commisurati al loro merito e la giustizia divina è tale che non possono nutrire alcun
pensiero negativo. Voci diverse producono dolci melodie, e così i vari gradi di beatitudine producono una dolcissima armonia nelle sfere celesti.

Romeo di Villanova (127-142)


Giustiniano indica a Dante l'anima di Romeo di Villanova, che splende in questo stesso Cielo e la cui grande opera fu sgradita ai Provenzali, che
tuttavia hanno pagato cara la loro ingratitudine nei suoi confronti. Raimondo Berengario IV, conte di Provenza, ebbe quattro figlie e grazie all'opera
dell'umile Romeo tutte furono regine; poi le parole invidiose degli altri cortigiani lo indussero a chiedere conto del suo operato a Romeo, che aveva
accresciuto le rendite statali. Egli se n'era andato via, vecchio e povero, e se il mondo sapesse con quanta dignità si ridusse a chieder l'elemosina, lo
loderebbe assai più di quanto già non faccia.

Interpretazione complessiva

Il Canto è occupato interamente dal discorso dell'imperatore Giustiniano (caso unico nel poema) che risponde alle due domande che Dante gli ha
posto alla fine del precedente, rivelando cioè la sua identità e spiegando la condizione degli spiriti del II Cielo: nella parte centrale fa seguire alla
prima risposta una «giunta» che è una digressione sulla storia dell'Impero romano e della sua funzione provvidenziale, per cui il tema del Canto è
politico come il VI di ogni Cantica (secondo una gradazione crescente, da Firenze, all'Italia, all'Impero). La ragione della lunga digressione è
mostrare, nelle intenzioni del personaggio, la cattiva condotta di Guelfi e Ghibellini nei confronti dell'aquila simbolo dell'Impero, in quanto i primi vi
si oppongono e i secondi se ne appropriano per i loro fini politici, causando molti dei mali politici che affliggono l'Italia e l'Europa del tempo;
soluzione a questi mali è, secondo Dante, l'Impero universale, ovvero un'autorità che imponga il rispetto delle leggi e assicuri a tutti la giustizia,
ponendo fine alla situazione di anarchia e instabilità che caratterizza soprattutto l'Italia (è lo stesso motivo presente nel VI del Purgatorio, con
esplicito riferimento alle leggi emanate da Giustiniano e non fatte rispettare). Proprio questo spiega, forse, perché Dante affidi a Giustiniano l'alta
celebrazione dell'Impero provvidenziale, nonostante egli fosse un monarca dell'Impero orientale e avesse regnato su Costantinopoli e non su Roma:
egli aveva emanato il Corpus iuris civilis che fu poi base del diritto di tutto il mondo romanizzato del Medioevo, un'opera giuridica immensa a cui
Dante assegnava un alto valore, oltre al fatto che Giustiniano aveva tentato di ricostituire l'antica unità dell'Impero con la riconquista di Roma e
dell'Italia. A tale riguardo non è da escludere che il poeta biasimasse Costantino per aver portato la capitale a Bisanzio, facendo fare all'aquila un
volo contr'al corso del ciel e quindi contro natura, specie perché nel Medioevo si pensava che ciò fosse avvenuto in seguito alla famigerata
donazione che per Dante era causa dei mali della Chiesa (va detto, in ogni caso, che Costantino figura tra i beati del Cielo di Giove, gli spiriti
giusti che formano proprio la figura dell'aquila, quindi l'eventuale condanna non va intesa in senso troppo netto).
Quale che sia il motivo della scelta di Dante, il poeta mette in bocca a Giustiniano un alto e solenne discorso che inizia con la prosopopea
dell'imperatore che si presenta come l'autore della riforma legislativa e della vittoriosa spedizione in Occidente, sia pur affidata al generale Belisario
(i contrasti con quest'ultimo vengono taciuti dal poeta), opere che hanno goduto entrambe del favore divino e, anzi, l'emanazione
del Corpus sarebbe stata ispirata addirittura dallo Spirito Santo. Il volere divino ha determinato anche la creazione dell'Impero, il cui valore
provvidenziale è al centro di tutta la successiva digressione: Giustiniano ripercorre le vicende storiche di Roma attraverso il volo simbolico
dell'aquila, simbolo politico e militare del dominio romano, dalle mitiche origini troiane (evocate attraverso il riferimento a Enea, l'antico che Lavina
tolse, e il sacrificio di Pallante), al periodo monarchico, fino alla creazione della Repubblica, citando i più rappresentativi personaggi della storia
romana (fonte principale, se non l'unica, è sicuramente Livio). Il punto finale di tutto questo processo è ovviamente la nascita del principato con
Cesare e Augusto, voluta da Dio per unificare il mondo in un'unica legge e favorire così la venuta di Cristo: dopo la celebrazione di coloro che per
Dante erano i due primi imperatori, vi è quella del terzo (Tiberio) sotto il cui dominio Cristo viene crocifisso, evento centrale nella storia umana e
che ha la funzione di punire il peccato originale; in seguito tale punizione viene a sua volta punita da Tito, artefice della distruzione di Gerusalemme
che Dante gli attribuisce quando era già imperatore, mentre in realtà ciò avvenne sotto Vespasiano (tale affermazione susciterà i dubbi del poeta
che saranno chiariti da Beatrice nel Canto seguente). Il disegno provvidenziale si esaurisce qui, poiché negli anni seguenti l'Impero inizia il suo lento
declino culminato proprio nel trasferimento della capitale a Bisanzio e nella successiva divisione tra Oriente e Occidente, cui sarà Giustiniano a
porre rimedio sia pure in modo effimero; da qui si arriva velocemente a Carlo Magno, protettore della Chiesa contro i Longobardi e, quindi, legittimo
erede dell'autorità imperiale (Dante afferma una volta di più che l'Impero germanico è erede e continuatore di quello romano, quindi legittimato a
imporre la sua autorità su tutto il mondo come ribadito più volte nel poema e nella Monarchia). Dalla digressione nasce poi l'aspra invettiva contro
Guelfi e Ghibellini, che per motivi diversi oltraggiano il sacrosanto segno e sono da biasimare in quanto causa dei mali politici dell'Europa di inizio
Trecento: l'attacco è soprattutto contro Carlo II d'Angiò, più volte biasimato da Dante nel poema (cfr. soprattutto Purg., VII, 124 ss.; XX, 79-81) e
contro cui Giustiniano rivolge un duro richiamo affinché non si illuda che la monarchia francese possa sostituirsi all'autorità dell'Impero, che è la
stessa polemica portata avanti da Dante contro il re di Francia Filippo il Bello (cfr. Purg., XXXII, con l'analoga simbologia dell'aquila imperiale).
La risposta alla seconda domanda di Dante, ovvero la condizione degli spiriti operanti per la gloria terrena (che godono di un minore grado di
beatitudine ma non se ne dolgono, confermando quindi quanto già dichiarato da Piccarda Donati) dà modo a Giustiniano di concludere il Canto
indicando un altro beato di questo Cielo, quel Romeo di Villanova ministro del conte di Provenza Raimondo Berengario e vittima, secondo una
diffusa diceria, delle calunnie degli altri cortigiani che lo costrinsero a lasciare la corte vecchio e povero. Non si tratta solo di un edificante esempio
di cristiana rassegnazione, dal momento che tale aneddoto ha una valenza politica che si collega al tema centrale del Canto: la figura di Romeo,
cacciato dalla Provenza nonostante il suo ben operare, adombra quella di Dante stesso, che subì la stessa condanna da parte dei Fiorentini che si
pentiranno del loro gesto, come è toccato ai Provenzali passati sotto la tirannia degli Angioini (e il riferimento è quindi a Carlo II d'Angiò citato poco
prima). L'ingiusto destino che accomuna Dante e Romeo è anche il prodotto della decadenza politica, quindi (nel caso di Dante) è causato
dall'assenza di un potere imperiale in grado di applicare le leggi e assicurare la giustizia; secondo alcuni Giustiniano loda la figura di Romeo per fare
ammenda della sua condotta verso Belisario, il grande generale con cui ebbe contrasti e che sollevò dal suo incarico alla fine della guerra greco-
gotica, ipotesi suggestiva anche se non suffragata da elementi certi. Di sicuro l'accenno a Romeo che, ridotto in miseria, è obbligato a chiedere
l'elemosina, ricorda molto la figura di Provenzan Salvani (Purg., XI, 133 ss.) in cui Dante si identificava in quanto anche lui, durante l'esilio, dovrà
mendicare l'aiuto dei potenti: l'umiliazione di questi personaggi è la stessa che subirà l'orgoglioso poeta e che gli sarà profetizzata
da Cacciaguida nel Canto XVII del Paradiso, proprio nel momento in cui gli affiderà l'alta missione morale e poetica che è al centro di questa Cantica
e di tutto il poema.

Note e passi controversi

I vv. 1-3 alludono al trasferimento della capitale imperiale da Roma a Bisanzio compiuto da Costantino, che portò l'aquila simbolo dell'Impero da
occidente a oriente: il percorso è contrario rispetto a quello da Troia al Lazio seguito da Enea (l'antico che Lavina tolse, cioè prese che in moglie
Lavinia), nel che alcuni studiosi hanno visto una critica a Costantino. Da quel momento all'incoronazione di Giustiniano passarono meno di duecento
anni (v. 4), ma Dante segue probabilmente la cronologia di Brunetto Latini che nel Trésor indica le date del 333 e del 539, quindi con un intervallo di
206 anni.
I monti citati al v. 6 sono quelli della Troade.
Al v. 10 l'imperatore si presenta con un elegante chiasmo (Cesare fui... son Iustiniano) e con i diversi tempi verbali relativi al ruolo di imperatore in
vita e all'identità personale (cfr. Purg., V, 88: Io fui di Montefeltro, io son Bonconte).
Il primo amor (v. 11) che ispirò a Giustiniano l'opera legislativa è lo Spirito Santo.
Agapito (v. 16) fu papa nel 533-536: si recò a Costantinopoli per trattare la pace coi Goti e il basileus bizantino, e in quell'occasione avrebbe
convinto Giustiniano del suo errore quanto al monofisismo (la fonte è il Trésor).
Il v. 21 indica che Giustiniano vede le verità di fede chiaramente, come Dante vede che in un giudizio contraddittorio una frase è falsa e una è vera
(è il principio aristotelico di «non contraddizione»: se si dice che Socrate o è vivo o è morto, vuol dire che una delle due frasi è vera, l'altra per forza
falsa, in quanto tertium non datur). La parola «fede» è ripetuta tre volte da Giustiniano, ai vv. 15, 17, 19.
Nella lunga digressione sull'Impero (vv. 34-96) il soggetto è quasi sempre l'aquila, simbolo dell'autorità imperiale.
Il v. 39 allude alla leggenda degli Orazi e dei Curiazi, che secondo il racconto di Livio (Ab Urbe condita, I, 24 ss.) lottarono a tre a tre per decidere le
sorti della guerra tra Roma e Alba Longa.
I vv. 43-45 accennano alla guerra di Roma contro i Galli di Brenno (387 a.C.), contro Pirro (282-272 a.C.) e contro altri monarchi e repubbliche
dell'Italia centrale.
Torquato e Quinzio (v. 46) sono rispettivamente T. Manlio Torquato, vincitore di Galli e Latini, e L. Quinzio Cincinnato, vincitore degli Equi, così
chiamato perché era ricciuto e non per la chioma arruffata (cirro negletto); l'errore, presente anche in Petrarca, nasce forse da una chiosa errata di
Uguccione da Pisa.
Al v. 49 i Cartaginesi di Annibale sono detti anacronisticamente Aràbi, come i genitori di Virgilio erano detti Lombardi (Inf., I, 68).
Il colle citato al v. 53 è Fiesole, distrutta secondo la leggenda dai Romani (fra cui si pensava fosse anche Pompeo, che in realtà era in Oriente) dopo
la guerra con Catilina.
I fiumi citati ai vv. 58-60 sono tutti della Gallia e videro le imprese di Cesare: Varo e Reno costituiscono i confini occidentale e settentrionale, l'Isara è
l'Isère, l'Era è prob. la Loira (ma potrebbe essere la Saône, detta Arar  in latino).
I vv. 67-39 alludono alla deviazione che Cesare avrebbe fatto nella Troade per visitare il sepolcro di Ettore, mentre inseguiva Pompeo in
Egitto: Antandro e Simeonta (Simoenta nella grafia latina) sono rispettivamente il porto della Frigia da cui salpò Enea e il fiume che scorreva accanto
a Troia.
Al v. 73 bàiulo indica «portatore» ed è latinismo.
Il lito rubro (v. 79) è il Mar Rosso, con cui si allude alla conquista da parte di Ottaviano dell'Egitto.
Il terzo Cesare (v. 86) è Tiberio, che per Dante era il terzo imperatore (dopo Cesare e Augusto).
I vv. 91-93 alludono alla distruzione del Tempio di Gerusalemme operata da Tito nel 70 d.C., giusta punizione secondo la dottrina medievale per la
crocifissione di Cristo: in realtà Tito non era ancora succeduto al padre Vespasiano.
Al v. 106 Carlo novello è Carlo II d'Angiò, figlio e successiore di Carlo I.
I vv. 109-110 non sono chiarissimi, poiché Dante apprezzava i figli di Carlo II (specie Carlo Martello, che fu suo amico) e non sembra verosimile che
qui profetizzi le loro sventure come punizione divina del padre; forse la massima è generale.
Al v. 118 gaggi  vuol dire «premi», «riconoscimenti» (è francesismo).
Le quattro figlie (v. 133) di Raimondo Berengario IV furono Margherita, moglie di Luigi IX il Santo re di Francia; Eleonora, moglie di Enrico III
d'Inghilterra; Sancia, moglie di Riccardo conte di Cornovaglia e re dei Romani nel 1257; Beatrice, moglie di Carlo I d'Angiò. Secondo la tradizione cui
si rifà Dante, questi quattro matrimoni regali furono tutti organizzati da Romeo di Villanova.
L'espressione a frusto a frusto (v. 141) significa «a tozzo a tozzo» e allude al fatto che Romeo dovette mendicare il pane.

XI canto

Argomento del Canto

Ancora nel IV Cielo del Sole. Dubbi di Dante circa le parole di san Tommaso d'Aquino. Panegirico di san Francesco d'Assisi e biasimo dei difetti
dell'Ordine domenicano.
È la notte tra mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) e giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.

Vanità delle cose umane. Dubbi di Dante (1-27)

Dante osserva che i ragionamenti degli uomini sono fallaci e li inducono a volgersi alle cose terrene, per cui alcuni si dedicano agli studi giuridici, altri
alle scienze mediche, altri alle cariche ecclesiastiche, altri ancora al governo temporale, ai furti, agli affari politici, al piacere carnale e all'ozio: invece
il poeta è libero da tutte queste cose, accolto insieme a Beatrice nell'alto dei Cieli. I dodici spiriti sapienti della prima corona si fermano, dopo essere
tornati nel punto da cui erano partiti, e il beato che aveva parlato prima (san Tommaso d'Aquino) riprende la parola aumentando il proprio
splendore. Tommaso dichiara che, leggendo nella mente di Dio, conosce i pensieri di Dante e sa che il poeta dubita riguardo a due sue affermazioni,
quando aveva parlato del proprio Ordine e di Salomone, l'uomo più saggio mai vissuto, per cui è necessaria una spiegazione.

I due campioni della Chiesa: Francesco e Domenico (28-42)

Tommaso spiega che la Provvidenza, che governa il mondo con l'infinita saggezza di Dio, al fine di rendere più salda e sicura la Chiesa, dispose la
nascita di due principi che la guidassero e le stessero al fianco. Di questi, uno (san Francesco) fu pieno di ardore mistico come i Serafini, l'altro
(san Domenico) fu talmente sapiente da risplendere della luce dei Cherubini. Tommaso parlerà solo di Francesco, poiché le loro opere ebbero un
unico fine e quindi, lodando qualunque di essi, si lodano entrambi.

Il luogo della nascita di Francesco (43-54)


Tommaso spiega che tra i fiumi Topino e Chiascio (quest'ultimo scende dal monte Ausciano dove il beato Ubaldo si ritirò in eremitaggio) digrada la
fertile costiera del monte Subasio, dalla quale Perugia riceve il calore estivo e il freddo invernale dal lato di Porta Sole; dalla parte opposta del
monte ci sono invece Nocera Umbra e Gualdo Tadino, in posizione svantaggiosa. Da questa costiera del monte, dove essa è meno ripida (ad Assisi),
nacque un Sole per il mondo (Francesco), come il Sole vero e proprio sorge talvolta dal fiume Gange (all'equinozio di primavera, quando è più
luminoso). Perciò, se qualcuno parla di quella città, non la deve chiamare Ascesi (Assisi), ma Oriente, poiché ha dato i natali al santo.

Vita di Francesco: le mistiche nozze con la Povertà (55-75)

Francesco era ancora molto giovane, quando cominciò a riverberare sulla Terra le sue benefiche virtù: infatti volle sposare una donna (la Povertà)
alla quale nessuno vuole unirsi, come se fosse la morte, e a causa di essa venne in contrasto con il padre. Francesco si unì a lei in mistiche nozze,
davanti al tribunale episcopale e al padre, spogliandosi dei beni e vivendo poi con la Povertà che amò sempre di più. Questa, dopo la crocifissione di
Cristo, suo primo marito, era rimasta per più di millecento anni sola e disprezzata da tutti, e non era servito che Cesare durante la guerra civile con
Pompeo la trovasse sicura e tranquilla in compagnia del pescatore Amiclàte; non le servì dimostrarsi fedele e fiera, come quando aveva seguito
Cristo sulla croce mentre Maria era rimasta ai piedi di essa. Tommaso precisa a questo punto che sta parlando di Francesco e di Madonna Povertà,
unitisi appunto in mistiche nozze.

Vita di Francesco: dalla predicazione alla morte (76-117)

La concordia di Francesco e Povertà, il loro amore e il dolce sguardo dell'uno per l'altra suscitavano pensieri santi e indussero per primo Bernardo di
Quintavalle a unirsi a loro e a seguirli scalzo, con lieta sollecitudine. Il suo esempio fu presto seguito da Egidio e Silvestro, che andarono dietro allo
sposo per amore della sposa (aderendo all'ideale francescano di povertà); e Francesco fu a capo di quella famiglia, che ormai portava i fianchi cinti
da una corda.
Francesco si recò poi a Roma per illustrare a papa Innocenzo III la sua severa Regola, e nonostante fosse figlio di un mercante, Pietro Bernardone,
non si vergognò della sua umile condizione e di fronte al pontefice si comportò con modi regali; il papa diede la prima approvazione all'Ordine. I
seguaci aumentarono di numero, così papa Onorio III diede la seconda approvazione, con cui lo Spirito Santo coronò il santo volere di Francesco.
Egli si recò poi in Terrasanta, presentandosi davanti al Sultano, ma trovò quelle genti non ancora pronte alla conversione; tornò in Italia e si ritirò sul
monte della Verna, fra Tevere e Arno, dove ricevette l'ultimo e definitivo sigillo alla Regola (le stimmate), che portò per due anni.
Quando a Dio piacque di chiamarlo a sé da questa vita, Francesco raccomandò ai confratelli la sua donna, la Povertà, quindi la sua anima lasciò il
corpo ed egli fu seppellito nudo nella nuda terra, secondo le sue volontà.

Tommaso biasima i difetti dei Domenicani (118-139)

Tommaso invita Dante a pensare quale fu il degno collega di Francesco nel governare la nave della Chiesa in alto mare, e questi fu appunto san
Domenico, fondatore dell'Ordine cui appartenne il beato; chi ne fa parte e si attiene alla Regola non può che acquistare grandi meriti. Tuttavia le
pecore di questo gregge sono diventate ghiotte di altro cibo, quindi si allontanano dai loro pascoli e, quanto più vagano, tanto più povere di latte
tornano all'ovile (i Domenicani deviano dalla Regola e ricercano beni terreni). Certo ci sono alcune fra esse che si stringono al pastore (si attengono
alla Regola), ma sono talmente poche che occorre poco panno a confezionare le loro cappe. A questo punto Dante, se ha ascoltato con attenzione,
può ben capire quali sono i difetti dell'Ordine domenicano, e può intendere il biasimo di san Tommaso quando ha detto «dove ci si arricchisce
spiritualmente, se non si devia dalla Regola».

Interpretazione complessiva

Il Canto è dedicato in gran parte alla figura di san Francesco ed ha struttura speculare rispetto al XII, in quanto qui è il domenicano san Tommaso a
pronunciare il panegirico di Francesco e a biasimare i difetti del proprio Ordine, mentre nel Canto seguente sarà il francescano san Bonaventura a
tessere le lodi di san Domenico e a criticare le mancanze dei Francescani (i due episodi formano una sorta di «chiasmo» e sono entrambi
stilisticamente elevati). Tommaso prende spunto dal dubbio di Dante circa le sue parole alla fine del Canto X, quando parlando dei domenicani (v.
96) aveva detto u' ben s'impingua se non si vaneggia, per cui la agiografia del santo di Assisi servirà soprattutto a mettere in luce la corruzione
diffusa tra i membri degeneri dell'Ordine domenicano: del resto il Canto si apre con l'accusa di Dante contro l'insensata cura de' mortali, che anziché
ricercare i beni celesti si affannano dietro a quelli terreni, a differenza del poeta che è libero ormai da tutte queste lusinghe ed è accolto in gloria
insieme a Beatrice nell'alto dei Cieli. Tommaso sceglie di raccontare la vita di Francesco in quanto sia lui sia san Domenico hanno perseguito il
medesimo fine di assistere la Chiesa e agevolarne il cammino, entrambi ordinati dalla Provvidenza come suoi principi e campioni: l'immagine era
frequente nella letteratura trecentesca, così come il ritratto dei due santi che erano visti in modo complementare, Francesco acceso di ardore di
carità e Domenico pieno di sapienza divina, paragonati anche da Tommaso a un Serafino e a un Cherubino.
La biografia di Francesco si apre con una grandiosa descrizione geografica di Assisi, che nella sua solennità ricorda molto quella del Canto VIII nelle
parole di Carlo Martello e la perifrasi del Canto IX che introduceva il luogo natale di Folchetto di Marsiglia; Dante indica Francesco come un Sole che
è nato per illuminare il mondo, come il Sole vero e proprio quando sorge nell'estremo Oriente (il Gange) nell'equinozio di primavera ed è più
benefico, giocando forse sul nome Ascesi che era diffuso nell'Italia centrale del tempo e che può indicare anche l'elevazione spirituale. Segue poi la
descrizione della sua vita, per la quale Dante si è certo rifatto alle fonti diffuse nel primo Trecento (come gli Actus beati Francisci e la Legenda
maior di san Bonaventura), anche se il poeta trascura gli elementi più popolari e aneddotici, per concentrarsi soprattutto sulle metaforiche nozze
con la Povertà e, quindi, descrivendo Franscesco come una figura esemplare di uomo di Chiesa che perseguì un ideale di povertà evangelica, in
contrasto con la corruzione ecclesiastica e la ricerca di ricchezze. Ciò è coerente sia con l'apertura del Canto, sia col finale dedicato alla rampogna di
Tommaso contro i domenicani corrotti: Francesco entra in contrasto col padre per sposare la Povertà, rimasta senza marito dopo la morte di Cristo,
si spoglia pubblicamente di tutti i beni e, dopo le mistiche nozze, ama la sposa di giorno in giorno più intensamente (fin dall'inizio è evidente
l'imitatio Christi  da parte del santo, che Dante descrive come alter Christus soprattutto per la scelta di vivere poveramente e in umiltà). Attorno a
Francesco e alla sua sposa si raccoglie una famiglia di seguaci che si fa via via più numerosa, per cui i frati imitano il loro maestro spogliandosi di ogni
cosa e seguendolo scalzi, cingendo i fianchi con l'umile capestro (il cinto francescano) che sarà simbolo della loro scelta di vita. La severa Regola
francescana riceverà poi tre «sigilli» che ne sanciranno la validità, i primi due da parte dei papi Innocenzo III e Onorio III, l'ultimo (il più importante)
da parte dello Spirito Santo attraverso le stimmate, segno più evidente dell'imitatio Christi: da rilevare che, se Dante segue la biografia di
Bonaventura nelle linee essenziali, anche invertendo l'ordine di alcuni eventi, nondimeno dipinge Francesco come una figura altamente regale e
dignitosa a dispetto della sua umiltà, come nel momento in cui si presenta di fronte a papa Innocenzo per sottoporgli la sua Regola; qualcosa di
simile avviene anche nell'incontro col Sultano d'Egitto, qui presentato come sovrano superbo (mentre le fonti parlano di un'accoglienza benevola da
parte del re musulmano) di fronte al quale Francesco si presenta per desiderio di martirio, non riuscendo tuttavia a convertire quei popoli ancora
immaturi e restii ad ascoltare il messaggio evangelico. Tornato in Italia, dopo l'episodio delle stimmate e quando a Dio piacque di chiamarlo a sé,
ancora una volta il santo raccomanda ai suoi confratelli la fedeltà alla sposa-Povertà (quindi alla severità della Regola) e poi si fa seppellire nudo
nella nuda terra senza altra bara, a sottolineare in quell'ultimo gesto la sua volontà di vivere privo di qualunque ricchezza; va ricordato che
Bonaventura, nella sua rampogna ai francescani degeneri, spiegherà proprio che essi si divisero fra spirituali e conventuali, ovvero tra coloro che
inasprirono e attenuarono la Regola contrariamente alla volontà del fondatore, che venne quindi fraintesa in entrambi i casi.
Il finale del Canto è occupato dal rimprovero di Tommaso contro i confratelli del suo Ordine, che vengono accusati soprattutto di aver tradito la
Regola di san Domenico per desiderio di ricchezze e beni terreni, per cui il gregge al quale il beato appartenne in vita si è allontanato dal pastore e
va in cerca di altri pascoli in quanto ghiotto di altro cibo: la metafora evangelica serve a Dante per criticare la corruzione assai diffusa proprio fra i
domenicani, specie attraverso la vendita delle indulgenze e l'intepretazione capziosa del diritto canonico, per cui le parole di Tommaso si rifanno a
quelle di Folchetto nel finale del Canto IX (dove aveva parlato di pecore e... agni  deviati e allontanatisi dal pastore diventato un lupo, a causa della
sete di ricchezze alimentata dal maladetto fiore, il fiorino). Il discorso di Tommaso si rifà al tema, assai frequente nella III Cantica, della corruzione
della Chiesa, anticipando altri celebri passi come il durissimo attacco contro papa Giovanni XXII del finale del Canto XVIII, nonché il discorso
altrettanto severo di san Pietro contro Bonifacio VIII e la Curia papale corrotta di XXVII, 22-60; lo stesso Bonaventura nel Canto seguente descriverà
san Domenico come un dottore della Chiesa intento a studiare la dottrina non per arricchirsi grazie ai cavilli legali del diritto canonico, ma per
mettere la propria sapienza al servizio della Cristianità e stroncare le eresie, nonostante il pontefice spesso traligni dalla retta via tracciata dal
messaggio evangelico. Gli esempi di corruzione ecclesiastica sono ovviamente opposti a quello di Francesco, che con la sua vita semplice ha voluto
riproporre l'ideale di povertà evangelica di Gesù e dei suoi discepoli, troppo spesso disatteso dai papi e dai prelati corrotti contro i quali, in molti
passi del poema e in particolare del Paradiso, Dante rivolge le sue critiche e il suo duro richiamo.

Note e passi controversi

Al v. 2 il termine silogismi  indica i ragionamenti propri della logica aristotelica e scolastica (la forma con una sola - l - è prevalente nei codici, come
in palido, Caliopè, ecc.).
Al v. 4 iura indica gli studi giuridici, mentre gli amforismi  si rifanno agli studi medici (Aforismi era il titolo dell'opera di Ippocrate).
Al v. 13 ne lo è rima composta, da leggere «nèlo».
Il v. 26 propone la lez. nacque di contro a surse di X, 114, in quanto attestata da quasi tutti i mss. (non è strettamente necessario che Tommaso citi
letteralmente le proprie parole).
Ai vv. 29-30 aspetto / creato  vuol dire la vista di ogni creatura, umana o angelica.
La sposa del v. 32 è ovviamente la Chiesa, unita a Cristo (colui ch'ad altre grida / disposò lei col sangue benedetto).
Francesco e Domenico (vv. 37-39) sono paragonati rispettivamente a un Serafino e a un Cherubino, poiché proprio Tommaso nella Summa theol. (I
q., LXIII) riconduceva l'etimologia dei due termini all'ardore di carità e alla sapienza. La stessa immagine si trova anche nella Legenda maior  di san
Bonaventura.
L'acqua del v. 43 è il fiume Chiascio, che scorre dal monte Ausciano (il colle) dove Ubaldo Baldassini si ritirò a vita eremitica nel XII sec.
I vv. 46-48 indicano che Perugia trae vantaggio dalla sua posizione, poiché il monte Subasio le rimanda il calore estivo e il freddo dell'inverno,
mentre Nocera e Gualdo, che sorgono dal lato opposto del monte, sono in posizione svantaggiosa. Improbabile, come pure alcuni critici hanno
ipotizzato, che Dante si riferisca al dominio politico di Perugia sulle due città.
Al v. 51 questo indica il Sole vero e proprio, che quando sorge nell'equinozio primaverile dal Gange (cioè, secondo la geografia del tempo,
dall'estremo Oriente) è più luminoso e più benefico. Ciò spiega perché Assisi sia definita Oriente, avendo dato i natali a Francesco-Sole (la
forma Ascesi era normale nella lingua dell'Italia centrale, anche se non si può escludere che Dante pensasse all'ascesi spirituale).
Al v. 55 orto è latinismo e vuol dire «nascita» (il latino ortus era spesso usato in riferimento al sorgere del Sole).
La spirital corte del v. 61 è il tribunale episcopale, di fronte al quale il padre di Francesco citò il figlio.
Il primo marito della Povertà (v. 64) è Gesù, che morendo sulla croce la lasciò vedova.
I vv. 67-69 si rifanno a Lucano, che nella Phars. (V, 519 ss.) racconta di un pescatore, Amiclàte, talmente povero da non temere di lasciare la porta
della sua capanna aperta durante le scorrerie di Cesare (colui ch'a tutto 'l mondo fé paura) e Pompeo durante la guerra civile. Dante cita l'episodio
anche in Conv., IV, 13.
Bernardo di Quintavalle (v. 79) fu, secondo Bonaventura, il primo discepolo del santo: fondò a Bologna nel 1211 il primo convento francescano e
assistette alla morte del santo. Egidio e Silvestro (v. 83) furono altri suoi seguaci, uomo semplice e modesto il primo, prete di Assisi il secondo (in
base a una leggenda, avrebbe seguito Francesco dopo un sogno in cui il santo difendeva Assisi minacciata da un terribile dragone).
I vv. 95-96 (la cui mirabil vita / meglio in gloria del ciel si canterebbe) indica prob. che la vita di Francesco dovrebbe essere elogiata non per la sua
persona, ma per la gloria celeste; altri intendono un riferimento ai francescani corrotti (la sua vita si celebra in Cielo meglio di quanto non si faccia
sulla Terra).
Al v. 97 redimita è latinismo e vuol dire «coronata», mentre al v. 99 archimandrita è grecismo e significa «pastore». Entrambi i termini
impreziosiscono notevolmente il linguaggio di Tommaso.
Il crudo sasso  citato al v. 106 è il monte della Verna, sull'Appennino toscano, dove Francesco ricevette le stimmate.
Al v. 111 pusillo è latinismo e vuol dire «umile».
Il v. 137 va interpretato «vedrai da dove ha origine la corruzione dell'Ordine domenicano».
Al v. 138 corrègger è infinito sostantivato e significa «inciso», «correzione», con riferimento all'espressione se non si vaneggia. Alcuni critici
leggono correggér nel senso di «frate domenicano» e riferito a Tommaso stesso, detto così perché i frati del suo Ordine indossavano una correggia e
non il cinto francescano (per cui i francescani erano detti cordiglieri).

XII canto

Argomento del Canto

Ancora nel IV Cielo del Sole. Apparizione della seconda corona di spiriti sapienti; san Bonaventura pronuncia il panegirico di san Domenico. Biasimo
dei francescani degeneri. Gli spiriti della seconda corona.
È il primo mattino di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.

Apparizione della seconda corona di spiriti sapienti (1-21)

San Tommaso ha appena terminato di parlare, quando la prima corona di spiriti sapienti riprende a ruotare e non compie un giro completo prima
che una seconda corona di dodici anime la circondi, cantando in modo così armonioso che sarebbe impossibile descriverlo. Le due corone sembrano
due arcobaleni concentrici e degli stessi colori, l'uno riflesso dall'altro, che ricordano il mito di Iride inviata da Giunone sulla Terra e il racconto
biblico del patto tra Dio e l'uomo, dopo il Diluvio Universale.

San Bonaventura inizia il panegirico di san Domenico (22-45)


Dopo che la danza delle luci fiammeggianti ha termine e che le luci stesse si sono fermate in base a una volontà concorde, dall'interno di uno dei
lumi appena giunti viene una voce che induce subito Dante a prestare la massima attenzione. Il beato (san Bonaventura) dichiara l'ardore di carità lo
spinge a parlare del fondatore dell'Ordine domenicano, poiché san Tommaso ha appena parlato in termini lusinghieri di san Francesco: dal
momento che entrambi combatterono per lo stesso fine, è giusto che la loro gloria risplenda insieme. Bonaventura spiega che la Chiesa appariva
incerta ed esitante, quando Dio la soccorse facendo nascere due campioni (san Francesco e san Domenico) le cui azioni indussero il popolo cristiano
a ravvedersi.

Vita di san Domenico: dalla nascita alle nozze con la Fede (46-72)

In quella parte dell'Europa dove lo zefiro dà inizio alla primavera (l'Occidente), non molto lontano dalle coste della Penisola iberica bagnate
dall'Oceano, sorge la città di Calaruega, sotto la protezione dello stemma di Castiglia in cui il leone è sotto la torre in un quartiere, ed è sopra
nell'altro. In quella città nacque san Domenico, il supremo difensore della fede cristiana che fu benevolo con i suoi e spietato con i nemici; la sua
mente fu subito piena di virtù, come fu chiaro nel sogno premonitore che la madre fece prima della sua nascita. Ben presto Domenico fu battezzato
e divenne sposo della Fede, e la madrina fece anch'ella un sogno rilvelatore delle imprese del santo, per cui dal Cielo venne l'ispirazione a dargli quel
nome che è il possessivo di «Signore». Infatti fu chiamato Domenico, e fu in certo modo l'agricoltore che Cristo ordinò per coltivare il proprio orto.

Vita di san Domenico: la lotta contro le eresie (73-105)

Domenico dimostrò sin dall'infanzia l'amore verso Cristo e i suoi insegnamenti, al punto che la sua nutrice spesso lo trovò per terra, come se
dicesse: «Sono nato per questo». Suo padre poteva ben chiamarsi Felice e sua madre Giovanna, in quanto il giovane Domenico si dedicò tutto agli
studi filosofici, non certo per sete di ricchezze come fa chi studia il diritto canonico, bensì per amore di Dio. Divenne presto un esperto teologo e si
servì della sua sapienza per difendere la Chiesa, per cui chiese al papa (che troppo spesso si allontana dalla retta via) non di intascare le ricchezze
materiali con vari cavilli legali, bensì il permesso di combattere le eresie che minacciavano la Cristianità. Ottenuto l'avallo papale, iniziò a
combattere efficacemente le eresie, soprattutto in Provenza dove esse erano maggiormente allignate. Il suo esempio fu poi seguito dai suoi
confratelli, per cui nacquero da lui diversi ruscelli che continuarono dopo la sua morte a irrigare l'orto del popolo cristiano.

Biasimo dei francescani degeneri (106-126)


Bonaventura spiega che, se Domenico fu una ruota del carro della Chiesa che combatté e vinse la sua battaglia contro le eresie, Dante dovrebbe
capire l'eccellenza dell'altra ruota (san Francesco), che san Tommaso ha poco prima elogiato col suo discorso. Tuttavia ora il solco tracciato da
quella ruota è abbandonata, cosicché c'è il male al posto del bene. L'Ordine francescano un tempo seguiva i passi del suo fondatore, ma oggi
procede in senso opposto e ben presto si distingueranno i francescani fedeli alla Regola da quelli degeneri. Certo, spiega Bonaventura, a cercare con
cura si troverebbero ancora dei francescani fedeli agli insegnamenti di san Francesco, ma fra questi non certo Ubertino da Casale (capo degli
spirituali) né Matteo d'Acquasparta (capo dei conventuali), i quali vogliono rispettivamente inasprire e ammorbidire la Regola del santo, in modo
tale che sbagliano entrambi.

Gli spiriti della seconda corona (127-145)

Il beato si presenta infine come Bonaventura da Bagnoregio, che nelle cariche ecclesiastiche ricoperte mise sempre in secondo piano i desideri
mondani: presenta gli altri spiriti che formano la seconda corona, fra cui Illuminato da Rieti e Agostino da Assisi, che furono tra i primi seguaci di san
Francesco, nonché Ugo di San Vittore, Pietro Mangiadore e Pietro da Lisbona, che scrisse i dodici libri delle Summulae logicales. Insieme a loro vi
sono anche il profeta Natan, il patriarca di Costantinopoli san Giovanni Crisostomo, Anselmo da Aosta ed Elio Donato, che scrisse un trattato di
grammatica. Vi sono anche Rabano Mauro e il calabrese Gioacchino da Fiore, dotato di capacità profetiche. Bonaventura conclude il suo discorso
spiegando che egli ha pronunciato l'elogio di san Domenico, paladino della Chiesa cristiana, per la cortesia di san Tommaso e le sue chiare parole,
che hanno indotto lui e gli altri beati della seconda corona a danzare e a cantare.

Interpretazione complessiva

Il Canto è dedicato quasi interamente alla figura di san Domenico, di cui il francescano Bonaventura tesse l'elogio in modo speculare a quanto fatto
da san Tommaso nel Canto precedente con san Francesco, per cui i Canti XI-XII formano una sorta di «chiasmo» (Bonaventura farà seguire al
panegirico di Domenico la rampogna contro i francescani degeneri, così come Tommaso aveva criticato la corruzione dei domenicani). L'episodio si
apre con l'apparizione di una seconda corona di spiriti sapienti, cui appartiene il protagonista del Canto san Bonaventura, che circonda la prima e
accorda la propria danza e il proprio canto con essa, in modo così melodioso da risultare impossibile descriverlo a parole: Dante ricorre alla preziosa
similitudine dei due archi paralelli e concolori, due arcobaleni concentrici che sono l'uno il riflesso dell'altro e che rimandano a un duplice
riferimento mitologico (l'ancella di Giunone, Iride, che scende dall'Olimpo sulla Terra e forma l'arcobaleno e la ninfa Eco), nonché al racconto biblico
del Diluvio Universale, dopo il quale Dio, per garantire a Noè che quell'evento non si sarebbe ripetuto, fece appunto apparire un arcobaleno.
Entrambi gli esempi evocano una sorta di legame tra Cielo e Terra, mentre quello biblico sottolinea il nuovo patto sancito tra Dio e l'uomo dopo il
peccato punito, oltre a innalzare notevolmente il linguaggio con una serie di riferimenti colti che introducono l'importante discorso che occuperà
buona parte del Canto (lo stesso avverrà all'inizio di quello seguente, in cui la doppia corona verrà paragonata alle costellazioni più luminose della
volta celeste).
Viene poi introdotto il personaggio di Bonaventura, che senza presentarsi subito, quindi in maniera opposta a quanto fatto nel Canto X da Tommaso
d'Aquino, si dice intenzionato a rispondere alla cortesia del domenicano che ha parlato così bene del fondatore del suo Ordine, per cui egli farà lo
stesso col fondatore di quello domenicano: il motivo è analogo a quello già detto da Tommaso, ovvero il fatto che entrambi i santi ad una
militaro (combatterono insieme, per lo stesso fine) e dunque è giusto che la loro gloria risplenda insieme, essendo entrambi stati creati da Dio
come campioni della Chiesa sulla Terra. In effetti la metafora militare è largamente usata da Bonaventura nel panegirico di san Domenico, a
cominciare dal termine militaro che allude alle battaglie da lui svolte per combattere le eresie, per poi indicare la Chiesa come essercito di Cristo che
fu «riarmato» a caro prezzo (si allude alla morte di Cristo sulla croce che riconciliò Dio e l'uomo e diede all'umanità le armi per difendersi dal
demonio), nonostante ora si muova esitante dietro le insegne del Cristianesimo. Dio stesso è definito 'mperador, temine carico di significati militari
e guerreschi nel linguaggio classico, mentre Domenico e Francesco sono appunto i due campioni della Chiesa, il cui scopo era quello di raccogliere
l'esercito cristiano ormai sbandato e riorganizzarlo, immagine che in realtà si adatta bene solo al santo spagnolo che fu, come è noto,
particolarmente impegnato nella lotta ai movimenti ereticali (non a caso Domenico è detto amoroso drudo, «vassallo» di Dio, e santo atleta, santo
combattente e difensore della Fede, mentre lo stesso Bonaventura nella Legenda maior aveva definito Francesco novus Christi... athleta). La
biografia di Domenico si apre con la presentazione dei luoghi in cui egli nacque, che vuole essere parallela rispetto a XI, 43-54, anche se lì Dante si
mostrava profondo conoscitore della geografia di Assisi e del territorio circostante, mentre qui la descrizione è più generica: la città castigliana di
Calaroga viene indicata con il riferimento all'estremità occidentale dell'Europa, dove in primavera spira il vento zefiro e l'Oceano percuote le coste
spagnole, mentre la Castiglia è evocata dal suo stemma in cui soggiace il leone e soggioga (è stato osservato che, mentre Francesco era paragonato
a un Sole nascente e la città di Assisi era detta appunto Oriente, Domenico nasce invece nell'Occidente del mondo cristiano, per cui sembra che i
due santi provengano da punti opposti per convergere entrambi al cuore della Cristianità). Segue poi la vita del santo in cui Dante si rifà agli
elementi leggendari e aneddotici diffusi nella agiografia del tempo, quindi citando il sogno profetico fatto dalla madre prima della nascita e quello
della madrina dopo il battesimo, in occasione del quale vennero celebrate delle mistiche nozze tra Domenico e la Fede, in maniera parallela a
quanto detto per Francesco e la Povertà. Il nome del santo è messo in relazione col possessivo di Dominus, quindi indicherebbe l'appartenenza e la
totale devozione di Domenico a Dio, mentre lo stesso viene fatto per il nome del padre, Felice, e della madre, Giovanna, che nei lessici medievali
veniva interpretato come «Grazia di Dio»; Domenico dimostra la sua dedizione alla Fede e a Dio fin da piccolo, quando viene spesso trovato dalla
nutrice sveglio e per terra, a indicare il suo destino di umiltà e l'attaccamento alla povertà. Domenico si dedica poi allo studio della teologia, non per
arricchirsi come poi faranno i domenicani degeneri attraverso l'interpretazione sottile del diritto canonico, ma per volontà di servire la Chiesa e
difenderla dai suoi nemici: Dante sottolinea che il santo chiederà al papa la licenza di combattere contro le eresie, quindi l'approvazione del proprio
Ordine, e non la possibilità di arricchirsi grazie a sofisticati cavilli legali (il poeta usa i termini propri del linguaggio canonico,
mentre Ostiense e Taddeo citati prima sono due famosi canonisti, autori di quei volumi che, secondo Folchetto di Marsiglia, avevano i margini più
sgualciti rispetto al Vangelo e ai libri di dottrina; cfr. IX, 133-135). Evidente è allora il parallelo tra Domenico e Francesco, entrambi lontani dalle
lusinghe dei beni terreni e tutti votati alla loro missione religiosa, con la differenza che Francesco abbraccerà un ideale di povertà evangelica,
mentre Domenico con dottrina e con volere si batterà per estirpare la mala pianta dell'eresia, soprattutto quella albigese in Provenza, lasciando
dietro di sé un'eredità che almeno all'inizio sarà raccolta dai suoi confratelli, impegnati a proseguire l'opera del fondatore per curare l'orto di Cristo
(lo stesso Domenico era stato definito agricola, «contadino» voluto da Cristo per custodire la sua vigna, mentre va ricordato che entrambi gli Ordini,
francescano e domenicano, erano nati come «mendicanti»).
Il panegirico di Domenico è poi seguito dal biasimo dei francescani degeneri, accusati da Bonaventura di aver tradito la Regola del fondatore e di
volerla inasprire (è la critica rivolta agli «spirituali», guidati da Ubertino da Casale) oppure di volerla attenuare (come proposto dai «conventuali», il
cui capo era Matteo d'Acquasparta). Entrambe le correnti nate nel francescanesimo vengono condannate da Dante, che mette in bocca a
Bonaventura la complessa e sofisticata metafora della ruota del carro della Chiesa rappresentata da Francesco, il cui solco sul terreno è stato
abbandonato e presenta la muffa  al posto della gromma, ovvero il tartaro che si forma all'interno delle botti e che ammuffisce se non viene curato;
il poeta prende quindi le distanze sia dagli spirituali sia dai conventuali, ed è quindi assai improbabile che l'ulteriore metafora del loglio separato dal
grano (cioè i francescani buoni che saranno distinti dai cattivi) si riferisca alla bolla di Giovanni XXII che espelleva dall'Ordine gli spirituali dissidenti.
Alla fine del suo discorso Bonaventura presenta infine se stesso e gli altri spiriti sapienti della sua corona, tra cui spicca soprattutto il calavrese abate
Gioacchino, quel Gioacchino da Fiore che fondò l'Ordine florense e fu autore delle cosiddette profezie gioachimite, in cui preannunciava una
prossima palingenesi della Cristianità: le sue idee si diffusero ampiamente tra i franscescani spirituali e furono aspramente combattute proprio da
Bonaventura, che ora invece è posto accanto a Gioacchino in perfetta concordia, in modo dunque parallelo a quanto si è visto per san Tommaso e
Sigieri di Brabante in X, 133-138. Il parallelismo è evidente anche nella rassegna dei beati che formano le due corone, che nel caso di Tommaso
precede e nel caso di Bonaventura segue il panegirico e il biasimo che sono al centro dei Canti XI-XII, per cui si può veramente parlare di struttura
«chiastica»; nei due episodi l'accenno a Gioacchino da Fiore conferma ulterioremente, poi, che in Paradiso i contrasti terreni sono ormai superati,
come si è visto nell'episodio di Piccarda Donati che nessun risentimento nutriva per chi l'aveva rapita dal chiostro, e forse in quello
di Giustiniano che faceva ammenda dei suoi errori verso il generale Belisario, attraverso l'elogio di Romeo di Villanova.

Note e passi controversi

Al v. 3 la santa mola è la prima corona, detta così perché ruota orizzontalmente come la macina di un mulino.
Il v. 9 allude al raggio riflesso (quel ch'e' refuse) che è più luminoso di quello diretto (il primo splendor).
Al v. 10 paralelli al posto di «paralleli» è la forma consueta nel volgare toscano del Trecento, ampiamente attestata da quasi tutti i codici
della Commedia.
Il v. 12 accenna al noto mito di Iride, l'ancella di Giunone che, quando scendeva sulla Terra per recare un messaggio della dea, tracciava l'arcobaleno
(Iunone e iube, «ordina», sono due latinismi).
I vv. 14-15 alludono al mito della ninfa Eco, che, innamorata di Narciso e non corrisposta, fu consumata dall'amore fino a ridursi alla sola voce che
ripeteva gli altri suoni (Ovidio, Met., III, 339 ss.).
Al v. 24 blande vuol dire «piene di carità».
I vv. 26-27 indicano semplicemente che le due corone si fermano simultaneamente, come gli occhi si aprono e si chiudono insieme.
I vv. 29-30 alludono alla bussola, da poco introdotta in Occidente nel XIV sec., il cui ago si credeva attratto dalla Stella Polare.
Al v. 33 per cui  vuol dire «a causa del quale», riferito a Francesco.
Il vb. si raccorse (v. 45) vuol dire probabilmente «si ravvide», ma alcuni interpretano «si raccolse».
Il grande scudo del v. 53 è lo stemma del re di Castiglia, in cui vi sono quattro quartieri: in quelli di sinistra il leone sta sotto la torre, in quelli di
destra sta sopra (vedi figura).
Al v. 55 drudo non vuol dire «amante», ma «vassallo» ed è termine militare; al v. 56 atleta  vuol dire invece «difensore».
Il v. 60 allude al sogno profetico che Giovanna, la madre di Domenico, avrebbe fatto prima della sua nascita: la donna sognò di partorire un cane
bianco e nero (i colori dell'Ordine domenicano) con in bocca una fiaccola, che poi incendiava il mondo. La leggenda ha punti di contatto con la
nascita di Ezzelino da Romano (cfr. IX, 28-30) e con quella di Paride, anche se qui il sogno ha significato positivo.
I vv. 64-66 si riferiscono al sogno fatto dalla madrina di battesimo del santo (la donna che per lui l'assenso diede), in cui vide il bambino con una
stella in fronte, simbolo della sua missione religiosa. Alcune biografie riferiscono tale sogno alla madre del santo.
Ai vv. 71, 73 e 75 la parola Cristo rima con se stessa, come sempre avviene nella Commedia (alcuni critici pensano che Dante faccia ammenda della
rima Cristo / tristo / malacquisto di Rime, XXVIII, 9-14 (la Tenzone con Forese Donati).
Il primo consiglio dato da Cristo (v. 75) potrebbe essere quello all'umilità della prima beatitudine, oppure quello alla povertà dato al giovane ricco
(Matth., XIX, 21); sembra più verosimile la seconda ipotesi, visto che Domenico bambino viene trovato in terra dalla nutrice.
Al v. 83 Ostiense e... Taddeo sono Enrico da Susa, nominato nel 1262 vescovo di Ostia (da cui il soprannome) e prob. il fiorentino Taddeo
d'Alderotto, entrambi autori di apprezzati volumi di diritto canonico.
L'immagine della vigna (vv. 86-87) che imbianca, si secca se non è curata dal vignaiolo, è evangelica (Matth., XX, 1-16); il vb. circuir è prob. un
latinismo puro e significa «custodire».
La sedia del v. 88 è il soglio del papa, di cui si dice che un tempo fu più pronto a dispensare le ricchezze ai poveri. Nei vv. seguenti Dante si rifà al
linguaggio canonico, alludendo all'usanza di dare solo un terzo o la metà di quanto si doveva ai poveri (v. 91), di occupare il primo beneficio
ecclesiastico libero (v. 92), di impadronirsi delle decime (v. 93).
Il seme (v. 95) è la Fede, mentre le ventiquattro piante sono i beati delle due corone.
I vv. 112-114 vogliono dire che il solco un tempo tracciato da una ruota del carro della Chiesa (l'Ordine francescano) ora è abbandonata, perché i
francescani degeneri seguono un'altra via. La gromma è lo strato di tartaro che il vino buono forma sulle pareti interne delle botti e che
diventa muffa se la botte non è curata (immagine affine a quella del buon vignaiolo, vv. 86-87).
I vv. 115-117 sono di difficile interpretazione, anche se il senso è chiaro: i francescani non seguono pù la strada tracciata dal loro fondatore (prob. il
significato è che essi camminano a ritroso, spingendo il piede davanti verso quello dietro).
I vv. 118-120 alludono alla parabola evangelica della zizzania (Matth., XIII, 24-30), per cui Dante vuol dire che presto si distingueranno i francescani
degeneri da quelli fedeli alla Regola. Improbabile che il poeta si riferisca alla bolla di condanna di papa Giovanni XXII, sia per il disprezzo manifestato
altrove per quel pontefice, sia perché egli condanna anche gli spirituali.
Il v. 124 allude a Ubertino da Casale (1259-inizio XIV sec.), che parteggiò per gli spirituali e fu ad Avignone sotto la protezione dei cardinali Orsini e
Colonna; dopo la bolla di Giovanni XXII fu condannato per eresia e fece perdere le proprie tracce. Matteo d'Acquasparta (morto nel 1302) fu invece
a capo dei conventuali; generale dell'Ordine francescano e cardinale, aiutò le mire teocratiche di Bonifacio VIII e fu a Firenze come paciere tra
Bianchi e Neri.
Il vb. inveggiar del v. 142 è di significato dubbio e potrebbe voler dire «emulare», oppure «inneggiare», oppure ancora «chiamare in campo» (in
riferimento a Domenico, definito «campione» della Chiesa). Il paladino è ovviamente il santo spagnolo.
Al v. 144 latino vuol dire «discorso».

XV canto

Argomento del Canto

Ancora nel V Cielo di Marte. Apparizione dell'avo Cacciaguida, che saluta Dante. Cacciaguida si rivela, parlando dell'antica Firenze e della sua vita.
Cacciaguida parla della sua partecipazione alla seconda crociata.

È l'alba di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.

Silenzio dei beati. Apparizione dell'avo Cacciaguida (1-30)

Gli spiriti combattenti della croce mettono fine al loro canto melodioso, spinti dalla loro volontà di fare il bene e consentire a Dante di esporre i suoi
desideri, fino a quel momento simili a una lira celeste che la mano di Dio suona armoniosamente. Come possono le anime beate, si chiede Dante,
essere sorde alle preghiere degli uomini, visto che quegli spiriti tacciono per consentirgli di parlare? È giusto che arda tra le fiamme dell'Inferno colui
che, per amore di beni effimeri, non obbedisce all'amore per i beni celesti.

Uno dei lumi dei beati della croce si muove lungo il braccio destro verso il centro e poi verso il basso, simile a una stella cadente che d'improvviso
attraversa il cielo sereno, salvo che chi guarda non vede sparire nessun astro dal firmamento. Il beato non abbandona la croce ma si muove lungo
questa, proprio come una fiamma che traspare dietro una parete di alabastro. Dante paragona la devozione di quest'anima a quella di Anchise,
quando accolse il figlio Enea nei Campi Elisi, quindi il beato (l'avo Cacciaguida) si rivolge al poeta parlando latino e manifestando la sua gioia per il
fatto che a Dante, suo discendente, è stata aperta per due volte la porta del Paradiso.

Cacciaguida invita Dante a parlare (31-69)

Dante rivolge la sua attenzione al beato che ha finito di parlare, quindi guarda Beatrice e rimane doppiamente stupefatto, per le parole dello spirito
e per l'ardente bellezza degli occhi della donna. Cacciaguida riprende poi a parlare e dice cose tanto profonde che Dante non può capirle, non
perché egli voglia celarne il senso ma in quanto il concetto espresso va oltre le umane capacità dell'intelletto del poeta. Quando il beato torna a
parlare in modo comprensibile a Dante, questi sente che l'avo benedice Dio per la grazia dimostrata al suo discendente, poi Cacciaguida si rivolge al
poeta dicendogli che attendeva da lungo tempo il suo arrivo, preannunciatogli dalla mente divina, e ora che Beatrice lo ha condotto fin lì ciò gli
procura immensa gioia. Dante, continua Cacciaguida, sa che il beato legge il suo pensiero nella mente di Dio e perciò il poeta non formula alcuna
richiesta; egli conferma l'esattezza della convinzione di Dante, tuttavia invita il suo discendente a domandare per consentire al suo ardore di carità
di manifestarsi compiutamente.

Dante chiede allo spirito di manifestarsi. Cacciaguida si presenta (70-96)

Dante rivolge lo sguardo a Beatrice, la quale intuisce la sua richiesta e gli dà un cenno d'assenso. Allora il poeta dice al beato che nelle anime del
Paradiso il sentimento è pari all'intelligenza, poiché così ha voluto Dio quando li ha elevati a una tale altezza; ma per i mortali imperfetti non è così,
quindi Dante ringrazia lo spirito solamente con il proprio cuore per la festosa accoglienza ricevuta e lo supplica di rivelargli il proprio nome. Lo
spirito risponde presentandosi come suo antenato e affermando che il proprio figlio, Alighiero I, è da più cento anni in Purgatorio, nella I Cornice;
questi è stato bisnonno di Dante e Cacciaguida invita il poeta a pregare per abbreviare la sua permanenza nel secondo regno.

Cacciaguida rievoca la Firenze antica (97-129)

Al tempo di Cacciaguida Firenze era ancora circondata dalla vecchia cinta muraria, presso la quale si trova ancora la chiesa di Badia, ed era assai più
sobria della città attuale. La popolazione non ostentava gioielli e monili sfarzosi, né le donne indossavano abiti alla moda per rendersi più
appariscenti. La figlia, nascendo, non faceva paura al padre per l'uso di sposarsi precocemente e l'ampiezza della dote; in città non vi erano case
troppo grandi e vuote per il lusso, né i cittadini si davano alla lussuria imitando Sardanapalo come nella Firenze attuale. Il monte Uccellatoio non
aveva ancora sormontato Monte Mario a Roma, per l'imponenza degli edifici cui seguirà un rapido declino. Cacciaguida vide Bellincione Berti,
illustre fiorentino, andare in giro vestito in modo semplice, mentre sua moglie non si ricopriva il volto di belletti; altri illustri cittadini si
accontentavano di vesti di pelle, mentre le loro spose stavano in casa a lavorare al telaio. Le donne di Firenze a quel tempo erano certe di non
morire in esilio, né alcuna era abbandonata dal marito che andava in Francia a commerciare; esse si dedicavano ad allevare i figli, a filare la lana, a
raccontare le leggende della fondazione di Firenze da parte dei Romani. A quei tempi, conclude Cacciaguida, certe sfacciate donne fiorentine dei
tempi di Dante avrebbero fatto stupire tutti, come oggi farebbero personaggi quali Cincinnato e Cornelia.

Cacciaguida rivela il proprio nome e la sua storia (127-148)


Il beato rivela di essere nato in quella città, partorito dalla madre che nelle doglie invocava il nome di Maria, quindi battezzato nel Battistero di
Firenze col nome di Cacciaguida. Ebbe due fratelli di nome Moronto ed Eliseo e sposò una donna proveniente dalla Valpadana, il cui cognome è
quello portato da Dante, Alighieri. In seguito Cacciaguida seguì l'imperatore Corrado III nella seconda Crociata, dopo che il sovrano per il suo retto
operare lo aveva investito cavaliere; andò dunque a combattere gli infedeli in Terrasanta, usurpata dai popoli islamici a causa della trascuratezza dei
papi. Dagli infedeli fu ucciso in battaglia e da quella morte giunse alla pace del Paradiso.

Interpretazione complessiva

Il Canto apre il «trittico» dedicato al personaggio di Cacciaguida e inaugura l'importante discorso relativo alla missione civile e poetica di Dante, non
a caso collocato in posizione centrale nella Cantica e nell'intero poema: in particolare questo primo episodio è caratterizzato da un linguaggio
solenne e stilisticamente prezioso, con una fitta serie di rimandi alla classicità e al testo biblico che innalzano notevolmente il tono del dialogo fra il
poeta e il suo avo. In apertura Dante descive il silenzio dei beati con la similitudine di una lira celeste che la mano di Dio allenta e tira, che smette di
cantare spinta dall'amore che sempre si liqua (latinismo per «si manifesta») in una volontà benevola, il che induce Dante ad affermare che le anime
beate non possono essere sorde alle preghiere dei vivi; poi l'apparizione di Cacciaguida è descritta come una stella cadente che d'improvviso
attraversa il quieto cielo nottuno, precisando in seguito che la luce del beato si muove lungo il braccio destro della croce simile a una gemma che
non lascia il suo nastro e a una fiamma visibile dietro una parete di alabastro (più avanti Dante chiamerà lo spirito vivo topazio, accentuando la
preziosità dei paragoni). Cacciaguida si rivolge quindi a Dante senza fare il proprio nome, cosa che avverrà solo verso la fine dell'episodio, dapprima
paragonato all'ombra di Anchise che accoglie il figlio Enea nei Campi Elisi e poi mostrato mentre parla al suo discendente in latino, chiedendosi a chi
oltre che a Dante la porta del Cielo è stata aperta due volte. Il doppio riferimento è ovviamente al viaggio di Enea nell'Ade, narrato da Virgilio nel
libro VI dell'Eneide e in occasione del quale l'eroe ascoltò dall'anima del padre il preannuncio dell'alta missione che lo avrebbe portato alla
fondazione della stirpe romana, ma anche a san Paolo che nella II Epistola ai Corinzi narrava di essere stato rapito al III Cielo, per cui la domanda
retorica di Cacciaguida sottintende che oltre a Dante la porta del Paradiso è stata aperta due volte solo al santo. Enea e san Paolo erano entrambi
citati da Dante in Inf., II, 28 ss., quando il poeta aveva esposto a Virgilio i suoi dubbi circa il viaggio nell'Oltretomba, per cui è come se Dante qui
volesse sottolineare il carattere provvidenziale del suo viaggio che è stato voluto da Dio per consentirgli di adempiere a un'importante missione
(quella di raccontare nel poema tutto ciò che ha visto, come l'avo gli spiegherà nel Canto XVII); inoltre è evidente il parallelismo tra Anchise e
Cacciaguida, che infatti saluta il suo discendente con l'espressione sanguis meus che è ripresa letterale di Aen., VI, 835 e che nel Canto XVII
profetizzerà a Dante il futuro esilio, investendolo della sua missione come Anchise aveva fatto con il figlio.

L'incontro fra Dante e Cacciaguida ha quindi un'importanza che va al di là dell'ambito personale e familiare in cui potrebbe sembrare circoscritto e
investe la sostanza stessa del poema, con la definizione della missione sacrale di cui il poeta si sente investito e la cui dichiarazione solenne affida
all'anima di questo suo oscuro antentato, scelto in quanto martire morto combattendo per la fede e vissuto in una Firenze molto diversa da quella
attuale da cui Dante sarà esiliato. La rievocazione di questa Firenze ideale del XII secolo, più piccola di quella del XIV e la cui popolazione non viveva
ancora nel lusso sfrenato dovuto alla diffusione della ricchezza, è al centro della successiva prosopepea del beato, il quale, richiesto da Dante di
rivelare la propria identità, si limita inizialmente a dire di essere stato suo antenato e concittadino: l'idealizzazione della Firenze antica a paragone di
quella moderna riprende l'accusa di Forese Donati alle sfacciate donne fiorentine di Purg., XXIII, 91-111 e anticipa la rassegna delle principali
famiglie fiorentine del Canto seguente, in cui sarà evidente il rimprovero di Cacciaguida alle genti nove e ai sùbiti guadagni che hanno diffuso la
corruzione nella città e hanno causato le discordie interne, portando infine all'esilio del poeta profetizzato nel Canto XVII. Non a caso gli abitanti di
questa Firenze ideale vivevano una vita semplice e modesta, con gli uomini più in vista che indossavano abiti non eleganti e le donne che non
sfoggiavano monili e vestiti sfarzosi, non si imbellettavano i visi, erano certe di morire in patria perché la città non conosceva ancora gli esili politici;
la rievocazione di Cacciaguida è sentita e ricca di pathos, specie all'inizio con la quadruplice anafora Non... dei vv. 100-109, in cui l'avo sottolinea i
costumi corrotti della Firenze attuale paragonandoli polemicamente a quelli morigerati dei suoi antichi concittadini. Particolarmente significativa,
poi, la descrizione delle donne intente a badare alla propria casa, ad allevare i figli e a filare la lana (l'immagine è tratta dalla lett. classica e si rifà a
quella della donna dell'antica Roma), mentre raccontano alla famiglia (che comprende anche la servitù, come in epoca romana) dell'antica e
leggendaria fondazione di Firenze ad opera dei Romani e di Cesare: il paragone tra Firenze e Roma è tanto più significativo, in quanto Dante riteneva
che gli abitanti della sua città di sangue «puro» discendessero proprio dai Romani, mentre quelli venuti da Fiesole e in seguito inurbatisi dal contado
avevano contaminato questa originaria purezza portando in città l'avidità di guadagno che tutto aveva corrotto (è la tesi sostenuta da Cacciaguida
nel Canto XVI, ma anche da Brunetto Latini in Inf., XV, 61-78). Non a caso i due esempi più famigerati di Fiorentini degeneri del Due-Trecento,
Cianghella e Lapo Salterello, sono paragonati in forma chiastica a Cincinnato e Cornelia, ovvero due illustri esempi di quelle alte virtù virili e
femminili che caratterizzavano i cittadini dell'antica Roma, mentre il paragone implicito tra le due città è evidente anche nell'accostamento tra
Monte Mario (Montemalo) e l'Uccellatoio, col dire che Firenze ha superato Roma nel lusso degli edifici ma sarà più rapida nella decadenza. Dante
crea un parallelo tra l'evoluzione politico-morale delle due città, in quanto entrambe hanno avuto un passato glorioso caratterizzato dalla vita
austera e dalla grandezza politica (Firenze aveva toccato il suo massimo splendore nella prima metà del Duecento), ma poi sono cadute nella
corruzione morale e nell'ambizione, finendo per declinare rapidamente: Roma in passato aveva visto il crollo del suo Impero, poi ristabilito da Carlo
Magno, Firenze vedrà assai presto la fine del proprio dominio politico ad opera di un imperatore in grado di riportare la sua autorità in Italia, o
almeno così si augura e profetizza Dante.

La rievocazione di Firenze dà modo a Cacciaguida di presentarsi e fare infine il proprio nome, raccontando brevemente la sua vita in cui spicca
soprattutto la partecipazione alla II Crociata al seguito dell'imperatore Corrado III, che l'aveva fatto cavaliere in seguito al suo bene ovrar : l'avo si
presenta dunque come martire caduto combattendo in Terrasanta contro gli infedeli, che tuttora usurpano i luoghi santi per colpa d'i pastor, per la
trascuratezza dei papi (è la consueta polemica di Dante contro il guelfismo e a favore dell'autorità imperiale), ma afferma anche orgogliosamente la
propria nobiltà, l'appartenenza a quell'aristocrazia cittadina formata, secondo Dante, dalla semenza santa dei Romani che avevano fondato Firenze
e della quale lui stesso sentiva di fare parte. La dichiarazione di Cacciaguida dà modo all'esule Dante, sconfitto sul piano politico e bandito dalla
propria ingrata città, di affermare con orgoglio la sua nobiltà, cosa di cui farà in parte ammenda all'inizio del Canto successivo: i versi seguenti
preciseranno meglio le origini di Cacciaguida e riprenderanno la rievocazione dell'antica Firenze ideale, con la rassegna delle famiglie più cospicue e
la rampogna contro l'imbastardimento della popolazione per l'immigrazione dal contado, causa prima (come si è detto) della corruzione e della
decadenza politica della città che Dante sta scontando con l'esilio. L'antica nobiltà di Cacciaguida è anche garanzia della veridicità delle profezie che
pronuncerà nel Canto XVII, e che riguarderanno non soltanto la vicenda biografica di Dante ma anche le imprese militari e politiche di Cangrande
della Scala, forse da identificare col «veltro» destinato a cacciare la lupa, quindi l'avarizia, dall'italia: il complessivo episodio di Cacciaguida si
inserisce pertanto in un quadro assai più ampio della vicenda personale del poeta e va ben al di là del comprensibile rancore che egli nutriva per i
suoi ingrati concittadini, il che spiega la scelta di questo personaggio come protagonista dei Canti centrali del Paradiso, nonché l'elevatezza dello
stile che li caratterizza e, almeno in parte, l'orgogliosa affermazione da parte di Dante della propria superiorità morale sui suoi antichi nemici politici.

Note e passi controversi

Al v. 1 si liqua è lat. da liqueo, «manifestarsi», che Dante rende della prima coniugazione.

I vv. 19-24 indicano che la luce di Cacciaguida si muove lungo il braccio destro della croce e scende in basso, senza staccarsi da essa come una
gemma che resta attaccata al suo nastro. La lista radial è propriamente il raggio che divide il cerchio, quindi è ciascuno degli assi della croce che,
essendo perpendicolari, è come se dividessero un cerchio in quattro quadranti uguali.

Il v. 24 allude a una particolare proprietà dell'alabastro che lascia trasparire la luce: può darsi che Dante avesse visto delle finestre di alcune chiese
fatte in quel materiale, che lasciavano filtrare la luce del sole.

I vv. 25-27 si riferiscono ovviamente ad Aen., VI, 684 ss., quando Enea scende agli Inferi e incontra l'ombra del padre Anchise nei Campi Elisi; la
maggior musa è prob. Virgilio, ma potrebbe essere anche l'alta poesia dell'Eneide.

Le parole in latino ai vv. 28-30 significano: «O mio discendente, o abbondanza grazia divina, a chi come a te fu aperta per due volte la porta del
cielo?». Sanguis meus è calco virgiliano (Aen., VI, 835), mentre le altre espressioni come superinfusa, gratia Dei, celi ianua sono di derivazione
biblica. La domanda è retorica e sottintende che il primo a compiere un viaggio in Paradiso da vivo fu san Paolo (cfr. Inf., II, 28 ss.)

Il magno volume (v. 50) è il libro della mente di Dio, dove ogni cosa è immutabile e dove Cacciaguida ha letto dell'arrivo di Dante.

Al v. 55 mei è lat. da meare, «procedere» (cfr. Par., XIII, 55).

Al v. 74 la prima equalità è Dio: Dante vuol dire che per i beati l'intelletto è pari al loro sentimento e lo possono esprimere a parole, mentre per lui,
mortale, questo è più difficile.

I vv. 91-94 alludono al figlio di Cacciaguida, Alighiero I bisnonno del poeta, che da più di un secolo è nella I Cornice del Purgatorio: il suo nome, che
poi divenne il cognome di Dante, deriva da quello degli Aldighieri, la famiglia della moglie di Cacciaguida (vv. 137-138).

I vv. 97-99 alludono all'antica cinta muraria di Firenze, che risaliva al IX-X sec. ed era assai più ristretta di quella dei tempi di Dante, realizzata nel
1173 quindi dopo la morte di Cacciaguida. Il v. 98 si riferisce alla chiesa di Badia, che si trovava presso le antiche mura e suonava ancora le ore
canoniche.

Alcuni mss. leggono al v. 101 donne contigiate, ma è prob. che Dante si riferisca al capo di abbigliamento. Contigiato deriva dall'ant. fr. cointise,
«ornamento».

Al v. 106 le case sono dette vòte perché troppo grandi a causa del lusso e quindi sproporzionate; alcuni intendono un'allusione agli esili del tempo di
Dante, ma sembrerebbe fuori contesto in questo passo (l'avo biasima i costumi lussuosi della Firenze del Trecento).

I vv. 109-111 indicano che il monte Uccellatoio, che sorge alle porte di Firenze, non aveva ancora superato Monte Mario a Roma, cioè il fasto degli
edifici di Firenze non aveva ancora oltrepassato quello della città di Roma; forse Dante allude più in generale all'ascesa e poi al declino politico-
morale della sua città. Uccellatoio è quadrisillabo per trittongo.

Bellincione Berti (v. 112) era il padre della buona Gualdrada (Inf., XVI, 37) e fu un fiorentino illustre della nobile famiglia dei Ravignani, di cui
sappiamo ben poco (visse nel XII sec.). I Nerli e i Vecchietti (Vecchio, v. 115) erano altre famiglie cospicue di parte guelfa, anch'esse contemporanee
dell'avo.

I vv. 118-120 vogliono dire che le antiche donne di Firenze non seguivano i mariti in esilio e non erano abbandonate dagli stessi per andare a
commerciare in Francia.

L'immagine ai vv. 124-126 riprende quella del v. 117 e descrive le donne della Firenze antica intente a filare la lana, come le brave matrone
dell'antica Roma; la famiglia è l'insieme dei servi e ad essi la donna fiorentina narrava le antiche storie delle origini della città, da Roma, e attraverso
questa, da Troia.

Cianghella (v. 129) era la figlia di Arrigo della Tosa, che dopo la morte del marito Lito degli Alidosi, imolese, tornò a Firenze e condusse vita dissoluta
sino alla morte, avvenuta forse nel 1330; Lapo Salterello era un giurista e poeta contemporaneo di Dante, accusato di brogli e baratteria e che passò
alla parte Nera dopo i fatti del 1301-1302 (fu, a quanto pare, uomo di corrotti costumi). A questi due esempi negativi Dante contrappone quelli
positivi di Quinzio Cincinnato, il celebre dittatore romano che vinse gli Equi, già ricordato da Giustiniano in Par., VI, 46, e di Cornelia, la figlia di
Scipione l'Africano e madre dei Gracchi, esempio di virtù e onestà per le donne di Roma, inclusa tra gli «spiriti magni» del Limbo (cfr. Inf., IV).

Il Batisteo citato al v. 134 è San Giovanni (cfr. Inf., XIX, 17; Par., XXV, 8-9); la forma Batisteo fu usata fino al Cinqucento.

Secondo alcuni la moglie di Cacciaguida (v. 137) veniva da Ferrara e apparteneva alla famiglia degli Aldighieri.

Lo 'mperador Currado (v. 139) è certamente Corrado III di Hohenstaufen, che regnò tra 1138-1152 e prese parte alla II Crociata; secondo alcuni
commentatori non sarebbe sceso mai in Italia, quindi Dante potrebbe riferirsi a Corrado II il Salico (1024-1039), che però è troppo anteriore a
Cacciaguida. Del resto l'avo di Dante poteva essersi unito a lui anche in diversa circostanza e l'espressione dietro li andai non implica che si sia
accodato al suo seguito.

XVI canto

Argomento del Canto

Ancora nel V Cielo di Marte. Colloquio tra Dante e l'avo Cacciaguida: il suo anno di nascita, gli antenati, la popolazione dell'antica Firenze, le
principali famiglie fiorentine. Cause della decadenza della città.

È l'alba di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.

Dante si vanta della propria nobiltà. Domande a Cacciaguida (1-27)

Dante osserva che se la nobiltà di sangue induce a vantarsi in Paradiso, come è accaduto a lui a sentire le parole di Cacciaguida, non si stupisce che
ciò avvenga sulla Terra dove l'affetto degli uomini è debole. La nobiltà è però un mantello che si accorcia presto, poiché il tempo di giorno in giorno
lo taglia se non gli si aggiunge del panno (cioè essa si vanifica, se non è mantenuta dai discendenti). Il poeta torna poi a rivolgersi a Cacciaguida,
dandogli del «voi» e non del «tu» come prima, al che Beatrice, che sta un po' in disparte, sorride della debolezza di Dante e sembra la dama che
tossì durante l'incontro fra Lancillotto e Ginevra. Dante si rivolge all'avo come suo capostipite e dichiara che quanto gli ha detto lo ha riempito di
gioia e d'orgoglio, quindi gli domanda chi furono i suoi antenati, quale fu il suo anno di nascita, a quanto ammontava la popolazione di Firenze a
quei tempi e quali erano le principali famiglie fiorentine.

Risposte di Cacciaguida: l'anno di nascita, gli antenati, la popolazione di Firenze (28-48)

L'anima di Cacciaguida si illumina per la gioia di rispondere, simile a un carbone avvolto dalla fiamma che si avviva al soffiare del vento, quindi inizia
a rispondere alle domande con voce dolce e soave, parlando in una lingua diversa dal fiorentino moderno. L'avo spiega che dal giorno
dell'Annunciazione a Maria a quello della sua nascita, il pianeta Marte si è trovato in congiunzione con la costellazione del Leone 580 volte, quindi
sono trascorsi 1091 anni. Lui e i suoi antenati nacquero nel punto di Firenze dove ora chi corre il palio annuale incontra per primo l'ultimo sestiere,
quello di Porta S. Pietro; quanto ai suoi avi è sufficiente dire questo ed è preferibile tacere chi fossero e da dove venissero. Gli abitanti di Firenze che
all'epoca erano atti a portare armi erano circa un quinto di quelli della Firenze attuale.

Cause della decadenza di Firenze (49-87)

A quei tempi, spiega Cacciaguida, la popolazione di Firenze era pura fino all'ultimo artigiano e non mescolata a quella del contado come avviene
attualmente. Quanto sarebbe meglio che quelle genti non abitassero entro la città e che i confini di Firenze fossero ancora quelli di un tempo,
piuttosto che sentire il puzzo dei villani inurbati che sono pronti a compiere ogni baratteria! Se la Chiesa non avesse usurpato l'autorità imperiale di
Cesare, non sarebbero diventati cittadini di Firenze dei bifolchi che ora esercitano il cambio e la mercatura; il castello di Montemurlo, inoltre,
sarebbe ancora dei conti Guidi, la famiglia dei Cerchi sarebbe rimasta nel piviere di Acone e i Buondelmonti in Valdigrieve. La confusione delle genti,
insiste Cacciaguida, è stata causa dei mali di Firenze, come l'aggiungere altro cibo a quello non digerito è causa di malessere; un toro cieco cade più
facilmente di un cieco agnello e taglia meglio una sola spada che cinque insieme. Dante dovrebbe guardare agli esempi di Luni e Orbisaglia, cadute
in rovina, e a Chiusi e Senigallia che presto avranno lo stesso destino, e capirebbe che non è insolito che anche le famiglie vadano in decadenza
come le città. Tutte le cose terrene hanno fine, anche se gli uomini non sempre lo capiscono, e la Fortuna colpisce Firenze con nuove sciagure così
come la Luna copre i lidi con l'alta e bassa marea. Dunque non sarà sorprendente quanto Cacciaguida dirà delle grandi famiglie di Firenze, la cui
fama è stata sepolta dal tempo.

Le illustri famiglie fiorentine (88-154)

Cacciaguida passa in rassegna le principali famiglie fiorentine, già in decadenza ai suoi tempi nonostante fossero ancora illustri: presso Porta S.
Pietro, che ora è deturpata dalla viltà dei Cerchi, un tempo abitavano i Ravignani, da cui sono discesi il conte Guido Guerra e Bellincione Berti. A
quell'epoca erano fiorenti le famiglie della Pressa, del Galigaio, dei Pigli, nonché i Donati dal cui ceppo nacquero i Calfucci, e i Sizi e gli Arrigucci
destinati a coprire alte cariche. Erano illustri le famiglie degli Uberti e dei Lamberti, ora da lungo tempo estinte; i Visdomini e i Tosinghi
amministravano le rendite del vescovado, quando la sede era vacante. Gli Adimari, sempre pronti a infierire sui deboli e a farsi umili coi potenti, a
quel tempo stavano crescendo pur avendo umili origini, tanto che a Ubertino Donato, genero di Bellincione Berti, non piacque essere imparentato
con loro. Già si erano inurbati da Fiesole i Caponsacchi, ed erano in città le famiglie dei Giudi e degli Infangati; sembra incredibile, ma nell'antica
cinta muraria si entrava attraverso una porta intitolata alla famiglia della Pera. Coloro che si fregiavano dell'insegna di Ugo di Toscana ebbero da lui
la dignità cavalleresca, anche se uno di loro (Giano della Bella) oggi parteggia per il popolo. Erano già potenti i Gualterotti e gli Importuni, e Borgo
Santi Apostoli sarebbe più quieto se non vi avessero abitato i Buondelmonti: anche la casata degli Amidei, che per lavare l'offesa subìta dai
Buondelmonti diede inizio alle discordie cittadine, era onorata. Buondelmonte dei Buondelmonti avrebbe fatto meglio a non rompere il
fidanzamento con una giovane degli Amidei, e se fosse annegato nel torrente Ema invece di inurbarsi avrebbe evitato a Firenze tanti lutti; invece era
destino che egli fosse assassinato presso il frammento della statua vicino a Ponte Vecchio, fatto che scatenò le contese civili. Cacciaguida conclude
dicendo di essere vissuto a Firenze con queste famiglie, in una città tranquilla e pacifica che non aveva motivo di lamentarsi. Il popolo fiorentino a
quel tempo era giusto e glorioso, tanto che la città non subì alcuna sconfitta militare, né l'insegna cittadina era ancora diventata rossa di sangue.

Interpretazione complessiva

Il Canto costituisce insieme al XV e al XVII il secondo momento del «trittico» dedicato all'incontro con l'avo Cacciaguida che dovrà svelargli l'alta
missione di cui è investito dalla Provvidenza, collocato al centro della Cantica e dell'intero poema per la sua importanza e caratterizzato da una certa
elevatezza dello stile, anche se questo episodio centrale è meno sostenuto degli altri due in quanto il discorso è più generale e verte sulla decadenza
morale di Firenze, di cui vengono messe in luce le cause. Dante all'inizio trae spunto dalle parole finali di Cacciaguida nel Canto XV, in cui l'avo gli
aveva rivelato di essere stato fatto cavaliere dall'imperatore Corrado III prima di seguirlo nella II Crociata, quindi di essere nobile: il poeta si riempie
di orgoglio per questa affermazione, cosa di cui fa subito ammenda riconoscendo che il vanto della propria nobiltà è a maggior ragione scusabile
sulla Terra, il che è sottolineato dal lieve sorriso con cui Beatrice accompagna le parole e gli atteggiamenti di Dante. Il discorso relativo alla nobiltà
ha certo un risvolto autobiografico, essendo l'orgogliosa affermazione della superiorità del poeta e la sua rivalsa in quanto esule sconfitto
politicamente, tuttavia si lega anche al tema della decadenza morale di Firenze che Cacciaguida ha iniziato nel Canto precedente con la rievocazione
della città del XII secolo, e che qui prosegue attraverso le domande che Dante, curioso di altri particolari, rivolge all'avo. Questi infatti, dopo aver
rivelato il proprio anno di nascita e il luogo di Firenze dove abitavano i suoi avi (il sestiere di Porta S. Pietro, il che dimostra l'antica nobiltà della
famiglia e la sua discendeza dagli antichi Romani), e dopo aver ricordato l'esigua popolazione fiorentina dei suoi tempi, torna sul problema della
decadenza della città individuandone la causa nell'inurbamento di genti dal contado, che avrebbero imbastardito l'antica purezza della popolazione
e diffuso la corruzione e il degrado che poi portarono alla situazione dei tempi di Dante. È la stessa tesi già sostenuta in parte da Brunetto Latini in
Inf., XV, 61-78 e soprattutto da Dante stesso in XVI, 73-75, quando aveva spiegato ai tre sodomiti fiorentini che la causa della corruzione morale
della città erano la gente nova e i sùbiti guadagni che avevano generato orgoglio e dismisura: anticamente la popolazione fiorentina era
etnicamente pura in quanto discendeva dai Romani che avevano fondato la città dopo la distruzione di Fiesole, sia pure mescolati ai superstiti della
stessa Fiesole che non erano altrettanto nobili, poi nel corso del Duecento i nuovi venuti dal contado avevano provocato una vera confusione di
genti, che è stata causa per Cacciaguida di tutti i futuri mali della città. Infatti questi villani inurbati si dedicavano soprattutto al commercio e al
cambio di valuta, dunque ad attività fondate sullo scambio di denaro e sul guadagno facile, il che (oltre ad essere di per sé criticabile secondo la
visione cristiana) ha poi diffuso l'avidità e la corruzione, fonte prima delle discordie civili che insanguinarono Firenze nel primo Trecento e portarono
all'esilio dello stesso poeta. È chiaro che Dante include il proprio avo e se stesso fra quei Fiorentini nobili in quanto discendenti diretti degli antichi
Romani che fondarono la città per volere di Cesare, prendendo le distanze tanto dalle bestie fiesolane originariamente accolte a Firenze, quanto dai
contadini successivamente inurbati che hanno ampliato le dimensioni e la popolazione della città: per questi ultimi Cacciaguida ha parole di grande
disprezzo, parlando del puzzo che i Fiorentini «puri» devono sostenere per la loro vicinanza e affermando che i nuovi venuti sono dei villani pronti a
barattare, a compiere cioè traffici e raggiri di ogni tipo, mentre poco oltre dirà che il nuovo cittadino di Firenze e cambia e merca, è dedito cioè a
quelle attività finanziarie che sono condannate in quanto espressione della nuova civiltà comunale e mercantile, che sta facendo tramontare i valori
della vecchia civiltà cortese e feudale che Dante non si è rassegnato a considerare ormai morta.

La causa prima di tutto ciò è individuata da Cacciaguida nell'azione della Chiesa, che è stata matrigna per Cesare (cioè per l'imperatore)
usurpandone l'autorità e pretendendo di esercitare il potere temporale al suo posto, come già sostenuto da Marco Lombardo in Purg., XVI e con
allusione all'ostilità del papa e del partito guelfo ad Arrigo VII di Lussemburgo. Ciò avrà un riflesso nella profezia di Cacciaguida riguardo Cangrande
Della Scala nel Canto seguente, ma già qui l'avo preannuncia il futuro declino politico della città di Firenze, che avrà presto lo stesso destino di Luni e
Orbisaglia e che è testimoniato dalla decadenza delle principali famiglie fiorentine dei suoi tempi: rispondendo alla domanda di Dante
sull'argomento, Cacciaguida ne trae spunto per compiere una grandiosa rassegna delle più cospicue casate della città, le quali tutte hanno prima o
dopo conosciuto un pesante declino, alcune per propria colpa e altre per circostanze diverse, ma in ogni caso dimostrando che nulla è eterno e che
Firenze stessa vedrà presto oscurata la propria fama (è quanto già annunciato nel Canto XV, attraverso il parallelismo con Roma). Alcuni di questi
nomi hanno poco significato per il lettore moderno, tuttavia rappresentano validi esempi della transitorietà della gloria terrena, nonché della
nobiltà di sangue che all'inizio Dante ha definito poca e che è destinata a scomparire se non accompagnata da un agire virtuoso: tra gli esempi fatti
da Cacciaguida i più evidenti sono quello degli Uberti, la grande famiglia ghibellina che fu cancellata da Firenze dopo Benevento (significativo a
riguardo l'incontro con Farinata, in Inf., X), e quello dei Buondelmonti, che a causa dell'oltraggio a una fanciulla degli Amidei avevano originato le
divisioni politiche nella città (cfr. a proposito l'incontro con Mosca dei Lamberti, Inf., XXVIII). La figura di Buondelmonte dei Buondelmonti, che
ruppe la promessa di matrimonio e fu ucciso nell'ambito di una vendetta familiare, diventa quasi emblematica della decadenza morale della città, in
quanto l'uomo apparteneva a una famiglia inurbatasi a Firenze in tempi antichi: benché Dante sembri indicarlo come il primo di quella casata a
venire in città, confondendo volutamente o meno la verità storica (i Buondelmonti si inurbarono già nel XII sec.), fa pronunciare comunque a
Cacciaguida una dura invettiva contro la sua persona, con l'affermazione che meglio sarebbe stato per la pace interna di Firenze se invece di entrare
in città egli fosse annegato nel torrente dell'Ema. La sua uccisione fu l'inizio delle discordie intestine che poi avrebbero insanguinato Firenze,
alimentate da superbia, invidia e avarizia come detto da Ciacco in Inf., VI, per cui è significativo che Buondelmonte fosse assassinato presso il
frammento della statua che si attribuiva a Marte primo patrono della città, il quale avrebbe poi preteso un pesante tributo di sangue negli anni a
venire: Cacciaguida conclude la rassegna con questo sinistro presagio, precisando che la Firenze in cui lui ha vissuto era molto diversa e godeva di
una pace duratura, prevalendo sempre sui suoi nemici e mantenendo intatta la sua gloria, cosa che non si può certo dire della città dalla quale
Dante è stato esiliato. Questa rievocazione nostalgica del passato prelude alla profezia dell'esilio e delle gesta di Cangrande che seguirà nel Canto
XVII ed è forse la pagina più sentita ed esacerbata del poema sul declino politico-morale della città del poeta, il che spiega perché questo Canto è
stato definito il più «fiorentino» del poema (in seguito la polemica politica tenderà ad essere di respiro più ampio e a coinvolgere soprattutto la
Chiesa con la condanna dei suoi vizi, come sarà evidente nel Canto XXVII).

La gente nova e i sùbiti guadagni: Dante contro la civiltà mercantile

L'autore della Commedia non perde occasione nel poema per scagliarsi contro la civiltà comunale fondata sul commercio e sulla circolazione del
denaro, da lui vista come fonte di corruzione e di decadenza politico-morale soprattutto della sua città, Firenze: la cosa non può non sembrare
strana e addirittura inspiegabile agli occhi di noi moderni, specie pensando alle novelle di Boccaccio che, oltre a essere grande ammiratore di Dante,
esalterà proprio la figura del mercante solo pochi decenni dopo la morte del grande poeta. L'avversione di Dante per il mondo mercantile ha una
ragione innanzitutto religiosa, rifacendosi al precetto evangelico per cui l'uomo deve ricavare il sostentamento dal lavoro della terra e non dallo
sfruttamento del denaro che produce altro denaro, da cui nasce la condanna dell'usuraio che pecca di violenza contro Dio in quanto offende
l'operosità umana, ma anche del mercante, colpevole di monetizzare il tempo che invece dev'essere il tempo di Dio scandito dalle ore canoniche,
non sfruttato dall'uomo a fini di lucro. Dante aggiunge poi anche una considerazione storico-sociale, individuando nell'avidità di guadagno e nella
cupidigia la principale fonte della corruzione e del disordine politico che affliggeva l'Italia del Trecento, quindi bollando la circolazione del denaro
come il fattore destinato ad alimentare le ingiustizie: Folchetto di Marsiglia in Par., IX, 127-142 si scaglia contro il maladetto fiore (fiorino) diffuso in
Europa dai banchieri di Firenze che finanziavano la monarchia francese, e dunque fomentavano la corruzione della Curia papale suscitando l'avidità
di guadagno da parte dei pontefici corrotti come Bonifacio VIII o Giovanni XXII. E il denaro è stato causa della rovina della stessa Firenze, da cui sono
scomparsi onore e cortesia a causa della gente nova e i sùbiti guadagni, ovvero la propensione agli affari e alle baratterie da parte dei contadini
inurbatisi in città che, secondo il discorso di Dante ai tre sodomiti fiorentini in Inf., XVI, 73-75, hanno accresciuto orgoglio e dismisura, diffondendo a
Firenze la corruttela e il degrado morale. È la stessa analisi fatta dall'avo Cacciaguida in Par., XVI, 49 ss., quando afferma che proprio l'ingresso in
città di elementi del contado, pronti a barattare e a darsi a ogni genere di scambio e mercatura, ha imbastardito l'antica purezza della popolazione
che discendeva dai Romani che la fondarono per volontà di Cesare: l'accusa non è solo di tipo sociale, legata cioè al mestiere esercitato dai nuovi
arrivati, ma addirittura di tipo etnico, per cui Dante si ritiene parte di un'antica e pura nobiltà cittadina che mal sopporta la vicinanza coi «villani»
che meglio avrebbero fatto a restare nel contado, invece di venire a Firenze per portare disordine morale e inquinare la «purezza» della stirpe. Ciò
può far pensare a un Dante addirittura razzista, il che non è forse eccessivo se lo si giudica coi parametri della società moderna fondata
sull'integrazione culturale e la convivenza, ma su tutto domina la nostaglia del poeta per l'antica società di tipo feudale e cortese, fondata su un
sistema di valori antitetico rispetto a quello della civiltà comunale e che nel Trecento stava ormai sparendo, causando secondo Dante un declino
morale che è all'origine di molti mali politici del suo tempo. Dante non si rassegna a questa evoluzione in senso «capitalistico» della società e
all'imporsi di nuovi valori quali la ricerca del profitto, la circolazione delle merci e la concorrenza: ai suoi occhi il mercante cerca di lucrare attraverso
l'uso del denaro, è portatore di qualità negative come l'astuzia e l'occhio aguzzo, tenta di ottenere un guadagno spesso raggirando il prossimo, tutte
caratteristiche che Boccaccio e il Trecento esalteranno in quanto appartenenti a una mentalità più simile alla nostra. Dante rimpiange come il suo
contemporaneo Folgòre da San Gimignano la scomparsa della cortesia e della cavalleria, tema al centro di molte pagine del poema (cfr. soprattutto
Purg., XIV) e di alcune Rime (cfr. la canzone sulla liberalità, XLIX) e al quale egli riconduce anzitutto il declino morale e politico non solo di Firenze,
ma dell'Italia intera in cui inevitabilmente trionfa l'ingiustizia: è certo una posizione anacronistica e anti-storica, ma che non deriva solo dalla
nostalgia per il passato, quanto piuttosto dall'amara considerazione che l'avidità di denaro porta gli uomini a compiere ogni sorta di misfatto e ciò è
fonte di sofferenza per tutti quelli che, come lui, si battono per il bene e per la corretta applicazione delle leggi. Se il denaro è fonte del male, allora
Dante tuona con furore biblico contro tutti coloro che ne fanno un idolo, come i papi simoniaci, e al contrario esalta una figura come quella di san
Francesco che si spoglia di tutto e cerca di attualizzare l'ideale di povertà evangelica, esempio per tutti coloro che vogliono seguire Dio con fede
sincera: la matrice del pensiero dantesco in materia è soprattutto religiosa e ciò spiega la distanza che ci separa dal suo atteggiamento mentale, in
quanto noi apparteniamo a una società fondata sui consumi e sull'edonismo, mentre egli crede ancora a una vita fondata sulla privazione e
l'ascetismo, di cui non solo Francesco è esempio insigne da additare ai suoi lettori. La posizione di Dante era forse non in linea con la sua stessa
epoca sempre più fondata sui commerci e il capitale, ma gli va dato atto che negli anni dell'esilio rimase coerente coi suoi principi, adattandosi a
mendicare il pane altrui pur di non derogare dalla condotta che si era imposto e non rinunciando mai, nonostante i molti rischi corsi, a denunciare il
male politico che per lui era alimentato principalmente dalla corruzione e dal denaro.

Note e passi controversi

Al v. 7 raccorce è prob. seconda persona del vb. «raccorciare», usato in forma intransitiva («accorciarsi»).

l vv. 10-11 alludono alla convinzione, assai diffusa nel XIV sec., che il «voi» come forma di cortesia fosse dato per la prima volta a Cesare dopo che
questi aveva assunto il potere a Roma; in realtà il «voi» onorifico si diffuse solo nel III sec. d.C. I popolo del Lazio sono invece soliti usare il «tu»
anche con persone di riguardo, il che spiega il v. 11.

I vv. 14-15 si riferiscono alla dama di Malehaut, che nel romanzo francese di Lancillotto e Ginevra assiste, non vista, al primo colloquio d'amore fra i
due e manifesta la sua presenza tossendo; il primo fallo della regina è il compromettente incontro e non il bacio che avviene in diversa circostanza
(scritto vuol dire «narrato»).

Al v. 22 primizia significa «capostipite».

Al v. 25 l'ovil di San Giovanni è Firenze (cfr. Par., XXV, 5: il bell'ovile ov'io dormi' agnello).
Il v. 33 ha fatto pensare ad alcuni interpreti che Cacciaguida parli in latino, come già in XV, 28-30; la cosa non si può escludere, ma è più probabile
che Dante gli attribuisca una parlata fiorentina più antica e dunque diversa da quella dei suoi tempi, in accordo con quanto lui stesso afferma in
DVE, I, 9 circa il mutamento della lingua volgare nel corso del tempo.

La complessa perifrasi ai vv. 34-39 vuol dire che dal giorno dell'Annunciazione a Maria fino a quello della nascita di Cacciaguida il pianeta Marte è
tornato 580 volte in congiunzione con la costellazione del Leone, come prob. era al momento dell'incarnazione di Cristo e della nascita dell'avo:
poiché Dante pensa che la rivoluzione siderea di Marte avvenga in 687 giorni, come ricava dall'astronomo arabo Alfragano, si ottiene la cifra di
398.460 giorni che, divisa per i 365 giorni dell'anno, dà approssimativamente il numero 1091 che dunque è l'anno di nascita di Cacciaguida. La
pianta è la zampa del Leone, forse la stella Regolo che formava la parte anteriore della costellazione.

I vv. 40-42 indicano il luogo di nascita di Cacciaguida nel sestiere di S. Pietro, dove chi corre il palio annuale trova questa zona per prima:
corrispondeva la via degli Speziali, vicino a Mercato Vecchio, quindi entro la vecchia cinta muraria (ciò prova l'antica nobilità dell'avo). Il palio si
correva il giorno di S. Giovanni e prob. non era ancora in uso nel XII sec., per questo l'avo dice il vostro... gioco.

Il v. 45 vuole dire semplicemente che è più opportuno (onesto) tacere degli antenati di Cacciaguida, e non che è meglio nascondere qualche fatto
poco onorevole, come alcuni hanno ipotizzato.

L'espressione da poter arme (v. 47) vuol dire «da potere portare armi»; tra Marte e 'l Batista invece indica la zona tra Ponte Vecchio, dov'era il
frammento della statua attribuita a Marte, e il battistero di S. Giovanni, cioè gli estremi a nord e sud della vecchia città.

Campi, Certaldo e Fegghine (v. 50) erano paesi del contado fiorentino, corrispondenti agli attuali Campi Bisenzio, Certaldo e Figline Valdarno.
Galluzzo e Trespiano (vv. 53-54) sono borgate a poca distanza dalla città, che un tempo segnavano il confine.

Il villan d'Aguglion (v. 56) è certo Baldo d'Aguglione, giurista e uomo politico del XIII sec. che nel 1299 fu coinvolto nello scandalo di Niccolò
Acciaiuoli (cfr. Purg., XII, 104-105). Quel da Signa è invece Bonifazio di Ser Rinaldo Morubaldini, giurista di parte Bianca passato poi ai Neri e che
contribuì all'esilio di Dante.

Simifonti (v. 62) indica un castello della Valdelsa collocato nel contado di Firenze: Dante intende dire che se la Chiesa non avesse usurpato l'autorità
imperiale, questi villani sarebbero rimasti lì dove andava l'avolo alla cerca, cioè dove i loro avi chiedevano l'elemosina o andavano a vendere la
merce.

Il castello di Montemurlo (v. 64) apparteneva nell'XI sec. ai conti Guidi, che lo cedettero a Firenze nel 1254 inurbandosi. I Cerchi (v. 65) erano la
famiglia di mercanti che fu a capo dei Guelfi Bianchi nel Duecento e che provenivano da Acone in Val di Sieve (cfr. Inf., VI, 65, la parte selvaggia). I
Buondelmonti, cui appartenne il Buondelmonte citato al v. 140, avevano un castello in Val di Greve che fu distrutto da Firenze, per cui essi si
trasferirono in città.

Luni e Orbisaglia (l'antica Urbesalvia, v. 73) erano città disabitate e in rovina nel XIV sec., mentre Chiusi e Senigallia sembravano destinate alla stessa
fine a causa del clima malarico.

La porta citata al v. 94 è S. Pietro, dove un tempo abitavano i Ravignani, mentre nel Trecento abitavano i Cerchi (la fellonia, più che «tradimento»,
indica prob. la condotta politicamente debole in occasione dei fatti del 1301-1302). Il conte Guido (v. 97) è Guido Guerra VI, uno dei tre sodomiti
fiorentini di Inf., XVI, mentre l'alto Bellincione (V. 99) è Bellincione Berti.

il v. 103 allude allo stemma della famiglia dei Pigli, una striscia verticale di vaio (la pelliccia dello scoiattolo) in campo rosso.

Quei ch'arrossan per lo staio (v. 105) sono i Chiaramontesi, coinvolti nello scandalo citato in Purg., XII, 105.

Quei che son disfatti / per lor superbia (vv. 109-110) sono gli Uberti, la celebre famiglia ghibellina cui appartenne Farinata e che venne bandita da
Firenze dopo il 1266. Le palle dell'oro sono lo stemma dei Lamberti, che fecero la stessa fine.

L'oltracotata schiatta citata al v. 115 è quella degli Adimari, di cui faceva parte anche Filippo Argenti (Inf., VIII, 32 ss.) e che aveva umili origini;
Bellincione Berti aveva maritato una delle sue figlie a un Adimari e l'altra a Ubertino Donati, a cui spiacque di essere imparentato con loro (vv. 119-
120).

I Della Pera citati al v. 126 davano il nome alla porta per cui si entrava nell'antica cerchia muraria: è incerto se si trattasse dei Peruzzi divenuti poi
famosi banchieri coi Bardi, per cui lo stupore manifestato da Cacciaguida può riferirsi al fatto che ai suoi tempi una porta avesse nome da loro,
oppure all'esigua estensione della cinta muraria.

Il gran barone citato al v. 128 è Ugo il Grande marchese di Toscana, il cui stemma aveva sette strisce rosse in campo bianco: vicario imperiale di
Ottone III e cavaliere, morì il 21 dic. 1001 (giorno di san Tommaso) e fondò sette badie, fra cui quella famosa ricordata come «Badia» e in cui ogni
anno si celebravano solenni esequie in suo ricordo. I vv. 131-132 indicano Giano della Bella, che portava la sua insegna pur parteggiando per il
popolo.

Al v. 136 la casa di che nacque il vostro fleto è quella degli Amidei, che vendicarono l'offesa di Buondelmonte dei Buondelmonti a una fanciulla della
loro consorteria uccidendolo nel 1216, accanto al frammento della statua che si credeva di Marte presso Ponte Vecchio (il giovane aveva rifiutato di
sposarla, seguendo un consiglio di Gualdrada Donati: cfr. Inf., XXVIII, 106-108). L'assassinio aveva dato inizio alla divisione fra Guelfi e Ghibellini a
Firenze, nonché alle lotte cittadine. Il v. 144 semba indicare che Buondelmonte fosse il primo della sua famiglia a inurbarsi a Firenze, ma ciò era
avvenuto nel 1135 dopo la distruzione del castello di Montebuoni (v. 66); l'Ema è un torrente che sfocia nella Greve tra Firenze e il castello dei
Buondelmonti.

La pietra scema (v. 145) è il frammento della statua che si credeva di Marte (Inf., XIII, 146-147), presso la quale Buondelmonte fu ucciso nel 1216 la
mattina di Pasqua.

I vv. 152-153 alludono all'usanza di trascinare lo stemma della città vinta in battaglia, con l'asta rovesciata, cosa che secondo Cacciaguida non
accadde mai al giglio di Firenze. Il v. 154 si riferisce prob. al fatto che lo stemma, originariamente un giglio bianco in campo rosso, divenne un giglio
rosso in campo bianco dopo la vittoria dei Guelfi nel 1251, ma forse indica il sangue che arrossò lo stemma in seguito alle discordie cittadine.

XVII canto

Argomento del Canto

Ancora nel V Cielo di Marte. Dante chiede all'avo Cacciaguida notizie sulla sua vita futura: profezia dell'esilio da Firenze. Profezia sulle gesta di
Cangrande Della Scala. Dubbi di Dante e dichiarazione della sua missione poetica.

È il mattino di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.

Dante chiede a Cacciaguida notizie sulla sua vita futura (1-30)

Dante si sente come Fetonte quando si rivolse alla madre Climene per avere notizie certe su suo padre Apollo, il che è avvertito da Beatrice e
dall'anima dell'avo Cacciaguida. La donna invita Dante a manifestare il suo pensiero, non perché le anime non possano conoscere i suoi desideri, ma
affinché il poeta si abitui a esprimerli liberamente così che vengano esauditi. Dante si rivolge allora a Cacciaguida e gli ricorda, come lui ben sa
leggendo nella mente di Dio, che guidato da Virgilio egli ha udito all'Inferno e in Purgatorio delle oscure profezie sul suo conto, per cui il poeta
vorrebbe avere maggiori ragguagli in merito: benché, infatti, egli sia preparato ai colpi della sorte, una sciagura prevista è più facile da affrontare.
Dante in questo modo obbedisce a Beatrice e rivela ogni suo dubbio all'anima del suo antenato.

Cenni di Cacciaguida alla prescienza divina (31-45)

Cacciaguida risponde splendendo nella sua luce, con un discorso chiaro e perfettamente comprensibile e non con le espressioni tortuose e oscure
proprie degli oracoli delle divinità pagane: il beato spiega che tutti i fatti contingenti, presenti e futuri, sono già scritti nella mente divina, il che non
implica che debbano accadere necessariamente, come l'occhio che osserva una nave scendere la corrente di un fiume sa che questo avverrà, ma
non lo rende per ciò inevitabile. Allo stesso modo, spiega Cacciaguida, egli prevede il tempo futuro di Dante, come la dolce musica di un organo
giunge alle orecchie umane.

L'esilio di Dante (46-69)

Dante, profetizza l'avo, dovrà abbandonare Firenze allo stesso modo in cui Ippolito dovette partire da Atene per la malvagità della sua matrigna.
Questo è voluto e cercato già nell'anno 1300 da papa Bonifacio VIII, nella Curia dove ogni giorno si mercanteggia Cristo: la colpa dell'esilio verrà
imputata ai vinti, così come di solito avviene, ma ben presto la punizione verso i Fiorentini dimostrerà la verità dei fatti. Dante dovrà lasciare ogni
cosa più amata, ciò che costituisce la prima pena dell'esilio, quindi proverà com'è duro accettare il pane altrui mettendosi al servizio di vari signori.
Ciò che gli sarà più fastidioso sarà la compagnia di altri fuorusciti, sempre pronti a mettersi contro di lui, tuttavia saranno loro e non Dante ad avere
le tempie rosse di sangue e di vergogna nella battaglia della Lastra. Le conseguenze del loro comportamento dimostreranno la loro follia, così che
per Dante sarà stato molto meglio fare parte per se stesso.

Profezie su Cangrande Della Scala (70-99)

Dante troverà anzitutto rifugio a Verona, sotto la protezione di Bartolomeo Della Scala che sullo stemma della casata reca l'aquila imperiale: egli
sarà così benevolo verso il poeta che gli concederà i suoi favori senza bisogno di ricevere richieste. A Verona Dante vedrà colui (Cangrande) che alla
nascita è stato fortemente influenzato dal pianeta Marte, così che le sue imprese saranno straordinarie. Nessuno se n'è ancora accorto perché
molto giovane, avendo egli solo nove anni, ma prima che papa Clemente V inganni Arrigo VII di Lussemburgo il suo valore risplenderà chiaramente,
mostrando la sua noncuranza per il denaro e gli affanni. Le sue gesta saranno così illustri che i suoi nemici non potranno tacerle, quindi Dante dovrà
attendere il suo aiuto e i suoi favori, dal momento che Cangrande ha generosamente mutato le condizioni di molte persone, trasformando i
mendicanti in ricchi e viceversa. Cacciaguida aggiunge altri dettagli relativi alle future imprese di Cangrande, imponendo però il silenzio a Dante che
ascolta incredulo quanto riferito dall'avo. Cacciaguida conclude dicendo a Dante che non dovrà serbare rancore verso i suoi concittadini, poiché la
sua vita è destinata a durare ben oltre la punizione che li colpirà.

Dubbi di Dante (100-120)


Dopo che il beato ha terminato di parlare, Dante torna a rivolgersi a lui in quanto desidera ricevere una spiegazione e un conforto, certo di trovarsi
di fronte a un'anima sapiente, virtuosa e amorevole. Dante dichiara di rendersi conto che lo aspettano aspre vicissitudini, per cui è bene che sia
previdente e che non si precluda il possibile rifugio in altre città a causa dei suoi versi, visto che dovrà lasciare Firenze. All'Inferno, in Purgatorio e in
Paradiso il poeta ha visto cose che, se riferite dettagliatamente, suoneranno sgradevoli a molti; tuttavia, se egli non dirà tutta la verità della visione,
teme di non ottenere la fama destinata a renderlo famoso presso le generazioni future.

La missione poetica di Dante (121-142)

La luce che avvolge Cacciaguida risplende come uno specchio d'oro colpito dal sole, quindi l'avo risponde dicendo che i lettori con la coscienza
sporca per i peccati propri o di altri proveranno fastidio per le sue parole, e tuttavia egli dovrà rimuovere ogni menzogna e rivelare tutto ciò che ha
visto nel viaggio ultraterreno, lasciando che chi ha la rogna si gratti. Infatti i suoi versi saranno sgradevoli all'inizio, ma una volta digeriti saranno un
nutrimento vitale per le anime. Il grido di Dante sarà come un vento che colpisce più forte le più alte cime, il che non è ragione di poco onore, e per
questo nei tre regni dell'Oltretomba gli sono state mostrate solo le anime note per la loro fama: il lettore non presterebbe fede ad esempi che
fossero oscuri e non conosciuti da tutti, né ad altri argomenti che non fossero evidenti di per sé.

Interpretazione complessiva

Il Canto chiude il «trittico» dedicato all'incontro con l'avo Cacciaguida e alla definizione della missione poetica di Dante, dopo il XV in cui l'antenato
si era presentato rievocando l'antica Firenze del XII sec. e dopo il XVI in cui, dopo l'analisi delle cause della decadenza morale della città, c'era stata
la rassegna delle principali famiglie fiorentine cadute poi in declino. Firenze è ancora al centro del Canto XVII, poiché Dante chiede all'avo
spiegazioni circa l'esilio che gli è stato più volte preannunciato nel corso del viaggio ultraterreno, il che indurrà poi il poeta a manifestare i suoi dubbi
circa l'adempimento della missione: lo stile è retoricamente elevato, già in apertura con il paragone fra Dante e Fetonte che si rivolse alla madre
Climene per avere rassicurazioni sul fatto che Apollo fosse suo padre, mentre qui il poeta vuole avere conferma circa le parole spesso malevole che
ha udito contro di sé (anche Fetonte, secondo il mito classico, aveva subìto lo scherno di Epafo che non credeva fosse figlio di Apollo). È molto
evidente poi il parallelismo, come nel Canto XV, fra Dante e Enea che incontra il padre Anchise nel libro VI dell'Eneide, in quanto Cacciaguida
profetizza a Dante l'esilio e lo investe dell'alta missione poetica che gli ha affidato la Provvidenza, proprio come Anchise preannunciava al figlio le
guerre che lo attendevano nel Lazio e la missione provvidenziale della fondazione di Lavinio, da cui avrebbe avuto origine la stirpe romana. La stessa
rassegna delle antiche famiglie di Firenze nel Canto XVI si rifaceva alla presentazione da parte di Anchise dei futuri eroi di Roma, mentre in questo
episodio tutto è centrato su Dante destinato a lasciare la sua città in seguito alle vicende politiche del 1301-1302 e, come esule sconfitto
politicamente, ad adempiere all'altissimo incarico di cui è investito: il discorso di Cacciaguida è chiaro e privo di ambiguità, diverso dunque dalle
velate allusioni di personaggi come Farinata, Brunetto Latini e Oderisi da Gubbio che avevano predetto l'esilio in modo oscuro, ma diverso anche dai
responsi oracolari degli dei pagani che si prestavano a doppie interpretazioni (il riferimento è anche alla Sibilla cumana, che Enea incontra nel suo
antro e alla quale chiede espressamente una profezia, prima di compiere la discesa agli Inferi dietro la sua guida). Dopo l'accenno al delicato
problema della prescienza divina, che non determina in modo necessario gli eventi pregiudicando così il libero arbitrio, Cacciaguida annuncia a
Dante che dovrà lasciare Firenze per la malvagità dei suoi concittadini, come Ippolito fu costretto a lasciare Atene per la perfidia della matrigna
Fedra (il parallelo Firenze-Atene era quasi un classico nella letteratura del Due-Trecento, già visto in Purg., VI, 139, sia pure in chiave ironica). Più
che alle beghe cittadine tra le opposte fazioni di Guelfi Bianchi e Neri, l'avo riconduce la questione dell'esilio alla caparbia volontà di papa Bonifacio
VIII di favorire la parte Nera in combutta con la monarchia francese e Carlo di Valois, per cui la vicenda personale di Dante si inserisce in un più
ampio contesto politico che va oltre la prospettiva comunale di Firenze e riguarda il conflitto tra potere papale e autorità imperiale, fonte secondo
Dante dei mali poltici dell'Italia. Cacciaguida predice a Dante le amarezze e le sofferenze del suo girovagare di città in città, accusato di falsi crimini
dai suoi ex-concittadini e in contrasto con gli altri fuorusciti destinati ad essere sconfitti nella battaglia della Lastra, costretto infine a mendicare il
pane dai signori che gli offriranno protezione e rifugio: tra questi spiccano naturalmente gli Scaligeri di Verona, soprattutto quel Cangrande che sarà
il principale protettore del poeta e al quale Dante dedicherà proprio il Paradiso, indirizzandogli anche la famosa e discussa Epistola XIII che sarà
fondamentale per l'interpretazione del poema. Cangrande si colloca al centro della profezia dell'esilio, in quanto Cacciaguida ne traccia un piccolo
panegirico e lo presenta come personaggio destinato a grandi imprese, che mostrerà il suo valore militare e politico disdegnando le ricchezze e
soprattutto tenterà di ristabilire l'autorità imperiale in Italia del Nord: non a caso egli è stato identificato sia col «veltro» di Inf., I, 101 ss., sia col
«DXV» di Purg., XXXIII, 37 ss., e non è da escludere che proprio la sua azione sia da mettere in rapporto con la prossima punizione di Firenze che è
preannunciata qui da Cacciaguida e altrove dallo stesso Dante, essendo legata probabilmente al rovesciamento del governo dei Neri da parte di un
vicario imperiale destinato a ristabilire la legge e la giustizia, sia questi Cangrande o un altro personaggio. Naturalmente questo resterà un sogno
mai realizzatosi, così come anacronistica e non in linea con i tempi era la posizione politica di Dante relativamente al ruolo dell'Impero in Italia, ma
l'attesa fiduciosa di un personaggio in grado di porre fine ai soprusi e alle ingiustizie politiche attraversa vivissima l'intero poema ed è lo sprone che
induce Dante a compiere la sua missione poetica fino in fondo, senza mostrare mai il minimo cedimento o timore.

Questa missione è poi solennemente dichiarata da Cacciaguida a Dante nella seconda parte del Canto, dopo che il poeta ha espresso i suoi dubbi
che nascono proprio dalla profezia dell'esilio delineatasi finalmente con chiarezza: Dante sa che è chiamato dalla Provvidenza a rivelare tutto ciò che
ha visto nel corso del viaggio, ma sa anche che i suoi versi riusciranno sgraditi a molti e quindi teme di precludersi possibili aiuti e protezioni se dirà
tutta la verità, rischiando in caso contrario di scrivere un'opera di poco peso e, quindi, di non ottenere la fama imperitura. La risposta di Cacciaguida
è tale da non lasciare incertezze ed è una chiara esortazione a non essere timido amico della verità, poiché proprio questo è il compito di Dante: nei
tre luoghi dell'Oltretomba gli sono stati mostrati exempla di anime dannate o salve secondo il criterio della notorietà, poiché solo attraverso
personaggi conosciuti il lettore ne sarà colpito al punto di modificare la sua condotta, dunque sarebbe una grave mancanza da parte di Dante
omettere qualche particolare della «visione» o tacere i nomi di quei personaggi da cui potrebbe attendersi ostilità o ritorsioni. Il valore del poema è
allora soprattutto quello di un'alta denuncia contro i mali dell'Italia del tempo, che sono legati all'assenza di una autorità centrale in grado di
garantire le leggi, alla corruzione diffusa capillarmente nella Chiesa, più in generale all'avidità di guadagno che è dovuta alla diffusione del denaro:
Dante non dovrà tirarsi indietro rispetto a tale compito e dovrà quindi riferire fedelmente tutto ciò che gli è stato mostrato, ovvero la condizione
delle anime post mortem che secondo la finzione del poema (e in base a quanto Dante stesso afferma nell'Epistola XIII) gli viene fatta conoscere da
vivo in virtù di un altissimo privilegio e in considerazione dei suoi meriti poetici. Il discorso di Cacciaguida è perciò stilisticamente solenne, ma non
rinuncia talvolta ad espressioni crude e di immediata evidenza, come la frase lascia pur grattar dov'è la rogna che rende bene l'idea della missione
affidata a Dante, quella cioè di dire la verità anche quando questa suonerà sgradevole alle orecchie dei potenti (in XXVII, 22-27 san Pietro userà
parole ancor più dure contro Bonifacio VIII, colpevole di aver trasformato il Vaticano una cloaca / del sangue e de la puzza); del resto la voce del
poeta sarà simile a un vento che colpirà maggiormente proprio le cime più alte, ovvero i personaggi più illustri del tempo che erano più di altri
responsabili della decadenza morale e politica dell'Italia, per cui solo in tal modo Dante potrà legittimamente aspettarsi la fama eterna dal poema
sacro al quale, come lui stesso dirà, hanno cooperato Cielo e Terra. Il solenne ammonimento di Cacciaguida assume dunque lo stesso valore della
missione di Enea nelle parole di Anchise alla fine del libro VI dell'Eneide, quando affidava al figlio il compito di gettare le basi della stirpe romana
destinata a dominare il mondo e ad assicurare pace e giustizia sotto l'Impero di Augusto: come il pius Aeneas nemmeno Dante si sottrarrà al suo
dovere e farà davvero manifesta tutta la sua visione, mostrando casi clamorosi e inattesi di personaggi dannati all'Inferno (si pensi a Guido da
Montefeltro, a Branca Doria che addirittura include fra i traditori degli ospiti di Cocito quand'era ancora vivo) e altrettanti esempi di salvezze
imprevedibili in Purgatorio (Catone, Manfredi) e in Paradiso (Traiano, Rifeo), il cui scopo ultimo è affermare l'infallibilità della giustizia divina, anche
al di là delle capacità di comprensione umana. L'episodio di Cacciaguida si colloca dunque al centro esatto della Cantica e del poema in ragione
dell'alto valore morale di questa investitura, che è poi la spiegazione essenziale del successo della Commedia destinato a durare assai più della
breve vita del suo autore: la differenza tra quest'opera e le scialbe descrizioni dell'Oltretomba di scrittori precedenti non è solo nella novità della
rappresentazione, ma soprattutto nel coraggio della denuncia contro i mali religiosi, politici, sociali del mondo del suo tempo, che acquista tanto
maggiore rilievo quando si pensi alle oggettive difficoltà di Dante bandito in esilio dalla sua città, costretto a elemosinare l'aiuto dei potenti, esposto
alle possibili vendette dei suoi nemici vecchi e nuovi, e nonostante tutto privo di dubbi nel portare a termine quella che considerava una missione
irrinunciabile. Ciò rende il Canto XVII del Paradiso uno dei momenti più alti e sentiti della poesia di Dante in assoluto e acquista un valore che va
molto al di là della vicenda personale e biografica del poeta, il quale forse sottolinea i propri meriti come rivalsa nei confronti dei suoi ingrati
concittadini, ma dimostra una coscienza morale e un coraggio non comuni al suo tempo come nel mondo presente.

Dante exul immeritus: il contrastato rapporto con Firenze

Sappiamo che in seguito all'esilio che gli impedì di rientrare a Firenze nel 1302 Dante fu costretto a lunghe peregrinazioni in giro per l'Italia del Nord,
che lo portarono a contatto con una realtà politica ben più ampia di quella municipale che aveva vissuto sino a quel momento e ampliarono di
molto la sua visione culturale: forse concepì la Commedia anche come un mezzo per affermare la sua grandezza a dispetto dell'esilio ingiustamente
patito, quindi si può dire che grazie a quel destino Dante divenne il grande poeta oggi celebrato. Sicuramente egli visse il bando dalla sua città come
una ferita mai rimarginata, sperando fino all'ultimo di potervi rientrare e, al tempo stesso, nutrendo un forte rancore per i suoi avversari politici che
lo avevano esiliato: c'era anche l'accusa infamante (e pare del tutto infondata) di baratteria, cioè di corruzione in atti di governo, che portò alla
condanna a morte del poeta e dei suoi figli nonché alla confisca di tutti i loro beni. Si può ben capire la triste condizione dello scrittore costretto a
mettersi al servizio dei signori potenti, a provare come sa di sale / lo pane altrui e a umiliarsi, senza tuttavia mai derogare dalla sua altissima dirittura
morale; prova ne sia il fatto che, nonostante la nostalgia della patria lontana e le oggettive difficoltà, Dante non rinunciò mai ad attaccare nelle sue
opere le malefatte dei potenti del suo tempo, ai quali certamente la sua parola doveva sembrare brusca come profetizzato dall'avo Cacciaguida nel
Canto XVII del Paradiso.

Il suo rapporto con Firenze fu sino alla fine di amore-odio, dal momento che in molti passi del poema Dante si scaglia con forza e sarcasmo contro i
costumi politicamente e moralmente corrotti della sua città (cfr. soprattutto Inf., XXVI, 1-12, ma anche Purg., VI, 127-151), mentre in altri momenti
sembra struggersi nel ricordo del luogo che lo ha visto nascere e in cui desidera tornare (cfr. Par., XXV, 1-12, dove Firenze diventa il bello ovile dove
ha dormito agnello e fuori dal quale lo chiudono i lupi che fanno guerra alla città, i suoi avversari politici). A Firenze Dante avrebbe voluto rientrare
soprattutto per prendere cappello, ovvero ottenere quell'incoronazione poetica cui legittimamente aspirava e che avrebbe potuto ricevere anche a
Bologna nel 1320, se avesse accettato l'invito del professore di retorica Giovanni del Virgilio a recarsi in quella città; e a Firenze avrebbe potuto
rientrare nel 1315, approfittando dell'amnistia che il governo dei Guelfi Neri concesse a tutti i fuorusciti, a condizioni però che Dante giudicò
assolutamente inaccettabili. Si trattava di ammettere pubblicamente l'accusa di baratteria che gli veniva rivolta, pagare una multa e trascorrere una
notte in carcere, cosa che gli avrebbe consentito di rientrare in possesso di parte dei suoi beni e porre fine alla sua vita girovaga, ma è fin troppo
evidente che il poeta mai avrebbe sottostato a una simile imposizione: avrebbe significato venir meno alla sua coerenza morale, scendere a patti
con coloro che lo avevano ingiustamente allontanato e soprattutto riconoscere una colpa che non aveva commesso, un prezzo davvero troppo alto
da pagare per chi fino a quel momento si era distinto come cantor rectitudinis attraverso le pagine del poema che da anni circolava nelle città
italiane. Il gran rifiuto di Dante acquista maggior rilievo se si pensa che, dopo la morte di Arrigo VII di Lussemburgo nel 1313, quella era davvero
l'ultima opportunità per Dante di rimettere piede a Firenze: lui stesso ne era cosciente e la sua fermezza nel rinunciare a tale possibilità è la migliore
testimonianza del suo rigore inflessibile, nonché della sua caparbietà nel tenere fede ai propri principi. Ne è una testimonianza l'Epistola XII a un
amico fiorentino, forse un interlocutore reale che lo sollecitava a rientrare approfittando dell'amnistia e cui Dante risponde con cortesia riguardo
all'intercessione e con sdegno nei confronti dei suoi oppositori politici: il passo è rimasto famoso e ha consegnato alle generazioni future l'immagine
dell'altera e sdegnosa dignità del poeta, che nei documenti si definiva florentinus natione non moribus. Ecco le sue parole riguardo all'infamante
condono di cui avrebbe potuto usufruire:

«È proprio questo il grazioso proscioglimento con cui è richiamato in patria Dante Alighieri, che per quasi tre lustri ha sofferto l'esilio? Questo ha
meritato l'innocenza a tutti manifesta? questo ha meritato il sudore e l'assidua fatica nello studio? Sia lontana da un uomo, familiare con la filosofia,
una così avvilente bassezza d'animo da sopportare di offrirsi come un carcerato al modo di un Ciolo e di altri infami! Sia lontano da un uomo che
predica la giustizia, che dopo aver patito un ingiusto oltraggio, paghi il suo denaro a quelli stessi che l'hanno oltraggiato, come se lo meritassero!
Non è questa, padre mio, la via del ritorno in patria; ma se un'altra via prima o poi da voi o da altri verrà trovata, che non deroghi alla fama e
all'onore di Dante, l'accetterò a passi non lenti; ma se per nessuna onorevole via s'entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai. E che? forse che non
potrò vedere dovunque la luce del sole o degli astri? o forse che dovunque non potrò sotto il cielo indagare le dolcissime verità, senza prima
restituirmi abietto e ignominioso al popolo e alla città di Firenze? E certamente non mi mancherà il pane.» (trad. di A. Torri, Livorno 1842).

Il 15 ottobre 1315 venne confermata la condanna a morte per Dante e i suoi figli, e come è noto il poeta sarebbe morto nel 1321 a Ravenna, dove è
tuttora sepolto. La contrastata vicenda tra il poeta e la sua città non ebbe fine con la sua scomparsa: diversi tentativi vennero fatti negli anni a
venire dai Fiorentini per traslare i suoi resti nella chiesa monumentale di Santa Croce, nessuno dei quali andò tuttavia a buon fine (neppure quello
ad opera di papa Leone X nel primo Cinquecento, quando furono i Ravennati a opporsi). E forse è giusto che le spoglie del grande poeta, che non
poté rientrare in vita nella sua città a condizioni giudicate onorevoli, restino tumulate lontano dalla sua Firenze, dove all'indomani della sua morte i
suoi ingrati ex-concittadini erano fin troppo solleciti a volersene riappropriare, per ragioni non certamente legate all'ammirazione per la sua dignità.

Note e passi controversi

I vv. 1-3 alludono al mito di Fetonte, figlio di Apollo e Climene (Ovidio, Met., I, 748 ss.; II, 1 ss.) che era stato deriso da Epafo il quale non credeva che
il dio del Sole fosse realmente suo padre e si era rivolto alla madre per avere rassicurazioni: in seguito Apollo, per confermare la versione di
Climene, gli permise di guidare il carro del Sole, ma Fetonte deviò dal retto cammino e venne fulminato da Giove (per questo il giovane è esempio di
come i padri debbano essere scarsi, non condiscendenti coi figli).

Al v. 13 piota vuol dire «pianta del piede», quindi per estensione «radice». Il vb. t'insusi è neologismo dantesco.

Al v. 31 ambage è latinismo per «tortuosità», «espressioni oscure» e allude ai responsi oracolari dei pagani (la gente folle) che spesso erano
ambigui; preciso / latin (vv. 34-35) vuol dire «discorso chiaro» e non necessariamente che il beato parli latino come qualcuno ha supposto (cfr. il
discreto latino di XII, 144).

Alcuni mss. al v. 42 leggono corrente, che però è lectio facilior.

I vv. 46-48 alludono al mito di Ippolito, il figlio di Teseo, che respinse le profferte amorose della matrigna Fedra e fu da lei accusato di fronte al
padre; questi credette alla moglie e cacciò ingiustamente il figlio da Atene (Ovidio, Met., XV, 493 ss.). Alcuni interpreti pensano che Dante paragoni
Firenze a Fedra, indicandola cioè come città «matrigna».

I vv. 49-51 alludono certamente a Bonifacio VIII, intento a compiere simonia nella Curia di Roma (là dove Cristo tutto dì si merca) e a complottare
per favorire la presa del potere dei Neri a Firenze. Non è necessario pensare che Dante intenda attribuire al papa la volontà di esiliare lui
personalmente, anche se un riferimento in tal senso non si può escludere.

I vv. 53-54, non chiarissimi, intendono dire che presto Firenze verrà punita da Dio e ciò ristabilirà la verità, dimostrando cioè la falsità delle accuse
rivolte a Dante (prob. ciò si riferisce all'accusa di baratteria).

I vv. 61-66 si riferiscono agli altri fuorusciti fiorentini a cui Dante in un primo tempo si era unito, anche se non è chiaro a cosa egli alluda dicendo che
questa compagnia... era diventata tutta ingrata, tutta matta ed empia contro di lui. Probabile che fossero sorti contrasti circa il modo di rientrare a
Firenze, per cui Dante si era staccato da loro e non aveva preso parte alla battaglia della Lastra in cui erano stati sconfitti, con le tempie rosse di
sangue e vergogna.

Il gran Lombardo citato al v. 71 è quasi certamente Bartolomeo Della Scala, figlio di Alberto I (morto nel 1301, prima dell'esilio di Dante) e fratello
maggiore di Cangrande, nato nel 1291; egli resse Verona dal 1301 al 1304, quindi Dante sarebbe stato da lui nei primissimi anni dell'esilio. Del
successore, Alboino, il poeta dà un giudizio severo in Conv., IV, 16 e quindi è poco probabile che si tratti di quest'ultimo.

Al v. 72 il santo uccello è l'aquila imperiale, che lo stemma degli Scaligeri recava sul simbolo della scala; essi divennero vicari imperiali nel 1311, ma
non è inverosimile che l'aquila fosse già presente prima.

I vv. 76 ss. alludono senza nominarlo a Cangrande, nato nel 1291 e quindi di appena nove anni al momento del colloquio con Cacciaguida: il beato
ne predice le grandi imprese, che si vedranno prima che Clemente V (il Guasco) inganni Arrigo VII di Lussemburgo (l'alto Arrigo), ovvero prima del
1312 quando il papa si rivoltò contro l'imperatore al quale aveva dapprima accordato il favore.

I vv. 91-93 contengono una profezia delle imprese di Cangrande, che però Dante non dovrà riferire: identico espediente in IX, 1-6 quando Carlo
Martello predice il castigo nei confronti di chi aveva ingannato i suoi figli, cioè prob. il fratello Roberto.

Al v. 97 i vicini sono i «concittadini» di Dante.

Al v. 122 corusca è latinismo e vuol dire «splendente».

XVII canto

Argomento del Canto


Ancora nell'VIII Cielo delle Stelle Fisse. Invettiva di san Pietro contro la corruzione della Chiesa; profezia di un futuro intervento divino. Ascesa di
Dante e Beatrice al Primo Mobile. Invettiva di Beatrice contro la cupidigia degli uomini.
È il tardo pomeriggio di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.

I beati intonano il Gloria. San Pietro arrossisce di sdegno (1-15)


Tutti i beati intonano il Gloria alla Trinità, con un canto talmente dolce che riempie Dante di ebbrezza, poiché al poeta sembra di vedere il riso di
tutto l'Universo: egli è commosso di fronte all'indicibile gioia che proviene dalla felicità eterna, contrapposta alla brama delle ricchezze materiali. Le
quattro luci delle anime di san Pietro, san Giacomo, san Giovanni e Adamo restano splendenti di fronte ai suoi occhi, poi quella di Pietro aumenta il
suo fulgore e assume un colore rossastro, proprio come se Giove fosse un uccello e scambiasse le sue penne con quelle di Marte.

Invettiva di Pietro contro la corruzione della Chiesa (16-36)

La Provvidenza divina ha posto fine al coro dei beati, quindi san Pietro spiega a Dante che non deve stupirsi del fatto che sia arrossito, in quanto alle
sue parole faranno lo stesso tutte le altre anime. Il santo aggiunge che colui (Bonifacio VIII) che usurpa in Terra il soglio pontificio, ha trasformato il
Vaticano in una sordida cloaca a causa dei suoi traffici, al punto che Lucifero gode della corruzione della Chiesa. Dante vede allora tutto l'VIII
Cielo assumere un colore rossastro, come una nuvola illuminata dal sole all'alba o al tramonto, ed anche Beatrice arrossisce come una donna onesta
che ascolta le parole peccaminose altrui.

San Pietro profetizza il futuro intervento divino (37-66)

San Pietro prosegue nelle sue accuse, con voce non meno alterata del suo aspetto, dicendo che la Chiesa non è stata alimentata dal sangue suo e
degli altri papi martirizzati per essere usata al fine di arricchirsi, bensì il sacrificio di quei pontefici era rivolto a meritare la vita eterna. L'intenzione
sua e degli altri papi non era certo consentire ai successori corrotti di dividere il popolo cristiano, né di usare il simbolo delle chiavi di Pietro come
vessillo per combattere gente battezzata; Pietro freme di sdegno al pensiero che la sua effigie sia stampata sui documenti con cui vengono venduti i
privilegi e i benefici ecclesiastici. I papi, che dovrebbero essere pastori, sono diventati lupi famelici, per cui Pietro invoca il soccorso divino: pontefici
come Clemente V e Giovanni XXII si apprestano a ricavare lucro dalla Chiesa, un esito ben triste per un'istituzione creata con santa intenzione. Ma la
Provvidenza divina, prevede Pietro, interverrà presto come già fece con Scipione per salvare  Roma, per cui Dante è invitato a non nascondere
questo, ma anzi a rivelarlo una volta che sarà tornato nel mondo.

Ascesa dei beati all'Empireo. Dante e Beatrice salgono al Primo Mobile (67-102)

Come dal cielo cadono fiocchi di neve nel pieno dell'inverno, sulla Terra, così in Paradiso Dante vede le anime dei beati salire lentamente in alto,
dirette all'Empireo; il suo sguardo le segue finché non sono troppo distanti e le perde di vista, quindi Beatrice invita Dante ad abbassare lo sguardo e
ad osservare quanto spazio egli abbia percorso ruotando insieme all'VIII Cielo. Il poeta obbedisce e si accorge di aver percorso circa novanta gradi,
poiché guardando la Terra vede a ovest di Cadice lo stretto di Gibilterra, e a est quasi fino alle coste della Fenicia. Vedrebbe una parte maggiore
della Terra, se il Sole non avesse già percorso più di un segno zodiacale, per cui la parte più a oriente è già in ombra. Dante arde dal desiderio di
guardare nuovamente Beatrice e quando lo fa il suo sorriso è di tale bellezza che supera qualunque allettamento terreno che possa attirare lo
sguardo. La virtù degli occhi della donna stacca Dante dalla costellazione dei Gemelli e lo spinge nel IX Cielo, il  Primo Mobile che ruota velocissimo:
esso è uniforme in ogni sua parte, per cui il poeta non sa dire in quale punto sia penetrato nella sua sfera trasparente.

Caratteristiche del Primo Mobile (103-120)

Beatrice intuisce la curiosità di Dante e inizia a parlare, sorridendo lietamente come se Dio risplendesse nel suo volto: spiega che il principio
animatore del mondo, che tiene la Terra ferma al centro dell'Universo e fa ruotare gli altri pianeti, inizia da questo Cielo. Il Primo Mobile trae la virtù
che lo fa ruotare e con cui irraggia l'influsso astrale sugli altri Cieli dalla mente di Dio, che lo avvolge come esso fa con le altre sfere celesti, in un
modo comprensibile solo al Creatore. Il suo movimento non può essere misurato, al contrario di tutti gli altri movimenti che hanno la loro unità di
misura nel Primo Mobile, ed anche il tempo trae la sua origine da questo Cielo.

Invettiva di Beatrice contro la cupidigia (121-148)


Beatrice accusa la cupidigia degli uomini, che li tiene a terra e impedisce loro di sollevare lo sguardo al Cielo: il desiderio del bene è innato
nell'uomo, ma la corruzione e la mancanza di una guida sicura lo rende guasto e totalmente sterile. L'innocenza è propria solo dei bambini e li
abbandona prima che a questi cresca la barba, cosicché chi ancora non sa parlare pratica la virtù, ma appena cresce e apprende il linguaggio si
dedica subito a ogni vizio; e chi ancora non sa parlare ama e rispetta la propria madre, augurandole poi la morte quando è diventato adulto. Così la
pelle bianca diventa scura al primo apparire dell'Aurora, cioè l'umanità da buona diventa malvagia: Dante deve pensare al fatto che sulla Terra non
c'è un'autorità che governi, laica o ecclesiastica, e questa è la causa della corruzione degli uomini. Tuttavia, prima che gennaio esca del tutto
dall'inverno a causa dello sfasamento del calendario, ci sarà un intervento divino che raddrizzerà la situazione e ristabilirà virtù e giustizia dove ora
c'è soltanto la decadenza morale.

Interpretazione complessiva
Il Canto è suddiviso in due parti distinte, il cui filo conduttore è la rampogna della corruzione del mondo e il preannuncio di un futuro intervento
divino destinato a ristabilire la giustizia: nella prima, infatti, san Pietro prorompe in una violenta invettiva contro la corruzione della Chiesa e i papi
simoniaci, in particolare Bonifacio VIII già più volte bersaglio delle accuse di Dante, mentre nella seconda (dopo l'ascesa al Primo Mobile e la
descrizione del IX Cielo) è Beatrice a rimproverare la cupidigia degli uomini, contro la quale si abbatterà la punizione divina come sui pontefici
corrotti. L'episodio si apre del resto con il grandioso spettacolo del Gloria intonato da tutte le anime, che riempie Dante di ebbrezza e lo spinge a
inneggiare alla vera felicità che proviene dalla beatitudine eterna, in contrasto con le ricchezze materiali: le sue parole preparano il terreno
all'invettiva di Pietro, sottolineata dal colore rossastro che assume la sua luce come quella di tutti gli altri beati e dello stesso VIII Cielo, che
simboleggia lo sdegno provato da tutto il Paradiso per la vergogna della Chiesa corrotta (Dante rappresenta la scena con la similitudine paradossale
di Giove e Marte, paragonati a due uccelli che si scambino le piume, e con quella naturalistica della nube colorata di rosso all'alba o al tramonto). Le
parole di Pietro vengono sottolineate dal silenzio di tutti i beati e si qualificano come un durissimo attacco anzitutto a Bonifacio VIII, il papa presente
sul soglio pontificio al momento dell'immaginario viaggio (primavera del 1300), che il santo accusa di «usurpare» il suo posto come successore
indegno e di aver tramutato il Vaticano in cui lui è sepolto in una cloaca / del sangue e de la puzza: il riferimento è alle circostanze in cui Bonifacio
succedette a Celestino V (cfr. Inf., XIX, 52-57) e forse all'illegittimità della sua elezione, mentre di sicuro Pietro rinfaccia al papa di sfruttare la sua
carica per arricchirsi illecitamente, tanto da procurare piacere coi suoi atti a Lucifero che dal Cielo venne precipitato al centro della Terra. Il
linguaggio crudo e a tratti volgare di Pietro è ripreso poco oltre, dopo la descrizione del «trascolorare» di tutto il Cielo e di Beatrice, attraverso il
paragone con l'oscuramento del Sole il giorno della morte di Cristo (il rosso è anche il colore del sangue, più volte evocato nel discorso del santo,
mentre non va scordato che il papa è appunto il vicario di Cristo in Terra): Pietro crea un contrasto fra se stesso e i primi papi, che vennero
martirizzati per costruire la Chiesa delle origini, e i papi attuali, per i quali la sposa di Cristo serve unicamente come fonte di guadagno illecito, per
cui l'effigie di Pietro compare sui documenti papali con cui si fa compravendita di cose sacre e il simbolo delle chiavi fregia i vessilli con cui si fa
guerra ai battezzati anziché agli infedeli, come nel recente assedio di Palestrina ad opera proprio di Bonifacio (cfr. Inf., XXVII, 85 ss.). I papi simoniaci
sono definiti lupi rapaci con immagine scritturale, come del resto pieno di furore biblico è l'intero discorso (con accenti simili all'invettiva di Dante
contro Niccolò III in Inf., XIX) e Pietro profetizza anche le ruberie di due successori di Bonifacio VIII, Clemente V e Giovanni XXII che Dante ha già
duramente e più volte attaccati, preconizzando la futura dannazione del primo fra i simoniaci della III Bolgia dell'VIII Cerchio e rivolgendo al secondo
la tremenda invettiva che chiudeva il Canto XVIII del Paradiso. Il discorso di Pietro, stilisticamente sostenuto e con numerosi artifici retorici (la
triplice ripetizione di il luogo mio..., l'anafora di Non fu..., il polisindeto del v. 44), si chiude con il preannuncio di un futuro e ormai prossimo
intervento divino, che la Provvidenza sta preparando così come fece al tempo di Scipione per difendere la gloria di Roma: il riferimento alla storia
romana non è casuale, poiché è noto che Dante considerava l'autorità imperiale come la necessaria guida politica per assicurare le leggi e la giustizia
nel mondo, in accordo con l'autorità spirituale rappresentata dai papi che dovevano naturalmente essere esenti dalle gravi colpe qui rinfacciate loro
da san Pietro. Tale intervento provvidenziale andrà inteso come la profezia di una prossima palingenesi della società ad opera di un personaggio
non meglio identificato, come il «veltro» di Inf., I o il «DXV» di Purg., XXXIII, ed è quasi certo che la stessa indeterminatezza avrà anche la parallela
profezia di Beatrice alla fine del Canto, più sfumata nei toni in quanto non rivolta contro bersagli particolari ma in generale alla corruzione umana
che pervade l'intera società (in entrambi i casi Dante è chiamato a riferire ciò che ha udito una volta tornato sulla Terra, missione poetica di cui è
altamente ed esplicitamente investito dallo stesso Pietro).
Il passaggio dalla prima alla seconda parte dell'episodio è rappresentato dall'ascesa delle anime dei beati all'Empireo, ancora con una similitudine
naturalistica in quanto paragonati a fiocchi di neve che salgono lentamente verso l'alto, quindi l'ascesa al Primo Mobile è anticipata dallo sguardo di
Dante alla Terra vista nuovamente nella sua piccolezza e ancora definita aiuola, con un parallelismo rispetto a XXII, 133 ss. (i due momenti aprono e
chiudono la descrizione del Cielo delle Stelle Fisse, benché in questo caso Dante si limiti a osservare la Terra con una complessa e discussa
rappresentazione geografica). Come già nel passaggio dal VII all'VIII Cielo, anche in questa circostanza è Beatrice col suo sguardo a spingere il poeta
nel Primo Mobile, che si presenta come una sfera trasparente e perfettamente uniforme in ogni suo punto: la complessa spiegazione circa la sua
natura e il suo funzionamento, per cui Dante si rifà strettamente alla teoria di Tolomeo poi recepita dalla dottrina tomistica e base di tutta la
costruzione astronomica del poema, dà modo a Beatrice di inneggiare alla perfezione dell'Universo e all'infinito amore di Dio, che regola con la sua
saggezza i movimenti delle sfere celesti, per cui il successivo trapasso alla rampogna contro la cupidigia degli uomini non è così improvviso come è
parso a vari commentatori (l'umanità dovrebbe levare lo sguardo alla bellezza dei Cieli invece di rivolgerlo ai beni terreni, secondo quanto detto
da Virgilio in Purg., XIV, 142-151). Beatrice rimarca il fatto che l'uomo è creato da Dio e nasce naturalmente inclinato al bene, ma poi crescendo
perde la sua innocenza e si corrompe, come le sosine vere che la pioggia trasforma in bozzacchioni, ovvero in frutti guasti e privi di ogni qualità: la
causa di ciò è individuata dalla donna nella mancanza di una guida spirituale e politica nel mondo, con allusione alla corruzione ecclesiastica (cui si
aggiungerà presto anche la cattività avignonese) e all'assenza di un'autorità imperiale, fonte per Dante di tutti i problemi politici della società del
suo tempo. L'accusa si collega quindi a quella di san Pietro contro i papi corrotti, proprio come il preannuncio della futura punizione che chiude il
Canto e in cui Beatrice usa ancora l'immagine del vero frutto che dovrà nascere dal fiore e della flotta che sarà rimessa nella giusta rotta dal volere di
Dio, poiché in Terra non è chi governi (il riferimento è forse proprio all'assenza di una guida politica, come in Purg., VI con l'immagine dell'Italia nave
sanza nocchiere in gran tempesta): la donna usa gli stessi accenti profetici che caratterizzeranno alcuni dei momenti conclusivi della Cantica, specie
in XXX, 130-148, quando indicherà a Dante il seggio della rosa dei beati già destinato ad Arrigo VII di Lussemburgo e condannerà ancora la cieca
cupidigia che ammalia gli uomini, profetizzando tra l'altro nuovamente la dannazione di Bonifacio VIII e Clemente V fra i simoniaci della III Bolgia
(quelle saranno le ultime parole di Beatrice a Dante come sua guida, prima che il suo posto sia preso da san Bernardo che avrà l'incarico di
preparare Dante alla visione di Dio che concluderà in modo solenne il viaggio nell'Oltretomba). La rampogna di Beatrice contro la cupidigia umana
prepara inoltre il terreno alla successiva disquisizione circa le gerarchie angeliche, il cui ordine armonioso sarà in certa misura contrapposto al
disordine politico e morale del mondo terreno e che occuperà con insolita estensione entrambi i Canti seguenti, il XXVIII e il XXIX, con quest'ultimo
che conterrà una nuova invettiva rivolta ai falsi predicatori che, talvolta per avidità di guadagno, diffondono false dottrine circa gli angeli e le loro
qualità, alimentando leggende infondate sui loro poteri (la polemica contro la corruzione ecclesiastica lega dunque insieme gran parte dei Canti
conclusivi del Paradiso).

Note e passi controversi


Le quattro face del v. 10 sono le anime di san Pietro, san Giacomo, san Giovanni e Adamo, mentre quella che pria venne (v. 11) è san Pietro, la cui
luce diventa rossastra.
La bizzarra similitudine dei vv. 13-15 si basa sul fatto che il pianeta Marte è di colore rosso, mentre Giove è argenteo.
Il vb. usurpa del v. 22 ha fatto pensare che Dante contestasse la legittimità dell'elezione papale di Bonifacio VIII, ipotesi confermata in parte da Inf.,
XIX, 52-57, mentre altri sostengono che il poeta alluda semplicemente all'indegnità del pontefice come vicario di Cristo (cfr. Purg., XX, 86-90, in cui
l'oltraggio di Anagni è duramente condannato).
Al v. 25 il cimitero  è il Vaticano, dove Pietro fu martirizzato e, secondo la tradizione, sepolto; esso è trasformato da Bonifacio in una fogna in cui si
raccoglie il sangue sparso per le contese interne al mondo cristiano e la puzza della corruzione della Curia (cfr. anche IX, 139 ss.).
Il perverso (v. 26) è Lucifero.
La similitudine ai vv. 31-36 allude al trascolorare di Beatrice che arrossisce (secondo altri impallidisce) come una donna onesta che ascolta le parole
peccaminose di altri; il Cielo diventa rosso come il Sole quando si oscurò il giorno della morte di Cristo, la supprema possanza (Luc., XXIII, 45).
Ai vv. 41 ss. Pietro cita alcuni dei primi papi della Chiesa primitiva: Lino di Volterra fu il suo primo successore, ucciso il 23 sett. del 78 d.C.; Cleto (o
Anacleto) fu martirizzato sotto Domiziano, mentre Sisto I durante il principato di Adriano; Pio I, di Aquileia, morì forse nel 149, mentre Calisto I nel
222 sotto Alessandro Severo; infine Urbano I, successore di Calisto, subì il martirio nel 230.
Al v. 45 fleto  è lat. per «pianto».
I vv. 46-48 alludono all'immagine degli eletti e dei reprobi che, il Giorno del Giudizio, siederanno rispettivamente alla destra e alla sinistra di Cristo,
per cui i papi corrotti pretendono di anticipare tale sentenza coi loro atti simoniaci (specie attraverso la vendita delle indulgenze).
Il sigillo del v. 52 è quello papale su cui è tuttora raffigurata l'effigie di san Pietro; i privilegi venduti e mendaci (v. 53) sono le indulgenze e le cariche
ecclesiastiche di cui i papi simoniaci facevano commercio.
I lupi rapaci del v. 55 rimandano a Matth., VII, 15: Attendite a falsis prophetis qui veniunt ad vos in vestimentis ovium, intrinsecus autem sunt lupi
rapaces («Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi nelle sembianze di pecore e nell'animo sono invece lupi rapaci»). Il v. 57 riecheggia
invece Ps., XLIII, 24: Exsurge, quare obdormis, Domine?
I vv. 58-59 alludono a Clemente V e Giovanni XXII, originari rispettivamente della Guascogna e di Cahors: gli abitanti di quest'ultima città avevano
fama di usurai (Inf., XI, 50).
I vv. 67-69 si riferiscono alla stagione invernale, quando la capra del ciel (la costellazione del Capricorno) è in congiunzione col Sole e i fiocchi di neve
cadono a terra. L'etera è l'VIII Cielo (cfr. XXII, 132).
I vv. 79-81 alludono alla divisione della Terra in sette climi operata dagli antichi geografi: erano delle fasce parallele che andavano dall'Equatore alle
zone fredde, corrispondenti ai vari climi della zona abitabile del globo, aventi una longitudine di 180 gradi; Dante intende dire di aver ruotato
insieme al Cielo delle Stelle Fisse dal centro alla fine del primo clima, quindi di 90 gradi.
Al v. 82 Gade  è Cadice, in Spagna, a occidente della quale si scorge il varco / folle d'Ulisse (l'oceano da lui percorso). Ai vv. 83-84 il lido è la Fenicia,
dove secondo il mito la ninfa Europa salì in groppa a Giove tramutatosi in toro, che in tal modo la rapì; si obietta che in base alla complessa
descrizione astronomica la Fenicia dovrebbe essere in ombra e non visibile a Dante dalla sua posizione, ma la sua indicazione è forse più generica
oppure il poeta confondeva la Fenicia con Creta dove Europa venne portata (cfr. Ovidio, Met., II, 833 ss.).
Al v. 88 donnea  vuol dire «vagheggia amorosamente».
Al v. 98 il bel nido di Leda  è la costellazione dei Gemelli, così detta in quanto Castore e Polluce, la cui figura è ricordata dal segno zodiacale,
nacquero dall'uovo di Leda fecondato da Giove tramutatosi in cigno.
Al v. 108 meta si riferisce probabilmente alla colonnina che nel circo dell'antica Roma segnava il punto in cui i carri dovevano girare durante la corsa:
Dante intende dire che il Primo Mobile è il principio e la fine del mondo sensibile.
I vv. 109-111, variamente interpretati, vogliono dire: «Questo Cielo (il Primo Mobile) non ha altra collocazione se non la mente divina (che
corrisponde all'Empireo), in cui si accendono l'amore che lo fa ruotare e la virtù che esso esercita». Il X Cielo non è un luogo fisico ma corrisponde
alla mente di Dio, Luce e amor (v. 112) che circondano il IX Cielo e imprimono ad esso il movimento.
Il v. 117 intende dire che tutti i movimenti fisici sono commisurati a quello del Primo Mobile, come il numero dieci è commisurato al cinque e al due
(suoi sottomultipli).
Al v. 118 testo è lat. per «vaso».
I vv. 125-126 si rifanno forse all'antico proverbio secondo cui «Quando piove la domenica di Passione, ogni susina va in bozzacchione»:
i bozzacchioni sono le susine vuote e guaste, mentre la pioggia fuor di metafora è l'ambiente corrotto che influisce negativamente sugli uomini.
I vv. 136-138 sono una delle cruces  interpretative del poema, poiché non è chiaro a cosa alluda Dante con la bella figlia / di quel ch'apporta mane e
lascia sera: potrebbe trattarsi dell'Aurora, la figlia mitologica di Iperione, oppure la Chiesa, figlia di Dio, o ancora Circe, figlia del Sole nel mito. La
terzina vuol forse dire che la pelle bianca, al primo apparire della luce dell'Aurora, diventa scura, quindi (fuor di metafora) gli uomini nascono inclini
al bene e poi si corrompono. La questione è tutt'altro che conclusa.
I vv. 142 ss. vogliono dire che, prima che passino migliaia di anni (litote per dire «fra breve») avverrà l'intervento divino: Dante allude alla necessaria
riforma del calendario adottato da Giulio Cesare nel 46 a.C., che prevedeva un anno bisestile ogni quattro ma lasciava 12 minuti di eccedenza l'anno,
per cui l'anno civile restava in lieve ritardo rispetto a quello astronomico. Senza una modifica (che sarebbe avvenuta nel 1582 col calendario
gregoriano, tuttora in vigore) l'equinozio di primavera sarebbe caduto 90 giorni prima, quindi a gennaio che sarebbe uscito dall'inverno (ciò sarebbe
avvenuto in realtà 90 secoli dopo il 1300). La centesma è la centesima parte del giorno, appunto i 12 minuti di eccedenza rispetto all'anno
astronomico.
Al v. 142 gennaio è bisillabo per trittongo.
Al v. 145 fortuna può voler dire «fortunale», «tempesta», ma anche (più probabilmente) «Provvidenza».
Al v. 147 classe è lat. per «flotta».

XXXI canto

Argomento del Canto

Ancora nel X Cielo (Empireo). Dante osserva stupito la rosa dei beati. Apparizione di san Bernardo: commosso ringraziamento a Beatrice, tornata nel
suo seggio. Glorificazione di Maria Vergine.

È la notte di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.

La candida rosa: il volo degli angeli (1-24)

Dante osserva la candida rosa dei beati, mentre la schiera degli angeli, che vola e vede perfettamente la gloria divina, scende fra i seggi e
continuamente risale verso Dio, simile a uno sciame di api che entra nei fiori e poi torna all'alveare per produrre il miele. Gli angeli hanno il volto
rosseggiante di fiamma e le vesti di un bianco candidissimo più della neve, e quando scendono nella rosa porgono ai beati la pace di Dio, che hanno
acquistato volando e muovendo le loro ali. La fitta moltitudine degli angeli che si frappone fra gli occhi di Dante e la luce divina non impedisce al
poeta di vedere quest'ultima, poiché essa penetra in nell'intero Universo a seconda della sua capacità di recepirla e nulla può ostacolarla.

Stupore attonito di Dante (25-51)

L'intera schiera dei beati, fra cui ci sono personaggi dell'Antico e del Nuovo Testamento, ha lo sguardo rivolto unicamente a Dio, la luce della Trinità
che li appaga con il suo sfolgorio e che Dante si augura possa rivolgersi anche alle tempeste del mondo. Se i barbari, osserva il poeta, giungendo a
Roma dalle loro lontane regioni del Nord Europa restavano stupefatti vedendo la maestosità del Laterano e degli altri monumenti della città, lo
stupore di Dante che è giunto dal mondo terreno e da Firenze alla dimensione dell'eterno è certo grandissimo, al punto che egli preferisce restare
muto e non ascoltare neppure. Egli è simile al pellegrino che è giunto nel santuario meta del suo viaggio e si riposa guardandolo, giacché il poeta
rigira gli occhi lungo i seggi dell'anfiteatro celeste dove vede volti informati alla carità, illuminati dalla luce di Dio e con atteggiamento ornato di ogni
decoro e compostezza.

Apparizione di san Bernardo (52-69)


Dante ha abbracciato con uno sguardo tutto il Paradiso e non si è ancora soffermato su un punto in particolare, quando si volta verso Beatrice per
porle domande su cose che hanno suscitato in lui dubbi: con sua enorme sorpresa al posto della donna vede accanto a sé un vecchio (san
Bernardo), vestito di bianco come gli altri beati e il cui aspetto ispira una benevola gioia, mostrando la devozione di un padre amorevole. Dante gli
chiede dove sia Beatrice e il santo risponde che proprio la donna lo ha evocato dal suo seggio per guidare il poeta nell'ultima parte del viaggio,
mentre lei è tornata ad occupare il suo seggio nel terzo gradino della rosa, a partire dall'alto.

Saluto e preghiera di Dante a Beatrice (70-93)

Dante solleva lo sguardo e vede Beatrice seduta nel suo scanno, incoronata da una aureola che getta su di lei una luce divina: la distanza fra la
donna e il poeta è superiore a quella che va dalla regione del cielo in cui si formano i tuoni fino al più profondo abisso marino, tuttavia Dante vede
perfettamente il suo volto che giunge ai suoi occhi non offuscato da alcun mezzo fisico. Il poeta rivolge alla donna un appassionato saluto e
ringraziamento, poiché Beatrice per amor suo è scesa nell'Inferno e lo ha tratto fino alla beatitudine del Paradiso, facendogli da guida: ella lo ha
tratto dalla schiavitù del peccato alla libertà, in tutti i modi che erano in suo potere, dunque Dante la prega di custodire in lui il dono che gli ha fatto,
cosicché la sua anima possa uscire dal corpo, il giorno della sua morte, nello stato di grazia in cui è ora.

San Bernardo invita Dante a contemplare Maria (94-117)

San Bernardo si rivolge a Dante e lo esorta a spingere il suo sguardo lungo la rosa, affinché il suo viaggio verso Dio giunga a compimento
preparandosi all'alta visione della Sua mente. Maria, aggiunge il santo, aiuterà Dante a ottenere questa grazia, dal momento che lui, Bernardo di
Chiaravalle, è un suo fedele. Dante è simile al pellegrino che giunge dalla lontana Croazia per vedere il velo della Veronica, e non smette di
guardarlo per la gioia di contemplare il volto di Cristo, poiché anche il poeta ammira la carità di Bernardo che in questa vita assaporò la pace divina.
Il santo esorta nuovamente Dante a non tenere gli occhi rivolti in basso ma a guardare in alto, fino ai gradini più alti della rosa dei beati dove la
Regina del Cielo siede sullo scanno più alto di tutti e verso la quale tutti i beati sono sudditi devoti.

Gloria di Maria (118-142)

Dante solleva lo sguardo e vede un punto della rosa che vince tutti gli altri in splendore, proprio come all'alba la parte orientale del cielo supera in
luminosità la parte occidentale: così come sulla Terra, in prossimità del sorgere del sole, il cielo diventa via via più chiaro e la luminosità decresce
man mano che ci si allontana dall'oriente, allo stesso modo nella rosa dei beati il punto in cui siede Maria emana una luce vivissima, che diventa più
fioca allontandosi da essa. Dante vede più di mille angeli che fanno festa a Maria, la quale dimostra una bellezza che scintilla negli occhi di tutti i
beati: se il poeta avesse tanta capacità di esprimersi quanta ne ha ad immaginare, neppure in tal caso oserebbe tentare di descrivere la bellezza
della Vergine. Non appena san Bernardo vede che gli occhi di Dante sono fissi su Maria, rivolge anch'egli il suo sguardo su di lei e ciò rende Dante
ancor più desideroso di ammirarla.

Interpretazione complessiva

Il Canto è strettamente legato al precedente, di cui costituisce una sorta di completamento con la descrizione della rosa dei beati e rispetto al quale
si apre quasi senza soluzione di continuità: dopo la raffigurazione dei beati e dell'anfiteatro luminoso in cui sono collocati i loro seggi, alla fine del
Canto XXX, qui il poeta descrive il tripudio degli angeli che vanno avanti e indietro fra i beati stessi e Dio, simili a uno sciame d'api che fa la spola dai
fiori all'alveare ove è prodotto il miele (la similitudine, di derivazione virgiliana, è suggerita dall'immagine della rosa mystica e a sua volta trasmette
l'idea dell'incessante opera degli angeli, che con il volto fiammeggiante e le ali d'oro propagano sui beati la pace e la carità di Dio). L'ammirazione
della moltitudine degli angeli, che pur frapponendosi tra gli occhi di Dante e la luce divina non ne impedisce la visione, spinge il poeta a intonare un
inno commosso e attonito alla trina luce che si diffonde su tutto l'Universo, pervaso dallo stupore di chi sente di aver raggiunto la propria meta
dopo un lungo e faticoso cammino: è questo il senso del paragone fra Dante, sbalordito di fronte allo spettacolo dell'Empireo, e i barbari che
restavano a bocca aperta di fronte all'imponenza dei monumenti di Roma, mentre poco oltre il poeta descriverà se stesso come il pellegrino che è
giunto al santuario che intendeva visitare e si riposa appagando gli occhi di quella visione. Nella letteratura religiosa era frequente la
rappresentazione dell'uomo sulla Terra come un pellegrino in via, destinato a giungere in patriam alla fine del suo viaggio nel mondo e a diventare
cittadino della Gerusalemme o della Roma celeste raffigurante il Paradiso, ed è esattamente così che Dante presenta se stesso nei Canti finali della
III Cantica (del resto poco più avanti seguirà un terzo paragone, fra Dante intento a osservare il volto di Bernardo che contempla la Vergine e il
pellegrino giunto dalla Croazia per ammirare il volto di Cristo nel velo della Veronica, che non riesce ad appagarsi di tale visione). Dante sottolinea
inoltre l'enorme distanza che ormai lo separa dal mondo terreno, che egli ha lasciato preda della sua procella e del suo disordine politico e morale
per approdare nella pace dell'Empireo, ovvero nel posto che gli compete e che (come più volte gli è stato preannunciato) lo attende per l'eternità
nella dimensione dell'ultraterreno; non manca di accostare polemicamente a questa Roma celeste abitata da un popol giusto e sano la sua corrotta
Firenze, alla fine di una terzina in cui i due termini sono posti chiasticamente l'uno accanto all'altro (al divino da l'umano... a l'etterno dal tempo... di
Fiorenza in popol giusto e sano). Il poeta ricorda al lettore che siamo vicini alla fine del viaggio e che è prossima la visione finale di Dio, che
concluderà il poema in una dimensione lontanissima dalla corruzione e dal caos del mondo, il cui ultimo accenno è stato nelle parole di Beatrice alla
fine del Canto XXX.

Dante vorrebbe porre domande alla sua donna sulle meraviglie che gli è dato osservare, ma quando si volta al posto di Beatrice vede accanto a sé
un vecchio venerando, che apprenderemo presto trattarsi di san Bernardo: enorme è il suo stupore e tutti i critici indicano la somiglianza tra questo
episodio e la scomparsa di Virgilio in Purg., XXX, 40 ss., salvo che là il poeta si abbandonava a un pianto disperato per l'abbandono di colui che
considerava come un padre, mentre qui si limita a chiedere al santo dove sia Beatrice, apprendendo che la donna ha ripreso il suo posto nella rosa
dei beati. La descrizione di Beatrice nella magnificenza della sua beatitudine è l'ultimo omaggio a colei che, grazie al suo amore, lo ha tratto in salvo
dalla selva oscura e dal peccato, insieme al commosso ringraziamento che Dante le rivolge e con il quale la saluta quasi definitivamente dal poema:
il suo posto come guida è stato rilevato da Bernardo, che rappresenta il lumen gloriae in grado di condurre Dante alla visione beatifica di Dio (si
veda sull'argomento più oltre) e che infatti si affretta a esortarlo a spingere il suo sguardo sull'intera rosa dei beati, soffermandosi in particolare sulla
figura della Vergine Maria. Non stupisce questa insistenza di Bernardo sulla Vergine, dato il culto mariano per cui il santo era famoso e che Dante
non poteva certo ignorare (Bernardo si presenta come suo fedel), anche perché a suo dire solo l'intercessione di Maria presso Dio potrà consentire
a Dante, ancor vivo, di accedere alla visione della mente divina, privilegio che solo in occasioni rarissime può toccare a un mortale ancor vivo: viene
anticipato il tema al centro del Canto finale del Paradiso, in cui proprio Bernardo rivolgerà alla Vergine la famosissima preghiera grazie alla quale
Dante potrà figgere il suo sguardo nella mente di Dio e vedere per alcuni istanti ciò che per l'universo si squaderna, mentre qui la gloria di Maria è
descritta come pura luce che si diffonde sulla rosa celeste e la vince in fulgore, mentre più di mille angeli festanti la fanno un tripudio tutt'intorno
che si collega a quanto visto in apertura di Canto. Più che naturale, inoltre, l'accostamento tra Maria e Beatrice, non solo per la santità di entrambe
le donne e il valore allegorico della donna fiorentina, ma soprattutto perché era stata la Vergine a sollecitare l'intervento di Beatrice per soccorrere
Dante ostacolato dalle tre fiere (cfr. Inf., II, 94 ss.), sia pure attraverso santa Lucia che qui non è nominata ma che avrà la sua menzione d'onore nel
Canto successivo, alla sinistra del Battista nella rosa dei beati: le tre donne benedette che hanno allegoricamente salvato Dante sono di nuovo l'una
accanto all'altra, quindi dopo l'inno a Beatrice a metà del Canto questo può chiudersi con la glorificazione di Maria, che sarà al centro anche del
XXXII prima del suo intervento indispensabile al compiersi della visione di Dante. Le ultime parole del Canto descrivono proprio san Bernardo in
accesa contemplazione della Vergine, il che induce Dante a osservarla con ancora più ardore di carità, in un'astmosfera di attesa che (come
vedremo) sarà protratta per tutto il Canto seguente e si scioglierà solo all'inizio del XXXIII, con la preghiera di Bernardo che sarà una delle pagine più
elevate di tutta la poesia della Commedia.

San Bernardo, la terza guida di Dante nel viaggio allegorico

San Bernardo è senza dubbio la terza guida che accompagna Dante nel suo viaggio ultraterreno, subentrando a Beatrice a metà del Canto XXXI del
Paradiso come questa era subentrata a Virgilio nel XXX del Purgatorio: piuttosto evidente il valore allegorico degli altri due personaggi (Virgilio
rappresenta la ragione naturale dei filosofi, mentre Beatrice è la teologia rivelata e la grazia santificante), mentre non del tutto trasparente è quello
di Bernardo su cui i commentatori si sono a lungo interrogati, rimarcando soprattutto il suo culto mariano e il misticismo che ne farebbero il
personaggio ideale a condurre Dante alla visione finale di Dio. Ciò è indubbiamente vero, ma il santo ha un significato allegorico più preciso che va
messo in relazione a quello delle altre due guide e che è stato bene illustrato dal dantista americano Ch. S. Singleton nel suo saggio Journey to
Beatrice (Cambridge 1958, trad. it. La poesia della 'Divina Commedia', Bologna 1978): lo studioso, autore di una serie di studi che hanno gettato
nuova luce sulla struttura allegorica del poema dantesco, cita opportunamente un passo di san Tommaso d'Aquino dove si parla di tre differenti tipi
di visione di Dio, ciascuno dei quali necessita di una particolare «luce» e che si possono mettere in relazione con lo schema allegorico del poema:

«Vi è infatti un tipo di visione [di Dio] alla quale è sufficiente la luce naturale dell'intelletto, come la contemplazione delle cose invisibili grazie ai
principi della ragione: e in questa contemplazione i filosofi riponevano la suprema felicità dell'uomo. Vi è poi un altro tipo di visione, alla quale
l'uomo viene elevato grazie alla luce della fede, come accade ai santi su questa Terra. Vi è infine un terzo tipo di visione, propria dei beati in
Paradiso, alla quale l'intelletto viene elevato grazie alla luce della gloria, vedendo Dio nella sua essenza, in quanto oggetto della beatitudine: tale
visione avviene in modo pieno e perfetto solo in Paradiso, tuttavia talvolta alcuni vengono rapiti ad essa quando sono ancora su questa Terra, come
accadde a san Paolo durante la sua estasi» (In Isaiam prophetam, cap. I).

Le prime due «luci» (il lumen naturale intellectus e il lumen fidei) corrispondono a Virgilio e Beatrice, essendo evidente che la prima è inferiore alla
seconda e senza la fede nella rivelazione delle Scritture è impossibile vedere le cose invisibili che costituiscono la beatitudine: tuttavia anche con
questa luce non si arriva a una visione piena e perfetta della vera essenza di Dio, quale di fatto è possibile solo a Dio stesso che contempla la propria
mente, a meno che non intervenga un lumen gloriae che, come un alto fulgore, colpisca la mente dell'uomo e gli consenta di vedere, in un
rapimento mistico, la reale natura di Dio (come accadrà a Dante nel Canto XXXIII del Paradiso, in cui la sua mente viene percossa / da un fulgore che
gli svela per un breve istante l'essenza del Creatore). Tale visione è quella che normalmente tocca ai beati in patria, ossia nell'Empireo, ma talvolta
può capitare a un mortale per effetto di un rapimento estatico, come accadde a san Paolo che fu rapito al III Cielo (II Cor., XII, 2-4) e come di fatto
accadrà allo stesso Dante alla fine del suo viaggio (non si scordi lo stretto parallelismo tra Dante e san Paolo, sottolineato a più riprese nel poema). Il
lumen gloriae che deve sollevare la mente umana a una così alta visione è appunto allegorizzato da san Bernardo, che dunque rileva il posto di
Beatrice come guida di Dante alla fine del lungo viaggio: la scelta del personaggio per questo ruolo è probabilmente influenzata dalle ragioni prima
esposte, ovvero il suo culto mariano e la sua propensione al misticiscmo contro l'eccessivo razionalismo, per quanto l'esperienza della visione finale
di Dante non sia un abbandono totale alla comunione con Dio ma conservi un carattere intellettuale, di effettiva «visione» che avviene con
l'intelletto e non solamente col sentimento. Dante sottolinea più volte la subordinazione della ragione e della filosofia alla rivelazione, specie nei
Canti finali del Paradiso, tuttavia non rinuncia totalmente all'elemento razionale nel suo figgere lo sguardo nella profondità infinita della mente
divina, anche se è detto chiaramente che tale esperienza è impossibile per le sole forze dell'intelletto umano e deve provvedere un aiuto dall'alto,
che elargisca ad esso quella fruizione dell'aspetto divino che è parte essenziale della beatitudine celeste; e che questa avvenga prima con la ragione
e solo secondariamente con il cuore è affermato chiaramente in Par., XXVIII, 109-111, per cui è pienamente giustificato da parte del Singleton il
ricorso alle fonti tomistiche per spiegare la struttura allegorica del poema, così come l'identificazione di Bernardo come allegoria del lumen gloriae
indispensabile perché Dante veda ciò che con la sola ragione e col solo ricorso alle Scritture sarebbe impossibile scorgere.

Dante, Petrarca e il velo della Veronica

In Par., XXXI, 103-111 Dante paragona se stesso che osserva il volto di san Bernardo in contemplazione della Vergine al pellegrino che giunge a
Roma dalla lontana Croazia per ammirare il volto di Cristo impresso sul velo della Veronica: si tratta di una antica reliquia bizantina, ancor oggi
conservata nella cupola di S. Pietro e che, secondo una leggenda risalente al XIII sec., una pia donna avrebbe usato per asciugare il volto
sanguinante di Gesù (tale donna sarebbe l'emorroissa guarita da Cristo, Matth., IX, 20-22 e Luc., VIII, 43-48; il nome Veronica è forse la storpiatura
del termine vera icon con cui la reliquia veniva ricordata nel Medio Evo). Tale paragone è sembrato eccessivo ad alcuni commentatori, ma è chiaro
che la similitudine non è fra Bernardo e Cristo bensì fra Dante e il fedele che giunge da lontano per ammirare le sembianze del Salvatore: in tutto il
Canto il poeta accosta se stesso al pellegrino che giunge alla destinazione finale del suo viaggio, poiché la vita sulla Terra era vista dai teologi come
un pellegrinaggio che giungerà alla fine solo in Paradiso, dove l'anima salva si ritroverà in patria, cittadina per l'eternità della Gerusalemme celeste
che era anch'essa meta di pellegrinaggi nel Medio Evo. Una similitudine per molti versi simile e avente anch'essa come oggetto il velo della Veronica
sarà usata anche da F. Petrarca, nel celebre sonetto XVI dei Rerum vulgarium fragmenta in cui il poeta descrive un suo viaggio a Roma in occasione
del quale deve staccarsi da Laura: egli cerca le fattezze del volto della sua amata in quello di altre donne, proprio come l'anziano pellegrino (che ha
affrontato un lungo e faticoso viaggio per raggiungere Roma) contempla le fattezze di Cristo nel velo della Veronica, sperando di rivedere quello
stesso volto quando giungerà in Paradiso. Non è improbabile che la fonte del paragone petrarchesco sia proprio il passo citato della Commedia,
tuttavia è chiaro che ci sono notevoli differenze e che in Petrarca l'accostamento di temi sacri e profani è lontanissimo dall'intento dell'autore del
Paradiso: anche qui il paragone non è fra Laura e Cristo, bensì tra Petrarca e il pellegrino; quest'ultimo è animato da zelo religioso, il poeta
dall'amore per la sua donna; il vecchio affronta un lungo viaggio per avvicinarsi all'oggetto del desiderio, Petrarca va a Roma allontanandosi dal suo,
ovvero dalla donna amata; il pellegrino è anziano e debole, il poeta è ancora giovane e nel pieno delle forze, e così via. I temi religiosi sono
ovviamente presenti nella poesia petrarchesca, ma in una maniera del tutto diversa rispetto all'opera di Dante: Petrarca è il poeta del dubbio, della
lacerazione interiore, così l'amore sensuale è qualcosa che lo distoglie dai beni spirituali, senza che egli operi una scelta radicale come l'autore della
Commedia; Laura è una donna reale che non ha più quasi nulla della donna-angelo degli Stilnovisti o della Beatrice allegorica del Paradiso, per cui
Petrarca può accostarla indirettamente alla Veronica senza che tale paragone assuma alcun significato religioso, con un atteggiamento che, anzi, ad
alcuni è sembrato addirittura blasfemo. La verità è che Petrarca è poeta più moderno di Dante e anticipa molti temi dell'Umanesimo, per cui egli ha
già varcato una linea rispetto alla quale Dante è ancora decisamente al di là: come l'amico e contemporaneo Boccaccio, cultore a suo modo
dell'opera dantesca, Petrarca esprime quella nuova sensibilità che sfocerà di lì a pochi decenni nella serena armonia dell'arte rinascimentale, pur
conservando un'inquietudine interiore causata da scrupoli religiosi, che però (e questa è la fondamentale differenza rispetto a Dante) egli non
risolverà mai, oscillando continuamente fra la tensione all'infinito e il richiamo dei beni terreni (è fin troppo evidente, invece, che Dante superò
pienamente tale crisi rappresentata dal suo «traviamento» e la stesura del poema ne è la dimostrazione più lampante).

Note e passi controversi

Ai vv. 2-3 la milizia santa / che nel suo sangue Cristo fece sposa è la schiera dei beati, la Chiesa trionfante che è sposa di Cristo. L'altra (v. 4) è la
schiera degli angeli.

La raffigurazione degli angeli (vv. 13-15) col volto rosso, le ali d'oro e la veste bianca si rifà al testo biblico e all'iconografia tradizionale: i tre colori
erano anche interpretati come allegoria di carità, sapienza e purezza, per quanto ci fossero anche altre interpretazioni.

Al v. 18 ventilando il fianco indica che gli angeli, volando, si toccano con le ali il fianco, o forse scuotono la candida veste.

Alcuni mss, al v. 20 leggono plenitudine al posto di moltitudine, a indicare che il Cielo è tutto riempito dallo stormo angelico.

Al v. 26 gente antica e novella indica i beati dell'Antico e del Nuovo Testamento.

I vv. 31-33 alludono all'Orsa Maggiore (Elice), che nei cieli del Nord Europa da dove provenivano i barbari non tramonta mai, ruotando sempre con
quella di Boote che essa vagheggia. Nel mito classico Elice (detta anche Callisto) era una ninfa sedotta da Giove, che dopo aver dato alla luce il figlio
Arcade venne cacciata dalla dea Diana di cui era al seguito; Giunone la tramutò in un'orsa per gelosia e Giove la tramutò nella costellazione dell'Orsa
Maggiore, accanto a quella di Boote in cui venne trasformato anche il figlio (cfr. Purg., XXV, 130-132).

Al v. 46 passeggiando indica in metafora che Dante fa scorrere gli occhi lungo i seggi della rosa, e non (come alcuni commentatori hanno ipotizzato)
che egli cammini materialmente all'interno di essa.

Al v. 49 suadi è lat. per «conformati».

Al v. 58 Uno... e altro sono prob. da intendere come neutri («volevo fare una cosa e invece ciò che mi rispose era un'altra»).

Ai vv. 59 e 94 sene è un forte latinismo per «vecchio» (da senex), così come gene per «guance» al v. 61.

Ai vv. 79-90, nella commossa preghiera con cui Dante saluta Beatrice, il poeta le si rivolge dandole del «tu» anziché del «voi» come ha fatto finora in
segno di rispetto: è stato osservato che ciò dipende dal fatto che Beatrice ha cessato ormai di essere la donna amata da Dante per ridiventare una
figura sacrale simile a quella di una santa, cui si può dare del «tu» entrando in comunione con lei.

I vv. 80-81 alludono al racconto di Virgilio in Inf., II, 94 ss.

I vv. 103-108 alludono al velo della Veronica, la reliquia bizantina conservata in S. Pietro a Roma e un tempo esposta ai fedeli, sicché era oggetto di
frequenti pellegrinaggi.

I vv. 124-125 indicano il Sole, attraverso il mito di Fetonte che ne guidò malamente il carro (cfr. Par., XVII, 1-3).

L'oriafiamma (v. 127) indica lo stendardo di guerra dei re di Francia, derivante secondo la leggenda da quello rosso dato da Cristo a Carlo Magno,
come segno della sovranità imperiale: era un drappo rosso con dipinte delle fiamme o stelle dorate. Qui indica forse non Maria ma il punto della
rosa da dove lei emana la sua luce, per cui al simbolo guerresco è accostato (quasi in modo antitetico) l'agg. pacifica.
Al v. 136 divizia è lat. per «ricchezza» (da divitiae). Anche caler (v. 140) è lat. che indica «esser caldo», «ardere» (altri mss. leggono calor, che però è
lectio facilior e dunque meno probabile).

XXXIII canto

Argomento del Canto

Ancora nel X Cielo (Empireo). Preghiera di san Bernardo alla Vergine e intercessione di Maria. Dante fissa lo sguardo nella mente di Dio: visione
dell'unità dell'Universo. I misteri della Trinità e dell'Incarnazione. Folgorazione e supremo appagamento di Dante.

È mezzanotte di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.

Preghiera di san Bernardo alla Vergine (1-39)

San Bernardo si rivolge alla Vergine e la invoca come la più alta e la più umile di tutte le creature, colei che ha nobilitato la natura umana a tal punto
che Dio non ha disdegnato di incarnarsi nell'umano. Nel ventre di Maria si riaccese l'amore tra Dio e gli uomini, che ha fatto germogliare la rosa
celeste dei beati; ella è per questi ultimi una perenne luce di carità e fonte di speranza per i mortali. La grandezza della Vergine è tale che
benevolmente concede ogni grazia, spesso addirittura prevenendone la richiesta, poiché in lei albergano la pietà, la magnificenza, la bontà.

Dante, spiega Bernardo, è giunto all'Empireo dal profondo dell'Inferno e ha visto lo stato delle anime dopo la morte, quindi supplica Maria di
concedergli la virtù sufficiente per figgere lo sguardo nella mente di Dio. Il santo le porge tutte le sue preghiere affinché gli venga concesso questo,
che egli desidera per Dante più di quanto l'abbia mai bramato per sé, e chiede alla Vergine di dissipare ogni velo che offusca gli occhi mortali del
poeta. La implora infine di conservare puri i sentimenti di Dante dopo una tale visione, poichè la Regina del Cielo può ottenere tutto ciò che vuole, e
la invita ad accogliere la sua preghiera alla quale si uniscono idealmente tutti i beati della rosa, inclusa Beatrice.

Intercessione di Maria. Dante fissa lo sguardo nella luce divina (40-66)

Maria tiene il suo sguardo fisso in quello di san Bernardo, dimostrando così di accogliere la sua preghiera, poi lo rivolge alla luce di Dio, nella quale
solo lei può addentrarsi con tanta chiarezza. Dante si avvicina al compimento di tutti i suoi desideri, cosicché consuma in sé tutto il proprio ardore,
mentre Bernardo con un cenno e un sorriso lo esorta a guardare in alto. La vista di Dante, diventando via via più chiara, si inoltra nella luce divina e
da quel momento in poi la visione del poeta è tale che il linguaggio è insufficiente a esprimerla, così come anche la memoria non è in grado di
ricordarla pienamente. Dante è simile a colui che sogna e, al risveglio, non ricorda nulla pur conservando nell'animo una forte impressione, in
quanto egli ha dimenticato quasi tutta la sua visione e conserva in cuore la dolcezza infinita che essa gli provocò. La neve si scioglie al sole in modo
simile e così le foglie con su scritto il responso della Sibilla si disperdevano al vento.

Invocazione di Dante: visione dell'unità dell'Universo (67-108)

Dante invoca la luce di Dio affinché essa gli consenta di ricordare in minima parte come essa gli si mostrò al momento della visione, e renda il suo
linguaggio tale da poter lasciare ai posteri almeno una scintilla della Sua gloria, cosicché le parole del poeta possano esprimere la vittoria divina.
Dante figge dunque lo sguardo nella mente di Dio e resterebbe smarrito se ne distogliesse gli occhi: il poeta acquista coraggio per sostenere quella
straordinaria visione e addentra così il suo sguardo nell'infinito, spingendo la vista alle sue possibilità estreme. Dante vede nella mente divina tutto
l'Universo legato in un volume, sostanze, accidenti e i loro rapporti uniti insieme; scorge l'essenza divina che unifica in un tutto armonico le cose
create, e parlando di questo ancora oggi sente accrescere in sé la gioia. L'attimo della visione è stato ormai da lui dimenticato, più di quanto
l'impresa della nave Argo (la prima a solcare il mare e a fare stupire il dio Nettuno) sia stata dimenticata in oltre venticinque secoli. Dante continua a
tenere lo sguardo fisso nella luce divina, essendo impossibile volgere gli occhi altrove, poiché tutto il bene possibile è racchiuso in essa e ciò che lì è
perfetto al di fuori è difettoso. Ormai ciò che riferirà della visione sarà meno di quanto potrebbe dire un bambino che sia ancora allattato dalla
madre.

Il mistero della Trinità (109-126)

La viva luce che Dante osserva è sempre uguale a se stessa, tuttavia è Dante a cambiare dentro di sé man mano che la sua vista si accresce, quindi
quella visione muta al mutare del suo atteggiamento interiore. All'interno di essa crede di vedere tre cerchi, delle stesse dimensioni e di colori
diversi (la Trinità), e mentre il secondo (il Figlio) sembra il riflesso del primo (il Padre), come un arcobaleno che ne crea un altro, il terzo (lo Spirito
Santo) è come una fiamma che spira ugualmente dai primi due. Il linguaggio di Dante è del tutto insufficiente a esprimere la propria visione, e
questa, in rapporto all'essenza della Trinità, è davvero un nulla: egli ha visto la luce eterna che trova fondamento in se stessa, si comprende da sé e,
compresa da se stessa, arde d'amore.

Il mistero dell'Incarnazione (127-138)

Dante si sofferma ad osservare il secondo cerchio (il Figlio), che sembra il riflesso del primo, e gli pare di vedere al suo interno l'immagine umana,
dello stesso colore del cerchio e, tuttavia, perfettamente visibile. Il poeta è simile allo studioso di geometria, che cerca in ogni modo di risolver il
problema della quadratura del cerchio e non vi riesce perché gli manca un elemento fondamentale: anche lui cerca di capire quale sia il rapporto tra
l'immagine e il cerchio, benché le sue sole forze siano insufficienti.

Folgorazione e supremo appagamento di Dante (139-145)

Dante riconosce la propria incapacità a comprendere il mistero dell'Incarnazione dell'umano nel divino, fino a quando la sua mente viene colpita da
un alto fulgore che, in una sorta di rapimento mistico, appaga il suo desiderio. Alla sua immaginazione ora mancano le forze, tuttavia l'amore divino
ha ormai placato la sua volontà di conoscere, muovendola come una ruota che si muove in modo regolare e uniforme.

Interpretazione complessiva

L'ultimo Canto del Paradiso e del poema appare diviso nettamente in due parti, corrispondenti alla preghiera che san Bernardo rivolge alla Vergine
perché questa interceda presso Dio e consenta a Dante la visione finale della Sua essenza (vv. 1-39) e alla descrizione della visione stessa (vv. 40-
145), che nonostante si concluda con la «folgorazione» mistica che permette a Dante l'appagamento di tutti i suoi desideri conserva innegabilmente
un carattere intellettuale e razionale. La santa orazione che il doctor mellifluus Bernardo rivolge a Maria è considerata un piccolo capolavoro
retorico, che (diversamente dal Pater noster parafrasato e ampliato all'inizio del Canto XI del Purgatorio) presenta caratteri di originalità rispetto
all'Ave, Maria cui pure si ispira: a una prima parte di lode ed elogio della Vergine segue infatti la preghiera vera e propria, in cui il santo si rivolge a
Maria come a colei che concede sempre la sua grazia a chi gliela chiede, supplicandola non solo di permettere a Dante di spingere lo sguardo nella
mente divina, ma anche di conservare sani... li affetti suoi dopo una visione così superiore alla sua natura di mortale. La prima parte della preghiera
assume dunque i toni, retoricamente elevati, di una captatio benevolentiae in cui Bernardo sottolinea l'altezza e al contempo l'umiltà di Maria,
figlia del proprio figlio (con due efficacissime antitesi poste nei primissimi versi del Canto), scelta da Dio per l'altissimo compito di mettere al mondo
Cristo per sancire la pace tra Cielo e Terra, poiché nel suo ventre è nato l'amore che ha fatto germogliare la rosa celeste (viene già anticipato il
mistero dell'Incarnazione, al centro della parte finale della visione). Di Maria è ribadito il fatto che essa è gratia plena, in grado di soddisfare ogni
giusta richiesta che provenga da un cuore onesto, dunque i tratti che la caratterizzano sono la misericordia, la pietà, la magnificenza (da intendere
forse come sinonimo di «liberalità» cortese) e la bontate, per cui a buon diritto Bernardo le si rivolge implorando il suo aiuto in favore di Dante,
giunto fin lì dalla profondità dell'Inferno dopo aver visto lo status animarum post mortem, col compito di riferire al mondo la sua visione: è questo il
motivo per cui la Vergine dovrà fare in modo che tale visione non sia letale ai sensi mortali del poeta, così che egli possa scriverne negli alti versi del
suo poema e, come dirà lui stesso più avanti, lasciare a la futura gente una semplice scintilla dello splendore divino che potrà per un breve istante
contemplare, per manifestare a tutti l'alta vittoria della potenza di Dio. Tutti i beati si uniscono alla implorazione di Bernardo unendo le mani in
preghiera, inclusa Beatrice la cui rapida menzione è l'ultima della Commedia dopo il saluto del Canto XXXI, per cui si può affermare che tutti gli
sguardi dell'Empireo sono rivolti a Dante in procinto di fissare il suo nella mente di Dio, creando un'atmosfera di tensione narrativa e di attesa che,
in un certo senso, verrà protratta per tutto il Canto e si scioglierà solo nei versi finali, con la suprema intuizione elargita a Dante dall'Altissimo.

L'intercessione della Vergine non viene manifestata con un gesto tangibile, neppure un cenno o un sorriso come farà invece Bernardo per esortare
Dante alla visione, poiché la Regina del Cielo si limita a tenere il suo sguardo fisso in quello dell'oratore e poi a spingerlo nella luce di Dio, nella quale
nessun'altra creatura può internarsi tanto in profondità (del resto Maria è umile e alta più che creatura, il che spiega anche la posizione di assoluto
privilegio che occupa all'interno della rosa). Dante può dunque fissare la mente di Dio e da qui sino alla fine del Canto è come se tutti gli altri
personaggi della narrazione scomparissero, poiché il poeta dovrà contemplare l'Assoluto facie ad faciem senza altri intermediari che non siano la
ragione e il puro intelletto, in quanto non un abbandono mistico alla comunione col Divino è oggetto della descrizione ma un'esperienza
intellettuale, in cui solo alla fine sarà necessario l'alto fulgore divino perché il poeta giunga a comprendere ciò che per sua natura è incomprensibile
all'uomo. Infatti proprio questo è l'elemento centrale della seconda parte del Canto, in cui da un lato c'è il tentativo quasi vano da parte di Dante di
richiamare alla memoria ciò che ha visto e che eccede totalmente le capacità del suo intelletto (secondo quanto già dichiarato nell'esordio della
Cantica, Par., I, 4-12), dall'altro il tentativo altrettanto arduo di tradurre in parole umane, coi poveri mezzi della sua arte poetica, la profondità della
visione, per cui la poesia dell'inesprimibile giunge qui al suo punto più alto e stilisticamente impegnato. Per rappresentare la sproporzione tra
l'altezza delle cose vedute e l'angustia dei suoi limiti umani Dante ricorre a più di una similitudine tratta dall'ambito domestico o mitologico:
paragona se stesso a colui che si sveglia dopo aver sognato e non ricorda nulla, ma conserva la forte impressione che il sogno gli ha lasciato
nell'animo (immagine analoga più avanti, quando dirà che parlando della visione avuta sente aumentare la sua gioia); ricorda la neve che al sol si
disigilla, ovvero si scioglie non conservando le orme impresse su di essa, così come i ricordi svaniscono dalla sua memoria; cita i responsi della Sibilla
Cumana, che venivano scritti su foglie disperse dal vento e diventavano così incomprensibili (fin troppo ovvio il riferimento a Virgilio, Aen., VI, 74-76,
in cui Enea si prepara a scendere agli Inferi); rammenta il mito di Argo, la prima nave a solcare i mari e la cui ombra riempì di stupore Nettuno (a
indicare anche l'eccezionale primato della sua opera poetica: cfr. Par., II, 16-18), anche se il ricordo di quell'impresa è ancora vivo dopo 2500 anni,
più di quanto lo sia quello della visione in lui dopo un brevissimo istante. L'invocazione suprema alla somma luce di Dio affinché consenta a Dante di
esprimere una minima parte di ciò che ha visto (il che, a sua volta, è quasi nulla rispetto all'essenza divina) si affianca a quella di san Bernardo a
Maria, sottolineando il carattere assolutamente eccezionale e irripetibile del privilegio che qui a Dante è concesso: il poeta si accinge a descrivere
qualcosa che quasi nessun altro ha visto da vivo, ad eccezione dell'esperienza mistica di san Paolo, e tuttavia il poeta non rinuncia a una
rappresentazione razionale e coerente della cosa vista (benché essa possa sembrare deludente agli occhi dei lettori moderni e come tale sia stata
giudicata da più di un critico del Novecento, a cominciare da B. Croce); la rappresentazione del Paradiso è divenuta più astratta e immateriale man
mano che si procedeva nell'ascesa, quindi la stessa astrazione quasi «matematica» non poteva non caratterizzare anche la visione di Dio, per la
quale Dante (e in ciò è la novità assoluta del suo poema) rinuncia in modo programmatico a ogni elemento iconografico, come del resto si era già
visto nella descrizione della rosa, degli angeli e di Maria.

Tre sono i misteri che a Dante è dato contemplare fissando il suo sguardo nella profondità della mente di Dio, ovvero l'unità dell'Universo, la Trinità
e l'Incarnazione: per rappresentarli non può che ricorrere a delle similitudini, ma mentre per il primo usa l'immagine concreta del volume che
raccoglie e unifica tutto ciò che si squaderna per il Cosmo, per gli altri si serve di una pura astrazione matematica, ovvero dei tre cerchi
rappresentanti le Persone Divine e dell'effigie umana dipinta con lo stesso colore entro il cerchio che corrisponde al Figlio. Tale spettacolo appaga il
desiderio di conoscenza di Dante, ma ottiene anche l'effetto di farlo cambiare internamente, cosicché gli sembra che l'Unità indissolubile della
Divinità muti e in realtà è la sua visione a cambiare prospettiva: l'armonia dell'Universo in cui tutto sembra avere una precisa collocazione e
un'intima rispondenza è la spiegazione di tutte le apparenti contraddizioni e ingiustizie (anche politiche) che affliggono il mondo, è l'Ordine che si
oppone al Caos; non a caso Dante ribadisce ciò che finora è stato detto a più riprese a proposito dei beati e degli angeli e che adesso è lui a
sperimentare personalmente, ovvero che chi fissa lo sguardo in Dio non può distoglierlo per guardare null'altro, in quanto lì è racchiuso tutto il bene
del mondo e vi diventa perfetto ciò che all'esterno è difettoso (lui invece dovrà farlo per tornare alla dimensione dell'umano ed è proprio questa la
difficoltà più grande da superare, il motivo per cui la Vergine dovrà vincere i suoi movimenti umani). La descrizione della Trinità è poi ancora più
rarefatta, affidata ai tre cerchi di diverso colore e uguali dimensioni che rappresentano il rapporto fra le tre Persone Divine (tralasciamo il fatto che,
per alcuni commentatori, essi non potevano essere identici perché sarebbero stati sovrapposti), ovvero il Figlio generato dal padre e lo Spirito Santo
che procede da entrambi, come una fiamma che spira dai primi due cerchi: l'immagine astrattamente geometrica può forse non soddisfare il lettore
moderno in cerca di una più concreta rappresentazione, ma è quanto di più aderente alla mentalità trecentesca nella quale Dante è saldamente
ancorato, per cui la descrizione della Trinità e dell'Incarnazione non può prescindere dal rigore degli argomenti teologici (e non si scordi che la
geometria come scienza era considerata nel Medioevo tramite fra l'umano e il divino, degna dunque della massima considerazione). Non può
stupire allora che proprio al geomètra si paragoni Dante nel tentativo vano di capire il rapporto tra l'effigie umana e il secondo cerchio, impresa
disperata come lo è per il matematico calcolare il rapporto tra il raggio e la circonferenza: qui il poeta deve confessare la propria impotenza e
l'incapacità del suo intelletto, ed è il solo e unico momento in cui la visione cessa di essere esperienza razionale per diventare mistica, col fulgore
divino che colpisce la mente di Dante e gli consente per un brevissimo istante di vedere, con gli occhi del rapimento estatico, la verità del mistero
che è inconoscibile coi soli mezzi della logica. È questo il lumen gloriae che solo può consentire alla mente umana la fruizione piena e completa
dell'aspetto divino, che normalmente caratterizza i beati in Cielo e occasionalmente i mortali in vita, allegorizzato da Bernardo quale terza guida di
Dante nel viaggio: ed è chiaro che tale suprema intuizione dell'essenza divina è l'appagamento finale di tutti i disii del poeta, il punto finale del suo
percorso oltremondano dopo il quale egli non può che tornare alla dimensione dell'umano, accingendosi all'alto compito di descrivere nei suoi versi
tutto ciò che ha visto; è anche l'affermazione definitiva dell'insufficienza della ragione umana per la comprensione dei misteri dell'Universo, che
restano inconoscibili senza la fede nelle cose rivelate e, soprattutto, senza un ultimo gratuito ausilio da parte di Dio che solo può elargire la visione
di Sé all'uomo, la quale costituisce quella beatitudine che tutte le anime salve godranno per l'eternità una volta giunte in patriam, nella
Gerusalemme celeste. Il Canto, la Cantica e il poema possono allora chiudersi con la solenne dichiarazione del compimento del desiderio di
conoscenza da parte del poeta, che trae origine non dall'acume del suo intelletto ma dall'atto di grazia che gli è stato concesso dall'amore divino,
l'amor che move il sole e l'altre stelle e che appaga intimamente la sua volontà come una ruota che si muove in modo uniforme (dunque
l'immagine del cerchio chiude la poesia della Commedia, essendo simbolo della perfezione divina e dell'incapacità dell'uomo di risolvere i misteri
dell'Universo, proprio come impossibile è per il geomètra... misurar lo cerchio poiché gli manca il principio fondamentale, che nella concezione di
Dante è da identificare con Dio).

L'invocazione alla Vergine nella poesia: Petrarca

L'invocazione alla Vergine affidata alle parole di san Bernardo e con cui si apre il Canto XXXIII del Paradiso non è certo un caso isolato nella
letteratura italiana del tempo di Dante e successiva, che si riallaccia del resto a una lunga tradizione della dossologia mariana e ha in Jacopone da
Todi (autore dell'inno Stabat Mater e della lauda Donna de Paradiso) un insigne precedente: poco dopo Dante sarà F. Petrarca a chiudere i Rerum
vulgarium fragmenta con la famosa canzone dedicata alla Vergine (CCCLXVI, Vergine bella, che di sol vestita), che rispetto ai versi danteschi che
preludono alla visione beatifica di Dio presenta analogie e differenze. Analoga è la posizione nella raccolta petrarchesca, in quanto il componimento
chiude il Canzoniere come il Canto dantesco è l'ultimo della Commedia, e simile è anche il carattere di orazione e inno religioso che la canzone
assume, proponendosi come un bilancio del percorso umano e letterario del poeta quasi alla fine della sua vita; diversa è l'ispirazione della poesia in
Petrarca, poiché Maria è invocata come fonte di grazia e salvezza da chi si considera peccatore e teme per la sua salvezza a causa degli errori
commessi (specie in campo amoroso), dunque la canzone è espressione dei dubbi interiori e delle lacerazioni proprie di tutta l'opera di Petrarca,
ben lontana dalle granitiche certezze in campo religioso ed escatologico che sono al centro del poema di Dante. La Vergine, anzi, è di fatto
paragonata per contrasto alla donna amata da Petrarca, quella Laura che gli ha causato tante sofferenze e che al tempo della stesura della canzone
è morta da tempo, in quanto quest'ultima è stata fonte di traviamento morale e illusioni sul piano amoroso, mentre Maria rappresenta un esempio
di purezza che si oppone in modo antitetico alla bellezza seducente e pericolosa della donna mortale. Ciò è evidente fin dai primi versi, in cui Maria
è indicata come colei che Dio ha scelto per l'altissimo compito di consentire l'Incarnazione di Cristo (vv. 2-3, al sommo Sole / piacesti sì, che 'n te Sua
luce ascose; cfr. Par., XXXIII, 4-6) e come la creatura che risponde sempre benevolmente a chi le chiede la grazia (vv. 7-8, Invoco lei che ben sempre
rispose / chi la chiamò con fede; cfr. XXXIII, 13-15), mentre più avanti si dirà che trasforma 'l pianto d'Eva in allegrezza (v. 36, e infatti anche Dante la
colloca al di sopra di Eva nella rosa celeste); al contrario Laura è indicata quasi spregiativamente come mortal bellezza (v. 85), terra (v. 92), poca
mortal terra caduca (v. 121), a indicare non solo il fatto che la donna è morta e i suoi resti corporei si sono decomposti, ma anche l'enorme
sproporzione tra l'amore celeste rappresentato dalla Vergine e l'amore terreno raffigurato da Laura (non a caso Maria è di sol vestita e coronata di
stelle, Laura è terra). Questo amore è condannato da Petrarca in quanto gli ha provocato pena e grave... danno, lo ha spinto a versare lagrime e a
spendere lusinghe e preghi indarno, gettandolo in un tempestoso mare in cui solo la Vergine può rappresentare per lui una stella e una fidata guida:
l'amore per Laura è vano in quanto non corrisposto e fonte soltanto di sofferenza, come già dichiarato nel sonetto proemiale del Canzoniere, e la
donna è descritta come colei che quand'era viva in pianto... tenne il cuore del poeta non conoscendo neppure tutti i mali che lui provava; questo
amore è stato un errore, che ha tramutato Petrarca in un sasso / d'umor vano stillante (vv. 111-112) e per liberarsi del quale ora rivolge a Maria (vv.
115-117) un ultimo pianto... devoto, / senza terrestro limo (cioè senza passioni terrene), / come fu 'l primo - non d'insania vòto (torna il tema del
vaneggiare del poeta dietro la bellezza di Laura, spesso indicato come la ragione per cui egli fu favola per il popolo, I, 9-11). Dunque la Vergine è
invocata come colei che può concedere la grazia e intercedere presso Dio al fine di ottenere per il poeta il perdono dei suoi peccati, ma anche come
l'alta creatura che si oppone alle passioni terrene che hanno sviato Petrarca dall'amore divino, rischiando seriamente di compromettere la sua
salvezza nell'Aldilà: tali passioni occupano la sua anima ancora con grande forza, tanto che a suo dire egli è ancora legato al ricordo di Laura con...
mirabil fede (v. 122, e val la pena di osservare il senso ambivalente della parola fede) e solo l'aiuto di Maria può fargli sperare di risollevarsi dal suo
stato assai misero e vile (v. 124) e di ottenere la sospirata salvezza ora che si avvicina il giorno della morte, superando la passione terrena per Laura
dalla quale, pare evidente nei versi finali, egli non riesce a liberarsi neppure a tanti anni dalla morte della donna. Più che un'invocazione, il suo è
l'accorato grido di aiuto di chi vive in uno stato travagliato di lacerazione interiore e si aspetta da Maria l'intercessione per la remissione dei propri
peccati, mentre in Dante l'orazione di san Bernardo doveva concedergli l'assistenza necessaria a completare il suo viaggio allegorico che è un
percorso (realizzato con successo) verso Dio: l'ultima poesia del Canzoniere dimostra ulteriormente la distanza ormai incolmabile tra l'autore della
Commedia, poeta della certezza e della fede che ha superato e risolto i suoi dubbi in materia religiosa, e il pre-umanista Petrarca, poeta del dubbio
e dell'angosciosa incertezza, la cui fede è continuamente messa alla prova e che neppure alla fine della sua opera mostra di aver completamente
risolto le ansie che caratterizzarono tutta la sua esperienza di uomo e scrittore.

Interpretazioni a confronto: B. Croce e S. Battaglia

A conclusione della lettura del Paradiso e del Canto conclusivo della Cantica, proponiamo due brevi estratti dei saggi di due insigni critici letterari e
studiosi di Dante del Novecento, che propongono un'interpretazione alquanto diversa, se non decisamente opposta, della rappresentazione
dantesca del regno santo. Benedetto Croce (1866-1952), filosofo, saggista, critico letterario fondatore di una vera e propria scuola nei primi decenni
del secolo scorso, tende a svalutare la componente teologica e dottrinale del Paradiso e critica come artificiosa e ripetitiva la sua descrizione come
qualcosa che è in realtà non rappresentabile, individuando gli unici momenti di alta poesia della III Cantica nelle immagini concrete e «domestiche»
cui Dante ricorre per raffigurare la dimensione celeste; viceversa Salvatore Battaglia (1904-1971), linguista, filologo e studioso di letteratura,
sottolinea proprio il valore della poesia dell'inesprimibile come la caratteristica peculiare del Paradiso e come la principale novità del poema
dantesco, ben diverso da tutte le precedenti descrizioni dell'Oltretomba (questa interpretazione, del resto, è stata fatta propria dai principali
dantisti del XX secolo, da E. Auerbach a U. Bosco, fino a G. Bàrberi Squarotti).

Benedetto Croce: il Paradiso come «romanzo teologico»

Questi spettacoli di luce e di canto, oltre il loro senso letterale e poetico ne hanno un altro, dottrinale, come l'avevano altresì i tormenti dell'Inferno
e i castighi del Purgatorio. Senonché, in questa terza parte della Commedia, i due sensi se ne stanno assai meno distaccati che nelle due prime, e, di
gran lunga più, tendono a entrare l'uno nell'altro. Il concetto della gioia paradisiaca restringe il poeta a pochissimi, e anzi quasi a un ordine solo
d'immagini, riduce la sua tavolozza a un sol colore, che egli non può differenziare se non nel grado, nel meno e più, e non può variare se non nella
configurazione spaziale, e talvolta nella sola scelta dei vocaboli e dei paragoni. Onde l'impressione che il lettore riceve, in più luoghi di quelle scene,
dello sforzo, di una valentia che è sforzo, e che si ammira non come un moto naturale, ma come un gioco ginnastico (e molti, dimentichi di quel che
sia propriamente poesia, riversano l'ammirazione su questi luoghi del Paradiso, prodigando lodi di dubbia legittimità estetica): l'impressione di una
ricchezza esuberante, che ha della povertà e nasce da una certa povertà, come lustro di cui questa si ricopre. Tale non infrequente impressione di
povertà nella profusione, e di vuoto nel pieno, è accresciuta dal carattere maraviglioso, ma intellettualistico, sebbene ingenuamente escogitato, di
quelle luci, che si ordinano in ruote, in croce, in rosa, in aquila, in iscala, in lettere d'alfabeto, e, raccostando le lettere, compongono scritte latine
con motti e ammonimenti. E, in questa terza parte, nelle rappresentazioni paradisiache, il poeta avverte il bisogno, e con pari candidezza lo
soddisfa, di rialzare l'effetto con le iperboli negative; per esempio, con l'osservare che le bellezze della natura e dell'arte, tutte adunate, varrebbero
niente «ver lo piacer divin che mi rifulse», o che, comparata al suono della lira da lui udita, qualunque più dolce melodia terrena «parrebbe nube
che squarciata tuona»; e, mezzo rettorico anche meno efficace, con le continue proteste, che ciò che egli vede è indescrivibile e ineffabile. La luce, la
gioia, che egli vorrebbe pensare e rappresentare, è cosi pura, perfetta e santa, cosi assoluta, che si converte sovente in un'astrattezza, e, come tale,
non si può rappresentare e neppure pensare. Non si pensa e non si rappresenta se non la gioia concreta, che nasce dal dolore ed è venata di dolore
e torna al dolore; la luce che è insieme ombra, e combatte con l'ombra, e la vince e n'è in parte vinta. […] Donde, in tanto infinito, alcunché di
troppo finito, e talora perfino di grottesco, che viene appunto dal contrasto tra l'infinito dell'intenzione e il finito della rappresentazione. […]
Insomma, quella monotonia, quelle ripetizioni, quegli sforzi, quell'artificiosità, quelle puerilità, che sono state troppo severamente notate nel
Paradiso, e hanno fatto scuotere la testa innanzi all'ardimento del poeta e considerarlo come ardimento verso l'impossibile, e fallacemente
riportarlo a un vizio della materia, particolare al Paradiso ed estraneo alla materia delle altre due cantiche, è invece qualcosa che si trova in tutte le
tre cantiche, ma nella terza si accentua proprio nella rappresentazione che fa da scena o da sfondo: l'ubbidienza all'assunto didascalico, ossia al
«romanzo teologico».

(da La poesia di Dante, Bari, Laterza 1940)

Salvatore Battaglia: il Paradiso come «regno della pura intuizione»

La terza cantica trova la sua prima emozione lirica nella stessa premessa dell'insufficienza espressiva del poeta. Il Paradiso non si può rappresentare,
è ineffabile. È possibile intuirlo nel colmo della fede, come mistica aspirazione, ma la sua realtà è sovrasensibile, esclude la comprensione e la
raffigurazione. Il poeta è qui chiamato a sceneggiare la trascendenza divina e l'ineffabilità dei suoi misteri. Ma com'è possibile figurarla nei termini
del linguaggio umano se essa per definizione ne è il superamento e la sublimazione? In questa antinomia risiede la fondamentale difficoltà e insieme
la qualità linguistica della terza cantica. Al poeta toccherà esprimere l'incomunicabile. L'impresa dello stile che ora Dante progetta sembra assurda,
è al di fuori d'ogni realizzazione. Perché non appena l'intelletto e la parola presumeranno di descrivere il Paradiso e di ridurlo in termini espositivi, il
Paradiso stesso cesserà di fruire della sua natura trascendente, sovrumana, misteriosa. Al poeta resterà questo compito: non già di rappresentare il
Paradiso nella sua inattingibile verità, ma di farne intravedere l'intatta eternità e l'immensa beatitudine con i mezzi impari di cui dispone la parola
dell'uomo. Il nodo lirico del Paradiso e del suo linguaggio consiste nell'esprimere questa situazione, che prima di essere stilistica è morale: cioè,
l'interna intuizione del Paradiso come simulacro esemplare dell'anima, e, nello stesso tempo, la struggente incapacità a raffigurarne realmente
l'essenza.
Nel Paradiso è la stessa realtà che dovrebbe risultare abolita o superata. II poeta si trova, pertanto, al limite del reale. Immateriale, invisibile,
assolutamente mistico, il Paradiso è il regno della pura intuizione, che si realizza unicamente nei silenzi incommensurabili ed essenziali dello spirito:
«lì si vedrà ciò che tenem per fede, / non dimostrato, ma fia per sé noto / a guisa del ver primo che l'uom crede». Questo dramma stilistico è forse
la componente più lirica della terza cantica. Rimane il mistero di ciò che si è contemplato nell'interiorità spirituale: «... e vidi cose che ridire / né sa
né può chi di lassù discende». Perché accostarsi al Paradiso e alla sua visione equivale ad uscire dalla natura umana e rompere l'involucro dei sensi:
«trasumanar significar per verba / non si porìa». Infatti il trapasso dal mondo terreno è istantaneo, fulmineo: «Tu non se' 'n terra, sì come tu credi: /
ma folgore, fuggendo il proprio sito, / non corse come tu ch'ad esso riedi». Il cimento espressivo è strenuo, estremo, al limite delle possibilità del
linguaggio. […]

E di fronte all'angustia terrestre dei primi due regni, il Paradiso si dispone nella prospettiva delle sfere celesti, occupando l'intero sistema planetario:
paesaggi immacolati e senza limiti, il cui linguaggio è luce e moto, musica e coro, ordine e armonia. Il Paradiso s'identifica con il firmamento, si
converte nell'universo: partecipa dell'infinita presenza di Dio nel cosmo. E, pertanto, il viaggio di Dante si sviluppa nella successione ascensionale
dello zodiaco, dal cielo della luna fino all'Empireo, dove fiorisce la candida rosa dei beati. Qui sono tutte le anime del Paradiso, raccolte nel mistico
fiore, in un unico consesso, di cui nei singoli cieli Dante ha conosciuto le postille, le loro trasparenze individuali. Ma ora tutte concorrono al trionfo
supremo e inesauribile di Dio, che Dante concepisce in un'essenza totale, illimite, inattingibile. Forse questa di Dante è la concezione più austera
della divinità unica e incommensurabile, universa e inestimabile. Il poeta l'ha resa nella sua più sgomenta profondità, nel suo mistero insondabile. Il
Dio di Dante è la categoria mentale dell’inconoscibile.

(da Esemplarità e antagonismo nel pensiero di Dante, Napoli, Liguori 1967)

Note e passi controversi

Al v. 7 Dante parla del ventre di Maria come aveva fatto l'arcangelo Gabriele in XXIII, 104: si è osservato che altrove il termine è associato a
significati negativi e sgradevoli, mentre qui il poeta si è forse rifatto al versetto dell'Ave, Maria (benedictus fructus ventris tui).

Il fiore del v. 9 è la rosa dei beati.

Al v. 10 la Vergine è detta meridiana face, perchè paragonata a una fiaccola luminosa come il sole di mezzogiorno.

Al v. 20 magnificenza è forse sinonimo di «liberalità», «generosità», anche perché si è detto che Maria concede spesso la grazia senza attendere la
richiesta (cfr. Par., XVII, 73-75, 85).

I vv. 22-24 indicano che Dante è giunto fino all'Empireo dalla profondità dell'Inferno e che ha visto la condizione delle anime dopo la morte (incluse,
probabilmente, anche quelle dannate).

Nei vv. 29 ss. Bernardo ricorre con insistenza al verbo pregare e a termini affini: 29, tutti miei prieghi; 30, priego; 32, co' prieghi tuoi; 34, ancor ti
priego; 39, per li miei prieghi.

Al v. 38 Beatrice è nominata per l'ultima volta nel poema.

I vv. 44-45 indicano che Maria è colei che più in profondità spinge lo sguardo nella mente di Dio, più di ogni creatura umana o angelica.

Il v. 48 è stato variamente interpretato, ma è probabile che Dante voglia dire che ha portato a compimento ogni ardore di desiderio.

Al v. 57 oltraggio vuol dire «eccedenza», «sproporzione».

Il v. 64 indica che la neve, al sole, si scioglie e non conserva le orme lasciate su di essa.

I vv. 65-66 alludono al mito classico della Sibilla Cumana, che scriveva i responsi su foglie che il vento disperdeva, rendendo impossibile la
decifrazione: in Aen., VI, 74-76 Enea (in procinto di scendere agli Inferi per incontrare l'anima del padre Anchise) prega la profetessa di parlargli
senza ricorrere a quell'espediente, in quanto ha necessità di comprendere le sue parole.

Il v. 84 indica non che Dante abbia consumato la sua visione, ma che ha portato la sua vista alle estreme possibilità umane.

I vv. 85-87 paragonano l'Universo a un volume che raccoglie e rilega tutte le pagine che compongono il creato; nei vv. seguenti (88-90) Dante indica
lo stesso concetto con termini filosofici, parlando di sostanze (ciò che esiste di per se stesso), accidenti (le qualità delle sostanze) e lor costume (il
legame che le unisce insieme).

I vv. 94-96, assai discussi dai critici, vogliono prob. dire che un solo istante (punto), quello della visione, è per Dante oblio (letargo) maggiore di
quanto non lo sia l'impresa della nave Argo, a venticinque secoli di distanza (la quale infatti è ancora ricordata dagli uomini). Il mito degli Argonauti, i
primi a solcare il mare con una nave, ribadisce il motivo del primus ego in quanto Dante è il primo ad affrontare l'alta materia del Paradiso, come
già detto in II, 16-18.

I tre giri del v. 117 sono stati interpretati come tre cerchi, ma anche come tre sfere.

La circulazion del v. 127 è il secondo cerchio, corrispondente al Figlio.


I vv. 133-138 indicano che Dante tenta di capire quale sia il rapporto tra la nostra effige e il cerchio, dal momento che l'immagine umana è dipinta
entro il cerchio con lo stesso colore e sarebbe dunque indistinguibile: così il matematico cerca di calcolare esattamente la circonferenza, ma non vi
riesce perché indige, manca di un elemento essenziale (il rapporto raggio-circonferenza).

Al v. 138 vi s'indova è neologismo dantesco, da dove («vi trova luogo», «vi si colloca»).

I vv. 140-141 indicano che la mente di Dante è illuminata da un alto fulgore, che gli consente in una suprema intuizione di cogliere il rapporto tra
l'umano e il divino, dunque di comprendere il mistero dell'Incarnazione.

Il verso conclusivo della Cantica (145) termina con la parola stelle, come l'Inferno (XXXIV, 139) e il Purgatorio (XXXIII, 145).

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