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Lezione del 28/05

“If I had a hammer” versione originale in forma di ballad di Pete Seeger con
le diverse interpretazioni di Pete Paul & Mary, di Trini Lopez con il suo ritmo
surf, un ritmo dichiaratamente caraibico da non confondersi con la musica
dei Beach Boys,e dei Les Surf, i fratellini del Madagascar.
Dall’impostazione base come canzone di protesta del folk song, “se avessi
un martello scaccerei l’inimicizia, se avessi una campana suonerebbe per la
fratellanza”, quindi una canzone politica, si arriva alla versione di Rita Pavone
su testo di Sergio Bardotti. Non rimane quasi nulla nella versione italiana che
riconduce tutta la rabbia dentro il piccolo mondo delle feste danzanti e delle
ragazzine che si litigano il moroso, ma che rappresenta comunque la
rivoluzione di una generazio0ne, una ribellione a mamma e papà che in quel
periodo, pre 68, era una vera e propria rivoluzione. Una canzone edulcorata e
ben vestita ma che comunque cela il suo messaggio per chi lo vuole o riesce
a vederlo: “Un colpo sulla testa A chi non è dei nostri E così la nostra festa
Più bella sarà. Saremo noi soli E saremo tutti amici…”, richiamando così, alla
fratellanza e all’unione!
Un testo che, nonostante la sua semplicità, non risulta essere affatto banale.

Il fenomeno delle cover si sviluppa fortemente negli anni ’60 soprattutto


grazie al fatto che la Siae riconosceva agli adattatori italiani dei testi, dei
diritti d’autore pari a quelli percepiti dagli autori originali, convinti dalle
etichette che avrebbero guadagnato di + proprio perché il pubblico italiano
avrebbe recepito meglio la canzone, ci sarebbero stati + passaggi radio e tv,
quindi un guadagno reale sulla quantità, non in percentuale. Cosa che però,
per tante cose si rivelò non vera perché esiste anche la corrente contraria,
quella che vuole sentire una musica nella sua lingua originale perché è così
che è nata. La conferma di ciò la ritroviamo con il singolo “Sympathy” dei
Rare Bird dove, la versione italiana di D. Pace per Caterina Caselli risulta
banale, e in questo caso vendette molto di + l’originale, sfatando così il mito
che gli italiani volevano sentire le canzoni in italiano.

Days of Pearly Spencer "(o nei successivi" The Days of Pearly Spencer ") è
una canzone del 1967 scritta e originariamente eseguita dal cantautore
nordirlandese David McWilliams. Sebbene fosse presente in diversi paesi
dell'Europa continentale, la versione originale non era un successo
discografico nel Regno Unito o in Irlanda. Nel 1992, una versione cover del
cantante pop inglese Marc Almond raggiunse il numero 4 nella classifica
britannica dei singoli e fatto anche il numero 8 in Irlanda.
Alcune voci di McWilliams sono state registrate usando una linea telefonica
da una cabina telefonica vicino allo studio, generando un effetto a bassa
tecnologia, e dando alla canzone un "strano" coro chiamato "in coro".

Apparentemente la canzone parla di un anziano senzatetto col quale


McWilliams ha stretto amicizia negli anni '60.
Il brano della Caselli, “Il volto della vita” tratta tutt’altro tema.
Poi ci sono anche i pochi ma interessanti casi di canzoni italiane cantate
all’estero di grande successo in Francia o negli Usa come per esempio “Il
ragazzo della via Gluck” oppure “Parole parole” di Mina.
La prima ha venduto forte in Francia nella versione di Francoise Hardy, “La
maison ou j’ai grandi” in cui il testo descrive una casa di campagna con un
giardino: rose, pietre e alberi. Uno spazio che alla ragazza evoca molti
momenti spensierati, passati insieme ai suoi amici di infanzia. Lo sguardo
sulla città in espansione passa però decisamente in secondo piano, ripreso
solo in un verso:
Là où vivaient des arbres, Là dove abitavano gli alberi
maintenant, la ville est là ora c’è una città

La questione ambientale è invece mantenuta e potenziata nella cover inglese


di Verdelle Smith, che intitola il brano Tar and Cement, “catrame e cemento”.
Questa versione, nonostante una traduzione semi-letterale della versione
italiana, riesce decisamente meglio a descrivere gli avvenimenti urbanistici del
contesto americano del dopoguerra, contrapponendo l’erba dei prati
(meadows and grass) della small town di origine, al catrame e al cemento
della città.

I looked for the meadows, there wasn’t Ho cercato i prati, non ve n’era traccia
a trace
six lanes of highway had taken their Li ha sostituiti un’autostrada a sei
place corsie
where were the lilacs and all that they Dove c’erano i lillà e tutto ciò che
meant significavano
nothing but acres of tar and cement. Non ci sono che ettari di catrame e
cemento

Altro testo interessante è “Sono bugiarda”, reinvenzione di “I’m a believer”


di Neil Diamond del 1966 ed eseguita dai The Monkees, recentemente
utilizzato i Shrek, il film della Pixar ora in versione musical a Londra. Testo
adattato da Mogol e Daniele Pace, geniale nella sua forma xè il contrario
dell’originale, cioè “I’m a believer” e “Sono bugiarda”, ma il concetto è lo
stesso: prima l’amore mi faceva ridere, non ci credevo ma se guardo te sono
bugiarda, quindi ci credo.

Di Daniele Pace sono anche i testi di “Night in white satin” dei Moody
Blues, diventata “Ho difeso il mio amore” x i Nomadi e “Un po’ d’amore”
per Dalida, entrambi banalotti, non all’altezza del testo originale con le sue
visioni oniriche.
Alla Caselli è anche affidata la versione di “Ain’t no sunshine” di Bill Whiters
diventata “Com’è buia la città”, nel quale l’incipit “I know I know…” viene
adattato con “Oh no oh no…”, una scelta molto probabilmente dettata dalla
volontà di rispettare il suono dei versi originali che in quel punto sono molto
caratteristici.

“Solitary man” di Neil Diamond è una canzone bellissima soprattutto nella


versione di Johnny Cash. Qui il testo è particolarmente interessante perché
costruito sulla brevità, sulla concettosità dell’inglese. Come si fa a tradurre
“paper ring”? Sono cose note a chi lavora con i sonetti di Shakespeare per
esempio, perché lì ci si rende conto di queste associazioni tipiche
dell’inglese, concettose ed estremamente sintetiche perché è una lingua a
base mono-bisillabica e ricca di parole tronche. La versione italiana, “Se
perdo anche te” è cantata da Gianni Morandi su testo adattato di Franco
Migliacci, una traduzione alquanto bella ed elegante che comunque riporta
all’essere solitario e alla paura della solitudine.

Molto interessante è anche “Papà e mamma” dell’Equipe 84, versione


italiana della non-sense “Papa-oom-mow-mow”, del gruppo nero dei The
Rivingstons in stile doo wop. Brano in originale usato anche dai Beach Boys
(1965) e bella anche la versione dei The Freshmen (1967).
Il singolo invece dei The Trashmen, “Bird dance beat”, incluso nell’album
Surfin’ Bird e utilizzato come colonna sonora di Full Metal Jacket, nei testi
presenta diverse sezioni di “Papa oom mow mow”.

Sempre della Caselli “Tutto nero”, la versione italiana di “Paint it black” dei
Rolling Stones. Questa idea del nero era molto radicata nella cultura
dell’Inghilterra elisabettiana e anche di Epoca Stuart, evocato nel famoso
sonetto 127 di Shakespeare, quello in cui arriva la “dark lady”, la “dama nera,
tenebrosa”, sonetto che rappresenta una lode al nero, con tutta la sua
concettosità (sono neri perché piangono il lutto per la perdita della bellezza
bionda…). Questa dama tenebrosa pare essere una musicista italiana, tale
Emilia Bassano, la cui conferma si trova nel sonetto 128.
Quindi, quello che a noi sembra scuro e tenebroso, nella cultura inglese
assume tutt’altro tono.
Quello che caratterizza questo testo è proprio questa concettosità
shakespeariana, però in modo contrario, “dipingo tutto nero” perché vedo le
cose in negativo.

“Nel giardino dell’amore” è la versione italiana cantata da Patty Pravo di


“Rain” di Josè Feliciano, brani nei quali il tema è l’amore, vissuto e descritto
nell’originale in maniera più sentimentale mentre in quello della Pravo in
maniera molto più fisica ma comunque elegante.

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