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LAVORO&SOCIETÀ
KAPPAVU
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ORDINARIE MIGRAZIONI.
EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA TRA RICERCA E AZIONE
a cura di Roberta Altin e Flavia Virgilio
ORDINARIE MIGRAZIONI
Educazione alla cittadinanza tra ricerca e azione
INDICE
pag. 7 INTRODUZIONE
di Roberta Altin
123 CONCLUSIONI
di Flavia Virgilio
133 Bibliografia
147 Gli autori
149 Ringraziamenti
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Introduzione
(Roberta Altin)
8 ORDINARIE MIGRAZIONI
INTRODUZIONE 9
10 ORDINARIE MIGRAZIONI
PRIMA PARTE
13
1. Evoluzioni
L’obiettivo di tre anni di ricerca e azioni condotte nell’ambito di Cer-
vignano del Friuli era quello di creare vari percorsi per stimolare, ali-
mentare, sostenere l’inserimento e l’integrazione degli immigrati stranieri
in vari contesti, dalla scuola ai servizi sociali, tempo libero, vita politica
ecc. La sintesi e le considerazioni raccolte in questa pubblicazione vo-
gliono però allargare lo sguardo, cercando di usare il materiale emerso
nel corso della ricerca per mettere a fuoco le dinamiche in atto, eviden-
ziando le trasformazioni dei processi di migrazione e di integrazione nel
contesto regionale negli ultimi anni.
Sono infatti almeno vent’anni ormai che il Friuli Venezia Giulia, come
gran parte dell’Italia, è coinvolto in flussi di immigrazione che hanno de-
terminato una lenta, costante crescita del numero delle presenze straniere
e, soprattutto, un cambiamento delle tipologie migratorie e degli scenari
sociali in cui si giocano. Rispetto alla fine degli anni ’80 - primi anni ’90, pe-
riodo dei primi arrivi e insediamenti, e alle diverse fasi di ‘emergenza’, le-
gate soprattutto alle vicende belliche nella vicina repubblica ex jugoslava,
l’immigrazione è divenuta un fenomeno di ordinaria quotidianità. Oltre a
rappresentare la porta d’ingresso e/o di transito dall’Est via terra, la Re-
gione ormai da anni accoglie un tipo di migrazione che sceglie questo ter-
ritorio per un insediamento regolare, con progettualità a medio-lungo
termine e desiderio di integrazione. Dagli anni ‘90 i flussi si sono modifi-
cati in parte per eventi esterni, come le guerre e i conflitti balcanici, il crollo
economico e politico delle repubbliche dell’Europa orientale e, in parte,
per cambiamenti legislativi interni (dalla legge Martelli, alla Turco-Napo-
litano per finire alla Bossi-Fini) con ovvie ricadute e ripercussioni in am-
bito locale. L’evoluzione del fenomeno migratorio va verso la stabilità e
regolarità, nonostante il tam tam serrato dei telegiornali e dei quotidiani
che enfatizzano qualsiasi episodio di cronaca inerente la popolazione stra-
niera e il clima politico continui a cavalcare il tema ‘sicurezza’, favorendo
allarmismi e sindromi da invasione.
Per varie motivazioni, non solo geografiche, il Friuli ha assorbito in ma-
niera fluida gli arrivi stranieri, che sono andati il più delle volte a inse-
diarsi negli spazi lasciati vuoti dai friulani, sia per quanto riguarda
l’ambito occupazionale, che residenziale. In termini numerici assoluti le
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degli immigrati è di non esporsi, non farsi vedere ‘in prima fila’ e di non
prendere posizione, perché non ci si sente sicuri e tutelati o, come associa-
zioni, perché ci si preoccupa di non perdere l’accesso ai pochi contributi
esistenti. L’unica associazione messa in piedi e funzionante è stata quella
rumena, vedi caso proprio di un gruppo che non ha grossi problemi di cit-
tadinanza, né di permessi di soggiorno.“È ovvio che la maggioranza degli
immigrati non può che subire l’assegnazione delle categorie socialmente
condivise. Il migrante si rende conto che non sarà mai riconosciuto come
‘cittadino del mondo’, né potrà mai rivendicare il diritto di rifiutare un’ap-
partenenza specifica; sembra più semplice, o assolutamente necessario,
‘stare al gioco’. La migrazione è sempre un ‘adeguarsi’, a volte un adeguarsi
solo ‘di facciata’, e spesso induce i suoi protagonisti a far propria l’etichetta
che ‘gli altri’ appiccicano loro” (Palidda 2008: 23).
Del resto, anche la difficoltà a coinvolgere la componente straniera nel
percorso di costruzione della consulta è sicuramente imputabile alla de-
bolezza dell’offerta che non poteva contemplare la vera rappresentanza
politica passante solo attraverso il diritto di voto. In questo e in altri casi,
la linea tenuta normalmente dagli stranieri residenti è quella di non
esporsi e di cercare personalmente il riconoscimento solo in caso di biso-
gno di eventuali specifici servizi e diritti. Gli immigrati sono condannati
“a oscillare tra strategie di riconoscimento e di sovversione, senza posse-
dere i mezzi né per l’una né per l’altra, ovvero senza poter imporre a se
stessi o agli altri questo riconoscimento e senza poter trovare nel contesto
del’immigrazione le condizioni di possibilità per una strategia sovversiva
efficace” (Sayad 2002: 341).
Il passaggio e cambiamento si operano in genere quando lo straniero
viene ‘naturalizzato’ e acquista, al termine di 10 anni di un apprendistato
civile spesso simile ad una corsa ad ostacoli, il diritto a celebrare in Co-
mune l’acquisizione della nuova cittadinanza. Un passaggio burocratico
che spesso rivela, attraverso l’emotività e il tono celebrativo, un passaggio
rituale che chiude un percorso non sempre facile. A questo punto para-
dossalmente può succedere, come ha affermato un’intervistata a Cervi-
gnano del Friuli che “da quando sono diventata italiana mi sento più
straniera” (E.V. 15/11/2007). La maggior parte degli immigrati, come
emerge in altre recenti ricerche, anche se interessata a ottenere i diritti e
lo status di cittadino,“non ambisce a ottenere la cittadinanza del paese di
residenza, nemmeno dopo vent’anni di soggiorno, e mostra scarso inte-
resse per la naturalizzazione” (Sassen 1996: 139).
Dalle interviste agli abitanti e amministratori del territorio la sensa-
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zione è che gli immigrati vengano vissuti e percepiti in base a due estremi
di invisibilità o eccessiva visibilità, che non contemplano una via di mezzo
normalizzante, ordinaria e rassicurante. Come già successo con il campo
profughi allestito in una caserma di Cervignano del Friuli per ospitare i
profughi durante i conflitti dell’ex-Jugoslavia (Bazoli 1995), o sono ‘troppi’,
‘troppo rumorosi’, comunque ‘troppo’ presenti nella vita quotidiana, op-
pure spariscono nell’invisibilità dei loro lavori in fabbrica, nel domicilio di
anziani e nelle case altrui da pulire. La sintesi della politica imperante a
Nord-Est sta nel Wanted, but not Welcome! (Zincone 2001; Bollafi 2001), ov-
vero va bene importare manodopera straniera a basso prezzo, purché non
compaia anche al di fuori dell’orario e degli ambiti di lavoro, soprattutto
non negli spazi pubblici e comuni.
Un esempio in questa lettera di una cittadina che si rivolge al sindaco
di Cervignano del Friuli nella rubrica di corrispondenza con i cittadini sul
sito del Comune: Gentile sig. Sindaco Le scrivo da Strassoldo, dove stiamo tutti
attenti alla raccolta differenziata, purtroppo ci sono degli extra comunitari che
non conoscono, o fanno finta, la nostra lingua. Mi trovo così nel bottino delle pla-
stiche i rifiuti vari, sia gli organici che no, nel bottino dei rifiuti vengono gettati i
cartoni della pizza, ecc.. Ci sarebbe un modo per sensibilizzare anche loro? Ma-
gari scrivendo in caratteri cubitali sul coperchio o, meglio, dato che non è gente
molto intelligente, fargli qualche disegnino? (M.L. 21/02/2010).
Al di là dell’evidente razzismo e senso di superiorità (scriviamo in ca-
ratteri cubitali...magari qualche disegnino), non si riesce davvero a com-
prendere quali tracce abbiano lasciato gli ‘extra comunitari’ per farsi
riconoscere come responsabili dell’errata raccolta differenziata di rifiuti.
Sono involuzioni nelle rappresentazioni che denotano diffidenza e scar-
sità di contatti o scambi, supportate spesso da letture politiche e mediati-
che che alimentano ostilità e paure.
Negli ultimi anni sono aumentate le presenze immigrate, ma paralle-
lamente è cresciuta la lettura demagogica e allarmistica di questo pro-
cesso, con un giornalismo superficiale che fomenta paura, differenziali-
smo e insicurezza. Costante l’etnicizzazione dei problemi: sia riguardo gli
stranieri, che attraverso l’esaltazione di modelli di sviluppo localistico, più
che locale. Spesso dietro paura e ostilità si cela in realtà la mancanza di
contatto, ma rompere questo meccanismo risulta sempre più difficile
con le sedimentazioni del passare del tempo.
Anche perché dal fronte degli immigrati, si percepisce un’integrazione
parziale, un’inclusione differenziale dove si è ‘dentro’ come forza lavoro,
ma fuori nell’espletamento delle molte altre funzioni umane. “Al di là di
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3. Verso l’integrazione?
Dagli ultimi dati CNEL3 sull’integrazione nelle varie regioni italiane,
il Friuli Venezia Giulia si colloca al secondo posto assoluto, dietro l’Emilia
Romagna, in base ad indici di misurazione di dati oggettivi e strutturali
(casa, lavoro, salute, scuola ecc.) e di aspetti soggettivi che emergono da in-
terviste e analisi qualitative (pratiche, visioni, rappresentazioni ecc.). Il ter-
ritorio viene misurato per densità, incidenza stranieri, stabilità, inserimenti
lavorativi: l’inserimento sociale dall’accessibilità alla casa, dispersione sco-
lastica, devianza, naturalizzazioni, ricongiungimenti familiari.Vengono te-
nuti in considerazione sia motivazioni e tipo di percorso del migrante, sia
la situazione politica ed economica che trova nella società ospite, sia le in-
terazioni fra i due processi.
I problemi nella pianura friulana non sembrano sussistere eppure,
a distanza di vent’anni dai primi arrivi e con una presenza pari quasi al
10% di seconde generazioni nelle scuole della regione (Caritas 2009:
367), l’integrazione reale sembra ancora un processo lungo e infinito da
costruire. L’integrazione è vista come un percorso che coinvolge due
entità distinte, l’individuo che cerca di inserirsi, e anche di coesistere al
meglio, nel contesto di accoglimento e la società ospitante che lo aiuta,
lo lascia fare o lo ostacola nel raggiungere il proprio scopo. Nella sua ac-
cezione di processo, l’integrazione comprende tutte le modalità attra-
verso le quali l’immigrato può essere “incorporato” nella realtà di
adozione. L’inserimento può assumere, immaginando un continuum
che va dalla assimilazione al multiculturalismo, forme e caratteristiche
assai differenti.
Dai focus group e interviste con gli amministratori locali del comune
di Cervignano del Friuli il modello di integrazione che sembra trovare
maggiori consensi, è quello assimilazionista, nel quale le culture minori-
tarie sono fatte convertire alla cultura dominante. Le comunità più inte-
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grabili e integrate risultano essere quelle che negli usi, costumi e modi di
apparire si sono più ‘occidentalizzate’ o, meglio, friulanizzate. Alle diver-
sità si richiede una giusta negoziazione per entrare a far parte di un amal-
gama sociale che confonde le radici culturali, ma il processo di
integrazione è visto come monodirezionale, per essere integrati si dà per
scontato che gli stranieri apprendano gli elementi basilari che permettono
loro di diventare “più simili a noi”. La conoscenza dell’altro spesso non è
reale e si fonda su visioni stereotipate o luoghi comuni. Il rischio di que-
sto modello, come ci insegna il caso francese, è una rivendicazione ag-
gressiva delle differenze che potrebbe emergere con le seconde
generazioni, nate in Italia, ma relegate ancora in una posizione di serie B,
dal punto di vista sociale, politico ed economico. Altre politiche emerse
propendono per una visione ‘buona’, più paternalistica e tollerante, che
non affronta tuttavia i nodi critici; altre ancora, più realisticamente, ve-
dono poche alternative alla dicotomia fra chi vota e chi non ne ha ancora
diritto, perché senza potere non ci può essere di fatto rappresentanza po-
litica.
Criticità riportate nel corso della ricerca sono emerse in molti operatori
sanitari e scolastici che erogano regolarmente servizi agli immigrati, so-
prattutto difficoltà linguistiche, culturali, ma anche molte collegate alle
normative che cambiano continuamente, impedendo una seria progetta-
zione e realizzazione sul medio-lungo periodo. Si riscontra anche la sin-
drome di sfiducia e spesso sfinimento degli operatori sociali che da anni
si trovano a fronteggiare domande e richieste di assistenza dagli immi-
grati, senza strumenti e risorse adeguate, funzionando di fatto da media-
tori tra società ospite e componente straniera. Da questo punto di vista i
costi dell’immigrazione ricadono davvero sulle comunità locali (Ambro-
sini 1996: 182).
Per gli stranieri le difficoltà maggiori sono, nuovamente, quelle lingui-
stiche e, soprattutto, la complessità nel reperire informazioni e i canali giu-
sti per le varie procedure, il più delle volte burocratiche. La maggior parte
degli stranieri intervistati si rivela soddisfatta dei servizi disponibili sul
territorio e non sembra molto interessata ad avviare azioni e procedimenti
per una maggiore integrazione. Spesso i mancati contatti sociali vanno
imputati agli stranieri, che, del resto, non rivendicano mai la necessità di
‘integrarsi’. Ma va anche ribadito che la ‘domanda di integrazione’ è un
concetto estremamente astratto che nasce più nella mente dei ricercatori
e amministratori che degli attori sociali. La sovrabbondanza di discorsi
sull’integrazione appaiono quasi un rimprovero per la scarsa integrazione,
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dere scambi e relazioni sociali con gli italiani, vista anche l’eterogeneità
delle nazionalità presenti. Ma in questi ultimi vent’anni è anche cam-
biata radicalmente la vita sociale dei friulani, soprattutto nelle aree di
provincia costruite attorno a piccoli e medi cittadine: svuotate le piazze
e i luoghi pubblici, rimesse a lucido le osterie che diventano pub o bar,
i friulani vagano in auto inseguendo i ritmi di crescita dei figli e spo-
standosi fra centri commerciali e agriturismi, rinforzando serrature e
cancelli (di fatto e simbolicamente) per tenere al sicuro una vita sociale
prevalentemente familiare sempre più insicura e diffidente, nonostante
il benessere economico. Gli immigrati, oltre che lo sradicamento dalla
loro società, si trovano così a dover fronteggiare una società di acco-
glienza dove il modello sociale prevalente è quello individualistico con
ritmi e calendari dettati dai consumi più che dalle appartenenze. Da
questo punto di vista l’effetto più reale determinato dalla presenza stra-
niera è proprio quello di specchiare e mettere in luce la crisi del nostro
sistema sociale, la fragilità delle nostre reti di sostegno in comunità
troppo velocemente transitate dalla cultura rurale di paese a modelli di
vita consumistici, atomizzati e ‘liquidi’ (Bauman 2000).
La dialettica tra immigrazione straniera e nazione, che delega ambi-
guamente l’integrazione alle amministrazioni locali, disegna un percorso
integrativo che punta alla ‘naturalizzazione’, al raggiungimento della cit-
tadinanza DOC in un momento storico in cui la politica è concentrata sul-
l’ipertrofia di modelli locali, stile ‘Friuli doc’4.
Le lacune legislative del governo nazionale e, ultimamente, anche di
quello regionale, scaricano di fatto alle amministrazioni locali il compito
di gestire e integrare la presenza straniera. Come analizza Zanfrini (1998:
188), questo determina“una modalità di gestire le politiche migratorie de-
scrivibile nei termini di una dicotomia: a un polo troviamo l’integrazione
sociale, intesa in termini residuali e sostanzialmente affidata al solo livello
locale; all’altro polo l’integrazione ‘sistemica’, affidata a livello nazionale
e sovranazionale e sempre più intesa in termini di ‘sicurezza’”.
Il risultato è che le amministrazioni sono costrette a politiche reattive
e non preventive, perché, soprattutto dopo l’abolizione della legge regio-
nale che aveva dato strumenti per la costruzione e conduzione di tavoli
per l’immigrazione in compartecipazione con i rappresentanti dei mi-
granti, attualmente Regione e Stato quando parlano di politiche migrato-
rie non intendono politiche per i migranti, ma misure prevalentemente di
difesa e sicurezza dai flussi migratori.
La naturalizzazione non cambia la ‘natura delle cose’, il senso di ap-
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schia anzi, di far fallire tutto accanendosi nel pensiero e nella determina-
zione. È un processo che si può realizzare solo come effetto secondario di
azioni intraprese con altri scopi, nel percorso di costruzione e condivisione
della cittadinanza comune.
Come dice Touadi nella prefazione di un libro che offre altri piani di in-
terpretazione delle migrazioni,“si potrebbe affermare che l’immigrazione
è un elemento di pro-vocazione (nel senso letterale di chiamare in avanti)
dei territori e delle comunità italiane costrette a ripensarsi per ritagliarsi
una funzione inedita dello spazio ‘glocale’ in pieno e repentino muta-
mento” (Bellavia et alii 2008: 9). Occorre un atto di riconoscimento del-
l’immigrazione come “elemento indispensabile alla prosperità e alla
posterità” (Palidda 2008: 147), per ripensare e mobilitarsi verso ‘nuove’ so-
cialità e nuove convivenze contro l’anomia di un territorio ‘spaesato’ che
ha perso le logiche comunitarie dei piccoli centri, rimpiante con nostal-
gia, ma ormai patrimonio del passato.
1
Al 31.12.2008 la popolazione straniera residente nella provincia di Udine contava
più presenze femminili (17.954) che maschili (17.647), per un totale di 35.601. Fonte:
anagrafi comunali in Regione Autonoma FVG 2009: 42.
2
Il premio Terzani dell’Associazione Vicino/Lontano con sede a Udine, si propone
di organizzare progetti e manifestazioni che promuovano una riflessione e un con-
fronto fra culture.
3
http://www.cnel.it/cnelstats/percorsiguidati/indiciIntegrazione2009/main.html
4
È una manifestazione annuale che si tiene a Udine come la “Fieste de patrie” per
commemorare e rivalutare la tradizione locale, di fatto un’esibizione di prodotti tipici
eno-grastronomici che raccoglie ogni anno un notevole flusso di visitatori.
5
http://europa.eu/legislation_summaries/other/c10611_it.htm
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Progettare l’integrazione
(Flavia Virgilio)
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rimenta e si sente accogliente. Per questo, dal 2006 il progetto è inserito nel
piano di zona dell’Ambito distrettuale di Cervignano del Friuli, e prevede
una struttura di governo partecipativo dei processi di integrazione chia-
mata Tavolo immigrazione, analizzata da Tomasin in questo volume, che
continua la tradizione di cogestione, non solo di co-progettazione, già av-
viata con il Gruppo di Governo del progetto Limina dal 2001 (Virgilio 2004:
87-100).
Il tema del governo dei processi di integrazione è un tema chiave per
affrontare non solo in termini emergenziali o di efficienza dei servizi, ma
anche in termini politici la questione dell’integrazione. L’Ente Locale che
sceglie, con fatica e difficoltà, di governare processi complessi si mette nel-
l’ottica di lavorare su politiche pubbliche multiscopo e multilivello che in-
corporano e valorizzano le relazioni sociali e le relative pratiche,
strutturandosi come un insieme di opportunità cooperative (Vernò 2007;
Donolo 2006).
In questo percorso il nome del progetto, partendo dal concetto di so-
glia, è stato declinato sotto diverse modalità: dall’originario “Limina: abi-
tare la soglia” si è passati a “Limina: integrazione, cittadinanza socialità”,
passando per “Limina: accoglienza, cittadinanza territorio”e “Limina: ter-
ritorio, partecipazione, cittadinanza”.
È evidente che il focus del progetto si è progressivamente spostato dai
temi dell’integrazione a quelli della cittadinanza, dal target immigrati alla
comunità locale. Non si è trattato, insomma, solo di trovare soluzioni più
o meno efficaci alle questioni pratiche che derivano dall’avere in classe
alunni stranieri o incontrare utenti di diversa provenienza linguistica e
culturale nei servizi pubblici. Piuttosto, il progetto è stato un laboratorio
di riflessione sul come i servizi, gli operatori, la comunità locale interagi-
scono negli spazi dell’accogliere e del riconoscere l’altro. Inevitabilmente
questi spazi aprono la dimensione dell’essere accolti e del riconoscersi,
obbligano la comunità locale a rilocalizzarsi e a ridiscutere i propri confini,
compresi i confini della cittadinanza. “Cittadino è chi vive, ma è anche
parte viva nella città. Non chi vive passivamente ma anche partecipa. La
partecipazione non è solo critica e basta, ma è anche una partecipazione
costruttiva, sentirsi parte di una collettività e quindi essere una parte del
tutto. Non c’è la cosa dell’altro, ma la cosa di tutti, è proprio la res publica.
[...] Non tutti quelli che sono nati qui sono cittadini in questa maniera. [...]
Non lo sono d’altra parte i nuovi cittadini se il loro primo impatto con le
istituzioni, che sono l’espressione dei cittadini avviene solo per il bisogno
più urgente, la casa, i servizi, la scuola” (Focus Group, 11/02/2008).
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3. Pratiche di progettazione
Nel periodo tra il 1800 e il 1950 si è assistito ad una progressiva espan-
sione di quelle forme di amministrazione della società, dello spazio ur-
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del sistema. [...] La stabilità della struttura tavolo fa sì che gli aderenti
alla rete siano coinvolti in ogni fase progettuale delle attività realizzate,
dall’analisi dei bisogni alla valutazione. La collaborazione si concretizza
in un’adesione formale al tavolo e nella designazione di un referente
per quanto riguarda l’attività di tipo più politico e nella sottoscrizione
di convenzioni operative per la realizzazione delle attività progettuali.
Queste ultime in particolare prevedono l’impegno ed il coinvolgimento
diretto delle associazioni e delle istituzioni nelle attività di sensibiliz-
zazione, formazione, monitoraggio e valutazione” (Ambito Distrettuale
di Cervignano del Friuli 2008).
La ricerca, tuttavia, dimostra che le politiche dell’integrazione sostan-
zialmente hanno fallito i loro obiettivi.“La maggior parte delle società ca-
ratterizzate dalla diversità e dalla multiculturalità - infatti - ha fallito nel
tentativo di eliminare le discriminazioni e le disuguaglianze all’interno
dei propri confini nazionali” (Gundara 2009: 1009).
Come ben chiarisce il primo Handbook on Integration, pubblicato dalla
Commissione Europea nel 2004, “[...] gli Stati Membri dell’Unione Euro-
pea si trovano ad affrontare le medesime sfide rispetto all’integrazione
degli immigrati nella società civile. È una partita sempre più rilevante oltre
a caratterizzarsi per complessità e delicatezza. Con la prospettiva di una
popolazione che si avvia verso l’invecchiamento e che tende a diminuire,
un aumento di immigrati verso l’Europa nei prossimi anni è non solo pro-
babile, ma anche necessario. L’integrazione degli immigrati rappresenta
un elemento vitale per la coesione sociale e lo sviluppo economico” (CE
2004: 5).
La ricerca sulle caratteristiche locali dei fenomeni migratori, allora, si
colloca in una dimensione di intersezione spaziale in cui si incontrano i
due temi portanti dell’attuale dibattito, da una parte la questione della cit-
tadinanza che porta con sé il tema scottante della liceità della presenza
degli immigrati e del titolo a cui sono presenti, dall’altra la questione delle
politiche di integrazione che, gestite a livello locale, finiscono per essere
non solo politiche di assistenza e di accoglienza, ma anche pratiche attive
di promozione di istanze di cittadinanza. L’analisi della dimensione locale
dell’integrazione permette di vedere come, nelle pratiche, i percorsi di in-
tegrazione incrocino le politiche di cittadinanza a diversi ed articolati li-
velli, promuovendo non solo l’integrazione degli stranieri, ma soprattutto
un ampio processo di riflessione sull’identità e i confini della comunità
locale.
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4. Comunità future
“Una comunità definisce se stessa attraverso un lavorio insistente e con-
tinuo di posa in opera e di riaggiustamento dei confini che la qualificano
come entità a sé stante e la strutturano al proprio interno” (Gri 2003: 7). Le
politiche e le pratiche di integrazione degli immigrati nell’Ambito Distret-
tuale di Cervignano del Friuli sono parte di questo lavorio e intersecano a
diversi livelli le politiche e le pratiche nazionali ed internazionali.
Durante la campagna elettorale, sia regionale che nazionale del 2008,
campeggiavano per le vie delle città friulane i manifesti della Lega Nord
con lo slogan “Loro non hanno potuto fermare l’immigrazione e si sono
estinti”, accompagnato dall’immagine di un nativo americano. Il manife-
sto tralasciava di dire che i ‘loro’ da cui i nativi americani si sarebbero do-
vuti difendere erano anche i milioni di italiani, per la precisione quattro
milioni, che tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento hanno la-
sciato l’Italia per le Americhe. Di questi un numero non piccolo proveniva
dal Friuli Venezia Giulia e dal Veneto (Grossutti 2008), regioni dove oggi la
Lega Nord ha una presenza più che consolidata.
Lo scenario europeo è attraversato da contrapposte tensioni tra il di-
scorso pragmatico, e strategico, sulla funzione economica e demografica
dei flussi migratori e il discorso populista e localista basato sulla sicurezza,
sulla difesa dell’identità e sulla salvaguardia delle radici (Aime 2004). L’Eu-
ropa afferma che i programmi di accoglienza “rappresentano un investi-
mento per il futuro che sia l’immigrato, che la società civile dovrebbero
essere disposti a fare”; aggiungendo poi che “è un investimento che vale
lo sforzo in quanto rappresenta per gli immigrati un trampolino di lancio
verso l’autosufficienza. Da parte sua la società ne ricava una maggiore
consapevolezza degli immigrati che diventano cittadini capaci di dare il
proprio contributo” (CE 2004: 13).
A livello locale, tuttavia, sembra prevalere, almeno nelle retoriche, il
tentativo di mettere un maggiore accento sul tema della competizione
per le risorse. “A leggere l’elenco degli assegnatari dei contributi regio-
nali per l’abbattimento dei canoni di locazione a Sacile, si è presi da un
moto di rabbia e indignazione: gran parte dei soldi vanno a finire nelle
tasche di immigrati. Una triste conferma di quanto avviene un po’ in
tutti i comuni della Regione e l’ulteriore dimostrazione di come il cen-
trosinistra regionale abbia stravolto il senso di una legge varata nel 2001
su iniziativa della Lega Nord, per consentire ai nostri corregionali, so-
prattutto alle famiglie meno abbienti di potersi affittare una casa senza
svenarsi” (Lega Nord 2007).
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ziali” (Stagni 1998: 226). Mentre le forme locali di solidarietà possono an-
cora essere descritte come densamente interconnesse e territorialmente
definite, le reti aprono nuove possibilità di analisi, basate sull’idea di le-
gami deboli, asimmetrici, episodici. Ciò che è sottoposto a tensione, in-
fatti, non sono solo i legami sociali, solidaristici o di controllo, ma
comunque di reciproco coinvolgimento, ma soprattutto “i modelli di co-
municazione e coordinamento tra politiche di vita condotte individual-
mente da un lato e le azioni politiche delle collettività umane dall’altro”
(Bauman 2002: XI).
1
Il Fondo Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza è stato istituito dalla Legge 285/97
e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, al fine di realizzare interventi a livello na-
zionale, regionale e locale per favorire la promozione dei diritti, la qualità della vita, lo svi-
luppo, la realizzazione individuale e la socializzazione dell’infanzia e dell’adolescenza. La
Legge ha portato all’attuazione di due piani triennali documentati presso la banca dati
dell’Istituto degli Innocenti di Firenze http://159.213.63.12/cdm_webif/bd_285_1/intro.htm.
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1. Tavoli e sportelli
Tavoli di lavoro e sportelli informativi/consulenziali possono essere
considerati ormai due strumenti emblematici di attuazione delle politi-
che locali, non solo per quanto riguarda il tema dell’integrazione degli
stranieri. Con i tavoli di lavoro (detti anche tavoli tematici)4 ci si riferisce
al luogo della partecipazione, del confronto e raccordo interistituzionale;
con gli sportelli al luogo dell’erogazione di precise prestazioni5. Ri-
spetto ai beneficiari finali, i primi sono strumenti essenzialmente di
back-office, i secondi di front-office.
I tavoli tematici sono stati adottati nella prima tornata dei piani di
zona del Friuli Venezia Giulia in particolare per favorire un’analisi par-
tecipata dei bisogni, coinvolgendo soggetti istituzionali e non istituzio-
nali (terzo settore) e per raccogliere indicazioni programmatiche.
Generalmente i tavoli sono stati costituiti per area d’intervento. Le linee
guida regionali suggerivano, oltre alle azioni di sistema, le seguenti aree
d’intervento: a) minori e famiglia; b) anziani; c) disabilità; d) dipendenze
e salute mentale; e) disagio e marginalità sociale; f) altro da individuare
a partire da specificità territoriali6. Nell’ambito distrettuale di Cervi-
gnano del Friuli i tavoli tematici individuati per la partecipazione al pro-
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cesso programmatorio del piano di zona sono stati 7, tra cui anche
quello dedicato all’immigrazione. La scelta dell’attivazione di questo
tavolo tematico è indubbiamente interpretabile come l’esito di un’at-
tenzione al tema da parte dei Servizi Sociali che nasce fin dalla metà
degli anni novanta del secolo scorso7, prosegue con gli interventi per
l’infanzia e l’adolescenza del primo e secondo piano territoriale ex legge
n°285/1997 ed arriva sino all’avvio del PDZ.
I componenti del tavolo sono riportati nella tabella n°18. Come si
può notare la gran parte degli attori convocati al tavolo immigrazione
sono organismi istituzionali afferenti alle aree dei servizi socio-assi-
stenziali, sanitari e scolastici (non compaiono i servizi per il lavoro); dei
sei attori non istituzionali, tre sono quelli del privato sociale con un’at-
tività rivolta specificamente agli immigrati (CESI, ALEF CGIL, ACLI); è
assente invece una diretta rappresentanza dei destinatari degli inter-
venti, in quanto nel territorio in quel momento non vi erano associa-
zioni di cittadini stranieri.
ENTE O ASSOCIAZIONE
Assessore alle Politiche Sociali
Comune di Cervignano del Friuli
Coordinatrice Area Minori SSC
Comune di Cervignano del Friuli
Assistente Sociale SSC Comune di Ruda
Convenzionata Comune di Cervignano del Friuli
Direttore Distretto Sanitario Est ASS 5
Psicologa EMT Distretto Sanitario Est ASS 5
Medico Medicina Generale Distretto Sanitario Est ASS 5
Dirigente Direzione Didattica Aquileia
CESI Centro Solidarietà Immigrati Udine
ACLI
ALEF CGIL Udine
Nemesi – Consorzio IL MOSAICO – Palmanova
Consorzio COSM Udine
Parrocchia Cervignano del Friuli
Assistente Sociale SSC Comuni di Bagnaria Arsa e Bicinicco
Responsabile Area Integrazione Sociosanitaria ASS 5
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si occupino (per l’invio o per affrontare una analisi) anche di casistica pro-
blematica. La visibilità degli strumenti per l’integrazione infine risponde
a logiche opportunistiche che niente hanno a che vedere con l’effettiva ca-
pacità di tavoli e sportelli di raggiungere gli obiettivi prefissati.
1
Con meno pretese, anche la Regione Friuli Venezia Giulia - Struttura Stabile per gli
Immigrati nel 2006 ha affidato all’IRES FVG (in quanto gestore dell’Osservatorio Regionale
sull’Immigrazione), la realizzazione del Primo Censimento delle politiche ed interventi fi-
nanziati dalla Regione in favore dell’immigrazione con l’obiettivo di raccogliere ed elabo-
rare dati e informazione per il monitoraggio e la verifica dell’efficacia degli interventi
attuati in materia di immigrazione.
2
Il Piano di zona (PDZ), istituito a livello nazionale dalla L. 328/2000 ed introdotto a li-
vello regionale dalla LR. 6/2006 “è lo strumento fondamentale per la definizione del si-
stema integrato degli interventi e servizi sociali del territorio di competenza dei Comuni
associati negli ambiti distrettuali. Il PDZ costituisce inoltre mezzo di partecipazione degli
attori sociali al sistema integrato”(art. 24, 1° comma). Per un’analisi della partecipazione dei
diversi attori sociali nei vari piani di zona della regione si rimanda allo studio curato da
IRES FVG (IRES FVG 2009). L’ambito distrettuale di Cervignano è stato uno dei pochi in
Friuli Venezia Giulia a dotarsi anche di una valutazione esterna del PDZ.
3
Acronimo di European Dream for Immigrants, progetto di cooperazione europea fi-
nanziato dalla Commissione Europea nell’ambito del Programma Socrates Azione Grun-
dtvig, avviato nell’ottobre del 2004 e terminato due anni dopo.
4
Il termine tavolo, variamente declinato (tavolo di concertazione, di negoziazione,
ecc..), è diventato di uso comune in molti settori. Per una sua analisi nel campo del welfare
di comunità si rimanda al lavoro di Franco Vernò, benché l’autore adotti un approccio
d’analisi fondato sui gruppi di lavoro, contesto ritenuto da chi scrive assai diverso dai ta-
voli (Vernò 2007). Per un’analisi nel campo della cooperazione allo sviluppo si rimanda al
lavoro di tesi di dottorato di ricerca di Flavia Virgilio (Virgilio, 2007/2008) e alla tesi di lau-
rea di Giulia Pinat (Pinat 2006/07).
5
Da qualche anno è presente una pubblicistica volta a suggerire sportelli unici in ogni
campo: da quelli per le imprese a quelli per i cittadini. La proposta se da un lato sembra
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dettata da intenti di razionalizzazione, dall’altro non fa completamente i conti con una di-
versificazione e policentricità dei bisogni, nonché con il diffondersi di sempre nuovi at-
tori, pubblici e privati, ed infine con le possibilità offerte dalle tecnologie di rete fondate su
modelli che prevedono numerosi punti di accesso tra loro collegati.
6
Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Direzione centrale salute e protezione so-
ciale, Linee guida per la predisposizione dei piani di zona, novembre 2004.
7
Durante la guerra nella ex Jugoslavia, la caserma Monte Pasubio di Cervignano del
Friuli diventa sede di uno dei campi di accoglienza per profughi e sfollati (Cfr. Bazoli 1995).
8
Per un approfondimento si rimanda a: Ambito distrettuale 5.1 di Cervignano del
Friuli, PIANO DI ZONA 2006/08, 31/01/2006.
9
Le attività degli sportelli risultavano essere una delle azioni del progetto del Piano di
Zona denominato“Limina: territorio, partecipazione, cittadinanza”. Gli stessi sportelli sono
stati oggetto di valutazione del progetto E-DRIM.
10
In questo caso è probabilmente improprio parlare di “sportello” in quanto si tratta
di una segreteria presso la sede dell’associazione che offre servizi prevalentemente ad am-
ministrazioni pubbliche (Enti Locali, Aziende Sanitarie, Istituti scolastici, Questura, Pre-
fettura, Tribunali, ecc...). Nel progetto E-DRIM il termine impiegato è stato “Centro servizi
e consulenza” intendendo un’unità organizzativa, facente parte di un organismo privato o
pubblico, che offre una serie di interventi (informativi, consulenziali, di aiuto, di media-
zione, ecc..) in una gamma differenziata di settori (casa, lavoro, lingua, assistenza e salute)
pensati per l’integrazione sociale degli stranieri.
11
Infatti non ha costituito oggetto valutativo del processo di valutazione esterna rea-
lizzata dai soggetti incaricati IRSSeS ed e-labora.
12
Nel caso in questione tutti i soggetti erano già abbastanza noti. In altri casi il tavolo
rappresenta un’occasione fondamentale per conoscere in profondità gli attori presenti su
un dato settore. Nondimeno il contatto favorisce sempre l’attivarsi di relazioni di scambio.
13
Nel caso specifico il decreto flussi ha favorito l’incremento delle richieste per prati-
che per il ricongiungimento familiare; così come l’incremento del costo degli alloggi ha
esteso e modificato la tipologia di fruitori di uno sportello.
14
Una quantificazione puntuale della numerosità degli utenti degli sportelli non è
stata possibile. Mediamente gli operatori facevano riferimento ad una decina di persone
alla settimana.
15
Da qui l’utilità anche di guide dei servizi ad uso di operatori oltre che di cittadini. Uno
dei prodotti nell’area dell’immigrazione del PDZ 2006/2008 di Cervignano del Friuli è stato
proprio la predisposizione in diverse lingue di una Guida dei Servizi agli Immigrati.
16
È interessante notare come la valutazione abbia costituito anche momento di cono-
scenza e confronto tra gli operatori degli sportelli.
17
L’analisi ha permesso di evidenziare l’assenza quasi in tutti gli sportelli della con-
nessione internet e la presenza di vecchi personal computer senza le adeguate periferiche.
18
Il criterio di matrice funzionalista dell’integrazione qui scelto non opta per una uti-
lità-funzionalità unilaterale, della sola società ospitante, ma per entrambe le parti coin-
volte, come si dirà più avanti.
19
Le trasformazioni sociodemografiche di tipo strutturale qui presentate sono – nello
specifico caso oggetto di studio - ben più influenti del cambiamento delle strategie politi-
che regionali. L’ipotesi sottostante a tutta la riflessione sviluppata è che comunque l’inte-
grazione del cittadino straniero sia una politica che continua ad essere perseguita anche
dalle odierne forze politiche che amministrano la Regione.
20
Per “governance multilivello” si intendono “scambi negoziati e non gerarchici tra
istituzioni che si collocano a livello transnazionale, nazionale, regionale e locale” (Bobbio
2005).
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cui non è estranea l’influenza della moglie Raissa e i ‘grandi amici’ rac-
colti a Meudon (Maritain 1975).
In effetti, se si vuole costruire un dialogo dialogante, si deve in qual-
che modo credere ciò che l’altro crede, in un processo che Panikkar
chiama di “sovrapposizione” e non di “identificazione”: la dimensione
interiore, personale, culturale o religiosa che sia, si libera da camicie di
forza sociologiche dogmaticamente imposte per entrare in una zona
dell’umano reciprocamente esplorata. “Possiamo stabilire il significato
delle parole durante il dialogo stesso, e non rimanere impigliati in si-
gnificati inflessibili, stabiliti una volta per tutte. Il punto di riferimento
per il significato di una parola non risiede esclusivamente nella nostra
tradizione, ma è portato avanti nell’incontro dialogico stesso” (Panikkar
2007: 17). Lo stesso vale per la trasversalità disciplinare e per la trasver-
salità formativa (valoriale): il significato di tali trasversalità sta (la prima)
nella esplorazione delle discipline, negli anfratti tra confini disciplinari,
non prescindendo da essi, così come il significato valoriale del rapporto
dialogico sta nel cercare con tenacia e cautela (sostenibilità) il senso dei
valori situati in uno spaccato culturale e nelle dinamiche contestuali
(Albarea 2006b).
Questo permette anche di tenere sotto controllo e di gestire i rapporti
di potere tra culture, classi sociali e persone, di focalizzarsi, per evitarne
gli effetti nocivi e rendersene conto, sulla simbiosi tra potere e cono-
scenza, sulla transazionale natura del potere e le sue manifestazioni a li-
velli multipli. Il concetto di subordinato, ad esempio, si mostra più esteso
e più variabile di quanto non appaia ed è connesso al principio di auto-
nomia. Infatti si è posto l’accento sia sullo stato di minorità di un individuo
che non sa esercitare appieno la sua autonomia, anche in situazioni sto-
riche e istituzionali di libertà (Iacono 2000), sia sulla differenza tra rela-
zioni di potere e stati di dominio (Foucault 1998). C’è pertanto differenza
tra libertà e autonomia: esse non si pongono come passaggio necessario
e sequenziale dall’una all’altra. Se si attribuisce alla nozione di libertà
quel che concerne la dimensione oggettiva, istituzionale dell’essere li-
beri, e alla nozione di autonomia la dimensione soggettiva, individuale,
allora si possono immaginare situazioni di libertà senza autonomia e, vi-
ceversa, situazioni di autonomia senza libertà.
Le relazioni di potere si distinguono dagli stati di dominio perché
lasciano spazio a giochi di relazione, a mediazioni intelligenti (come
nella relazione autenticamente educativa), alle regole del diritto, alle
modalità di gestione e di governo, all’ethos personale e alla testimo-
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2. Identità e appartenenza
Il concetto di identità (parte o totalità degli attributi che denotano
l’appartenenza di una o più persone a determinati gruppi) è basilare.
Supporre l’appartenenza a gruppi diversi (diversi per i loro attributi
prevalenti e diversi per via delle persone che vi sono accolte) significa
riconoscere la legittimità di più culture (la cosiddetta diversità dei di-
versi),oltre all’esistenza di veri e propri ruoli sociali.
Ogni persona fa parte simultaneamente di gruppi diversi senza che
ciò costituisca in qualche misura una contraddizione (si tratta piuttosto di
saper gestire tali antinomie e, a volte, squilibri): di fatto ognuno di tali
gruppi di appartenenza conferisce a ciascun soggetto una parte di quelle
identità comuni (relazione, operatività, inclusione, ecc.) che, a seconda del
contesto sociale, gli possono risultare più o meno utili o convenienti.
Nella nostra vita attiva ci consideriamo membri di quei gruppi ai
quali per certi versi e in una certa misura facciamo riferimento. Dice
Sen: “La cittadinanza, la residenza, l’origine geografica, il genere, la
classe, la politica, la professione, l’impiego, le abitudini alimentari, gli
interessi sportivi, i gusti musicali, gli impegni sociali e via discorrendo
ci rendono membri di una serie di gruppi. Ognuna di queste collettività
cui apparteniamo simultaneamente, ci conferisce un’identità specifica.
Nessuna di esse può essere considerata la nostra unica identità o la no-
stra unica categoria di appartenenza” (Sen 2006: 6).
Ad esempio, continua Sen, “Un manovale hutu a Kigali può essere
spinto a considerarsi solamente un hutu, essere incitato a uccidere i
tutsi: eppure non è soltanto un hutu, è anche un abitante di Kigali, un
cittadino del Ruanda, un africano, un manovale e un essere umano.
Oltre a riconoscere la pluralità delle nostre identità e delle loro diverse
implicazioni, c’è l’esigenza, di fondamentale importanza, di compren-
dere quale ruolo giochi la scelta nel determinare il peso e la persuasività
di identità specifiche, che sono inevitabilmente diverse” (Sen 2006: 6).
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Il senso di identità allargato che sta alla base di questo impegno ol-
trepassa di gran lunga i confini di nazionalità, cultura, comunità o reli-
gione. Questa idea di appartenenza ha natura eccezionalmente
inclusiva, essa spinge così tante persone a battersi contro l’ingiustizia
che divide la popolazione mondiale. La critica alla globalizzazione è
forse, in realtà, il movimento morale più globalizzato del mondo
odierno (Sen 2006: 124)
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bra quasi irreale. Il novello Odisseo, il protagonista dei due film (Har-
vey Keitel, nel primo, Bruno Ganz nel secondo), ‘costeggia’ le insidie
di un mondo che non riconosce, attraverso un pellegrinaggio segnato
dall’ambiguità e dalle interrogazioni ineludibili sulla condizione con-
temporanea dell’uomo. Le scelte stilistiche del regista si concentrano,
nel linguaggio cinematografico (Canova 2002: 30-31), sul sapiente uti-
lizzo dei piani-sequenza, sulla interpunzione di sospensioni e silenzi,
sulla moltiplicazione dei punti di vista scardinando la successione cro-
nologica degli avvenimenti, mescolando passato, presente e (un po’
di) futuro. Ci si inoltra verso un processo di rarefazione delle imma-
gini, dei significati, dei silenzi, verso un accentuarsi della metaforicità
della narrazione: una odissea della memoria carica di simboli e di sug-
gestioni formative.
“Così Itaca da unica diventa molteplice. L’esperienza del tempo ha
polverizzato la singolarità in un miriade di immagini varie, cangianti e
luccicanti, che illuminano il cammino del viandante. Questo luogo pa-
radigmatico dell’ospitalità è stato trasformato dal tempo, deformato dal
ricordo, ricostruito dall’immaginazione, trasfigurato dal desiderio. Itaca,
termine e fine della ricerca dell’ospitalità, ha rivelato l’ospitalità del
tempo, cioè la sua capacità di accogliere, preservare e nutrire il forte de-
siderio di un’accoglienza definitiva” (Montandon 2004: 98).
In altre parole, continua acutamente Montandon (e qui sta il core
della questione), “[...] bisogna che l’uomo scopra il proprio esilio, che
assuma il fatto di essere estraneo a se stesso, di essere uno straniero,
cioè qualcuno che non ha casa propria per offrire ospitalità. Compren-
dere questa differenza, questa distanza che il gioco delle luci e delle te-
nebre rappresenta è la condizione a priori dell’atto di ospitalità”
(Montandon 2004: 171). Il dentro è anche l’esterno dell’uomo.
Desiderio d’essere accolto, nostalgia e memoria, e coscienza del pro-
prio esilio, si trasformano in architetture formative in cui ognuno può
costruire la propria intimità, sentirsi (temporaneamente) “a casa pro-
pria”: si tratta di abitare se stessi, essere ospite e ospitato allo stesso
tempo, e ciò attraverso parole, racconti e riflessioni, versi, lungome-
traggi, immagini, che esplorano un tipo di nostalgia che è narrazione.
Una narrazione che tenta di ricomporre l’infranto dell’esistenza con-
temporanea.
Un esempio di ciò lo si ritrova in Franco Marcoaldi, a proposito di
una sua peregrinazione di scrittore attento e appassionato. “[...]Se il
viaggio è sinonimo di sorpresa, continua diversione, spaesamento, al-
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lora quello nella provincia italiana è un viaggio a tutti gli effetti, visto
che si incontra l’ignoto e il forestiero direttamente a casa nostra”. Lo
scrittore vuole sperimentare “[...] se tornando a quei luoghi, a quelle
esperienze, nel tempo secondo della memoria e della riflessione, sa-
rebbe rimasto nel setaccio del libro qualcosa di più persistente, di più
duraturo rispetto alle prime impressioni; [...] parlo di quelle nervature
sotterranee in cui si stringono assieme uomini e territorio, tempo e spa-
zio, opere e credenze. Parlo, in breve, delle fondamenta su cui crescono
le diverse comunità [...] Analoga attenzione è offerta al rimando tra un
presente proiettato nel futuro e un presente legato al passato. Anche
remoto. Addirittura mitico [...] Il viaggio si riconferma come un’espe-
rienza totale, che mette in moto tanto i sensi quanto la fantasia e pone
l’esistenza nel gioco della concretezza quotidiana, e insieme alimenta
credenze e miti e fantasticherie che a loro volta condizionano compor-
tamenti e azioni. [...] A questo doppio sguardo, assieme onirico e fat-
tuale, le realtà incontrate manifestano un volto ambiguo [...]” (Marcoaldi
2009: IX-XII)
In questa prospettiva, allora, la nostalgia (del futuro) non consiste
più in un rimpianto del passato, in stati d’animo emergenti di fronte a
ciò che si è perduto per sempre, ma si configura come reinterpretazione
del nostro angolo di visuale, reintepretazione della memoria, la quale,
intesa come sentimento di finitezza, come ricerca di una completezza
dinamica e dei passaggi obbligati nella vita di ciascuno (Albarea: 2008a),
è proiettata in vista di una rielaborazione percettiva e intellettiva delle
cose e delle persone, del presente e del futuro.
Si aspira ad una sorta di completezza in fieri, sempre imperfetta,
piuttosto che ostinarsi verso una mai raggiunta posizione di stabilità o
“ottusa interezza” di cui parla anche Calvino (1960: 1213-1214). Anzi si
pone lo sguardo sull’uomo dimidiato, incompleto, che se da un lato rap-
presenta la condizione parcellizzata e frammentata (‘infranta’) dell’esi-
stenza contemporanea, dall’altro, questa stessa condizione può
trasformarsi positivamente in una lezione di umiltà, una lezione di rac-
coglimento di se stessi per comprendere maggiormente le intenzioni
più riposte (goffe?), le tensioni autentiche nella ricerca di una comple-
tezza ‘sostenibile’ (Albarea: 2008a).
Dice Calvino: è forse più fertile pensare che “[...] vera integrazione
umana non è un miraggio d’indeterminata totalità o disponibilità o uni-
versalità ma un approfondimento ostinato di ciò che si è, del proprio
dato naturale e storico e della propria scelta volontaria, in un’autoco-
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1
Il riferimento è tratto dal colloquio che l’illustre scienziata ebbe con Fabio Fazio in una
puntata della trasmissione televisiva “Che tempo che fa” del 26 aprile 2009.
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SECONDA PARTE
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Ambito 2: pratiche
Gli approcci che sottolineano gli aspetti situati dell’educazione, par-
tono dal presupposto che i processi di apprendimento sono profonda-
mente radicati nelle situazioni e nelle pratiche a cui le persone
prendono parte (Rogoff 2004). In particolare, viene sottolineata l’im-
portanza delle pratiche più quotidiane, e il fatto che forme di appren-
dimento situato sono possibili all’interno di gruppi di persone per le
quali quelle pratiche sono effettivamente significative (per esempio,
sulla pratica del ‘mangiare insieme’ come esempio di contesto educativo
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informale, si veda la stessa Rogoff 2004, pp. 30-33). Tuttavia, fin dagli
studi fenomenologici sullo straniero condotti da Alfred Schutz, appare
chiaro che sono proprio le pratiche più quotidiane quelle rispetto alle
quali gli stranieri si sentono più spaesati (Schutz 1979). Gilles Brougere,
nella sua introduzione allo studio delle forme quotidiane di apprendi-
mento, ci dice che spesso le persone non sono consapevoli delle prati-
che quotidiane che hanno acquisito, mentre queste stesse pratiche
vengono più facilmente notate da uno straniero che non le abbia an-
cora apprese (Brougère, Ullman 2009). Per analizzare le potenzialità di
apprendimento delle pratiche che coinvolgono nativi e migranti, ap-
pare quindi importante chiedersi: quali sono le caratteristiche di quelle
pratiche? Quanto queste pratiche sono quotidiane per i partecipanti? E an-
cora: queste pratiche – proprio per il fatto di essere così quotidiane per
alcuni – non rischiano di essere escludenti per altri? Secondo il sugge-
rimento Michel de Certeau (2001), uno dei primi studiosi attenti al
mondo delle pratiche, è necessario inoltre osservare quale spazio hanno
all’interno della situazione analizzata altre forme di pratiche quotidiane:
pratiche che, pur non essendo significative per la maggior parte dei par-
tecipanti, sono comunque presenti e importanti nella quotidianità di
alcuni di loro.
Ambito 3: relazioni
Lo stesso de Certeau (2001) ha mostrato che una delle funzioni dei
contesti educativi è quella di controllare e possibilmente assimilare per-
sone, gruppi e pratiche che sono percepiti come stranieri. E gli studiosi
dei processi di acculturazione hanno mostrato che l’apprendimento in-
formale può essere visto come una delle forme del cambiamento cultu-
rale entro relazioni di potere fra gruppi diversi (Hannerz 2002). D’altra
parte, i teorici del social learning hanno sostenuto che proprio il cambia-
mento di queste relazioni di potere può essere considerato uno degli in-
dicatori di educazione alla cittadinanza in ambito non formale e
informale (Wildemersch,Vandenabeele 2007: 19). Allo scopo di analizzare
il tipo di cittadinanza che viene imparata informalmente nei luoghi pub-
blici, è utile quindi cercare di descrivere i modi in cui è distribuito il po-
tere al loro interno. Nella sua analisi delle forme contemporanee di
educazione formale, non formale e informale, Alan Rogers (2005) ha pro-
posto di analizzare in termini di contestualizzazione il tipo di partecipa-
zione a un determinato processo educativo. In questo senso, un evento o
percorso educativo decontestualizzato sarà probabilmente un percorso
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Situazione 1
In una città dell’Italia centrale, in uno dei quartieri a più alta den-
sità di migranti, c’è una scuola media frequentata da molti allievi figli
di migranti. I genitori della scuola si sono riuniti in un’Associazione
che raccoglie genitori italiani e migranti. Poiché il quartiere non ha
molti spazi per le attività pomeridiane dei figli, l’Associazione ha
chiesto e ottenuto dalla scuola di utilizzare i cortili scolastici per far
praticare sport ai figli. Spesso, durante l’allenamento, arrivano alcuni
genitori migranti e italiani, e portano qualcosa per fare merenda in-
sieme alla fine dell’allenamento.
Situazione 2
In una cittadina del Nord-Est, in uno dei quartieri a più alta den-
sità di migranti, c’è una scuola primaria frequentata da molti allievi
figli di migranti. Ogni anno, a giugno, alla fine delle lezioni, alcuni
genitori organizzano un pranzo tutti insieme: allievi, genitori e inse-
gnanti. Il pranzo si svolge nel parco pubblico del quartiere e vi par-
tecipano sia italiani che migranti.
Situazione 3
In questa stessa cittadina, in un altro parco pubblico dello stesso
quartiere, si ritrovano – soprattutto in estate – un gruppo di mamme
albanesi per chiacchierare e far giocare insieme i figli. Spesso nei fine
settimana organizzano dei pic-nic con le famiglie. Il parco viene fre-
quentato anche da alcuni genitori e bambini italiani. Bambini alba-
nesi e italiani interagiscono fra loro. Non interagiscono però gli adulti
italiani e albanesi. Quando le famiglie albanesi si organizzano per
pranzare, gli italiani di solito evitano il parco. Alcuni italiani hanno
protestato con l’Amministrazione perché gli albanesi occupano il
parco con i loro pic-nic.
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1. Fare ricerca
Quando nel marzo del 2009 ho iniziato la ricerca sui fenomeni mi-
gratori a Cervignano del Friuli e nella Bassa Friulana mi aspettavo che
non avrei avuto grandi difficoltà a trovare persone disposte a farsi in-
tervistare, a differenza di altre precedenti esperienze di ricerca in con-
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2. Uso dell’intervista
Lo strumento principale utilizzato in questa ricerca è stata l’intervi-
sta. Il progetto iniziale era quello di individuare delle persone disponi-
bili e in qualche modo rappresentative della comunità straniera
residente nella zona e concordare la possibilità di recarsi a casa loro –
o comunque di incontrarsi in un luogo tranquillo - per condurre un’in-
tervista semi-strutturata, cioè basata su una griglia che prevedeva di
toccare una serie di tematiche e argomenti ma che lasciava spazio a va-
riazioni e modifiche a seconda della situazione. I principali punti toccati
nell’intervista erano: il percorso migratorio e di inserimento; la cono-
scenza e valutazione dei servizi; le reti sociali e la vita sociale e culturale;
l’essere cittadino (partecipazione e identificazione con la comunità).
L’intervista sarebbe stata registrata, con il consenso degli intervistati, e
trascritta in forma discorsiva in un secondo momento, in modo da evi-
tare di dover prendere appunti nel corso della conversazione con gli in-
tervistati, una pratica che può creare delle interruzioni nel flusso della
narrazione e che risulta inevitabilmente in delle omissioni. Fin qui la
teoria, o piuttosto l’ideale; ma l’antropologia non è una scienza esatta
(anzi, per alcuni non è affatto una scienza) e l’oggetto delle ricerche an-
tropologiche – l’uomo nei suoi aspetti socio-culturali – è quanto di più
complesso e mutevole ci sia. Nella pratica, quindi, le variabili sono pres-
soché infinite e raramente è possibile condurre delle interviste esatta-
mente come si era programmato nella preparazione della campagna di
ricerca, mentre è necessaria una buona dose di flessibilità che permetta
di adattarsi alle circostanze che si incontrano di volta in volta. Quello
che ci deve guidare non è il desiderio di forzare a tutti i costi la realtà in
uno schema predefinito ma, al contrario, la capacità di adattarci conti-
nuamente al contesto in cui ci troviamo, nel tentativo di fornire una rap-
presentazione quanto più possibile vicina e onesta della realtà che
stiamo osservando e che ci proponiamo di descrivere. La sfida per l’an-
tropologo in questo lavoro di ‘mediazione’ è proprio quella di mante-
nere un equilibrio in questa sorta di tensione tra l’ordine della teoria e
il caos della vita reale.
In questo caso specifico, nel corso della campagna di ricerca con-
dotta a Cervignano del Friuli e dintorni, nella maggior parte dei casi
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trate nel reperire persone disponibili ad essere intervistate, non solo tra
i cittadini stranieri ma anche tra gli ‘emigranti di ritorno’. Questo è in sé
un dato interessante perché ci dice qualcosa sul tessuto sociale del ter-
ritorio, sempre più ripiegato sul circolo ristretto della vita familiare e
caratterizzato da un crescente senso di insicurezza e diffidenza. Spesso
però la disponibilità delle persone nei confronti della ricerca è anche
fortemente condizionata dalla loro comprensione di quello che stiamo
facendo: chi non ha familiarità con il lavoro del ricercatore può avere
difficoltà a capirne il senso, e soprattutto l’utilità. La domanda più co-
mune che ci viene rivolta è ‘a cosa serve?’, che spesso sottintende ‘a cosa
mi serve?’. A conferma di come la conoscenza più o meno diretta dei
processi di ricerca possa influire positivamente sulla disponibilità e
sulla partecipazione posso citare una precedente ricerca tra i nostri cor-
regionali trasferitisi in Gran Bretagna negli ultimi due decenni. Nono-
stante le maggiori difficoltà logistiche, in quella occasione ho incontrato
una grande disponibilità e facilità nel condurre le interviste, trattandosi
quasi sempre di persone che avevano una certa familiarità con il lavoro
di ricerca, o che addirittura erano essi stessi dei ricercatori. Credo che
una delle sfide più grandi per un antropologo sia quella di cercare di
condividere con le persone con cui si lavora (i cosiddetti ‘informatori’)
il senso di quello che stiamo facendo. Maggiore è la distanza sociale e
culturale (e spesso anche linguistica) tra noi e queste persone, maggiore
sarà la difficoltà a trovare una sorta di terreno comune su cui confron-
tarsi. Ritengo tuttavia che rendere le persone che intervistiamo o che
osserviamo partecipi del nostro progetto di ricerca – in altre parole con-
siderarle dei soggetti e non degli oggetti di ricerca - sia un imperativo
etico, oltre che un importante esercizio di riflessività che ci costringe
continuamente a mettere in discussione, e in prospettiva, il nostro la-
voro. Talvolta ciò può essere sorprendentemente facile, nonostante
l’enorme distanza, e gratificante, come quando un venditore di kebab
uiguro al mercato di Kashgar mi disse “Ho capito, tu vuoi far conoscere
la nostra cultura alimentare nel resto del mondo. Grazie!” (Cesàro 2002).
Tornando alle difficoltà di reclutamento per quanto riguarda la ri-
cerca nella Bassa Friulana, l’ottimismo iniziale è cominciato a vacil-
lare quando la lista di contatti che avevo a disposizione e che
confidavo servisse se non altro per avviare la ricerca si è esaurita
senza alcun esito: in molti casi i numeri (tutti cellulari) non erano più
validi, in altri le persone si erano trasferite, o semplicemente non
erano reperibili. Questo inconveniente è comunque indicativo del-
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uomo, forse uno dei loro mariti potrebbe essere disponibile. Entrambe
dicono che è impossibile, lavorano tantissimo e non hanno tempo. Le
ringrazio e ci congediamo.
1
L’esigenza da parte degli studenti di antropologia di conoscere l’esperienza di ricerca
sul campo prima di doverla affrontare loro stessi è emersa chiaramente durante il conve-
gno ‘La ricerca sul campo’ tenutosi nel maggio 2008 ed organizzato dagli studenti di an-
tropologia dell’Università di Venezia riuniti in un’associazione dal nome emblematico: ‘Il
Campo’.
2
Nel 2007 avevo condotto una ricerca sulle ‘nuove migrazioni’ dal Friuli Venezia Giu-
lia alla Gran Bretagna (Misturelli e Cesaro, 2009) e nel 2008, nell’ambito del progetto
AMMER (archivio multimediale della memoria dell’emigrazione regionale) promosso
dalla Regione Friuli Venezia Giulia, avevo raccolto delle interviste a corregionali e discen-
denti di corregionali emigranti in Brasile dalla fine del 1800 al secondo dopoguerra (si veda
il sito www.ammer-fvg.org).
3
Questo metodo è largamente usato in contesti di ricerca non facilmente confinabili
o delimitati da uno spazio fisico ben definito, nei quali la comunità oggetto della ricerca
non può essere conosciuta nella sua totalità, come ad esempio può avvenire in un villag-
gio, o in un’istituzione quale ad esempio una scuola o un ospedale. Naturalmente anche
nel caso del villaggio o dell’istituzione la delimitazione è in qualche modo arbitraria, in
quanto qualsiasi entità individuata ai fini di una ricerca non è isolata ma è comunque in-
serita in una rete di relazioni più o meno ampia (oggi siamo consapevoli che il villaggio iso-
lato è una sorta di artificio di un’antropologia di stampo positivista da tempo superata).
4
L’ambito distrettuale 5.1 di Cervignano del Friuli comprendeva 18 comuni: Aiello del
Friuli, Aquileia, Bagnaria Arsa, Bicinicco, Campolongo al Torre, Cervignano del Friuli, Chio-
pris-Viscone, Fiumicello, Gonars, Palmanova, Ruda, San Vito al Torre, S. Maria la Longa, Ta-
pogliano, Terzo d’Aquileia, Trivignano Udinese, Villa Vicentina, Visco. Dal 2009 sono
diventati 17 in quanto i Comuni di Campolongo al Torre e Tapogliano sono stati riuniti in
un unico Comune (Campolongo Tapogliano).
5
A coloro che si accingessero a condurre una ricerca di questo tipo consiglio di non
sottovalutare il tempo necessario alla raccolta di questi dati, in qualche modo secondari in
una ricerca qualitativa ma senz’altro utili per la comprensione complessiva del fenomeno
migratorio e per l’interpretazione dei dati emersi dalle interviste.
6
La parola deriva da Serendip, il nome persiano dello Sri Lanka (che a sua volta deriva
dal sanscrito) ed è stata coniata dallo scrittore inglese Horace Walpole in una lettera che
scrisse all’amico Horace Mann nel 1754.
7
Sull’assenza di associazionismo e forme di aggregazione anche informale si veda
Altin in questo volume.
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107
È proprio questo uno degli aspetti salienti che emergono dalla ri-
cerca di Terzo di Aquileia, ossia che alcune dinamiche familiari che po-
tremmo attribuire alle famiglie straniere, come appunto la mobilità
spaziale, la difficoltà di coltivare le relazioni a distanza con parenti,
anche stretti, la solitudine o il ‘deserto parentale’ (Solinas 2004) nel
luogo in cui si vive, la funzione principale di erogatrice di cura della fa-
miglia, l’orientamento di genere dei nuclei familiari (con le donne pro-
tagoniste assolute), le difficoltà nell’utilizzo e nella disponibilità dei
servizi pubblici, la ‘chiusura’ su una cerchia molto ristretta di legami fa-
miliari, la creazione di legami simil-parentali con amici che condivi-
dono un comune destino migrante e così via, si ritrovano sempre più
spesso nelle famiglie italiane, soprattutto quelle che provengono da altri
comuni regionali o italiani. Questo conferma l’effetto ‘specchio’ che ha
rilevato anche Altin in questo volume: “Da questo punto di vista l’ef-
fetto più reale determinato dalla presenza straniera è proprio quello di
specchiare e mettere in luce la crisi del nostro sistema sociale, la fragi-
lità delle nostre reti di sostegno in comunità troppo velocemente tran-
sitate dalla cultura rurale di paese a modelli di vita consumistici,
atomizzati e ‘liquidi’”. E, si potrebbe aggiungere, colloca le famiglie al-
l’interno di processi globali di trasformazione che investono gli indivi-
dui nelle più diverse società, creando inedite convergenze nelle
pratiche, nelle strategie esistenziali, nel modo in cui ‘si fa famiglia’ non
soltanto all’interno dello stesso Paese o della stessa cultura.
2. Prototipi a confronto
La difficoltà nel definire univocamente la famiglia ci mette di
fronte alla complessità di questo concetto e alla varietà delle sue
forme, funzioni e dello spazio relazionale che ha coperto e copre al-
l’interno di una cultura e società specifiche5. Basti pensare alla mol-
teplicità di discorsi che la definiscono: “discorsi religiosi, morali,
legali, delle tradizioni culturali, delle politiche sociali, fino alla speci-
fica tradizione familiare di ciascuna famiglia, di ciascun individuo”
(Saraceno, Naldini 2001: 9-10), alle immagini che evoca: “della fami-
glia-rifugio, della famiglia luogo dell’intimità e dell’affettività, spa-
zio dell’autenticità, archetipo della solidarietà, della dimensione
privata”, ma anche quelle “della famiglia come luogo della inauten-
ticità, dell’oppressione, dell’obbligo, dell’egoismo esclusivo, la fami-
glia come generatrice di mostri, di violenza, la famiglia che uccide”
(Saraceno, Naldini 2001:11).
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nazionalità con i figli; un uomo giovane con il suo cane seduti sul letto
a una piazza; una famiglia di tre generazioni convivente (nonni, ge-
nitori e figli). Ho chiesto loro di esprimere un giudizio graduato (da
1 a 10) su quanto considerassero vicina al concetto di ‘famiglia’ la sin-
gola famiglia presentata in fotografia.
L’insieme di questi tipi di famiglie costituiscono una classe polite-
tica (o adansoniana o politipica) se raggruppano membri che non con-
dividono alcun tratto necessario e sufficiente per la loro appartenenza
ad un dato insieme. Ad esempio, non tutti i tipi di famiglia possiedono
il requisito ‘presenza di un legame matrimoniale’ (richiamiamo qui il
criterio alla base della definizione di famiglia della nostra Costituzione
nazionale). Nella teoria tradizionale (monotetica) solo quattro o cinque
fotografie sarebbero state ammesse nella categoria ‘famiglia’, perché le
altre non avrebbero soddisfatto il criterio necessario e sufficiente per
l’appartenenza all’insieme. In particolare la madre single con la figlia
adottiva non avrebbe costituito una ‘famiglia’. In un altro quesito, sem-
pre col metodo della foto-stimolo, ho chiesto agli informatori di sce-
gliere tra due immagini – che ritraevano una madre con la figlia e una
coppia appena sposata senza figli - quale fosse quella che rappresen-
tava meglio la famiglia. Più del 76% delle risposte ha scelto la madre
con la figlia, a sottolineare l’importanza sempre più grande del rapporto
filiale rispetto a quello coniugale o di coppia.
L’insieme politetico invece è dato dal fatto che i suoi dieci membri in
questo caso condividono le caratteristiche in modo sparpagliato (ad
esempio, ‘presenza di un legame matrimoniale’, ‘coresidenzialità’, ‘le-
gami consanguinei’, ‘presenza di figli piccoli’11, ecc.). Nessuno dei mem-
bri possiede tutte le caratteristiche, che sono condivise in modo
ineguale. Le classificazioni monotetiche pongono dei confini precisi,
mentre quelle politetiche sono aperte. Le classificazioni politetiche per-
mettono anche di predicare contemporaneamente l’esistenza e la non
esistenza di un fenomeno.
Tuttavia anche in una categoria politetica come la nostra possiamo
distinguere una famiglia ‘più famiglia’ delle altre in base al numero di
attributi che ogni tipo di famiglia possiede. Nel nostro caso la prima fa-
miglia proposta (coppia giovane con figli piccoli) è quella che possiede
la maggioranza degli attributi (ed è anche l’unica che ha avuto un giu-
dizio medio di 10), quindi questa famiglia diventa il membro prototipico
o prototipo della nostra categoria ‘tipologie di famiglia’, non perché pos-
sieda necessariamente tutti i tratti posseduti dalla maggioranza dei
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torio di vite possibili. [...] Così le biografie della gente comune sono co-
struzioni (o invenzioni) in cui l’immaginazione gioca un ruolo impor-
tante. E non si tratta semplicemente di un ruolo di fuga [...], perché
nell’intreccio tra vite che si sviluppano e loro controparti immaginate si
genera una varietà di comunità immaginate (Anderson 2005) che su-
scitano nuovi tipi di politica, nuove forme di espressione collettiva, e
nuove esigenze di controllo e disciplina da parte delle classi dirigenti.
[...]. Queste vite complesse e in parte immaginate devono ora formare
il fondamento dell’etnografia” (Appadurai 2001: 77-78).
1
Mutuo il titolo dalla versione italiana del noto testo di Appadurai, Modernità in pol-
vere: “[..] la modernità è ‘in polvere’ in quanto ormai frantumata, ma anche pronta a essere
ricostituita secondo pratiche piuttosto soggettive, come certi prodotti per il bricolage o fai-
da-te” (Appadurai 2001: 37, N.d.T. 1).
2
Ci riferiamo in realtà a una fase tarda di transizione nello sviluppo familiare, la fa-
miglia standard anni ‘50 con entrambi i genitori che vivono sotto lo stesso tetto con i figli
avuti dal matrimonio, la mamma casalinga a tempo pieno e il papà che lavora e mantiene
la famiglia. “La comparazione delle famiglie contemporanee con quelle degli anni Cin-
quanta è particolarmente ingannevole. Come hanno dimostrato molti storici e sociologi, la
famiglia degli anni Cinquanta era atipica perfino per il Ventesimo secolo. Per la prima volta
in ottant’anni, l’età al matrimonio diminuì bruscamente, i tassi di fertilità aumentarono e
precipitò la percentuale di soggetti che non avevano mai contratto matrimonio” (Coontz
2006: 16).
3
Su questa definizione scrivono Pocar e Ronfani (2003: 34):“Questa espressione ha con-
sentito un’interpretazione di tipo giusnaturalistico della famiglia e del matrimonio (inter-
pretazione strenuamente richiamata da chi s’opponeva all’introduzione del divorzio) [..]
sembra difficile negare che la lettera del testo costituzionale proponga il modello della fa-
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miglia fondata sul matrimonio come l’unico ‘naturale’, attribuendo un carattere che pre-
scinde dalla storia e dalla cultura a un modello, come quello della famiglia nucleare coniu-
gale, che viceversa, come la sociologia e l’antropologia ci insegnano, è precisamente storico
e culturale. In tal modo, nella cornice costituzionale, diviene allora assai problematico fon-
dare la legittimazione di altri tipi di famiglia, nell’ottica del pluralismo dei modelli che è
andato affermandosi nel corso degli ultimi decenni”.
4
Nel nostro Paese, la cosiddetta ‘seconda transizione’ si può riassumere in poche pa-
role: siamo uno dei paesi che fa meno figli al mondo (e che mantiene livelli di fecondità
molto bassi – 1 figlio e 1/3 per donna), nel quale i figli rimangono più a lungo a vivere con
i genitori, siamo uno dei paesi con maggiore longevità e il paese nel quale maggiore è l’in-
vecchiamento generale della popolazione. L’ultimo rapporto sulla popolazione (Gruppo di
coordinamento per la demografia 2007: 7) ci avverte, con una dose di allarmismo non del
tutto immotivato, che un peso così elevato degli anziani (1 persona su 5) è del tutto inedito
nella storia dell’umanità in popolazioni comparabili: una sfida completamente nuova per
le società moderne.
5
Già gli studi storici e demografici ci hanno messo di fronte alla molteplicità delle
forme familiari nel tempo e nello spazio europei e hanno sfatato l’errata convinzione di
un’evoluzione unitaria della famiglia europea che sarebbe transitata dall’epoca premo-
derna ad oggi secondo una linea evolutiva omogenea, da strutture complesse, armoniche,
solidali e funzionalmente efficienti (famiglie multiple inserite in reti di parentela) a forme
piccole e piccolissime (famiglia nucleare-coniugale, famiglia monogenitoriale fino alla co-
siddetta famiglia ‘unipersonale’, costituita da una sola persona), figlie predilette dell’in-
dustrializzazione e della modernità.“La famiglia europea, così come appare dalle ricerche
storiche e dagli studi demografici, ci si presenta altrettanto, se non più, diversificata nelle
sue strutture nel passato che nel presente: segnata da confini, distinzioni, e destini diversi,
tra città e campagna, tra ceti sociali, e tra forme di accesso e distribuzione della proprietà”
(Saraceno, Naldini 2001:21-22).
6
Si veda Micheli 2000.
7
Poiché è possibile sciogliere il vincolo matrimoniale, con la morte del coniuge o con
un divorzio, e risposarsi, una persona ha la possibilità di avere più rapporti coniugali, anche
se in sequenza. Questa possibilità introduce di fatto nella convinta e appassionata difesa
del principio monogamico, che accomuna buona parte dell’Europa, una sorta di poligamia
sotto traccia.
8
“Ogni identità sfrutta fino in fondo uno, e uno soltanto, dei due valori, entrambi amati
e ugualmente indispensabili per un’esistenza umana decente e compiuta: la libertà di
scelta e la sicurezza offerta dall’appartenenza” (Bauman 2007: 76).“La lotta fra dipendenza
e autonomia costituisce un polo della globalizzazione” (Giddens 2000: 64).
9
“La famiglia nucleare viene spesso definita come gruppo di consanguinei. La no-
zione di consanguineità, lungi dal ricollegarsi a fatti naturali della biologia umana, si basa
principalmente su determinate concezioni culturali della riproduzione e della nascita, pre-
senti soprattutto in Europa e in America, dopo la colonizzazione, nell’area del Mediterra-
neo e nei Balcani”(Cuturi, 1999). Si veda anche Piasere, 1998; Pomata, 1994; Schneider, 1980.
10
“La varietà di soluzioni, pratiche e ideologiche, che ruotano attorno al problema del-
l’organizzazione della nascita degli esseri umani, del loro mantenimento e inserimento
nel mondo, delle relazioni sessuali, dei rapporti all’interno e all’esterno dei gruppi sociali,
del dislocamento nello spazio, è dunque tale da giustificare l’impossibilità di dare defini-
zioni universalmente valide di cosa sia una famiglia” (Cuturi, 1999).
11
“Nelle politiche pubbliche, il termine ‘famiglia’ designa non solo la famiglia nu-
cleare ristretta, ma anche la famiglia nucleare ‘giovane’, quella cioè che ha ancora dei
figli a carico” (Théry 2006: 53).
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CONCLUSIONI
(Flavia Virgilio)
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CONCLUSIONI 125
1. Imparare la partecipazione
I contributi contenuti in questo volume delineano in modo critico i
risultati di un’esperienza di ricerca-azione condotta nell’ambito delle
attività di accoglienza e integrazione degli immigrati, proponendo tre
possibili chiavi di lettura. In primo luogo un’attenzione ai processi di
integrazione come luoghi di apprendimento della cittadinanza, ma so-
prattutto di ‘produzione’ dei cittadini; in secondo luogo un’attenzione
all’esperienza di ricerca come possibile strumento di apprendimento
non solo per il ricercatore, ma per l’intero gruppo di soggetti coinvolti.
In terzo luogo un’attenzione ai contributi che discipline diverse pos-
sono dare nella ricerca in contesti complessi.
Nel 2008, dopo quasi dieci anni di interventi a favore degli immigrati
e in collaborazione con le associazioni di mediazione, l’amministrazione
comunale e il Tavolo immigrazione dell’Ambito Distrettuale di Cervi-
gnano del Friuli si sono posti il problema di capire se e come fosse pos-
sibile immaginare una progettazione non solo per gli immigrati, ma
anche con gli immigrati (Tweltrees 2006). Sulla scorta di altre esperienze
realizzate in Regione e a livello nazionale si è deciso di lavorare per la
costituzione di una Consulta degli Immigrati1 che favorisse la parteci-
pazione politica degli immigrati e affiancasse l’amministrazione nei
processi di progettazione.
Da questa necessità è partito il percorso di ricerca-azione descritto
in questo volume, con lo scopo di individuare attraverso il dialogo di-
retto con i cosiddetti beneficiari, o meglio stakeholder, le modalità mi-
gliori per arrivare alla costituzione della Consulta. La ricerca azione
si è perciò caratterizzata per un approccio che, partendo da un pro-
blema socialmente rilevante, ha cercato di sfruttare il circolo analisi-
azione, favorendo il passaggio continuo dall’agire alla riflessione e
dalla riflessione di nuovo all’azione. Poiché in questo processo erme-
neutico, che vede al centro l’azione progettuale intesa come processo
euristico, sono coinvolti tutti gli attori sociali, la direzione della ri-
cerca viene continuamente rinegoziata in relazione all’emancipa-
zione degli attori che divengono essi stessi protagonisti della ricerca
(Pourtois 1986).
Si è trattato di sperimentare una modalità di programmazione defi-
nita comunicativa (Siza 2002: 74), che ha consentito di spostare l’atten-
zione dal piano dell’analisi dei macroelementi che determinano i flussi
migratori ai problemi quotidiani, alle reti di vicinato e di prossimità. In
questo contesto i progetti, più che come strumenti strategici di acqui-
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CONCLUSIONI 127
nare, per costruire cioè soggetti sociali adeguati alle nuove forme di
welfare partecipativo.
Le tecnologie participative allora, anzichè dis-velare e sovvertire le
relazioni di potere, finirebbero per produrne a loro volta, attraverso la
legittimazione di pratiche che, entrando a far parte del senso comune,
divengono normative per il fatto stesso di essere praticate e tendono a
produrre, di fatto, il consenso e a mascherare, tanto più sono parteci-
pative, le strutture di potere nei microcontesti sociali (Mosse 1994; Woo-
dhouse 1998).
Anche la coprogettazione può essere considerata una di queste tec-
nologie sociali “che creano apparentemente opportunità di rafforza-
mento collettivo (self-improvement) e di libera scelta per i soggetti
coinvolti. Per queste stesse ragioni, tuttavia, può essere anche conside-
rata una pratica governamentale [...]” (Wildemeersch 2007: 103) il cui
prodotto, la cosiddetta cittadinanza attiva, si presenta “non tanto come
una categoria giuridica, ma piuttosto come un insieme di pratiche di
costruzione di sé in diversi ambiti di potere. [...] Questa nozione opera-
tiva di cittadinanza considera le microstrategie delle relazioni di potere
che attraversano vari ambiti (il campo profughi, l’ospedale pubblico, il
welfarestate, il tribunale, la chiesa, il mercato, il lavoro) e concorrono a
costruire ex novo i cittadini”(Ong 2005: 342).
In questo senso è proprio attaverso le tecnologie sociali che le isti-
tuzioni contribuirebbero a creare i cittadini, mediante due procedure
parallele e sinergiche, da una parte il conferimento di identità e dal-
l’altra la classificazione dei soggetti (Douglas 1990) sulla base di cate-
gorie istituzionalmente riconoscibili e di servizi fruibili e/o erogabili.
“A partire dal 1820, gli uffici statistici dei governi europei cominciarono
a diffondere una vera e propria valanga di cifre. L’esercizio del conteg-
gio, una volta iniziato, produsse a sua volta migliaia di suddivisioni. Ap-
pena furono inventate nuove categorie mediche, prima impensabili, o
nuove categorie criminali, sessuali o morali, si fecero avanti sponta-
neamente nuovi tipi di persone, a migliaia disposte ad accettare tali eti-
chette e a vivere in accordo con esse. Questa risposta positiva a nuove
etichette indica una straordinaria prontezza da accettare la ricolloca-
zione in nuove caselle e a consentire una ridefinizione del self” (Douglas
1990: 153).
Il contributo di Vatta in questo testo mostra come alla pratica della
classificazione e del dare nomi si associno, spesso in un movimento
uguale e contrario, la frantumazione e la ricostruzione secondo pratiche
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CONCLUSIONI 129
CONCLUSIONI 131
1
Le consulte degli immigrati sono organi consultivi del Consiglio Comunale, della
Giunta e delle Commissioni. Presentano pareri sulle proposte di deliberazione che inci-
dono sulle condizioni di vita degli stranieri e possono fare proposte in merito ai temi e ai
problemi concernenti l’integrazione. Sono elettive e hanno una funzione di rappresen-
tanza. Generalmente sono istituite con riferimento alla ratifica avvenuta con legge 8 Marzo
1994 n.203 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla “Partecipazione degli stranieri
alla vita pubblica a livello locale”fatta a Strasburgo il 5 febbraio 1992. In Italia sono presenti
quindici Consulte regionali, ventiquattro Consulte provinciali e ventidue Consulte co-
munali (Ministero dell’Interno 2009: 36).
2
Sul versante della formazione, la correlazione tra partecipazione e promozione del
cambiamento si connette, a partire dagli anni Settanta, alla tradizione freieriana della ri-
cerca azione partecipativa (participatory action research) incentrata sulla stretta connessione
tra partecipazione, conoscenza e potere ed in particolare sulla funzione della ricerca nella
promozione del mutamento sociale. Cinque aspetti del pensiero di Freire (2002) hanno
particolare rilevanza per il nostro discorso. In primo luogo l’enfasi sul dialogo, in secondo
luogo l’importanza della comunità e del capitale umano, in terzo luogo l’idea che attraverso
la coscientizzazione sia possibile costruire il cambiamento e rimuovere le situazioni di op-
pressione, in quarto luogo l’idea dell’educazione come processo situato nell’esperienza
capace di generare nuove narrazioni ed infine la dialettica tra educatore e educando.
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GLI AUTORI
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RINGRAZIAMENTI E CREDITI
GENTE DI FERRIERA
di Gino Dorigo
LA MIA CASA
È DOVE SONO FELICE
STORIE DI EMIGRATI E IMMIGRATI
di Max Mauro
VARECHINE
di Gino Dorigo
ORDINARIE MIGRAZIONI
a cura di Roberta Altin e Flavia Virgilio
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