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LAVORO&SOCIETÀ
KAPPAVU
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ORDINARIE MIGRAZIONI.
EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA TRA RICERCA E AZIONE
a cura di Roberta Altin e Flavia Virgilio

in copertina foto di Andrea Bernardis


impaginazione grafica e copertina: Paola D’Elia

Kappa Vu sas – Udine


tel./fax 0432 530540
www.kappavu.it
info@kappavu.it
distribuzione@kappavu.it
Edizione gennaio 2011

ISBN 978 88 89808 245


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ORDINARIE MIGRAZIONI
Educazione alla cittadinanza tra ricerca e azione

a cura di Roberta Altin e Flavia Virgilio


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INDICE

pag. 7 INTRODUZIONE
di Roberta Altin

PRIMA PARTE INTEGRAZIONE E CITTADINANZA: TRA PRATICHE E POLITICHE


13 Evoluzioni e involuzioni delle migrazioni
di Roberta Altin
31 Progettare l’integrazione
di Flavia Virgilio
51 Tavoli, sportelli e servizi per l’immigrazione
di Paolo Tomasin
61 Nostalgia del futuro. Prospettive pedagogiche e
interdisciplinari
di Roberto Albarea

SECONDA PARTE FARE RICERCA NEI CONTESTI MIGRATORI


83 Un possibile framework per l’analisi dei luoghi
pubblici come contesti di educazione informale
alla cittadinanza
di Davide Zoletto
95 Fare ricerca etnografica nei contesti migratori
di Maria Cristina Cesàro
107 Famiglie in polvere fra prototipi e pratiche
di Barbara Vatta

123 CONCLUSIONI
di Flavia Virgilio
133 Bibliografia
147 Gli autori
149 Ringraziamenti
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Introduzione
(Roberta Altin)

Cittadini si nasce o si diventa? È un diritto o un dovere?


Si è cittadini per diritto di sangue? Di territorio? E oggi che è sem-
pre meno scontata la permanenza nello stesso luogo di nascita, cosa
facciamo di quei 200 milioni di persone stimate da fonti autorevoli
(UNPDP 2009) che vagano per il pianeta e spesso negli ultimi anni si
fermano anche in Italia?
Il titolo ‘ordinarie’ migrazioni vuole sottolineare proprio la normalità
dei flussi migratori nella storia e nella contemporaneità. Lo ribadiscono
genetisti (Cavalli Sforza 1999), demografi (Golini 2003), storici (Gozzini
2008) e antropologi (Inda e Rosaldo 2002), eppure si continuano a leg-
gere e a percepire le presenze migranti come ‘invasioni’, esodi, sbarchi,
movimenti irregolari, sotterranei, da temere, arginare, contenere e, so-
prattutto, da bloccare come se i flussi provenissero da tubature che ‘per-
dono’. La realtà sociale, fatta di statistiche demografiche, ma anche di
pratiche quotidiane (Ong 2005) indica invece una presenza ormai sta-
bile di immigrati in Italia e in Friuli Venezia Giulia, inserita nel tessuto
sociale e nel territorio che modificano vivendolo con e tra gli altri citta-
dini italiani.
Questa pubblicazione riporta i risultati e le interpretazioni di una
ricerca triennale sull’immigrazione straniera e sull’educazione alla cit-
tadinanza attiva condotta nel territorio del basso Friuli corrispondente
al Distretto di Cervignano del Friuli. Il progetto di ricerca è stato impo-
stato parallelamente ad una serie di azioni finalizzate a preparare un
percorso di partecipazione, integrazione e cittadinanza attiva della po-
polazione straniera, e non.
Dal punto di vista prettamente scientifico sono state analizzate le ca-
ratteristiche dell’immigrazione nel territorio attraverso il reperimento
di fonti e dati statistico-quantitativi, integrati con una campagna di ri-
cerca sul campo di tipo qualitativo che ha utilizzato come strumenti pre-
valenti le interviste semi-strutturate, l’osservazione partecipante e i
focus group, sia con la popolazione straniera, sia con quella autoctona
coinvolta a vario titolo nella questione (amministratori, operatori so-
ciali, referenti del volontariato locale, insegnanti L2 ecc.). Parallelamente
al monitoraggio degli strumenti e servizi per immigrati già attivati, sono
state intercettate e intervistate tutte le figure utili a funzionare come
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‘mediatori’ fra gli stranieri e la società di accoglienza. Poiché qualsiasi


azione e direzione sociale riguardante i flussi migratori non può non
tenere in debito conto la società ospite, sono stati organizzati alcuni in-
contri, tra cui proiezione e discussione aperta di documentari a tema,
dibattiti, formazione con insegnanti e alunni, tavole rotonde, per sensi-
bilizzare e stimolare la riflessione sul tema della società interculturale
a livello di comunità locale. Per mirare tali interventi in maniera speci-
fica, le proposte sono state calibrate e pensate per specifiche fasce della
popolazione, in base all’età, con le scuole del territorio, o in base al ge-
nere, intercettando e collaborando con associazioni e istituzioni già at-
tive nella comunità.
Ricerca e documentazione sono state portate avanti parallelamente
all’opera di sensibilizzazione (con gli amministratori locali, immigrati e,
per quanto possibile, sulla comunità locale), per concludersi con una
restituzione pubblica dei risultati del progetto. Il volume, tuttavia, non
vuole essere un semplice rapporto di ricerca e cerca di fare il punto
della situazione sullo stato dell’arte dell’integrazione straniera dopo
vent’anni di inserimenti e stabilizzazioni in questa regione del Nord-Est
collocata in posizione geo-politica davvero liminale.
Gli autori di questa pubblicazione sono stati tutti coinvolti diretta-
mente a vario titolo in questo percorso di ricerca-azione; il quadro che
ne esce è, di fatto, una sintesi che rielabora quanto emerso in questi
anni di comune lavoro di progettazione e costruzione di nuove prati-
che di cittadinanza che coinvolgessero anche (e non solo) gli stranieri
immigrati.
La prima parte del volume Integrazione e cittadinanza: tra pratiche e
politiche offre un resoconto sintetico di quanto realizzato concretamente
nell’ambito di Cervignano del Friuli per l’integrazione degli immigrati
e l’educazione alla cittadinanza, con riflessioni critiche su quanto già
effettuato, le ricadute e i risultati ottenuti e quanto, anche come intento
pedagogico, resta ancora da fare. Il primo capitolo introduce e descrive
la situazione attuale dei flussi migratori in Friuli Venezia Giulia, con un
bilancio delle evoluzioni dinamiche negli ultimi decenni in rapporto
alla popolazione locale e alle tendenze in atto che collegano il contesto
locale sempre più a scenari transnazionali.
Flavia Virgilio nel secondo capitolo riporta le diverse fasi tra il 2000
e il 2009 e i passaggi dei piani di lavoro per l’integrazione degli immi-
grati realizzati nell’Ambito Distrettuale di Cervignano del Friuli, ana-
lizzando il concetto di progettazione come pratica operativa e discorsiva
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INTRODUZIONE 9

e come dispositivo per promuovere il mutamento sociale che, paralle-


lamente diventa il luogo di costruzione di rappresentazioni. Il contri-
buto di Paolo Tomasin delinea il passo seguente della ricerca-azione:
come valutare l’integrazione dei cittadini stranieri, focalizzandosi sugli
strumenti e sulle metodologie adottate, soprattutto per il monitoraggio
di tavoli, sportelli e servizi.
In Nostalgia del futuro Roberto Albarea affronta i temi della pedago-
gia dell’accoglienza, del viaggio e dell’ospitalità. Analizzata in un’ottica
interdisciplinare, la nostalgia del futuro non è più il rimpianto postmo-
derno per la comunità perduta del passato, ma una metafora per rac-
contare e descrivere la collettività del futuro, che si costruisce a partire
da una rielaborazione percettiva e intellettiva delle cose e delle persone
in un percorso verso identità sostenibili che oscillano in pluri-apparte-
nenze, tra locale e globale.
La seconda parte del volume, Fare ricerca nei contesti migratori, parte
dalle concrete esperienze sul campo e si propone come strumento ri-
flessivo e di orientamento utile per operatori, ricercatori, studenti o altre
professionalità che si trovino ad operare in ambiti collegati alla pre-
senza di immigrati. Davide Zoletto invita a rompere lo sguardo mono-
direzionale nei progetti di integrazione interculturale che osserva e
interviene sempre su specifici ambiti di intervento (scuola, lavoro, sanità
ecc.), e tralascia i contesti non formali e i luoghi pubblici come possibili
terreni di educazione alla cittadinanza comune, che nasce proprio dalla
condivisione di pratiche e piaceri comuni. Maria Cristina Cesàro mostra
concretamente cosa significhi fare ricerca etnografica nei contesti migra-
tori: vantaggi e difficoltà di un’antropologia che si gioca in casa, ma che
presenta altri tipi di impedimenti o che, forse, proprio a partire dagli
intoppi riesce a trarre informazioni e piste interpretative per condurre
la ricerca. Barbara Vatta descrive il reticolo di legami parentali e sociali
delle famiglie che risiedono nel territorio coinvolto in questa ricerca. Se
il prototipo di riferimento, la famiglia ‘immaginata’, resta quello della
famiglia anni ’50, la realtà e le pratiche mostrano cambiamenti impo-
nenti che spiegano la debolezza e la frantumazione dei legami fami-
liari, un quadro in cui i cittadini stranieri fungono da specchio per
riflettere e mettere a fuoco le famiglie di fatto che, anche se ‘polveriz-
zate’, ammortizzano la debolezza dello stato sociale e dei servizi.
Difficile liquidare la complessità dei fenomeni migratori contempo-
ranei con un’unica chiave di lettura perché i percorsi, le storie personali,
le dinamiche politiche ed economiche costantemente e rapidamente in
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divenire ci mettono di fronte a una moltiplicazione di modelli migratori


che si ricollegano peraltro a scenari transnazionali. L’integrazione non
è un fenomeno organico-biologico, di accettazione o totale espulsione
del corpo estraneo. È un processo di comunicazione e di reciproco adat-
tamento, spesso su tempi lunghi, che coinvolgono più generazioni. È un
rapporto di potere, spesso squilibrato; più che aprire o chiudere le
porte spesso quello che si verifica è una parziale dis-chiusura, che in-
clude in maniera selettiva e differenziale.
Se l’obiettivo è educare alla cittadinanza attiva, lo sguardo non può
concentrarsi solo su questo presunto ‘corpo esterno’ che deve (vuole?)
inserirsi nella società di accoglienza, andando a cercare solo lì le moti-
vazioni dell’eventuale mancato (o parziale) inserimento. Certo, è im-
portante sapere le provenienza, motivazioni e progettualità degli
immigrati che risiedono in Italia e in Friuli Venezia Giulia, ma è altret-
tanto importante vedere e cercare di capire lo stato di fatto della società
che dovrebbe ‘integrarli’ perché, come diceva Sayad (2002), le migra-
zioni sono sempre dei fatti sociali totali che funzionano da specchio per
la società che li accoglie. Nonostante le retoriche sulle appartenenze lo-
cali, i proclami di difesa dall’invasione dei ‘barbari’ che destabilizzano
l’ordine e la coesione delle nostre comunità, la cittadinanza va costruita
nello spazio sociale reale, vissuta nelle pratiche quotidiane e non nelle
comunità ‘immaginate’ che alimentano la nostalgia bucolica del passato
e la paura del futuro, senza voler guardare in faccia il presente.
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PRIMA PARTE

INTEGRAZIONE E CITTADINANZA: TRA PRATICHE E POLITICHE


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Evoluzioni e involuzioni delle migrazioni


(Roberta Altin)

1. Evoluzioni
L’obiettivo di tre anni di ricerca e azioni condotte nell’ambito di Cer-
vignano del Friuli era quello di creare vari percorsi per stimolare, ali-
mentare, sostenere l’inserimento e l’integrazione degli immigrati stranieri
in vari contesti, dalla scuola ai servizi sociali, tempo libero, vita politica
ecc. La sintesi e le considerazioni raccolte in questa pubblicazione vo-
gliono però allargare lo sguardo, cercando di usare il materiale emerso
nel corso della ricerca per mettere a fuoco le dinamiche in atto, eviden-
ziando le trasformazioni dei processi di migrazione e di integrazione nel
contesto regionale negli ultimi anni.
Sono infatti almeno vent’anni ormai che il Friuli Venezia Giulia, come
gran parte dell’Italia, è coinvolto in flussi di immigrazione che hanno de-
terminato una lenta, costante crescita del numero delle presenze straniere
e, soprattutto, un cambiamento delle tipologie migratorie e degli scenari
sociali in cui si giocano. Rispetto alla fine degli anni ’80 - primi anni ’90, pe-
riodo dei primi arrivi e insediamenti, e alle diverse fasi di ‘emergenza’, le-
gate soprattutto alle vicende belliche nella vicina repubblica ex jugoslava,
l’immigrazione è divenuta un fenomeno di ordinaria quotidianità. Oltre a
rappresentare la porta d’ingresso e/o di transito dall’Est via terra, la Re-
gione ormai da anni accoglie un tipo di migrazione che sceglie questo ter-
ritorio per un insediamento regolare, con progettualità a medio-lungo
termine e desiderio di integrazione. Dagli anni ‘90 i flussi si sono modifi-
cati in parte per eventi esterni, come le guerre e i conflitti balcanici, il crollo
economico e politico delle repubbliche dell’Europa orientale e, in parte,
per cambiamenti legislativi interni (dalla legge Martelli, alla Turco-Napo-
litano per finire alla Bossi-Fini) con ovvie ricadute e ripercussioni in am-
bito locale. L’evoluzione del fenomeno migratorio va verso la stabilità e
regolarità, nonostante il tam tam serrato dei telegiornali e dei quotidiani
che enfatizzano qualsiasi episodio di cronaca inerente la popolazione stra-
niera e il clima politico continui a cavalcare il tema ‘sicurezza’, favorendo
allarmismi e sindromi da invasione.
Per varie motivazioni, non solo geografiche, il Friuli ha assorbito in ma-
niera fluida gli arrivi stranieri, che sono andati il più delle volte a inse-
diarsi negli spazi lasciati vuoti dai friulani, sia per quanto riguarda
l’ambito occupazionale, che residenziale. In termini numerici assoluti le
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14 ORDINARIE MIGRAZIONI

maggiori concentrazioni si riscontrano nei centri urbani capoluoghi di


provincia, ma in rapporto alla popolazione locale gli insediamenti più im-
portanti li troviamo nei comuni di dimensioni medio-piccole dell’area di
pianura (IRES 2007).
Nella bassa friulana, ma il discorso è estensibile a buona parte della
regione, le presenze straniere non si sono concentrate in aree-ghetto, né
hanno seguito il rigido condizionamento delle catene etniche migratorie.
Questo si spiega in parte con la geografia umana e urbanistica regionale,
un tessuto articolato prevalentemente su piccoli-medi centri abitativi, in
parte per le caratteristiche economiche della produzione del Nord-Est, a
sua volta basata prevalentemente su imprese di piccole dimensioni,
spesso a conduzione familiare. Monfalcone è stato l’unico insediamento
che ha concentrato forte manodopera con presenza straniera prevalente-
mente asiatica, dal Bangladesh in particolare, per i grossi appalti dei can-
tieri navali (Quattrocchi, Toffoletti, Tomasin 2003).
Per il resto l’immigrazione in regione si presenta come un fenomeno
composito per nazionalità, motivazioni, scelte e progettualità, che non tra-
pela dalla piatta realtà dei numeri demografici. Scarsa la criminalità e la
conflittualità dal punto di vista occupazionale: finora la forza lavoro im-
migrata è stata reclutata per lavori di semplice manodopera e servizi alla
persona, meno ambiti dalla popolazione autoctona per questioni di status
e di remunerazione. Regione di confine, che ha visto da secoli domina-
zioni e passaggi di varie popolazioni, il Friuli e la maggior parte del Nord
Italia si ritrova oggi in una posizione di difesa per arginare la supposta in-
vasione di immigrati, una minoranza fatta in realtà di piccoli numeri (Ap-
padurai 2006) e politicamente estremamente debole. Stranamente nella
categoria ‘stranieri’ non vengono conteggiati, né temuti gli statunitensi che
hanno sì di fatto invaso e modificato la base e il centro di Aviano, né gli
scienziati internazionali del Centro di fisica Abdus Salam di Trieste; del
resto, come evidenzia Sayad (2002: 311), “non esistono immigrati che non
siano originari dei paesi dominati”.
Nonostante la stabilità dei fenomeni e l’ormai ventennale presenza
straniera con cui già conviviamo, la percezione della migrazione è di un fe-
nomeno“provvisorio che dura”(Sayad 2002: 388), fenomeno non solo eco-
nomico ma politico nel senso più ampio del termine, perché mette in luce
e in discussione idee e concetti di cittadinanza e integrazione sociale, per
migranti e autoctoni. Non si guarda tanto ad un ‘presente’ sociale che è
già di fatto interetnico senza reali grossi problemi, ma ci si continua a pro-
iettare verso un futuro ‘immaginato’ (Anderson 2005) dove la paura del-
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EVOLUZIONI E INVOLUZIONI DELLE MIGRAZIONI 15

l’invasione, di cifre gonfiate e di conflitti culturali alimentano insicurezza


e allarmismi, basati prevalentemente su ipotesi e congetture. Molti sono i
titoli allarmistici sulle cronache locali e troppo pochi gli studi sull’immi-
grazione in quest’area di confine.
La Regione era stata dotata di una prima legge sull’immigrazione nel
2005, considerata una delle più avanzate in Italia (Caritas/Migrantes 2009:
186), ma abrogata nel 2008 dalla rinnovata amministrazione regionale. La
politica e la crisi economica in atto hanno determinato tagli drastici e l’im-
mediato annullamento di tutti i precedenti lavori di coordinamento e pro-
gettazione sociale riguardante la popolazione immigrata. Opinione
pubblica e politica continuano a vedere le migrazioni come un fenomeno
meccanico, un rubinetto idraulico che basterebbe chiudere con più de-
terminazione per bloccare un flusso di persone che seguono in realtà mo-
vimenti transnazionali e, spesso, vanno a coprire bisogni locali (le
cosiddette badanti, tanto per citare solo un esempio).
Nel frattempo, l’imponenza dei flussi migratori nel panorama mondiale e
la globalizzazione economica hanno modificato gli approcci di osserva-
zione e analisi delle migrazioni. L’accelerazione nei cambiamenti dei si-
stemi economici e comunicativi di quest’ultimo periodo ha reso
impossibile descrivere alcun fenomeno migratorio oggi senza tener conto
delle sue implicazioni in reti transnazionali di flussi demografici, econo-
mici, finanziari e comunicativi (Appadurai 2001; Gupta, Ferguson 1997;
Glick Schiller, Green Basch, Szanton Blanc, 1992).
Compare sempre più spesso il termine ‘diaspora’ per indicare schiere
di popolazioni che migrano in un reticolo internazionale di percorsi di
fuga e/o di riscatto e speranza (Cohen 1997). L’approccio è sempre più
transnazionale: non è più sufficiente l’osservazione dal punto di vista sta-
tico del luogo d’insediamento, né si possono caricare solo sul fardello del-
l’area e cultura d’origine le implicazioni e cause delle complesse
dinamiche di inserimento e integrazione dei migranti (Hannerz 2002).
Transnazionalismo ma anche storicità dei processi, che sono profonda-
mente calati nelle dinamiche evolutive della storia, non generalizzabili in
termini atemporali, come vorrebbero le facili letture interpretative basate
sui ‘conflitti di civiltà’ e di culture (Huntington 2000).
È necessaria quindi un’osservazione degli specifici contesti locali e gli
sguardi da incrociare sono molteplici per considerare le migrazioni non
più solo come fenomeni economici o demografici, ma come fatti sociali
totali, che coinvolgono la società di chi migra e quella di accoglienza. In-
fatti, e di fatto, i flussi migratori sono andati sempre più verso una stabi-
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lizzazione, con un costante incremento delle presenze negli anni, met-


tendo in luce, soprattutto nel nuovo millennio, due fenomeni importanti:
una forte presenza femminile1, solo in parte conseguenza di ricongiungi-
menti familiari, e l’incremento delle seconde generazioni, spesso nate in
Italia, ma considerate straniere e ‘immigrate’ fino al compimento della
maggiore età.

1.1 Migrazioni femminili


All’inizio della ricerca, quando contattammo i volontari dell’AUSER
per cercare qualche forma di collaborazione sul tema delle migrazioni,
fummo invitati ad uno spettacolo ‘interculturale’ organizzato dal gruppo
artistico “Kalinka” in una ex-scuola di Fiumicello. Lo spettacolo non era
alla sua prima rappresentazione e aveva già riscosso un buon successo in
varie località della bassa friulana.
“Kalinka” è sorto per iniziativa di un paio di immigrate provenienti
dalla Russia e Ucraina che, dopo aver frequentato i corsi di lingua italiana,
in un primo momento si sono offerte come insegnanti di lingua russa e poi
hanno organizzato una mini-compagnia teatrale. La rappresentazione
mette in scena attori dilettanti friulani dell’Università per la terza età che
recitano e cantano fiabe e canti tradizionali russi in lingua originale. Il
pezzo forte dello spettacolo è la fiaba popolare del topolino stupido:
mamma topo deve trovare una baby sitter fra i vari animali, ma il figlio, vi-
ziato, rifiuta tutti per scegliere, ammaliato dai suoi modi seduttivi, la gatta,
con cui farà chiaramente una brutta fine. I friulani del posto si travestono
da topolini, pesce, cavallo, ecc., ma il ruolo della gatta furba e sorniona è
affidato ad una badante, ironia di un ruolo visto e vissuto ancora in ma-
niera ambigua?
La novità dell’ultimo decennio è stata infatti l’arrivo massiccio di donne
emigranti da sole, soprattutto dell’Est. Le cosiddette badanti, ma non solo,
donne spesso non più giovani (l’età media è di 43 anni), che migrano con
un bagaglio di esperienze e spesso già una famiglia costruita in patria. Si-
curamente utile, poco problematica per la società di accoglienza, l’immi-
grazione femminile di questo genere non genera integrazione, anzi al
contrario spesso determina segregazione. L’esempio del felice esperi-
mento “Kalinka” indica un forte bisogno da parte di queste donne di tro-
vare spazi di espressione e contatto umano anche al di fuori delle case in
cui sono rinchiuse per quasi tutta la settimana ad accudire anziani, spesso
non-autosufficienti. La maggior parte di quelle incontrate nella ricerca
sono in possesso di diploma o laurea, con famiglia e figli lasciati in patria
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EVOLUZIONI E INVOLUZIONI DELLE MIGRAZIONI 17

e vivono una condizione schizofrenica dal punto di vista esistenziale ed af-


fettivo (Vietti 2010).
È una migrazione che dal punto di vista lavorativo si incrocia perfetta-
mente con il crescente bisogno di assistenza agli anziani e bambini, of-
frendo una comoda soluzione di supporto ai buchi di un welfare state
sempre più avaro di servizi, anche per le donne italiane (vedi anche Vatta
in questo volume). Non è un caso che tutti i governi, anche quelli che mag-
giormente hanno impostato il programma elettorale in termini di chiu-
sura delle frontiere e respingimento degli immigrati, abbiano sempre
sostenuto sanatorie e quote di ingresso per chi viene impiegato nei lavori
di cura e di assistenza domiciliare.
Le migrazioni femminili non sono un fenomeno recente, nuova è l’at-
tenzione al fenomeno, forse collegata ad una maggiore presenza di donne
che si occupano di migrazioni e scienze sociali, più che a mutazioni dei
fenomeni migratori (Boz 2010; Salih 2003; 2008). Se le donne migravano o
migrano per seguire il marito, la loro presenza e incidenza restava per lo
più invisibile o, al massimo, veniva riconosciuto loro un ruolo di media-
zione attraverso l’inculturazione dei figli che nascevano nella nuova patria
e il mantenimento dei contatti parentali e amicali con la zona di origine.
Solo ultimamente, utilizzando metodi di indagine orale che ricostruiscono
storie e percorsi di vita, non solo dal punto di vista lavorativo e occupa-
zionale, comincia ad emergere l’importanza delle donne migranti e anche
il vissuto spesso molto diverso dall’uomo, sebbene spesso con questo con-
diviso e convissuto (Verrocchio, Tessitori 2009).
Le donne straniere risultano più facilmente intervistabili e contatta-
bili, soprattutto perché, a differenza degli uomini, spesso si rivolgono ai
servizi per loro o per la loro famiglia e frequentano i corsi di lingua ita-
liana. Oltre alla migrazione indipendente ci sono le mogli e madri, di di-
verse provenienze e storie di vita: abbiamo incontrato donne marocchine
con tre figli nati in Italia che non sapevano ancora praticamente parlare
italiano, ma parallelamente anche marocchine di nuova generazione, im-
migrate al seguito di fratelli, che usano il ricongiungimento familiare come
strumento per trovarsi una via di fuga e di vita indipendente che in patria
non avrebbero potuto realizzare. Difficile davvero trovare un unico profilo
che sintetizzi le varie situazioni. È vero che in tutte le donne si nota un
gran bisogno di integrazione, soprattutto se hanno figli e la necessità,
spesso, di creare delle reti relazionali che vadano almeno in parte a sosti-
tuire il vuoto del supporto familiare lasciato a casa. I figli, la scuola, la con-
divisione creano legami con altri madri e donne, ma uno dei problemi
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emersi è che in cittadine di piccole-medie dimensioni, di fatto, si inse-


guono nelle varie tappe di crescita dei figli, i diversi servizi e scuole sparsi
sul territorio; una volta sparito il contatto, sparisce il legame perché la ten-
denza locale è quella di fare cerchio intorno alla propria famiglia, più o
meno allargata, con scarso interesse ad altre forme di socialità. Non si può
quindi parlare di fenomeni di razzismo o di pregiudizi, ma di una forma
di socialità chiusa, che nella fase di transizione dalle vecchie comunità ru-
rali, non ha saputo adeguare le modalità di vivere collettivo, ripiegandosi
nella famiglia come unico ‘contenitore’ per le relazioni sociali. Da qui una
serie di problematiche che non riguardano solo i rapporti con i ‘forestieri’
ma, come sottolineava più volte il parroco di Cervignano del Friuli, con
tutta la collettività locale. Il benessere ha di fatto alimentato anche dal
punto di vista abitativo e dei trasporti una chiusura autosufficiente sul nu-
cleo familiare, che mostra tuttavia segni di crisi, ben evidenti già nel senso
di precarietà e insicurezza che, qui come altrove, è quello che predomina
come sentimento quotidiano, nonostante i fatti reali indichino un livello
bassissimo di criminalità.
Le azioni condotte sul fronte ‘pari’ opportunità possono essere di fatto
lo strumento più efficace per alimentare una reale integrazione sociale di
tutte le componenti sociali, che può avere ricadute positive soprattutto sul
medio-lungo periodo e sulle nuove generazioni che vivono nel territorio.

1.2 Tra diverse generazioni


Sono sempre più numerosi gli stranieri che acquisiscono la cittadi-
nanza italiana; il Nord-Est è l’area italiana che si caratterizza per il mag-
gior numero di naturalizzazioni, altro indice di stabilizzazione.
Parallelamente crescono le nuove generazioni: figli di immigrati nati e
residenti in Italia, di fatto ancora stranieri. Dal punto di vista territo-
riale l’insediamento distribuito a maglie larghe sul territorio evita la
concentrazione e quindi la ghettizzazione dei giovani stranieri. L’inda-
gine effettuata tra le associazioni sportive, giovanili e ricreative non ha
dato tuttavia dati molto confortanti sulla com-presenza straniera: scarso
mescolamento con i giovani del posto nel mondo associazionistico e
sportivo locale anche nelle fasce di età giovanile.
Il problema può essere di natura economica o, più facilmente, logistica:
per svolgere attività nel tempo libero bisogna spesso spostarsi con l’auto
e i genitori immigrati in genere hanno già sufficienti problemi ad orga-
nizzarsi fra casa-lavoro-scuola per poter supportare anche questi ambiti
di sviluppo ‘facoltativi’ della vita dei figli.
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EVOLUZIONI E INVOLUZIONI DELLE MIGRAZIONI 19

Con alcune scuole secondarie, già da anni fortemente impegnate sul


fronte ‘intercultura’ sono stati organizzati dei percorsi di ricerca-azione.
Oltre a lezioni e workshop preparatori con studenti e insegnati, è stato
impostato un lavoro di supporto che ha portato alla realizzazione di al-
cuni video clip sul tema ‘Chi è lo straniero?’ che hanno partecipato alla se-
lezione per il premio Terzani2. L’idea era quella di far emergere tramite
linguaggio audiovisivo il modo di relazionarsi e, soprattutto, la rappre-
sentazione dello straniero in studenti di circa 15-16 anni che vivevano già
di fatto in classi multietniche. Al di là delle problematiche ‘tecniche’ (ri-
prese, montaggio ecc.) il risultato è stato abbastanza deludente: dai video
usciva soprattutto l’immagine stereotipata da scoop giornalistico dove lo
straniero è un personaggio con storia di vita straordinaria, quasi sempre
clandestino con prove da superare, arrivato attraverso peripezie avventu-
rose e drammatiche. Il tono resta prevalentemente paternalistico o com-
miserativo; non sembra emergere nemmeno fra giovani che vivono di
fatto in classe con coetanei stranieri l’idea di una convivenza normale e or-
dinaria ma, complice l’abitudine allo stile televisivo allarmistico, sempre
qualcosa di ‘straordinario’, nel bene (lo straniero che parla l’italiano me-
glio di un ‘vero’ italiano) o nel male (peripezie per la sopravvivenza, soli-
tudine, clandestinità).
Anche una parte degli insegnanti resta ancorata a un’idea di alunno
straniero fortemente condizionato e connotato dalla sua nazionalità e ori-
gine, anche se nato o residente in Italia da molti anni. Focalizzarsi sulla
nazionalità fa scivolare spesso in secondo piano il problema del conflitto
intergenerazionale per i figli di immigrati: per le seconde generazioni l’Ita-
lia è il loro paese, quello in cui sono nati e cresciuti, identificarli in toto con
il paese d’origine (e cultura) dei loro genitori è un grosso errore che crea
ambiguità anche nel processo di identità. La problematica poi spesso tra-
lascia altre componenti in gioco, come la classe e il capitale sociale: un
bambino figlio di immigrati poveri e semi-analfabeti proverà sentimenti
di imbarazzo o vergogna per il proprio nucleo familiare; chi è figlio di im-
prenditori o di immigrati che sono riusciti nella loro scalata socio-econo-
mica, probabilmente ne sarà fiero.
Va anche sottolineato che, mancando la naturalizzazione di fatto, si de-
lega quasi completamente alla scuola il compito di integrare i figli, da en-
trambe le parti. Come evidenziava Sayad (2002: 326-327): “C’è una
profonda omologia tra la funzione della scuola e la funzione della natu-
ralizzazione e, con le dovute proporzioni, anche tra i sistemi di aspetta-
tive nei confronti di queste due istituzioni. A volte, e non senza qualche
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20 ORDINARIE MIGRAZIONI

illusione da sacrificare, i genitori immigrati si aspettano che queste istitu-


zioni garantiscano ai figli ciò che loro, da soli, non possono garantirsi e
che nessun’altra istanza garantisce loro. Se lo aspettano dalla scuola, o
meglio, da quella ‘metamorfosi’ che pensano la scolarizzazione operi sui
loro figli e se lo aspettano dalla loro naturalizzazione... Essi sperano che
tale legittimità sia meno discutibile e meno revocabile di quella che deriva
dal loro lavoro, così da poter esistere pienamente, anche se per procura: la
procura è quella data ai loro figli e quella che questi ultimi rendono loro
in cambio”. Ma la scuola è un ascensore che lascia spesso ai piani infe-
riori i figli (non naturalizzati) degli immigrati. I dati sull’abbandono sco-
lastico nelle scuole superiori sono un drammatico segnale di quanto le
dinamiche di potere ed esclusione differenziale si mescolino a quelle so-
ciali ed economiche.
Se consideriamo le migrazioni come ‘fatti sociali totali’ l’analisi non
può venir disgiunta da uno sguardo che contempli anche l’andamento de-
mografico della società d’accoglienza, dove si riscontra, costante, l’au-
mento della componente anziana e un indice di scarsa natalità (se
togliamo la fetta consistente di nascite di ‘immigrati’). Gli incroci e le in-
terazioni messe in atto nel processo di integrazione devono tener conto
anche dei fattori generazionali, considerando che le dinamiche si giocano
non solo in un confronto con presenze immigrate straniere, ma nell’in-
tersezione tra diverse fasce d’età, di mentalità e di genere.
Gli italiani anziani ancora autosufficienti sono una componente
numerica importante, presente e attiva in molte associazioni locali,
come l’AUSER con cui abbiamo in effetti collaborato soprattutto sulla
sensibilizzazione al tema immigrazione. Fra le varie iniziative pub-
bliche organizzate per sensibilizzare e informare sul tema ‘migra-
zioni’ sono stati proiettati due documentari che descrivevano diversi
percorsi dell’emigrazione storica friulana in varie aree geografiche,
periodi storici e con differenti esiti, entrambi seguiti da un dibattito
che stimolava a riconoscere piani di affinità e somiglianza tra emi-
grazione ed immigrazione.
Spesso l’esito è sconfortante: anche di fronte a parallelismi sconcer-
tanti, non si accetta di vedere la similarità dei fenomeni. Si osserva e
ascolta con molta attenzione i resoconti di chi ammette di essere emi-
grato per necessità, per sfuggire dalla povertà, ma subito dopo si ribatte
che ‘noi emigravamo perché ci chiamavano, non come questi’, oppure si
rivendicano doti di operosità e competenze professionali ‘tipicamente’
friulane, ma nulla si conosce di laureati e professionisti stranieri che
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EVOLUZIONI E INVOLUZIONI DELLE MIGRAZIONI 21

svolgono mansioni di manodopera generica molto al di sotto delle loro


competenze e aspettative. Alle proiezioni alcuni venivano accompagnati
dalle loro badanti; il commento di una signora del pubblico riferito a
una di loro è stato: “È brava, sa, pensi che nel suo paese faceva l’inge-
gnere’, con tono orgoglioso. La dovuta implicita accettazione passiva di
queste donne non fa balenare mai il dubbio che queste siano profes-
sionalità messe all’asta, in base alla ruota della fortuna che decide spazi
e tempi esistenziali. Emigrazione e immigrazione sono meccanismi so-
ciali che hanno bisogno di ignorarsi come tali per poter continuare a
venir considerati come fenomeni distinti.
Va detto che molti stranieri, soprattutto donne, hanno sottolineato
la disponibilità dell’Auser e di una parte della popolazione anziana nei
loro confronti, nell’offrire consigli e aiuti pratici. In effetti il quadro de-
mografico con il costante incremento della popolazione anziana, sicu-
ramente la fascia di età con maggiore tempo libero disponibile,
potrebbe determinare scambi e relazioni positive tra persone che in-
crociano diversità di tempo anagrafico e di luoghi geografici; il pro-
blema è che spesso gli autoctoni anziani, soprattutto se hanno vissuto
stili di vita molto circoscritti e chiusi, fanno molta resistenza a modifi-
care mappe cognitive e rappresentazioni sociali stereotipate nei con-
fronti di chi viene da fuori, e non necessariamente di altra nazionalità,
basta già che provenga dal Sud Italia.

2. Involuzioni: la mancata interazione con gli autoctoni


Fra gli obiettivi della ricerca c’era inizialmente quello di trovare alcune
forme di interazione con gli stranieri residenti nell’ambito per costruire
una forma di dialogo con l’amministrazione e di rappresentanza anche
politica che potesse sfociare in una consulta degli immigrati (ASGI-FIERI
2005). Nei tre anni il cambio di clima politico e una serie di ostacoli anche
da parte della popolazione straniera ha fatto naufragare il progetto ini-
ziale. La prima difficoltà riscontrata è stata l’assenza totale di forme di as-
sociazionismo o anche solo di aggregazione per stranieri; gli unici punti di
incontro informale sono la piazza centrale di Cervignano del Friuli ed un
bar, dove è stato possibile contattare le leadership informali delle varie
nazionalità. Nessun luogo di culto o di svago, a differenza di Udine e Mon-
falcone, dove esiste ormai una rete consolidata di associazioni su base et-
nico-nazionale, religiosa, sindacale ecc.
Quando si tratta di difendere i diritti, le associazioni continuano a man-
care; come emerge da molti rapporti di ricerca Caritas e CESPI, la tendenza
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22 ORDINARIE MIGRAZIONI

degli immigrati è di non esporsi, non farsi vedere ‘in prima fila’ e di non
prendere posizione, perché non ci si sente sicuri e tutelati o, come associa-
zioni, perché ci si preoccupa di non perdere l’accesso ai pochi contributi
esistenti. L’unica associazione messa in piedi e funzionante è stata quella
rumena, vedi caso proprio di un gruppo che non ha grossi problemi di cit-
tadinanza, né di permessi di soggiorno.“È ovvio che la maggioranza degli
immigrati non può che subire l’assegnazione delle categorie socialmente
condivise. Il migrante si rende conto che non sarà mai riconosciuto come
‘cittadino del mondo’, né potrà mai rivendicare il diritto di rifiutare un’ap-
partenenza specifica; sembra più semplice, o assolutamente necessario,
‘stare al gioco’. La migrazione è sempre un ‘adeguarsi’, a volte un adeguarsi
solo ‘di facciata’, e spesso induce i suoi protagonisti a far propria l’etichetta
che ‘gli altri’ appiccicano loro” (Palidda 2008: 23).
Del resto, anche la difficoltà a coinvolgere la componente straniera nel
percorso di costruzione della consulta è sicuramente imputabile alla de-
bolezza dell’offerta che non poteva contemplare la vera rappresentanza
politica passante solo attraverso il diritto di voto. In questo e in altri casi,
la linea tenuta normalmente dagli stranieri residenti è quella di non
esporsi e di cercare personalmente il riconoscimento solo in caso di biso-
gno di eventuali specifici servizi e diritti. Gli immigrati sono condannati
“a oscillare tra strategie di riconoscimento e di sovversione, senza posse-
dere i mezzi né per l’una né per l’altra, ovvero senza poter imporre a se
stessi o agli altri questo riconoscimento e senza poter trovare nel contesto
del’immigrazione le condizioni di possibilità per una strategia sovversiva
efficace” (Sayad 2002: 341).
Il passaggio e cambiamento si operano in genere quando lo straniero
viene ‘naturalizzato’ e acquista, al termine di 10 anni di un apprendistato
civile spesso simile ad una corsa ad ostacoli, il diritto a celebrare in Co-
mune l’acquisizione della nuova cittadinanza. Un passaggio burocratico
che spesso rivela, attraverso l’emotività e il tono celebrativo, un passaggio
rituale che chiude un percorso non sempre facile. A questo punto para-
dossalmente può succedere, come ha affermato un’intervistata a Cervi-
gnano del Friuli che “da quando sono diventata italiana mi sento più
straniera” (E.V. 15/11/2007). La maggior parte degli immigrati, come
emerge in altre recenti ricerche, anche se interessata a ottenere i diritti e
lo status di cittadino,“non ambisce a ottenere la cittadinanza del paese di
residenza, nemmeno dopo vent’anni di soggiorno, e mostra scarso inte-
resse per la naturalizzazione” (Sassen 1996: 139).
Dalle interviste agli abitanti e amministratori del territorio la sensa-
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EVOLUZIONI E INVOLUZIONI DELLE MIGRAZIONI 23

zione è che gli immigrati vengano vissuti e percepiti in base a due estremi
di invisibilità o eccessiva visibilità, che non contemplano una via di mezzo
normalizzante, ordinaria e rassicurante. Come già successo con il campo
profughi allestito in una caserma di Cervignano del Friuli per ospitare i
profughi durante i conflitti dell’ex-Jugoslavia (Bazoli 1995), o sono ‘troppi’,
‘troppo rumorosi’, comunque ‘troppo’ presenti nella vita quotidiana, op-
pure spariscono nell’invisibilità dei loro lavori in fabbrica, nel domicilio di
anziani e nelle case altrui da pulire. La sintesi della politica imperante a
Nord-Est sta nel Wanted, but not Welcome! (Zincone 2001; Bollafi 2001), ov-
vero va bene importare manodopera straniera a basso prezzo, purché non
compaia anche al di fuori dell’orario e degli ambiti di lavoro, soprattutto
non negli spazi pubblici e comuni.
Un esempio in questa lettera di una cittadina che si rivolge al sindaco
di Cervignano del Friuli nella rubrica di corrispondenza con i cittadini sul
sito del Comune: Gentile sig. Sindaco Le scrivo da Strassoldo, dove stiamo tutti
attenti alla raccolta differenziata, purtroppo ci sono degli extra comunitari che
non conoscono, o fanno finta, la nostra lingua. Mi trovo così nel bottino delle pla-
stiche i rifiuti vari, sia gli organici che no, nel bottino dei rifiuti vengono gettati i
cartoni della pizza, ecc.. Ci sarebbe un modo per sensibilizzare anche loro? Ma-
gari scrivendo in caratteri cubitali sul coperchio o, meglio, dato che non è gente
molto intelligente, fargli qualche disegnino? (M.L. 21/02/2010).
Al di là dell’evidente razzismo e senso di superiorità (scriviamo in ca-
ratteri cubitali...magari qualche disegnino), non si riesce davvero a com-
prendere quali tracce abbiano lasciato gli ‘extra comunitari’ per farsi
riconoscere come responsabili dell’errata raccolta differenziata di rifiuti.
Sono involuzioni nelle rappresentazioni che denotano diffidenza e scar-
sità di contatti o scambi, supportate spesso da letture politiche e mediati-
che che alimentano ostilità e paure.
Negli ultimi anni sono aumentate le presenze immigrate, ma paralle-
lamente è cresciuta la lettura demagogica e allarmistica di questo pro-
cesso, con un giornalismo superficiale che fomenta paura, differenziali-
smo e insicurezza. Costante l’etnicizzazione dei problemi: sia riguardo gli
stranieri, che attraverso l’esaltazione di modelli di sviluppo localistico, più
che locale. Spesso dietro paura e ostilità si cela in realtà la mancanza di
contatto, ma rompere questo meccanismo risulta sempre più difficile
con le sedimentazioni del passare del tempo.
Anche perché dal fronte degli immigrati, si percepisce un’integrazione
parziale, un’inclusione differenziale dove si è ‘dentro’ come forza lavoro,
ma fuori nell’espletamento delle molte altre funzioni umane. “Al di là di
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24 ORDINARIE MIGRAZIONI

ogni mitizzazione e retorica, la migrazione può essere considerata un atto


politico nel senso che è, nei fatti, un tentativo di agire liberamente... La let-
teratura a carattere storico propone una visione del migrante che tende a
categorizzarlo come vagabondo, povero, viandante, qualche volta ambu-
lante, insomma sulla base di una pura caratteristica economica oppure,
più raramente, come migrante ‘politico’. È quindi la dimensione econo-
mica a prevalere nella lettura delle mobilità umane”(Palidda 2008: 21), ma
è nel contesto di una crisi generale che si colloca la discussione contem-
poranea sulla cittadinanza (Zincone 2000).

3. Verso l’integrazione?
Dagli ultimi dati CNEL3 sull’integrazione nelle varie regioni italiane,
il Friuli Venezia Giulia si colloca al secondo posto assoluto, dietro l’Emilia
Romagna, in base ad indici di misurazione di dati oggettivi e strutturali
(casa, lavoro, salute, scuola ecc.) e di aspetti soggettivi che emergono da in-
terviste e analisi qualitative (pratiche, visioni, rappresentazioni ecc.). Il ter-
ritorio viene misurato per densità, incidenza stranieri, stabilità, inserimenti
lavorativi: l’inserimento sociale dall’accessibilità alla casa, dispersione sco-
lastica, devianza, naturalizzazioni, ricongiungimenti familiari.Vengono te-
nuti in considerazione sia motivazioni e tipo di percorso del migrante, sia
la situazione politica ed economica che trova nella società ospite, sia le in-
terazioni fra i due processi.
I problemi nella pianura friulana non sembrano sussistere eppure,
a distanza di vent’anni dai primi arrivi e con una presenza pari quasi al
10% di seconde generazioni nelle scuole della regione (Caritas 2009:
367), l’integrazione reale sembra ancora un processo lungo e infinito da
costruire. L’integrazione è vista come un percorso che coinvolge due
entità distinte, l’individuo che cerca di inserirsi, e anche di coesistere al
meglio, nel contesto di accoglimento e la società ospitante che lo aiuta,
lo lascia fare o lo ostacola nel raggiungere il proprio scopo. Nella sua ac-
cezione di processo, l’integrazione comprende tutte le modalità attra-
verso le quali l’immigrato può essere “incorporato” nella realtà di
adozione. L’inserimento può assumere, immaginando un continuum
che va dalla assimilazione al multiculturalismo, forme e caratteristiche
assai differenti.
Dai focus group e interviste con gli amministratori locali del comune
di Cervignano del Friuli il modello di integrazione che sembra trovare
maggiori consensi, è quello assimilazionista, nel quale le culture minori-
tarie sono fatte convertire alla cultura dominante. Le comunità più inte-
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grabili e integrate risultano essere quelle che negli usi, costumi e modi di
apparire si sono più ‘occidentalizzate’ o, meglio, friulanizzate. Alle diver-
sità si richiede una giusta negoziazione per entrare a far parte di un amal-
gama sociale che confonde le radici culturali, ma il processo di
integrazione è visto come monodirezionale, per essere integrati si dà per
scontato che gli stranieri apprendano gli elementi basilari che permettono
loro di diventare “più simili a noi”. La conoscenza dell’altro spesso non è
reale e si fonda su visioni stereotipate o luoghi comuni. Il rischio di que-
sto modello, come ci insegna il caso francese, è una rivendicazione ag-
gressiva delle differenze che potrebbe emergere con le seconde
generazioni, nate in Italia, ma relegate ancora in una posizione di serie B,
dal punto di vista sociale, politico ed economico. Altre politiche emerse
propendono per una visione ‘buona’, più paternalistica e tollerante, che
non affronta tuttavia i nodi critici; altre ancora, più realisticamente, ve-
dono poche alternative alla dicotomia fra chi vota e chi non ne ha ancora
diritto, perché senza potere non ci può essere di fatto rappresentanza po-
litica.
Criticità riportate nel corso della ricerca sono emerse in molti operatori
sanitari e scolastici che erogano regolarmente servizi agli immigrati, so-
prattutto difficoltà linguistiche, culturali, ma anche molte collegate alle
normative che cambiano continuamente, impedendo una seria progetta-
zione e realizzazione sul medio-lungo periodo. Si riscontra anche la sin-
drome di sfiducia e spesso sfinimento degli operatori sociali che da anni
si trovano a fronteggiare domande e richieste di assistenza dagli immi-
grati, senza strumenti e risorse adeguate, funzionando di fatto da media-
tori tra società ospite e componente straniera. Da questo punto di vista i
costi dell’immigrazione ricadono davvero sulle comunità locali (Ambro-
sini 1996: 182).
Per gli stranieri le difficoltà maggiori sono, nuovamente, quelle lingui-
stiche e, soprattutto, la complessità nel reperire informazioni e i canali giu-
sti per le varie procedure, il più delle volte burocratiche. La maggior parte
degli stranieri intervistati si rivela soddisfatta dei servizi disponibili sul
territorio e non sembra molto interessata ad avviare azioni e procedimenti
per una maggiore integrazione. Spesso i mancati contatti sociali vanno
imputati agli stranieri, che, del resto, non rivendicano mai la necessità di
‘integrarsi’. Ma va anche ribadito che la ‘domanda di integrazione’ è un
concetto estremamente astratto che nasce più nella mente dei ricercatori
e amministratori che degli attori sociali. La sovrabbondanza di discorsi
sull’integrazione appaiono quasi un rimprovero per la scarsa integrazione,
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per il deficit di integrazione, o addirittura una sanzione o un pregiudizio


espresso su un’integrazione ‘impossibile’, mai totale e mai totalmente e
definitivamente acquisita (Sayad 2002: 296).
Ora, volendo scorporare i significati che si celano dietro il concetto di
‘integrazione’, possiamo trovarci una duplice accezione: quella di “ren-
dere integro o intero” (intatto nella sua unità, non toccato) o di “rendere
completo e conforme a giustizia”. In entrambi i casi, trattandosi di collet-
tività umane, il compito è simile a quello dell’asintoto matematico che si
avvicina alla funzione senza mai toccarla, tende ‘verso’ un limite e si avvi-
cina indefinitivamente senza mai raggiungerlo. L’integrazione è una no-
zione sovraccarica: è concepita come uno stato, una conclusione, una
qualità a cui contribuiscono vari fattori, oggettivi e immateriali. “Più
grande e più forte è l’integrazione del tutto, più forte e più grande è il po-
tere integrante di questo gruppo, più necessaria e più facile è la realizza-
zione dell’integrazione in questo gruppo rispetto a ciascuna delle parti
che lo formano, vecchie e nuove che siano” (Sayad 2002: 293).
È una funzione retorica dei processi sociali, che non compare in cima
alla lista delle esigenze concrete dei migranti, e che funge invece efficace-
mente come specchio per la società d’accoglienza, che può trovare una fa-
cile spiegazione per motivare un malessere sociale che viaggia a braccetto
con il benessere economico finalmente raggiunto in una regione cresciuta
sulle rimesse dei suoi emigranti. “Il discorso sull’integrazione è necessa-
riamente un discorso [...] simbolicamente sovraccarico, investito di signi-
ficati secondari [...] e non può essere un discorso in grado di prevedere le
cose” (Sayad 2002: 294).
L’altra forte contraddizione non risolvibile sta nel fatto che l’integra-
zione segue linee di intervento dettate da politiche europee e nazionali,
ma si realizza (o no) in ambiti locali, dove diventa spesso difficile distin-
guere la morale dalla politica. “L’essere ‘a-politico’ dell’immigrato in
quanto ‘non-nazionale’ è, da una parte, l’illustrazione per eccellenza del
carattere eminentemente politico (sebbene non confessato) dell’immi-
grazione e, dall’altra parte, l’esempio paradigmatico di quel tipo di feno-
meni che si vorrebbe ridurre totalmente a una questione puramente
morale. Il modo migliore di spoliticizzare un problema sociale è quello di
tecnicizzarlo o di farlo rifluire totalmente nel campo della morale” (Sayad
2002: 296-297).
L’insediamento capillare degli stranieri distribuiti in un territorio
fatto di piccole-medie imprese e centri abitati non ha determinato aree
o quartieri ghetto né raggruppamenti etnico-linguistici tali da preclu-
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dere scambi e relazioni sociali con gli italiani, vista anche l’eterogeneità
delle nazionalità presenti. Ma in questi ultimi vent’anni è anche cam-
biata radicalmente la vita sociale dei friulani, soprattutto nelle aree di
provincia costruite attorno a piccoli e medi cittadine: svuotate le piazze
e i luoghi pubblici, rimesse a lucido le osterie che diventano pub o bar,
i friulani vagano in auto inseguendo i ritmi di crescita dei figli e spo-
standosi fra centri commerciali e agriturismi, rinforzando serrature e
cancelli (di fatto e simbolicamente) per tenere al sicuro una vita sociale
prevalentemente familiare sempre più insicura e diffidente, nonostante
il benessere economico. Gli immigrati, oltre che lo sradicamento dalla
loro società, si trovano così a dover fronteggiare una società di acco-
glienza dove il modello sociale prevalente è quello individualistico con
ritmi e calendari dettati dai consumi più che dalle appartenenze. Da
questo punto di vista l’effetto più reale determinato dalla presenza stra-
niera è proprio quello di specchiare e mettere in luce la crisi del nostro
sistema sociale, la fragilità delle nostre reti di sostegno in comunità
troppo velocemente transitate dalla cultura rurale di paese a modelli di
vita consumistici, atomizzati e ‘liquidi’ (Bauman 2000).
La dialettica tra immigrazione straniera e nazione, che delega ambi-
guamente l’integrazione alle amministrazioni locali, disegna un percorso
integrativo che punta alla ‘naturalizzazione’, al raggiungimento della cit-
tadinanza DOC in un momento storico in cui la politica è concentrata sul-
l’ipertrofia di modelli locali, stile ‘Friuli doc’4.
Le lacune legislative del governo nazionale e, ultimamente, anche di
quello regionale, scaricano di fatto alle amministrazioni locali il compito
di gestire e integrare la presenza straniera. Come analizza Zanfrini (1998:
188), questo determina“una modalità di gestire le politiche migratorie de-
scrivibile nei termini di una dicotomia: a un polo troviamo l’integrazione
sociale, intesa in termini residuali e sostanzialmente affidata al solo livello
locale; all’altro polo l’integrazione ‘sistemica’, affidata a livello nazionale
e sovranazionale e sempre più intesa in termini di ‘sicurezza’”.
Il risultato è che le amministrazioni sono costrette a politiche reattive
e non preventive, perché, soprattutto dopo l’abolizione della legge regio-
nale che aveva dato strumenti per la costruzione e conduzione di tavoli
per l’immigrazione in compartecipazione con i rappresentanti dei mi-
granti, attualmente Regione e Stato quando parlano di politiche migrato-
rie non intendono politiche per i migranti, ma misure prevalentemente di
difesa e sicurezza dai flussi migratori.
La naturalizzazione non cambia la ‘natura delle cose’, il senso di ap-
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partenenza, ma cambia tutto perché dove il non-connazionale si può


espellere di diritto, per il naturalizzato “significa darsi dei mezzi elemen-
tari e irriducibili di esistenza legale là dove si vive attualmente e dove si
deve vivere, dove si gioca e ci si gioca la propria esistenza presente e fu-
tura nell’immigrazione” (Sayad 2002: 337).“La naturalizzazione è un’ope-
razione di annessione profonda e totale come poche altre: annette da una
parte e lasciarsi annettere dall’altra” (Sayad 2002: 302). Il modo di affron-
tare la naturalizzazione sembra orientato a togliere ogni aggancio all’af-
fettività e soggettività; quasi fosse una questione tecnica, non politica. A
Cervignano del Friuli spesso il ‘rito di passaggio’ giocato per accedere alla
cittadinanza italiana si colora di forti tinte emotive, con stranieri che si re-
cano in municipio attorniati da parenti e amici e talvolta con lacrime di
commozione.
L’integrazione implica che più a lungo un cittadino di un paese terzo
risiede legalmente in uno Stato membro, più dovrebbe acquisire diritti
ed obblighi5, ma i fattori determinanti in questo gioco dipendono dalla
specifica linea politico-amministrativa locale, dalle modalità di rapporti
tra la società politica e quella civile e, infine, dalle caratteristiche quan-
titative e qualitative degli insediamenti stranieri (Zanfrini 1998). I punti
critici rilevati nella bassa friulana non sono tanto sul fronte degli inter-
venti socio-assistenziali, ma nell’incapacità di coinvolgere gli stranieri
nella progettazione e gestione delle politiche.
Le migrazioni sono fatti sociali totali, che non possono essere conside-
rate solo nel loro aspetto economico, di forza lavoro straniera. E, soprat-
tutto, non sono fenomeni temporanei, provvisori. Continuare a parlare di
‘flussi’ significa non voler tenere in considerazione i fenomeni di radica-
mento e residenzialità immigrata ultra decennale in Friuli.
L’integrazione riesce quando c’è una forte motivazione, sensibilità e
impegno attivo degli enti locali e imprenditori coinvolti per impedire pro-
cessi di esclusione sociale e marginalizzazione, straniera e autoctona; è un
processo a doppio senso basato su diritti reciproci e obblighi corrispon-
denti dei cittadini di paesi terzi residenti legalmente e della società ospi-
tante.
L’intenso lavoro dell’integrazione è anonimo, sotterraneo, quasi invi-
sibile: “I cambiamenti avvengono senza che se ne abbia coscienza e so-
prattutto senza apparente soluzione di continuità. D’altra parte i
cambiamenti sono più duraturi” (Sayad 2002: 295). Come per chi soffre
d’insonnia voler dormire non significa automaticamente ‘poter’ dormire,
integrarsi non dipende oggettivamente dalla volontà del soggetto, che ri-
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schia anzi, di far fallire tutto accanendosi nel pensiero e nella determina-
zione. È un processo che si può realizzare solo come effetto secondario di
azioni intraprese con altri scopi, nel percorso di costruzione e condivisione
della cittadinanza comune.
Come dice Touadi nella prefazione di un libro che offre altri piani di in-
terpretazione delle migrazioni,“si potrebbe affermare che l’immigrazione
è un elemento di pro-vocazione (nel senso letterale di chiamare in avanti)
dei territori e delle comunità italiane costrette a ripensarsi per ritagliarsi
una funzione inedita dello spazio ‘glocale’ in pieno e repentino muta-
mento” (Bellavia et alii 2008: 9). Occorre un atto di riconoscimento del-
l’immigrazione come “elemento indispensabile alla prosperità e alla
posterità” (Palidda 2008: 147), per ripensare e mobilitarsi verso ‘nuove’ so-
cialità e nuove convivenze contro l’anomia di un territorio ‘spaesato’ che
ha perso le logiche comunitarie dei piccoli centri, rimpiante con nostal-
gia, ma ormai patrimonio del passato.

1
Al 31.12.2008 la popolazione straniera residente nella provincia di Udine contava
più presenze femminili (17.954) che maschili (17.647), per un totale di 35.601. Fonte:
anagrafi comunali in Regione Autonoma FVG 2009: 42.
2
Il premio Terzani dell’Associazione Vicino/Lontano con sede a Udine, si propone
di organizzare progetti e manifestazioni che promuovano una riflessione e un con-
fronto fra culture.
3
http://www.cnel.it/cnelstats/percorsiguidati/indiciIntegrazione2009/main.html
4
È una manifestazione annuale che si tiene a Udine come la “Fieste de patrie” per
commemorare e rivalutare la tradizione locale, di fatto un’esibizione di prodotti tipici
eno-grastronomici che raccoglie ogni anno un notevole flusso di visitatori.
5
http://europa.eu/legislation_summaries/other/c10611_it.htm
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Progettare l’integrazione
(Flavia Virgilio)

Questo contributo delinea la storia dei progetti per l’integrazione degli


immigrati realizzati nell’Ambito Distrettuale di Cervignano del Friuli tra
il 2000 e il 2009. L’analisi si basa sul concetto di progettazione inteso come
pratica, non solo operativa, ma anche discorsiva, come dispositivo per pro-
muovere il mutamento sociale e come luogo di costruzione di rappresen-
tazioni.
In questa prospettiva l’analisi documentale si concentra su progetti,
testi legislativi, regolamenti attuativi studiati da una prospettiva che po-
tremmo definire di analisi del discorso. “L’analisi del discorso non si oc-
cupa solo dei testi considerati canonici [...], ma anche e soprattutto di
documenti legali, repertori di casi, tabelle statistiche, regolamenti istitu-
zionali, ovvero del discorso anonimo ma efficace in cui è possibile rico-
noscere il fascio di relazioni complesse e differenziate che lega la
possibilità dei discorsi alle istanze di potere” (Vitale 2004: 63).
Il progetto, e quanto lo rende possibile e necessario, cioè i bandi e i re-
golamenti per l’assegnazione di finanziamenti, è infatti“una forma sociale
sui generis caratterizzata dalla previsione che certi mutamenti tecnici, so-
ciali, economici e culturali, si verificheranno come conseguenze indotte
dall’investimento di risorse, know how, tecnologie, personale umano, in
tempi prestabiliti e secondo una certa concatenazione causale”(Colajanni
1994: 57).
Si ripercorre la storia dei progetti realizzati attraverso l’analisi dei testi
progettuali ed in particolare dei titoli e delle parole chiave, inserendoli
nel più vasto contesto dell’evoluzione delle politiche locali ed europee
sull’immigrazione. Vengono esplorati i concetti di integrazione (CE 2004;
CE 2007; CE 2010; Banks 2009) e di esclusione/inclusione sociale (Power e
Wilson 2000; CE 2000; Saraceno 2002; Todman, 2004) e i possibili scenari di
cittadinanza che si aprono a partire da queste pratiche.

1. Progetti: mappe del cambiamento


Limina è stato il nome del primo progetto di educazione interculturale
dell’Ambito Distrettuale di Cervignano del Friuli, iniziato nel 2001 nel con-
testo del secondo Piano Triennale per l’infanzia e l’adolescenza, attuativo
della legge 285/971.
Limina, in un latino che qualcuno descrive come una delle radici del-
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32 ORDINARIE MIGRAZIONI

l’identità europea, significa soglia, entrata, ma anche casa. La declinazione


al plurale del nome evoca le diverse soglie, gli ingressi, i limiti che ognuno
di noi attraversa o in cui sosta, ma anche le dimore, dove sta e acco-
glie/incontra gli altri. Imparare a stare e a transitare lungo le linee di con-
tatto: questa è stata l’idea chiave che ha guidato l’immaginario e le
pratiche del progetto.
“Limina” ha inteso mettere a fuoco un contesto locale e dentro quel
contesto, non solo locale ma anche localizzato spazialmente e temporal-
mente situato, andare a fare prove di partecipazione e di identità, lavo-
rando sui soggetti coinvolti, ma anche sui sistemi dentro cui i soggetti
stessi agiscono ed interagiscono, diventando un modo per dinamizzare e
mobilizzare le stesse organizzazioni che al progetto hanno partecipato.
Nella fase iniziale, dal 2001 al 2003, Limina si è rivolto a tutti i soggetti
che si trovavano in quel momento a confrontarsi con l’inserimento dei mi-
nori stranieri a scuola e con l’integrazione dei nuclei familiari nel tessuto
territoriale dell’Ambito socio assistenziale di Cervignano del Friuli. Non
è nato come progetto centrato solo sull’inserimento scolastico, anzi.
L’obiettivo era mettere in rete i soggetti territoriali e promuovere l’ap-
proccio integrato ai servizi. Quest’ottica, infatti, consente di leggere le di-
namiche di accoglienza in chiave multiprospettica, lavorando non solo
sulla inter/multiculturalità dei nuovi utenti stranieri, che forse sarebbe
meglio chiamare nuovi cittadini, ma anche sulla inter/multiculturalità dei
servizi presenti sul territorio. I vari servizi sono, infatti, portatori di mis-
sion e culture diverse rispetto alla relazione, al tempo, allo spazio pubblico
dove si incontrano e interagiscono gli attori sociali.
Nel progetto iniziale sono stati coinvolti i sette istituti scolastici del ter-
ritorio, il Servizio sociale, l’Azienda sanitaria, le associazioni, l’Università
di Udine (Virgilio 2007: 177-190). In seguito, dal 2005, l’intervento si è pro-
gressivamente aperto ad azioni e partner orientati a promuovere l’acces-
so ai servizi di base per i cittadini immigrati. Così si è iniziato a lavorare
sui temi della casa, del lavoro, della salute. Come scrivono Favaro e Fumagalli
(2004: 15), “i temi dell’uguaglianza e della differenza, dell’accesso ai ser-
vizi comuni e del rispetto delle diversità, delle opportunità pari o equiva-
lenti si pongono oggi con accenti e complessità inedite. La presenza degli
immigrati stranieri, e soprattutto i processi via via più consolidati della loro
stabilizzazione, sollecitano servizi e operatori a rivedere modalità di risposta
e di progettazione, a riconsiderare approcci e sistemi di relazione”.
Le politiche di accoglienza, allora, non riguardano solo gli stranieri, ma
l’auto-rappresentazione di un territorio, come questo si immagina, si spe-
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PROGETTARE L’INTEGRAZIONE 33

rimenta e si sente accogliente. Per questo, dal 2006 il progetto è inserito nel
piano di zona dell’Ambito distrettuale di Cervignano del Friuli, e prevede
una struttura di governo partecipativo dei processi di integrazione chia-
mata Tavolo immigrazione, analizzata da Tomasin in questo volume, che
continua la tradizione di cogestione, non solo di co-progettazione, già av-
viata con il Gruppo di Governo del progetto Limina dal 2001 (Virgilio 2004:
87-100).
Il tema del governo dei processi di integrazione è un tema chiave per
affrontare non solo in termini emergenziali o di efficienza dei servizi, ma
anche in termini politici la questione dell’integrazione. L’Ente Locale che
sceglie, con fatica e difficoltà, di governare processi complessi si mette nel-
l’ottica di lavorare su politiche pubbliche multiscopo e multilivello che in-
corporano e valorizzano le relazioni sociali e le relative pratiche,
strutturandosi come un insieme di opportunità cooperative (Vernò 2007;
Donolo 2006).
In questo percorso il nome del progetto, partendo dal concetto di so-
glia, è stato declinato sotto diverse modalità: dall’originario “Limina: abi-
tare la soglia” si è passati a “Limina: integrazione, cittadinanza socialità”,
passando per “Limina: accoglienza, cittadinanza territorio”e “Limina: ter-
ritorio, partecipazione, cittadinanza”.
È evidente che il focus del progetto si è progressivamente spostato dai
temi dell’integrazione a quelli della cittadinanza, dal target immigrati alla
comunità locale. Non si è trattato, insomma, solo di trovare soluzioni più
o meno efficaci alle questioni pratiche che derivano dall’avere in classe
alunni stranieri o incontrare utenti di diversa provenienza linguistica e
culturale nei servizi pubblici. Piuttosto, il progetto è stato un laboratorio
di riflessione sul come i servizi, gli operatori, la comunità locale interagi-
scono negli spazi dell’accogliere e del riconoscere l’altro. Inevitabilmente
questi spazi aprono la dimensione dell’essere accolti e del riconoscersi,
obbligano la comunità locale a rilocalizzarsi e a ridiscutere i propri confini,
compresi i confini della cittadinanza. “Cittadino è chi vive, ma è anche
parte viva nella città. Non chi vive passivamente ma anche partecipa. La
partecipazione non è solo critica e basta, ma è anche una partecipazione
costruttiva, sentirsi parte di una collettività e quindi essere una parte del
tutto. Non c’è la cosa dell’altro, ma la cosa di tutti, è proprio la res publica.
[...] Non tutti quelli che sono nati qui sono cittadini in questa maniera. [...]
Non lo sono d’altra parte i nuovi cittadini se il loro primo impatto con le
istituzioni, che sono l’espressione dei cittadini avviene solo per il bisogno
più urgente, la casa, i servizi, la scuola” (Focus Group, 11/02/2008).
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34 ORDINARIE MIGRAZIONI

Nel 2008 la prosecuzione del progetto è stata presentata al Bando Re-


gionale indetto con nuove modalità, come descritto nel prosieguo di que-
sto contributo, con il titolo“Nuove cittadinanze. Integrazione, cittadinanza,
socialità: le sfide generazionali”. L’approccio non più solo specialistico –
pensare servizi per immigrati rivolti solo agli immigrati – ha seguito una
logica che trova condivisione, per certi versi inaspettata, in diversi settori
della politica italiana.
“Se non fosse per le coppie degli immigrati il tasso di natalità del no-
stro Paese sarebbe da allarme rosso. Per fortuna nel dibattito politico si sta
avviando una discussione sul ruolo degli immigrati che spesso con il loro
lavoro servono per pagare le pensioni, ma non possiamo fermarci a metà
del ragionamento. [...] I percorsi sulla cittadinanza sono una questione di
civiltà. Si può discutere sui sette, i dieci o i dodici anni ma non lo si può fare
per i bambini. Per loro, che sono già negli asili con i nostri figli, che parlano
il dialetto, che fanno il tifo per la stessa squadra, è necessario pensare ad
un percorso breve per la cittadinanza” (Corriere della Sera.it, 2010).
Si potrebbe affermare, con Mezzadra (2004), che in qualche modo le
politiche di integrazione degli immigrati hanno obbligato gli attori sociali
ad esplorare i ‘confini della cittadinanza’, il modo con cui gli individui, non
solo gli stranieri, vengono immaginati come cittadini (Mezzadra 2002).

2. Progettare l’integrazione: prospettive locali e politiche globali


“I movimenti di persone attraverso i confini nazionali sono tanto anti-
chi quanto lo stato-nazione stesso, tuttavia mai prima d’ora nella storia
delle migrazioni mondiali lo spostamento di gruppi diversi per lingua, re-
ligione, etnia e cultura è stato così rapido e numeroso, suscitando que-
stioni inedite sui temi della cittadinanza, dei diritti, della democrazia e
dell’educazione” (Banks 2009: 10).
I migranti, perciò, proprio perché spezzano la continuità tra uomo e
cittadino che è alla base della teoria illuministica dei diritti (Remotti 2008),
finiscono per diventare un elemento di turbolenza all’interno delle na-
zioni e tra le nazioni stesse. Basti a questo proposito pensare alla que-
stione dei rumeni e dei rom, spesso tra loro confuse, e alle polemiche
suscitate in Europa dalla recente decisione di espulsione di cittadini co-
munitari decisa da governo Sarkozy in Francia.
La questione dell’integrazione e dei modelli di integrazione è così scot-
tante che è divenuta centrale sia a livello di politiche europee, sempre in
bilico tra salvaguardia della sicurezza e rischio di razzismo.
Il rapporto OECD 2006 From Immigration to Integration: Local Approaches
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PROGETTARE L’INTEGRAZIONE 35

segnala come la dimensione chiave dell’integrazione sia il locale, dove le


persone si incontrano, convivono, condividono spazi e tempi di vita. E pro-
prio in questo senso Banks (2009), analizzando i processi di integrazione
nel contesto scolastico, parla di paradigma multifattoriale per la promo-
zione dell’integrazione. Tra le cinque dimensioni chiave dell’educazione
multiculturale Banks evidenzia, infatti, la necessità di rafforzare non solo
la cultura dell’istituzione scolastica e la formazione degli insegnanti, ma
anche il contesto sociale in cui la scuola stessa è inserita, in modo da ga-
rantire l’equità e la partecipazione alla vita della comunità a tutti (Banks
2009: 17). In questo senso non è possibile un’educazione interculturale se
non in un contesto integrato in cui gli elementi formali, non formali ed in-
formali dell’educazione concorrono a definire un paradigma multifatto-
riale di integrazione (Banks 2009: 26-29).
Il Piano Regionale Integrato per l’Immigrazione 2006/2008 della Re-
gione Friuli Venezia Giulia, che indicava come prioritaria la realizzazione
di interventi per l’integrazione tra le politiche dell’immigrazione e le po-
litiche generali sul welfare, anche sulla base dei principi e degli obiettivi
della legge regionale n. 5/2006 “Norme per l’accoglienza e l’integrazione
sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati”, potrebbe essere
visto proprio come un tentativo di promuovere un paradigma multifatto-
riale di integrazione attraverso la messa in rete degli interventi e la pro-
mozione di processi di educazione alla cittadinanza interculturale nei
contesti formali (scuole), non formali (istruzione professionale, formazione
del personale, insegnamento dell’italiano L2) e informali (promozione del
dialogo interculturale a livello istituzionale e comunitario).
Nella primavera 2008 le elezioni in Friuli Venezia Giulia hanno portato
al cambiamento di maggioranza nel governo della regione. Nel luglio 2008
la nuova Giunta, con uno tra i primi atti compiuti, ha abrogato la legge re-
gionale 5/2006 in materia di integrazione sociale degli immigrati. È venuto
quindi meno il quadro normativo e amministrativo dentro cui erano ma-
turate pratiche di lavoro e modalità di intervento portate a sintesi e a si-
stema nella Conferenza Regionale sull’Immigrazione del 2007 (Cozzarini
e Negro 2007). Da questo momento in poi le politiche locali e regionali
sull’integrazione, oltreché sulle leggi nazionali di riferimento, si basano
sull’articolo 9 della Legge regionale 14 agosto 2008, n. 9 (Legge di assesta-
mento di bilancio), comma 23, che prevede l’utilizzo del “Fondo per gli in-
terventi in materia di immigrazione”, sulla base di un programma
annuale, approvato dalla Giunta regionale, su proposta dell’Assessore
competente in materia di immigrazione, previo parere della Commissione
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36 ORDINARIE MIGRAZIONI

consiliare. Interventi, quindi, basati non solo sulla disponibilità di fondi,


ma soprattutto sulla valutazione di opportunità politica.
Nel 2010 la Regione e le quattro Province del Friuli Venezia Giulia
hanno firmato un protocollo d’intesa finalizzato all’attuazione dei servizi
territoriali e sociali per l’integrazione degli immigrati. Si è confermato in-
fatti in crescita anche per il 2009 il trend del fenomeno migratorio in re-
gione: secondo l’ISTAT gli stranieri residenti al 31 dicembre 2008 erano
94.976 (pari al 7,7 per cento della popolazione complessiva), con un incre-
mento del 14 per cento rispetto all’anno precedente. L’accordo prevede
interventi nei settori informativo, socio-occupazionale, del micro soste-
gno economico e dell’animazione culturale. “C’è l’aspettativa che questa
buona pratica - ha affermato nel suo intervento l’assessore regionale Ro-
berto Molinaro - possa essere un riferimento nel momento in cui si andrà
a mettere a punto il progetto della nuova legge quadro in materia d’im-
migrazione” (Regione Friuli Venezia Giulia 2010a).
Secondo le dichiarazioni dell’Assessore, le politiche della Regione
Friuli Venezia Giulia dal 2005 ad oggi sono continuate sotto il segno del-
l’attenzione per i processi di integrazione, rafforzando il ruolo degli enti
locali nella gestione e nel governo dei processi stessi. L’Italia, e il Friuli Ve-
nezia Giulia, sono infatti al crocevia di flussi sempre più “turbolenti” (Pa-
pastergiadis 2000), caratterizzati da una moltiplicazione dei modelli e da
un aumento della complessità degli stessi.
I processi di integrazione a livello locale, e i relativi progetti e bandi di
finanziamento, allora, possono essere considerati tentativi per rispondere
a migrazioni sempre più globalizzate con strategie di intervento che si in-
tersecano, a loro volta, con l’azione delle reti di connazionali e delle asso-
ciazioni degli immigrati presenti sul territorio (Caponio, Colombo 2005).
Le strategie politiche per l’integrazione sperimentate in Friuli Venezia
Giulia riflettono le linee giuda proposte a livello Europeo in diversi do-
cumenti. L’immigrazione, infatti, è uno dei temi all’ordine del giorno del-
l’agenda Europea da più di 10 anni. Tutti i paesi dell’Unione sono in
qualche modo coinvolti nei processi che vedono flussi di persone sempre
più consistenti muoversi verso e attraverso l’Europa (CE 2007). Nono-
stante politiche sempre più restrittive, a partire dagli anni ‘70, abbiano
cercato di limitare e regolare i flussi, “un numero crescente di immigrati
regolari, irregolari e di richiedenti asilo ha continuato e raggiungere i
paesi europei. Benché questo abbia talvolta favorito la diffusione di or-
ganizzazioni illegali di trafficanti e richiesto l’impiego di grandi quantità
di risorse per contrastare l’immigrazione illegale, tutti i paesi della co-
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PROGETTARE L’INTEGRAZIONE 37

munità riconoscono che l’Europa ha bisogno degli immigrati per rispon-


dere a necessità di carattere economico e demografico” (CE 2007). Il Con-
siglio Europeo, riunitosi a Tampere nell’ottobre 1999, ha chiesto che
venisse elaborata una politica comune dell’UE in materia di asilo e di im-
migrazione e ne ha definito i quattro elementi principali: il partenariato
con i paesi di origine; un regime europeo comune in materia d’asilo, che
dovrebbe portare successivamente ad una procedura d’asilo comune e
uno status uniforme per le persone alle quali è riconosciuto l’asilo; un
trattamento equo dei cittadini dei paesi terzi e una gestione più efficiente
dei flussi migratori.
Le politiche europee (CE 2001; CE 2002; CE 2004) sono organizzate sulla
base di un Open Method of Coordination (OMC).“Il metodo aperto di co-
ordinamento si basa principalmente sull’approvazione, da parte del Con-
siglio, di orientamenti pluriennali per l’Unione, corredati di un calendario
per il conseguimento degli obiettivi a breve, medio e lungo termine. Tali
orientamenti saranno successivamente inseriti nella politica nazionale tra-
mite obiettivi specifici che tengano conto delle diversità nazionali e re-
gionali” (CE 2001).
Gli accordi di Tampere del 1999 hanno avuto seguito grazie all’ado-
zione del programma de L’Aia del 2004, che fissa gli obiettivi per il raffor-
zamento della libertà della sicurezza e della giustizia per il periodo
2005/2010 (CCE 2005). Il programma include dieci priorità definite dalla
Commissione Europea con lo scopo di armonizzare le politiche europee
in materia di immigrazione rafforzandone l’efficacia e l’impatto.
Le dieci priorità mirano a:
– garantire lo sviluppo ottimale di politiche in grado di controllare e pro-
muovere il rispetto dei diritti fondamentali per tutti, e di politiche che
migliorino i diritti connessi con la cittadinanza;
– privilegiare i vari aspetti della prevenzione, della preparazione e del-
l’intervento per migliorare e, se del caso, integrare la capacità degli
Stati membri di lottare contro il terrorismo;
– attivarsi per creare uno spazio comune di asilo nel rispetto della tradi-
zione umanitaria dell’Unione e dei suoi obblighi internazionali, met-
tendo a punto una procedura armonizzata;
– definire un’impostazione equilibrata della gestione dei flussi migra-
tori, elaborando una politica comune d’immigrazione che affronti la
situazione degli immigrati legali a livello dell’Unione, potenziando al
tempo stesso l’azione di contrasto dell’immigrazione illegale e della
tratta degli esseri umani, soprattutto delle donne e dei bambini;
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38 ORDINARIE MIGRAZIONI

– elaborare misure di sostegno per aiutare gli Stati membri a porre in


essere le politiche d’integrazione più confacenti e a prevenire l’isola-
mento e l’esclusione sociale delle comunità di immigrati, contribuendo
alla comprensione e al dialogo tra culture e religioni, in base ai valori
fondamentali dell’Unione;
– rafforzare la gestione integrata delle frontiere esterne, in particolare
attraverso una politica comune in materia di visti, garantendo al tempo
stesso la libera circolazione delle persone;
– favorire lo scambio di informazioni tra servizi di polizia e autorità giu-
diziarie garantendo un giusto equilibrio tra privacy e sicurezza;
– elaborare e attuare un’impostazione strategica in materia di lotta con-
tro la criminalità organizzata a livello dell’Unione;
– garantire uno spazio europeo che permetta a tutti un accesso effettivo
alla giustizia, badando a eseguire le decisioni giudiziarie;
– dare un senso pratico ai concetti di responsabilità condivisa e solida-
rietà fra Stati membri, fornendo risorse finanziarie adeguate per con-
seguire con la massima efficacia gli obiettivi di libertà, sicurezza e
giustizia.

Le linee guida per la realizzazione di questi obiettivi e le buone prati-


che già sperimentate in Europa sono analizzate nei tre Handbook on Inte-
gration del 2004, 2007 e del 2010. I settori strategici per l’integrazione
individuati a livello Europeo corrispondono in modo perfetto ai settori di
intervento della legge 5/2004 prima e del programma regionale 2009 poi.
A grandi linee, infatti, si possono identificare i seguenti settori:
– integrazione scolastica, insegnamento dell’italiano come seconda lin-
gua e educazione interculturale;
– promozione della salute;
– promozione delle pari opportunità di accesso ai servizi sociali;
– accoglienza dei rifugiati;
– prevenzione della tratta di esseri umani e protezione delle vittime di
tratta;
– coinvolgimento degli stakeholder.

In linea di massima si potrebbe affermare che, nonostante i cambia-


menti negli orientamenti politici, ad esempio a livello italiano e in parti-
colare a livello regionale, le politiche di integrazione rimangono
strettamente vincolate agli orientamenti europei (Cremaschi 2006) in am-
bito di sicurezza, inclusione sociale e promozione dei diritti e delle pari
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PROGETTARE L’INTEGRAZIONE 39

opportunità e, più in generale, di promozione del dialogo interculturale


come motore della stessa integrazione europea.
“D’altro canto [...] proprio l’Europa costituisce un eccellente caso stu-
dio. Qui, tra l’accordo di Schengen e la convenzione di Dublino e poi nel
contesto del processo di allargamento dell’Unione Europea, ha preso
forma proprio intorno alla retorica del necessario contrasto dell’immi-
grazione clandestina, un nuovo regime di controllo dei confini per molti
aspetti paradigmatico. È un regime flessibile e a geometria variabile, che
assai più che consolidare le muraglie per una ‘fortezza’, e dunque a se-
gnare una rigida linea di demarcazione tra il dentro e il fuori, sembra pun-
tare a governare un processo di inclusione differenziale dei migranti”
(Mezzadra 2004: 111).
Il discorso sull’integrazione, ed in particolare la sua declinazione sul
versante della cittadinanza, implica allora l’intreccio tra diversi piani di
azione, definiti da scelte legislative operate a livello nazionale e pratiche
formali e informali declinate a livello locale. Gli Enti Locali, spesso co-
stituiscono il luogo di sintesi, di confronto e di accordo tra questi diversi
piani di discorso, essendo il luogo fisico dove le politiche devono con-
cretizzarsi in pratiche di integrazione. “Quando si discute di integra-
zione degli immigrati, infatti, molto spesso di sovrappongono e si
confondono due piani di discorso, quello delle politiche e quello dei pro-
cessi di integrazione: le prime intenzionali, consapevoli e derivanti dal-
l’azione delle istituzioni pubbliche, ma non necessariamente in grado di
generare effettivi processi di integrazione, molto più complessi e legati
ad un molteplicità di fattori, come il funzionamento del mercato, il pro-
tagonismo della società civile, la coesione e l’iniziativa delle popolazioni
immigrate, che vanno ben al di là del raggio di azione della politica”
(Ambrosini, Boccagni, Piovesan 2007: 23).
Dall’idea di integrazione come processo mediante il quale i gruppi so-
ciali minoritari vengono “adattati agli usi e ai costumi di un gruppo più
esteso e dominante” (Albarea et alii 2006) si passa all’idea di inclusione e
coesione sociale. Così, “[...] dove i servizi avevano il mandato di integrare
che si traduceva spesso in normalizzazione e omologazione, la coesione
sposta la nozione sulla società, il contesto e la sua capacità integrativa delle
differenze, implicando un lavoro sui contesti e non sulle persone” (Vernò
2007: 19).
A livello italiano, mentre le politiche nazionali sembrano orientate
maggiormente al controllo e alla regolamentazione dei flussi (Tognetti
Bordogna 2005), quelle locali sono orientate all’inclusione sociale. “Il ter-
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40 ORDINARIE MIGRAZIONI

mine inclusione sociale si riferisce ai processi che assicurano che i sog-


getti a rischio di povertà e marginalizzazione acquisiscano le opportunità
e le risorse necessarie a partecipare pienamente alla vita sociale, cultu-
rale, economica e politica, godendo degli standard di vita e di accesso al
welfare considerati normali nelle comunità in cui vivono. Questo implica
la necessità di aiutare i soggetti vulnerabili ad accedere ai diritti fonda-
mentali e di promuovere la loro capacità di partecipazione ai processi de-
cisionali che li riguardano” (UNDP 2010).
In questo senso i progetti di integrazione finiscono per assumere i con-
notati di pratiche di costruzione dei cittadini e della cittadinanza, non solo
quella formulata nel linguaggio dei diritti, “ma anche nel contesto dei
modi in cui una serie di valori comuni riguardanti famiglia, salute, assi-
stenza sociale, relazioni di genere, lavoro e spirito imprenditoriale ven-
gono elaborati nella vita quotidiana, [...cioè] come un processo sociale di
produzione mediata di valori [...attraverso i quali gli individui] sono as-
soggettati a norme, regole e sistemi” (Ong 2005: 11). Le stesse politiche fi-
niscono, in questo modo, per strutturare la concezione dell’immigrato, a
cominciare dalle distinzioni tra regolari e irregolari, tra meritevoli e im-
meritevoli di sostegno e misure di accompagnamento (Ambrosini, Boc-
cagni, Piovesan 2007: 25).
Ed è in questo senso che il secondo Handbook per l’integrazione (2007)
individua nella dimensione delle politiche locali l’elemento chiave per
l’integrazione. Per le amministrazioni la sfida consisterebbe, allora, nel-
l’introdurre un’attenzione agli immigranti nell’elaborazione, attuazione,
monitoraggio e valutazione delle politiche in tutti i settori.“Per realizzare
tale compito è necessario che vi sia un impegno politico e una direzione
dall’alto. Al tempo stesso, ciò dipende dall’assunzione delle responsabi-
lità da parte di coloro che devono operare dei cambiamenti per tener conto
dell’integrazione degli immigranti” (CE 2007: 15).
Chi arriva nei paesi del Nord profugo o impoverito, o anche semplice-
mente in cerca di opportunità, si troverebbe allora a ingaggiare una bat-
taglia non solo per essere accolto, incluso o integrato che dir si voglia, ma
proprio per confrontarsi con i regimi e le regole di governamentalità delle
società ospiti, cioè con la propria trasformazione in soggetto biopolitico
moderno (Zoletto 2005).

3. Pratiche di progettazione
Nel periodo tra il 1800 e il 1950 si è assistito ad una progressiva espan-
sione di quelle forme di amministrazione della società, dello spazio ur-
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PROGETTARE L’INTEGRAZIONE 41

bano e dell’economia che hanno consentito, attraverso interventi di rego-


lazione, normalizzazione e ordinamento, il dispiegarsi dello sguardo scien-
tifico, ridefinendo la vita sociale in termini di razionalità ed efficienza.“La
modernità pesante fu, in fin dei conti, l’epoca in cui la realtà venne mo-
dellata sulla falsariga di un’opera architettonica; la realtà conforme ai ver-
detti della ragione andava costruita sotto un severo controllo di qualità e
secondo rigide norme procedurali, e soprattutto progettata prima di av-
viare l’opera di costruzione. Fu un’epoca di tavoli da disegno e bozze di
lavoro volta non tanto a disegnare una mappa del territorio sociale, quanto
a elevare quel territorio al livello di chiarezza e logica che solo le cartine
geografiche possono vantare. Fu un’era che sperava di inculcare per legge
la ragione nella realtà, di riformulare gli interessi in gioco in modo da sti-
molare una condotta razionale e rendere qualsiasi comportamento con-
trario alla ragione troppo oneroso” (Bauman 2002: 43).
Gli studi relativi alla programmazione e progettazione dei servizi so-
ciali individuano tre fasi nello sviluppo della programmazione in ambito
sociale (Siza 2002):
– demand-based planning (anni ’60/prima metà anni ’70): pianificazione
basata sulla conoscenza precisa dei bisogni;
– demand-scarcity planning (seconda metà anni ’70): riduzione delle ri-
sorse, selezione gruppi prioritari, valorizzazione risorse informali;
– supply planning (anni ’80): programmazione dell’offerta condizionata
dalla scarsità di risorse, introduzione di logiche di mercato e di com-
petizione.

“Fino ai primi anni ‘80 la programmazione appariva quindi come lo


strumento che consentiva allo Stato di razionalizzare le sue prestazioni e
accrescere le sue capacità di risposta a domande ed aspettative sempre
più ampie e differenziate [...]” (Siza 2002: 25). Negli ultimi anni si è assistito
in Italia e in Europa ad un radicale cambiamento, che ha visto, anche in
ambito sociale, nuovi modelli di governance aggiungersi a quelli più con-
solidati di government. Questo passaggio ha portato ad una crescente dif-
fusione di progetti e strutture tese a coinvolgere cittadini e attori
organizzati nei processi decisionali in campo urbanistico, della sostenibi-
lità ambientale, della vivibilità degli spazi, nella pianificazione dei servizi,
e più in generale delle politiche di sviluppo locale e delle politiche pub-
bliche integrate. Alla base di strumenti come l’Agenda 21 Locale, i Pro-
getti Integrati Territoriali, i Programmi Comunitari quali Leader, Equal o
Interreg, i Piani Sociali di Zona, i Piani Strategici per le città e altri, ci sono
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42 ORDINARIE MIGRAZIONI

processi decisionali inclusivi che necessitano di metodologie per facilitare


la partecipazione attiva delle persone. In questa prospettiva il ruolo dello
Stato e degli Enti pubblici è radicalmente cambiato, sotto la spinta di due
tendenze emergenti: la pluralizzazione degli attori del welfare e la conce-
zione dei cittadini come co-produttori di servizi. Nel corso del decennio
1990-2000 si è assistito, anche in Italia, ad una riscoperta del principio di
sussidiarietà, basato sul presupposto che ogni politica venga affrontata
dal livello istituzionale o dall’organizzazione più vicina ai soggetti inte-
ressati da quella politica o dal problema da affrontare. In questo senso il
principio di sussidiarietà costituisce il fondamento di un criterio di orga-
nizzazione dello Stato finalizzato ad avvicinare, nella massima misura pos-
sibile, la gestione della res pubblica ai cittadini.
In un’ottica di sussidiarietà il ruolo dell’ente pubblico si sposta sensi-
bilmente dal piano del governo a quello della governance. Si tratta di un
processo in cui la funzione pubblica allargata coopera con attori pubblici
nella produzione di beni pubblici. La cooperazione può assumere forme
parternariali o restare più informale. L’esito deve essere una serie di effetti
di governo su materie o ambiti specifici, o anche a livello di sistema. La
governance produce un’amministrazione pubblica post-burocratica e re-
sponsabilizza gli attori privati in quanto portatori di funzioni pubbliche.
Come tentativo di risposta a diffuse situazioni di ingovernabilità, la gover-
nance è un processo sociale, politico e istituzionale molto esigente in ter-
mini di razionalità e di responsabilità, il cui perno fondamentale è
costituito dalla partecipazione dei cittadini.
Si definiscono partecipativi quegli approcci che implicano il coinvol-
gimento attivo del “pubblico” nella presa di decisione. Per pubblico si in-
tende sia il cittadino medio, sia i portatori di interesse (stakeholder), gli
esperti, i politici, i rappresentanti delle imprese e del privato sociale.
La partecipazione è un passaggio vincolante di molte politiche di
welfare integrato e spesso una condizione imposta dai bandi stessi. In
molti casi è anche una richiesta di cittadini e movimenti (si pensi ad
esempio ai processi di genesi di Agenda 21) che trova appoggio negli
approcci promossi da ONG e attori del terzo settore, ma anche da im-
prese e organizzazioni sempre più interessate a promuovere un ap-
proccio multiprospettico e multidisciplinare ai problemi che le politiche
dovrebbero risolvere.
La richiesta di maggiore partecipazione è sostenuta, tuttavia, prima an-
cora che da ragioni di carattere politico metodologico, da ragioni di carat-
tere pragmatico e organizzativo. Dal punto di vista pragmatico, infatti, la
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PROGETTARE L’INTEGRAZIONE 43

partecipazione è strumentale a ricostituire la fiducia tra le amministra-


zioni, le organizzazioni e i cittadini. Dal punto di vista normativo la par-
tecipazione è necessaria, e spesso imposta, in modo da rendere i processi
decisionali più democratici e trasparenti, promuovendo la costruzione del
consenso dal basso e la riduzione del conflitto sociale.
Nel caso del progetto “Nuove cittadinanze. Integrazione, cittadi-
nanza, socialità: le sfide generazionali”, presentato al bando regionale
del 2008 dall’Ambito Distrettuale di Cervignano del Friuli, il principio
della partecipazione è descritto come il cardine stesso dell’azione pro-
gettuale. La presentazione infatti recita: “Il progetto intende garantire
continuità a quanto finora realizzato nel territorio dell’Ambito, am-
pliando e approfondendo gli interventi di promozione della cittadi-
nanza e della partecipazione di tutti i cittadini alla costruzione di una
comunità accogliente, ed in particolare attivando processi di promo-
zione della partecipazione politica degli immigrati e di rafforzamento
della solidarietà intergenerazionale e interculturale” (Ambito Distret-
tuale di Cervignano del Friuli, 2008).
Il progetto intendeva porre l’accento sulla centralità dei processi di cit-
tadinanza attiva, lavorando sull’area dell’immigrazione attraverso inter-
venti che non riguardassero solo la riduzione della marginalità e la tutela
della sicurezza sociale, ma anche la promozione del coinvolgimento di
tutta la popolazione nella costruzione di un territorio accogliente, con par-
ticolare attenzione ai temi della solidarietà intergenerazionale, della tra-
smissione intergenerazionale dei saperi e delle competenze e della
promozione della riflessione sui processi di cittadinanza nelle seconde
generazioni. Per raggiungere questo obiettivo la metodologia individuata
era il lavoro di rete e il rafforzamento del Tavolo Immigrazione come stru-
mento di costruzione partecipata delle politiche locali.
Il compito del Tavolo, costituito da undici soggetti del territorio, era
“[...] quello di accompagnare, monitorare, valutare le progettualità pro-
mosse nell’ambito dei temi dell’immigrazione, accordandole con la più
generale progettualità del piano di zona e promuovendo la diffusione
della conoscenza delle tematiche legate all’integrazione, all’accoglienza
e al dialogo interculturale a livello istituzionale e interistituzionale. I
progetti del tavolo, in particolare, prevedono il raccordo, il coordina-
mento continuo e il confronto con i progetti messi in campo dalle isti-
tuzioni scolastiche, dall’azienda sanitaria e dallo stesso tavolo
nell’ambito delle politiche abitative, promuovendo, dove possibile, at-
tività trasversali e congiunte, in particolare sulle azioni di rafforzamento
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44 ORDINARIE MIGRAZIONI

del sistema. [...] La stabilità della struttura tavolo fa sì che gli aderenti
alla rete siano coinvolti in ogni fase progettuale delle attività realizzate,
dall’analisi dei bisogni alla valutazione. La collaborazione si concretizza
in un’adesione formale al tavolo e nella designazione di un referente
per quanto riguarda l’attività di tipo più politico e nella sottoscrizione
di convenzioni operative per la realizzazione delle attività progettuali.
Queste ultime in particolare prevedono l’impegno ed il coinvolgimento
diretto delle associazioni e delle istituzioni nelle attività di sensibiliz-
zazione, formazione, monitoraggio e valutazione” (Ambito Distrettuale
di Cervignano del Friuli 2008).
La ricerca, tuttavia, dimostra che le politiche dell’integrazione sostan-
zialmente hanno fallito i loro obiettivi.“La maggior parte delle società ca-
ratterizzate dalla diversità e dalla multiculturalità - infatti - ha fallito nel
tentativo di eliminare le discriminazioni e le disuguaglianze all’interno
dei propri confini nazionali” (Gundara 2009: 1009).
Come ben chiarisce il primo Handbook on Integration, pubblicato dalla
Commissione Europea nel 2004, “[...] gli Stati Membri dell’Unione Euro-
pea si trovano ad affrontare le medesime sfide rispetto all’integrazione
degli immigrati nella società civile. È una partita sempre più rilevante oltre
a caratterizzarsi per complessità e delicatezza. Con la prospettiva di una
popolazione che si avvia verso l’invecchiamento e che tende a diminuire,
un aumento di immigrati verso l’Europa nei prossimi anni è non solo pro-
babile, ma anche necessario. L’integrazione degli immigrati rappresenta
un elemento vitale per la coesione sociale e lo sviluppo economico” (CE
2004: 5).
La ricerca sulle caratteristiche locali dei fenomeni migratori, allora, si
colloca in una dimensione di intersezione spaziale in cui si incontrano i
due temi portanti dell’attuale dibattito, da una parte la questione della cit-
tadinanza che porta con sé il tema scottante della liceità della presenza
degli immigrati e del titolo a cui sono presenti, dall’altra la questione delle
politiche di integrazione che, gestite a livello locale, finiscono per essere
non solo politiche di assistenza e di accoglienza, ma anche pratiche attive
di promozione di istanze di cittadinanza. L’analisi della dimensione locale
dell’integrazione permette di vedere come, nelle pratiche, i percorsi di in-
tegrazione incrocino le politiche di cittadinanza a diversi ed articolati li-
velli, promuovendo non solo l’integrazione degli stranieri, ma soprattutto
un ampio processo di riflessione sull’identità e i confini della comunità
locale.
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PROGETTARE L’INTEGRAZIONE 45

4. Comunità future
“Una comunità definisce se stessa attraverso un lavorio insistente e con-
tinuo di posa in opera e di riaggiustamento dei confini che la qualificano
come entità a sé stante e la strutturano al proprio interno” (Gri 2003: 7). Le
politiche e le pratiche di integrazione degli immigrati nell’Ambito Distret-
tuale di Cervignano del Friuli sono parte di questo lavorio e intersecano a
diversi livelli le politiche e le pratiche nazionali ed internazionali.
Durante la campagna elettorale, sia regionale che nazionale del 2008,
campeggiavano per le vie delle città friulane i manifesti della Lega Nord
con lo slogan “Loro non hanno potuto fermare l’immigrazione e si sono
estinti”, accompagnato dall’immagine di un nativo americano. Il manife-
sto tralasciava di dire che i ‘loro’ da cui i nativi americani si sarebbero do-
vuti difendere erano anche i milioni di italiani, per la precisione quattro
milioni, che tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento hanno la-
sciato l’Italia per le Americhe. Di questi un numero non piccolo proveniva
dal Friuli Venezia Giulia e dal Veneto (Grossutti 2008), regioni dove oggi la
Lega Nord ha una presenza più che consolidata.
Lo scenario europeo è attraversato da contrapposte tensioni tra il di-
scorso pragmatico, e strategico, sulla funzione economica e demografica
dei flussi migratori e il discorso populista e localista basato sulla sicurezza,
sulla difesa dell’identità e sulla salvaguardia delle radici (Aime 2004). L’Eu-
ropa afferma che i programmi di accoglienza “rappresentano un investi-
mento per il futuro che sia l’immigrato, che la società civile dovrebbero
essere disposti a fare”; aggiungendo poi che “è un investimento che vale
lo sforzo in quanto rappresenta per gli immigrati un trampolino di lancio
verso l’autosufficienza. Da parte sua la società ne ricava una maggiore
consapevolezza degli immigrati che diventano cittadini capaci di dare il
proprio contributo” (CE 2004: 13).
A livello locale, tuttavia, sembra prevalere, almeno nelle retoriche, il
tentativo di mettere un maggiore accento sul tema della competizione
per le risorse. “A leggere l’elenco degli assegnatari dei contributi regio-
nali per l’abbattimento dei canoni di locazione a Sacile, si è presi da un
moto di rabbia e indignazione: gran parte dei soldi vanno a finire nelle
tasche di immigrati. Una triste conferma di quanto avviene un po’ in
tutti i comuni della Regione e l’ulteriore dimostrazione di come il cen-
trosinistra regionale abbia stravolto il senso di una legge varata nel 2001
su iniziativa della Lega Nord, per consentire ai nostri corregionali, so-
prattutto alle famiglie meno abbienti di potersi affittare una casa senza
svenarsi” (Lega Nord 2007).
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46 ORDINARIE MIGRAZIONI

Uno sguardo più attento alle pratiche, tuttavia, consente di mostrare


come spesso le retoriche, pur rispondendo a istanze diverse, producano
tuttavia effetti talvolta imprevedibili e controintuitivi. Nel 2008 la Giunta
Regionale del Friuli Venezia Giulia, governata da una maggioranza di cen-
tro sinistra, ha stanziato per le azioni di integrazione degli immigrati
3.762.000 €, suddivisi tra azioni di educazione (1.050.00 €), azioni per il di-
ritto alla casa (600.000 €), azione per il diritto alla salute (999.999 €) e azioni
per l’integrazione sociale (950.763 €). Nel 2009 Giunta Regionale del Friuli
Venezia Giulia, governata da una maggioranza di centro destra, ha stan-
ziato per le azioni di integrazione degli immigrati 3.044.111,15 €, suddivisi
tra azioni di educazione (1.115.477 €), azioni per il diritto alla casa
(400.000 €), azione per il diritto alla salute (400.000 €) e azioni per l’inte-
grazione sociale (1.128.634 €). Se si considera che parte degli interventi
per il diritto alla casa e l’abitare sociale sono confluiti in un fondo diverso,
si può concludere che non c’è stata una sostanziale riduzione dei fondi
disponibili per le azioni di integrazione, tranne che nel campo del diritto
alla salute. Per il 2010 lo stanziamento previsto e non ancora assegnato è
di € 3.587.793,47, di poco inferiore a quello del 2008, quindi (Fonte dati:
FVG Solidale).
Un altro dato da rilevare è relativo al fatto che, per quanto riguarda
le azioni realizzate nell’Ambito distrettuale di Cervignano del Friuli, il
50% degli utenti beneficiari delle azioni finanziate con i fondi per gli
immigrati erano italiani. In particolare, a partire dal 2007 gli sportelli
per la casa e l’abitare sociale hanno visto un afflusso di utenti italiani
pari al 40%, in connessione con l’aggravarsi della situazione economica
generale che ha colpito anche le fasce economicamente più deboli della
popolazione locale.
La questione dell’integrazione, allora, sembra essere più un problema
di classe che di etnia, più una questione di opportunità economiche che di
cultura.
L’integrazione degli immigrati, o la loro inclusione sociale, non sembra
tanto dipendere dai dispositivi più o meno partecipativi messi in campo,
ma piuttosto dalle opportunità di mobilità sociale (Dalla Zuanna, Farina,
Strozza 2009). Come dice Benhabib (2006: 16) “anche se non potremo mai
risolvere il paradosso in base al quale gli esclusi non possono partecipare
alle decisioni sulle regole di esclusione/inclusione, possiamo però ren-
dere queste distinzioni più fluide e negoziabili attraverso forme multiple
e continue di iterazione democratica, a partire da una ridefinizione della
memoria collettiva e dei miti costitutivi verso ideali più multinazionali”.
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PROGETTARE L’INTEGRAZIONE 47

Il CNEL valuta le potenzialità integrative degli immigrati sulla base


di tre indici: l’attività territoriale, l’inserimento lavorativo e l’inseri-
mento sociale. Il Friuli Venezia Giulia è la seconda regione italiana, in-
sieme alla Lombardia e dopo l’Emilia Romagna, per potenzialità
integrative per gli immigrati, secondo i dati contenuti nel Dossier stati-
stico sull’immigrazione della Caritas del 2010 (Messaggero Veneto 27
ottobre 2010).
Le pratiche di integrazione sembrerebbero dimostrare che i processi di
inclusione funzionano, nella misura in cui costituiscono veri e propri re-
gimi di integrazione (Nohoglu-Soysal 1994) che, utilizzando le tecnologie
sociali sulla base di precisi indicatori, ad esempio quelli del Cnel, produ-
cono la “governamentalità delle società ospiti” (Ong 1999), cioè quell’in-
sieme di tecnologie sociali necessarie a tradurre gli stranieri in buoni
cittadini (Ong 2005). In questo processo un ruolo cruciale è svolto dai tec-
nici, dagli operatori e dai professionisti dell’integrazione. “Gli operatori
dei servizi non sono solo nella posizione di agire da mediatori nelle rela-
zioni, ma anche di tradurre discorsi dominanti in micropolitiche che as-
segnano, classificano e formalizzano le categrie dell’umano – rifugiato,
paziente, beneficiario di welfare, appartenente a una razza, femminista,
genitore borghese, adolescente americano, lavoratore flessibile – per cer-
care di modellare i loro soggetti e farne esempi di categorie desiderabili”
(Ong 2005: 42).
In questo senso le tecnologie educative sono centrali nell’operazione
di traduzione dei nuovi arrivati in buoni cittadini, sia attraverso l’istru-
zione formale, sia attraverso le pratiche informali di educazione alla citta-
dinanza costituite da servizi, sportelli, incontri, focus group. Non a caso la
scuola è percepita come il luogo centrale dell’integrazione sia dagli am-
ministratori che dagli stessi immigrati.
“Io ho l’idea che loro possano votare, partecipare, a parità di condi-
zioni, ma vedo che loro sono fonte di servizi ad una comunità, che è la no-
stra, che li considera fonte di lavoro al massimo, ma non c’è scambio. Se
non a scuola. Ecco io lavoro a scuola e incontro situazioni di questo tipo,
ma solo a scuola”, sostiene uno degli amministratori che hanno parteci-
pato ai focus-group (Focus Group, 11/02/2008). Nello stesso tempo un im-
migrato sottolinea che le reti sociali si stabiliscono soprattutto a partire
dalla scuola che i figli frequentano: “Tra i bambini c’è molto scambio
anche in orario extrascolastico, frequentano le case degli amici e le attività
sportive del paese” (B.Z., 22/01/2008).
Osservare i processi di integrazione in un luogo circoscritto, come nel
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48 ORDINARIE MIGRAZIONI

caso di questa lavoro di ricerca azione, consente allora di vedere come i


modi di abitare lo spazio specifici di una comunità si mantengano anche
quando lo spazio stesso si trasforma e, parallelamente, come la presenza
dei migranti introduca negli spazi sociali pratiche inedite. Non per nulla
le reazioni più forti alla presenza degli immigrati “si manifestano verso i
‘modi’ stranieri di riutilizzare il nostro spazio e contro gli ‘errori’ e i ‘bar-
barismi’ che segnalano, nei nostri modi di fare, questi usi differenti del
nostro territorio” (de Certau 2007: 222). In questo senso il caso della rac-
colta differenziata riportato da Altin in questo stesso volume è più che
eloquente.
Ma quando parliamo di comunità e di territorio cosa intendiamo?
Quale comunità? Quale territorio?
“La comunità ci manca perché ci manca la sicurezza [...] Ci sfugge con-
tinuamente di mano e continua a disintegrarsi, perché la direzione in cui
questo mondo ci sospinge [...] non ci avvicina affatto a tale meta; anziché
mitigarsi, la nostra insicurezza aumenta di giorno in giorno, e così conti-
nuiamo a sognare, a tentare e a fallire” (Bauman 2003: V).
La complessità delle condizioni di vita ha fondamentalmente modifi-
cato la struttura e l’uso dei legami primari nelle moderne società indu-
striali. La comunità, luogo caldo e accogliente, in cui contare sulla
benevolenza e in cui sentirsi sicuri sembrerebbe irrimediabilmente per-
duta, o forse non ancora trovata.“La vita di paese è fatta di legami (e s-le-
gami), e l’intreccio dei rapporti comunitari che costituiscono il paese non
è mai in equilibrio. [...] Ci sono legami obbligati che si intrecciano a le-
gami scelti. Ci sono relazioni che vengono strette e conflitti che vengono
alimentati per necessità e calcolo, sulla spinta di interessi, ma anche di
sentimenti e emozioni” (Gri 2007: 9).
La comunità di cui parliamo, allora, o in nome di cui parliamo, finisce
per essere non solo luogo dell’accoglienza, dell’incontro, della protezione,
dei legami, ma anche luogo del conformismo, dell’ubbidienza, dell’esclu-
sione, dell’allontanamento. Di quali comunità parliamo, allora, quando ci
riferiamo all’accoglienza degli immigrati? Delle comunità dense, che ine-
vitabilmente bloccano le relazioni, assicurando protezione e solidarietà, e
confermando le relazioni di potere, o di comunità più mobili, flessibili, in-
terconnesse (vedi Zoletto in questo volume)?
Le reti, più che i solidi confini della comunità, sembrerebbero rispon-
dere meglio alle necessità di velocità, leggerezza, flessibilità,“affrancando
l’immagine della comunità dai tratti localistici di un tempo, definendo
l’ipotesi di una forma diffusa della comunità, esente da costrizioni spa-
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PROGETTARE L’INTEGRAZIONE 49

ziali” (Stagni 1998: 226). Mentre le forme locali di solidarietà possono an-
cora essere descritte come densamente interconnesse e territorialmente
definite, le reti aprono nuove possibilità di analisi, basate sull’idea di le-
gami deboli, asimmetrici, episodici. Ciò che è sottoposto a tensione, in-
fatti, non sono solo i legami sociali, solidaristici o di controllo, ma
comunque di reciproco coinvolgimento, ma soprattutto “i modelli di co-
municazione e coordinamento tra politiche di vita condotte individual-
mente da un lato e le azioni politiche delle collettività umane dall’altro”
(Bauman 2002: XI).

1
Il Fondo Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza è stato istituito dalla Legge 285/97
e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, al fine di realizzare interventi a livello na-
zionale, regionale e locale per favorire la promozione dei diritti, la qualità della vita, lo svi-
luppo, la realizzazione individuale e la socializzazione dell’infanzia e dell’adolescenza. La
Legge ha portato all’attuazione di due piani triennali documentati presso la banca dati
dell’Istituto degli Innocenti di Firenze http://159.213.63.12/cdm_webif/bd_285_1/intro.htm.
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51

Tavoli, sportelli e servizi per l’immigrazione


(Paolo Tomasin)

Si è cittadini in quanto si è in una


comunità, ma non basta star dentro una
comunità per essere cittadini.
(G. Arena, Cittadini attivi)

Valutare l’integrazione dei cittadini stranieri nella società italiana è


un compito arduo, pieno di insidie e, soprattutto, ancora poco perse-
guito. Un tentativo di elaborazione di un modello – costituito prevalen-
temente da misure e indicatori statistici – per valutare “l’integrazione
degli immigrati stranieri, la loro coesistenza con la popolazione di ac-
coglimento e i loro rapporti con la popolazione di origine” (Golini 2006:
7) è stato effettuato da un gruppo di ricerca coordinato dal professor
Golini1. Benché interessante, lo sforzo di Golini e colleghi si rivela più
utile a comprendere il ‘quanto’ dell’integrazione dello straniero che il
‘come’: si valuta il risultato finale e non i mezzi necessari per conse-
guirlo. È infatti noto che l’integrazione è un processo complesso, dina-
mico e pluridimensionale, che implica anche la definizione di chiare
politiche pubbliche (policies) orientate in tal senso. Queste politiche de-
vono poi trovare un’adeguata traduzione operativa in puntuali iniziative
progettuali e servizi territoriali.
Il presente contributo si propone di sviluppare una riflessione fina-
lizzata alla valutazione di alcuni strumenti adottati per l’integrazione
dei cittadini stranieri nella società italiana e, in particolare, friulana. Il
focus è posto soprattutto sui mezzi impiegati e non sui risultati finali.
L’attenzione ai mezzi vuole marcare un intento operativo, pratico,
spesso espunto dalle valutazioni sull’integrazione. Un intento di tipo
tecnico che però non può permettersi di trascurare lo stretto legame
che necessariamente ogni mezzo intrattiene con le strategie politiche
delle forze politiche in campo. Politiche che determinano le disposizioni
normative, regolamentari e dunque le disponibilità di risorse finanzia-
rie pubbliche che rendono attuabile o meno l’implementazione dello
strumento.
L’occasione della riflessione qui condotta è data principalmente dai
risultati emersi dalla valutazione del Piano di zona 2006/08 dell’ambito
distrettuale di Cervignano del Friuli2 e dall’analisi degli esiti di un pro-
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52 ORDINARIE MIGRAZIONI

getto denominato E-DRIM3, realizzato sempre nello stesso territorio e


volto alla definizione di un modello di centri servizi e consulenza per gli
immigrati.
Nella prima parte è circoscritto il perimetro degli strumenti analiz-
zati – tavoli e sportelli – ben sapendo che non esauriscono tutti i servizi
adottati nel Cervignanese per l’integrazione dei cittadini stranieri. La
scelta di questi due strumenti è stata favorita anche dal fatto che non
sono mezzi dipendenti da specifici dettati normativi e quindi si rive-
lano maggiormente neutri rispetto ad altri.
Nella seconda parte sono presentati e discussi i risultati prodotti dal-
l’adozione di questi strumenti, soffermandosi su alcuni aspetti che da
tempo attraversano il dibattito sull’integrazione degli immigrati stra-
nieri: servizi dedicati vs servizi per tutti; iniziative a bassa soglia vs ini-
ziative solo per casi problematici; interventi ad alta visibilità vs
interventi a bassa visibilità.
Le conclusioni, necessariamente parziali e in progress, raccolte nella
terza ed ultima parte, si propongono l’obiettivo di fornire qualche utile
indicazione ad una eventuale riprogettazione di questa fattispecie di
strumenti.

1. Tavoli e sportelli
Tavoli di lavoro e sportelli informativi/consulenziali possono essere
considerati ormai due strumenti emblematici di attuazione delle politi-
che locali, non solo per quanto riguarda il tema dell’integrazione degli
stranieri. Con i tavoli di lavoro (detti anche tavoli tematici)4 ci si riferisce
al luogo della partecipazione, del confronto e raccordo interistituzionale;
con gli sportelli al luogo dell’erogazione di precise prestazioni5. Ri-
spetto ai beneficiari finali, i primi sono strumenti essenzialmente di
back-office, i secondi di front-office.
I tavoli tematici sono stati adottati nella prima tornata dei piani di
zona del Friuli Venezia Giulia in particolare per favorire un’analisi par-
tecipata dei bisogni, coinvolgendo soggetti istituzionali e non istituzio-
nali (terzo settore) e per raccogliere indicazioni programmatiche.
Generalmente i tavoli sono stati costituiti per area d’intervento. Le linee
guida regionali suggerivano, oltre alle azioni di sistema, le seguenti aree
d’intervento: a) minori e famiglia; b) anziani; c) disabilità; d) dipendenze
e salute mentale; e) disagio e marginalità sociale; f) altro da individuare
a partire da specificità territoriali6. Nell’ambito distrettuale di Cervi-
gnano del Friuli i tavoli tematici individuati per la partecipazione al pro-
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TAVOLI, SPORTELLI E SERVIZI PER L’IMMIGRAZIONE 53

cesso programmatorio del piano di zona sono stati 7, tra cui anche
quello dedicato all’immigrazione. La scelta dell’attivazione di questo
tavolo tematico è indubbiamente interpretabile come l’esito di un’at-
tenzione al tema da parte dei Servizi Sociali che nasce fin dalla metà
degli anni novanta del secolo scorso7, prosegue con gli interventi per
l’infanzia e l’adolescenza del primo e secondo piano territoriale ex legge
n°285/1997 ed arriva sino all’avvio del PDZ.
I componenti del tavolo sono riportati nella tabella n°18. Come si
può notare la gran parte degli attori convocati al tavolo immigrazione
sono organismi istituzionali afferenti alle aree dei servizi socio-assi-
stenziali, sanitari e scolastici (non compaiono i servizi per il lavoro); dei
sei attori non istituzionali, tre sono quelli del privato sociale con un’at-
tività rivolta specificamente agli immigrati (CESI, ALEF CGIL, ACLI); è
assente invece una diretta rappresentanza dei destinatari degli inter-
venti, in quanto nel territorio in quel momento non vi erano associa-
zioni di cittadini stranieri.
ENTE O ASSOCIAZIONE
Assessore alle Politiche Sociali
Comune di Cervignano del Friuli
Coordinatrice Area Minori SSC
Comune di Cervignano del Friuli
Assistente Sociale SSC Comune di Ruda
Convenzionata Comune di Cervignano del Friuli
Direttore Distretto Sanitario Est ASS 5
Psicologa EMT Distretto Sanitario Est ASS 5
Medico Medicina Generale Distretto Sanitario Est ASS 5
Dirigente Direzione Didattica Aquileia
CESI Centro Solidarietà Immigrati Udine
ACLI
ALEF CGIL Udine
Nemesi – Consorzio IL MOSAICO – Palmanova
Consorzio COSM Udine
Parrocchia Cervignano del Friuli
Assistente Sociale SSC Comuni di Bagnaria Arsa e Bicinicco
Responsabile Area Integrazione Sociosanitaria ASS 5

Tabella n°1: Composizione del tavolo immigrazione del Piano di Zona


di Cervignano del Friuli.
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Il progetto E-DRIM e l’analisi valutativa del Piano di zona hanno


considerato cinque sportelli o servizi di front office attivi sul territorio di
Cervignano del Friuli, di cui quattro privati ed uno pubblico9:
– sportello dell’ALEF CGIL, aperto sei ore la settimana, dedicato pre-
valentemente alle questioni inerenti il lavoro (compilazione di pra-
tiche, vertenze, informazioni varie, ecc..);
– sportello di Vicini di Casa, con due sedi: Cervignano del Friuli e Pal-
manova, specializzato nei servizi di ricerca abitativa;
– sportello orientamento ACLI, volto all’azione di accoglienza ad
ampio raggio e all’orientamento per favorire un miglior accesso ai
servizi da parte degli stranieri;
– sportello dei Mediatori di Comunità (con sede a Udine)10, specia-
lizzato in servizi di mediazione culturale, interpretariato e tradu-
zione;
– sportello del Servizio Sociale, aperto a qualsiasi problematica e fun-
zionante anche come invio per gli sportelli più specializzati.

2. A chi servono le iniziative per l’integrazione?


Il tavolo dell’immigrazione, come i restanti tavoli del piano di zona
di Cervignano del Friuli e di gran parte dei piani di zona della regione,
è rimasto attivo solo durante la fase di elaborazione del piano, parteci-
pando all’analisi dei bisogni della popolazione e fornendo indicazioni
per la programmazione. Ha cessato l’esistenza all’avvio dell’attuazione
delle iniziative progettuali, lasciando spazio ad incontri più operativi
dei partner di progetto. È dunque difficile valutare in modo completo la
funzione svolta da questo tavolo tematico in un arco di tempo più ampio
di quello della fase programmatoria11. Nondimeno è possibile tentare
di capire qui l’utilità di un tavolo tematico dell’immigrazione, ricor-
rendo anche ad altre esperienze territoriali affini. Innanzitutto ha rap-
presentato (o avrebbe dovuto rappresentare) la composizione dei
diversi interessi presenti nel territorio sul tema dell’integrazione degli
stranieri. L’assenza di attori chiave infatti mina la legittimazione del ta-
volo stesso, nonché la sua operatività. Nel PDZ di Cervignano del Friuli
il tavolo ha offerto visibilità e partecipazione ai principali attori in gioco,
sia a quelli pubblici che privati, sia a quelli con servizi dedicati agli stra-
nieri (associazioni) che a quelli rivolti alla totalità della popolazione (es.
scuola, servizi sociali e sanitari). Questa banale constatazione è ciò che
permette l’attivazione di una governance territoriale, principale stru-
mento oggi a disposizione degli enti pubblici per raggiungere i propri
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TAVOLI, SPORTELLI E SERVIZI PER L’IMMIGRAZIONE 55

obiettivi istituzionali. Il tavolo dell’immigrazione è servito innanzitutto


ai decisori delle politiche pubbliche locali. In questo risiede d’altra parte
l’essenza di questo strumento. In secondo luogo il tavolo ha innescato
un incremento di conoscenza reciproca12 e dunque l’avvio di nuove e
inedite relazioni tra i soggetti partecipanti difficilmente controllabili e
misurabili. Il tavolo si rivela dunque mezzo indispensabile per gene-
rare nuova relazionalità, per attivare e/o mantenere la rete inter-istitu-
zionale, per concretizzare il principio della sussidiarietà orizzontale. In
questo secondo aspetto il tavolo si rivela utile a tutti i suoi partecipanti
che, nel caso di Cervignano del Friuli, erano tutti rappresentanti di cit-
tadini italiani.
Dai risultati emersi dall’analisi degli sportelli per gli immigrati stra-
nieri del Cervignanese ci si sofferma solo su quelli maggiormente perti-
nenti alla riflessione in oggetto:
– rappresentano spesso un primo punto d’accesso del cittadino straniero
al complesso sistema dei servizi alla persona italiana; abbassano la so-
glia per favorire il contatto con stranieri recentemente arrivati o ancora
poco spaventati dal sistema istituzionale; la forte connotazione reli-
giosa o politica in genere disincentiva l’avvicinamento, ma nel tempo
è la relazione di fiducia che si instaura tra operatore e utente che offre
la miglior garanzia per la frequentazione dello sportello;
– offrono servizi soprattutto informativi e di supporto alla stesura di pra-
tiche per aiutare gli utenti a districarsi nei meandri della burocrazia ita-
liana; spesso le richieste degli utenti si allargano ad aree di competenza
non previste dallo sportello e seguono contingenze normative o di an-
damento economico13; in particolare alcune richieste debordano in
quanto si configurano come necessità di accompagnamento fisico nei
diversi servizi, modalità non prevista dagli sportelli che sono stanziali;
– erogano prestazioni anche a cittadini italiani e non solo a stranieri14;
anzi nel periodo analizzato si è assistito proprio ad una diversificazione
dell’utenza unita dal tipo di bisogno (casa, lavoro) piuttosto che dal-
l’appartenenza ad una cittadinanza non italiana;
– sono raggiunti da un pubblico che è venuto a conoscenza del servizio
prevalentemente attraverso il passaparola, ma fondamentale si è rive-
lato anche l’invio da parte di altre uffici15;
– si servono di operatori giovani, motivati e competenti, ma contrattual-
mente precari; ciò origina un certo turnover, rallenta la collaborazione
tra i vari sportelli (resa efficace solo quando vi è anche una conoscenza
interpersonale degli operatori)16;
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– sono dotati di scarsi mezzi informatici che limitano i servizi possibili,


in particolare quelli fruibili online17.

Servizio Possibili vantaggi Possibili svantaggi


- Favorisce la comunicazione, la
conoscenza, nonché la - Assenza di soggetti rilevanti
governance territoriale. (in particolare stranieri)
- Offre partecipazione e - Non presidio delle politiche
TAVOLO
visibilità ai diversi soggetti locali (tavolo pleonastico).
coinvolti. - Non continuità.
- Crea le premesse per ulteriori - Bassa operatività.
scambi operativi.
- Instaura un primo dialogo con - Raccordo assente o limitato
i cittadini stranieri (riduce tra gli sportelli del territorio.
distanza sociale). - Limitate risorse strutturali e
SPORTELLO - Favorisce l’accesso ai diversi professionali.
servizi presenti sul territorio. - L’ampliamento e la
- Offre risposte puntuali e diversificazione della
concrete domanda.

Tabella n°2: Tavoli e sportelli: vantaggi e svantaggi per l’integrazione


degli stranieri

A partire da queste evidenze, relative sia ai tavoli che agli sportelli,


è possibile riprendere una ad una le alternative che attraversano il di-
battito sui servizi per l’integrazione degli stranieri sopra esposte. Da
quanto emerso dalla valutazione degli sportelli, ma anche del tavolo te-
matico, la dicotomia se realizzare servizi dedicati ai soli cittadini stra-
nieri oppure aperti a tutti i portatori di bisogni, aldilà della cittadinanza,
sembrerebbe propendere verso un’indifferenziazione dei destinatari.
Eppure esistono delle specificità sociali, culturali, linguistiche, ecc.. (si
potrebbero ridefinire i punti di partenza degli utenti) che non possono
essere livellate e che vanno considerate per favorire un’adeguata inte-
grazione.
Altrettanto dibattuta è l’alternativa se le iniziative a favore degli stra-
nieri debbano essere attivate solo per casi di patologie sociali o sociosani-
tarie conclamate (multiproblematicità), oppure possano essere anche a
bassa soglia, ovvero caratterizzate dall’essere preventive, informative, che
si collocano nell’area del benessere. Le evidenze sopra esposte non la-
sciano dubbi in proposito e soprattutto ribadiscono l’importanza di servizi
di base, per tutti indistintamente, di tipo universalistico. Questi servizi
però, è bene sottolinearlo subito, risultano difficilmente valutabili nel
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TAVOLI, SPORTELLI E SERVIZI PER L’IMMIGRAZIONE 57

breve-medio periodo. L’integrazione nella società d’arrivo, dopotutto, è


un processo lento, pervasivo e dunque a bassa soglia, misurabile solo nel
medio-lungo periodo. Richiede un investimento estensivo prolungato nel
tempo. Eppure spesso è il trattamento della patologia sociale, il caso ecla-
tante, sempre economicamente intensivo, che viene spacciato come vera
capacità di integrazione.
Infine, una dicotomia ben presente nelle strategie politiche (che ha
ormai una diffusione ben più ampia delle forze di partito dichiaratamente
xenofobe) è quella che pone l’alternativa di interventi caratterizzati da alta
visibilità sociale (inclusa quella mediatica), contro interventi a bassa visi-
bilità. In questo secondo caso, pensando di raggiungere una più elevata
accettazione sociale da parte degli autoctoni, si interviene offrendo ser-
vizi territoriali ai cittadini non italiani e non comunitari, ma lo si fa in sor-
dina, senza farlo troppo sapere in giro. Gli sportelli esistono e sono aperti,
ma non si comunica all’esterno, i tavoli ci sono ma rimangono luoghi per
tecnici e addetti ai lavori. Quasi che il principio universalistico per il go-
dimento dei diritti riconosciuti dalla nostra costituzione fosse una cosa di
cui vergognarsi di fronte alla più ampia cittadinanza.
Sintetizzando si potrebbe affermare che le tre dicotomie analizzate
sono false (una scelta non esclude l’altra) o perlomeno non assolute, in
quanto vanno calate di volta in volta in un particolare contesto territoriale,
in un determinato e circoscritto periodo, nelle specifiche problematiche.
L’analisi dei tavoli e degli sportelli sopra offerta ci aiuta a superare queste
pseudo alternative e ci spinge a concentrarci sulla loro effettiva utilità ri-
spetto all’integrazione18.E soprattutto a chiederci: a chi servono alla fine le
iniziative messe in atto? Chi ne trae vantaggio? La domanda può essere
adottata come rasoio di Occam per i servizi di integrazione. Solo di fronte
ad iniziative paragonabili e giochi a somma diversa da zero (ovvero dove
alla perdita di una parte corrisponde la vincita dell’altra), e in cui invece
tutti i partecipanti traggono vantaggio, è lecito dichiarare di essere in pre-
senza di un’effettiva integrazione tra cittadini di diversa provenienza na-
zionale.
Infatti per quanto riguarda la prima dicotomia, relativa al target a cui
destinare i servizi, è possibile pensare a sportelli che, pur aperti a tutti, ab-
biano le competenze per trattare i casi particolari degli stranieri; così come
è plausibile attivare tavoli misti e, se il caso, a specie di tavoli in grado di
ricomporre gli interessi dei soli stranieri (si pensi alle consulte). Per quanto
riguarda la seconda, relativa alla soglia di intervento, sportelli e tavoli sono
strumenti generalmente di bassa soglia, ma ciò non vieta che intercettino,
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si occupino (per l’invio o per affrontare una analisi) anche di casistica pro-
blematica. La visibilità degli strumenti per l’integrazione infine risponde
a logiche opportunistiche che niente hanno a che vedere con l’effettiva ca-
pacità di tavoli e sportelli di raggiungere gli obiettivi prefissati.

3. Un futuro per le politiche di integrazione?


La struttura della popolazione di cittadinanza non italiana presente
nel territorio regionale e di Cervignano del Friuli è fortemente cambiata
negli ultimi anni. Il fenomeno delle badanti, l’importanza assunta dalle
seconde generazioni, l’incremento degli stranieri ultrasessantenni, la pre-
senza dei naturalizzati italiani sono solo alcuni degli aspetti che stanno
alterando ciò che identifichiamo come immigrazione straniera. Da ultima,
la crisi economico-finanziaria e del mercato del lavoro abbattutasi dalla
fine del 2008 e tuttora diffusa in questo territorio sta ulteriormente alte-
rando il profilo di queste comunità.
Gli strumenti per l’integrazione degli stranieri, ideati e adottati appena
qualche anno fa, dovranno sicuramente essere riprogettati per far fronte
a questi cambiamenti19.La velocità del fenomeno immigratorio che ha ca-
ratterizzato il nostro Paese intacca inevitabilmente anche le politiche pub-
bliche locali, richiedendo una capacità di reazione ed intervento adeguati.
C’è bisogno di continuare il confronto con gli altri Paesi europei e con
quelli che da più tempo hanno sperimentato politiche di integrazione, ma
c’è bisogno anche di immaginare percorsi e soluzioni nuove. L’integra-
zione della nuova migrazione non ha un chiaro e delimitato spazio, nem-
meno un cammino preferenziale: passa per i campi da gioco (Zoletto 2010),
come per la scuola, le periferie delle città, i bar, i media, ecc..
Tra i nuovi servizi già ipotizzati, anche nel territorio di Cervignano del
Friuli, per l’integrazione vale la pena di ricordare quello della costituzione
di una consulta dei cittadini stranieri. Questo strumento, in assenza del
voto amministrativo concesso anche ai cittadini non comunitari residenti
da tempo in un comune, si rivela sempre più indispensabile per respon-
sabilizzare gruppi numerosi di stranieri, ma anche per rendere effettiva la
democrazia locale. Si consideri il seguente caso (non certo improbabile):
se in un comune con una presenza del 25% di residenti non comunitari
(ovvero 1 su 4) i votanti italiani raggiungono il 60%, significa che ha
espresso il proprio voto solo il 45% degli abitanti della comunità.
Tavoli e sportelli, oggetto di questa riflessione, come gli altri servizi ter-
ritoriali per l’integrazione qui non trattati, necessiteranno di una ridefini-
zione alla luce delle trasformazioni in corso. L’analisi della loro utilità è
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TAVOLI, SPORTELLI E SERVIZI PER L’IMMIGRAZIONE 59

imprescindibile da quella delle caratteristiche del contesto in cui si im-


plementano.
I futuri tavoli tematici necessiteranno di essere flessibili e sempre
aperti a nuove componenti, di essere soprattutto continuativi, volti a pre-
sidiare il raccordo tra i soggetti di diverse aree e favorire la partecipazione.
La regia pubblica – una sorta di governance multilivello20 – di questi stru-
menti dovrà essere chiara, ma la responsabilità dovrà essere condivisa tra
tutti i partecipanti. Al tavolo, emblematico strumento di una società ri-
flessiva, potranno essere affidate funzioni di pianificazione, ma altresì di
monitoraggio e valutazione degli interventi.
Agli sportelli tradizionali è richiesta una notevole evoluzione, do-
vranno disporre delle risorse professionali, relazionali e strumentali ne-
cessarie a intercettare le nuove e più sofisticate richieste e soprattutto
dimostrare capacità nell’attivare reti, operative e altamente informatiz-
zate, con tutto ciò che è front-office nel territorio al fine di riuscire a dare ri-
sposte integrate.

1
Con meno pretese, anche la Regione Friuli Venezia Giulia - Struttura Stabile per gli
Immigrati nel 2006 ha affidato all’IRES FVG (in quanto gestore dell’Osservatorio Regionale
sull’Immigrazione), la realizzazione del Primo Censimento delle politiche ed interventi fi-
nanziati dalla Regione in favore dell’immigrazione con l’obiettivo di raccogliere ed elabo-
rare dati e informazione per il monitoraggio e la verifica dell’efficacia degli interventi
attuati in materia di immigrazione.
2
Il Piano di zona (PDZ), istituito a livello nazionale dalla L. 328/2000 ed introdotto a li-
vello regionale dalla LR. 6/2006 “è lo strumento fondamentale per la definizione del si-
stema integrato degli interventi e servizi sociali del territorio di competenza dei Comuni
associati negli ambiti distrettuali. Il PDZ costituisce inoltre mezzo di partecipazione degli
attori sociali al sistema integrato”(art. 24, 1° comma). Per un’analisi della partecipazione dei
diversi attori sociali nei vari piani di zona della regione si rimanda allo studio curato da
IRES FVG (IRES FVG 2009). L’ambito distrettuale di Cervignano è stato uno dei pochi in
Friuli Venezia Giulia a dotarsi anche di una valutazione esterna del PDZ.
3
Acronimo di European Dream for Immigrants, progetto di cooperazione europea fi-
nanziato dalla Commissione Europea nell’ambito del Programma Socrates Azione Grun-
dtvig, avviato nell’ottobre del 2004 e terminato due anni dopo.
4
Il termine tavolo, variamente declinato (tavolo di concertazione, di negoziazione,
ecc..), è diventato di uso comune in molti settori. Per una sua analisi nel campo del welfare
di comunità si rimanda al lavoro di Franco Vernò, benché l’autore adotti un approccio
d’analisi fondato sui gruppi di lavoro, contesto ritenuto da chi scrive assai diverso dai ta-
voli (Vernò 2007). Per un’analisi nel campo della cooperazione allo sviluppo si rimanda al
lavoro di tesi di dottorato di ricerca di Flavia Virgilio (Virgilio, 2007/2008) e alla tesi di lau-
rea di Giulia Pinat (Pinat 2006/07).
5
Da qualche anno è presente una pubblicistica volta a suggerire sportelli unici in ogni
campo: da quelli per le imprese a quelli per i cittadini. La proposta se da un lato sembra
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dettata da intenti di razionalizzazione, dall’altro non fa completamente i conti con una di-
versificazione e policentricità dei bisogni, nonché con il diffondersi di sempre nuovi at-
tori, pubblici e privati, ed infine con le possibilità offerte dalle tecnologie di rete fondate su
modelli che prevedono numerosi punti di accesso tra loro collegati.
6
Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Direzione centrale salute e protezione so-
ciale, Linee guida per la predisposizione dei piani di zona, novembre 2004.
7
Durante la guerra nella ex Jugoslavia, la caserma Monte Pasubio di Cervignano del
Friuli diventa sede di uno dei campi di accoglienza per profughi e sfollati (Cfr. Bazoli 1995).
8
Per un approfondimento si rimanda a: Ambito distrettuale 5.1 di Cervignano del
Friuli, PIANO DI ZONA 2006/08, 31/01/2006.
9
Le attività degli sportelli risultavano essere una delle azioni del progetto del Piano di
Zona denominato“Limina: territorio, partecipazione, cittadinanza”. Gli stessi sportelli sono
stati oggetto di valutazione del progetto E-DRIM.
10
In questo caso è probabilmente improprio parlare di “sportello” in quanto si tratta
di una segreteria presso la sede dell’associazione che offre servizi prevalentemente ad am-
ministrazioni pubbliche (Enti Locali, Aziende Sanitarie, Istituti scolastici, Questura, Pre-
fettura, Tribunali, ecc...). Nel progetto E-DRIM il termine impiegato è stato “Centro servizi
e consulenza” intendendo un’unità organizzativa, facente parte di un organismo privato o
pubblico, che offre una serie di interventi (informativi, consulenziali, di aiuto, di media-
zione, ecc..) in una gamma differenziata di settori (casa, lavoro, lingua, assistenza e salute)
pensati per l’integrazione sociale degli stranieri.
11
Infatti non ha costituito oggetto valutativo del processo di valutazione esterna rea-
lizzata dai soggetti incaricati IRSSeS ed e-labora.
12
Nel caso in questione tutti i soggetti erano già abbastanza noti. In altri casi il tavolo
rappresenta un’occasione fondamentale per conoscere in profondità gli attori presenti su
un dato settore. Nondimeno il contatto favorisce sempre l’attivarsi di relazioni di scambio.
13
Nel caso specifico il decreto flussi ha favorito l’incremento delle richieste per prati-
che per il ricongiungimento familiare; così come l’incremento del costo degli alloggi ha
esteso e modificato la tipologia di fruitori di uno sportello.
14
Una quantificazione puntuale della numerosità degli utenti degli sportelli non è
stata possibile. Mediamente gli operatori facevano riferimento ad una decina di persone
alla settimana.
15
Da qui l’utilità anche di guide dei servizi ad uso di operatori oltre che di cittadini. Uno
dei prodotti nell’area dell’immigrazione del PDZ 2006/2008 di Cervignano del Friuli è stato
proprio la predisposizione in diverse lingue di una Guida dei Servizi agli Immigrati.
16
È interessante notare come la valutazione abbia costituito anche momento di cono-
scenza e confronto tra gli operatori degli sportelli.
17
L’analisi ha permesso di evidenziare l’assenza quasi in tutti gli sportelli della con-
nessione internet e la presenza di vecchi personal computer senza le adeguate periferiche.
18
Il criterio di matrice funzionalista dell’integrazione qui scelto non opta per una uti-
lità-funzionalità unilaterale, della sola società ospitante, ma per entrambe le parti coin-
volte, come si dirà più avanti.
19
Le trasformazioni sociodemografiche di tipo strutturale qui presentate sono – nello
specifico caso oggetto di studio - ben più influenti del cambiamento delle strategie politi-
che regionali. L’ipotesi sottostante a tutta la riflessione sviluppata è che comunque l’inte-
grazione del cittadino straniero sia una politica che continua ad essere perseguita anche
dalle odierne forze politiche che amministrano la Regione.
20
Per “governance multilivello” si intendono “scambi negoziati e non gerarchici tra
istituzioni che si collocano a livello transnazionale, nazionale, regionale e locale” (Bobbio
2005).
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Nostalgia del futuro.


Prospettive pedagogiche e interdisciplinari
(Roberto Albarea)

1. Una riflessione e uno squilibrio


Lo ammetto, ho copiato.
Il titolo di questo contributo è tratto da una raccolta di scritti scelti
di Luigi Nono, dal 1948 al 1986, raccolta curata da Angela Ida De Bene-
dictis e Venerio Rizzardi (2007). Infatti, nel cosiddetto Questionario
‘Proust’, rivolto al compositore e posto a chiusura del volume, a mo’ di
Post-ludium dell’intera raccolta, ma paradigmatico per il carattere auto-
biografico delle risposte, alla domanda “Il principale tratto del Suo ca-
rattere?”, Nono risponde: “La nostalgia del futuro”.
Si tratta, leggendo la raccolta di scritti, di un anelito verso una cono-
scenza e una realtà altra non ancora realizzata, ma che ben illumina quel
particolare spleen propulsivo che ha accompagnato il musicista nel suo
itinerario creativo. Il cammino operativo di Nono è contrassegnato da
conquiste e innovazioni nate attraverso una accorta pratica di reinter-
pretazione della tradizione e sembra essere contraddistinto da una pro-
gettualità in continuo progresso e autoriflessione. Il principio della
trasformazione risulta essere insito nella pratica della composizione e la
nostalgia del futuro, a mio avviso, ne è una imprescindibile dimensione.
Egli dice: “Penso però che ora convenga parlare di diversità e di con-
flitto, di alterità, di differenze come principi capaci di provocare drammi
e tragedie (in campo musicale, nella musica e non in musica). In un
tempo in cui si cerca di ‘aggiustare’ tutto, in cui si fanno accordi fra su-
perpotenze mentre si continuano le guerre aperte (massacri e disastri
umani che si perpetuano), chi tenterà di infrangere questa regola del
gioco, di violarla, e, dissentendo, scoprire altre regole in altri giochi,
verrà messo al bando, come è sempre successo dall’antichità ad oggi”
(Nono 2007: 251). E questo è ciò che permette la nostalgia del futuro in
campo educativo: differenze, alterità, conflitti nell’educazione e non in
educazione. Si tratta di “Frantumare l’infranto. Esiste oggi molto di ‘in-
franto’: può essere l’infranto ‘in quanto tale’, oppure, anche, l’infranto
‘da ricomporre’ (così nel pensiero di Massimo Cacciari). I frammenti
che farò ascoltare sono materie che, infrante, sono pronte a sottomet-
tersi a un mio tentativo di ‘ricomposizione’“ (Nono 2007: 246).
Per cui, nei luoghi dell’educazione può succedere di essere ‘senza
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62 ORDINARIE MIGRAZIONI

idee’, senza programmi già definiti; si tratta di entrare in situazione ab-


bandonando il logocentro, la perdita di quel principio per cui sempre
una idea dovrebbe essere l’antecedente di un’altra, usare strumenti
analogici, lavorare sulle intuizioni immediate e mediate, sulla stru-
mentazione e sulla ricerca: lavorare con tenacia e pathos là dove le cose
non tornano (come disse Rita Levi Montalcini1) ma dove tutto, alla fine,
ti ritorna. Il tutto va però naturalmente discusso, tentando di costruire
un terreno di dialogicità, per contrasto e per analogie. Una sorta di ri-
sonanza tra persone e cose.
Da un punto vista educativo questo non significa abbandonare le
conoscenze disciplinari, ma servirsi di esse per andare oltre.
Così Ramon Panikkar: “Quando parliamo veramente, non ci limi-
tiamo ad allertare la nostra umanità, la trasformiamo. Homo loquens non
significa semplicemente che siamo animali parlanti, ma anche che
siamo umani proprio per il fatto che parliamo. Mi riferisco qui alle vere
parole umane e non ai semplici termini, che sono solo etichette per le
cose empiricamente verificabili. La parola è un simbolo, il termine un
segno [...] Se studiamo - nel senso profondo e classico della parola stu-
dium (sforzarsi con tutto il proprio essere verso la verità) – una tradi-
zione differente dalla nostra, proprio questo studio conduce alla fine a
una comprensione di molte nuove intuizioni di quella tradizione. Ma
ciò produce anche un mutamento in noi stessi” (Panikkar 2007: 9 e ss.).
Luigi Meneghello in Libera nos a malo, racconta, da scrittore, un epi-
sodio che è sintomatico di ciò:

“Il mio maestro, don Tarcisio, racconta nel suo ‘Diario’ la


visita di consolazione che andò a fare al padre contadino del
primo compaesano morto in guerra, qualche giorno dopo che
era arrivata in paese la notizia, nel giugno 1915: ‘mi imbattei
proprio in lui mentre, col falcetto in mano, si recava insieme
ad alcune sue ‘opere’ in un campo vicino a mietere; ma di
fronte a lui tutta la mia eloquenza consolatoria svanì e, dopo
un cenno di saluto, non seppi trovare una parola da rivolger-
gli’. Il vecchio disse al prete: ‘Signore! Mi è toccata ben
amara!’ Don Tarcisio trascrive le parole così. Poi il vecchio
disse che quando suo figlio era partito, l’aveva incoraggiato a
fare il suo dovere, e aggiunse: ‘E lui, signor, mi ha promesso
che farà bene il suo dovere’. Il mio maestro dice che si sentiva
molto commosso per l’ ‘alto e nobile sentire’ del vecchio.
Anch’io sento nel racconto qualcosa di commovente, ma
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NOSTALGIA DEL FUTURO. PROSPETTIVE PEDAGOGICHE E INTERDISCIPLINARI 63

credo sia nella parola ‘signor’, che scritta così, e pronunciata


signòr con la ò aperta renda l’idea di ciò che il vecchio conta-
dino può effettivamente aver detto, mentre è certamente svi-
sata la trascrizione della prima frase (dove nota che ‘Signore’
vuol dire Sir e non My God [...]). C’è qualcosa di dolorosamente
simbolico in questo confronto del vecchio contadino at the re-
ceiving end, col giovane prete, rappresentante qui del mondo
dei signòri, delle scuole, della lingua scritta in cui si ricevono le
cartoline precetto e gli ordini di pagare le tasse; il mondo dei
‘doveri’ (parola in accezione morale sconosciuta al dialetto), e
delle guerre che portano via sempre da un giorno all’altro i
figli adulti, unica vera ricchezza dei contadini.
Non posso credere che questo contadino che chiama il prete
signòr, e parla di qualcosa come ‘fare il suo dovere’, sia un esem-
pio di alto e nobile sentire, perché queste ultime parole, e i re-
lativi concetti, non esistono nel suo mondo. L’alto e nobile
sentire credo che ce lo mettiamo noi. Finché si trascrive in ita-
liano non si può andare oltre a un certo punto per arrivare alla
verità di chi non parla italiano; non è una questione materiale di
parole, ma una questione di impostazione. Dov’è il centro?
Penso che la chiave dell’episodio stia in ciò che il contadino
effettivamente diceva; ma noi abbiamo solo una traduzione
scritta in altra lingua. Se avessimo le parole autentiche (che
senza dubbio il mio maestro capiva alla perfezione, e certo s’in-
gegnava di tradurre onestamente, ma secondo le categorie del
mondo dei signòri) chissà che impressione ci farebbe quel ri-
chiamo al ‘dovere’?” (Meneghello 1975: 263-264).

In effetti occorre simpatia e, in ultima analisi pathos ed amore, per


raggiungere l’originalità di una persona (e forse, nemmeno quello basta
al mistero dell’umano), il pìsteuma che riflette senza distorsioni la vi-
sione dell’altro. Ma, per aprirsi a ciò, occorre partire dalla convinzione
che non sia possibile comprendere senza amore: abbandonare il logo-
centro, essere ‘senza idee’, come dice Nono, mantenendo lo slancio
creativo in ascolto e in movimento. Jacques Maritain ne dà una sapiente
e acuta interpretazione quando introduce, non solo in campo estetico,
o religioso o mistico, la sua concezione della conoscenza per connatu-
ralità (Maritain 1983), la quale, originata dal tomismo, poi viene svilup-
pata dal filosofo francese nelle sue componenti più originali e feconde,
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64 ORDINARIE MIGRAZIONI

cui non è estranea l’influenza della moglie Raissa e i ‘grandi amici’ rac-
colti a Meudon (Maritain 1975).
In effetti, se si vuole costruire un dialogo dialogante, si deve in qual-
che modo credere ciò che l’altro crede, in un processo che Panikkar
chiama di “sovrapposizione” e non di “identificazione”: la dimensione
interiore, personale, culturale o religiosa che sia, si libera da camicie di
forza sociologiche dogmaticamente imposte per entrare in una zona
dell’umano reciprocamente esplorata. “Possiamo stabilire il significato
delle parole durante il dialogo stesso, e non rimanere impigliati in si-
gnificati inflessibili, stabiliti una volta per tutte. Il punto di riferimento
per il significato di una parola non risiede esclusivamente nella nostra
tradizione, ma è portato avanti nell’incontro dialogico stesso” (Panikkar
2007: 17). Lo stesso vale per la trasversalità disciplinare e per la trasver-
salità formativa (valoriale): il significato di tali trasversalità sta (la prima)
nella esplorazione delle discipline, negli anfratti tra confini disciplinari,
non prescindendo da essi, così come il significato valoriale del rapporto
dialogico sta nel cercare con tenacia e cautela (sostenibilità) il senso dei
valori situati in uno spaccato culturale e nelle dinamiche contestuali
(Albarea 2006b).
Questo permette anche di tenere sotto controllo e di gestire i rapporti
di potere tra culture, classi sociali e persone, di focalizzarsi, per evitarne
gli effetti nocivi e rendersene conto, sulla simbiosi tra potere e cono-
scenza, sulla transazionale natura del potere e le sue manifestazioni a li-
velli multipli. Il concetto di subordinato, ad esempio, si mostra più esteso
e più variabile di quanto non appaia ed è connesso al principio di auto-
nomia. Infatti si è posto l’accento sia sullo stato di minorità di un individuo
che non sa esercitare appieno la sua autonomia, anche in situazioni sto-
riche e istituzionali di libertà (Iacono 2000), sia sulla differenza tra rela-
zioni di potere e stati di dominio (Foucault 1998). C’è pertanto differenza
tra libertà e autonomia: esse non si pongono come passaggio necessario
e sequenziale dall’una all’altra. Se si attribuisce alla nozione di libertà
quel che concerne la dimensione oggettiva, istituzionale dell’essere li-
beri, e alla nozione di autonomia la dimensione soggettiva, individuale,
allora si possono immaginare situazioni di libertà senza autonomia e, vi-
ceversa, situazioni di autonomia senza libertà.
Le relazioni di potere si distinguono dagli stati di dominio perché
lasciano spazio a giochi di relazione, a mediazioni intelligenti (come
nella relazione autenticamente educativa), alle regole del diritto, alle
modalità di gestione e di governo, all’ethos personale e alla testimo-
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NOSTALGIA DEL FUTURO. PROSPETTIVE PEDAGOGICHE E INTERDISCIPLINARI 65

nianza (del cittadino, dell’educatore), alla pratica di sé come pratica di


libertà. Solo alla ricerca di significati plurimi di cittadinanza (che si con-
nette a significati situati e plurimi di subordinato e di ‘minore’) le rela-
zioni di potere tra disuguali possono evolversi verso relazioni tra
diversi, raggiungendo forme di equità, relativamente stabili ma sempre
dinamiche: forme di equità che segnano l’incontro o l’antinomia tra
uguaglianza e differenza.
Così anche per l’identità, secondo Amartya Sen (2006).

2. Identità e appartenenza
Il concetto di identità (parte o totalità degli attributi che denotano
l’appartenenza di una o più persone a determinati gruppi) è basilare.
Supporre l’appartenenza a gruppi diversi (diversi per i loro attributi
prevalenti e diversi per via delle persone che vi sono accolte) significa
riconoscere la legittimità di più culture (la cosiddetta diversità dei di-
versi),oltre all’esistenza di veri e propri ruoli sociali.
Ogni persona fa parte simultaneamente di gruppi diversi senza che
ciò costituisca in qualche misura una contraddizione (si tratta piuttosto di
saper gestire tali antinomie e, a volte, squilibri): di fatto ognuno di tali
gruppi di appartenenza conferisce a ciascun soggetto una parte di quelle
identità comuni (relazione, operatività, inclusione, ecc.) che, a seconda del
contesto sociale, gli possono risultare più o meno utili o convenienti.
Nella nostra vita attiva ci consideriamo membri di quei gruppi ai
quali per certi versi e in una certa misura facciamo riferimento. Dice
Sen: “La cittadinanza, la residenza, l’origine geografica, il genere, la
classe, la politica, la professione, l’impiego, le abitudini alimentari, gli
interessi sportivi, i gusti musicali, gli impegni sociali e via discorrendo
ci rendono membri di una serie di gruppi. Ognuna di queste collettività
cui apparteniamo simultaneamente, ci conferisce un’identità specifica.
Nessuna di esse può essere considerata la nostra unica identità o la no-
stra unica categoria di appartenenza” (Sen 2006: 6).
Ad esempio, continua Sen, “Un manovale hutu a Kigali può essere
spinto a considerarsi solamente un hutu, essere incitato a uccidere i
tutsi: eppure non è soltanto un hutu, è anche un abitante di Kigali, un
cittadino del Ruanda, un africano, un manovale e un essere umano.
Oltre a riconoscere la pluralità delle nostre identità e delle loro diverse
implicazioni, c’è l’esigenza, di fondamentale importanza, di compren-
dere quale ruolo giochi la scelta nel determinare il peso e la persuasività
di identità specifiche, che sono inevitabilmente diverse” (Sen 2006: 6).
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66 ORDINARIE MIGRAZIONI

Questo ruolo persuasivo viene giocato anche da una serie di scuole di


pensiero (talune ben intenzionate, ma dagli effetti piuttosto disastrosi),
come i comunitaristi, che considerano l’identità comunitaria non sol-
tanto preminente, ma anche predeterminata, come per natura, senza
alcun bisogno di un atto di volontà dell’essere umano (solo di un ‘rico-
noscimento’, per usare un termine molto popolare) e che comprende
anche quegli irremovibili teorici culturali che suddividono la popola-
zione terrestre in tanti piccoli compartimenti ognuno corrispondente
ad una diversa civiltà (Sen 2006).
La menomazione peggiore avviene forse quando viene trascurato, e
negato, il ruolo della scelta razionale, che è una diretta conseguenza del
riconoscimento delle identità plurali. L’illusione dell’identità unica è
molto più foriera di divisioni che non l’universo di classificazioni plu-
rali e variegate che caratterizza il mondo in cui si vive realmente. La de-
bolezza descrittiva dell’unicità senza scelta ha l’effetto di impoverire
gravemente la forza e la portata del ragionamento sociale e politico e
quindi anche dell’impegno nel sociale.
Due esercizi differenti anche se correlati entrano in gioco: 1) deci-
dere quali sono le identità rilevanti; 2) soppesare l’importanza e l’inci-
denza relativa di queste identità. Entrambi questi compiti esigono il
ricorso alla intelligenza e alla scelta razionale (Sen 2006: 26). Forse l’im-
postazione è un po’ intellettualistica (secondo chi scrive), perché altri
fattori possono entrare in gioco nella scelta (le componenti emotive, so-
ciali, esperienziali, identificative della personalità di ciascuno), ma co-
munque il ruolo dell’educazione alle scelte è ineludibile. Si tratta di un
esercizio dell’intelligenza. Si tratta delle scelte e dei vincoli entro i quali
si situano quelle scelte. D’altra parte l’autonomia dell’individuo non è
assoluta, essa dipende dalla gestione delle proprie dipendenze.
In realtà, tutti effettuano costantemente delle scelte (Albarea 2008b),
se non altro implicitamente, riguardo alle priorità da attribuire alle di-
verse affiliazioni e associazioni. Spesso queste scelte sono esplicite ed
accuratamente argomentate, come quando Mohandas Gandhi decise
deliberatamente di dare la priorità alla sua identificazione con gli in-
diani che cercavano di ottenere l’indipendenza dal dominio britannico,
rispetto alla sua identità di avvocato all’interno del sistema giudiziario
inglese, o come quando lo scrittore Edward Morgan Foster giunse alla
sua famosa conclusione: “Se dovessi scegliere fra tradire il mio paese e
tradire il mio amico, spero che avrei il coraggio di tradire il mio paese”
(Sen 2006: 32).
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NOSTALGIA DEL FUTURO. PROSPETTIVE PEDAGOGICHE E INTERDISCIPLINARI 67

Il senso di identità allargato che sta alla base di questo impegno ol-
trepassa di gran lunga i confini di nazionalità, cultura, comunità o reli-
gione. Questa idea di appartenenza ha natura eccezionalmente
inclusiva, essa spinge così tante persone a battersi contro l’ingiustizia
che divide la popolazione mondiale. La critica alla globalizzazione è
forse, in realtà, il movimento morale più globalizzato del mondo
odierno (Sen 2006: 124)

3. Multiculturalismo, diversità, educazione


Le questioni sull’identità e il loro rapporto con la violenza nel
mondo sono strettamente legate alla comprensione della natura, delle
implicazioni e delle problematiche aperte dal multiculturalismo.
Esistono, secondo Sen, due approcci fondamentali distinti nei confronti
del multiculturalismo. Uno di questi si concentra sulla promozione della
diversità come valore in sé; l’altro approccio si concentra sulla libertà di ra-
gionamento e di decisione, e celebra la diversità culturale nella misura in
cui essa è liberamente scelta (per quanto possibile) dalle persone coin-
volte. Questi due atteggiamenti sono consequenziali. Si tratta della pro-
spettiva del progresso sociale.
Ad esempio: una delle questioni centrali è il modo di vedere gli es-
seri umani.
Devono essere classificati in base alle tradizioni ereditate (in parti-
colare alla religione ereditata) dalla comunità in cui sono nati, dando
per scontato che quella identità non scelta abbia automaticamente la
priorità su altre affiliazioni legate alla politica, alla professione, alla
classe, al genere, alla lingua, alla letteratura, ai coinvolgimenti sociali e
molte altre cose?
Oppure devono essere considerati individui dalle tante affiliazioni e
associazioni, sulla cui importanza e priorità sono loro stessi a dover
prendere una decisione (ed assumersi le responsabilità che derivano
da una scelta ragionata)?
E ancora: si deve valutare la bontà di un sistema multiculturale da
come ‘lascia in pace’ gli individui di origine culturale differente, oppure
da come mette in grado questi stessi individui di compiere scelte ra-
gionate, attraverso le opportunità sociali di istruzione e di partecipa-
zione alla società civile e al progresso politico ed economico del Paese?
Sono interrogativi cruciali che non possono essere ignorati se si de-
sidera una valutazione corretta del multiculturalismo.
Si parla, tra l’altro, di multiculturalismo e di monoculturalismo plurale,
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68 ORDINARIE MIGRAZIONI

ossia non tanto di macrogruppi in generale quanto di due specie di ma-


crogruppi (Sen 2006: 152). Nel primo caso (multiculturalismo) le collet-
tività riunite a seconda dei gruppi si trovano integrate o affiliate per
motivi specifici e quindi classificate secondo scopi loro o loro scelte.
Inoltre, più facilmente vengono loro offerte una formazione, un ruolo e
un’occupazione, ossia una partecipazione attiva alla vita sociale.
Nel secondo caso (monoculturalismo plurale), pur parlando di mol-
teplicità di casi, non si parla di tendenze comuni o di comportamenti
analoghi: molto dipende dalla sorte e dal destino dei singoli gruppi (è
come se fossero lasciati a se stessi). Lo stesso Sen si domanda se l’esi-
stenza di una diversità accentuata di culture, che magari viaggiano
come navi nell’oscurità, possa valere come compresenza di numerose
culture (Sen 2006: 158). In questo modo, si creano facilmente situazioni
di marginalità, di sfruttamento, di scontri ideologici e così via.
In altre parole non è sufficiente una loro compresenza affinché le cul-
ture acquistino un valore soltanto grazie ad un intreccio di relazioni, l’una
funzionale all’altra. Qui si va oltre il motivo funzionalistico del problema
(come taluni centri di potere vorrebbero ridurlo), qui si incrociano i mo-
tivi della cittadinanza e delle sue componenti, e i motivi della possibilità
di accedere ai servizi (l’elemento procedurale) e di saperne usufruire
(l’elemento di coscientizzazione) (Freire 1973).
Le culture stesse non sono reificazioni pure e semplici (Albarea, Izzo
2002: 71-73): esse si presentano sotto svariate forme di credenze, imprese,
cooperazioni, motivazioni, rituali, tecniche speciali e sono soggette a con-
tinue rielaborazioni individuali e di gruppo. Esse sono qualcosa di dina-
mico e di non isolato (all’opposto del relativismo assoluto).
Così anche nei casi in cui si attua un certo tipo di apprendimento, ciò
significa non soltanto padroneggiare una tecnica ma anche “immaginarsi
come attori e promotori di innovazioni e trasformazioni educative”
(Gobbo 2010: 50), impegnati “a ri-creare la classe come spazio di equità”
(51), visto che l’immaginarsi non corrisponde al sogno ad occhi aperti
(ed è questo il significato profondo di nostalgia, e in particolare della
nostalgia del futuro), ma ad una collocazione narrativa in un contesto.
La delega dell’autorità, da parte del docente, sta nella condivisione con
gli studenti nel prendere decisioni rispetto ad una mera attenzione alla
realizzazione del compito: si tratta ancora una volta di una educazione,
di un esercizio alla scelta, con tutte le abilità e le competenze (Cegolon
2008) molteplici che ne derivano e che sono le caratteristiche della Com-
plex Instruction (Gobbo 2010).
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NOSTALGIA DEL FUTURO. PROSPETTIVE PEDAGOGICHE E INTERDISCIPLINARI 69

Da questo punto di vista il percorso di (auto)apprendimento non


riguarda solo l’apprendere ad apprendere degli studenti, ma investe gli
insegnanti nel loro ruolo di mediatori in classi eterogenee, per tempe-
rare incertezza e disagio ma anche per raggiungere nuovi e più alti li-
velli di formazione e di consapevolezza.
Il termine violenza (che Sen pone significativamente appaiato al
termine identità) rimanda a discorsi tutt’altro che generici o volonta-
ristici, che riguardano le disfunzioni fattuali tra rapporti intercultu-
rali. È violenza sia ogni forma di imposizione (vedi il lavoro al limite
della schiavitù) sia ogni forma di aggressione fisica o mentale. Vio-
lenza è tutto ciò che è contrario alle libere scelte, all’equità, alla giu-
stizia, all’impegno civile. “La violenza settaria in tutto il mondo, oggi,
non è meno rozza, meno riduzionistica di quanto non fosse ses-
sant’anni fa. È una grossolana brutalità che poggia su una grande
confusione concettuale riguardo alle identità degli individui, capace
di trasformare essere umani multidimensionali in creature a un’unica
dimensione” (Sen 2006: 177).
Ecco allora che, patrocinare un’identità unica (il riduzionismo solita-
rista) per uno scopo violento assume la forma di isolare dagli altri un
gruppo identitario, direttamente legato allo scopo violento in questione,
procedendo quindi a mettere in secondo piano la rilevanza delle altre
associazioni e affiliazioni attraverso un discorso selettivo all’enfasi e al-
l’istigazione.
L’arte marziale di istigare alla violenza attinge a certi istinti basilari,
usandoli in modo da liquidare la libertà di pensare e la possibilità di
ragionare serenamente. Ma attinge anche, va riconosciuto, ad una sorta
di logica, una logica frammentaria. È come se ci fosse una sorta di alter-
nante squilibrio tra la frammentazione e l’isolamento, da una parte, e la
massificazione e l’alienazione dall’altra (ma ambedue portano allo
stesso risultato: la spersonalizzazione degli individui e dei gruppi).
Ma l’identità specifica isolata dalle altre è, nella maggior parte dei
casi, un’identità reale dell’individuo oggetto del reclutamento. Un hutu
è effettivamente un hutu, una ‘tigre tamil’ è chiaramente un tamil, un
serbo non è un albanese, e un tedesco non ebreo con la mente avvele-
nata dalla filosofia nazista è indubbiamente un tedesco non ebreo. Per
trasformare la concezione di sé in uno strumento omicida si ricorre a
due operazioni:
1) ignorare la rilevanza di tutte le altre affiliazioni ed associazioni;
2) ridefinire le esigenze dell’identità ‘unica’ in una forma particolar-
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70 ORDINARIE MIGRAZIONI

mente bellicosa. È qui che si insinuano crudeltà e confusioni concet-


tuali.
Va evitata quindi la confusione tra multiculturalismo culturale (pa-
trimonio collettivo, razionale, equilibrato, sviluppato, ecc. di varie iden-
tità culturali) e monoculturalismo plurale (coesistenza fortuita di varie
identità culturali). Nel primo caso sono maggiormente possibili le affi-
liazioni (ossia le adesioni e partecipazioni a situazioni ed imprese cul-
turali) e quindi sono possibili forme di integrazione, contaminazione,
supplenza. Nel secondo caso più facilmente insorgono squilibri di po-
tere, preconcetti ideologici, veri e propri conflitti. Così come non è le-
gittima alcuna superiorità ideologica, non è neppure accettabile, in linea
di massima, alcuna stratificazione culturale aprioristica e isolata (il
frammentarismo di cui si diceva).
Se niente di razionale è occasionale (nel senso che il razionale va
meditato), niente di occasionale ubbidisce ad un determinismo a priori.
Non vale insomma il principio ‘tali premesse tali i risultati’ come motivo
di sicurezza e di ricerca della sicurezza, come motivo di infallibilità e
necessità. Però tutte le singole culture, se veramente lo sono, hanno pos-
sibilità costitutive di sviluppo. Nella realtà, vi è un intreccio di concause
e concomitanze sociali, politiche ed economiche. Questo intreccio, in-
sieme ad altri fenomeni, determina o quanto meno favorisce lo sviluppo
di identità culturali mediante progetti, ricerche, sperimentazioni ecc.,
sia sul piano individuale che su quello collettivo. Con ciò, non si in-
tende, dice Sen (2006: 109) “[...]che i fattori culturali siano irrilevanti nel
processo di sviluppo. Voglio dire che essi non agiscono isolatamente a
prescindere dalle influenze economiche, sociali, politiche, ecc. E non
sono immutabili. Se le questioni culturali sono considerate insieme alle
altre, in un resoconto più accurato del processo di cambiamento della
società, possono contribuire enormemente a migliorare la nostra com-
prensione del mondo, incluso il processo di sviluppo e la natura della
nostra identità [...] La cultura una volta svincolata dall’illusione del de-
stino [ossia dalla fatalità senza certezze] può aiutare a comprendere me-
glio il cambiamento sociale, a patto di affiancarla ad altre influenze e
processi sociali interattivi”.
Come disse John Nash, Nobel dell’economia nel 1994, a proposito
della teoria dei giochi, la questione centrale non è se un particolare as-
setto sia migliore per tutti i partecipanti, rispetto alla totale assenza di
cooperazione, cosa che potrebbe essere vera per altri assetti. La que-
stione principale, dice Sen, è se il sistema di divisione che emerge da
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NOSTALGIA DEL FUTURO. PROSPETTIVE PEDAGOGICHE E INTERDISCIPLINARI 71

un’analisi del mondo contemporaneo, fra le varie alternative a disposi-


zione, sia un sistema equo, alla luce delle altre scelte possibili.
Conclude Sen: nel mondo contemporaneo esiste oggi una impel-
lente necessità di interrogarsi anche sui valori, sull’etica e sul senso di
appartenenza che dà forma ad una concezione propria del mondo glo-
bale, oltre che sull’economia e sulla politica della globalizzazione.

4. Ricomporre cautamente l’infranto: la nostalgia come narrazione


ed esegesi del sé
Tra i principi della psicologia culturale che Jerome Bruner (1997) uti-
lizza, seguendo la propria impostazione di concepire l’educazione in
funzione del modo di concepire la cultura e i suoi scopi, espressi e ine-
spressi, elenca il principio della narrazione: il modo di pensare e di sen-
tire aiuta i soggetti a creare una versione del mondo in cui possono
immaginare, a livello psicologico, un mondo per sé, una collocazione
personale.
L’intento fondamentale è quello di situare l’educazione nel contesto
più vasto che le è indispensabile per poterla comprendere in modo ade-
guato: l’importanza di ciò che viene definito ‘cornice’ diventa sempre
più rilevante nella rete di complessità che i soggetti esperimentano ogni
giorno. Così, per ripercorrere un riferimento letterario, lo scrittore An-
tonio Tabucchi (1984) in un passo del suo racconto Notturno indiano,
opera densa di significati, scrive: “Il reale senza cornice è sempre un’al-
tra cosa”.
L’approccio culturale alla teoria della mente sottolinea come i sog-
getti arrivino solo gradualmente a capire che stanno agendo non diret-
tamente sul ‘mondo’, ma sulle sue rappresentazioni e sulle credenze,
che essi hanno riguardo a quel mondo. Si passa dal realismo ingenuo
(diffuso anche tra gli adulti) alla comprensione del ruolo delle credenze.
Queste credenze vengono sottoposte ai principi della psicologia cultu-
rale, evidenziati dallo psicopedagogista statunitense. Questo porta a di-
stinguere la conoscenza personale dalle conoscenze che la cultura di
appartenenza considera come acquisite. Si tratta di un percorso a dif-
ferenti livelli attraverso il quale si scopre che le proprie credenze per-
sonali hanno una qualche relazione con un certo passato storico: in altre
parole le nostre congetture si fondano sui margini di manovra, sugli
spazi di azione, dettati dalla tradizione culturale.
Questo ‘progetto’ suscita pathos e coinvolgimenti intensi, a volte con-
trastanti, e quindi non ci si deve disperdere, dice Bruner (1997: 101), in
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72 ORDINARIE MIGRAZIONI

sterili e dispersivi dibattiti intorno a oasi disciplinari chiuse in se stesse.


Ecco allora la “svolta interpretativa”.
Essa si è espressa nelle arti, nel teatro, nella narrativa, nella storia,
nelle scienze sociali e così via. Oggi si esprime anche in educazione e in
pedagogia. Il focus è l’interpretazione, la comprensione, il fare signifi-
cato, non la spiegazione causale; il suo strumento è l’analisi e la rifles-
sione sul testo (testo inteso come qualsiasi manifestazione/evento
naturale ed umano, non solo testo scritto). Anche le persone sono ‘testi’.
La comprensione non esercita alcun diritto di prelazione; ne am-
mette infinite altre. Perché le storie e le narrazioni trattano significati e
i significati sono intransigentemente multipli; la regola è la polisemia.
I significati narrativi dipendono solo in parte dalla verità (intesa come
verificabilità o come assiomi espistemologicamente fondati) e dalla re-
altà bruta: il loro requisito è piuttosto l’analogia, un insieme di coe-
renza/congruenza e di utilità pratica e simbolica.
Il fine e l’oggetto della narrazione, nella sua ricerca di significati pre-
gnanti nel e per vivere, è il tentativo di avvicinare e comprendere la condi-
zione umana (Bruner 1997: 100-101) nella sua universalità e perennità, e
nei suoi contesti situati. Infatti la narrazione va a scoprire gli stati in-
tenzionali che stanno dietro alle azioni umane; essa ne ricerca le ragioni
non le cause (Bruner 1997: 151-152). Lungo questo percorso, un qualsiasi
soggetto è teso a scoprire che dove, invece di una storia, occorre una
teoria, costruita a posteriori, una narrazione condivisa del mondo e di
sé stessi. Decisioni (educazione alle scelte) strategie (competenza), euri-
stica (esplorazione, creatività e ricerca), sono questi i concetti chiave del-
l’approccio attivo alla mente (agency).
Ma per parlare di sé e degli altri, dei propri stati mentali e delle pro-
prie elaborazioni narrative, occorre più che un lessico di riferimento. In
quanto esistono diverse varianti del sé, occorre iniziare ad usare, attra-
verso l’esercizio, operazioni e significati relativi a: come imparare a pen-
sare e a riflettere, a credere e a dare fiducia, a prestare attenzione,
imparare a ricordare, a dimenticare, a selezionare, a resistere, a pro-
muovere ed altro ancora.
L’adozione di un’ottica interpretativa e narrativa non implica una
posizione antiempirica o anti-sperimentale, significa che prima di po-
tersi accingere a qualsiasi spiegazione o interpretazione si deve dare
un senso, scoprire un senso, alla luce: 1) delle prospettive che vi si schiu-
dono (visione del futuro), 2) del discorso intrapreso (linguaggio e con-
cettualizzazione), 3) del contesto di riferimento (riferimento al sociale,
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NOSTALGIA DEL FUTURO. PROSPETTIVE PEDAGOGICHE E INTERDISCIPLINARI 73

al passato e al presente). Si tratta insomma di ‘zone’ simboliche che fa-


voriscono padronanza culturale.
Imparare ad essere uno scienziato non è la stessa cosa di “imparare
le scienze” (Bruner 1997: 147): è imparare una cultura, uno stile educa-
tivo con tutto il contorno di ‘non razionale’, di pathos, di spirituale, di in-
tuitivo, del fare significato che li accompagna.
I due elementi, cioè la narrazione come modalità di pensiero e il
testo o il discorso narrativo si influenzano l’un l’altro; è l’antico dilemma
di Yeats su come si possa distinguere il danzatore dalla danza. Le in-
tenzionalità del soggetto e dei soggetti, in narrativa, non determinano
mai completamente il corso dell’azione o il fluire degli eventi. In una
narrazione c’è sempre implicito un qualche elemento di libertà. Ed è
questo il fascino delle narrazioni in arte e in letteratura. Si tratta di una
magia formativa.
Forse è la possibilità onnipresente e invadente dei margini di scelta
che induce la narrazione a respingere l’idea di causalità nelle cose
umane. Gli stati intenzionali non ‘causano’ le cose; in questo caso ci si
appella alla responsabilità del soggetto che implica una scelta. La nar-
razione va alla ricerca degli stati intenzionali che stanno dietro alle
azioni umane; essa, come si è detto, va alla ricerca delle ragioni e non
delle cause.
C’è un aforismo di William Blake che dice: “Che Dio ci scampi dalla
visione e dal sonno di Newton” (Bruner: 127). Inoltre, le parti di una nar-
razione, nel loro insieme, devono poter convivere, e questa è la soste-
nibilità narrativa. Si tratta di un’altra accezione, se si vuole, del circolo
ermeneutico di Gadamer (1990). Tu racconti la tua versione, io racconto
la mia, secondo i nostri rispettivi punti di vista (come nel famoso clas-
sico film di Akira Kurosawa, Rashmon,“Nel bosco”), e cerchiamo di con-
frontarci, per comporre (non è detto risolvere) le differenze, all’insegna
del dialogo, ma tenendo presente anche il contesto di appartenenza, i
rapporti di potere, le idiosincrasie personali, in una situazione di cam-
mino insieme. Solo così si cresce e si giunge a quello di cui si augurava
Sen: e cioè l’impellente necessità di interrogarsi sui valori, sull’etica e
sul senso di appartenenza che dà forma ad una concezione propria del
mondo globale,
La negoziazione narrativa può cominciare presto nella vita del bam-
bino: può essere questa disponibilità a considerare le molteplici interpre-
tazioni narrative che fornisce l’habitus democratico e la padronanza
necessarie alla coerenza nella vita culturale. La vita, infatti, non è sempli-
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74 ORDINARIE MIGRAZIONI

cemente un susseguirsi di storie, ciascuna autonoma rispetto all’altra: in-


treccio, personaggi, situazioni, considerazioni e commenti, arrangiamenti
fanno parte di un insieme che si può definire come negoziabilità inerente, in-
trinseca, una negoziabilità che ammette punti di svolta nel suo fluire inin-
terrotto, passaggi obbligati nella vita di ognuno (Albarea 2008a: 66-67).
Allora, le menti individuali e le narrazioni sono un anello di con-
giunzione con le esistenze di ciascuno, con il senso che sgorga da que-
ste esistenze. Si tratta di una sensibilità meta-cognitiva, di un stile
esistenziale per venire a capo del mondo nella sua realtà narrativa, con
tutta la sua contraddittorietà.
La nostalgia del futuro è narrazione e anche contraddizione, non po-
trebbe non esserlo, situandosi su diversi piani e incroci. Ma parados-
salmente, la nostalgia del futuro come narrazione potrebbe avviare
quella ricomposizione cauta e sostenibile dell’infranto, di cui parla
Nono, saldandosi con l’esegesi del sé, foucaultaniamente intesa (Fou-
cault 2003), assumendo così una permanente dimensione pedagogica.

5. La narrazione come viaggio


Se si pensa al viaggio di Ulisse e al suo mito, attraversato dalla no-
stalgia del futuro, l’intera Odissea è in un certo senso il racconto del ri-
torno di Ulisse alla normalità, della sua deliberata accettazione della
condizione umana. Dai lotofagi a Calipso, passando per i Ciclopi e il
paese dei morti, Ulisse non incontra un solo essere umano nel vero
senso della parola. Si tratta di un percorso intriso di memoria, aspetta-
tiva e progetto, per ricollocarsi come uomo.
Nella forma anche di un viaggio iniziatico dentro e fuori di sé il no-
stos, il ritorno, assomiglia a una rinascita. Viene d’altronde annunciato
diverse volte che Ulisse sarebbe arrivato con la luna nuova, o al finire
del mese o al principio del mese. Alain Montandon ne ha sottilmente
evidenziato gli attributi e le condizioni: “Il viaggio di ritorno, come presa
di coscienza dell’individualità, dei limiti, della morte, di sé come sé,
prende forma di un’iniziazione a tutta una serie di prove, contrasse-
gnate da tutta una serie di trasgressioni che favoriscono il rituale della
morte iniziatica. Se essere iniziato significa imparare a morire, ciò im-
plica la rivelazione della condizione umana” (Montandon 2004: 80-81).
Ma che cos’è Itaca? Il luogo delle radici, il luogo della patria, il luogo
della memoria e dei ricordi, che l’avventuriero (ognuno di noi è un ‘av-
venturiero’) ritrova dopo un lungo viaggio o un peregrinare quoti-
diano; questo luogo è in definitiva un non essere, poiché non appena
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NOSTALGIA DEL FUTURO. PROSPETTIVE PEDAGOGICHE E INTERDISCIPLINARI 75

si approda alla riva si pone il problema del riconoscimento, della dif-


ferenza tra sogno maturato a lungo nella lontananza (spaziale, tempo-
rale, esistenziale) e il reale, della differenza tra l’immaginario e
l’esistente, il visibile e l’invisibile. E allora si ritorna a se stessi. La no-
stalgia è indissolubilmente legata all’identità, all’essere se stessi. Tutta
l’Odissea, d’altronde, è paradigmatica del rapporto ospitalità e identità:
l’identità incontra l’ospitalità ma rischia anche di perdersi (oltre che a
ritrovarsi); può essere minacciata dalla perdita dei suoi punti di riferi-
mento, minacciata dall’oblio (il loto, ma anche le fascinazioni di Circe);
l’oblio cancella la memoria stessa dell’origine, la narrazione della pro-
pria storia e quindi l’essere persona cosciente.
Infatti l’essere accolto riattiva la nostalgia di ciò che si è tempora-
neamente (o definitivamente?) perduto, ma anche di ciò che è primario
ed arcaico: la sicurezza, il calore del rifugio, l’accoglienza dei sentimenti,
lo sguardo dell’amico o della madre. Inoltre (ed è l’ipotesi della pre-
sente riflessione) la nostalgia può incamminarsi verso il futuro nella
forma di intuizioni, prospettive, progetti di vita alimentati dalla nostal-
gia stessa. Come sottolinea Montandon, al desiderio dell’essere accolto
ed ascoltato (l’episodio alla reggia di Alcinoo) si aggiunge il desiderio
del ricevere, il desiderio del dare e del produrre.
Infatti: “La gioia dell’accoglienza non può esserci in un mondo im-
mobile, senza né passato né memoria, cioè in un mondo senza condi-
visione, che si oppone alla circolazione e alla comunicazione, alla
distribuzione generosa, uguale e reciproca. Cadere nelle mani di Circe
significa accettare il ripiegamento su di sé, il colloquio intimo egoistico
di due amanti dimentichi del mondo e degli altri” (Montandon 2004:
29). La nostalgia, e in particolare la nostalgia del futuro, rimanda ad una
sorta di intertestualità interna, una intertestualità che moltiplica le as-
sociazioni, gli echi, i rinvii all’interno di un processo complesso e pro-
blematizzante. Itaca allora diventa paradigmatica della ricerca di una
verità interiore. Il pensiero del ritorno diventa il pensiero su se stesso e
sulle proprie possibilità future: si tratta dell’’odissea dello spirito’ di una
‘odissea senza Itaca’ (Montandon 2004: 97).
Così, anche il regista Theo Angelopoulos interpreta il viaggio del
mito di Ulisse come un percorso di nostalgia aperto al futuro. Nei suoi
ultimi due film, Lo sguardo di Ulisse (Gran premio della giuria a Can-
nes nel 1995) e L’eternità e un giorno (Palma d’oro a Cannes, 1998), il ri-
torno coincide con un viaggio a ritroso nel tempo, nei meandri della
memoria, e con un’esplorazione meravigliata di un’attualità che sem-
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76 ORDINARIE MIGRAZIONI

bra quasi irreale. Il novello Odisseo, il protagonista dei due film (Har-
vey Keitel, nel primo, Bruno Ganz nel secondo), ‘costeggia’ le insidie
di un mondo che non riconosce, attraverso un pellegrinaggio segnato
dall’ambiguità e dalle interrogazioni ineludibili sulla condizione con-
temporanea dell’uomo. Le scelte stilistiche del regista si concentrano,
nel linguaggio cinematografico (Canova 2002: 30-31), sul sapiente uti-
lizzo dei piani-sequenza, sulla interpunzione di sospensioni e silenzi,
sulla moltiplicazione dei punti di vista scardinando la successione cro-
nologica degli avvenimenti, mescolando passato, presente e (un po’
di) futuro. Ci si inoltra verso un processo di rarefazione delle imma-
gini, dei significati, dei silenzi, verso un accentuarsi della metaforicità
della narrazione: una odissea della memoria carica di simboli e di sug-
gestioni formative.
“Così Itaca da unica diventa molteplice. L’esperienza del tempo ha
polverizzato la singolarità in un miriade di immagini varie, cangianti e
luccicanti, che illuminano il cammino del viandante. Questo luogo pa-
radigmatico dell’ospitalità è stato trasformato dal tempo, deformato dal
ricordo, ricostruito dall’immaginazione, trasfigurato dal desiderio. Itaca,
termine e fine della ricerca dell’ospitalità, ha rivelato l’ospitalità del
tempo, cioè la sua capacità di accogliere, preservare e nutrire il forte de-
siderio di un’accoglienza definitiva” (Montandon 2004: 98).
In altre parole, continua acutamente Montandon (e qui sta il core
della questione), “[...] bisogna che l’uomo scopra il proprio esilio, che
assuma il fatto di essere estraneo a se stesso, di essere uno straniero,
cioè qualcuno che non ha casa propria per offrire ospitalità. Compren-
dere questa differenza, questa distanza che il gioco delle luci e delle te-
nebre rappresenta è la condizione a priori dell’atto di ospitalità”
(Montandon 2004: 171). Il dentro è anche l’esterno dell’uomo.
Desiderio d’essere accolto, nostalgia e memoria, e coscienza del pro-
prio esilio, si trasformano in architetture formative in cui ognuno può
costruire la propria intimità, sentirsi (temporaneamente) “a casa pro-
pria”: si tratta di abitare se stessi, essere ospite e ospitato allo stesso
tempo, e ciò attraverso parole, racconti e riflessioni, versi, lungome-
traggi, immagini, che esplorano un tipo di nostalgia che è narrazione.
Una narrazione che tenta di ricomporre l’infranto dell’esistenza con-
temporanea.
Un esempio di ciò lo si ritrova in Franco Marcoaldi, a proposito di
una sua peregrinazione di scrittore attento e appassionato. “[...]Se il
viaggio è sinonimo di sorpresa, continua diversione, spaesamento, al-
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NOSTALGIA DEL FUTURO. PROSPETTIVE PEDAGOGICHE E INTERDISCIPLINARI 77

lora quello nella provincia italiana è un viaggio a tutti gli effetti, visto
che si incontra l’ignoto e il forestiero direttamente a casa nostra”. Lo
scrittore vuole sperimentare “[...] se tornando a quei luoghi, a quelle
esperienze, nel tempo secondo della memoria e della riflessione, sa-
rebbe rimasto nel setaccio del libro qualcosa di più persistente, di più
duraturo rispetto alle prime impressioni; [...] parlo di quelle nervature
sotterranee in cui si stringono assieme uomini e territorio, tempo e spa-
zio, opere e credenze. Parlo, in breve, delle fondamenta su cui crescono
le diverse comunità [...] Analoga attenzione è offerta al rimando tra un
presente proiettato nel futuro e un presente legato al passato. Anche
remoto. Addirittura mitico [...] Il viaggio si riconferma come un’espe-
rienza totale, che mette in moto tanto i sensi quanto la fantasia e pone
l’esistenza nel gioco della concretezza quotidiana, e insieme alimenta
credenze e miti e fantasticherie che a loro volta condizionano compor-
tamenti e azioni. [...] A questo doppio sguardo, assieme onirico e fat-
tuale, le realtà incontrate manifestano un volto ambiguo [...]” (Marcoaldi
2009: IX-XII)
In questa prospettiva, allora, la nostalgia (del futuro) non consiste
più in un rimpianto del passato, in stati d’animo emergenti di fronte a
ciò che si è perduto per sempre, ma si configura come reinterpretazione
del nostro angolo di visuale, reintepretazione della memoria, la quale,
intesa come sentimento di finitezza, come ricerca di una completezza
dinamica e dei passaggi obbligati nella vita di ciascuno (Albarea: 2008a),
è proiettata in vista di una rielaborazione percettiva e intellettiva delle
cose e delle persone, del presente e del futuro.
Si aspira ad una sorta di completezza in fieri, sempre imperfetta,
piuttosto che ostinarsi verso una mai raggiunta posizione di stabilità o
“ottusa interezza” di cui parla anche Calvino (1960: 1213-1214). Anzi si
pone lo sguardo sull’uomo dimidiato, incompleto, che se da un lato rap-
presenta la condizione parcellizzata e frammentata (‘infranta’) dell’esi-
stenza contemporanea, dall’altro, questa stessa condizione può
trasformarsi positivamente in una lezione di umiltà, una lezione di rac-
coglimento di se stessi per comprendere maggiormente le intenzioni
più riposte (goffe?), le tensioni autentiche nella ricerca di una comple-
tezza ‘sostenibile’ (Albarea: 2008a).
Dice Calvino: è forse più fertile pensare che “[...] vera integrazione
umana non è un miraggio d’indeterminata totalità o disponibilità o uni-
versalità ma un approfondimento ostinato di ciò che si è, del proprio
dato naturale e storico e della propria scelta volontaria, in un’autoco-
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struzione, in una competenza, in uno stile, in un codice personale di re-


gole interne e di rinunce attive, da seguire fino in fondo?” (Calvino 1960:
1213).
La nostalgia del futuro, in questo approfondimento ostinato del pro-
prio dato naturale e storico, si salda alla esegesi del sé, come la vede
Foucault.
Già nella tradizione greca, afferma Foucault (2003: 40-41), anche
prima di Platone e di Socrate, esisteva una complessa tecnologia del sé
che era in relazione con il sapere, sia che si trattasse di conoscenze par-
ticolari, sia che fosse in gioco l’accesso globale alla verità stessa. Tecno-
logia del sé come un insieme di pratiche riflesse e volontarie (che
poggiavano sull’esercizio e sulla meditazione) per mezzo delle quali gli
uomini non solo si danno delle regole di comportamento, ma cercano
inoltre di trasformare se stessi, di modificarsi nel loro stesso essere sin-
golare, e di fare della propria vita un’opera. Si tratta di una concentra-
zione dell’anima, sistole e diastole direbbe Maritain (1983), la quale si
attua attraverso la tecnica dell’isolamento. Riti di purificazione che si
sono sviluppati nel tempo come una continua “arborescenza”. La tec-
nologia del sé diventa col tempo coestensiva della cura di sé rispetto al-
l’arte del vivere, coestensiva rispetto all’intera vita (Foucault 2003: 76).
In epoca moderna e contemporanea si parla diffusamente di edu-
cazione permanente come capacità dell’uomo di concentrarsi in se
stesso, di costruirsi, di prendere forma secondo regole e valori nel cam-
mino accidentato e ‘goffo’ della propria formazione, come se si volesse
sottrarre per un momento alla tirannia del tempo. Quindi, a livello pe-
dagogico, non più modelli generali ed astratti da proporre, ma testi-
monianze situate ed ispirate, afflati, consigli di prudenza e consigli cir-
costanziati: una sorta di micropedagogia, di counselling. La pratica
della autodirezione di coscienza si esprime come forma di relazione tra
persone: essa è il luogo della “saggezza socializzata” che ha inoltre una
funzione di consenso sociale, secondo Foucault (2003: 136), di narra-
zione condivisa, direbbe Bruner, di interrogazioni sul senso dei valori
che danno forma ad una concezione propria del mondo globale (se-
condo Sen).
Ma, per quanto sopra detto, la nostalgia del futuro non è solo un’ela-
borata tecnologia del sé, pur decisiva; non è solo una esegesi del sé, pur
serena ed implacabile.
Per chi scrive è anche qualcos’altro, implica il modo di osservare, di
pensare, e di esistere.
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NOSTALGIA DEL FUTURO. PROSPETTIVE PEDAGOGICHE E INTERDISCIPLINARI 79

Nono dice: “[...] non è più possibile rispondere a certe domande,


oggi. Alle volte non si possono avere le parole [Panikkar insegna] per-
ché ogni metodo di pensiero è consumato, esattamente come lo spettro
acustico della musica (finito, abbandonato). Per questo si deve aspet-
tare, attendere. Si deve operare, come ho detto all’inizio, intuizionisti-
camente: gnosi. Oggi la razionalità non illumina e non illustra nulla,
non è in grado di scoprire che cosa sia la trasformazione, il cambia-
mento. Non sa che sia il ‘possibile’. Penso che la trasformazione che sta
avvenendo nel tempo nostro ponga come nuova necessità di vita l’in-
tuizione, l’intelligenza, la capacità di esprimere quella trasformazione:
aperture, studi, esperimenti estremamente rischiosi, rinuncia alla sicu-
rezza e alle garanzie, rinuncia alle ‘finalità’. Dobbiamo sapere di poter
precipitare in ogni momento, ma cercare, comunque, cercare, sempre,
l’ignoto” (Nono 2007: 259).
Sono parole di un artista e vanno prese per come sono. Per chi si
sforza di essere educatore, queste parole forti possono voler signifi-
care che la nostalgia del futuro è uno squilibrio tra memoria, attesa e
rischio e ... passione nell’osservare e nel pensare.

6. La comunità: luogo del futuro


In un seminario del Censis: Qualità delle relazioni e destino comuni-
tario. Una visione di futuro per l’Italia, tenutosi l’8 giugno 2010 a Roma,
cui sono intervenuti, tra gli altri, Giuseppe De Rita, Innocenzo Cipol-
letta, Giorgio Ruffolo, si è detto che una visione di futuro di medio
periodo per l’Italia impone di riflettere su come si riorganizzerà la
comunità nazionale e di prefigurarne i possibili approdi. Bisogna ri-
partire dal basso, dalla levinasiana riscoperta del ‘tu’ e dell’’altro’ in
ciascun soggetto-persona. Oggi per fare nuovo coagulo occorre ritro-
vare la qualità delle relazioni di base, laddove storicamente si realiz-
zano: la famiglia, che non è più quella tradizionale; le relazioni di
prossimità territoriale (il territorio che non è più il distretto di un
tempo); l’appartenenza religiosa che non è più quella del cattolice-
simo classico; le relazioni di rete, accompagnate dalla inarrestabile
innovazione tecnologica e mediatica (le Communities virtuali); le rela-
zioni elettive, che proliferano nella dimensione ‘politeistica’ delle di-
verse e sempre più numerose nicchie di interessi e comportamenti
(di consumo, culturali, professionali); le relazioni elettive, ma obbli-
gate, con gli stranieri in cammino verso una progressiva integrazione;
le relazioni ancora in grado di cementare l’unità sul piano generale:
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80 ORDINARIE MIGRAZIONI

dalla retorica dell’Unità alle grandi emergenze; e tutte le altre rela-


zioni che si muovono dentro un nome vecchio, ma con dinamiche
nuove, che sono portatrici di valori, di vitalità, di sostegno vicende-
vole. In altre parole fondare e promuovere un esercizio di gestione
di legami e interdipendenze che possono costruire un reticolo di co-
munità, a patto però che chi vive questi legami ne ricerchi costante-
mente la qualità. Si tratta quindi di un impegno collettivo e reciproco.
Già negli anni Novanta era stato sottolineato, da un punto di vista so-
ciologico (Hannerz 1990: 249-250), la necessità di conciliare le due pola-
rità distinte di localism e cosmopolitanism. Ora occorre dare a tale tensione
dinamica la sua colorazione pedagogica, offrendole pathos, afflato e sup-
plemento d’anima (Albarea 2006a). E allora, significa vivere e testimo-
niare l’antinomia e la dissonanza tra le plurali appartenenze (Sen) e le
differenti forme di esilio (Montandon, Angelopoulos), tra il sentirsi parte
di una comunità (Maritain, Censis) e farsi una concezione propria del
mondo globale (Sen, Hannerz). Solo così si potrà avere, forse, un’educa-
zione (sostenibile) del presente per il futuro.

1
Il riferimento è tratto dal colloquio che l’illustre scienziata ebbe con Fabio Fazio in una
puntata della trasmissione televisiva “Che tempo che fa” del 26 aprile 2009.
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SECONDA PARTE

FARE RICERCA NEI CONTESTI MIGRATORI


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83

Un possibile framework per l’analisi dei luoghi pubblici


come contesti di educazione informale alla cittadinanza
(Davide Zoletto)

Scopo di questo intervento è provare a delineare un possibile stru-


mento di analisi relativo al ruolo dei luoghi pubblici come ambienti di
educazione informale alla cittadinanza. Per ‘luoghi pubblici’ si intendono
in questo contributo luoghi liberamente accessibili a tutti (Bauman 1999:
130). Per ‘cittadinanza’ non si intende cittadinanza come ‘status’, cioè
come l’esercizio di diritti e doveri derivanti dall’appartenenza a un par-
ticolare Stato-Nazione, ma cittadinanza come ‘pratica’, cioè il coinvolgi-
mento in processi condivisi di discussione, azione e decisione su
questioni relative alla vita pubblica (Johnston 2005). Per “educazione in-
formale alla cittadinanza” si intende conseguentemente la possibilità di
sperimentare come singoli o gruppi questa forma di cittadinanza come
pratica nell’ambito della propria vita quotiana (Wildemeersch, Vandena-
beele 2007). In questo capitolo vengono dapprima presentati alcuni rife-
rimenti teorici relativi al recente dibattito critico sul concetto di comunità
(Lingis 1994; Biesta 2006). Questi riferimenti vengono successivamente
contestualizzati in alcune recenti ricerche sui processi di interazione ed
educazione informale alla cittadinanza di migranti e nativi nei luoghi
pubblici italiani. Nella parte centrale del capitolo viene presentato un
possibile framework per analizzare i luoghi pubblici come ambienti di
educazione informale alla cittadinanza, e ne vengono esplicitati alcuni
presupposti teorici. Al fine di verificare il possibile utilizzo di tale frame-
work, esso viene applicato ad alcune situazioni in cui persone native e
migranti si trovano a condividere dei momenti conviviali nei luoghi pub-
blici. Vengono infine discussi brevemente alcuni risultati che possono
emergere dall’utilizzo del framework.

1. Teorie critiche della comunità e teorie del social learning


In un suo ormai celebre libro del 1994 il filosofo Adolph Lingis ha in-
trodotto la nozione provocatoria e paradossale di “comunità di coloro
che non hanno niente in comune” allo scopo di descrivere forme inedite
di comunità caratterizzate dal fatto di poter rimanere aperte all’alterità
(Lingis 1994). Quella di Lingis è una riflessione che rientra in un’ampia
area di pensiero contemporaneo che – soprattutto in ambito continen-
tale – ha cercato di elaborare una teoria critica della comunità finalizzata
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84 ORDINARIE MIGRAZIONI

a decostruire e ripensare la ‘comunità’ come nozione filosofica e politica.


Da questo stesso ambito di pensiero sono nate anche nozioni come
quella di Nancy di “comunità inoperosa” (Nancy 1992) e quella di
Agamben di “comunità che viene” (Agamben 1990). Il fine ultimo di
questo ampio filone di ricerche è quello di riconoscere il ruolo centrale
che il concetto di “comunità” svolge da un punto di vista teorico e poli-
tico (e in questo caso anche pedagogico), cercando nello stesso tempo
di ridurre la rigidità teorica e pratica che spesso le varie forme concrete
di comunità possono esercitare sia sui propri membri sia su quanti non
fanno parte della comunità. Questa rigidità è spesso legata alle pre-
messe identitarie su cui le comunità si reggono. Secondo l’argomenta-
zione di Lingis, una “comunità di coloro che non hanno niente in
comune” potrebbe caratterizzare un insieme di persone le quali, pur le-
gate da un sentimento di appartenenza, non escludono in nome dei
propri riferimenti identitari altre persone che non condividono tali ri-
ferimenti.
In ambito pedagogico, una nozione come quella di Lingis potrebbe
essere preziosa per descrivere una dimensione comunitaria in grado di
permettere forme di educazione informale alla cittadinanza condivise
ma non escludenti: comunità educative informali che, in altre parole,
non escludono alcune persone per il solo fatto di non fare parte della
comunità. Il concetto di “comunità di coloro che non hanno niente in
comune” potrebbe descrivere situazioni quotidiane di convivenza, entro
cui apprendere attraverso la pratica forme concrete di cittadinanza in
contesti come quelli delle società europee contemporanee caratteriz-
zati da una grande diversità personale e sociale.
Il concetto di Lingis potrebbe essere in questo senso utilmente in-
trecciato con la prospettiva pedagogica del social learning sviluppata da
alcuni studiosi dell’Università Cattolica di Lovanio (Wildemeersch, Van-
denabeele 2007). Quella del social learning è una prospettiva secondo
cui la partecipazione ad attività condivise può portare persone e gruppi
a modificare – in modo a volta consapevole, a volte non consapevole –
i loro modi di vedere se stessi, le altre persone e il mondo in cui vivono.
Nel caso di forme di “comunità di coloro che non hanno niente in co-
mune”, questo cambiamento potrebbe portare le persone e i gruppi
coinvolti ad acquisire un atteggiamento di maggiore apertura nei con-
fronti di altre persone e gruppi che non verrebbero altrimenti percepiti
come facenti parte della comunità. Inoltre – e questo è l’aspetto più im-
portante perché si possa parlare di educazione informale alla cittadinanza
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UN POSSIBILE FRAMEWORK 85

– potrebbe verificarsi in questi casi anche un cambiamento dei rapporti


fra le persone coinvolte: un cambiamento tale da rendere l’interazione
fra loro più democratica e paritaria.

2. Educazione informale alla cittadinanza e interazione fra migranti


e nativi nei luoghi pubblici
La possibile rilevanza pedagogica di processi di social learning che
avvengano entro forme di “comunità di coloro che non hanno niente in
comune” può apparire più evidente se viene contestualizzata entro al-
cune recenti ricerche svolte nell’ambito dei processi di interazione ed
educazione informale di nativi e migranti nei luoghi pubblici italiani
(Giusti 2008; Zoletto 2010). Tali ricerche sono nate dall’esigenza di co-
struire un quadro analitico e di intervento che potesse rispondere a do-
mande come le seguenti: quali forme di appartenenza condivisa
manifestano oggi in Italia persone migranti e native? Queste forme di
appartenenza condivisa possono convivere nelle stesse persone con
forme di appartenenza diverse? Quali contesti favoriscono oppure osta-
colano forme di appartenenza condivisa? Quali forme di educazione in-
formale possono svilupparsi in questi contesti?
Per rispondere a queste domande sono stati studiati soprattutto due
tipi di contesti in cui migranti e nativi si trovavano a condividere le
stesse attività: scuole in cui sono stati sviluppati percorsi che coinvol-
gevano genitori nativi e migranti a partire da problemi legati alla vita
scolastica dei figli; luoghi pubblici e campi sportivi in cui si sono svi-
luppati percorsi che coinvolgevano attraverso lo sport adulti e minori
nativi e migranti. In entrambi questi contesti una delle attività che per-
sone native e straniere avevano modo di condividere era quella di
“mangiare insieme in luoghi pubblici”, in occasione di momenti parti-
colari dell’anno (compleanni, fine dell’anno scolastico, altre feste), di
manifestazioni sportive (partite o allenamenti) o di ritrovi di routine
(fine settimana). La caratteristica comune a tutte queste situazioni è il
fatto che un’attività come quella del ‘mangiare insieme’ – spesso legata
a un ambito ‘privato’ come quello domestico/familiare – veniva invece
svolta in luoghi pubblici come cortili scolastici, parchi cittadini, piazze.
Sulla base sia della teoria critica della comunità avanzata da Lingis sia
delle teorie del social learning ci si è dunque chiesti se questi momenti di
attività condivisa (per esempio il mangiare insieme) possano essere con-
siderati esempi di “comunità di coloro che non hanno niente in comune”,
e se la partecipazione a questo tipo di esperienze possa essere conside-
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86 ORDINARIE MIGRAZIONI

rata una forma di educazione informale alla cittadinanza. La scelta di pri-


vilegiare situazioni in cui sono presenti sia nativi che migranti è sembrata
interessante per almeno due ragioni: perché (1) osservare se a queste
forme di comunità hanno accesso sia nativi che migranti, può permettere
di evidenziare se si tratti davvero di “comunità di coloro che non hanno
niente in comune”; e perché (2) osservare se – attraverso la partecipa-
zione a queste attività comuni – si verifica un’effettiva redistribuzione
delle relazioni nativi/migranti in senso più democratico e paritario può
aiutare a comprendere se si possa davvero parlare – in questi casi – di
educazione informale alla cittadinanza.

3. Un possibile framework di analisi: ambiti per la ricerca e presup-


posti teorici
Per provare a rispondere a queste domande si è cercato di definire un
possibile framework di analisi che contenesse alcuni elementi utili per
analizzare criticamente le forme di educazione informale che si svilup-
pano in situazioni in cui persone con appartenenze diverse si trovano a
condividere esperienze comuni in luoghi pubblici. Sulla base delle ipo-
tesi e delle domande di partenza sono stati individuati tre ambiti rilevanti
per l’analisi. Il primo ambito riguarda le caratteristiche dei luoghi pub-
blici analizzati e dei raggruppamenti che si formano al loro interno, ed è
stato scelto allo scopo di individuare alcuni possibili elementi che potes-
sero descrivere situazioni condivise ma non escludenti (comunità di coloro
che non hanno niente in comune). Il secondo ambito è relativo al tipo di
pratiche che caratterizzano le situazioni analizzate, ed è stato scelto allo
scopo di descrivere le caratteristiche dell’educazione informale che può
svilupparsi nel contesto. Il terzo ambito è relativo al grado di contestua-
lizzazione/partecipazione di tali pratiche, ed è finalizzato a descrivere da
un lato il tipo di relazioni presenti nel raggruppamenti, dall’altro gli even-
tuali processi educativi informali in termini di educazione alla cittadi-
nanza, ovvero di un cambiamento in senso democratico di tali relazioni.
Per l’individuazione degli aspetti caratterizzanti di queste tre aree si
è fatto ricorso a spunti o elementi presenti sia nell’ambito del dibattito cri-
tico sulla comunità sia in alcuni approcci di ricerca ai processi educativi
informali: per quanto riguarda la prima area si è fatto riferimento so-
prattutto alle riflessioni critiche di Lingis e Bauman sulla nozione di co-
munità e alle loro implicazioni per la ricerca educativa (Lingis 1994;
Bauman 1999; Biesta 2006); per la seconda area si è tratto spunto da al-
cune delle principali riflessioni teoriche sulle pratiche quotidiane (Schutz
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UN POSSIBILE FRAMEWORK 87

1979; de Certeau 2001) e sulla loro rilevanza in ambito educativo (Brou-


gère, Ullman 2009); infine, per il terzo ambito, ci si è riferiti soprattutto ad
alcuni contributi tratti da studi sull’educazione informale e sul social le-
arning (Rogers 2005; Wildemeersch, Vandenabeele 2007).

Ambito 1: luoghi e raggruppamenti


Sottolineando la possibile rilevanza educativa del concetto di “comu-
nità di coloro che non hanno niente in comune”, Gert Biesta (2006) pro-
pone di combinare questo concetto con l’analisi di Bauman dei modi di
costruzione dello “straniero” nelle società contemporanee. Lo straniero
descritto da Bauman è colui che non ha nulla in comune con il resto
della comunità. Seconda la prospettiva baumaniana si può prababil-
mente affermare che nelle società urbane contemporanee ciascuno ri-
sulti un po’ straniero rispetto ai luoghi e ai gruppi sociali che attraversa.
Come scrive Bauman, “la vita in città è realizzata da stranieri tra stra-
nieri” (Bauman 1999: 81), e in questo senso i luoghi pubblici possono
certo essere visti come contesti in cui si sviluppano forme di “comunità
di coloro che non hanno niente in comune”. Tuttavia Bauman stesso ag-
giunge che per essere pubblico un luogo deve essere “liberamente ac-
cessibile” (Bauman 1999: 86), e che “l’’estraneità’ degli stranieri è
diventata una questione di gradi diversi: essa muta passando da un’area
ad un’altra e l’intensità del cambiamento differisce in base alla varie
categorie di stranieri” (Bauman 1999: 86).
Se si segue il suggerimento di Bauman, allo scopo di analizzare i rag-
gruppamenti che si formano nei luoghi pubblici, appare importante
considerare attentamente la tipologia di luogo pubblico analizzata e in
particolare la sua accessibilità ai vari tipi di persone. Inoltre diventa rile-
vante esaminare quali forme di affiliazione o appartenenza vi siano fra le
persone che partecipano a questi raggruppamenti.

Ambito 2: pratiche
Gli approcci che sottolineano gli aspetti situati dell’educazione, par-
tono dal presupposto che i processi di apprendimento sono profonda-
mente radicati nelle situazioni e nelle pratiche a cui le persone
prendono parte (Rogoff 2004). In particolare, viene sottolineata l’im-
portanza delle pratiche più quotidiane, e il fatto che forme di appren-
dimento situato sono possibili all’interno di gruppi di persone per le
quali quelle pratiche sono effettivamente significative (per esempio,
sulla pratica del ‘mangiare insieme’ come esempio di contesto educativo
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88 ORDINARIE MIGRAZIONI

informale, si veda la stessa Rogoff 2004, pp. 30-33). Tuttavia, fin dagli
studi fenomenologici sullo straniero condotti da Alfred Schutz, appare
chiaro che sono proprio le pratiche più quotidiane quelle rispetto alle
quali gli stranieri si sentono più spaesati (Schutz 1979). Gilles Brougere,
nella sua introduzione allo studio delle forme quotidiane di apprendi-
mento, ci dice che spesso le persone non sono consapevoli delle prati-
che quotidiane che hanno acquisito, mentre queste stesse pratiche
vengono più facilmente notate da uno straniero che non le abbia an-
cora apprese (Brougère, Ullman 2009). Per analizzare le potenzialità di
apprendimento delle pratiche che coinvolgono nativi e migranti, ap-
pare quindi importante chiedersi: quali sono le caratteristiche di quelle
pratiche? Quanto queste pratiche sono quotidiane per i partecipanti? E an-
cora: queste pratiche – proprio per il fatto di essere così quotidiane per
alcuni – non rischiano di essere escludenti per altri? Secondo il sugge-
rimento Michel de Certeau (2001), uno dei primi studiosi attenti al
mondo delle pratiche, è necessario inoltre osservare quale spazio hanno
all’interno della situazione analizzata altre forme di pratiche quotidiane:
pratiche che, pur non essendo significative per la maggior parte dei par-
tecipanti, sono comunque presenti e importanti nella quotidianità di
alcuni di loro.

Ambito 3: relazioni
Lo stesso de Certeau (2001) ha mostrato che una delle funzioni dei
contesti educativi è quella di controllare e possibilmente assimilare per-
sone, gruppi e pratiche che sono percepiti come stranieri. E gli studiosi
dei processi di acculturazione hanno mostrato che l’apprendimento in-
formale può essere visto come una delle forme del cambiamento cultu-
rale entro relazioni di potere fra gruppi diversi (Hannerz 2002). D’altra
parte, i teorici del social learning hanno sostenuto che proprio il cambia-
mento di queste relazioni di potere può essere considerato uno degli in-
dicatori di educazione alla cittadinanza in ambito non formale e
informale (Wildemersch,Vandenabeele 2007: 19). Allo scopo di analizzare
il tipo di cittadinanza che viene imparata informalmente nei luoghi pub-
blici, è utile quindi cercare di descrivere i modi in cui è distribuito il po-
tere al loro interno. Nella sua analisi delle forme contemporanee di
educazione formale, non formale e informale, Alan Rogers (2005) ha pro-
posto di analizzare in termini di contestualizzazione il tipo di partecipa-
zione a un determinato processo educativo. In questo senso, un evento o
percorso educativo decontestualizzato sarà probabilmente un percorso
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UN POSSIBILE FRAMEWORK 89

poco partecipato. Invece un percorso contestualizzato sarà un percorso


alla cui progettazione e realizzazione avranno partecipato le persone e i
gruppi a partire da problemi vissuti e in alcuni casi anche condivisi. Ap-
pare dunque utile porre domande quali: ci sono ruoli diversi fra i parteci-
panti alla situazione? C’è qualcuno che ha ideato o progettato la
situazione? C’è qualcuno che la gestisce? Chi prende le decisioni? Per
esempio: chi decide se è possibile utilizzare un luogo pubblico? E ancora:
c’è qualche legame fra la situazione e le istituzioni del territorio e i loro di-
scorsi? Chi ha il ruolo di gestire questi rapporti con l’istituzione?

Sulla base degli elementi individuati in questi tre ambiti è possibile


costruire un framework di riferimento come quello che segue:

1. Dove si trova il luogo pubblico analizzato? Quanto è


Ambito 1 accessibile? Per chi?
Luoghi 2. Chi sono i partecipanti alla situazione?
e raggruppamenti 3. I partecipanti hanno fra loro qualche forma di appar-
tenenza o affiliazione?
4. Quali sono le pratiche che creano la situazione e il
Ambito 2 raggruppamento?
Pratiche 5. Si tratta pratiche quotidiane? Sono quotidiane per
tutti i partecipanti?
6. Quale spazio hanno pratiche che appartengono ad
altri tipi di vita quotidiana?
7. Quanto è contestualizzata la situazione? Come è le-
Ambito 3 gata a vissuti e problemi dei partecipanti?
Relazioni 8. I partecipanti hanno ruoli diversi? Chi idea, progetta,
realizza, decide?
9. Ci sono rapporti fra la situazione e le istituzioni del
territorio? Chi tiene questi rapporti?

4. Un primo esempio di utilizzo del framework


Al fine di una prima valutazione del framework di analisi così ela-
borato, esso è stata applicato ad alcuni esempi di situazioni in cui per-
sone native e migranti si trovavano coinvolte (o almeno co-presenti)
nella stessa attività all’interno di luoghi pubblici. In particolare, ai fini
di questa prima sperimentazione del framework, si è provato ad appli-
carlo a situazioni in cui nativi e migranti si trovano insieme a ‘consu-
mare un pasto’ in luoghi pubblici. Si è fatto riferimento a materiale
raccolto nel corso di precedenti ricerche sul campo. Nessuno dei mate-
riali è stato raccolto esplicitamente ai fini di questo articolo. Vengono
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90 ORDINARIE MIGRAZIONI

qui di seguito presentate in modo molto sintetico alcune delle situa-


zioni per l’analisi delle quali si è provato ad applicare il framework:

Situazione 1
In una città dell’Italia centrale, in uno dei quartieri a più alta den-
sità di migranti, c’è una scuola media frequentata da molti allievi figli
di migranti. I genitori della scuola si sono riuniti in un’Associazione
che raccoglie genitori italiani e migranti. Poiché il quartiere non ha
molti spazi per le attività pomeridiane dei figli, l’Associazione ha
chiesto e ottenuto dalla scuola di utilizzare i cortili scolastici per far
praticare sport ai figli. Spesso, durante l’allenamento, arrivano alcuni
genitori migranti e italiani, e portano qualcosa per fare merenda in-
sieme alla fine dell’allenamento.

Situazione 2
In una cittadina del Nord-Est, in uno dei quartieri a più alta den-
sità di migranti, c’è una scuola primaria frequentata da molti allievi
figli di migranti. Ogni anno, a giugno, alla fine delle lezioni, alcuni
genitori organizzano un pranzo tutti insieme: allievi, genitori e inse-
gnanti. Il pranzo si svolge nel parco pubblico del quartiere e vi par-
tecipano sia italiani che migranti.

Situazione 3
In questa stessa cittadina, in un altro parco pubblico dello stesso
quartiere, si ritrovano – soprattutto in estate – un gruppo di mamme
albanesi per chiacchierare e far giocare insieme i figli. Spesso nei fine
settimana organizzano dei pic-nic con le famiglie. Il parco viene fre-
quentato anche da alcuni genitori e bambini italiani. Bambini alba-
nesi e italiani interagiscono fra loro. Non interagiscono però gli adulti
italiani e albanesi. Quando le famiglie albanesi si organizzano per
pranzare, gli italiani di solito evitano il parco. Alcuni italiani hanno
protestato con l’Amministrazione perché gli albanesi occupano il
parco con i loro pic-nic.

Non è questa la sede per presentare approfonditamente queste tre si-


tuazioni (per una trattazione più approfondita si veda Zoletto 2010). Tut-
tavia, al solo fine di una prima sperimentazione del framework, è possibile
suggerire alcuni degli elementi che possono emergere attraverso l’utilizzo
del framework:
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UN POSSIBILE FRAMEWORK 91

Luoghi e raggruppamenti: in tutti i casi si tratta di luoghi pubblici, e in


tutti i casi sembra esserci libero accesso per tutti; tuttavia nel caso dei pic-
nic delle famiglie albanesi, ci sono state proteste degli italiani; a seguito di
proteste simili, in altre città è stato vietato di consumare pasti nei parchi
pubblici (ma il divieto mirava a impedire i pic-nic agli unici che li face-
vano, ovvero ai migranti). Inoltre i luoghi in cui si svolgono i tre pasti che
coinvolgono i migranti sono piuttosto defilati. Sarebbe interessante veri-
ficare quali sarebbero le conseguenze se pasti organizzati da migranti o
con migranti si tenessero in luoghi pubblici più centrali o visibili. Infine:
in tutte le situazioni i partecipanti non si riuniscono per il solo pasto, ma
anche a causa di altre forme precostituite di appartenenza (genitori,
scuola, quartiere, livello sociale, gruppo etnico).

Pratiche: in tutti i casi la pratica principale è quella del pasto; tut-


tavia essa è accompagnata da altri tipi di pratiche (sport, chiacchiere,
giochi dei bambini) che contribuiscono a costruire la situazione e il
raggruppamento intorno a essa; in un caso (pranzo di fine anno) non
si tratta di una pratica di routine; in un altro (pic-nic delle famiglie al-
banesi) la pratica è di routine per alcuni (pranzo/chiacchiere “etni-
che”), ma esclude altri partecipanti (genitori italiani). Nelle tre
situazioni sono presenti pratiche diverse (in questi casi modi di man-
giare, giochi, sport diversi), e sicuramente queste pratiche apparten-
gono alla vita quotidiana dei partecipanti, e non risultano
stereotipate; tuttavia solo in due casi c’è interazione fra pratiche di
gruppi diversi (merenda nel cortile e pranzo di fine anno), mentre nel
caso del pic-nic delle famiglie albanesi non c’è alcuna interazione.

Relazioni: la merenda quotidiana dopo l’allenamento e il pic-nic


settimanale degli albanesi appaiono situazioni molto contestualiz-
zate e legate alle caratteristiche, ai vissuti e ai problemi delle persone
e dei gruppi coinvolti; in tutte le situazioni c’è condivisione di re-
sponsabilità e ruoli fra i partecipanti, per quanto nel pranzo di fine
anno sembrino maggiormente coinvolti solo alcuni genitori sia ita-
liani che migranti (l’elemento accomunante in questo caso potrebbe
essere il livello sociale dei genitori). Solo due situazioni sono diretta-
mente collegate a qualche istituzione: la merenda nel cortile scola-
stico e il pranzo di fine anno. Nel caso dell’Associazione genitori che
gestisce il cortile i contatti con l’istituzione sono gestiti anche da al-
cuni genitori migranti.
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92 ORDINARIE MIGRAZIONI

5. Alcuni spunti di riflessione


Le argomentazioni e il framework presentati in questo capitolo ri-
chiederebbero sicuramente un supplemento di articolazione teorica e
critica, soprattutto per quanto riguarda i rapporti fra concetti quali cit-
tadinanza, pratiche, comunità ed educazione informale. Inoltre, appare
necessario sperimentare il framework delineato su materiali empirici
più completi e raccolti a questo scopo. Tuttavia, sulla base di una primo
utilizzo, sembra di poter dire che il framework delineato possa rispon-
dere in modo positivo alla domanda da cui si è partiti: esso sembra in-
fatti poter aiutare nell’individuazione di alcuni elementi che descrivano
i processi educativi informali in atto in situazioni in cui persone con ap-
partenenze diverse si trovano a condividere esperienze comuni in luo-
ghi pubblici.
Se si osservano alla luce del framework le situazioni sopra tratteg-
giate, solo la prima situazione (la merenda nel cortile scolastico) sem-
bra poter dar luogo a forme di educazione informale alla cittadinanza.
È infatti l’unica situazione nella quale si assiste a un’effettiva redistri-
buzione in senso paritario delle responsabilità e dei ruoli fra i vari par-
tecipanti (migranti e nativi). Questa redistribuzione è legata forse al
carattere contestualizzato e partecipato della situazione analizzata. Il
gruppo dei genitori e dei ragazzi sia nativi che migranti si costituisce
intorno a una serie di pratiche quotidiane come la pratica sportiva e la
merenda: grazie a queste pratiche condivise si crea un’appartenenza
situata che non esclude il fatto che i partecipanti continuino a sentire
anche altre appartenenze. I partecipanti non sono uniti dalla sola espe-
rienza del mangiare insieme in pubblico, ma anche da altre forme di
appartenenza: si percepiscono come genitori di figli iscritti alla mede-
sima scuola e come appartenenti al medesimo quartiere.
Il tentativo di elaborare e sperimentare un framework analitico, sug-
gerisce anche altri punti di discussione in riferimento alla possibilità di
considerare i raggruppamenti che si formano nei luoghi pubblici come
forme di “comunità di coloro che non hanno niente in comune” in cui
fare pratica informalmente della cittadinanza. In particolare, l’analisi
concreta delle modalità in cui le persone interagiscono nei luoghi pub-
blici mostra che questi luoghi non sono affatto uno spazio omogeneo e
accessibile a tutti. Come ha scritto Renato Rosaldo: “nel momento in cui
una donna o una persona di colore fanno il loro ingresso nella pubblica
piazza, vengono subito a galla sia le differenze che le ineguaglianze”
(Rosaldo, 1999: 254). L’analisi delle situazioni in cui persone con diverse
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UN POSSIBILE FRAMEWORK 93

appartenenze si trovano insieme per consumare un pasto in pubblico,


mostra che queste situazioni si costituiscono sempre intorno a forme di
appartenenza pregressa, che costituiscono certo occasioni di educazione
informale, ma che possono anche escludere chi non condivide quelle
appartenenze.
Sembra molto difficile – anche nei processi di educazione informale
alla cittadinanza nei luoghi pubblici – evitare il riferimento a forme di
appartenenza comune. È per questo che appaiono importanti gli sti-
moli che provengono dal dibattito critico sul concetto di comunità. Idee
come quella di “comunità di coloro che non hanno niente in comune”
sono preziose perché stimolano a cercare – nelle forme di appartenenza
che sono alla base dell’educazione informale alla cittadinanza – alcuni
spazi e modi concreti di apertura all’altro. Un framework come quello
proposto in questo capitolo può costituire forse un primo e provvisorio
contributo in questa direzione.
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95

Fare ricerca sul campo nei contesti migratori


(Maria Cristina Cesàro)

La ricerca sul campo è alla base di qualsiasi studio socio-antropolo-


gico, eppure di quello che succede concretamente sul campo si parla poco,
creando una sorta di vuoto sia dal punto di vista della disciplina - con al-
cune eccezioni tra cui James Clifford e George Marcus, che hanno portato
all’estremo la riflessività in antropologia (Clifford e Marcus, 1986) - sia, so-
prattutto, della didattica. Per quanto riguarda quest’ultima, infatti, i corsi
e i testi di metodologia della ricerca, laddove esistono, tendono ad essere
comunque teorici, o quanto meno astratti, e raramente gli studenti hanno
la possibilità di toccare con mano cosa significhi l’esperienza sul campo
prima di affrontarla loro stessi (Dal Lago, De Biasi 2002; Ronzon 2008; Pa-
vanello 2009; Piasere 2002; De Lauri, Achilli 2007)1. Nel mondo accade-
mico, poi, sembra esserci una sorta di pudore a parlare apertamente delle
proprie esperienze di campo, soprattutto per quanto riguarda tutte le dif-
ficoltà e frustrazioni che quasi inevitabilmente ogni ricercatore incontra
nel condurre le proprie ricerche.
Perciò abbiamo pensato che potesse essere utile includere in un vo-
lume dedicato al fenomeno delle migrazioni contemporanee un capi-
tolo che esemplifichi da un punto di vista metodologico cosa significhi
fare concretamente ricerca in un contesto del genere. L’idea è quella di
partire da una descrizione di questa esperienza di ricerca sul campo
per fornire degli strumenti operativi a coloro che si accingono a fare ri-
cerca in simili contesti per la prima volta. L’analisi dell’esperienza con-
creta, inoltre, offre lo spunto per fare una riflessione su alcune
tematiche di ordine metodologico, riflessione che raramente trova spa-
zio nelle pubblicazioni e nell’attività accademica dei ricercatori. A tal
fine è stata privilegiata una forma narrativa, facendo largo uso di brani
tratti dal diario di campo o dalle interviste, favorendo così l’immedia-
tezza del racconto, proprio per non cadere ancora una volta nell’astra-
zione e dare invece l’idea di un contatto diretto con l’esperienza.

1. Fare ricerca
Quando nel marzo del 2009 ho iniziato la ricerca sui fenomeni mi-
gratori a Cervignano del Friuli e nella Bassa Friulana mi aspettavo che
non avrei avuto grandi difficoltà a trovare persone disposte a farsi in-
tervistare, a differenza di altre precedenti esperienze di ricerca in con-
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96 ORDINARIE MIGRAZIONI

testi migratori nel corso delle quali l’individuazione dei partecipanti


alla ricerca era stata alquanto difficoltosa2. Infatti, la mia ricerca rap-
presentava la continuazione e l’approfondimento di un lavoro già av-
viato da oltre un anno (Altin e Virgilio in questo volume), e si inseriva
in un contesto in cui c’erano già una serie di contatti che potevano es-
sere attivati per mettere in moto la rete di relazioni (network) attraverso
la quale vengono reclutati gli informatori secondo il metodo cosiddetto
‘a palla di neve’ (snowball method), in cui i partecipanti sono via via in-
dividuati da altri partecipanti3. Così sono partita fiduciosa, munita di
una lista di nomi e numeri di telefono a cui attingere per avviare la ri-
cerca. L’idea iniziale era quella di raccogliere circa venti interviste, di
cui la maggior parte tra cittadini stranieri residenti a Cervignano del
Friuli o in uno degli altri comuni dell’ambito4, da mettere a confronto
con alcune interviste a residenti autoctoni che avessero avuto in pas-
sato delle esperienze di emigrazione (cosiddetti emigranti di ritorno).
Queste interviste parallele sarebbero inoltre servite ad identificare un
ristretto numero di persone disponibili a partecipare ad un laboratorio
della memoria, che avrebbe dovuto svolgersi a conclusione del progetto
e nel quale si sarebbero messe a confronto esperienze migratorie di-
verse nel tempo e nello spazio ma al tempo stesso accomunate da alcuni
temi trasversali. Per il reclutamento delle persone da intervistare, oltre
ad una lista di persone che erano state già contattate precedentemente
nel corso del progetto (cittadini stranieri, operatori dei servizi, etc.),
avevo intenzione di utilizzare anche gli sportelli di ACLI, Alef e Vicini di
Casa presenti nel comune di Cervignano del Friuli e largamente fre-
quentati dai cittadini stranieri (Tomasin in questo volume). Rispetto alle
difficoltà che avevo incontrato nel corso di un progetto di ricerca pre-
cedente, in cui avevo dovuto trovare 50 corregionali e discendenti di
corregionali in Brasile da intervistare in poco meno di due mesi, questa
ricerca si preannunciava come una passeggiata: lavoravo a 40 chilome-
tri da casa, avevo meno interviste da raccogliere e più tempo a disposi-
zione, e soprattutto avevo già dei contatti e dei luoghi in cui si
concentrava la presenza dei cittadini stranieri.
Per quanto si trattasse di una ricerca qualitativa, e quindi non rap-
presentativa da un punto di vista statistico, mi proponevo comunque
di raccogliere delle interviste che fossero in qualche misura rappre-
sentative dal punto di vista del genere, del periodo di permanenza in
Italia, del comune di residenza e soprattutto della provenienza degli in-
tervistati. Pertanto ho ritenuto opportuno raccogliere anche dei dati
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FARE RICERCA SUL CAMPO NEI CONTESTI MIGRATORI 97

quantitativi aggiornati, al fine di avere un profilo demografico dei resi-


denti stranieri su cui basare, almeno in parte, la scelta degli informatori
e soprattutto con cui confrontare i dati emersi dalla ricerca qualitativa
(interviste, osservazione etc.). Per avere i dati di cui avevo bisogno, cioè
il bilancio demografico e la distribuzione per nazionalità della popola-
zione straniera residente, dovevo procurarmi i modelli ISTAT P3 di tutti
i Comuni dell’ambito. Si tratta di un modello predisposto dall’Istituto
nazionale di statistica (ISTAT) che i comuni sono tenuti a compilare ogni
anno con i dati relativi alla popolazione straniera residente. Anche que-
sto compito, che inizialmente mi era sembrato semplice e banale, si è in
realtà rivelato molto più impegnativo del previsto, infatti in molti casi è
stato necessario sollecitare ripetutamente e con diversi mezzi (posta
elettronica, telefono, fax) i funzionari degli uffici anagrafe affinché ri-
spondessero alla mia richiesta, al punto che la raccolta di questi dati è
durata più di due mesi e si è conclusa poco prima della fine della ri-
cerca5. In realtà, nonostante tutti i migliori auspici, questa campagna di
ricerca sul campo ha presentato molte più difficoltà di altre che avevo
svolto in precedenza in contesti decisamente più problematici.
Una delle prime lezioni che si imparano sul campo è che, per quanto
minuziosamente si sia precedentemente preparata la fase di ricerca, ra-
ramente una volta sul campo si trova quello che ci si aspettava; in altre
parole, si parte pensando di fare una cosa ma quasi sempre la ricerca
prende delle pieghe più o meno inaspettate. Questo, ben lungi dall’es-
sere un limite, è al contrario una misura della validità e del rigore di
una ricerca - in quanto se questa fosse realmente prevedibile nei mi-
nimi dettagli sarebbe anche inutile - anche se nel ricercatore provoca
inevitabilmente un senso di spiazzamento, se non addirittura di fru-
strazione perché le cose non vanno come ci si aspettava, e richiede una
buona dose di flessibilità. Inoltre, un atteggiamento di apertura e di di-
sponibilità a rimettere continuamente in discussione le proprie ipotesi
e le proprie aspettative, oltre ad essere necessario per poter continuare
la ricerca, può condurre a delle ‘scoperte’ inaspettate. Questo fenomeno
è stato definito ‘serendipità’ (dall’inglese serendipity), un neologismo che
denota la sensazione che si prova quando si scopre una cosa non cercata
e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra (Hannerz 1998: VII)6.
Vorrei dedicare le prossime pagine ad alcune considerazioni sulla
reale difficoltà di fare ricerca e condurre interviste in un contesto mi-
gratorio. Mi concentro sulle difficoltà perché in genere, a conclusione di
una ricerca, si tende a concentrarsi sui risultati e a dimenticare o rele-
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98 ORDINARIE MIGRAZIONI

gare nell’aneddotica le difficoltà che si sono incontrate; in realtà è pro-


prio a partire dalle criticità che si può sviluppare una riflessione sul fare
ricerca che possa essere di qualche utilità alla comunità dei ricercatori.

2. Uso dell’intervista
Lo strumento principale utilizzato in questa ricerca è stata l’intervi-
sta. Il progetto iniziale era quello di individuare delle persone disponi-
bili e in qualche modo rappresentative della comunità straniera
residente nella zona e concordare la possibilità di recarsi a casa loro –
o comunque di incontrarsi in un luogo tranquillo - per condurre un’in-
tervista semi-strutturata, cioè basata su una griglia che prevedeva di
toccare una serie di tematiche e argomenti ma che lasciava spazio a va-
riazioni e modifiche a seconda della situazione. I principali punti toccati
nell’intervista erano: il percorso migratorio e di inserimento; la cono-
scenza e valutazione dei servizi; le reti sociali e la vita sociale e culturale;
l’essere cittadino (partecipazione e identificazione con la comunità).
L’intervista sarebbe stata registrata, con il consenso degli intervistati, e
trascritta in forma discorsiva in un secondo momento, in modo da evi-
tare di dover prendere appunti nel corso della conversazione con gli in-
tervistati, una pratica che può creare delle interruzioni nel flusso della
narrazione e che risulta inevitabilmente in delle omissioni. Fin qui la
teoria, o piuttosto l’ideale; ma l’antropologia non è una scienza esatta
(anzi, per alcuni non è affatto una scienza) e l’oggetto delle ricerche an-
tropologiche – l’uomo nei suoi aspetti socio-culturali – è quanto di più
complesso e mutevole ci sia. Nella pratica, quindi, le variabili sono pres-
soché infinite e raramente è possibile condurre delle interviste esatta-
mente come si era programmato nella preparazione della campagna di
ricerca, mentre è necessaria una buona dose di flessibilità che permetta
di adattarsi alle circostanze che si incontrano di volta in volta. Quello
che ci deve guidare non è il desiderio di forzare a tutti i costi la realtà in
uno schema predefinito ma, al contrario, la capacità di adattarci conti-
nuamente al contesto in cui ci troviamo, nel tentativo di fornire una rap-
presentazione quanto più possibile vicina e onesta della realtà che
stiamo osservando e che ci proponiamo di descrivere. La sfida per l’an-
tropologo in questo lavoro di ‘mediazione’ è proprio quella di mante-
nere un equilibrio in questa sorta di tensione tra l’ordine della teoria e
il caos della vita reale.
In questo caso specifico, nel corso della campagna di ricerca con-
dotta a Cervignano del Friuli e dintorni, nella maggior parte dei casi
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FARE RICERCA SUL CAMPO NEI CONTESTI MIGRATORI 99

non è stato possibile condurre le interviste secondo le modalità che


erano state pianificate in partenza. La prima difficoltà, su cui torneremo
più avanti, è stata quella di individuare le persone da intervistare. Ma
anche una volta trovate le persone disposte ad essere intervistate, in
molti casi non è stato possibile concordare un tempo e un luogo adatti
e ci si è dovuti adattare a condurre un’intervista ‘improvvisata’, spesso
nella sala d’attesa di uno degli sportelli dedicati ai cittadini stranieri. In
questi casi è stato quanto mai necessario condurre l’intervista come una
conversazione informale, i cui tempi sono stati dettati dalla posizione in
coda dell’intervistato più che dalle esigenze del ricercatore. Poiché la
durata di queste interviste era imprevedibile, ho dovuto stravolgere la
scaletta che mi ero mentalmente preparata e ho cercato di affrontare
per primi gli argomenti che mi sembravano più importanti ai fini di
questa ricerca (servizi, partecipazione, integrazione), approfondendo
poi in un secondo momento, qualora ce ne fosse stato il tempo, tutta la
vicenda migratoria della persona. Inoltre, in circa la metà delle intervi-
ste condotte con cittadini stranieri non è stato possibile registrare, prin-
cipalmente a causa del timore e della diffidenza degli intervistati,
nonostante non si andassero a toccare argomenti delicati e nonostante
le mie ripetute rassicurazioni che le interviste sarebbero state anonime
e, soprattutto, che le registrazioni servivano solo ad evitare di dover
prendere appunti – distraendomi e omettendo inevitabilmente qual-
cosa – e non sarebbero state in alcun modo rese pubbliche.
Se da un lato tutti questi inconvenienti hanno senz’altro reso la rac-
colta di dati più difficile e problematica del previsto, dall’altro rappre-
sentano in sé un dato importante in quanto ci dicono qualcosa della
situazione dei cittadini stranieri in quel contesto, come ad esempio la
dichiarata mancanza di tempo, o piuttosto l’interiorizzazione di un
modo di vita che lascia tempo soltanto per il lavoro e per la famiglia, la
quasi totale assenza di reti sociali su base etnica e non, un diffuso sen-
timento di diffidenza nei confronti di qualcuno o qualcosa che non si
conosce. Questi aspetti peraltro sono stati riscontrati in buona parte
anche tra la popolazione autoctona (emigranti di ritorno), inducendoci
paradossalmente ad interpretare questo dato come un indicatore di in-
tegrazione riuscita da parte della popolazione di origine straniera (vedi
Altin in questo volume).

3. Difficoltà a reclutare partecipanti


Le difficoltà più grandi, e soprattutto inaspettate, sono state incon-
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100 ORDINARIE MIGRAZIONI

trate nel reperire persone disponibili ad essere intervistate, non solo tra
i cittadini stranieri ma anche tra gli ‘emigranti di ritorno’. Questo è in sé
un dato interessante perché ci dice qualcosa sul tessuto sociale del ter-
ritorio, sempre più ripiegato sul circolo ristretto della vita familiare e
caratterizzato da un crescente senso di insicurezza e diffidenza. Spesso
però la disponibilità delle persone nei confronti della ricerca è anche
fortemente condizionata dalla loro comprensione di quello che stiamo
facendo: chi non ha familiarità con il lavoro del ricercatore può avere
difficoltà a capirne il senso, e soprattutto l’utilità. La domanda più co-
mune che ci viene rivolta è ‘a cosa serve?’, che spesso sottintende ‘a cosa
mi serve?’. A conferma di come la conoscenza più o meno diretta dei
processi di ricerca possa influire positivamente sulla disponibilità e
sulla partecipazione posso citare una precedente ricerca tra i nostri cor-
regionali trasferitisi in Gran Bretagna negli ultimi due decenni. Nono-
stante le maggiori difficoltà logistiche, in quella occasione ho incontrato
una grande disponibilità e facilità nel condurre le interviste, trattandosi
quasi sempre di persone che avevano una certa familiarità con il lavoro
di ricerca, o che addirittura erano essi stessi dei ricercatori. Credo che
una delle sfide più grandi per un antropologo sia quella di cercare di
condividere con le persone con cui si lavora (i cosiddetti ‘informatori’)
il senso di quello che stiamo facendo. Maggiore è la distanza sociale e
culturale (e spesso anche linguistica) tra noi e queste persone, maggiore
sarà la difficoltà a trovare una sorta di terreno comune su cui confron-
tarsi. Ritengo tuttavia che rendere le persone che intervistiamo o che
osserviamo partecipi del nostro progetto di ricerca – in altre parole con-
siderarle dei soggetti e non degli oggetti di ricerca - sia un imperativo
etico, oltre che un importante esercizio di riflessività che ci costringe
continuamente a mettere in discussione, e in prospettiva, il nostro la-
voro. Talvolta ciò può essere sorprendentemente facile, nonostante
l’enorme distanza, e gratificante, come quando un venditore di kebab
uiguro al mercato di Kashgar mi disse “Ho capito, tu vuoi far conoscere
la nostra cultura alimentare nel resto del mondo. Grazie!” (Cesàro 2002).
Tornando alle difficoltà di reclutamento per quanto riguarda la ri-
cerca nella Bassa Friulana, l’ottimismo iniziale è cominciato a vacil-
lare quando la lista di contatti che avevo a disposizione e che
confidavo servisse se non altro per avviare la ricerca si è esaurita
senza alcun esito: in molti casi i numeri (tutti cellulari) non erano più
validi, in altri le persone si erano trasferite, o semplicemente non
erano reperibili. Questo inconveniente è comunque indicativo del-
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FARE RICERCA SUL CAMPO NEI CONTESTI MIGRATORI 101

l’estrema mobilità, e in qualche modo della precarietà, che spesso ca-


ratterizza le vite di queste persone; infatti questi nominativi erano
stati raccolti da altre due ricercatrici nel corso dell’anno precedente.
Spesso il primo dato con cui ci si confronta nel fare ricerca in conte-
sti migratori (contemporanei) è la sensazione di avere a che fare con
qualcosa di sfuggente, di precario, qualcosa che oggi c’è ma domani
potrebbe non esserci, anche se naturalmente esistono anche situa-
zioni di stabilità.
In assenza di qualsiasi forma di associazionismo tra i residenti stra-
nieri ed essendo venuto a mancare l’unico punto di incontro informale
(a parte la piazza) con il cambio di gestione del bar di fronte alla chiesa
di Cervignano del Friuli7, l’altra pista che avevo intenzione di seguire
era quella di frequentare gli sportelli dedicati ai cittadini stranieri per
reclutare partecipanti alla ricerca. Anche in questo caso le circostanze
non sono state del tutto favorevoli, infatti questi sarebbero probabil-
mente stati chiusi di lì a un mese, a causa di un cambio della giunta re-
gionale con conseguente cancellazione della legge sull’immigrazione
(L.R. 5/2005) e degli interventi e finanziamenti previsti da questa legge.
In mezzo poi c’era la Pasqua e uno sciopero nazionale, insomma, do-
vevo assolutamente sfruttare al meglio i pochi giorni che avevo a di-
sposizione. Così ho cominciato da subito i miei ‘appostamenti’ agli
sportelli Alef, ACLI e Vicini di Casa di Cervignano del Friuli, ma anche
qui l’inizio non è stato promettente, come risulta da questo estratto del
mio diario di campo:

Sabato 28 marzo 2009


Ore 9-11 – sportello ACLI Cervignano del Friuli
[...]
Contattato utenti in attesa:
– una donna di mezza età dell’Est (rifiuta);
– un uomo giovane della Tunisia che dice di chiamarsi Ibrahim (si
rifiuta di darmi un recapito telefonico e mi dà un appuntamento
per il sabato successivo [a cui però non si sarebbe presentato]);
– un uomo giovane del Nepal (intervistato al momento, ma resi-
dente nel Comune di Grado [fuori ambito]).

In queste righe sono esemplificati alcuni degli ostacoli che si pos-


sono incontrare nel condurre ricerche in questo tipo di contesto (e non
solo). Il primo fra tutti è la diffidenza, spesso accompagnata da una reale
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102 ORDINARIE MIGRAZIONI

o presunta mancanza di tempo. Un altro ostacolo è rappresentato da


quella che potremmo definire ‘inaffidabilità’, ma che più probabilmente
è da attribuire a una modalità di rifiuto indiretta, per cui la persona
sembra accettare ma in realtà si tratta di una strategia per evitare il con-
fronto, in altre parole, sta semplicemente cercando di liberarsi di noi. In
genere, con un po’ di intuito, è possibile riconoscere questo tipo di si-
tuazioni. Infine una delle situazioni più frustranti è quando si trova
qualcuno disponibile che però per qualche motivo – in questo caso il co-
mune di residenza – non ha le caratteristiche necessarie per rientrare
nel campione.
Tuttavia, l’ostacolo principale in questa campagna di ricerca è da ri-
condursi proprio alle caratteristiche dell’immigrazione in questo terri-
torio (Bassa Friulana), e cioè la difficoltà di trovare punti di raccordo,
realtà associative, etc., come conferma anche una delle operatrici degli
sportelli: “A Udine sarebbe facile, perché ci sono i rappresentanti di
tutte le comunità e attraverso di loro si potrebbero contattare le per-
sone, ma a Cervignano del Friuli e dintorni è tutto molto più frammen-
tario” (A.F. 02/04/2009).
In effetti, un dato che è emerso da subito in maniera molto evidente
è che la socializzazione sembra avvenire secondo le modalità del terri-
torio, dove in molti casi le persone vivono vite ‘multicentriche’, fram-
mentate tra i luoghi in cui si vive e quelli in cui si lavora o si va a scuola.
Di conseguenza i contesti di socializzazione sono la famiglia (più o
meno estesa), il lavoro, la scuola dei figli, il vicinato. Inoltre quasi tutti
gli intervistati dicono di socializzare principalmente con italiani o altri
stranieri, ma raramente con dei connazionali, e l’associazionismo su
base etnica sembra essere del tutto assente.
Infine un’altra risorsa, quando si lavora in contesti migratori (in Ita-
lia), sono i corsi di italiano come seconda lingua (L2). Anche in questo
caso, però, le circostanze non sono state favorevoli in quanto il corso di
italiano per adulti organizzato a Cervignano del Friuli dal Centro Ter-
ritoriale Permanente (CTP) di San Giorgio di Nogaro si era concluso in
anticipo a causa di problemi logistici. Inoltre non è stato facile neanche
organizzare un incontro con l’insegnante, nonostante la sua totale di-
sponibilità, sempre a causa delle caratteristiche ‘dispersive’ del territo-
rio; infatti le sedi dei corsi affidati a lei erano disseminate in tutta l’area
del Basso Friuli. Con un po’ di perseveranza e dopo una lunga serie di
contatti telefonici, sono almeno riuscita ad incontrare l’insegnante e i
pochi allievi di un corso avanzato che si svolgeva a Terzo d’Aquileia (la
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FARE RICERCA SUL CAMPO NEI CONTESTI MIGRATORI 103

maggior parte di questi proveniva da paesi dell’ Unione Europea ed era


sposata con cittadini italiani).

4. Decostruire la mitologia della ricerca sul campo


Come ho già accennato nelle pagine precedenti, non sempre la ri-
cerca sul campo è l’impresa gloriosa ed eroica che uno si immagina.
Nonostante sia l’aspetto più caratterizzante e, tutto sommato, l’espe-
rienza più gratificante della ricerca antropologica, non mancano i mo-
menti di sconforto e di frustrazione. Personalmente, in tutte le mie
esperienze di ricerca, da quella tra gli Uiguri dell’Asia Centrale cinese
a quella tra i discendenti di emigranti friulani nel profondo sud del Bra-
sile o tra gli immigrati contemporanei nella Bassa Friulana, non ho mai
cercato di rimuovere questi sentimenti; al contrario, ho sempre cercato
di dare libero sfogo nel diario di campo a riflessioni e considerazioni
suscitate a caldo da questo tipo di situazioni, così come ho cercato di
farle emergere anche nella successiva stesura dei resoconti etnografici
(Cesàro 2002: 142-145). Nel tentativo, quindi, di decostruire la ‘mitologia’
della ricerca sul campo, non già per toglierle forza e autorevolezza ma
al contrario per rivalutarne gli aspetti di profonda umanità che, pur con
tutti i suoi limiti e le sue debolezze, rappresentano la sua reale forza, ri-
propongo di seguito un lungo estratto del mio diario di campo che rias-
sume ed esemplifica molte delle considerazioni fatte fin qui.

Sabato 4 aprile 2009 mattina


Intervista a K. H. nella piazza di Cervignano del Friuli
Arrivata dall’Albania due anni e mezzo fa, il marito è in Italia da sei
anni.
Avevo contattato K. qualche giorno prima al telefono, su segnala-
zione di O. (sportello ACLI) e mi aveva dato appuntamento alle 9.30 di
sabato allo sportello ACLI, dove si sarebbe recata per chiedere delle in-
formazioni. Avevo fatto presente che avrei voluto intervistare anche suo
marito, ma era stata evasiva e aveva insistito che ci vedessimo allo spor-
tello perché non si sentiva sicura del suo italiano e magari O. ci avrebbe
potuto aiutare.
Alle 9.20 ci sono già tre persone che aspettano fuori la porta delle
ACLI, due uomini e una donna. Dall’aspetto potrebbero essere dei Bal-
cani o dell’Europa orientale. Per un po’ aspettiamo in silenzio, poi arriva
un ragazzo africano che si rivolge a uno dei due uomini come se lo co-
noscesse. Questo non gli risponde e lo ignora; penso che magari sono
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104 ORDINARIE MIGRAZIONI

compagni di lavoro e mi sembra una scena un po’ surreale. Poi l’afri-


cano si rivolge alla signora, dicendo che non ha lavoro e che vuole com-
prarsi da mangiare, e capisco che sta cercando di farsi dare dei soldi.
Mentre aspettiamo mi faccio coraggio e avvicino i due uomini, anche
se non hanno un’aria molto loquace e disponibile. Gli spiego cosa sto fa-
cendo e gli chiedo se sarebbero disponibili ad essere intervistati. Uno
dei due, che vive a Cervignano del Friuli, a mala pena mi risponde con
un no a mezza voce e si gira dall’altra parte. L’altro, più giovane e che
vive a Perteole, mi dice che già era andata da lui l’anno scorso, una per-
sona di Udine, ma che “tanto non serve a niente”. Capisco allora che si
tratta di Z., intervistato l’anno scorso da Flavia.
Nel frattempo si sono fatte le nove e mezza e sopraggiunge una si-
gnora dall’aria piuttosto distinta e molto curata, l’istinto mi dice che è
la persona che sto aspettando, così la saluto e le chiedo se è lei K.. Lei
conferma ed esordisce dicendomi, un po’ preoccupata, che al telefono
non mi aveva chiesto se ci sarebbero state telecamere, perché in tal caso
non è disponibile. La rassicuro e cominciamo a commentare che sono
già passate le 9.30 e lo sportello non ha ancora aperto. Sopraggiunge lo
stesso africano di prima che si rivolge a K. dicendo di non avere un la-
voro e le chiede di dargli dei soldi – per l’esattezza 2 euro! – per com-
prarsi del pane. Lei ribatte che non è colpa sua se lui non ha lavoro, e
che comunque neanche lei lavora e ha due figli da mantenere. L’afri-
cano insiste per un po’ con lei, poi si rivolge a me e pretende che gli dia
io dei soldi perché secondo lui la macchina parcheggiata lì davanti è la
mia; gli dico che non possiedo una macchina e che mi sposto con i mezzi
pubblici. Rimane senza parole e alla fine desiste e se ne va.
La porta delle ACLI continua ad essere chiusa e tutti cominciano
a dare segni di impazienza. Comincio a intavolare una conversazione
con K. [...]
Dal momento che l’attesa comincia a prolungarsi le propongo di an-
dare a prendere un caffè, lei accetta e dice che la sta raggiungendo la
moglie di suo fratello, così andiamo tutte e tre. Dentro di me spero di
trovare un posto tranquillo e di poter fare lì l’intervista, ma lei ci guida
verso un bar caffè su via Roma piuttosto affollato e rumoroso e mani-
festa l’intenzione, dopo aver fatto colazione, di tornare a vedere se lo
sportello ha aperto. [...]
La conversazione [al bar] non dura molto perché K. vuole tornare a
vedere se è arrivata O. e ha aperto lo sportello. Insiste per pagare lei, io
cerco di insistere più di lei, ma non c’è niente da fare. Torniamo allo
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FARE RICERCA SUL CAMPO NEI CONTESTI MIGRATORI 105

sportello, che è ancora chiuso; a questo punto sono quasi le dieci e


mezza ed è chiaro che non aprirà. [...]
Alla fine propongo di andare a sederci su una panchina della piazza
per fare finalmente l’intervista. Troviamo un posto tranquillo e K. si
siede tra me e sua cognata. Le chiedo se posso registrare la nostra con-
versazione, così evito di prendere appunti mentre parliamo, e, soprat-
tutto di dimenticarmi qualcosa. Lei sembra un po’ contrariata, è
titubante e si consulta con la cognata che sembra rassicurarla. La rassi-
curo anche io, dicendole che ascolterò solo io la registrazione, e che co-
munque sarà anonima, ma alla fine lei dice che non vuole che registri
e preferisce che prenda degli appunti. Comincio ad essere un po’ de-
moralizzata e a sentirmi un po’ a disagio. Nonostante la sua cordialità è
palpabile una certa diffidenza; non ha neanche accennato alla possibi-
lità di andare a casa sua. E poi mi chiedo che senso abbia tutto questo,
noi che ci battiamo per promuovere la partecipazione di persone che
non sembra abbiano nessun interesse a partecipare. Comunque co-
minciamo l’intervista.
[...]
Siamo interrotti da un signore di mezza età che si è fermato di fianco
alla panchina dove siamo sedute ed ha ascoltato quest’ultima parte
della conversazione. Interviene nel discorso affermando l’assurdità
delle situazioni in cui si trovano molti cittadini stranieri, che magari
hanno figli nati in Italia ma rischiano in qualsiasi momento di dover-
sene andare, mentre dall’altra parte ci sono gli italiani residenti al-
l’estero che votano, anche se stanno da vent’anni in Australia e non
hanno idea di cosa succeda in Italia. Ha un’aria amichevole, uno spic-
cato accento napoletano, e fa dei discorsi sensati, ma K. e la cognata
sembrano essere molto a disagio e io sto sulle spine e sono molto com-
battuta tra continuare la conversazione con questo signore (alla fin fine
vive a Cervignano del Friuli e sta esprimendo delle opinioni sugli stra-
nieri) o invece togliere loro due d’impaccio. Dal momento che K. e la
cognata sono sempre più irrigidite mi scuso con il signore, che nel frat-
tempo si è lanciato in un accorato monologo, e dico che si è fatto tardi
e devo tornare a Trieste. Lui si scusa per averci interrotto ed è un po’ a
disagio perché si rende conto della situazione che ha involontariamente
creato.
Mentre ci allontaniamo K. mi chiede se abbiamo finito: le dico di sì;
a questo punto non credo abbia nessun senso continuare. Chiedo a tutte
e due se mi possono aiutare: ho bisogno di intervistare anche qualche
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106 ORDINARIE MIGRAZIONI

uomo, forse uno dei loro mariti potrebbe essere disponibile. Entrambe
dicono che è impossibile, lavorano tantissimo e non hanno tempo. Le
ringrazio e ci congediamo.

1
L’esigenza da parte degli studenti di antropologia di conoscere l’esperienza di ricerca
sul campo prima di doverla affrontare loro stessi è emersa chiaramente durante il conve-
gno ‘La ricerca sul campo’ tenutosi nel maggio 2008 ed organizzato dagli studenti di an-
tropologia dell’Università di Venezia riuniti in un’associazione dal nome emblematico: ‘Il
Campo’.
2
Nel 2007 avevo condotto una ricerca sulle ‘nuove migrazioni’ dal Friuli Venezia Giu-
lia alla Gran Bretagna (Misturelli e Cesaro, 2009) e nel 2008, nell’ambito del progetto
AMMER (archivio multimediale della memoria dell’emigrazione regionale) promosso
dalla Regione Friuli Venezia Giulia, avevo raccolto delle interviste a corregionali e discen-
denti di corregionali emigranti in Brasile dalla fine del 1800 al secondo dopoguerra (si veda
il sito www.ammer-fvg.org).
3
Questo metodo è largamente usato in contesti di ricerca non facilmente confinabili
o delimitati da uno spazio fisico ben definito, nei quali la comunità oggetto della ricerca
non può essere conosciuta nella sua totalità, come ad esempio può avvenire in un villag-
gio, o in un’istituzione quale ad esempio una scuola o un ospedale. Naturalmente anche
nel caso del villaggio o dell’istituzione la delimitazione è in qualche modo arbitraria, in
quanto qualsiasi entità individuata ai fini di una ricerca non è isolata ma è comunque in-
serita in una rete di relazioni più o meno ampia (oggi siamo consapevoli che il villaggio iso-
lato è una sorta di artificio di un’antropologia di stampo positivista da tempo superata).
4
L’ambito distrettuale 5.1 di Cervignano del Friuli comprendeva 18 comuni: Aiello del
Friuli, Aquileia, Bagnaria Arsa, Bicinicco, Campolongo al Torre, Cervignano del Friuli, Chio-
pris-Viscone, Fiumicello, Gonars, Palmanova, Ruda, San Vito al Torre, S. Maria la Longa, Ta-
pogliano, Terzo d’Aquileia, Trivignano Udinese, Villa Vicentina, Visco. Dal 2009 sono
diventati 17 in quanto i Comuni di Campolongo al Torre e Tapogliano sono stati riuniti in
un unico Comune (Campolongo Tapogliano).
5
A coloro che si accingessero a condurre una ricerca di questo tipo consiglio di non
sottovalutare il tempo necessario alla raccolta di questi dati, in qualche modo secondari in
una ricerca qualitativa ma senz’altro utili per la comprensione complessiva del fenomeno
migratorio e per l’interpretazione dei dati emersi dalle interviste.
6
La parola deriva da Serendip, il nome persiano dello Sri Lanka (che a sua volta deriva
dal sanscrito) ed è stata coniata dallo scrittore inglese Horace Walpole in una lettera che
scrisse all’amico Horace Mann nel 1754.
7
Sull’assenza di associazionismo e forme di aggregazione anche informale si veda
Altin in questo volume.
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107

Famiglie in polvere fra prototipi e pratiche


(Barbara Vatta)

1. Le molteplici ‘pratiche’ familiari


La frantumazione e la possibilità di ricostruire i pezzi secondo ‘pra-
tiche soggettive’, richiamata dal titolo del mio contributo1, ben si adat-
tano a un processo di evoluzione radicale che le famiglie italiane, e non
solo, stanno subendo da qualche decennio e che le mettono al centro di
processi globali decisivi nel passaggio ‘fluido’ e talvolta caotico dalla
tradizione alla modernità e postmodernità.
Questa dinamica emerge chiaramente dalla ricerca che sto condu-
cendo in Friuli Venezia Giulia per la mia tesi di dottorato e, in partico-
lare, dal caso-studio che ho individuato nelle ottanta famiglie dei
bambini che frequentano la Scuola d’infanzia di Terzo di Aquileia in
provincia di Udine, comune limitrofo a Cervignano del Friuli nella
Bassa friulana, un interessante punto di osservazione dei fenomeni di
cambiamento e di complessità nella sfera familiare.
Il piccolo Comune, che conta quasi 3.000 abitanti, presenta un’inte-
ressante immigrazione da altri comuni (112 nel 2008, di cui solo 8 stra-
nieri), meno dall’estero (14 nel 2008, di cui 11 stranieri), totale +4,3%,
con un saldo naturale (differenza tra nati e morti) di -3, ma un saldo mi-
gratorio e per altri motivi pari a +45. Le famiglie sono 1.209 (fine 2008)
con un numero medio di componenti per famiglia pari a 2,04. Tra gli
stranieri presenti, i minorenni sono il 20,8 %, di cui la metà nata in Ita-
lia (dati ISTAT 2009).
Si rivela, quindi, un Comune attrattivo per le famiglie straniere ma
soprattutto italiane provenienti da altri comuni. Uno dei principali mo-
tivi di attrazione, assieme al mercato della casa di proprietà, più acces-
sibile rispetto ai contesti urbani regionali, è proprio l’offerta formativa
di qualità per i bambini della scuola d’infanzia e della primaria (ad
esempio, a differenza di altri piccoli comuni limitrofi, a Terzo di Aqui-
leia esisteva il servizio di scuola a tempo pieno già 30 anni fa).
Inoltre numerosi sono i casi di separazioni e divorzi (casi di terze
nozze), di famiglie ricostituite, di coppie miste, oltre che straniere, e la
particolarità di un’immigrazione interna alla regione. Proprio quest’ul-
tima caratteristica avvicina, nel segno di una comune mobilità e quindi
di una nuova gestione ‘spaziale’ dei rapporti parentali a distanza, le fa-
miglie italiane a quelle straniere, condizionando le pratiche familiari e
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108 ORDINARIE MIGRAZIONI

le attività di socializzazione e riducendo, per alcuni aspetti, le differenze


tra contesto provinciale e contesto urbano che emergono normalmente
dai dati dei sociologi e dei demografi. È significativa, in quest’ottica, la
densa rete di scambi e contatti che si è creata soprattutto tra le mamme
dei bambini dell’asilo che, non solo si frequentano assiduamente con o
senza figli (soprattutto in luoghi pubblici come il parco giochi di S. Mar-
tino di Terzo di Aquileia), ma si prendono cura dei figli delle altre in
momenti di difficoltà (accompagnamenti da e verso l’asilo, sorveglianza
pomeridiana dei bimbi, acquisto di vestiti e materiali scolastici, orga-
nizzazione comune di feste di compleanno, aiuto in casi malattia, ecc.),
si aiutano in piccoli lavori di manutenzione della casa, negli spostamenti
in automobile, nell’accompagnamento all’ospedale o dal medico per vi-
site sanitarie. Gesti di cura e di aiuto reciproco che normalmente tran-
sitano attraverso rapporti familiari o parentali e che in questo caso
invece vanno ad alimentare nuovi rapporti sociali e nuove forme di co-
munità, decisamente più permeabili all’inserimento degli stranieri (si
veda anche il concetto di “comunità di coloro che non hanno niente in
comune” analizzata da Zoletto in questo volume).
Convinta, come Appadurai (2001: 35), che “non c’è nulla di semplice
riguardo alla dimensione locale”, che “la località stessa è un prodotto
storico e che le storie attraverso cui le località emergono sono alla fine
soggette alle dinamiche del globale”, ho concentrato una parte della ri-
cerca su questa realtà/laboratorio, che ha comportato alcuni mesi di os-
servazione partecipante, interviste qualitative ai genitori degli alunni,
somministrazione di un questionario lungo a tutte le 80 famiglie e agli
8 docenti della Scuola d’Infanzia, reperimento di dati ISTAT, comunali
e della direzione didattica per l’analisi delle dinamiche demografiche,
realizzazione di Focus Group tematici con alcuni genitori volontari.
Portare avanti una ricerca antropologica su famiglia e parentela in Ita-
lia non è affatto semplice, sia per la difficoltà a superare la riservatezza e
la difesa della privacy che entrano in gioco quando si parla di vita e le-
gami familiari (Cesàro in questo volume), sia per la scarsità dei progetti di
ricerca antropologica su questi temi che solo negli ultimi decenni, anche
a livello europeo, hanno attirato l’attenzione degli studiosi e hanno spo-
stato lo sguardo tradizionalmente riservato agli Altri su di Noi.
Inoltre per parlare e studiare le relazioni di parentela e le famiglie
nel mondo contemporaneo è necessario utilizzare un metodo e un ap-
proccio tipici della complessità, ovvero un approccio fortemente inter-
disciplinare (si utilizzano gli strumenti della demografia, sociologia,
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FAMIGLIE IN POLVERE FRA PROTOTIPI E PRATICHE 109

sociologia delle comunicazioni, antropologia culturale, storia, lingui-


stica, psicologia cognitiva, diritto, letteratura, ecc.), che presuppone una
preparazione ibrida da parte del ricercatore e quindi risulta di per sé
problematico.
Ma perché parliamo di ‘famiglie’ e non di ‘famiglia’?
Perché al plurale di questo sostantivo corrisponde effettivamente
nelle società occidentali di oggi una molteplicità di forme familiari, mol-
teplicità che peraltro c’è sempre stata se compariamo storicamente le
diverse culture del mondo, comprese quelle europee su scala regionale,
come vedremo più avanti. Parlare di ‘famiglia’ al singolare è difficile,
così come trovarle una definizione soddisfacente. Alla domanda “Quale
realtà definisce allora oggi in Italia la parola famiglia?”, Chiara Saraceno
(2001), sociologa della famiglia, risponde: “Ne definisce più di una, è
questo che dobbiamo cominciare a pensare. Ne definisce più di una per
ciascuno di noi [..], continuiamo a usare una parola unica per alludere
a esperienze anche estremamente diverse, sia per noi stessi nel corso
della nostra vita, sia per individui diversi”.
È un concetto, quello di famiglia, fortemente polisemico che viene usato
quotidianamente, tutti sanno cosa significa, è centrale nella cultura e nella
società italiana, ma sembra davvero difficile darne una definizione pre-
cisa. Come nel caso della ‘nazione’ di Anderson (2005), anche la ‘famiglia’
subisce continui processi di naturalizzazione (Remotti 2008; Théry 2006) -
“è sempre stato così”, si dice - nonostante sia un concetto recente2; è stret-
tamente collegata ad altri due concetti-chiave quello di identità e di origini;
presenta forti elementi di emotività e sacralità, in senso letterale“ciò per cui
si è pronti a sacrificare la propria vita” (Ferry 2008).
In Italia inoltre, più che nei paesi del nord Europa, attraverso le fa-
miglie transita una buona fetta di diritti e di politiche di welfare sia for-
male che informale – tanto che la famiglia si configura come un vero e
proprio ‘ammortizzatore sociale’ - col risultato che definire la famiglia
in un modo piuttosto che in un altro determina chi può ricevere aiuti e
chi no, chi ‘esiste’ per lo stato italiano e chi no. Su questo sia il legisla-
tore che l’amministratore italiano sembrano far riferimento a quella
che, provocatoriamente, potremmo definire la ‘famiglia che non c’è’. A
titolo di esempio si provi ad analizzare la definizione di famiglia pre-
sente nella nostra Costituzione nazionale, definizione peraltro non pre-
sente nelle Carte costituzionali di altri Paesi europei: “La Repubblica
riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matri-
monio“ (Art. 29)3.
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110 ORDINARIE MIGRAZIONI

Anna Laura Zanatta (2003: 8-9) ci spiega bene quali trasformazioni


abbia invece subito questa ‘istituzione’ dopo gli anni ‘50: “A partire dalla
metà degli anni Sessanta del XX secolo si è andata manifestando una cre-
scente disaffezione nei confronti della famiglia tradizionale, fondata sul
matrimonio e su una discendenza numerosa. Questa crisi dell’istituzione
matrimoniale e le recenti trasformazioni della famiglia sono documentate
da alcuni fenomeni demografici ormai ben noti e che si possono riassu-
mere così: il calo dei matrimoni; il calo delle nascite; l’aumento delle con-
vivenze (o famiglie di fatto o unioni libere) e delle nascite fuori dal
matrimonio; l’aumento delle separazioni e dei divorzi; l’aumento delle fa-
miglie con un solo genitore; l’aumento delle famiglie ricomposte (in cui al-
meno uno dei coniugi o partner proviene da una precedente unione);
l’aumento delle famiglie unipersonali (composte di una sola persona). [..]
può non esserci più coincidenza tra la famiglia, intesa come il complesso
delle relazioni affettive più strette e la famiglia intesa come residenza co-
mune, il tetto sotto il quale si vive insieme”. E ancora “[..] Inoltre un sin-
golo individuo può fare l’esperienza di vivere una sequenza di forme
familiari”.
Tutti questi cambiamenti, che sfociano in forme familiari ‘nuove’ (fa-
miglie di fatto sia eterosessuali che omosessuali, famiglie ricomposte,
famiglie monogenitoriali, famiglie miste, famiglie ‘unipersonali’), com-
plicano non poco la definizione di che cosa sia oggi la famiglia. La fa-
miglia tende sempre più a trasformarsi da esperienza totale e
permanente in esperienza parziale e transitoria della vita individuale.
Se a tutto questo uniamo un forte processo di de-parentalizzazione, di
indebolimento progressivo dei legami di parentela (Solinas 2004), l’af-
fermarsi del modello del figlio unico, l’aumento delle adozioni, le nuove
tecniche di procreazione assistita e altri fattori ancora, vediamo bene
che in poco più di due generazioni la realtà familiare in Italia si è com-
pletamente trasformata.
La famiglia infatti è totalmente immersa nel grande flusso di cam-
biamenti in atto nel mondo globalizzato in cui viviamo e subisce, in par-
ticolare, l’impatto di alcuni importanti fenomeni contemporanei: la
rivoluzione demografica4, quella delle comunicazioni (mass-media) e i
flussi migratori.
Tra i fattori che gli analisti hanno individuato come significativi delle
dinamiche di trasformazione della famiglia (industrializzazione, eman-
cipazione femminile, ingresso massiccio delle donne nel mercato del
lavoro, innalzamento del livello di istruzione femminile, cambiamento
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FAMIGLIE IN POLVERE FRA PROTOTIPI E PRATICHE 111

nei rapporti tra i sessi, perdita di importanza delle tradizioni religiose,


aumento della vita media, riforma del diritto di famiglia, introduzione
del divorzio) c’è appunto anche il tema dell’immigrazione e delle fami-
glie miste (in forte crescita), oltre che straniere. L’impatto dell’immi-
grazione più stabile si fa sentire non solo sulla quantità, ma anche sulla
qualità delle famiglie residenti sul territorio: i matrimoni misti con le re-
lative dinamiche interculturali così come la presenza di sistemi di pa-
rentela ‘altri’, di famiglie ‘altre’, la presenza di lavoratrici straniere nei
gruppi domestici italiani ci pongono di fronte a un inevitabile confronto
tra la ‘nostra’ famiglia e la ‘loro’.
Un esempio classico di famiglie, figlie dell’effetto combinato tra
flussi migratori e rivoluzione delle comunicazioni e dei media, è quello
delle famiglie transnazionali, che vedono i propri componenti divisi su
più nazioni (spesso un migrante che lascia la propria famiglia nel paese
d’origine). Un caso di famiglia tipico delle cosiddette ‘badanti’ che la-
vorano in Italia, spesso provenienti dai paesi dell’Est europeo, donne
non più giovanissime che lasciano a casa mariti, figli e genitori. Queste
donne affidano, con sofferenza, i propri figli ad altre donne (madri, so-
relle, figlie maggiori o donne salariate), per venire nei paesi europei più
ricchi a badare ai figli e agli anziani delle donne lavoratrici in una spe-
cie di catena di affidamento dei compiti di cura tutta al femminile (Am-
brosini, 2007; COSPE 2007).
A proposito di famiglie transnazionali, nella sua prefazione al testo
Famiglie migranti. Primo rapporto nazionale sui processi d’integrazione so-
ciale delle famiglie immigrate in Italia Maurizio Ambrosini (2007: 20-21)
scrive: “Un’altra conseguenza rilevante della separazione forzata tra i
familiari consiste nello sviluppo di strategie attraverso le quali le fa-
miglie transnazionali si sforzano di mantenere i legami malgrado la
separazione fisica [..]. Si tratta dunque della concretizzazione della fa-
miglia come ‘comunità immaginata’, con sentimenti condivisi e obbli-
ghi reciproci, che non dipendono necessariamente dalla prossimità
fisica [..]. A fronte di un’esperienza di impoverimento dei contatti con
i congiunti, sorge il bisogno di spiegare perché e come quei familiari e
parenti lontani, o una parte di loro, sono tuttavia parte della propria
famiglia. Si ripensano e si ricodificano i legami emotivamente signifi-
cativi, riscrivendo in qualche misura la propria vita familiare. [..] Ep-
pure le famiglie immigrate non fanno altro che riflettere in maniera
più acuta e visibile negoziazioni e contraddizioni che attraversano
anche le famiglie italiane”.
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112 ORDINARIE MIGRAZIONI

È proprio questo uno degli aspetti salienti che emergono dalla ri-
cerca di Terzo di Aquileia, ossia che alcune dinamiche familiari che po-
tremmo attribuire alle famiglie straniere, come appunto la mobilità
spaziale, la difficoltà di coltivare le relazioni a distanza con parenti,
anche stretti, la solitudine o il ‘deserto parentale’ (Solinas 2004) nel
luogo in cui si vive, la funzione principale di erogatrice di cura della fa-
miglia, l’orientamento di genere dei nuclei familiari (con le donne pro-
tagoniste assolute), le difficoltà nell’utilizzo e nella disponibilità dei
servizi pubblici, la ‘chiusura’ su una cerchia molto ristretta di legami fa-
miliari, la creazione di legami simil-parentali con amici che condivi-
dono un comune destino migrante e così via, si ritrovano sempre più
spesso nelle famiglie italiane, soprattutto quelle che provengono da altri
comuni regionali o italiani. Questo conferma l’effetto ‘specchio’ che ha
rilevato anche Altin in questo volume: “Da questo punto di vista l’ef-
fetto più reale determinato dalla presenza straniera è proprio quello di
specchiare e mettere in luce la crisi del nostro sistema sociale, la fragi-
lità delle nostre reti di sostegno in comunità troppo velocemente tran-
sitate dalla cultura rurale di paese a modelli di vita consumistici,
atomizzati e ‘liquidi’”. E, si potrebbe aggiungere, colloca le famiglie al-
l’interno di processi globali di trasformazione che investono gli indivi-
dui nelle più diverse società, creando inedite convergenze nelle
pratiche, nelle strategie esistenziali, nel modo in cui ‘si fa famiglia’ non
soltanto all’interno dello stesso Paese o della stessa cultura.

2. Prototipi a confronto
La difficoltà nel definire univocamente la famiglia ci mette di
fronte alla complessità di questo concetto e alla varietà delle sue
forme, funzioni e dello spazio relazionale che ha coperto e copre al-
l’interno di una cultura e società specifiche5. Basti pensare alla mol-
teplicità di discorsi che la definiscono: “discorsi religiosi, morali,
legali, delle tradizioni culturali, delle politiche sociali, fino alla speci-
fica tradizione familiare di ciascuna famiglia, di ciascun individuo”
(Saraceno, Naldini 2001: 9-10), alle immagini che evoca: “della fami-
glia-rifugio, della famiglia luogo dell’intimità e dell’affettività, spa-
zio dell’autenticità, archetipo della solidarietà, della dimensione
privata”, ma anche quelle “della famiglia come luogo della inauten-
ticità, dell’oppressione, dell’obbligo, dell’egoismo esclusivo, la fami-
glia come generatrice di mostri, di violenza, la famiglia che uccide”
(Saraceno, Naldini 2001:11).
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FAMIGLIE IN POLVERE FRA PROTOTIPI E PRATICHE 113

Tuttavia un ritratto grezzo potremmo disegnarlo a partire da una


cauta comparazione con le famiglie italiane del passato (più difficile,
anche se più corretto, sarebbe partire da una scala regionale)6, con
quelle contemporanee presenti in diverse culture extraeuropee e, in-
fine, con altri spazi relazionali importanti, come la parentela e le rela-
zioni forti non-parentali come comunità di amicizia, vicinato, ecc.
Infatti “quasi tutta la società conosciuta ha avuto una forma fami-
liare privilegiata da un punto di vista giuridico, economico e culturale,
tale da conferire vantaggi significativi a tutti i soggetti che vi apparte-
nevano, anche se quei benefici non erano distribuiti equamente o si ac-
compagnavano a costi elevati per taluni membri familiari” (Coontz
2006:13).
Se la famiglia italiana premoderna (fino alla prima metà del XIX se-
colo circa) poteva essere definita come un’unità economica, interna a una
rete parentale più ampia, in cui il matrimonio aveva le caratteristiche di
un contratto economico, con una forte disuguaglianza tra uomo e donna,
con bambini e donne quasi privi di diritti e sottomessi all’autorità del
padre/marito, una doppia morale sessuale e un’accentuata valorizzazione
della verginità e della virtù femminile, una sessualità finalizzata alla ri-
produzione (anche per l’assenza di contraccettivi efficaci) e un’avversione
decisa all’omosessualità; la cosiddetta ‘famiglia tradizionale moderna’ (da
metà ‘800 agli anni ‘50 del XX secolo) presenta un deciso salto qualitativo,
non più entità economica, si fonda sempre sul matrimonio ma basato sul-
l’amore romantico e il rapporto affettuoso e intimo tra genitori e figli. Ca-
ratterizzato da una bassa percentuale di donne lavoratrici, quindi molte
casalinghe a tempo pieno, vede il matrimonio come un passaggio ‘natu-
rale’ alla vita adulta, tanto che nubili e scapoli soffrono il disprezzo ge-
nerale, assieme ai divorziati (dal 1970 in poi), mentre aumenta il grado di
uguaglianza tra uomini e donne, pur con una forte differenziazione di
genere, e l’attenzione ai bambini.
Infine con la famiglia contemporanea (o tardo-moderna o postmo-
derna, che dalla metà degli anni ‘60 arriva ai nostri giorni) si assiste alla
completa separazione della sessualità dalla riproduzione e a un mag-
giore equilibrio di genere, la famiglia è un’unione di individui in cui il
matrimonio non è più l’elemento caratterizzante della coppia; sia il ma-
trimonio che la convivenza sono basati sull’amore e l’attrazione ses-
suale, i matrimoni diminuiscono, lo stesso accade con le nascite, mentre
aumentano i divorzi, le coppie di fatto, le nascite fuori dal matrimonio,
e si assiste al moltiplicarsi di forme familiari ‘nuove’ (o ‘vecchie’ nella
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114 ORDINARIE MIGRAZIONI

forma ma nuove nelle motivazioni che ne hanno decretato la nascita,


come le famiglie monogenitoriali o quelle ricostituite, che già esiste-
vano ma erano quasi sempre frutto di una vedovanza, mentre adesso lo
sono di separazioni e divorzi). Cresce il grado di accettazione del-
l’omosessualità, la coppia diventa sempre più centrale, mentre predo-
minano intimità ed emotività tra i componenti della famiglia (Zanatta
2003; Barbagli, Castiglioni, Dalla Zuanna 2003; Barbagli 2000; Saraceno,
Naldini 2001).
Tuttavia, nonostante in Italia la tendenza al cambiamento abbia su-
bito un’accelerazione negli ultimi anni, il nostro Paese sembra ancora
lontano dall’ipotetica convergenza con i Paesi del Nord Europa. In par-
ticolare, ci si sposa comunque molto di più che in altri paesi europei e
l’inizio della vita familiare coincide sostanzialmente con il matrimonio
(Zanatta 2003). Quello che sembra cambiare, invece, è l’opinione sul-
l’importanza del matrimonio nel ‘fare famiglia’. Anche dai dati raccolti
a Terzo di Aquileia sembra, infatti, che non sia più considerato fonda-
mentale sposarsi per fare famiglia (più dell’85% degli informatori la
pensa così, nonostante la quasi totalità sia coniugata o separata/divor-
ziata). Alcuni intervistati hanno motivato l’importanza del matrimonio
in quanto tutela maggiormente i figli dal punto di vista legale.
Pure la famiglia ‘affettiva’ individuata dai sociologi viene confermata
dai miei dati. In particolare, ho sottoposto agli informatori una lista di
diciannove parole che potevano essere pertinenti con la loro idea di fa-
miglia (aiuto, amore/affetto, identità, cibo, coppia, matrimonio, dipen-
denza, autonomia, casa, figli, parentela, zii, nonni, nipoti, rispetto,
gerarchia, uguaglianza, solidarietà, eredità), e ho chiesto loro di quan-
tificare tale pertinenza in una scala da 1 a 10. Le prime tre parole con
una media di 9 o 10 punti sono: amore/affetto, rispetto, casa; mentre le
ultime con meno di 5 punti sono ‘gerarchia’ e ‘eredità’. A dire il vero
questi due concetti, in particolare l’ultimo, sembrano più una gigante-
sca rimozione che un cambio di valori. Gli aspetti patrimoniali ed ere-
ditari sembrano venire alla ribalta solo in occasione di separazioni e
divorzi o alla morte dei genitori.
Inoltre dalla comparazione con culture più lontane di quelle europee
(accettando di operare una comparazione a maglie larghe che presup-
pone una ‘somiglianza di famiglia’, appunto, tra il concetto italiano e
quello presente in culture ‘altre’), la famiglia italiana contemporanea
prevalente si delinea con alcuni tratti caratteristici, come ad esempio la
monogamia o, come ha fatto notare la Arioti (2006: 119), la ‘poligamia
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successiva’7; la diffusa residenza neolocale (la nuova coppia va a vivere


in una casa che non è quella di origine dei componenti la coppia) ma
con una forte prossimità rispetto ai parenti stretti (Viazzo, Zanotelli
2006), la prevalente struttura nucleare-coniugale che si fonda sul rap-
porto sessuale fra coniugi e i loro figli, struttura familiare caratterizzata
da un certo isolamento parentale, dalla brevità del suo ciclo di sviluppo
e da una forte instabilità e fragilità, la scarsa fertilità che tende al mo-
dello del figlio unico e alle sue conseguenze sullo spazio genealogico
(Solinas 2004).
Scarsa fertilità che sembra avere più cause, dalla posticipazione delle
principali scelte di vita adulta (uscita dalla casa dei genitori, formazione
di una coppia stabile, maternità tardiva) alla perdurante asimmetria di
genere e alla mancanza di un welfare orientato alla famiglia (o alle madri),
alla quasi assenza di efficaci politiche di conciliazione. Ci aggiungiamo la
conquistata longevità e il conseguente invecchiamento relativo della po-
polazione (cioè la quota di anziani rispetto alla popolazione generale),
che caratterizza l’Italia e ancor di più il Friuli Venezia Giulia, dal momento
che con cautela è possibile rilevare una tendenza significativa: più a lungo
viviamo e meno ci riproduciamo (Solinas 2004). Il Friuli Venezia Giulia
ha infatti un’età media di più di due anni superiore a quella nazionale e
un indice di vecchiaia ben superiore a quello nazionale: ogni 100 giovani
vi sono 186 anziani (rispetto ai 136 anziani registrati a livello nazionale)
(Regione autonoma FVG, 2009).
Le conseguenze di questo rapporto tra longevità e denatalità sono
ben riassunte nelle riflessioni di Pier Giorgio Solinas (2004: 130), che
scrive: “Una società composta da persone che vivono fino quasi a no-
vant’anni – la durata di tre generazioni – e che, nello stesso tempo, tra-
smettono la vita una sola volta nel corso della loro lunga esistenza è
certamente qualche cosa di nuovo nella storia demografica della specie.
È una società che cede con estrema lentezza i suoi posti, che resiste al-
l’usura del tempo, che ammette pochissimi successori, e che, se potesse,
allungherebbe ancor più i tempi di avvicendamento fra una genera-
zione e l’altra. La sua straordinaria capacità di resistenza al ricambio è
in grado di controllare come mai prima d’oggi i fattori di estinzione.
Nello stesso tempo è una società che tende ad accrescere sempre più il
valore dei figli, a trasformare la quantità in qualità”. E poco oltre: “La
sfida scientifica che viene richiesta agli antropologi, allora, è quella di le-
gare i comportamenti di struttura che si manifestano nella statistica a
quelli culturali e sociali. In sostanza si tratta di riconoscere che la strut-
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tura della popolazione entro la quale si insediano nuove forme di fa-


miglia è quella di una popolazione che ha cessato di crescere, una po-
polazione che tende a rimuovere la nascita e la morte e, che,
probabilmente avrà mutamenti strutturali diversi da quelli osservati
nelle popolazioni ‘giovani’, che hanno spazi da occupare e abbondanza
di posti per i successori”.
Ne esce il ritratto di una famiglia piccola o piccolissima, che fonde
elementi ‘tradizionali’ e modernità, una famiglia che si crea tardi nella
vita e che tra separazioni e divorzi, può durare poco, quindi a ciclo
breve, instabile, fragile, isolata dalla rete parentale sempre più vertica-
lizzata, con una conquistata centralità delle figure dei nonni (Attias-
Donfut, Segalen 2005).
Da un altro punto di vista, proprio in questo orizzonte di irrelati si
potrebbe riconoscere l’ideale della persona libera da relazioni ascritte,
senza divieti o precetti nella scelta del coniuge (Solinas 2004) che ri-
chiama fortemente l’individuo tratteggiato dai sociologi della globaliz-
zazione (Giddens 2000) e della postmodernità: “Nella nostra epoca di
modernità liquida in cui l’eroe popolare è l’individuo libero di fluttuare
senza intralci, l’essere ‘fissati’, ‘identificati’ inflessibilmente e senza pos-
sibilità di ripensamento, diventa sempre più impopolare” (Bauman
2007: 31).
Una libertà di scelta che si oppone idealmente al senso di sicurezza
dato dall’appartenenza (alla famiglia, alla comunità locale, al lavoro)8.
Un binomio che richiama da vicino un’altra polarizzazione evidente
nello spazio familiare e parentale contemporaneo, quello tra autono-
mia e dipendenza, tra il desiderio di scegliere con chi e come relazio-
narsi agli altri senza vincoli e per il tempo necessario e la necessità di
avere rapporti duraturi, solidali, di aiuto e reciprocità.
Al pari delle amicizie, dei rapporti di vicinato, delle reti sociali che
si formano in ambito lavorativo o nelle attività del tempo libero,
anche i legami di parentela e i rapporti più intimi subiscono infatti
un’oscillazione ambivalente tra libertà e appartenenza, tra autono-
mia e dipendenza che neanche il richiamo ideologico e simbolico alla
‘naturalità’ o alla ‘sacralità’ dei rapporti ‘consanguinei’ riesce a pla-
care9. Del resto “avendola trasformata in un’area privata, la società
ha posto la famiglia sullo stesso piano di tutte le relazioni affettive
[..]. Considerata e trattata come pura area degli affetti, i legami fami-
liari sono entrati in concorrenza con tutti gli altri legami sociali” (Di
Nicola 2008: 36).
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3. Alla ricerca della famiglia ‘reale’ o ‘immaginata’?


Alla luce di quanto detto, una definizione classica di famiglia, come
quella, spesso citata dell’antropologa Françoise Héritier (1979: 15) – “un
gruppo sociale istituito all’interno di un sistema simbolico di parentela
che articola alleanza, filiazione e fratellanza in riferimento alla distin-
zione fra i sessi, l’età e le generazioni” - non pare del tutto soddisfa-
cente.
In effetti, in campo antropologico, a seguito della poderosa ondata
decostruzionista che si è abbattuta su famiglia e parentela negli anni
‘70-‘80, soprattutto ad opera di Rodney Needham e David Schneider
(Piasere 1998), e vista la mole di materiali etnografici, storici, demogra-
fici e sociologici che hanno mostrato la varietà e complessità della fa-
miglia nel passato e nel presente, qui e altrove, risulta piuttosto difficile
asserire con certezza cosa sia una famiglia. Molti antropologi ritengono,
infatti, che non sia possibile darne una definizione univoca, neanche
dal punto di vista analitico10 , e che si debba rinunciare, quindi, alla pos-
sibilità di una comparazione efficace.
Remotti (2008: 102) suggerisce che se “sollecitato a dare un’idea di
famiglia, l’antropologo farebbe bene a cominciare a snocciolare vari
esempi e a dire: “questa, e simili cose, si chiamano ‘famiglie’”, con un
chiaro riferimento al secondo Wittgenstein, quello delle ‘somiglianze di
famiglia’. A dire il vero, Remotti indica l’inizio di un percorso che, in
antropologia della parentela, era stato già imboccato da un altro antro-
pologo italiano, Leonardo Piasere (1998). Ed è anche il lavoro che, in
parte, ho svolto in questa ricerca, cercando di arrivare al concetto poli-
semico di ‘famiglia’ attraverso una logica polivalente, utilizzando in par-
ticolare la Fuzzy Set Theory di Zadeh (1965) e la teoria dei prototipi di
Rosch (1973).
Nel questionario lungo che ho utilizzato nella ricerca, ad esempio,
ho sottoposto agli informatori dieci foto-stimolo con diverse tipologie
familiari che mostravano in sequenza: un padre e una madre giovani
e dall’aspetto europeo con due figli piccoli che traslocano in una
nuova casa; una coppia lesbica di due giovani mentre mangiano al ri-
storante; un ritratto di una famiglia ricostituita (coppia di mezza età
con i figli nati dalla loro unione e quelli del primo matrimonio di en-
trambi); una madre anziana con la figlia adulta fra loro conviventi;
una madre single giovane con una figlia adottiva; una coppia di gay
col loro figlio; un’immagine della sacra famiglia cristiana (Giuseppe
e Maria con in braccio Gesù bambino); una coppia mista di diversa
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118 ORDINARIE MIGRAZIONI

nazionalità con i figli; un uomo giovane con il suo cane seduti sul letto
a una piazza; una famiglia di tre generazioni convivente (nonni, ge-
nitori e figli). Ho chiesto loro di esprimere un giudizio graduato (da
1 a 10) su quanto considerassero vicina al concetto di ‘famiglia’ la sin-
gola famiglia presentata in fotografia.
L’insieme di questi tipi di famiglie costituiscono una classe polite-
tica (o adansoniana o politipica) se raggruppano membri che non con-
dividono alcun tratto necessario e sufficiente per la loro appartenenza
ad un dato insieme. Ad esempio, non tutti i tipi di famiglia possiedono
il requisito ‘presenza di un legame matrimoniale’ (richiamiamo qui il
criterio alla base della definizione di famiglia della nostra Costituzione
nazionale). Nella teoria tradizionale (monotetica) solo quattro o cinque
fotografie sarebbero state ammesse nella categoria ‘famiglia’, perché le
altre non avrebbero soddisfatto il criterio necessario e sufficiente per
l’appartenenza all’insieme. In particolare la madre single con la figlia
adottiva non avrebbe costituito una ‘famiglia’. In un altro quesito, sem-
pre col metodo della foto-stimolo, ho chiesto agli informatori di sce-
gliere tra due immagini – che ritraevano una madre con la figlia e una
coppia appena sposata senza figli - quale fosse quella che rappresen-
tava meglio la famiglia. Più del 76% delle risposte ha scelto la madre
con la figlia, a sottolineare l’importanza sempre più grande del rapporto
filiale rispetto a quello coniugale o di coppia.
L’insieme politetico invece è dato dal fatto che i suoi dieci membri in
questo caso condividono le caratteristiche in modo sparpagliato (ad
esempio, ‘presenza di un legame matrimoniale’, ‘coresidenzialità’, ‘le-
gami consanguinei’, ‘presenza di figli piccoli’11, ecc.). Nessuno dei mem-
bri possiede tutte le caratteristiche, che sono condivise in modo
ineguale. Le classificazioni monotetiche pongono dei confini precisi,
mentre quelle politetiche sono aperte. Le classificazioni politetiche per-
mettono anche di predicare contemporaneamente l’esistenza e la non
esistenza di un fenomeno.
Tuttavia anche in una categoria politetica come la nostra possiamo
distinguere una famiglia ‘più famiglia’ delle altre in base al numero di
attributi che ogni tipo di famiglia possiede. Nel nostro caso la prima fa-
miglia proposta (coppia giovane con figli piccoli) è quella che possiede
la maggioranza degli attributi (ed è anche l’unica che ha avuto un giu-
dizio medio di 10), quindi questa famiglia diventa il membro prototipico
o prototipo della nostra categoria ‘tipologie di famiglia’, non perché pos-
sieda necessariamente tutti i tratti posseduti dalla maggioranza dei
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membri, ma perché ne possiede la maggioranza. L’immagine che ritrae


il giovane uomo col suo cane, invece, risulta essere un membro margi-
nale della categoria poiché possiede un solo tratto (e ha ricevuto un giu-
dizio medio di 3,5) e potrebbe essere più vicino, ad esempio, al prototipo
del ‘single’.
Riassumendo, dei dieci esempi di famiglia ce ne sono alcuni molto
vicini al prototipo (ad esempio, la coppia mista con figli, quella ricosti-
tuita e quella a tre generazioni), e quindi considerati ‘molto famiglia’, al-
cuni che lo sono un po’ sì e un po’ no (la sacra famiglia, la madre anziana
con figlia adulta, la mamma single con figlia adottiva) e altri che lo sono
poco o pochissimo (coppia gay con figlio, il single col cane e, per ultima,
la coppia lesbica) in un continuum che va dalla non appartenenza alla
massima espressione della categoria (la coppia giovane con figli).
Ci sembra utile questo approccio che non traccia con nettezza il con-
fine dell’appartenenza (o si appartiene o non si appartiene), magari eli-
minando membri importanti della categoria, e che ci permette di
lavorare con una logica che troviamo molto più spesso nel mondo reale,
il mondo in cui vive simultaneamente chi studia e chi viene studiato.
Una logica che, tuttavia, non sembra permeare né il diritto di famiglia
(fermo alle importanti ma datate riforme degli anni ‘70), né le politiche
di welfare delle amministrazioni nazionali e locali che spesso fanno ri-
ferimento a quella che, provocatoriamente, abbiamo chiamato ‘la fami-
glia che non c’è’, ovvero la ‘famiglia-istituzione’ degli anni ‘50 (siamo
nel 2010!), che idealmente erogava cure, benessere, status, educazione,
valori, appartenenza, identità nette e, soprattutto, provvedeva a colmare
la cronica mancanza di politiche pubbliche di welfare orientate al citta-
dino. Un vero e proprio ‘ammortizzatore sociale’, appunto, che discri-
mina però in base allo stato di famiglia di ognuno e che aggrava
ovviamente il quotidiano di chi non rientra nella definizione ufficiale di
famiglia o, peggio ancora, di chi, come molti stranieri, una famiglia o
una rete familiare in Italia non ce l’ha.
La scomposizione della categoria ‘famiglia’ (qui soltanto vagamente
richiamata) in tratti condivisi parzialmente dalle sue specifiche e mul-
tiformi realizzazioni nel mondo contemporaneo, ci riporta alle ‘famiglie
in polvere’ del titolo, famiglie non tanto e non solo frantumate quanto
ricostruite, o meglio ‘immaginate’, secondo pratiche soggettive e, tal-
volta, inedite.
“Molte più persone di quante non potessero in passato hanno ora in
diverse parti del mondo la possibilità di concepire un più vasto reper-
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120 ORDINARIE MIGRAZIONI

torio di vite possibili. [...] Così le biografie della gente comune sono co-
struzioni (o invenzioni) in cui l’immaginazione gioca un ruolo impor-
tante. E non si tratta semplicemente di un ruolo di fuga [...], perché
nell’intreccio tra vite che si sviluppano e loro controparti immaginate si
genera una varietà di comunità immaginate (Anderson 2005) che su-
scitano nuovi tipi di politica, nuove forme di espressione collettiva, e
nuove esigenze di controllo e disciplina da parte delle classi dirigenti.
[...]. Queste vite complesse e in parte immaginate devono ora formare
il fondamento dell’etnografia” (Appadurai 2001: 77-78).

1
Mutuo il titolo dalla versione italiana del noto testo di Appadurai, Modernità in pol-
vere: “[..] la modernità è ‘in polvere’ in quanto ormai frantumata, ma anche pronta a essere
ricostituita secondo pratiche piuttosto soggettive, come certi prodotti per il bricolage o fai-
da-te” (Appadurai 2001: 37, N.d.T. 1).
2
Ci riferiamo in realtà a una fase tarda di transizione nello sviluppo familiare, la fa-
miglia standard anni ‘50 con entrambi i genitori che vivono sotto lo stesso tetto con i figli
avuti dal matrimonio, la mamma casalinga a tempo pieno e il papà che lavora e mantiene
la famiglia. “La comparazione delle famiglie contemporanee con quelle degli anni Cin-
quanta è particolarmente ingannevole. Come hanno dimostrato molti storici e sociologi, la
famiglia degli anni Cinquanta era atipica perfino per il Ventesimo secolo. Per la prima volta
in ottant’anni, l’età al matrimonio diminuì bruscamente, i tassi di fertilità aumentarono e
precipitò la percentuale di soggetti che non avevano mai contratto matrimonio” (Coontz
2006: 16).
3
Su questa definizione scrivono Pocar e Ronfani (2003: 34):“Questa espressione ha con-
sentito un’interpretazione di tipo giusnaturalistico della famiglia e del matrimonio (inter-
pretazione strenuamente richiamata da chi s’opponeva all’introduzione del divorzio) [..]
sembra difficile negare che la lettera del testo costituzionale proponga il modello della fa-
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FAMIGLIE IN POLVERE FRA PROTOTIPI E PRATICHE 121

miglia fondata sul matrimonio come l’unico ‘naturale’, attribuendo un carattere che pre-
scinde dalla storia e dalla cultura a un modello, come quello della famiglia nucleare coniu-
gale, che viceversa, come la sociologia e l’antropologia ci insegnano, è precisamente storico
e culturale. In tal modo, nella cornice costituzionale, diviene allora assai problematico fon-
dare la legittimazione di altri tipi di famiglia, nell’ottica del pluralismo dei modelli che è
andato affermandosi nel corso degli ultimi decenni”.
4
Nel nostro Paese, la cosiddetta ‘seconda transizione’ si può riassumere in poche pa-
role: siamo uno dei paesi che fa meno figli al mondo (e che mantiene livelli di fecondità
molto bassi – 1 figlio e 1/3 per donna), nel quale i figli rimangono più a lungo a vivere con
i genitori, siamo uno dei paesi con maggiore longevità e il paese nel quale maggiore è l’in-
vecchiamento generale della popolazione. L’ultimo rapporto sulla popolazione (Gruppo di
coordinamento per la demografia 2007: 7) ci avverte, con una dose di allarmismo non del
tutto immotivato, che un peso così elevato degli anziani (1 persona su 5) è del tutto inedito
nella storia dell’umanità in popolazioni comparabili: una sfida completamente nuova per
le società moderne.
5
Già gli studi storici e demografici ci hanno messo di fronte alla molteplicità delle
forme familiari nel tempo e nello spazio europei e hanno sfatato l’errata convinzione di
un’evoluzione unitaria della famiglia europea che sarebbe transitata dall’epoca premo-
derna ad oggi secondo una linea evolutiva omogenea, da strutture complesse, armoniche,
solidali e funzionalmente efficienti (famiglie multiple inserite in reti di parentela) a forme
piccole e piccolissime (famiglia nucleare-coniugale, famiglia monogenitoriale fino alla co-
siddetta famiglia ‘unipersonale’, costituita da una sola persona), figlie predilette dell’in-
dustrializzazione e della modernità.“La famiglia europea, così come appare dalle ricerche
storiche e dagli studi demografici, ci si presenta altrettanto, se non più, diversificata nelle
sue strutture nel passato che nel presente: segnata da confini, distinzioni, e destini diversi,
tra città e campagna, tra ceti sociali, e tra forme di accesso e distribuzione della proprietà”
(Saraceno, Naldini 2001:21-22).
6
Si veda Micheli 2000.
7
Poiché è possibile sciogliere il vincolo matrimoniale, con la morte del coniuge o con
un divorzio, e risposarsi, una persona ha la possibilità di avere più rapporti coniugali, anche
se in sequenza. Questa possibilità introduce di fatto nella convinta e appassionata difesa
del principio monogamico, che accomuna buona parte dell’Europa, una sorta di poligamia
sotto traccia.
8
“Ogni identità sfrutta fino in fondo uno, e uno soltanto, dei due valori, entrambi amati
e ugualmente indispensabili per un’esistenza umana decente e compiuta: la libertà di
scelta e la sicurezza offerta dall’appartenenza” (Bauman 2007: 76).“La lotta fra dipendenza
e autonomia costituisce un polo della globalizzazione” (Giddens 2000: 64).
9
“La famiglia nucleare viene spesso definita come gruppo di consanguinei. La no-
zione di consanguineità, lungi dal ricollegarsi a fatti naturali della biologia umana, si basa
principalmente su determinate concezioni culturali della riproduzione e della nascita, pre-
senti soprattutto in Europa e in America, dopo la colonizzazione, nell’area del Mediterra-
neo e nei Balcani”(Cuturi, 1999). Si veda anche Piasere, 1998; Pomata, 1994; Schneider, 1980.
10
“La varietà di soluzioni, pratiche e ideologiche, che ruotano attorno al problema del-
l’organizzazione della nascita degli esseri umani, del loro mantenimento e inserimento
nel mondo, delle relazioni sessuali, dei rapporti all’interno e all’esterno dei gruppi sociali,
del dislocamento nello spazio, è dunque tale da giustificare l’impossibilità di dare defini-
zioni universalmente valide di cosa sia una famiglia” (Cuturi, 1999).
11
“Nelle politiche pubbliche, il termine ‘famiglia’ designa non solo la famiglia nu-
cleare ristretta, ma anche la famiglia nucleare ‘giovane’, quella cioè che ha ancora dei
figli a carico” (Théry 2006: 53).
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CONCLUSIONI
(Flavia Virgilio)
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CONCLUSIONI 125

1. Imparare la partecipazione
I contributi contenuti in questo volume delineano in modo critico i
risultati di un’esperienza di ricerca-azione condotta nell’ambito delle
attività di accoglienza e integrazione degli immigrati, proponendo tre
possibili chiavi di lettura. In primo luogo un’attenzione ai processi di
integrazione come luoghi di apprendimento della cittadinanza, ma so-
prattutto di ‘produzione’ dei cittadini; in secondo luogo un’attenzione
all’esperienza di ricerca come possibile strumento di apprendimento
non solo per il ricercatore, ma per l’intero gruppo di soggetti coinvolti.
In terzo luogo un’attenzione ai contributi che discipline diverse pos-
sono dare nella ricerca in contesti complessi.
Nel 2008, dopo quasi dieci anni di interventi a favore degli immigrati
e in collaborazione con le associazioni di mediazione, l’amministrazione
comunale e il Tavolo immigrazione dell’Ambito Distrettuale di Cervi-
gnano del Friuli si sono posti il problema di capire se e come fosse pos-
sibile immaginare una progettazione non solo per gli immigrati, ma
anche con gli immigrati (Tweltrees 2006). Sulla scorta di altre esperienze
realizzate in Regione e a livello nazionale si è deciso di lavorare per la
costituzione di una Consulta degli Immigrati1 che favorisse la parteci-
pazione politica degli immigrati e affiancasse l’amministrazione nei
processi di progettazione.
Da questa necessità è partito il percorso di ricerca-azione descritto
in questo volume, con lo scopo di individuare attraverso il dialogo di-
retto con i cosiddetti beneficiari, o meglio stakeholder, le modalità mi-
gliori per arrivare alla costituzione della Consulta. La ricerca azione
si è perciò caratterizzata per un approccio che, partendo da un pro-
blema socialmente rilevante, ha cercato di sfruttare il circolo analisi-
azione, favorendo il passaggio continuo dall’agire alla riflessione e
dalla riflessione di nuovo all’azione. Poiché in questo processo erme-
neutico, che vede al centro l’azione progettuale intesa come processo
euristico, sono coinvolti tutti gli attori sociali, la direzione della ri-
cerca viene continuamente rinegoziata in relazione all’emancipa-
zione degli attori che divengono essi stessi protagonisti della ricerca
(Pourtois 1986).
Si è trattato di sperimentare una modalità di programmazione defi-
nita comunicativa (Siza 2002: 74), che ha consentito di spostare l’atten-
zione dal piano dell’analisi dei macroelementi che determinano i flussi
migratori ai problemi quotidiani, alle reti di vicinato e di prossimità. In
questo contesto i progetti, più che come strumenti strategici di acqui-
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126 ORDINARIE MIGRAZIONI

sizione e organizzazione delle risorse, vengono intesi come organizza-


tori dell’apprendimento sociale. Si tratta di una prospettiva molto vicina
a quello che nell’ambito della progettazione sociale viene definita
‘svolta argomentativa’ (Forester 1998; Healey 1997; Schon 1983; Fried-
mann 1979; 1987). Scopo degli interventi non è tanto, allora, produrre ri-
sultati strumentali, quanto piuttosto creare occasioni, contesti e
opportunità per la comunicazione, la messa in rete e la circolazione
delle idee2, come analizzato in particolare nei testi di Virgilio, Tomasin
e Zoletto.
L’idea alla base del progetto era che, dando voce agli immigrati, si
potessero fare migliori politiche di integrazione, secondo le buone pra-
tiche indicate nei manuali europei (CE 2004; CE 2007 e 2010) e, nello
stesso tempo, che il coinvolgimento degli immigrati potesse in qualche
modo legittimare dal basso interventi pensati soprattutto per gli immi-
grati attraverso il coinvolgimento delle associazioni di carattere pro-
fessionale, i mediatori, gli operatori specializzati e gli esperti.
Nonostante le alte aspettative dell’amministrazione e il conseguente
investimento, sia politico che simbolico, sui temi della partecipazione
politica degli stranieri, ciò che è emerso nella prima fase di ricerca, e
che ha condotto a rimodellare l’azione, è stato un sostanziale disinte-
resse degli immigrati verso la proposta della Consulta. Gli immigrati
intervistati, infatti, non hanno percepito la partecipazione ad un organo
consultivo come una priorità, esprimendo una percezione della poli-
tica come un ambito in cui si “parla molto e si conclude poco”, mentre
il loro principale interesse in questo momento “è lavorare. Per altro non
c’è tempo” (B.Z., 22/01/2008).
Come nella migliore tradizione dell’approccio partecipativo, si è
tentato di superare la concezione per cui il mutamento sociale sa-
rebbe una questione dei pianificatori (politici, diplomatici, e tecnici),
piuttosto che dei protagonisti di questo mutamento (Tommasoli
2003). “Il problema decisivo – invece – sta nella continua partecipa-
zione della maggioranza degli attori sociali alle definizioni, sempre
rivedibili, della società; riconoscerlo significa sottolineare la neces-
sità della loro presenza in quei luoghi della società in cui si fanno le
scelte che la determinano e in cui nascono gli elementi della sua si-
gnificazione” (Balandier 1973: 15).
Imparare la partecipazione, in questo senso, significa soprattutto ac-
cettare l’incertezza dei suoi esiti. Il punto, allora, non è realizzare questo
o quel corso di rafforzamento/capacitazione (Spivak 2002).
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CONCLUSIONI 127

Ci vuole piuttosto il coraggio di una “pericolosa esposizione all’altro”


(Canevaro e Chieregatti 1999), di un radicale sguardo etico che, nel farsi
immediatamente politico, non esclude le pratiche di partecipazione,
cooperazione, parternariato, ma ne costituisce piuttosto l’ineludibile
presupposto, tenendo aperta la possibilità di un dialogo, necessario e
impossibile allo stesso tempo come dimostra per certo versi il lavoro
sul campo di Cesàro, e la possibilità che questo dialogo sia un silenzio,
o un rifiuto.

2. Come pensano le istituzioni?


Le autorità locali, promuovendo processi di governance partecipata,
promuovono un cambio di registro politico che sposta la relazione tra
Stato e cittadini da un piano esclusivamente formale alle politiche di
rete, come ben delineato da Tomasin in questo volume. In questo spo-
stamento, un ruolo centrale è giocato dalle pratiche di formazione e ap-
prendimento, per quanto informali esse siano. Tra queste pratiche
vanno inserite anche i dispositivi di governance, che hanno lo scopo di
rafforzare la funzione di coordinamento e controllo delle autorità locali,
anche attraverso il coinvolgimento della società civile. I sistemi di go-
vernance partecipata, infatti, producono quelle pratiche del quotidiano
che vanno sotto il nome di cittadinanza attiva. I cittadini attivi sono co-
loro che, volendolo, sono in grado, attraverso i propri comportamenti, di
produrre cambiamenti anche significativi nella vita pubblica (Crick
2000). In questo senso l’idea della cittadinanza attiva, tanto quanto
quella della società civile, ben si attaglia ai ceti medi alfabetizzati “che
utilizzano le opportunità offerte dai processi di governance per influen-
zare le decisioni politiche, ma tendono allo stesso tempo ad escludere
quei gruppi di cittadini, spesso una maggioranza, per i quali la sfida
della partecipazione è al di sopra delle loro possibilità” (van der Veen
and Holford 2005: 132).
Le connessioni tra processi di governance, cittadinanza attiva e par-
tecipazione, ben si connettono all’idea foucaultiana di governamen-
talità, cioè all’idea di un complesso di tecniche, pratiche, strategie e
saperi più o meno formalizzati, tra cui possono a buon titolo essere
annoverati i Tavoli, il social audit, la formazione permanente, intesi
come modalità di adeguamento dei soggetti alle nuove, e sempre rin-
novate, richieste del mercato globale, come analizzato da Albarea in
questo volume. Non si tratterebbe, insomma, in una prospettiva ra-
dicalmente critica, che di sistemi per rafforzare, ma anche discipli-
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128 ORDINARIE MIGRAZIONI

nare, per costruire cioè soggetti sociali adeguati alle nuove forme di
welfare partecipativo.
Le tecnologie participative allora, anzichè dis-velare e sovvertire le
relazioni di potere, finirebbero per produrne a loro volta, attraverso la
legittimazione di pratiche che, entrando a far parte del senso comune,
divengono normative per il fatto stesso di essere praticate e tendono a
produrre, di fatto, il consenso e a mascherare, tanto più sono parteci-
pative, le strutture di potere nei microcontesti sociali (Mosse 1994; Woo-
dhouse 1998).
Anche la coprogettazione può essere considerata una di queste tec-
nologie sociali “che creano apparentemente opportunità di rafforza-
mento collettivo (self-improvement) e di libera scelta per i soggetti
coinvolti. Per queste stesse ragioni, tuttavia, può essere anche conside-
rata una pratica governamentale [...]” (Wildemeersch 2007: 103) il cui
prodotto, la cosiddetta cittadinanza attiva, si presenta “non tanto come
una categoria giuridica, ma piuttosto come un insieme di pratiche di
costruzione di sé in diversi ambiti di potere. [...] Questa nozione opera-
tiva di cittadinanza considera le microstrategie delle relazioni di potere
che attraversano vari ambiti (il campo profughi, l’ospedale pubblico, il
welfarestate, il tribunale, la chiesa, il mercato, il lavoro) e concorrono a
costruire ex novo i cittadini”(Ong 2005: 342).
In questo senso è proprio attaverso le tecnologie sociali che le isti-
tuzioni contribuirebbero a creare i cittadini, mediante due procedure
parallele e sinergiche, da una parte il conferimento di identità e dal-
l’altra la classificazione dei soggetti (Douglas 1990) sulla base di cate-
gorie istituzionalmente riconoscibili e di servizi fruibili e/o erogabili.
“A partire dal 1820, gli uffici statistici dei governi europei cominciarono
a diffondere una vera e propria valanga di cifre. L’esercizio del conteg-
gio, una volta iniziato, produsse a sua volta migliaia di suddivisioni. Ap-
pena furono inventate nuove categorie mediche, prima impensabili, o
nuove categorie criminali, sessuali o morali, si fecero avanti sponta-
neamente nuovi tipi di persone, a migliaia disposte ad accettare tali eti-
chette e a vivere in accordo con esse. Questa risposta positiva a nuove
etichette indica una straordinaria prontezza da accettare la ricolloca-
zione in nuove caselle e a consentire una ridefinizione del self” (Douglas
1990: 153).
Il contributo di Vatta in questo testo mostra come alla pratica della
classificazione e del dare nomi si associno, spesso in un movimento
uguale e contrario, la frantumazione e la ricostruzione secondo pratiche
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CONCLUSIONI 129

soggettive. Nel caso di questo progetto, e nella conseguente ricerca, si


potrebbe dire che lo sconfinamento e il rimodellamento delle categorie
istituzionali attraverso le pratiche soggettive si sia dimostrato fecondo
almeno sotto tre punti di vista. In primo luogo ha obbligato le istitu-
zioni, e i ricercatori, a pensare insieme gli immigrati e le comunità lo-
cali, uscendo dalla facile dicotomia noi-loro. In secondo luogo ha
mostrato come possa essere fecondo, sia sul piano dell’intervento che
della ricerca, tentare di ragionare non di servizi per gli immigrati, ma
piuttosto del modo con cui la presenza degli immigrati rimodella i ser-
vizi sul territorio (Quassoli 2006; Savio e Riva 2007). In questo senso il
tentativo di ragionare di donne e tra donne, piuttosto che di donne im-
migrate, o l’esperimento di far interagire nonni, badanti e nipoti in un
tentativo di dialogo interculturale anche in quanto intergenerazionale,
hanno fatto intravvedere la possibilità di costruire spazi pubblici, ad
esempio servizi, meno mono-utenti, cioè meno basati sulla categoriz-
zazione e l’etichettamento, e più fluidi e permeabili alla mobilità delle
persone, non solo straniere.
Va segnalato tuttavia che, se da una parte questa fluidità è contra-
stata dalle modalità istituzionali di allocazione delle risorse, le cui fi-
liere spesso poggiano su categorizzazioni di bisogni e quindi di utenti,
dall’altra è continuamente sfidata dalla libertà interstiziale delle prati-
che quotidiane (de Certau 2001) che continuamente consentono ai sog-
getti di sfidare l’ordine costituito violando i confini, sia istituzionali che
identitari (Bauman 2005; Augè 2007).
A questo proposito va segnalata, ad esempio, la crescente presenza
di italiani tra i fruitori degli sportelli per stranieri, sia per la ricerca della
casa, sia per la ricerca del lavoro. Nello stesso tempo in un’attività a
scuola una ragazza albanese, di fronte alla richiesta di impersonare
un’immigrata in una scena pensata dai compagni, ha risposto: “Non
posso, sono nata in Italia”.
Le città in cui immigrati e stranieri convivono, e le istituzioni che
le fanno funzionare, allora, non possono che essere pensate come
spazi attraversati da forze, e da conflitti, in cui “la differenza cultu-
rale si mescola a quella di genere e di classe, in cui la rivendicazione
di un gruppo minoritario non segna solo l’emergere dei tanto con-
troversi diritti delle minoranze ma segna invece, più in profondità,
l’impossibilità di tenere separate la questione della cittadinanza, ov-
vero dell’accesso alle risorse, dalla questione delle narrazioni identi-
tarie [...]” (Leghissa 2009:14).
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130 ORDINARIE MIGRAZIONI

3. Servizi, cittadinanza e social learning


Il lavoro di ricerca azione documentato in questo libro ha avuto
come focus principale l’organizzazione, il monitoraggio e la valutazione
dei servizi per immigrati come luoghi in cui si fa l’integrazione. I servizi
stessi sono però anche luoghi dove si fanno le identità; sono spazi pub-
blici, secondo la definizione proposta da Zoletto, in cui non solo si in-
contrano domande degli utenti e offerte dei servizi, ma anche si
realizzano pratiche educative, metodi pedagogici e terapeutici, ritenuti
idonei al raggiungimento degli obiettivi istituzionali.
Le riflessioni eterogenee, sia dal punto di vista disciplinare che me-
todologico, svolte nei diversi contributi di questo libro, convergono nel
ritenere il tema della cittadinanza il punto privilegiato da cui guardare
i processi di integrazione. Emerge il carattere processuale, e non solo
normativo, del concetto di cittadinanza utilizzato di volta in volta dai
diversi attori sociali. I servizi diventano il luogo in cui la cittadinanza,
prima ancora di essere acquisita per via legale, si impara nell’intera-
zione: con gli operatori, con le istituzioni, con gli insegnanti, con i vi-
cini, con i mezzi di comunicazione. Il processo di social learning che ne
deriva implica la capacità degli attori sociali di affrontare le situazioni
problematiche agendo in quattro direzioni: azione, riflessione, comu-
nicazione e negoziazione (Wildemeersch 2007: 100). La ricerca sui pro-
cessi partecipativi (Pateman 1970), ha dimostrato che il senso di questi
stessi processi è principalmente educativo.
Ma cosa si è imparato nel processo di social learning descritto in que-
sto libro?
Fondamentalmente potremmo dire che si è imparato a ragionare sul
modo con cui le identità vengono costruite relazionalmente all’interno
dei servizi, sul modo con cui la coprogettazione e la cooperazione pos-
sono migliorare l’efficacia degli interventi e sul modo con cui l’approc-
cio riflessivo all’azione può costituire un potenziale di innovazione nel
cambiamento sociale (van der Veen 2007: 36-38).
Si è cercato, nell’azione e nella ricerca, di individuare un apparato
concettuale e disciplinare per pensare e agire nella pluralità ‘etnica’ (de
Certau 2007: 196). I quadri epistemologici di riferimento, in particolare
quelli offerti dall’antropologia, dalla pedagogia e dalla sociologia, sono
stati messi all’opera per osservare le pratiche di cittadinanza, intesa sia
come cittadinanza culturale che come cittadinanza disciplinare (Delanty
2003). La cittadinanza culturale può essere intesa come “ la lingua, la cul-
tura, le narrazioni e i discorsi che le persone utilizzano per dare senso
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CONCLUSIONI 131

alla propria società, interpretare il proprio posto in essa e individuare


modalità di azione” (Delanty 2003: 603).
In particolare si è ragionato sui servizi e sulle istituzioni come luo-
ghi in cui, negli incontri faccia a faccia, viene costruita l’idea di comu-
nità che accoglie. “È solo alle comunità faccia a faccia, che sono
riconoscibili e localizzate, che si può attribuire una collocazione spa-
ziale. Si conoscono le voci. Si conoscono le facce. Si tratta della ri-crea-
zione, della ricostruzione di luoghi immaginari ma riconoscibili [...]”
(Hall 2009: 60-61).
Sono proprio queste comunità immaginate che contribuiscono alla defi-
nizione dei luoghi e delle procedure dell’incontro interculturale, po-
tremmo dire alla costruzione delle pedagogie dell’ospitalità. Ed é in
questi incontri faccia a faccia che è possibile cogliere l’ordinarietà delle
migrazioni.

1
Le consulte degli immigrati sono organi consultivi del Consiglio Comunale, della
Giunta e delle Commissioni. Presentano pareri sulle proposte di deliberazione che inci-
dono sulle condizioni di vita degli stranieri e possono fare proposte in merito ai temi e ai
problemi concernenti l’integrazione. Sono elettive e hanno una funzione di rappresen-
tanza. Generalmente sono istituite con riferimento alla ratifica avvenuta con legge 8 Marzo
1994 n.203 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla “Partecipazione degli stranieri
alla vita pubblica a livello locale”fatta a Strasburgo il 5 febbraio 1992. In Italia sono presenti
quindici Consulte regionali, ventiquattro Consulte provinciali e ventidue Consulte co-
munali (Ministero dell’Interno 2009: 36).
2
Sul versante della formazione, la correlazione tra partecipazione e promozione del
cambiamento si connette, a partire dagli anni Settanta, alla tradizione freieriana della ri-
cerca azione partecipativa (participatory action research) incentrata sulla stretta connessione
tra partecipazione, conoscenza e potere ed in particolare sulla funzione della ricerca nella
promozione del mutamento sociale. Cinque aspetti del pensiero di Freire (2002) hanno
particolare rilevanza per il nostro discorso. In primo luogo l’enfasi sul dialogo, in secondo
luogo l’importanza della comunità e del capitale umano, in terzo luogo l’idea che attraverso
la coscientizzazione sia possibile costruire il cambiamento e rimuovere le situazioni di op-
pressione, in quarto luogo l’idea dell’educazione come processo situato nell’esperienza
capace di generare nuove narrazioni ed infine la dialettica tra educatore e educando.
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Leggere le migrazioni. I risultati della ricerca empirica, le categorie interpretative,
i problemi aperti, ISMU, Franco Angeli, Milano.
Zanfrini, L. (a cura di) (2006)
La rivoluzione incompiuta. Il lavoro delle donne tra retorica della femminilità e
nuove diseguaglianze, Edizioni Lavoro, Roma.
Zincone, G. (a cura di) (2000)
Primo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, Il Mulino, Bologna.
Zincone, G. (a cura di) (2001)
Secondo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, Il Mulino, Bologna.
Zoletto, D. (2005)
Introduzione, in A. Ong, Da rifugiati a cittadini. Pratiche di governo nella nuova
America, Raffaello Cortina, Milano.
Zoletto, D. (2010)
Il gioco duro dell’integrazione. L’intercultura sui campi da gioco, Raffaello Cor-
tina Editore, Milano.
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GLI AUTORI

Ro berto ALBA REA è Ordinario di Pedagogia generale e Sociale al


Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi di Udine.
Esperto del pensiero filosofico, pedagogico ed estetico di Jacques
Maritain, ha sviluppato come campi di ricerca l’educazione estetica,
la pedagogia musicale, l’educazione permanente e degli adulti,
l’educazione comparata e l’educazione interculturale. È autore e cu-
ratore di quindici volumi e di numerosi saggi ed articoli apparsi su
pubblicazioni nazionali ed internazionali e direttore della collana
Quaderni di cultura dell’educazione dell’editrice Imprimitur di Padova.
È membro, sin dalla sua costituzione, del Network europeo on Com-
parative and International Education, su tematiche relative alla com-
prensione internazionale e al dialogo interculturale, è Preside Vicario
della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi
di Udine, componente dell’Editorial Board di riviste pedagogiche in-
ternazionali e membro del Direttivo della Sicese (sezione italiana
della CESE, Comparative Education Society in Europe). Le sue ultime
pubblicazioni sono: Creatività sostenibile. Uno stile educativo (2006), Fi-
gure della goffaggine. Educatori senza magistero (2008).

Barbara VATTA sta completando il Corso di Dottorato in “Storia: cul-


ture e strutture delle aree di frontiera” presso l’Università degli Studi
di Udine con una ricerca di taglio antropologico sulle famiglie con-
temporanee del Friuli Venezia Giulia. Precedentemente ha svolto ri-
cerche sul campo tra gli Nzema del Ghana.

Maria Cristina CESÀRO si è specializzata in antropologia sociale alla


School of Oriental and African Studies (MA) e alla University of Kent
at Canterbury (Ph.D) conducendo una ricerca su identità e alimen-
tazione tra gli Uiguri dell’Asia Centrale cinese. Negli ultimi anni si
è occupata di migrazioni collaborando con il Dipartimento EST del-
l’Università degli Studi di Udine alla ricerca e catalogazione digitale
delle memorie migratorie nell’ambito del progetto AMMER.

Paolo TOMASIN è laureato in sociologia e dottore di ricerca in In-


formation Systems and Organisation. Si è occupato di immigrazione,
cooperazione sociale e politiche sociali. Attualmente è professore a
contratto all’Università di Trieste e all’Istituto Superiore Inter-
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nazionale Salesiano di Ricerca Educativa di Mestre. Svolge attività


di ricerca, formazione e consulenza. Ha pubblicato Origini e sviluppi
della cooperazione sociale in Friuli Venezia Giulia. L’esperienza di confco-
operative (2009) e Non solo doposcuola (2004) con Luciano Innocente.

D av ide ZOL ET TO è ricercatore di Pedagogia Generale e Sociale


presso l’Università di Udine, dove insegna Pedagogia Interculturale.
Sui temi dell’integrazione sociale e scolastica ha pubblicato: Identità
culturali e integrazione in Europa (con R. Albarea, D. Izzo, E. Macinai,
Pisa 2006), Straniero in classe. Una pedagogia dell’ospitalità (Milano
2007), Il gioco duro dell’integrazione. L’intercultura sui campi da gioco
(Milano 2010).
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RINGRAZIAMENTI E CREDITI

La presente ricerca è stata realizzata in cooperazione con il Comune


di Cervignano del Friuli, che ha contribuito all’affettiva realizzazione
del progetto. Ringraziamo in particolare per la partecipazione davvero
attiva Daria Bristot, responsabile dei Servizi Sociali dell’Ambito di Cer-
vignano del Friuli, Licia Lena e Sara Passador, assistenti sociali; Fede-
rica Puglisi ed Elisabetta Matassi, assessori del Comune di Cervignano
del Friuli, le associazione AUSER, Vicini di Casa, ACLI, Mediatori di
Comunità, Alef.
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Nella collana KAPPA VU LAVORO E SOCIETÀ

GENTE DI FERRIERA
di Gino Dorigo

LA MIA CASA
È DOVE SONO FELICE
STORIE DI EMIGRATI E IMMIGRATI
di Max Mauro

VARECHINE
di Gino Dorigo

ORDINARIE MIGRAZIONI
a cura di Roberta Altin e Flavia Virgilio
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Finito di stampare nel mese di febbraio 2011


presso la Grafika Soča - Nova Gorica (SLO)

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