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Storia dell’italiano

scritto
iii. Italiano dell’uso

A cura di Giuseppe Antonelli, Matteo Motolese


e Lorenzo Tomasin

Carocci editore Frecce


1a edizione, aprile 2014
© copyright 2014 by Carocci editore S.p.A., Roma

Impaginazione: Grafiche VD srl, Città di Castello (PG)

Finito di stampare nell’aprile 2014


da XXXXXXX

isbn 978-88-430-6078-8

Riproduzione vietata ai sensi di legge


(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

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Cancelleria e burocrazia
di Sergio Lubello

1. Questioni preliminari
Di un italiano burocratico a rigore si può parlare solo a partire dalla na-
scita del Regno d’Italia, quando la formazione di un’amministrazione
centrale rese possibile una progressiva omogeneizzazione delle diverse
strutture amministrative degli Stati preunitari1. Di fatto già prima del 1861
scritture e tipi testuali molto vicini – dagli statuti comunali alle ordinan-
ze dell’Italia preunitaria – permettono di cogliere alcuni tratti linguistici
caratterizzanti, che confermano quell’aspetto di stabilità e immobilismo
e al contempo di innalzamento retorico e stilizzazione che saranno tipici
dell’italiano burocratico postunitario.
Nello schema variazionale dell’italiano proposto da Berruto (1987, p.
21), l’italiano burocratico-amministrativo si colloca diafasicamente in
alto, all’incontro tra la lingua scritta adoperata per usi ufficiali di tipo bu-
rocratico e quella di tipo giuridico, da cui discende e da cui mutua alcuni
tratti peculiari2. Stricto sensu non costituisce un linguaggio specialistico3
vero e proprio, mentre lato sensu può essere considerato come un registro
dell’italiano utilizzato sia nello scritto sia nel parlato (secondo Berruto,
2000, p. 14) non solo dagli addetti ai lavori, ma anche – per ragioni diverse
– da scriventi di cultura differente in vari tipi di produzione scritta4.

1. Si vedano le riflessioni di Cortelazzo Mi., Viale (2006, p. 2117) e di Viale (2011, pp. 687-9).
2. All’interno della tipologia dei testi giuridici fornita da Mortara Garavelli (2001, pp.
19-34) i testi applicativi (decreti, ordinanze, avvisi, verbali, pareri, ordini di servizio) costi-
tuiscono la zona di confine tra i testi giuridici e quelli burocratico-amministrativi.
3. Nel senso più comprensivo utilizzato da Gualdo, Telve (2012, p. 19) a cui si rimanda per
una sintesi sugli usi e le diverse denominazioni, spesso sinonimiche, delle lingue speciali;
per la diffusione del burocratese fuori dagli uffici, cfr. Lubello (in stampa).
4. Il sottocodice burocratico, come ha osservato Bruni (1984, p. 108), dispone di un reper-
torio di frasi fatte e sintagmi cristallizzati che ha notevole risonanza nella prosa giornalistica.
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Nella dinamica tra innovazione e resistenza al cambiamento, tra sta-


bilità e instabilità dell’italiano, la norma di àmbito burocratico (variante
del linguaggio giuridico e coincidente con gli usi più formali della lingua;
Gualdo, Telve, 2011, p. 11) si è andata configurando come zona di conser-
vazione, roccaforte della saldezza della norma, «polo della tradizione op-
posto alle forze centrifughe» (Serianni, 1986a, p. 53). Tale resistenza ha
fatto sì che alla valenza positiva se ne associasse un’altra di segno contrario,
costituendo il linguaggio burocratico un’isola di aulicità fossilizzata, una
zona statica, immune dai molti cambiamenti che hanno contrassegnato
l’italiano contemporaneo (alla mancata modernizzazione dello Stato è
corrisposta la mancata modernizzazione della pubblica amministrazione,
delle sue pratiche, del suo linguaggio)5.
Resta il fatto che, in quanto norma salda e rassicurante, la varietà
burocratica è stata per lungo tempo (ed è forse ancora in parte) il re-
pertorio di riferimento per scriventi semicolti che aspirano a conferire
autorevolezza alla propria produzione linguistica6. Nelle scritture po-
polari la funzione modellizzante della norma burocratica è testimoniata
precocemente: già nel libretto di conti cinquecentesco della pizzicarola
trasteverina Maddalena (studiato da Petrucci A., 1978), la formula finale
dell’annotazione del sensale Tommaso, linguisticamente ben connotata
in senso locale, esibisce un modulo di scrittura burocratica: ve se racco-
manna. E lo stesso accade nell’annotazione di un altro scrivente (meno
colto), tal Viviano Codazi, in cui è usato il verbo chonfeso ‘dichiaro’, se-
condo l’uso tecnico-burocratico più antico, anche toscano7.
Nella nota dettatura di una lettera nel film Totò, Peppino e… la ma-
lafemmina, citata da Trifone P. (2007, p. 128)8, la parodia del pomposo
formulario della burocrazia che viene scimmiottato («veniamo noi con

5. Su questo aspetto si vedano i vari lavori di Sabino Cassese, da ultimo Cassese (2011);
fra le molte interpretazioni del burocratese come forma di esclusione dalla partecipazione
alla vita pubblica, cfr. in particolare Mengaldo (1994, pp. 60-1) e Trifone P. (2009, pp. 30-
1). Sull’uso di tecnicismi collaterali per ragioni di prestigio o di identità professionale cfr.
Dardano (2011, p. 148) e Gualdo, Telve (2012, pp. 111 e 153, n 173).
6. Lo studio della presenza e della diffusione di tali burocratismi consente di capire quali
modelli di lingua agissero tra le classi popolari, la loro penetrazione e quindi i meccanismi
di semialfabetizzazione del popolo (Marazzini, 2010, p. 38), nel quadro di quello che Pe-
trucci A. (1978, p. 193) ha chiamato un «caos didattico nel quale regnava il più assoluto
spontaneismo».
7. Cfr. Marazzini (2010, pp. 37-8) che utilizza Petrucci A. (1978, tavv. i, 1).
8. E in genere sul burocratichese (sic) nelle battute di Totò, cfr. Rossi (2007, pp. 80-1).
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questa mia addirvi», «senza nulla a pretendere» ecc.) ne conferma la dif-


fusione oltre il circuito tecnico e non solo sulla bocca e nella penna dei
semicolti: attingono allo stesso prontuario (pseudo)aulico e linguistica-
mente autorevole anche le scritture degli studenti universitari delle lotte
sessantottine (cfr. Gualdo, 2013, pp. 131-2).
La stabilità dell’italiano burocratico è stata favorita dall’alto grado di
formularizzazione (dovuta all’uso e al riuso di testi prefabbricati, di formu-
lari e di moduli inalterati nel tempo), ma anche dalla presenza di localismi
fortemente legati a realtà precise e ben connotate, che lo hanno sottratto
dall’interno e dall’esterno alla facile esposizione a punti di crisi (di qui an-
che la sua valenza identitaria: Trifone P., 2009, pp. 30-1).
Pur con le dovute differenze tra la fase preunitaria e quella postunitaria –
trattandosi di realtà politiche e quindi di apparati amministrativi diversi –,
si può sostenere che la necessità di convergenza e di conguaglio linguistico
emerga nel tempo come fattore costante, essendo di uguale matrice la spinta
che soggiace ai volgarizzamenti di statuti redatti in latino, alla formazione
delle koinè cancelleresche del Quattrocento, all’uso pubblico dell’italiano
nel Piemonte del Cinquecento, fino al processo di unificazione amministra-
tiva all’indomani dell’unità in un paese in gran parte analfabeta.
Lo stesso vocabolo burocrazia (francesismo entrato in uso nel tardo
Settecento: cfr. par. 2.4) assume presto una duplice connotazione: già
prima del processo unitario – e quindi della centralizzazione dell’apparato
burocratico – esso acquisì anche il significato negativo di ‘lungaggine nel
disbrigo di pratiche’. La degenerazione in burocratese (vocabolo attestato
per la prima volta nello Zingarelli del 1979)9 troverà la sanzione più effica-
ce nella nota parodia fatta da Calvino nel 1965 (ripubb. in Calvino, 1980):
la lingua amministrativa che si cristalizza tende per motivi diversi a diven-
tare paradossalmente lingua altra – antilingua, la chiama Calvino – ben
diversa da come dovrebbe essere la lingua della comunicazione ufficiale
nello spazio pubblico, che ci si aspetterebbe chiara e funzionale, in quanto
indispensabile al perfetto funzionamento della gestione della res publica.
Gli studi degli ultimi decenni si sono concentrati sulla lingua giu-
ridico-amministrativa, privilegiando il diritto (Fiorelli, 1994)10; sui

9. Cfr. LEI 8, 233; sulla diffusione del termine cfr. Proietti (2010) e Arcangeli (2011b, pp.
244-8).
10. Una presentazione ampia e aggiornata sulla lingua del diritto è ora in Gualdo, Telve
(2012, pp. 411-77).
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procedimenti di semplificazione e di riscrittura dei testi burocratico-


amministrativi11 e sulla produzione di strumenti dall’impianto forte-
mente prescrittivo, quasi delle versioni moderne dell’Appendix Probi
(Cortelazzo, Pellegrino, 2003, p. vii). Rimangono invece scarsi e non
sistematici gli studi sul passato e sulla fase preunitaria (per quanto diso-
mogenea12) e sulla nascita e sul consolidamento di singoli moduli lingui-
stici: tra i pochi, si può menzionare lo studio di Palermo (1998) sull’uso
del possessivo analitico (il di lui amico), costrutto che ha la sua massima
fortuna nel Settecento e sopravvive ancora oggi nel linguaggio giuridico,
dopo essersi saldamente trapiantanto nel burocratese.
Nella situazione attuale va comunque osservato un processo di sem-
plificazione collegato alla diffusione del web e dello scritto trasmesso, che
hanno imposto nuove abitudini di scrittura e di lettura (cfr. Tavosanis,
2011). Anche l’italiano burocratico trasmesso – che è stato escluso dal re-
pertorio di Raso (2005) – sembrerebbe mutuare sempre di più dal mez-
zo le caratteristiche di trasparenza, chiarezza e immediatezza. Va tenuto
conto, inoltre, del nuovo fronte dell’italiano in Europa, cioè del suo uso
fuori d’Italia nel contesto sopranazionale degli organismi e delle istituzio-
ni dell’Unione europea, e quindi della sua particolare fisionomia di lingua
“semplificata”, dovuta al fatto che i testi originari dei documenti legislativi
europei sono redatti in un’altra lingua europea (per lo più inglese o fran-
cese). L’italiano della legislazione comunitaria, rispetto a quello redatto
in Italia, propone elementi di convergenza linguistico-strutturale che ri-
mandano a uno stile europeo13. Non solo: si è ormai ben consolidato, fuori
dall’amministrazione pubblica, il passaggio dal burocratese all’aziendalese
(Antonelli, 2007a, pp. 59-62 e Dardano, 2011, p. 149), a cui peraltro ricor-
rono – almeno per le proprie pagine ufficiali sul web – anche pubbliche
amministrazioni, enti ed uffici.
Dalla spinta di questi tre elementi (comunicazione telematica, nuovi
impieghi europei e commistione col modello aziendale) potrebbero di-
scendere – nell’immediato futuro – caratteristiche di agilità e svecchia-
mento. Un bilancio è ancora prematuro, ma i dati lasciano presagire una

11. Sui quali non ci si sofferma in queste pagine se non brevemente nel paragrafo finale
(e cfr. la n 46).
12. In particolare si vedano alcuni dei contributi contenuti in Nesi, Morgana, Maraschio
(2011).
13. Cfr. Mori (2003) e Turchetta (2005).
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semplificazione naturaliter: quella che i manuali e le guide alla scrittura


pubblica e istituzionale non sono riusciti a realizzare, complici il mancato
intervento dello Stato nella formazione della pubblica amministrazione e
l’assenza di una vera politica d’intervento (nei fatti, non solo nelle buone
intenzioni di molte riforme) per un’educazione linguistica del paese.

2. Dai Comuni allo Stato moderno


2.1. Il volgare per farsi capire:
modernità della vita pubblica comunale
Quella dell’italiano burocratico-amministrativo è la storia di un processo
lento di conquista da parte del volgare di territori appartenenti allo spazio
di scrittura giuridica in latino14. La scarsità e la frammentarietà della do-
cumentazione volgare, ancorché precoce (i Placiti capuani del 960 sono
tra i più antichi testi in volgare italiano), si spiegano anche con la caducità
di alcuni tipi testuali, come le scriptae preparatorie all’atto giuridico: testi
paragiuridici di per sé volatili e raramente destinati alla conservazione15.
Se il latino, lingua ufficiale del diritto romano, resterà ben saldo in alcune
aree anche fino al Settecento, il volgare comincia ad essere adoperato tra
Due e Trecento nelle scritture ufficiali delle cancellerie comunali: sempre
più forte si faceva la necessità di comunicazione e di scambio con gli al-
tri Comuni, unitamente al bisogno di garantire la partecipazione attiva a
quanti dovevano ricoprire cariche cittadine (Casapullo, 1999, p. 53). Alle
scritture normative prodotte per uso della comunità (gli statuti comunali,
delle corporazioni professionali e artigiane, delle arti) si affiancano i molti
testi emanati dalle autorità pubbliche, con carattere legislativo o applicati-
vo o informativo. La commistione linguistica in spazi di scrittura e in tipi
testuali limitrofi e per mezzo degli stessi scriventi (i notai), spiega anche
un fatto importante e peculiare: nei testi volgari di tipo giuridico-ammi-
nistrativo emerge fin dalle origini una forte uniformità, un alto grado di

14. Cfr. Cortelazzo Mi., Viale (2006, p. 2113) e Gualdo, Telve (2012, p. 412) con riferi-
mento a Fiorelli (2008, pp. 1-70).
15. Come osserva Petrucci L. (1994, p. 50) i testi paragiuridici erano destinati ordina-
riamente ad adempiersi in documenti legali e perciò erano esposti ad un’alta e fisiologica
dispersione, «come del resto conferma la tradizione accidentale o del tutto fortuita dei
pezzi superstiti».
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formalizzazione. Il modello latino, infatti, funge da filtro, da comun de-


nominatore e da spinta al conguaglio, anche se senza dubbio la scrittura
amministrativa costituisce un piano basso, degradato di quella giuridica.
Non solo perché deve rivolgersi a una cerchia più larga di pubblico, coin-
volgendo una gamma più ampia di scriventi, ma anche perché nel proces-
so di semplificazione linguistica il cambio del profilo testuale non viene
accompagnato da un adattamento con tratti linguistici sempre adeguati
e coerenti.
Il volgare che lentamente guadagna terreno a scapito del latino, in
modi e tempi diversi nelle varie zone della penisola, resta ad esso ben ab-
barbicato16, tanto che le due lingue procedono insieme, comunicando e
contaminandosi a vicenda. Come ben documentano i molti esempi for-
niti da Fiorelli (1994, p. 571), si usano eccesso ed excessus ‘delitto’, defensor
e difensore ‘uno dei rettori’, gravamen e gravezza o gravamento ‘torto’, ars
e arte ‘corporazione’: «parole che presentano una variazione di desinenza
o di suffisso o poco più e che nella loro forma latina compaiono già nel-
le fonti del diritto romano: ma ora si sono piegate a un significato tutto
nuovo». A queste si affiancano, nel tempo, molte parole che il latino delle
fonti non conosceva affatto e che denominano realtà istituzionali nuove,
mantenendo appena il rispetto formale (sindacatus e sindacato ‘atto di pro-
cura’, capitaneus e capitano ‘uno dei rettori’) e ancora molti termini nuovi
del Medioevo nati insieme in latino e in volgare (bannum e bando, baro e
barone, camerarius e camerlingo ecc.). Al latino il volgare amministrativo
continua ad attingere anche dopo che si allenta il legame con il diritto
giustinianeo, con ciò conservando una patina aulica, come dimostrano le
molte formazioni post-medievali, quali i relitti comparativali in -ore (cite-
riore, viciniore, poziore), gli aggettivi verbali ricalcati sul gerundivo (corri-
gendo ‘che dev’essere corretto’, laureando, nubendo ecc.)17 o anche le forme
latineggianti usate al posto di concorrenti volgari già ben documentati
(notario compare negli Statuti perugini del 1342, invece della forma con
riduzione a -j-) e quei termini che – grazie al comune fondo latino – ri-
sultano uniformemente distribuiti nei diversi volgari (legato in Toscana e
ligatu in Sicilia ‘donazione, lascito testamentario’); per contro, indicano

16. Così recita il titolo di un paragrafo di Fiorelli (1994, pp. 571-5) da cui sono tratti gli
esempi che seguono nel testo (estrapolati dal primo capitolo degli Ordinamenti di giusti-
zia fiorentini, in veste bilingue).
17. Cfr. Fiorelli (2008, pp. 28-9).
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chiaramente il formarsi di un linguaggio specialistico alcuni tratti che nel


Trecento conoscono un discreto incremento, come le formazioni in -tore
per i nomina agentis e in -tura per i sostantivi astratti (ricevitura ‘azione del
ricevere’, prestatura ‘prestito’, stimatura ‘stima’).
È stata spesso sottolineata la centralità della figura del notaio, che per
mestiere usava il latino, ma svolgeva un ruolo fondamentale di mediatore,
dovendo passare al volgare nella comunicazione con i clienti spesso digiu-
ni di latino se non analfabeti18, e si trovava perciò al centro di uno scambio
costante tra latino e volgare, tra esecuzione orale e scritta di un testo, in
una sorta di bilinguismo la cui separazione è netta e dipendente dal canale
comunicativo (Gualdo, Telve, 2011, p. 413). Tuttavia, grazie soprattutto al
ruolo pubblico a cui i notai venivano chiamati, tra la scrittura degli atti in
latino e la comunicazione in volgare tra notaio e clienti, si delineava una
ampia zona intermedia – di passaggio e di incontro fra testi orali e scritti
– in cui si fa strada il volgare. La cultura dei notai era peraltro molto diver-
sificata: non era insolito che nel latino notarile si infiltrassero volgarismi o
forme latine lontane da quelle classiche o che comparissero infrazioni alla
norma grammaticale (Viale, 2008, p. 81): un esempio precoce si può scor-
gere nel latino del notaio Simeone (a cui si deve l’atto della Carta Osimana
del xii secolo) trapunto di volgarismi (da mo nnanti, intrasacto, qualeun-
gua ecc.; cfr. Castellani, 1973, pp. 150-4).
Nel rapporto sempre più stretto che nell’Italia comunale si stringeva tra
le istituzioni e i cittadini, un più accentuato desiderio di partecipazione ci-
vile rendeva necessaria la comprensione dei documenti che regolamentava-
no la vita cittadina (a partire dagli statuti, anche quelli delle corporazioni
delle arti e dei mestieri). Dei documenti in latino i Comuni provvedevano
a dare pubblica lettura nel volgare cittadino, in qualche caso predispo-
nendo anche una traduzione scritta in volgare: fenomeno, questo, non
molto diverso da quell’esigenza di farsi capire espressa, in campo religioso,
già nell’813 dal Concilio di Tours, in cui si richiedeva che ogni religioso
si impegnasse a trasporre con chiarezza le prediche nel volgare romanzo
(Librandi, 2012a, pp. 17-8). A Bologna, nel 1302, i capi della compagnia
dei muratori domandano al capitano, agli anziani e ai consoli della città
che una riformazione contro le novità politiche sia fatta in volgare «açò
che sia publico et certo a ciaschuno de intendere» (Migliorini, 2002, p.
185). Tra i volgarizzatori di statuti e riformagioni (le delibere comunali, che

18. Cfr. da ultimo Maconi (2011).


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non erano veri e propri statuti) spicca il notaio fiorentino Andrea Lancia,
esperto anche nella prosa letteraria (suoi un importante volgarizzamen-
to dell’Eneide e soprattutto un commento alla Commedia di Dante), che
viene chiamato a tradurre le leggi cittadine fondamentali19. Si può quindi
ragionevolmente sostenere che il linguaggio amministrativo delle origini
nasca dal bisogno di partecipazione civile e dal declino del latino come
lingua dell’uso20.
Tra gli statuti comunali (i più antichi pervenuti, della zona tra Grosseto
e Siena, sono il Breve di Montieri del 121921 e lo Statuto di Montagutolo
del 1281) si distingue il Costituto del Comune di Siena del 1296, tradotto
in volgare negli anni 1309-10 dal notaio Ranieri Gangalandi per volontà
dell’amministrazione cittadina22: il «più ricco e completo monumento le-
gislativo dei primordi della nostra lingua» (Fiorelli, 2008, p. 24) destinato
a quanti non sanno la gramatica. Esso documenta la spiccata sensibilità e la
peculiare attenzione del Comune di Siena per la diffusione e la compren-
sione delle leggi tra la popolazione, e conferma – nella scelta di grande
valore etico e politico del volgare – il rapporto di vicinanza tra istituzioni e
cittadini: quell’ideale del Buongoverno affrescato da Ambrogio Lorenzetti
nel Palazzo pubblico a Siena (Trifone M., 2009, p. 267). Alcuni termini
locali, strettamente connessi alla politica cittadina, compaiono solo negli
statuti: è il caso della radota/raddotta senese ‘aggiunta di cittadini non de-
tentori di cariche pubbliche agli organi ordinari di governo del Comune,
delle corporazioni’23.

Nel complesso, nella prosa volgare della lingua burocratico-amministrativa due-


trecentesca si possono evidenziare alcuni tratti che resteranno costanti anche nelle
scritture amministrative successive: la ridondanza dell’informazione, con strutture
testuali che tendono all’ipercoesione attraverso l’abbondanza di elementi anaforici
(sopradicto, predicto) e cataforici (infrascripto); l’uso dei pronomi relativi e dimostra-
tivi come connettivi testuali, collanti di testo che assicurano la continuità tematica

19. Sul quale cfr. Bambi (2009) che analizza il lessico volgare nelle provvisioni fiorentine
del 1355-57.
20. Cfr. Trifone M. (2009, p. 266).
21. Il breve, a differenza di molti statuti, non sembra essere una traduzione dal latino, ma
è molto probabilmente una minuta stesa dal notaio in vista di una redazione definitiva in
latino (Castellani, 1982a, i, p. 42).
22. Cfr. Trifone P. (2005); per l’edizione del Costituto si vedano Elsheikh (2002) e Stussi
(2004).
23. Cfr. GDLI s.v. e Basile, Iovane, Lubello (2012, p. 206).
cancelleria e burocrazia 233

(Dardano, 1992, pp. 213-5); l’impiego frequente del participio presente sostantivato
(che può reggere un oggetto diretto); l’ordine delle parole con sequenze latineggianti
del tipo aggettivo + sostantivo, o complemento + verbo (Casapullo, 1999, p. 67). Ma
molti altri sono i tratti assimilabili ad abitudini che ancora oggi caratterizzano i testi
prodotti dagli uffici (Palermo, 2010, p. 167): la preferenza per costruzioni astratte o
impersonali, le nominalizzazioni (in -tura: ricevitura, misuratura), le costruzioni pas-
sive, le perifrasi con verbi modali, la tecnicizzazione di nomi (querela, provisione) e di
verbi (conferire, deliberare).

2.2. La lingua delle cancellerie:


forze centripete e spinte unificanti
L’esigenza di una comunicazione sovralocale negli usi pubblici e ufficiali
è alla base della formazione delle koinè cancelleresche: lingue sovrare-
gionali in cui sono ridimensionati o espunti i tratti municipali e sono
privilegiati quei vocaboli, quelle forme o quelle espressioni che trovano
appoggio nel modello latino. L’etichetta di koinè cancelleresca riguarda
una vasta gamma di manifestazioni scritte, di «comportamenti semio-
tici eterogenei e differenziati» (Breschi, 1986, p. 177), ed è tipica – seb-
bene non esclusiva – dell’ambiente della cancelleria delle corti signorili,
cioè della segreteria e degli uffici preposti al disbrigo degli affari di Stato
in cui segretari, notai, scrivani alle dipendenze del signore mettevano
per iscritto una ricca varietà di testi (atti legislativi, decreti, statuti, di-
scorsi ufficiali, bandi, grida rivolte al popolo, relazioni di ambascerie,
corrispondenze con le cancellerie di altri Stati). La cancelleria è di solito
concentrata nella capitale di ogni Stato ed è preposta allo scambio con
la periferia, ai rapporti con l’estero, alla produzione di scritture di circo-
lazione ampia: è insomma immersa in un tipo di comunicazione scritta
che impone di necessità l’abbandono dei caratteri della municipalità. I
cancellieri, per lo più notai, hanno «una cultura linguistica latina, di
un latino legale, formulare, pragmatico, alla quale può in alcuni casi ac-
compagnarsi una cultura umanistica»24 e si spostano – insieme ai diplo-
matici e ai vari rappresentanti delle signorie – da una corte all’altra, da
uno Stato all’altro, contribuendo così a promuovere il superamento del
particolarismo linguistico (Marazzini, 2010, p. 128).

24. Tavoni (1992, p. 50). Per uno sguardo d’insieme aggiornato con relative bibliografie,
oltre a Tavoni (1992, pp. 47-55), cfr. Serianni (2002a, pp. 425-32) e Palermo (2010).
234 sergio lubello

La koinè cancelleresca non corrisponde a un effettivo processo di congua-


glio linguistico della comunicazione parlata, trattandosi più di una costru-
zione artificiale che nasce da forme di convergenza linguistica dipendente
da finalità pratico-comunicative; una convergenza che andrà tenuta distin-
ta, come suggerisce Tesi (2001, p. 151), dai fenomeni di standardizzazione in
senso toscano o italiano che avvengono a partire dal Cinquecento sotto la
spinta della codificazione grammaticale. Del resto, la diffusione del toscano
a danno degli altri volgari nel corso del Quattrocento e nella prima metà del
Cinquecento «non fu propriamente una marcia trionfale. Nella maggior
parte dei casi, il contatto e la sovrapposizione si limitarono alle scriptae, sen-
za coinvolgere la lingua parlata; e per di più non si verificò una coincidenza
di modi e di tempi nella toscanizzazione» (Giovanardi, 1998, p. 15).
La koinè si rifà a due modelli fondamentali: il latino da una parte, non
quello classico, ma quello medievale e giuridico; e il toscano dall’altra. A
questi due elementi si aggiunge, diversamente calibrato a seconda del-
le cancellerie e dei periodi, il volgare locale depurato di elementi troppo
vistosamente municipali. In questo triangolo, variamente sbilanciato, si
articolano le diverse koinè cancelleresche che agiscono per tutto il Quat-
trocento, da una parte agevolando la comunicazione scritta tra zone lin-
guisticamente lontane, dall’altra configurandosi come lingue ben diverse
dai volgari promossi a scopi divulgativi (come quelli dei volgarizzamenti
degli statuti comunali).
L’uso del volgare nelle cancellerie dei vari Stati regionali della penisola
si registra in periodi diversi tra metà Trecento e Quattrocento, preceduto,
prima che nella corrispondenza ufficiale – si è visto – negli statuti, nelle
grida, nei bandi, dunque in scritture pubbliche rivolte al popolo. Ogni
koinè ha poi un suo diverso grado di allontanamento dal volgare. Fu pre-
coce a Mantova dove, nel periodo della signoria di Ludovico i Gonzaga e
del figlio Francesco i, i molti documenti ufficiali e semiufficiali, le relazioni
diplomatiche e le lettere testimoniano un processo di italianizzazione ben
avviato, segnato dalla perdita di quei tratti dialettali che sono presenti nel-
la produzione letteraria precedente. In base ai documenti tardomedievali
illustrati da Borgogno (1980) e a quelli quattro-cinquecenteschi (Borgo-
gno, 1978), Tavoni (1992, pp. 52-3) propone una breve mappa dei fenome-
ni più significativi della koinè cancelleresca mantovana.

Tra questi spiccano sul piano grafico scrizioni municipalistiche e arcaiche (come h per
l’occlusiva velare); nel vocalismo la persistenza di ol < au (loldare ’lodare’), l’assenza
cancelleria e burocrazia 235

totale di dittongamento toscano e di anafonesi, la macchia dialettale rappresentata –


nel vocalismo atono – da cadute di finali e da incerti tentativi di restaurarle (dis ‘dieci’,
quest); nel consonantismo costante lo scempiamento, alternanti sorde e sonore, con
casi di dileguo < t; da -sc- si ha l’esito dialettale in sibilante (pesse), mentre da cl-
alternano forme toscane e non toscane (chiaro, giamar ‘chiamar’). Nella morfologia il
fiorentino letterario il si affaccia solo nei documenti quattro-cinquecenteschi; i pro-
nomi tonici obliqui sono mi, ti, mentre l’obliquo atono di iii singolare è il dialettale
ge; la desinenza di prima plurale -iamo compare tardi, accanto a -emo, -amo.

Nel complesso il quadro del volgare cancelleresco mantovano risulta più


arretrato, ancorché precoce, rispetto a quello di Milano.
I primi documenti in volgare della cancelleria visconteo-sforzesca a
Milano risalgono al 1426 (Morgana, 2012, p. 33), ma l’espansione del vol-
gare procede molto rapidamente, tanto che a fine secolo il suo uso è ormai
preponderante, con una caratterizzazione filotoscana che registra il mo-
mento massimo negli ultimi due decenni del Quattrocento. Nella Milano
di Ludovico il Moro (come ha ben illustrato Vitale, 1988) alla patina la-
tineggiante si uniscono un volgare scarsamente connotato in senso loca-
le e la forte presenza di forme toscaneggianti (esiti dittongati, anafonesi,
e > i in protonia, le geminate, -iamo, i congiuntivi fosse, fossimo ecc.). A
fine Quattrocento la scrittura cancelleresca milanese si presenta dunque
come uno dei «primi precoci esempi, sul piano della scrittura pratica e
prosastica, di capitolazione di una koinè locale di fronte al tipo linguistico
tosco-fiorentino, il che equivale a dire al tipo linguistico italiano» (Vitale,
1988, p. 226). La lingua cancelleresca influenza anche la corrispondenza
cortigiana, come si evince da alcuni tratti ravvisabili in una lettera auto-
grafa inviata nel 1496 dal nobile Gasparo Visconti al marchese Francesco
Gonzaga (evidenziati in Morgana, 2012, p. 55). Il processo del toscaneg-
giamento, tuttavia, procede in modo non uniforme fino al Cinquecento,
come risulta da alcuni documenti dell’ultima età sforzesca (1522-35), in cui
si alternano forme toscane (l’articolo il rispetto al locale el) e forme setten-
trionali (-amo, -emo, -imo ricorrono in formule stereotipate) accanto a un
lessico regionale e locale italianizzato (Morgana, 2012, p. 56).
A Ferrara la lingua cancelleresca presenta una fisionomia simile a quella
mantovana: dall’analisi linguistica del Memoriale del 1444 di Borso d’Este
per Alfonso d’Aragona, contenente consigli di politica interna ed estera
(Matarrese, 1988, pp. 52-3), emerge un registro alto, che denota lo sforzo
del volgare di sprovincializzarsi, mentre il tessuto generale del testo «ap-
236 sergio lubello

pare compattamente locale», anche se con «segni evidenti di ossequio al


toscano» (Matarrese, 1988, p. 53).
Per Firenze lo studio di Telve (2000a) fornisce un contributo sulla lin-
gua della cancelleria attraverso l’esame delle Consulte e pratiche del 1505,
cioè i verbali redatti da un coadiutore di cancelleria nel corso delle adu-
nanze del Consiglio della Repubblica. Nella cancelleria fiorentina l’uso del
volgare si estende progressivamente nel corso del xv secolo riducendo via
via l’àmbito d’uso del latino25: da un sondaggio compiuto sui verbali redat-
ti tra il 1413 e il 1480, risulta che il latino prevale decisamente nella verba-
lizzazione degli interventi della Consulta nella prima parte del Quattro-
cento, mentre successivamente tende ad essere sempre meno impiegato,
per quanto il processo risulti discontinuo (tanto che si potrebbe pensare
che «la scelta della lingua, come del resto altre modalità di trascrizione
del verbale, fosse lasciata all’arbitrio del cancelliere», Telve, 2000a, p. 16).
Dopo l’interruzione del quindicennio 1480-95, l’adozione del volgare ri-
sulta pressoché generalizzata.
A Venezia il volgare compare sporadicamente nell’uso cancelleresco già
prima del Quattrocento: i primi esempi sono forniti da alcuni documen-
ti cancellereschi (atti giuridici, nella fattispecie) compresi fra xiii e xiv
secolo, non di rado traduzioni di atti originariamente in latino26 (tra le
più antiche – ancorché isolate – testimonianze in volgare nei registri del-
la Cancelleria del Comune di Venezia sono da annoverare le annotazioni
contenute nel Liber plegiorum, cfr. Tomasin, 2001, p. 19). Anche a Venezia
la prassi scrittoria in volgare nella produzione degli atti pubblici (non solo
legislativi) si afferma progressivamente nel corso del xv secolo.
A Urbino la cancelleria dei Montefeltro si distingue per la sensibilità
verso il polo toscano, dovuta anche agli stretti rapporti tra i Montefeltro
e Firenze: nella cancelleria urbinate spicca il tecnicizzarsi del formulario
di àmbito burocratico (latinismi come aviso, beneplacito, commissione,
provvedere) che segna la nascita di un codice scritto con la fisionomia di
un linguaggio speciale, «offrendo un importante contributo all’unitarietà
linguistica dell’italiano in un’ottica burocratico-amministrativa» (Serian-

25. Cfr. Telve (2000a) la cui analisi si sofferma soprattutto su elementi sintattico-te-
stuali.
26. Si veda la storia del diritto veneziano in Tomasin (2001) con ampi ragguagli, secolo
per secolo, non solo sulle scritture strettamente legislative e sulle lingue del diritto vene-
ziano.
cancelleria e burocrazia 237

ni, 2002a, p. 429). Nella lingua cancelleresca urbinate il modello latino


svolge un ruolo regolatore importante, determinando l’accoglienza o il ri-
fiuto «di tratti idiomatici a seconda della loro concordanza o discordanza
dalla base latina» (Breschi, 1986, pp. 200-10).

Nel breve profilo tratteggiato da Tavoni (1992, pp. 54-5) spiccano la scarsissima pre-
senza di dittonghi in sillaba libera (di tipo letterario ma anche del tipo aretino pre-
sente nella parlata locale), la scarsa presenza di chiusure metafonetiche (nui, posside
‘potete’), la massiccia presenza dell’anafonesi, la e costante nelle particelle proclitiche
e come protonica di sillaba iniziale, ar protonica prevalente nei futuri e nei condizio-
nali della i coniugazione, esiti di tj rappresentati in larga misura dalla grafia latina o
divisi, in posizione intervocalica, tra forme toscane letterarie (pezi, ragione, pregio) e
settentrionali (raxone).

A Roma sul processo di standardizzazione della lingua ufficiale pesò l’al-


lontanamento avignonese della curia papale, che si ristabilì in città solo
nel 1420, con papa Martino v. Nonostante la precoce toscanizzazione che
emerge nelle produzioni ufficiali quattro-cinquecentesche, è stato rilevato
il peso che il latino continuò a esercitare nella redazione dei documenti
pubblici (Palermo, 2010, p. 168). Il volgare di queste scritture nel primo
Cinquecento è stato definito una «lingua delocalizzata», che rivela una
sorta di toscanizzazione imperfetta (Palermo, 1991, pp. 44-5), cioè incom-
pleta: permangono la mancanza di anafonesi, il mantenimento di e atona,
della vibrante del nesso -rj-, del condizionale in -ìa, del futuro dei verbi
della prima classe in -arò. Passando al vaglio la produzione di bandi della
prima metà del Cinquecento, si può notare come questi documenti fosse-
ro stesi in gran parte in latino: l’ufficializzazione del volgare come seconda
lingua scritta della cancelleria pontificia avvenne nel 1515, sotto il pontifi-
cato di Leone x (Palermo, 2010, p. 168).
A Napoli alcune lettere ufficiali in volgare risalgono già al primo de-
cennio del Trecento, ma restano isolate; solo nei registri della cancelleria
angioina (quelli superstiti dopo i bombardamenti avvenuti durante il se-
condo conflitto mondiale) si nota il peso crescente di un volgare tosca-
neggiante (dato il prestigio della numerosa comunità fiorentina presente
a corte: prestigio che culminò con la nomina a Gran Siniscalco di Nic-
colò Acciaiuoli nel 1348). Più avanti, durante la dominazione aragonese,
i documenti della corte destinati a circolazione pubblica sono redatti in
un volgare aperto all’influsso di latinismi e catalanismi; non in latino, ma
238 sergio lubello

certamente non in napoletano in senso stretto, come chiarisce De Blasi


(2012, p. 53), analizzando la lettera con cui il re Alfonso nel 1454 indisse
una riunione dei baroni del Regno. L’uso del volgare locale (una sorta di
volgare meridionale misto) si affermò nelle scritture cancelleresche anche
per influsso dei catalani (il ceto burocratico presente a Napoli) abituati a
usare il proprio volgare nelle scritture ufficiali, nei registri di cancelleria e
nella tenuta delle spese (De Blasi, 2012, p. 51). In una lettera del funziona-
rio della cancelleria aragonese, Diomede Carafa, indirizzata a Lorenzo de’
Medici nel 1482, Coluccia (1994, p. 402) ha evidenziato la conservazione
di tratti napoletani (come la metafonesi di é e ó chiuse, o la vocale indistin-
ta finale resa graficamente con -e), ma anche l’eliminazione di tratti locali
vistosi, come il dittongo metafonetico e il passaggio alla velare del nesso
latino pl-.
Anche la cancelleria siciliana aragonese, come quella napoletana, vive
all’insegna del plurilinguismo: il volgare siciliano risulta tra le lingue am-
messe accanto al latino, al catalano e allo stesso greco a seconda dei desti-
natari.
Dagli specimina di produzioni cancelleresche messi a confronto da Pa-
lermo (2010, p. 169) si possono enucleare alcuni tratti linguistici comuni,
al di là degli elementi locali che compaiono più o meno moderatamente.

Tra i tratti comuni, il filtro grafico dei nessi latineggianti (dicto, offitio, instantia) e di
h anche non etimologiche (rethi, Turcho), varie tracce di antifiorentinità sottrattiva
nella fonetica (tendenza a non accogliere il dittongo toscano uo, assenza della chiusu-
ra di e atona, mantenimento di -ar- atono, assenza di anafonesi, mantenimento della
vibrante negli esiti di -rj- come notaro), così come nella morfologia (conservazione
di desinenze etimologiche di prima plurale, dicemo, havemo; condizionale in -ìa) in
cui spiccano alcune forme bandiera della produzione cancelleresca (i tipi fusse, debia,
como, contra, la prevalenza dell’articolo determinativo maschile el / li).

Il grado di bilanciamento cambia a seconda dell’ufficialità e dell’importan-


za dei testi, per cui nei bandi e nelle grida la presenza di elementi locali è
più significativa.
In qualche caso la koinè subisce un processo avanzato di tecnicizzazio-
ne, con l’eliminazione quasi completa di vocaboli locali in favore di pa-
role toscane dell’uso letterario e di latinismi che diventano presto propri
del linguaggio amministrativo: nel Cinquecento, proprio a Firenze (città
in cui il triangolo della koinè si restringeva a due poli), Benedetto Varchi
cancelleria e burocrazia 239

esprimeva una certa indignazione per l’incomprensibile lingua delle can-


cellerie, in cui «si trovano lettere scritte non in cifra, ma in gergo, come è
quella lingua ladresca»27.
Alcuni moduli stereotipati e alcuni tratti tipici della lingua delle cancel-
lerie (la presenza massiccia di latinismi anche in grafie di tipo etimologico
o paraetimologico, la preposizione cum, l’avverbio deinde ‘quindi’) supera-
no il confine degli usi cancellereschi e passano nella trattatistica coeva. Un
esempio emblematico è la prosa dei trattati maggiori di Niccolò Machia-
velli, che fu anche cancelliere e diplomatico della repubblica fiorentina,
nei quali si registrano alcuni moduli cancellereschi (eodem tempore, inte-
rim, etiam, praesertim, e converso); nel Principe, inoltre, ricorrono nomi
generici tipici della scrittura burocratico-cancelleresca (cose/queste cose)
come incapsulatori anaforici importanti per la coesione testuale («Ma-
chiavelli mutua registro da uno scritto all’altro con una certa disinvoltura,
in un susseguirsi di atteggiamenti imprevedibili e perfino discordi»: Sca-
vuzzo, 2003, p. 9)28. Del resto, nei testi delle legazioni, cioè delle missioni
svolte da Machiavelli per conto della repubblica fiorentina, non mancano
strutture sintattiche tipiche della cancelleria: il costrutto gerundivale, po-
sposto o anteposto alla principale, e il costrutto participiale che costituisce
una premessa della proposizione principale (ivi, p. 28).
Tra l’enorme materiale documentario e i diversi tipi testuali prodotti
nelle lingue cancelleresche spiccano, non solo quantitativamente, le lettere
delle corrispondenze delle corti quattrocentesche, ben diverse dalle lettere
dei mercanti toscani del Due e del Trecento: fortemente improntate a mo-
delli retorici come quelle in latino, sono confezionate in uno stile sempre
elevato e sorvegliato e con una più netta depurazione dei tratti locali. I
segretari che le producono diventano presto anche i destinatari di manuali
epistolari che non a caso dal Cinquecento iniziano a chiamarsi stabilmen-
te Secretari (dal fortunato titolo di Francesco Sansovino, Venezia 1564; cfr.
Serianni, 2002a, p. 425).
La lingua cancelleresca, quella almeno di registro più alto, diventò
anche il riferimento decisivo per i tentativi di prosa d’arte in diverse aree
della penisola. Inoltre, le varie koinè cancelleresche, con i loro tentativi di
convergenza, furono anche il presupposto pratico delle teorie e riflessioni
sulla lingua che si diffusero fra Quattro e Cinquecento e si saldarono nella

27. Si cita da Beccaria (1988, p. 169).


28. Cfr. Scavuzzo (2003, pp. 69-70) e Telve (2000a, pp. 161-3).
240 sergio lubello

teoria cortigiana: quell’ideale di lingua comune che guardava come mo-


dello alla corte pontificia propugnato con sfumature diverse da Equicola,
Calmeta e Castelvetro29. In ogni caso, tanto la fase espansiva delle koinè
cancelleresche (che inizia a scemare verso la fine del Quattrocento) quanto
la teoria cortegiana che si diffonde verso la metà del Cinquecento non rie-
scono ad arrestare quel processo di omologazione linguistica basata sull’i-
mitazione di modelli toscani letterari a cui contribuì il potere unificante
della tipografia. Per il Cinquecento, Trovato (1994, p. 73) fornisce alcuni
campioni di scritture cancelleresche periferiche (provenienti da Genova e
dalla Sicilia) in cui predomina l’elemento latino modellizzante con tratti
locali poco vistosi. Nella relazione da Madrid scritta da un diplomatico
genovese nel 1520 si può leggere un italiano sorvegliato, interrotto di rado
da qualche elemento settentrionale e ricco, invece, di latinismi e di termini
e stilemi burocratici, come i sovrabbondanti deittici anaforici e catafori-
ci (antedicta, dicta, sopra dicta, che corrispondono ai moderni la suddetta
convocazione, il predetto accordo, cfr. ivi, p. 239).
Un capitolo importante – per il quale manca ancora uno studio d’in-
sieme – è costituito dagli usi dell’italiano o di volgari italiani (volgari colo-
niali, ben riconoscibili nella loro provenienza regionale, come il veneziano
de là da mar e il genovese) nelle cancellerie fuori d’Italia e nella diplomazia
internazionale (fu usato per es. in molte aree dell’impero ottomano come
lingua della diplomazia e delle transazioni commerciali). Dopo i contri-
buti di Francesco Bruni (1999a e 2000; e poi 2007 e 2008), si riconosce
finalmente la giusta importanza alla presenza dell’italiano come lingua
diplomatica e commerciale nel Mediterraneo e nel Levante, e alle sue rica-
dute sul consolidamento del prestigio stesso del modello toscano in Italia:
anche le forme di questo italiano d’Oriente sono in gran parte corrispon-
denti a quelle della lingua letteraria30.

29. Sul dibattito linguistico primo cinquecentesco, la teoria cortigiana e la questione del-
le koinè quattro-cinquecentesche, cfr. Giovanardi (1998) e Marazzini (1999, pp. 47-50).
30. Tra i vari contributi recenti, si vedano per l’italiano nell’Africa settentrionale tra Sei- e
Settecento Cremona (2003), per l’italiano a Cipro Baglioni (2006), per l’italiano delle
cancellerie tunisine tra fine Cinquecento e primi Settecento Baglioni (2010); sul fronte
dei volgari coloniani è interessante la documentazione trecentesca analizzata da Dotto
(2008); sull’italiano lingua internazionale nel Mediterraneo, usato nei trattati diplomatici
internazionali (l’impero ottomano ricorre spesso all’italiano nelle sue relazioni con le po-
tenze cristiane) si vedano da ultimo le pagine di Bruni (2010, pp. 386-93).
cancelleria e burocrazia 241

2.3. Geografia e storia della scrittura amministrativa:


verso lo Stato unitario
Appare di particolare rilevanza – proprio per la sua unicità, data l’assenza ne-
gli Stati preunitari di veri e propri interventi di pianificazione linguistica e di
dirigismo politico – il caso del Piemonte, in cui fu proprio nel settore della
giustizia che i ceti dirigenti imposero l’uso dell’italiano. Come era successo
in Francia con l’editto di Villers-Cotterêts del 1539, con cui il re francese
Francesco i aveva imposto negli atti legislativi e amministrativi l’uso del fran-
cese al posto del latino, Emanuele Filiberto emise tra il 1560 e il 1577 alcuni
provvedimenti per l’uso dell’italiano nei procedimenti giudiziari, negli atti
notarili e nella burocrazia. Questa svolta (Marazzini, 2012b, pp. 39-54) fu un
fatto eccezionale tra gli Stati italiani prima dell’unità (la stessa Toscana pre-
vedeva l’uso del volgare negli atti pubblici, ma non obbligatorio). Fino alla
promulgazione del codice napoleonico (1806), in nessuno Stato italiano –
nemmeno nella Toscana di Cosimo – ci fu una decisione univoca, esplicita,
chiaramente motivata a favore del volgare così come in Piemonte (ivi, p. 45).
Ai provvedimenti di Emanuele Filiberto, con l’eccezione di una certa resi-
stenza da parte dei notai, gli apparati burocratici si adeguarono prontamen-
te, come dimostra il fatto che a Torino i verbali del Comune furono redatti
in volgare già dal 16 dicembre 1562. Un’altra conferma viene dalla perlustra-
zione compiuta da Buono (1998 e 2000) sui documenti italiani provenienti
dal Piemonte e compresi in un periodo di poco meno di 50 anni: dal 1536 al
1580, anno della morte di Emanuele Filiberto.

Nel primo gruppo di documenti, fino al 1560, si registra un italiano di koinè con forti
tratti dialettali (il dittongamento piemontese inteiso, forme non anafonetiche, forme
con assenza di dittongo toscano, conservazione di -ar- protonico ecc.); nel secondo
gruppo di documenti, successivi al 1560, è più netta l’acquisizione del modello tosca-
no letterario.

Come è stato sottolineato, l’ordinanza piemontese ebbe una grande effica-


cia linguistica, perché «costrinse a scrivere in italiano, bene o male, non
solo segretari, funzionari, uomini di legge, notai, ma finì per creare una
sostanziale identificazione tra la lingua italiana e la burocrazia dello stato»
(Marazzini, 1998, p. 16).
A metà del Cinquecento, l’uso di latino e volgare nelle scritture giu-
ridiche e amministrative dei vari Stati è ancora abbastanza differenziato.
242 sergio lubello

L’alternanza tra latino e volgare varia sensibilmente da zona a zona e, an-


che in una stessa area, tra centri cittadini e zone rurali. In aree periferiche
come la Sicilia, il volgare siciliano che fino alla fine del Quattrocento aveva
sostituito il latino negli usi scritti pratici e burocratici, era entrato – dall’i-
nizio del Cinquecento – in una sorta di «competizione silenziosa» con
il toscano (Lo Piparo, 1987, p. 735), competizione durata fino al definitivo
affermarsi del volgare tosco-fiorentino segnato dalla Prammatica vicereale
dell’8 ottobre 1652, che (in ritardo rispetto ad altri Stati) sanciva l’uso del
volgare nelle pratiche notarili «accioché tutte le persone contrahenti […]
possano intendere perfettamente, e con più facilità, tutto quello che atte-
giano e negotiano»31.
Sul fronte del diritto, mentre nel Seicento si diffonde la figura del legule-
io, cioè dell’uomo di legge cavilloso e sofistico (che troverà nel manzoniano
Azzeccagargugli una felicissima rappresentazione: Tesi, 2005, pp. 44-5)32, un
episodio significativo riguarda la resa in volgare della legge grazie all’opera
divulgativa compiuta da Giovan Battista De Luca, avvocato formatosi a Na-
poli e poi trasferitosi a Roma, che allestì una summa legislativa in volgare: Il
dottor volgare (pubblicata per la prima volta a Roma nel 1673).

Non è un caso che nei repertori lessicografici molti termini italiani del diritto, ma
anche dell’amministrazione e della burocrazia, abbiano come anno della prima at-
testazione proprio il 1673. Tra questi: collusivo, captatorio, cumulativo, imputabile,
impugnabile, moratorio, patrocinatore, peculato, pregiudizialità, successorio ecc. (molti
esempi saranno citati nel Dizionario ottocentesco di Giulio Rezasco; cfr. par. 2.5).

Negli Stati soggetti al governo spagnolo, il linguaggio delle cancellerie


vede penetrare – tra Cinque e Seicento – anche alcuni ispanismi: ronda-
re ‘andare in ronda’, papeli ‘documenti’, acclarare ‘assegnare’ ecc. (Beccaria,
1968, pp. 33-53). Altrove a contendere lo spazio del latino è un volgare for-
temente connotato in senso locale, come nel caso della Repubblica di Ve-
nezia in cui un italiano con forte patina veneziana è usato nei documenti
ufficiali e nella pratica del foro fino alla pace di Campoformio del 1797, e
veneziana è la lingua delle interazioni orali giuridiche e politiche33.

31. Il passo della Prammatica si cita da Sardo (2008, p. 9).


32. Leguleio è attestato per la prima volta nella Istoria del concilio di Trento del cardinale
Sforza Pallavicino (1656-57) già nel significato dispregiativo di ‘legale cavilloso’.
33. Cfr. Viale (2008, p. 83) e più in generale sulla storia linguistica del diritto a Venezia
Tomasin (2001).
cancelleria e burocrazia 243

Il lessico dialettale e regionale ha una discreta consistenza nei testi più


strettamente legati all’amministrazione e alla regolamentazione di realtà
locali, dal commercio all’artigianato, e affianca spesso i molti francesismi
che si diffonderanno dalla fine del Settecento (Dardi, 1992, p. 44). Nel
Regolamento per dare la meta ai Salsamentari (Milano 1793) compaiono
in veste italiana termini dialettali come prestinaro, farinaro, costajole, luga-
nica ecc. (Matarrese, 1993, p. 90).

I regionalismi convivono con i latinismi, come nelle antiche scritture cancelleresche:


nelle Consulte amministrative di Cesare Beccaria (che fu funzionario dell’ammini-
strazione del governo austriaco in Lombardia), comprese tra il 1771 e il 1794 e con-
centrate sulle pratiche di quotidiana amministrazione cittadina, compare il termine
fedina ‘certificato penale’, specializzazione di uso burocratico di un termine dialettale,
il milanese fed ‘fede, certificato’ (ivi, p. 279), formazione simile ai diminutivi del lin-
guaggio burocratico attuale, «di sapore vagamente eufemistico, come letterina, do-
mandina, firmetta ecc., con cui si designano particolari adempimenti» (Bruni, 1984,
pp. 129-30 e cfr. Cortelazzo Mi., 1994, p. 40).

L’organizzazione testuale delle Consulte consente peraltro di individuare


chiaramente come già ben definiti e consolidati alcuni tratti di quella
sintassi burocratica ancora oggi in uso: frequenti strutture anaforiche,
deissi particolarmente accentuata (presso codesta Congr. Municipale), uso
di verbi più marcati al posto di sinonimi comuni, sintassi ipotattica ricca
di relative implicite, uso del participio presente con valore verbale (Ma-
tarrese, 1993, p. 280).

2.4. Il francese in Europa:


il rinnovamento dell’amministrazione
La terminologia burocratico-amministrativa subisce tra Sette e Ottocento
un rinnovamento particolarmente rilevante, «poiché su di essa con mag-
giore immediatezza si ripercuotono gli avvenimenti politici di quell’epoca
che chiamiamo prima “giacobina” e poi “napoleonica”, e di quest’ultima in
modo particolare per ragioni evidenti a chi abbia un po’ di dimestichez-
za con la storia civile di quegli anni» (Zolli, 1974, p. 68). Al cosiddetto
triennio rivoluzionario (1796-99) risalgono la coniazione del sintagma
lingua burocratica e molte specializzazioni semantiche in senso burocra-
tico-amministrativo, come quella del verbo organizzare, che nel Seicento
244 sergio lubello

aveva acquistato il significato di ‘ordinare, disporre’34, ma che compare nel


significato amministrativo non prima di quegli anni (Leso, 1991, p. 689 e
Zolli, 1974, p. 83).

Dalla forte espansione del francese nell’Europa tra Settecento e Ottocento deriva-
no vari francesismi nell’italiano dell’amministrazione e della burocrazia: fra gli altri
antidata, autorizzazione, cauzionare, certificato, controllo e controllare, corporazione,
dipartimento, giustificativo, illegale, indennizzare, infrazione, intendenza, malversa-
zione, processo verbale, provvisionale, quotizzare, subaffittare, sublocare, vidimare. Lo
stesso vocabolo burocrazia entra dal francese nella lingua italiana alla fine del Sette-
cento, attestato per la prima volta in una lettera da Palermo di Domenico Caracciolo
a Ferdinando Galiani (1781)35.

Importa evidenziare come tra Sette e Ottocento la lingua del diritto e


dell’amministrazione, che stava ormai per diventare compiutamente italia-
na, «s’avvicina a diventare tecnica, per quel che può essere tecnico un uso
che coinvolge grandi moltitudini di destinatari e d’utenti» (Fiorelli, 1994, p.
596). Parallela al processo di tecnicizzazione è la caccia al neologismo, che ha
tra i bersagli preferiti proprio la lingua della burocrazia: l’Elenco di alcune pa-
role oggidì frequentemente in uso le quali non sono ne’ vocabolarj italiani com-
pilato nel 1812 da Giuseppe Bernardoni su istanza del ministro dell’Interno
(il conte Vaccari) raccoglie un migliaio di termini desunti in gran parte da
decreti, circolari e leggi dell’epoca, che illustrano bene il rinnovamento –
non solo terminologico – di tutta l’amministrazione. Come si evince dall’e-
lenco del Bernardoni, le preoccupazioni erano dovute all’eccessiva presenza
di latinismi (locatore, introito), di forestierismi (interinale, funzionario), di
tecnicismi (vidimazione, procedura); all’introduzione massiccia di deverbali
a suffisso zero (confisca, pareggio, ratifica) e di innesti dialettali (calmiere). In
difesa di alcune parole censurate dal Bernardoni risponde il libretto di Gio-
vanni Gherardini, le Voci italiane ammissibili benché proscritte dall’Elenco del
sig. Bernardoni36, stampato a Milano nello stesso anno.
Che tra le parole e le espressioni condannate dai puristi molte circolas-
sero negli uffici e nella pubblica amministrazione si evince anche dal titolo

34. La prima attestazione è av. 1578, Piccolomini, secondo il DELIN.


35. LEI 8, 231; burocrate compare nel 1798 (ivi, 233), burocratico nel 1802 (ivi, 232).
36. In cui l’autore, come ricorda Serianni (1989a, p. 73), scrive: «temerei forte di vedere i
segretarj stizzir sui lessici e sugli elenchi e trasandare le cose più urgenti del loro ministero,
innanziché correr rischio di farsi rei di lesa favella».
cancelleria e burocrazia 245

del repertorio di Filippo Ugolini, Vocabolario di parole e modi errati che


sono comunemente in uso specialmente negli uffizj di pubblica amministra-
zione (Urbino 1848). Non meno esplicito, anche se con riferimento più
ristretto alla sola legislazione, è il titolo della raccolta di Gaetano Valeriani,
La lingua dei nostri legislatori, ossia Dizionario degli errori di lingua intrusi
nel Codice penale del Regno d’Italia, Napoli 1867. Al di là delle battaglie tra
rigoristi e permissivisti, neopuristi e italianisti, resta il fatto che nella nuo-
va lingua burocratica, così come si era definita attraverso il rinnovamento
francesizzante di fine Settecento, si mescolavano in modo disomogeneo
– a volte stridente – elementi di provenienza diversa: arcaismi, latinismi
oscuri, francesismi non acclimati, dialettalismi non sempre comprensibi-
li. Tanto che anche un personaggio come Vincenzo Monti (1843, p. 214),
dalle posizioni certamente lontane dal purismo, nella prolusione al corso
di Eloquenza latina e italiana dell’Università di Pavia, il 28 novembre 1803,
si soffermò a deplorare il cattivo uso dell’italiano nelle amministrazioni:

Mi sentirei d’inveire alcun poco contra il barbaro dialetto miseramente intro-


dotto nelle pubbliche amministrazioni, ove penne sciaguratissime propagano e
consacrano tutto il di’ l’ignominia del nostro idioma. Ma tu qualunque ti sia che
intendi a procacciarti impiego politico, se hai cara la voce di meritarlo, fa di dar
opera, finché n’hai tempo, allo studio dell’eloquenza: bada che col troppo indu-
giare non si rinforzi l’infelice abitudine dello scrivere e parlare viziosamente.

Ben prima dell’unità d’Italia, insomma, il sentire comune associava alla lin-
gua impiegata negli usi burocratici un’accezione negativa. E intanto cre-
sceva e si diffondeva (molto in anticipo sugli attuali manuali: Viale, 2008,
p. 88) l’esigenza di chiarezza nelle scritture pubbliche; di semplificazione,
diremmo oggi. A testimoniarlo, un manualetto diffuso nel Lombardo-Ve-
neto: il Manuale, o sia la guida per migliorare lo stile di cancelleria, di Giu-
seppe Dembscher, stampato a Milano nel 1830 e rivolto ai segretari e agli
impiegati, per «farli accorti sopra un buon numero di voci non italiane
che si erano intruse nello stile di cancelleria, e che meritano di essere sban-
dite, avendo la lingua nostra da surrogarvi ottimi vocaboli di significato
uguale a quello che alle medesime si volle attribuire» (Morgana, 1984, pp.
64-5). Si trattava, in sostanza, di un invito agli impiegati pubblici perché
evitassero vocaboli polisemici e ambigui, usassero frasi brevi e costruzioni
semplici, riducessero allo stretto necessario l’uso di neologismi e forestieri-
smi, fossero quanto più possibile chiari e concisi.
246 sergio lubello

Un’ultima osservazione va fatta a proposito delle parole straniere: di


fatto i forestierismi coincidevano con i francesismi, visto che i lasciti di al-
tre dominazioni straniere nel lessico burocratico risultano di minore con-
sistenza. Dal tedesco, durante il governo degli Asburgo-Lorena, si radicò
in Toscana la parola dicastero ‘centro amministrativo’37; scarso fu l’impat-
to della dominazione austriaca ottocentesca nel Veneto (Cortelazzo Mi.,
Paccagnella, 1992, pp. 263-7) e nel Friuli (Morgana, 1992, p. 298), dove
l’influsso del tedesco si limitò ad alcuni calchi e prestiti nel lessico am-
ministrativo o nella denominazione di pesi e misure. Diversa e duratura,
invece, è stata la presenza allogena in area altoatesina, in cui alcuni termi-
ni amministrativi, ancora oggi in uso, provengono dal tedesco austriaco e
convivono con i corrispondenti italiani: frazione comunale / Fraktion, car-
ta d’identità / Identitätskarte, multa / Strafe, patente / Führerschein, tessera
/ Ausweis, bustapaga / Lohnstreifen.

2.5. L’unità d’Italia e lo Stato centralizzato:


un’amministrazione per il nuovo Regno
La prospettiva unitaria derivante dalla centralizzazione dell’amministra-
zione coincise di fatto con l’irradiazione in tutto il nuovo Regno delle
strutture sabaude degli apparati burocratici (come anche dei sistemi dell’i-
struzione, dell’organizzazione dell’esercito ecc.). Da De Mauro (1963) in
poi, la burocrazia del nuovo Regno è stata a ragione ascritta a quei fattori
che hanno contribuito in modo determinante al processo di italianizzazio-
ne del paese, più o meno lento a seconda delle aree geografiche. Concorro-
no infatti all’unificazione linguistica il trasferimento di impiegati lontano
dalla propria regione d’origine (cosa che è durata nell’impiego pubblico
anche fino ad anni recenti); la necessità di promulgare norme, decreti, av-
visi che avessero valore su tutto il territorio nazionale; la ricerca di una
lingua nuova per la comunicazione pubblica. Si è avuto, così, un mesco-
lamento di termini piemontesi e meridionali e di tecnicismi amministra-
tivi su una base di fondo toscano (molti gli esempi forniti da De Mauro a
Migliorini: incartamento, disguido, natanti, forze armate), unitamente alla
diffusione in tutto il Regno di moduli sintattici burocratici, a cominciare
dall’inversione – tipicamente amministrativa – di nome e cognome, che

37. Lubello (2010, p. 568). La prima attestazione è av. 1748, P. Giannone, DELIN.
cancelleria e burocrazia 247

dagli uffici anagrafici si è estesa poi ben al di fuori degli usi amministrativi,
per es. nelle scritture semicolte per le quali la lingua burocratica fungeva
da modello di riferimento.
Nella prima fase postunitaria, quella di espansione del fiorentino
(Firenze fu la nuova sede degli uffici centrali dello Stato, dopo Torino
capitale, dal 1865 al 1871), molti impiegati, politici e segretari si sposta-
no nella nuova capitale del regno, la cui popolazione passa dai 114.500
abitanti del 1861 a poco meno di 200.000 nel 1870. Un aumento vertigi-
noso, del 70%, costituito in gran parte da burocrati e funzionari di Stato
provenienti dalle diverse regioni d’Italia; una diminuzione altrettanto
drastica, a 167.000, si registrerà nel 1871, con lo spostamento della capi-
tale a Roma (Tesi, 2005, p. 150).
Anche nel periodo postunitario, i numerosi termini dell’uso burocra-
tico continuano a essere presi di mira da alcuni repertori lessicografici. Il
Lessico della corrotta italianità di Pietro Fanfani e Costantino Arlìa, pub-
blicato per la prima volta nel 1877, condanna – oltre ai francesismi e ai
molti termini lontani dall’uso toscano – voci «indebitamente tracimate
dal linguaggio colto» (Serianni, 1990, p. 80), come molti termini giuridi-
co-burocratici (emettere, incoare ‘incominciare’, biffare ‘sigillare’ ecc.) e re-
gionalismi, come cadastro ‘catasto’ che «s’usa nelle provincie subalpine»38.
Giuseppe Rigutini, che nei Neologismi buoni e cattivi più frequenti nell’uso
odierno (del 1866 e ristampato più volte fino all’edizione del 1926 con le
aggiunte di Cappuccini) si poneva l’obiettivo di confermare il primato
dell’uso vivo toscano, guardava con preoccupazione al «linguaggio nuovo
e bastardo» ammannito dalle leggi, dai giornali, dai libri al popolo che
rischia di esserne corrotto (ivi, p. 81). Per contro, un dizionario tecnico-
settoriale importante come quello di Giulio Rezasco – il Dizionario del
linguaggio italiano storico ed amministrativo (1881), fondato sullo spoglio
di moltissime fonti non solo dell’uso toscano – aggiunge alle voci tratte dal
Vocabolario della Crusca quelle prese «dal fiume reale di tutta la Nazione,
a cui i fiumi minori debbono onorarsi di essere tributarj, e non pretende-
re di più» (p. ix), attingendo da «Provvisioni, Bandi, Statuti, Contratti,

38. La seconda edizione del 1881 e le successive saranno del solo Arlìa (con titolo: Lessico
dell’infima e corrotta italianità). Costantino Arlìa era un giurista calabrese appassionato
del toscano vivo; cfr. Serianni (1990, p. 79 e n) che ricorda anche come la parte del Fanfani
nella prima edizione in realtà fosse stata marginale.
248 sergio lubello

Relazioni degli Ufficiali, Partiti de’ Consigli, Cronache, Ricordi familiari


e domestici, Lettere private e pubbliche» (p. x)39.
Mancando nel nuovo Regno uno strumento diffuso e omogeneo di
comunicazione parlata che non fosse l’italiano dialettizzato o il dialetto
italianizzato, l’italiano burocratico ha rappresentato una varietà di lingua
nazionale particolarmente prestigiosa e diffusa in settori sempre più ampi
della popolazione: un particolare italiano stereotipato, lontano dai canoni
della tradizione letteraria e adottato come lingua franca anche nella comu-
nicazione giornalistica. La pressione maggiore del linguaggio burocratico
sulla stampa si registra nella cronaca cittadina, in cui il giornalista filtra i
termini e le frasi stereotipate incontrate nei verbali della questura, nei bol-
lettini ospedalieri, nei comunicati dell’amministrazione locale, affiancan-
do molti tratti del suo italiano regionale, frasi idiomatiche, colloquialismi:
da questo miscuglio nasce il primo vero e proprio italiano unitario (Tesi,
2005, pp. 157-8):

Il linguaggio burocratico-amministrativo è la nuova voce dello stato unitario, che


proietta sull’uso corrente parole e modi fraseologici di segno culturale opposto al
fraseologismo idiomatico di matrice fiorentina […]. Il modismo burocratico in-
carna una realtà completamente diversa, dove si fa sempre più strada il dinamismo
della vita moderna e le sue nuove forme di aggregazione.

Utili informazioni sulla circolazione e sulla penetrazione di termini bu-


rocratici per mezzo della stampa quotidiana e periodica, possono desu-
mersi da campioni di giornali di varie aree del regno, anche periferiche.
Nella stampa messinese40, in un arco cronologico che va dal 1878 al 1894,
si rilevano strutture diverse da quelle della scrittura letteraria di matrice
manzoniana:

l’anteposizione dell’aggettivo di relazione (accidentale caduta, pubblico denaro), un


largo impiego di deittici anaforici e cataforici, sempre con ordine invertito (seguente
telegramma, suddetta società), vari legamenti sintattici stereotipici realizzati con ele-
menti serializzati (in guisa che ‘in modo che’, in virtù di ‘grazie a’), l’uso straripante del
grafema j per la i semiconsonantica (tratto libresco e letterario che Manzoni aveva già

39. Cfr. Dell’Anna (2011).


40. Analizzata da Scavuzzo (1988). Messina era il secondo centro importante dell’isola,
dopo Palermo.
cancelleria e burocrazia 249

espunto nei Promessi Sposi del 1827, ma che Pirandello continuò a preferire in parole
come guajo, gajo).

Questa koinè giornalistico-burocratica agisce in profondità per il cinquan-


tennio 1870 e 1920 sugli usi correnti, intaccando anche il settore – più
isolato e protetto – della lingua letteraria.
Durante il ventennio fascista, caratterizzato da una forte centralizza-
zione burocratica (da allora in realtà sostanzialmente invariata), si molti-
plicano gli usi, anche al di fuori del circuito tecnico dei testi amministrati-
vi e degli uffici, di formule stereotipate, di burocratismi e di stilemi propri
dell’uso amministrativo. Della politica linguistica del regime basti ricorda-
re che nelle sostituzioni di forestierismi proposte negli elenchi approntati
dai membri dell’Accademia d’Italia, si trovano alcune proposte che hanno
poi attecchito (sportello per guichet) e altre che hanno avuto una differen-
ziazione semantica (scrittoio per bureau)41.
Dal dopoguerra a oggi, la facies dell’italiano burocratico è rappresen-
tabile tramite una serie di fenomeni, alcuni dei quali – si è visto – erano
presenti fin dagli statuti comunali, altri sono andati stratificandosi fino a
diventare via via (iper)caratterizzanti (cfr. par. 3). Restano ancora da stu-
diare, tuttavia, molti materiali prodotti dal 1861 fino a oggi che permet-
terebbero di illustrare meglio i processi di acclimazione, stabilizzazione
e tenuta di molti stilemi burocratici, come per es. si può già desumere da
qualche campione (i documenti del Comune di Milano, compresi tra il
1859 e il 1890, studiati da Atzori, 2009; i testi veneti, di Rovigo, studiati da
Viale, 2011) e come si potrà scoprire analizzando, per es., gli oltre diecimila
pezzi dell’archivio dell’amministrazione provinciale di Firenze compresi
in un arco temporale di oltre un secolo (Merendoni, Secci, 2010)42.
Italo Calvino, già menzionato per la sua parodia del burocratese e
dell’antilingua, avrebbe ricordato che i «vizi di cento anni di burocratiz-
zazione dell’italiano sono più virulenti che mai» (Calvino, 1980, p. 121).
Il dibattito sulle questioni linguistiche degli anni sessanta e settanta, a cui

41. Sulle sostituzioni si veda Raffaelli A. (2010); sulla politica linguistica del fascismo,
ben studiata fin dai lavori di Leso degli anni settanta, si vedano ora, per gli aspetti della
burocratizzazione, i materiali raccolti e analizzati da Nichil (2011).
42. Per la prima metà dell’Ottocento e per uno sguardo sulle zone più periferiche, è utile
il lavoro di Piras (2001) che analizza vari testi amministrativi (verbali, atti giudiziari, or-
dinanze e documenti pubblici e privati) prodotti nella Sardegna centro-occidentale del
primo Ottocento.
250 sergio lubello

prese parte anche Pier Paolo Pasolini, continua ancora oggi sul fronte di-
verso – anche se non nuovo – della necessità della trasparenza del linguag-
gio della comunicazione pubblica, e della sua semplificazione: semplifica-
zione – più in generale – del rapporto complesso e difficile tra cittadini e
istituzioni43.

3. Tratti linguistici
(iper)caratterizzanti
L’italiano burocratico – come si è detto – è una varietà ibrida, che presenta
i caratteri di codificazione precostituita dell’italiano standard letterario,
ma non ha la specificità terminologica dei linguaggi tecnico-scientifici.
Nella dimensione orizzontale, quella cioè di scambio tra i linguaggi spe-
ciali, il linguaggio burocratico è per lo più unidirezionale (attinge preva-
lentemente da altri linguaggi), mentre nella dimensione verticale non ha
sempre conservato la fissità tecnica della lingua giuridica da cui discende,
come è facilmente esperibile da molti testi spesso non coesi e incoerenti in
cui si accumulano numerose forme di fossilizzazione e stereotipizzazione.

3.1. Le parole oscure


dell’amministrazione
Nello schema grafico di rappresentazione del lessico burocratico proposto
da Viale (2008, p. 57), nella parte superiore di un rettangolo si collocano il
lessico burocratico, quello giuridico e quello di altre lingue speciali, nella
metà inferiore i tecnicismi collaterali, gli pseudotecnicismi, le locuzioni
tipiche stereotipate, le scelte lessicali paludate, gli arcaismi. Ancora più ef-
ficace risulterebbe una rappresentazione in tre cerchi concentrici, mutuan-
do lo schema applicato da Gualdo (2009b, p. 399) alla lingua del diritto,
che darebbe l’idea quantitativa delle componenti e al tempo stesso quella
del movimento e delle interferenze tra settori. Nel cerchio più interno, ap-
plicando un criterio di tipo semantico, si può far rientrare l’insieme dei
lessemi che hanno come significato nozioni e concetti di tipo burocrati-

43. In generale si veda Marazzini (1999, pp. 220-4), mentre sui problemi del linguaggio
amministrativo connessi alla mancanza di una comunicazione pubblica chiara ed efficace
Fioritto (2009, pp. 42-6).
cancelleria e burocrazia 251

co (si tratta anche quantitativamente del nucleo più ristretto). In quello


intermedio, legato agli àmbiti d’uso, andranno raccolti i lessemi che – a
prescindere da una definita semantica burocratica – ricorrono in testi bu-
rocratico-amministrativi, poiché appartengono a vario titolo al repertorio
di usi e abitudini lessicali degli operatori dell’amministrazione pubblica,
degli enti ecc. nella concreta produzione di diversi tipi di testi burocratici.
Infine, nel cerchio maggiore, i cui confini sfumano progressivamente in
quelli del lessico comune, rientrano tutti i termini in vario modo rilevanti
nelle pratiche scritte di tipo burocratico, compresi quelli appartenenti ad
altri linguaggi specialistici; ma anche aggettivi, verbi, persino parole vuote
della lingua che possano essere oggetto d’interpretazione o risemantizza-
zione nel linguaggio burocratico.
Un nucleo abbastanza ridotto del lessico burocratico è costituito da
tecnicismi stretti: si tratta di un piccolo manipolo di burocratismi, qualcu-
no di provenienza francese già nel primo Ottocento, come borderò ‘nota di
entrate e uscite di denaro; trascrizione di atti pubblici’ (nella stampa lom-
barda già nel 1802; dal 1965 nel significato di ‘elenco delle collaborazioni
mensili al giornale’, cfr. LEI. Germ 7, 1176), altri molto diffusi già a fine
Ottocento, come si ricava dalle indicazioni del 1909 di Meuccio Ruini,
all’epoca funzionario statale (Trifone M., 2009, p. 273): camicia ‘cartellina
di cartone per conservare fogli e documenti’, incartamento, minutante ‘chi
scrive una minuta’, protocollare, vistare, fincatura ‘suddivisione della pagina
di un registro in colonne verticali o righe orizzontali’, firmario ‘contenitore
a libro, formato da cartelline rilegate insieme ciascuna delle quali contiene
un documento da firmare’, velinario ‘contenitore delle copie degli atti pro-
dotti’, sintagmi come evadere una pratica; vi rientrano anche quei tecnici-
smi collaterali che si sono stabilizzati in un significato fisso, come visura
‘verifica catastale dell’effettiva consistenza o della situazione giuridica di
un bene immobile’ (Serianni, 2012, p. 143). Nel GRADIT sono etichettati
come termini specialistici (ts) dell’uso burocratico 732 lemmi e 162 dell’u-
so amministrativo.
Ai tecnicismi stretti si affiancano – più numerosi – tecnicismi giuri-
dico-amministrativi (ammenda, istanza, ingiunzione, istruire ‘ricercare la
documentazione necessaria per espletare una pratica’, viziare ‘rendere non
valido o nullo’), tecnicismi derivanti da altri linguaggi speciali (accensione
di una pratica ‘apertura’; nel linguaggio bancario di un conto), tecnicismi
collaterali o pseudotecnicismi, usati senza necessità referenziale per dare
autorevolezza al testo: compiegare ‘allegare’, espletare ‘svolgere’, riscontro
252 sergio lubello

‘risposta’, oblazione ‘pagamento’, istanza ‘domanda’, evacuare ‘abbando-


nare’, differire ‘rinviare’, quiescenza ‘pensione’, rimettere ‘inviare’, tradurre
‘trasportare’, espressioni come con riferimento a ‘circa’, a condizione che ‘se’.
Alcuni tecnicismi collaterali possono risultare necessari e più appropria-
ti in alcuni contesti, come nel caso di alcuni iperonimi (titolo di viaggio,
per es., può indicare non solo il biglietto ma anche l’abbonamento o un
documento di esenzione); in qualche caso un tecnicismo collaterale può
essere usato per ragioni di eufemismo o perché costituisce un’espressione
“politicamente corretta” (operatore ecologico per spazzino), o per elevare il
registro linguistico, spesso impropriamente, senza cioè un miglioramento
del testo ai fini della sua comprensione (competente carta da bollo, dopo
previa autorizzazione). Ai tecnicismi si affiancano altre componenti lessi-
cali, tra cui aulicismi e sinonimi elevati al posto di parole di uso comune:
diniego per rifiuto, ottemperare per rispettare, erogazione per pagamento,
erogare un servizio per fornire un servizio, apporre per mettere, interloquire
per parlare, compiegare per allegare (che secondo Mengaldo, 1994, p. 60, a
proposito degli innalzamenti lessicali tipici anche della lingua scolastica,
costituisce un burocratismo di secondo grado al posto di un burocratismo
di primo grado), obliterare per annullare, ammenda per multa, alcuno per
nessuno; frequentissime sono le formule anaforiche o cataforiche desuete
(infrascritto, summenzionato, di cui sopra).
Nel complesso, si tratta di un cospicuo numero di termini la cui seman-
tica risulta molto vaga e nasconde spesso vuotezza di significati, come si
evince dall’esempio fornito da Viale (2008, p. 59): verificare la sussistenza
delle condizioni per porre in essere…. Non pochi termini sono genericismi
o parole astratte, solitamente più lunghe di quelle dell’uso comune: nu-
cleo familiare per famiglia, modalità per modo, nominativo per nome, pro-
blematiche per problemi, documentazione per documenti. Molto frequenti
sono anche gli arcaismi lessicali, dato il carattere di tenuta e conservatività
del linguaggio burocratico, quasi tutti perfettamente sostituibili con pa-
role d’uso corrente: attergare, corresponsione, orbene, qualsivoglia; forme
dotte non più in uso: all’uopo, testé, altresì, la formula addì per l’indicazio-
ne della data; un arcaismo dell’italiano che sopravvive solo nel toscano ed
è diventato distintivo del linguaggio burocratico è il dimostrativo codesto
(cfr. Cortelazzo, Pellegrino Mi., 2003, p. 28 e Viale, 2011, p. 689 e n). Ab-
bondano i forestierismi: ai latinismi in gran parte di provenienza giuridica
(anche integrali: iter, memorandum, de facto, de cuius, in calce) come afferi-
re, cooptare, ubicare, dirimente, si aggiungono più di recente e in aumento
cancelleria e burocrazia 253

crescente vari anglicismi: project manager, meeting, planning ‘piano’, staff


‘personale’, governance, mission ‘obiettivo primario di un’azienda’, privacy,
authority ecc. (cfr. sulla pressione dell’inglese Antonelli, 2007a, pp. 13-20).
Sono peraltro sempre più frequenti i casi in cui enti, aziende, ministeri
scelgono etichette o parti di etichette in inglese o anglicizzanti: Rai fiction,
Rai International ecc. Gli esempi riportati da Maurizio Trifone (2009, p.
276) e circolanti nelle università italiane, customer satisfaction ‘indice di
soddisfazione del cliente o dell’utente’ e front office ‘ufficio a diretto con-
tatto con il pubblico’(a cui si può aggiungere information desk ‘sportello
informazioni’), rivelano «la preoccupante tendenza aziendalistica della
scuola italiana, dove tra l’altro è stata di recente introdotta anche la figura
del preside manager».
Infine, tra le componenti del lessico vanno segnalati sintagmi e locu-
zioni tipiche, stereotipate, collocazioni speciali: porre in essere, a tal fine,
portare a conoscenza, previa autorizzazione, modulo debitamente compilato,
autorità competente, apposito modulo ecc.; l’(ab)uso di abbreviazioni, sigle
e acronimi (S.V. ‘signoria vostra’, u.s. ‘ultimo scorso’, Confesercenti ecc.),
non sempre trasparenti al di fuori di alcuni àmbiti (il personale ata, co.co.
co, OFF.F ‘offerta formativa’, in qualche caso anche con mantenimento
dell’ordine inglese: it Information technology).
Nell’àmbito della formazione delle parole, spiccano molti deverbali
a suffissazione zero (tipici di registri e sottocodici, primo tra tutti quello
burocratico: D’Achille P., 2010c, p. 155)44 che consentono peraltro di
evitare il cumulo di suffissi: subentro, scorporo, ripristino, utilizzo, an-
nullo (di un francobollo), inoltro, parifica, pernotto, reintegro, postici-
po, allaccio, sollecito, specifica, surroga, deroga, delibera, convalida; verbi
denominali (più frequenti in -are/-izzare): referenziare, dimissionare,
ospedalizzare, disdettare, postalizzare, scadenzare, introitare, dimissio-
nare (i denominali in -are hanno una duplice valenza semantica: con
complemento diretto assumono il significato di ‘sottoporre a’, come
in contravvenzionare, altrimenti assumono un uso assoluto, cfr. Basile,
1991, p. 30); vari aggettivi in -ale sul modello dell’inglese (occupazionale,
procedimentale, interinale, concorsuale, emergenziale, compartimentale)
e vari astratti in -zione: ospedalizzazione, rateizzazione, verbalizzazione,
regionalizzazione. Solo in apparente contraddizione con la suffissazio-

44. La suffissazione zero si spinge fino agli esempi di forme semigergali come deliba per
delibazione e soddisfo per soddisfacimento (Gualdo, Telve, 2012, p. 430).
254 sergio lubello

ne zero è la tendenza alla dilatazione di un lessema tramite suffissazione


(ordinativo invece di ordine, rendicontazione per rendiconto), probabil-
mente per la potenzialità che una parola complessa ha di distanziarsi
dal lessico comune (Gualdo, Telve, 2011, p. 371, a proposito di strutture
simili nel linguaggio dell’economia). Diffuso è l’uso di aggettivi sostan-
tivati (il preventivo), soprattutto derivanti da participi (il delegante, il
comandato); frequente il suffisso latineggiante -ario che indica chi è ti-
tolare di un certo diritto, chi riceve qualcosa in opposizione a chi dà
qualcosa, come nelle coppie: locatario-locatore, donatario-donatore o
donante (cfr. Serianni, 1988a, p. 538); in aumento sono le forme ellitti-
che di sostantivi giustapposti senza preposizione (cassa pensioni, comi-
tato prezzi, tassa rifiuti solidi urbani, busta paga).
Infine, quanto agli usi pragmatici e comunicativi a cui le scelte lessicali
dovrebbero adeguarsi, è frequente che parole d’uso comune e di larga com-
prensibilità (e leggibilità) subiscano una sorta di processo di travestimento
grottesco, come nell’esilarante avviso esposto in un ufficio postale (ripor-
tato da Serianni, 2012, p. 141) nel quale, per evitare la parola spiccioli, si
legge: «Per evitare inutili discussioni, l’utenza è pregata di presentarsi allo
sportello munita di moneta divisionale».

3.2. Le strutture morfosintattiche


Alla ricercatezza lessicale si unisce la complessità morfosintattica: l’una
e l’altra insieme generano un linguaggio fortemente ipertrofico (Viale,
2008, p. 61). La lingua burocratica, infatti, usa molte più parole della lin-
gua comune per dire le stesse cose, ricorrendo in maggiore misura a perio-
di complessi e contorti e costituendo così il polo della scrittura più antite-
tico al parlato:

Il ministro dell’Interno ha provveduto a stabilire le linee guida ed il formulario


per la presentazione delle domande di contributo, i criteri per la ripartizione e per
la verifica della corretta gestione del medesimo contributo e le modalità per la sua
eventuale revoca.

In questo stralcio tratto dalla Gazzetta Ufficiale (citato da Voghera,


2008, p. 14) si nota immediatamente la correlazione tra una sintas-
si fortemente compatta e l’alta frequenza di nomi (è presente un solo
gruppo verbale, ha provveduto a stabilire). La nominalizzazione, che
cancelleria e burocrazia 255

è una caratteristica tipica del burocratese, determina la diminuzione


del peso delle forme verbali (il pagamento si effettua alla cassa al posto
del più semplice: si paga alla cassa), ma in molti casi risulta inevitabile
per la necessità del linguaggio burocratico di riferirsi a concetti astrat-
ti, anche quando produce qualche complicazione alla comprensione.
Un effetto negativo della nominalizzazione è la moltiplicazione inutile
di parole vuote, come nella diffusa costruzione (non solo burocratica)
verbo generico + sostantivo (dare séguito invece di seguire, dare lettura
per leggere, dare informazione per informare, apporre la firma per firma-
re). Un’altra conseguenza della nominalizzazione è la diffusa mancata
coincidenza tra soggetto logico e soggetto grammaticale (Il negozio ha
aumentato i prezzi dei suoi prodotti // Il proprietario del negozio ha au-
mentato i prezzi …). Dal processo di nominalizzazione dipende anche
l’alto numero di deverbali a suffisso zero (cfr. par. 3.1), alcuni impropo-
nibili al di fuori di un contesto scritto di tipo burocratico (l’inoltro, lo
scorporo ecc.).
Nella sintassi dei testi burocratici alla massiccia nominalizzazione si
unisce la lunghezza dei periodi, ricchi di subordinate (spesso implicite),
con molti incisi e relative; il che comporta di frequente la perdita di con-
trollo da parte di chi scrive con conseguenti incoerenze testuali (Trifo-
ne M., 2009, p. 278). Tipici tratti della morfosintassi burocratica sono
la struttura impersonale e la costruzione passiva: entrambe consentono
di non rendere esplicito il soggetto, accrescendo la distanza tra mittente
e destinatario (La documentazione è stata inoltrata all’ufficio ragioneria;
si ritiene indispensabile fornire la documentazione in carta bollata; si fa
presente che; si certifica che ecc.). E inoltre: l’enclisi del clitico al verbo
reggente del tipo affittasi, relitto di una struttura sintattica arcaica che
non ammetteva i clitici all’inizio di frase (D’Achille P., 2010c, pp. 129-
30); alcuni arcaismi morfologici (dalle varie congiunzioni e avverbi, ivi,
allorquando, altresì ecc. all’allocutivo Ella come pronome di cortesia
con iniziale maiuscola); strutture preposizionali libresche o in disuso
(a far luogo da ‘a partire da’, dietro presentazione di, di concerto con ‘d’in-
tesa con’, entro e non oltre ‘entro’); la vitalità del participio presente con
valore verbale, improduttivo nell’italiano standard (un’azione avente
come risultato), spesso nel costrutto participio presente + complemen-
to oggetto, talvolta anche con l’anteposizione del determinante al de-
terminato (lo scrivente ufficio), con discreta frequenza anche in forme
sostantivate (il dichiarante, il delegante); l’uso frequentissimo del parti-
256 sergio lubello

cipio passato, a cominciare dall’elenco di participi tipico delle scritture


giuridiche e amministrative nelle formule esordiali di decreti, ordinan-
ze, delibere (vista… vista…; considerato… considerato...); l’uso eccessivo
del gerundio, anche quando il contesto non è sempre chiaro, talvolta
erroneamente (senza cioè coreferenza con il soggetto della principale);
il futuro deontico o iussivo (le tasse per l’iscrizione dovranno essere versa-
te; il cliente inolterà la domanda entro il 20 aprile); l’estensione dell’uso
dell’infinito come imperativo generico in avvisi e istruzioni (inserire la
carta, vidimare il biglietto, munirsi di tagliando alla biglietteria automa-
tica); l’imperfetto narrativo, impropriamente usato al posto del passato
prossimo se si indica un’azione puntuale, come nei verbali di polizia
(il ladro veniva sorpreso dal poliziotto); la tendenza alla frase negativa,
con lo scopo di attenuare un’espressione (come la litote eufemistica:
non udente, non vedente) o di mitigare l’effetto di un’imposizione, di
un divieto (i ricorsi non vengono accettati, invece di vengono respinti); le
frequenti inversioni dell’ordine normale delle parole: l’aggettivo prima
del nome (le riportate osservazioni), l’avverbio prima del verbo (la infor-
miamo che immediatamente comunicheremo), la posposizione del nume-
rale (il limite di mesi 3, l’edificio di metri 10); l’anticipazione anaforica,
cioè l’anteposizione del complemento oggetto senza ripresa con valore
tematico, soprattutto in presenza di un elemento che assicuri la con-
tinuità del tema (tale disposizione riceveranno le amministrazioni, cfr.
D’Achille P., 2010c, p. 177); infine alcune reggenze verbali non sempre
conformi all’uso standard (Raso, 2005, p. 120 segnala attenere la ricerca,
inerente qualcosa ecc.).
Alcuni usi cristallizzati si sono largamente espansi al di fuori del lin-
guaggio burocratico (Trifone M., 2009, p. 281 ricorda l’apposito modulo, le
vigenti leggi).

3.3. Caratteri della testualità


I testi burocratico-amministrativi, come quelli giuridici, sono (o almeno
dovrebbero essere) testi molto vincolanti: hanno una struttura linguisti-
ca e testuale molto formalizzata, ma sono caratterizzati dal cosiddetto
“precisionismo” burocratico, che risulta in realtà una somma di elementi
antitecnici, superflui e inefficaci (formule fisse o generiche e giri di pa-
role molto vaghi, forme criptiche con un eccesso di sigle e acronimi),
cancelleria e burocrazia 257

calati in una sintassi contorta e involuta. Spesso, infatti, il confine tra un


testo burocratico e la sua degenerazione in burocratese è segnato proprio
da un’organizzazione testuale inadeguata e vacillante, che coopera all’in-
comprensibilità del testo.
Fra i tratti salienti della testualità burocratica è di particolare im-
portanza l’ordine sequenziale del contenuto, con concentrazione delle
informazioni e loro gerarchizzazione (uso logico-sintattico della pun-
teggiatura) dal generale al particolare, e la messa in evidenza del verbo
reggente (decreta, stabilisce, informa). Nell’atto amministrativo, che è tra
i testi burocratici quello che si colloca sul confine con il testo giuridico,
secondo Fioritto (2009, p. 68), devono comparire in sequenza i seguenti
punti: 1. l’indicazione del soggetto che emana l’atto; 2. la data; 3. l’elenco
delle norme e degli altri elementi in base ai quali il soggetto ha il potere
di emanare l’atto; 4. la decisione presa dall’Amministrazione; 5. la firma
dell’atto. Una gestione corretta delle varie informazioni consente di evi-
tare la tipica tendenza alla ridondanza o all’abuso di parole vaghe, astrat-
te e pleonastiche (esempi in abbondanza: elenco debitamente timbrato e
firmato, per ogni eventuale ulteriore chiarimento, presso i competenti uffici
regionali, adempimenti di rispettiva competenza, appositi cartelli ecc.). A
proposito del sintagma normativa vigente, commenta Serianni (2012, p.
149): «non ci aspettiamo che l’insieme di norme a cui si richiama in una
circolare sia quella del Regno delle Due Sicilie (mentre sarebbe giustifi-
cata l’eventuale esplicitazione di una norma previgente, in riferimento a
una norma che, benché abrogata, trova ancora applicazione per regolare
situazioni sorte quando essa era ancora operativa)».
La struttura del testo deve risultare chiara e riconoscibile, anche con
il ricorso a elementi tipografici (grassetto, maiuscole, usi di caratteri
diversi ecc.); alla paragrafatura, che deve visualizzare in modo chiaro i
vari pezzi e passaggi (capoversi, righe vuote); a strutture a lista, tabelle e
grafici. La struttura a lista (un elenco dipendente da un verbo reggente o
da una principale), frequentissima nei testi burocratici, costituisce uno
dei punti più deboli in cui il testo più facilmente perde la sua coerenza,
soprattutto se si tratta di un atto amministrativo dipendente da un atto
legislativo di cui riproduce i contenuti con varie degradazioni, a partire
da quella grafica (il testo viene riversato senza interruzioni, senza caden-
ze, a volte anche con vari refusi), e con varie incoerenze testuali (frasi
introdotte dal gerundio senza una proposizione reggente) e perdite di
controllo della coesione testuale.
258 sergio lubello

Altri tratti tipici della testualità dei testi burocratici sono: l’uso abbon-
dante di connettivi testuali e deittici, anche arcaici come codesto, testè ecc.,
in alcuni casi possono subentrare problemi di comprensione del contenu-
to, se si tratta dei cosiddetti rinvii muti (Trifone M., 2009, p. 283), quelli
cioè a decreti o leggi o articoli che non sono noti ai non addetti ai lavori
e che restano pertanto privi di valenza informativa; l’uso di numerosi ele-
menti anaforici e cataforici (il suindicato commissario, il sopradetto terreno,
i seguenti immobili), anche con formule obsolete (l’opera retro segnata) o
sovrabbondanti fino al ridicolo (Io sottoscritto attesto che la dichiarazione
suestesa è stata resa in mia presenza dal dichiarante sopra generalizzato, dalla
dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà del Comune di Montalto di
Castro, riportata ivi, p. 284); la coniunctio relativa (il di cui figlio, nel senso di
cui al comma 3 ecc.); alcuni moduli cristalizzati di apertura e chiusura, con
formule fisse di allocuzione (Spett., Egr. ecc.) che spesso passano agilmente
nelle lettere dei cittadini (anche non ufficiali), in cui si mescolano tratti
di livello formale (formule burocratiche, frasi fatte e una sintassi precofen-
zionata: con la presente Vi informo che….) con inserti di strutture di parlato
(dislocazioni a destra, segmentazioni improprie ecc.).
L’eccessiva fissità dei testi e dei formulari offusca spesso l’espressione
linguistica, come ha giustamente sottolineato Mortara Garavelli (2001,
pp. 17-8) a proposito dei testi giuridici:

La fissità, che quando degenera produce una zavorra di giri di parole e frasi for-
mulari, viene intesa come stabilità, come qualcosa che dà sicurezza, che garantisce
dalle approssimazioni e dalle ambiguità, ed è invece solo una specie di conformi-
smo involontario.

Contro il burocratese, allo scopo di semplificare il linguaggio burocra-


tico-amministrativo, sono stati compiuti dagli anni novanta del secolo
scorso vari interventi da parte di ministri o di enti e di gruppi di stu-
diosi: dal Codice di stile delle comunicazioni scritte a uso delle pubbliche
amministrazioni promosso nel 1993 dal ministro Sabino Cassese all’ab-
bondante produzione di una manualistica ad hoc (Fioritto, 1997 e 2009),
a interventi mirati allo snellimento di testi specifici come i moduli 730
e le bollette (De Mauro, Vedovelli, 1999)45, fino a corsi di formazione e

45. Il progetto della nuova bolletta nacque nel 1997 da un’iniziativa dell’Enel che aveva
chiesto la consulenza e l’intervento di Tullio De Mauro e di un gruppo di linguisti da lui
coordinati.
cancelleria e burocrazia 259

scrittura professionale, anche con la partecipazione dell’Accademia del-


la Crusca46. Ma a tutt’oggi il bilancio, ricorda Cortelazzo Mi. (2010, p.
589)47 sulla scia di De Mauro, è più modesto di quanto si sperava. Né
rappresenta certo un passo avanti l’abolizione recente, dopo 12 anni, del-
la norma che prevede l’obbligo per i dipendenti pubblici di adottare un
linguaggio chiaro e comprensibile, contenuta nel comma 4 dell’art. 11
(“Rapporti con il pubblico”) del Codice di comportamento dei dipendenti
delle pubbliche amministrazioni (emanato con Decreto della presidenza
del Consiglio, Dipartimento della Funzione pubblica del 28 novembre
2000, firmato dal ministro Bassanini), pubblicato nella Gazzetta Uffi-
ciale del 10 aprile 2001. Il nuovo Codice di comportamento dei dipendenti
pubblici, emanato con il Decreto del presidente della Repubblica 16 apri-
le 2013, n. 62 è entrato in vigore il 19 giugno 2013.
Si potrebbe dire, per concludere, adattando alla scrittura burocratica
le riflessioni di Sepe (2007), che le riforme e le proposte degli ultimi anni
non hanno prodotto se non pochi miglioramenti all’ossificazione buro-
cratica che ancora permane: qualche forma nuova nel mare magnum di
vecchi vizi.

46. Per una sintesi cfr. in ordine cronologico: Piemontese (1999); Cortelazzo, Pellegrino
(2003, pp. 14-9); Raso (2005, pp. 13-5); Viale (2008, pp. 21-40); Trifone Mi., (2009, pp.
285-9); Cortelazzo Mi. (2010, pp. 589-90); Proietti (2010, pp. 162-3); Lubello (in stampa);
per il Manuale di regole e suggerimenti per la redazione di atti amministrativi, promosso
anche dall’Accademia della Crusca, si veda il link: http://www.accademiadellacrusca.it/
descrizione_del_progetto.shtml. Inoltre è disponibile alla consultazione on-line gratuita
anche Il manuale di scrittura amministrativa del 2003 promosso dall’Agenzia delle entrate
e curato da F. Franceschini e S. Gigli (http://www1.agenziaentrate.it/documentazione/
guide/scrittura_amministrativa/). Un’iniziativa recente dell’editore Zanichelli, coordina-
ta da Massimo Arcangeli, è il dizionario dell’antiburocratese on-line (la traduzione dei
burocratismi più diffusi e più incomprensibili con un database gratuito aggiornato conti-
nuamente e consultabile all’indirizzo: www.zanichelli.it/antiburocratese). Da segnalare è
anche l’importante Rete per l’eccellenza dell’italiano istituzionale (rei), consultabile all’in-
dirizzo: http://ec.europa.eu/dgs/translation/rei/.
47. Michele Cortelazzo ha provocatoriamente proposto una “traduzione” in italiano del-
le Istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione (Cortelazzo Mi., Di Benedetto,
Viale, 2008).
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Indice dei nomi
440 storia dell’italiano scritto
Gli autori e i curatori

giuseppe antonelli insegna Storia della lingua italiana all’Università di Cassino.


Nei suoi studi si è occupato di vari aspetti della lingua letteraria e non letteraria dal
Cinquecento a oggi. Tra i suoi volumi: Alle radici della letteratura di consumo (1996),
Tipologia linguistica del genere epistolare nel primo Ottocento (2003), Lingua iperme-
dia. La parola di scrittore oggi in Italia (2006), Ma cosa vuoi che sia una canzone.
Mezzo secolo di italiano cantato (2010).

michele colombo insegna Storia della lingua italiana all’Università Cattolica del
Sacro Cuore, nelle sedi di Milano e Brescia. Si è occupato di vari aspetti della lingua
letteraria e non dal Tre all’Ottocento. Tra i suoi libri figurano l’edizione della gram-
matica Della lingua toscana di Benedetto Buommattei (2007), Il romanzo dell’Otto-
cento (2011) e Dio in italiano. Bibbia e predicazione nell’Italia moderna (2014).

rita fresu insegna Linguistica italiana all’Università di Cagliari. Ha affrontato in


prospettiva variazionale diversi aspetti della storia linguistica italiana dal Trecento a
oggi. Tra i suoi studi: l’edizione della Cronaca teramana di Angelo de Jacobis (2006)
e delle lettere di Maria Belli (2006), L’altra Roma (2008), Lingua italiana del Nove-
cento (2008), Tra specchi e manichini. La lingua fantastica di Massimo Bontempelli
(2008) e, per Carocci editore, La parola utile. Saggi sul discorso morale nel Medioevo
(2012).

francesca gatta insegna Linguistica italiana all’Università di Bologna. Si è oc-


cupata principalmente della lingua d’autore del Novecento e della lingua dello spet-
tacolo, in particolare di melodramma e di cinema (Il teatro al cinema. La lingua del
cinema degli anni Trenta, 2008). Si è occupata inoltre di italiano contemporaneo e
di didattica dell’italiano. Per Carocci editore ha pubblicato Lingua d’autore. Letture
linguistiche di prosatori contemporanei (con R. Tesi, 2000).

francesca geymonat lavora all’Università di Torino. Si è occupata di volgare due-


442 storia dell’italiano scritto

trecentesco, di filologia dantesca, di episodi del dibattito linguistico in Italia (Leon


Battista Alberti, Iacopo Durandi, Carlo Collodi), di variantistica d’autore (Baldassar-
re Castiglione, Raffaello Baldini).

sergio lubello insegna Storia della lingua italiana e Linguistica italiana all’Uni-
versità di Salerno. Nei suoi studi si è occupato di storia della linguistica, di lessicogra-
fia storico-etimologica, della lingua poetica del Duecento, della lingua di Pirandello,
dell’italiano amministrativo. Tra i suoi lavori la collaborazione all’edizione dei Poeti
siculo-toscani (2008) e, per Carocci editore, Competenze linguistiche per l’accesso all’u-
niversità (con G. Basile e R. Guerriero, 2012) e Il linguaggio burocratico (in stampa).

fabio magro si è laureato a Padova dove ha conseguito il titolo di dottore di ricerca


in Romanistica. Si è occupato di metrica, di stilistica e di lingua letteraria e non, in
particolare tra Otto e Novecento. Ha pubblicato, tra l’altro: «Un ritmo per l’esistenza
e per il verso». Metrica e stile nella poesia di Attilio Bertolucci (2005), Un luogo della
verità umana. La poesia di Giovanni Raboni (2008), L’epistolario di Giacomo Leopar-
di. Lingua e stile (2012).

matteo motolese insegna Storia della lingua italiana alla Sapienza Università di
Roma. Si è occupato principalmente di lingua letteraria e di linguaggi specialistici
nel Rinascimento. Tra i suoi libri, l’edizione della Giunta fatta al ragionamento degli
articoli et de’ verbi di messer Pietro Bembo di Lodovico Castelvetro (2004) e, nel 2012,
Italiano lingua delle arti. Un’avventura europea (1250-1650). È condirettore della serie,
in più volumi, degli Autografi dei letterati italiani (2009-).

elena pistolesi insegna Linguistica italiana all’Università di Modena e Reggio


Emilia. Ha studiato la fortuna delle tesi dantesche sul volgare nella questione della
lingua dal Tre al Settecento e l’italiano delle nuove tecnologie. Ha pubblicato, tra l’al-
tro: Il «De vulgari eloquentia» di Dante nella riflessione linguistica di Celso Cittadini
(2000); Il parlar spedito. L’italiano di chat, e-mail e sms (2004); ha curato i volumi:
Lingua, scuola e società. I nuovi bisogni comunicativi nelle classi multiculturali (2007)
e Vicini/lontani. Identità e alterità nella/della lingua (con S. Schwarze, 2007).

alessio ricci insegna nell’Università degli Studi di Siena (sede di Arezzo). Si è


occupato principalmente di sintassi e testualità dell’italiano scritto letterario e non.
Ha pubblicato, fra l’altro, alcuni saggi sulla prosa di Giacomo Leopardi e il volume
Mercanti scriventi. Sintassi e testualità di alcuni libri di famiglia fiorentini fra Tre e
Quattrocento (2005).
gli autori e i curatori 443

stefano telve insegna Linguistica italiana all’Università della Tuscia. Si è occupa-


to di lingua cancelleresca rinascimentale, librettistica, grammaticografia, sintassi in
diacronia, linguaggio televisivo. Tra gli ultimi lavori: Ruscelli grammatico e polemista
(2011), That’s amore. La lingua italiana nella musica leggera straniera (2012) e, per
Carocci editore, Linguaggi specialistici dell’italiano (con R. Gualdo, 2011), L’italiano:
frasi e testo (2013) e Scrivere all’università (con R. Gualdo, L. Raffaelli, 2014).

lorenzo tomasin insegna Storia della lingua italiana all’Università di Losanna.


Si è occupato di temi posti tra filologia, dialettologia, storia linguistica e storia lette-
raria. Ha pubblicato, tra l’altro: Il volgare e la legge (2001), Testi padovani del Trecen-
to (2004), Classica e odierna. Studi sulla lingua di Carducci (2007), Scriver la vita.
Lingua e stile nell’autobiografia italiana del Settecento (2009) e, per Carocci editore,
Storia linguistica di Venezia (2010) e Italiano. Storia di una parola (2011).

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