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LEZIONE 1

RELAZIONI DI GENERE: RELAZIONE TRA MASCHILE E FEMMINILE

La storia di genere è nata negli stati uniti a partire dagli anni 60. Ma l’assenza nelle donne nella
storia, nel tessuto della storia, è un aspetto notato da osservatori e osservatrici, scrittori e
scrittrici, pittori già da molto tempo prima.

Autrice inglese di orgoglio e pregiudizio (mi guardo il nome) : grande scrittrice e critica della
società borghese inglese nell’800. In un suo romanzo pubblicato nel 1818 che si chiama l’abbazia
di Nordamberg (?), riporta il dialogo tra le due protagoniste: due giovani donne che parlano tra
loro della storia. Una di loro dice che la storia le piace moltissima l’altra che non le interessa
poiché “vorrei che la storia piacesse anche a me, ne leggo un po’ per dovere ma non ci trovo
nulla che non mi annoi o non mi stanchi. In ogni parola papi e re che litigano, guerre e pestilenze.
Gli uomini sono tutti buoni a nulla e di donne non si parla mai”.

La presenza delle donne nella storia, è stata una caratteristica nella storia per centinaia di anni
e questa assenza è stata colmata a partire dagli anni 70 del 900 e soprattutto in ambito
anglosassone, in particolare in ambito statunitense.

La storia delle donne è fiorita negli stati uniti grazie alla rinascita del movimento femminista tra
la fine degli anni 60 e primi anni 70 del 900 infatti nel 1963 la sociologa e psicologa Betty Fridan
pubblicò un libro poi tradotto anche in italiano l’anno successivo dal titolo: La mistica della
femminilità. Era un libro sulla condizione delle donne negli stati uniti negli anni 50. Il volume
divenne un best seller e vendette 3 milioni di copie. Molte donne americane si identificarono ed
indentificarono in quel libro le loro insoddisfazioni “problema senza nome” che si nascondeva
dietro l’apparente serenità offerta da una vita tranquilla e domestica, una vita famigliare molto
soddisfacente. Ma evidentemente anche le donne americane degli anni 50 non erano così felici
come la loro vita domestica faceva pensare e negli anni successivi all’uscita di questo libro, nel
1966 nasce il primo grande ed importante gruppo associazione di donne degli stati uniti: La
national organisation of woman. Il progetto di questa associazione era legato all’acquisizione
dell’uguaglianza delle donne con gli uomini attraverso riforme di tipo legislativo. Ci fu poi, nato
nel 1969 negli USA, un gruppo più radicale che si chiamava “movimento di liberazione delle
donne” composto da donne giovani che non volevano solo l’ugualità ma una rivendicazione e
rivisitazione dei ruoli maschili e femminili: lottavano per i diritti delle donne, per la sessualità
libera, per la legalizzazione dell’interruzione di gravidanza.
Esisteva dunque una, negli anni 70, quando questi due movimenti furono maturi, l’esigenza di
ricostruire il passato comune delle donne e molte femministe si rivolgevano alla storia per
legittimare la loro richiesta rivendicando l’esistenza di un protagonista femminile nell’ambito
degli elementi che costituivano la storia.

Fin dall’inizio degli anni 70 del 900, uno dei presupposti della storia delle donne è che non doveva
divenire una storia che si aggiungeva alla storia generale, bensì la storia generale doveva
cambiare e le donne dovevano essere inserite nel tessuto della storia generale.

Se dovessimo compiere una periodizzazione della storia delle donne, si può dire che ci sia stata
una esigenza prima di valorizzare la vita delle donne del passato soprattutto delle grandi donne,
una seconda fase in cui c’è stata la necessità di sottolineare l’importanza, la visibilità delle donne
comuni che non avevano parte nella storia, una terza fase in cui come vedremo è stata formulata
la categoria di genere in inglese Gender, una categoria declinata poi tenendo conto di altre
variabili: razza, classe, etnia, religione, preferenza sessuale.

Negli stati uniti la connessione tra movimento delle donne e studi di genere fu molto evidente.

Già all’inizio degli anni 70 nascevano le prime riviste di studi sulle donne che avrebbero avuto
un ruolo centrale nello sviluppo della storia delle donne. Nascevano infatti nel 1972 la rivista
feminist studies e nel 1975 la rivista Sain. Tutte e due queste riviste furono caratterizzate da
forte interdisciplinarietà, erano l’emblema di una pluralità disciplinare che stava al centro degli
studi sulle donne e dei dipartimenti di woman studies che tra la fine degli anni 60 e primi anni
70, nacquero e si diffusero nelle università americane, storiche e miste letterate, sociologhe,
antropologhe, storiche dell’arte si muovevano nell’ambito di questo laboratorio comune.

Solo a partire dalla metà degli anni 70, gli studio sulle donne si sono intensificati anche in altri
paesi, come vedremo tra poco anche in Italia.

Alla ricerca di nuovi concetti, come scrive la storica Ida Fazio, la storia delle donne “era nata per
contrastare l’epistemologia classica della storia che attribuiva al soggetto maschile caratteri di
universalità”.

Le esperienze delle donne non potevano essere analizzate e ripercorse in maniera separata. Era
infatti una esperienza interpersonale. Fu nel 1986 che Joan Scott, storica americana, scrisse un
saggio che sarebbe divenuto la pietra della storia di genere a livello internazionale. Il saggio si
intitolava “Gender e ussual category of historical analisis” tradotto in italiano: il genere: una
categoria utile di analisi storica. Il genere, una definizione che era già stata usata da Natalie nel
1976, indicava il modo in cui mascolinità e femminilità si costruiscono socio-culturalmente.
Questa categoria prendeva le distanze da determinismo biologico e dalla separazione fisiologica
che sono insiti nel termine sesso. Dunque, sesso indicava sesso femminile e maschile, indicavano
la differenza biologica ma non le differenze socioculturali.

Il genere invece, indicava proprio le differenze socio-culturali e questo apriva a nuove possibilità
di analisi del passato delle donne, attraverso una lettura critica di alcuni grandi temi: la famiglia,
la riproduzione, gli affetti, la politica, il lavoro, il rapporto con lo stato.

Il genere che è una categoria relazionale, si è mostrata molto fruttuosa nell’analisi delle relazioni
di potere tra uomini e donne in epoche storiche e contesti sociale, politici e religiosi in contesti
diversi. Anche le dinamiche di potere tra donne sono state ri-concettualizzate grazie alla
categoria di genere.

Audio 2

TERMINE GENERE: quando parliamo di genere, è fondamentale sgombrare il campo dalle


ideologizzazioni che negli ultimi anni sono comparse in Italia e soprattutto su quella
ideologizzazione che alcuni, alcune, esponenti del mondo cattolico, hanno operato indicando
una fantomatica teoria o ideologia del gender.

In realtà non esiste infatti una teoria del gender. Il genere è una categoria che è stata ed è usata
in modo fecondo, in molte discipline che ormai costituiscono l’ambito degli studi di genere. Non
si introduce una teoria dell’essere uomo o donna, quanto piuttosto, uno strumento concettuale
per poter pensare e analizzare le realtà storico-sociale delle relazioni tra i sessi in tutta la loro
complessità e articolazione. Senza comportare una definizione tra sessi, la categoria consente di
capire come non ci sia stato e non ci sia un solo modo di essere uomini o donne bensì una
molteplicità di esperienze varie nel tempo e nello spazio. Dunque il genere è un concetto
relazionale fondato sull’analisi e comprensione della costruzione della femminilità e mascolinità
in tempi e luoghi diversi.

L’adozione della categoria di genere ha prodotto una ridefinizione di alcuni importanti concetti
per comprendere la realtà storica. Uno di questi è il concetto di potere che si è rivelato uno
strumento di analisi importante per descrivere i mutamenti nella vita delle donne nel corso del
tempo. Infatti il potere ci aiuta a capire le dinamiche tra i generi (femm. Maschile) nell’ambito
della famiglia, lavoro, comunità, stato e globo. È un veicolo utile per capire le dinamiche dei
rapporti tra uomini e donne o solo donne in diversi contesti sociali. Se il potere viene spesso
definito come consenso di controllo o autorità o influenza sugli altri, nella prospettiva nella storia
delle donne, esso implica non tanto la capacità di esercitare potere sulle persone, ma la capacità
di esercitare forme di potere con altre persone. Quindi noi dobbiamo vedere ed immaginare il
potere non solo come il potere esercitato su qualcuno ma il potere da esercitare CON qualcuno.
Recentemente nell’ambito degli studi di genere si è parlato di un altro tema riguardo il potere:
il concetto di Empawerment: attribuzione del potere ad altri.

Un altro concetto di potere è quello della possibilità di esercitare poteri formali quindi codificati
e riconosciuti ma anche poteri informali nell’ambito della società, nella famiglia. Questi poteri
informali sono spesso stati esercitati dalle donne.

Oltre a potere, un altro concetto importante che è stato rivisitato grazie alle categorie di genere,
è il concetto di CITTADINANZA.

Nel 1953, un politologo dal nome Thomas Marshall, scrisse un trattato sulla cittadinanza e sui
diritti dicendo che l’acquisizione progressiva dei diritti di cittadinanza, procedeva con
l’avanzamento della modernità. Così il 700 era contrassegnato dall’accrescimento dei diritti
civili, l’800 dall’ottenimento dei diritti politici e il 900 dall’espansione della cittadinanza sociale.

Ma questa traiettoria lineare che vedeva prima acquisire diritti civili, poi politici e infine sociale,
era basata sull’esperienza maschile, trascurando il fatto che per le donne il percorso e la
successione dell’acquisizione dei diritti è stata molto diversa. Le donne infatti hanno spesso
acquisito prima i diritti sociali ad esempio il congedo di maternità o sussidi per le madri povere,
poi la pienezza dei diritti civili (le donne ancora all’inizio del 900 in molti paesi, non potevano
disporre di risorse materiali o beni immobiliari, non potevano testimoniare nei processi se non
avevano il consenso dei loro mariti o padri, quindi se non avevano quella che si chiama:
autorizzazione maritare.) era una società patriarcale in cui le donne non avevano diritti civili e
giuridici. Le donne hanno spesso ottenuto tardi anche i diritti politici, ciò il diritto di votare o di
essere votate, di poter essere elette. Per le donne non ci sono stati prima diritti civili, poi politici
e poi sociali. Questo percorso di è completamente rovesciato. Le donne in Italia hanno ottenuto
il voto nel 1945 ed hanno poi votato per la prima volta il referendum per decidere se l’Italia dopo
la guerra sarebbe stata una monarchia o repubblica nel 1946.
Un altro concetto importante che ha a che fare con la categoria di genere è il concetto legato al
rapporto tra sfera pubblica e privata: per tutto l’800 infatti ha dominato la concezione che ha
visto queste due sfere, come sfere separate. Una sfera pubblica attribuita agli uomini, che era la
sfera della politica, lavoro e socialità maschile. La sfera privata dedicata alle donne, la sfera della
famiglia, affetti e sentimenti.

In realtà queste due sfere non sono state per le donne così separate già nell’800 perché molte
donne erano gia`nell800 impegnate nei movimenti di emancipazione, in movimenti politici, a
favore dei poveri , per la tutela delle madri e movimenti contro la schiavitù. Dunque le donne in
realtà sono state dentro la sfera pubblica anche quando non avevano ancora diritti politici.

Importanza della categoria di genere che ci permette di rileggere molti conetti: potere,
cittadinanza, sfera pubblica e privata.

Ma la categoria di genere è stata anche oggetto di discussioni molto significative tra le storiche
e studiose di altre discipline.

A metà degli anni 2000, intorno al 2005 e 2006, sono state le storiche americane che negli anni
80 avevano elaborato la teoria di genere, a metterla in discussione chiedendosi: “Astrarre le
donne dalla storia in nome della categoria di genere, potrebbe avere l’effetto di tacitare le loro
vite reali?” cioè la categoria di genere può oscurare i percorsi, le esperienze, di tante categorie
di donne delle minoranze e in questo caso, il genere è ancora una categoria significativa di analisi
storica? Questo dibattito non ha avuto una vera conclusione anche se il risultato è legato alla
considerazione che il genere è una categoria significativa e dinamica per la storia e che
l’esperienza della donna non deve essere marginalizzata. Il significato di essere uomini o donne,
varia attraverso spazio e tempo e posizione sociale, inoltre mascolinità e femminilità sono
categorie complesse e non associate esclusivamente a corpi maschili e femminili.

Ad intrecciarsi con la categoria di genere, è la categoria di intersezionalità: questa categoria è


stata elaborata nel 1989 da una studiosa americana: Chimbery Cresciol (?). con questa categoria
si voleva sottolineare il sovrapporsi di sistemi multipli di oppressione e discriminazione,
indicando i diversi modi in cui le disuguaglianze vengono prodotte.
Dunque la categoria di genere viene intrecciata con razza, classe, etnia, orientamento religioso,
orientamento sessuale, disabilità, età e altre. La categoria di genere insieme alla categoria di
interzionalità, facendo interagire genere con razza, classe, etnia ecc, ci porta a potere
interpretare la società attraverso molte sfaccettature e ci permette di sottolineare l’esistenza di
differenze all0interno di gruppi o comunità solo apparentemente omogenee.

Quali sono le tematiche che sono soprattutto state affrontate nel passato e presente dalla storia
delle donne e di genere: Lavoro, la sessualità, la maternità, il parto, i corpi, le guerre, i
movimenti, il cibo (alimentazione), l’emigrazione, donne e uomini nell’ambiente, i femminismi,
la storia delle emozioni e sentimenti, rapporti tra movimenti sociali ed istituzioni, il colonialismo
e gli studi sulla mascolinità.

Un altro aspetto importante, è che il concetto di genere oltre che con la categoria di
interzionalità, si deve relazionare alla storia globale e tra storia transnazionale. La storia globale
infatti ci permette di mantenere una visione amplia e indica una grande importante sfera di
tematiche di cambiamento e connessioni nel tempo.

La storia transnazionale si concentra sullo spostamento di persone, idee che interagiscono, su


incontri tra gruppi e movimenti che vivono lontani tra loro ma sono in grado di individuare punti
di contatto e creare nuove forme di pensiero e azione.

Altro tema importante è la costruzione della mascolinità. Questi sono studi che partono dalla
concettualizzazione del genere e che sono nati negli anni 90 del 900.

Sono nati nei primi anni 90 del 900 dall’idea che si stesse assistendo ad una crisi della mascolinità
e che fosse necessario mettere in discussione alcuni principi chiave della cultura intellettuale
maschile a partire dal potere, sessualità e concetto di identità.

Al fondo di questi studi, sta una domanda che è ancora di grande attualità: in che modo la
categoria di mascolinità a forgiato le società, la cultura politica e moderna e la cittadinanza?

È molto importante decostruire gli stereopiti, legati alla mascolinità e alle loro forme. Gli uomini
di solito sono considerati forti e coraggiosi, le donne sono considerate più fragili e volitive. Questi
stereopiti sono stati completamente decostruiti perché sia donne che uomini sono coraggiosi,
possono essere aggressivi, violenti, possono essere fragili, possono essere tutti sentimentali.
Quindi in realtà non si devono categorizzare uomini e donne secondo stereopiti. Questo ci aiuta
a capire come la mascolinità e la femminilità si sono costruite nel tempo aldilà degli attributi con
cui sono state identificate.

Audio 3

Accenni all’Italia, alla storiografia Italiana.

In Italia questo percorso è stato più lento anche se ci sono stati lavori pioneristici negli anni 60.
Nel 1963 Franca Pieroni Bortolotti ha pubblicato “alle origini del movimento femminile in Italia”
e Paola Gaiotti De Biase “Le origini del movimento cattolico femminile”. Erano le prime a
mettere al centro il soggetto storico femminile. Solo negli anni 70, nel 1975, sarebbe nata la
prima rivista in Italia di studi di genere di “WF” Donna nelle diverse lingue. Una rivista
concentrata sul pensiero politico della donna e aveva un forte carattere interdisciplinare.

Più tardi, nel 1981, è nata la rivista Memoria. La prima rivista della storia delle donne durata 10
anni. L’idea era quella di trasporre la pratica politica femminista in un metodo storiografico che
mettesse in discussione le pretese universali, generalistiche, neutre, della storia raccontata dagli
uomini, queste riviste furono capaci di far conoscere in Italia, quello che le storiche degli altri
paesi stavano elaborando.

Nel 1987, introdotto da Paola Di Cori, veniva pubblicato anche in Italia il saggio di Joan Scott
sulla categoria di genere. Questa categoria diveniva oggetto di dibattito e attribuzione di
significato anche se le storiche italiane non riuscivano a fare delle proprie interpretazioni
originali, rimanendo piuttosto sulla scia delle storiche statunitense.

Al centro di vari dibattiti c’era la questione dei rapporti di potere e il loro modo di essere
concettualizzate. Con la precisa volontà di smontare il modello ormai obsoleto di dominio
subordinazione. Dominio maschile che ormai era superato perché non valorizzava abbastanza
l’azione e la soggettività delle donne in molti ambiti: lavoro, famiglia, politica, economia,
socialità. Questa dinamica non avrebbe fatto vedere e valorizzato il ruolo di leadership delle
donne. Nel 89 nasceva la società italiana delle storiche che si propone di valorizzare soggettività
femminile e presenza delle donne nella storia, di fornire chiavi di lettura con particolare
riferimento al genere. Propone inoltre di rinnovare la ricerca e insegnamento e di promuovere
il patrimonio culturale delle storiche in modo da modificare la trasmissione dei saperi sono
maschili, contribuendo una cultura che intrecci parità e di differenza.

Proprio la valorizzazione della soggettività e riconoscimento dell’importanza di legame tra


soggetto e oggetto della ricerca, sembrò distinguere la storiografia italiana sulle donne. Le socie
delle storiche italiane sarebbero state scientifiche, ricercatrici universitarie, insegnanti,
bibliotecarie, studentesse…donne che svolgevano attività di ricerca nell’ambito delle discipline
storiche. L’anno successivo nel 1990, sarebbe stata creata la scuola estiva della storia delle
donne. Inoltre nel 2002 la società delle storiche ha fondato la rivista “Genesi” che esiste ancora
e la società insieme alla casa editrice Viella ha creato una collana proprio dedicata alla storia
della donne con i primi volumi pubblicati nel 2013.

LEZIONE 2

MOVIMENTI DELLE DONNE.

Movimenti e non movimento, perché i movimenti sono stati molteplici in diverse aree del globo
e hanno attraversato un tempo lunghissimo. I primi movimenti delle donne risalgono all’800.
Secolo delle donne è la definizione spesso attribuita al 900. In quel secolo non solo si è concluso
il percorso attraverso cui le donne occidentali (mi raccomando, riguarda solo le donne
occidentali) grazie ai movimenti suffragisti femministi hanno acquisito i diritti di cittadinanza
politica, civile e sociale. Hanno inoltre affermato il loro protagonismo sulla scena pubblica
infrangendo la categoria 800 europea e americana di sfere pubbliche e private. Poiché le donne
erano prive di fondamentali diritti giuridici, la rivendicazione dei diritti di cittadinanza fu la base
delle battaglie e movimenti suffragisti, femministe. Movimenti segnati da una eliminabile
contraddizione. La rivendicazione dell’uguaglianza e differenza, riconoscimento dei diritti
universali e specificità femminile. Questi temi erano ben presenti alle teoriche dei primi
movimenti delle donne. Da Oimpid De Gus (francese), che nella sua dichiarazione per i diritti
della donna e cittadina, prese al modello la dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 ( quello
risultato della rivoluzione francese) sostenne l’uguaglianza politica e sociale. Fino al gruppo di
donne statunitensi che si riunirono nel 1848 e che rivendicarono per la prima volta il diritto di
voto nella “declaration of sentiment” che si richiamava alla dichiarazione di indipendenza
americana del 1776 in cui si leggeva “si delibera che è un dovere delle donne di questo paese,
assicurarsi il diritto al voto”.

Tra il 1820 e il 1840, sia in Inghilterra che in Francia, le prime rivendicazioni si concentrarono
sulle disuguaglianze e sul ruolo subordinato delle donne (non tanto sul diritto di voto)
soprattutto nell’ambito della famiglia e matrimonio. Inoltre come negli stati uniti il movimento
suffragiste femministe si sviluppò in stretta relazione con il movimento per l’abolizione della
schiavitù, in Europa i primi movimenti femministi si affermarono spesso in connessione con i
movimenti democratici nazionali. Fu a partire dalla 2 metà dell’800 che anche in Europa, i
movimenti e associazioni di donne cominciarono ad assumere connotazione di fenomeni di
massa legandosi ad alcuni partiti in particolare a quello socialista.

In Italia 2 storiche suffragiste sono Annamaria Mozzoni e Anna Culishof (autrice della legge sul
lavoro delle donne e dei bambini del 1902) coniugarono femminismo e socialismo, anche se i
rapporti tra partiti e movimenti politici con suffragismo fu spesso difficile e costrinse spesso il
movimento delle donne a ridefinire obiettivi e tattiche.

Se verso la fine dell’800 si verificò una accelerazione dell’azione suffragista per il suffragio per
voto delle donne, la mobilitazione delle donne assumeva una connotazione generale che aveva
come obiettivo il voto ma non solo quello. Vi furono infatti un vasto coinvolgimento da parte di
molte donne sulla partecipazione di questioni sociali: lotta prostituzione, violenza sulle donne,
rivendicazione di una autonomia rispetto ad una sfera riproduttiva sessuale, tema cittadinanza
e lotta contro codice civile e impegno nel campo della riforma sociale. Il nuovo protagonismo
femminile trovava anche nuovi modi di espressione: stampa, petizione, conferenze, riunioni,
esposizioni, divennero elementi indispensabili per affermare la presenza pubblica delle donne.

Tra la fine dell’800 e la prima guerra mondiale, il diritto di voto divenne l’elemento centrale della
battaglia dei movimenti delle donne e le suffragiste americane ed inglesi furono le principali
protagoniste delle campagne per l’acquisizione dei diritti politici, nel primo decennio del 900, le
donne entrarono in misura crescente nel mercato del lavoro, tanto che negli stati uniti le donne
retribuite rappresentavano il 21% della forza lavoro del paese. Il voto aveva importanti relazioni
in questi cambiamenti in quanto veniva considerato da molte come la condizione per la
realizzazione dell’uguaglianza e dei diritti nella vita pubblica e privata. Negli stati uniti nel 1869,
erano nati due movimento a sostegno del voto femminile: la national assistation for woman
suffrages (associazione nazionale per il voto delle donne) e la American Woman Suffrage
assosation (associazione americana per il voto femminile) che si fusero insieme nel 1890 nella
national american woman suffrages assosation (associazione nazionale americana pe il voto
delle donne). Queste avviarono una forte campagna di mobilitazione a livello statale e nazionale
che avrebbe dato i suoi frutti solo dopo la prima guerra mondiale.

Non soltanto dal 1916 il suffragio femminile entrò nelle piattaforme politiche dei partiti
repubblicano e democratico, ma dal 1917 il movimento suffragista trasse beneficio dal sostegno
visibile che le donne offrirono allo sforzo bellico nelle fabbriche di munizione così come nella
burocrazia governativa soprattutto nel dipartimento della guerra.

Il 26 agosto del 1920, il 19 emendamento che dava diritto di voto a tutti gli americani adulti
senza distinzione di sesso, diveniva parte della costituzione degli americani del nord e 26 milioni
di donne potevano andare a votare. In Inghilterra il 6 febbraio 1918 le donne sopra i 30 anni
ottenevano (representation of the people act) il voto grazie alla legge che attribuiva il voto alle
donne e nel 1928 avrebbero potuto votare alla stessa età degli uomini. Prima della prima guerra
mondiale, in alcuni paesi dell’unione europea era stato introdotto il diritto di voto delle donne
(in Finlandia 1906 , Norvegia 1913) e in alcuni stati degli stati uniti (California 1911, Arizona
1912), la fine del conflitto costituì la prima tappa per la concessione dei diritti politici delle
donne che ottennero il voto in Germania, paesi bassi e Lussemburgo nel 19. In Canada nel 1920,
in Svezia nel 1921 e in spagna nel 1931. In molti casi non furono i diritti politici ad essere
conquistati per prima. La storia delle donne con la sua enfasi sulle donne nel rapporto con lo
stato, sul tema della cittadinanza femminile, sulla revisione del tema politico delle donne spesso
costrette a lavorare nelle strutture pubbliche, a ribaltare la gerarchia proposta da Marshall
rispetto ai diversi gradi di cittadinanza, poiché l’acquisizione dei diritti sociali (protezione
maternità donne e divieto lavoro notturno delle donne ) è stata precedenze all’acquisizione del
diritto di voto.

Parallelamente al movimento suffragista, si svilupparono negli USA e in europa altri movimenti


femministi con il tratto comune che consisteva nel tratto maternale femminista e di pretendere
il riconoscimento della sua funzione sociale da parte dello stato.

In Italia, il movimento emancipazionista, fu fin dagli anni 90 dell’800, abbattersi per una
normativa a tutela della maternità che si concretizzò nella legge del 1902 e poi in quella correlata
nel 1910 ( istituì la cassa nazionale di maternità).

Molti delle appartenenti a quel movimento, erano intellettuali ebree con collegamenti
internazionali e conoscevano istituzioni tedesche, francese, inglese e americane, attraverso
viaggi, pubblicazioni e comunicazioni dirette. Le promotrici italiane a favore delle donne,
tennero conto dell’esperienza di altri paesi nell’ambito di una fase di grande circolarità di
esperienze spesso concretizzatosi in conferenze internazionali come quella di washinton.

Nei primi 2 decenni del 900, misure di questo tipo furono accordate in Francia, Germania,
Inghilterra e paesi scandinavi. Se i diritti politici e sociali erano nell’agenda delle donne, avevano
importanza anche i diritti civili: in molti paesi le donne non potevano fare contratti, disporre del
proprio salario, non potevano avere custodia di figli.

Il codice Pisanelli in Italia, rimase in vigore fino al 1919 e riaffermava la predominanza della
capacità giuridica del marito sulla moglie.
Nel 1932, il fascismo impedì alle donne di ricoprire la carica di preside della scuola media e di
1936 di insegnare storia, filosofia ed economia alle superiore, nel 1934 di accedere a concorsi
pubblici e nel 1938 una legge del fascismo imponeva all’amministrazione pubblica e privata un
limite del 10% nell’assunzione di personale femminile. Nei primi decenni del 900 anche il
movimento delle donne per la pace ebbe notevole importanza per il suo motivo transazionale.
Il 28 aprile 1915 circa 1000 donne provenienti da paesi in guerra con quelle di paesi neutrali, si
riunirono in Olanda per protestare contro la guerra e per cercare di porvi fine impostando delle
le basi porre una pace per sempre. Fu inventata la Women internacional league for peace and
freedom, le cui fondatrici furono donne dell’internacional suffrage alleance, che vedevano una
forte connessione per l’uguaglianza dei diritti con quelli per la pace. Il primo congresso fu a
Zurigo nel maggio 1919 e le donne presenti vi affermarono la loro volontà di ottenere ruoli
nell’ambito dei processi decisionali poiché questo era un fattore essenziale per la pace nel
mondo.

Nel periodo tra le due guerre sembrò che se i movimenti delle donne, da una parte il suffragio
in alcuni paesi e dall’altro i regimi delle dittature che affermavano i caratteri tradizionali,
segnavano crisi; ma era tuttavia possibile scorgere segnali in quanto c’erano vere caratteristiche
di distinzione all’interno di una famiglia e di un pubblico che si erano radicalmente inclinati a
causa di cambiamenti di vita politica, sociale e famigliare e avrebbero dato inizio ad una seconda
ondata di movimenti femministi a partire dagli anni 60.

LEZIONE 2

SECONDA ONDATA DEL FEMMINISMO.

È il femminismo avviato negli anni 60. Nacque negli stati uniti (libro di Betty “Mistica della
femminilità” che fu l’emblema della nascita del femminismo). Nel 1966 nacque negli stati uniti
l’organizzazione nazionale delle donne che era composta soprattutto da donne giovani ma
adulte. L’organizzazione rivendicava l’uguaglianza tra uomini e donne in tutte le istituzioni
formalizzate e combatteva contro le leggi discriminatorie nei confronti delle donne. Non fu però
l’unico riferimento del movimento delle donne negli anni 60. Si sviluppò da parte di donne più
giovani e radicali, un diverso gruppo che si espanse a livello nazionale: “movimento per la
liberazione della donna”. Questo movimento, a differenza dell’altro, non sosteneva soltanto
l’uguaglianza dei sessi bensì una politica radicale e separatista che attrasse soprattutto le donne
giovani molte delle quali erano state attive nel movimento contro la guerra del Vietnam e degli
afro americani per i diritti civili. Questa corrente più radicale, sfidava le definizioni di pubblico e
privato e metteva in discussione i confini tra vita politica e vita personale. Sosteneva il bisogno
delle donne e la solidarietà di gruppo, come necessaria per l’azione politica concentrandosi sul
cambiamento della vita personale, sociale e culturale e attaccando la struttura di potere
maschile dominante. I suoi obiettivi erano centrati sulla questione del lavoro domestico non
riconosciuto, sulla messa in discussione dei canoni tradizionali della bellezza, sui diritti
riproduttivi e quindi sulla richiesta della legalizzazione dell’interruzione della gravidanza, contro
violenza sessuale e centri per coloro che avevano sofferto di violenza, e una messa discussione
della sessualità e del potere maschile.

Questi gruppi che facevano parte della liberazione della donna, crearono al loro interno gruppi
di altri aiuti e protestarono al concorso di miss bellezza America, bruciarono per le strade oggetti
come reggiseni che venivano definiti come oggetti di cultura contro la volontà di un corpo
liberato. La parola d’ordine del movimento fu il personale è politico. Uno slogan che permise
alle donne di costruire le basi tra di loro e di unirsi collettivamente.

Sia il movimento per la liberazione, sia la national organization of women, usarono tecniche
diverse per battersi per i loro obiettivi. Mentre la national organisation of women utilizzò
tecniche tradizionali, il movimento per la liberazione della donna, utilizzò altre tecniche come
per esempio gruppi di autocoscienza in cui le donne parlavano di loro problemi con l’obiettivo
di far crescere nelle donne la consapevolezza della propria situazione (parlando tutto tra donne).
Le donne che facevano parte di questo movimento, misero in atto azioni provocatorie colorate
per rendere pubbliche le loro posizioni, creando teatri di strada, recitando poesie e canzoni e
molti slogan. Molte donne testimoniarono la loro esperienza di aborto illegale: una tattica molto
efficace nel favorire i cambiamenti nella coscienza di massa. Nell’arco di pochi anni, milioni di
donne americane capirono e usarono un nuovo linguaggio: sessismo, genere. Il movimento
femminista che si sviluppò con varie fasi e caratteristiche in tutto il mondo occidentale, ebbe
come obiettivo non solo l’emancipazione delle donne e il raggiungimento di una uguaglianza
politica e giuridica, ma la loro emancipazione da un sistema di tipo patriarcale che nell’ambito
famigliare aveva giustificato la loro posizione subordinata. Non si trattò di un movimento
omogeneo poiché molte furono le differenze delle femministe a causa della cultura del loro
paese e contesti socioculturali politici. Diverso fu anche il significato attribuito a femminismo e
liberazione della donna.

In Italia il movimento femminista si rese visibile nel periodo compreso tra 1969 e 1971, sebbene
negli anni precedenti vi fossero state alcune anticipazioni. Tra il 1970 e 1973 nacquero in molte
città italiane i primi gruppi collettivi femministi spesso con connotazioni diversi tra di loro. Gli
anni con maggiore visibilità furono segnati da manifestazioni per l’aborto soprattutto tra 1975
e 78, mentre negli anni successivi iniziò una parabola discendente dovuta anche da una nuova
generazione di femministe provenienti dai gruppi della sinistra extra parlamentare e portatrici
di una politica differente. In seguito alla mobilitazione delle donne, sarebbero state approvate
norme per accogliere le istanze di uguaglianza giuridica di politica e sociale tra uomini e donne
(negli USA ed Europa).

In Francia nel 1965, una legge emancipò le donne dalla tutela maritale e fu perfezionata con le
leggi del 1975 che prevedevano il divorzio, adulterio e parità dei coniugi del patrimonio
famigliare.

In paesi come Italia, Portogallo, Spagna e Grecia, gli anni 75 e 80 furono gli anni di rivalutazioni
di leggi di riforma che affiancavano le donne dalla tutela maritale grazie ad un nuovo diritto di
famiglia. In Italia nel 1975 la legge sul nuovo diritto di famiglia fu approvata e ciò significava per
la prima volta che uomini e donne avevano la parità nel matrimonio.

A partire dalla fine degli anni 70 e soprattutto dall’inizio degli anni 80, la spinta dei movimenti
delle donne sarebbe calata.

Fu, a partire dal 1975, che a rivitalizzare i movimenti delle donne e a connetterli con i movimenti
delle donne del sud del mondo (non soltanto quindi i movimenti occidentali ma delle donne
dell’africa ed asia), furono le conferenze internazionali per i diritti delle donne organizzate dalle
nazioni unite (ONU).

Queste conferenze internazionali scandirono quello che l’Onu dedicò alle donne (1975-1985).

Le principali furono:

La conferenza di Messico City 1975

La conferenza di Copenaghen 1980

La conferenza di Naerobi 1985.

In queste conferenze, molto interessanti, partecipavano delegazioni ufficiali nominate dai


governi e si riunivano anche se raramente, i forum delle donne, delle organizzazioni governative
e dei gruppi delle donne non nominate dai governi.

In queste conferenze, organizzate dall’Onu, emersero i temi dell’uguaglianza, dello sviluppo e


della pace.
Una nuova conferenza: Di Vienna del 1993. In questa conferenza organizzata dall’Onu, i diritti
delle donne e bambine furono definite come “parte inalienabile, integrale e indivisibili dei diritti
umani universali”. Quindi i diritti umani furono al centro del movimento delle donne dagli anni
60 e la conferenza di Vienna del 93 sollecitò la mobilitazione delle donne a livello locale,
nazionale e internazionale contro la violazione dei diritti e diritti umani delle donne.

Molti dei temi della conferenza di Vienna furono presi e rafforzati nell’ambito della conferenza
organizzata dall’Onu a Pechino nel 1995.

La conferenza assimilò il tema dell’uguaglianza dei sessi ai diritti umani e coniò due nuovi
concetti: attribuzione di maggior potere alle donne e profonda trasformazione della cultura di
governo, sociale per inserire nell’asse culturale principale di ogni paese, la prospettiva di genere
valorizzando il tema delle risorse femminili. Attribuire potere alle donne e parità in tutti gli
aspetti sociali nel mondo. Furono inoltre trattati il tema dell’istruzione, impoverimento delle
donne nelle zone rurali, peggioramento della salute, crescita mortalità infantile e sostegno che
le donne potevano fornire.

Fu inoltre annunciato con forza la violenza alle donne, spesso vittime dell’adesione a riti collettivi
consentiti solo dalle consuetudini e dagli usi locali; primo tra tutti la mutilazione genitale che
veniva praticata in molte zone dell’africa.

In questi anni, a partire dal 1975 in avanti dalle conferenze dell’Onu, si organizzarono molti
gruppi a favore delle donne e dei diritti umani. Per esempio: “La madres de plaza de mayo”, nate
in Argentina nel 1979 che hanno puntato sul valore della maternità politica. Queste donne
protestavano e rivendicavano nei confronti del governo argentino, il diritto di sapere dove erano
spariti i loro figli durante la dittatura.

Lo stesso contro i desaparecidos, per avere una chiarezza su le morti e sparizioni dei figli si
mobilitarono le madri in brasile, Honduras e Guatemala. In africa le donne si mobilitarono con
forza a favore della salute delle donne soprattutto a partire degli anni 90 con diffusione dell’HIV
(infezione che poteva essere mortale).

Negli anni 2000, le donne hanno cercato nuove modalità di azione e nuove alleanze. Negli Stati
Uniti si sono alleate per esempio donne nere, bianche ed asiatiche, donne indiane, ispaniche,
rurali, urbane, perché volevano che i loro problemi privati divenissero di pubblico interesse.

Nell’aprile del 2004 a Washinton, un gruppo multi etnico di donne hanno creato la marcia per la
vita delle donne e hanno chiesto diritti riproduttivi, hanno combattuto contro l’uso non
adeguato delle armi. Hanno cercato di sostenere il diritto alla salute, di scelta, la libertà su scala
globale riproduttiva.

Le organizzazioni femminili, a partire dagli anni 2000, si sono sempre più focalizzate su un’agenza
non tanto nazionale quanto internazionale. La globalizzazione ha portato il femminismo a
guardare ai propri diritti in termini globali.

Il femminismo del terzo millennio ha mostrato molte sfaccettature nei paesi occidentali e in via
di sviluppo. Il femminismo storico, quello bianco di donne religiose ed eterosessuali, si è molto
trasformato grazie all’incontro di movimenti diversi di paesi di africa e asia che si sono abbattuti
per temi diversi come il fondamentalismo religioso, per la libera emigrazione delle donne contro
il colonialismo e il neo colonialismo culturale che molti paesi occidentali hanno applicato ai paesi
dell’africa e asia esportando i loro valori culturali.

Dunque questi femminismi del terzo millennio, sono stati femminismi che hanno creato diversi
rapporti tra donne e altri modi di essere donne e femministe. Nell’ultimo decennio, si sono
molto legati i femminismi del nord e sud del mondo quindi occidentali e di matrice diverse come
il femminismo islamico.

Sono nati quindi nuovi tipi di femminismo anche nei paesi islamici che hanno rivendicato una
nuova e moderna soggettività musulmana in opposizione al femminismo occidentale
generalmente di stampo laico.

Molti sono i gruppi nati negli ultimissimi anni: movimenti come “Me- tu” contro la violenza
sessuale e di genere o black likes better (sempre negli stati uniti) è un movimento in gran parte
legato da donne afro americane contro la brutalità della polizia contro gli afro americani.

Dopo le elezioni di Trump nel 2016, nel gennaio del 2017, molte donne americane si sono
organizzate in una marcia delle donne, per opporsi all’amministrazione Trump e alle sue
politiche conservatrici e contro i valori maschili e fortemente sessisti enunciati dal presidente.

Prima ondata: 800-900

Seconda ondata: anni 60

Terza ondata: 2000

Quarta ondata: recentissima. Viene chiamata Family Organising. Esprime un concetto dinamico
che non riguarda solo le singole femministe dentro e fuori la politica, ma anche i mutamenti nel
tempo in relazione alle diverse opportunità politiche. È vista come qualcosa non di stabile ed
istituzionalizzato ma di continuo mutamento, in grado di cambiare ogni giorno le proprie
pratiche politiche.

Non c’è più quindi una ondata di femminismo, anche se sono esistite effettivamente.

Possiamo usare categorie più fluide con un femminismo non più organizzato ma molto più
quotidiano poiché esistono gruppi più piccoli, sconfitti e successi ma mai un vero declino o
trionfo del femminismo.

I movimenti che fanno riferimento a feminist organising rivendicano i diritti delle donne, le
politiche di genere ma anche la giustizia sociale per uomini e donne.

LEZIONE 3

IL LAVORO DELLE DONNE TRA PASSATO E PRESENTE: L’OCCIDENTE

RAPPORTO TRA DONNE E LAVORO.

LAVORO DONNE NEI PAESI OCCIDENTALI E NEL SUD DEL MONDO.

Lavoro femminile: alcuni dati sull’oggi e su le percentuali di lavoro femminile in Italia:

le donne in Italia lavorano meno degli uomini. Tra 15 e 64 (l’arco di tempo della vita attiva
rispetto al lavoro) lavora il 49,5 delle donne e 67,6 percento degli uomini: secondo i dati del
centro di studi di investimenti sociali, un istituto di ricerca socio-economica nato nel 1964 che è
sempre aggiornato sui tassi di occupazione.

L’Italia con il 49, 5 percento di femminile, è uno dei paesi europei con il tasso più basso (il
penultimo europeo dopo c’è solo la Grecia) anche la disoccupazione femminile è più alta per le
donne che per gli uomini e anche la disoccupazione femminile (per le donne giovani 15-24).

L’occupazione femminile quindi in un paese come il nostro (occidentale ed industrializzato) è


bassa. E riflette la mancanza di servizi e di asili nido sufficienti pubblici per il bisogno delle donne
lavoratrici. Su questi tassi c’è differenza tra Italia tra nord e sud. Al nord ci sono molti più servizi
con maggiore occupazione nel nord e centro rispetto al sud.

Quindi molto importante è la MANCANZA DEI SERVIZI CHE PORTANO LE DONNE A NON
ENTRARE IN MISURA DEL MERCATO DEL LAVORO.
DISCRIMINAZIONE SALARIALE: gender gap (divario salariale tra uomo e donna) sempre stato
amplio nella storia. All’inizio del 900 in Italia c’era differenza tra 40 e 50 percento. Oggi in Europa
è del 16,3 %. L’Italia contrariamente dai dati dell’occupazione, ha una buona posizione in Europa:
tra uomo e donna c’è solo un 5% di differenza tra il salario tra donna e uomo. Ovviamente è una
cosa molto buona per noi.

3 punto: QUANDO SI GUARDA LA STORIA DELLE DONNE IN RAPPORTO AL LAVORO, BISOGNA


SFATARE UN PREGIUDIZIO SECONDO IL QUALE ILLAVORO DELLE DONNE È STATO UNA
CONSEGUENZA DELLA MODERNITÀ.

In realtà le donne hanno sempre lavorato sia all’interno che all’esterno della sfera domestica.
Quello che è vero è che per i secoli passati, soprattutto 700 e 900, è difficile avere certezze
numeriche su la percentuale di lavoro femminile perché le donne che lavoravano
nell’agricoltura, il loro lavoro era considerato una parte dei compiti delle donne rispetto alla
economia famigliare. Quindi molte donne che lavoravano nell’agricoltura in tutti i paesi (sia
europei sia USA) non si percepivano come lavoratrici agricole bensì lavoravano per sostenere
l’economia della famiglia.

Quindi c’è stato per molti decenni, secoli, una scarsa percezione delle donne rispetto al proprio
lavoro e del lavoro delle donne. È stato sempre svalutato il lavoro domestico, quindi il lavoro
che le donne compiono a casa.

Quarto punto: STORICAMENTE SEMPRE È ESISTITA UNA SEGREGAZIONE DELLE DONNE IN


ALCUNI LAVORI E CONTESTI SPECIFICI.

C’è sempre stato quindi, una ghettizzazione del lavoro femminile in quei lavori considerati più
adatti per le donne.

Quinto punto: IL RAPPORTO TRA MATRIMONIO E MATERNITÀ E LAVORO FEMMINILE.

Tra 800 e 900, in generale in tutto il mondo occidentale, le donne lavoravano fin che non si
sposavano o facevano il primo figlio. Quindi sia per le operaie sia per alcune donne in professioni
come maestre ed insegnanti, matrimonio e maternità coincidevano con il licenziamento da parte
di aziende oppure con un abbandono del posto di lavoro. Questo perché fino al 900 sono state
molte pochje le leggi di tutela per le lavoratrici madri. L’Italia è stato uno dei primi paesi che ha
protetto e tutelato le donne lavoratrici. La prima legge sul lavoro delle donne (congedo di
maternità) è stato nel 1902 e poi la legge sulle casse di maternità (previdenza per le donne
quando andavano in maternità e potessero assentarsi dal lavoro ricevendo un sussidio di
maternità nel 1910, in molti paesi sono stati molto più tardivi su questi leggi).

Sesto punto: GENERALMENTE HA PREVALSO IN TUTTI I PAESI EUROPEI UN APPORCIO AL


LAVORO DELLE DONNE CHE SI È BASATO SUL MODELLO DEL CAPO FAMIGLIA MASCHIO.

In genere, si è cercato di favorire l’occupazione maschile. I maschi sono sempre stati considerati
coloro che dovevano essere i capi famiglia. Chi porta il pane a casa (sociologi inglesi dicono così).
Ha fatto si che donne e uomini siano stati sempre in concorrenza sul mercato del lavoro e si è
cercato di favorire il lavoro maschile soprattutto nei periodi di crisi.

STORIA DEL LAVORO FEMMINILE.

EPISODIO IMPORTANTE E DRAMMATICO ACCADUTO IL 25 MARZO DEL 1911 (sabato


pomeriggio) in una fabbrica di abbigliamento di new york, scoppiò un incendio.

C’erano al lavoro 500 persone, la maggior parte erano giovani donne e donne migrate
soprattutto dall’est europa (russe, italiane ed altre nazionalità). Quella fabbrica di confezioni di
abbigliamento di new york, era stata al centro delle rivendicazioni delle donne per l’abolizione
del lavoro notturno, per aumento dei salari negli anni precedenti. Queste donne si erano
organizzate in un sindacato per chiedere migliori condizioni sanitarie, salari più alti, salario più
alto e meno ore di lavoro (ricordiamo che nel 900 c’erano uomini e donne che lavoravano anche
12 o 14 ore al giorno).

Questi scioperi e richieste, erano state molto richieste soprattutto a partire dal 1909 e quella
fabbrica era stata molto attiva.

Quando scoppiò l’incendio, nel marzo morirono 146 lavoro (143 donne e 3 uomini) perché i
proprietari della fabbrica, gli imprenditori, avevano chiuso a chiave le porte dall’esterno per
impedire che le operaie potessero scioperare e venire a contatto con sindacaliste o andare nei
bagni senza chiedere ai caposettori. Queste persone morirono soffocate e bruciate. Fu un
grande incidente industriale e durante il corteo funebre, una sindacalista che era una giovane
immigrata, pronunciò delle parole molto forti: “Questa non è la prima volta che molte donne
sono bruciate vive in città. Ogni anno molte di noi vengono mutilate. La vita di donne e uomini
vale così poco. So per esperienza che compito dei lavoratori è salvarsi. L’unico modo che hanno
per salvarsi è attraverso un forte movimento operaio”. Era un grande incitamento alle donne a
sindacalizzarsi per difendere i propri diritti. Bisogna cercare di allontanare lo stereopito che vede
le donne meno pronte a sindacalizzarsi rispetto agli uomini perché nel 1919 le lavoratrici
organizzate negli USA erano il 40% dell’intera forza lavoro femminile (una percentuale amplia).

Questa storia drammatica è molto indicativa anche dell’indicazione del lavoro delle donne nel
900. Questo episodio è stato spesso citato come inizio della festa dell’8 Marzo (la giornata
internazionale dedicata alle donne). In realtà non è così certo che sia questo l’episodio che è
stato alle origini della giornata, perché nel 1907 erano state le donne socialiste riunite a
Stoccarda, a promuovere una giornata internazionale delle donne proposta fatta da donne
socialiste nel febbraio del 1909 e di nuovo nel 1910 in una conferenza delle donne socialiste a
Copenaghen. Tra 19011 e 1915, vennero celebrate le giornate internazionali delle donne in varie
città europee (Parigi, Berlino, Vienna).

La prima volta in cui l’8 Marzo fu celebrato fu nel 1917 a San Pietromburgo perché le donne della
capitale della Russia, guidarono una grande manifestazione che rivendicava la fine della prima
guerra mondiale. Quella manifestazione fu vista come l’inizio della rivoluzione sovietica.

In Italia, per la prima volta, la giornata delle donne venne festeggiata nel 1945 quando la guerra
non era ancora finita, nelle zone liberate dal nazi-fascismo. L’episodio delle donne che nel 1911
persero la vita a new york e l’8 marzo perché la giornata internazionale delle donne la pensiamo
come giornata di festa ma dobbiamo tener conto che i diritti che hanno acquisito le donne
soprattutto nei paesi occidentali sono il frutto di una storia molto complicata e dolorosa.

Il lavoro femminile è stato sempre un elemento che ha visto le donne svantaggiate sul mercato
del lavoro e con poche tutele fino ad anni molto recenti.

Audio 2

LAVORO FEMMINILE A PARTIRE DAL 900 NEGLI STATI UNITI, EUROPA E ITALIA.

Alla fine dell’800, circa 1890, negli USA il 19% delle donne oltre i 16 anni faceva parte della forza
lavoro. Di queste donne lavoratrici, il 68% non era sposato, il 18% era vedova o divorziata e
soltanto il 14% erano coniugate. Un numero delle sposate che sarebbe aumentato nel corso dei
decenni.
Secondo il censimento statunitense del 900, circa 5 milione di donne lavoravano come salariate
fuori casa, circa il 20% delle donne e nel primo decennio del 900, le donne costituivano la metà
della manodopera del tessile e tabacco mentre nell’abbigliamento superavano il numero degli
uomini. Le donne nere lavoravano in una percentuale maggiore delle bianche, perché i salari
degli afroamericani erano più bassi rispetto a quelli degli uomini bianchi.

Si calcola che dopo la conclusione della prima guerra mondiale, la forza lavoro non agricola, negli
stati uniti, raggiungeva i 7 milioni e mezzo di donne. La maggior parte di queste lavoratrici erano
bianche e giovani, non sposate e tendevano a concentrarsi nella produzione tessile, delle
calzature, abbigliamento e accessori (cappelli, guanti) erano inoltre impiegate nei lavori
stagionali (raccolta frutta e verdura, imballaggio della carne, industria sigari). Sia negli USA sia
nei paesi europei, molte donne lavoravano nei luoghi di tabacco poiché avevano le mani piccole
e venivano ritenute adatte a svolgere questo lavoro.

Un fenomeno importante esistente sia negli USA sia in Europa, tra fine 800 e inizio 900, era il
lavoro a domicilio. Molte donne lavoravano a casa molte ore al giorno, nelle imprese di tabacchi,
fiori artificiali e lavoravano facendosi aiutare dai figli piccoli che ovviamente non andavano a
scuola e venivano pagate pochissimo. Era un lavoro a domicilio che veniva retribuito alle donne
dalle aziende. Quindi c’è un concentrarsi delle donne in tutti i grandi paesi europei e USA in
agricoltura e industria, con una percentuale di lavoro svolto a domicilio.

Un caso a parte erano le donne immigrate perché lavoravano in fabbrica ma in parte lavoravano
nel piccolo commercio e nell’affitto e gestione di camere ai pensionanti del proprio paese di
origine. Per esempio, c’erano molte donne Italiane emigrate negli stati uniti che gestivano questi
pensionati per lavoratori maschi che erano emigrati senza le famiglie negli USA. Questo sistema
dei pensionati si chiamava Boardig. Sia le donne immigrate negli USA che le giovani donne figlie
di migranti nate negli USA ci cercavano di collocare nel mercato del lavoro anche non
tradizionalmente della agricoltura e dell’industria.

Un discorso a parte meritano le donne lavoratrici afroamericane (negli stati uniti) : fino alla metà
della prima guerra mondiale, queste donne furono escluse dal lavoro di fabbrica se non nei ruoli
più umili ed emarginali, furono indirizzate nei ruoli soprattutto del settore agricolo, servizio
domestico e della lavanderia (facevano lavandaie o lavoravano nelle loro abitazioni).

Nelle città del sud degli stati uniti, le afroamericane lavoravano a tempo pieno per una parte
dell’anno, in agricoltura anche per compensare i bassi salari maschili. Ma nell’industria
americana esisteva un sistema di segregazione razziale e dunque molte donne nere si opposero
a questo sistema di segregazione che vedeva le donne bianche popolare le fabbriche americane
dei primi decenni del 900 mentre loro ne erano escluse.

All’inizio del 900, negli USA si diffonde anche la concezione della lavoratrice domestica (che
lavorava in casa) come una occupazione che avrebbe dovuto razionalizzarsi. Nascono infatti corsi
di economia o arti domestiche sia negli stati uniti sia in Europa. Negli primi anni del 900 si parla
molto della necessità di meccanizzare il modo di cucinare, per pulire la casa e si incoraggia
l’educazione domestica. Molte ragazze giovani e scuole di economia domestica diventano
centrali per l’educazione di giovani donne. Si lanciava l’idea di una casa molto meccanizzata e
nascono i primi rudimentali elettrodomestici e le donne devono cercare di collaborare a questa
razionalizzazione del lavoro domestico.

Nei paesi Europei con questa dinamica del lavoro femminile non erano tutti uguali. L’Europa era
tagliata in due. C’era una crescita del numero delle donne attive nel mercato del lavoro
industriale nei paesi del nord: danimarca, svezia, norvegia, che erano altamente industrializzati,
mentre nell’industria non erano elevate le donne fino a dopo la seconda guerra mondiale, nei
paesi meridionali dell’Europa, soprattutto parlando di Grecia, Italia, Spagna, dove esisteva una
presenza delle donne nelle industrie ma la crescita era molto più bassa rispetto ai paesi del nord
Europa.

Stessa cosa vale per l’istruzione. Perché se nei primi decenni del 900, i paesi del nord Europa
vedono una rapidissima crescita di giovani donne che frequentano la scuola secondaria, molto
inferiore è la crescita dell’educazione secondaria nei paesi dell’Europa del sud. Lo stesso vale
per l’università e superiore perché non c’è nei primi decenni del 900, una distribuzione equa
delle donne in tutte le facoltà (le donne non erano presenti nelle facoltà scientifiche) e avevano
difficoltà anche a frequentare facoltà come giurisprudenza o diritto perché in molti paesi le
donne non avendo diritti civili e giuridici, non avevano il diritto di praticare la professione di
avvocato o magistrato. Le donne Italiane laureate in giurisprudenza, potranno accedere alla
magistratura soltanto nel 1963 (prima non avevano il diritto di farlo). Molte donne quindi
laureate poi non esercitano la loro professione nei paesi occidentali, inoltre scelgono il
matrimonio trovando molte difficoltà a svolgere la loro attività professionale.

SVOLTA FU LO SCOPPIO DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE NEL 14: in tutti i paesi occidentali
cresce in modo esponenziale il lavoro femminile: tutte le donne infatti si recano nelle fabbriche
a sostituire gli uomini che erano in guerra e al fronte. Grande immissione di donne nell’industria
americana e anche europee. In occasione della prima guerra mondiale, crescono professioni che
avevano ancora numeri bassi e cresce la professione delle infermiere che diventano un elemento
centrale molto femminilizzata dalla prima guerra mondiale.

A partire da poco prima della guerra, e dopo, comincerà un incremento del lavoro nel settore
terziario: molte donne cominciano a lavorare in massa come commesse o a lavorare negli uffici
come segretarie. Un impiego molto femminilizzato è quello delle operatrici telefoniche. Dopo la
prima guerra mondiale, le donne costituivano il 99% degli operatori telefonici (negli stati uniti).

Anche in questo caos, diverso è l’esperienza delle donne afroamericane che furono impiegate
nella professione dell’insegnante nelle scuole primarie e con bambini afroamericani.

La prima guerra mondiale è quindi uno spartiacque, perché c’è una crescita occupazionale molto
amplia e nel momento in cui la guerra finisce, c’è un rientro a casa delle donne perché gli uomini
tornano nei loro posti di lavoro. Prevale l’inizio del capofamiglia maschio e le donne
costituiscono una mano d’opera di riserva per quando gli uomini non possono lavorare.

Quello che cambia lentamente nel corso dei tempi è la proporzione delle donne sposate e con
figli che entrano nel mercato del lavoro. Succederà sempre meno a partire dalla seconda guerra
mondiale perché anche qua le donne entrano in massa nel mercato del lavoro per sostituire gli
uomini ma nella gran parte rimangono nel mercato del lavoro (anche se molte vengono espulse)
ma rimangono a partire dagli anni 50 sia negli USA sia nei paesi Europei. Meno vero per i paesi
del sud Europa (spagna, portogallo, Grecia e Italia). In Italia il lavoro femminile non crescerà negli
anni del secondo dopo guerra e nemmeno negli anni del boom economico (anni fine 50 e 60)

Ma il lavoro femminile in maniera stabile in Italia, si organizzerà a partire dagli anni 70. È in
ritardo rispetto ad altri paesi europei e stati uniti.

In Italia, il fascismo blocca in gran parte il lavoro delle donne perché previlegia il modello
capofamiglia maschio e nel 1938, una legge del governo fascista limita la possibilità delle donne
ad entrare nelle aziende pubbliche e private al 10% dell’intera mano d’opera. È chiaro quindi
che durante il fascismo, il lavoro femminile è stato penalizzato e si è fermato molto più che in
altri paesi democratici.

Quindi c’è un cambiamento rilevante del lavoro femminile, un ingresso forte in ambito
industriale con la prima e seconda guerra mondiale. Dopo la seconda aumenta il lavoro delle
donne nel settore terziario quindi negli uffici ed economia terziaria.
LEZIONE 4

IL LAVORO DELLE DONNE TRA PASSATO E PRESENTE: IL SUD DEL MONDO E I PAESI IN VIA DI
SVILUPPO

Audio 1

Lavoro delle donne nei paesi in via di sviluppo (non in quelli occidentali)

Prima però, puntualizzazioni che riguardano anche l’Italia.

RAPPORTO TRA DONNE E POVERTÀ:

In linea generale il tasso di povertà a livello globale è più alto per le donne che per gli uomini.
Da Alcuni decenni si parla spesso di FEMMINILIZZAZIONE della povertà, per l’accentuarsi della
povertà della fascia di genere femminile.

Perché le donne sono in tutti i paesi tendenzialmente le più povere? Soprattutto nei paesi del
sud del mondo.

Prima di questo, spiegazione di come anche in un paese occidentale come in Italia, il lavoro delle
donne sia molto complicato.

1 punto) qualità del lavoro delle donne è in peggioramento.

Il periodo della crisi economica iniziata nel 2008 in Italia, si è accompagnata ad un


peggioramento della qualità del lavoro delle donne. Il peggioramento è visibile nella precarietà,
nel lavoro part-time non in maniera volontaria quindi indeterminato, e crescita fenomeno della
sovra istruzione: molte donne sono più istruite rispetto al lavoro che svolgono.

La percentuale di donne che lavorano a tempo determinato nel 2019 è del 17,3%. Le donne in
part-time sono un terzo delle donne sul mercato del lavoro (32,8%) contro l’8,7% degli uomini.
L’incidenza delle occupate nel mercato del lavoro part-time è più elevata nelle giovani donne
fino ai 34 anni.

Il part-time è diffuso soprattutto in alcuni settori. Alberghi, ristoranti, servizi alle famiglie
(servizio domestico) mentre le professioni in cui si segnalano maggiori incidenze sono quelle non
qualificate e svolte nelle attività commerciali e servizi.

Perché è cresciuto il part-time? Come strumento di conciliazione dei tempi di vita e lavoro (nelle
donne). Ma più di recente, più per lavoro e vita per cui si preferisce o si deve lavorar emeno per
poter seguire famiglia e figli, negli ultimi anni si è verificata una incidenza molto forte di lavoro
part -time involontario (di donne che sono costrette a lavorare con un tempo non pieno) dunque
le donne sono molto vulnerabili sul mercato del lavoro perché il part-time retribuisce meno ma
evita che le donne possano sviluppare le loro carriere nel mercato del lavoro. Il lavoro part-time
penalizza.

2 punto: PRESENZA DI FIGLI RAPPRESENTA UNA CRITICITÀ IN TERMINI DI TASSI DI OCCUPAZIONE


FEMMINILE.

L’11% delle donne che ha avuto almeno un figlio nella vita non ha mai lavorato per potersi
prendere cura dei figli. Un valore molto superiore alla media europea (3,3%) .

Nel Sud Italia si arriva a una donna su 5 e si registra anche la quota più alta di donne che
dichiarano di non lavorare anche per altri motivi.

La partecipazione delle donne al mercato del lavoro dunque è ancora molto legata ai carichi
familiari. Il tasso di occupazione delle madri è ancora più basso rispetto alle donne senza figli.
Nel 2018 è aumentato lo svantaggio delle donne con figli in età prescolare rispetto alle donne
senza figli.

Il livello di istruzione ha un forte impatto alla mancata partecipazione delle donne con
responsabilità famigliari. Il rapporto tra le donne senza figli e le donne con figli, sul piano della
partecipazione al mercato del lavoro, penalizza ancora le donne con figli.

La conciliazione dei tempi di lavoro con quelli di vita famigliare, risulta difficile per più di un terzo
delle donne occupate. Uno dei motivi di questa scarsa partecipazione delle donne al mondo del
lavoro con i figli, è legato alla scarsa offerta di servizi socio-educativi della prima infanzia sul
territorio.

Nell’anno scolastico 2017-2018, in Italia erano attivi sul territorio nazionale, 13145 servizi
educativi per la prima infanzia e i posti disponibili coprono il 24,7% dei potenziali utenti che sono
i bambini con meno di 3 anni. L’assenza delle donne dal mercato del lavoro più al sud che al
nord, dipende anche dalla assenza di servizi e di adeguate politiche.

Per quanti riguarda i paesi dell’Africa, Asia e paesi in via di sviluppo, un elemento molto
importante è dato dal fatto che la storia delle donne e di genere che ha intrecciato i temi del
lavoro femminile, si è concentrata soprattutto sul lavoro delle donne occidentali, molto meno
delle donne dei paesi in via di sviluppo, più poveri.
Inoltre, quando parliamo di lavoro femminile, sempre, dobbiamo intrecciare la storia del lavoro
con le storie del lavoro di genere con la storia della famiglia. I legami famigliari sono un tema
molto importante per capire le caratteristiche del lavoro femminile.

In un rapporto dell’Onu (con la parte che riguarda la promozione dei diritti delle donne), questo
rapporto del 2015, ha analizzato il grado di discriminazione di genere nei paesi africani. Da
questo rapporto, si deduce che sulla parità di diritti tra uomo e donna si sono fatti alcuni passi
avanti (anche se in modo desiguale a seconda dei paesi), ma il divario tra educazione e lavoro è
ancora molto amplio in Africa.

Questo report, su donne e lavoro nei paesi dell’Africa, è stato compiuto a 20 anni dalla
conferenza di Pechino sui diritti delle donne.

Le donne in Africa sono ancora molto lontane dall’avere una vita dignitosa. L’obiettivo tra uguale
trattamento tra uomo e donna è ancora un miraggio. Faticano ad avere un lavoro dignitoso,
parità salariale, una pensione adeguata, l’accesso alle cure e all’acqua e godono di pochissima
protezione sociale. Inoltre sono vittime di una discriminazione sociale, stereopiti, violenza, che
impediscono alle donne di esprimere il loro potenziale. La realizzazione dei pieni diritti delle
donne non può essere separata da questioni di giustizia sociale ed economica. Conflitti, crisi
economiche e finanziarie, cambiamenti economici e cambiamenti climatici, hanno intensificato
la disparità e vulnerabilità delle donne con un impatto soprattutto su donne e ragazze in africa.
È importante agire con forza su questo tipo di problemi.

Secondo audio.

Per raggiungere l’obiettivo della parità di genere, fondamentale è il ruolo della legge e in
particolare della legge sulla famiglia, sul lavoro, sulle proprietà e sulle violenze.

Per fare un esempio, in Marocco, è stata fatta nel 2004, una riforma della legge sulla famiglia
islamica, che ha concesso alle donne importanti diritti. Una riforma che è stata sostenuta da una
lunga campagna di pressione di movimenti femminili che poi ha aperto la strada a grandi
cambiamenti costituzionali. Nella nuova costituzione del 2011, si garantiscono uguali diritti e si
proibiscono forme di discriminazione.
Grandi passi avanti nel rimuovere la differenza di genere nel diritto proprietario, sono stati fatti
in questi anni, da molti paesi dell’africa sud-sahariana (sud sahara), mentre questi paesi erano
precedentemente caratterizzati da un alto numero di restrizioni legali. Sono invece rimasti fermi
i paesi del nord africa.

Una delle barriere da abbattere è per le donne, l’accesso alla terra. Nell’africa sub sahariana,
l’aumento dei costi per poter rendere i terreni produttivi, è infatti di sopra della possibilità di
molte donne; qui l’agricoltura, rimane la forma principale di impiego. Il 59% delle donne lavora
in piccole aziende con un alto rischio di povertà e in testa alla lista dei paesi in cui le donne hanno
maggior probabilità degli uomini di vivere in povertà, ci sono ben 33 stati africani, con il Burundi,
Malawi e Gabon che raggiungono il 125%. Anche l’istruzione è difficile e la povertà è anche la
principale causa del mancato accesso delle donne all’istruzione secondaria. Da questo punto di
vista, ci sono stati miglioramenti in africa ma rimane un profondo divario causato dallo status
economico. La frequenza alle scuole secondarie è più bassa per le ragazze povere rispetto alle
ragazze più agiate. In quasi tutti i paesi le disuguaglianze negli ultimi 20 anni si sono ridotte ma
rimangono forti in molti stati africani (madagastar, uganda, cameron, lesoto, mali, senegal). Le
donne hanno meno possibilità di accedere alla istruzione secondaria, ma anche meno accesso
di accedere alle cure sanitarie.

In Africa ci sono ancora molte donne che muoiono di parto e il parto è una delle cause maggiori
di morte per le donne e sono stati fatti passi avanti ma anche per seguire quelli che dall’ONU
erano stati definiti gli obiettivi del millennio quindi diminuzione della mortalità materna, ci sono
ancora tante donne che non hanno potere decisionale sulla loro salute.

In generale, nei paesi africani, le donne come in gran parte del mondo, sono pagate meno degli
uomini anche perché hanno meno accesso ad una istruzione alta. Il luogo dove è aumentata la
forza lavoro femminile è l’africa sub-sahariana, ma mancano politiche di tutela delle lavoratrici
madri come il congedo di maternità o parentale. Le donne sono anche spesso in africa in settori
non solo agricoli. Molte sono impiegate nei settori umili dei servizi, nel lavoro marginale spesso
in forme di lavoro produttivo ma che non risulta nelle statistiche perché pagato al nero.

Nell’africa sub sahariana, oltre il 75% del lavoro è concentrato nel settore informale e molte
donne non lavoro in autonomia ma per l’economia famigliare. In più le donne sono anche le più
esposte ad impieghi non protetti in caso di incidenti o malattia. In generale, la categoria più
indifesa è quella delle lavoratrici migranti che sono domestiche che non godono di protezione
legislativa in particolare in nord africa e medio oriente.
Nelle aree rurali, dove vive la maggior parte delle persone che soffrono la fame in africa, le donne
producono la maggioranza degli alimenti che vengono consumati sul posto; il loro contributo
dunque potrebbe essere molto maggiore se avessero un accesso adeguato a terre e formazione.

Nei paesi in via di sviluppo le donne tendono a lavorare molte più ore degli uomini. In Asia e in
Africa gli studi hanno dimostrato che le donne lavorano circa 13-14 ore la settimana in più degli
uomini.

In media le donne che vivono nelle aree rurali, dedicano una parte del loro tempo a rifornirsi di
acqua per la raccolta di combustibile per cucinare.

Il secondo aspetto da trattare è la condizione delle donne in Asia.

Anche le donne in Asia sono svantaggiate nel mercato del lavoro. Molte in grandi paesi come
l’India lavorano in agricoltura e piccolo commercio. Ma soprattutto, il lavoro delle donne non
viene considerato importante nell’economia della famiglia sia in India sia in Cina, anche in altri
paesi come la Corea del Sud e Indonesia. Le donne non sono considerate una risorsa per le
famiglie e spesso non vengono fatte nascere, nel senso che, come ha denunciato il premio nobel
per l’economia Armatian Sen (premio nobel indiano), nella metà degli anni 2000, lui ha scritto
e denunciato che in asia esiste uno squilibrio demografico causato dalla preferenza nei confronti
dei bambini maschi che ha privato l’asia di circa 90 milioni di donne.

È il fenomeno che lui definisce delle donne mancanti. Per la stra grande maggioranza in Cina e
in India. Questo fenomeno secondo Sen che è stato il primo a studiarlo, è determinato da una
serie di pratiche sociali: soppressioni prima della nascita, sterilizzazione di massa, cattiva
alimentazione, pessime condizioni sanitarie, mancanza di cure (vaccini), maltrattamenti contro
le donne.

Secondo l’UNICEF (organizzazione per la protezione dei bambini), la morte di una bambina su
10, in India, Pakistan e Bangladesh, è correlata ad una discriminazione. In Cina si calcola che le
donne mancanti siano intorno a 50 milioni. Anche in Cina si è privilegiata la nascita di figli maschi
e questa politica è stata determinata anche dall’imposizione da parte del governo cinese per
contenere l’aumento demografico, il governo cinese ha imposto a partire dal 1979 fino al 2018,
la politica per le famiglie di un unico figlio e molte famiglie hanno scelto di produrre un figlio
maschio. Questa politica del figlio unico che sarebbe durata fino al 2018, è stata interrotta dal
governo cinese nel 2015 perché la Cina stava assistendo ad un invecchiamento troppo forte della
popolazione.
Perché si preferiscono i figli maschio? Non solo perché sono più produttivi nel mercato del lavoro
ma anche perché le donne, per esempio in India, che vanno in matrimonio, hanno bisogno di
una dote, e questa dote può minacciare l’equilibro economico delle famiglie. Questa situazione
insieme ad una pianificazione demografica che è a crescita 0, spingono in direzione di una
selezione prenatale in base al sesso, a svantaggio delle femmine.

Consideriamo che i moderni strumenti diagnostici come l’ecografia in realtà hanno aggravato il
fenomeno perché si è saputo prima il sesso dei figli che stavano per nascere e si poteva scegliere
l’aborto. Infatti il ricorso a questi metodi è stato vietato in India ma ciò nonostante in India
l’eccesso di maschi alla nascita rispetto al regolamento demografico (a come dovrebbe essere il
tasso di natalità), è superiore a quello normale del 6%, mentre in Cina è del 12%. Rispetto ai tassi
demografici comuni in India c’è un eccesso di maschi e anche in Cina. C’è una forte mortalità
dalle date data da aborti selettivi o infanticidi.

Terzo audio

La disparità di genere non affligge soltanto Cina e India ma anche Tawan, Corea del Sud,
Indonesia. Si verificano infatti pratiche discriminatori e aborti selettivi che concorrono al
trattamento disiguale di bambini e bambine che si riproduce poi in campo sanitario e alimentari
e che è all’origine dell’alto tasso di mortalità infantile femminile. Questi squilibri si stanno
allargando anche verso altri paesi come in Vietnam.

In asia, le pratiche discriminatorie derivano direttamente dallo status di inferiorità delle donne
nella società, dai sistemi patriarcali, dalle condizioni e condizionamenti sociali che incoraggiano
alla sottomissione dal marito e famiglia e dal matrimonio combinato o forzato.

Non soltanto ma anche da credenze religiose e pratiche tradizionali come causa dell’aumento
della disuguaglianza, favorisce questa forma di discriminazione contro le donne. La povertà è un
male che colpisce tutto il continente asiatico: si considera che in asia ci siano 900 milioni di
persone che vivono con meno di un dollaro al giorno. In Bangladesh ci sono donne che lavorano
15 ore al giorno per 18 euro al mese di cui 15 euro vengono versati per pagare una stanza dove
dormire. Le discriminazioni non solo soltanto delle zone rurali e agricole o più povere dell’asia.
In India anche nella parte meno povera del paese, al nord, nascono 821 bambine ogni 1000
bambini maschi. I danni causati dagli aborti selettivi quindi causati da una scelta e dagli
infanticidi femminili, sono incalcolabili.
Lo sviluppo economico sta portando ad un miglioramento graduale della condizione delle donne
ancora molto lento ed a valorare questa idea. Esiste uno studio di una banca mondiale realizzato
su 41 paesi, che rileva come il divario di scolarizzazione tra maschio e femmine stia leggermente
colmandosi ma, uno degli aspetti centrali del discorso nei paesi in via di sviluppo, è dato dal fatto
che gli economisti sostengano che le donne sono un fattore molto grande ed importante per lo
sviluppo. I dati raccolti dagli economisti, indicano infatti che la crescita economica non basta per
superare le discriminazioni, ma che la discriminazione delle donne non aiuta a migliorare
l’economia di questi paesi.

Dunque, secondo la banca mondiale, bisogna incoraggiare l’istruzione delle ragazze perché avrà
un effetto importante sulla crescita e sviluppo di questi paesi, favorendo il calo della mortalità
infantile materna e l’aumento della riuscita scolastica per entrambi sessi, incremento
produttività, progresso nel rispetto degli ambienti. Tutti questi miglioramenti si tradurranno in
una crescita economica più rapida e in uno sviluppo più intenso. Le donne quindi sono
assolutamente fondamentali per la crescita dei paesi.

LAVORO DELLE DONNE MUSULMANE IN MEDIO ORIENTE E NEL NORD AFRICA.

Contesto socio-culturale: nell’immaginario comune del mondo occidentale, con mondo


musulmano, si intendono gli stati musulmani in cui l’islam è la religione maggiormente diffusa o
religione di stato. Nel concreto corrisponde ad un territorio molto amplio composto da stati
culturali e sociali diversi. Le associazioni tra mondo musulmano e movimenti islamici estremisti,
governi autoritari, e confitti senza fine, sono la conseguenza di preconcetti sviluppatosi nel corso
dei decenni a causa di una conoscenza sbagliata delle dinamiche politiche e sociali degli stati che
ne fanno parte. Sebbene la posizione giuridica delle donne quindi diritti giuridici sia più
penalizzata per le donne rispetto ai paesi occidentali, negli ultimi decenni, sono emerse
organizzazioni di donne che mirano nei paesi islamici a cambiare i diritti di famiglia che vedono
le donne sub alterne, che lottano per ottenere uguali diritti tra uomo e donna, che rivendicano
leggi contro la violenza domestica e sessuale, che auspicano l’aumento della partecipazione
femminile in ambito economico e politico.

Il ruolo delle donne, nella vita sociale e culturale, risulta fondamentale per comprendere i
cambiamenti che sono in atto nel mondo arabo e islamico, poiché la liberazione della donna è
diventata una premessa indispesabile per il progresso.
Parlare di mondo musulmano è parlare di una area molto estesa e gli stati che ne fanno parte,
presentano molte differenze per quanto riguarda le norme di genere, difesa stato giuridico delle
donne, educazione, lavoro e partecipazione politica. Tutte queste differenze, derivano dalla
eterogeneità politica e dei diversi atteggiamenti culturali, legati alle leggi dell’asheria che sono
condizionate dalla cultura di riferimento e dal contesto in cui vengono applicate. Le norme
giuridiche che limitano la libertà delle donne, hanno subito l’influenza delle politiche
economiche a livello anche globale e sono state causa di una diversificazione economica e
sociale della popolazione. Negli stati islamici ci sono differenze nello sviluppo delle capacità,
industrializzazione, standard di vita, sistema di protezione sociale e partecipazione femminile
alla forza lavoro. Tuttavia, la ricchezza dello stato non è un fattore determinante
nell’emancipazione delle donne poiché questo è dimostrato dal caso della Arabia saudita che è
un paese molto ricco grazie al petronio ma le donne sono sub alterne.

Il fenomeno dello sviluppo urbano ha provocato in questa zona del nord africa e medio oriente
molti cambiamenti sociali come la scolarizzazione, il fare sempre meno figli, l’aumento dell’età
del primo matrimonio, cambiamento nella struttura famigliare.

Le donne hanno avuto negli ultimi anni, più accesso all’istruzione anche se questo livello non
indica una uguaglianza di genere perché ci sono ancora molti vincoli per le giovani donne che
vorrebbero completare il ciclo di istruzione che limitano molto l’ingresso delle donne sul mondo
del lavoro.

Un ruolo importante sull’acquisizione dei diritti nei paesi in cui è successo, è legato allo sviluppo
dei movimenti femministi islamici. Questi movimenti rimangono nella religione islamica ma
queste donne vedono nella religione, lo strumento perfetto per rivendicare i diritti delle donne.
Solo ideologie diverse dal femminismo occidentale, ma sono fortemente legate alla categoria di
modernità e parità di genere.

La partecipazione femminile al mercato del lavoro, negli ultimi anni, l’avanzamento della
urbanizzazione e la possibilità per le donne di accedere all’istruzione in maggior misura, hanno
comportato a maggiori cambiamenti sociali e culturali tra cui la creazione di nuovi posti di lavoro
e la possibilità di accedere alla politica.

Queste condizione sono state il pretesto per l’emergere di movimenti sociali con proteste
popolari a cui hanno partecipato anche le donne che tra i diritti richiesti, hanno anche chiesto il
diritto alla partecipazione al mercato del lavoro.
Il lavoro è caratterizzato da una segmentazione del mercato. C’è quindi, come è stato in passato
come in passato in occidente, una tendenza tra uomini e donne a non occupare gli stessi
impieghi. I livelli di partecipazione al lavoro da parte della donna sono molto alti nel settore
pubblico. Le donne istruite che vivono in città tendono a concentrarsi in pochi settori
occupazionali in particolar modo nel settore dei servizi che offre migliori opportunità di
condizione vita-lavoro.

La maggior concentrazione del lavoro femminile nel settore pubblico è uno dei fattori chiave alla
base degli alti livelli di occupazione femminile in quella particolare campo. Il lavoro femminile
però è scoraggiato dalla mancanza di trasporti sicuri ed affidabili che costituiscono un vincolo
pratico per le donne e di conseguenza molte donne tendono a lavorare all’interno della propria
area di residenza o direttamente in casa. C’è una insicurezza dei mezzi pubblici.

La mancanza di tutele per le donne nel settore privato, ha trasformato le donne che lavorano
non nel pubblico ma privato, in una forza lavoro molto vulnerabile ma anche più disponibile a
lavorare nel settore informale. Per settore informale si intende lavoro temporaneo, agricolo,
stagionale, badante per incrementare il reddito famigliare.

Il fattore che vincola la partecipazione femminile alla forza lavoro, è la loro impossibilità di
continuare a lavorare nel settore privato dopo il matrimonio. Per le donne infatti, è difficile
conciliare il lavoro privato con la famiglia di cui devono farsi carico e secondo molti osservatori,
una soluzione sarebbe trovare un modo per ridurre il costo dei lavoratori privati per assumere
donne sposate che di solito curano bimbi e anziani. In più in questi paesi è ancora molto
affermato il modello del capofamiglia maschio, disincentivando il lavoro femminile. In molti
paesi il tasso di disoccupazione femminile è rimasto molto più basso rispetto a quello maschile
nonostante i più bassi livelli di partecipazione alla forza lavoro. Nelle regioni del medio oriente
e nord africa, la disoccupazione è maggiore del 25% a quella maschile.

In tutti i paesi della regione, le donne sono particolarmente vulnerabili alla povertà soprattutto
durante i periodi di difficoltà economica, in caso di divorzio, abbandono o vedovanza. Una delle
cause di questa vulnerabilità è una consistente differenza rispetto agli uomini nel campo
dell’istruzione.

Le donne sono sottoposte a grandissime restrizioni e non soltanto ma le leggi per la parità di
retribuzione tra uomo e donne per lo stesso tipo di lavoro e le opportunità di formazione per
uomo e donne, sono spesso violate perché gli enti governativi non hanno capacità di indagare
in casi di discriminazione nei confronti delle donne. Inoltre in molti sistemi giuridici non esistono
leggi che conoscano e proibiscano le molestie sessuali punendo il colpevole. Negli stati del golfo,
le donne migranti rappresentano il 20-40% della forza lavoro e molte provengono da sud est
asiatico e sono particolarmente soggette a discriminazioni.

L’istruzione oltre che le libertà e diritti civili, hanno un ruolo imprenscindibili per l’emancipazione
delle donne e il loro inserimento nel mercato del lavoro.

LEZIONE 5

DONNE MIGRANTI-FAMIGLIA, MATRIMONI. DIVORZIO, MATERNITÀ

Emigrazioni femminili di oggi legate al processo di globalizzazione e migrazione donne italiane


nel passato.

È sempre molto importante partire dal presente, dall’oggi, dalla realtà in cui si vive. La realtà in
cui si vive, anche per quello che riguarda il tema delle migrazione femminile, ci pone questioni
che assomigliano in parte le questioni delle migrazioni del passato.

Una delle grandi questioni che è vera oggi come 100 anni nel periodo delle grandi migrazioni tra
fine 800 e inizio 900, se esiste un legame diretto per le donne tra emigrazione ed emancipazione.

La storiografia oggi, tende a mostrare che questo legame probabilmente non c’è o solo in parte,
perché il processo migratorio è molto variegato e diverso e dunque anche i suoi esiti dipendono
dai contesti geografici di partenza ed insediamento. Dipendono da epoche, generazioni di
migrazioni, classe di partenenza (per esempio fattori che hanno determinato il ruolo delle donne
nella società).

Dunque se per alcune donne migrate nel passato e presente, emigrare ha significato anche
emanciparsi da una società patriarcale che le vedeva subordinate e subalterne, in altri casi la
migrazione favorisce la vulnerabilità delle donne e la violenza nei loro confronti.

MIGRAZIONI DEL PRESENTE:

Intanto, che cosa significa parlare di donne e genere in relazione alle migrazioni e in che modo
l’emigrazione è connessa al ruolo attivo delle donne? Bisogna cercare di capire il legame che
intercorre tra migrazione e globalizzazione e capire come il ruolo attivo di donne e ragazze, sia
condizionato dalle migrazioni globali, chiedendosi che tipo di trasformazione derivi dalle
migrazioni in termini di potere e disuguaglianze, sia tra uomini e donne sia tra donne migranti e
donne che invece fluiscono del lavoro delle donne migranti soprattutto in termini di lavoro di
cura quindi assistenza anziani o cura dei bambini.

La sovrapposizione tra questioni di genere, migrazioni e globalizzazione è complessa.

Dobbiamo porci la domanda: quante donne migrano? Quante donne migrano in relazione agli
uomini? E come sono cambiati questi numeri in relazione al tempo? Un elemento interessante
è che la globalizzazione ha portato sempre di più a un processo di femminilizzazione delle
migrazioni che indica l’aumento della percentuale delle donne nelle migrazioni internazionali.

Ma questa crescita era anche stata precedente alla globalizzazione (processo nato negli anni 90
del 900 che si stanno verificando anche oggi, anche se le prime fasi della globalizzazione si
ricercano negli anni 70 del 900). Quello che è nuovo nelle migrazioni dell’età della
globalizzazione, è che le donne si spostano sempre di più da sole, per motivi di lavoro e con la
funzione “di Bread winner” quindi solo loro che sono le capofamiglia, quelle che portano il
salario a casa o mandano il salario nei loro paesi di origine per mantenere la famiglia. Quindi,
mentre le migrazioni femminili fino ad un certo punto della storia erano dettate dalla volontà di
ricongiungersi con i mariti, padri e fratelli, adesso le donne si muovono da sole per questioni
famigliari.

I numeri sono molto aumentati, ma anche sono aumentate le motivazioni per cui si emigra:
motivi economici, per sfuggire a matrimoni oppressivi (in India, Africa con matrimoni forzati, con
bambine che si devono sposare per forza in età giovanissima con uomini molto più vecchi di loro
e che vivono come un vero e proprio atto di violenza).

Fenomeno dell’emigrazioni forzate: donne che vengono forzate ad emigrare per fare le
prostitute nei paesi occidentali.

Quindi, si parla spesso quando si tratta di rapporto tra genere e migrazione, dei lavori 3D:
pericolosi, impegnativi e degradanti. Tra questi lavori ci sono lavori di cura, domestico e il lavoro
sessuale di prostituzione non scelto.

Numeri: nei primi anni del 2000, su 191 milioni di migranti, le donne erano il 94, 5 milioni quindi
un numero molto rilevante, non tanto diverso da quello maschile. La crescita della migrazione
femminile è avvenuta dagli anni 90 del 900: per la maggior parte si parte da paesi di asia e
america latina. Ora si calcola che le donne migranti siano circa il 47% delle migrazioni
internazionali. Poco più basso quindi di quello maschile.
Le donne sempre più, emigrano da sole. A tratti sono donne che si ricongiungono ai loro mariti
ma più spesso, emigrano per aiutare o mantenere la famiglia nei paesi di origine.

In altri casi, le donne migrano per sfuggire a regimi o società che le discriminano. Nei paesi di
accoglienza, si è visto negli anni, il consolidarsi delle donne migranti come mediatrici tra il nuovo
paese e le comunità migranti. Un altro aspetto molto importante e rilevante, in questi ultimi
decenni, riguarda le donne di fede musulmana e il loro uso del velo. Le migranti di prima e
seconda generazione, a partire dagli anni 90, hanno rivendicato il diritto di vivere la propria
identità musulmana apertamente, dando vita a numerosi dibattiti in Francia e in Europa, sulla
compatibilità di questa cultura islamica, rivendicata attraverso l’uso del velo. Un altro aspetto
ricorrente nel dibattito politico e demografico, è la loro fertilità: si suppone che la fertilità delle
donne migranti, sia molto superiore delle donne dei paesi in cui emigrano. In realtà il momento
in cui si insediano nei nuovi paesi, i modelli di fertilità delle donne migranti, tendono ad
omologarsi con quelle del paese in cui emigrano. Molto spesso, le donne migranti, lasciano nel
paese di origine, la famiglia o dei congiunti, alcune volte si fanno raggiungere dai figli o mariti
poiché hanno il lavoro principale nei paesi di emigrazione.

Le donne sono spesso oggetto di una doppia discriminazione: perché migranti e perché donne.
Quindi hanno due condizioni specifiche che si assommano. Le cinesi per esempio, sono emigrate
in grande dimensioni dagli anni 90 del 900, e questa migrazione è indirettamente collegata alla
politica del figlio unico ( si proibisce di riprodurre più di un figlio e migliore se maschio), quindi
le donne giovani migranti, cercavano, dopo essere cresciute, venivano mandate nei paesi
occidentali in modo da farle sparire dalle statistiche amministrative e al tempo stesso facendo
sparire inviando in altri paesi le figlie femmine, questo consentiva di dare uno status di legalità
al secondo foglio che risultava essere l’unico negli atti amministrativi. Quindi la politica ” figlio
unico” in Cina, ha fatto si che molte bambine sia state mandate in modo clandestino in altri paesi
per non violare la legge nel caso si fossero partoriti due figli (un maschio e una femmina).

Le migranti cinesi sono venute in Europa per lavorare nel comparto tessile spesso in condizione
di neo-schiavismo, con orari di lavoro massacranti, durante periodi di forte domanda di
produzione. Giovani donne cinesi, accolte da famigliari già residenti nei paesi di destinazione,
che pagavano alle giovani donne il viaggio, ospitavano e davano a loro il vitto, senza possibilità
alle migranti di ribellarsi.

Un altro gruppo che è emigrato nei paesi occidentali è il gruppo di donne che emigrano dalle
Filippine, che si sono specializzate nella cura della persona sia negli USA e in Europa e nei lavori
domestici nei paesi del Golfo.
La loro posizione è stata spesso regolarizzata in Italia, dove vengono chiamate badanti. L’Italia è
un paese fortemente colpito dall’invecchiamento della popolazione e nel quale scarseggiano le
strutture di accoglienza.

Ma ci sono tante altre forme di migrazione, per esempio le portoghesi che lavorano come
addette alla portineria o come collaboratrici domestiche in Spagna (spesso emigrano in Spagna).
In Spagna arrivano spesso anche giovani donne marocchine che lavorano in lavori stagionali per
raccogliere frutta e verdura e in Marocco le donne che vengono dall’Africa sub sahariana,
lavorano come venditrici di prodotti africani per accompagnare i migranti irregolari che si
stabiliscono solo in modo provvisorio in Marocco come paese di transito.

In linea generale, possiamo dire che più nelle grande differenze, ci sono delle traiettorie e che
secondo i dati delle nazioni uniti, le migranti donne rappresentano circa il 47% delle migrazioni
internazionali in Europa, Russia, USA, Giappone, Australia e questi sono i flussi migratori più
importanti.

La figura delle badanti o comunque delle migranti che si occupano della cura della persona nei
paesi occidentali, costituiscono delle figure molto importanti per la nostra società (anche quella
Italiana) dove mancano asili nido e strutture per gli anziani. Manca quindi un sistema di welfer
complessivo che viene compensato dalla presenza di queste donne.

Sia le donne che fanno e svolgono lavori di cura, sia le donne migranti che lavorano nel settore
domestico sono spesso non lavoratrici regolari e vengono pagate al nero. È per questo che nel
2011, l’organizzazione internazionale del lavoro, ha lanciato una importante convenzione sui
diritti delle persone che lavorano nel settore domestico e una convenzione che è stata firmata
solo da 23 paesi nel mondo.

Audio 2

I paesi dell’area Mediterranea, sono caratterizzati da un modello migratorio femminile in cui


prevale l’immigrazione di donne attive, migrate da sole per inserirsi in un mercato del lavoro
della manodopera femminile, soprattutto compiti di cura.

Per quanto riguarda l’Italia, le donne migranti oggi rappresentano quasi la metà dei migranti
(quasi 48%), quelle che arrivano da sole circa il 69% di cui il 9% con figli. Il 31% arriva in italia per
un ricongiungimento famigliare.
Mentre in un primo periodo, le donne arrivavano in Italia per ricongiungersi al marito ed erano
soggetti passivi del progetto migratorio, ora arrivano per lavorare e sole. In molti casi diventano
le protagoniste del progetto migratorio e scelgono di partire secondo un piano ben strutturato
e prendendo di sé la responsabilità di dare un futuro alla famiglia.

Le donne dunque si fanno capofamiglia e abbandonano il ruolo classico di casalinghe.

È possibile dividere 5 diverse tipologie di donne immigrate in Italia.

1) Ci sono le donne che vengono in Italia con un progetto lavorativo. Lo sono soprattutto
Eritree, Etiopi, Latino Americane, Filippine e est Europa.
2) Le donne appartenenti a flussi maggiormente maschili, che arrivano per
ricongiungimento famigliare. Sono soprattutto marocchine, tunisine, albanesi e spesso
disposte a lavorare
3) Ci sono donne arrivate con i coniugi, in un percorso migratorio di tipo famigliare, inserite
in attività economiche, famigliari ed etniche. Sono soprattutto le cinesi, cingalesi
4) Le donne rifugiate che chiedono asilo in Italia
5) Le donne che arrivano attraverso il mercato della prostituzione. Sono migrazioni forzate.

Per le donne che immigrano in Italia come in altri paesi occidentali, si pone il problema o tema,
dell’immigrazione può essere un elemento di emancipazione per le donne? Molto difficile
rispondere perché questo dipende dai paesi in cui si va a vivere, dalla tipologia delle comunità
etniche in cui si vive e quindi in alcuni casi si, le donne si emancipano con la migrazione che in
qualche modo rompe la struttura patriarcale del loro paese di appartenenza, in altri casi invece
sono di nuovo sub alterne in altro modo, in parte perché il loro lavoro è confinato dentro casa
come domestiche o addette a cura di bimbi e anziani e sono invisibili perché spesso il loro lavoro
non è con sindacati che tutelano la professione di badante. Inoltre sono in qualche modo
sottoposte a una doppia esclusione, perché marginalizzate in quanto donne e migranti.

Le donne migranti sono relegate in un ruolo che le vede essere considerate un corpo funzionale
al mantenimento di altri corpi. Sono inoltre spesso sottoposte ad un doppio sfruttamento, socio
lavorativo (perché molto spesso, soprattutto le donne che provengono dai paesi dell’est hanno
un grado di educazione alto come diploma di scuola superiore o laurea circa il 53% ha uno di
questi due titoli, e in Italia il loro lavoro viene dequalificato e si fa lavorare le donne in ambiti
molto poco qualificati rispetto al loro titolo che hanno) e affettivo (perché nei percorsi lunghi di
assistenza sia a bimbi che anziani, le badanti investono affettivamente e quindi sono in gioco
sentimenti ed emozioni che vengono sottratti alla famiglia di origine perché infatti molto spesso
queste donne lasciano la loro famiglia di origine). Le famiglie transnazionali che vivono in luoghi
diversi, vedono un impegno molto importante di chi emigra e le donne hanno un ruolo
importante nel sostegno di chi resta nel paese di origine (sia che sia marito, figli o genitori).
Dunque le donne straniere in Italia come in altri paesi occidentali, avrebbero bisogno di
interventi precisi quindi pressioni su aziende perché vengano garantite opportunità di lavoro,
aumento della richiesta di personale nelle scuole di asili per permettere alle donne di poter
lavorare senza affidarsi alla comunità, l’offerta di spazi temporanei per i bambini e il
riconoscimento dei titoli di studi conseguiti all’estero (anche se il loro lavoro è fondamentale per
coprire l’assenza di servizi in Italia).

EMIGRAZIONE DELLE DONNE ITALIANE NEL PASSATO.

Donne italiane che tra la fine dell’800 si sono spostate dall’Italia per ragioni economiche, negli
USA, America Latina e paesi europei.

“Uomini senza donne”, è il titolo di un saggio dello storico Robert Harney sull’emigrazione
italiana in Canada, pubblicato negli anni 70 del 900. Quel titolo, era molto emblematico e
trascurava il rapporto tra migrazioni femminili ed etnie, e sottovalutava i dati reali. In realtà è
vero che le donne migranti tra 800 e anni 20 (dopo la prima guerra mondiale erano inferiore agli
uomini ma esistevano). Negli Stati Uniti per esempio, nel periodo della grande migrazione 1880-
1920, il rapporto tra uomo e donne migranti era 3: 1, e non poche furono, soprattutto dal 1900,
le donne che arrivavano negli stati uniti per ricongiungersi alla famiglia.

PRIMA DIFFERENZA CON QUELLO DETTO FINO AD ORA: Il fenomeno della migrazione femminile
tra fine 800 e inizio 900, non è comparabile a quello odierno che individua nella
femminilizzazione del processo migratorio uno dei suoi tratti caratterizzanti. Molte sono le
domande che possiamo porci rispetto alle migrazioni femminili anche del passato, ne poniamo
qualcuna:

partecipazione delle donne al mercato del lavoro, aveva portato alla perdita delle tradizioni del
patriarcato? Aveva cambiato i rapporti di potere all’interno della famiglia, mutando i ruoli
tradizionali tra uomo e donna? Come potevano convivere tempo famigliare e industriale? Che
tipo di resistenze mettevano in atto i diversi gruppi etnici rispetto all’ingresso delle donne nel
mercato del lavoro? Come veniva qualificato il lavoro femminile all’interno della famiglia o della
comunità? A queste domande, la storiografia delle donne di genere ha cercato di dare delle
risposte. Intanto si può dire che le donne migranti hanno svolto un ruolo molto importante nella
costruzione delle comunità etniche all’estero e nel favorire la formazione di reti migratorie dai
paesi di origine anche attraverso l’accoglimento e l’accudimento quotidiano dei connazionali:
molte donne infatti guidavano e gestivano dei veri e propri pensionati per lavoratori che
provenivano dallo stesso paese di origine, e venivano chiamate “le bording houses”; in più
furono spesso le reti femminili migrate, ad assecondare le aggregazioni intorno alle parrocchie
etniche, la creazione di società accreditative di mutuo soccorso, l’attivazione di forme di
solidarietà e protesta in tempi di crisi. Le donne furono anche attive nelle battaglie sindacali
(grande battaglia delle operarie tessili nel 1912, nelle fabbriche di tessitura del cotone e nella
città di Partison dove le operaie Italiane giocarono un ruolo importante per chiedere il
miglioramento delle condizioni lavorative, aumento salario e diminuzione delle ore di lavoro).

Anche nelle migrazioni passate delle donne, possiamo parlare di una forma di
transnazionalismo, anche se diverso da quello delle migrazioni temporanee, perché sono esistite
molte famiglie transnazionali, sia quando partivano solo i mariti e le donne e famiglie
rimanevano nel paese di origine, trovandosi a gestire da sole la famiglia e la casa e piccole attività
lavorative, e lo stesso accadde quando le famiglie emigravano insieme e unite negli stati uniti o
altri paesi, lasciano nel paese di origine i genitori anziani o il resto della famiglia. Si può quindi
parlare anche se diversamente, di queste famiglie transnazionali.

L’emigrazione femminile italiana, seguì i flussi migratori prima in Europa nelle aree di confine,
Svizzera, Austria, Germania e Francia, ma arrivarono le donne e accentuarono la loro
partecipazione al movimento migratorio negli USA, Canada, Brasile ed Argentina. Molti furono i
lavori svolti da queste donne, che rimasero soprattutto le emigrate di prima generazione, quindi
non tanto le figlie, rimanevano legate a elementi culturali tipici dei paesi di origine ma facevano
parte anche di percorsi di modernizzazione e di una nuova vita che molte potevano vivere nei
paesi in cui immigravano. Si parla della maggiore apertura per esempio negli USA rispetto al
tempo libero: donne e uomini già nel 900 si trovavano nei cinema, nei luoghi dove si poteva
ballare e veniva a contatto nel lavoro di fabbrica: aspetti di vita sociale che mancavano in Italia.
La fabbrica veniva vista dalle famiglie Italiane che erano conservatrici, come un elemento
possibile di corruzione delle donne che venivano a contatto con gli operai maschi. Le donne
italiane furono operaie nelle fabbriche soprattutto tessili delle confezioni, delle calzature, sigari
e imballaggio,( negli USA, Europa e Canada), mentre nei paesi dell’America latina, molte donne
italiane si dedicarono all’agricoltura.

Rispetto ad altri gruppi etnici, le Italiane si impiegavano in gran parte del lavoro retribuito fuori
casa. Come altre, lasciavano il lavoro dopo il matrimonio e la nascita del primo figlio: un
fenomeno tipico in Italia rispetto al lavoro femminile, non è solo caratteristico delle donne
immigrate.

Le immigrate italiane, molte si sindacalizzarono con l’opposizione della famiglia perché la


famiglia italiana era molto chiusa e le gerarchie di genere erano molto più accentuate rispetto a
quelle di altri gruppi etnici emigrati.

Audio 3

La migrazione delle donne creò una grap di genere molto forte in termini di potere all’interno
della famiglia, ma creò anche un contrasto tra donne di prima generazione immigrate e le figlie
che nascevano nei paesi come gli stati uniti o America latina. Soprattutto per quello che riguarda
le migrate italiane di seconda generazione negli Stati Uniti, esse si sentivano ragazze americane
e dunque avevano stili di vita e lavoro diverse dalle loro madri. Si sposavano molto più tardi e
continuavano a lavorare fino alla nascita dei figli, a volte anche oltre, si trasformarono molto i
rapporti di genere sul luogo di lavoro. Continuarono gli impieghi nelle fabbriche tessili e
dell’abbigliamento, ma anche il lavoro della frutta che si femminilizzò sempre di più. Mentre
l’industria dell’acciaio, della chimica e industria pesante delle costruzioni, furono ad
appannaggio maschile (come nei paesi di origine). La fabbrica non era però l’unico dei settori
occupazionali possibili: c’era il servizio domestico anche se le italiane erano pochissime in questo
settore. Molte poche facevano come lavoro le domestiche, mentre molto diffuso era il lavoro a
domicilio svolto con l’aiuto dei figli, privati spesso di istruzione. Producevano fiori artificiali, utili
per le confezioni, fiammiferi, guanti e anche lavoravano a casa il tabacco.

Altre ancora, erano nel lavoro agricolo, soprattutto in America latina o anche in stati dell’USA
come California.

In America Latina, le donne Italiane migrate furono in agricoltura, in Argentina e Brasile. In


Europa nella Francia meridionale, e dagli anni 50 molte migrarono in Australia e anche li molte
si dedicavano al lavoro agricolo.

Molte altre donne italiane, sia nell’America del nord che del sud, divennero piccole imprenditrici,
di piccole trattorie, alberghi, vendita frutta e dolci. Erano molto creative nel tipo di piccole
aziende che andavano a creare. Molto importante fu il ruolo delle religiose italiane che
scapparono dalle strette e spesso angustie gerarchie vaticane, e riuscirono in molti casi a
ritagliarsi spazi autonomi in ambiti di intervento soprattutto con istruzione di figli, assistenza
infermieristica, lavoro sociale con i poveri, anziani e orfani e malati.
Furono le religiose con incoraggiamento di sacerdoti e vescovi, a costituire la leadership di un
movimento che oltre che pronunciare l’inadeguatezza dei servizi per gli emigrati, rivendicava
assistenza sanitaria a domicilio e per negli ospedali per gli immigrati poveri. Importante è anche
la ampiezza delle scuole parrocchiali, sviluppata grazie alle aggregazioni femminili assieme alla
preparazione delle suore insegnanti. Questo indica che queste suore immigrate, avevano un
livello di professionalità e una abilità nel condurre le scuole che erano molto significativi.

Infine, sul piano giuridico, la cittadinanza delle donne italiane immigrate, come per le donne
degli altri gruppi etnici, era una cittadinanza derivata, perché in molti paesi era il matrimonio a
determinare lo status nazionale delle donne. Negli stati uniti per esempio, solo nel 1934, il
presidente democratico Franklin, firmò una legge che attribuiva alle donne gli stessi diritti degli
uomini la stessa materia di cittadinanza, quindi una cittadinanza dipendente. Mentre, le
immigrate in Argentina, potevano naturalizzarsi in modo indipendente, ma rimasero prive dei
diritti politici fino al 1947.

Si può concludere, che nell’emigrazione l’esperienza di uomini e donne si differenziò e le donne


italiane migrate furono spesso come le nere soprattutto nei paesi del nord America, oggetto di
stereopiti che le raffigurava di volta in volta come donne esotiche e madri incolte o inesperte.
Dunque furono costrette a ridefinire progressivamente la loro identità di mogli, madri,
lavoratrici e cittadine.

Audio 4

MATRIMONIO, MATERNITÀ E DIVORZIO.

Considerazioni sul matrimonio: il significato del matrimonio ha cambiato nei secoli e come dice
Daniela Lombardi, il medioevo ha classificato il matrimonio come il primo dei sacramenti. Ma
l’Europa cristiana ha percepito, considerato il matrimonio come la base dell’edificio sociale,
cellula fondamentale delle relazioni umane.

Nel corso dei secoli, il senso del matrimonio è cambiato molto così come sono cambiati i rapporti
tra uomo e donna all’interno dei matrimoni. Grandissima è la differenza tra i cambiamenti
avvenuti nei rapporti di potere famigliari e matrimoniali nell’ambito dei paesi occidentali che
hanno visto molte innovazioni e raggiungimenti della parità e dei diritti all’interno del
matrimonio e, invece, le consuetudini che ancora guidano i matrimoni nei paesi non occidentali,
causando, la subordinazione delle donne.
Nell’800, considerando solo i paesi occidentali, si è assistito progressivamente a una
autonomizzazione delle donne per quanto in tutti i paesi occidentali, le donne fossero prive di
identità giuridica e diritti civili.

La maternità, non è stata soltanto considerata come esperienza biologica, fisica, fisiologica o
legata ai compiti di cura. Ha avuto anche una forte valenza simbolica. Noi dobbiamo pensare alla
storia della maternità non solo come fatto privato ma come tema sociale, che ha risvolti
demografici, provoca modificazioni nelle strutture famigliari e statuti giuridici e che è molto
diversa e provoca modificazioni importanti nel corso del tempo negli equilibri interni al
matrimonio: maternità e matrimonio non sono due elementi separati ma sono molto integrati
tra loro perché all’interno della storia della famiglia, la divisione dei ruoli tra maschi produttori
di ricchezza o di sopravvivenza e donne riproduttrici, è stata a lungo molto forte (modello
capofamiglia maschio che ha dominato anche i paesi occidentali fino a pochi decenni fa).

Da molto tempo orami, il matrimonio è in qualche misura in crisi. Ci sono convivenze, soluzioni
flessibili nelle relazioni d’amore e ci sono matrimoni in alcuni stati o anche legami civili
riconosciuti dalla legge, tra persone dello stesso genere. Certamente, ormai è molto difficile
riportare i legami sentimentali e di amore, soltanto alla forma di matrimonio.

Per molto tempo, molti secoli, il matrimonio si è presentato come un processo lungo, preceduto
da fidanzamenti, cerimonie preliminari e si prolungava in una serie di rituali che vedevano le
donne subalterne alle scelte della famiglia e degli uomini della famiglia, fossero essi il padre o i
fratelli maschi.

Non solo, ma il matrimonio era molto diverso a seconda delle classi. Aveva una valenza nei corsi
dei secoli per i ceti nobiliari, per i ceti borghesi e per il proletariato o per la classe contadina.

In più, il matrimonio, è stato soprattutto in passato complicato dal fatto di appartenere sia alla
sfera delle istituzioni (matrimonio civile, sia religioso). Il matrimonio ha avuto a che fare anche
con le rappresentazioni sociali, perché da origine a norme e comportamenti, a teorie, a una
formalizzazione di sentimenti.

Si può dire che, se prendiamo in considerazione, l’Europa, ci siano stati mutamenti molto grandi
nel matrimonio ma anche nella maternità (quindi struttura della famiglia) a partire dagli anni 70
del 900. Perché la famiglia si è fortemente e progressivamente modernizzata e, non è assente
da questa modernizzazione ed è stato inciso per tutti i paesi europei occidentali, la presenza di
movimenti femministi che hanno messo in discussione i rapporti di genere, rapporti di potere
all’interno della famiglia. Ma già da molto prima, nel corso della prima parte del 900, un
cambiamento molto importante all’interno del matrimonio e famiglia, è stato dato, dal
passaggio dei matrimoni che erano precostruiti dalle famiglie e dai genitori, e dunque non erano
matrimoni forzati come esistono ancora in larga misura in paesi come l’India, dove le donne e le
bambine vengono date in matrimonio in età molto giovanile a uomini vecchi che non hanno
scelto. Da un certo punto in avanti, non è stata più la famiglia a scegliere i mariti per le figlie
femmine, ma sono state le donne a scegliere i loro compagni di vita sulla base non più di scelte
famigliare ma di sentimenti e creando dunque quello che è stato definito il matrimonio d’amore.
Oggi ci sembra normale sposarci per amore ma non è sempre stato così.

Consideriamo che, inoltre, i matrimoni non erano fatti della sola convivenza tra moglie marito e
poi figli, ma erano costruiti anche sulla base della convivenza con i genitori. Questo
naturalmente cambiava molto le basi di convivenza dei coniugi e cambiava il rapporto
sentimentale, fisico, intimo all’interno della famiglia.

Inoltre, per le coppie che si sono sposate in Italia negli anni 50, molte hanno cominciato la
propria vita coniugale, convivendo con i genitori di uno degli sposi. Si calcola circa metà delle
coppie. Negli anni 90 del 900, questa percentuale era calata al 12%, quindi anche questo è molto
cambiato. Oggi sono relativamente poche le relazioni famigliare che vedono convivenze tra
coppie giovani e genitori di uno degli sposi.

Tutto questo accade nei paesi europei ma c’è distinzione tra nord Europa e Sud. L’Italia però è
una eccezione perché in Italia, i rapporti di parentela estesi e i legami famigliari e tra le
generazioni sono particolarmente forti e in molti casi, anche sul piano economico, quello che è
stato chiamato il “familismo italiano”, anche talvolta in senso negativo, contribuisce a colmare
le assenze delle politiche sociali e di un welfer state che in italia è debole.

Quindi la famiglia, come il luogo, oggi, di una scelta sentimentale, di scelte economiche e
strategie di vita ma anche di grandi cambiamenti all’interno della famiglia.

Secondo i dati dell’Istat, del 2018, sono stati celebrati in Italia 195778 matrimoni, circa il 2,3% in
più rispetto al 2017. Prosegue la tendenza a sposarsi sempre più tardi (attualmente hanno 33,7
anni i maschi e 31,5 anni le femmine) e sono cresciute negli anni, anche le seconde nozze. La
loro incidenza sul totale dei matrimoni è sul 20%. La percentuale di matrimonio con solo rito
civile è del 50,1% più alta al nord 63,3% e meno al sud 30,4%. La quota di matrimoni con almeno
uno degli sposi era il 17,3% e 2808 il numero di unioni civili (ora permesso in Italia) di coppie
dello stesso sesso. In prevalenza sono unioni tra uomini.

Lo scenario delle famiglie italiane sta cambiando molto.


UNITÀ 6

DIVORZIO, MATERNITÀ, SESSUALITÀ

La questione del matrimonio e dei comportamenti matrimoniali, ci porta al tema del divorzio e
della sua dissoluzione, sia a livello giuridico sia sentimentale. Decostruzione del legame
matrimoniale.

Il divorzio è una legge ormai approvata in tutti i paesi del mondo tranne pochissimi (Filippine,
Città del Vaticano). Molti paesi hanno approvato la legge del divorzio molto recentemente (il
Chile nel 2004, Malta nel 2011). Il fatto di rompere un matrimonio ha molte implicazioni rispetto
ad eredità, pensione, distribuzione proprietà, supporto dato alla sposa o sposo più debole,
mantenimento figli. Purtroppo, in anni recenti, il divorzio ha portato spesso a il desiderio delle
donne nei confronti del divorzio, ha portato ad una carica di violenza degli uomini nei confronti
di donne e compagne che hanno condotto al femminicidio (morte delle donne che avrebbero
voluto abbandonare i loro mariti).

I passaggi che hanno accompagnato le molte leggi approvate nei diversi stati del mondo, sono
molte. Quindi percorsi molti diversi e le leggi hanno caratteristiche diverse. Tra tutte, si cita la
legge israeliana che da competenza e materia di status personale tra gli ebrei tra cui il
matrimonio e divorzio, ai tribunali religiosi, perché già nel 1947, il fondatore dello stato ebraico
ha concordato sul fatto che tutto ciò che riguarda il matrimonio e divorzio delle persone,
registrate come ebrei, venisse messa nelle mani del gran rabbino di Israele. Nel 1953, il
congresso israeliano ha promulgato una legge sulla giuridizione delle corti rabbiniche in materia
di divorzio e matrimonio. Infatti, la sezione 1 di questa legge, stabilisce che “tutte le questioni di
matrimonio e divorzio di ebrei in Israele, siano essi cittadini o residenti, siano messe sotto la
competenza esclusiva dei tribunali rabbinici. In questi tribunali, che operano sotto la legge
dell’ettorah, ad una donna ebrea, è consentito di avviare un divorzio ma è il marito che deve
dare il proprio consenso e rendere finale la procedura. Se il marito scompare o si rifiuta di
concedere il divorzio, questo le donne devono rinunciare temporaneamente e la moglie viene
considerata una donna incatenata perché non può risposarsi o dare a luce figli legittimi. I
tribunali rabbinici possono sanzionare un marito che ha rifiutato il divorzio ma non possono
concederlo senza il suo consenso. Quindi, anche nei paesi dove la legge esiste come in Israele,
per le donne è molto difficile ottenere un divorzio se questo non viene accettato dal marito.

In Italia, la legge sul divorzio è del 1970. La legge aveva introdotto il divorzio in Italia per la prima
volta e aveva provocato opposizioni in particolare da molti cattolici. La dottrina cattolica sancisce
l’insolubilità del vincolo matrimoniale e dunque molti anti-divorzisti, hanno motivato la loro
posizione dicendo che il matrimonio non è soltanto un sacramento ma è un istituto di diritto
naturale.

Nel 1974, si tenne su richiesta di uno schieramento cattolico, il referendum abrogativo del
divorzio in Italia. Gli Italiani e le italiane dovevano decidere se confermare la legge sul divorzio
oppure no. Naturalmente la campagna per il referendum fu molto dura ma al momento del voto
fu il fronte divorzista a vincere con il 59,6% dei voti contro il 40,74. Il divorzio in Italia è dotato
di legge che è stata anche confermata da un referendum.

Un altro tema importante è la questione della maternità. È un tema grande. Storici e storiche si
sono interrogati nel corso degli ultimi decenni su i cambiamenti nella funzione della maternità,
nel ruolo materno: come è cambiato il ruolo della maternità nel corso dei secoli? Come è stata
concepita la maternità dalle madri contadine e ricche borghesi? E quali emozioni e compiti è
stata vissuta la vita di una madre cattolica rispetto ad una madre ebrea o non religiosa? E quali
sono stati i modelli di comportamento imposti dalla chiesta e politica? Quali normi sociali e
giuridiche hanno condizionato l’espressione della condizione materna? Le donne oggi riescono
a vivere liberamente la maternità o subiscono ancora molte costrizioni? Nel periodo che viviamo
molte donne e movimenti rivendicano infatti i diritti riproduttivi cioè i diritti che riguardano non
solo la possibilità di interrompere la gravidanza ma anche la possibilità e negazione della
possibilità di fare figli. Quando le donne rivendicano diritti riproduttivi, rivendicano il diritto
all’aborto ma anche poter fare figli anche attraverso il ricorso alle tecniche riproduttive come
l’inseminazione artificiale o alla maternità surrogata.

In una fase come quella attuale, è difficile parlare di maternità poiché c’è una, da parte delle
giovani donne soprattutto, le scelte nel campo della riproduzione sono molteplici e sono legate
spesso alla disponibilità o non disponibilità economica data dal lavoro precario che complica i
desideri e la percezione di sé e del proprio corpo. Inoltre, oggi la genitorialità non riguarda
soltanto le coppie eterosessuali e dunque una madre e un padre, ma anche coppie omosessuali
fatte e composte da due donne o due uomini: famiglie arcobaleno.

Dunque, la genitorialità e i ruoli materni o paterni, non sono più così definiti come lo erano fino
ad alcuni decenni fa. La maternità, viene considerata come concetto a partire dall’800, quindi a
partire da una età contemporanea, ha sollecitato una serie di questioni, di problematiche che
vanno riportate anche alla simbologia legata al materno e alla possibilità che la maternità sia
una fonte di diritti. È infatti in nome della maternità e del ruolo delle donne come madri reali o
potenziali, che negli Stati Uniti, le donne hanno chiesto nell’800 il diritto al voto. È quella che è
stata chiamata la maternità repubblicana: le donne hanno rivendicato i loro diritti di
cittadinanza, sostenendo che i loro ruoli di madri, di buoni cittadini per la nazione, attribuiva a
loro una superiorità che a sua volta si doveva tradurre nei diritti politici. Stessa cosa è accaduta
nei primi anni del 900, il “movimento maternalista” delle donne ha fondato la richiesta di diritti
sociali (che vuol dire congedo di maternità, leggi a tutela delle donne lavoratrici ma anche
supporto alle madri poveri), nel chiedere i diritti sociali si è fondato sulla funzione sociale della
maternità, le madri avevano diritto a diritti sociali in quanto buone madri di cittadini; le donne
svolgevano una funzione pubblica per la loro nazione e dunque avrebbero dovuto essere
supportate. Allo stesso modo, molte donne si sono appellate alla maternità per contrapporsi alla
prima e seconda guerra mondiale e alle guerre che hanno tessuto il panorama della storia.

La maternità non soltanto come elemento ed esperienza fisica e biologica, dunque poi
emozionale e affettiva ma anche come ruolo politico. Si è parlato spesso di una maternità
politica, del senso della maternità come prospettiva politica, base per le donne per poter
esercitare diritti.

La maternità e le battaglie sulla base dell’essere madre, hanno portato ad una legislazione
importante a favore della tutela delle madri e dei bambini in molti paesi del mondo. In Italia
sono state le battaglie delle donne emancipazioniste a far si che una legge a favore del congedo
per la maternità delle lavoratrici madri, venisse approvato nel 1902 e poi nel 1910 fino alla legge
sul congedo di maternità retribuito del 1950.

Le donne, sulla base del loro ruolo materno hanno svolto e cercato di sottolineare un ruolo
fortemente politico. Nell’ambito della maternità, una storia a parte che integra la questione
della maternità, è la storia del parto. Parto come capitolo fondamentale della storia delle donne,
non solo perché le donne partoriscono e partorivano nel passato con una frequenza molto
maggiore che nel presente ma inoltre passavano molti anni della loro vita feconda in stato di
gravidanza. Quindi, il parto, incrociava fortemente le biografie femminili. (spiega Nadia Filippini
nel suo libro).

Audio 2

Per molti secoli, “l’essere donna”, ha coinciso con l’essere madre. La maternità era espressione
dell’identità sessuale e su questa espressione sembrava volersi misurare il valore femminile, la
posizione e ruolo delle donne nella famiglia e nelle società e comunità di cui le donne facevano
parte.

Sulla capacità di procreare, si sono concentrate aspettative famigliari, sociali, forme di controllo
e disciplinamento che avevano il loro epicentro nella famiglia.
Ma le donne non sono state mai oggetti passivi del parto, anche se la mortalità materna e
infantile è stato altissimo in tutti i paesi occidentali e continua ad essere molto alto e continua
ad esserlo anche oggi in quelli non occidentali; le donne nei paesi occidentali almeno fino agli
anni 50 del 900 avevano la mortalità alta. In un paese democratico ed industrializzato come gli
Stati Uniti, la mortalità materna e infantile è stata alta fino negli anni 90 del 900 nelle zone
povere di New York. Non pensiamo quindi, che i paesi occidentali siano alieni da tassi di mortalità
materna infantile fino a tempi molto recenti.

Le donne dunque, sono state soggetti attivi del parto e spesso sono state protagoniste del parto,
non solo come coloro che facevano nascere figli dal loro corpo ma perché erano altre donne che
favorivano il parto: le figure delle levatrici. Le levatrici erano donne che avevano imparato a far
nascere figli attraverso l’esperienza di donne che le avevano precedute. Solo alla fine degli anni
20, sarebbero nate le prime scuole di ostetricia per formare dal punto di vista medico, le donne
che avrebbero dovuto seguire gravidanza e parto delle donne in maternità.

Il parto, come dice Nadia Filippini, va considerato da 2 punti di vista: il parto è la nascita, dalla
parte di chi lo vive quindi le donne e la nascita da parte dei figli che vivono questo evento
irripetibile di separarsi da un corpo che gli ha contenuti da molti mesi.

Le rappresentazioni culturali sulla nascita, il valore del corpo materno e la capacità della donna
e delle donne di generale e quindi di riprodurre corpi, è stata molto discussa. Molto spesso la
religione ha dato e attribuito alle donne madri, un posto e ruolo forte nell’incarnazione per
molte donne comuni della figura della vergine Maria, madre di Gesù. Ci sono state anche molti
riflessi della religione che ha investito il parto e la maternità di valori assolutamente religiosi.

Ciò che è stato valorizzato della maternità nel cristianesimo, è soprattutto l’aspetto spirituale e
la funzione materna. Molto più raramente si è parlato dei sentimenti che legano le madri ai figli
e ai neonati.

La maternità dunque ha costituito il grande terreno della differenza tra donne e uomini, almeno
fino a anni molto recenti, quando la possibilità di adozione per coppie dello stesso genere è stata
possibile in molti paesi come è stata possibile la maternità surrogata o meglio detta la gestazione
per altri, che ha reso possibile per alcune coppie che non avevano altra possibilità di farlo,
chiedere ad una altra donna di portare avanti una gravidanza per un’altra persona o una coppia
eterosessuale o omosessuale.

In tutti e tre casi, gestazione per altri o per coppia o persona, la portatrice di questo prima del
feto e poi del bambino in formazione e poi formato, non sarà biologicamente l’effettivo genitore
del bambino. Naturalmente questo a posto anche molti temi e problemi di tipo etico e bioetico,
soprattutto perché l’atto di gestazione per altri quindi fecondazione assistita, dovrebbe essere
un atto volontario e non coercitivo. Esistono infatti in molti paesi non occidentali come l’India,
luoghi in cui le donne vengono fatte vivere in cliniche dove trascorrono la gravidanza per
partorire figli per coppie occidentali in cambio di denaro: in questo caso non è una libera scelta
di queste donne ma si tratta di una maternità sforzata attraverso organizzazioni che, in qualche
modo, obbligano queste donne a partorire figli non loro, vendendo questi figli a coppie che non
hanno altro modo per poterne avere.

Anche nel caso della gestazione per altri, ci può essere una volontarietà e quindi uno scambio di
denaro volontario in cambio di una maternità che altrimenti non si potrebbe avere ma ci sono
anche casi di maternità forzate in alcuni paesi non occidentali.

La maternità e la genitorialità sono oggi temi molto complessi al confine tra corpo, sentimenti,
ma anche biotecnologie e bioetica.

QUESTIONE DELLA SESSUALITÀ E DEI CORPI.

L’opera più importante di storia della sessualità è un’opera in 4 volumi del filosofo Michael
Focaul e questi 4 volumi sono comparsi in Francia, tra il 1976 e il 1984. Il primo : “La volontà di
sapere” 1976, il secondo “l’uso dei piaceri”1984, il terzo “la cura di se” sempre nel 1984 e
l’ultimo uscito nel 2018 si intitola “le confessioni della carne”.

A parte dell’eccezione per questi volumi, l’interesse della storiografia per la sessualità è
abbastanza recente e risale agli anni 90. Intorno all’inizio degli anni 90, è nato il giornale della
storia della sessualità e nel 1990, è uscito il libro che si intitola l’Identità sessuale dai greci a
Froid, poi sempre nel 1990, è uscito in Italia, la storia del pudore (Bruno Varroi) che ricostruiva
la storia dell’identità sessuale tra unità d’Italia e fascismo.

La storia della sessualità è stata sempre molto interdisciplinare, ha applicato l’intervento di varie
discipline perché implica categorie e concetti, regole, che sono morali, di comportamento e
anche giuridici.

L’angolatura della storia della sessualità, ci permette di leggere fenomeni importanti della
ricerca storica. In Italia, la costruzione della cittadinanza tra unità e fascismo e il consolidarsi del
regime fascista e apre una strada nella ricerca sull’Italia liberale e i costumi sessuali di Italiani e
italiane nei costumi dell’Italia liberale quindi nei primi decenni del 900.
La storia della sessualità ha anche fornito una chiave di lettura per leggere le esperienze legate
al corpo, le percezioni soggettive, le interazioni tra soggetti, gli investimenti sentimentali ed
emotivi, gli investimenti politico-istituzionali.

Per la storiografia, comunque, la sessualità rimane un tema difficile. È un tema che è legato
soprattutto a riflessioni di tipo teorico, che hanno riguardato il rapporto tra sessualità e potere,
il rapporto tra sfera pubblica e privata e il rapporto tra sessualità normativa e etero-normativa
(rapporto tra la sessualità consentita, quella tra uomo e donne, e la sessualità tra persone dello
stesso genere). Importante è inoltre affrontando i temi della sessualità, il peso assunto dal corpo
nell’immaginario collettivo e nella costruzione delle identità di genere, il ruolo della scienza e
più in generale, la riflessione sul paradigma fondato sulla netta distinzione tra corpi sessuati
maschili e femminili.

Particolarmente interessante è il 900, per studiare la storia della sessualità perché nel 900 è il
secolo in cui il consumo di farmaci e la tecnologia, hanno contribuito a trasformare la vita
sessuale. Consumo di farmaci: avvento della pillola anticoncezionale nel 1960 negli stati uniti
che ha cambiato il modo di pensare alla sessualità, rendendo la sessualità più libera.

Ma il 900, è stato anche il secolo in cui molti paesi hanno compiuto gesti e azioni coloniali, in cui
la sessualità ha giocato un ruolo molto forte perché nei paesi colonizzati (come l’Italia) c’è stata
una vera demonizzazione delle donne appartenenti ai paesi colonizzati (donne indigene) perché
considerate donne razzialmente inferiori con cui gli uomini non avrebbero dovuto mescolarsi.
Infatti, il fascismo, dette proprio in questo senso, delle direttive molto particolari, chiedendo ai
dominatori italiani in colonia, di non avere rapporti con le donne nere, per motivi vari: pericolo
diffusione di malattie veneree, timore di pervertimento e abbruttimento dei bianchi in seguito
alla convivenza con persone di razza considerate inferiori e allontanamento dei coloni dai loro
doveri famigliari rispetto all’Italia e alle donne italiane. Inoltre, da queste unioni sarebbero nati
figli meticci, solitamente secondo il governo fascista, poco amati dai genitori perché costituivano
la memoria di un peccato compiuto.

Scriveva uno dei documenti fascisti in proposito: “ l’accoppiamento con creature inferiori, non

va considerato solo per la normalità del fatto fisiologico e neanche soltanto per le deriteree

conseguenze che sono state segnalate; ma come scivolamento verso una promiscuità sociale,

conseguenza inevitabile nella quale si annegherebbero le nostre migliori qualità di stirpi


dominatrici. Per dominare gli altri, occorre imparare a dominare se stessi. Questo devono

ricordare e volere gli italiani tutti, dai più umili ai più alti.

La sessualità quindi si è connotata anche di molti aspetti razzisti. Infine, il 900 è anche il secolo

dei movimenti politici che hanno affermato i diritti degli omosessuali donne e uomini, dei

transessuali e dei queer. Dunque, sono stati “movimenti LGBQT”, movimento battuti per i

desideri e le identità sessuali non conformi a una norma eterosessuale. Naturalmente una

notevole grado di ricerca è stato compiuto anche sulla storia dell’omosessualità.

UNITÀ 7:

DONNE E GUERRA. MOBILITAZIONE INTERNA, NUOVE PROFESSIONI, PACIFISMO.

RAPPORTO TRA DONNE E GUERRE.

Perché fermarsi su rapporto tra donna e guerra? perché le donne hanno rappresentato un

soggetto particolare rispetto alle condizioni di guerra, sia come donne che hanno subito la

guerra come civili, sia quando hanno combattuto in armi la guerra, sia quando hanno cercato di

tutelare il mondo dallo scoppio delle guerre in nome della maternità ma non soltanto.

OGGI: premessa, indicando quali sono le guerre che hanno creato più rifugiati negli ultimi anni.

Oggi ci sono 70 milioni di rifugiati dalla guerra e la maggior parte di essi sono donne e bambine.

Ci sono quindi, nel mondo, oltre 70 milioni di persone in fuga. I dati sono quelli forniti

dall’UNHCN (alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati). Ci sono più di una decina di

guerre che producono in particolare molti rifugiati e rifugiate e la metà di essi nel mondo,

proviene da guerre che si sono svolte negli ultimi anni in Siria, Afghanistan, Birmania e Somalia.

In Siria, circa 7 milioni di persone sono fuggite dalla guerra stanziandosi in Turchia, Libia,

Giordania, Egitto. Circa un milione di bambini siriani sono nati già rifugiati. Ci sono inoltre milioni
di persone che sono costretti alla fuga ma sono comunque ancora all’interno del territorio

nazionale. Il 2018 è stato l’anno in cui ci sono state meno vittime (20 mila) ma nello stesso anno,

secondo l’Unicef, sono stati uccisi 1100 bambini (il numero più alto partendo dall’anno delle

ostilità quindi 2011). Molti o quasi tutti questi rifugiati, non hanno diritto alla istruzione e vivono

in campi profughi. Un secondo paese è l’Afghanistan, dove migliaia di persone continuano a

fuggire dalla guerra anche se finita dal 2014. È una guerra che è scoppiata nel 2001 dopo gli

attacchi dell’11 settembre e non è mai veramente finita. Secondo la missione delle nazioni unite

per l’Afghanistan, la violenza che ha tutt’ora dentro il paese, ha raggiunto una intensità molto

maggiore rispetto agli anni di conflitto tra USA e talebani.

Il Sudan del sud ha una lunghissima guerra civile che è costata a quasi 2 milioni di vite umane,

ha portato alla nascita dello stato del sud dal 2011. Dal 2013 è ripresa una guerra con stupri di

massa nei confronti delle donne e bambini che vengono reclutati come milizie.

In Biamar, nell’estate del 2017 ci sono state circa 500 mila persone di etnie che hanno lasciato il

paese minacciate dalla polizia etnica e messa in atto dall’esercito Birmano. Molti hanno trovato

rifugio in Bangladesh dove si trova uno dei più grandi campi di accoglienza del mondo… anche

in Biamar, la violenza sessuale che è stata perpetrata dalle forze biermane nei confronti delle

donne, è stata utilizzata per intimorire la minoranza etnica del paese. A tutt’ora ci sono mezzo

milione di donne a rischio di persecuzione e genocidio.

La Somalia vive in guerra dagli anni 90. Grandi parti del suo territorio sono in mano a milizie in

conflitto tra loro. Si stima che tra 6 e 7 milioni di persone siano continuamente a rischio carestia

e 5 milioni di somali sono sfollate quindi hanno dovuto lasciare la loro casa. Si sono dislocati in

Kenia, Etiopia e Iemen.

Questi sono i paesi che producono più rifugiati, ma l’elenco dei paesi in guerra non è completo.

I 5 stati sono solo una punta dell’iceberg. (congo, palestina, venezuela, honduras, nigeria,

mali…tanti sono gli stati da cui si fugge).


Più del 50% della popolazione mondiale dei rifugiati è appunto costituito da donne e bambine

che sono private della protezione della loro casa e famiglia (spesso le famiglie vengono divise).

Le donne sono vulnerabili: devono affrontare spesso lunghi viaggi per cercare rifugio fuori dal

proprio paese e anche quando sembrano aver trovato rifugio, devono sopportare indifferenze,

violenze o abusi sessuali. Vivono prevalentemente in campi e si cerca di fare in modo, che le

donne e le bambine e bambini abbiano accesso a protezioni e beni di servizio di prima necessità.

Ma naturalmente, i campi profughi sono luoghi terribili dove i rifugiati vivono anche per

moltissimo tempo.

Nei campi profughi, le donne e i bambini rappresentano l’80%. Le rifugiate si lasciano nel paese

di origine padri, mariti o fratelli che sono impegnati nella guerra o sono morti; mentre, scappano

rischiano stupro e violenze da parte dei combattenti. Nelle ultime situazioni, lo stupro è stato

strategicamente usato come arma di guerra per affermare una sorta di pulizia etnica.

La sofferenza causata dallo stupro non finisce con la cessazione della guerra perché le donne si

portano indietro per tutta la vita il dramma e trauma psicologico.

A volte vengono rifiutate dalle famiglie e comunità. Devono sostenere gravidanze non volute e

si ammalano di malattie trasmesse sessualmente.

Le donne rifugiate rappresentano quasi sempre l’unica speranza di sopravvivenza per i figli. Nei

campi profughi, al mattino presto si comincia a fare le code per l’acqua in mezzo al fango, le

taniche vengono portate a terra e ci sono km di cammino per raccogliere rami secchi e poter

cuocere quel poco mangiare che viene distribuito. Il cibo viene distribuito in modo arbitrario,

quindi i profughi sono tutti uomini e donne in una situazione vulnerabile ma donne e bambine

lo sono di più.

Su i conflitti attuali c’è da aggiungere che molte agenzie dell’ONU e organizzazioni non

governative, stanno parlando sul ruolo che le donne possono avere sulla risoluzione dei conflitti

e, perché le donne possono effettivamente svolgere un ruolo di mediazione che spesso è molto
più forte di quello degli uomini. Le donne possono effettivamente svolgere un ruolo nelle forze

di pace (corpi di pischiping) e una maggiore inclusione delle donne nella risoluzione dei conflitti

è un passo molto importante per non lasciare la guida delle guerre e dei processi di pace solo

agli uomini.

GUERRA DELLE DONNE IN MEDIO ORIENTE: importante perché c’è una lunga storia delle donne

in guerra, ma certamente le donne in medio oriente, sia nei ranghi dello stato islamico, sia di

Arcaida quindi organizzazioni dell’estremismo, ma anche di chi combatte nelle organizzazioni

terroristiche, le donne sono molte: lo sono per ideologia, per disperazione, per guadagnarsi il

pane, per proteggere la propria terra.

Le donne cosacche sono state le prime a combattere in Russia a fianco degli uomini. Erano il

primo battaglione femminile della storia contemporanea, durante la prima guerra mondiale.

Nella seconda guerra mondiale, le reclute femminili sono state molte di più. Hanno militato nelle

forze anti-aerei dei paesi anglosassoni, hanno combattuto in prima linea con i sovietici e hanno

fatto parte della croce rossa internazionale nella maggior parte degli eserciti di tutti i paesi. Le

donne nella croce rossa sono servite come infermiere anche nella prima guerra mondiale.

Oggi le donne che combattono sono un po’ ovunque. In medio oriente, ci sono donne curde che

combattono per l’indipendenza, siriache che combattono in cerca della salvezza della guerra e

ci sono anche donne che combattono a favore delle organizzazioni terroristiche e stato islamico.

Con la nascita dello stato islamico, si è molto parlato anche delle donne nero: donne pronte a

tutto, a sacrificare non soltanto la loro vita, ma anche la vita dei loro figli; in Libia e Marocco,

anche si sono create cellule armate femminili e dal 2013, le donne che fanno differenze in medio

oriente, sono quelle che hanno preso le armi per combattere contro le forze di Arcadia e contro

lo stato Islamico. Quindi donne che combattono in entrambi i fronti, a favore e contro lo stato

islamico.
La religione non è il collante per queste donne combattenti perché spesso sono di religioni

diverse e le donne hanno anche combattuto molto nella guerra in Ruanda che è stata una lunga

guerra civile a favore delle due etnie che si sono combattute. Quindi, donne che combattono,

che patiscono la guerra come vittime, che vengono stuprate come bottino di guerra. Però lo

stupro non è una caratteristica solo delle nuove guerre ma una caratteristica purtroppo di tutte

le guerre. Lo stupro delle donne è considerato un modo per umiliare il nemico.

Audio 2

GUERRE DEL PASSATO (SOPRATTUTTO PRIMA GUERRA MONDIALE).

Stefania Bartoloni (donne di fronte alla guerra), (la grande guerra delle italiane) grande scrittrice.

LE DONNE NELLA GUERRA, SOPRATTUTTO PRIMA GUERRA MONDIALE.

L’assenza di mogli uomini chiamati a combattere, provocò in tutti i paesi coinvolti dalla e nella

guerra, una serie di conseguenze molto pesanti sia a livello economico, sia a livello sociale.

In questo quadro, la totalità delle donne fu toccata dalla guerra e le donne furono toccate in

modi diversi dagli uomini. Dovettero fare i conti soprattutto per la prima guerra mondiale ma

anche per la seconda, con un conflitto di dimensioni globali che lasciò sui campi di battaglia,

decine di milioni di soldati e che mobilitò molte risorse economiche; coinvolse molti paesi

neutrali e segnò anche la fine della supremazia Europea nel mondo. Le donne si trovarono a

confrontarsi con un evento soprattutto nella prima guerra, di cui non avevano nessuna

conoscenza e percezione e naturalmente come tutti i grandi eventi, questo ebbe una influenza

molto pesante sulla vita e famiglia delle donne, vita politica, rapporti di genere, costruzione della

memoria. Soprattutto nella seconda guerra mondiale, ci furono molte donne rifugiate come le

donne che furono costrette ad espatriare con i loro figli, avviando un fenomeno che adesso è

molto esteso.
ITALIA: in Italia quando scoppiò la prima guerra, la gran parte dei nuclei famigliari convolti erano

di origine contadina. Quindi anche le divisioni di genere di lavoro erano condizionate a questo.

La gran parte degli uomini lavoravano fuori dalle mura domestiche mentre le donne lavoravano

all’interno accudendo i figli e svolgendo le faccende domestiche di tutti i giorni, accudendo la

casa e contribuendo all’economia della famiglia lavorando nei campi. Le cose non erano molto

diverse per le famiglie operaie (gli uomini lavoravano nelle fabbriche ma come abbiamo visto,

anche le donne lavoravano nelle fabbriche anche se in misura minore e molte di essere per le

fabbriche a domicilio). Questa situazione in tutta Europa cambiò molto con la guerra perché,

quando gli uomini dovettero andare al fronte, a rivestire i loro compiti lavorativi, non potevano

che essere le donne. Quindi, le donne divennero membri attivi dell’economia e delle società dei

loro paesi di origine. In Italia successe la stessa cosa così come successe in altri paesi.

Le donne si trovarono non soltanto a dovere gestire la famiglia ma dover gestire il lavoro agricolo

e anche a gestire il lavoro in fabbrica al posto dei ruoli. Furono presenti nei settori della

metallurgia, meccanica, trasporti e nelle mansioni di tipo amministrativo (negli uffici addetti allo

sforzo di guerra).

Le donne si trovarono per la prima volta a compiere gli stessi lavori dei loro colleghi maschi,

anche nelle fabbriche, perché mentre nelle fabbriche le donne di solito lavoravano nel settore

tessile e abbigliamento, si trovarono a lavorare nel settore della meccanica. Quindi presero il

posto dei loro figli o mariti, in quelle attività a cui non erano assolutamente abituate.

C’è un grande dibattito nella storiografia, se il lavoro durante le guerre rappresentò una forma

di emancipazione per le donne oppure no, se l’emancipazione lavorativa delle donne, corrispose

a una maggior libertà a livello personale o se invece le donne continuavano a rimanere

subalterne.

Certamente il lavoro costituì un elemento di emancipazione ma fu molto temporanea. Gli uomini

tesero a rientrare nel mercato del lavoro e a vedere le donne come una sfida e come delle
competitrici sul mercato del lavoro. Le donne costituirono una forza lavoro fortemente

temporanea; la prima guerra mondiale fu appunto anche, quello che stabilì nuove professioni

per le donne. Una delle professioni più diffuse per le donne era quello di maestra e una

professione che si diffuse molto durante la prima guerra mondiale fu quello dell’infermiera.

L’esperienza delle infermiere accorse per assistere i feriti e malati, è stata molto esaltata ma

poco studiata. In Italia è stata studiata da Stefania Bartoloni che ha scritto un libro: “Italiane alla

guerra. L’assistenza ai feriti 1915-1918”, pubblicato nel 2003.

Quando è nato il corpo delle infermiere volontarie? È nato nel 1908 ma svolse il suo lavoro

soprattutto a partire dal maggio del 1915 quando l’Italia entrò in guerra. La croce rossa riuscì a

formare circa 4000 donne per l’assistenza ai feriti che arrivarono a 10.000 alla fine del conflitto.

Il loro lavoro si svolse negli ospedali delle città e spesso era vicino alla trincea, nelle ambulanze

chirurgiche e sui treni ospedalieri (come veri e propri ospedali) sul fronte del Carso, del Trentino,

Isonzo e nelle unità sanitarie italiane in Macedonia, nelle Fiandre e nelle Ardenne.

A queste prime 4000 e fine conflitto 10.000 crocerossine e infermiere, vanno aggiunte le

religiose appartenenti a vari ordini e le infermiere professionali. Troviamo poi le volontarie

infermiere educate dalle associazioni patriottiche. In realtà le infermiere furono molte di più

delle 10.000 formate dalla croce rossa.

Molte furono le crocerossine anche negli altri paesi in guerra. Furono 6400 in Inghilterra, 16,000

in America, 70.000 in Francia.

Questo intervento delle donne in questo campo dell’infermieristica è molto rilevante.

L’attività della croce rossa fu in Italia, possibile grazie all’azione che era stata svolta fino dalla

metà dell’800 dalle associazioni emancipazioniste delle donne, associazioni dedicate

all’assistenza ai poveri e malati.


Durante la guerra, questa professione femminile fu favorita dal consiglio nazionale delle donne

italiane che comprese molto bene la necessità che il settore sanitario aveva, sia durante la guerra

sia nell’immediato dopo guerra.

Questa professione di infermiere, servì a molte donne giovani, non soltanto a formarsi in una

professione ma anche ad acquisire una autonomia avendo un guadagno autonomo. Fu un

grande cambiamento anche se fu transitorio per le donne lavoratrici molto legato al momento

della guerra.

Rispetto agli altri paesi coinvolti, mentre molti come Francia, Italia, Inghilterra USA, ricorsero

alle infermiere della croce rossa, altre nazioni come l’Australia, Canada usarono e si servirono di

donne e infermiere organizzate nell’ambito dei propri eserciti. Nella prima guerra mondiale

furono 2500 le donne destinate agli ospedali inglesi e francese (organizzati dall’Australia) e

furono più di 3000 le donne canadesi impiegate nel teatro di guerra e gli USA arruolarono più di

1400 infermiere a cui si aggiunsero più di 21.000 infermiere arruolate nell’esercito americano.

In Italia e Francia, le donne infermiere sentirono molto il richiamo patriottico e spesso svolsero

questo lavoro come volontarie soltanto furono invece retribuite.

In Italia, nella struttura della sanità militare, le crocerossine furono dislogate nel 443 ospedali da

campo e nei 948 ospedali creati all’interno del paese.

La storia della croce rossa e delle infermiere Italiane nella croce rossa, è una storia che dimostrò

tanto la volontà di voler aiutare il paese in guerra, tanto quello di voler professionalizzare il

lavoro femminile. È anche vero che tra i vari tipi di mobilitazione femminile durante la guerra, in

ambito sanitario non smobiliò chi aveva partecipato alla guerra nel ruolo di infermiere: molte

donne, molte che avevano svolto altri lavori durante la guerra come nelle industrie, tornarono

a casa alla fine del conflitto, mentre molte infermiere della croce rossa si proiettarono nella

politica partecipando come esperte ai lavori della commissione ministeriale per la riforma

infermieristica e promuovendo molte iniziative tra cui la nascita dell’associazione italiana tra le
infermiere che doveva tutelare il lavoro infermieristico femminile. Quindi, nella creazioni di posti

di lavoro durante la prima guerra mondiale, un po`in tutto il mondo e anche in Italia, la

professione delle infermiere si affermò con particolare forza perché c’era molto bisogno e molta

volontà di aiutare e perché si sentiva fortemente la necessità di professionalizzare una

professione che sarebbe rimasta per molti anni un campo soprattutto femminilizzato.

Audio 3

Le donne non parteciparono alla guerra solo come lavoratrici o sostenitrici dei loro paesi in

guerra, ma si organizzarono anche contro la guerra per battersi contro il prolungamento della

guerra, a favore della pace. Già nel 1915, negli Stati Uniti, si riunirono oltre 3000 donne a

Washinton per protestare contro la guerra e fu proprio a partire da questa manifestazione, che

aveva dato luogo a quello che viene chiamato “Partito delle donne per la pace”, nacquero le

prime associazioni internazionali.

Già a Washinton, fu elaborata una piattaforma delle donne per la pace, con l’obiettivo di

ridefinire le basi della politica estera e arrivare a una soluzione mediata del conflitto.

Da quel momento anche in Europa, l’opposizione femminile alla guerra, divenne possibile, tanto

che venne convocata in tempi brevi, un congresso internazionale delle donne a favore della

pace, che si riunì all’Aia, il 28 aprile del 1915. La riunione era numerosa, vi parteciparono 1136

donne, provenienti da paesi neutrali e belligeranti. Quell’incontro fu considerato molto di

successo. Il congresso approvò 20 risoluzioni che dovevano costituire le linee guida per la nuova

organizzazione e fu creato un organismo transitorio che aveva come nome “commissione

internazionale delle donne per una pace permanente”.

Questa nuova organizzazione, fu guidata da alcune donne che erano all’avanguardia e tra loro

le più note furono Aletta Jacobs, Rosa Manus, Jane Adams.


Fu alcuni anni più tardi, che nel corso del secondo congresso internazionale delle donne per la

pace, riunito a Zurigo nel 1919, che si stabilì l’organizzazione che avrebbe mantenuto il nome di

“lega internazionale delle donne per la pace e libertà”, che fu impostato subito come una

organizzazione con modalità molto diverse dalle associazioni dell’800; era una organizzazione

molto più moderna che voleva affermare i diritti di tutti e non solo delle donne e che era

orientata a pronunciarsi sulle decisioni di politica estera di vari paesi. Non solo, le donne

avrebbero dovuto avere, secondo l’organizzazione, un ruolo importante nella mediazione dei

conflitti: avrebbero dovuto partecipare ai processi decisionali.

All’interno di questa esperienza che cominciò nel 1915, anche l’Italia ebbe una sezione

internazionale di questa lega. Questa sezione italiana fu avviata dal 1915, era composta da due

commissione, i cui centri direttivi erano dislocati a Milano e a Roma. In Lombardia c’era il gruppo

originario che era diretto da Rosa Genoni, l’unica italiana che fu presente al congresso del 1915,

mentre a Roma il comitato delle donne a favore della pace era coordinato da Anita Donelli

Zampetti. Questa ultima, fu anche scelta dalla segreteria internazionale come referente per

l’Italia, visto che era una delle poche a conoscere molto bene l’inglese.

Queste donne italiane, si impegnarono fortemente a mantenere i contatto internazionale e

cercarono fin dal 1915, di tessere un rapporto molto stabile con le attiviste pacifiste degli altri

paesi.

Nel biennio 1917-1918, ci fu un impegno particolare della sezione italiana a favore della fine

della guerra; finita la guerra, nel 1918, le pacifiste italiane riuscirono ad organizzare il loro primo

incontro pubblico nazionale a Roma nel giorno 1 marzo 1919.

L’incontro aveva l’obiettivo di far conoscere alle donne italiane le attività dell’organizzazione

internazionale ed ebbe un discreto successo di pubblico. Vi parteciparono molte donne

professioniste e lavoratrici nonostante la campagna diffamatoria che era stata promossa dalla

stampa che accusava le organizzazioni di non avere abbastanza orgoglio nazionale.


Le donne pacifiste italiane come anche le altre donne a livello internazionale che facevano parte

nell’organizzazione per la pace e libertà, si impegnarono chiedendo con forza una serie di punti:

-progressiva riduzione degli armamenti

-investimento delle donne con ruoli di mediazione dei conflitti

-l’appoggio alla costituzione della società delle nazioni proposte dal presidente americano al

tavolo della pace a Varsail. Perché la società delle nazioni avrebbe fatto in modo che non si

arrivasse più ad un conflitto come quello devastante della prima guerra mondiale, perché la

società delle nazioni avrebbe cercato di diminuire i conflitti internazionali prima che questi

sfociassero in una vera guerra.

Questa attività, delle donne italiane all’interno della organizzazione internazionale, fu una

esperienza di grande interesse. Ebbe anche caratteristiche particolari perché la sezione italiana

era composta soprattutto da donne non giovanissime che avevano una mentalità pacifista da

diversi anni, ma che non avevano una grande preparazione politica. Molte erano socialiste, ma

avevano un modo di guardare alla politica del pacifismo che non era come quello delle donne

degli altri paesi (che avevano un pensiero più innovativo).

Per quanto riguarda gli obiettivi politici della sezione italiana, loro si concentrarono soprattutto

nella campagna per il voto alle donne mentre per le altre donne internazionali, la questione del

suffragio femminile non era la questione principale; è vero che era tra le risoluzioni adottate al

primo convegno dell’Aia del 1915, ma in realtà a livello internazionale queste donne si

impegnarono soprattutto e fortemente per capire quali potessero essere i modi per chiedere il

disarmo e per preparare un nuovo ordine mondiale in cui non fosse previsto di arrivare alla

guerra per derimere i conflitti internazionali.

Infatti, le donne che parteciparono alla wilf, furono donne a livello internazionale, che cercarono

di trascendere l’interesse nazionale per abbracciare tematiche che riguardassero il pacifismo a


livello internazionale. Quindi, ci fu uno sforzo molto forte da parte delle donne a livello

internazionale per trovare quella che oggi chiamiamo una agenda condivisa.

Mentre per le donne italiane, prevalse la idea di cercare di puntare su obiettivi che fossero

soprattutto internazionali. Ma con un interesse molto più forte e strettamente all’Italia. Quindi

tra le donne italiane, meno internazionalismo ma più concentrazione su le questioni che

riguardavano il paese.

L’organizzazione per le donne per la pace fu molto attiva anche durante la seconda guerra

mondiale. Esiste anche ora, anche se con obiettivi diversi perché cerca di costruire un mondo

libero dalla violenza nei confronti delle donne, dalla libertà; è impegnata sul fronte

ambientalista, si schiera a favore dell’uguaglianza sociale e politica, combatte il razzismo,

sessismo e omofobia.

Nel corso della seconda guerra mondiale, il movimento internazionale delle donne per la pace

si è battuto contro la creazione e l’uso della bomba atomica e una delle organizzazioni che in

Italia si è particolarmente battuta con un attivismo molto forte contro l’uso della bomba

atomica, è stata “l’unione donne italiane” nata nel 1944, vicina alla politica del partito comunista

italiano.

Riassumendo: le donne che hanno fatto parte del pacifismo internazionale, hanno preso da

subito, dallo scoppio della prima guerra mondiale, una posizione e una agenda che prevedeva

un disarmo per tutte le nazioni, una pace permanente, la creazione di una organizzazione come

la società delle nazione che fosse in grado di derimere i conflitti tra le nazioni prima che

scoppiassero i conflitti militari e hanno sempre rivendicato un ruolo nei processi decisionali e

come elemento di mediazione per le donne più abili rispetto agli uomini di svolgere questo

compito.

UNITÀ 8:
VIOLENZA CONTRO LE DONNE

Audio 1

Nel 2017, fu pubblicato un rapporto dell’organizzazione mondiale della sanità, che definiva la

violenza contro le donne “un problema di salute di proporzioni globali enormi”. Questo rapporto

fu elaborato in collaborazione con la London School Of Higin Of Tropical Medicine e la South

African Medical Reserce Country.

Vi si diceva che l’abuso fisico e sessuale è un problema medico sanitario che colpisce un terzo

delle donne nel mondo.

Il rapporto, il cui titolo era “Valutazione globale regionale della violenza contro le donne,

diffusione e conseguenze sulla salute e abusi sessuali da parte di un partener intimo o da

sconosciuti ”, è il primo studio che analizza sistematicamente i dati sulla diffusione della violenza

femminile a livello globale, che viene praticata da parte o del proprio compagno o sconosciuti.

La violenza, è una esperienza traumatica che viene vissuta da oltre il 35% delle donne in tutto il

mondo. Questo studio ha riscontrato che la forma più comune di abuso viene inflitta da un

compagno intimo, quindi proprio marito, ex marito o ex compagno. Questo studio evidenzia

anche la necessità che tutti i paesi abbiano e si dottino di una legislazione per eliminare

qualunque forma di tolleranza verso la violenza femminile e favorire il sostegno alle vittime.

L’impatto sulla saluta fisica e mentale di donne e bambine vittime di atti di violenza, è descritto

dal rapporto e le conseguenze variano da fratture e danni ai corpi a gravidanze non desiderate,

disturbi mentali a rapporti sociali compromessi. La direttrice generale dell’organizzazione

mondiale della sanità che si chiama Margaret Cian, afferma a commento di questo rapporto: “ i

dati mostrano che la violenza femminile è divenuto un problema di saluto di enormi porzioni.

Abbiamo notato che i servizi nazionali sanitari dei diversi paesi, possono e devono fare di più per

dare conforto a donne che subiscono atti di violenza fisica e abusi sessuali.”.
Secondo il rapporto, i dati diffusi secondo gli abusi da parte di un partner intimo evidenziano

che in molti casi ci sono lesioni pesanti o morte, che questi atti provocano spesso una forte

depressione o disturbi mentali e che le donne sottoposte ad abusi da parte del proprio

compagno, hanno quasi il doppio delle probabilità di soffrire di depressione in confronto a

donne che non hanno subito violenze.

C’è anche il problema dell’abuso di alcol, perché le donne che subiscono violenze da parte del

compagno, hanno quasi il doppio di probabilità di sviluppare problemi di dipendenza di alcol.

Inoltre, c’è la possibilità di contrarre malattie sessualmente trasmettibili. Le donne vittime di

abusi da parte di compagni e sconosciuti, hanno l’1,5% di probabilità in più, di contrarre infezioni

come la gonorrea. In alcune regioni come l’Africa Sub Sahariana, hanno l’1,5% di possibilità di

contrarre maggiormente il virus dell’HIV.

Inoltre, in molti casi, le donne, subiscono gravidanze indesiderate e lo studio dell’organizzazione

mondiale della sanità, ha dimostrato che le donne che subiscono abusi fisici, hanno quasi il

doppio della probabilità di avere aborto rispetto alle donne che non hanno subito violenze.

TIPI DI VIOLENZA, NON ESISTE UN UNICO TIPO DI VIOLENZA IN GENERALE E NEI CONFRONTI

DELLE DONNE.

QUELLO CHE CARATTERIZZA LA VIOLENZA NEI CONFRONTI DELLE DONNE, È CHE LA VIOLENZA

ALL’INTERNO DELLE RELAZIONI AFFETTIVE, È LA PIÙ DIFFUSA IN OGNI SOCIETÀ E CULTURA. Ha

le proprie radici nella disparità di diritti tra uomo e donna e soprattutto in molti paesi del sud

del mondo, nella cultura di sottomissione in cui le donne vivono in società ancora di stampo

fortemente patriarcale.

Noi parliamo soprattutto di violenza fisica, che ogni forma di violenza contro il corpo o contro le

cose che quelle persone amano. Si va dall’aggressione fisica grave che comporta ferite e richiede
cure mediche di emergenza, fino alla morte, fino ad atteggiamenti violenti contro oggetti, vestiti,

animali, che tendono a mirare fisicamente a spaventare e controllare la persona.

Ma oltre alla violenza fisica, esiste quella psicologica quindi la mancanza di rispetto che offende

e mortifica la dignità. Questo tipo di violenza può manifestarsi da sola ma è sempre presente in

altre forme di violenza. È la prima a manifestarsi ed è quella che permette di occuparsi delle

altre forme. È meno visibile perché non lascia segni ma è devastante perché comprende abusi

psicologici come intimidazioni, umiliazioni pubbliche o private, continue svalutazioni, ricatti,

controllo delle scelte personali e relazioni sociali fino ad indurre la persona ad allontanarsi da

amici e parenti e costringerla all’isolamento.

C’è anche la violenza sessuale, coinvolgimento in una attività sessuale senza il consenso di quella

persona. Riguarda qualunque atto sessuale o tentativo o commenti, avanzi sessuali non

desiderati.

La violenza sessuale riguarda anche il traffico sessuale di donne che vengono spinte ad emigrare

a scopi di prostituzione coatta.

Esiste inoltre, la violenza economica quindi ogni forma di controllo sulla economia economica

delle donne. È molto difficile da rilevare perché ne sono poco consapevoli anche le vittime. Ci

sono forme di controllo economico come sottrarre l’accesso al denaro o altre risorse di base,

sabotare il lavoro delle donne o impedire opportunità educative. Questa forma di violenza

riguarda le donne che sono costrette, ad una situazione di dipendenza e non hanno mezzi

economici per soddisfare i loro bisogni e quelli dei loro figli. Quindi vengono private di decidere

in autonomia.

Un’altra forma di violenza è lo stalking: ogni atto che non prevede la libertà e la sicurezza delle

donne. Indica forme di comportamento controllate, messe in atto da parte del violatore sulla

vittima. È un atto di violenza riconosciuta da pochi anni in Italia a livello normativo. Spesso

questa forma di controllo fisico attraverso invii indesiderati di oggetti, regali, pedinamenti a piedi
o in auto, telefonate, sms, sul luogo di lavoro o fuori da casi, questa forma molto spesso precede

atti più violenti.

Bisogna assolutamente tener conto del fatto che gli atti di violenza nei confronti contro le donne,

sono molto differenziati e sono differenziabili.

Un tema a parte è la violenza nei confronti delle donne durante le guerre.

Il rapporto dell’organizzazione mondiale della sanità indica quali sono i fattori di rischio per le

donne che subiscono violenze sessuali:

Sono più vulnerabili le donne con un minor livello di istruzione

Donne che hanno subito maltrattamenti già quando era bambine

Donne che sono state testimoni di violenza sessuale

Donne che hanno atteggiamenti volti a perdonare la violenza. Perdonare in realtà pone le

vittime in una situazione di forte svantaggio.

Ci sono poi, anche delle norme comunitarie, che infliggono alle donne e bambine forme di

violenza fisica come la mutilazione genitale.

Nella violenza da parte dei partner, per lo più mariti e compagni, ci sono discordie e discussioni

coniugali o coppia, difficoltà nella comunicazione tra partner, comportamenti di controllo

maschili nei confronti delle donne.

Nel caso delle violenze soprattutto nei paesi del sud del mondo, ci sono credenze molto radicate

sull’onore famigliare e sulla purezza sessuale e deboli sanzioni legali per la violenza sessuale che

spesso soprattutto nel caso di alcuni paesi del sud del mondo, queste violenze non vengono

assolutamente denunciate.

In Italia, la prima innovazione legislazione in materia di violenza sessuale, è stata con

l’approvazione della legge del 15 febbraio del 1996, che ha iniziato a considerare contro le donne
come un diritto contro la libertà personale e ha preceduto la normativa che colloca questa

violenza tra i diritti contro la moralità pubblica e il buon costume: ha innovato questa normativa

precedente che non vedeva ancora una violenza contro le donne contro un diritto di libertà ma

solo come un diritto contro la moralità pubblica.

Nel 2001, con la legge del 4 aprile, sono state introdotte nuove misure per contrastare casi di

violenza all’interno delle mura domestiche, con provvedimenti che prevedono l’allontanamento

del famigliare violento.

Nello stesso anno 2001, sono state approvate, la legge numero 60 e la legge del 29 marzo

numero 134, sul patrocinio a spese dello stato per le donne senza mezzi economici violentate e

maltrattate.

Questo patrocinio da parte dello stato per donne che non hanno possibilità di denunciare a

spese proprie, è uno strumento fondamentale per difenderle e per fare valere i diritti di queste

donne e questo avviene in collaborazione con i centri anti-violenza e i tribunali.

Con la legge 23 aprile del 2009, sono state inasprite le pene per la violenza sessuale, è stato

introdotto il reato di atti persecutori, quindi stalking. L’Italia ha compiuto inoltre, un passo molto

importante nel contrastare la violenza di genere, con la legge del 27 giugno del 2013 numero

77, che ha approvato la ratifica della convenzione internazionale di Istambul del maggio 2011;

che è una legge molto importante per contrastare questo fenomeno e ancora la legge 15 ottobre

2013, è un perfezionamento e quindi conversione in legge che predispone disposizioni urgenti

in materia di contrasto alla violenza di genere.

Ancora, il 24 novembre 2017, sono state approvate con un decreto del consiglio dei ministri, le

linee guida per le aziende sanitarie e ospedaliere in tema di soccorso e assistenza sociosanitarie

per le donne che hanno vissuto una violenza. Obiettivo di queste linee guida è quello di fornire

un intervento adeguato ed integrato a causa delle violenze fisiche e psicologiche che la violenza

maschile produce sulla salute delle donne.


Audio 2

(Il culo è un elemento somatico di elevata importanza. Serve a defecare e a rendere la nostra

anima felice e in armonia con l’universo. Il cosmo è intelligente)

Il dibattito politico e l’attenzione dei media nei confronti della violenza di genere soprattutto

contro quella delle donne, sono cresciuti in maniera sensibile negli ultimi decenni. Su questo ha

agito anche la mobilitazione delle donne contro la violenza, la mobilitazione femminili e

femminista, dal soprattutto 1995 (anno della grande conferenza di Pechino per i diritti delle

donne, organizzata dall’ONU, in cui la violenza di genere fu denunciata) fino ai movimenti

recenti, movimento molto diffuso anche in Italia ma anche in altri luoghi del mondo e anche il

movimento ME TU , che è partito negli stati uniti e in qualche modo ha denunciato la violenza e

le molestie sessuali nel mondo prima del cinema e poi più in generale professionale delle donne.

Ci sono del resto, anche molti costi economici e sociali perché, questo fenomeno della violenza

colpisce il 30% delle donne e delle bambine soprattutto nel mondo nelle età tra 16 e 70 anni.

Come è successo per altre discipline, anche la ricerca storica ha progressivamente incluso la

violenza di genere tra i propri temi di indagine e molto è stato prodotto nel mondo dalla ricerca

storica a partire dagli anni 70.

La storia ha contribuito a denaturalizzare la violenza, nel senso che la ricerca storica è riuscita a

sottrarre questo tema dall’idea che esista una natura maschile che è istintivamente o

essenzialmente violenta dove i maschi sarebbero violenti nei luoghi in cui non è stata praticata

civilizzazione o comunque che i maschi tendono di più delle donne in maniera “naturale” ad

avere atteggiamenti violenti. Invece questo non è l’approccio che la storia può adottare perché

non esistono questi steropiti di genere: gli uomini forti e violenti, le donne deboli e

possibilmente vittime; esistono forti simmetrie di genere ma devono essere lette al di fuori degli

steropiti.
La ricerca storica quindi, ha dimostrato come uno degli ambiti più significativi da analizzare per

comprendere la violenza, sia costituito dalla famiglia e dalla sua storia e dalle relazioni coniugali.

In Italia, nel 2010, è uscito un numero monografico della rivista Genesis (della società italiana

della storia, dal titolo Violenza). È stato curato da Maria Chiara Donato e Lucia Ferrante. Nel

2017, è stato pubblicato un libro importante curato da Simone Feci e Laura Schettini che si

intitola: la violenza contro le donne nella storia – contesti, linguaggi, politica del diritto. Secolo

15 e 21 (pubblicato da Viella nel 2017). In più, nel 2019, sempre la rivista Genesis ha pubblicato

un numero monografico: maschilità e violenza di genere.

Perché ci si è concentrati in maniera importante sulla famiglia? Perché nelle varie epoche

storiche, sia nella Europa medievale e moderna (paesi occidentali), la violenza maritare è la

forma prevalente di violenza subita dalle donne. Questa violenza è correlata alla struttura

gerarchica della famiglia e dal diritto di giuristizione dei mariti sulle loro mogli. Subordinazione

delle donne dal punto di vista giuridico ed esistenza della patria potestà. Un pater familias

dunque può ricorrere, poteva, legittimamente alla violenza, per mantenere l’ordine, esercitando

un modo per correggere i comportamenti femminili. Accanto ai maltrattamenti e punizioni

fisiche, la ricerca storica ha sottolineato anche l’accesso del marito al corpo delle donne, il diritto

cioè del marito, ad esigere rapporti sessuali; un fatto che ha reso legittimo fino alla seconda

metà del 900, lo stupro coniugale.

La storiografia quindi, ha documentato il rapporto tra violenza e situazione famigliare.

Importante è stato in Italia per cambiare questa cosa, la riforma del diritto di famiglia (avvio del

nuovo diritto) con la legge del 19 maggio 1975, che ha sancito il principio di uguaglianza tra i

coniugi espresso dalla costituzione (ha parificato uomo e donne all’interno del matrimonio con

gli stessi diritti).

Un altro tema che è stato molto indagato dalla storiografia, è stato quello del controllo della

sessualità femminile: una sessualità che è stata investita di significati che andavano molto oltre
la sfera individuale e che riguardava il controllo sulla capacità generativa e riproduttiva delle

donne e la proprietà sul corpo delle donne. Questa è una storia che deriva dall’età romana e

arriva fino ad oggi. La sessualità femminile quindi, è stata sempre considerata subalterna a

quella maschile e per gli uomini tendenzialmente controllare quella sessualità è stato un modo

per tenere insieme l’istituto della famiglia. Anche questo fa parte di leggi che si sono susseguite

ma anche di stereopiti che vedono le donne tendenzialmente subalterne agli uomini.

Il fatto che ci fossero leggi che tutelavano la patria potestà e la patria in senso di maritare e

paterna che il pater familias come si diceva nel diritto romano, fosse colui che decideva dei

comportamenti di tutta la famiglia e anche delle donne, è una concezione che spiega come mai

per secoli lo stupro sia stato considerato non un reato o una offesa nei confronti delle donne ma

un reato nei confronti dell’ordine delle famiglie o dell’ordine morale della società, perché

soltanto in alcuni momenti le donne potevano essere considerate vittime.

Il risarcimento del danno veniva considerato un risarcimento da attribuire alla famiglia della

donna violentata ma non un risarcimento da dare alla donna vittima.

La storia, la ricerca storica, anche in questo caso, ha avuto il compito di individuare alcuni

elementi costitutivi e di lunga durata della violenza di genere ma si è concentrata anche sulle

analisi della discontinuità perché ovviamente la violenza alle donne varia ed è variata nel corso

del tempo ma anche nello spazio. È ovvio che la violenza, il tipo di violenza che le donne

subiscono in Italia, non è lo stesso delle donne che subiscono nel sud del mondo o in alcuni paesi

in cui la subordinazione femminile è ancora fortissima. Si tratta di esaminare i dati per analizzare

la dimensione strutturale della violenza che impedisce di identificare sempre e soltanto gli

uomini con un atteggiamento “naturalmente violento”.

Nel corso del tempo inoltre, sono cambiati i modi di percepire e concettualizzare la violenza, sia

dal punto di vista giuridico, sia dal punto di vista culturale. Sono cambiati anche i parametri per

guardare alla violenza. Se noi prendiamo in considerazione la tendenza storica di una delle forme
più estese di violenza maschile contro le donne, oggi una delle più discusse, il femminicidio,

vediamo che questo termine ha avuto e vissuto, degli importanti cambiamenti nel corso del

tempo.

Audio 3

TERMINE FEMMINICIDIO: questo termine si è affermato negli anni 90 del 900, come risultato di

una lunga elaborazione della politica femminista, che voleva evidenziare il contenuto di genere,

l’odio di genere, insito nella maggior parte degli omicidi di donne. Infatti, nel passato come nel

presente, le donne sono state uccise soprattutto in base alla pretesa di dominio e controllo della

loro sessualità da parte degli uomini. I femminicidi, coincidono in buona parte con gli omicidi da

parte dei mariti ma comprendono anche la violenza compiuta da ex partner o aspiranti

compagni, quella che viene compiuta da padri e fratelli che rifiutano matrimoni o modelli di vita

imposti dalle famiglie.

Anche la violenza che colpisce le donne da più uomini: da gruppi di uomini perché lesbiche

oppure la violenza rivolta alle madri da parte di figli delusi o che non hanno trovato abbastanza

ascolto e condiscendenza.

Il femminicidio secondo una definizione che è stata data nel volume “il femminicidio, storia e

attualità” pubblicato nel 2019, può essere sintetizzato così: “un crimine d’odio contro le donne

a causa del loro sesso per quello che sono e per ciò che rappresentano”.

Secondo i dati di cui disponiamo (quelli dell’Historical Violance database) negli ultimi due secoli,

in tutta l’area europea, la violenza sembra sia andata via via diminuendo all’interno dei

matrimoni, mentre i casi di violenza letale sono cresciuti. L’Istat (istituto di statistica italiano), ha

stabilito che l’andamento è proprio di questo tipo: meno quantità di violenza ma maggiori

episodi di gravità. Con una particolare accentuazione nei casi in cui il femminicidio viene

compiuto a causa di processi, di separazione legale all’interno del matrimonio o attraverso il non
riconoscimento, da parte degli uomini, di processi di emancipazione economica e sociale delle

donne che non viene accettata.

Se in passato la violenza da parte dei mariti come forma di correzione o punizione, era molto più

comune e tollerata di oggi, le sue forme erano meno gravi e l’omicidio della moglie era un evento

piuttosto raro. Quindi, la maggior carica di violenza e brutalità che si riscontra oggi, sarebbe

soprattutto espressione della mancata capacità degli uomini ad adeguarsi ad una divisione meno

rigida dei ruoli familiari e sarebbe una risposta drammatica all’autonomia e alla indipendenza

delle donne.

Emozionalmente gli uomini non accettano queste che si possono definire, progressive simmetrie

di genere. In questo campo entra in gioco la storia delle emozioni, che è chiamata in causa per

cercare di interpretare lo studio della violenza di genere e perché le emozioni non sono intese

solo come impulso irrazionale e di natura fisiologica come è stato in passato, ma come un fatto

umano che rispecchia contenuti di tipo sociale e culturale. Molti degli studi dedicati a

mascolinità e violenza, non solo nei confronti delle donne, hanno assegnato un ruolo centrale al

senso dell’onore. L’onore infatti è stato per molti secoli, l’elemento dominante all’interno della

simmetria tra i generi, all’interno dei matrimoni e coppie. (fino al 1968, l’omicidio di una moglie,

quando motivato nella realtà o immaginazione, da un tradimento, veniva depenalizzato perché

si parlava di quell’ omicidio come omicidio di onore. Quindi se l’omicidio veniva compiuto per

difendere l’onore dell’uomo o della famiglia, questo veniva depenalizzato quindi il reato veniva

considerato minore). Ma l’onore non è un valore, è una costruzione pubblica, un bene attribuito,

riconosciuto, offeso, ristabilito, vendicato, all’interno delle relazioni sociali. Per molto tempo

proprio l’onore è stata una pietra della violenza di genere in molti modi diversi: nel passato con

il rituale del duello (uomini che si confrontavano con le armi fino a morirne) meno significativo

sono stati altri modi di confrontarsi tra gli uomini sempre per difendere l’onore proprio o delle

proprie famiglie a causa di presunti tradimenti o infedeltà da parte delle mogli.


Il delitto di onore in Italia come in altri paesi è stato abolito tardi, in Italia nel 68 ma

definitivamente solo nell’81.

L’ira suscitata dagli uomini per l’offesa al il suo onore, è stata considerata a lungo una reazione

emotiva dovuta in termini sociali che culturali, perché bisognava nella morale comune,

difendere la mascolinità offesa. Quindi il delitto di onore era un modo per difendere la

mascolinità offesa.

La centralità dell’onore e dell’ira, è un dato di fatto della violenza maschile, che è andato

riducendosi nell’ultima parte dell’800 e 900, ma che sopravvive ancora.

Molti studi hanno messo in relazione il declino del tema dell’onore in relazione ai femminicidi

perché esiste una maggior preoccupazione da parte degli stati e autorità nei confronti della

violenza interpersonale in generale. Perché ci sono stati mutamenti nel correlare la violenza

maschile nei confronti delle donne all’onore?

Perché tra 800 e 900, la cultura borghese in tutti i paesi occidentali, ha cercato di favorire l’idea

di autocontrollo di contenimento e autodisciplina per gli uomini; in più (gli uomini dovevano

mantenere le loro reazioni entro determinate regole di autocontrollo) c’è stata la diffusione di

nuovi modelli di genere e della famiglia. Nell’800 soprattutto le donne sono state considerate

come esseri particolarmente sensibili e bisognosi di protezione e il matrimonio non doveva

essere visto come il luogo del dominio maschile ma come uno spazio degli affetti. (l’800 è il

secolo in cui si afferma il matrimonio di amore e non combinato). Questi sono cambiamenti

importanti che hanno investito gli elementi della cultura e hanno messo l’amore, la passione al

centro della scena.

Nel contesto di questi processi, l’onore ha perso legittimità nella costruzione della mascolinità e

anche nel vocabolario della violenza.


Al vocabolario della violenza si sono aggiunti due termini: l’eccesso di amore o di passione.

Questi sono campi in gran parte ancora da perlustrare. Dunque, è lecito però chiedersi come e

in che misura questi mutamenti siano legati tra loro e le parole della violenza maschile

esprimano gesti e emozioni di simboli che sono intrecciati a processi storici, sociali e culturali

complessivi.

La violenza contro le donne da parte degli uomini è cambiata nel corso dei secoli, è cambiata

come la violenza è sostanzialmente diversa in luoghi e paesi profondamente diversi tra loro, con

culture e culture di genere che sono molto lontani gli uni dagli altri.

È chiaro che la violenza è più forte e più praticata laddove esistono ancora modelli di patriarcato

e dominio maschile molto forti.

VIOLENZA NEI CONFRONTI DELLE DONNE NEI TEATRI DI GUERRA.

Lo stupro è stato uno degli elementi centrali delle guerre e lo stupro è stato uno dei modi più

forti usati per umiliare il nemico, l’uso del corpo delle donne per umiliare i nemici uomini. La

pratica dello stupro in guerra non è mai finito. Nelle guerre della ex Iugoslavia negli anni 90, si è

parlato anche di stupro etnico; questo significava chiudere le donne del nemico in luoghi in cui

venivano violentate e obbligando queste donne nel caso rimanessero incinte, a non poter

abortire i futuri figli nati da uno stupro. Questo era chiamata una forma di stupro etnico o pulizia

etnica ma nell’ambito di molte guerre come quelle civili e in Sudan. Molte donne sono state

anche violentate con fucili, oggetti e in alcune case sono state volutamente infettate attraverso

lo stupro di HIV.

Queste violenze in guerra, sono state riconosciute come violazione di diritti umani, soltanto

molto tardi, nel 1993, gli stupri di guerra sono stati equiparati agli stupri di violazione di diritti

umani e crimini di guerra dal tribunale dell’Aia (tribunale contro la violenza nelle guerre della ex

Iugoslavia) e nel 1994 sono state considerati crimini di guerra dal tribunale di Ariusha (quello per

i crimini di guerra in Uranda). Solo però nel 2019, è stata approvata dal consiglio di sicurezza
delle nazioni unite, una risoluzione volta a combattere l’uso dello stupro come arma di guerra e

il consiglio di sicurezza ha dichiarato che verrà istituito un nuovo meccanismo per monitorale e

segnalare queste atrocità che nel corso delle guerre avvengono. Il segretario generale dell’Onu,

ha detto queste parole: “dobbiamo riconoscere che lo stupro in guerra colpisce in larga misura

le donne perché è collegato a questioni più ampie come la discriminazione di genere. La maggior

parte di questi crimini non viene denunciata, perseguitata”. Lui stesso ha incoraggiato a dare

una risposta globale a questi crimini per garantire la punizione degli autori e il sostegno

completo ai sopravvissuti.

Quindi, la violenza alle donne è anche una questione che riguarda il tema di diritti umani.

UNITÀ 9

RETI INTERNAZIONALI E TUTELA INTERNAZIONALE DEI DIRITTI UMANI

RAPPORTO TRA DONNE E DIRITTI UMANI.

È una questione molto complessa per molti motivi, anche perché in generale, la storia dei diritti

umani riflette in gran parte l’esperienza occidentale (sia per quanto riguarda gli uomini sia per

le donne) perché prima la nascita dello stato moderno come con il riconoscimento dell’individuo

come soggetto di diritto, e nel secondo dopoguerra l’introduzione del concetto di tutela

internazionale di diritti degli individui, delle minoranze e dei popoli, ha segnato la storia dei diritti

umani come esperienza soprattutto occidentale. Molto più tardi si è applicato il concetto di

diritti umani al resto del mondo. Lo si è fatto soprattutto a partire dalla dichiarazione universale

dei diritti dell’uomo del 1948, una dichiarazione nata da una commissione creata all’interno

dell’organizzazione delle nazioni uniti, al quale all’interno il capo era Roosvelt first lady fino al

1945 e moglie di Roosvelt. La dichiarazione dei diritti umani del 98 è stata molto importante, ma
ha trascurato in gran parte la dimensione di genere del problema. Da li, da quell’anno, si sono

moltiplicate le richieste di rincocettualizzare i diritti umani da un punto di vista di genere.

Noi abbiamo già accentuato la conferenza di Vienna e di Pechino (due grandi conferenze

dell’ONU) dedicate al diritto delle donne, hanno indicato la volontà delle organizzazioni

internazionali, di incorporare nell’agenda dei diritti umani, questioni cruciali per le donne che

sono state troppo a lungo accantonate, soprattutto nei paesi del sud del mondo: stupro anche

in ambito famigliare e come arma di guerra, libertà di riproduzione (interrompere o accedere ad

una gravidanza e possibilità di riproduzione artificiale), la sottovalutazione del lavoro domestico

e lavoro delle donne nel lavoro marginale, le disuguaglianze nel campo del lavoro, della salute,

delle politiche sociali e dello sviluppo.

C’è stato per moltissimi anni, uno scarso riconoscimento dell’esposizione femminile a tutti

questi problemi ed a altri come il rischio di povertà, la mancata tutela della salute riproduttiva e

della salute in generale come lo scarso accesso delle misure per l’accesso al contenimento del

virus dell’HIV.

C’è da dire anche che, molte violazioni dei diritti umani delle donne, su base di genere, sono

state legate alla invisibilità di queste violazioni perché di fatto la questione della sfera privata,

dei rapporti all’interno della sfera privata, è spesso invisibile e per molte donne, in molti paesi

del mondo, la violazione dei diritti umani è stata soprattutto in ambito privato e dunque non è

stata spesso denunciata perché chiusa nelle mura domestiche.

Esiste una significativa produzione disciplinare (politologica, giuridica e storica) sugli sforzi della

comunità internazionale per avanzare i diritti delle donne e anche ci sono studi sui tanti gruppi

che si sono abbattuti per affermare i diritti umani. Ciò nonostante, non esiste una ricostruzione

storica importante ancora, sulla questione dei diritti umani delle donne; quindi, se è vero che si

è espanso l’interesse in questo campo, mancano ancora studi significativi su questo tema o

soprattutto studi complessivi su questo tema.


Alcuni anni fa, una storica delle donne che si chiama Karen Offen, ha scritto le seguenti parole:”

che diritti delle donne siano oggi diritti umani, è oggi una verità consolidata. Le organizzazioni

internazionali delle donne e il loro intervento politico alla società delle nazioni e dal 1945 alle

nazioni uniti, ha avviato una nuova ricerca storica transnazionale, sulla storia del femminismo

che rivendica la sua integrazione in una nozione stessa di una storia, mondo, mondo: quindi non

una storia politica, ma di una storia che tiene conto di un mondo e che sia una storia politica.”

Quali sono state le tappe istituzionali del riconoscimento dei diritti delle donne come diritti

umani?

Certamente noi possiamo dire che nel 48, quando è stata ratificata la dichiarazione universale

dei diritti dell’uomo, dall’organizzazione universale delle nazioni unite, ancora in moltissimi

paesi le donne non avevano il voto, non avevano diritti politici, civili, sociali, economici e

culturali. La stessa dichiarazione del 48, usava un linguaggio di genere neutro, quindi non c’era

una attenzione dedicata nello specifico alle donne.

Dopo la dichiarazione del 48, ci sono state e state approvate dall’organizzazione delle nazioni

unite, altre convenzioni importanti: convenzione contro il genocidio (sempre nel 48), la

convenzione per l’eliminazione della discriminazione razziale (nel 65) nel 1966 la convenzione

internazionale per i diritti politici, sociali ed economici. Tutte queste convenzioni però non

hanno orientato l’interesse sulle questioni di genere o per lo meno non lo hanno fatto in maniera

molto esplicita. Nella dichiarazione del 48 si intendeva per essere umani, tutti e due i generi,

però non c’era una attenzione particolare alle donne, ne c’era nelle altre dichiarazioni citate.

Dopo queste dichiarazioni e precisamente nel novembre del 1967, su pressione del movimento

delle donne che era organizzato già in alcuni paesi (negli USA, Inghilterra e più tardi in Italia),

l’assemblea generale delle nazioni unite ha approvato il testo di una dichiarazione sulla

“eliminazione della discriminazione contro le donne”.


Questa convenzione, divenne poi, nel 1979, la convenzione per l’eliminazione di tutte le forme

di discriminazione contro le donne. Questa importante convenzione fu approvata

dall’assemblea generale delle nazioni unite, il 18 dicembre 1979 ed entrò in vigore nel 81.

Costituiva lo strumento internazionale più complessivo ed esistente in quel momento, in

relazione ai diritti delle donne ed includeva diritti politici, sociali, economici, civili e famigliari.

La convenzione fu il frutto di una sorta di compromesso, non vi era esplicitamente proibita la

pratica della violenza, ma un documento aggiuntivo avrebbe stabilito che ciascuna disposizione

sarebbe dovuta essere applicata con l’obiettivo di eliminare i rapporti di poteri ineguali anche

dentro la famiglia quindi nella vita privata, che vittimizzavano le donne.

Inoltre l’abuso di autorità o potere era riconosciuto come problema strutturale e agli stati

spettava il compito di modificare l’impalcatura sociale che perpetuava la debolezza delle donne

e negava loro l’uguaglianza dei diritti e rendendo loro vulnerabili.

A partire dal 1975, venne avviato il decennio dell’organizzazione delle nazioni unite dedicato alle

donne, quindi 1975-1985, che fu scandito da tre conferenze internazionali per i diritti delle

donne molto importanti: la prima nella Città del Messico nel 1975, la seconda Copenaghen 198°

e la terza a Naerobi nel 1985 che chiudeva questo decennio dedicato alle donne.

Queste conferenze non solo affermavano ripetutamente che la partecipazione femminile anche

in veste decisionale, costituiva un contributo indispensabile, il processo di sviluppo mondiale,

ma queste conferenze costituirono le prime occasioni in cui le donne di retro terra politico,

etnico, professionale ed economico molto diverso, avrebbero avuto una opportunità mai

accaduta prima di stabilire reti di rapporto e la costruzione di coalizioni.

Al convegno finale nel 1985, parteciparono 15.000 donne di oltre 150 nazioni e nel documento

conclusivo fu esplicitato come le donne svolgessero la gran parte dei lavori non pagati nel mondo

e come i 2/3 di esse vivessero in uno stato di povertà. Questa conferenza mostrò anche come le

donne fossero capaci di organizzarsi in reti informali di contatto a livello globale e come fosse
centrale il ruolo delle donne in processi decisionali in politica internazionale per mantenere la

pace e come esistesse uno sfruttamento organizzato di tipo sessuale di ragazze e bambine e

come i compiti di cura ed emozionali svolti dalle donne nei confronti delle loro famiglie o altri,

fossero centrali nella società contemporanea.

Il decennio dedicato alle donne si concluse non solo con una serie di dichiarazioni di principio,

ma con la costatazione di una nuova realtà: le reti femminili che si erano costituite rimasero

permanenti, quindi si creò una grande rete sui rapporti delle donne riguardante i diritti umani e

divennero l’asse portante di un movimento dinamico e molto vivo delle donne per la tutela di

questi diritti.

Audio 2

In queste conferenze internazionali dell’ONU hanno partecipato anche molte donne italiane e

pure alla conferenza di Naerobi del 1985, partecipò una delegazione italiana guidata da Tina

Anselmi e composta da 10 donne, questa era la delegazione ufficiale.

Molte donne parteciparono ai forum paralleli, quelli che si tenevano parallelamente al

congresso ufficiale dell’ONU: erano i forum a cui potevano partecipare le organizzazioni delle

donne e non governative.

Al ritorno da Naerobi, in Italia furono organizzati molti dibattiti; nell’ambito di questi, alcune

componenti della delegazione ufficiale italiana e anche diverse partecipanti italiane dei forum

non governativi, cercarono di restituire i risultati del grande congresso di Naerobi e di analizzare

il clima complessivo di quella conferenza. Quello che arrivò in Italia, è che la strategia adottata

a Naerobi e stata anche adottata da 157 governi partecipanti, rappresentava un programma per

il futuro delle donne, un futuro non soltanto per quello degli anni che rimanevano del 900 ma

anche per il nuovo secolo. Al centro era il tema dello sviluppo che era naturalmente un tema

complesso poiché si parlava di uno sviluppo non nello stesso modo per i paesi occidentali e del
sud del mondo che erano in via di sviluppo, quindi i temi principali erano lo sviluppo a mano,

sviluppo sostenibile e altri modi di produzione possibile, esclusivi anche delle donne.

Anche per e donne italiane il forum di Naerobi, costruì e costituì nuovi gruppi ma anche un

momento molto importante per i legami e costruzione di importanti legami di tipo

internazionale.

Discorso dell’importanza rivestita dalla comunità economica europea (che ancora non si

chiamava comunità europea) che ebbe un ruolo significativo sempre negli anni 80 del 90 per la

promozione della pari opportunità in tutti i settori della vita pubblica e privata: lavoro,

istruzione, equa partecipazione ai valori decisivi. È stata proprio la comunità economica europea

che ha sottolineato soprattutto a partire dalla metà degli anni 80, la necessità di escludere,

eliminare, le discriminazioni verso le donne nei campi del lavoro, istruzione, formazione e della

politica. In generale dunque, c’è stato una azione della comunità economica europea molto

importante sul piano dell’uguaglianza formale e sostanziale delle donne in tutti gli aspetti della

società.

In seguito alle grandi conferenze dell’Onu, e soprattutto a partire dagli anni 90 del 900, molte

altre conferenze organizzate dalle nazioni unite su grandi temi che riguardavano i destini del

globo, videro una presenza femminile piuttosto consistente.

Questa presenza femminile organizzata, fu alla grande conferenza sull’ambiente a Rio de Janeiro

nel 1992, alla grande conferenza su popolazione e sviluppo al Cairo nel 1994, alla conferenza

sullo sviluppo sociale di Copenaghen del 95 e la grande conferenza internazionale sul problema

della casa ad Istambul nel 1996. Ma le due conferenze fondamentali per definire il rapporto con

le donne e i diritti umani sono state quella di Vienna del 1993 e quella di Pechino del 1995.

Quella di Vienna fu molto importante perché per la prima volta i diritti delle donne sono stati

definiti diritti umani, con la definizione “i diritti umani delle donne e bambine sono parti

inalienabili integrale e indivisibili dei diritti umani universali”.


Le raccomandazioni della conferenza di Vienna erano molto importanti contro la violenza

famigliare e crimini di guerra, contro la violazione di integrità del corpo delle donne, abuso socio-

economico, o vietare la presenza delle donne negli ambienti politici.

Centrale si sarebbe rivelata poi la conferenza di Pechino, perché nel 1995, è stata considerata la

conferenza di maggior impatto per la vita delle donne.

Molti dei temi della conferenza di Vienna sui diritti delle donne vennero ripresi alla conferenza

di Pechino sempre sui diritti delle donne e organizzata dall’Onu, i grandi temi furono quello del

cercare di attribuire un potere maggiore delle donne in campi sociali e politici e una

trasformazione della cultura dei governi per inserire nelle linee guida di ogni paese dal punto di

vista culturale la prospettiva di genere e la rivalutazione delle risorse femminili in tutti i campi.

In più nella conferenza di Pechino si parlò di diritti all’istruzione, problema impoverimento nelle

aree rurali, il peggioramento della salute delle donne nella crescita della mortalità infantile e il

sostegno ai diritti civili e politici che le donne non avevano ancora ottenuto in molti paesi.

Anche alla conferenza di Pechino, parteciparono molte donne italiane; sia alla parte ufficiale sia

alle organizzazioni non governative. Fu una esperienza molto grande e importante per le donne

italiane e la preoccupazione successiva fu quella di non riuscire a riportare in Italia e nel dibattito

italiano, l’importanza dei tanti temi che a Pechino erano stati affrontati. La conferenza di

Pechino fu ritenuta un successo, un punto di svolta ulteriore che consolidava l’espansione delle

reti delle donne a favore dei diritti umani e le donne italiane volevano assolutamente riuscire a

portare nel dibattito italiano la voce delle donne appartenenti ai paesi del sud del mondo. Ci

riuscirono soltanto parzialmente, soprattutto fu molto complesso riportare in Italia dalla

conferenza di Pechino, la questione dello sviluppo, perché in Italia il tema dello sviluppo non era

molto sentito. In più c’era ed esisteva il tema di cercare di continuare a lavorare anche in Italia

perché le azioni indicate a Pechino, fossero effettivamente azioni messe in pratica anche dal

governo italiano.
L’Italia ebbe avuto molti ritardi nella messa in atto delle indicazioni derivanti dalle conferenze

internazionali e anche nel tradurre in una legislazione nazionale la convenzione per

l’affermazione contro la discriminazione nei confronti delle donne che era stata approvata

dall’ONU nel 1981. Ancora nel 2011 a trent’anni dall’entrata in vigore di questa convenzione,

molti dei punti che avrebbero dovuto essere applicati anche in Italia, non lo furono. Dunque fu

pubblicato nel giugno del 2011, un rapporto ombra, che era il risultato di una amplia

consultazione tra le principali attiviste accademiche professioniste appartenenti alle società

civili e attivismo femminile italiano in temi di diritti e in questo documento si diceva che era

necessario un ulteriore riconoscimento da parte del ministero del dipartimento delle pari

opportunità italiano, in materia di violenza, di genere e vi si diceva anche che bisognava

ulteriormente tutelare i diritti riproduttivi e il superamento di una cultura di genere che ancora

in Italia era molto forte.

Nonostante i grandi sforzi della comunità internazionale e anche della comunità italiana,

governo italiano e organizzazione italiane, l’applicazione delle norme internazionali è spesso

molto lenta e in tema di diritti umani delle donne soprattutto nei paesi in via di sviluppo rimane

ancora molto da fare.

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