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Teorie linguistiche, testi e contesti 2018-2019

Giada Bettini o Pettini (n. matricola: VR431155)

NASCITA E SVILUPPO DELLA SCRITTURA


Lettura del capitolo La scrittura dal testo Mesopotamia di J. Bottéro

Le decifrazioni del Vicino Oriente Antico tra il 1800 e il 1930


L’ Egitto non è stata l’unica civiltà ad averci regalato un sistema di scrittura tutto da decifrare,
quello che viene comunemente definito come sistema dei geroglifici. Infatti, il Vicino Oriente Antico,
più precisamente la parte sud occidentale dell’Iran e dell’Iraq, custodì quelli che sono
probabilmente i documenti più antichi mai scritti dall’uomo, rimasti a lungo inaccessibili agli studiosi
malgrado gli sforzi. Alcuni di questi documenti furono portati in Europa (molti in copia) già da
diversi secoli e questa scrittura fatta di angoli e cunei venne ben presto denominata cuneiforme.

Prima scriptura, l’antico persiano: nel 1775 l’illustre C. Niebhur, dopo aver analizzato
analiticamente questi documenti suggerì di supporre l‘esistenza di tre sistemi grafici distinti, di cui
uno di questi comprendeva circa quaranta caratteri e che poteva avvicinarsi ai nostri alfabeti. Sarà
G. F. Grotefend (1775-1853), insegnante tedesco, che basandosi su quanto detto
precedentemente da Niebhur decifrerà il contenuto di questi testi, pur non conoscendo né
l’alfabeto né la lingua. Grotefend, come spiegò in uno dei suoi saggi, avrebbe impiegato come
oggetto di studio le iscrizioni persepolitane (da Persepoli, antica capitale degli Achemenidi) meglio
conservate, impresse nelle facciate delle tombe rupestri, nei palazzi, nei monumenti, eccetera. A
questo punto analizzò dettagliatamente le iscrizioni più brevi, in cui si incontravano le stesse
sequenze di segni identici. Grazie al confronto e alle intuizioni dei precedenti studiosi, Grotefend
assodò che si trattasse di tre scritture diverse e questo venne dimostrato dal fatto che talvolta si
trovavano sullo stesso monumento tre colonne parallele che, probabilmente, traducevano lo stesso
testo, confermando, quindi, l’esistenza di tre idiomi distinti. Questi vennero provvisoriamente
chiamati: Prima scriptura, Secunda scriptura, Tertia scriptura. La prima scrittura, di fatto, era quella
in qui era stato individuato il carattere “alfabetico”. Ora Grotefend stabilì che ogni segno del
sistema grafico dovesse corrispondere ad un suono diverso e , considerando la disposizione nei
monumenti, questo alfabeto andava letto da sinistra verso destra, come quello occidentale. Si
pensò grazie ad una serie di considerazioni che la lingua espressa dalla prima scrittura potesse
essere identificata col più antico idioma persiano conosciuto: lo zend. La localizzazione delle
iscrizioni permise di capire che queste ultime dovevano essere collegate ai più antichi re
achemenidi, successori di Ciro il Grande che avevano fatto di Persepoli la capitale del regno.
Grotefend, ridotto in questo senso il campo delle sue ricerche, confrontò le iscrizioni più brevi l’una
con l’altra, notando gruppi di segni identici, ossia parole, separati gli uni dagli altri da un cuneo
obliquo. I segni erano ripetuti più volte all’interno della stessa frase, a volte con terminazioni
differenti. Grotefend intuì che si doveva trattare di nomi comuni, probabilmente declinabili (come
nello zend), e che questi nomi comuni, date le circostanze, potevano essere titoli celebrativi. Allora,
seguendo lo schema classico, era probabile che all’inizio ricorresse il nome del re che aveva fatto

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incidere l’iscrizione (accompagnato da titoli regali), seguito da quello del padre ed eventualmente
dagli antenati. Individuato il segno per “re”, egli poté, sulla base delle dinastie note, identificare i
nomi propri: re Dario, suo figlio Serse e suo padre Istaspe. Data la struttura alfabetica, la
ripetizione di alcuni segni e l’impiego del vocabolario zend, Grotefend riuscì a dare un valore a
quasi 1/3 dei segni alfabetici che costituivano la prima scrittura e a leggere con sufficiente
esattezza due o tre iscrizioni.
Sarà H. C. Rawlinson (1819-95), semplice ufficiale della Compagnia delle Indie Orientali a portare
a termine la decifrazione dell’intero alfabeto persiano, grazie alla scoperta ai confini occidentali
dell’Iran della lunga iscrizione rupestre trilingue di Behistun e all’abbondanza di nomi propri che
conteneva quest’ultimo.

Secunda scriptura, l’elamita: fu la più semplice da decifrare in quanto comprendeva al


massimo centodieci segni. E. Norris, analizzando i nomi propri, constatò che si trattava di una
grafia sillabica, in cui cioè ogni segno rappresentava una sillaba, semplice o complessa:
ANTICO PERSIANO: D-A-R-I-W-U-S

ELAMITA: DA- RI- IA- WU- U- IS

Il gran numero e la varietà di questi nomi propri, soprattutto nell’iscrizione gigantesca di Behistun
(trilingue) , permisero di comprendere il sillabario che formava questo idioma partendo dal testo in
antico persiano. Il nome deriva dalla città iraniana di Elam dove sono stati ritrovati pochi altri
documenti in questa lingua. Resta, quindi, piuttosto sconosciuta, proprio per la scarsità di materiale
affine rinvenuto finora.

Tertia scriptura, l’akkadico: si rivelò la più ostica con i suoi quattrocento o cinquecento
caratteri differenti, con ben poche cose in comune con le due scritture precedenti, ma al contempo
sovrapponibile con una scrittura ritrovata entro i confini della Mesopotamia, l’attuale Iraq. Sempre
partendo dai nomi, ci si rese conto che anche questa lingua si basava sul sillabismo ma con un
certo numero di segni diversi che indicavano la natura della parola: un segno specifico per i nomi
di persona, un altro per i toponimi, un altro per le divinità, eccetera. Inoltre, molti termini comuni
erano qui scritti mediante un unico carattere, avente valore ideografico e non fonetico. Però,
questo utilizzo non era omogeneo; infatti all’interno della stessa iscrizione era possibile trovare per
la stessa cosa talvolta un ideogramma, altre volte dei segni sillabici. Questo permise di trovare il
contenuto fonetico di questi ideogrammi di cui altrimenti si sarebbe conosciuto solo il senso. In
seguito si scoprì come questa lingua fosse imparentata con l’ebraico, l’aramaico, l’arabo ed altri
idiomi semitici.

La scoperta del sumerico: quando venne rinvenuta questa scrittura fatta di ideogrammi e
sillabogrammi si comprese che, in origine, doveva essere stata esclusivamente ideografica. Solo in
seguito si impiegarono segni non più per indicare direttamente le cose ma dei suoni. In sostanza,
come vedremo meglio, questo sistema scrittorio, col passare del tempo, giunse ad impiegare uno
stesso segno avente un doppio valore: in certi casi ideografico, in altri fonetico. La provenienza di
questa lingua fece discutere molto, infatti non venne fatta risalire ai Semiti, poiché nessuna parola
corrispondeva alla lessicografia semitica in generale. Alcuni parlarono di allografia, cioè un sistema
di scrittura cuneiforme totalmente inventato. Di fatto questa lingua fatta di ideogrammi circondati da
prefissi, suffissi ed infissi ricorrenti e di tipo agglutinante era isolata da tutte le altre e solo dopo
lunghi studi venne attribuita ai Sumeri, poi scomparsi e assorbiti dai Semiti (III- II millennio). Nel
1905 F. Thureau- Dangin ricostruì la grammatica sumerica nella sua famosa opera Les inscriptions
de Sumer et d’Akkad. Da allora vi furono enormi passi avanti in merito a questa lingua che

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ritroviamo su oltre 1/3 della nostra collezione di testi cuneiformi e che ci racconta la storia arcaica
di questa straordinaria civiltà.

L’ittita: scoperti alcuni documenti in questa lingua nel sito anatolico di Boghazkoy e messi a
confronto con altri ritrovamenti dello stesso tipo in Egitto, si compresero alcune formule
stereotipate (poiché si trattava di messaggi diplomatici) grazie alla presenza di ideogrammi. Da ciò
si ricavarono alcune importanti osservazioni, una di queste fu la vicinanza che questa lingua aveva
con gli idiomi indoeuropei, fino a riconoscervi la più antica rappresentante conosciuta di questa
famiglia linguistica. Facciamo un esempio:
NU PANE (ideogramma) EZZATENI → ED- /ESS (radice indoeuropea che indica mangiare)

TE (desinenza verbale seconda persona plurale)

WATARMA → water = acqua = aqwa EKU- TE- NI (verbo alla seconda persona plurale)

VOI MANGIATE PANE E BEVETE ACQUA

Urarteo e hurrita: entrambi sono idiomi abbastanza isolati di cui si dispone in entrambi i casi di
pochi documenti. Sono stati in parte decifrati grazie all’uso di certi ideogrammi e alla presenza di
brevi passi quasi bilingue, in ittita o in akkadico.

Alfabeto ugaritico: scoperto nel 1929 a Ugarit in Siria, questo alfabeto ritrovato in tavolette
d’argilla, pur essendo composto da elementi a forma di cunei ed angoli, non ha in realtà niente in
comune con la scrittura cuneiforme della Mesopotamia conosciuta dagli assiriologi. Sembra
precedere l’antico persiano di quasi un millennio e ci sono buone ragioni per considerarlo l’alfabeto
più antico del mondo; alfabeto in quanto si trattava di una trentina di segni diversi atti a comporre
ogni parola. Col tempo ci si rese conto che questa lingua apparteneva alle lingue semitiche del
gruppo detto cananeo.

Dalla pittografia alla scrittura propriamente detta


Breve quadro storico- linguistico: come è stato precedentemente accennato, la scrittura
vera e propria, “inventata” a partire dalla fine del IV millennio, è stata il prodotto della simbiosi di
due popolazioni e di due culture che si sono fuse assieme: quella sumerica e quella semitica (o per
convenzione akkadica), in cui quest’ultima ha prevaricato sulla prima.
Queste due lingue erano assai differenti l’una dall’altra: infatti, mentre la lingua dei Semiti, parlata
ancora oggi e differenziata nei vari idiomi ebraico, aramaico, arabo, etiopico, è FLESSIVA (cioè
esprime i rapporti grammaticali attraverso modificazioni fonetiche interne, grazie all’uso di
desinenze che si aggiungono alla radice o al tema della parola stessa) e possiede parole perlopiù
POLISILLABICHE che cambiano aspetto a seconda della loro funzione nella frase, la lingua dei
Sumeri è invece di tipo AGGLUTINANTE (cioè alle parole piene vengono aggiunti prefissi,
suffissi e infissi per esprimere le categorie grammaticali). Pare, inoltre, che buona parte della
lingua sumerica fosse MONOSILLABICA, con parole invariabili qualunque fosse il loro ruolo
grammaticale all’interno della frase; comprendeva, in aggiunta, diversi omofoni ( ad esempio
andare, costruire, urtare di dicevano tutti all'incirca allo stesso modo, cioè du). Quando i Sumeri
verranno assorbiti dai Semiti la lingua sumerica rimase fino la fine della civiltà mesopotamica la
lingua dotta.

Le tavolette più antiche giunte fino a noi: In Mesopotamia, i più antichi archivi di testi
scoperti fino ad oggi sono costituiti principalmente da quattro serie di tavolette di argilla: tavolette

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di Uruk, la più antica risalente al 3000 a.C. circa; le tavolette di Jemdet Nasr; le tavolette di Ur
risalenti al 2700 a.C. circa e le tavolette di Fâra, del 2600 a.C. circa.
La localizzazione e l’analisi di questi primi documenti fecero emergere che il loro contenuto
riguardava operazioni economiche e amministrative. Solo dal 2600 a.C. questi documenti si
apriranno anche ad altri campi, come per esempio quello delle prime iscrizioni reali, mentre proprio
a Fâra (Iraq) è stato rinvenuto uno dei primi materiali letterari.

Forma ed evoluzione dei caratteri

TAB.1

La scrittura, come mostra TAB.1, in origine non fu cuneiforme ma lineare, fatta di linee
schematiche che nella maggior parte dei casi costituiscono veri e propri abbozzi facilmente
riconoscibili.

TAB.2

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Un altro gruppo di segni (TAB.2), che però non corrispondono ad un modello reale, riproducono
una specie di gettone segnato da una croce che indicherebbe unità o gruppi di ovini, fabbricati per
facilitare i calcoli.

TAB.3

Quest’ultimo gruppo di caratteri (TAB.3) numericamente assai rilevante è rimasto a noi


sconosciuto.
Attraverso i vari accostamenti e collegamenti alle più recenti raffigurazioni stilizzate, gli assiriologi
sono riusciti a identificare circa 1/5 dei caratteri (compresi gli ultimi due raggruppamenti),
individualmente e in riferimento ai singoli contesti.
L’evoluzione di questi segni da lineari a cuneiformi avvenne nel momento in cui si cominciò a
scrivere nell’argilla ancora molle con uno stilo di canna dura o di metallo che tracciava non più
linee curve ma tratti dritti, conducendo ad una semplificazione sempre più spinta, eliminando il
carattere realistico dei primi pittogrammi facendoli diventare puri segni arbitrari, a se stanti e
astratti chiamati in seguito IDEOGRAMMI.

La pittografia: se torniamo alle tavolette di argilla sopra citate, vediamo come sono tutte
accomunate dallo stesso problema: quello di essere quasi completamente indecifrabili. A parte il
sistema delle cifre che gli assiriologi sono quasi sempre riusciti a decifrare grazie ai segni specifici
e ad audaci intuizioni, tutti gli altri segni, anche se li potessimo identificare singolarmente per
comprendere qualcosa di più, comunque ci impedirebbero di capire il loro messaggio generale.
Sono illeggibili perché si tratta di pittogrammi, ciò significa che ogni segno traduce un oggetto
materiale, traendolo direttamente dall’arte plastica e resta difficile capire i ruoli e le relazioni tra i
singoli oggetti, elaborare quindi un qualche significato. A questo punto i mesopotamici avrebbero
dovuto disporre di tanti segni quante erano le realtà extramentali conosciute. Per diminuire in
modo ragionevole i pittogrammi, un segno, oltre ad evocare il primo oggetto rappresentato,
richiamava anche altre realtà in connessione con questo stesso oggetto: per esempio, il
pittogramma della montagna richiamava sia la montagna che i paesi stranieri. In altri casi si
univano più segni per ottenere un senso più preciso o più complesso, ad esempio i pittogrammi di
occhio e acqua insieme significavano le lacrime, quindi piangere.
Ma come rappresentare quelle realtà che non si possono raffigurare direttamente come la forza, la
tirannide; o come rappresentare specifici verbi d’azione oppure le relazioni fra le cose? Come
differenziare “camminare” da “andare”? Attraverso questo sistema si ottenne solo ciò che
potremmo chiamare “scrittura di cose”, mentre la scrittura vera e propria si manifestò nel momento
in cui si assistette ad una volontà di significazione più generalizzata, distinta e sistemata, quando i
segni furono uniformati al massimo e non più lasciati alla libertà dell’artista. Infatti, la pittografia non
è da considerarsi una “scrittura di parole”, fatta di parole piene (cose) e parole vuote (articoli,
congiunzioni, preposizioni, eccetera): solo attraverso un sistema come questo è possibile
esprimere la realtà che vediamo. Perciò Bottéro, nella sua opera Mesopotamia, definisce il
sistema pittografico un promemoria, poiché era troppo scollegato dalla lingua parlata.

Il fonetismo: benché il fonetismo all’inizio non venne inteso come fenomeno di grande portata
(quale era), esso cominciò ad avviare quel percorso che avrebbe portato al collegamento tra
scrittura e lingua parlata. La scoperta sensazionale da parte degli studiosi avvenne quando in una
delle tavolette di Jemdet Nasr emerse una serie di tre pittogrammi: i primi due segni vennero

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identificati come il nome tradizionale del maggiore dio sumerico EN. LίL (“Signore”, “Atmosfera”),
qui scritto LIL- EN seguito da un terzo segno rappresentante la freccia. L’aspetto curioso e tutto
nuovo stava nel fatto che il segno della freccia cuneiformizzato, nella scrittura classica, veniva letto
come TI e stava ad indicare la vita. Quindi freccia e vita erano due omofoni, letti entrambi TI.
Inoltre il fatto che vicino ad un nome divino ci sia il concetto di vita era del tutto comune: ne derivò
qualcosa come EN. LίL TI = EN. LίL (il Signore) VIVIFICA.
Ne conseguì che la lingua delle tavolette di Jemdet Nasr (e probabilmente di Uruk) era il sumerico,
dato che soltanto in questo idioma si verificava l’omofonia fra TI: FRECCIA e TI:VITA. Furono i
Sumeri quindi ad aver messo a punto la prima scrittura e ad aver introdotto, seppur
inconsapevolmente un altro procedimento essenziale: il fonetismo.
È dunque chiaro che inizialmente la funzione del fonetismo, per i Sumeri, era innanzitutto quella di
migliorare la scrittura allora usata, continuando a scrivere mediante l’uso di segni pittografici,
sostituiti, in caso di necessità, da segni con determinati valori fonetici. Ecco che il rapporto
originario dei segni con gli oggetti comincia lentamente a sciogliersi per limitarsi ad esprimere un
fonema proprio della lingua parlata; era compito dello scriba, poi, indicare quando il segno andava
letto foneticamente e non come oggetto e stabilirne il giusto valore. Tuttavia, il ricorso alla grafia
fonetica fu sempre ridotto al minimo, almeno fino all’epoca delle tavolette di Fâra, quando
emersero le prime iscrizioni dedicatorie e i primi abbozzi di una vera e propria letteratura.

La scrittura propriamente detta: Nel corso della prima metà del III millennio favorirono il
processo di affermazione di una scrittura vera e propria l’uso della lingua semitica a fianco del
sumerico e l’obbligo in cui ci si trovò a doverla regolare con pitto- fonogrammi inventati dai Sumeri
per la propria lingua. La fusione e l’interscambio fra queste due culture portarono, per esempio,
alla traduzione dei nomi propri semitici secondo le modalità impiegate dai sumeri, cioè
fonetizzando solo la prima parte della parola e mantenendo il pittogramma per la seconda parte.
L’idioma semitico prevalse sempre di più nell’uso corrente, diventando lingua ufficiale e di Stato
all’epoca dell’Impero di Akkad ( dal 2340 al 2160 ca), momento in cui cominciò anche a svilupparsi
una letteratura semitica. Questo evento mise in luce un aspetto sostanziale: se il carattere, sempre
invariabile, delle parole sumeriche si adatta all’impiego degli antichi pittogrammi, era invece difficile
impiegarli per i vocaboli semitici, le cui parole piene, almeno quelle più importanti, cambiavano
continuamente aspetto a seconda del loro ruolo nella frase. Da qui l’esigenza per la scrittura di
aderire necessariamente alla lingua parlata, innanzitutto al semitico, ma anche al sumerico, visto
che stava scomparendo e pertanto doveva essere fissato. Ciò portò alla comparsa progressiva, a
fianco delle parole piene, di tutti i prefissi, suffissi e affissi indispensabili alla chiarezza della lingua
parlata. La lingua semitico- akkadica, inoltre, aveva un certo numero di fonemi particolari ignorati
dal sumerico: una gamma di laringali, sibilanti ed enfatiche, fonemi che con il materiale sumerico si
potevano rendere solo con molta approssimazione, così come alcuni segni sumerici rinviavano a
termini akkadici assai differenti. In questo caso il contesto era l’unico espediente per evitare le
ambiguità grafiche. Se il sumerico era responsabile dell’imprecisione nella resa di molte
consonanti semitiche, il semitico, a sua volta, non rendeva giustizia all’espressione delle vocali alle
quali veniva loro attribuito un valore di secondo piano. Inoltre, nel corso dell’evoluzione linguistica
dell’akkadico, certe vocali soprattutto in finale di parola si deformarono e diventarono mute. Ciò
portò i copisti (che in questa scrittura sillabica non potevano separare le vocali dalle consonanti) a
sostituire le mute con segni che rimandavano ad una vocale qualunque, causando una certa
oscillazione al valore fonetico di quest’ultima. Questo fenomeno avveniva quando la vocale
seguiva la consonante: su a sa; ka a ki; ta a tu. A tal proposito, man mano che la scrittura si
strutturava in senso stretto, si cercò di evitare ogni ambiguità attraverso alcuni elementi: si
fissarono segni precisi ai quali vennero attribuiti valori specifici e indicatori fonetici, preposti o

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posposti ad un segno dalle molteplici valenze ideografiche o fonetiche, per orientare verso quella a
cui il copista si riferiva.
La scrittura cuneiforme assunse allora il suo pieno significato, capace di parlare di cose conosciute
ma anche di insegnarne di nuove, abbandonando il mero ruolo di annotazione. Nonostante ciò,
questa scrittura non raggiunse mai il sillabismo perfetto: da un lato aumentò il ricorso ai
fonogrammi, dall’altro restava vincolata ancora agli antichi pittogrammi (soprattutto se si tratta di
letteratura dotta), o meglio ideogrammi, visto che ormai la stilizzazione dei caratteri non
permetteva più di riconoscere immediatamente l’oggetto rappresentato. Così quasi ognuno dei
quattrocento segni cuneiformi accertati ha uno o più doppi valori, quello ideografico e quello
fonetico. Facciamo un esempio:
V. IDEOGRAFICO ← MONTAGNA → V. FONETICO
PAESE (MÂTU) KUR
MONTAGNA (ŜADȖ) MAD
IDEA DI CONQUISTA (KAŜÂDU) LAD
ŜAD

In definitiva, solo il contesto permetteva al lettore di scegliere la giusta lettura, per questo ai
moderni assiriologi non resta che decifrare i contenuti. Inoltre, a seconda delle epoche e degli usi,
l’alternanza di fonogrammi e ideogrammi variava quasi sempre.

L’alfabeto fenicio: Occorre attendere il XV secolo a.C., forse sotto influsso della scrittura
cuneiforme, per vedere sviluppare in Fenicia un alfabeto che riconduceva la scrittura ad un numero
estremamente ridotto di segni univoci che corrispondevano esattamente ai suoni fondamentali
della lingua. All’inizio i caratteri riguardavano solo le consonanti, lasciando al lettore il compito di
inserire nella lettura le vocali, supponendo chiaramente la conoscenza della lingua e del suo
meccanismo. Solo nel I millennio a.C., grazie all’intervento dei Greci che presero in prestito
l’alfabeto dai Fenici, si assisterà all’inserimento dei segni vocalici all’interno di quest’ultimo,
portando a compimento il lungo cammino della scrittura, giunta ormai a piena maturazione.

Qualche riflessione sulla dialettica degli antichi abitanti della Mesopotamia


Facciamo riferimento alla fine della tavoletta VI, dal verso 123 e all’intera tavoletta VII della celebre
Epopea della Creazione che celebra il dio Marduk al quale l’assemblea degli dei conferisce
cinquanta nomi. Ognuno di questi nomi è seguito da una specie di glossa di qualche verso che ne
spiega il valore. Prendiamo come esempio uno di questi nomi: ASARI e notiamo come alcune
delle caratteristiche attribuite al dio sono contenute in queste poche sillabe: A, SAR, RI1 .
→ SAR: la pittografia di questa sillaba rappresentava due spighe lungo un canaletto, riferendosi,
quindi, al concetto di verde, verzura e a tutto ciò che evocava il lavoro agricolo e arboricolo. Inoltre
questa sillaba, in virtù della polifonia dei segni, poteva essere letta anche come MA, parola
sumerica che corrispondeva al verbo akkadico ASU ovvero “fare”, “produrre”.
→ A: il valore fondamentale di questa sillaba è l’acqua. Pare che in questo caso i dotti abbiano
fatto riferimento alla delimitazione dei campi tramite canaletti atti all’irrigazione.
→ RI: questa sillaba non era utilizzabile nel contesto del commentario in Asari, ma in virtù del
carattere secondario delle vocali RI poteva essere sostituita con RÁ o RU. RU aveva come
equivalente il verbo akkadico ŜARÂKU cioè “dare in dono”, mentre RÁ per omofonia

1 Questa suddivisione in sillabe è propria dei dotti, cioè di coloro che non sillabavano secondo le regole della
scrittura (questi erano i copisti), ma secondo la realtà del nome. Quindi ogni elemento sillabico costituiva una
parola sumerica.

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corrispondeva anche ad un altro segno che solitamente era letto come dù, il quale esprimeva l’idea
di creare.
Ecco che dal nome ASARI si può ricavare tutta una lista di prerogative attribuite al dio Marduk:
DONATORE DELL’AGRICOLTURA, FONDATORE DELLE LIMITAZIONI DEI CAMPI, CREATORE DEI CEREALI E
DELLA CANAPA, PRODUTTORE DI OGNI VERZURA.

Ogni sillaba è dunque considerata nel suo valore ideografico (corrispondente ad una parola
sumerica), questo ci permette di notare quanto il nome ASARI (e così tutti gli altri nomi)
racchiudesse al suo interno una parte dell’identità del dio. Si comprende molto bene, allora, il
legame tra nome e soggetto; il nome era tale poiché il soggetto poteva completamente identificarsi
con quello stesso significato.

Per concludere: è bene terminare questo discorso facendo un’ultima considerazione sul lessico
delle cose sottolineando come la civiltà antica della Mesopotamia avesse una visone molto lontana
dalla nostra riguardo al nome. Se la nostra scrittura totalmente alfabetizzata ci serve innanzitutto
per conferire un’esistenza obiettiva alla parola che esprime il nostro pensiero, per questi popoli,
invece, il nome conferiva esistenza alla cosa: un oggetto sussisteva solo nel momento in cui era
nominato. Di conseguenza tra nome e oggetto non c’era separazione. La scrittura era concreta,
realistica e ciò che si scriveva non era affatto la parola (che in quanto tale ha valore fonetico) ma la
cosa stessa; lo abbiamo visto con la lista dei cinquanta nomi di Marduk, dato che ogni
denominazione conteneva, in qualche modo, tutti i meriti e le caratteristiche che definivano questa
divinità.

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