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nuova umanità trimestrale di cultura


rivista fondata da Chiara Lubich nel 1978

controcorrente
Unità e discernimento: percorsi di sinodalità - B. Leahy_________» pp. 5-8
Con papa Francesco, lo Spirito Santo sta indicando un passo in avanti che ci inter-
pella tutti insieme nella Chiesa: puntare su uno stile e una prassi di discernimento
comunitari per evitare la polarizzazione e attuare così quella sinodalità che carat-
terizza l’identità stessa della Chiesa. Per fare questo occorre vivere una “mistica
dell’incontro”, ovvero una spiritualità comunitaria da attuare nel quotidiano della
vita ecclesiale.

Focus
Per i 90 anni di Benedetto XVI
L’eredità di Dio nel patrimonio della fede - P. Coda ____________ » pp. 9-16
Il cantus firmus della testimonianza e della teologia di Joseph Ratzinger e del ma-
gistero di Benedetto XVI costituisce un prezioso viatico per noi tutti. Esso, infatti,
è sostanziato dalla lucida consapevolezza e dalla penetrante intelligenza che l’“e-
redità di Dio”, di cui l’umanità è destinataria e in cui riposa la riuscita del suo pel-
legrinaggio nella storia, è racchiusa nel “patrimonio della fede” di cui la Chiesa è
chiamata a essere custode e amministratrice anche oggi con nuovo slancio e inedita
creatività. Di qui si possono apprezzare e si può far tesoro dei molteplici e con-
vergenti movimenti che descrivono l’ariosa e imponente sinfonia orchestrata con
sapienza nella sua opera teologica e magisteriale.

L’antropologia teologica di Ratzinger - A. Bergamo ___________ » pp. 17-28


Nel presente contributo si cerca di tratteggiare l’antropologia teologica che scatu-
risce dalla riflessione di Joseph Ratzinger attraverso tre punti di riferimento signi-
ficativi: l’essere umano come persona, il dinamismo della relazione come centro
orientativo dell’identità personale, la reciprocità che dischiude l’orizzonte trinitario
verso il quale l’essere persona in Cristo viene a trovare il suo approdo.
sommario

Il messaggio della Caritas in veritate - S. Zamagni ___________ » pp. 29-43


Dopo aver chiarito in qual senso la Caritas in veritate può considerarsi la prima enci-
clica sociale della post-modernità, il saggio focalizza l’attenzione sui tre grandi temi
che caratterizzano il documento di Benedetto XVI: l’ampliamento della nozione di
giustizia sociale, l’ingresso del principio del dono nell’agire economico, il concetto di
sviluppo umano integrale. In chiusura, si accenna alla relazione tra la pace e la lotta
alla diseguaglianza.

scripta manent
San Francesco d’Assisi - Benedetto XVI _____________________ » pp. 45-51
Nell’Udienza generale del 27 gennaio 2010, papa Benedetto ha tratteggiato, con
poche ma dense pennellate, la figura di san Francesco di Assisi. Forse è ancor più
significativo tornare oggi a guardare a questo «autentico “gigante” della fede»
– così lo definiva il pontefice in quell’occasione – con gli occhi di Benedetto XVI,
e poter rintracciare nelle sue parole quasi l’anticipazione profetica di alcune linee
programmatiche del pontificato del suo successore, che del santo di Assisi porta
significativamente il nome. La cura e la custodia del creato, il rapporto tra carisma e
istituzione, il delicato tema della riforma della Chiesa, le spinose questioni del dia-
logo interreligioso e cristiano-islamico in particolare, sono alcuni dei temi che papa
Benedetto fa emergere dal suo personale ritratto di san Francesco.

parole chiave
Vescovo di Roma - D. O’Byrne ______________________________» pp. 53-59
Questo contributo offre una breve riflessione sul ministero del vescovo di Roma.
L’Ut unum sint di Giovanni Paolo II (1995) riconosce che, anche se la Chiesa Cat-
tolica Romana è conscia di avere preservato nel ministero del vescovo di Roma «il
segno visibile e il garante dell’unità», nel suo sviluppo storico questo ruolo continua
a costituire una difficoltà per la maggior parte dei cristiani di altre Chiese. La stessa
enciclica parla del desiderio condiviso di trovare un modo di esercitare questo mini-
stero che, senza sacrificare l’essenziale, possa essere abbracciato da altri cristiani.
In questo contesto, il documento prodotto nel 2016 a Chieti dalla Commissione mi-
sta per il dialogo tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, dal titolo Sinodalità e
Primato nel Primo Millennio. Verso una comune comprensione nel servizio all’unità della
Chiesa, rappresenta un passo importante. Su questa base si potranno affrontare le
differenze riguardo al ministero del vescovo di Roma che sono nate durante il secon-
do millennio, e in modo particolare l’interpretazione teologica dell’insegnamento
del Concilio del Vaticano I riguardo al primato del papa.
sommario

punti cardinali
Movimenti ecclesiali e Nostra aetate. Una lettura alla luce
del magistero di papa Francesco - R. Catalano ________________ » pp. 61-75
Nell’ottobre del 2015 si sono celebrati i cinquant’anni della pubblicazione del de-
creto conciliare Nostra aetate, un documento, per dirla con Benedetto XVI, destina-
to, insieme a quello sull’ecumenismo (Unitatis redintegratio) e a quello sulla libertà
religiosa (Dignitatis humanae), a lasciare un segno profondo nella Chiesa. Questo
articolo propone una riflessione sul ruolo che movimenti e comunità ecclesiali, nati
negli anni precedenti o successivi al Concilio, hanno avuto nello sviluppo del dialogo
fra persone di diverse fedi e tradizioni religiose sulla scia aperta da Nostra aetate.

In dialogo con i musulmani. Vivere insieme l’unità nella diversità -


P. Lemarié _______________________________________________ » pp. 77-94
Il Movimento dei Focolari è nato da un carisma ecclesiale i cui primi frutti sono una
spiritualità di comunione e un’opera della Chiesa cattolica aperta a tutti gli uomini
che desiderino farne parte, anche musulmani. In questo saggio ci proponiamo di
presentare sinteticamente in quale modo la sua spiritualità è stata offerta ai musul-
mani, nella forma e nel contenuto, a partire dai discorsi fatti loro da Chiara Lubich,
in profonda sintonia con Ecclesiam suam e Nostra aetate.

Dialogare in profondità. Intervista a Moreno Orazi -


A cura di F. Kronreif ______________________________________ » pp. 95-108
È possibile dialogare in profondità tra credenti e non credenti? Su quale terreno di
incontro ciò può avvenire nel reciproco rispetto degli interlocutori e, insieme, nel
rispetto della verità? L’esperienza del Movimento dei Focolari, che conta al suo in-
terno anche persone senza alcuna fede religiosa, dice che non solo è possibile, ma
è addirittura auspicabile e finanche necessario per realizzare quel testamento di
Gesù: «Che tutti siano uno» (Gv 17, 21), che è la consegna carismatica e la mission
del Movimento stesso. Il terreno d’incontro che la sua fondatrice, Chiara Lubich,
ha indicato come luogo ideale di questo dialogo è l’umanità di Gesù, uomo-Dio per
i cristiani, la cui Parola risulta rilevante per ogni uomo che si pone seriamente in
atteggiamento di dialogo coi valori dell’esistenza. Ne è un esempio l’intervista che
vi proponiamo a Moreno Orazi, architetto non credente, inserito nella comunità del
Movimento dei Focolari di Spoleto, in Umbria.
sommario

alla fonte del carisma dell’unità


Generare un’Opera di Dio. Brani di storia - L. Abignente ____ » pp. 109-125
A 70 anni dalla prima approvazione, a livello diocesano, dei Focolari da parte dell’ar-
civescovo di Trento, mons. Carlo de Ferrari, il saggio qui presentato si propone di
aprire uno squarcio sul tempo di attesa dell’approvazione definitiva da parte del-
la Chiesa di Roma, caratterizzato, negli anni Cinquanta, dallo studio attento del
Sant’Uffizio circa la persona di Chiara Lubich e la nuova realtà ecclesiale che da
lei veniva generata. Di questo periodo importante nella storia dell’Opera di Maria
ci si concentra sull’anno 1954, per ripercorrere, sulla base di documenti inediti, il
susseguirsi rapido di eventi che, nella loro diversità, davano adito a speranze o alla
prospettiva dello scioglimento, momenti preziosi di luci e di prove vissute nella fe-
deltà a Dio e alla Chiesa.

Storia di Light. 9. Luce e fuoco in una società assiderata -


I. Giordani ______________________________________________ » pp. 127-148
La vita evangelica dei Focolari risulta una forte testimonianza per la società che li
circonda, ma non mancano le critiche. Un alto prelato chiede a Giordani di parlargli
della sua esperienza: Igino descrive la novità che l’incontro con la Lubich ha portato
nella sua vita di scrittore cattolico, appassionato dei Padri della Chiesa, e risponde
punto per punto ai rilievi che erano stati fatti nei confronti dei Focolari.

in biblioteca
Oltre la crisi della Chiesa. Il pontificato di Benedetto XVI -
L. Montelpare __________________________________________ » pp. 149-152

Povertà e gratitudine in Georg Simmel. Declinazioni


inedite della crisi post-moderna - C. Gifuni _________________ » pp. 153-155

murales – G. Berti __________________________________________ » p. 156

english summary - A cura di D. O’Byrne___________________ » pp. 157-160


controcorrente

Unità e discernimento:
percorsi di sinodalità

Qualche mese fa, nel corso della sua omelia al conci-


Brendan storo ordinario per la creazione di nuovi cardinali, papa
Francesco, commentando la nostra epoca «caratterizza-
Leahy ta da forti problematiche e interrogativi su scala mondia-
brendan le», ha osservato che «ci capita di attraversare un tempo
leahy, vescovo in cui risorgono epidemicamente, nelle nostre società, la
cattolico di polarizzazione e l’esclusione come unico modo possibile
limerick in per risolvere i conflitti». Ha notato quanto rapidamente
irlanda. già arriviamo a etichettare chi sta accanto a noi come “ne-
ordinario
di teologia mico” semplicemente perché viene da una terra lontana
sistematica del st. o perché ha altre usanze: «nemico per il colore della sua
patrick’s college, pelle, per la sua lingua o la sua condizione sociale, ne-
maynooth mico perché pensa in maniera diversa e anche perché
in irlanda. ha un’altra fede. Nemico per…». Aprendoci gli occhi del
presidente della
commissione cuore, papa Francesco ci fa vedere quanto facilmente
per l’educazione questa logica prenda piede nel nostro modo di vivere,
cattolica e della di agire e di procedere: «poco a poco le differenze si
commissione trasformano in sintomi di ostilità, minaccia e violenza.
ecumenica della Quante ferite si allargano a causa di questa epidemia di
conferenza
episcopale inimicizia».
irlandese. Ebbene, prima di sentirsi “immune” da questa epide-
mia, anche la gente di Chiesa deve riconoscere che una
logica di polarizzazione è una tentazione perenne per il
Popolo di Dio, per le nostre comunità, per i presbitéri,
per le riunioni. Papa Francesco lo afferma apertamen-
te: «Il virus della polarizzazione e dell’inimicizia permea
i nostri modi di pensare, di sentire e di agire. Non siamo
immuni da questo e dobbiamo stare attenti perché tale

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controcorrente
Unità e discernimento: percorsi di sinodalità

atteggiamento non occupi il nostro cuore, perché andrebbe contro la ric-


chezza e l’universalità della Chiesa».
Come già indica il racconto biblico della creazione, noi siamo creati l’uno
in dono per l’altro. Ed è proprio la nostra diversità un dono reciproco perché
regni fra noi l’unità creativa voluta da Dio. Lo sappiamo, in teoria. Nei rap-
porti umani, però, sia a livello macro che micro, è troppo facile scivolare in
atteggiamenti di contrasto e di polarizzazione: «questo è liberale!»; «quella
è conservatrice!». Così, in tempi recenti, leggiamo anche dei contrasti nella
Chiesa attorno alla lettera apostolica Amoris laetitia.
Certo, tutti possiamo addurre ragioni e giustificarci – siamo dalla parte
della verità, viviamo per il bene comune, vogliamo solo chiarire le cose…
Ma, sotto sotto, c’è sempre il rischio di una incurvatio (un ripiegamento), per
usare una parola cara al Riformatore, Lutero, che ci porta a considerare solo
il nostro punto di vista e a volere che l’altro si converta alla nostra convin-
zione. In fondo, succede facilmente che, non rispettando “l’altro”, lo annul-
liamo in vari modi, magari attraverso il pettegolezzo, o la critica pubblica o
la diffamazione. San Paolo parla del “mordere e divorare” fra i membri della
comunità della Galazia (cf. Gal 5, 13-15), una realtà che, al dire di papa Bene-
detto XVI, esiste tutt’ora anche nella Chiesa1.
Con papa Francesco, a mio avviso, lo Spirito ci sta indicando un passo in
avanti che ci interpella tutti insieme: puntare su uno stile e una prassi di di-
scernimento comunitari, per attuare così quella sinodalità che caratterizza
l’identità stessa della Chiesa. Si sa: il Popolo di Dio è un popolo in cammino
«finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di
Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena matu-
rità di Cristo» (Ef 4, 13). Crescere nei percorsi di sinodalità nel discernere la
volontà di Dio è, dunque, un passo verso una maggiore maturità ecclesiale.
Viviamo «non un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca».
Questa ben nota affermazione di papa Francesco si ricollega, verosimilmen-
te, anche a una corrente di pensiero del Sudamerica che mira ad andare
oltre la polarizzazione fra destra e sinistra per scoprire l’identità vera in uno
spazio al di là delle piaghe storiche. Guardando alla Chiesa potremmo dire
che l’epoca nuova consiste nell’“entrare”, insieme e con le nostre diversi-
tà, in modo nuovo nell’evento di Cristo per lasciarci da lui rigenerare con la

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brendan leahy

sua “mente”. Si tratta, pertanto, di puntare la nostra attenzione sull’unità


in Cristo perché «Lui, infatti, è la nostra pace; lui che dei due popoli ne ha
fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione abolendo nel suo corpo
terreno la causa dell’inimicizia» (Ef 2, 14).
Giacché la Chiesa è semper reformanda, c’è sempre bisogno di avere il
corraggio di aiutarci fra tutti a vivere la svolta ecclesiale dell’epoca nuova.
Come afferma Antonio Spadaro, il tema del “discernimento” occupa un po-
sto determinante nella lettera apostolica Amoris laetitia. Nel passato, parlare
di discernimento è stato inteso piuttosto come atto individuale sotto la gui-
da di un direttore spirituale. Ora ci vuole un di più. Per tutti è una conversio-
ne a un modo comunitario di vivere il vangelo. Non andiamo a Dio da soli.
Senz’altro sta qui l’importanza del tema della sinodalità così fortemente
sottolineato da papa Francesco. Durante il Sinodo dei vescovi del 2015 ha
affermato:

Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolez-


za che ascoltare «è più che sentire». È un ascolto reciproco in cui
ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episco-
pale, vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto
dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità” (Gv 14, 17), per conosce-
re ciò che Egli «dice alle Chiese» (Ap 2, 7).

Camminare insieme come Chiesa sinodale, al dire del papa stesso, «è


un concetto facile da esprimere a parole, ma non così facile da mettere in
pratica». Non è da confondere semplicemente con un processo democrati-
co (benché ci sarà sempre bisogno di procedure democratiche anche nella
Chiesa). Si tratta piuttosto di vivere una “mistica dell’incontro”, ovvero una
spiritualità comunitaria da attuare nel quotidiano della vita ecclesiale. Senza
dubbio, servono organismi di partecipazione ad ogni livello di Chiesa. Ma
non sarà sufficiente avere questi organismi se non sono sostenuti e anima-
ti da una conversione personale, pastorale e intellettuale, frutto proprio di
questa mistica dell’incontro.
Si racconta che Tommaso d’Aquino, quando non riusciva ad afferrare
un concetto o a chiarire qualche punto difficile della dottrina, lasciava tutto,
scendeva in cappella, apriva il tabernacolo, vi infilava la testa e rimaneva

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controcorrente
Unità e discernimento: percorsi di sinodalità

così fino a quando non riceveva luce. Oggi stiamo scoprendo il “taberna-
colo” di Gesù fra noi nella comunione vissuta alla luce di una spiritualità
sinodale. Per avere la mente di Gesù (cf. Fil 2, 5) dobbiamo adottare nei
nostri rapporti una logica della “piramide capovolta”. Occorrre che ognuno
si lasci alle spalle l’egemonia del proprio “io” per immedesimarsi con l’altro
e col suo modo di pensare e vedere le cose. E occorre che ciò venga fatto
insieme, in modo che il nostro rapporto reciproco “generi” la luce del Cristo
fra noi. Ma ciò costa. Ci vuole una morte, ma è una morte per amore, che
genera luce e vita.
Ringraziamo Dio per il dono del papa che, ai nostri tempi, ci chiama a
nuovi percorsi di sinodalità proprio nel campo del discernimento. Per volon-
tà di Gesù Cristo, il papa, come afferma il Vaticano II, è «il perpetuo e visibile
principio e fondamento dell’unità tanto dei Vescovi quanto della moltitudine
dei fedeli» (Lumen gentium 23). Con lui camminiamo al sicuro per affrontare
cum Petro et sub Petro, e tutti insieme sub Cristo, quel cambiamento d’epoca
che ci porterà a un’esperienza nuova anche della Chiesa-una.

1
Cf. Benedetto XVI, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica (10 marzo, 2009).

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focus. per i 90 anni di benedetto xvi

L’eredità di Dio nel


patrimonio della fede

1. Quando con la memoria andiamo indietro nel tem-


Piero po – in quello almeno di cui siamo stati personalmente
testimoni – non possiamo non constatare, con gioia e
Coda gratitudine, che la Chiesa cattolica ha sperimentato con
professore di immensi frutti di grazia, in quest’ultimo periodo della
teologia e preside sua storia, la presenza e l’azione di grandi per non dire
dell’istituto grandissimi papi. Sotto il profilo della statura spirituale
universitario e della testimonianza di vita, della dottrina cristiana e
sophia di loppiano
(incisa in val dell’impatto culturale, del discernimento sociale e della
d’arno, firenze). profezia evangelica.
membro della Joseph Ratzinger, eletto alla cattedra dell’apostolo
commissione Pietro col nome di Benedetto XVI, va annoverato senz’al-
teologica tro a lettere d’oro in questa sequela. E tante ne sono le
internazionale
e della ragioni. Ne vogliamo segnalare almeno alcune, in oc-
commissione casione dell’ormai prossima e felice ricorrenza del suo
per il dialogo novantesimo genetliaco, in questa introduzione e negli
tra la chiesa articoli dedicati a qualche aspetto del suo pensiero e del
cattolica e la suo magistero che gli fanno da corona.
chiesa ortodossa,
presidente
emerito 2. Intanto c’è da dire che in questa serie di straordi-
dell’associazione narie e luminose figure Benedetto XVI occupa un posto
teologica tutto suo. Perché, tra tutti, penso si possa dire senza
italiana. tema di sbagliare che egli, anche se non fosse asceso al
soglio di Pietro, avrebbe egualmente lasciato un segno
nella storia della Chiesa del nostro tempo.
Basti leggere tra gli altri – li annoto per chi volesse di
persona verificare la fondatezza di quest’affermazione –
tre libri, assai diversi tra loro ma ciascuno per la sua parte

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focus. per i 90 anni di benedetto xvi
L’eredità di Dio nel patrimonio della fede

significativo, che sono stati editi in questi ultimi mesi e che risultano preziosi
per cogliere e approfondire il significato complessivo della sua testimonianza
cristiana e della sua missione ecclesiale.
Si tratta, in primo luogo, dell’intervista curata da Peter Seewald, Ultime
conversazioni 1, che raccoglie i dialoghi con lui condotti poco prima e soprat-
tutto dopo le sue dimissioni. Essa – come scrive il curatore nell’introdu-
zione – disegna idealmente il tracciato di tutt’intera una vita e soprattutto
permette di «gettare uno sguardo su una delle personalità più affascinanti
della nostra epoca […] di comprendere meglio l’uomo Joseph Ratzinger e
il pastore Benedetto XVI, riconoscere la sua santità e soprattutto lasciare
aperto l’accesso alla sua opera che contiene un tesoro per l’avvenire».
C’è poi l’ampia e documentata biografia di taglio più squisitamente te-
ologico pubblicata da Elio Guerriero: Servitore di Dio e dell’umanità 2, che se-
gue passo passo il cammino di Joseph Ratzinger, dalla nascita a Pleiskirchen
nell’amata Baviera sino al ritiro nel monastero Mater Ecclesiae entro il recinto
di San Pietro. Un volume che ha il merito di fornire un’informazione dettaglia-
ta e rigorosa sui vari passaggi che hanno segnato questa lunga e avvincente
avventura umana, accademica, ecclesiale, contestualizzandoli sempre con
cura e obiettività e facendo per giunta una pertinente sintesi prospettica de-
gli innumerevoli saggi e volumi che ne costellano lo snodarsi.
Né si può tralasciare, infine, la recente edizione italiana del settimo vo-
lume dell’Opera omnia di Ratzinger: L’insegnamento del Concilio Vaticano II.
In esso sono pubblicati i testi da lui dedicati all’ultimo Concilio suddivisi in
due parti: la prima raccoglie quanto da lui scritto fra l’annuncio del Vaticano
II, il 25 gennaio 1959, e i primi anni successivi alla sua chiusura, il 7 dicem-
bre 1963, ivi compreso quanto prodotto durante il Concilio e a servizio della
redazione dei suoi documenti; la seconda è dedicata invece ai temi più im-
portanti e ai diversi aspetti della recezione e dell’ermeneutica del magistero
conciliare sino alla sua elezione a vescovo di Roma.
Si tratta, è vero, soltanto di un tratto nell’arco assai esteso e pluriforme
dell’opera teologica di Joseph Ratzinger, ma che ne offre tuttavia una chiave
di lettura e d’interpretazione illuminante, e forse persino di decisivo mo-
mento. Perché nel suo pensiero la grande opera di rinnovamento messa in
atto dal Vaticano II e tuttora in itinere può essere colta nella sua intenziona-

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piero coda

lità e nella sua portata ed efficacemente così promossa e sviluppata, solo se


vista in presa diretta col nucleo fondante e permanente del vangelo di Gesù
e insieme organicamente inserita nel grande alveo della Tradizione della
Chiesa. Come anche da papa egli ha puntualizzato nel memorabile discorso
alla Curia romana del dicembre 2005, dove ha descritto e argomentato il
significato teologico ed ecclesiale del programma del Vaticano II nella logica
della “riforma nella continuità”3.

3. È in effetti in questa prospettiva che, a mio avviso, va riconosciuto,


accolto e trafficato il contributo più importante e duraturo che, col suo ma-
gistero da teologo, per un verso, e da papa, per un altro, Joseph Ratzinger/
Benedetto XVI ha offerto alla Chiesa (non solo cattolica) come irrinuncia-
bile punto di luce per interpretare con fedeltà creativa la sua identità oggi,
nella perseverante e rinnovata missione di servizio alla famiglia umana che
la qualifica.
L’umanità – sottolinea nel Vaticano II la costituzione pastorale Gaudium
et spes – è a tutti gli effetti entrata in una fase inedita della sua storia. E la
Chiesa è chiamata in quest’epoca nuova a riflettere con trasparente testi-
monianza, sul suo volto, la luce di Cristo – come insegna la costituzione sulla
Chiesa del Vaticano II Lumen gentium – per irradiarla con amore e con effi-
cacia a favore di tutte le genti. Per questo occorre andare sempre di nuovo e,
se possibile, con sempre più piena apertura del cuore e della mente, alla sor-
gente viva del dono che Dio ci ha fatto e ci fa di sé in Gesù Cristo mediante
il suo Spirito di verità, di libertà e di amore, come insegnano la costituzione
dogmatica del Concilio sulla divina Rivelazione Dei Verbum, e quella sulla
liturgia Sacramentum concilium: costituendo la prima, a detta di Ratzinger, il
testo fondamentale del Concilio e illustrando la seconda (e tutti sappiamo
quanto ciò gli stia a cuore) quel mistero della divina liturgia in grazia del
quale il mondo di Dio entra nel mondo dell’uomo e il mondo dell’uomo entra
nel cuore di Dio.
È questa “l’eredità di Dio” da cui può scaturire vita nuova e duratura per
il martoriato mondo di oggi, coi suoi dubbi, le sue incertezze, le sue oscurità,
le sue tragedie, ma insieme con le sue attese, i suoi desideri, le sue istanze,
le sue conquiste, in un cammino che lo conduca con realismo e fiducia ver-

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focus. per i 90 anni di benedetto xvi
L’eredità di Dio nel patrimonio della fede

so il domani ancora sconosciuto che lo attende. Senza far tesoro di questa


“eredità di Dio” non c’è speranza, non c’è futuro, non c’è progresso che sia
veramente e integralmente umano. Come Ratzinger nota con acume e co-
raggio intellettuale sottolineando, quasi inaspettatamente, che i documenti
del Vaticano II destinati a fare storia oggi sono in prospettiva soprattutto le
due Dichiarazioni assai brevi, ma di enorme respiro, sulla libertà religiosa,
Dignitatis humanae, e sul dialogo con le religioni, Nostra aetate, che offrono il
lievito del vangelo di sempre per fermentare nella luce e nell’amore le muta-
te e sfidanti situazioni del mondo di oggi.
L’“eredità di Dio”, di cui l’umanità intera è destinataria e in cui soltan-
to riposa la riuscita del suo pellegrinare nella storia, è racchiusa in realtà
nel “patrimonio della fede” di cui la Chiesa ha da essere gelosa custode e
generosa amministratrice nel servizio che è chiamata a rendere nel nostro
tempo a tutta l’umanità con nuovo slancio e inedita creatività. Come, del
resto, sempre in definitiva è accaduto nel corso della sua bimillenaria storia.

4. Non è difficile constatare che la consapevolezza lucida e convinta di


questa eredità e l’intelligenza grata e penetrante di questo patrimonio, nel
perseverante impegno a metterli a giorno in tutta la loro irrinunciabile pro-
messa di verità e di vita, per la Chiesa e per il mondo, costituiscono il cantus
firmus, dal tratto discreto e gentile, ma insieme tenace e senza incrinature, di
quei molteplici e convergenti movimenti che descrivono l’ariosa e imponen-
te sinfonia orchestrata nell’opera teologica e magisteriale di Joseph Ratzin-
ger/Benedetto XVI.
Non è un caso che il libro suo più noto e fortunato, apparso in prima edi-
zione a pochi anni dalla chiusura del Vaticano II (nel 1968) e rapidamente
tradotto in tutte le più importanti lingue, porti il titolo di Introduzione al cri-
stianesimo. Quasi a segnalare che il punto di partenza e di costante equilibrio
per un profetico slancio in avanti va rinvenuto nell’attualizzare con il corag-
gio e la fantasia dello Spirito la fede di sempre in Gesù, Messia e Signore, il
Figlio di Dio che c’introduce da figli, col dono del suo Spirito di libertà e di
comunione, nello spazio nuovo e interpellante di vita e di azione della fra-
ternità universale.

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piero coda

Né è un caso che, nel suo lungo, fedele, per molti aspetti insostituibile
e tutt’altro che facile servizio accanto a Giovanni Paolo II in qualità di Pre-
fetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Ratzinger,
oltre a mettere i puntini sulle “i” in parecchie e delicate questioni che hanno
travagliato la Chiesa nel post-concilio (dall’esplosione non sempre equili-
brata della teologia della liberazione, all’enfasi talvolta ingenua e sbilancia-
ta in senso prevalentemente orizzontale sulla Chiesa comunione, sino alle
prospettive inedite e sempre bisognose di attenta ponderazione del dialogo
ecumenico e tra le religioni), abbia presieduto con polso e sapienza alla re-
dazione del Catechismo della Chiesa Cattolica richiesto dal Sinodo dei vesco-
vi a vent’anni dal Concilio (nel 1985) come bussola sicura di orientamento
nell’intraprendere la via del rinnovamento nel mare aperto e inesplorato
delle sfide della contemporaneità.
Così come non è senza significato che, da papa, Benedetto XVI abbia
voluto riservare le sue tre principali encicliche (l’ultima delle quali pubbli-
cata da papa Francesco) al tema delle virtù teologali, struttura portante e
decidente dell’esistenza cristiana a livello personale e sociale: la carità, la
speranza, la fede. Riconoscendo però senz’altro il primato evangelico della
carità in quanto agape, poiché in essa è evocato il Nome stesso del Dio rive-
lato in Cristo, senza omettere di connetterla con sagacia all’impulso univer-
salmente umano dell’eros verso il vero, il bene e il bello.
Del resto, l’ultima opera di cui Joseph Ratzinger/Benedetto XVI ha volu-
to farci dono sono i due volumi su Gesù di Nazareth: un invito e un accompa-
gnamento, come di consueto pacati e sostanziosi, a un incontro esistenziale
consapevole e coinvolgente con il principio stesso della fede cristiana: che
non è – come egli ama dire – un’idea ma una persona viva, l’amico che illumi-
na, di una gioia destinata a non conoscere più tramonto, il nostro cammino.

5. Fedeltà, dunque, al patrimonio della fede: ma perché essa possa spri-


gionare nell’oggi la ricchezza e la novità che sono custodite nell’eredità che
Dio ha donato all’umanità nel suo Figlio fatto carne e vivo, lungo i secoli,
nella testimonianza della Chiesa grazie all’azione incessante dello Spirito
Santo.

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focus. per i 90 anni di benedetto xvi
L’eredità di Dio nel patrimonio della fede

È questo, ritengo, il segreto profondo della forza e del fascino del magi-
stero di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI. Ed è questo – ed è moltissimo –
che del suo insegnamento ci rimane quale lascito prezioso, destinato a por-
tare ancora molti frutti.
Già parecchi anni or sono, da teologo, egli affermava: «Per tradizione
non si deve intendere una somma di asserti ben strutturati e da trasmettere
intatti, ma l’espressione della progressiva assimilazione attraverso la fede
della Chiesa dell’evento testimoniato nella Scrittura», così che la fede «per
restare identica dev’essere espressa in modo diverso e pensata in modo
diverso»4.
Basti richiamare a conclusione, in fedeltà a questa logica e quasi a sigillo
di quanto sin qui detto, due esempi eloquenti di questa costante e persino
profetica lungimiranza nel cogliere e promuovere il germogliare del “nuovo”
come opera dello Spirito di Dio dal ceppo robusto e sicuro di quell’“antico”
che non è mai vecchio, perché è il segno e il custode dell’eternità che è en-
trata una volta per tutte nel tempo e da dentro lo lievita e lo spinge innanzi
verso orizzonti di sempre nuova giovinezza.
Il primo è racchiuso nel magistrale intervento che l’allora card. Ratzinger
tenne nel 1998 al Simposio sui movimenti e le nuove comunità ecclesiali in
preparazione del Giubileo dell’anno 2000. Egli ne tratteggiò in quell’occa-
sione la “collocazione teologica”5 sullo sfondo dell’intera storia della Chiesa,
focalizzandone il significato alla luce dell’ininterrotta irruzione dello Spirito
Santo, coi suoi carismi e in fedeltà e in sinergia con la struttura apostolica
della Chiesa, per universalizzare, rinnovare e far brillare sempre di nuovo
la bellezza e la forza evangelizzatrice della Sposa di Cristo. Una tappa mi-
liare, credo, ancor di più se letta in continuità con altri importanti segmen-
ti di ermeneutica storica dell’evento Chiesa offerti in passato dal teologo
Ratzinger, non solo nel discernimento dell’opera dello Spirito a servizio della
missione della Chiesa nel nostro tempo, ma anche nel decifrare il vettore
decisivo nell’intero percorso del Popolo di Dio lungo i sentieri della storia in
fedeltà al suo Signore.
Il secondo esempio papa Benedetto ce lo ha dato nell’enciclica sociale
Caritas in veritate. Un testo profetico come pochi altri, ricco di prospettive
stimolanti e senz’altro da riprendere tra le mani, da meditare con attenzione

14 nu 225
piero coda

e da approfondire con adeguati studi per ispirarne quelle efficaci incarna-


zioni di cui l’agire sociale dei discepoli di Gesù, nella compagnia con tutti i
sinceri cercatori di verità e giustizia, oggi urgentemente necessita. In questa
enciclica papa Benedetto traccia infatti con chiarezza la strada che il pen-
siero d’ispirazione cristiana ha da intraprendere per ritrovare nuovo slancio,
attingendo alla sua fonte sempre viva e affrontando con lucidità le enor-
mi sfide dell’oggi e di un domani che ci incalza a grandi passi. La chiave di
quest’ingente e onerosa operazione è individuata nella riscoperta e nella
messa in valore di quel principio della relazione – e cioè dell’apertura all’altro
intrinseca al ritrovamento della propria identità, delineata nelle sue forme
anche sociali, politiche ed economiche – che è il portato più sconvolgente e
prezioso della figura cristiana di Dio Trinità.
Sta qui – Ratzinger lo sottolineava già nel suo Introduzione al cristianesi-
mo – il punto più alto della novità spirituale e della promessa di trasforma-
zione culturale recate al mondo dalla Rivelazione cristiana.

Ma forse l’esempio della più grande fedeltà al principio stesso della fede
di sempre in Gesù, che è al medesimo tempo la più grande apertura al nuo-
vo incessante del suo Spirito, Joseph Ratzinger/Benedetto XVI ce l’ha dato
il giorno delle sue inaspettate dimissioni.
È stato infatti questo gesto estremo, ponderato e sereno, maturato gra-
zie a un discernimento guidato dal desiderio libero da ogni “se” e da ogni
“ma” di obbedire a Dio soltanto per continuare a servire la Chiesa e l’umani-
tà seguendo il Maestro nella via pasquale della kenosi di sé vissuta sino alla
fine, che ha fatto germogliare «una nuova freschezza in seno alla Chiesa,
una nuova allegria, un nuovo carisma che si rivolge agli uomini»6.
Con queste parole Benedetto XVI legge oggi con gli occhi della fede,
accompagnandolo giorno dopo giorno col sostegno della preghiera e dell’a-
micizia, il ministero petrino del suo successore papa Francesco.

1
Trad. dal tedesco di C. Galli, Garzanti, Milano 2016.
2
Mondadori, Milano 2016.

nuova umanità 225 15


focus. per i 90 anni di benedetto xvi
L’eredità di Dio nel patrimonio della fede

3
Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazio-
ne degli auguri natalizi, il 21 dicembre 2005, dove l’«ermeneutica della riforma»
è presentata come l’ermeneutica «del rinnovamento nella continuità dell’unico
soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato [...] un soggetto che cresce nel tempo
e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in
cammino».
4
J. Ratzinger, Natura e compito della teologia. Il teologo nella disputa contempora-
nea. Storia e dogma, trad. it., Jaca Book, Milano 1993, pp. 122-123.
5
J. Ratzinger, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, in Aa.Vv., I
movimenti nella Chiesa, Atti del Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali (Roma,
27-29 maggio 1998), Pontificium Consilium Pro Laicis, Città del Vaticano 1999, 23-
51.
6
Ultime conversazioni, cit., p. 47.

16 nu 225
focus. per i 90 anni di benedetto xvi

L’antropologia teologica
di Ratzinger

La riflessione teologica di Joseph Ratzinger1 possie-


Antonio de una musicalità nell’offrirsi ai suoi lettori: vi si possono
cogliere sfumature di significato, variazioni ritmiche e
Bergamo movimenti alternati, ognuno scaturente da quella ine-
docente di sauribile sorgente che zampilla dall’incontro vivo e vivi-
antropologia ficante con il Dio di Gesù Cristo. Cristo, infatti, «non è
teologica presso semplicemente un caso eccezionale, ma è lo specifico
la facoltà compimento dell’idea di uomo, nel quale viene posta in
teologica luce, per la prima volta, la direzione in cui procede l’esse-
pugliese e presso
l’issr di lecce. re uomo»2. La direzionalità dell’esistenza umana emerge
esattamente in un duplice movimento convergente (da
Dio e verso Dio) nella Rivelazione trinitaria, nella quale
si rivoluziona lo sguardo sulla consistenza ontologica
del mondo3: essa infatti scardina la chiusura asfissiante
dell’immanenza autoreferenziale per far venire in luce il
principio relazionale che abitando il reale lo trascende, ac-
compagnandolo al suo compimento. Vorremmo dunque
provare ad articolare questa musicalità della riflessione
di J. Ratzinger che si esprime in un’antropologia teologi-
ca cristologicamente fondata e trinitariamente orientata.
Cercheremo così qui di seguito, attraverso tre aper-
ture, di cogliere e tematizzare le caratteristiche della
visione antropologica del teologo bavarese: 1) l’essere
umano come persona; 2) il dinamismo relazione/rela-
zionalità come centro orientativo dell’identità persona-
le; 3) la reciprocità che dischiude l’orizzonte trinitario
verso il quale l’essere persona in Cristo viene a trovare
il suo approdo.

nuova umanità 225 17


focus. per i 90 anni di benedetto xvi
L’antropologia teologica di Ratzinger

1. la persona umana

«Mentre si parla di Dio si intravvede chiaramente chi sia l’uomo» 4. Attra-


verso il suo itinerario di vita e di pensiero J. Ratzinger ha messo in luce come
il concetto di persona nasca e scaturisca dall’idea del dialogo e di Dio quale
essere dialogico5. Essere persona umana non è pertanto recitare un “ruolo”
(secondo l’antica significazione del termine prosopon), né essere assorbiti
in una totalità che annichilisce e spersonalizza. L’identità personale dell’es-
sere uomo non risiede nella generica appartenenza alla specie umana o al
creato. L’uomo non è un’emozione, non è pura istintività, non è nemmeno
solo la sua mente o la sua corporeità. Il centro gravitazionale dell’uomo può
essere colto nella sua capacità di auto-trascendenza a partire da un appello
originario che chiama a un’uscita da se stessi verso l’A/altro. Ciò vuol dire
che la persona umana, nel suo nucleo più profondo e nella sua unitarietà,
trova compimento nella possibilità di realizzare una forma di reciprocità che
scaturisce da quella relazionalità che abita e trascende il reale e le relazioni
che al suo interno vi si istituiscono.
Questa è una novità rispetto ai paradigmi caratterizzanti la cultura uma-
na in ogni tempo: il singolo e il tutto nella rivelazione cristiana non sono in
contrapposizione o annientati l’uno nell’altro, ma sono posti in una relazione
di reciprocità che si alimenta dell’intenzionalità pre-riflessiva dell’amore-ve-
ro (agape), in esso si radica e si compie l’autentica libertà umana, che è così
sempre interpersonale e, per così dire, pericor-etica6. È della persona dunque
non solo avere coscienza di qualcosa, porsi come soggetto che afferma se
stesso, ma anzitutto riceversi dall’altro e in questo riceversi cor-rispondere.
Scrive Ratzinger:

Per risultare fruttuosi, tutti i trascendimenti di sé (selbstüberschrei-


tung) hanno bisogno del ricevere da parte degli altri e, in definiti-
va, da parte dell’Altro che è il veramente Altro dell’intera umanità
e contemporaneamente totalmente a essa unito: l’uomo-Dio Gesù
Cristo7.

La corrispondenza che ne risulta, se intenzionalmente radicata in quell’ap-


pello originario che abita il dono di sé, permette alla persona di diventare dav-

18 nu 225
antonio bergamo

vero se stessa, tanto che Ratzinger afferma: «dove l’Io si dona al Tu si origina
la libertà»8. La salvezza promessa e attuata in Gesù Cristo viene a offrirsi
allora come possibilità per l’uomo di diventare pienamente se stesso nel
tempo e in vista dell’incontro definitivo con lui. È tale dinamismo che so-
stiene e orienta l’essere umano. Diversamente egli perde se stesso quando
smarrisce tale orientamento e l’esistenza diventa un interminabile alimen-
tarsi di conflitti autoreferenziali, scontri identitari nei quali l’io viene a essere
fatto coincidere con il suo ruolo e non è riconosciuta la sua essenza più inti-
ma, quella inscritta nelle fibre del suo essere-come-dono, che si declina nella
specificità dell’individualità che si trascende.
Essere persona è possedere un nome, un volto, una parola: questi ele-
menti strutturali dell’identità personale dell’essere-uomo non sono attributi
puramente nominalistici, ma rinviano ad altro. Sono tra loro in una relazione
di reciprocità poiché si richiamano vicendevolmente. Il mio nome, il mio vol-
to, la mia parola poggiano su un altro Nome, un altro Volto, un’altra Parola
che li rende possibili e nei quali si dicono, esprimendosi e richiamandosi ul-
teriormente su più livelli di profondità e altezza. È in tal senso che Ratzinger
scrive: «Il senso dell’Incarnazione è […] quello di rendere accessibile a tutti
quanto è suo»9.
Se in un certo qual modo la voce può accostare l’uomo agli altri esseri
viventi nella sua animalità, egli soltanto è dotato di parola, parola che stabi-
lisce una comunicazione, comunicazione che si fa sguardo, sguardo che si
apre su un volto nel quale si riconosce un altro con il quale è possibile istitui­
re un tipo di relazione ulteriore che trascende il mero calcolo e l’utilità, l’as-
servimento e la superficialità. È questa possibilità che interroga l’umano sul-
la sua identità. Scrive Ratzinger che il nome «fonda la relazione inter-umana.
Esso dà la possibilità di essere chiamato, dalla quale nasce la con-esistenza
con colui che si chiama per nome»10. La con-esistenza dell’uno con l’A/al-
tro ovvero una presenzialità sinfonica che struttura il vivere individuale e
sociale, umanizzandolo (nella relazione) e personalizzandolo (secondo una
interiorità aperta e dilatata al Tu), nel riconoscimento reciproco a partire
dalla propria finitezza che indica e rinvia ad una Origine.
Tale struttura relazionale si pone in rilievo fenomenologicamente, ad
esempio, quando l’essere umano venendo al mondo incontra lo sguardo di

nuova umanità 225 19


focus. per i 90 anni di benedetto xvi
L’antropologia teologica di Ratzinger

colei che lo ha portato in grembo e in esso coglie pre-riflessivamente il pro-


prio nome e dice in un grido la prima affermazione della sua individualità
distinta dall’altro. Questo fatto porta racchiuso in sé un interrogativo e una
promessa che vedono l’individuo non solo come tale, ma anche come un es-
sere che nella relazione ospitale si riceve, affermando in essa gradualmente
la sua individualità secondo reciprocità. Questa relazione non poggia sul
nulla, né poggia semplicemente sul mero piano dell’immanenza, ma rinvia
a una intelligenza spirituale che sempre lo accompagnerà nella questione di
un amore originario precedente, primo amore, sul quale egli è chiamato a
prendere posizione e che trascende il recinto chiuso di una o più individuali-
tà e le generazioni nel tempo storico. In principio, dunque, non è il conflitto,
ma è il Logos, come quella Parola che, dal di dentro e squarciando l’imma-
nenza, dice “agape”11.
Il vocabolario cristologico che forgia il teologo tedesco diventa la pos-
sibilità di comprendere analogicamente la persona umana poiché è Dio a
stabilire i termini dell’analogia12. Troviamo così tutta una serie di espressioni
che vogliono descrivere l’identità del Verbo fatto carne: derivare dall’altro,
essere polarizzato su di lui, essere completamente aperto su entrambi i lati, non
conoscere spazio chiuso ecc.
Sul piano antropologico una sola persona umana non può essere caricata
di questo peso ontologico. Sul livello teologale nel Cristo crocifisso e risorto
ogni “io”, ivi situandosi, trova il suo “sé”, la sua ipseità, che custodisce nel suo
tenore di senso l’alterità. Se per il Cristo, in maniera singolare, tale ipseità è la
relazione con il Padre per mezzo dello Spirito, asimmetricamente per l’indi-
viduo è nel Cristo che siamo immessi in una ritmica dialogica che culmina in
una figliolanza grata e riconoscente. L’io ha bisogno dell’Altro-altro per essere
davvero se stesso. Ogni relazione pertanto scaturisce da una relazionalità
originaria che la precede e che trascende gli attributi dell’individuo stesso
nel definirli, così che ogni essere umano ha una sua dignità al di là dei suoi
attributi e delle sue qualità, poiché tale relazionalità inscritta nelle fibre del
proprio essere lo invita a varcare la porta del Senso e ac-coglierlo attraverso
il dinamismo fraterno che lo anima.

20 nu 225
antonio bergamo

2. relazione e relazionalità

Nel Verbo incarnato la persona umana trova il suo centro estatico e il


soggetto non può affermare autenticamente se stesso se non a partire dal
riconoscimento di tale dinamismo esodale che lo invita a uscire continua-
mente fuori di sé verso l’A/altro13. Ciò non vuol dire che la persona umana
sia priva di consistenza, ma che è una realtà che partecipa del dinamismo
dialogico della Sorgente del suo essere. L’accoglienza di tale dinamismo
durante l’apprendistato della vita, nel Crocifisso e Risorto, per mezzo dello
Spirito, solleva il singolo dallo stress di essere alla ricerca costante del suo io
autentico, esprimendosi nella ritmica del dono.
Vi sono dunque sempre una certa diacronia e una certa asimmetria
che vanno colte e accolte perché ogni trascendimento di sé sia fruttuoso.
Diacronia in quanto l’uomo è/ha un inizio nel tempo, ma che coglie nello
spazio dell’intersoggettività nel quale è posto l’appello di una Origine che
lo trascende14. In tal senso egli si scopre parte di una creazione e si pone
l’interrogativo del cominciamento. Ciò frantuma l’appiattimento della pura
immanenza, poiché in quest’unica dimensione ciascuna relazione rischie-
rebbe di dissolvere ogni alterità, disperando di trovare risposta all’interro-
gativo fondamentale circa la propria esistenza15. Asimmetria poiché la presa
afferrante del soggetto non può darsi come compimento della sua identità,
ma è al contrario l’attiva partecipazione al dono ricevuto e donato che per-
mette di sapere chi è lui e chi è l’A/altro che lo interpella16. Riconoscere una
certa asimmetria salva dal conformismo livellante e libera energie nuove e
positive, energie creative che attingono al dinamismo dello Spirito Santo.
Diacronia e asimmetria che, senza confusione né separazione, rinviano sem-
pre oltre, a una potenza (dynamis) che nell’uomo è potenziale: l’io è dunque
elezione/chiamata e si afferma come risposta/missione nel tempo e nello
spazio. Qui si dischiude l’orizzonte della fraternità nella quale l’io è costitu-
tivamente inserito ma verso il quale è chiamato intenzionalmente ad aprirsi.
La fraternità, infatti, non è un fatto semplicemente naturale o vago o di ap-
partenenza a un gruppo, ma legame ontologico che si dischiude quando il
sì dell’uomo riecheggia e si pronuncia nel sì che il Figlio eternamente dice al
Padre e che nello Spirito si esprime17.

nuova umanità 225 21


focus. per i 90 anni di benedetto xvi
L’antropologia teologica di Ratzinger

L’essere è relazione nel suo dirsi, nel suo darsi rinvia a una relazionalità
più alta che permette di oltrepassare quella sterilità a cui l’immanenza sem-
bra condannare l’uomo. L’identità filiale dell’uomo, proprio per la diacronia
e asimmetria che caratterizzano l’esistere nel suo dinamismo trascendente,
assume al contempo i tratti di identità fraterna. Proprio in questa fraternità si
apre la possibilità di alzare lo sguardo e di accorgersi di quell’appello che Dio
in Cristo rivolge all’uomo. Il nostro teologo sembra far notare che dal lato
del soggetto umano la fraternità, che in Cristo viene a essere dispiegata in
pienezza, quasi precede la figliolanza nella quale tramite il Verbo incarnato
siamo inseriti, poiché in questa dinamica comunionale si innescano processi
relazionali complessi e generativi che rinviano a una Presenza. L’io, dunque,
è fatto per la comunione e questa concretamente si attua nella fraternità
che allarga gli spazi della razionalità. Quando questa fraternità si realizza
intenzionalmente, secondo i tratti che leggiamo nel volto di Cristo, allora
l’individuo è sollevato dal solipsismo e dall’isolamento, i suoi fallimenti e
i suoi limiti, il suo peccato e suoi errori, trovano una possibilità di riscatto
nell’apertura all’A/altro da sé.
Tale apertura scaturisce dalle viscere dell’amore trinitario, un amore che
è potenza che rigenera, proprio in quanto ha i connotati robusti della miseri-
cordia, che spezza il circolo vizioso dell’ontologia conflittuale innescata dal
disancoramento da questa dimensione pneumatologica della fraternità. È in
tal senso ad esempio che Ratzinger afferma che «la croce è il centro della
Rivelazione»18. Essa dischiude un evento che, innestato nell’eternità, risuo-
na nella temporalità come potenza che trascende ogni finitezza, che viene
così a cogliersi come l’ipseità propria della persona umana. È «nel mistero
della Pasqua» che la comunione tra Dio e l’uomo «diventa comunicabile»19,
cioè questo comunicarsi è performativo, agisce/può agire sull’umano nel
suo farsi sempre più se stesso secondo la sua forma. Per la natura trinitaria
dell’evento pasquale anche la relazione con gli altri viene a essere coinvolta
in un dinamismo che è quello che Ratzinger sintetizza nel cosiddetto «prin-
cipio per». L’uno-e-i-molti della dimensione dell’intersoggettività, nell’Uno
distintivo del Dio Uni-Trino, trova il suo baricentro poiché la dedizione nella
gratuità è la cifra più propria dell’essere vero-uomo. Il per che abita il sog-
getto umano non è una mera finalità utilitaristica, può esserlo perché lo si

22 nu 225
antonio bergamo

intenziona in tal senso, ma è la tensionalità causale e orientativa costitutiva


dell’essere fatto per la comunione della persona, che è tale perché si scopre
da sempre pensata e chiamata per qualcosa. La corporeità assume così i
tratti della cura e della dedizione, del servizio ricevuto e donato, della fragi-
lità che si tramuta in forza non per la sua affermazione, ma per la possibilità
di scoprirsi grata di poter(si) ricevere dall’altro e donare all’altro. Una dina-
mica eucaristica se lo vogliamo, che sembra voler essere messa in luce nel
pensiero di J. Ratzinger. Proprio in questo dinamismo l’uomo scopre che, a
differenza degli animali, egli non riposa nell’istintività ma permane tensio-
nalmente nel desiderio e si trascende abitando nella comunione. Quanto più
questa dinamica si realizza nella libertà, emancipata dalla presa afferrante
e calcolante a cui per la ferita del peccato sembra essere condannata, tanto
più la persona umana realizza se stessa e sperimenta che il suo io è dilatato
sulla misura di un tu e di un noi con e nei quali è posto in relazione.

3. la reciprocità

La reciprocità è il frutto maturo della partecipazione alla vita trinitaria,


vita trinitaria che appartiene alla strutturalità relazionale dell’individuo chia-
mato a diventare persona. Essa si manifesta complessivamente come chia-
mata e dinamismo responsabile. Scrive infatti Ratzinger:

Essere immagine di Dio (Gottebenbildlichkeit) significa che l’uomo


non può essere chiuso in se stesso. Che non è semplicemente quel
che è in se stesso. Se cerca di essere chiuso solamente in sé, manca
se stesso. Se vuole essere solo se stesso, si perde. Essere-imma-
gine-di-Dio significa dunque, in una parola: far-richiamo (Verwei-
senheit), far-riferimento (Bezongenheit). È la dinamica che mette
l’uomo in movimento fuori di sé, oltre sé, verso l’altro, verso gli altri
e finalmente verso il completamente altro. Di conseguenza, essere-
immagine-di-Dio significa capacità di relazione. Ora, se essere-im-
magine-di-Dio è la sua vera dignità, ciò che lo definisce come uomo,
significa allora che ognuno diventa uomo soprattutto quando esce
da se stesso. Quando diviene capace di dire “tu” a Dio20.

nuova umanità 225 23


focus. per i 90 anni di benedetto xvi
L’antropologia teologica di Ratzinger

Dare del “tu” a Dio vuol dire conoscerlo come egli si è lasciato conosce-
re, ammettere che nello scorrere del tempo possa accadere il darsi della
sua presenza e pertanto poter cogliere nel Cristo crocifisso, abbandonato e
risorto il culmine del dirsi/darsi di Dio nella storia. È proprio qui infatti che,
secondo Ratzinger, lo sguardo umano coglie qualcosa di radicalmente nuo-
vo e diverso rispetto a qualsiasi altra esperienza religiosa:

La croce è rivelazione. Essa non ci rivela una cosa qualsiasi, ben-


sì Dio e l’uomo. Ci svela chi Dio è e come l’uomo è […]. La verità
dell’uomo è la sua mancanza di verità […]. La croce, però, non rivela
soltanto l’uomo, ma rivela anche Dio: ecco Dio, tale da identificarsi
con l’uomo, fin nel profondo di questo abisso, tale da salvarlo nell’i-
stante stesso in cui lo giudica. Nell’abisso del fallimento umano si
rivela l’abisso ancora più insondabile dell’amore divino. La croce è
quindi veramente il centro della Rivelazione, una rivelazione che
non ci svela qualche massima sinora a noi ignota, ma noi stessi, ri-
velando noi davanti a Dio e rivelando Dio in mezzo a noi21.

Si esplicita così il carattere perfomativo della Rivelazione trinitaria che


trova il suo luogo ermeneutico nell’evento pasquale, in cui l’amore-vero che
scaturisce dalle viscere del Dio Uni-Trino, non solo plasma e trasforma il
soggetto, ma lo invita al compimento di sé nella comunionalità della recipro-
cità. Il riconoscimento delle identità personali, dunque, nella logica trinitaria
accade in una reciprocità che attraverso un dinamismo di mutua accoglien-
za, facendo spazio in sé perché l’altro sia, consente l’autentica realizzazione
di sé, poiché il frutto di tale reciprocità non va per sottrazione (negazione
che negando l’altro lo elimina) ma per moltiplicazione nell’unità (negazione
di sé per amore, che nell’amore moltiplica l’individualità nell’unità lasciando
ciascuno più uno con se stesso e con l’altro). Una pienezza di senso, ec-
cedente qualsiasi singolarità, viene dischiusa pneumaticamente in questa
ritmica nel dono corrisposto, facendo dell’individuo una persona.
A livello antropologico lo spazio della reciprocità, luogo del compimen-
to della creazione, è posto, come già evidenziato, diacronicamente rispet-
to all’Origine e, asimmetricamente, si offre nel Cristo crocifisso e risorto.
L’unità che la reciprocità promette, comunione traboccante dove ciascuno

24 nu 225
antonio bergamo

è più se stesso, contiene in sé anche la molteplicità e la differenza, è per-


tanto caratterizzata da una certa asimmetria partecipativa e dinamica, di
tipo qualitativo e non meramente quantitativo, inclusiva e non escludente
che trascende, diacronicamente, la temporalità. È questo tipo di reciprocità
che fa maturare nell’individuo la personalità. Nello Spirito Santo si compie
tale dinamismo, poiché si dischiude uno spazio terzo, spazio della comu-
nione vissuta, spazio ecclesiale nel senso più profondo del termine22, cioè
quello spazio nel quale coloro che sono chiamati rispondono con il loro
sì all’appello del Padre scoprendo il luogo della comunione più alta e più
vera. Luogo (=nella categoria di spazio) che accade (=nella categoria del
tempo), paradosso della ritmica trinitaria dell’esistenza che rinvia verso un
oltre. Tale oltre non è l’indefinito ma il sinfonico incontrarsi con l’essere-
personale del Dio uni-trino. Qui dunque può compiersi, nell’incedere del
già e non ancora, quella reciprocità nella quale ciascuno rimane se stesso
ed è ancora più se stesso nella ritmica del dono in-finito ricevuto e donato.
Scrive infatti Ratzinger:

Se ciascuno rimane se stesso e non si supera nell’altro, il suo essere


resta comunque chiuso in se stesso ma si estrinseca nella fecondità
in cui si dona all’altro pur rimanendo quello che è. Entrambi sono
un’unica cosa perché il loro amore è fecondo e lo trascende. E sono
se stessi ed un’unica cosa nel terzo, nel quale si donano: nel dono23.

Qui il teologo allude al reciproco dono che il Padre fa di sé al Figlio nello


Spirito, l’unità trinitaria che contiene in sé la cifra della molteplicità che si
trascende nell’amore, e si offre il paradigma della significatività dell’essere-
ad-immagine-di-Dio da parte dell’uomo il quale è posto nella possibilità
di consegnarsi a Dio nell’atto di fede che lo fa davvero persona. Che cos’è
la storia dunque se non il dispiegarsi, pur fra chiaroscuri e resistenze, del
dialogo della creatura con il Creatore secondo un rispettoso e drammatico
intrecciarsi di un invito e di un’accoglienza nella risposta?24. È in tale oriz-
zonte che potremmo leggere quelle che sono definite dal teologo tedesco
le «strutture dell’essere cristiano»25: 1) il rapporto tra il singolo e il tutto,
secondo una modalità in cui l’individuale e il comunitario interagiscono ri-
conoscendo l’identità del singolo in un nucleo che è al di là di sé e nel rispet-

nuova umanità 225 25


focus. per i 90 anni di benedetto xvi
L’antropologia teologica di Ratzinger

to di ciò che lo caratterizza attraverso la comunione; 2) il principio “per”,


ritmica del dono di sé e andamento orientativo dell’esistenza; 3) la legge
dell’incognito, in cui i processi storici e individuali proprio per il loro carat-
tere interagente sfuggono alla necessità ma in cui emerge una eccedenza di
senso che può essere colta nell’orizzonte della comunione; 4) la legge della
sovrabbondanza, per la quale il dono donato è più dell’accordo implicito fra
due parti, ma situandosi in una Alterità più alta, che ne è il senso e la mo-
tivazione, genera frutti inaspettati che non sono i risultati conseguiti, ma
la fecondità/generatività stessa della persona-in-relazione; 5) il carattere
di definitività e speranza che marchia l’intenzionalità, poiché il cuore tende
a un compimento, è fatto per la definitività, un per sempre che è tale quan-
do si radica nell’oltre di Dio e non semplicemente nell’accadere di processi
monotoni ed entropici, tale compimento ha il passo incerto della finitezza
nella quale però irrompe un Altro che invita al cammino e rinfranca nel suo
procedere. Così il crollo dell’attesa escatologica nelle forme della quotidia-
nità e della fiducia nel compimento pieno della reciprocità è la distruzione
della persona umana nella sua identità personale e la dissoluzione di ogni
possibile futuro. Paradigma dell’uomo chiamato a diventare se stesso non è
l’errare di Ulisse che ritorna al punto di partenza, ma il procedere inquieto di
Abramo che rispondendo a una promessa si incammina verso una terra in
cui i frutti della generatività lo trascendono rispetto alla sua stessa esistenza
spazio-temporale26.

in conclusione

L’orizzonte entro il quale si colloca l’antropologia custodita nella rifles-


sione teologica di Joseph Ratzinger è quello della Rivelazione trinitaria. Tale
antropologia teologica si caratterizza per il suo respiro pneumatico che
dischiude lo spazio di una fraternità radicata nell’identità filiale del Verbo
incarnato. Essa offre la possibilità di una comprensione della soggettività
umana come relazionalmente strutturata in una originaria apertura all’al-
terità, in cui le componenti dell’essere uomo sono integrate in una visione
complessiva che fa sì che l’originalità individuale e il legame sociale siano

26 nu 225
antonio bergamo

tenuti insieme da una logica soggiacente l’essere stesso. Tale logica inter-
pella il singolo a una presa di posizione che è apertura costitutiva alla grazia.
In essa può compiersi quella trinitizzazione dei rapporti27 che rende auten-
ticamente generativi, nel reciproco legame, il senso individuale e il vivere
sociale.

1
Diversi studi offrono un’introduzione generale al pensiero di Joseph Ratzin-
ger: A. Bellandi, Fede cristiana come «stare e comprendere». La giustificazione dei
fondamenti della fede in Joseph Ratzinger, PUG, Roma 1996; P. Blanco Sarto, Joseph
Ratzinger: razón y cristianismo. La victoria de la inteligencia en el mundo de las religiones,
Ediciones Rialph, Madrid 2005; A. Borghese, Sulle tracce di Joseph Ratzinger, Canta-
galli, Siena 2007; U. Casale (ed.), Fede, ragione, verità e amore. La teologia di Joseph
Ratzinger, Lindau, Torino 2009; C. Bertero, Persona e comunione. La prospettiva di J.
Ratzinger, Lateran University Press, Roma 2014.
2
J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 20052, p. 185.
3
Cf. Id., Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 2008, pp. 130-141.
4
Ibid., p. 146.
5
Cf. Id., Dogma e predicazione, cit., p. 178.
6
Su tale linea Ratzinger parla di una doppia libertà, la libertà di Dio e la libertà
dell’uomo, da cui scaturisce una storia segnata dall’appello, immanente e trascen-
dente al tempo stesso, alla partecipazione alla vita trinitaria: cf. ibid., p. 154.
7
Id., Introduzione al cristianesimo, cit., 245.
8
Id., Guardare al crocifisso, Jaca Book, Milano 1992, p. 34
9
Id., La fraternità cristiana, Queriniana, Brescia 2005, p. 64.
10
Id., Introduzione al cristianesimo, cit., p. 125.
11
Sulla differenza cristiana del concetto di Logos a partire dall’Incarnazione: cf.
V. Di Pilato, Consegnati a Dio. Un percorso storico sulla fede, Città Nuova, Roma 2011,
pp. 38-39.
12
Cf. J. Ratzinger, Dogma e predicazione, cit., p. 39.
13
Sulla categoria di “esodo” come aggregatore semantico della proposta teo-
logica di J. Ratzinger: cf. R. Tremblay - S. Zamboni, Ritrovarsi donandosi. Alcune idee
chiave della teologia di Jospeh Ratzinger-Benedetto XVI, Lateran University Press,
Roma 2012.
14
Cf. J. Ratzinger, La fine del tempo, in Aa.Vv., La provocazione del discorso su Dio,
Queriniana, Brescia 2005, pp. 21-39.

nuova umanità 225 27


focus. per i 90 anni di benedetto xvi
L’antropologia teologica di Ratzinger

15
Il teologo bavarese offre un interessante sguardo d’insieme su questo tema:
cf. Id., Escatologia. Morte e vita eterna, Cittadella editrice, Assisi 2008, pp. 205-207.
16
In tal senso Ratzinger parla di superamento della particolarità attraverso la
reciproca convergenza, pur nella diversità, in Colui che ha dischiuso il luogo in cui la
reciprocità si compie: «La fede in Gesù Cristo è pertanto di sua natura un continuo
aprirsi (Sichöffnen), irruzione (Einbruch) di Dio nel mondo umano e aprirsi (Aufbruch)
dell’uomo in risposta a Dio, che nello stesso tempo conduce gli uomini l’uno verso
l’altro» (J. Ratzinger, Fede, verità e tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo,
Cantagalli, Siena 2003, p. 210).
17
Scrive il teologo bavarese: «La fratellanza non è concepita in maniera natura-
listica, come un fenomeno naturale originario, bensì poggia su una decisione spiri-
tuale, sul Sì detto alla volontà di Dio» (La fraternità cristiana, cit., p. 39).
18
Id., Introduzione al cristianesimo, cit., p. 283.
19
Id., Guardare al crocifisso, cit., p. 81.
20
Id., Progetto di Dio. La creazione, Marcianum Press, Venezia 2012, p. 91.
21
Id., Introduzione al cristianesimo, cit., p. 283.
22
Un interessante approfondimento su questo tema: A. Clemenzia, Nella Trinità
come Chiesa. In dialogo con Heribert Mühlen, Città Nuova, Roma 2014.
23
J. Ratzinger, In cammino verso Gesù Cristo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004,
pp. 28-29.
24
Questa visione della storia che sembra caratterizzare la riflessione ratzinge-
riana ha la sua fonte probabilmente nella teologia di san Bonaventura: cf. G. Pasqua-
le, La teologia della storia nel XX secolo, EDB, Bologna 2001, pp. 134-141.
25
Cf. J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, cit., pp. 234-255.
26
A questo riguardo: cf. Id., La festa della fede. Saggi di teologia liturgica, Jaca
Book, Milano 19902, pp. 38-39.
27
Sul concetto di trinitizzazione: cf. S. Mazzer, “Li amò sino alla fine”. Il Nulla-Tutto
dell’amore tra filosofia, mistica e teologia, Città Nuova, Roma 2014, pp. 799-805; P.
Coda, Il Logos e il nulla, Città Nuova, Roma 2003, pp. 368-374.

28 nu 225
Il messaggio della
Caritas in veritate

Quale è, in buona sostanza, il grande contributo di


Stefano pensiero di Benedetto XVI al consolidamento e alla di-
latazione della portata d’azione della Dottrina sociale
Zamagni della Chiesa (DSC)? Mi riferisco qui, in primis, alla Cari-
docente di tas in veritate (CV, 2009) e, in secundis, all’enciclica in un
economia certo senso preparatoria, Deus caritas est (2005), oltre
civile presso che ai non pochi discorsi pronunciati da questo papa
l’università di nel corso del suo breve pontificato. Lo spazio che ho a
bologna; docente
d’international
disposizione non mi consente che poche sottolineature,
political peraltro di straordinaria rilevanza, sia dottrinale sia pra-
economy presso tica. Prima, però, un’annotazione di carattere generale.
la johns hopkins Una novità rilevante dell’opera di papa Ratzinger è di
university, sais natura metodologica, quella di suggerire un metodo per
europe. membro
della pontificia
leggere le res novae di questo nostro tempo, connotato
accademia delle com’è da due eventi di portata epocale: la globalizzazio-
scienze sociali. ne dell’economia e della finanza e la quarta rivoluzione
industriale. Alla luce dei quattro pilastri – da sempre gli
stessi – della DSC, la CV legge la realtà odierna offren-
doci un’interpretazione affatto originale: la Chiesa non
può limitarsi – pur dovendolo fare – a denunciare i guasti
di un certo modello di ordine asociale e ad offrire sugge-
rimenti pratici per lenirne gli effetti, talvolta devastan-
ti. Essa deve altresì spingersi fino a svelare le cause dei
tanti paradossi che ci è dato di constatare e ad indica-
re quali alternative, tra quelle realisticamente possibili,
sono maggiormente in linea con l’anima del messaggio
cristiano. Il cristianesimo, infatti, è una religione incar-
nata nella storia, non una religione “incartata”, fissata
focus. per i 90 anni di benedetto xvi
Il messaggio della Caritas in veritate

cioè sulla “carta” una volta per tutte. Il grande valore aggiunto della CV è
quello di portare a compimento quelle linee di pensiero già presenti nella
Populorum progressio di Paolo VI e nella Centesimus annus di Giovanni Paolo II
e ciò alla luce delle res novae cui sopra ho fatto riferimento. Si può allora ben
dire che la CV è la prima enciclica sociale della post-modernità, così come la
Rerum novarum (1891) di Leone XIII è stata il primo documento magisteriale,
sempre in ambito sociale, della modernità.
Un primo punto degno di attenzione è l’ampliamento della nozione tra-
dizionale di giustizia, la quale non può essere ristretta al giudizio sul mo-
mento distributivo della ricchezza, ma deve spingersi fino al momento della
sua produzione. Non basta, cioè, reclamare la “giusta mercede all’operaio”
come ci aveva raccomandato la Rerum novarum (1891). Occorre anche chie-
dersi se il processo produttivo si svolge o meno nel rispetto della dignità del
lavoro umano; se accoglie o meno i diritti umani fondamentali; se è compa-
tibile o meno con la norma morale. Già nella Gaudium et spes, al n. 67, si era
letto: «Occorre dunque adattare tutto il processo produttivo alle esigenze
della persona e alle sue forme di vita» e non viceversa. Il lavoro non è un
mero fattore della produzione che, in quanto tale, deve adattarsi, anzi ade-
guarsi alle esigenze del processo produttivo per accrescerne l’efficienza. Al
contrario, è il processo produttivo che deve essere organizzato in modo tale
da consentire alle persone la loro fioritura umana e rendere possibile l’armo-
nizzazione dei tempi di vita familiare e di lavoro.
Papa Benedetto ci dice che un tale progetto è oggi, nella stagione della
società post-industriale, fattibile, purché lo si voglia. Ecco perché la CV invi-
ta con insistenza a trovare i modi di applicare nella pratica la fraternità come
principio regolatore dell’ordine economico. Laddove altre encicliche parlano
di solidarietà, la CV parla piuttosto di fraternità, dato che una società frater-
na è anche solidale, mentre il viceversa non è vero, come tante esperienze
ci confermano. L’appello è dunque quello di porre rimedio all’errore della
cultura contemporanea, che ha fatto credere che una società democratica
potesse progredire tenendo tra loro disgiunti il codice dell’efficienza – che
basterebbe da solo a regolare i rapporti tra gli uomini entro la sfera dell’eco-
nomico – e il codice della solidarietà – che regolerebbe i rapporti intersog-

30 nu 225
stefano zamagni

gettivi entro la sfera del sociale. È questa dicotomizzazione ad avere impo-


verito, senza alcuna ragione oggettiva, le nostre società.
La parola chiave che oggi meglio di ogni altra esprime l’esigenza di su-
perare tale dicotomia è quella di fraternità, parola già presente nella ban-
diera della Rivoluzione francese, ma che l’ordine post-rivoluzionario ha poi
abbandonato – per le note ragioni – fino alla sua cancellazione dal lessico
politico-economico. È stata la scuola di pensiero francescana a dare a que-
sto termine il significato che esso ha conservato nel corso del tempo. Che è
quello di costituire, a un tempo, il complemento e l’esaltazione del principio
di solidarietà. Infatti mentre la solidarietà è il principio di organizzazione so-
ciale che consente ai diseguali di diventare eguali, il principio di fraternità
è quel principio di organizzazione sociale che consente agli eguali di esser
diversi. La fraternità consente a persone che sono eguali nella loro dignità e
nei loro diritti fondamentali di esprimere diversamente il loro piano di vita, o
il loro carisma. Le stagioni che abbiamo lasciato alle spalle, l’800 e soprat-
tutto il ’900, sono state caratterizzate da grosse battaglie, sia culturali sia
politiche, in nome della solidarietà e questa è stata cosa buona; si pensi alla
storia del movimento sindacale e alla lotta per la conquista dei diritti civili.
Il punto è che la buona società non può accontentarsi dell’orizzonte della
solidarietà, perché una società che fosse solo solidale, e non anche fraterna,
sarebbe una società dalla quale ognuno cercherebbe di allontanarsi. Aver
dimenticato il fatto che non è sostenibile una società di umani in cui si estin-
gue il senso di fraternità e in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare
le transazioni basate sullo scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad au-
mentare i trasferimenti attuati da strutture assistenziali di natura pubblica,
ci dà conto del perché, nonostante la qualità delle forze intellettuali in cam-
po, non si sia ancora addivenuti a una soluzione credibile del grande trade
off tra efficienza ed equità.
Non è capace di futuro la società in cui si dissolve il principio di fraternità;
non è cioè capace di progredire quella società in cui esiste solamente il “dare
per avere” oppure il “dare per dovere”. Ecco perché, ci dice Benedetto XVI,
né la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è scam-
bio, né la visione statocentrica della società, in cui tutto (o quasi) è dovero-
sità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui le nostre società

nuova umanità 225 31


focus. per i 90 anni di benedetto xvi
Il messaggio della Caritas in veritate

sono oggi impantanate. Da ciò consegue l’invito a cercare una via d’uscita
pervia dalla soffocante alternativa che vede su un fronte la tesi neoliberista
secondo cui i mercati funzionano quasi sempre bene – e dunque non vi sa-
rebbe bisogno di invocare speciali interventi regolativi – e sull’altro fronte la
tesi neostatalista secondo cui i mercati quasi sempre falliscono – e pertanto
non resterebbe che affidarsi alla mano visibile dello Stato. Invece, proprio
perché i mercati – di cui non si può fare a meno – spesso non funzionano
bene, è urgente intervenire sulle cause dei tanti malfunzionamenti, soprat-
tutto in ambito finanziario, piuttosto che limitarsi a correggerne gli effetti. È
questa la via che è favorita da chi si colloca nell’alveo dell’economia civile di
mercato – un alveo nel quale papa Ratzinger pare muoversi, in sintonia con
l’insegnamento dei suoi ultimi due predecessori.
Il mercato, in verità, non è solo un meccanismo efficiente di regolazio-
ne degli scambi. È soprattutto un ethos che induce cambiamenti profondi
delle relazioni umane e del carattere degli uomini che vivono in società. Di
qui l’insistenza del papa sul principio di fraternità che deve trovare un po-
sto adeguato dentro l’agire di mercato e non fuori, come vorrebbero i corifei
del “capitalismo compassionevole”. Si osservi che Benedetto non si scaglia
affatto contro la ricchezza di per sé né si dichiara a favore del pauperismo.
Peraltro, ciò sarebbe incompatibile con l’idea cristiana di creazione e con
quanto papa Giovanni XXII nel 1318, nella bolla Gloriosam Ecclesiam, già ave-
va chiaramente precisato al riguardo. Il suo giudizio severo riguarda piut-
tosto i modi in cui la ricchezza viene generata e i criteri con cui essa viene
distribuita tra i membri del consorzio umano – modi e criteri che un cristiano
non può non sottoporre al giudizio morale.
Di un secondo punto desidero dire. Nella CV, i termini impresa e impren-
ditore sono quelli che ricorrono più frequentemente. Nulla di simile si riscon-
tra nelle encicliche precedenti, dove il termine impresa viene evocato solo
di sfuggita. Perché? Benedetto XVI dimostra di aver afferrato il proprium
dell’attività imprenditoriale, che è quello non di mirare alla massimizzazione
del profitto, ma del valore condiviso – come oggi lo si chiama. Il profitto è
la misura, non il fine di fare impresa. Ecco perché nella CV si rifiuta l’iden-
tificazione dell’imprenditore con la figura del capitalista e quindi si ricono-
sce che, accanto alla forma capitalistica d’impresa, debbano poter trovare

32 nu 225
stefano zamagni

posto, nel mercato, altre forme d’impresa, da quella cooperativa a quella


sociale, a quella di comunione, a quella non-profit (è la prima volta che in
un documento magisteriale di DSC queste tipologie di impresa ricevono un
riconoscimento ufficiale).
È a partire da quanto detto al punto precedente che il papa si spinge,
con un’audacia fuori dal comune, fino ad affermare che il principio del dono
come gratuità – non tanto il dono come regalo – deve entrare nell’ordina-
ria attività economica. Questa è la “bestemmia” che i poteri forti del mer-
cato, soprattutto finanziario, non gli hanno perdonato. Cosa ha mai a che
fare la dimensione dell’economico con il dono? Non è forse vero che l’agire
economico è retto dalle “ferree” leggi del mercato? Non è per caso più che
sufficiente che l’impresa pratichi la filantropia, il welfare aziendale per dirsi
socialmente responsabile? Il papa, raffinato teologo, nel rispondere con un
deciso no a interrogativi del genere, viene a ribadire che la logica della gra-
tuità non può essere ridotta ad una dimensione puramente etica, perché
la gratuità non è una virtù. La giustizia è una virtù etica e non si dirà mai
abbastanza della sua importanza; la gratuità riguarda piuttosto la dimensio-
ne sovra-etica dell’agire umano, perché la sua logica è la sovrabbondanza,
mentre quella della giustizia è la logica dell’equivalenza.
È in ciò il novum dell’economia civile di mercato, un modello questo
diverso sia dall’economia sociale di mercato sia dall’economia liberista di
mercato. Prendendo posizione a favore della concezione civile del mercato,
secondo la quale il legame sociale non può venire ridotto al solo cash nexus,
la CV suggerisce che si può vivere l’esperienza della socievolezza umana
all’interno di una normale vita economica e non già al di fuori di essa, come
esige il modello dicotomico di cui ho detto poco sopra. La sfida allora è quel-
la di vedere l’economico né in endemico e ontologico conflitto con la vita
buona, perché giudicato come luogo dello sfruttamento e dell’alienazione,
né pensarlo come il luogo in cui possono trovare soluzione tutti i proble-
mi degli uomini che vivono in società, come ritengono coloro che si rico-
noscono nelle posizioni dell’individualismo libertario. Blaise Pascal, celebre
filosofo francese, ha scritto che tre sono gli ordini delle cose: l’ordine dei
corpi cui corrisponde lo spirito di geometria (l’esprit de geometrie); l’ordine
dei cuori cui corrisponde lo spirito di finezza (l’esprit de finesse); l’ordine della

nuova umanità 225 33


focus. per i 90 anni di benedetto xvi
Il messaggio della Caritas in veritate

carità cui corrisponde lo spirito di profezia. La CV ci fa comprendere che la


pochezza di voci profetiche presenti nelle nostre società di oggi dipende
proprio dall’affievolimento dell’ordine della carità.
Passo ora a un terzo tema di grande attualità presente nella CV. Esso
riguarda il sottotitolo: Per lo sviluppo umano integrale. La parola chiave è qui
“integrale”. Lo sviluppo umano accoglie tre dimensioni: la crescita (misurata
oggi dal Pil); la dimensione socio-relazionale; la dimensione spirituale. Eb-
bene, lo sviluppo umano è integrale quando le tre dimensioni sono prese in
modo congiunto, cioè in forma moltiplicativa e non additiva, come invece si
ritiene comunemente. Ciò significa che non è lecito, allo scopo di aumentare
la crescita, sacrificare una o entrambe le altre dimensioni. Ad esempio, non
sono legittimi leggi o decreti che, nel tentativo di corto respiro di aumen-
tare il Pil, annullino la festa, il cui senso è radicalmente diverso da quello
del riposo. Ovvero, non è lecito varare provvedimenti che, per aumentare le
entrate fiscali, sanciscano, di fatto, la legalizzazione delle ludopatie. O anco-
ra, intervenire sul mercato del lavoro con misure che, al fine lodevolissimo
di migliorare la partecipazione della donna all’attività lavorativa, mettano a
repentaglio la tenuta del progetto educativo della famiglia. E così via.
Ora, a prescindere dal fatto che – come si dimostra – provvedimenti del
genere conseguono effetti desiderati solo nel breve termine, la questione
centrale che va sottolineata è quella della libertà. Sviluppo, letteralmente,
significa assenza di “viluppi”, di impedimenti di varia natura. Battersi per lo
sviluppo vuol dire allora battersi per l’allargamento dello spazio di libertà
delle persone: libertà intesa, però, non solo in senso negativo come assenza
di impedimenti, e neppure solo in senso positivo come possibilità di scelta.
Bisogna aggiungervi la libertà “per”, cioè la libertà di perseguire la propria
vocazione. È questa prospettiva di discorso che, nelle condizioni storiche
attuali, mentre permette di superare sterili diatribe a livello culturale e dan-
nose contrapposizioni a livello politico, permetterebbe di trovare il consen-
so necessario per nuove progettualità. È all’interno di questo contesto di
discorso che si pone la questione del lavoro. I limiti dell’attuale cultura del
lavoro sono ormai divenuti evidenti ai più, anche se non c’è convergenza di
vedute sulla via da percorrere per giungere al loro superamento. La via che
la CV favorisce inizia dalla presa d’atto che il lavoro, prima ancora che un

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stefano zamagni

diritto, è un bisogno insopprimibile della persona. È il bisogno che l’uomo


avverte di trasformare la realtà di cui è parte e, così agendo, di edificare
se stesso. Riconoscere che quello del lavoro è un bisogno fondamentale è
un’affermazione assai più forte che dire che esso è un diritto. E ciò per la
semplice ragione che, come la storia insegna, i diritti possono essere sospe-
si o addirittura negati; i bisogni, se fondamentali, no. È noto, infatti, che non
sempre i bisogni possono essere espressi direttamente in forma di diritti
politici o sociali. Bisogni come fraternità, amore, dignità, senso di appar-
tenenza, non possono essere rivendicati come diritti. Piuttosto, essi sono
espressi come pre-requisiti di ogni ordine sociale.
Per cogliere il significato del lavoro come bisogno umano fondamentale
ci si può riferire alla riflessione classica, da Aristotele a Tommaso d’Aquino,
sull’agire umano. Due le forme di attività umana che tale pensiero distingue:
l’azione transitiva e l’azione immanente. Mentre la prima connota un agire
che produce qualcosa al di fuori di chi agisce, la seconda fa riferimento a un
agire che ha il suo termine ultimo nel soggetto stesso che agisce. In altro
modo, il primo cambia la realtà in cui l’agente vive; il secondo cambia l’agen-
te stesso. Ora, poiché nell’uomo non esiste un’attività talmente transitiva da
non essere anche sempre immanente, ne deriva che la persona ha la priorità
nei confronti del suo agire e quindi del suo lavoro. Duplice la conseguenza
che discende dall’accoglimento del principio-persona (cf. C. Caffarra, Lezio-
ne magistrale Il lavoro come opera, Istituto “Veritatis Splendor”, Bologna, 12
febbraio 2005).
La prima conseguenza è bene resa dall’affermazione degli Scolastici
“operari sequitur esse”: è la persona a decidere circa il suo operare; quanto a
dire che l’autogenerazione è frutto dell’autodeterminazione della persona.
Ha scritto, al riguardo, K. Woityła: «Il termine autodeterminazione signifi-
ca che l’uomo, in quanto soggetto della sua azione, non solo la determina
come agente (come causa efficiente), ma che attraverso questo atto egli de-
termina contemporaneamente anche se stesso». (Metafisica della persona,
Bompiani, Milano 2004, p. 1440). Quando l’agire non è più sperimentato da
chi lo compie come propria autodeterminazione e quindi propria autorealiz-
zazione, esso cessa di essere umano. Quando il lavoro non è più espressivo
della persona, perché non comprende più il senso di ciò che sta facendo, il

nuova umanità 225 35


focus. per i 90 anni di benedetto xvi
Il messaggio della Caritas in veritate

lavoro diventa schiavitù. L’agire diventa sempre più transitivo e la persona


può essere sostituita con una macchina quando ciò risulta più vantaggioso.
Ma in ogni opera umana non si può separare ciò che essa significa e ciò che
essa produce.
La seconda conseguenza cui sopra accennavo chiama in causa la nozio-
ne di giustizia del lavoro. Il lavoro giusto non è solamente quello che assicura
una remunerazione equa a chi lo ha svolto, ma anche quello che corrisponde
al bisogno di autorealizzazione della persona che agisce e perciò che è in
grado di dare pieno sviluppo alle sue capacità. In quanto attività basicamen-
te trasformativa, il lavoro interviene sia sulla persona sia sulla società; cioè
sia sul soggetto sia sul suo oggetto. Questi due esiti, che scaturiscono in
modo congiunto dall’attività lavorativa, definiscono la cifra morale del lavo-
ro. Proprio perché il lavoro è trasformativo della persona, il processo attra-
verso il quale vengono prodotti beni e servizi acquista valenza morale, non è
qualcosa di assiologicamente neutrale. In altri termini, il luogo di lavoro non
è semplicemente il luogo in cui certi input vengono trasformati, secondo
certe regole, in output; ma è anche il luogo in cui si forma (o si trasforma) il
carattere del lavoratore.
Quel che precede ci consente ora di afferrare la portata della grande sfi-
da che è di fronte a noi: come realizzare le condizioni per un’autentica libertà
del lavoro, intesa come possibilità concreta che il lavoratore ha di realizzare
non solo la dimensione acquisitiva del lavoro – la dimensione che consente
di entrare in possesso del potere d’acquisto con cui soddisfare i bisogni ma-
teriali – ma anche la sua dimensione espressiva. Dove risiede la difficoltà di
una tale sfida? Nella circostanza che le nostre democrazie liberali, mentre
sono riuscite a realizzare (tanto o poco) le condizioni per la libertà nel lavoro
– grazie alle lunghe lotte del movimento operaio e sindacale –, paiono impo-
tenti quando devono muovere passi verso la libertà del lavoro. La ragione è
presto detta. Si tratta della tensione fondamentale tra la libertà dell’indivi-
duo di definire la propria concezione della vita buona e l’impossibilità per le
democrazie liberali di dichiararsi neutrali tra modi di vita che contribuiscono
a produrre e quelli che non vi contribuiscono. In altri termini, una democra-
zia liberale non può accettare che qualcuno, per vedere affermata la propria
visione del mondo, possa vivere sul lavoro di altri. La tensione origina dalla

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stefano zamagni

circostanza che non tutti i tipi di lavoro sono accessibili a tutti e pertanto
non c’è modo di garantire la congruità tra un lavoro che genera valore socia-
le e un lavoro che interpreti la concezione di vita buona delle persone.
Come osserva G. Mori (Diritto alla libertà del lavoro, in «Iride», 36, 2002),
la Riforma protestante per prima ha sollevato la questione della libertà del
lavoro. Nella teologia luterana, la cacciata dall’Eden non coincide tanto con
la condanna dell’uomo alla fatica e alla pena del lavoro, quanto piuttosto
con la perdita della libertà del lavoro. Prima della caduta, infatti, Adamo ed
Eva lavoravano bensì, ma le loro attività erano svolte in assoluta libertà, con
l’unico scopo di piacere a Dio. Che le condizioni storiche attuali siano ancora
alquanto lontane dal poter consentire di rendere fruibile il diritto alla libertà
del lavoro è cosa a tutti nota. Tuttavia ciò non può dispensarci dalla ricerca
di strategie credibili di avvicinamento a quell’obiettivo. Secondo R. Muirhe-
ad (Just work, Harvard University Press, Cambridge 2004), la proposta di
A. MacIntyre di concettualizzare il lavoro come opera è quella che appare
come la più realisticamente praticabile.
Un’attività lavorativa si qualifica come opera quando riesce a far emer-
gere la motivazione intrinseca della persona che la compie. Estrinseca è la
motivazione che induce ad agire per il risultato finale che l’agente ne trae
(ad esempio, per la remunerazione ottenuta). Intrinseca, invece, è la moti-
vazione che spinge all’azione per la soddisfazione diretta che essa arreca al
soggetto quando questi percepisce che essa è orientata al bene. È noto che
la qualità che un individuo può esprimere nel suo lavoro è di due tipi: codifi-
cata, l’una, tacita, l’altra. La prima è la qualità che può essere accertata, sulla
base di protocolli e codici previamente fissati, anche da una parte terza che
può sanzionare, se del caso, comportamenti devianti o opportunistici. Ta-
cita, invece, è la qualità di una prestazione lavorativa che non è verificabile
da parti terze. Ora, mentre per ottenere un’elevata qualità codificata si può
intervenire con adeguati schemi di incentivo (monetari o non), per conse-
guire livelli elevati di qualità tacita non c’è altra via che quella di far leva sulla
motivazione intrinseca del lavoratore (si osservi che in non pochi contesti
produttivi la qualità tacita è, oggi, assai più rilevante di quella codificata,
perché è dalla prima che deriva la capacità di innovare).

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focus. per i 90 anni di benedetto xvi
Il messaggio della Caritas in veritate

Si pone la domanda: cosa è necessario fare per rendere praticabile la


strategia del lavoro come opera? Che si abbia il coraggio, oltre che l’intelli-
genza, di andare oltre il modello ford-taylorista di organizzazione del lavoro
introdotto all’epoca della Seconda rivoluzione industriale. È questo un mo-
dello centrato sul postulato della rigida divisione e specializzazione fra chi
dirige e chi esegue; tra chi è autorizzato a pensare e chi è addetto a mansioni
routinarie e alienanti. Non si fa fatica a comprendere come restando all’in-
terno della gestione scientifica del lavoro tipica del taylorismo – o anche
del neo-taylorismo – mai potrà realizzarsi la libertà del lavoro. Quest’ultima,
infatti, non è compatibile con nessuno dei due principali schemi organizza-
tivi per gestire il processo lavorativo. Né con quello del mercato interno che
idealizza l’organizzazione d’impresa come se fosse un microcosmo basato
sulla logica meritocratica; né con quello della gerarchia, come è appunto lo
schema tayloristico, oggi ancora largamente applicato.
La forma organizzativa verso cui tendere è piuttosto quella della comu-
nità: l’impresa come comunità, né dunque come merce, né come gerarchia
e nella quale le non-cognitive skills ricevono adeguata considerazione. H.
Mintzberg (Rebuilding Companies as Communities, in «Harvard Business Re-
view», Agosto, 2009) ha bene chiarito, che i princìpi fondativi del modello
della comunità sono il dialogo, la trasparenza, la condivisione. Sono questi
gli stessi princìpi che definiscono compiutamente il lavoro come opera. In
quanto centrato sulla persona – e non sull’individuo –, il modello della co-
munità consente la piena valorizzazione della creatività di chi lavora, esal-
tandone il potenziale umano. Non si tratta di qualcosa di utopico, perché
ormai parecchie, anche se ancora in posizione minoritaria, sono le organiz-
zazioni d’impresa che vanno adottando un tale modello conseguendo risul-
tati di eccellenza. È agevole darsene conto. Nella società della conoscenza,
le tecniche diventano obsolete sempre più in fretta, trascinando nell’area
dell’obsolescenza anche le abilità umane troppo rigidamente circoscritte
all’ambito di pertinenza di queste tecniche. Ecco perché l’impresa ha sem-
pre maggiore bisogno di creatività, ma è evidente che ciò è possibile se il
senso del lavoro viene spostato sempre di più verso comportamenti non
istintivi e non abituali. Vale a dire se l’impresa non limita le relazioni tra gli

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individui che in essa agiscono a stili di pensiero e di azione basati su routine


e su comportamenti meccanizzabili.
Prima di chiudere, di un’altra grossa questione mi preme dire. Essa con-
cerne la relazione tra la pace e lo sviluppo integralmente umano quale vie-
ne trattata nell’ultima parte della CV. È questo un tema che la Populorum
progressio di Paolo VI ha reso popolare con la celebre frase: «lo sviluppo è
il nuovo nome della pace». Ebbene, in piena linea con tale posizione, Be-
nedetto XVI sistematizza un pensiero che sintetizzo nei termini seguenti:
a) la pace è possibile, perché la guerra è un evento e non già uno stato di
cose. La guerra è dunque un’emergenza transitoria, per quanto lunga essa
possa essere, non una condizione permanente della società umana; b) la
pace, però, va costruita, perché non è qualcosa di spontaneo, dato che essa
è frutto di opere tese a creare istituzioni di pace; c) nell’attuale fase storica,
le istituzioni di pace più urgenti sono quelle che hanno a che vedere con la
problematica dello sviluppo umano.
Quali sono le istituzioni di pace che oggi meritano priorità assoluta? Per
abbozzare una risposta, conviene fissare l’attenzione su alcuni fatti stilizzati
che connotano la nostra epoca. Il primo concerne lo scandalo della fame. È
noto che la fame non è una tragica novità di questi tempi; ma ciò che la ren-
de oggi scandalosa, e dunque intollerabile, è il fatto che essa non è la conse-
guenza di una production failure a livello globale, di una incapacità cioè del si-
stema produttivo di assicurare cibo per tutti. Non è pertanto la scarsità delle
risorse, a livello globale, a causare fame e deprivazioni varie. È piuttosto una
institutional failure, la mancanza cioè di adeguate istituzioni, economiche e
giuridiche, il principale fattore responsabile di ciò. Si considerino i seguenti
eventi. Lo straordinario aumento dell’interdipendenza economica, che ha
avuto luogo nel corso dell’ultimo quarto di secolo, comporta che ampi seg-
menti di popolazione possano essere negativamente influenzati, nelle loro
condizioni di vita, da eventi che accadono in luoghi anche parecchio distanti
e rispetto ai quali non hanno alcun potere di intervento. Accade così che
alle ben note “carestie da depressione” si aggiungano oggi le “carestie da
boom”, come A. Sen ha ampiamente documentato. Non solo, ma l’espan-
sione dell’area del mercato – un fenomeno questo in sé positivo – significa
che la capacità di un gruppo sociale di accedere al cibo dipende, in modo

nuova umanità 225 39


focus. per i 90 anni di benedetto xvi
Il messaggio della Caritas in veritate

essenziale, dalle decisioni di altri gruppi sociali. Per esempio, il prezzo di un


bene primario (caffè, cacao, ecc.), che costituisce la principale fonte di red-
dito per una certa comunità, può dipendere da quello che accade al prezzo
di altri prodotti e ciò indipendentemente da un mutamento nelle condizioni
di produzione del primo bene.
Un secondo fatto stilizzato fa riferimento alla mutata natura del com-
mercio e della competizione tra Paesi ricchi e Paesi poveri. Nel corso degli
ultimi vent’anni, il tasso di crescita dei Paesi più poveri è stato più alto di
quello dei Paesi ricchi: il 4% circa contro l’1,7% circa all’anno sul periodo
1980-2000. Si tratta di un fatto assolutamente nuovo, dal momento che
mai in passato era accaduto che i Paesi poveri crescessero più rapidamen-
te di quelli ricchi. Questo vale a spiegare perché, nel medesimo periodo, si
sia registrato il primo declino nella storia del numero di persone povere in
termini assoluti (quelle cioè che in media hanno a disposizione meno di un
dollaro al giorno, tenuto conto della parità del potere di acquisto). Prestando
la dovuta attenzione all’incremento dei livelli di popolazione, si può dire che
il tasso dei poveri assoluti nel mondo è passato dal 62% nel 1978 al 29%
nel 1998 (va da sé che tale risultato notevole non ha interessato, in modo
uniforme, le varie regioni del mondo. Ad esempio, nell’Africa Sub-Sahariana,
il numero dei poveri assoluti è passato da 217 milioni nel 1987 a 301 milioni
nel 1998). Al tempo stesso, però, la povertà relativa, vale a dire la disugua-
glianza – così come misurata dal coefficiente di Gini o dall’indice di Theil – è
aumentata vistosamente dal 1980 ad oggi. È noto che l’indice di disugua-
glianza totale è dato dalla somma di due componenti: la disuguaglianza tra
Paesi e quella all’interno di un singolo Paese. Gran parte dell’aumento della
diseguaglianza totale è attribuibile all’aumento della seconda componente
sia nei Paesi densamente popolati (Cina, India e Brasile) che hanno registra-
to elevati tassi di crescita, sia nei Paesi dell’Occidente avanzato. Ciò signi-
fica che gli effetti redistributivi della globalizzazione non sono univoci: non
sempre guadagna il ricco (Paese o gruppo sociale che sia) e non sempre
ci rimette il povero (cf. B. Milanovic, Global inequality, Harvard University
Press, Cambridge 2016).
Di un terzo fatto stilizzato conviene dire in breve. La relazione tra lo stato
nutrizionale delle persone e la loro capacità di lavoro influenza sia il modo

40 nu 225
stefano zamagni

in cui il cibo viene allocato tra i membri della famiglia – in special modo,
tra maschi e femmine – sia il modo in cui funziona il mercato del lavoro. I
poveri possiedono solamente un potenziale di lavoro; per trasformarlo in
forza lavoro effettiva, la persona necessita di adeguata nutrizione. Ebbene,
se non adeguatamente aiutato, il malnutrito non è in grado di soddisfare
questa condizione in un’economia di libero mercato. La ragione è sempli-
ce: la qualità del lavoro che il povero è in grado di offrire sul mercato del
lavoro è insufficiente a “comandare” il cibo di cui ha bisogno per vivere in
modo decente. Come la moderna scienza della nutrizione ha dimostrato, dal
60% al 75% dell’energia che una persona ricava dal cibo viene utilizzata per
mantenere il corpo in vita; solamente la parte restante può venire usata per
il lavoro o altre attività. Ecco perché nelle società povere si possono creare
vere e proprie “trappole di povertà”, destinate a durare anche per lunghi
periodi di tempo.
Quel che è peggio è che un’economia può continuare ad alimentare
trappole della povertà anche se il suo reddito cresce a livello aggregato. Ad
esempio, può accadere – come in realtà accade – che lo sviluppo economi-
co, misurato in termini di Pil pro-capite, incoraggi i contadini a trasferire l’u-
so delle loro terre dalla produzione di cereali a quella della carne, mediante
un aumento degli allevamenti, dal momento che i margini di guadagno sulla
seconda sono superiori a quelli ottenibili dai primi. Tuttavia, il conseguente
aumento del prezzo dei cereali andrà a peggiorare i livelli nutrizionali delle
fasce povere di popolazione, alle quali non è comunque consentito accedere
al consumo di carne. Il punto da sottolineare è che un incremento nel nume-
ro di individui a basso reddito può accrescere la malnutrizione dei più poveri
a causa di un mutamento della composizione della domanda di beni finali. Si
osservi, infine, che il collegamento tra status nutrizionale e produttività del
lavoro può essere “dinastico”: una volta che una famiglia o un gruppo socia-
le sia caduto nella trappola della povertà, è assai difficile per i discendenti
uscirne, e ciò anche se l’economia cresce nel suo complesso.
Quale conclusione trarre da quanto precede? Che la presa d’atto di un
nesso forte tra institutional failures, da un lato, e scandalo della fame e au-
mento delle disuguaglianze globali, dall’altro, ci ricordano che le istituzioni
non sono – come le risorse naturali – un dato di natura, ma regole del gioco

nuova umanità 225 41


focus. per i 90 anni di benedetto xvi
Il messaggio della Caritas in veritate

economico che vengono fissate in sede politica. Se la fame dipendesse –


come è stato il caso fino agli inizi del Novecento – da una situazione di scar-
sità assoluta delle risorse, non vi sarebbe altro da fare che invitare alla com-
passione fraterna ovvero alla solidarietà. Sapere, invece, che essa dipende
da regole, cioè da istituzioni, in parte obsolete e in parte sbagliate, non può
non indurci a intervenire sui meccanismi e sulle procedure in forza dei quali
quelle regole vengono fissate e rese esecutive.
Non v’è chi non veda la difficoltà che la realizzazione di interventi isti-
tuzionali quali quelli implicati pone. È per questo che la CV parla dell’ur-
genza di dare vita ad una Autorità politica globale, che però ha da essere
di tipo sussidiario e poliarchico. Ciò implica, per un verso, il rifiuto di dare
vita ad una sorta di superstato e, per l’altro verso, la volontà di aggiornare
in modo radicale l’opera svolta nel 1944 a Bretton Woods quando venne
disegnato il nuovo ordine economico internazionale al termine di un lungo
periodo di guerre.
Vado a terminare. Il XV secolo è stato il secolo del primo Umanesimo;
all’inizio del XXI secolo sempre più forte si avverte l’esigenza di un nuovo
Umanesimo. Allora fu la transizione dal feudalesimo alla società cittadina
il motore decisivo del mutamento; oggi, è un passaggio d’epoca altrettanto
radicale: quello dalla società industriale a quella post-industriale. Questione
migratoria, aumento endemico delle diseguaglianze sociali; conflitti iden-
titari; questione ambientale; problemi di biopolitica e biodiritto sono sola-
mente alcune delle espressioni che dicono dell’attuale “disagio di civiltà” (S.
Freud). Di fronte a tali sfide, il mero aggiornamento di vecchie categorie di
pensiero o il ricorso a raffinate tecniche di decisione collettiva non servono
alla bisogna. Occorre osare vie nuove. È questo l’invito insistente e paterno
che ci viene dalla Caritas in veritate.
Mi piace chiudere con un cenno fugace alla questione dell’emergenza
educativa sulla quale mai, durante il suo pontificato, Benedetto XVI ha man-
cato di intervenire in forme e toni diversi. Nel discorso del 17 gennaio 2008
all’Università La Sapienza di Roma, chiarì in modo originale, e da par suo,
la differenza tra educazione da un lato e formazione-istruzione dall’altro.
Prendendo le mosse dalla celebre affermazione di Agostino secondo cui vi
sarebbe una reciprocità tra scientia e tristitia – il puro sapere rende tristi –,

42 nu 225
stefano zamagni

papa Ratzinger precisò che verità significa assai più che un mero sapere.
Infatti, la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene.
Il che è anche il senso dell’interrogativo socratico: «qual è quel bene che
ci rende veri?». La verità ci rende buoni e la bontà è vera. È questo l’otti-
mismo cristiano, perché alla fede cristiana è stata concessa la visione del
Logos, della Ragione creatrice che, nell’Incarnazione, si è rivelata insieme
come il Bene stesso. Quando dunque il sapere, anziché rendere tristi, dà
gioia? Quando esso è conoscenza del bene. Di qui la differenza profonda tra
educazione e formazione-istruzione. La prima promuove la conoscenza del
bene; la seconda si ferma al saper fare. Se la formazione mira a far diventare
bravi, l’educazione mira piuttosto a far diventare buoni. Di quanto il mondo
dell’Università avrebbe bisogno, oggi, di porre al centro delle proprie preoc-
cupazioni un tale consiglio non v’è bisogno di dire, tanto è a tutti palese il
bisogno di riprendere il cammino della Sophia, cioè del pensiero pensante.

nuova umanità 225 43


dallo scaffale di città nuova

Vaticano
di Michele Zanzucchi / Giovanni Angelo Becciu /
Alberto Melloni / Ignazio Ingrao

All’indomani della sua elezione a pontefice, nel 2013, papa


Francesco, rispondendo alle molte sollecitazioni emerse pri-
ma del Conclave, ha istituito una consulta di otto cardinali,
cui si è poi aggiunto il segretario di Stato Pietro Parolin, per
elaborare una riforma della curia romana. Questa riforma è
ancora in corso, scandita da passaggi chiave come la creazio-
ne della Segreteria per l’economia, la riorganizzazione degli
uffici della comunicazione vaticana, l’istituzione del dicastero
per la famiglia, i laici e la vita e di quello per lo sviluppo uma-
no integrale. Questo dossier si pone l’obiettivo di fornire degli
strumenti di lettura della riforma vaticana in atto, per meglio
comprenderne le prospettive e la portata.
isbn
9788831109543
pagine
96
prezzo
euro 11,00

Disponibile in formato cartaceo ed e-book su


http://editrice.cittanuova.it

nu 225
scripta manent

San Francesco d’Assisi1

Cari fratelli e sorelle,

in una recente catechesi2, ho già illustrato il ruolo


Benedetto provvidenziale che l’Ordine dei Frati Minori e l’Ordi-
XVI ne dei Frati Predicatori, fondati rispettivamente da san
Francesco d’Assisi e da san Domenico da Guzman, eb-
bero nel rinnovamento della Chiesa del loro tempo. Oggi
vorrei presentarvi la figura di Francesco, un autentico
“gigante” della santità, che continua ad affascinare mol-
tissime persone di ogni età e di ogni religione.
«Nacque al mondo un sole». Con queste parole,
nella Divina Commedia (Paradiso, Canto XI), il sommo
poeta italiano Dante Alighieri allude alla nascita di Fran-
cesco, avvenuta alla fine del 1181 o agli inizi del 1182, ad
Assisi. Appartenente a una ricca famiglia – il padre era
commerciante di stoffe –, Francesco trascorse un’adole-
scenza e una giovinezza spensierate, coltivando gli ideali
cavallereschi del tempo. A vent’anni prese parte a una
campagna militare, e fu fatto prigioniero. Si ammalò e
fu liberato. Dopo il ritorno ad Assisi, cominciò in lui un
lento processo di conversione spirituale, che lo portò
ad abbandonare gradualmente lo stile di vita mondano,
che aveva praticato fino ad allora. Risalgono a questo
periodo i celebri episodi dell’incontro con il lebbroso, a
cui Francesco, sceso da cavallo, donò il bacio della pace,
e del messaggio del Crocifisso nella chiesetta di San
Damiano. Per tre volte il Cristo in croce si animò, e gli
disse: «Va’, Francesco, e ripara la mia Chiesa in rovina».
Questo semplice avvenimento della parola del Signore

nuova umanità 225 45


scripta manent
San Francesco d’Assisi

udita nella chiesa di San Damiano nasconde un simbolismo profondo. Im-


mediatamente san Francesco è chiamato a riparare questa chiesetta, ma lo
stato rovinoso di questo edificio è simbolo della situazione drammatica e
inquietante della Chiesa stessa in quel tempo, con una fede superficiale che
non forma e non trasforma la vita, con un clero poco zelante, con il raffred-
darsi dell’amore; una distruzione interiore della Chiesa che comporta anche
una decomposizione dell’unità, con la nascita di movimenti ereticali. Tutta-
via, in questa Chiesa in rovina sta nel centro il Crocifisso e parla: chiama al
rinnovamento, chiama Francesco ad un lavoro manuale per riparare concre-
tamente la chiesetta di San Damiano, simbolo della chiamata più profonda
a rinnovare la Chiesa stessa di Cristo, con la sua radicalità di fede e con il
suo entusiasmo di amore per Cristo. Questo avvenimento, accaduto proba-
bilmente nel 1205, fa pensare ad un altro avvenimento simile verificatosi nel
1207: il sogno del papa Innocenzo III. Questi vede in sogno che la Basilica di
San Giovanni in Laterano, la chiesa madre di tutte le chiese, sta crollando e
un religioso piccolo e insignificante puntella con le sue spalle la chiesa affin-
ché non cada. È interessante notare, da una parte, che non è il papa che dà
l’aiuto affinché la chiesa non crolli, ma un piccolo e insignificante religioso,
che il papa riconosce in Francesco che gli fa visita. Innocenzo III era un papa
potente, di grande cultura teologica, come pure di grande potere politico,
tuttavia non è lui a rinnovare la Chiesa, ma il piccolo e insignificante religio-
so: è san Francesco, chiamato da Dio. Dall’altra parte, però, è importante
notare che san Francesco non rinnova la Chiesa senza o contro il papa, ma
solo in comunione con lui. Le due realtà vanno insieme: il successore di Pie-
tro, i vescovi, la Chiesa fondata sulla successione degli apostoli e il carisma
nuovo che lo Spirito Santo crea in questo momento per rinnovare la Chiesa.
Insieme cresce il vero rinnovamento.
Ritorniamo alla vita di san Francesco. Poiché il padre Bernardone gli rim-
proverava troppa generosità verso i poveri, Francesco, dinanzi al vescovo
di Assisi, con un gesto simbolico si spogliò dei suoi abiti, intendendo così
rinunciare all’eredità paterna: come nel momento della creazione, France-
sco non ha niente, ma solo la vita che gli ha donato Dio, alle cui mani egli si
consegna. Poi visse come un eremita, fino a quando, nel 1208, ebbe luogo
un altro avvenimento fondamentale nell’itinerario della sua conversione.

46 nu 225
benedetto xvi

Ascoltando un brano del Vangelo di Matteo – il discorso di Gesù agli apo-


stoli inviati in missione –, Francesco si sentì chiamato a vivere nella povertà
e a dedicarsi alla predicazione. Altri compagni si associarono a lui, e nel
1209 si recò a Roma, per sottoporre al papa Innocenzo III il progetto di una
nuova forma di vita cristiana. Ricevette un’accoglienza paterna da quel gran-
de pontefice, che, illuminato dal Signore, intuì l’origine divina del movimento
suscitato da Francesco. Il Poverello di Assisi aveva compreso che ogni cari-
sma donato dallo Spirito Santo va posto a servizio del Corpo di Cristo, che è
la Chiesa; pertanto agì sempre in piena comunione con l’autorità ecclesia-
stica. Nella vita dei santi non c’è contrasto tra carisma profetico e carisma
di governo e, se qualche tensione viene a crearsi, essi sanno attendere con
pazienza i tempi dello Spirito Santo.
In realtà, alcuni storici nell’Ottocento e anche nel secolo scorso hanno
cercato di creare dietro il Francesco della tradizione, un cosiddetto France-
sco storico, così come si cerca di creare dietro il Gesù dei Vangeli, un cosid-
detto Gesù storico. Tale Francesco storico non sarebbe stato un uomo di
Chiesa, ma un uomo collegato immediatamente solo a Cristo, un uomo che
voleva creare un rinnovamento del popolo di Dio, senza forme canoniche e
senza gerarchia. La verità è che san Francesco ha avuto realmente una re-
lazione immediatissima con Gesù e con la parola di Dio, che voleva seguire
sine glossa, così com’è, in tutta la sua radicalità e verità. È anche vero che
inizialmente non aveva l’intenzione di creare un Ordine con le forme cano-
niche necessarie, ma, semplicemente, con la parola di Dio e la presenza del
Signore, egli voleva rinnovare il popolo di Dio, convocarlo di nuovo all’ascol-
to della parola e all’obbedienza verbale con Cristo. Inoltre, sapeva che Cristo
non è mai “mio”, ma è sempre “nostro”, che il Cristo non posso averlo “io”
e ricostruire “io” contro la Chiesa, la sua volontà e il suo insegnamento, ma
solo nella comunione della Chiesa costruita sulla successione degli apostoli
si rinnova anche l’obbedienza alla parola di Dio.
È anche vero che non aveva intenzione di creare un nuovo ordine, ma
solamente rinnovare il popolo di Dio per il Signore che viene. Ma capì con
sofferenza e con dolore che tutto deve avere il suo ordine, che anche il dirit-
to della Chiesa è necessario per dar forma al rinnovamento e così realmente
si inserì in modo totale, col cuore, nella comunione della Chiesa, con il papa

nuova umanità 225 47


scripta manent
San Francesco d’Assisi

e con i vescovi. Sapeva sempre che il centro della Chiesa è l’eucaristia, dove
il Corpo di Cristo e il suo Sangue diventano presenti. Tramite il sacerdozio,
l’eucaristia è la Chiesa. Dove sacerdozio e Cristo e comunione della Chiesa
vanno insieme, solo qui abita anche la parola di Dio. Il vero Francesco stori-
co è il Francesco della Chiesa e proprio in questo modo parla anche ai non
credenti, ai credenti di altre confessioni e religioni.
Francesco e i suoi frati, sempre più numerosi, si stabilirono alla Porziun-
cola, o chiesa di Santa Maria degli Angeli, luogo sacro per eccellenza della
spiritualità francescana. Anche Chiara, una giovane donna di Assisi, di no-
bile famiglia, si mise alla scuola di Francesco. Ebbe così origine il Secondo
Ordine francescano, quello delle Clarisse, un’altra esperienza destinata a
produrre frutti insigni di santità nella Chiesa.
Anche il successore di Innocenzo III, il papa Onorio III, con la sua bolla
Cum dilecti del 1218 sostenne il singolare sviluppo dei primi Frati Minori, che
andavano aprendo le loro missioni in diversi Paesi dell’Europa e persino in
Marocco. Nel 1219 Francesco ottenne il permesso di recarsi a parlare, in
Egitto, con il sultano musulmano Melek-el-Kâmel, per predicare anche lì
il vangelo di Gesù. Desidero sottolineare questo episodio della vita di san
Francesco, che ha una grande attualità. In un’epoca in cui era in atto uno
scontro tra il cristianesimo e l’islam, Francesco, armato volutamente solo
della sua fede e della sua mitezza personale, percorse con efficacia la via del
dialogo. Le cronache ci parlano di un’accoglienza benevola e cordiale rice-
vuta dal sultano musulmano. È un modello al quale anche oggi dovrebbero
ispirarsi i rapporti tra cristiani e musulmani: promuovere un dialogo nella ve-
rità, nel rispetto reciproco e nella mutua comprensione (cf. Nostra aetate, 3).
Sembra poi che nel 1220 Francesco abbia visitato la Terra Santa, gettando
così un seme, che avrebbe portato molto frutto: i suoi figli spirituali, infatti,
fecero dei luoghi in cui visse Gesù un ambito privilegiato della loro missione.
Con gratitudine penso oggi ai grandi meriti della Custodia francescana in
Terra Santa.
Rientrato in Italia, Francesco consegnò il governo dell’Ordine al suo vi-
cario, fra Pietro Cattani, mentre il papa affidò alla protezione del cardinal
Ugolino, il futuro sommo pontefice Gregorio IX, l’Ordine, che raccoglieva
sempre più aderenti. Da parte sua il fondatore, tutto dedito alla predicazio-

48 nu 225
benedetto xvi

ne che svolgeva con grande successo, redasse una Regola, poi approvata
dal papa.
Nel 1224, nell’eremo della Verna, Francesco vede il Crocifisso nella for-
ma di un serafino e dall’incontro con il serafino crocifisso ricevette le stim-
mate; egli diventa così uno col Cristo crocifisso: un dono, quindi, che espri-
me la sua intima identificazione col Signore.
La morte di Francesco – il suo transitus ­–­avvenne la sera del 3 ottobre
1226, alla Porziuncola. Dopo aver benedetto i suoi figli spirituali, egli morì,
disteso sulla nuda terra. Due anni più tardi papa Gregorio IX lo iscrisse
nell’albo dei santi. Poco tempo dopo, una grande basilica in suo onore veni-
va innalzata ad Assisi, meta ancor oggi di moltissimi pellegrini, che possono
venerare la tomba del santo e godere la visione degli affreschi di Giotto,
pittore che ha illustrato in modo magnifico la vita di Francesco.
È stato detto che Francesco rappresenta un alter Christus, era veramente
un’icona viva di Cristo. Egli fu chiamato anche “il fratello di Gesù”. In effetti,
questo era il suo ideale: essere come Gesù; contemplare il Cristo del vange-
lo, amarlo intensamente, imitarne le virtù. In particolare, egli ha voluto dare
un valore fondamentale alla povertà interiore ed esteriore, insegnandola an-
che ai suoi figli spirituali. La prima beatitudine del Discorso della Montagna
– «Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5, 3) – ha
trovato una luminosa realizzazione nella vita e nelle parole di san Francesco.
Davvero, cari amici, i santi sono i migliori interpreti della Bibbia; essi, incar-
nando nella loro vita la parola di Dio, la rendono più che mai attraente, così
che parla realmente con noi. La testimonianza di Francesco, che ha amato la
povertà per seguire Cristo con dedizione e libertà totali, continua ad essere
anche per noi un invito a coltivare la povertà interiore per crescere nella
fiducia in Dio, unendo anche uno stile di vita sobrio e un distacco dai beni
materiali.
In Francesco l’amore per Cristo si espresse in modo speciale nell’ado-
razione del Santissimo sacramento dell’eucaristia. Nelle Fonti francescane
si leggono espressioni commoventi, come questa: «Tutta l’umanità tema,
l’universo intero tremi e il cielo esulti, quando sull’altare, nella mano del sa-
cerdote, vi è Cristo, il Figlio del Dio vivente. O favore stupendo! O sublimità
umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascon-

nuova umanità 225 49


scripta manent
San Francesco d’Assisi

dersi per la nostra salvezza, sotto una modica forma di pane» (Francesco di
Assisi, Scritti, Editrici Francescane, Padova 2002, p. 401).
In quest’anno sacerdotale3, mi piace pure ricordare una raccomandazio-
ne rivolta da Francesco ai sacerdoti: «Quando vorranno celebrare la Messa,
puri in modo puro, facciano con riverenza il vero sacrificio del santissimo
Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo» (Francesco di Assisi, Scritti,
cit., p. 399). Francesco mostrava sempre una grande deferenza verso i sa-
cerdoti, e raccomandava di rispettarli sempre, anche nel caso in cui fossero
personalmente poco degni. Portava come motivazione di questo profondo
rispetto il fatto che essi hanno ricevuto il dono di consacrare l’Eucaristia.
Cari fratelli nel sacerdozio, non dimentichiamo mai questo insegnamento:
la santità dell’eucaristia ci chiede di essere puri, di vivere in modo coerente
con il Mistero che celebriamo.
Dall’amore per Cristo nasce l’amore verso le persone e anche verso tut-
te le creature di Dio. Ecco un altro tratto caratteristico della spiritualità di
Francesco: il senso della fraternità universale e l’amore per il creato, che gli
ispirò il celebre Cantico delle creature. È un messaggio molto attuale. Come
ho ricordato nella mia recente enciclica Caritas in veritate, è sostenibile solo
uno sviluppo che rispetti la creazione e che non danneggi l’ambiente (cf. nn.
48-52), e nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest’an-
no ho sottolineato che anche la costruzione di una pace solida è legata al
rispetto del creato. Francesco ci ricorda che nella creazione si dispiega la
sapienza e la benevolenza del Creatore. La natura è da lui intesa proprio
come un linguaggio nel quale Dio parla con noi, nel quale la realtà diventa
trasparente e possiamo noi parlare di Dio e con Dio.
Cari amici, Francesco è stato un grande santo e un uomo gioioso. La sua
semplicità, la sua umiltà, la sua fede, il suo amore per Cristo, la sua bontà
verso ogni uomo e ogni donna l’hanno reso lieto in ogni situazione. Infatti,
tra la santità e la gioia sussiste un intimo e indissolubile rapporto. Uno scrit-
tore francese ha detto che al mondo vi è una sola tristezza: quella di non
essere santi, cioè di non essere vicini a Dio. Guardando alla testimonianza
di san Francesco, comprendiamo che è questo il segreto della vera felicità:
diventare santi, vicini a Dio!

50 nu 225
benedetto xvi

Ci ottenga la Vergine, teneramente amata da Francesco, questo dono. Ci


affidiamo a lei con le parole stesse del Poverello di Assisi: «Santa Maria Ver-
gine, non vi è alcuna simile a te nata nel mondo tra le donne, figlia e ancella
dell’altissimo Re e Padre celeste, Madre del santissimo Signor nostro Gesù
Cristo, sposa dello Spirito Santo: prega per noi [...] presso il tuo santissimo
diletto Figlio, Signore e Maestro» (Francesco di Assisi, Scritti, cit., p. 163).

1
Testo dell’Udienza Generale di Papa Benedetto XVI del 27 gennaio 2010, ©
Copyright - Libreria Editrice Vaticana. Ringraziamo la Libreria Editrice Vaticana per
la cortese concessione del nulla osta alla pubblicazione.
2
Il Santo Padre si riferisce qui all’Udienza Generale da lui tenuta il 13 gennaio
2010, dedicata a «Gli Ordini Mendicanti» [n.d.r.].
3
Dal 19 giugno 2009 all’11 giugno 2010 (date nelle quali ricorreva la solennità
liturgica del Sacro Cuore di Gesù, giornata tradizionalmente dedicata alla preghiera
per la santificazione del clero), per volontà di papa Benedetto XVI la Chiesa catto-
lica ha celebrato un “Anno sacerdotale”, in occasione dei 150 anni del dies natalis di
san Giovanni Maria Vianney, patrono di tutti i parroci del mondo [n.d.r.].

nuova umanità 225 51


dallo scaffale di città nuova

Elogio dell’auto-sovversione
la fioritura umana nelle
Organizzazioni a Movente Ideale
di Luigino Bruni

La capacità individuale e collettiva di trovare


soluzioni ad alcune delle patologie tipiche delle
Organizzazioni a Movente Ideale.

Nelle Organizzazioni a Movente Ideale, religiose e laiche,


un elemento cruciale è il rapporto tra i fondatori, gli ideali e
i membri delle comunità o organizzazioni. In tale rapporto,
identitario e necessario, si nascondono insidie che diventa-
no spesso delle vere e proprie malattie. È il caso, ad esempio,
della produzione ideologica che si sviluppa necessariamente
isbn attorno all’ideale originario, fino a soffocarlo, se non si ha il co-
9788831175289 raggio di iniziare un doloroso processo di separazione dell’ide-
pagine ologia dall’ideale. Malattie di tal sorta possono risultare molto
gravi, perché in genere non sono percepite come patologie ma
144 come salute. Bruni propone l’auto-sovversione - intesa come
prezzo capacità, individuale e collettiva, di criticare e sfidare le pro-
euro 12,00 prie certezze passate e rimettersi in cammino poveri e libe-
ri - come cura preventiva o antidoto di molte delle patologie
tipiche delle Organizzazioni a Movente Ideale.

Disponibile in formato cartaceo ed e-book su


http://editrice.cittanuova.it

nu 225
parole chiave

Vescovo di Roma

Tra le varie sorprese del primo saluto pubblico di


papa Francesco dopo la sua elezione nel 2013, c’è la
predilezione che egli manifesta in quest’occasione per il
titolo “vescovo di Roma”. Nelle sue brevi parole di com-
Declan mento alle folle radunate per accogliere il novello papa,
ben tre volte parla della sua elezione come vescovo della
O’Byrne diocesi di Roma e della sua nuova responsabilità verso
professore quella diocesi. Ecco cosa dice: «Fratelli e sorelle, buo-
di teologia nasera. Voi sapete che il dovere del conclave era di dare
sistematica un vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali
presso l’istituto siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo, ma
universitario
sophia di siamo qui». E ancora: «Vi ringrazio per l’accoglienza
loppiano (incisa della comunità diocesana di Roma al suo vescovo». E
in val d’arno, ancora: «Incominciamo questo cammino della Chiesa
firenze) e presso di Roma, vescovo e popolo, di fratellanza, amore, fidu-
la pontificia cia tra noi». L’Annuario Pontificio dello stesso anno rileva
università
urbaniana (roma). ancora questo titolo. Sulla pagina dedicata al papa, tro-
viamo un unico titolo – Vescovo di Roma – mentre sulla
pagina seguente si trovano gli altri titoli «Vicario di Gesù
Cristo, Successore del Principe degli Apostoli, Sommo
Pontefice della Chiesa Universale, Primate d’Italia, Arci-
vescovo e metropolita della provincia romana, Sovrano
dello Stato della Città del Vaticano, Servo dei Servi di
Dio». In questo modo l’Annuario mette in luce particola-
re questo titolo, anche se gli altri titoli non sono omessi.
Certamente, l’uso di questo titolo in queste parole del
nuovo papa sarà stato motivato in parte da un desiderio
suo di segnalare l’intenzione di proseguire a Roma l’e-
sperienza pastorale che da anni portava avanti a Buenos

nuova umanità 225 53


parole chiave
Vescovo di Roma

Aires, un approccio pastorale caratterizzato da semplicità, sobrietà e vici-


nanza al gregge.
È evidente, però, che la diocesi di Roma non è una diocesi normale e
che le responsabilità del suo vescovo vanno molto al di là di quella Chie-
sa locale. Secondo la Chiesa cattolica romana, infatti, il vescovo di Roma
è anche il successore di Pietro, e in quanto tale porta avanti il primato del
“Principe degli Apostoli” ed è per questo motivo “Vicario di Gesù Cristo” e
“Sommo Pontefice della Chiesa Universale”. Questi titoli, ovviamente, non
sono riconosciuti o accolti da tutti i cristiani. Il paradosso di avere un mini-
stero che deve garantire l’unità della Chiesa ma che è diventato esso stesso
motivo di divisione tra cristiani, si è fatto sentire con sempre maggiore forza
all’interno della Chiesa cattolica stessa negli ultimi decenni. Giovanni Paolo
II, nell’enciclica Ut unum sint (1995), scrive che, da una parte, c’è «la con-
vinzione della Chiesa cattolica di aver conservato, in fedeltà alla tradizione
apostolica e alla fede dei Padri, nel ministero del Vescovo di Roma, il segno
visibile e il garante dell’unità», ma che c’è anche la coscienza che il modo in
cui il ruolo di vescovo di Roma si è sviluppato nella storia «costituisce una
difficoltà per la maggior parte degli altri cristiani, la cui memoria è segnata
da certi ricordi dolorosi» (Ut unum sint, 88).
L’anno 2016 ha visto una tappa importante nel processo di risanamento
della memoria riguardo al ruolo universale del vescovo di Roma con l’ap-
provazione di un documento della Commissione Mista Internazionale per il
Dialogo Teologico tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Ortodossa dopo l’in-
contro plenario della commissione a Chieti. Questa commissione, istituita
da Giovanni Paolo II e dal patriarca Dimitrios I nel 1979, aveva già prodotto,
nel 2007, un documento importante dal titolo Le conseguenze ecclesiologiche
e canoniche della natura sacramentale della Chiesa, il cosiddetto Documento
di Ravenna. Nel 2016, poi, fu approvato a Chieti un secondo documento sul
tema: Synodality and Primacy during the First Millennium: Towards a Com-
mon Understanding in Service to the Unity of the Church. Questi documenti,
sia quello di Ravenna sia quello di Chieti, portano avanti a livello ufficiale
lo studio sul tema della comunione ecclesiale e delle forme canoniche che
la sostengono e la esprimono. In questi documenti la comunione ecclesiale
è studiata in modo da porre attenzione particolare sull’interdipendenza di

54 nu 225
declan o’byrne

due “poli” di questa comunione: sinodalità (o conciliarità) e primato (legato


all’autorità), e come queste due dimensioni si attuano e si esprimono a tre
livelli, quello locale, quello regionale e quello universale. Il documento del
2016, quello di Chieti, si concentra più esplicitamente sulla situazione della
Chiesa nel primo millennio, prima cioè della divisione tra Est e Ovest.
Al primo di questi livelli, quello della Chiesa locale, la comunione del-
la Chiesa si esprime nelle sue due dimensioni quando il popolo si raduna
per la liturgia intorno al vescovo. Quando il vescovo non è presente, viene
rappresentato dal presbitero e l’assemblea lo ricorda come segno dell’unità
della Chiesa locale. Qui le due dimensioni della sinodalità e del primato sono
essenziali: la comunità non può celebrare senza uno che presieda, e chi pre-
siede deve celebrare con una comunità (Chieti, 8). La sinodalità è espressa
in modo attivo da tutti i membri di quella Chiesa, e non solo nel momento
liturgico poiché ogni membro è a servizio degli altri (Ravenna, 20).
La stessa vita di comunione, dove sinodalità e primato sono dimensioni
interdipendenti, si ripete poi a livello regionale, cioè tra diverse Chiese locali.
Durante il primo millennio della storia della Chiesa i vescovi sentivano di
avere una specie di responsabilità condivisa per l’intera Chiesa (Chieti, 11).
Di conseguenza la Chiesa esprime la sua cattolicità anche in modi che fan-
no vedere la comunione tra Chiese locali, Chiese che condividono la stessa
fede e struttura. Un’espressione di questa comunione è l’ordinazione dei
vescovi da due o tre altri vescovi. Un’altra espressione sono i sinodi o concili.
La comunione a livello regionale è espressa anche attraverso il riconosci-
mento di un vescovo come primo (protos), che può essere metropolita o
patriarca. Il documento di Ravenna cita l’importante Canone Apostolico 34
sul modo di vivere la collaborazione tra i vescovi di una regione e il vescovo a
cui è riconosciuto il primato: «Ma il primo (protos) non può fare nulla senza il
consenso di tutti. Poiché in questo modo la concordia (homonoia) prevarrà,
e Dio sarà lodato per mezzo del Signore nello Spirito Santo» (Canone Apo-
stolico, 34). Il documento di Ravenna dice che il fatto che la comunione della
Chiesa si esprima anche a livello regionale fa risplendere la cattolicità della
Chiesa, poiché esprime e salva il positivo della diversità e particolarità delle
Chiese locali in modo che si capisca meglio che la salvezza non avviene mai
in modo indifferenziato (Ravenna, 31).

nuova umanità 225 55


parole chiave
Vescovo di Roma

Per quanto riguarda il ruolo del vescovo di Roma, è interessante soprat-


tutto quanto questi documenti dicono sul modo in cui la comunione della
Chiesa si esprime anche a livello universale. La comunione non si limita solo
alle Chiese tra loro vicine, ma abbraccia anche «la totalità delle Chiese lo-
cali, con quelle attualmente presenti nel mondo, quelle che esistevano sin
dall’inizio, quelle che esisteranno in futuro, e con la Chiesa già nella gloria»
(Ravenna, 32). In questo modo la Chiesa può essere «una e indivisibile, la
stessa, sempre e in ogni luogo». Il Simbolo di Nicea-Costantinopoli profes-
sa, infatti, la fede in una Chiesa “una e apostolica” e questa Chiesa è quella
a livello universale. Lungo la storia della Chiesa, la comunione ecclesiale è
stata espressa in parte dai concili ecumenici, dove vescovi di tutto il mondo
si radunavano insieme, e dove si rispettava l’ordine canonico dei principali
patriarcati: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme.
Nella Chiesa indivisa del primo millennio, per stabilire la ricezione dell’inse-
gnamento di un sinodo o concilio, si cercava – tra le altre cose – il consenso
del vescovo di Roma. Si poteva anche fare appello al vescovo di Roma per
risolvere certe dispute o conflitti. Lo studio di queste prassi da parte della
Commissione, senza riconoscere al vescovo di Roma un potere di giurisdi-
zione diretto sulle Chiese dell’Est, riconosce che nel primo millennio l’unio-
ne con Roma era vista come un segno di unione con tutta la Chiesa.
Questi documenti – quello di Ravenna e soprattutto quello di Chieti –
rappresentano un passo importante nel viaggio verso un’intesa tra le Chie-
se sul ministero del vescovo di Roma. Il documento di Ravenna, anche se
approvato unanimemente dai presenti, non aveva la firma del Patriarcato
di Mosca, che si era allontanato dall’incontro a causa di tensioni tra Mosca
e Costantinopoli, mentre il documento di Chieti porta anche la firma della
Chiesa russa.
Joseph Ratzinger ha detto nel 1976: «riguardo alla dottrina del primato,
Roma non può pretendere dall’Oriente più di quanto è stata formulata e pra-
ticata nel primo millennio». Con il documento di Chieti del 2016, abbiamo
allora una lettura condivisa della formulazione e pratica della dottrina del
primato e le sue interazioni con la sinodalità condivisa tra cattolici e orto-
dossi. Se i risultati verranno accolti nelle Chiese, questo segnerà un passo
importante verso l’unità dei cristiani.

56 nu 225
declan o’byrne

Rimangono, ovviamente, molte domande spinose. Tra esse, molte riguar-


dano la comprensione storica e teologica dello sviluppo del ruolo del vesco-
vo di Roma in Occidente durante il secondo millennio. Dall’anno 800, l’anno
dell’incoronazione di Carlo Magno imperatore da parte del papa Leone III, in
poi, l’ufficio del vescovo di Roma si profila sempre di più nel suo rapporto
con i poteri temporali (impero e, poi, Stati nazionali), e il fatto che il vesco-
vo di Roma eserciti anche lui un potere temporale sugli stati papali cambia
completamente la dinamica che vigeva nel primo millennio. Per una buona
parte di questo secondo millennio, il vescovo di Roma esercita le sue funzio-
ni soprattutto all’interno di un mondo ormai più europeo che mediterraneo,
dove le interazioni con le antiche sedi dell’Est sono sostanzialmente inter-
rotte. La Chiesa cattolica romana, poi, stabilendosi in altri continenti, attri-
buisce al papa autorità anche sui cristiani di tutto il mondo. Non limitandosi
all’Europa occidentale, diventa sempre più difficile pensare di attribuire al
vescovo di Roma un’autorità di tipo regionale (seguendo lo schema di Ra-
venna e Chieti).
Nell’epoca moderna, vicende che toccano direttamente l’Europa deter-
minano lo sviluppo del ministero petrino: le riforme protestanti, il Concilio
di Trento, l’esperienza traumatica della Rivoluzione francese, la nascita di
nuove sfide ideologiche e, in fine, la questione gallicana e la reazione ultra-
montanista. Tutte queste vicende cambiano profondamente il modo di con-
cepire ed esercitare il ministero di successore di Pietro. In un certo senso,
il culmine dello sviluppo del ruolo del vescovo di Roma nei confronti della
Chiesa universale è raggiunto con le definizioni dogmatiche del Concilio Va-
ticano I che riconosce il potere di giurisdizione del papa su tutta la Chiesa
Cattolica e il suo magistero supremo e infallibile. Il secondo millennio, in
breve, ci consegna un modo di pensare ed esercitare il ministero del vescovo
di Roma molto più robusto di quello del primo millennio, ma che si sviluppa
anche in modo legato alle contingenze di contesti e questi circoscritti geo-
graficamente ed ecclesialmente.
A prima vista, allora, i dogmi del Vaticano I sembrano costringere la
Chiesa cattolica romana a sostenere una visione del vescovo di Roma inac-
cettabile per diversi motivi per ortodossi e protestanti. Guardando più at-
tentamente, invece, allo sviluppo del pensiero sul vescovo di Roma da parte

nuova umanità 225 57


parole chiave
Vescovo di Roma

cattolica, per cogliere l’insegnamento che da parte cattolica deve essere


considerato vincolante nel terzo millennio, uno si accorge che già nel con-
cilio del Vaticano I, ma in modo più esplicito nel Vaticano II e nel magiste-
ro degli ultimi decenni, ci sono stati grandi sforzi per concepire il pensiero
sull’esercizio del primato del successore di Pietro in armonia con un eser-
cizio sempre più robusto della sinodalità all’interno della Chiesa cattolica.
Lo sforzo è stato di ripensare la dottrina del primato in modo che nasca da
un’ecclesiologia di comunione.
È chiaro che la Chiesa cattolica romana non potrà nel terzo millennio
semplicemente rinunciare ai dogmi del Vaticano I. Quello che può e deve
fare, invece, è affinare sempre di più l’ermeneutica di questi dogmi: la fedel-
tà all’insegnamento della Chiesa non è mai una questione di passiva e rigida
ripetizione di formule di parole, ma si tratta di coglierne il senso profondo
all’interno di una tradizione viva. Come rileva Walter Kasper a proposito,
lo stesso Concilio Vaticano I ha insegnato l’armonia tra fede e ragione, e la
rinuncia non solo del razionalismo, ma anche del fideismo. «La dottrina cat-
tolica riconosce pertanto un approfondimento progressivo della compren-
sione della verità rivelata una volta per tutte». È chiaro che il dogma del Va-
ticano I, se è interpretato in modo chiuso e letterale, rappresenta un blocco
all’unità della Chiesa. Interpretato bene, alla luce del vangelo e dell’insieme
della fede cristiana, si può distinguere tra il dogma del Vaticano I e le espres-
sioni del concilio che sono legate al contesto culturale e politico dell’epoca.
Secondo Kasper, ad esempio, il cuore del dogma sul ministero petrino si tro-
verà pensandolo come servizio pastorale, episkopé, e non tanto nelle espres-
sioni usate dal concilio che parlano dell’autorità del papa in modo ispirato
dall’idea moderna della sovranità assoluta. Queste espressioni sono da in-
terpretare come condizionate dalla «situazione estrema e eccezionale» che
viveva la Chiesa in quell’epoca, e quindi non parte dell’essenza del dogma
stesso. Al cuore del dogma cattolico sul vescovo di Roma c’è il servizio che
egli è chiamato a dare all’unità della Chiesa a livello universale.
L’enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II parla di una responsabilità
particolare del successore di Pietro per l’unità della Chiesa, e della domanda
nuova di trovare una forma di esercizio di questo ministero che, senza rinun-
ciare all’essenziale della missione, «si apre ad una situazione nuova». Parla

58 nu 225
declan o’byrne

anche dell’importanza di cercare «evidentemente insieme, le forme nelle


quali questo ministero possa realizzare un servizio di amore riconosciuto
dagli uni e dagli altri» (Ut unum sint, 95). Il fatto che Francesco favorisca
il titolo di vescovo di Roma può essere visto come un segno importante di
apertura a riconcepire il ruolo partendo da una visione che riconosce che la
cattolicità della Chiesa si esprime non solo a livello universale ma anche a
livello locale e regionale, e forse anche – in un certo senso – partendo dal lo-
cale e regionale. Poiché l’unità evangelica non è mai uniformità, il ministero
d’unità del vescovo di Roma per potersi sviluppare in tutte le sue dimensio-
ni nella “nuova situazione” di cui parla Giovanni Paolo II, dovrà mostrarsi
capace di esprimersi in una rete di relazioni differenziate, dove primato e
sinodalità trovano diverse forme a tutti i livelli di cui parlano i documenti di
Ravenna e di Chieti.

nuova umanità 225 59


dallo scaffale di città nuova

E io ti dico: immagina!
l’arte difficile della predicazione
di Gaetano Piccolo - Nicolas Steeves

Manuale di predicazione per appassionare un


uditorio sempre più esigente.

Tra le cause della fuga dei fedeli dalle assemblee domenicali


c’è sicuramente l’insofferenza davanti a omelie terribilmente
noiose, vuote, ripetitive, recitate senza convinzione. È vero
che gli uditori sono abituati a forme comunicative così rapide
e superficiali che è sempre più difficile catturarne l’attenzione.
Ma tra il rinunciare a migliorare le proprie omelie e l’adeguarsi
a uno stile comunicativo da talk show esiste forse un’altra via.
Questo libro nasce quale risposta all’appello che emerge dal-
le tante pagine che l’Evangelii gaudium dedica alla questione
isbn delle omelie.
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nu 225
punti cardinali

Movimenti ecclesiali
e Nostra aetate
Una lettura alla luce del
magistero di papa Francesco
Roberto
Catalano
esperto di dialogo 1. i cinquant’anni di nostra aetate
interreligioso e
interculturale. Mercoledì 28 ottobre 2015 l’udienza settimanale
docente presso
in piazza San Pietro è stata caratterizzata da una larga
la pontificia
università partecipazione di leader e rappresentanti di diverse re-
urbaniana (roma) ligioni, convenuti a Roma in occasione del cinquantesi-
e presso l’istituto mo anniversario della promulgazione di Nostra aetate, il
universitario documento conciliare sul rapporto della Chiesa cattolica
sophia (incisa
con i fedeli di altre tradizioni religiose1. Nel corso della
in val d’arno,
firenze). catechesi, papa Francesco ha tracciato una road-map
per il dialogo nei prossimi decenni. Il «dialogo di cui ab-
biamo bisogno non può che essere aperto e rispettoso
[e] allora si rivela fruttuoso»2. Soprattutto ha definito
cosa significa questo “rispetto reciproco”, condizione
e fine del dialogo: «Rispettare il diritto altrui alla vita,
all’integrità fisica, alle libertà fondamentali, cioè libertà
di coscienza, di pensiero, di espressione e di religione»3.
Da questo può nascere una prospettiva di speranza per
il mondo attuale:

Semi di bene che a loro volta diventano ger-


mogli di amicizia e di collaborazione in tanti
campi, e soprattutto nel servizio ai poveri, ai
piccoli, agli anziani, nell’accoglienza dei mi-

nuova umanità 225 61


punti cardinali
Movimenti ecclesiali e Nostra aetate

granti, nell’attenzione a chi è escluso. Possiamo camminare insie-


me prendendoci cura gli uni degli altri e del creato. Tutti i credenti
di ogni religione4.

Sollevando lo sguardo al di là delle problematiche dell’oggi, papa Fran-


cesco ha poi ricordato la centralità della misericordia e della compassione,
sentimenti che trovano una collocazione in ogni tradizione religiosa. Non è
mancato un cenno conclusivo e significativo alla preghiera, elevata da ognu-
no secondo la propria tradizione, per aderire al volere di Dio, Padre, che
ci vuole tutti fratelli e sorelle che formano la grande famiglia umana. Una
prospettiva questa che riprendeva Nostra aetate, proiettando fedeli di ogni
credo verso un futuro di “armonia delle diversità”5.
Il mondo è cambiato profondamente dal 1965 e anche il posizionamento
di un documento come Nostra aetate, a cinquant’anni dalla sua promulgazio-
ne, necessitava una revisione e un opportuno sintonizzarsi su quello che il
mondo oggi vive con le paure legate alla Terza guerra mondiale combattuta
a pezzi, come afferma papa Bergoglio, o asimmetricamente, come vogliono
alcuni politologi. Ci sono, poi, le migrazioni che pongono culture e religioni le
une a fianco delle altre, un fenomeno nuovo per alcune porzioni di umanità,
in particolare per l’Occidente. Papa Francesco ha saputo offrire a questa
rilettura un’ulteriore conferma che il dialogo deve continuare. D’altra parte,
lo stesso termine “dialogo”, in questi cinquant’anni, ha vissuto un’evoluzione
costante all’interno della Chiesa cattolica. Vale, dunque, la pena ripercor-
rerne alcune tappe significative con un’attenzione particolare al contributo
che i movimenti e le nuove comunità ecclesiali hanno dato e stanno dando
alla sua realizzazione.

2. alcune importanti definizioni di dialogo

La parola “dialogo” era apparsa solo timidamente in Nostra aetate sen-


za trovare una vera formulazione. Piuttosto il termine, coniato da Paolo VI,
appare in una sua definizione proprio all’interno di Ecclesiam suam, enciclica
inaugurale del papato paolino: «Un interiore impulso di carità, che tende a

62 nu 225
roberto catalano

farsi esteriore dono di carità» (ES, 66). Altre formule sono seguite nel corso
degli anni. Significative sono quelle apparse su due importanti documenti
che interessano il nostro argomento: Dialogo e missione, pubblicato nel 1984
dall’allora Segretariato per i non cristiani, e, nel 1991, Dialogo e annuncio, a
cura del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso:

[dialogo] è un modo di agire, un atteggiamento e uno spirito che


guida la condotta di un individuo. Esso implica attenzione, rispet-
to, accoglienza verso l’altro; lascia spazio all’identità, ai modi di
espressione e ai valori dell’altra persona6;

[dialogo contiene] tutte le relazioni interreligiose, positive e co-


struttive, con persone e comunità di altre fedi, in vista della reci-
proca comprensione e del reciproco arricchimento, nell’obbedienza
alla verità e nel rispetto della libertà. Esso comprende sia la testi-
monianza sia la scoperta delle rispettive convinzioni religiose7.

Si è via via compreso che il dialogo più che essere un’attività è un atteg-
giamento, che determina un impegno e uno stile di vita e di approccio del
diverso8. È quanto afferma anche Andrea Riccardi, fondatore della Comuni-
tà di Sant’Egidio: «[…] il dialogo non è un fatto accademico, ma diviene un
modo di vivere ogni giorno da parte di migliaia e migliaia di credenti»9. Nel
corso degli ultimi decenni fondamentale è stato il contributo di Benedet-
to XVI che, nella definizione di dialogo, ha sapientemente inserito l’aspetto
imprescindibile di comune ricerca della verità10. I frequentissimi interventi
in merito al dialogo da parte di papa Francesco valorizzano sempre più la
dimensione dell’amicizia, della fraternità, senza alcuno sconto alla ricerca
della verità e della giustizia sociale. Proprio alla luce di alcune importanti
definizioni di dialogo offerte da papa Bergoglio si propone ora una ulterio-
re lettura del contributo dei movimenti alla realizzazione del messaggio di
Nostra aetate.

nuova umanità 225 63


punti cardinali
Movimenti ecclesiali e Nostra aetate

3. il dovere del dialogo e il ruolo dei nuovi movimenti


e comunità ecclesiali

Papa Francesco, nella sua esortazione apostolica Evangelii gaudium, af-


ferma che il «dialogo interreligioso è una condizione necessaria per la pace
nel mondo, e pertanto è un dovere per i cristiani, come per le altre comunità
religiose» (EG, n. 250). Questo passo, che riporta quasi letteralmente un in-
tervento di Benedetto XVI11, mostra il lungo cammino fatto in questo mezzo
secolo trascorso dalla pubblicazione del documento conciliare. Come già
accennato, la situazione mondiale è cambiata e in modo drastico e impre-
vedibile. Soprattutto con il termine della Guerra fredda, alla fine degli anni
Ottanta del secolo scorso, si è assistito a un progressivo ritorno della reli-
gione all’interno della sfera pubblica della vita di vari Paesi del mondo. Negli
anni Novanta ha fatto apparizione il tanto paventato e ancora attualissimo
potenziale “scontro di civiltà”. In tale contesto, il dialogo può e deve essere
considerato come un vero dovere da tutti gli uomini e donne di fede e di
buona volontà, a livello personale e di comunità. È il dialogo, infatti, che apre
a creare condizioni di pace, attenuando le tensioni e contribuendo a spegne-
re focolai di guerra.
In questo processo di sforzo della comprensione e della realizzazione
del dialogo deve anche essere considerato il contributo di alcuni dei nuovi
movimenti e comunità ecclesiali. In particolare, il Movimento dei Focolari e
la Comunità di Sant’Egidio hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo
fondamentale per rendere il dialogo rilevante sia all’interno, verso coloro
che sono parte delle rispettive associazioni, che all’esterno, presso l’opinio-
ne pubblica. Il card. Dziwisz ricorda come la Comunità di Sant’Egidio decise
di impegnarsi nell’assicurare continuità all’evento Assisi 1986:

Giovanni Paolo II aveva detto ad Assisi che l’impegno per la pace


era diventato come un cantiere aperto a tutti. La Comunità di
Sant’Egidio divenne uno degli eccezionali strumenti di questo coin-
volgimento. Aveva, infatti, percepito nella voce del papa una voca-
zione da raccogliere 12.

64 nu 225
roberto catalano

Il coinvolgimento in questioni umane e sociali rende i nuovi movimen-


ti protagonisti di dialogo alla base, con una notevole influenza anche a li-
vello istituzionale. Essi offrono risposte e potenziali contributi e soluzioni a
problemi e sfide globali e locali: tensioni etniche, problematiche collegate
all’integrazione a causa delle ondate migratorie, problemi culturali fra Est
e Ovest e il bisogno di programmi di formazione per la costruzione della
pace e la soluzione dei conflitti. Si tratta di un’esperienza di dialogo che non
è limitata solo agli accademici o ai leader religiosi o ad istituzioni ed eventi
di rilievo internazionale. È, innanzitutto, arricchita da esperienze che avven-
gono sul territorio, a livello locale, e coinvolgono individui e comunità. Sia
la Comunità di Sant’Egidio che i Focolari, con modalità e stili diversi, sono
stati molto attivi in tempi recenti nell’accoglienza dei profughi e nel rendere
possibili aperture di corridoi umanitari per coloro che desiderano fuggire da
luoghi di guerra o di pericolo. Si sono organizzati convegni e manifestazioni
di cristiani e musulmani al fine di sottolineare l’impegno comune alla pace e
la condanna al terrorismo. Alla luce dei tragici avvenimenti terroristici che,
negli ultimi anni, hanno sconvolto l’ethos europeo, i movimenti sono, seb-
bene spesso non riconosciuti come tali, veri strumenti e agenti di dialogo,
come suggerisce un articolo del quotidiano italiano Il Sole 24ore:

Sembra uno di quei conflitti persi in partenza e invece a gesti e a


fatti così eclatanti [gli attentati terroristici di Parigi del 13 novem-
bre 2015] si contrappone una reazione molecolare che cementa un
nuovo protagonismo sociale di cui la Chiesa e i movimenti religiosi
di tutte le confessioni rappresentano un catalizzatore ben più po-
tente delle istituzioni laiche. Una secolarizzazione alla rovescia che
si potrebbe chiosare nel celebre motto cavouriano: «Libere religioni
in libero Stato»13.

4. il dialogo come approfondimento dell’identità

Fin dal documento Nostra aetate, la Chiesa cattolica ha affermato con chia-
rezza la necessità di identità precise e coscienti per arrivare a un dialogo frut-
tuoso. È un elemento ripetuto in molte occasioni sia da Giovanni Paolo II sia

nuova umanità 225 65


punti cardinali
Movimenti ecclesiali e Nostra aetate

da Benedetto XVI, che papa Francesco ha ripreso sottolineando come esso


sia una condizione fondante del dialogo: «È sempre bene ricordare che il
dialogo, per essere autentico ed efficace, presuppone una identità formata:
senza identità formata, il dialogo è inutile o dannoso»14.

Come insegna l’esperienza, perché tale dialogo ed incontro sia ef-


ficace, deve fondarsi su una presentazione piena e schietta delle
nostre rispettive convinzioni. Certamente tale dialogo farà risaltare
quanto siano diverse le nostre credenze, tradizioni e pratiche. E tut-
tavia, se siamo onesti nel presentare le nostre convinzioni, saremo
in grado di vedere più chiaramente quanto abbiamo in comune15.

L’incontro con la spiritualità proposta da questi movimenti di rinnova-


mento ha spesso determinato una scoperta o riscoperta delle proprie radici
religiose e, quasi naturalmente, un ritorno più cosciente alle proprie tradi-
zioni, ma soprattutto a un approfondimento e ad una pratica delle proprie
Scritture. E questo non solo fra i cristiani, ma anche fra fedeli di altre religioni
che si sono trovati coinvolti nell’esperienza di dialogo. Un esempio significa-
tivo è quello di Azir, un maestro di Skopje, capitale della Macedonia, musul-
mano di origini albanesi, che nella complessa situazione delle tensioni e dei
conflitti che attraversavano i Balcani negli anni ’90, si trovò a partecipare a
un convegno del Movimento dei Focolari dove «la nostra famiglia – ricorda
Azir – era l’unica musulmana».

Ci sorgevano molti dubbi e con mia moglie ci chiedevamo: chi sono


queste persone? Ho capito che avevano un legame con Dio, ma io
fino ad allora non conoscevo nessun libro Sacro, tanto meno l’a-
more cristiano. Nei giorni successivi ho provato ad aprire di più il
mio cuore. […] Ho ammesso che attraverso di loro avevo incontrato
l’amore, Dio Uno, Onnipotente! […] Ho cominciato a leggere il Co-
rano e a conoscere Dio. Ho provato a trasmettere la mia scoperta
a colleghi e amici, e presto eravamo una ventina di musulmani che
volevamo seguire un movimento cristiano16.

A questo proposito, anche una coppia di ebrei israeliani afferma qualco-


sa di simile:

66 nu 225
roberto catalano

[In Israele] C’è una sorta di muri fatti di vetri trasparenti che se-
parano diversi gruppi. È proprio questo lo spazio in cui è possibile
inserire e realizzare lo spirito del dialogo che ci ha insegnato Chia-
ra Lubich. È nostro dovere entrare all’interno di queste separazioni
e agire per portare la fratellanza. È necessario farlo con un tocco
personale diretto. […] Come laici, abbiamo imparato ad andare alla
fonte e alle radici del nostro essere ebrei. Siamo diventati ebrei mi-
gliori, più impegnati religiosamente e nella nostra tradizione. […]
Siamo più aperti ad ascoltare, apprendere, capire e rispettare le
altre fedi17.

Queste e una varietà di altre esperienze mostrano come il dialogo vissu-


to fra membri dei movimenti e comunità ecclesiali con persone di altre fedi
possa aiutare ciascuno a un approfondimento della propria identità e della
ricchezza spirituale della propria dimensione religiosa.

5. dialogo: incontrarsi per creare una cultura di amicizia

L’impegno nel dialogo interreligioso favorisce la cultura dell’incontro,


un’espressione cara a papa Francesco che, alcuni giorni dopo la sua elezio-
ne, aveva sottolineato la centralità di questo stile dialogico.

La Chiesa cattolica è consapevole dell’importanza che ha la pro-


mozione dell’amicizia e del rispetto tra uomini e donne di diverse
tradizioni religiose – questo voglio ripeterlo: promozione dell’amici-
zia e del rispetto tra uomini e donne di diverse tradizioni religiose18.

È un’idea ripresa più volte, come dimostra un messaggio indirizzato alla


Comunità di Sant’Egidio, nel quale papa Bergoglio incoraggiava a «dialogare,
incontrarci per instaurare nel mondo la cultura del dialogo, la cultura dell’in-
contro»19. Perché questo si realizzi è necessario un «dialogo tenace, paziente,
forte e intelligente per il quale nulla è perduto»20. Proprio un dialogo carico
di queste caratteristiche realizzato nella vita quotidiana, spesso nascosto ma
con impegno costante, da membri dei vari movimenti ecclesiali ha condotto,

nuova umanità 225 67


punti cardinali
Movimenti ecclesiali e Nostra aetate

nel giro di anni, a una fitta rete di rapporti che hanno dato vita a un’amicizia
contagiosa che costituisce una piattaforma sulla quale si può collaborare per
cercare soluzioni comuni alle problematiche locali e globali.

6. dialogo come pellegrinaggio e camminare insieme

L’immagine del pellegrinaggio è spesso legata a quella del dialogo21. Papa


Francesco, da parte sua, parla molto spesso di camminare insieme come fe-
deli di diverse tradizioni:

La vita è un cammino, un cammino lungo, ma un cammino che non si


può percorrere da soli. Bisogna camminare con i fratelli alla presenza
di Dio. Per questo vi ringrazio di questo gesto di camminare insieme
alla presenza di Dio: è quello che chiese Dio ad Abramo. Siamo fratel-
li, riconosciamoci come fratelli e camminiamo insieme22.

L’idea del pellegrinaggio è costantemente ripetuta negli eventi della Co-


munità di Sant’Egidio, dove si parla del cantiere della pace, che ogni anno
tocca una nuova sede nelle diverse parti dell’Europa. Jean Dominic Durand
commenta in merito all’esperienza che si vive in questi incontri:

[È] un pellegrinaggio unico, soprattutto per la diversità delle origini


geografiche e religiose […] senza diventare una Babele moderna,
perché tutti sono legati da un forte spirito di comunione attraverso
la preghiera oppure dalla speranza in un futuro pacificato. Qui risie-
de la forza e l’audacia della Comunità di Sant’Egidio che ha saputo
creare un vero metodo di dialogo e di incontro23.

7. il pensiero incompleto: un pensare aperto ed empatico

Il dialogo è, dunque, un pellegrinaggio verso la verità e può essere faci-


litato da un atteggiamento di fondo che emerge dall’insegnamento di papa
Francesco, che trova radice nella sua sensibilità gesuita: il pensiero incom-

68 nu 225
roberto catalano

pleto24. Bergoglio lo spiega con la parola empatia di cui ha fatto largo uso
durante i suoi due viaggi in Asia.
Assieme ad un chiaro senso della nostra propria identità di cristia-
ni, il dialogo autentico richiede anche una capacità di empatia. […]
La sfida che ci si pone è quella di non limitarci ad ascoltare le parole
che gli altri pronunciano, ma di cogliere la comunicazione non det-
ta delle loro esperienze, delle loro speranze, delle loro aspirazioni,
delle loro difficoltà e di ciò che sta loro più a cuore. Tale empatia
[…] ci porta a vedere gli altri come fratelli e sorelle, ad “ascoltare”,
attraverso e al di là delle loro parole e azioni, ciò che i loro cuori
desiderano comunicare25.

Questa empatia è un paradigma che si trova espresso efficacemente


nella cosiddetta arte di amare, la metodologia dialogica proposta da Chiara
Lubich e dai Focolari. La Lubich la definisce «il più profondo farsi uno con chi
ci sta davanti» e lo considera come un requisito fondamentale nel processo
di costruzione di rapporti di dialogo. Non si tratta di una tattica o di un modo
esteriore di comportarsi. Piuttosto, è un atteggiamento che ispira chi si im-
pegna a raggiungere un vuoto interiore di fronte a persone di altre religioni
e culture26. Questo permette di realizzare quanto afferma il teologo delle
religioni Whaling: «Conoscere la religione dell’altro implica l’entrare nella
pelle dell’altro, vedere il mondo come l’altro lo vede, penetrare nel senso
che ha per l’altro essere buddista, musulmano, ecc.»27. Ma la Lubich è bene
cosciente delle condizioni per arrivare a ciò:
[Questo] esige un vuoto completo di noi: spostare tutti i nostri pen-
sieri, i nostri affetti, le nostre intenzioni, tutti i nostri progetti, per
capire l’altro. […] Farsi uno esige spiriti poveri, poveri in spirito per
essere ricchi d’amore28.

8. il dialogo come purificazione e arricchimento

Il risultato di questo sforzo costante porta un duplice effetto. Si speri-


mentano, infatti, un grande arricchimento e, al contempo, una purificazione
profonda a livello spirituale e mentale. Entrambi questi elementi sono de-

nuova umanità 225 69


punti cardinali
Movimenti ecclesiali e Nostra aetate

scritti in modo efficace nella testimonianza di una giovane accademica indù


attiva nel dialogo interreligioso con organizzazioni cristiane:

Il dialogo è un processo in due direzioni. Tra due o più persone. Può


essere esteso a due o più correnti di pensiero. Significa studiare in
profondità non solo la propria religione, ma anche quella dell’altro.
Due persone s’incontrano e condividono gli aspetti delle loro ri-
spettive fedi, sforzandosi di comprendere quello che è il patrimonio
dell’altro. […] Un’altra sfida è che lo spazio dedicato al dialogo in-
ter-religioso possa essere mal interpretato e usato per fare proseliti
alla propria religione. A volte maestri o leader religiosi [e] […] fedeli
praticanti pensano che la loro fede sia la migliore e che di conse-
guenza sempre più persone debbano praticarla. […] Questo tipo di
dialogo [invece] dà spazio ad un confronto imparziale di pensieri
sulla propria fede29.

La purificazione del proprio pensiero e della propria vita scongiura, dun-


que, il pericolo del proselitismo ed è questo stesso atteggiamento che per-
mette di risolvere e superare inevitabili momenti di difficoltà. Spesso, infatti,
nell’incontro fra persone di fedi e tradizioni diverse si verificano momenti
di tensione o emergono divergenze di approccio a questioni anche fonda-
mentali. Non è mai facile superare difficoltà provocate da commenti fat-
ti, a volte senza nemmeno essere pienamente consapevoli delle potenziali
conseguenze negative. Tuttavia, è necessario andare al di là di tutto questo
attraverso quanto papa Francesco definisce nell’Evangelii gaudium «un pro-
cesso in cui, mediante l’ascolto dell’altro, ambo le parti trovano purificazio-
ne e arricchimento. Pertanto, anche questi sforzi possono avere il significato
di amore per la verità» (EG, n. 250). La conclusione è, nella maggioranza dei
casi, la possibilità di un chiarimento e, come conseguenza, un passo avanti
nel processo dialogico con conseguente mutuo arricchimento. Si arriva a
sperimentare l’idea di Lévinas: non è possibile esistere senza l’altro, chiun-
que sia. Qui c’è la chiave per la proposta della categoria della “ricchezza
della complementarietà delle identità” a fronte di quella dello “scontro di
civiltà”30.

70 nu 225
roberto catalano

9. dialogo e annuncio

L’esperienza delle comunità ecclesiali e dei movimenti offre un’evidenza


chiara del fatto che il dialogo non è né contrario né in concorrenza con l’an-
nuncio della Buona Novella e non la limita in alcun modo. Al contrario, un
dialogo vero e aperto con fedeli di altre religioni offre ai cristiani la possibilità
di un annuncio rispettoso e sobrio della propria fede. Lo stesso papa France-
sco lo afferma autorevolmente:

In questo dialogo, sempre affabile e cordiale, non si deve mai trascu-


rare il vincolo essenziale tra dialogo e annuncio, che porta la Chiesa
a mantenere ed intensificare le relazioni con i non cristiani. […] La
vera apertura implica il mantenersi fermi nelle proprie convinzioni
più profonde. […] L’evangelizzazione e il dialogo interreligioso […]
si sostengono e si alimentano reciprocamente (EG, n. 251).

Una volta che si è assicurato e si sperimenta uno spirito di fiducia reci-


proca è possibile parlare con chiarezza e onestà delle rispettive convinzioni
e dei contenuti delle proprie fedi, cercando di evitare di ferire chi ci sta da-
vanti e con un linguaggio che sia sempre inclusivo. Per questo è necessaria
la coscienza, spesso sottolineata da Benedetto XVI, che «non siamo noi a
possedere la verità, ma è essa a possedere noi»31. Ciò non significa apri-
re alla possibilità di facili atteggiamenti di sincretismo. Da parte ebraica e
musulmana, in particolare, la posizione di chiara identità cristiana senza la
pretesa di un possesso-monopolio della verità da parte di questi movimenti
è molto apprezzata. Essa è considerata garanzia per non cadere nella ten-
tazione del proselitismo, come affermava un importante ayatollah sciita a
una delegazione cristiana di un movimento cattolico in visita alla città santa
di Qom (Iran). Al termine di una serie di convegni e scambi di carattere
interreligioso, l’autorevole esponente iraniano affermava: «Vedendo che qui
ci sono identità precise possiamo stare tranquilli che non intervenga il pro-
selitismo»32.

nuova umanità 225 71


punti cardinali
Movimenti ecclesiali e Nostra aetate

10. conclusione: una nuova coscienza ecclesiale

A cinquant’anni dalla promulgazione di Nostra aetate, si può afferma-


re che i movimenti e le comunità ecclesiali hanno contribuito a costruire
contatti che hanno condotto a solidi rapporti di amicizia e dialogo fra fedeli
delle diverse religioni. Sintetizzando l’impegno dei Focolari nel dialogo in-
terreligioso e proponendone un bilancio, la Lubich non ha mai nascosto la
sua sorpresa per questo sviluppo inatteso di incontro e scambio con fratelli
e sorelle di diverse tradizioni. «Pur mantenendo la propria identità è stato
possibile incontrarsi e capirsi con tutte le grandi tradizioni religiose dell’u-
manità»33. C’era nella donna trentina tutta la sorpresa di fronte all’evidenza
che Dio aveva condotto lei e il Movimento su una strada spirituale che si sa-
rebbe incontrata con quella di fedeli di altre religioni, pellegrini dello stesso
viaggio verso la verità e collaboratori per la costruzione della pace. Riccardi,
da parte sua, descrive i movimenti come un «reticolo di fraternità cristiana
universale», che va al di là delle frontiere etniche e culturali. I movimenti
rendono il cristiano un cittadino del mondo e per questo i loro membri vivo-
no il senso di una comunanza di destini tra genti diverse. Tutto questo avvie-
ne per un forte senso di missione, nel senso di vivere in tensione verso tutti.
«Inoltre i movimenti e le comunità ecclesiali rappresentano una fraternità di
persone di origine diversa, strette in un comune senso di appartenenza e in
uno slancio missionario»34.
Questo ha contribuito a far sperimentare quanto i confini della missio-
ne della Chiesa si siano allargati, come affermava, già dopo il primo Assisi
del 1986, l’arcivescovo Marcello Zago35. Infatti, il compito della Chiesa non
si riduce all’evangelizzazione e alla fondazione di comunità cristiane. Piut-
tosto, arriva al punto di lievitare i valori evangelici che sono presenti nelle
altre culture, di promuovere il Regno, che è, in qualche modo, già presente
nella Chiesa e al di là dei suoi confini visibili. La Chiesa, infatti, è segno e
sacramento del Regno, lo serve in quanto ha un ruolo rivolto a tutti gli esseri
umani, candidati a farne parte36. Questa prospettiva propone una compren-
sione della Chiesa come immagine di un popolo formato da uomini e donne
a prescindere dalla rispettiva appartenenza religiosa. Infatti, essi sono figli
dello stesso Padre e, quindi, hanno la stessa dignità. È una Chiesa passa-

72 nu 225
roberto catalano

ta da una dimensione esclusivista a un atteggiamento inclusivo di respiro


universale, che non significa appiattimento delle differenze fra le diverse
religioni, ma coscienza e certezza che ciascuna di esse porta le ricchezze
della propria tradizione che possono essere offerte in dono agli altri. Dia-
logare significa essere convinti che l’altro abbia qualcosa di buono da dire,
fare spazio al suo punto di vista, alla sua opinione, alle sue proposte, senza
cadere, ovviamente, nel relativismo. E per dialogare bisogna abbassare le
difese e aprire le porte37.

1
Nostra aetate era stata ufficialmente promulgata il 28 ottobre 1965.
2
Papa Francesco, Catechesi in occasione dell’Udienza Generale interreligiosa in
occasione del 50° anniversario di Nostra Aetate, Citta del Vaticano, 28 ottobre 2015.
3
Ibid.
4
Ibid.
5
Cf. ibid.
6
Segretariato per i non-cristiani, L’atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci
di altre religioni, Riflessioni e orientamenti su dialogo e missione, n. 29 (http://www.
cadr.it/documenti/dialogomissione.pdf), 29 dicembre 2015.
7
Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e Congregazione per l’Evan-
gelizzazione dei Popoli, Il dialogo e l’annuncio. Riflessioni e orientamenti sul dialogo in-
terreligioso e sull’Annuncio del Vangelo di Gesù Cristo, n. 9 (http://www.internetica.it/
dialogo-annuncio.htm), 29 dicembre 2015.
8
D. Howard, Rischio e resistenza: cinquant’anni di dialogo interreligioso nella Chie-
sa cattolica, in «La Civiltà Cattolica», 3949 (2015/ I) pp. 3-104.
9
Citazione in Comunità di Sant’Egidio, Lo “Spirito di Assisi”. Dalle religioni una
speranza di pace, Leonardo International, Roma 2004, p. 89.
10
Cf. Benedetto XVI, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica riguardo alla Remis-
sione della scomunica dei 4 vescovi consacrati dall’Arcivescovo Lefebvre, Città del Vati-
cano, 10 marzo 2009.
11
Cf. Benedetto XVI, Discorso in occasione degli auguri natalizi alla Curia Romana,
21 dicembre 2012.
12
Citazione in Comunità di Sant’Egidio, Lo “Spirito di Assisi”. Dalle religioni una
speranza di pace, cit., p. 80.
13
M. Maugeri, FraternitàLab, il dialogo fra cristiani e musulmani al tempo di Papa
Francesco, in «Il Sole 24 Ore», 23.12.2015.

nuova umanità 225 73


punti cardinali
Movimenti ecclesiali e Nostra aetate

14
Papa Francesco, Discorso all’incontro ecumenico e interreligioso, Sarajevo, 6 giu-
gno 2015.
15
Papa Francesco, Discorso all’incontro ecumenico e interreligioso, Colombo, 13
gennaio 2015.
16
Tratto da una testimonianza raccontata all’autore dell’articolo.
17
Bella e Yossi Gal, Esperienza comune della Terra Santa, Convegno “Chiara e le
religioni. Insieme verso l’unità della famiglia umana”, Castelgandolfo, 17-20 marzo
2014.
18
Papa Francesco, Discorso ai rappresentanti delle Chiese e Comunità ecclesiali e
delle diverse religioni, Città del Vaticano, 20 Marzo 2013.
19
Papa Francesco, Discorso ai rappresentanti di diverse religioni in occasione
dell’incontro Uomini e Religioni, Città del Vaticano, 1 ottobre 2013 (cf. http://www.
santegidio.org/pageID/3/langID/it/itemID/7717/Messaggio_di_Papa_France-
sco_ai_partecipanti_all_incontro_internazionale_per_la_Pace_Il_Coraggio_del-
la_Speranza.html).
20
Ibid.
21
Con tutta probabilità è stata coniata da Giovanni Paolo II nel 1986, in occasio-
ne del suo primo viaggio in India, ma diventò efficace, pochi mesi dopo, con l’evento
Assisi. Anche Benedetto XVI l’ha spesso usata, particolarmente in occasione del
XXV anniversario della giornata di preghiera proposta dal suo predecessore.
22
Papa Francesco, Discorso ai leaders religiosi, Seoul, 18 Agosto 2014.
23
Comunità di Sant’ Egidio, Lo Spirito di Assisi, San Paolo, Cinisello Balsamo
2011, p. 37.
24
Facendo riferimento all’essere gesuita, Bergoglio parla di essere «essere una
persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto: perché pensa sempre guar-
dando l’orizzonte che è la gloria di Dio sempre maggiore, che ci sorprende senza so-
sta. E questa è l’inquietudine della nostra voragine. Questa santa e bella inquietudi-
ne!» (papa Francesco, Omelia per la beatificazione di Pietro Favre, Roma, 03.01.2013).
25
Papa Francesco, Discorso ai vescovi dell’Asia, Seoul, 17.08.2014.
26
«Quest’amore, poi, non è fatto solo di parole o di sentimenti, è concreto. Esige
che ci si faccia uno con gli altri, che “si viva” in certo modo “l’altro” nelle sue sof-
ferenze, nelle sue gioie, per capirlo, per poterlo servire e aiutare concretamente,
efficacemente. Si tratta di piangere con chi piange e rallegrarsi con chi è nella gioia.
Farsi uno. È l’atteggiamento che ha guidato l’apostolo Paolo, il quale scrive di essersi
fatto giudeo con i giudei, greco con i greci, tutto a tutti (cf. 1 Cor 9, 19-22). Ed è im-
portantissimo per noi seguire il suo esempio, in modo da poter stabilire con tutti un
vero, fraterno dialogo […]. Non è questa una cosa semplice, esige il vuoto totale di
noi, domanda di togliere dalla nostra testa le idee, dal cuore gli affetti, dalla volontà
ogni cosa per immedesimarsi con l’altro. Si tratta di spostare momentaneamente

74 nu 225
roberto catalano

persino ciò che possediamo di più bello e di più grande: la nostra stessa fede, le
nostre stesse convinzioni, per essere di fronte all’altro niente, un “nulla d’amore”. Ci
si mette così in posizione di imparare e si ha sempre da imparare realmente da tut-
ti» (C. Lubich, Quale futuro per una società multiculturale, multietnica e multireligiosa?,
Londra, 19 giugno 2004).
27
F. Whaling, Christian Theology and World Religions: A Global Approach, Marshall
Pickering, London 1986, pp. 130-131.
28
C. Lubich, Il dialogo interreligioso nel Movimento dei Focolari. Punti della spiritua-
lità aperti alle altre religioni, Aachen, 13 Novembre 1998 (manoscritto inedito).
29
M. Narsalay, A Hindu Reflection, International Conference “Chiara and Reli-
gions. Together towards Unity of the Human Family”, Castelgandolfo, 17th to 20th
March 2014.
30
Citato in Comunità di Sant’Egidio, Lo spirito di Assisi, cit., p. 168.
31
Benedetto XVI, Discorso per la presentazione degli auguri natalizi alla Curia Ro-
mana, 21 dicembre 2012.
32
Testimonianza raccolta in un’intervista al Centro del Dialogo del Movimento
dei Focolari.
33
Cf. C. Lubich, Possono le religioni essere partners per costruire la pace?, Discor-
so all’Assemblea di “Initiatives of Change” (Moral Re-armament), Caux (Svizzera),
29.07.2003.
34
Cf. A. Riccardi, Carità e giustizia: sfide per i movimenti, in Pontificium Consilium
Pro Laicis, I Movimenti nella Chiesa, LEV, Città del Vaticano 1999, pp. 185-192.
35
L’arcivescovo Marcello Zago (1932-2001) dal 1983 al 1986 è stato Segretario
del Segretariato per i non-cristiani, poi diventato Pontificio Consiglio per il Dialogo
Interreligioso. È stato l’organizzatore della Giornata di Preghiera per la Pace, convo-
cata da Giovanni Paolo II ad Assisi nell’ottobre 1986.
36
Cf. M. Zago, Assisi 27 ottobre. Giornata di preghiera per la Pace, in F. Biffi (ed.) La
pace: sfida all’Università Cattolica. Atti del Simposio fra le Università Ecclesiastiche e gli
Istituti di Studi Superiori di Roma nell’Anno internazionale della Pace 3-6 dicembre 1986,
Roma 1988, p. 869.
37
Papa Francesco, Discorso alla Comunità degli scrittori de La Civiltà Cattolica,
Roma, 14.06.2013.

nuova umanità 225 75


dallo scaffale di città nuova

Strategia della crisi


di Paolo Nori

«È difficile ricordarsi di un periodo in cui non


attraversavamo un periodo di crisi».

«Negli anni venti del Novecento, un critico russo che face-


va parte di quel gruppo di critici che eran stati chiamati, per
offenderli, formalisti, e che avevano assunto questo nome e
avevan finito per chiamarsi essi stessi formalisti, questo cri-
tico che si chiamava Jurij Tynjanov ha scritto: “La prosa russa
attraversa un periodo di crisi. (D’altra parte, anche la poesia
attraversa un periodo di crisi. In generale, è difficile ricordarsi
di un periodo in cui non attraversavano un periodo di crisi)”.
Ecco, io, che sono nato nel 1963, in Italia, ho l’impressione che,
da quando mi ricordo io, la poesia italiana, la prosa italiana,
isbn l’economia italiana, la giustizia italiana, la pubblica istruzione,
italiana, la sanità, italiana, la politica, italiana, lo sport, italiano,
9788831175272
attraversino, da allora, un periodo di crisi, mi sembra di esser
pagine sempre vissuto in un periodo di crisi e delle volte mi chiedo
104 cosa succederebbe se passasse, la crisi, e ho come l’impres-
sione che ne sentirei la mancanza». (Paolo Nori)
prezzo
euro 15,00

Disponibile in formato cartaceo ed e-book su


http://editrice.cittanuova.it

nu 225
punti cardinali

In dialogo con i musulmani


Vivere insieme l’unità nella diversità

Negli anni ’60 la Chiesa cattolica entra ufficialmen-


te nell’era del dialogo. Con l’enciclica Ecclesiam suam di
Paul Paolo VI – la prima enciclica che introduce il termine
dialogo nel magistero della Chiesa cattolica – e i docu-
Lemarié menti del Concilio, in particolare Lumen gentium, Gau-
esperto di dialogo dium et spes, Ad gentes, Unitatis redintegratio e Nostra
interreligioso. aetate, la nozione di dialogo entra profondamente nel
membro magistero della Chiesa, accompagnata dall’istituzione
del centro di vari Pontifici Consigli per dare al papa gli strumen-
interdisciplinare ti per attuarlo. Nostra aetate marca una pietra miliare
di studi “scuola
abbà”. per il dialogo interreligioso, in particolare con gli ebrei
e i musulmani. Negli stessi anni viene approvato dalla
Chiesa un movimento ecclesiale cattolico nato durante
la Seconda guerra mondiale, nel 1943, sotto il nome di
Movimento dei Focolari (o Opera di Maria). Esso avreb-
be a poco a poco strutturato il suo scopo specifico pro-
prio attorno all’idea fondamentale del dialogo.
In queste pagine mi propongo di offrire alcune iniziali
e sintetiche riflessioni sul dialogo che il Movimento in-
trattiene con i musulmani.

1. il movimento dei focolari e il dialogo

1.1. Un carisma per il dialogo

L’Opera di Maria è oggi un movimento della Chiesa


cattolica che sta muovendo i suoi primi passi dopo la
morte della sua fondatrice, Chiara Lubich, nel 2008.

nuova umanità 225 77


punti cardinali
In dialogo con i musulmani

Una delle caratteristiche del Movimento è il dialogo interpretato come


la vita di un carisma, il carisma dell’unità. Esso ha come scopo di concorrere
all’unità della famiglia umana promuovendo la fratellanza universale, par-
tendo dall’unità dei cristiani secondo la preghiera di Gesù: «Che tutti siano
uno» (Gv 17, 21). Per raggiungere questo scopo specifico – che viene inter-
pretato in chiave dialogica1 – il Movimento poggia su una spiritualità nuova
sgorgata dall’esperienza dello Spirito che ne ha guidato tutta la fondazione
e lo sviluppo. Il suo punto base è «la mutua e continua carità che rende
possibile l’unità»2 e porta la presenza del Risorto3, di Dio, nella collettività.
Questa “presenza divina” nella comunità viene percepita secondo diversi
effetti spirituali come la gioia, l’ardore del cuore4.
Tale visione del dialogo è in sintonia con Ecclesiam suam. In essa il dialogo
viene messo in evidenza come un modo di vivere la missione della Chiesa
e si definisce il dialogo come «interiore impulso di carità, che tende a farsi
esteriore dono di carità»5.
Questo carisma è stato riconosciuto dalla Chiesa in numerose occasioni,
ma in particolare con l’approvazione dei suoi Statuti generali6. Si possono
sottolineare tre primi frutti della vita di questo carisma.

1.2. Una spiritualità di comunione e un movimento cattolico


aperto ai musulmani

Il primo frutto, messo in evidenza lungo tutti questi anni dalla Lubich
stessa, è la nascita di una spiritualità originale, definita come spiritualità
dell’unità, o spiritualità collettiva, o spiritualità di comunione. Questa spiri-
tualità ha come scintilla ispiratrice l’amore, come ebbe a rilevare Giovanni
Paolo II7, e si presenta in un primo tempo come un’arte, l’arte di amare. Essa
si dispiega poi in diversi punti cardine8.
Un secondo frutto del carisma è la nascita di un movimento cattolico9
che, vivendo la sua spiritualità, accoglie nel suo seno cristiani di altre Chiese,
persone di altre religioni – in particolare musulmani – e persone di convin-
zioni non religiose. Insieme a loro, i cattolici del Movimento lavorano nell’e-

78 nu 225
paul lemarié

cumenismo, nel dialogo interreligioso, nel dialogo con persone di convinzio-


ni non religiose e in quello con la cultura contemporanea.
L’incontro con il mondo dell’islam ha dato vita a un’espressione musul-
mana del Movimento dei Focolari che è parte significativa della presenza
del Movimento in tutta l’area mediorientale e dell’Africa del nord, come af-
fermava la presidente del Movimento dei Focolari, Maria Voce, al convegno
«Chiara e le Religioni» tenutosi all’Università Urbaniana di Roma nel marzo
2014:

Nel febbraio del 2012 sono stata a Tlemcen per una breve visita
alla nostra comunità in Algeria, formata quasi totalmente da mu-
sulmani. Ho trovato veramente l’espressione musulmana del nostro
Movimento animata dallo stesso Ideale di Chiara come, tra l’altro,
lei stessa aveva previsto. Siamo, infatti, diventati una sola famiglia.
E questa esperienza comincia a diffondersi anche in altri Paesi. Cer-
to è un’esperienza profonda, non facile da trasmettersi e che non
manca di suscitare interrogativi. È una testimonianza che l’unità,
nella distinzione, è veramente possibile, ma bisogna avere il corag-
gio di farne l’esperienza.
È quanto ho sperimentato anche alcuni mesi fa in Giordania, dove
mi sono incontrata con circa 450 persone appartenenti al nostro
Movimento provenienti da diversi Paesi, dalla Grecia al Marocco,
compreso l’Iraq ed alcuni Paesi del Golfo Persico. Una quarantina
dei presenti erano musulmani. Tutto il mondo, in quei giorni, stava
vivendo con il fiato sospeso per il pericolo di un attacco alla Siria.
Insieme, abbiamo toccato con mano che il dialogo è possibile, la
convivenza è attuabile ed è la via verso la piena presa di coscienza
che l’umanità è una famiglia.

Un’altra esperienza rilevante del dialogo islamo-cristiano del Movimen-


to dei Focolari si trova nell’incontro con i numerosi seguaci dell’imam W.D.
Mohammed10 negli Stati Uniti. Lì, dalla fine degli anni ’90, è iniziato un cam-
mino insieme verso «l’Eccellenza della Famiglia Umana»11, sulla base di un
patto d’amore reciproco fatto dai due leader, che poi si estende alle due
comunità con un dialogo regolare, coinvolgendo più di 40 moschee12.

nuova umanità 225 79


punti cardinali
In dialogo con i musulmani

Ci sono poi delle esperienze legate a delle componenti del Movimen-


to come le famiglie13, o al dialogo con la cultura contemporanea nei campi
dell’educazione14 e del diritto.
Infine, come terzo frutto, dal carisma e dalla sua vita comincia a emer-
gere anche una dottrina con dei contributi specifici alla teologia del dialogo
interreligioso e alla teologia delle religioni15.

1.3. Un carisma unico che si arricchisce dei carismi di tutti

Secondo Chiara Lubich, il carisma dell’unità è, come per tutti i carismi


della Chiesa, «destinato di sua natura a tutti coloro che nel mondo lo vo-
gliono accogliere»16. Si avvale a sua volta di carismi specifici dati a perso-
ne singole, anche lì per il bene di tutti, che sviluppano qualche particolare
aspetto del carisma principale. Per il dialogo islamo-cristiano del Movimen-
to possiamo individuare diverse persone, sia cristiane che musulmane, che
hanno avuto questo ruolo. Per la nascita del Movimento in Algeria, pos-
siamo nominare Ulisse Caglioni17 e l’imam Barkat; per il dialogo dell’intero
Movimento, Natalia Dallapiccola18, Enzo Fondi19, Giuseppe Maria Zanghí e
l’imam W.D. Mohammed, limitandoci alle persone che hanno già raggiunto
il traguardo dell’aldilà. Ma ce ne sono altre che vivono ancora. Queste per-
sone – mettendo in atto il carisma dell’unità nei diversi Paesi dove hanno
vissuto – hanno contribuito anche all’emergere del dialogo con i musulmani,
tipico del Movimento dei Focolari.

2. il dialogo come annuncio di una spiritualità

Possiamo evidenziare come la spiritualità dell’unità viene annunciata al


mondo musulmano attraverso i discorsi fatti dalla fondatrice stessa in varie
occasioni dal 1997 al 2004 durante i suoi incontri diretti con il mondo mu-
sulmano, prima a Harlem e poi a Castel Gandolfo nel Centro Mariapoli inter-
nazionale dell’Opera di Maria, o in occasione di diversi viaggi in Giordania,
in Svizzera, a Londra e a Madrid.

80 nu 225
paul lemarié

2.1. La forma dell’annuncio, considerazioni

Il primo incontro ufficiale della fondatrice del Movimento dei Focolari


con dei musulmani illustra la forma carismatica di questo annuncio in un
evento che è stato anche qualificato come storico. Nel corso di un suo viag-
gio negli Stati Uniti, Chiara Lubich viene invitata a parlare nella moschea di
Malcolm X, nel cuore di Harlem, a circa tremila afroamericani musulmani.
Viene accolta dal leader carismatico Warith Deen Mohammed e dall’imam
Pasha della moschea di Harlem. Si può notare un dettaglio pratico che ha
subito un impatto positivo nel mondo musulmano che viene a contatto con
il Movimento: dovendo parlare in una moschea, la Lubich indossa un grande
“foulard” sulla testa, per rispetto al loro luogo sacro. Non lo porterà negli
altri incontri che si svolgeranno in sale per conferenze.
La particolarità dell’incontro risiede nel fatto che una donna, bianca,
cristiana viene sollecitata a condividere la sua esperienza cristiana in una
moschea di musulmani afroamericani.
Il discorso della Lubich viene sottolineato dai partecipanti lodando Dio
con diversi takbı̄r, «Allāhu akbar», Dio è il più grande. Le diverse impressioni
rilasciate dopo l’incontro mettono in evidenza la consapevolezza dei parte-
cipanti della storicità e della grande portata dell’evento. Si presenta non solo
come un discorso ma come un momento di gioiosa sorpresa nello scoprirsi
fratelli e sorelle uniti in Dio già dal primo incontro, consci che questa espe-
rienza andrà «ben oltre i confini di Harlem, di New York, degli USA»20 ed è
per tutta l’umanità. Nel suo intervento Chiara Lubich ha anche annunciato
che con alcuni amici musulmani: «ci sentiamo già della stessa famiglia».
È un evento di grande intensità spirituale, come riferisce il teologo Piero
Coda: «Uscito dalla moschea, un’impressione mi riempie il cuore: se non
avessi vissuto di persona questa giornata, mi sembrerebbe una cosa impos-
sibile. È stata una vera Pentecoste21»22. Egli aveva prima notato che Chiara
Lubich, in vista dell’incontro, «ha espresso il desiderio che, a turno, gli abi-
tanti della Luminosa23 garantiscano una presenza continua di preghiera di
fronte a Gesù Eucaristia, che è il vincolo dell’unità»24. Il dialogo, come tutta
la missione della Chiesa, poggia sulla preghiera.

nuova umanità 225 81


punti cardinali
In dialogo con i musulmani

Un’altra particolarità dell’annuncio della Lubich, è che ella accompagna


la sua esperienza con citazioni, tratte dal Corano o da celebri pensatori mu-
sulmani o mistici, che si era fatta dare da persone esperte, sia cristiane che
musulmane. Ha spiegato a una musulmana il perché di questa scelta: vuole
sottolineare che anche i musulmani possono vivere questo grande ideale
proprio come musulmani. «Mi ha spinto questo fatto: pensando che l’Islam
è una grande religione e poggia su Dio, ho detto “[…] Vedrai che troveremo
nel Corano quelle verità fondamentali che Dio ha sottolineato per noi nel
Vangelo in modo che le possiamo vivere insieme e quindi essere già in qual-
che modo uniti”»25.
Per la fondatrice dei Focolari il dialogo si basa prima di tutto sull’espe-
rienza che Dio le ha fatto fare; non esita a raccontare elementi della sua
storia cristiana che potrebbero sembrare a priori difficili – come quando
parla della croce – dicendo «mi spinge a ciò la sincerità e la sicurezza della
loro comprensione»26. Poiché si fida dell’autenticità dell’esperienza dei suoi
interlocutori e della loro apertura a Dio, parla, sicura della loro compren-
sione. In questo modo mette in evidenza, senza forse neanche volerlo, una
virtù musulmana tra le più importanti: la sincerità. Quando parla di Gesù
sulla croce che grida l’abbandono come chiave dell’unità, lo propone come
un dono attraverso la sua esperienza27. Quando invece vuole invitare i mu-
sulmani a vivere insieme questo punto della spiritualità, mette in evidenza
il «saper patire» che è comune ad entrambi. In altre circostanze spiegherà
ai musulmani, che vogliono approfondire tutta la spiritualità dell’unità, di
prendere come cultura i punti che differiscono dalla loro fede.
In questi due punti si può notare la conformità del dialogo della Lubich a
Nostra aetate che raccomanda ai cristiani «di sempre rendere testimonianza
alla fede e alla vita cristiana» nel dialogo. Il documento indica che si risolve
così l’apparente contraddizione tra il rispetto della religione e delle convin-
zioni dell’altro e il dovere di annunciare Cristo, via, verità e vita28. Questa te-
stimonianza sincera nasce dall’amore e dalla stima della religione dell’altro;
permette alla Lubich e ai membri del Movimento di esprimersi anche con
le specificità della loro fede attraverso l’esperienza vissuta. Questa sinceri-
tà viene assai apprezzata dai musulmani ed è probabilmente molto aiutata
dall’“atmosfera spirituale” presentata all’inizio di questo articolo, frutto del-

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paul lemarié

la presenza di Dio. Negli incontri del Focolare con i musulmani, il professor


Adnane Mokrani29 sottolinea «la capacità di entrambe le parti di aprirsi e di
esprimersi con il proprio linguaggio, senza nessun adattamento alle circo-
stanze. Si riesce a comunicare reciprocamente profondamente e perfetta-
mente, in modo coinvolgente e partecipativo»30.
Un’ultima considerazione: quando parla dei capisaldi della sua spiritua-
lità, Chiara Lubich è cosciente che probabilmente cristiani e musulmani non
interpretano questi punti allo stesso modo, ma è fiduciosa che nel metterli
in qualche modo in pratica insieme, si potrà veramente costruire un’unità
in Dio, dove ci si sente fratelli. È convinta che il suo carisma è anche per le
persone di altre religioni. Lo dirà in modo speciale in una risposta data nel
2002 durante l’ultimo congresso degli amici musulmani del Focolare a cui
ha partecipato: «Questo carisma, mica ce l’ho io sola! Appena l’avete capito,
è vostro, lo avete dentro e lo potete vivere uguale. […] Dio lo ha dato a me
perché io lo comunichi a te, a te. Se voi avete dentro solo una piccola scin-
tilla di questo Ideale, voi avete il carisma. Ricordatevi: essere grati a Dio di
questo dono»31.

2.2. Il contenuto dell’annuncio

2.2.1. Un ideale, una storia, un dialogo tra altri dialoghi


fondato sulla regola d’oro

Fin dall’inizio della sua esperienza, che comincia con la scoperta di Dio-
Amore in piena guerra mondiale, la Lubich trova un termine unico e univer-
sale per parlare del suo carisma, la parola “Ideale”. Il termine fa riferimento
a diversi momenti precisi della fondazione, in particolare quando, durante la
guerra, la Lubich si chiede se esista «un ideale che nessuna bomba poteva
distruggere? La risposta era stata immediata: Sì: Dio! E allora, ci dicemmo,
faremo di Dio l’ideale della nostra vita»32. Questa parola evoca quindi per
lei prima di tutto Dio; ma anche l’unità. A Harlem afferma: «l’Ideale che il
Movimento vive è proprio quello dell’unità»33. Più generalmente, con la pa-

nuova umanità 225 83


punti cardinali
In dialogo con i musulmani

rola Ideale vuole esprimere la luce nuova che sente di aver ricevuto con il
carisma.
Per comunicare questa luce, racconta i diversi episodi fondanti della
nuova vita scoperta in mezzo ai bombardamenti. E così narra la piccola-
grande storia degli inizi del Movimento, condividendo la sua sorpresa e la
sua gioia nello scoprire come le frasi del Vangelo potevano essere messe in
pratica, specialmente quelle sull’Amore di Dio per noi e sull’amore al prossi-
mo. Fa notare che Dio stesso non ha messo però l’unità o l’amore reciproco
come prima tappa, ma che è partito piuttosto dall’amore per i poveri, detta-
glio importante per i musulmani.
Infine, la Lubich spiega come si sono sviluppati i dialoghi come mezzi
per perseguire lo scopo specifico del Movimento: per i cristiani, contribuire
a realizzare il «che tutti siano uno» di Gesù (Gv 17, 21); per le persone di
altre religioni, l’unione che si può avere se tutti mettono in pratica la “regola
d’oro” presente in tutte le grandi religioni; per le persone di convinzioni non
religiose, mettere in evidenza i valori: «noi con loro lavoriamo per salvare i
valori».

2.2.2. I principali capisaldi della spiritualità dell’unità


condivisi con i musulmani

– Credere all’amore di Dio e metterLo al primo posto. Il primo punto comune


che può essere vissuto da cristiani e musulmani «è il condividere […] una
profonda fede nell’Amore di Dio. Come dice bene il Corano, “Egli è più vicino
a noi della vena giugulare”. E ci unisce anche strettamente la pratica di un
amore vero e disinteressato per ogni prossimo»34.
E ancora: «Credere, dunque, credere all’amore di Dio, esserne sicuri, in
ogni circostanza della vita, è l’imperativo di questa nuova spiritualità e di
quanti la vogliono seguire. Dice il Vangelo: “Noi abbiamo creduto all’amore”
(cf. 1 Gv 4, 16). Credere che siamo amati da Dio personalmente e immensa-
mente».
«Credere al suo amore e porLo al primo posto nel nostro cuore. Quindi
non il marito al primo posto, non il figlio al primo posto, non il lavoro al primo

84 nu 225
paul lemarié

posto, non l’arte al primo posto, non la salute al primo posto, non i beni, ma
Dio al primo posto».

Dice il Corano: «I fedeli sono quelli che mettono l’amore di Dio al


primo posto»35. E quindi basterebbe questo. Noi cattolici cristia-
ni mettiamo Dio al primo posto, e quindi quando si va contro Dio,
niente, niente, niente. Ecco, loro lo mettono al primo posto e già ci
lega Dio. Ma è un legame fortissimo, il più forte che ci sia mai. Quin-
di qui già siamo fratelli, noi siamo fratelli; non c’è più il musulmano e
il cristiano; guardiamoci tutti come fratelli: siamo persone che met-
tono Dio al primo posto; intanto guardiamo così36.

– Mettere in pratica la sua volontà: non basta credere all’amore di Dio se


non si mette in pratica la sua volontà, e la principale è amare il prossimo.
– Amare il prossimo. È «quell’amore che si riscontra nei più vari ambi-
ti religiosi e culturali sotto forma anche di misericordia, di benevolenza, di
compassione, di solidarietà... Amore del prossimo che, per noi cristiani, non
è semplicemente un sentimento umano, ma, arricchito di una scintilla divi-
na, è la carità, l’agape: amore di origine soprannaturale». Per farsi capire la
Lubich utilizza alcuni esempi concreti che hanno aiutato molto i membri del
Movimento nascente, come l’esempio dell’amore della madre.
– Saper patire.

Però non si fa nulla di buono, di utile, di fecondo al mondo senza


conoscere, senza saper accettare la fatica, la sofferenza, in una pa-
rola: la croce, noi diciamo. Non è uno scherzo impegnarsi a vivere e
a portare la fraternità. Occorre coraggio, occorre saper patire.
Ed ecco cosa dice il Corano parlando dei giusti: «Quelli che sono pa-
zienti nell’avversità [quindi che sanno soffrire, n.d.r.], nella sventu-
ra e nel momento del pericolo, questi sono i giusti!»37. Quindi anche
saper patire è di tutti noi, cristiani e musulmani38.

– Maria imitata come modello. Maria viene presentata come la madre


di Gesù che i cristiani credono spiritualmente madre di ogni uomo e che è

nuova umanità 225 85


punti cardinali
In dialogo con i musulmani

quella che mette insieme la famiglia umana, come fa una madre nella fami-
glia naturale.

Per i musulmani Maria è un modello di fede, di religiosità, di riser-


vatezza, per la sua verginità, per la sua maternità prodigiosa, per la
sua altissima dignità […]. Possiamo tutti noi, allora, cristiani e mu-
sulmani, mettercela davanti come esempio da imitare perché: «Dio
propone come esempio anche Maria, figlia di ‘Imrān, che custodì la
sua verginità, sì che noi insufflammo in lei il nostro spirito»39.

– Con il carisma, capire e vivere la Scrittura, e dare testimonianza con l’e-


sempio. Quando la Lubich enumera questi punti non parla direttamente di
quello in cui consiste il vivere le frasi della Scrittura una ad una per assimi-
larle, ma rispondendo alla domanda di una signora tunisina, dice:

Ma che cos’è che attira le persone da tutti i continenti? Il carisma.


Ti spiego perché: perché il carisma, che è un dono di Dio, ti insegna
due cose, uno: a capire bene le parole della Scrittura, a capirle come
Dio le intende; secondo: ti dà una forza per viverle e metterle in pra-
tica. Perciò il carisma ti fa vivere quello che hai capito, ma vivere è
dare testimonianza, come dire: se io lo posso vivere, puoi viverlo
anche tu, puoi viverlo anche tu, puoi viverlo anche tu. Perché tu sai,
la parola scappa, vola, mentre l’esempio trascina. E tu dici: «Come
fai a trascinare tante persone di tutti i continenti?». Con l’esempio,
con l’esempio, col vivere. Capito? E questo vale per tutti, anche per
noi musulmani40.

Il “noi” traduce bene la realtà che sta vivendo insieme con i musulmani
in quel momento.

2.2.3. Il fratello, la strada per arrivare all’unione con Dio

Nel secondo tema di Chiara Lubich ai musulmani, ella parla della preghie-
ra e dell’unione con Dio, tema molto appropriato al dialogo islamocristiano,
come lei stessa sottolinea. Negli anni precedenti, nell’intero Movimento si
era approfondita la spiritualità dell’unità evidenziando come l’amore debba

86 nu 225
paul lemarié

informare la struttura stessa del Movimento41. Riprende allora l’aspetto spi-


rituale dell’amore che aveva intitolato: «l’amore eleva». Qui si ha un esempio
preciso ed esteso di come la spiritualità che Dio le ha dato è, per Chiara Lu-
bich, anche la sua via per il dialogo. Per parlare ai musulmani della preghiera,
riprende i punti che ha messo in evidenza per i cristiani a partire dalla vita
del suo carisma, sottolineando come i musulmani possano vivere la stessa
realtà spirituale e chiedendo a loro di raccontarle successivamente come
avranno vissuto questi aspetti. Ovviamente non si tratta della forma della
preghiera rituale, ma della preghiera continua, della meditazione e dell’u-
nione con Dio. Citando Rābi‘a e l’Emiro ‘Abd al–Kader, constata: «Mi sem-
bra quasi ovvio a questo punto osservare quanta unione con Dio si trovi nei
credenti dell’Islam. E questo perciò mi spinge a comunicarvi cosa è stata,
cosa è per noi l’unione con Dio, e anche la strada tipica per la quale Egli ci
ha condotti a Sé»42.
A questo punto la Lubich precisa: l’«unità è la parola riassuntiva di tutta
la nostra spiritualità. Unità con Dio e unità con i fratelli. E specificatamente
come nostra tipica via: unità coi fratelli per raggiungere l’unità con Dio […].
Per noi il fratello ci fa arrivare a Dio. Come nei monasteri – dove si contempla
e si prega – la grata, il velo, il silenzio aiutano l’unione con Dio, così per noi il
fratello amato è la via per giungere a Lui»43.
Cita ampiamente anche diversi mistici musulmani; una citazione tra le
tante è di Rāmi: «Quando nel tuo cuore cresce l’amore per Dio, sii certo che
anche Dio ti ama. […] Dio ci ha eternamente predestinati all’amore. Ogni
parte dell’universo aspira al proprio compagno, come l’ambra attira la pa-
gliuzza. Il cielo dice alla terra: “Salve! Noi siamo l’uno per l’altra, come il
ferro per la calamita”»44. È allora l’occasione per lei di confidare alcune sue
poesie, espressioni della sua unione con Dio.
Chiara Lubich conclude dicendo che possiamo dunque vivere insieme
questi tre punti spirituali, la preghiera, la meditazione e l’unione con Dio.

2.2.4. Costruire la fratellanza universale, fondamento sicuro per la pace

Il terzo e ultimo tema della spiritualità trattato dalla Lubich nel quadro
degli incontri internazionali dei musulmani amici del Movimento dei Fo-

nuova umanità 225 87


punti cardinali
In dialogo con i musulmani

colari è sull’amore al prossimo45. Siamo nel 2002, ed è la prima volta che


incontra il gruppo degli amici musulmani del Focolare dopo il crollo delle
torri gemelle dell’11 settembre 2001. Qui si vede ancora che il dialogo vissu-
to dal Movimento procede dallo stesso carisma che ne ha visto la nascita:
la Lubich che riscopre e diffonde il fuoco dell’Amore di Dio e del prossimo
sotto le bombe della Seconda guerra mondiale continua a trasformare ogni
circostanza di guerra o di terrorismo in occasione di vita e di annuncio del
medesimo Amore. Questo tema, come lei stessa afferma, riveste dunque
un’importanza fondamentale per costruire la fraternità universale in Dio,
unico rimedio agli scontri di civiltà, ma anche “alle forze del Male” che ogni
tanto si manifestano più chiaramente. Il primo mezzo è la preghiera, come
si è fatto ad Assisi con papa Giovanni Paolo II, perché la pace è prima di
tutto un dono di Dio. La nostra parte consiste nel vivere la «fraternità che,
sola, può esser l’anima, la molla per quella più giusta condivisione dei beni
fra i popoli e gli Stati, la cui mancanza costituisce la causa più profonda del
terrorismo»46.

2.2.5. L’unità ha un nome: Dio, Dio in mezzo a noi

Chiara Lubich approfondisce l’argomento dell’unità parlando a un grup-


po di imam riuniti nel Centro Mariapoli di Madrid nel dicembre 2002. Spie-
gando che per costruire la pace, ci vuole l’unità, afferma:

Quando entriamo in dialogo fra di noi delle più varie religioni,


quando cioè ci apriamo l’un l’altro nel dialogo fatto di benevolen-
za umana, di stima reciproca, di rispetto, ci apriamo anche a Dio e
«facciamo in modo – sono parole di Giovanni Paolo II – che Dio sia
presente in mezzo a noi». Ecco il grande frutto del nostro amore
scambievole e la forza segreta che dà vigore e successo ai nostri
sforzi per la pace e la fraternità. È quello che il Vangelo annunzia ai
cristiani quando dice che se due o più persone si uniscono nell’amo-
re vero, Cristo stesso, che è la Pace, è presente fra di loro e quindi
in ciascuno di loro. E quale garanzia migliore della presenza di Dio,
quale possibilità superiore può esistere per coloro che vogliono es-
sere strumenti di fraternità e di pace?47.

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In una lettera all’imam W.D. Mohammed, dà il versetto del Corano che,


fin dall’inizio, i musulmani del Movimento avevano trovato in corrisponden-
za a questa realtà: «Non vi è conversazione a tre dove Egli non sia il quarto,
né di cinque dove Egli non sia il sesto. Siano meno o più, Egli è con loro
ovunque si trovino» (58,7).

2.2.6. L’arte di amare: la forma sintetica e universale


di tutta la spiritualità

In diverse occasioni, e in particolare nel suo ultimo discorso interreli-


gioso a Londra nel 2004, Chiara Lubich riassume tutta la sua scoperta del
vangelo e della spiritualità in una sola parola: amare. Mette in evidenza le
diverse caratteristiche in alcuni punti principali dell’arte di amare48: amare
tutti senza nessuna distinzione di cultura, di colore, di età, di religione, per-
sino i nemici; amare per primi senza aspettarsi nulla; amare l’altro come se
stessi; il farsi uno: «Quest’amore è concreto. Esige che ci si faccia uno con gli
altri, che “si viva” in certo modo “l’altro” nelle sue sofferenze, nelle sue gioie,
per capirlo, per poterlo servire e aiutare concretamente, efficacemente (cf.
1 Cor 9, 22)». «Dobbiamo anzi “fare il vuoto” completo di noi: togliere dalla
testa le idee, dal cuore gli affetti, dalla volontà ogni cosa per immedesimarci
con l’altro e addossarci tutto quanto grava su di lui»49; fino ad arrivare all’a-
more che diventa reciproco che, vissuto con radicalità, porta la presenza di
Dio in mezzo a noi.

2.2.7. Il patto di amore reciproco e il patto di misericordia

Quando Chiara annuncia l’amore reciproco spiega che esso si può sug-
gellare con il patto di essere pronti a dare la vita l’uno per l’altro. Patto che
porta a una vita, una pace, una gioia tutta nuova.
Ma a Harlem succede un fatto nuovo: alla conclusione, l’imam W.D. Mo-
hammed e la fondatrice del Movimento dei Focolari, in un fuori programma,
dichiarano «un patto, nel nome del Dio unico, per lavorare senza sosta alla
pace e all’unità»50, patto che diventerà poi il fondamento del dialogo tra i
seguaci dei due movimenti, creando una comunione tra le due istituzioni.

nuova umanità 225 89


punti cardinali
In dialogo con i musulmani

Nel presentare il tema dell’amore al fratello ella ricorda un altro patto


della vita dei primi tempi del Movimento, sempre importante per mantene-
re vivo il patto dell’amore reciproco: il “patto di misericordia”:

si decise di vedere ogni mattina il prossimo che incontravamo (in


focolare, a scuola, al lavoro, ecc.) nuovo, nuovissimo, non ricordan-
doci affatto dei suoi nei, dei suoi difetti, ma tutto coprendo con l’a-
more. Era avvicinare tutti con questa amnistia completa nel nostro
cuore, con questo perdono universale. Era un impegno forte, preso
da tutte insieme, che aiutava ad essere sempre primi nell’amare a
imitazione di Dio misericordioso, il quale perdona e dimentica51.

Non omette anche di parlare dell’amore ai nemici notando come anche


il Corano lo consiglia «Ché non sono cose eguali il bene e il male, ma tu
respingi il male con un bene più grande e vedrai allora che colui che era a te
nemico, ti sarà caldo amico»52.
Questo patto sarà messo spesso in evidenza dai musulmani stessi nei
loro incontri.

3. far progredire i valori spirituali

I musulmani che ricevono e vivono qualche punto di questa spiritualità,


in particolare l’arte di amare, esprimono frequentemente la convinzione di
diventare così migliori musulmani: in un successivo articolo su queste pa-
gine, mi propongo di offrire un saggio dei numerosi frutti che, in tal senso,
questa vita produce fra di loro. Invitare i musulmani a vivere insieme l’amore
che conduce all’unità risponde alla richiesta centrale della Nostra aetate nel
dialogo interreligioso: «Essa [la Chiesa] perciò esorta i suoi figli affinché,
con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i
seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla
vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spiri-
tuali, morali e socioculturali che si trovano in essi»53.

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paul lemarié

1
Lo scopo specifico del Movimento viene articolato secondo una linea vici-
na ai quattro grandi dialoghi dell’enciclica Ecclesiam suam (ES) di Paolo VI: dialogo
all’interno della Chiesa cattolica, dialogo ecumenico, dialogo interreligioso, dialogo
con persone di convinzioni non religiose sulla base dei valori umani e cristiani, e il
dialogo con la cultura e le realtà umane. In Ecclesiam suam, questi ultimi due dialoghi
sono raggruppati nel dialogo per la pace. Cf. ES 110–117.
2
Cf. Opera di Maria, Statuti generali, La premessa di ogni altra regola, 2007, p. 7.
3
Secondo il versetto del Vangelo di Matteo: «dove due o più sono riuniti nel
mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18, 20) e secondo l’esperienza dei discepoli
di Emmaus (Lc 24, 13-35).
4
Cf. Lc 24, 32.
5
ES 66-67.
6
Opera di Maria, Statuti generali, con i diversi decreti di approvazione dal 1990
al 2007 da parte del Pontificio Consiglio per i Laici.
7
«Si può dire che l’amore è senza programma, ma ne crea anche bellissimi e ric-
chissimi, come il vostro. […] L’ amore è più forte di tutto e questa è la vostra fede,
la scintilla ispiratrice di tutto quello che si fa con il nome Focolari, di tutto quello
che voi siete, di tutto quello che voi fate nel mondo. L’amore è più forte. È una ri-
voluzione. […] Questo è anche il radicalismo dell’amore. Ci sono stati nella storia
della Chiesa tanti radicalismi dell’amore. […] C’è anche il vostro radicalismo dell’a-
more, di Chiara, dei Focolarini: un radicalismo che scopre la profondità dell’amore e
la sua semplicità, tutte le esigenze dell’amore nelle diverse situazioni e cerca di far
vincere sempre questo amore in ogni circostanza, in ogni difficoltà. […] Possiamo
dire che la vostra opera di evangelizzazione comincia dall’amore per arrivare a Dio.
Molte volte si comincia da Dio per arrivare forse all’amore. Voi avete accentuato
questa formula meravigliosa, come la formula di S. Giovanni: Dio è Amore» (visita
di Giovanni Paolo II al Centro Internazionale di Rocca di Papa, il 19 agosto 1984, in
Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VII, 2, 1984 [Luglio-Dicembre], Libreria Editrice
Vaticana 1984, pp. 223-224).
8
C. Lubich, Una via nuova. La spiritualità dell’unità, Città Nuova, Roma 2002.
9
L’articolo 1 degli Statuti generali dell’Opera di Maria recita: «L’Opera di Maria
o Movimento dei Focolari è un’associazione privata, universale, di diritto pontificio,
dotata di personalità giuridica, a norma dei cann. 298-311 e 321–329 del Codex Iuris
Canonici (CIC), costituita secondo le norme della Chiesa cattolica e di questi statuti
generali approvati dalla Santa Sede. […] Nella loro applicazione alle persone che
fanno parte del Movimento dei Focolari, gli Statuti tengono conto dei loro vari modi
di appartenenza all’Opera. Possono vivere integralmente gli articoli che riguardano
la spiritualità (cf. artt. 1-9 e 23-7) le persone che fanno parte dell’Opera come mem-
bri o come aderenti (cf. artt. 17 e 18) [cioè i cattolici, n.d.r.]. I cristiani di altre Chiese

nuova umanità 225 91


punti cardinali
In dialogo con i musulmani

e Comunità ecclesiali vivono la spiritualità nella misura in cui le differenze nella fede
cristiana e la prassi delle singole Chiese o Comunità ecclesiali lo permettono (cf.
artt. 20 e 141-145). I seguaci di altre religioni aderiscono all’Opera, accomunati ad
essa sulla base del senso religioso, e ne vivono in qualche modo lo spirito (cf. artt.
21 e 146). Le persone di convinzioni non religiose aderiscono al Movimento e desi-
derano condividerne le finalità secondo la loro coscienza, praticando il rispetto e
l’amore incondizionati verso ogni prossimo ed agendo in spirito di fratellanza (cf.
artt. 22 e 147)». Questa espressione giuridica mette in evidenza che il modo fon-
damentale di appartenere al Movimento è la condivisione della sua spiritualità oltre
alla condivisione della sua struttura e dei suoi scopi. La parte riguardante i seguaci
delle grandi religioni è quella più generica e ciò è dovuto al fatto che comprende re-
ligioni molto diverse tra loro. Riferendosi ai musulmani in particolare, come questo
articolo intende mettere in evidenza, si vedrà che la condivisione della spiritualità è
abbastanza ampia.
10
L’imam Warith Deen Mohammed (o W.D. Mohammed) nato Wallace D.
Mohammed, figlio di Elijah Mohammed, è stato leader della principale comunità
di musulmani afroamericani dal 1975 fino alla sua morte il 9 settembre 2008, con
un numero di membri tra 1 e 2 milioni. Con la sua leadership, la sua comunità inte-
gra progressivamente l’islam sunnita e s’apre al dialogo interreligioso. Egli diven-
ta presidente effettivo dell’allora Conferenza Mondiale delle Religioni per la Pace
(WCRP). Incontra il papa per la prima volta nel 1996. È attraverso la WCRP che
entrerà in contatto con il Movimento dei Focolari.
11
Cf. http://www.focolare.org/usa/our-journey-towards-the-excellence-of-the-
human-family/ sulla visita di Chiara Lubich alla moschea di Harlem il 18.5.1997.
12
Cf. R. Catalano, Christian–Muslim Dialogue. The Experience of Chiara Lubich and
the Focolare Movement Part 1, Encounter 385, pp. 8-10.
13
Ibid., pp. 11-12.
14
Ibid., pp. 10-11.
15
Cf., per esempio, P. Coda, Il Logos e il Nulla. Trinità Religioni e Mistica, Città
Nuova, Roma 2003.
16
C. Lubich, La dottrina spirituale, Città Nuova, Roma 2006, p. 5.
17
Cf. M. Cocchiaro, Nel deserto fiorisce la fraternità. Ulisse Caglioni fra i musulmani,
Città Nuova, Roma 2006.
18
Natalia Dallapiccola è stata la prima compagna di Chiara Lubich e correspon-
sabile del Centro per il Dialogo Interreligioso del Movimento dei Focolari dalla sua
fondazione nel 1977 fino al 2 aprile 2008, data della sua morte. Cf. M. Cocchiaro,
Natalia. La prima compagna di Chiara Lubich, Città Nuova, Roma 2014.
19
Enzo Fondi, focolarino medico-chirurgo e sacerdote fu corresponsabile del
Centro per il Dialogo Interreligioso dagli inizi degli anni ’80 fino alla sua morte il 31

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dicembre 2001. Coautore di Un popolo nato dal Vangelo. Chiara Lubich e i Focolari, San
Paolo, Cinisello Balsamo 2003.
20
P. Coda, Nella Moschea di Malcolm X. Con Chiara Lubich negli Stati Uniti e in
Messico, Città Nuova, Roma 1997, p. 26.
21
Il 18 maggio 1997 era anche il giorno liturgico della festa di Pentecoste per la
Chiesa cattolica.
22
P. Coda, Nella Moschea di Malcolm X, cit., p. 23.
23
Nome della cittadella di testimonianza del Movimento dei Focolari negli Stati
Uniti che comprende circa 100 persone membri di tutte le vocazioni del Movimento.
24
P. Coda, Nella Moschea di Malcolm X, cit., p. 13.
25
C. Lubich, La dottrina spirituale, cit., p. 480.
26
C. Lubich, Discorso nella moschea di Harlem (New York 18 maggio 1997), in
«Nuova Umanità», 114 (1997/6), p. 705.
27
Cf. ibid., p. 708.
28
Cf. Nostra aetate, 2.
29
Nato a Tunisi nel 1966, vive a Roma dal 1998, teologo musulmano impegnato
nel dialogo interreligioso in Italia e nel mondo. Ha un dottorato in teologia islamica
dell’Università la Zitouna di Tunisi e un dottorato del Pontificio Istituto di Studi Arabi
e d’Islamistica (PISAI). È docente presso il PISAI e presso la Pontificia Università
Gregoriana di Roma.
30
A. Mokrani, Il dialogo del Movimento dei Focolari con i musulmani, in «Islamo-
christiana», 34 (2008) 83.
31
C. Lubich, Risposta a 13 domande degli amici musulmani (Castel Gandolfo, 3
novembre 2002), cit. in R. Catalano, Spiritualità di comunione e dialogo interreligioso.
L’esperienza di Chiara Lubich e del Movimento dei Focolari, Città Nuova, Roma 2010, pp.
199–200.
32
J. Gallagher, Chiara Lubich. Dialogo e profezia, San Paolo, Cinisello Balsamo
1999, p. 8.
33
C. Lubich, Discorso nella moschea di Harlem, cit., p. 703.
34
Ibid., p. 710.
35
Cf. Corano 2, 165. Quando la Lubich fa questo tipo di citazioni è perché le sono
di solito state date da musulmani stessi, che sentono che in quel versetto è conte-
nuta la realtà che ella vuole evidenziare.
36
Cf. http://www.centrochiaralubich.org/it/documenti/video/121-ci-lega-dio-
noi-siamo-fratelli.
37
Corano 2, 177.
38
Cf. http://www.centrochiaralubich.org/it/documenti/video/121-ci-lega-dio-
noi-siamo-fratelli.

nuova umanità 225 93


punti cardinali
In dialogo con i musulmani

39
Corano 66, 12a; cita anche 3, 42; 5, 75. Cf. http://www.centrochiaralubich.
org/it/documenti/video/121-ci-lega-dio-noi-siamo-fratelli.
40
C. Lubich, Risposta a 13 domande degli amici musulmani, Castel Gandolfo 3 no-
vembre 2002, trascrizione da registrazione.
41
C. Lubich, Una via nuova. La spiritualità dell’unità, cit., p. 65.
42
C. Lubich, Incontro con amici musulmani. La preghiera, la meditazione e l’unione
con Dio, in «Nuova Umanità», 127 (2000/1), p. 16
43
Ibid., pp. 17-18.
44
Rāmi, cit. da C.M. Guzzetti, Islam in preghiera, LDC, Torino 1991, p. 151.
45
C. Lubich, L’amore al prossimo, in «Nuova Umanità», 144 (2002/6), pp. 709–
719.
46
Ibid., p. 710.
47
C. Lubich, La fraternità e la pace nelle diverse religioni, discorso inedito fatto a
Madrid il 7 dicembre 2002.
48
Cf. C. Lubich, L’arte di amare, Città Nuova, Roma 2005.
49
C. Lubich, L’amore al prossimo, cit., p. 716.
50
R. Catalano, Spiritualità di comunione e dialogo interreligioso, cit., p. 58.
51
C. Lubich, L’amore al prossimo, cit., p. 714.
52
Corano, 41, 34 nella traduzione di A. Bausani, Il Corano, BUR, Milano 1996, p.
354.
53
Nostra aetate, 2.

94 nu 225
punti cardinali

Dialogare in profondità
Intervista a Moreno Orazi

San Giovanni Paolo II, in occasione del sessantesimo


della nascita del Movimento dei Focolari, aveva scritto in
Franz una lettera a Chiara Lubich, tra l’altro, che «le Focolarine
Kronreif e i Focolarini si sono fatti apostoli del dialogo, quale via
privilegiata, per promuovere l’unità nel mondo: dialogo
teologo, all’interno della Chiesa, dialogo ecumenico, dialogo in-
architetto e terreligioso, dialogo con i non credenti».
urbanista. È, infatti, una delle peculiarità del Movimento dei
Focolari che possono aderirvi persone di buona volontà
che non hanno una fede religiosa e che condividono il
Moreno suo spirito e le sue finalità. Il dialogo e la collaborazione
Orazi mirano a rafforzare la fraternità universale nel genere
umano e vogliono contribuire a realizzare il fine speci-
architetto fico del Movimento: «che tutti siano uno» (Gv 17, 21).
specializzato in
riqualificazione
Chiara Lubich ha ribadito che queste persone di con-
urbana e vinzione non religiosa sono una parte importante del
territoriale e Movimento e ha rivolto a una di loro, Luciana Scalacci,
in restauro e l’invito di incontrarsi nell’umanità di Gesù di Nazareth,
rifunzionalizza­ che i cristiani professano Uomo-Dio. Da questa sfida è
zione di edifici
pubblici di
nato il progetto di confrontare le parole del Vangelo che
interesse storico- segnano maggiormente i punti salienti della spiritualità
artistico. focolarina con i cosiddetti “semi del Verbo”, insiti anche
nell’odierna cultura secolarizzata, per esempio nei valori
universalmente riconosciuti.
In questo senso il termine «non credenti», usato dal
papa ma anche da alcune di queste persone di buona
volontà, è di per sé improprio essendo loro profonda-

nuova umanità 225 95


punti cardinali
Dialogare in profondità

mente credenti, non in Dio, bensì nei valori più profondi dell’uomo, e spesso
con coerenza maggiore di tanti cristiani. Uno di loro è l’interlocutore della
seguente intervista.
Può interessare il fatto che, nei primi 15 anni della sua esistenza, nel Mo-
vimento dei Focolari non appariva il termine dialogo. Ciononostante, già nel
1949 Chiara Lubich ha tracciato il DNA di qualsiasi dialogo del Movimento,
sia al suo interno sia con persone fuori di esso. Che lei abbia tirato fuori
questo testo dei primissimi tempi in uno dei suoi ultimi impulsi spirituali, nel
gennaio 2006, dà allo scritto quasi un timbro di testamento:

Poiché è l’anno che, per noi più impegnati nel Movimento, è dedica-
to all’approfondimento di Gesù abbandonato, vorrei oggi penetrare
qualcosa che il suo grido può dirci, qualcosa di utile alla nostra vita.
Scrivevo nel ’49: «Per accogliere in sé il Tutto bisogna essere il nulla
come Gesù Abbandonato [...]. Bisogna mettersi di fronte a tutti in
posizione d’imparare, poiché si ha da imparare realmente. E solo il
nulla raccoglie tutto in sé e stringe a sé ogni cosa in unità: bisogna
essere nulla (Gesù Abbandonato) di fronte ad ogni fratello per strin-
gere a sé in lui Gesù: “Qualunque cosa avrete fatto a uno solo dei
miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me (cf. Mt 25, 40)”».
Queste parole mi sembrano importantissime per mettere in pratica
il nostro “farci uno” con tutti. “Bisogna – ripeto – essere nulla (Gesù
Abbandonato) di fronte ad ogni fratello” e non avere alcuna preoc-
cupazione di comunicare qualcosa del nostro Ideale. Si comunica
essendo nulla. È la nostra via per l’inculturazione.

La riflessione di Moreno Orazi, architetto, “non-credente” (nel senso


confessionale) inserito nella comunità locale del Movimento dei Focolari a
Spoleto, nasce su questo sfondo e fa vedere lo spessore di questo dialogo
tra cristiani e persone di buona volontà. Come lo stesso testo fa intravedere,
la riflessione è stata confrontata con esponenti di altri gruppi locali di questo
dialogo, tra cui Luciana Scalacci, a cui Orazi fa riferimento. Forte dell’espe-
rienza fatta, Moreno Orazi reclama una “teologia dell’unità” che includa la
non credenza in senso confessionale.

96 nu 225
intervista a moreno orazi - a cura di franz kronreif

Per cominciare vorrei che ti presentassi, tracciando un tuo breve profilo uma-
no e professionale. Sei, come me, un architetto e svolgi la libera professione. Quali
sono state le tue esperienze lavorative più significative e in quali progetti sei ora
impegnato?
Sono nato nel 1956 in Umbria, nel centro Italia, terra natale di san Be-
nedetto e di san Francesco. Sono felicemente sposato e ho due figli e vivo a
Spoleto. Dopo la maturità classica, mi sono laureato in architettura a Roma
nel 1981. Ora esercito la professione di architetto presso la ABACO – Società
Cooperativa di Ricerca e Progetti –, di cui sono cofondatore.
Ho diretto i lavori di restauro del Teatro Nuovo e del Palazzo Comunale
di Spoleto, oltre che di altri significativi edifici e di porzioni di tessuti urbani
storici di interesse storico-artistico e documentario nei territori umbri vicini
a Spoleto. A partire dal 1994 ho partecipato alla redazione di programmi
integrati economici e urbanistici per la riqualificazione urbana e territoriale.
Mi sono occupato, nel corso della mia vita e nell’ambito della mia pro-
fessione, dei linguaggi artistici e delle estetiche contemporanee, sia perché
si tratta di un campo affine a quello professionale, sia perché le arti visuali
nell’attuale civiltà delle immagini occupano una posizione centrale nel siste-
ma della comunicazione. In questo ambito ho collaborato con l’artista con-
cettuale americano Sol Lewitt allo sviluppo e alla realizzazione del progetto
“Pyramids e complex forms”. Presso l’Università della Terza Età di Spoleto
tengo delle conferenze sulla storia dell’architettura e della città, sui linguag-
gi visivi e sulle estetiche contemporanee, nonché su argomenti di cultura
generale collegati ad aspetti delle scienze mediche.

A parte la famiglia, alla quale so che tieni molto, quali sono state le esperienze
più significative nella tua formazione umana e culturale che hanno maggiormente
influenzato le tue scelte di vita?
Ho sempre considerato la cultura e la conoscenza come un mezzo per
elevarsi anche spiritualmente, uno strumento di liberazione personale e col-
lettivo. Penso che la rivoluzione vera sia quella combattuta con le armi della
cultura e questa ha come scopo non solo la critica delle strutture sociali per

nuova umanità 225 97


punti cardinali
Dialogare in profondità

un loro cambiamento positivo ma, soprattutto, la costruzione di una coscien-


za personale limpida e onesta.
Negli anni ’80 ho animato, insieme a una decina di amici, un circolo cultu-
rale dell’A.R.C.I., un’associazione politica e culturale giovanile di sinistra colle-
gata al Partito Comunista Italiano che ha rappresentato un’esperienza sociale,
culturale e politica fondamentale nella mia formazione umana e civile.
Ho raccontato quell’esperienza in un’autobiografia collettiva pubblicata lo
scorso anno dal titolo Per ricordARCI (Era Nuova, Perugia 2014).

Mi sembra che nelle tue scelte di vita e professionali tu abbia sempre privile-
giato situazioni, ambienti sociali, spazi di impegno politico in cui più fortemente
agiscono le componenti della condivisione, della solidarietà e il carattere colletti-
vo. Come nasce e come si colloca all’interno di questo quadro il tuo rapporto con il
Movimento dei Focolari e in quali ambiti hai profuso il tuo impegno?
In effetti, trovo fortemente appaganti sul piano umano e personale le
esperienze in cui sono prevalenti la dimensione collettiva e del gruppo. Il
mio rapporto con il Movimento dei Focolari inizia con un incontro nella mia
parrocchia, quella stessa da cui mi ero allontanato da ragazzino. Mi colpì
il carattere aperto e franco della discussione e il clima amichevole e acco-
gliente. Da quel giorno ho iniziato un percorso di progressivo avvicinamento
e di coinvolgimento nel Movimento. Ho quindi partecipato a un congresso
del “Dialogo con persone di convinzioni non religiose” 1; ho poi concorso ad
avviare una delle prime Scuole di formazione politica organizzate dal pro-
fessor Antonio Maria Baggio: un’esperienza pioneristica che ha anticipato
l’esperienza delle scuole di formazione in corso promossa dal Movimento
Politico per l’Unità (M.P.P.U.). È in questo ambito che ho profuso il mio mag-
giore impegno, oltre naturalmente alla mia partecipazione costante e attiva
al IV dialogo e alla vita della comunità locale del Movimento.

contaminazioni da dialogo

Tu fai parte del gruppo del dialogo tra credenti e persone di convinzioni non
religiose. Nella realtà locale del Movimento dei Focolari della tua città sei, però,

98 nu 225
intervista a moreno orazi - a cura di franz kronreif

circondato soprattutto da cristiani credenti e praticanti. Come ti senti come non


credente in mezzo a una maggioranza cristiana?

È stata una sfida. Nei primi tempi prevaleva la diffidenza, il sospetto, ma


poi, con la conoscenza delle persone e con l’approfondimento della cono-
scenza del carisma di Chiara Lubich ho cambiato atteggiamento. Mi sono
messo in ascolto e ho iniziato a considerare la religione come una com-
ponente esistenziale, e ho rivalutato la insopprimibilità del sentimento del
sacro nella vita interiore legato al mistero della nascita e della morte, del
prima e del dopo la vita terrena. Nel dialogo che si è aperto a tutto campo, ma
soprattutto per quanto attiene la religione cristiana, ho cercato di trovare
comunque delle affinità. Mi sono sforzato di mettermi in sintonia, di dare
un contributo positivo alla costruzione di un habitat mentale, di un ambiente
umano che, a partire da una comune radice sentimentale e di alcuni tratti
valoriali comuni, mi permettesse di superare diffidenze e pregiudizi, di ac-
cogliere gli altri membri della comunità così come loro avevano accolto me.
Mi sono lasciato, per così dire, contaminare, ma in modo lucido e consen-
ziente, cercando di misurare l’universalità del carisma e della sua vocazione
al dialogo2.

Puoi chiarirmi meglio che cosa intendi quando dici che ti sei lasciato “contami-
nare in modo lucido e consenziente”?
Quando si rivolge a persone di varie confessioni religiose, Chiara Lubich
parla a interlocutori nel cui spazio mentale il pensiero di Dio è presente e
vivo, e la dimensione della fede occupa una posizione centrale. Trova quindi
nei credenti persone sensibili e pronte a recepire la sua proposta. Ma come
è possibile che il suo discorso faccia breccia anche nella mente (e nel cuore)
dei non credenti, cioè di persone come me che misconoscono la dimensione
del trascendente, rifuggono dal sentimento del sacro, si muovono all’interno
di una dimensione puramente umana dello spirito?
Seguire l’insegnamento di Chiara per l’uomo di fede significa asseconda-
re la volontà di Dio e concorrere a realizzare il disegno d’amore sotteso alla
creazione. Per il non credente consiste, invece, nell’assumere comporta-

nuova umanità 225 99


punti cardinali
Dialogare in profondità

menti sociali positivi, improntati al bene, che muovono da un unilaterale ri-


conoscimento del diritto insopprimibile e inalienabile di ogni uomo e donna
alla sopravvivenza e ad una vita dignitosa e libera, in ragione della comune
appartenenza al genere umano.
Chiara, nel mostrare del cristianesimo gli aspetti più profondamente
umani e non confessionali, attiva una comunicazione che va al cuore degli
uomini, indipendentemente dalla loro posizione rispetto a fede e trascen-
dente. Credo che in questa peculiarità del suo carisma risieda la possibilità
stessa del dialogo tra noi.
Lei, credente, ha fatto in pratica un piccolo miracolo rendendo partecipi
dell’amore di Dio anche noi non credenti. Cerco di spiegarmi meglio. Ho
appreso da lei che l’ascesi è il percorso terreno di avvicinamento dell’uomo
a Dio, mentre la mistica è la risposta di Dio a tale sollecitazione. Nei secoli
questi due percorsi sono sempre stati considerati una conquista personale,
del singolo individuo.
In Chiara, invece, l’ascesi ha per la prima volta un carattere collettivo,
comunitario: in pratica, Dio risponde non al singolo, ma alla comunità riu-
nificata nell’amore, oltre le identità di fede e culturali di ciascuno. In questo
modo Dio parla a tutti: cristiani o musulmani, buddhisti o riformati, credenti
o atei, illuminati o agnostici.
Per essere ancora più chiaro, io che sono non credente, partecipando
all’esperienza di dialogo in corso all’interno del Movimento dei Focolari,
posso intuire qualcosa dell’esperienza mistica che fanno i credenti. Di più:
partecipare in qualche modo alla loro vita di fede. E viceversa: i credenti
che fanno parte del mio gruppo possono sperimentare in profondità la mia
concezione laica della vita, i miei valori, il mio approccio alla socialità. Il tutto
nel massimo rispetto reciproco, senza proselitismi, anzi nella valorizzazio-
ne delle differenze. In questo modo viviamo un’avventura assolutamente
imprevista, una contaminazione reciproca, coinvolgente e a tratti emozio-
nante, di spazi, idee, esperienze vitali. Un arricchimento anche intellettuale
dagli esiti imprevedibili, ma che sicuramente cambia la vita.

100 nu 225
intervista a moreno orazi - a cura di franz kronreif

la parola che unisce e crea relazioni positive

Nel tuo impegno professionale e nel sociale hai dato sempre importanza e
priorità alle relazioni personali. Questo aspetto della relazione è centrale nel ca-
risma di Chiara. Igino Giordani, detto Foco, è stato il primo che ha riconosciuto
la valenza sociale, politica ecc. del suo carisma. Che cosa ha provocato in te la
lettura del pensiero di Giordani?

Più che gli scritti di Igino Giordani, di cui ho letto alcuni stralci del Diario
di Fuoco, è stato il suo profilo spirituale, tratteggiato da Pino Quartana, a
farmi riflettere sul carattere personale e relazionale della spiritualità evan-
gelica. Grazie alla dignità riconosciuta nella nostra epoca all’acquisito dirit-
to della parola profana di dar voce all’interiorità dell’uomo, oggi possiamo
parlare con libertà dei temi religiosi, un tempo appannaggio dei chierici e
dei teologi, senza rischiare di finire davanti al tribunale dell’Inquisizione. Mi
prendo dunque questa libertà.
La “conversione” di Foco è avvenuta attraverso la relazione mistica che
si è creata con Chiara. Al tempo stesso Foco era uno studioso della Parola.
Aveva scritto tantissimo sulla Parola. Ha quasi dell’incredibile che sia stato
l’entusiasmo e la forza di una giovane a produrre il “miracolo” dell’approdo
alla fede vera3.
Senza un testimone che ne incarni il significato attraverso il comporta-
mento e che la faccia rifulgere, è come se la Parola restasse muta, come se
le Scritture non fossero sufficienti ad innescare il processo di conversione e il
loro contenuto di indiscutibile verità. In altre parole Dio si affida a mezzi umani
sia per veicolare la sua volontà, sia per mostrarne gli effetti.
Se per Foco questo altro da sé è stata Chiara, per Chiara l’incontro con la
Parola è avvenuto attraverso l’identificazione del disastro della guerra con
la Passione di Gesù, con l’esperienza di Gesù abbandonato e il desiderio di
resurrezione, con il sentimento della caduta e con la forte speranza di su-
peramento e di rinnovamento che condivideva con le sue prime compagne.
Se ne ricava ancora una volta che l’ascolto della Parola o la sua semplice let-
tura, senza la presenza di un Altro, diverso da sé, singolo o comunità, su cui
vederla rispecchiata, non sono sufficienti a generare una fede vera che aiuti a

nuova umanità 225 101


punti cardinali
Dialogare in profondità

sollevare chi vi aspira dallo stato di “cristianucci”4. Il cristianesimo secondo


il carisma di Chiara è una religione della relazione.

Il tuo ragionamento adombra la possibilità che questo “altro” possa essere


anche un non credente? Pensi che sia questo che intendeva Chiara quando ricono-
sceva una particolare importanza alla presenza e partecipazione dei non credenti
alla vita del Movimento?
La risposta alla tua domanda è implicita nel ragionamento stesso. Per
svilupparlo compiutamente mi pongo e ti pongo altre domande. La dina-
mica virtuosa che ha generato il legame mistico e la comunione di anime tra
Chiara e le sue compagne e tra Chiara e Foco, si instaura sempre, e solo, tra
persone che frequentano la Parola? Senza il supporto della fede e la solleci-
tazione della Parola è possibile stabilire legami altrettanto profondi tra per-
sone diverse che non hanno lo stesso approccio nei confronti della Parola? Un
amore spirituale per l’altro, altrettanto intenso di quello che Gesù vuol susci-
tare, che vada oltre l’istinto sociale o la condivisione della stessa condizione
esistenziale, è possibile senza la fede e l’ascolto della Parola? Che succede se
derubrichiamo gli aspetti spirituali e trascendenti, come faccio io – intendo
dire quando mi definisco un cristiano non credente – e facciamo un uso della
Parola evangelica essenzialmente laico, trasformandola in un precettario di
norme di comportamento sociali e politiche? Non operiamo una palese distor-
sione dell’insegnamento evangelico, strumentalizzando la Parola, in un certo
senso, per fini non propri? Anche in questo caso la Parola assolve comun-
que alla sua funzione salvifica e relazionale positiva, costruisce, cioè, la pace
interiore e attiva relazioni interumane solide e positive, seppure svuotata e
depotenziata? Su cosa basava Chiara la sua convinzione dell’importanza e
della fecondità del nostro dialogo?
Azzardo una risposta che desumo dalla mia esperienza all’interno del
Movimento. Il carisma di Chiara agisce nei confronti di chi vive nella fede una
purificazione, una più piena comprensione del tratto universalistico e inclusivo
del messaggio evangelico. Vede cioè la religione cristiana come una forma
di comunicazione profonda con la dimensione extrasensibile e, al tempo
stesso, come una prassi comunicativa sociale responsabile. Da quanto ho

102 nu 225
intervista a moreno orazi - a cura di franz kronreif

appreso dal racconto di molti, il carisma trasforma la testimonianza cristiana


e la fede in una conquista insieme personale e collettiva che va oltre il sistema
dei valori e delle credenze ereditate dalla famiglia e dal gruppo sociale di
appartenenza. Ma il carisma agisce anche nei confronti di noi “non creden-
ti” in quanto riaccende la speranza in un’umanità che aspira comunque alla
redenzione5, sottolinea il carattere sociale e collettivo della fede e il suo signi-
ficato “politico” di “cosa pubblica”. Invita tutti noi, credenti e non credenti,
a valorizzare gli altri, a investirli del nostro amore, a restituire valore a ciò
che sentiamo, oltre a ciò che pensiamo, ai nostri vissuti quotidiani; a dare, in
altre parole, “diritto di cittadinanza” alle ragioni positive del “cuore” che si
sviluppano all’interno di relazioni umane improntate sull’accoglienza e sulla
gratuità, con o senza la luce della fede.

per una “teologia dell’unità”

Chiara Lubich ha rivolto a voi non credenti, appartenenti al Movimento dei


Focolari, l’invito a ri-conoscervi nel Gesù di Nazareth-uomo e di rispecchiarvi nella
sua umanità. È una richiesta molto impegnativa, non ti pare?

Chiara ha rivolto questo invito anni fa a Luciana Scalacci, una delle prime
partecipanti al gruppo del IV dialogo. Come è possibile, se è possibile – e io
credo di sì –, raccogliere l’invito di Chiara rivolto a tutti noi non credenti del
gruppo del IV dialogo di riconoscerci comunque in Gesù senza venir meno
alle nostre convinzioni a-religiose, a-gnostiche, a-tee o mistico-umanistiche
e senza che ciò comporti necessariamente un atto di conversione?
Per descrivere la mia posizione rispetto alla fede mi definisco cristiano
non credente. Con sfumature diverse questa definizione può essere estesa
alla maggior parte dei non credenti del nostro gruppo del IV dialogo. Direi
che il cristiano non credente fa riferimento in un modo non convenzionale al
Vangelo e all’insegnamento di Gesù. Ciò che mette tra parentesi rispetto
al cristiano credente è l’ispirazione divina, la dimensione trascendente e la
componente miracolistica del cristianesimo.

nuova umanità 225 103


punti cardinali
Dialogare in profondità

Si può essere cristiani non credenti e, nello stesso tempo, far proprio il
Vangelo evitando di trasformarlo in una sorta trattatello etico-pratico del
tipo dei manualetti di psicologia applicata tanto diffusi oggi? E ancora, muo-
vendo da questo presupposto, come possiamo noi non credenti far nostro
l’appello di Chiara di accogliere comunque Gesù dentro di noi e condividere
il carisma nella parte che afferma che possiamo superare indenni le dure
prove dell’esistenza, vivere momenti di paradiso qui sulla terra, sperimen-
tare rapporti umani fraterni basati sul rispetto e sull’amore reciproco solo
se ci affidiamo a lui. Chiara sembra offrirci una via d’uscita: se non potete
appallarvi alla sua natura divina, rispecchiatevi nella parte immanente della
sua duplice natura, di Uomo-Dio.
L’arcivescovo della città in cui vivo, al quale ho manifestato la mia parti-
colare condizione di cristiano non credente operante all’interno della comuni-
tà locale del Movimento dei Focolari, ha sostenuto che questa definizione,
dal punto di vista della Chiesa e delle persone di fede, contiene un’insupe-
rabile contraddizione in termini che non è tanto di natura logico-linguistica,
ma di sostanza. È la stessa risposta che mi ha dato l’iman di Perugia quando
ho espresso a lui la mia posizione rispetto alla fede in occasione del dibattito
sull’importanza del dialogo.

Le posizioni dell’arcivescovo e dell’iman non sorprendono: sul piano consueto


del pensiero teologico e dell’esegesi sono posizioni comprensibili. Per tali posizioni
la rivendicazione di un diritto di cittadinanza, nonché la richiesta di un riconosci-
mento della dimensione della non credenza da parte della Chiesa, è fuori luogo
oltreché incomprensibile.
La figura del cristiano non credente delinea l’esistenza di uno spazio di
mezzo tra chi aderisce alla fede cristiana e ai suoi precetti e riti e chi sta-
ziona nei suoi dintorni, fa propri alcuni valori etici conservando tuttavia una
propria indipendenza di pensiero sul piano intellettuale e spirituale. Capisco
che appaia più ambigua e difficile da sostenersi.
Quella del cristiano non credente è una condizione contemplata dal Van-
gelo ed è descritta nella parabola della madre cananea che chiede aiuto a
Gesù per liberare la figlia dalla possessione del diavolo (Mc 7, 24-36; Mt

104 nu 225
intervista a moreno orazi - a cura di franz kronreif

15, 21). La prima reazione di Gesù è la stessa di quella dell’arcivescovo. Per


un uomo di fede, credente in Dio, e più ancora per la casta sacerdotale, la
condizione della non credenza non è contemplata dall’orizzonte della fede, se
non come stato temporaneo o come pura ipotesi di pensiero formulata per
riaffermare la centralità dell’istanza religiosa.
La definizione di cristiano non credente, dal punto di vista del credente con-
venzionale, è un ossimoro inaccettabile, un’affermazione priva di significato,
un vero e proprio non-sense.
Ripropongo di nuovo la questione: come possiamo noi non credenti, che
neghiamo la trascendenza di Gesù e gli aspetti miracolistici e soprasen-
sibili della fede, far nostro l’invito di Chiara e vivere, attraverso l’apertura
offertaci dal suo carisma, la spiritualità cristiano-evangelica, permanendo
tutti i dubbi su un credo religioso il cui profilo risente palesemente dei ca-
ratteri storico-culturali dell’area geografica in cui si è sviluppato e diffuso
e che oggettivamente ne indebolisce la pretesa di universalità, unicità e
assolutezza6?
Ogni volta che penso alle verità della fede mi ronza nell’orecchio la do-
manda: «Se fossimo nati in India o in uno degli Emirati arabi quale sarebbe
stato il nostro credo?». Si tratta di un’interrogazione cruciale che interpella
noi non credenti ma, parimenti, anche tutti quelli che aderiscono a religioni
che fanno dei loro culti e dell’oggetto del loro credo degli elementi di asso-
luta certezza.
Si può uscire da questo apparentemente insuperabile impasse? Forse sì,
a condizione che si cominci a pensare a una concezione rinnovata della fede
che, pur rimanendo ancorata al Vangelo e alle Scritture, includa tuttavia la
non credenza come costitutiva dell’esperienza stessa della fede e non solo
come puramente strumentale alla riaffermazione delle verità dottrinarie
tramandateci dalla tradizione.
Sostengo che questo è possibile solo a condizione che non si consideri
la non credenza come il venir meno della dimensione religiosa tout court,
come uno scadimento del sentimento del sacro conseguente dalla deriva
atea del pensiero materialista e scientista delle moderne società materia-
liste industriali, ma come l’effetto del consumo delle forme di culto e delle
figure della fede pervenuteci attraverso la storia e come il bisogno di tro-

nuova umanità 225 105


punti cardinali
Dialogare in profondità

vare nuove forme per esprimere il sentimento del sacro nei mutati scenari
dell’oggi.
Il carisma di Chiara, concorrendo a far emergere alcuni tratti universa-
listici della rivelazione cristiana comuni ad altre religioni positive e all’uma-
nesimo, sganciato da riferimenti religiosi diretti, mi sembra che, in qualche
modo, prefiguri questo sviluppo. La stessa prospettiva dell’unità della fa-
miglia umana che il carisma di Chiara ha enucleato dal Vangelo postula la
possibilità/necessità di elaborare una vera e propria “teologia dell’Unità”
che includa la non credenza come componente della teofania e della rivelazio-
ne cristiana. Un esito che la parabola della madre cananea sembra a sua volta
prefigurare e legittimare.
Il carisma contiene una doppia sollecitazione: esorta i credenti a conce-
pire la fede in modo aperto e non cristallizzato, e i non credenti a recuperare,
se non la fede, alcuni contenuti più immanenti del cristianesimo, validi sia
per i credenti che per i non credenti, vale a dire il desiderio di essere accettati
e considerati dagli altri e l’aspirazione a una vita semplice vissuta nella ricer-
ca costante della pace e dell’armonia.

Luciana Scalacci, in rappresentanza del vostro gruppo, ha incontrato papa


Francesco che l’ha esortata a pregare per lui. Questo invito va nella direzione in-
dicata dal carisma che pone nel riconoscimento della comune condizione umana
i presupposti per una Chiesa-Ecclesia veramente tale, accogliente e universale.
Non ti sembra che la succitata “teologia dell’unità” carichi i non credenti di una
responsabilità almeno pari, se non di più, di quella dei credenti rispetto al cam-
mino in atto?
L’invito di Chiara a rispecchiarsi almeno nell’uomo-Gesù, trova una forte
consonanza in quello di “prega per me”, rivolto a Luciana da papa Francesco
in occasione dell’incontro con la delegazione recatasi da lui in visita a con-
clusione dell’Assemblea Generale nel settembre 2014.
Una bella responsabilità per Luciana e per tutti noi non credenti del Mo-
vimento dei Focolari. Non possiamo certo ignorare, infatti, quanta apertu-
ra, accoglienza e considerazione verso i non credenti traspaia nelle parole di
Chiara e di papa Francesco e quale idea di Chiesa-Ecclesia completamente

106 nu 225
intervista a moreno orazi - a cura di franz kronreif

rinnovata – e così divergente da quella della Chiesa-Istituzione che la Storia ci


ha consegnato – le loro parole e i loro gesti evochino.
Se è vero che la mia non fede7 si è arricchita nel corso del tempo di mo-
tivazioni antropologico-culturali sempre più consapevoli, tuttavia essa ha
avuto senz’altro origine dalla mancanza di carità che ho registrato nei miei
confronti, da bambino fino alle soglie dell’età adulta, da parte di alcuni uomi-
ni di Chiesa che hanno formulato giudizi negativi sulla mia persona a causa
della mia umile condizione sociale e dall’aver conosciuto, negli anni della
mia infanzia, una Chiesa sbilanciata più verso i ricchi ed i potenti che verso
i poveri.
Ritornando a Chiara e a papa Francesco, il doppio invito rivolto da en-
trambi a Luciana Scalacci di entrare in un dialogo mistico con loro – perché
di questo si tratta – apre l’ascesi cristiana a un rapporto assai fecondo con
la dimensione della non credenza, che è a-tea all’interno di una concezione
della fede chiusa e dogmatica, ma carica di religiosità al di fuori degli stretti
steccati di quella, come la nostra esperienza di dialogo dimostra.
Il carisma di Chiara e il cristianesimo basato sull’esercizio quotidiano
della carità vissuto come servizio all’altro, professato e testimoniato da papa
Francesco, esorta credenti e non credenti a continuare a parlarsi sempre di
più e sempre più sinceramente e intensamente e ad ascoltarsi oltre i reciproci
pregiudizi e su queste basi stringere rapporti di sempre maggiore compren-
sione reciproca e di accettazione delle proprie mutevoli diversità.
Il carisma e le parole e i gesti del papa veicolano una struttura aperta del
messaggio evangelico e una visione dinamica e non discriminatoria della
fede che costituiscono il presupposto esperienziale e dottrinario per l’elabo-
razione di una “teologia dell’unità” che promuova il riconoscimento della
sensibilità e dei valori cristiani presenti nei mille rivoli in cui si manifesta la
non credenza oggi, senza pretendere di incorporarla di nuovo in una dimen-
sione della fede chiusa e preordinata.
D’altra parte una componente di apertura e di imprevedibilità è costitu-
tiva della religione ebraico-cristiana: un credo che nasce come monoteista
che ha al centro un Dio, Signore assoluto dell’Universo, che nel lunghissimo
e, ancora aperto, cammino della rivelazione, si sdoppia e si triplica dive-
nendo Uno e Trino, che si fa uomo e che, una volta incarnato, si comporta,

nuova umanità 225 107


punti cardinali
Dialogare in profondità

pensa ed agisce da uomo e che, attraverso l’Abbandonato, il suo doppio, nel


momento del trapasso, da uomo, dubita della sua natura.
La “teologia dell’unità” può infine favorire il superamento da parte della
cattolicità di quella che qualcuno ha definito la “cattolicità ristretta”, cioè un
modo di essere della cattolicità a sua volta chiusa e ripiegata su se stessa
che, in molti passaggi della sua storia, ha fatto prevalere il proprio interesse
particolare, venendo meno alla sua universalità. Sicuramente la diffusione
del carisma e della cultura del dialogo può aiutare la “cattolicità” e la sua
massima istituzione a compiere scelte che vanno sempre più nella direzione
di una compiuta universalità nello svolgimento della sua missione spirituale
sulla terra. Il pontificato di papa Francesco sembra dimostrare che i tempi
sono ormai maturi.

1
Comunemente chiamato, nel Movimento dei focolari, IV dialogo. Questa e
tutte le note esplicative presenti nel testo sono a cura dell’intervistatore.
2
Il dialogo mira alla fratellanza universale nel senso del «Che tutti siano uno»
(Gv 17, 11).
3
Per “fede vera” va intesa qui la fides qua, imprescindibilmente connessa con
l’amore, giacché risposta a Dio-Amore.
4
Giordani usò questa espressione in La rivolta cattolica (Gobetti, Torino 1925),
libro di denuncia in cui prendeva le distanze dal regime instaurato da Mussolini. In
esso stigmatizzava il collateralismo e l’atteggiamento ambiguo di molti cattolici nei
confronti del fascismo, dettato dall’opportunità di trarne vantaggi economici.
5
La redenzione intesa non solo a livello personale, ma soprattutto sociale. L’in-
tervistato ricorda una frase di Chiara Lubich: «Il Paradiso è una casa che si costrui-
sce di qua e si abita di là».
6
I termini riflettono l’autocomprensione della Chiesa cattolica prima del Con-
cilio Vaticano II: extra Ecclesiam nulla salus, mentre il Vaticano II vede tutti gli uomini
di buona volontà in qualche maniera indirizzati alla Chiesa in senso ampio.
7
Intesa come non appartenenza a una religione o confessione, ma dotata di
intelligenza esistenziale o spirituale (cf. Francesc Torralba Rosselló).

108 nu 225
alla fonte del carisma dell’unità

Generare un’Opera di Dio


Brani di storia

Settanta anni fa, il 1o maggio 1947, il Movimento dei


Lucia Focolari riceveva la prima approvazione ecclesiastica
Abignente dall’arcivescovo di Trento, mons. Carlo de Ferrari, che
poneva la sua firma in calce al breve Statuto dei Focolari
teologa con della Carità (gli Apostoli dell’Unità). Nella nascente espe-
specializzazione rienza ecclesiale, manifestatasi nella sua diocesi, che un
in storia giorno assumerà il nome di Opera di Maria, il presule
della chiesa. aveva riconosciuto subito l’impronta dello Spirito: «Qui
responsabile c’è il dito di Dio» aveva, infatti, affermato già dai primi
della sezione
studi e ricerca incontri1. La benedizione di chi rappresentava la Chiesa
storica del influì sulla rapida crescita della comunità dei Focolari, la
“centro chiara cui data di nascita viene considerata il 7 dicembre 1943,
lubich”. membro giorno della consacrazione di Chiara Lubich a Dio. In
del centro poco tempo questa comunità coinvolse già centinaia di
interdisciplinare
di studi “scuola persone e presto travalicò i confini del Trentino, giun-
abbà”. gendo anche a Roma dove, dal 1948, Chiara stessa si
trasferì. Si potrebbe supporre così che la via fosse ormai
aperta e pienamente spianata. In realtà, già nel 1948
iniziava da parte della Chiesa di Roma uno studio ap-
profondito dei Focolari che durò diversi anni. La prima,
attesa approvazione da parte della Santa Sede, limitata
al ramo maschile dell’Opera, la si avrà solo nel marzo
1962. Per la chiusura delle visite apostoliche e l’appro-
vazione piena dell’Opera di Maria bisognerà attendere il
dicembre 1964, mentre il 1965 segnerà il riconoscimen-
to di Chiara Lubich non solo come fondatrice ma anche
presidente dell’Opera di Maria.

nuova umanità 225 109


alla fonte del carisma dell’unità
Generare un’Opera di Dio: brani di storia

Negli anni Cinquanta, lo studio attento da parte del Sant’Uffizio, che


come ebbe a dire l’allora mons. Giovanni Battista Montini, risultava per
l’Opera ancora in gestazione “garanzia e protezione”, significò tuttavia so-
spensione, a tal punto che più volte la possibilità dello scioglimento sembrò
divenire realtà. È l’esperienza comune di tanti fondatori che, nel dar vita a
una nuova opera, hanno provato, nel crogiuolo del dolore, la loro fedeltà
adamantina a Dio e alla Chiesa: del resto, «il giusto rapporto fra carisma
genuino, prospettiva di novità e sofferenza interiore comporta una costante
storica di connessione tra carisma e croce»2.
Ricordando la vita propria e del Movimento e illustrando i segni della
“prova di Dio” degli anni Cinquanta, nell’attesa di un responso definitivo da
parte della Chiesa, Chiara Lubich scrive nel libro Il grido, prezioso testo auto-
biografico sgorgato dal suo cuore come «un canto, un inno di gioia e di gra-
titudine» verso Colui che già nel gennaio 1944 l’aveva chiamata a seguirlo:
«Gesù crocifisso nel suo grido di abbandono»3:

Se da una parte ci sembrava di dover morire, dall’altra la volontà di


Dio ci diceva di vivere. Succedeva, infatti, che, mentre le circostan-
ze sembravano dirci: ormai tutto finirà, magari il giorno dopo Dio
disponeva le cose in modo tale che la stessa Chiesa ci metteva nelle
condizioni di poter andar avanti.
Era, quindi, proprio un dolore simile a quello di Gesù abbandonato
che era e non era abbandonato, contemporaneamente. Anche noi,
come Lui, sentivamo l’abbandono, ma l’Opera di Dio viveva, cresce-
va. Avveniva anche, in un secondo periodo, che nello stesso tempo
l’autorità di un luogo, o di una nazione, approvasse in pieno il Movi-
mento, mentre quella d’un altro luogo non lo approvava4.

Varie e complesse le vicissitudini che segnarono questi anni che, nell’a-


nima della Lubich e di chi condivideva con lei la stessa scelta di vita, ap-
parvero, e lo si comprende, molto lunghi. La ricostruzione degli eventi esi-
gerebbe ben altro spazio, per comprenderne le cause e il contesto storico
in cui avvennero, in una realtà ecclesiale che non aveva ancora conosciuto
la grazia del Concilio Vaticano II. In queste brevi pagine sembra opportuno
concentrarsi su un arco limitato di tempo per cogliere, per quanto possibi-

110 nu 225
lucia abignente

le, qualcosa della realtà quotidiana di allora, nel susseguirsi rapido, a volte
incalzante, di eventi contrastanti: momenti di dolore, che ben ricordano che
generare significa soffrire, «turbarsi, cadere sotto il peso della croce a volte
troppo forte», ma anche di luce, di gioia pura, di fede, di fedeltà provata a
Gesù abbandonato e di unione intima con lui5.
La scelta del tempo da prendere in esame ricade sull’anno 1954. Per col-
locare la breve ricostruzione storica va ricordato, tuttavia, che nel febbraio
1952, per volere del Sant’Uffizio, a Chiara Lubich venne tolta la direzione del
Movimento. Un tempo di prova e di buio avvolse in quegli anni la sua anima,
intuibile dalle scarne ma intense parole con cui lei stessa lo descrive:

E venne la notte. Terribile come sa solo chi la prova.


Essa mi tolse tutto: Dio Amore, come l’avevo conosciuto in quegli
anni, la vita fisica e [quella] spirituale.
Mi mancò la salute, nel modo più crudo, e mi mancò la pace…
Capii in quei giorni come la carità fosse tutto: come la vita fosse
amore. Mancandomi l’amore mi mancò la vita.
Accettai come Dio sa, fra dolori inenarrabili, quest’oscurità in cui
ormai più nulla aveva valore6.

In questa notte dello spirito ella ebbe accanto un esperto e sapiente re-
ligioso, p. Giovanni Battista Tomasi, che era stato superiore generale dei
padri Stimmatini. Dopo il trasferimento di Chiara a Roma, l’arcivescovo di
Trento lo aveva incaricato di assistere il Movimento in questa fase delicata
della sua storia.

«non morirò, ma resterò in vita


e annuncerò le opere del signore» (sal 118)

Dal contenuto di una lettera di Chiara, ricopiata e inviata personalmente


ad alcuni focolarini il 14 novembre 1953, veniamo a sapere che, avvicinando-
si il decennio della nascita del Movimento, p. Tomasi aveva concesso a una
dozzina di focolarini e focolarine di pronunziare la propria consacrazione a
Dio per sempre. Chiara indirizzava la lettera solo ad alcuni focolarini da lei

nuova umanità 225 111


alla fonte del carisma dell’unità
Generare un’Opera di Dio: brani di storia

scelti che riteneva ormai maturi per questo passo. Scriveva: «Quanto vi dico
è un dono immenso di Maria». E precisava: «Vi voglio far notare che io sento
di darvi questo mio consenso soltanto per il fatto che voi vorrete rimane-
re sempre in focolare: condizione che mi garantisce che voi l’osserverete.
Infatti questo voto suppone l’unità con chi v’ha donato l’Ideale». Se tutti
acconsentiranno, nota Chiara «per l’Immacolata Maria dovrebbe aver 39
cuori legati per sempre. Altri li sento maturi per più tardi»7.
All’evento della consacrazione, avvenuto a Roma, era presente anche
Igino Giordani, dal 1948 partecipe della vita del Movimento. Egli, deputato,
scrittore, padre di quattro figli, lo visse con grande commozione e umiltà.
Chiara ricorda che lui «elogiava con parole sublimi, come lui solo sapeva
fare, la vocazione alla verginità che vedeva altissima». Fu allora che ella gli
disse pressappoco così:

«Questi giovani si consacrano a Dio consacrandosi a Gesù croci-


fisso. È in Lui che trovano il modello della completa rinuncia a se
stessi per poter così riempire la loro anima della carità di Dio e
riamare ogni cosa, ogni persona, ogni attività, con l’amore stesso
di Dio. Ora, a te, che cosa manca? Se anche tu ami Gesù crocifisso
e abbandonato, se per Lui sei staccato da tutto […]; se Gesù cro-
cifisso e abbandonato è veramente tutto per te, […] tu sei vuoto di
te e Dio ti riempie facendoti carità viva. E, se sei la carità viva e Dio
vive in te, chi allora più vergine di te?» […] E – continua Chiara – lo
invitai a portare anche lui all’altare questa consacrazione a Gesù
Abbandonato per essere l’Amore […]. E lui lo fece8.

Con la consacrazione di Giordani, che segna l’inizio di una via nuova se-
guita poi da tanti sposati, inizia a stagliarsi, in quello che allora veniva de-
finito “Ordine di Maria”, un “terzo ramo”, accanto a quello delle focolarine
(il primo) e dei focolarini (il secondo). Sono giorni di luce e di gioia nei quali
Chiara ha pure delle intuizioni circa gli altri voti e nella sua anima scorre
meravigliosamente il testo di una nuova Regola, che sta preparando per la
Santa Sede.
Ecco, però, stendersi di nuovo l’ombra della croce. P. Tomasi, ancora lu-
cidissimo nei suoi 88 anni, viene colpito da una trombosi cerebrale. Prima di

112 nu 225
lucia abignente

entrare in coma, chi gli è accanto accoglie da lui una raccomandazione che
comprende riferita a Chiara: «Bisogna attingere alla fonte. Bisogna star vici-
ni al Fuoco» 9. Chiara non riesce a vederlo, giacché in quel momento si trova
a Trento, ma con commozione e gratitudine unisce la sua offerta a quella di
lui. Quasi “invertendo” i ruoli che avevano segnato il loro rapporto, lo prepa-
ra e lo accompagna all’incontro con Dio con queste parole:

Carissimo Padre nostro,


Forse per la sua anima è arrivato lo Sposo.
Io, con tutti quelli che la conoscono, siamo lì ad attenderLo con Lei:
sentiamo tutto quello che sente Lei.
Se questo è il suo Natale in cielo entrerà in Paradiso circondato dal
canto delle decine di voti che ha suggellato ultimamente in nome
di Gesù.
Padre nostro, grazie, grazie dalla mia anima alla quale ha dato la
pace. La continui a guidare anche da lassù.
Io colle pope e i popi10 le saremo più uniti di prima e Lei venga a dir-
mi, se può il pensiero di Gesù su di me e sull’Ordine di Maria.
Vada in pace, Padre, e noi attendiamo con ansia l’ora di seguirla
lassù.
Ci benedica ora e sempre.
Fu per noi Chiesa Madre, Iddio sarà per Lei Padre e Maria Madre.
Chiara

Sembra che questa lettera sia stata per il padre stimmatino un dono per
vincere con l’amore il timore della morte, tanto che aveva abbracciato con
impeto il Crocifisso. Il 2 gennaio 1954, p. Tomasi raggiunge il cielo.
Alcuni giorni dopo, il 16 gennaio 1954, Enzo Fondi, focolarino medico, al-
lora in focolare a Roma, scrive una lettera circolare a tutti i focolarini e le fo-
colarine. La apre così: «Chiara desidera che vi scriva dandovi notizie della sua
salute, che, come forse saprete, in questi ultimi giorni ha subìto un forte con-
traccolpo dal grande dolore provato per la morte di P. Tomasi». Continua poi:

Ho avuto il gran dono di Dio di poter essere vicino a Chiara nei mo-
menti in cui stava così male ed ho potuto seguire tutte le fasi della
sua malattia. È stata una cosa che non so descrivervi e che ha la-

nuova umanità 225 113


alla fonte del carisma dell’unità
Generare un’Opera di Dio: brani di storia

sciato nel mio animo una forte impressione: Chiara era prostrata e
costretta a letto […]. Vi dico che con tutte le pope eravamo seria-
mente preoccupati e tenevamo un gran Gesù in mezzo per poter
curare Chiara e per non farle mai mancare quella unità di cui anche
il suo fisico aveva bisogno11.

La sollecitudine con cui i focolarini che sono a Roma attorno a Chiara


informano, con il suo consenso e a volte per suo desiderio esplicito, gli altri
di varie città circa il suo stato di salute, ci dice la serietà del momento. «Ab-
biamo bisogno perciò di tutta la vostra unità – scrive ancora Enzo Fondi –
per poter portare questa responsabilità grande che Gesù ci ha dato e che,
stando vicini o lontani da Chiara, ci permette in questo momento di farle
sentire l’amore dei figli»12. Le fonti rimaste attestano, nella diversità di toni
e di sfumature che si compongono in armonia, la molteplicità di cuori che
battono all’unisono e un amore concreto che la sostiene.
Il 22 gennaio, giorno del suo compleanno, Chiara ha un momento di ri-
presa e riesce a scrivere qualche riga alla mamma. Non le nasconde quanto
vissuto: la sensazione provata di andare in Cielo, dato il «crollo terribile al
quale sembrava non poter porre rimedio» e poi il mutarsi della situazione.
Afferma: «ormai sento che vivo»13 . Del miglioramento dà conferma Lia Bru-
net in una lettera di quello stesso giorno: «Mai come quest’anno si è festeg-
giato il compleanno di Chiara. Più si nasconde e più Chiara è manifesta»,
commenta e continua:

Ora Chiara è come ritornata tra noi, ma la sua anima che ha tocca-
to l’Aldilà, è spaesata quaggiù. Oggi ci parlava di Maria che con la
morte di Gesù toccò il colmo dei suoi dolori, dopo di che doveva
ben esser stata spaesata quaggiù ma, per adempiere la sua missio-
ne di Madre dell’umanità, doveva rimanere per la Chiesa nascente,
rimanere per gli Apostoli… forse si sarebbero dispersi senza di Lei,
vincolo di unità.
Mentre Chiara così parlava ci pareva dicesse anche di lei…
Noi non sappiamo l’abbandono sempre nuovo nel quale Gesù la
chiama14.

114 nu 225
lucia abignente

Il 25 gennaio Chiara conferma i focolarini e le focolarine in questa cer-


tezza: non moriar sed vivam et narrabo opera Domini. Scrive:

Mi sembra d’esser ritornata e sento che il ritorno ha un solo scopo:


Vivere per amarvi. Per questo Gesù mi vuole ancora quaggiù. Ma sa-
peste cosa significa! Ai confini dell’Aldilà si “sente” che solo l’Amore
conta: l’Infinito Amore.
Ma vi dirò. Ho mille cose da dirvi!
Ma vi rivedrò.
Le pope vi diranno del fisico. Io vi dico che Gesù mi fece “vostra
mamma” 15.

Il miglioramento è, però, temporaneo. È un tempo in cui Chiara viene


ancora provata nel fisico e nello spirito, tanto da aver l’impressione di esser
avvolta in un buio totale. Eppure chi le è vicino nota che anche quei momenti
di buio sono preziosi, e danno la possibilità di partecipare alla luce che, di
tanto in tanto, sgorga da quelle tenebre, da quei dolori.

Non riesco a rendervi l’idea – riconosce Giosi Guella scrivendo a


tutti i focolarini – perché Chiara è in tale unità con Gesù, specie in
quest’ultimo periodo (anche se noi che le siamo state vicino, pos-
siamo dire di non averla mai vista non unita a Lui), che sfugge a
qualsiasi controllo ed è così, vorrei dire, divina la sua vita che non
sappiamo che termini usare per spiegarla16.

Della prova vissuta la Lubich stessa dà qualche pennellata in una lettera


a mons. de Ferrari del 13 marzo 1954:

So che ha seguito paternamente, interessandosi presso i focolarini,


la mia malattia.
La morte di P. Tomasi fu la causa prima.
Gesù attraverso di Lei ci aveva dato un “padre” che era “madre” ed
un po’ tutto per noi, nel senso che attraverso di Lui noi sentivamo la
volontà e l’amore della Chiesa.

nuova umanità 225 115


alla fonte del carisma dell’unità
Generare un’Opera di Dio: brani di storia

Credo che questo fu uno dei più bei doni che Lei ci fece. E sento che
a parole non si può dire quello che fu P. Tomasi per noi e per la mia
anima in particolare.
La morte venne come un ladro e siccome era Gesù questo “ladro”
lasciò lo spirito mio pronto ma il fisico cedette.
Ora mi vo’ rimettendo con una lentezza incredibile nonostante i
medici così bravi; però mi rimetto e sono contenta perché so che
Lei m’ha sempre comandato di star bene e di guarire17.

nuovi, importanti eventi

Pur non sapendo se sarà in grado di esser presente, Chiara segue in quei
mesi con molta partecipazione l’avvicinarsi dell’ordinazione di Pasquale Fo-
resi, il primo tra i focolarini a diventare sacerdote. A lui, pur giovane, nel
1950, aveva sentito di dover domandare di condividere con lei la “respon-
sabilità” del Movimento. Ella coglie l’unicità di tale evento, non solo in quel
momento storico ma anche per l’avvenire: è lo sbocciare di quel sacerdozio
mariano, espressione della nuova Opera che sta nascendo nella Chiesa. Ne
sottolinea a tutti i focolarini l’importanza e desidera che siano tutti presenti
quel giorno e il giorno dopo alla prima messa, così da “concelebrare”, come
afferma con espressione significativa, in quella che vede non come «una co-
mune prima Messa» di un focolarino, ma come «la prima Messa dell’Ordine
di Maria»18 . È il «fiore dell’Ordine di Maria», come canta Giordani nella sua
poesia, dove scrive ancora:
«Tu porti a Cristo di Maria la dote,
da vergini fiorito sacerdote»19.
Il 4 aprile, dunque, a Trento, nella chiesa delle suore di Maria Bambina,
Pasquale Foresi viene ordinato sacerdote da mons. de Ferrari alla presenza
dei focolarini e di Chiara stessa, seppur la sua partecipazione, per ovvi mo-
tivi, rimane in secondo piano.
Alla gioia dell’ordinazione di Foresi si unisce, di lì a poco, l’annuncio della
chiusura della visita apostolica. Cessa così il mandato del primo visitatore,
incaricato nel 1951 dal Sant’Uffizio: il francescano p. Enrico Corrà. Potrebbe
sembrare un annuncio gioioso, in realtà si apre una nuova inchiesta, affidata

116 nu 225
lucia abignente

ancora una volta a un conventuale, p. Alfonso Orlini. Della stima maturata


nell’animo del primo, nei tre anni in cui aveva studiato il Movimento, sono
segno, tra l’altro, le parole con cui si congeda da Chiara. Le spiega che que-
sta decisione del Sant’Uffizio non gli permette “assolutamente” di parteci-
pare in estate all’incontro dei Focolari a Vigo di Fassa (Trento), ma assicura

ciò non vuol dire che io dovrò dimenticarvi del tutto. E come potrei
dimenticare i buoni esempi che mi avete dato, la vostra gentilezza,
la vostra carità? Non vi dimenticherò nella preghiera, come, son
certo, neppure voi mi dimenticherete, pregherò anzi molto il Signo-
re che realizzi quanto prima, nella maniera che a Lui più piaccia, le
vostre nobili e sante aspirazioni20.

Prima di passare agli effetti del lavoro di p. Orlini, fermiamoci all’incontro


estivo del Movimento a Vigo di Fassa, nel 1954. Qui avviene un fatto che
ha un grande risvolto per la nascita e la vita dell’Opera di Maria nei Paesi
dell’Europa centro orientale21.
Un gesuita, p. Pavel Maria Hnilica, riuscito a fuggire in Occidente dalla
Cecoslovacchia, dopo il primo impatto, breve ma per lui determinante, avu-
to con il Movimento a Tonadico (Trento) nel 1953, arriva a Vigo di Fassa.
Insiste per parlare con Chiara e rivela a lei la sua vera identità: era stato
consacrato vescovo clandestinamente. Esprime la propria convinzione: il
Movimento è lo strumento di Dio per portare un soffio di vita nuova nella
cristianità. Sente di dover portare questo spirito oltrecortina, nella Chiesa
del Silenzio, dove vorrebbe rientrare con alcuni focolarini. Chiara l’ascolta e
gli propone un metodo diverso: non fare progetti, ma consacrarsi al Cuore
Immacolato di Maria perché lei conduca e compia il disegno di Dio sulla sua
Opera. Solo pochissimi sono a conoscenza e compartecipi di questo patto,
che viene detto “congiura”, suggellato il 22 agosto, giorno nel quale, a quel
tempo, si commemorava appunto il Cuore Immacolato di Maria. Dunque,
mentre sull’Opera grava l’incertezza di una nuova inchiesta, Chiara, i fo-
colarini, le focolarine, si riconsegnano, per le mani della Madonna, a Dio
con fede e piena disponibilità ai suoi piani, che aprono orizzonti nuovi per la
realizzazione del testamento di Gesù «che tutti siano uno» (cf. Gv 17, 21), ma

nuova umanità 225 117


alla fonte del carisma dell’unità
Generare un’Opera di Dio: brani di storia

che richiedono, nello stesso tempo, di esser pronti, se necessario, ad andare


incontro a pericoli o anche a pagare con la vita.

un autunno di sospensione

L’autunno del 1954 è segnato dal lavoro tenace di p. Orlini. I primi prov-
vedimenti da lui presi sembrano infrangere la gioia che l’ordinazione di don
Foresi aveva portato. «Siamo in piena inchiesta», scrive Chiara il 30 settem-
bre a mons. de Ferrari e spiega: «Don Foresi venne staccato e si dubita che
anche l’On. Giordani sia tolto (se non dal Movimento, da capo di quelli, fra i
nostri, sposati)». Continua dunque:

Dovremmo dire che siamo in piena croce anche se le cose sapute ci


danno la certezza delle buone intenzioni di P. Orlini, che vuole arri-
vare a far approvare i Focolari secondo una sua linea.
Invece siamo tutti felicissimi perché l’Opera è in mano di Dio e Egli
solo – appunto perché noi ci abbandoniamo totalmente in mano di
Chi ci rappresenta la Sua Chiesa – la salverà come l’ha voluta. In
questi momenti così delicati e tremendi, in cui sembra di nascere sì,
ma nascere “un’altra cosa” chissà come il nostro Padre Tomasi pre-
gherà e ci proteggerà! A Lui, dopo che a Gesù ed a Maria, abbiamo
affidato ogni cosa22.

A don Foresi, infatti, viene consigliato da p. Orlini di non continuare gli


studi in focolare, ma di trasferirsi presso la famiglia o presso il Collegio Ca-
pranica. Il padre francescano, intanto, si adopera per l’approvazione cercan-
do di conoscere il Movimento e di stendere uno statuto. Come aveva con-
fessato, egli s’era avvicinato con delle prevenzioni e aveva avvertito: «non
sono un tipo conquistabile»; pian piano, conoscendo le persone, aveva,
però, iniziato a ricredersi23.
Da un aggiornamento dettagliato che Giordani fa in una lettera del 7 ot-
tobre a mons. de Ferrari veniamo a sapere che Orlini intendeva proporre al
Sant’Uffizio «un primo statuto provvisorio, schematico» per ottenerne l’ap-
provazione. A capo del Movimento, che voleva chiamare “Movimento per

118 nu 225
lucia abignente

l’Unità cristiana”, avrebbe messo inizialmente un sacerdote non focolarino


e, anzi, sarebbe stato contento di essere lui stesso. Cominciava a considera-
re la possibilità che i focolarini rimanessero in focolare anche dopo il sacer-
dozio, ma aveva più difficoltà a capire la laicità del Movimento e, con essa, il
ruolo del primo ramo e di Chiara in specie, nonché la posizione dei coniugati
e la loro consacrazione24.
«Qui si vivono le ansie, le speranze, le gioie, i dolori, la certezza della
prossima futura nascita» scrive Chiara il 12 ottobre a p. Andrea Balbo, fran-
cescano a lei molto vicino. Con un linguaggio un po’ cifrato data la situazione
delicata in quel momento storico per l’Ordine di Maria, quando al visitatore
del Sant’Uffizio si dava il nome, forse di auspicio, dell’arcangelo Gabriele,
spiega quanto sta avvenendo:

Ieri – Maternità di Maria Vergine – Gabriele aveva capito di dover


andar dal S. Padre per ottenere che il capo dell’O. di M. [= Ordine di
Maria] sia chi dovrebbe essere.
Era stata una grazia ottenuta – quasi miracolo! – per le preghiere di
tutto l’O. [= Ordine di Maria] allo scopo.
Poi ieri sera già aveva mutato pensiero, forse perché l’O. non è ab-
bastanza in forma...
Bisogna pregare, Padre, perché tutto sia come Maria vuole.
Noi siamo tutti pronti ad ogni cosa, vero? e Gesù lo sa25.

A distanza di un mese esatto, il 12 novembre 1954, è ancora una volta


una lettera di Giordani a comunicare con tempestività a mons. de Ferrari che
p. Orlini aveva presentato la relazione al Sant’Uffizio accompagnata da dieci
allegati, tra i quali numerose testimonianze e lo statuto26. L’esito favorevole
sembra ormai prossimo. Si è dunque nell’attesa che però si prolunga e, pur
carica di speranza, risulta ancorata alla realtà, consapevole degli ostacoli e
delle reticenze di alcuni. Chiara sembra andare oltre e condivide con chi le
rappresenta la Chiesa il senso di tale sospensione, colta in una dimensione
di fede. Così scrive a mons. de Ferrari:

nuova umanità 225 119


alla fonte del carisma dell’unità
Generare un’Opera di Dio: brani di storia

Ogni nascita è dolore e qui un’opera sta nascendo dalla Chiesa. Del


resto se siamo un’Opera di Dio, siamo anche tutti noi parte di essa
e quindi persone da purificare, da guidare, da custodire.
Sì, ci sono e ci furono i contrari ma fu per render gloria a Dio e noi
lasciamo il giudizio a Dio solo27.

Nel post scriptum della lettera comunica poi una notizia: «sembra non sia
stata accettata la Regola fatta per noi da P. Orlini»28 . La si potrebbe consi-
derare una notizia negativa e, invece, la Lubich la esprime con sollievo. Lo si
comprende perché ella sa che quella Regola, a cui non aveva potuto dare un
vero contributo, non corrispondeva al disegno di Dio sull’Opera. «Se è vero
– conclude Chiara nella comunione con il suo arcivescovo –, anche in questo
tratto non c’è da vedere che la Sapiente Mano provvidenziale di Dio Che ci
vuole come ci ha fatti»29.
Il 1954, anno di abissi e di vette, uno dei più dolorosi e dei più importanti
nella storia dell’Opera di Maria30, sembra dunque concludersi con segnali
positivi ed eventi che infondono speranza, in modo diverso da come si era
aperto. In realtà, la scelta rinnovata di Gesù nel suo abbandono sottostà e
lega in uno questo come, si potrebbe dire, ogni tempo. «Fin d’ora L’assicuro,
[…] che il mio e nostro cuore è avvinghiato alla Croce e quindi speriamo di
non edificar invano»31: così Chiara Lubich aveva scritto a mons. de Ferrari in
primavera, nei giorni di attesa dell’ordinazione di Pasquale Foresi, giorni di
gioia che l’avevano allo stesso tempo concentrata sull’Abbandonato, su cui
tener sempre fissa la bussola della vita32. Un impegno che le lettere scritte
alla fine del 1954 e indirizzate a persone diverse confermano inequivocabil-
mente.

conclusione

Nel considerare e cercare di penetrare l’esperienza vissuta dalla Lubich


negli anni Cinquanta, anche solo nel breve arco di tempo di un anno, appaio­
no di particolare luce le parole pronunziate di recente da papa Francesco:
«La speranza fa entrare nel buio di un futuro incerto per camminare nella

120 nu 225
lucia abignente

luce»33. Nel tempo di gestazione nel grembo della Chiesa Madre, la vita di
Chiara e di chi le è accanto testimonia come la venuta alla luce dell’approva-
zione si attende non attendendo, valorizzando ogni incontro con il Dio ab-
bandonato. Lo esprime significativamente una lettera che, in occasione del
Natale 1954, Chiara Lubich scrive a tutti i focolarini nei confronti dei quali, lo
ricordiamo, proprio all’inizio di quell’anno Dio le aveva dato di riscoprire più
profondamente la maternità34. 
Oggi, in un tempo in cui, di fronte ai drammi dell’umanità, ciascuno è
nuovamente invitato a uscire dalla propria indifferenza, ad andare oltre se
stesso per «accogliere l’altro, tutti: chi è nel bisogno, chi ha lasciato la pro-
pria terra costretto dalle guerre e dalla fame, chi è solo, marginato, carce-
rato…» così che, come affermava Maria Voce, l’«aver sperimentato l’amore
di Dio che ci salva» renda capaci di «essere una mano tesa a “salvare” chi ci
è accanto», il messaggio di questa lettera si rivela di luce e particolarmente
attuale. Nello stesso tempo ci fa capire l’autenticità di quella vibrante affer-
mazione della Lubich, quando, ricordando anni dopo la prova vissuta negli
anni Cinquanta – nella coscienza del proprio limite che, per dare gloria a
Dio, la induceva a ripetere con san Paolo: «Non mi vanterò fuorché delle mie
debolezze» (2 Cor 12, 5) – riconosceva:

Tuttavia non potevo negare che Dio stava donando a me per prima
uno dei più grandi favori che egli fa a un’anima: la maternità spiri-
tuale. E ora, che la Chiesa ha riconosciuto il compito che Dio m’ha
affidato, quella maternità mi autorizza a dire ai miei, pur cosciente
della mia nullità: «Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi
in Cristo, ma non certo» molte madri; «perché sono io che», nell’u-
nità con Gesù abbandonato, «vi ho generato» focolarini (cf. 1 Cor
4, 15).

Ed ecco, a conclusione di questo pur breve excursus sul 1954, le parole di


Chiara all’avvicinarsi del Natale di quell’anno, che riportiamo integralmente:

Carissimi,
Fra poco è Natale e mai come quest’anno la mia anima l’attende con
gioia: non è un’attesa, è una continua festa natalizia!

nuova umanità 225 121


alla fonte del carisma dell’unità
Generare un’Opera di Dio: brani di storia

Perché sarà?
Forse perché l’Ordine è già nato, forse perché nascerà.
E in questa gioia intima, gioia di Gesù, mai ho sentito d’amarvi così
tanto, ad uno ad uno e tutti insieme.
L’Ordine è figlio di Maria ed, avendo Dio scelto, come prima anima
dell’Ordine, la mia, forse Maria mi fa sentire un po’ quella gioia che
Lei – come Madre – dovrebbe sentire per il figlioletto nascituro o
neonato.
______
Certo è che ciò che importa è l’Amore, l’Amore vero: quello garan-
tito perché nulla v’è di nostro, ma tutto è di Dio, quell’Amore che
abbiamo imparato ad avere in cuore non distogliendo lo sguardo da
Gesù Abbandonato.
È qui il segreto dell’Unità, la rinascita delle anime nostre, dell’Ordi-
ne e, forse, del mondo.
Volevo scrivervi per farvi gli auguri.
Eccoli:
Gesù Abbandonato rinasca in quella notte radioso nei nostri cuori come
unica stella della vita nostra.
Che Dio chiuda gli occhi nostri a tutto per aprirli solo su di Lui.
Chiediamo quest’unica grazia per ciascuno e per tutti: di amarLo
per tutta la vita onde Iddio possa fare di essa una scia di Luce: una
testimonianza di Dio.
E basta.
Ciò basta.
AmiamoLo in noi, nelle infinite sfumature dei nostri dolori, ma
amiamoLo soprattutto fuori di noi, nei fratelli, in tutti i fratelli.
E se fra i fratelli possiamo aver preferenze, amiamoLo nei più pec-
catori, nei più miserabili, nei più cenciosi, nei più ripugnanti, nei più
abbandonati, nei rifiuti della società, nei più straziati.
«Veni aevangelizare pauperibus»: sia la nostra comune parola.
È per essi soprattutto il Vangelo che promette beatitudini: a chi
piange, a chi ha fame, ai perseguitati...
Prendiamo quelli di mira: sono i prediletti del Signore; siano i pre-
diletti nostri.
Diamoci senza misura cercando e trovando il Volto dell’Abbando-
nato fra noi e attorno a noi e chiediamo a Natale che nasca a tal

122 nu 225
lucia abignente

punto l’Amore in noi da essere “altro Gesù”, Chiesa che vive, “al-
tra Maria”, talmente Maria che l’Umanità sofferente, e soprattutto
peccatrice, possa dire di noi, dell’Acies nostra: “Refugium peccato-
rum”, “Consolatrix afflictorum”, “Auxilium Christianorum”.
È la Mèta dell’attimo presente e della vita dell’Ordine: terminato
l’Anno Mariano35, incominci l’èra di Maria: in noi.
______
«Gesù, dacci d’amarTi Abbandonato, così bene
che il mondo veda nell’Ordine “rinata”,
misticamente, Maria».
Ecco la nostra preghiera quella notte.
E questo logicamente il reciproco augurio fra tutti noi.
Chiara36.

1
Sul rapporto tra Chiara Lubich e mons. Carlo de Ferrari, mi permetto di segna-
lare il saggio in via di pubblicazione per i tipi dell’editrice Città Nuova, dove viene an-
che trattato, più ampiamente, il tema affrontato nel presente articolo: L. Abignente,
«Qui c’è il dito di Dio». Carlo de Ferrari e Chiara Lubich: il discernimento di un carisma.
2
Sacra Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari – Sacra Congregazio-
ne per i Vescovi, Mutuae relationes. Criteri direttivi sui rapporti tra i Vescovi e i Religiosi
nella Chiesa, 1978, n. 12.
3
C. Lubich, Il grido. Gesù crocifisso e abbandonato nella storia e nella vita del Mo-
vimento dei Focolari dalla sua nascita, nel 1943, all’alba del terzo millennio, Città Nuova,
Roma 2000, p. 11.
4
Ibid., pp. 68-69.
5
In riferimento a quel tempo Chiara scrive: «Generare significava sempre sof-
frire. E soffrire significava turbarsi, cadere a volte sotto il peso della croce; così come
Egli ha pianto, si è turbato, ha avuto paura, Egli, che non ha tolto il dolore, ma l’ha
valorizzato e sublimato. Generare significava però anche conoscere gioie profonde,
allorché l’abbandono dava il suo frutto: “La donna quando partorisce, è afflitta, per-
ché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più
dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo” (Gv 16, 21). Come Gesù
abbandonato che, quale madre, nel suo straziante grido frutta la redenzione del
genere umano» (ibid., p. 85).
6
Ibid., pp. 59-60.

nuova umanità 225 123


alla fonte del carisma dell’unità
Generare un’Opera di Dio: brani di storia

7
Lettera di Chiara Lubich ad alcuni focolarini e focolarine, 14 novembre 1953,
in Archivio Chiara Lubich (d’ora in poi ACL), F 120 01 10. L’archivio citato è al cuore
dell’Archivio Generale del Movimento dei Focolari (AGMF) a Rocca di Papa.
8
C. Lubich, Igino Giordani: il confondatore, in «Nuova Umanità», 97 (1995/1), pp.
8-9.
9
Cf. la Lettera di Valeria Ronchetti a Maria Elena Holzhauser, in ACL, senza
data e segnatura. Il documento è presumibilmente degli ultimi giorni di dicembre
1953. Ad esso viene allegata la lettera di Chiara Lubich a p. Giovanni Battista Tomasi
del dicembre 1953, qui riportata.
10
Con l’espressione “popo” o “popa”, che in trentino significa ragazzo/a, si è
usato indicare, dai primi anni del Movimento, il profilo di chi, come il “bambino
evangelico”, segue Gesù nella spiritualità dell’unità e, in particolare, i focolarini e le
focolarine.
11
Lettera circolare di Enzo Fondi a focolarini/e, 16 gennaio 1954, in ACL, senza
segnatura.
12
Ibid.
13
Lettera di Chiara Lubich a Luigia Lubich, 22 gennaio 1954, in ACL, F 120 01-00 11.
14
Lettera circolare di Lia Brunet a focolarini/e, 22 gennaio 1954, in ACL, senza
segnatura.
15
Lettera circolare di Chiara Lubich a focolarine/i, 25 gennaio 1954, in ACL, F
120 01 11.
16
Lettera di Giosi Guella ai focolarini/e responsabili delle diverse zone territo-
riali, 1 febbraio 1954, in ACL, senza segnatura.
17
Lettera di Chiara Lubich a mons. Carlo de Ferrari, 13 marzo 1954, in ACL, F
140-01 01-01 02.
18
Cf. Lettera circolare di Chiara Lubich a focolarini/e, 9 marzo 1954, in ACL, F
120 01 11.
19
Poesia di Igino Giordani «Il fiore dell’Ordine di Maria», in ACL, senza data e
segnatura.
20
Lettera di p. Enrico Corrà a Chiara Lubich, 4 agosto 1954, in ACL, F 140-01
01-04 01.
21
Per un approfondimento cf. P. Siniscalco, L’Est europeo, Chiara Lubich e Paolo VI,
in Paolo VI e Chiara Lubich. La profezia di una Chiesa che si fa dialogo, Giornate di Stu-
dio, Castel Gandolfo (Roma), 7-8 novembre 2014, P. Siniscalco - X. Toscani, (edd.),
Edizioni Studium, Roma 2015, pp. 86-110.
22
Lettera di Chiara Lubich a mons. Carlo de Ferrari, 30 settembre 1954, in ACL,
F 140-01 01-01 02.

124 nu 225
lucia abignente

23
Il rapporto e la stima di p. Orlini nei confronti del Movimento si approfondi-
ranno in breve tempo. La positività del suo giudizio sembra possa aver concorso alla
conclusione del suo mandato nel 1956.
24
Cf. la Lettera di Igino Giordani a mons. Carlo de Ferrari, 7 ottobre 1954, in
ACL, F 140-01 01-01 03.
25
Lettera di Chiara Lubich a p. Andrea Balbo, 12 ottobre 1954, in ACL, F 120 01 11.
26
Cf. Lettera di Igino Giordani a mons. Carlo de Ferrari, 12 novembre 1954, in
ACL, F 140-01 01-01 03.
27
Lettera di Chiara Lubich a mons. Carlo de Ferrari, 15 dicembre 1954, in ACL, F
140-01 01-01 02
28
Ibid.
29
Ibid.
30
Va segnalato che risalgono al 1954 anche intuizioni importanti di Chiara Lu-
bich circa gli aspetti concreti della vita dell’Opera di Maria, i cosiddetti “colori”, quali
espressioni della carità. Per una conoscenza di essi, cf. C. Lubich, Una via nuova. La
spiritualità dell’unità, Città Nuova, Roma 2002, pp. 63-160.
31
Lettera di Chiara Lubich a mons. Carlo de Ferrari, 13 marzo 1954, cit.
32
Cf. C. Lubich, La vita, un viaggio, Città Nuova, Roma 1984, pp. 142-145.
33
Non sono solo stelle. All’udienza generale il Papa parla della speranza di Abramo,
in «L’Osservatore Romano», 29 dicembre 2016, p. 8.
34
Lettera circolare di Chiara Lubich ai focolarini/e, dicembre 1954, in ACL, F 120
01 11.
35
In occasione del centenario della definizione dogmatica dell’Immacolata Con-
cezione, Pio XII promulgò, per il 1954, l’Anno Mariano, il primo nella storia. Venne
aperto dal papa l’8 dicembre 1953 e chiuso il 1o novembre 1954.
36
Lettera circolare di Chiara Lubich ai focolarini/e, dicembre 1954.

nuova umanità 225 125


dallo scaffale di città nuova

Economia è cooperazione
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Un’economia civile dove la categoria del


dono come gratuità riafferma il valore della
cooperazione.

Come riaffermare oggi il principio cooperativo nelle relazioni


tra persone e tra imprese che operano in un mercato già di-
venuto globale? Da angolature diverse e sulla scorta di una
pluralità di approcci teorici, gli Autori dei dieci scritti offrono
un contributo originale attingendo alla tradizione di pensiero
dell’economia civile, saggiandone la capacità di concorrere a
sciogliere nodi problematici quali la crisi di fiducia istituzio-
nale, le difficoltà di affermare le ragioni della libertà positiva,
il peggioramento della felicità pubblica, l’eccesso delle varie
isbn forme di competizione posizionale. La prospettiva di sguar-
9788831101943 do che questo volume avanza fa perno sull’accoglimento, nel
discorso economico, della categoria del dono come gratuità,
pagine una categoria che è stata improvvidamente espunta dalla sfe-
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nu 225
alla fonte del carisma dell’unità

Storia di Light. 9
Luce e fuoco in una società assiderata

i focolari
Igino
Nell’assideramento dello spirito che l’Avversario di
Giordani Dio sta diffondendo per dilatare la morte, ecco che il Si-
gnore accende i focolari e cioè case, dove arde lo Spirito
(1894-1980)
confondatore di Dio, per vivificare le anime, sì da offrire ad esse un
del movimento rifugio e un alimento.
dei focolari. In queste case, distribuite in mezzo all’abitato, come
scrittore, centri di calore spirituale, si raccolgono cristiani dell’uno
giornalista e
e dell’altro sesso a vivere il Vangelo, restando nel mondo
parlamentare
della repubblica senza essere del mondo. Non abbandonano la loro pro-
italiana. fessione, non indossano distintivi, non si separano dagli
altri; ma convivono per l’unum sint, messaggio supremo
di Gesù la sera del sacrificio. I componenti dei focolari
si impegnano ad amare Dio con tutta l’anima, tutte le
forze, tutta l’intelligenza, sopra ogni cosa; e ad amare i
fratelli, in cui cercano la presenza del Signore, convinti
con san Paolo che ante omnia valga la vicendevole carità.
Essi sanno che dove due o tre si adunano nel nome
di Gesù, Gesù è in mezzo a loro. E siccome per amare e
farsi uno con Dio e coi fratelli sanno di dover annullare
se stessi, ecco che a questo mirano perché Cristo viva
con loro.
Per questo i componenti del focolare si mettono ad
amare i fratelli come Lui li ha amati e come Lui vuole che

nuova umanità 225 127


alla fonte del carisma dell’unità
Storia di Light. 9

siano amati: sino a dare se occorre, la vita. Intanto danno il cuore, l’ingegno e
i frutti del lavoro; mettendo in comune i beni temporali, se ne hanno, e quelli
spirituali, quanti ne hanno, piangendo con chi piange, ridendo con chi ride;
vivendo il fratello, nella convinzione che, per il tramite di lui, vivono il Cristo,
che è nel fratello: sopra tutto nel fratello che soffre.
Perciò se si dovesse definire la funzione dei focolari, si potrebbe dire che
essi sono fusione di anime raccoltesi in unità per amare; amare con un cuore
solo: il cuore di Gesù. Ignis caritas. Questo amore è un fuoco divoratore: il
fuoco di Dio che è Amore, il quale dai componenti dei focolari è donato ai
fratelli fuori dai focolari: e quanto più è donato, tanto più cresce.
Come è del pane eucaristico, nutrimento quotidiano di tali anime, il vero
amore reficit sed non deficit: nutrisce ma non si esaurisce.
E come è proprio della vita soprannaturale, esso è dato senza alcun se-
condo fine: si ama perché questo è il precetto del Signore, perché questa è la
vita del cristiano: la vita di Dio in noi. Tutto qui? I focolari non vogliono altro:
sono fucine di carità, nelle quali si mette in atto il Vangelo di Gesù, venuto
per mettere fuoco al mondo e desideroso solo che questo fuoco arda.
Naturale che, dando essi amore e cioè volgendosi verso ogni prossimo
col cuore di Gesù – definirono prossimo qualunque persona venga messa
dalle circostanze, momento per momento, a loro contatto: ricchi e poveri,
dotti e ignoranti, uomini e donne –, è naturale che il prossimo venga ai foco-
lari ad attingere fuoco: a chiedere quell’amore che è il pane di vita di cui si
ha bisogno e senza di cui più si soffre. Oggi la società muore davvero dal mal
d’amore: e cioè di penuria di questa sostanza divina della vicenda umana,
non servendo alla fame delle anime quella contraffazione o quel surrogato
che è il sentimento di solito inteso in quel vocabolo.
E chiunque si rivolge ai focolari è sicuro d’essere trattato come un fra-
tello: amato per Gesù. Questa confluenza di anime dei santi: crea una con-
vittualità spirituale che si proietta anche in solidità temporale, perché non
potrebbe amare il fratello che, potendo, non lo assistesse nelle necessità,
dividendo con lui le proprie risorse, attua insomma il disegno del Corpo Mi-
stico, in cui si vive l’un con l’altro per formare insieme l’unico corpo di Cristo.
Ciò vuol dire che non si suscita, attorno ai focolari, una organizzazione,
così come la fiamma d’un fuoco non crea un partito e un sodalizio tra coloro

128 nu 225
igino giordani

a cui esso spinge il calore; così come la luce sopra il moggio illumina, ma
non separa in un corpo chiuso le persone della stanza. Il calore è donato a
tutti e può essere cercato da tutti, laici e sacerdoti, mamme e suore, persone
di Azione Cattolica e anime perdute alla Chiesa, cristiani e pagani, asceti e
atei: tutti i fratelli e quindi tutti aventi diritto al nostro amore, che vuol dire
il nostro servizio. C’è chi, innamorato di tale ideale, che è il testamento di
Gesù vissuto alla lettera, convive più intensamente, pur rimanendo nella sua
vocazione e stato, coi focolari: ma tale convivenza, se aggiunge calore alla
attività di lui, non toglie ai suoi doveri professionali o d’apostolato.
Nei focolari ci si santifica, ma senza serrarvisi. Le sue porte sono spalan-
cate a tutti. È un raccogliersi per donarsi; con una pietà centrifuga, perché
nutrita di amore: e l’amore è fiamma che abbisogna di dilatarsi per alimen-
tarsi; mentre serrata si estingue. I Focolari – da seguaci di Cristo – si santifi-
cano santificando; curando i loro interessi eterni, servendo gli interessi dei
fratelli. Fanno la rivoluzione dell’amore, bandita da Cristo: quella che neutra-
lizzò le pseudo rivoluzioni dell’avarizia e dell’odio.
Per il fatto che si tengono sempre a servizio del prossimo, i fratelli e le
sorelle dei focolari non possono cadere nell’isolamento egoistico dei così
detti angelisti e soprannaturalisti, i quali col pretesto di darsi a Dio, diser-
tano gli uomini; neppure possono incorrere nel dissipamento futile dei così
detti naturalisti, i quali, col pretesto di servire gli uomini, trascurano la grazia
di Dio e l’unione con Lui. No: il focolare vuol essere la casa di Gesù, uomo
e Dio; posto di smistamento tra i fratelli e il Padre, conforme all’economia
umano-divina della Redenzione.
Questa vocazione perciò sta tutta nel servire e amare Dio servendo e
amando i fratelli. Poiché chi ama e chi è amato resta nella propria vocazio-
ne, non nasce alcuna vana pretesa di creare quasi dal nulla la Chiesa, che
già c’è; i focolari sono nella Chiesa, della Chiesa e per la Chiesa e nulla più;
e neppure generano un’opera nuova né costruiscono nuovi sodalizi. Essi si
fanno tutto a tutti, ma senza voler sostituire nulla e nessuno. Portano dove
possano un aiuto, un impulso vivificatore: ricreano potendo e vivificando
coscienze e istituti; ma non mortificano né disturbano. Il Vangelo è per tutti:
e la loro parola, come la loro condotta, vuol essere Vangelo vissuto nello
spirito della Chiesa, nell’obbedienza ai superiori ecclesiastici, riducendosi

nuova umanità 225 129


alla fonte del carisma dell’unità
Storia di Light. 9

il loro programma, in sostanza a vivere cum Ecclesia, nell’atmosfera accesa


dall’enciclica Mystici corporis. La loro quindi è una missione generale, per
quanto si definisca con un volto particolare rispetto alle tante opere suscita-
te da Dio in ogni tempo per attuare il suo regno.
I focolari pertanto – almeno quelli di cui si parla e che sono suscitati dal
Movimento per l’Unità venutoci da Trento – rappresentano, vogliono rap-
presentare la presenza di Gesù tra noi e dare una testimonianza alla società:
la testimonianza chiesta da Gesù nella preghiera dell’Ultima cena quando
domandò che i suoi si amassero sino farsi uno perché dallo spettacolo della
loro unità il mondo credesse alla divinità del Cristo. Ha detto il Santo Padre
che la Chiesa oggi non ha tanto bisogno di apologeti quanto di testimoni.
I focolari vogliono testimoniare che il Vangelo è più che mai vivo; in una
società assiderata, è tutto luce e arde1.

Fui interrogato, anche da personalità eminenti.


L’assistente ecclesiastico dell’A.C. mons. Giovanni Urbani mi pregò di
redigergli una testimonianza sincera sui Focolari. E lo feci volentieri, per
deferenza al superiore e per amore al Movimento, redigendo una sorta di
confessione e relazione di più che 20 pagine.
Cominciavo col riferire i miei studi.

testimonianza di foco – mariapoli 1958

Tra gli argomenti principali di cui mi ero occupato, primeggiava l’apo-


logetica. Da ragazzo ero stato colpito dalla lettura di un grande scrittore
dei primi secoli, Tertulliano, e avevo visto il cristianesimo soprattutto come
lotta. Mi ero preso come bersaglio tutti gli avversari della Chiesa del tempo
nostro e avevo cominciato a combattere a destra e a sinistra; mi ero fatto un
po’ la reputazione di un apologista combattivo assai. Avevo anche tradotto
Tertulliano, il suo capolavoro: l’Apologetico e ci avevo messo una prefazione;
il padre Rosa che era il direttore di Civiltà Cattolica, parlandone nella Civiltà
Cattolica stessa, aveva detto che la prefazione sembrava fatta da Tertulliano
e il testo di Tertulliano sembrava scritto da Giordani.

130 nu 225
igino giordani

Poi mi ero innamorato di tutti i Padri della Chiesa, fra cui mi avevano
impressionato uomini come Crisostomo, come Agostino. Il Crisostomo il
quale voleva fare una società di cristiani in cui anche i laici, anche i coniu-
gati vivessero da monaci. Questa era un’idea che mi pareva remotissima,
assurda. Ma come tutti i coniugati, io partecipavo allora (come ancora ne
partecipano tanti anche ora) di quella specie di complesso di inferiorità per
cui noi laici e soprattutto noi coniugati ci ritenevamo una razza inferiore.
Vedevo che non c’era nel calendario, nel martirologio nessun santo coniu-
gato all’infuori dei vedovi e dei martiri. Cioè bisognava diventare vedovi per
essere santi: ci voleva il morto.
Come era questa storia? Vedevo in sant’Agostino, in sant’Ambrogio
questo amore della Chiesa, questa convivenza viva alla quale erano asso-
ciati i coniugati anche gli analfabeti, anche gli operai, anche i contadini.
Sant’Agostino che chiamava i contadini africani Chiesa viva; i padri di
famiglia li chiamava compagni dell’episcopato, coepiscopi… Mi pareva che
questi grandi ideali fossero appartenuti ai primi tempi della Chiesa; che ai
tempi attuali ormai bisognasse accontentarsi delle briciole. Noi sembrava-
mo il proletariato spirituale. Così io lo sentivo, perciò mi innamoravo del
passato per rifugiarmi un po’ nelle glorie che erano state.
Altro problema che mi aveva interessato era l’unità della Chiesa. Mi
pareva che tutta la storia dell’umanità fosse una marcia di ritorno all’uno,
una marcia di ritorno a Dio; il peccato aveva fatto la divisione, la redenzione
doveva recuperarsi a fare unità, fare di tutti Cristo, il Cristo totale. E allora
vedevo con piacere movimenti protestanti di ritorno alla Chiesa dalla divi-
sione2: una divisione provocata dai poteri politici senza che il popolo ne sa-
pesse niente.
Altro argomento che mi interessava ancora molto, la sociologia, cioè
una società in cui l’uomo fosse uomo, fosse cioè libero come è stato rifatto
da Cristo; e che quindi avesse anche la libertà dalla miseria, la libertà dalla
fame, la libertà dal bisogno: una società in cui si vivesse da fratelli. È possi-
bile questo? Perciò avevo studiato i Padri della Chiesa i quali davano delle
risposte audacissime. Il cristianesimo, vedevo, era la vera rivoluzione di tutti
i tempi e così avevo scritto una quantità di libri su questa roba.

nuova umanità 225 131


alla fonte del carisma dell’unità
Storia di Light. 9

Ma che era la mia posizione? Di uno che ormai sa le idee, ma è deluso


dai fatti.
Studiavo temi religiosi con passione, ma anche per non pensare alla mia
anima del cui aspetto non ero edificato: pesava su di essa la noia; e per non
confessare questa sua paralisi io mi ingolfavo nello studio e mi stancavo
nell’azione.
Credevo che non ci fosse altro da fare: possedevo in qualche modo tutti
i settori della cultura religiosa: l’apologetica, l’ascetica, la mistica, la dogma-
tica, la morale…; ma li possedevo culturalmente, non li vivevo interiormente.
Or ecco che un giorno fui pressato di voler ascoltare un’apostola – come
dicevano – dell’unità. Fu nel settembre del 1948.
Esibii la cortesia del deputato a possibili elettori quando vennero a Mon-
tecitorio dei religiosi, rappresentanti le varie famiglie francescane, e una si-
gnorina. Veder uniti e concordi un conventuale, un minore, un cappuccino
e un terziario e una terziaria di san Francesco mi parve già un miracolo di
unità: e lo dissi.
La signorina parlò. Ero sicuro di ascoltare una sentimentale propagandi-
sta di qualche utopia assistenziale.
E invece alle prime parole avvertii una cosa nuova. C’era un timbro inusi-
tato in quella voce: il timbro di una convinzione profonda e sicura che nasce-
va da un sentimento soprannaturale. Perciò di colpo la mia curiosità si sve-
gliò e un fuoco dentro prese a vampare. Quando dopo mezz’ora ella ebbe
finito di parlare, io ero preso in un’atmosfera incantata: come in un nimbo
di luce e di felicità; e avrei desiderato che quella voce continuasse. Era la
voce che, senza rendermene conto, avevo atteso. Essa metteva la santità
alla portata di tutti; toglieva via i cancelli che separano il mondo laicale dalla
vita mistica. Metteva in piazza i tesori di un castello a cui solo pochi erano
ammessi. Avvicinava Dio: lo faceva sentire Padre, fratello, amico, presente
all’umanità.
Pregai la signorina che mi volesse mettere per iscritto quanto aveva det-
to: capivo che io avrei sciupato il suo discorso, traducendolo in parole mie.
Ella lo fece: e io pubblicai il testo su Fides (ottobre 1948)3.
Per me volli approfondire la cosa: e messo sempre al corrente della vita
dei Focolari e dello sviluppo delle comunità, riconobbi in quella esperienza

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igino giordani

l’attuazione del desiderio struggente di san Giovanni Crisostomo: che i laici


vivessero a mo’ di monaci, con in meno il celibato. L’avevo coltivato tanto,
dentro di me, quel desiderio e perciò avevo amato l’irruzione del france-
scanesimo nel popolo e la direzione verginale di santa Caterina da Siena
sui caterinati e avevo assecondato iniziative che parevano sfociare verso la
rimozione dei confini frapposti fra monachesimo e laicato, tra consacrati e
gente comune: confini dietro cui la Chiesa pativa come Cristo al Getsemani.
Una cosa avvenne in me. Avvenne che quei pezzi di cultura giustapposti
presero a muoversi e ad animarsi, ingranandosi a formare un corpo vivo,
percorso da un sangue generoso: il sangue di cui ardeva santa Caterina? Era
penetrato l’amore e aveva investito le idee, traendole in un’orbita di gioia.
Era successo che l’idea di Dio aveva ceduto il posto all’amore di Dio, l’imma-
gine al Dio vivo. In Chiara avevo trovato non una che parlava di Dio, ma una
che parlava con Dio: figlia che, nell’amore, colloquiava con Dio Padre.
Lo Spirito Santo che, nel mio bagaglio dottrinale aveva occupato un po-
sto molto, troppo secondario, accordatogli più per devozione alla dottrina
della Chiesa che per convinzione (un dogma che non mi ero mai curato di
capire, parendomi per lo meno accessorio alla Redenzione, opera della se-
conda Persona) si era animato e di colpo era divenuto anima dell’anima mia:
calore del mio amore: nesso connettivo tra me e Dio. Il mio cristianesimo
era progredito dalla Evangelizzazione alla Crocifissione sino alla Pentecoste;
si era completato. Così, avendo trovato l’Amore, mi trovai, quasi di colpo,
nel circuito della Trinità. Tutti i dogmi, tutte le nozioni uscivano dal casellario
della memoria e divenivano materia viva: sangue del mio sangue. Movevo
dalla biblioteca intasata di libri verso la Chiesa abitata da Dio.
Ora capisco che cosa stava succedendo. Dal contatto con le anime dei
Focolari, stavo ricevendo una sorta di rivelazione – o un chiarimento di ri-
velazione – che mi produceva una sorta di conversione nuova, la quale,
svellendomi dalla stasi in cui parevo murato, urgeva ad immettermi in un
paesaggio nuovo, sconfinato, tra cielo e terra, sollecitandomi a nuovamente
camminare. E ad ogni passo il passaggio si faceva più bello.
Capii allora che cosa volesse significare il Signore, nel Vangelo di Gio-
vanni, con le sue immagini di Luce, di Amore, di rinascita e di Spirito. Era en-
trato il fuoco. Lo Spirito Santo, vento impetuoso, aveva spazzato via nebbie

nuova umanità 225 133


alla fonte del carisma dell’unità
Storia di Light. 9

e schermi; sotto il Suo soffio l’incendio divampava: nella luce nuova scoprivo
Dio e il fratello.
Di fuoco ne avevo posseduto anche prima un volume discreto. Non ave-
vo sofferto penuria di combustibili. Ma era un fuoco umano, soprattutto:
dove ardeva più orgoglio di apologeta che amore di fratello, dacché, come
apostolo, volevo più vincere che convincere, da bravo scrittore anziché da
figlio di Dio. La mia prosa cattolica era nata sulla Apologetica di Tertulliano:
tuoni e fulmini. Ora invece trovare luce e calore soavemente sposi.
Ora i rapporti umani, gli stessi rapporti familiari e sociali, assumevano
un valore nuovo, apprendevo ad avvicinare le anime più con l’amore che con
l’intelligenza: così le comprendevo di più e quel comprendere era davvero
prenderle in sé per contenerle: farle proprie, viverle, amandole come me
stesso. E capivo come da una siffatta approssimazione derivasse una solida-
rietà, una convitalità che avrebbe cambiato la faccia del mondo nel periodo
della sua più cruda crisi sociale, sorta dalla difficoltà della comunicazione
del Bene e dei beni: dalla carenza della comunione.
Scoprivo sperimentalmente quella parentela asserita negli scritti sacri,
in cui Dio si muoveva come Padre, Gesù circolava come fratello, lo Spirito
Santo tesseva i legami di una bellezza insospettata; e tutta l’esistenza saliva
su, oltre i piani del rapporto di interessi e simpatie e lotte; per svolgersi in
uno scenario di pace, di logica, di luce, in un equilibrio che da solo attestava
la presenza di Dio.
Era la vita dello spirito, che si svolgeva nel circuito unico determinato
dalla convivenza di Dio, dei fratelli e di me.
Se esaminavo il fatto criticamente trovavo che non avevo scoperto nulla
di nuovo. Nel sistema di vita che si stava aprendo alla mia anima ritrovavo
i nomi, le figure, le dottrine che avevo studiato e amato. Tutti i miei studi, i
miei ideali, le vicende stesse della mia vita mi apparivano diretti a questa
meta. Nulla di nuovo: eppure tutto nuovo: gli elementi della mia formazione
culturale e spirituale venivano a disporsi secondo il disegno di Dio. Si mette-
vano al loro giusto posto. Vorrei dire, che, disuniti, si univano componendosi
in un alveo, per cui alla vita soprannaturale fu dato di liberamente e copio-
samente fluire.

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igino giordani

Quel che mi era parso, nelle agiografie, un risultato di ascesi faticoso,


riservato a rari cercatori di Dio, diveniva retaggio comune, e si capiva come
Gesù avesse potuto invitare tutti i seguaci a divenir perfetti a mo’ del Padre:
perfetti come Dio!
Tutto vecchio e tutto nuovo.
Era un nuovo congegno, un nuovo spirito. Era trovata la chiave del mi-
stero: e cioè si era dato passo all’amore, troppo spesso barricato, chiuso,
sezionato: ed esso era uscito fuori, e, a mo’ di fiamma, dilatandosi, cresceva,
sino a farsi incendio.
Quell’ascensione a Dio, ritenuta irraggiungibile, era facilitata e aperta
a tutti, essendosi ritrovata anche per la gente del mondo, la via di casa, col
senso della fraternità. Quell’ascesi che pareva terrifica (cilici, catene, notte
oscura, rinunzie) diveniva facile, perché fatta in compagnia, con l’aiuto dei
fratelli.
Rinasceva una santità collettivizzata, socializzata (per usar due vocaboli
di moda): tratta fuori dall’individualismo che assuefaceva ciascuno a santi-
ficarsi per sé, coltivando meticolosamente, con analisi senza fine, la propria
anima, anziché perderla. Una pietà, una vita interiore che usciva dai ridotti
delle case religiose, da certo esclusivismo di certi privilegiati – avulsi talora
sino a essere fuori se non contro la società, che è poi in gran parte la Chiesa
viva stessa – si dilatava nelle piazze, nelle officine, negli uffici, nelle case e
nei campi, così come nei conventi e nei circoli di Azione Cattolica, poiché da
per tutto incontrando uomini, incontrava i candidati alla perfezione, chiesta
da Gesù a ciascuno dei redenti.
Insomma l’ascesi era risolta in un’avventura universale dell’amor divino:
e l’amore genera luce.
Capii il Testamento di nostro Signore: il Suo lascito di gioia perfetta,
come conseguenza dell’unità nostra; e l’unità è frutto della carità, la quale è
la vita di Dio in noi.
Tutto ne risultò illuminato e purificato. Il dolore assunse un significato
salvifico e fu risolto in amore.
La vita apparve un disegno adorabile della volontà di Dio e ogni suo atti-
mo divenne pieno ed ebbe una sua bellezza. La natura e la storia si dispiega-
rono in trame ricche di armonia e sapienza.

nuova umanità 225 135


alla fonte del carisma dell’unità
Storia di Light. 9

E per vivere questa nuova vita, per nascere in Dio, non dovevo rinunziare
a niente delle mie dottrine: dovevo solo metterle nella fiamma della carità,
perché vivessero; e allora attraverso il fratello presi a vivere Dio. La grazia
sgorgò più libera, i diaframmi tra la sopranatura e la natura crollarono. L’esi-
stenza divenne tutta un’avventura vissuta, in unione col Creatore.
E Maria splendette di una bellezza nuova; i santi entrarono tra i familiari;
il paradiso divenne la casa comune. «Noi sappiamo d’essere passati dalla
morte alla vita, perché amiamo i nostri fratelli… Chi odia il fratello è omici-
da; e l’amicizia non ha la vita eterna dimorante in lui»: e dunque chi ama il
fratello ha invece la vita eterna in sé: il paradiso dimora in lui sin dalla vita
temporale.
Questa la scoperta, questa l’esperienza.
Avevo tanto meditato il Vangelo: or ecco che mi si svelava in una orga-
nicità e vivezza nuove. Tutto si faceva chiaro: non mi occorrevano esegesi
lambiccate. Dovevo viverlo: questo esige la vita di unità.
Vivendolo, ogni suo frammento diventava Verbo vivo, così come ogni
frammento d’Ostia è Gesù vivo. E la sua ricchezza mi era svelata, non da
professori, ma da creature semplici, che l’avevano scoperta vivendolo e
dunque vedevo sperimentalmente che le verità di Gesù erano rivelate ai pic-
coli, e non ai dotti, e quindi la sapienza stava nel farsi semplici come fanciul-
li, nel rimuovere le montagne di boria, contro cui urta la fede e si schiaccia
la carità.
Per tal modo sentii di passare dalla fede alla carità; e nel passaggio rinac-
que la speranza. In certo senso passavo dall’Antico al Nuovo Testamento:
cioè al Cristo vivo dal Cristo cercato, al completamento della legge dalla
legge incompleta.
Ovvero respiravo in Chiesa a due polmoni quando sinora avevo respirato
di solito con un polmone solo.
Penso quanti sforzi si facciano – e si perdano – per attingere questa bea-
titudine, poiché si battono strade fuori uso e disagevoli.
L’amore spinto all’unità con Cristo e coi fratelli offre una scorciatoia: o se
si vuole, appresta un reattore che sostituisce la diligenza. Una croce portata
da una creatura alla fine schiaccia; portata insieme da più creature con in
mezzo Dio, ovvero prendendo come Cireneo Gesù che si sobbarca per amo-

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igino giordani

re, la croce si fa leggera: il giogo soave. La scalata, fatta in cordata da molti,


concordi, diviene una festa, mentre procura un’ascesa.
E non ci si ferma più.
Ché la vita di Dio non è stasi. Non è pigrizia. È atto puro: marcia senza
fine verso l’infinito.
Concludendo potrei dire che prima avevo cercato: ora ho trovato. «A chi
mi ama mi manifesterò»; trovato l’amore egli si scopre come ai viandanti di
Emmaus.
E il cristianesimo, ancor più chiaramente mi si rivelò come una religione
giovane, nuova, fresca, d’una freschezza mattinale: Gesù Cristo va ancora
predicando e tuttora risuscita anime spente. Il Suo miracolo si svolge sotto
gli occhi nostri. Molti Suoi detti che parevano paradossi ecco che risultano
veri. Il soprannaturale diviene ordinario: diviene il naturale dei figli di Dio.
Via via che questi risultati si chiarivano e maturavano nel mio spirito, ve-
nivo meglio conoscendo la vita dei Focolari e delle comunità fiorite attorno
ad essi. Incontravo in essi creature d’ogni età, sesso e classe sociale: ricchi e
poveri, colti e ignoranti; e da ciascuno imparavo qualche cosa.
Ma quel che sul principio mi colpì più di tutto, fu il constatare come tra
loro non si parlasse che di Dio, della Vergine, della Chiesa: persone di casa.
Vedevo in loro, compaginati in Cristo, il Corpo mistico in atto, il quale si
esprimeva effondendo la gioia di essere Gesù. E il loro discorso era tutta
una festa: continua e densa. E non dava noia, non diventava uniforme. Na-
scendo dall’amore, si prolungava per ore sempre varie, come è vero che Dio
è sempre nuovo. E tale è l’amore Suo. Per la prima volta in vita mia, trovavo
gente, la quale parlava delle cose del Signore, nello spirito e nell’amore della
Chiesa, con una continuità, un fervore e una serietà per me sbalorditivi. E si
trattava di laici come me: di impiegati, maestre, tranvieri, mercanti, dome-
stiche, artisti e ciò avveniva in strada, in sale da pranzo, in tram, in cucina…
Lì vedevo realizzato in pieno il monito dell’Apostolo: «Sia che mangiate,
sia che beviate, sia che facciate altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio».
Una vita che era tutta una preghiera.
Seconda constatazione sorprendente fu che, mentre da per tutto e da
tutti ero accolto come un fratello, nessuno si curava (o quasi) della mia cari-
ca di deputato o della mia, diciamo così, nomea di scrittore.

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alla fonte del carisma dell’unità
Storia di Light. 9

Quelle creature vedevano in me, amavano in me, Gesù. Non si fermava-


no alla scorza, ai titoli, alle parvenze: andavano all’anima.
Dopo la mia visita scrissi così le mie impressioni:

Queste creature esercitano una maternità spirituale, pur giovanissi-


me. Semplici, hanno una maturità, una dirittura, un carattere su cui
l’avversario non deve far presa. Alcune hanno una modesta cultura:
ma tutte traggono dall’unione con Dio una capacità di direzione, che
conquista anche spiriti insofferenti. Una volta comprese, è facile e
lieta cosa sottomettersi al loro indirizzo: sorridenti trasformano,
convertono, correggono. In loro si vede come le verità del Vangelo
siano rivelate ai piccoli e la sapienza eterna si impianti in cuori docili
e umili: si capisce perché la più alta creatura fosse l’ancella più umile.
La casa è semplice come la loro anima: nuda, e pur lineare e piena di
grazia. Anche la cucina sorride della loro perenne festa.
Quando nominano Gesù, vi mettono una dolcezza, una grazia, in cui
si rivela un’interiore tenerezza: concentramento di uno sterminato
amore. Nel parlare hanno un timbro eguale, tutte. Sono diverse tut-
te, e pur similmente unificate da un solo sentimento o, come dicono,
dal solo Gesù. E in tutte è gioia, candore, abbandono. Anche chi è
distratto da una esistenza di dissipazione, riconquista tra loro la pri-
migenia innocenza.
Nella loro docilità, nella prontezza con cui servono e si sacrificano,
si inchiude una fermezza di volontà con la coscienza sicura della
meta cui tendono: arrivare a Gesù, attraverso un incendio di anime.
Nessuno le fermerà.
Concentrato l’amore su Gesù abbandonato, il dolore è fatto materia
prima – combustibile – dell’amore. Nella visione di Lui, come in un
processo fotografico, le cose si capovolgono: le negative si fanno
positive; le sofferenze diventano gioie: tutto è proiettato nell’amo-
re, in cui non si pena più, perché si fa la volontà di Dio: e «ne la sua
volontade è nostra pace».

Questa prima impressione si rinsaldò col tempo. L’esperienza mi fece ca-


pire che quella loro gioia si distillava da un quotidiano sacrificio accettato con
l’amore e vissuto col cuore del Crocifisso, meditato e amato nell’anima del

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igino giordani

Suo supremo abbandono: quello in cui, deriso dagli uomini, sotto un cielo che,
ribelle, si caricava di nembi, Egli si sentì abbandonato anche dal Padre. In Lui
la prova e le sofferenze sono risolte: e rapidamente. Le lagrime sono l’olio della
loro lampada, che arde di carità.
E così fatiche e dolori sono messi a frutto per la salute del Corpo mistico.
Per questo agisce la costante comunione di sentimenti e una carità fatta
di verità: Veritatem facientes in caritate. Per questo ciascuna di queste ani-
me ama l’altra come se stessa: ma per questo ciascuna odia l’altra come se
stessa, nel senso che ne detesta l’Io – ciò che non è Dio.
Si ama nel fratello Gesù: ciò che non è Gesù è un intralcio all’unione con
Dio.
Chi cade, chi coltiva le proprie tristezze, decade dall’unità: decade da
Gesù: e allora la comunità non si ritiene in ordine sino a che non abbia recu-
perato l’anima provata.
Il perdono ripristina l’unità. Ma esso ha da essere totale: cancellazione,
sì che non resti nulla del peccato. L’uomo cui si perdona, è “nuovo di zecca”:
il passato è distrutto, non si ricorda più, non interessa più. Conta il solo pre-
sente. Persino dei propri mancamenti è inutile star a piangere: si chiede per-
dono a Gesù e, avutolo, non ci si pensa più. Torna la serenità, come l’azzurro
sui monti trentini, sulla cui costa è impiantato il Focolare chiamato “Fuoco”:
pari a una fornace, che arde per riscaldare la città sottostante.
Mi colpì la soluzione dei rapporti dei focolarini e delle focolarine coi ri-
spettivi genitori e parenti. Genitori e parenti sono da loro abbandonati come
tali («Chi non lascia padre e madre…»), ma recuperati come fratelli, come
Gesù: e amati perciò soprannaturalmente: inseriti nella famiglia in cui uno
solo è il Padre, Dio, e una sola la Madre, Maria. Anche i bambini, anche le
persone di servizio, sono visti come fratelli: e i papà e le mamme stesse, che
vi sono nelle comunità, trattano i familiari come fratelli soprannaturalmente.
Capii così la differenza di questa da altre spiritualità, seguite dai santi:
altre vie, grandi (come la grande via del Poverello) o piccine (come la piccola
via di santa Teresina). Poiché Lui stesso è la Via, si può senz’altro immettersi
in essa: non valersi di sussidi intermediari, ma gittarsi senz’altro al centro
dell’incendio. Questo più che seguire o sant’Agostino o san Francesco o
santa Teresina o altro santo, è un seguire Lui, il Santo.

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Storia di Light. 9

L’autorità nei Focolari si esercita, ma quasi invisibile. Poiché tutto si risol-


ve in amore, ognuno desidera servire i fratelli: e l’amore è servire. E proprio
per questo chi ha la carica di capo-focolare4 (e si sceglie magari a sorte, sì
che una diplomata può dipendere da una domestica, un laureato da un fer-
roviere) è obbedito come se fosse Gesù.
L’insegnamento assimilato è questo: che la sapienza del Vangelo non
comporta caste: un’umile ancella ne può sapere più di un teologo: il curato
d’Ars più di Lamennais. «Uno solo è il vostro Maestro, e voi siete tutti fratel-
li», ha detto Gesù: e per essere tutti fratelli uno solo deve essere il Maestro,
come unico è il Padre. E il Suo magistero è questo: che si è tutti fratelli. A
buon conto chi ha funzioni più alte è posto più in basso: i criteri verso il mon-
do sono capovolti perché il livello dell’amore resta quello della fraternità.
Sotto questa grazia, questa generosità opera un’ascesi netta: o tutto o
niente. Dio è tutto. Dio solo. Chi accetta l’Ideale, accetta il Vangelo: lascia
padre, madre, campi, l’anima stessa per empire il vuoto con lo Spirito di Dio;
e prende la croce, per domare e schiantare l’io.
A Trento appresi che una delle focolarine aveva conosciuto dal medico
che sarebbe diventata cieca: «I miei occhi sono perduti», annunziò piangen-
do alle sorelle. E la sorella che faceva da capo-focolare: «Non sapevo che
avessi ancora qualche cosa di tuo. I tuoi occhi non erano dunque di Gesù?».
E questa risposta rimise la poveretta in ordine e ridiede una luce di gioia ai
suoi occhi minacciati.
Là constatai il valore della concordia di un vita espressa ogni momento
dalla fusione delle volontà, le quali cercavano appunto nella convergenza
l’espressione della volontà divina: ciò che le obbligava a cercare sempre l’ac-
cordo – l’unità degli spiriti – ad amarsi sempre per essere d’accordo con Dio,
consumandosi in uno.
Talora i componenti dei vari focolari si adunavano per raccogliersi in
qualche elevazione mistica e chi aveva la carica di capo-focolare propone-
va soggetti da meditare, dando consigli e norme: e richiamava dai difetti e
disordini.
Tutta carità e perciò nessuna pietà per le debolezze. E nessuna debolez-
za in chi richiamava. Una parte del convegno poteva essere destinata a una
sorta di “purgatorio” per il quale, estratti a sorte alcuni nomi, il nome di uno

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igino giordani

dei presenti, erano dagli altri manifestati i suoi difetti. Un giorno che io mi
trovai colà, fu estratto il mio nome; e toccò a me la ventura di essere fatto
oggetto di rilievi, che sgonfiarono un poco la mia vanità. E appresi allora, e
più volte poi, che la maggior carità sta in questa severità, che è la faccia della
verità. Intesi più che in passato come carità e verità fossero due aspetti di
Dio fra noi.
E Gesù in mezzo a quei raduni si sentiva, con una presenza calda e dolce,
che dava agli spiriti una serenità e una serietà, quale penso debba essere
degli angeli in paradiso.
Se nella comunione eucaristica Gesù collegava quelle anime nella Sua
stessa consanguineità, in questa comunione spirituale seguitava a collegar-
le col vincolo perfetto della carità: una sorta di prolungamento mistico della
comunione eucaristica, dove il fratello faceva da “sacramento” di Dio.
In quell’atmosfera, anche la correzione – come ho detto – diveniva atto
di amore. Ricordo come una delle pope non riuscisse a trattenere le lacrime
nel sentirsi scoprire certe sue manchevolezze. Queste lacrime apparvero – e
si disse – come una possibile manifestazione di vanità ferita. Essa disse con
semplicità: «Non sono io che piango, è l’uomo vecchio che suda».
Con siffatta severità gioiosa, si attende senza pietà a uccidere in tutti
l’uomo vecchio, sì che ognuno arrivi alla misura dell’età di Cristo e non viva
più lui, ma Cristo in lui.
Al “purgatorio” del mattino seguì il così detto “paradiso” nella serata:
e cioè, se prima si erano rivelate le deficienze di A, B, C, ora di queste per-
sone si rilevarono le virtù: ma con l’intesa che si lodassero, in esse, non la
persona, ma Gesù in loro. I difetti sono dell’io; le virtù di Dio. Quindi era un
lodare nelle manifestazioni delle creature, l’opera del Creatore. Ne risultava
un aumento della umiltà dei singoli e dello zelo di tutti.
Un tale spettacolo fu e resta per me la lezione, anzi il corso di eserci-
zi spirituali, più fruttuoso. Vorrei dire che queste creature, pur in mezzo a
occupazioni faticose, sono sempre in esercizio: esercizio spirituale. Sanno
che, fermandosi, retrocederebbero: la marcia è verso l’infinito e perciò sono
sempre in cammino, senza posa, prodigandosi sin oltre – e questo più volte
mi ha angosciato – sin oltre il limite delle forze fisiche. Per salvare un’ani-

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Storia di Light. 9

ma, per assistere un povero, non guardano a orario; non risparmiano salute:
sono date tutte a tutti, non guardano più a sé.
Rare volte mi è capitato, nella mia vita, di incontrare anime così pure,
libere e semplici. Sin dal principio io ho preso a riconoscere i seguaci del
nostro Ideale dagli occhi. Occhi limpidi, che vedono Dio, disimpegnati da ri-
spetti umani e calcoli di qualsiasi genere. Ma la purezza; come l’obbedienza,
la povertà, l’onestà, la pazienza ecc., non sono da loro cercate, una per una,
per se stesse: sono virtù scaturite tutte dalla carità, come conseguenza lo-
gica di esse, in cui sono incluse. Amano Dio e il fratello e, vivendo Dio, sono
naturalmente (della naturalezza soprannaturale) pure, docili, umili, pietose,
prudenti, pie, contemplative e attive.
«Hai la carità, hai la Trinità»: come ho capito questa intuizione di sant’A-
gostino!
Vidi dunque come la loro letizia interiore fosse frutto di sacrificio quoti-
diano. E assistetti a una delle sanzioni più gaudiose date dal Signore alla loro
opera, che trae ispirazioni e forza dal contemplare ­– dal vivere – l’abbandono
di Gesù in croce.
Una mattina i Focolari appresero, con la gioia comprensibile, che la Chie-
sa accordava le prime approvazioni all’Opera: la Chiesa è Cristo continuato.
Nel meriggio entrò nel Focolare principale Cristo Abbandonato medesi-
mo – il Cristo delle loro anime – sotto forma di un’Ostia consacrata tolta da
una comunione sacrilega. Abbandonata in un canto, essa era stata raccolta
– quasi strappata – dal sacrilegio consumato e dall’abuso a cui era destinata
e portata, con lacrime e preghiere, in casa, col consenso dell’Autorità eccle-
siastica. E ricordo la letizia, la commozione di quelle anime, a cui Gesù veni-
va a far visita in casa nella veste sotto la quale era stato da esse più amato,
come per una sanzione miracolosa.
Coi Focolari frequentai a Trento la comunità. Ce ne erano quasi in ogni
quartiere. Tenevano convegni, di solito con l’assistenza o la presenza di qual-
che sacerdote, per lo più in case private. Io parlavo a più convegni e la mia
emozione era sempre grande: vedevo la Chiesa in casa di A, in casa di B,
come nella casa di Prisca e Aquila. In una cucina di un quartiere operaio pro-
vai la più grande commozione: sentii la Chiesa viva; rividi la moltitudine di un
cuor solo e di un’anima sola; e mi persuasi di più che il comunismo si cura con

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la comunità. In essi i bisogni di ognuno erano sentiti come bisogni di tutti: e


ripartiti.
Sperimentando questa vita svolta nel calore dello Spirito Santo, sotto la
guida della Chiesa, incarnando il Vangelo, non è da sorprendersi se io me
ne innamorassi al punto che l’Ideale della unità divenne lo scopo e forza e
ispirazione principale della mia vita.
Me ne feci in quanto potevo un apostolo. Ricevetti da tale apostolato
tante consolazioni, ché a ogni anima avvicinata cresceva il deposito di gioia
comune.
E feci varie esperienze.
Tra queste rileverò le incomprensioni incontrate. Venivo pubblicando su
La Via vari scritti, che direttamente o indirettamente spiegavano l’Ideale.
Molti di essi erano miei, pochi, sul principio di Chiara e di altri.
Si mossero anche da amici a quegli scritti gli stessi rilievi che si anda-
vano movendo ai discorsi e in genere al Movimento nostro. Si potrebbero
ricapitolare così:
Esaltazione. Niente di nuovo. Sin dall’inizio l’Evangelo apparve follia ai
pagani e stoltezza agli ebrei. Rispetto ai gelidi calcoli del mondo, la fede cri-
stiana è un’esaltazione: potremmo dire un’esaltazione della croce. La carità
è un fervore: è fuoco. Gesù è segno di contraddizione. Gente che dà quello
che ha invece di accumulare sembra pazza a chi fida più nella cassaforte che
nella Provvidenza.
Così dei cristiani nel Cenacolo si disse che erano ubriachi. Ubriachi di
mattino. E la Scrittura dà all’infusione dello Spirito Santo il nome di ebrietas.
Onde si vorrebbe rovesciarsi sopra metrete d’acqua perché lo Spirito di Dio
venga diluito e neutralizzato. Ma – l’anima innamorata – Sanguis Christi ine-
bria me.
Utopia. Quando si dice che bisogna farsi uno, o che bisogna amare il fra-
tello sino a farci giudeo col giudeo e il resto, si osserva da taluno che queste
sono illusioni: grappoli di stelle che bucano nei cieli dell’Ideale, ma non ser-
vono in un mondo a regime elettromeccanico.
Il Vangelo cioè sarebbe un’illusione; Gesù un visionario. La realtà sa-
rebbe la sola patologia: risse e odi, furto e invidia. Il resto, la vita, la salute
dell’anima e del corpo sarebbe sogno; e Cristo va rettificato. Una quantità

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alla fonte del carisma dell’unità
Storia di Light. 9

di gente da 20 secoli s’arrabatta a correggere lo Spirito Santo. E là dove la


Parola di Gesù è chiara, come acqua di sorgiva, come aria sulle Alpi, là viene
annuvolata e nevicata sì che al posto del sì venga il ni e al posto del no sbuchi
il dubbio.
Pentecostalismo. Noi sentiamo che nel nostro Ideale spira lo Spirito Santo,
il quale vuole suscitare nelle comunità degli spiriti la difesa e la ripresa verso
il gregarismo imperversante. Ma qualche persona anche buona e amica ha
formulato timori di pentecostalismo, e cioè che noi si divenga una sorta di
protestanti pentecostali: i così detti tremolanti che scambiano i movimenti
convulsi delle persone per impulsi del Paracleto.
Nulla di ciò – rispondevo – nelle nostre adunanze. Noi viviamo con la
Chiesa: noi vogliamo essere solo Chiesa. E non si deve scambiare lo Spirito
Santo con le Sue contraffazioni. I pentecostali fiorirono dopo il Concilio an-
che fra i cattolici.
Quietismo. Anche questo rilievo si è fatto, quasi che il nostro abbando-
narsi nelle mani di Dio sia un rinunziare alla nostra libertà e responsabilità.
E invece fare la volontà di Dio – nostra norma centrale – è un fare cioè un
agire, in noi stessi e nel quotidiano rapporto coi fratelli.
«Chi ama fa la volontà del Padre»: tutto qui: ed è l’insegnamento di Gesù.
Non ho mai incontrato creature così attive, così comprese della propria re-
sponsabilità, come queste creature che, annegando se stesse in Dio, lavora-
no fino ad esaurirsi fisicamente per il regno di Lui in terra.
Panteismo. Poiché parliamo dell’unione con Dio, a certi scritti miei e di al-
tri fratelli e a certe locuzioni si è voluto dare un significato panteistico, quasi
noi annegassimo la personalità umana in Dio. E invece noi la eleviamo in
Dio: anneghiamo (o cerchiamo di annegare) quel che c’è in noi di egoismo:
quel che forma l’io carnale, perché nel vuoto entri Dio e Dio solo. I vocaboli
che esprimono questa conformazione del nostro volere di uomini in terra
con la volontà del Padre in cielo, questa convivenza delle anime nostre come
le Persone della Trinità, sono tutti nel Vangelo o negli scritti della Chiesa
e dei santi. Noi chiediamo nulla più che quanto chiede il sacerdote a ogni
Messa con le locuzioni della liturgia: di esser fatti «eius divinitatis consortes»;
e nulla di diverso da quanto insegna la liturgia circa gli effetti deificanti della
grazia santificante. Non abbiamo paura di attingere ai tesori che il Signore

144 nu 225
igino giordani

ha messo a disposizione dei figli: e non crediamo di doverci limitare ai doni


più piccoli e più comuni, dopo che – a dirla con sant’Agostino – Dio si è fatto
uomo perché l’uomo si facesse Dio.
Inutile dire che in tutto vogliamo e pensiamo quel che la Chiesa vuole e
pensa.
Altre esperienze riguardano particolarmente la mia anima; e le ricordo
perché confessare l’unità è come confessare il Cristo.
Nel così detto “purgatorio”, del quale ho fatto cenno, a Trento, fratelli e
sorelle avevano rilevato, con caritatevole spietatezza alcuni dei miei difetti
più vistosi. Il principale risultò questo: che io coltivavo sì l’unità e la carità,
ma ero restio a legarmi spiritualmente agli altri, comunicavo con difficol-
tà il mio fuoco, preferendo restare chiuso in me stesso, sì che in qualche
convegno ero rimasto come distaccato; inoltre, a dimostrazione della so-
pravvivenza dell’uomo vecchio, nel parlare avevo fatto più affidamento sulla
preparazione e sulla cultura che nell’aiuto dello Spirito Santo e sulla carità.
Mi avevano colto in flagrante.
Su questo motivo, che era del contrasto tra il mio ideale e la mia condot-
ta, tra la comunità e il mio individualismo, potrei dire, tra Dio e l’io, si doveva
svolgere la mia crisi nel seno della comunità.
I primi mesi li avevo passati in una sorta di euforia dello Spirito di Dio.
Comprendevo l’Idea, e me ne facevo l’apostolo: percorrevo di volo le tappe,
per cui l’Ideale era passato: Dio-Carità-Crocifisso-Unità-Gesù Abbandonato.
Col passar del tempo stavo assuefacendomi a una sorta di godimento
egoistico del calore dell’unità, al punto che ero portato più a nascondermi
dietro l’ultimo arrivato (e non per umiltà, ma per pigrizia) anziché assumere
un compito propulsivo quale mi era richiesto da chi dirigeva il Movimento
per mandato dell’autorità ecclesiastica e quindi per volere di Dio. L’involu-
zione era arrivata a tal punto che, quando venni richiamato, con la severità
che solo la carità può suggerire, io mi offesi: e tutto di colpo quel che avevo
guadagnato, sotto quell’improvviso rigurgito di vanità ferita, crollò: e so-
pravvenne una specie di notte oscura. Vissi per due volte 24 ore di separa-
zione atroce dalla unità, nella quale compresi qualche cosa di quel che deve
essere la pena dell’inferno, che è appunto il castigo della separazione da
Dio. Soffersi gli spasmi della lacerazione, come strappi di carne viva, dacché

nuova umanità 225 145


alla fonte del carisma dell’unità
Storia di Light. 9

dall’unità di Cristo – dalla carità di Cristo –, lo vedevo, non è possibile stac-


carsi senza morire dissanguato spiritualmente. E l’orgoglio invano copriva le
ferite con furiose emissioni di fumo e zolfo.
Fu, tutte e due le volte, una carità angelica che venne a tirarmi su da
quella perdizione. E tornai su con la coscienza più vigile e affinata: una umil-
tà maggiore: nella consapevolezza che se Dio non mi tiene inevitabilmente
casco. E una tale convinzione dà una facilità e una semplicità maggiore allo
spirito.
E così tra cadute e riprese, in poco più di un anno si è compiuta nel mio
spirito una rivoluzione. Quella rivoluzione della croce, che io avevo descritta
nella società, storicamente, si era ripetuta in me, spiritualmente: e per essa
vivo in una tensione, da cui viene alla mia età una giovinezza indicibile.
Chi mi aveva invitato a conoscere l’Ideale, mi aveva detto: «Lei mi ringra-
zierà». L’ho ringraziato; e più ho ringraziato e ringrazio Dio. Come dicevo al
focolare di Trento un giorno: «Quello che cercai mattina e sera, tanti e tanti
anni invano, è certo qui».
Questo mutamento si può anche definire una seconda vita e anche una
seconda conversione, nel senso in cui i teologi parlano di seconda e anche
terza conversione. Comunque sia, si tratta di un capovolgimento che alla
mia età non mi sarei aspettato. La mia visione delle cose è mutata: e in tutti
i casi, è fatta più luminosa. La vita mi appare più bella, piena di significati,
ché in ogni suo momento scopro la Provvidenza; uomini ed eventi mi appa-
riscono inseriti in una trama divina, che perché tale è adorabile e stupenda.
La mia anima convive con una moltitudine infinita d’anime del cielo e
della terra, del presente e del passato e sente la solidarietà con quelle del
futuro.
Cade la mia anima tante volte, però si rialza con più facilità; con più fidu-
cia nella misericordia di Dio, vedendo più Lui che sé.
Tale trasformazione ha prodotto scompiglio tra quelle persone che si
aspettavano da me più intensa cultura di ambizioni per far carriera, e di ope-
razioni per far quattrini, ora che ero tornato alla politica. E invece la politica
stessa, con la esibizione delle vanità, mi fa scuola di mistica. In nessun luo-
go, come a Montecitorio, si insegna la vanità delle vanità e si capisce che, se
non c’è Dio, siamo finiti.

146 nu 225
igino giordani

Ciò produce delusioni in persone che mi son care: ma il loro corruccio è


lo sfondo nero che dà risalto alla gioia del mio cuore.
Come autore, il culto geloso della verità, inculcato dalla spiritualità no-
stra col disprezzo di quanto è orpello e sovrabbondanza, mi insegna a scri-
vere in semplicità per quanto riesce e schiettezza: certi miei scritti di 20
anni fa, turgidi di letteratura, mi sembrano appartenenti ad altre persone.
Una dirittura assoluta m’appare fondamentale per una coscienza cristiana.
E constato che lettori, anche remoti, anche non cattolici, mi intendono mol-
to di più. Prima facilmente ferivo chi pensava diversamente: ora non vorrei
ferire più nessuno. Combattere l’errore ma amare gli erranti. Non dico che
sempre ci riesca: ma comunque quam mutatus ab illo! E questa constatazio-
ne mi dà una pace e una gioia nuove. Prima ero spesso in rovello per pole-
miche. Ora le polemiche le porto – e cerco di portarle – su un terreno di pura
razionalità, sì da divenire, spesso, amico del mio antagonista. Il Vangelo, il
Cristo, è il punto d’incontro di quanti pensano razionalmente.
E questo ho constatato anche nell’agmen politico. I discorsi che ho tenu-
to nell’aula parlamentare li ho concepiti e svolti nello spirito di questo ideale,
sentendo la responsabilità di uno che parlando impegna una fede e in certo
senso rappresenta Gesù; e, pur affermando con tutta nettezza le antitesi col
materialismo, ho affermato soprattutto le verità integrali e radicali del Van-
gelo: e queste – ho visto – piacciono a tutti: mi han procurato così l’amicizia
anche di marxisti, che parevano remotissimi, sì da darmi la convinzione che
verso Cristo – verso il Vangelo – non esistono avversari. Ho sentito che se
noi cattolici fossimo più leali col Signore, più fedeli al Suo messaggio e des-
simo col fatto la testimonianza, di cui ci diede l’impegno nel Suo Testamen-
to, innumerevoli creature distaccate dalla religione tornerebbero, convinte
e soddisfatte.
L’errore di tutti è dovuto alla carenza di noi, ortodossi a parole e etero-
dossi a fatti.
Parlai dell’Ideale anche a Montecitorio. Un giorno, in un’aula della Came-
ra, feci ascoltare Chiara a una decina di deputati. Restò un desiderio in al-
cuni; qualcuno fu preso e promosse la costituzione di una comunità nel suo
collegio. E si fece che, considerandoci alcuni di noi riuniti in aula, nel nome

nuova umanità 225 147


alla fonte del carisma dell’unità
Storia di Light. 9

di Gesù, Egli fosse presente di persona, seppure mancasse un’immagine di


bronzo. E se Gesù era con noi, chi contro di noi?
Più volte infine ho parlato dell’Ideale sui giornali e nelle conferenze: anzi
non so più scrivere o parlare che il mio cuore non mi trascini su quel tema
vitale. Ho fatto de La Via un veicolo delle nostre idee, e della redazione un
piccolo focolare, nel quale circola l’amore di Dio sì che ne resti improntato il
periodico che stampiamo.

1
Questo capitoletto “I focolari” è stato pubblicato sul quotidiano: «Vita trenti-
na» di giovedì 11 maggio 1950, firmato da Igino Giordani.
2
Queste affermazioni, e soprattutto il modo di esprimersi, sono da compren-
dersi considerando l’epoca in cui Giordani scrive.
3
La comunità cristiana, in «Fides», 48 (1948) n. 10, pp. 279-280 testo succes-
sivamente ripubblicato in C. Lubich - I. Giordani, «Erano i tempi di guerra…», Città
Nuova, Roma 2007, pp. 44-48.
4
Il termine “capo” non viene più usato nell’ambito del Movimento dei Focolari,
perché sottolinea troppo l’autorità, mettendo in secondo piano l’amore fraterno e il
servizio. Viene attualmente usata piuttosto la parola responsabile.

148 nu 225
in biblioteca

Oltre la crisi della Chiesa.


Il pontificato di Benedetto XVI
R. Regoli, Oltre la crisi della Chiesa. Il pontificato di Benedetto XVI,
Lindau, Torino 2016, 512 pp., 29,50 €.

La ricerca storica nasce dalla posizione di una domanda, di un desiderio


di conoscenza, che voglia leggere e chiarificare la realtà passata, presente e
futura in cui l’uomo si riconosce coinvolto. Anche nella storia della Chiesa le
indagini procedono dalle domande relative a vicende e protagonisti, che coin-
volgono l’intera esistenza della Chiesa nel suo accadere e svilupparsi. Il libro di
Roberto Regoli vuole dare il proprio contributo a queste indagini, proponendo-
si tra i primi studi per una storia prossima della Chiesa, in particolare attorno
alla figura di Benedetto XVI. Il vissuto ecclesiale degli ultimi anni, infatti, non
può non riservare spazio alla figura dell’attuale papa emerito: al suo pensiero
come teologo fin dagli anni del Concilio Vaticano II, al suo impegno alla guida
della Congregazione per la Dottrina della Fede accanto al predecessore Gio-
vanni Paolo II, al suo magistero di pastore della Chiesa Cattolica, infine all’atto
di rinuncia del ministero petrino. Le novità del magistero di Benedetto XVI e le
peculiarità del suo pensiero non sono solo occasione di notizia e dibattito cor-
rente, ma, oltre all’interesse evidente nella stampa e in recenti pubblicazioni,
esse suggeriscono quali domande porre per approfondire consapevolmente i
cambiamenti circa la missione ecclesiale, sotto la guida pastorale di Ratzin-
ger. Regoli, cogliendo questo interesse, sceglie di redigere una raccolta dei
molteplici e complessi elementi del pontificato di Benedetto XVI, attraverso
la sensibilità e l’esperienza di storico che «ha vissuto ciò che racconta» (p. 10)
e ha «il privilegio di conoscere ciò che segue e come si conclude, almeno sul
breve periodo» (p. 10). Così, senza presumere di riuscire o di voler scrivere
una biografia di Benedetto XVI, l’autore definisce il suo volume «una bozza
della storia del suo pontificato» (p. 11), offrendo uno strumento di lettura e
interpretazione, per una futura storia della Chiesa e per una odierna compren-
sione del cattolicesimo attuale.

nuova umanità 225 149


in biblioteca

La ricostruzione del pontificato benedettino si struttura tra le dinamiche


del conclave del 2005 – delineatesi nel racconto di Regoli fin dal 2002 e
concluse con l’elezione del cardinal Ratzinger, da lui non voluta ma accet-
tata – e le sorprendenti ma ponderate dimissioni del papa, rassegnate l’11
febbraio 2013. All’interno di questi due avvenimenti, l’autore dedica interi
capitoli alle molte questioni significative degli otto anni di magistero: dagli
avvicendamenti nella curia romana alla diplomazia pontificia, dai program-
mi alle urgenze di governo universale, dalle sfide interne al mondo cristiano
a quelle del dialogo con la cultura e le realtà extra-ecclesiali. La bozza non
ha pretese di esaustività, ma presenta un quadro quanto più ampio possibile
del pontificato gettando lo sguardo non solamente alle responsabilità e ori-
ginalità di Benedetto XVI, ma anche ai molti nomi, eventi e dinamiche della
Chiesa sotto gli aspetti istituzionale, teologico-pastorale e storico-culturale.
Così, per l’ampiezza dei rimandi di temi e di rapporti, l’opera di Regoli si
distingue per la premura di non privilegiare l’atto della rinuncia come pro-
spettiva di memoria storica. Infatti, sebbene di assoluto rilievo, le dimissioni
di Ratzinger non sono l’unica novità della sua eredità all’autocomprensione
della Chiesa, poiché egli ha aperto e proseguito diversi processi verso una
maturazione della Chiesa post-conciliare.
Note le intenzioni dell’autore, l’approccio al libro disattende sia gli ap-
passionati al giornalismo, in cerca di una rapida lettura di impatto ma priva
di metodo storico, sia coloro che già si interrogano su quale giudizio storico
formulare circa il pontificato di Benedetto XVI. Infatti, il libro non rivela né
formula giudizi precisi, che osino andare al di là degli orientamenti essenzia-
li, tracciabili dai numerosi dati, ordinati dal testo. Paolo Valvo, per una pre-
sentazione del volume su Vatican Insider nel maggio 2016, riconosce “ambi-
zioso” l’obiettivo di Regoli, a causa della quantità e della qualità delle fonti
bibliografiche e documentarie attualmente disponibili. Queste appaiono
insufficienti per poter affrontare dal punto di vista storico avvenimenti così
vicini all’autore e alla odierna capacità di studio. Concordemente, Andrea
Riccardi, sul Corriere della Sera del 28 giugno 2016, insiste sulla difficoltà
delle fonti e sul rischio per lo storico contemporaneo di essere assimilato al
giornalista. Oltre ai testi promulgati ed editi dei discorsi, delle encicliche e
di altri documenti ufficiali di Benedetto XVI, occorre, infatti, far riferimento

150 nu 225
Oltre la crisi della Chiesa. Il pontificato di Benedetto XVI

– con la consapevolezza dell’autore – alle indiscrezioni della stampa e alle


“fughe di notizie” riservate del papa (come nel caso Vatileaks del 2012), per
completare la collezione spendibile di fonti. Tuttavia, lo studio condotto da
Regoli si distingue dal giornalismo, poiché le moltissime informazioni – pur
nell’aleatorietà delle loro fonti – sono disposte per una ricostruzione detta-
gliata, cercando una lettura d’insieme ed equilibrata. Riccardi evidenzia, an-
cora, il coraggio e l’intelligenza con cui l’autore prende in esame il magistero
così articolato e convincente di Benedetto XVI, proponendo un primo inizio
di sistematizzazione e di indagine storica. Uno sguardo critico al volume
deve sfogliare, infine, la bibliografia selezionata. L’autore ne avverte la non
esaustività (cf. p. 12), ma le numerose voci dei documenti del magistero, di
pubblicazioni di vaticanisti e della stampa, di alcuni studi storici (tra cui la
voce di Giovanni Miccoli), rappresentano un panorama vario, consultato e
consultabile anche dai lettori meno avviati alla ricerca.
Cosa può suggerire il titolo “oltre la crisi della Chiesa”? La copertina del
libro accompagna il titolo con una foto di papa Ratzinger, cui immediata-
mente sembra potersi associare il concetto di crisi. Si tratta di lanciare una
questione ricorrente oggi, ma ormai inflazionata: la crisi della Chiesa. Poiché
un comune sentire ed esprimersi attribuiscono significato negativo alla pa-
rola “crisi”, è invece interessante riscoprirne il valore positivo ed essenziale,
in ogni processo di cambiamento e di vita. Se un appunto alla presentazione
del libro, col suo titolo, può riguardare l’accostamento ad altre pubblicazioni
(per esempio, quella del giornalista Marco Politi, nel 2011, Joseph Ratzinger.
Crisi di un Papato) e alle valutazioni esplicite non brillanti, che descrivono il
pontificato di Benedetto XVI come un pontificato in crisi o caratteristico
di un’epoca di crisi della Chiesa, la lettura delle analisi di Regoli conduce
altresì a riflettere sulla necessaria crisi della (e nella) vita ecclesiale. Infatti,
la constatazione della crisi di una realtà non è sinonimo del suo declino,
inaspettatamente o causalmente procurato; piuttosto una realtà in crisi di-
viene consapevole dei mutamenti interni ad essa, che le impongono scelte,
decisioni, distinzioni, giudizi tra i suoi modi di esistere non più fecondi e le
“nuove forme” con cui ri-vivere la propria identità originaria. La storia della
Chiesa è l’ambito più proficuo per decifrare la rilevanza delle crisi quali mo-
menti di svolta, di autocoscienza, di maturazione del principio secondo cui

nuova umanità 225 151


in biblioteca

ecclesia semper reformanda est. Un motivo ricorrente nei capitoli del volume,
che sintetizza le linee essenziali proposte da Regoli per comprendere il pon-
tificato di Benedetto XVI (cf. pp. 416-418), è “riforma”. Il ruolo e le scelte di
Ratzinger sono misurate da uno «spirito riformistico» (p. 88), necessario
per rilanciare il cattolicesimo, nel solco dello spirito conciliare secondo la
sua corretta «ermeneutica della riforma» (p. 128), estendibile ad ogni espe-
rienza della Chiesa contemporanea, quando viene letta a confronto con le
sfide del suo contesto socioculturale (cf. pp. 130; 420). L’autore sottolinea
i passaggi di crisi-riforma condotti da Benedetto XVI in ogni ambito e mo-
mento del suo magistero: la trasmissione della fede (cf. pp. 86-108), la cu-
ria, la liturgia, l’ecumenismo, l’etica (cf. p. 302), il ministero petrino (cf. p.
412) sono tutti significativi esempi dei dinamismi di “rinascita” spirituale e
pastorale. La categoria di riforma illumina un’adeguata considerazione del-
la “Tradizione” come di quell’unica identità ecclesiale che sa non sottrarsi
all’esigenze di dialogo, di ricostruzione di unità, di «restaurazione innovati-
va» (p. 129) o di modernizzazione, di consolidamento e rilancio (cf. p. 415)
in ogni epoca. Queste vie, apparentemente contrastanti, vengono percorse
da Benedetto XVI. Con intuizioni e tentativi – non esenti da critiche da parte
dei media e delle sensibilità più distanti – egli recupera diverse sfide interne
alla recezione e all’attuazione delle riforme conciliari, alle tensioni tra cri-
stiani o tra religioni (come il caso dei lefebvriani, le esigenze dello “spirito di
Assisi”), ai cambiamenti della politica, della cultura e della tecnica. Quello di
Ratzinger è «un pensiero che provoca» (p. 329) ad intra e ad extra la missio-
ne ecclesiale, guidata dalla centralità di Cristo e dall’intelligenza della fede e
teso alla promozione e alla garanzia dei princìpi di pace, libertà di coscienza
e religiosa, valori non negoziabili, carità nella verità (cf. p. 381).
Le domande, cui la storia potrà provare a riflettere, riguardano queste
spinte di innovazione, sui molti campi della vita ecclesiale. La lettura del
volume di Regoli ne consegna una prima sistematizzazione e visione d’in-
sieme, per incoraggiare e attendere la ricerca sul pontificato di Benedetto
XVI, a partire dal suo «riformismo ecclesiale e soprattutto papale» (p. 417).
Un riformismo, affrontato nonché sofferto, in grado di condurre la Chiesa
“oltre la crisi”.
Luca Montelpare

152 nu 225
Povertà e gratitudine in Georg Simmel

Povertà e gratitudine in Georg Simmel.


Declinazioni inedite della crisi post-moderna
A. Golino - M.L. Paglione, Povertà e gratitudine in Georg Simmel. Declinazioni
inedite della crisi post-moderna, Mimesis, Milano, 2015.

Mentre l’Europa arranca, schiacciata da incertezze politiche interne e da


debolezze strutturali croniche che le impediscono di gestire l’attuale emer-
genza umanitaria dei migranti, lo spettro della crisi torna ad agitarsi freneti-
co. E questa volta non si tratta di una bolla speculativa americana ma della
prima vera battuta d’arresto del dragone rosso. In un contesto di società
post-moderna così fortemente globalizzata e interdipendente, è sufficiente
il crollo della borsa cinese per veder cedere tutte le principali piazze inter-
nazionali. La paura del contagio è palpabile e assieme ad essa si fanno più
evidenti gli effetti che una crisi comporta: recessione economica, instabilità
politica, precariato, disoccupazione e povertà, solo per citarne alcuni. Come
se non bastasse, poi, il fallimento dei tradizionali modelli di Welfare State è
sotto gli occhi di tutti, il loro approccio risulta obsoleto e dunque inadatto a
fronteggiare i problemi legati alla giustizia sociale e alle politiche di contra-
sto alla povertà.
Date queste premesse, interrogarsi sul complesso problema della po-
vertà in termini sociologici non solo costituisce un arricchimento del con-
temporaneo panorama letterario-accademico, ma consente anche di far
emergere rilevanti analisi che, muovendo da studi tradizionali, propongono
prospettive innovative in grado di delineare metodologie differenti, nonché
casi empirici, atti a sostenerle con dati concreti.
È lungo questo asse concettuale che si muove il percorso di Antonella
Golino e Maria Licia Paglione1, due giovani ricercatrici che, partendo da due
saggi di Georg Simmel – Il povero (1906) e La gratitudine. Un tentativo socio-
logico (1907) –, dimostrano come alcune intuizioni del sociologo berlinese
non solo siano attuali ma presentino numerosi punti in comune con la Teoria
dei beni relazionali. Quest’ultima, sorta negli anni ’80, concentra la propria

nuova umanità 225 153


in biblioteca

attenzione sulla dimensione relazionale degli individui all’interno della so-


cietà, riconoscendo in essa la chiave di lettura imprescindibile per compren-
dere e spiegare il fenomeno post-moderno del “Paradosso della felicità2”
nonché per affrontare la questione della povertà da un punto di vista inedito.
Senza alcuna forzatura, Povertà e gratitudine in Georg Simmel. Declinazio-
ni inedite della crisi post-moderna crea una rete di richiami e connessioni tra
passato e presente, tradizione sociologica e sperimentazione teorica ancora
in fieri, con lo scopo ultimo di offrire spunti per una riflessione critica più
completa sulla crisi attuale e sul suo possibile superamento. In numerosi
passaggi il libello evidenzia l’acume del sociologo nel rifiutare l’idea che la
povertà sia un fenomeno semplice, misurabile oggettivamente attraverso
dati quantitativi. Non è l’indigenza materiale a definire il povero ma la re-
lazione sociale che subentra nel momento in cui questo riceve aiuti e/o as-
sistenza. Per di più, il povero si ritrova a vivere, suo malgrado, una doppia
condizione, paradossale ed estraniante, che lo vuole all’interno del gruppo
sociale ma contemporaneamente al di fuori, poiché non contribuisce po-
sitivamente alla vita dello stesso. Ecco dunque che il concetto di relazione
emerge in ogni aspetto dell’analisi simmeliana; la società stessa si fonda
sull’insieme delle interazioni e delle relazioni tra gli individui, da qui l’idea
che la povertà non possa essere semplicisticamente ridotta a una condizio-
ne personale di scarsità economica ma includa una deficienza relazionale
che pone il povero in un limbo esistenziale da cui è difficile uscire. Ma Sim-
mel va oltre, non si accontenta di indagare la malattia, ne cerca anche una
cura, che rintraccia nella gratitudine, perno attorno a cui ruota la solidità
dell’intera società. Scevra dagli obblighi normativi che regolano il mondo
economico e giuridico, la gratitudine alimenta quel circolo virtuoso intessu-
to di particolari legami sociali che lasciano una traccia profonda nell’animo
umano. Con quasi un secolo di anticipo, dunque, Simmel scorge l’antidoto a
ciò che oggi viene definito da molti sociologi povertà relazionale, una delle
molteplici dimensioni del fenomeno, spesso trascurata per via del suo ca-
rattere sfuggente.
Solo in apparenza lontane, povertà e gratitudine si muovono lungo lo
stesso tracciato e il lavoro a quattro mani della Golino e della Paglione non
poteva non chiudersi con un accenno alla possibilità concreta di ricomporre

154 nu 225
Povertà e gratitudine in Georg Simmel

la povertà relazionale attraverso forme di sviluppo incentrate proprio sul


concetto di gratitudine.
A raccogliere e portare avanti la sfida è l’Economia di Comunione che,
attraverso la redistribuzione degli utili delle imprese aderenti sotto forma
di aiuti, cerca di innescare una spirale positiva in cui la gratitudine per il so-
stegno ricevuto incentiva la trasformazione dei poveri in attori sociali attivi.
Questi ultimi, infatti, non solo riacquisiscono il proprio ruolo nella collet-
tività, ma fanno sì che anche coloro che sono invisibili riscoprano la loro
identità sociale.
Il rovesciamento della società dei consumi appare dunque completo.
Incentivare i beni relazionali e la gratitudine non significa solo tendere ad
una collettività senza poveri, ma permette all’umanità nel suo insieme di
(ri)fiorire.

Claudia Gifuni

1
Rispettivamente dottore di ricerca sociale e assegnista di ricerca presso il Di-
partimento di Scienze umanistiche sociali e della formazione dell’Università degli
studi del Molise e dottore di ricerca in Scienze sociali presso l’Università di Chieti-
Pescara.
2
Espressione coniata nel 1974 da Easterlin per indicare il mancato aumento di
felicità in corrispondenza di un miglioramento del reddito.

nuova umanità 225 155


in biblioteca

murales
di Giovanni Berti

156 nu 225
english summary

controcorrente creativity. The multiple and convergent


movements characteristic of the melo-
Unity and Discernment: The Paths dious and imposing symphony that is
of Synodality wisely orchestrated in his theological
B. Leahy and magisterial works can be apprecia-
ted from this point of view.
p. 5
The Holy Spirit is indicating through
pope Francis a step to be taken in the life The Theological Anthropology
of the Church calling for a collective re- of Ratzinger
sponse. The call is to a style and praxis
of communitarian discernment, avoid- A. Bergamo
ing polarization and actuating the syno- p. 17
dality characteristic of the Church’s very This contribution traces the theological
identity. We need to live a “mysticism of anthropology that springs from the re-
the meeting”, a communitarian spiritu- flection of Joseph Ratzinger from three
ality to be lived in the Church’s daily life. important points of view: the human
being as person, the dynamism of rela-
tion as an orientating centre of personal
Focus identity, the reciprocity that unveils the
trinitarian horizon towards which per-
per i 90 anni di benedetto xvi
sons in Christ are directed.
God’s Heredity in the Patrimony
of the Faith
The Message of Caritas in veritate
P. Coda
S. Zamagni
p. 9
p. 29
The cantus firmus of the witness and the
theology of Joseph Ratzinger and of the Having clarified in what sense Caritas in
teaching of Benedict XVI represents a veritate can be considered the first so-
precious sustenance for all of us on our cial encyclical of postmodernity, this es-
journey. This is grounded in the clear say focuses on three important themes
awareness and penetrating understan- characteristic of Benedict XVI’s docu-
ding that “God’s heredity,” which huma- ment: the broadening of the notion of
nity itself is destined to receive and in social justice, the entry of the theme of
which the success of its pilgrimage in hi- gift into economic action, the concept
story depends, is conserved in the “pa- of integral human development. It con-
trimony of the faith” of which the church cludes with a reference to the relation
is called to be protector and administra- between peace and the struggle against
tor. This is true in our time too, a time inequality.
of new departures and unprecedented

nuova umanità 225 157


english summary

scripta manent has come to constitute a difficulty for


the majority of christians of other chur-
Saint Francis of Assisi ches. The same encyclical spoke of the
Benedict XVI shared desire to find a manner of exer-
p. 45 cising this office which, without sacrifi-
cing the essential, could be embraced
In the general audience of the 27 Janu-
by other christians. In this context, the
ary 2010, pope Benedict spoke simply
document produced by the Joint Inter-
but powerfully of the figure of saint
national Commission for Theological
Francis of Assisi. Today we look once
Dialogue between the roman catholic
again at that “true giant of the faith” – as
Church and the orthodox Church entit-
the pope defined him on that occasion
led Synodality and Primacy during the
– through the eyes of Benedict XVI, and
First Millennium: Towards a Common
find in his words something of a pro-
Understanding in Service to the Unity of
phetic anticipation of some program-
the Church (Chieti, 2016) is an impor-
matic lines of development of the pon-
tant step ahead. Attention will now turn
tificate of his successor, the pope who
to addressing the differences regarding
bears the name of the saint of Assisi.
the office of the bishop of Rome that
Care for creation, the relationship be-
arose during the course of the second
tween charism and institution, the deli-
millennium of the Church, and specifi-
cate theme of the reform of the Church,
cally to the theological interpretation of
the thorny question of interreligious dia-
the teaching of the First Vatican Council
logue and dialogue between christianity
regarding papal primacy.
and islam in particular are some of the
themes that pope Benedict highlights in
his personal portrait of saint Francis. punti cardinali
Ecclesial Movements and Nostra
parole chiave aetate: A Reading in the Light of
Bishop of Rome the Magisterium of Pope Francis
D. O’Byrne R. Catalano
p. 53 p. 61
This contribution offers a brief reflection Seeking the sense of subsidiarity is far
on the office of bishop of Rome. John from easy. The field of study here is lin-
Paul II’s encyclical Ut unum sint (1995) ked to one particular time with the in-
recognized that while, on the one hand, tention of highlighting the inspirational
the roman catholic Church preserves in capacity of subsidiarity referred to the
the office of bishop of Rome «the visi- Social Doctrine. Subsidiarity expresses
ble sign and guarantor of unity», the a synthesis between liberal thought, so-
papal office as it developed historically cialism, democracy and federal thought,

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english summary

and has been welcomed into the legal be one» (Jn 17, 21) – which is the char-
frameworks of Italy and Europe. ismatic mandate and mission of the
movement itself. The meeting ground
In Dialogue with Muslims: Living that the foundress, Chiara Lubich, indi-
cated is the humanity of Jesus, for chris-
Unity in Diversity Together tians the man-God, whose Word is im-
P. Lemarié portant for all those who seriously wish
p. 77 to engage in dialogue with the values of
existence. By way of example, we offer
The Focolare Movement was born of an
an interview with Moreno Orazi, a non-
ecclesial charism whose first fruits are
believing architect, who is part of the
a spirituality of communion and a mo-
community of the Focolare Movement
vement in the catholic Church which is
open to all those who wish to become in Spoleto (Italy).
part of it, including muslims. This es-
say offers a synthetic presentation of alla fonte del carisma dell’unità
how its spirituality has been offered to
muslims, looking at both form and con-
Generating a Work of God:
tent. It will be based on speeches made Movements of History
by Chiara Lubich to muslims in which L. Abignente
deep accord with Ecclesiam suam and
Nostra aetate is manifest. p. 109
70 years after the approval at the dioc-
Deep Dialogue: Interview to esan level of the Focolare by the arch-
bishop of Trent, Carlo de Ferrari, this
Moreno Orazi article looks at the period of waiting for
A cura di F. Kronreif the definitive approval on the part of the
p. 95 church of Rome during the 1950s. This
period was characterized by careful
Is deep dialogue between believers and
study by the Holy Office of the person
non believers really possible? What is
of Chiara Lubich and the new ecclesial
the meeting ground upon which this
reality that she had brought about. The
dialogue can take place in such a way
article concentrates especially on the
as to permit the reciprocal respect of
year 1954 to study, on the basis of un-
the dialogue partners and respect of
the truth? The experience of the Foco- published documents, the rapid devel-
lare Movement, which includes persons opments which appeared to suggest
without religious faith, testifies that hope or threaten the dissolving of the
not only that such dialogue is possible, movement. These were precious mo-
but that it is to be encouraged and in- ments of light and trial, lived in faithful-
deed necessary in order to bring about ness to God and to the Church.
the testament of Jesus – «That all may

nuova umanità 225 159


english summary

Story of Light. 9. Light and Fire in a that this brought to his life as a catholic
Frozen Society author, lover of the Church fathers, and
responds point by point to questions
I. Giordani raised about the Focolare Movement.
p. 127
The evangelical life of the Focolare, in biblioteca
while giving strong witness to the sur- p. 149
rounding society, also raised criticism.
A highly placed member of the Church murales
hierarchy asks Giordani to speak of
his experience, and Igino describes his G. Berti
meeting with Lubich and the newness p. 156

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