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controcorrente
Unità e discernimento: percorsi di sinodalità - B. Leahy_________» pp. 5-8
Con papa Francesco, lo Spirito Santo sta indicando un passo in avanti che ci inter-
pella tutti insieme nella Chiesa: puntare su uno stile e una prassi di discernimento
comunitari per evitare la polarizzazione e attuare così quella sinodalità che carat-
terizza l’identità stessa della Chiesa. Per fare questo occorre vivere una “mistica
dell’incontro”, ovvero una spiritualità comunitaria da attuare nel quotidiano della
vita ecclesiale.
Focus
Per i 90 anni di Benedetto XVI
L’eredità di Dio nel patrimonio della fede - P. Coda ____________ » pp. 9-16
Il cantus firmus della testimonianza e della teologia di Joseph Ratzinger e del ma-
gistero di Benedetto XVI costituisce un prezioso viatico per noi tutti. Esso, infatti,
è sostanziato dalla lucida consapevolezza e dalla penetrante intelligenza che l’“e-
redità di Dio”, di cui l’umanità è destinataria e in cui riposa la riuscita del suo pel-
legrinaggio nella storia, è racchiusa nel “patrimonio della fede” di cui la Chiesa è
chiamata a essere custode e amministratrice anche oggi con nuovo slancio e inedita
creatività. Di qui si possono apprezzare e si può far tesoro dei molteplici e con-
vergenti movimenti che descrivono l’ariosa e imponente sinfonia orchestrata con
sapienza nella sua opera teologica e magisteriale.
scripta manent
San Francesco d’Assisi - Benedetto XVI _____________________ » pp. 45-51
Nell’Udienza generale del 27 gennaio 2010, papa Benedetto ha tratteggiato, con
poche ma dense pennellate, la figura di san Francesco di Assisi. Forse è ancor più
significativo tornare oggi a guardare a questo «autentico “gigante” della fede»
– così lo definiva il pontefice in quell’occasione – con gli occhi di Benedetto XVI,
e poter rintracciare nelle sue parole quasi l’anticipazione profetica di alcune linee
programmatiche del pontificato del suo successore, che del santo di Assisi porta
significativamente il nome. La cura e la custodia del creato, il rapporto tra carisma e
istituzione, il delicato tema della riforma della Chiesa, le spinose questioni del dia-
logo interreligioso e cristiano-islamico in particolare, sono alcuni dei temi che papa
Benedetto fa emergere dal suo personale ritratto di san Francesco.
parole chiave
Vescovo di Roma - D. O’Byrne ______________________________» pp. 53-59
Questo contributo offre una breve riflessione sul ministero del vescovo di Roma.
L’Ut unum sint di Giovanni Paolo II (1995) riconosce che, anche se la Chiesa Cat-
tolica Romana è conscia di avere preservato nel ministero del vescovo di Roma «il
segno visibile e il garante dell’unità», nel suo sviluppo storico questo ruolo continua
a costituire una difficoltà per la maggior parte dei cristiani di altre Chiese. La stessa
enciclica parla del desiderio condiviso di trovare un modo di esercitare questo mini-
stero che, senza sacrificare l’essenziale, possa essere abbracciato da altri cristiani.
In questo contesto, il documento prodotto nel 2016 a Chieti dalla Commissione mi-
sta per il dialogo tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, dal titolo Sinodalità e
Primato nel Primo Millennio. Verso una comune comprensione nel servizio all’unità della
Chiesa, rappresenta un passo importante. Su questa base si potranno affrontare le
differenze riguardo al ministero del vescovo di Roma che sono nate durante il secon-
do millennio, e in modo particolare l’interpretazione teologica dell’insegnamento
del Concilio del Vaticano I riguardo al primato del papa.
sommario
punti cardinali
Movimenti ecclesiali e Nostra aetate. Una lettura alla luce
del magistero di papa Francesco - R. Catalano ________________ » pp. 61-75
Nell’ottobre del 2015 si sono celebrati i cinquant’anni della pubblicazione del de-
creto conciliare Nostra aetate, un documento, per dirla con Benedetto XVI, destina-
to, insieme a quello sull’ecumenismo (Unitatis redintegratio) e a quello sulla libertà
religiosa (Dignitatis humanae), a lasciare un segno profondo nella Chiesa. Questo
articolo propone una riflessione sul ruolo che movimenti e comunità ecclesiali, nati
negli anni precedenti o successivi al Concilio, hanno avuto nello sviluppo del dialogo
fra persone di diverse fedi e tradizioni religiose sulla scia aperta da Nostra aetate.
in biblioteca
Oltre la crisi della Chiesa. Il pontificato di Benedetto XVI -
L. Montelpare __________________________________________ » pp. 149-152
Unità e discernimento:
percorsi di sinodalità
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brendan leahy
così fino a quando non riceveva luce. Oggi stiamo scoprendo il “taberna-
colo” di Gesù fra noi nella comunione vissuta alla luce di una spiritualità
sinodale. Per avere la mente di Gesù (cf. Fil 2, 5) dobbiamo adottare nei
nostri rapporti una logica della “piramide capovolta”. Occorrre che ognuno
si lasci alle spalle l’egemonia del proprio “io” per immedesimarsi con l’altro
e col suo modo di pensare e vedere le cose. E occorre che ciò venga fatto
insieme, in modo che il nostro rapporto reciproco “generi” la luce del Cristo
fra noi. Ma ciò costa. Ci vuole una morte, ma è una morte per amore, che
genera luce e vita.
Ringraziamo Dio per il dono del papa che, ai nostri tempi, ci chiama a
nuovi percorsi di sinodalità proprio nel campo del discernimento. Per volon-
tà di Gesù Cristo, il papa, come afferma il Vaticano II, è «il perpetuo e visibile
principio e fondamento dell’unità tanto dei Vescovi quanto della moltitudine
dei fedeli» (Lumen gentium 23). Con lui camminiamo al sicuro per affrontare
cum Petro et sub Petro, e tutti insieme sub Cristo, quel cambiamento d’epoca
che ci porterà a un’esperienza nuova anche della Chiesa-una.
1
Cf. Benedetto XVI, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica (10 marzo, 2009).
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focus. per i 90 anni di benedetto xvi
significativo, che sono stati editi in questi ultimi mesi e che risultano preziosi
per cogliere e approfondire il significato complessivo della sua testimonianza
cristiana e della sua missione ecclesiale.
Si tratta, in primo luogo, dell’intervista curata da Peter Seewald, Ultime
conversazioni 1, che raccoglie i dialoghi con lui condotti poco prima e soprat-
tutto dopo le sue dimissioni. Essa – come scrive il curatore nell’introdu-
zione – disegna idealmente il tracciato di tutt’intera una vita e soprattutto
permette di «gettare uno sguardo su una delle personalità più affascinanti
della nostra epoca […] di comprendere meglio l’uomo Joseph Ratzinger e
il pastore Benedetto XVI, riconoscere la sua santità e soprattutto lasciare
aperto l’accesso alla sua opera che contiene un tesoro per l’avvenire».
C’è poi l’ampia e documentata biografia di taglio più squisitamente te-
ologico pubblicata da Elio Guerriero: Servitore di Dio e dell’umanità 2, che se-
gue passo passo il cammino di Joseph Ratzinger, dalla nascita a Pleiskirchen
nell’amata Baviera sino al ritiro nel monastero Mater Ecclesiae entro il recinto
di San Pietro. Un volume che ha il merito di fornire un’informazione dettaglia-
ta e rigorosa sui vari passaggi che hanno segnato questa lunga e avvincente
avventura umana, accademica, ecclesiale, contestualizzandoli sempre con
cura e obiettività e facendo per giunta una pertinente sintesi prospettica de-
gli innumerevoli saggi e volumi che ne costellano lo snodarsi.
Né si può tralasciare, infine, la recente edizione italiana del settimo vo-
lume dell’Opera omnia di Ratzinger: L’insegnamento del Concilio Vaticano II.
In esso sono pubblicati i testi da lui dedicati all’ultimo Concilio suddivisi in
due parti: la prima raccoglie quanto da lui scritto fra l’annuncio del Vaticano
II, il 25 gennaio 1959, e i primi anni successivi alla sua chiusura, il 7 dicem-
bre 1963, ivi compreso quanto prodotto durante il Concilio e a servizio della
redazione dei suoi documenti; la seconda è dedicata invece ai temi più im-
portanti e ai diversi aspetti della recezione e dell’ermeneutica del magistero
conciliare sino alla sua elezione a vescovo di Roma.
Si tratta, è vero, soltanto di un tratto nell’arco assai esteso e pluriforme
dell’opera teologica di Joseph Ratzinger, ma che ne offre tuttavia una chiave
di lettura e d’interpretazione illuminante, e forse persino di decisivo mo-
mento. Perché nel suo pensiero la grande opera di rinnovamento messa in
atto dal Vaticano II e tuttora in itinere può essere colta nella sua intenziona-
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Né è un caso che, nel suo lungo, fedele, per molti aspetti insostituibile
e tutt’altro che facile servizio accanto a Giovanni Paolo II in qualità di Pre-
fetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Ratzinger,
oltre a mettere i puntini sulle “i” in parecchie e delicate questioni che hanno
travagliato la Chiesa nel post-concilio (dall’esplosione non sempre equili-
brata della teologia della liberazione, all’enfasi talvolta ingenua e sbilancia-
ta in senso prevalentemente orizzontale sulla Chiesa comunione, sino alle
prospettive inedite e sempre bisognose di attenta ponderazione del dialogo
ecumenico e tra le religioni), abbia presieduto con polso e sapienza alla re-
dazione del Catechismo della Chiesa Cattolica richiesto dal Sinodo dei vesco-
vi a vent’anni dal Concilio (nel 1985) come bussola sicura di orientamento
nell’intraprendere la via del rinnovamento nel mare aperto e inesplorato
delle sfide della contemporaneità.
Così come non è senza significato che, da papa, Benedetto XVI abbia
voluto riservare le sue tre principali encicliche (l’ultima delle quali pubbli-
cata da papa Francesco) al tema delle virtù teologali, struttura portante e
decidente dell’esistenza cristiana a livello personale e sociale: la carità, la
speranza, la fede. Riconoscendo però senz’altro il primato evangelico della
carità in quanto agape, poiché in essa è evocato il Nome stesso del Dio rive-
lato in Cristo, senza omettere di connetterla con sagacia all’impulso univer-
salmente umano dell’eros verso il vero, il bene e il bello.
Del resto, l’ultima opera di cui Joseph Ratzinger/Benedetto XVI ha volu-
to farci dono sono i due volumi su Gesù di Nazareth: un invito e un accompa-
gnamento, come di consueto pacati e sostanziosi, a un incontro esistenziale
consapevole e coinvolgente con il principio stesso della fede cristiana: che
non è – come egli ama dire – un’idea ma una persona viva, l’amico che illumi-
na, di una gioia destinata a non conoscere più tramonto, il nostro cammino.
È questo, ritengo, il segreto profondo della forza e del fascino del magi-
stero di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI. Ed è questo – ed è moltissimo –
che del suo insegnamento ci rimane quale lascito prezioso, destinato a por-
tare ancora molti frutti.
Già parecchi anni or sono, da teologo, egli affermava: «Per tradizione
non si deve intendere una somma di asserti ben strutturati e da trasmettere
intatti, ma l’espressione della progressiva assimilazione attraverso la fede
della Chiesa dell’evento testimoniato nella Scrittura», così che la fede «per
restare identica dev’essere espressa in modo diverso e pensata in modo
diverso»4.
Basti richiamare a conclusione, in fedeltà a questa logica e quasi a sigillo
di quanto sin qui detto, due esempi eloquenti di questa costante e persino
profetica lungimiranza nel cogliere e promuovere il germogliare del “nuovo”
come opera dello Spirito di Dio dal ceppo robusto e sicuro di quell’“antico”
che non è mai vecchio, perché è il segno e il custode dell’eternità che è en-
trata una volta per tutte nel tempo e da dentro lo lievita e lo spinge innanzi
verso orizzonti di sempre nuova giovinezza.
Il primo è racchiuso nel magistrale intervento che l’allora card. Ratzinger
tenne nel 1998 al Simposio sui movimenti e le nuove comunità ecclesiali in
preparazione del Giubileo dell’anno 2000. Egli ne tratteggiò in quell’occa-
sione la “collocazione teologica”5 sullo sfondo dell’intera storia della Chiesa,
focalizzandone il significato alla luce dell’ininterrotta irruzione dello Spirito
Santo, coi suoi carismi e in fedeltà e in sinergia con la struttura apostolica
della Chiesa, per universalizzare, rinnovare e far brillare sempre di nuovo
la bellezza e la forza evangelizzatrice della Sposa di Cristo. Una tappa mi-
liare, credo, ancor di più se letta in continuità con altri importanti segmen-
ti di ermeneutica storica dell’evento Chiesa offerti in passato dal teologo
Ratzinger, non solo nel discernimento dell’opera dello Spirito a servizio della
missione della Chiesa nel nostro tempo, ma anche nel decifrare il vettore
decisivo nell’intero percorso del Popolo di Dio lungo i sentieri della storia in
fedeltà al suo Signore.
Il secondo esempio papa Benedetto ce lo ha dato nell’enciclica sociale
Caritas in veritate. Un testo profetico come pochi altri, ricco di prospettive
stimolanti e senz’altro da riprendere tra le mani, da meditare con attenzione
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Ma forse l’esempio della più grande fedeltà al principio stesso della fede
di sempre in Gesù, che è al medesimo tempo la più grande apertura al nuo-
vo incessante del suo Spirito, Joseph Ratzinger/Benedetto XVI ce l’ha dato
il giorno delle sue inaspettate dimissioni.
È stato infatti questo gesto estremo, ponderato e sereno, maturato gra-
zie a un discernimento guidato dal desiderio libero da ogni “se” e da ogni
“ma” di obbedire a Dio soltanto per continuare a servire la Chiesa e l’umani-
tà seguendo il Maestro nella via pasquale della kenosi di sé vissuta sino alla
fine, che ha fatto germogliare «una nuova freschezza in seno alla Chiesa,
una nuova allegria, un nuovo carisma che si rivolge agli uomini»6.
Con queste parole Benedetto XVI legge oggi con gli occhi della fede,
accompagnandolo giorno dopo giorno col sostegno della preghiera e dell’a-
micizia, il ministero petrino del suo successore papa Francesco.
1
Trad. dal tedesco di C. Galli, Garzanti, Milano 2016.
2
Mondadori, Milano 2016.
3
Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazio-
ne degli auguri natalizi, il 21 dicembre 2005, dove l’«ermeneutica della riforma»
è presentata come l’ermeneutica «del rinnovamento nella continuità dell’unico
soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato [...] un soggetto che cresce nel tempo
e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in
cammino».
4
J. Ratzinger, Natura e compito della teologia. Il teologo nella disputa contempora-
nea. Storia e dogma, trad. it., Jaca Book, Milano 1993, pp. 122-123.
5
J. Ratzinger, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, in Aa.Vv., I
movimenti nella Chiesa, Atti del Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali (Roma,
27-29 maggio 1998), Pontificium Consilium Pro Laicis, Città del Vaticano 1999, 23-
51.
6
Ultime conversazioni, cit., p. 47.
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focus. per i 90 anni di benedetto xvi
L’antropologia teologica
di Ratzinger
1. la persona umana
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vero se stessa, tanto che Ratzinger afferma: «dove l’Io si dona al Tu si origina
la libertà»8. La salvezza promessa e attuata in Gesù Cristo viene a offrirsi
allora come possibilità per l’uomo di diventare pienamente se stesso nel
tempo e in vista dell’incontro definitivo con lui. È tale dinamismo che so-
stiene e orienta l’essere umano. Diversamente egli perde se stesso quando
smarrisce tale orientamento e l’esistenza diventa un interminabile alimen-
tarsi di conflitti autoreferenziali, scontri identitari nei quali l’io viene a essere
fatto coincidere con il suo ruolo e non è riconosciuta la sua essenza più inti-
ma, quella inscritta nelle fibre del suo essere-come-dono, che si declina nella
specificità dell’individualità che si trascende.
Essere persona è possedere un nome, un volto, una parola: questi ele-
menti strutturali dell’identità personale dell’essere-uomo non sono attributi
puramente nominalistici, ma rinviano ad altro. Sono tra loro in una relazione
di reciprocità poiché si richiamano vicendevolmente. Il mio nome, il mio vol-
to, la mia parola poggiano su un altro Nome, un altro Volto, un’altra Parola
che li rende possibili e nei quali si dicono, esprimendosi e richiamandosi ul-
teriormente su più livelli di profondità e altezza. È in tal senso che Ratzinger
scrive: «Il senso dell’Incarnazione è […] quello di rendere accessibile a tutti
quanto è suo»9.
Se in un certo qual modo la voce può accostare l’uomo agli altri esseri
viventi nella sua animalità, egli soltanto è dotato di parola, parola che stabi-
lisce una comunicazione, comunicazione che si fa sguardo, sguardo che si
apre su un volto nel quale si riconosce un altro con il quale è possibile istitui
re un tipo di relazione ulteriore che trascende il mero calcolo e l’utilità, l’as-
servimento e la superficialità. È questa possibilità che interroga l’umano sul-
la sua identità. Scrive Ratzinger che il nome «fonda la relazione inter-umana.
Esso dà la possibilità di essere chiamato, dalla quale nasce la con-esistenza
con colui che si chiama per nome»10. La con-esistenza dell’uno con l’A/al-
tro ovvero una presenzialità sinfonica che struttura il vivere individuale e
sociale, umanizzandolo (nella relazione) e personalizzandolo (secondo una
interiorità aperta e dilatata al Tu), nel riconoscimento reciproco a partire
dalla propria finitezza che indica e rinvia ad una Origine.
Tale struttura relazionale si pone in rilievo fenomenologicamente, ad
esempio, quando l’essere umano venendo al mondo incontra lo sguardo di
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2. relazione e relazionalità
L’essere è relazione nel suo dirsi, nel suo darsi rinvia a una relazionalità
più alta che permette di oltrepassare quella sterilità a cui l’immanenza sem-
bra condannare l’uomo. L’identità filiale dell’uomo, proprio per la diacronia
e asimmetria che caratterizzano l’esistere nel suo dinamismo trascendente,
assume al contempo i tratti di identità fraterna. Proprio in questa fraternità si
apre la possibilità di alzare lo sguardo e di accorgersi di quell’appello che Dio
in Cristo rivolge all’uomo. Il nostro teologo sembra far notare che dal lato
del soggetto umano la fraternità, che in Cristo viene a essere dispiegata in
pienezza, quasi precede la figliolanza nella quale tramite il Verbo incarnato
siamo inseriti, poiché in questa dinamica comunionale si innescano processi
relazionali complessi e generativi che rinviano a una Presenza. L’io, dunque,
è fatto per la comunione e questa concretamente si attua nella fraternità
che allarga gli spazi della razionalità. Quando questa fraternità si realizza
intenzionalmente, secondo i tratti che leggiamo nel volto di Cristo, allora
l’individuo è sollevato dal solipsismo e dall’isolamento, i suoi fallimenti e
i suoi limiti, il suo peccato e suoi errori, trovano una possibilità di riscatto
nell’apertura all’A/altro da sé.
Tale apertura scaturisce dalle viscere dell’amore trinitario, un amore che
è potenza che rigenera, proprio in quanto ha i connotati robusti della miseri-
cordia, che spezza il circolo vizioso dell’ontologia conflittuale innescata dal
disancoramento da questa dimensione pneumatologica della fraternità. È in
tal senso ad esempio che Ratzinger afferma che «la croce è il centro della
Rivelazione»18. Essa dischiude un evento che, innestato nell’eternità, risuo-
na nella temporalità come potenza che trascende ogni finitezza, che viene
così a cogliersi come l’ipseità propria della persona umana. È «nel mistero
della Pasqua» che la comunione tra Dio e l’uomo «diventa comunicabile»19,
cioè questo comunicarsi è performativo, agisce/può agire sull’umano nel
suo farsi sempre più se stesso secondo la sua forma. Per la natura trinitaria
dell’evento pasquale anche la relazione con gli altri viene a essere coinvolta
in un dinamismo che è quello che Ratzinger sintetizza nel cosiddetto «prin-
cipio per». L’uno-e-i-molti della dimensione dell’intersoggettività, nell’Uno
distintivo del Dio Uni-Trino, trova il suo baricentro poiché la dedizione nella
gratuità è la cifra più propria dell’essere vero-uomo. Il per che abita il sog-
getto umano non è una mera finalità utilitaristica, può esserlo perché lo si
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3. la reciprocità
Dare del “tu” a Dio vuol dire conoscerlo come egli si è lasciato conosce-
re, ammettere che nello scorrere del tempo possa accadere il darsi della
sua presenza e pertanto poter cogliere nel Cristo crocifisso, abbandonato e
risorto il culmine del dirsi/darsi di Dio nella storia. È proprio qui infatti che,
secondo Ratzinger, lo sguardo umano coglie qualcosa di radicalmente nuo-
vo e diverso rispetto a qualsiasi altra esperienza religiosa:
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in conclusione
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tenuti insieme da una logica soggiacente l’essere stesso. Tale logica inter-
pella il singolo a una presa di posizione che è apertura costitutiva alla grazia.
In essa può compiersi quella trinitizzazione dei rapporti27 che rende auten-
ticamente generativi, nel reciproco legame, il senso individuale e il vivere
sociale.
1
Diversi studi offrono un’introduzione generale al pensiero di Joseph Ratzin-
ger: A. Bellandi, Fede cristiana come «stare e comprendere». La giustificazione dei
fondamenti della fede in Joseph Ratzinger, PUG, Roma 1996; P. Blanco Sarto, Joseph
Ratzinger: razón y cristianismo. La victoria de la inteligencia en el mundo de las religiones,
Ediciones Rialph, Madrid 2005; A. Borghese, Sulle tracce di Joseph Ratzinger, Canta-
galli, Siena 2007; U. Casale (ed.), Fede, ragione, verità e amore. La teologia di Joseph
Ratzinger, Lindau, Torino 2009; C. Bertero, Persona e comunione. La prospettiva di J.
Ratzinger, Lateran University Press, Roma 2014.
2
J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 20052, p. 185.
3
Cf. Id., Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 2008, pp. 130-141.
4
Ibid., p. 146.
5
Cf. Id., Dogma e predicazione, cit., p. 178.
6
Su tale linea Ratzinger parla di una doppia libertà, la libertà di Dio e la libertà
dell’uomo, da cui scaturisce una storia segnata dall’appello, immanente e trascen-
dente al tempo stesso, alla partecipazione alla vita trinitaria: cf. ibid., p. 154.
7
Id., Introduzione al cristianesimo, cit., 245.
8
Id., Guardare al crocifisso, Jaca Book, Milano 1992, p. 34
9
Id., La fraternità cristiana, Queriniana, Brescia 2005, p. 64.
10
Id., Introduzione al cristianesimo, cit., p. 125.
11
Sulla differenza cristiana del concetto di Logos a partire dall’Incarnazione: cf.
V. Di Pilato, Consegnati a Dio. Un percorso storico sulla fede, Città Nuova, Roma 2011,
pp. 38-39.
12
Cf. J. Ratzinger, Dogma e predicazione, cit., p. 39.
13
Sulla categoria di “esodo” come aggregatore semantico della proposta teo-
logica di J. Ratzinger: cf. R. Tremblay - S. Zamboni, Ritrovarsi donandosi. Alcune idee
chiave della teologia di Jospeh Ratzinger-Benedetto XVI, Lateran University Press,
Roma 2012.
14
Cf. J. Ratzinger, La fine del tempo, in Aa.Vv., La provocazione del discorso su Dio,
Queriniana, Brescia 2005, pp. 21-39.
15
Il teologo bavarese offre un interessante sguardo d’insieme su questo tema:
cf. Id., Escatologia. Morte e vita eterna, Cittadella editrice, Assisi 2008, pp. 205-207.
16
In tal senso Ratzinger parla di superamento della particolarità attraverso la
reciproca convergenza, pur nella diversità, in Colui che ha dischiuso il luogo in cui la
reciprocità si compie: «La fede in Gesù Cristo è pertanto di sua natura un continuo
aprirsi (Sichöffnen), irruzione (Einbruch) di Dio nel mondo umano e aprirsi (Aufbruch)
dell’uomo in risposta a Dio, che nello stesso tempo conduce gli uomini l’uno verso
l’altro» (J. Ratzinger, Fede, verità e tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo,
Cantagalli, Siena 2003, p. 210).
17
Scrive il teologo bavarese: «La fratellanza non è concepita in maniera natura-
listica, come un fenomeno naturale originario, bensì poggia su una decisione spiri-
tuale, sul Sì detto alla volontà di Dio» (La fraternità cristiana, cit., p. 39).
18
Id., Introduzione al cristianesimo, cit., p. 283.
19
Id., Guardare al crocifisso, cit., p. 81.
20
Id., Progetto di Dio. La creazione, Marcianum Press, Venezia 2012, p. 91.
21
Id., Introduzione al cristianesimo, cit., p. 283.
22
Un interessante approfondimento su questo tema: A. Clemenzia, Nella Trinità
come Chiesa. In dialogo con Heribert Mühlen, Città Nuova, Roma 2014.
23
J. Ratzinger, In cammino verso Gesù Cristo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004,
pp. 28-29.
24
Questa visione della storia che sembra caratterizzare la riflessione ratzinge-
riana ha la sua fonte probabilmente nella teologia di san Bonaventura: cf. G. Pasqua-
le, La teologia della storia nel XX secolo, EDB, Bologna 2001, pp. 134-141.
25
Cf. J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, cit., pp. 234-255.
26
A questo riguardo: cf. Id., La festa della fede. Saggi di teologia liturgica, Jaca
Book, Milano 19902, pp. 38-39.
27
Sul concetto di trinitizzazione: cf. S. Mazzer, “Li amò sino alla fine”. Il Nulla-Tutto
dell’amore tra filosofia, mistica e teologia, Città Nuova, Roma 2014, pp. 799-805; P.
Coda, Il Logos e il nulla, Città Nuova, Roma 2003, pp. 368-374.
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Il messaggio della
Caritas in veritate
cioè sulla “carta” una volta per tutte. Il grande valore aggiunto della CV è
quello di portare a compimento quelle linee di pensiero già presenti nella
Populorum progressio di Paolo VI e nella Centesimus annus di Giovanni Paolo II
e ciò alla luce delle res novae cui sopra ho fatto riferimento. Si può allora ben
dire che la CV è la prima enciclica sociale della post-modernità, così come la
Rerum novarum (1891) di Leone XIII è stata il primo documento magisteriale,
sempre in ambito sociale, della modernità.
Un primo punto degno di attenzione è l’ampliamento della nozione tra-
dizionale di giustizia, la quale non può essere ristretta al giudizio sul mo-
mento distributivo della ricchezza, ma deve spingersi fino al momento della
sua produzione. Non basta, cioè, reclamare la “giusta mercede all’operaio”
come ci aveva raccomandato la Rerum novarum (1891). Occorre anche chie-
dersi se il processo produttivo si svolge o meno nel rispetto della dignità del
lavoro umano; se accoglie o meno i diritti umani fondamentali; se è compa-
tibile o meno con la norma morale. Già nella Gaudium et spes, al n. 67, si era
letto: «Occorre dunque adattare tutto il processo produttivo alle esigenze
della persona e alle sue forme di vita» e non viceversa. Il lavoro non è un
mero fattore della produzione che, in quanto tale, deve adattarsi, anzi ade-
guarsi alle esigenze del processo produttivo per accrescerne l’efficienza. Al
contrario, è il processo produttivo che deve essere organizzato in modo tale
da consentire alle persone la loro fioritura umana e rendere possibile l’armo-
nizzazione dei tempi di vita familiare e di lavoro.
Papa Benedetto ci dice che un tale progetto è oggi, nella stagione della
società post-industriale, fattibile, purché lo si voglia. Ecco perché la CV invi-
ta con insistenza a trovare i modi di applicare nella pratica la fraternità come
principio regolatore dell’ordine economico. Laddove altre encicliche parlano
di solidarietà, la CV parla piuttosto di fraternità, dato che una società frater-
na è anche solidale, mentre il viceversa non è vero, come tante esperienze
ci confermano. L’appello è dunque quello di porre rimedio all’errore della
cultura contemporanea, che ha fatto credere che una società democratica
potesse progredire tenendo tra loro disgiunti il codice dell’efficienza – che
basterebbe da solo a regolare i rapporti tra gli uomini entro la sfera dell’eco-
nomico – e il codice della solidarietà – che regolerebbe i rapporti intersog-
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stefano zamagni
sono oggi impantanate. Da ciò consegue l’invito a cercare una via d’uscita
pervia dalla soffocante alternativa che vede su un fronte la tesi neoliberista
secondo cui i mercati funzionano quasi sempre bene – e dunque non vi sa-
rebbe bisogno di invocare speciali interventi regolativi – e sull’altro fronte la
tesi neostatalista secondo cui i mercati quasi sempre falliscono – e pertanto
non resterebbe che affidarsi alla mano visibile dello Stato. Invece, proprio
perché i mercati – di cui non si può fare a meno – spesso non funzionano
bene, è urgente intervenire sulle cause dei tanti malfunzionamenti, soprat-
tutto in ambito finanziario, piuttosto che limitarsi a correggerne gli effetti. È
questa la via che è favorita da chi si colloca nell’alveo dell’economia civile di
mercato – un alveo nel quale papa Ratzinger pare muoversi, in sintonia con
l’insegnamento dei suoi ultimi due predecessori.
Il mercato, in verità, non è solo un meccanismo efficiente di regolazio-
ne degli scambi. È soprattutto un ethos che induce cambiamenti profondi
delle relazioni umane e del carattere degli uomini che vivono in società. Di
qui l’insistenza del papa sul principio di fraternità che deve trovare un po-
sto adeguato dentro l’agire di mercato e non fuori, come vorrebbero i corifei
del “capitalismo compassionevole”. Si osservi che Benedetto non si scaglia
affatto contro la ricchezza di per sé né si dichiara a favore del pauperismo.
Peraltro, ciò sarebbe incompatibile con l’idea cristiana di creazione e con
quanto papa Giovanni XXII nel 1318, nella bolla Gloriosam Ecclesiam, già ave-
va chiaramente precisato al riguardo. Il suo giudizio severo riguarda piut-
tosto i modi in cui la ricchezza viene generata e i criteri con cui essa viene
distribuita tra i membri del consorzio umano – modi e criteri che un cristiano
non può non sottoporre al giudizio morale.
Di un secondo punto desidero dire. Nella CV, i termini impresa e impren-
ditore sono quelli che ricorrono più frequentemente. Nulla di simile si riscon-
tra nelle encicliche precedenti, dove il termine impresa viene evocato solo
di sfuggita. Perché? Benedetto XVI dimostra di aver afferrato il proprium
dell’attività imprenditoriale, che è quello non di mirare alla massimizzazione
del profitto, ma del valore condiviso – come oggi lo si chiama. Il profitto è
la misura, non il fine di fare impresa. Ecco perché nella CV si rifiuta l’iden-
tificazione dell’imprenditore con la figura del capitalista e quindi si ricono-
sce che, accanto alla forma capitalistica d’impresa, debbano poter trovare
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circostanza che non tutti i tipi di lavoro sono accessibili a tutti e pertanto
non c’è modo di garantire la congruità tra un lavoro che genera valore socia-
le e un lavoro che interpreti la concezione di vita buona delle persone.
Come osserva G. Mori (Diritto alla libertà del lavoro, in «Iride», 36, 2002),
la Riforma protestante per prima ha sollevato la questione della libertà del
lavoro. Nella teologia luterana, la cacciata dall’Eden non coincide tanto con
la condanna dell’uomo alla fatica e alla pena del lavoro, quanto piuttosto
con la perdita della libertà del lavoro. Prima della caduta, infatti, Adamo ed
Eva lavoravano bensì, ma le loro attività erano svolte in assoluta libertà, con
l’unico scopo di piacere a Dio. Che le condizioni storiche attuali siano ancora
alquanto lontane dal poter consentire di rendere fruibile il diritto alla libertà
del lavoro è cosa a tutti nota. Tuttavia ciò non può dispensarci dalla ricerca
di strategie credibili di avvicinamento a quell’obiettivo. Secondo R. Muirhe-
ad (Just work, Harvard University Press, Cambridge 2004), la proposta di
A. MacIntyre di concettualizzare il lavoro come opera è quella che appare
come la più realisticamente praticabile.
Un’attività lavorativa si qualifica come opera quando riesce a far emer-
gere la motivazione intrinseca della persona che la compie. Estrinseca è la
motivazione che induce ad agire per il risultato finale che l’agente ne trae
(ad esempio, per la remunerazione ottenuta). Intrinseca, invece, è la moti-
vazione che spinge all’azione per la soddisfazione diretta che essa arreca al
soggetto quando questi percepisce che essa è orientata al bene. È noto che
la qualità che un individuo può esprimere nel suo lavoro è di due tipi: codifi-
cata, l’una, tacita, l’altra. La prima è la qualità che può essere accertata, sulla
base di protocolli e codici previamente fissati, anche da una parte terza che
può sanzionare, se del caso, comportamenti devianti o opportunistici. Ta-
cita, invece, è la qualità di una prestazione lavorativa che non è verificabile
da parti terze. Ora, mentre per ottenere un’elevata qualità codificata si può
intervenire con adeguati schemi di incentivo (monetari o non), per conse-
guire livelli elevati di qualità tacita non c’è altra via che quella di far leva sulla
motivazione intrinseca del lavoratore (si osservi che in non pochi contesti
produttivi la qualità tacita è, oggi, assai più rilevante di quella codificata,
perché è dalla prima che deriva la capacità di innovare).
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in cui il cibo viene allocato tra i membri della famiglia – in special modo,
tra maschi e femmine – sia il modo in cui funziona il mercato del lavoro. I
poveri possiedono solamente un potenziale di lavoro; per trasformarlo in
forza lavoro effettiva, la persona necessita di adeguata nutrizione. Ebbene,
se non adeguatamente aiutato, il malnutrito non è in grado di soddisfare
questa condizione in un’economia di libero mercato. La ragione è sempli-
ce: la qualità del lavoro che il povero è in grado di offrire sul mercato del
lavoro è insufficiente a “comandare” il cibo di cui ha bisogno per vivere in
modo decente. Come la moderna scienza della nutrizione ha dimostrato, dal
60% al 75% dell’energia che una persona ricava dal cibo viene utilizzata per
mantenere il corpo in vita; solamente la parte restante può venire usata per
il lavoro o altre attività. Ecco perché nelle società povere si possono creare
vere e proprie “trappole di povertà”, destinate a durare anche per lunghi
periodi di tempo.
Quel che è peggio è che un’economia può continuare ad alimentare
trappole della povertà anche se il suo reddito cresce a livello aggregato. Ad
esempio, può accadere – come in realtà accade – che lo sviluppo economi-
co, misurato in termini di Pil pro-capite, incoraggi i contadini a trasferire l’u-
so delle loro terre dalla produzione di cereali a quella della carne, mediante
un aumento degli allevamenti, dal momento che i margini di guadagno sulla
seconda sono superiori a quelli ottenibili dai primi. Tuttavia, il conseguente
aumento del prezzo dei cereali andrà a peggiorare i livelli nutrizionali delle
fasce povere di popolazione, alle quali non è comunque consentito accedere
al consumo di carne. Il punto da sottolineare è che un incremento nel nume-
ro di individui a basso reddito può accrescere la malnutrizione dei più poveri
a causa di un mutamento della composizione della domanda di beni finali. Si
osservi, infine, che il collegamento tra status nutrizionale e produttività del
lavoro può essere “dinastico”: una volta che una famiglia o un gruppo socia-
le sia caduto nella trappola della povertà, è assai difficile per i discendenti
uscirne, e ciò anche se l’economia cresce nel suo complesso.
Quale conclusione trarre da quanto precede? Che la presa d’atto di un
nesso forte tra institutional failures, da un lato, e scandalo della fame e au-
mento delle disuguaglianze globali, dall’altro, ci ricordano che le istituzioni
non sono – come le risorse naturali – un dato di natura, ma regole del gioco
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papa Ratzinger precisò che verità significa assai più che un mero sapere.
Infatti, la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene.
Il che è anche il senso dell’interrogativo socratico: «qual è quel bene che
ci rende veri?». La verità ci rende buoni e la bontà è vera. È questo l’otti-
mismo cristiano, perché alla fede cristiana è stata concessa la visione del
Logos, della Ragione creatrice che, nell’Incarnazione, si è rivelata insieme
come il Bene stesso. Quando dunque il sapere, anziché rendere tristi, dà
gioia? Quando esso è conoscenza del bene. Di qui la differenza profonda tra
educazione e formazione-istruzione. La prima promuove la conoscenza del
bene; la seconda si ferma al saper fare. Se la formazione mira a far diventare
bravi, l’educazione mira piuttosto a far diventare buoni. Di quanto il mondo
dell’Università avrebbe bisogno, oggi, di porre al centro delle proprie preoc-
cupazioni un tale consiglio non v’è bisogno di dire, tanto è a tutti palese il
bisogno di riprendere il cammino della Sophia, cioè del pensiero pensante.
Vaticano
di Michele Zanzucchi / Giovanni Angelo Becciu /
Alberto Melloni / Ignazio Ingrao
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e con i vescovi. Sapeva sempre che il centro della Chiesa è l’eucaristia, dove
il Corpo di Cristo e il suo Sangue diventano presenti. Tramite il sacerdozio,
l’eucaristia è la Chiesa. Dove sacerdozio e Cristo e comunione della Chiesa
vanno insieme, solo qui abita anche la parola di Dio. Il vero Francesco stori-
co è il Francesco della Chiesa e proprio in questo modo parla anche ai non
credenti, ai credenti di altre confessioni e religioni.
Francesco e i suoi frati, sempre più numerosi, si stabilirono alla Porziun-
cola, o chiesa di Santa Maria degli Angeli, luogo sacro per eccellenza della
spiritualità francescana. Anche Chiara, una giovane donna di Assisi, di no-
bile famiglia, si mise alla scuola di Francesco. Ebbe così origine il Secondo
Ordine francescano, quello delle Clarisse, un’altra esperienza destinata a
produrre frutti insigni di santità nella Chiesa.
Anche il successore di Innocenzo III, il papa Onorio III, con la sua bolla
Cum dilecti del 1218 sostenne il singolare sviluppo dei primi Frati Minori, che
andavano aprendo le loro missioni in diversi Paesi dell’Europa e persino in
Marocco. Nel 1219 Francesco ottenne il permesso di recarsi a parlare, in
Egitto, con il sultano musulmano Melek-el-Kâmel, per predicare anche lì
il vangelo di Gesù. Desidero sottolineare questo episodio della vita di san
Francesco, che ha una grande attualità. In un’epoca in cui era in atto uno
scontro tra il cristianesimo e l’islam, Francesco, armato volutamente solo
della sua fede e della sua mitezza personale, percorse con efficacia la via del
dialogo. Le cronache ci parlano di un’accoglienza benevola e cordiale rice-
vuta dal sultano musulmano. È un modello al quale anche oggi dovrebbero
ispirarsi i rapporti tra cristiani e musulmani: promuovere un dialogo nella ve-
rità, nel rispetto reciproco e nella mutua comprensione (cf. Nostra aetate, 3).
Sembra poi che nel 1220 Francesco abbia visitato la Terra Santa, gettando
così un seme, che avrebbe portato molto frutto: i suoi figli spirituali, infatti,
fecero dei luoghi in cui visse Gesù un ambito privilegiato della loro missione.
Con gratitudine penso oggi ai grandi meriti della Custodia francescana in
Terra Santa.
Rientrato in Italia, Francesco consegnò il governo dell’Ordine al suo vi-
cario, fra Pietro Cattani, mentre il papa affidò alla protezione del cardinal
Ugolino, il futuro sommo pontefice Gregorio IX, l’Ordine, che raccoglieva
sempre più aderenti. Da parte sua il fondatore, tutto dedito alla predicazio-
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ne che svolgeva con grande successo, redasse una Regola, poi approvata
dal papa.
Nel 1224, nell’eremo della Verna, Francesco vede il Crocifisso nella for-
ma di un serafino e dall’incontro con il serafino crocifisso ricevette le stim-
mate; egli diventa così uno col Cristo crocifisso: un dono, quindi, che espri-
me la sua intima identificazione col Signore.
La morte di Francesco – il suo transitus –avvenne la sera del 3 ottobre
1226, alla Porziuncola. Dopo aver benedetto i suoi figli spirituali, egli morì,
disteso sulla nuda terra. Due anni più tardi papa Gregorio IX lo iscrisse
nell’albo dei santi. Poco tempo dopo, una grande basilica in suo onore veni-
va innalzata ad Assisi, meta ancor oggi di moltissimi pellegrini, che possono
venerare la tomba del santo e godere la visione degli affreschi di Giotto,
pittore che ha illustrato in modo magnifico la vita di Francesco.
È stato detto che Francesco rappresenta un alter Christus, era veramente
un’icona viva di Cristo. Egli fu chiamato anche “il fratello di Gesù”. In effetti,
questo era il suo ideale: essere come Gesù; contemplare il Cristo del vange-
lo, amarlo intensamente, imitarne le virtù. In particolare, egli ha voluto dare
un valore fondamentale alla povertà interiore ed esteriore, insegnandola an-
che ai suoi figli spirituali. La prima beatitudine del Discorso della Montagna
– «Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5, 3) – ha
trovato una luminosa realizzazione nella vita e nelle parole di san Francesco.
Davvero, cari amici, i santi sono i migliori interpreti della Bibbia; essi, incar-
nando nella loro vita la parola di Dio, la rendono più che mai attraente, così
che parla realmente con noi. La testimonianza di Francesco, che ha amato la
povertà per seguire Cristo con dedizione e libertà totali, continua ad essere
anche per noi un invito a coltivare la povertà interiore per crescere nella
fiducia in Dio, unendo anche uno stile di vita sobrio e un distacco dai beni
materiali.
In Francesco l’amore per Cristo si espresse in modo speciale nell’ado-
razione del Santissimo sacramento dell’eucaristia. Nelle Fonti francescane
si leggono espressioni commoventi, come questa: «Tutta l’umanità tema,
l’universo intero tremi e il cielo esulti, quando sull’altare, nella mano del sa-
cerdote, vi è Cristo, il Figlio del Dio vivente. O favore stupendo! O sublimità
umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascon-
dersi per la nostra salvezza, sotto una modica forma di pane» (Francesco di
Assisi, Scritti, Editrici Francescane, Padova 2002, p. 401).
In quest’anno sacerdotale3, mi piace pure ricordare una raccomandazio-
ne rivolta da Francesco ai sacerdoti: «Quando vorranno celebrare la Messa,
puri in modo puro, facciano con riverenza il vero sacrificio del santissimo
Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo» (Francesco di Assisi, Scritti,
cit., p. 399). Francesco mostrava sempre una grande deferenza verso i sa-
cerdoti, e raccomandava di rispettarli sempre, anche nel caso in cui fossero
personalmente poco degni. Portava come motivazione di questo profondo
rispetto il fatto che essi hanno ricevuto il dono di consacrare l’Eucaristia.
Cari fratelli nel sacerdozio, non dimentichiamo mai questo insegnamento:
la santità dell’eucaristia ci chiede di essere puri, di vivere in modo coerente
con il Mistero che celebriamo.
Dall’amore per Cristo nasce l’amore verso le persone e anche verso tut-
te le creature di Dio. Ecco un altro tratto caratteristico della spiritualità di
Francesco: il senso della fraternità universale e l’amore per il creato, che gli
ispirò il celebre Cantico delle creature. È un messaggio molto attuale. Come
ho ricordato nella mia recente enciclica Caritas in veritate, è sostenibile solo
uno sviluppo che rispetti la creazione e che non danneggi l’ambiente (cf. nn.
48-52), e nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest’an-
no ho sottolineato che anche la costruzione di una pace solida è legata al
rispetto del creato. Francesco ci ricorda che nella creazione si dispiega la
sapienza e la benevolenza del Creatore. La natura è da lui intesa proprio
come un linguaggio nel quale Dio parla con noi, nel quale la realtà diventa
trasparente e possiamo noi parlare di Dio e con Dio.
Cari amici, Francesco è stato un grande santo e un uomo gioioso. La sua
semplicità, la sua umiltà, la sua fede, il suo amore per Cristo, la sua bontà
verso ogni uomo e ogni donna l’hanno reso lieto in ogni situazione. Infatti,
tra la santità e la gioia sussiste un intimo e indissolubile rapporto. Uno scrit-
tore francese ha detto che al mondo vi è una sola tristezza: quella di non
essere santi, cioè di non essere vicini a Dio. Guardando alla testimonianza
di san Francesco, comprendiamo che è questo il segreto della vera felicità:
diventare santi, vicini a Dio!
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benedetto xvi
1
Testo dell’Udienza Generale di Papa Benedetto XVI del 27 gennaio 2010, ©
Copyright - Libreria Editrice Vaticana. Ringraziamo la Libreria Editrice Vaticana per
la cortese concessione del nulla osta alla pubblicazione.
2
Il Santo Padre si riferisce qui all’Udienza Generale da lui tenuta il 13 gennaio
2010, dedicata a «Gli Ordini Mendicanti» [n.d.r.].
3
Dal 19 giugno 2009 all’11 giugno 2010 (date nelle quali ricorreva la solennità
liturgica del Sacro Cuore di Gesù, giornata tradizionalmente dedicata alla preghiera
per la santificazione del clero), per volontà di papa Benedetto XVI la Chiesa catto-
lica ha celebrato un “Anno sacerdotale”, in occasione dei 150 anni del dies natalis di
san Giovanni Maria Vianney, patrono di tutti i parroci del mondo [n.d.r.].
Elogio dell’auto-sovversione
la fioritura umana nelle
Organizzazioni a Movente Ideale
di Luigino Bruni
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parole chiave
Vescovo di Roma
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declan o’byrne
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declan o’byrne
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declan o’byrne
E io ti dico: immagina!
l’arte difficile della predicazione
di Gaetano Piccolo - Nicolas Steeves
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punti cardinali
Movimenti ecclesiali
e Nostra aetate
Una lettura alla luce del
magistero di papa Francesco
Roberto
Catalano
esperto di dialogo 1. i cinquant’anni di nostra aetate
interreligioso e
interculturale. Mercoledì 28 ottobre 2015 l’udienza settimanale
docente presso
in piazza San Pietro è stata caratterizzata da una larga
la pontificia
università partecipazione di leader e rappresentanti di diverse re-
urbaniana (roma) ligioni, convenuti a Roma in occasione del cinquantesi-
e presso l’istituto mo anniversario della promulgazione di Nostra aetate, il
universitario documento conciliare sul rapporto della Chiesa cattolica
sophia (incisa
con i fedeli di altre tradizioni religiose1. Nel corso della
in val d’arno,
firenze). catechesi, papa Francesco ha tracciato una road-map
per il dialogo nei prossimi decenni. Il «dialogo di cui ab-
biamo bisogno non può che essere aperto e rispettoso
[e] allora si rivela fruttuoso»2. Soprattutto ha definito
cosa significa questo “rispetto reciproco”, condizione
e fine del dialogo: «Rispettare il diritto altrui alla vita,
all’integrità fisica, alle libertà fondamentali, cioè libertà
di coscienza, di pensiero, di espressione e di religione»3.
Da questo può nascere una prospettiva di speranza per
il mondo attuale:
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farsi esteriore dono di carità» (ES, 66). Altre formule sono seguite nel corso
degli anni. Significative sono quelle apparse su due importanti documenti
che interessano il nostro argomento: Dialogo e missione, pubblicato nel 1984
dall’allora Segretariato per i non cristiani, e, nel 1991, Dialogo e annuncio, a
cura del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso:
Si è via via compreso che il dialogo più che essere un’attività è un atteg-
giamento, che determina un impegno e uno stile di vita e di approccio del
diverso8. È quanto afferma anche Andrea Riccardi, fondatore della Comuni-
tà di Sant’Egidio: «[…] il dialogo non è un fatto accademico, ma diviene un
modo di vivere ogni giorno da parte di migliaia e migliaia di credenti»9. Nel
corso degli ultimi decenni fondamentale è stato il contributo di Benedet-
to XVI che, nella definizione di dialogo, ha sapientemente inserito l’aspetto
imprescindibile di comune ricerca della verità10. I frequentissimi interventi
in merito al dialogo da parte di papa Francesco valorizzano sempre più la
dimensione dell’amicizia, della fraternità, senza alcuno sconto alla ricerca
della verità e della giustizia sociale. Proprio alla luce di alcune importanti
definizioni di dialogo offerte da papa Bergoglio si propone ora una ulterio-
re lettura del contributo dei movimenti alla realizzazione del messaggio di
Nostra aetate.
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Fin dal documento Nostra aetate, la Chiesa cattolica ha affermato con chia-
rezza la necessità di identità precise e coscienti per arrivare a un dialogo frut-
tuoso. È un elemento ripetuto in molte occasioni sia da Giovanni Paolo II sia
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[In Israele] C’è una sorta di muri fatti di vetri trasparenti che se-
parano diversi gruppi. È proprio questo lo spazio in cui è possibile
inserire e realizzare lo spirito del dialogo che ci ha insegnato Chia-
ra Lubich. È nostro dovere entrare all’interno di queste separazioni
e agire per portare la fratellanza. È necessario farlo con un tocco
personale diretto. […] Come laici, abbiamo imparato ad andare alla
fonte e alle radici del nostro essere ebrei. Siamo diventati ebrei mi-
gliori, più impegnati religiosamente e nella nostra tradizione. […]
Siamo più aperti ad ascoltare, apprendere, capire e rispettare le
altre fedi17.
nel giro di anni, a una fitta rete di rapporti che hanno dato vita a un’amicizia
contagiosa che costituisce una piattaforma sulla quale si può collaborare per
cercare soluzioni comuni alle problematiche locali e globali.
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pleto24. Bergoglio lo spiega con la parola empatia di cui ha fatto largo uso
durante i suoi due viaggi in Asia.
Assieme ad un chiaro senso della nostra propria identità di cristia-
ni, il dialogo autentico richiede anche una capacità di empatia. […]
La sfida che ci si pone è quella di non limitarci ad ascoltare le parole
che gli altri pronunciano, ma di cogliere la comunicazione non det-
ta delle loro esperienze, delle loro speranze, delle loro aspirazioni,
delle loro difficoltà e di ciò che sta loro più a cuore. Tale empatia
[…] ci porta a vedere gli altri come fratelli e sorelle, ad “ascoltare”,
attraverso e al di là delle loro parole e azioni, ciò che i loro cuori
desiderano comunicare25.
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9. dialogo e annuncio
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1
Nostra aetate era stata ufficialmente promulgata il 28 ottobre 1965.
2
Papa Francesco, Catechesi in occasione dell’Udienza Generale interreligiosa in
occasione del 50° anniversario di Nostra Aetate, Citta del Vaticano, 28 ottobre 2015.
3
Ibid.
4
Ibid.
5
Cf. ibid.
6
Segretariato per i non-cristiani, L’atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci
di altre religioni, Riflessioni e orientamenti su dialogo e missione, n. 29 (http://www.
cadr.it/documenti/dialogomissione.pdf), 29 dicembre 2015.
7
Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e Congregazione per l’Evan-
gelizzazione dei Popoli, Il dialogo e l’annuncio. Riflessioni e orientamenti sul dialogo in-
terreligioso e sull’Annuncio del Vangelo di Gesù Cristo, n. 9 (http://www.internetica.it/
dialogo-annuncio.htm), 29 dicembre 2015.
8
D. Howard, Rischio e resistenza: cinquant’anni di dialogo interreligioso nella Chie-
sa cattolica, in «La Civiltà Cattolica», 3949 (2015/ I) pp. 3-104.
9
Citazione in Comunità di Sant’Egidio, Lo “Spirito di Assisi”. Dalle religioni una
speranza di pace, Leonardo International, Roma 2004, p. 89.
10
Cf. Benedetto XVI, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica riguardo alla Remis-
sione della scomunica dei 4 vescovi consacrati dall’Arcivescovo Lefebvre, Città del Vati-
cano, 10 marzo 2009.
11
Cf. Benedetto XVI, Discorso in occasione degli auguri natalizi alla Curia Romana,
21 dicembre 2012.
12
Citazione in Comunità di Sant’Egidio, Lo “Spirito di Assisi”. Dalle religioni una
speranza di pace, cit., p. 80.
13
M. Maugeri, FraternitàLab, il dialogo fra cristiani e musulmani al tempo di Papa
Francesco, in «Il Sole 24 Ore», 23.12.2015.
14
Papa Francesco, Discorso all’incontro ecumenico e interreligioso, Sarajevo, 6 giu-
gno 2015.
15
Papa Francesco, Discorso all’incontro ecumenico e interreligioso, Colombo, 13
gennaio 2015.
16
Tratto da una testimonianza raccontata all’autore dell’articolo.
17
Bella e Yossi Gal, Esperienza comune della Terra Santa, Convegno “Chiara e le
religioni. Insieme verso l’unità della famiglia umana”, Castelgandolfo, 17-20 marzo
2014.
18
Papa Francesco, Discorso ai rappresentanti delle Chiese e Comunità ecclesiali e
delle diverse religioni, Città del Vaticano, 20 Marzo 2013.
19
Papa Francesco, Discorso ai rappresentanti di diverse religioni in occasione
dell’incontro Uomini e Religioni, Città del Vaticano, 1 ottobre 2013 (cf. http://www.
santegidio.org/pageID/3/langID/it/itemID/7717/Messaggio_di_Papa_France-
sco_ai_partecipanti_all_incontro_internazionale_per_la_Pace_Il_Coraggio_del-
la_Speranza.html).
20
Ibid.
21
Con tutta probabilità è stata coniata da Giovanni Paolo II nel 1986, in occasio-
ne del suo primo viaggio in India, ma diventò efficace, pochi mesi dopo, con l’evento
Assisi. Anche Benedetto XVI l’ha spesso usata, particolarmente in occasione del
XXV anniversario della giornata di preghiera proposta dal suo predecessore.
22
Papa Francesco, Discorso ai leaders religiosi, Seoul, 18 Agosto 2014.
23
Comunità di Sant’ Egidio, Lo Spirito di Assisi, San Paolo, Cinisello Balsamo
2011, p. 37.
24
Facendo riferimento all’essere gesuita, Bergoglio parla di essere «essere una
persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto: perché pensa sempre guar-
dando l’orizzonte che è la gloria di Dio sempre maggiore, che ci sorprende senza so-
sta. E questa è l’inquietudine della nostra voragine. Questa santa e bella inquietudi-
ne!» (papa Francesco, Omelia per la beatificazione di Pietro Favre, Roma, 03.01.2013).
25
Papa Francesco, Discorso ai vescovi dell’Asia, Seoul, 17.08.2014.
26
«Quest’amore, poi, non è fatto solo di parole o di sentimenti, è concreto. Esige
che ci si faccia uno con gli altri, che “si viva” in certo modo “l’altro” nelle sue sof-
ferenze, nelle sue gioie, per capirlo, per poterlo servire e aiutare concretamente,
efficacemente. Si tratta di piangere con chi piange e rallegrarsi con chi è nella gioia.
Farsi uno. È l’atteggiamento che ha guidato l’apostolo Paolo, il quale scrive di essersi
fatto giudeo con i giudei, greco con i greci, tutto a tutti (cf. 1 Cor 9, 19-22). Ed è im-
portantissimo per noi seguire il suo esempio, in modo da poter stabilire con tutti un
vero, fraterno dialogo […]. Non è questa una cosa semplice, esige il vuoto totale di
noi, domanda di togliere dalla nostra testa le idee, dal cuore gli affetti, dalla volontà
ogni cosa per immedesimarsi con l’altro. Si tratta di spostare momentaneamente
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persino ciò che possediamo di più bello e di più grande: la nostra stessa fede, le
nostre stesse convinzioni, per essere di fronte all’altro niente, un “nulla d’amore”. Ci
si mette così in posizione di imparare e si ha sempre da imparare realmente da tut-
ti» (C. Lubich, Quale futuro per una società multiculturale, multietnica e multireligiosa?,
Londra, 19 giugno 2004).
27
F. Whaling, Christian Theology and World Religions: A Global Approach, Marshall
Pickering, London 1986, pp. 130-131.
28
C. Lubich, Il dialogo interreligioso nel Movimento dei Focolari. Punti della spiritua-
lità aperti alle altre religioni, Aachen, 13 Novembre 1998 (manoscritto inedito).
29
M. Narsalay, A Hindu Reflection, International Conference “Chiara and Reli-
gions. Together towards Unity of the Human Family”, Castelgandolfo, 17th to 20th
March 2014.
30
Citato in Comunità di Sant’Egidio, Lo spirito di Assisi, cit., p. 168.
31
Benedetto XVI, Discorso per la presentazione degli auguri natalizi alla Curia Ro-
mana, 21 dicembre 2012.
32
Testimonianza raccolta in un’intervista al Centro del Dialogo del Movimento
dei Focolari.
33
Cf. C. Lubich, Possono le religioni essere partners per costruire la pace?, Discor-
so all’Assemblea di “Initiatives of Change” (Moral Re-armament), Caux (Svizzera),
29.07.2003.
34
Cf. A. Riccardi, Carità e giustizia: sfide per i movimenti, in Pontificium Consilium
Pro Laicis, I Movimenti nella Chiesa, LEV, Città del Vaticano 1999, pp. 185-192.
35
L’arcivescovo Marcello Zago (1932-2001) dal 1983 al 1986 è stato Segretario
del Segretariato per i non-cristiani, poi diventato Pontificio Consiglio per il Dialogo
Interreligioso. È stato l’organizzatore della Giornata di Preghiera per la Pace, convo-
cata da Giovanni Paolo II ad Assisi nell’ottobre 1986.
36
Cf. M. Zago, Assisi 27 ottobre. Giornata di preghiera per la Pace, in F. Biffi (ed.) La
pace: sfida all’Università Cattolica. Atti del Simposio fra le Università Ecclesiastiche e gli
Istituti di Studi Superiori di Roma nell’Anno internazionale della Pace 3-6 dicembre 1986,
Roma 1988, p. 869.
37
Papa Francesco, Discorso alla Comunità degli scrittori de La Civiltà Cattolica,
Roma, 14.06.2013.
nu 225
punti cardinali
Il primo frutto, messo in evidenza lungo tutti questi anni dalla Lubich
stessa, è la nascita di una spiritualità originale, definita come spiritualità
dell’unità, o spiritualità collettiva, o spiritualità di comunione. Questa spiri-
tualità ha come scintilla ispiratrice l’amore, come ebbe a rilevare Giovanni
Paolo II7, e si presenta in un primo tempo come un’arte, l’arte di amare. Essa
si dispiega poi in diversi punti cardine8.
Un secondo frutto del carisma è la nascita di un movimento cattolico9
che, vivendo la sua spiritualità, accoglie nel suo seno cristiani di altre Chiese,
persone di altre religioni – in particolare musulmani – e persone di convin-
zioni non religiose. Insieme a loro, i cattolici del Movimento lavorano nell’e-
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Nel febbraio del 2012 sono stata a Tlemcen per una breve visita
alla nostra comunità in Algeria, formata quasi totalmente da mu-
sulmani. Ho trovato veramente l’espressione musulmana del nostro
Movimento animata dallo stesso Ideale di Chiara come, tra l’altro,
lei stessa aveva previsto. Siamo, infatti, diventati una sola famiglia.
E questa esperienza comincia a diffondersi anche in altri Paesi. Cer-
to è un’esperienza profonda, non facile da trasmettersi e che non
manca di suscitare interrogativi. È una testimonianza che l’unità,
nella distinzione, è veramente possibile, ma bisogna avere il corag-
gio di farne l’esperienza.
È quanto ho sperimentato anche alcuni mesi fa in Giordania, dove
mi sono incontrata con circa 450 persone appartenenti al nostro
Movimento provenienti da diversi Paesi, dalla Grecia al Marocco,
compreso l’Iraq ed alcuni Paesi del Golfo Persico. Una quarantina
dei presenti erano musulmani. Tutto il mondo, in quei giorni, stava
vivendo con il fiato sospeso per il pericolo di un attacco alla Siria.
Insieme, abbiamo toccato con mano che il dialogo è possibile, la
convivenza è attuabile ed è la via verso la piena presa di coscienza
che l’umanità è una famiglia.
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Fin dall’inizio della sua esperienza, che comincia con la scoperta di Dio-
Amore in piena guerra mondiale, la Lubich trova un termine unico e univer-
sale per parlare del suo carisma, la parola “Ideale”. Il termine fa riferimento
a diversi momenti precisi della fondazione, in particolare quando, durante la
guerra, la Lubich si chiede se esista «un ideale che nessuna bomba poteva
distruggere? La risposta era stata immediata: Sì: Dio! E allora, ci dicemmo,
faremo di Dio l’ideale della nostra vita»32. Questa parola evoca quindi per
lei prima di tutto Dio; ma anche l’unità. A Harlem afferma: «l’Ideale che il
Movimento vive è proprio quello dell’unità»33. Più generalmente, con la pa-
rola Ideale vuole esprimere la luce nuova che sente di aver ricevuto con il
carisma.
Per comunicare questa luce, racconta i diversi episodi fondanti della
nuova vita scoperta in mezzo ai bombardamenti. E così narra la piccola-
grande storia degli inizi del Movimento, condividendo la sua sorpresa e la
sua gioia nello scoprire come le frasi del Vangelo potevano essere messe in
pratica, specialmente quelle sull’Amore di Dio per noi e sull’amore al prossi-
mo. Fa notare che Dio stesso non ha messo però l’unità o l’amore reciproco
come prima tappa, ma che è partito piuttosto dall’amore per i poveri, detta-
glio importante per i musulmani.
Infine, la Lubich spiega come si sono sviluppati i dialoghi come mezzi
per perseguire lo scopo specifico del Movimento: per i cristiani, contribuire
a realizzare il «che tutti siano uno» di Gesù (Gv 17, 21); per le persone di
altre religioni, l’unione che si può avere se tutti mettono in pratica la “regola
d’oro” presente in tutte le grandi religioni; per le persone di convinzioni non
religiose, mettere in evidenza i valori: «noi con loro lavoriamo per salvare i
valori».
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posto, non l’arte al primo posto, non la salute al primo posto, non i beni, ma
Dio al primo posto».
quella che mette insieme la famiglia umana, come fa una madre nella fami-
glia naturale.
Il “noi” traduce bene la realtà che sta vivendo insieme con i musulmani
in quel momento.
Nel secondo tema di Chiara Lubich ai musulmani, ella parla della preghie-
ra e dell’unione con Dio, tema molto appropriato al dialogo islamocristiano,
come lei stessa sottolinea. Negli anni precedenti, nell’intero Movimento si
era approfondita la spiritualità dell’unità evidenziando come l’amore debba
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Il terzo e ultimo tema della spiritualità trattato dalla Lubich nel quadro
degli incontri internazionali dei musulmani amici del Movimento dei Fo-
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Quando Chiara annuncia l’amore reciproco spiega che esso si può sug-
gellare con il patto di essere pronti a dare la vita l’uno per l’altro. Patto che
porta a una vita, una pace, una gioia tutta nuova.
Ma a Harlem succede un fatto nuovo: alla conclusione, l’imam W.D. Mo-
hammed e la fondatrice del Movimento dei Focolari, in un fuori programma,
dichiarano «un patto, nel nome del Dio unico, per lavorare senza sosta alla
pace e all’unità»50, patto che diventerà poi il fondamento del dialogo tra i
seguaci dei due movimenti, creando una comunione tra le due istituzioni.
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1
Lo scopo specifico del Movimento viene articolato secondo una linea vici-
na ai quattro grandi dialoghi dell’enciclica Ecclesiam suam (ES) di Paolo VI: dialogo
all’interno della Chiesa cattolica, dialogo ecumenico, dialogo interreligioso, dialogo
con persone di convinzioni non religiose sulla base dei valori umani e cristiani, e il
dialogo con la cultura e le realtà umane. In Ecclesiam suam, questi ultimi due dialoghi
sono raggruppati nel dialogo per la pace. Cf. ES 110–117.
2
Cf. Opera di Maria, Statuti generali, La premessa di ogni altra regola, 2007, p. 7.
3
Secondo il versetto del Vangelo di Matteo: «dove due o più sono riuniti nel
mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18, 20) e secondo l’esperienza dei discepoli
di Emmaus (Lc 24, 13-35).
4
Cf. Lc 24, 32.
5
ES 66-67.
6
Opera di Maria, Statuti generali, con i diversi decreti di approvazione dal 1990
al 2007 da parte del Pontificio Consiglio per i Laici.
7
«Si può dire che l’amore è senza programma, ma ne crea anche bellissimi e ric-
chissimi, come il vostro. […] L’ amore è più forte di tutto e questa è la vostra fede,
la scintilla ispiratrice di tutto quello che si fa con il nome Focolari, di tutto quello
che voi siete, di tutto quello che voi fate nel mondo. L’amore è più forte. È una ri-
voluzione. […] Questo è anche il radicalismo dell’amore. Ci sono stati nella storia
della Chiesa tanti radicalismi dell’amore. […] C’è anche il vostro radicalismo dell’a-
more, di Chiara, dei Focolarini: un radicalismo che scopre la profondità dell’amore e
la sua semplicità, tutte le esigenze dell’amore nelle diverse situazioni e cerca di far
vincere sempre questo amore in ogni circostanza, in ogni difficoltà. […] Possiamo
dire che la vostra opera di evangelizzazione comincia dall’amore per arrivare a Dio.
Molte volte si comincia da Dio per arrivare forse all’amore. Voi avete accentuato
questa formula meravigliosa, come la formula di S. Giovanni: Dio è Amore» (visita
di Giovanni Paolo II al Centro Internazionale di Rocca di Papa, il 19 agosto 1984, in
Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VII, 2, 1984 [Luglio-Dicembre], Libreria Editrice
Vaticana 1984, pp. 223-224).
8
C. Lubich, Una via nuova. La spiritualità dell’unità, Città Nuova, Roma 2002.
9
L’articolo 1 degli Statuti generali dell’Opera di Maria recita: «L’Opera di Maria
o Movimento dei Focolari è un’associazione privata, universale, di diritto pontificio,
dotata di personalità giuridica, a norma dei cann. 298-311 e 321–329 del Codex Iuris
Canonici (CIC), costituita secondo le norme della Chiesa cattolica e di questi statuti
generali approvati dalla Santa Sede. […] Nella loro applicazione alle persone che
fanno parte del Movimento dei Focolari, gli Statuti tengono conto dei loro vari modi
di appartenenza all’Opera. Possono vivere integralmente gli articoli che riguardano
la spiritualità (cf. artt. 1-9 e 23-7) le persone che fanno parte dell’Opera come mem-
bri o come aderenti (cf. artt. 17 e 18) [cioè i cattolici, n.d.r.]. I cristiani di altre Chiese
e Comunità ecclesiali vivono la spiritualità nella misura in cui le differenze nella fede
cristiana e la prassi delle singole Chiese o Comunità ecclesiali lo permettono (cf.
artt. 20 e 141-145). I seguaci di altre religioni aderiscono all’Opera, accomunati ad
essa sulla base del senso religioso, e ne vivono in qualche modo lo spirito (cf. artt.
21 e 146). Le persone di convinzioni non religiose aderiscono al Movimento e desi-
derano condividerne le finalità secondo la loro coscienza, praticando il rispetto e
l’amore incondizionati verso ogni prossimo ed agendo in spirito di fratellanza (cf.
artt. 22 e 147)». Questa espressione giuridica mette in evidenza che il modo fon-
damentale di appartenere al Movimento è la condivisione della sua spiritualità oltre
alla condivisione della sua struttura e dei suoi scopi. La parte riguardante i seguaci
delle grandi religioni è quella più generica e ciò è dovuto al fatto che comprende re-
ligioni molto diverse tra loro. Riferendosi ai musulmani in particolare, come questo
articolo intende mettere in evidenza, si vedrà che la condivisione della spiritualità è
abbastanza ampia.
10
L’imam Warith Deen Mohammed (o W.D. Mohammed) nato Wallace D.
Mohammed, figlio di Elijah Mohammed, è stato leader della principale comunità
di musulmani afroamericani dal 1975 fino alla sua morte il 9 settembre 2008, con
un numero di membri tra 1 e 2 milioni. Con la sua leadership, la sua comunità inte-
gra progressivamente l’islam sunnita e s’apre al dialogo interreligioso. Egli diven-
ta presidente effettivo dell’allora Conferenza Mondiale delle Religioni per la Pace
(WCRP). Incontra il papa per la prima volta nel 1996. È attraverso la WCRP che
entrerà in contatto con il Movimento dei Focolari.
11
Cf. http://www.focolare.org/usa/our-journey-towards-the-excellence-of-the-
human-family/ sulla visita di Chiara Lubich alla moschea di Harlem il 18.5.1997.
12
Cf. R. Catalano, Christian–Muslim Dialogue. The Experience of Chiara Lubich and
the Focolare Movement Part 1, Encounter 385, pp. 8-10.
13
Ibid., pp. 11-12.
14
Ibid., pp. 10-11.
15
Cf., per esempio, P. Coda, Il Logos e il Nulla. Trinità Religioni e Mistica, Città
Nuova, Roma 2003.
16
C. Lubich, La dottrina spirituale, Città Nuova, Roma 2006, p. 5.
17
Cf. M. Cocchiaro, Nel deserto fiorisce la fraternità. Ulisse Caglioni fra i musulmani,
Città Nuova, Roma 2006.
18
Natalia Dallapiccola è stata la prima compagna di Chiara Lubich e correspon-
sabile del Centro per il Dialogo Interreligioso del Movimento dei Focolari dalla sua
fondazione nel 1977 fino al 2 aprile 2008, data della sua morte. Cf. M. Cocchiaro,
Natalia. La prima compagna di Chiara Lubich, Città Nuova, Roma 2014.
19
Enzo Fondi, focolarino medico-chirurgo e sacerdote fu corresponsabile del
Centro per il Dialogo Interreligioso dagli inizi degli anni ’80 fino alla sua morte il 31
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paul lemarié
dicembre 2001. Coautore di Un popolo nato dal Vangelo. Chiara Lubich e i Focolari, San
Paolo, Cinisello Balsamo 2003.
20
P. Coda, Nella Moschea di Malcolm X. Con Chiara Lubich negli Stati Uniti e in
Messico, Città Nuova, Roma 1997, p. 26.
21
Il 18 maggio 1997 era anche il giorno liturgico della festa di Pentecoste per la
Chiesa cattolica.
22
P. Coda, Nella Moschea di Malcolm X, cit., p. 23.
23
Nome della cittadella di testimonianza del Movimento dei Focolari negli Stati
Uniti che comprende circa 100 persone membri di tutte le vocazioni del Movimento.
24
P. Coda, Nella Moschea di Malcolm X, cit., p. 13.
25
C. Lubich, La dottrina spirituale, cit., p. 480.
26
C. Lubich, Discorso nella moschea di Harlem (New York 18 maggio 1997), in
«Nuova Umanità», 114 (1997/6), p. 705.
27
Cf. ibid., p. 708.
28
Cf. Nostra aetate, 2.
29
Nato a Tunisi nel 1966, vive a Roma dal 1998, teologo musulmano impegnato
nel dialogo interreligioso in Italia e nel mondo. Ha un dottorato in teologia islamica
dell’Università la Zitouna di Tunisi e un dottorato del Pontificio Istituto di Studi Arabi
e d’Islamistica (PISAI). È docente presso il PISAI e presso la Pontificia Università
Gregoriana di Roma.
30
A. Mokrani, Il dialogo del Movimento dei Focolari con i musulmani, in «Islamo-
christiana», 34 (2008) 83.
31
C. Lubich, Risposta a 13 domande degli amici musulmani (Castel Gandolfo, 3
novembre 2002), cit. in R. Catalano, Spiritualità di comunione e dialogo interreligioso.
L’esperienza di Chiara Lubich e del Movimento dei Focolari, Città Nuova, Roma 2010, pp.
199–200.
32
J. Gallagher, Chiara Lubich. Dialogo e profezia, San Paolo, Cinisello Balsamo
1999, p. 8.
33
C. Lubich, Discorso nella moschea di Harlem, cit., p. 703.
34
Ibid., p. 710.
35
Cf. Corano 2, 165. Quando la Lubich fa questo tipo di citazioni è perché le sono
di solito state date da musulmani stessi, che sentono che in quel versetto è conte-
nuta la realtà che ella vuole evidenziare.
36
Cf. http://www.centrochiaralubich.org/it/documenti/video/121-ci-lega-dio-
noi-siamo-fratelli.
37
Corano 2, 177.
38
Cf. http://www.centrochiaralubich.org/it/documenti/video/121-ci-lega-dio-
noi-siamo-fratelli.
39
Corano 66, 12a; cita anche 3, 42; 5, 75. Cf. http://www.centrochiaralubich.
org/it/documenti/video/121-ci-lega-dio-noi-siamo-fratelli.
40
C. Lubich, Risposta a 13 domande degli amici musulmani, Castel Gandolfo 3 no-
vembre 2002, trascrizione da registrazione.
41
C. Lubich, Una via nuova. La spiritualità dell’unità, cit., p. 65.
42
C. Lubich, Incontro con amici musulmani. La preghiera, la meditazione e l’unione
con Dio, in «Nuova Umanità», 127 (2000/1), p. 16
43
Ibid., pp. 17-18.
44
Rāmi, cit. da C.M. Guzzetti, Islam in preghiera, LDC, Torino 1991, p. 151.
45
C. Lubich, L’amore al prossimo, in «Nuova Umanità», 144 (2002/6), pp. 709–
719.
46
Ibid., p. 710.
47
C. Lubich, La fraternità e la pace nelle diverse religioni, discorso inedito fatto a
Madrid il 7 dicembre 2002.
48
Cf. C. Lubich, L’arte di amare, Città Nuova, Roma 2005.
49
C. Lubich, L’amore al prossimo, cit., p. 716.
50
R. Catalano, Spiritualità di comunione e dialogo interreligioso, cit., p. 58.
51
C. Lubich, L’amore al prossimo, cit., p. 714.
52
Corano, 41, 34 nella traduzione di A. Bausani, Il Corano, BUR, Milano 1996, p.
354.
53
Nostra aetate, 2.
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punti cardinali
Dialogare in profondità
Intervista a Moreno Orazi
mente credenti, non in Dio, bensì nei valori più profondi dell’uomo, e spesso
con coerenza maggiore di tanti cristiani. Uno di loro è l’interlocutore della
seguente intervista.
Può interessare il fatto che, nei primi 15 anni della sua esistenza, nel Mo-
vimento dei Focolari non appariva il termine dialogo. Ciononostante, già nel
1949 Chiara Lubich ha tracciato il DNA di qualsiasi dialogo del Movimento,
sia al suo interno sia con persone fuori di esso. Che lei abbia tirato fuori
questo testo dei primissimi tempi in uno dei suoi ultimi impulsi spirituali, nel
gennaio 2006, dà allo scritto quasi un timbro di testamento:
Poiché è l’anno che, per noi più impegnati nel Movimento, è dedica-
to all’approfondimento di Gesù abbandonato, vorrei oggi penetrare
qualcosa che il suo grido può dirci, qualcosa di utile alla nostra vita.
Scrivevo nel ’49: «Per accogliere in sé il Tutto bisogna essere il nulla
come Gesù Abbandonato [...]. Bisogna mettersi di fronte a tutti in
posizione d’imparare, poiché si ha da imparare realmente. E solo il
nulla raccoglie tutto in sé e stringe a sé ogni cosa in unità: bisogna
essere nulla (Gesù Abbandonato) di fronte ad ogni fratello per strin-
gere a sé in lui Gesù: “Qualunque cosa avrete fatto a uno solo dei
miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me (cf. Mt 25, 40)”».
Queste parole mi sembrano importantissime per mettere in pratica
il nostro “farci uno” con tutti. “Bisogna – ripeto – essere nulla (Gesù
Abbandonato) di fronte ad ogni fratello” e non avere alcuna preoc-
cupazione di comunicare qualcosa del nostro Ideale. Si comunica
essendo nulla. È la nostra via per l’inculturazione.
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intervista a moreno orazi - a cura di franz kronreif
Per cominciare vorrei che ti presentassi, tracciando un tuo breve profilo uma-
no e professionale. Sei, come me, un architetto e svolgi la libera professione. Quali
sono state le tue esperienze lavorative più significative e in quali progetti sei ora
impegnato?
Sono nato nel 1956 in Umbria, nel centro Italia, terra natale di san Be-
nedetto e di san Francesco. Sono felicemente sposato e ho due figli e vivo a
Spoleto. Dopo la maturità classica, mi sono laureato in architettura a Roma
nel 1981. Ora esercito la professione di architetto presso la ABACO – Società
Cooperativa di Ricerca e Progetti –, di cui sono cofondatore.
Ho diretto i lavori di restauro del Teatro Nuovo e del Palazzo Comunale
di Spoleto, oltre che di altri significativi edifici e di porzioni di tessuti urbani
storici di interesse storico-artistico e documentario nei territori umbri vicini
a Spoleto. A partire dal 1994 ho partecipato alla redazione di programmi
integrati economici e urbanistici per la riqualificazione urbana e territoriale.
Mi sono occupato, nel corso della mia vita e nell’ambito della mia pro-
fessione, dei linguaggi artistici e delle estetiche contemporanee, sia perché
si tratta di un campo affine a quello professionale, sia perché le arti visuali
nell’attuale civiltà delle immagini occupano una posizione centrale nel siste-
ma della comunicazione. In questo ambito ho collaborato con l’artista con-
cettuale americano Sol Lewitt allo sviluppo e alla realizzazione del progetto
“Pyramids e complex forms”. Presso l’Università della Terza Età di Spoleto
tengo delle conferenze sulla storia dell’architettura e della città, sui linguag-
gi visivi e sulle estetiche contemporanee, nonché su argomenti di cultura
generale collegati ad aspetti delle scienze mediche.
A parte la famiglia, alla quale so che tieni molto, quali sono state le esperienze
più significative nella tua formazione umana e culturale che hanno maggiormente
influenzato le tue scelte di vita?
Ho sempre considerato la cultura e la conoscenza come un mezzo per
elevarsi anche spiritualmente, uno strumento di liberazione personale e col-
lettivo. Penso che la rivoluzione vera sia quella combattuta con le armi della
cultura e questa ha come scopo non solo la critica delle strutture sociali per
Mi sembra che nelle tue scelte di vita e professionali tu abbia sempre privile-
giato situazioni, ambienti sociali, spazi di impegno politico in cui più fortemente
agiscono le componenti della condivisione, della solidarietà e il carattere colletti-
vo. Come nasce e come si colloca all’interno di questo quadro il tuo rapporto con il
Movimento dei Focolari e in quali ambiti hai profuso il tuo impegno?
In effetti, trovo fortemente appaganti sul piano umano e personale le
esperienze in cui sono prevalenti la dimensione collettiva e del gruppo. Il
mio rapporto con il Movimento dei Focolari inizia con un incontro nella mia
parrocchia, quella stessa da cui mi ero allontanato da ragazzino. Mi colpì
il carattere aperto e franco della discussione e il clima amichevole e acco-
gliente. Da quel giorno ho iniziato un percorso di progressivo avvicinamento
e di coinvolgimento nel Movimento. Ho quindi partecipato a un congresso
del “Dialogo con persone di convinzioni non religiose” 1; ho poi concorso ad
avviare una delle prime Scuole di formazione politica organizzate dal pro-
fessor Antonio Maria Baggio: un’esperienza pioneristica che ha anticipato
l’esperienza delle scuole di formazione in corso promossa dal Movimento
Politico per l’Unità (M.P.P.U.). È in questo ambito che ho profuso il mio mag-
giore impegno, oltre naturalmente alla mia partecipazione costante e attiva
al IV dialogo e alla vita della comunità locale del Movimento.
contaminazioni da dialogo
Tu fai parte del gruppo del dialogo tra credenti e persone di convinzioni non
religiose. Nella realtà locale del Movimento dei Focolari della tua città sei, però,
98 nu 225
intervista a moreno orazi - a cura di franz kronreif
Puoi chiarirmi meglio che cosa intendi quando dici che ti sei lasciato “contami-
nare in modo lucido e consenziente”?
Quando si rivolge a persone di varie confessioni religiose, Chiara Lubich
parla a interlocutori nel cui spazio mentale il pensiero di Dio è presente e
vivo, e la dimensione della fede occupa una posizione centrale. Trova quindi
nei credenti persone sensibili e pronte a recepire la sua proposta. Ma come
è possibile che il suo discorso faccia breccia anche nella mente (e nel cuore)
dei non credenti, cioè di persone come me che misconoscono la dimensione
del trascendente, rifuggono dal sentimento del sacro, si muovono all’interno
di una dimensione puramente umana dello spirito?
Seguire l’insegnamento di Chiara per l’uomo di fede significa asseconda-
re la volontà di Dio e concorrere a realizzare il disegno d’amore sotteso alla
creazione. Per il non credente consiste, invece, nell’assumere comporta-
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intervista a moreno orazi - a cura di franz kronreif
Nel tuo impegno professionale e nel sociale hai dato sempre importanza e
priorità alle relazioni personali. Questo aspetto della relazione è centrale nel ca-
risma di Chiara. Igino Giordani, detto Foco, è stato il primo che ha riconosciuto
la valenza sociale, politica ecc. del suo carisma. Che cosa ha provocato in te la
lettura del pensiero di Giordani?
Più che gli scritti di Igino Giordani, di cui ho letto alcuni stralci del Diario
di Fuoco, è stato il suo profilo spirituale, tratteggiato da Pino Quartana, a
farmi riflettere sul carattere personale e relazionale della spiritualità evan-
gelica. Grazie alla dignità riconosciuta nella nostra epoca all’acquisito dirit-
to della parola profana di dar voce all’interiorità dell’uomo, oggi possiamo
parlare con libertà dei temi religiosi, un tempo appannaggio dei chierici e
dei teologi, senza rischiare di finire davanti al tribunale dell’Inquisizione. Mi
prendo dunque questa libertà.
La “conversione” di Foco è avvenuta attraverso la relazione mistica che
si è creata con Chiara. Al tempo stesso Foco era uno studioso della Parola.
Aveva scritto tantissimo sulla Parola. Ha quasi dell’incredibile che sia stato
l’entusiasmo e la forza di una giovane a produrre il “miracolo” dell’approdo
alla fede vera3.
Senza un testimone che ne incarni il significato attraverso il comporta-
mento e che la faccia rifulgere, è come se la Parola restasse muta, come se
le Scritture non fossero sufficienti ad innescare il processo di conversione e il
loro contenuto di indiscutibile verità. In altre parole Dio si affida a mezzi umani
sia per veicolare la sua volontà, sia per mostrarne gli effetti.
Se per Foco questo altro da sé è stata Chiara, per Chiara l’incontro con la
Parola è avvenuto attraverso l’identificazione del disastro della guerra con
la Passione di Gesù, con l’esperienza di Gesù abbandonato e il desiderio di
resurrezione, con il sentimento della caduta e con la forte speranza di su-
peramento e di rinnovamento che condivideva con le sue prime compagne.
Se ne ricava ancora una volta che l’ascolto della Parola o la sua semplice let-
tura, senza la presenza di un Altro, diverso da sé, singolo o comunità, su cui
vederla rispecchiata, non sono sufficienti a generare una fede vera che aiuti a
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intervista a moreno orazi - a cura di franz kronreif
Chiara ha rivolto questo invito anni fa a Luciana Scalacci, una delle prime
partecipanti al gruppo del IV dialogo. Come è possibile, se è possibile – e io
credo di sì –, raccogliere l’invito di Chiara rivolto a tutti noi non credenti del
gruppo del IV dialogo di riconoscerci comunque in Gesù senza venir meno
alle nostre convinzioni a-religiose, a-gnostiche, a-tee o mistico-umanistiche
e senza che ciò comporti necessariamente un atto di conversione?
Per descrivere la mia posizione rispetto alla fede mi definisco cristiano
non credente. Con sfumature diverse questa definizione può essere estesa
alla maggior parte dei non credenti del nostro gruppo del IV dialogo. Direi
che il cristiano non credente fa riferimento in un modo non convenzionale al
Vangelo e all’insegnamento di Gesù. Ciò che mette tra parentesi rispetto
al cristiano credente è l’ispirazione divina, la dimensione trascendente e la
componente miracolistica del cristianesimo.
Si può essere cristiani non credenti e, nello stesso tempo, far proprio il
Vangelo evitando di trasformarlo in una sorta trattatello etico-pratico del
tipo dei manualetti di psicologia applicata tanto diffusi oggi? E ancora, muo-
vendo da questo presupposto, come possiamo noi non credenti far nostro
l’appello di Chiara di accogliere comunque Gesù dentro di noi e condividere
il carisma nella parte che afferma che possiamo superare indenni le dure
prove dell’esistenza, vivere momenti di paradiso qui sulla terra, sperimen-
tare rapporti umani fraterni basati sul rispetto e sull’amore reciproco solo
se ci affidiamo a lui. Chiara sembra offrirci una via d’uscita: se non potete
appallarvi alla sua natura divina, rispecchiatevi nella parte immanente della
sua duplice natura, di Uomo-Dio.
L’arcivescovo della città in cui vivo, al quale ho manifestato la mia parti-
colare condizione di cristiano non credente operante all’interno della comuni-
tà locale del Movimento dei Focolari, ha sostenuto che questa definizione,
dal punto di vista della Chiesa e delle persone di fede, contiene un’insupe-
rabile contraddizione in termini che non è tanto di natura logico-linguistica,
ma di sostanza. È la stessa risposta che mi ha dato l’iman di Perugia quando
ho espresso a lui la mia posizione rispetto alla fede in occasione del dibattito
sull’importanza del dialogo.
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intervista a moreno orazi - a cura di franz kronreif
vare nuove forme per esprimere il sentimento del sacro nei mutati scenari
dell’oggi.
Il carisma di Chiara, concorrendo a far emergere alcuni tratti universa-
listici della rivelazione cristiana comuni ad altre religioni positive e all’uma-
nesimo, sganciato da riferimenti religiosi diretti, mi sembra che, in qualche
modo, prefiguri questo sviluppo. La stessa prospettiva dell’unità della fa-
miglia umana che il carisma di Chiara ha enucleato dal Vangelo postula la
possibilità/necessità di elaborare una vera e propria “teologia dell’Unità”
che includa la non credenza come componente della teofania e della rivelazio-
ne cristiana. Un esito che la parabola della madre cananea sembra a sua volta
prefigurare e legittimare.
Il carisma contiene una doppia sollecitazione: esorta i credenti a conce-
pire la fede in modo aperto e non cristallizzato, e i non credenti a recuperare,
se non la fede, alcuni contenuti più immanenti del cristianesimo, validi sia
per i credenti che per i non credenti, vale a dire il desiderio di essere accettati
e considerati dagli altri e l’aspirazione a una vita semplice vissuta nella ricer-
ca costante della pace e dell’armonia.
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intervista a moreno orazi - a cura di franz kronreif
1
Comunemente chiamato, nel Movimento dei focolari, IV dialogo. Questa e
tutte le note esplicative presenti nel testo sono a cura dell’intervistatore.
2
Il dialogo mira alla fratellanza universale nel senso del «Che tutti siano uno»
(Gv 17, 11).
3
Per “fede vera” va intesa qui la fides qua, imprescindibilmente connessa con
l’amore, giacché risposta a Dio-Amore.
4
Giordani usò questa espressione in La rivolta cattolica (Gobetti, Torino 1925),
libro di denuncia in cui prendeva le distanze dal regime instaurato da Mussolini. In
esso stigmatizzava il collateralismo e l’atteggiamento ambiguo di molti cattolici nei
confronti del fascismo, dettato dall’opportunità di trarne vantaggi economici.
5
La redenzione intesa non solo a livello personale, ma soprattutto sociale. L’in-
tervistato ricorda una frase di Chiara Lubich: «Il Paradiso è una casa che si costrui-
sce di qua e si abita di là».
6
I termini riflettono l’autocomprensione della Chiesa cattolica prima del Con-
cilio Vaticano II: extra Ecclesiam nulla salus, mentre il Vaticano II vede tutti gli uomini
di buona volontà in qualche maniera indirizzati alla Chiesa in senso ampio.
7
Intesa come non appartenenza a una religione o confessione, ma dotata di
intelligenza esistenziale o spirituale (cf. Francesc Torralba Rosselló).
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alla fonte del carisma dell’unità
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lucia abignente
le, qualcosa della realtà quotidiana di allora, nel susseguirsi rapido, a volte
incalzante, di eventi contrastanti: momenti di dolore, che ben ricordano che
generare significa soffrire, «turbarsi, cadere sotto il peso della croce a volte
troppo forte», ma anche di luce, di gioia pura, di fede, di fedeltà provata a
Gesù abbandonato e di unione intima con lui5.
La scelta del tempo da prendere in esame ricade sull’anno 1954. Per col-
locare la breve ricostruzione storica va ricordato, tuttavia, che nel febbraio
1952, per volere del Sant’Uffizio, a Chiara Lubich venne tolta la direzione del
Movimento. Un tempo di prova e di buio avvolse in quegli anni la sua anima,
intuibile dalle scarne ma intense parole con cui lei stessa lo descrive:
In questa notte dello spirito ella ebbe accanto un esperto e sapiente re-
ligioso, p. Giovanni Battista Tomasi, che era stato superiore generale dei
padri Stimmatini. Dopo il trasferimento di Chiara a Roma, l’arcivescovo di
Trento lo aveva incaricato di assistere il Movimento in questa fase delicata
della sua storia.
scelti che riteneva ormai maturi per questo passo. Scriveva: «Quanto vi dico
è un dono immenso di Maria». E precisava: «Vi voglio far notare che io sento
di darvi questo mio consenso soltanto per il fatto che voi vorrete rimane-
re sempre in focolare: condizione che mi garantisce che voi l’osserverete.
Infatti questo voto suppone l’unità con chi v’ha donato l’Ideale». Se tutti
acconsentiranno, nota Chiara «per l’Immacolata Maria dovrebbe aver 39
cuori legati per sempre. Altri li sento maturi per più tardi»7.
All’evento della consacrazione, avvenuto a Roma, era presente anche
Igino Giordani, dal 1948 partecipe della vita del Movimento. Egli, deputato,
scrittore, padre di quattro figli, lo visse con grande commozione e umiltà.
Chiara ricorda che lui «elogiava con parole sublimi, come lui solo sapeva
fare, la vocazione alla verginità che vedeva altissima». Fu allora che ella gli
disse pressappoco così:
Con la consacrazione di Giordani, che segna l’inizio di una via nuova se-
guita poi da tanti sposati, inizia a stagliarsi, in quello che allora veniva de-
finito “Ordine di Maria”, un “terzo ramo”, accanto a quello delle focolarine
(il primo) e dei focolarini (il secondo). Sono giorni di luce e di gioia nei quali
Chiara ha pure delle intuizioni circa gli altri voti e nella sua anima scorre
meravigliosamente il testo di una nuova Regola, che sta preparando per la
Santa Sede.
Ecco, però, stendersi di nuovo l’ombra della croce. P. Tomasi, ancora lu-
cidissimo nei suoi 88 anni, viene colpito da una trombosi cerebrale. Prima di
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lucia abignente
entrare in coma, chi gli è accanto accoglie da lui una raccomandazione che
comprende riferita a Chiara: «Bisogna attingere alla fonte. Bisogna star vici-
ni al Fuoco» 9. Chiara non riesce a vederlo, giacché in quel momento si trova
a Trento, ma con commozione e gratitudine unisce la sua offerta a quella di
lui. Quasi “invertendo” i ruoli che avevano segnato il loro rapporto, lo prepa-
ra e lo accompagna all’incontro con Dio con queste parole:
Sembra che questa lettera sia stata per il padre stimmatino un dono per
vincere con l’amore il timore della morte, tanto che aveva abbracciato con
impeto il Crocifisso. Il 2 gennaio 1954, p. Tomasi raggiunge il cielo.
Alcuni giorni dopo, il 16 gennaio 1954, Enzo Fondi, focolarino medico, al-
lora in focolare a Roma, scrive una lettera circolare a tutti i focolarini e le fo-
colarine. La apre così: «Chiara desidera che vi scriva dandovi notizie della sua
salute, che, come forse saprete, in questi ultimi giorni ha subìto un forte con-
traccolpo dal grande dolore provato per la morte di P. Tomasi». Continua poi:
Ho avuto il gran dono di Dio di poter essere vicino a Chiara nei mo-
menti in cui stava così male ed ho potuto seguire tutte le fasi della
sua malattia. È stata una cosa che non so descrivervi e che ha la-
sciato nel mio animo una forte impressione: Chiara era prostrata e
costretta a letto […]. Vi dico che con tutte le pope eravamo seria-
mente preoccupati e tenevamo un gran Gesù in mezzo per poter
curare Chiara e per non farle mai mancare quella unità di cui anche
il suo fisico aveva bisogno11.
Ora Chiara è come ritornata tra noi, ma la sua anima che ha tocca-
to l’Aldilà, è spaesata quaggiù. Oggi ci parlava di Maria che con la
morte di Gesù toccò il colmo dei suoi dolori, dopo di che doveva
ben esser stata spaesata quaggiù ma, per adempiere la sua missio-
ne di Madre dell’umanità, doveva rimanere per la Chiesa nascente,
rimanere per gli Apostoli… forse si sarebbero dispersi senza di Lei,
vincolo di unità.
Mentre Chiara così parlava ci pareva dicesse anche di lei…
Noi non sappiamo l’abbandono sempre nuovo nel quale Gesù la
chiama14.
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lucia abignente
Credo che questo fu uno dei più bei doni che Lei ci fece. E sento che
a parole non si può dire quello che fu P. Tomasi per noi e per la mia
anima in particolare.
La morte venne come un ladro e siccome era Gesù questo “ladro”
lasciò lo spirito mio pronto ma il fisico cedette.
Ora mi vo’ rimettendo con una lentezza incredibile nonostante i
medici così bravi; però mi rimetto e sono contenta perché so che
Lei m’ha sempre comandato di star bene e di guarire17.
Pur non sapendo se sarà in grado di esser presente, Chiara segue in quei
mesi con molta partecipazione l’avvicinarsi dell’ordinazione di Pasquale Fo-
resi, il primo tra i focolarini a diventare sacerdote. A lui, pur giovane, nel
1950, aveva sentito di dover domandare di condividere con lei la “respon-
sabilità” del Movimento. Ella coglie l’unicità di tale evento, non solo in quel
momento storico ma anche per l’avvenire: è lo sbocciare di quel sacerdozio
mariano, espressione della nuova Opera che sta nascendo nella Chiesa. Ne
sottolinea a tutti i focolarini l’importanza e desidera che siano tutti presenti
quel giorno e il giorno dopo alla prima messa, così da “concelebrare”, come
afferma con espressione significativa, in quella che vede non come «una co-
mune prima Messa» di un focolarino, ma come «la prima Messa dell’Ordine
di Maria»18 . È il «fiore dell’Ordine di Maria», come canta Giordani nella sua
poesia, dove scrive ancora:
«Tu porti a Cristo di Maria la dote,
da vergini fiorito sacerdote»19.
Il 4 aprile, dunque, a Trento, nella chiesa delle suore di Maria Bambina,
Pasquale Foresi viene ordinato sacerdote da mons. de Ferrari alla presenza
dei focolarini e di Chiara stessa, seppur la sua partecipazione, per ovvi mo-
tivi, rimane in secondo piano.
Alla gioia dell’ordinazione di Foresi si unisce, di lì a poco, l’annuncio della
chiusura della visita apostolica. Cessa così il mandato del primo visitatore,
incaricato nel 1951 dal Sant’Uffizio: il francescano p. Enrico Corrà. Potrebbe
sembrare un annuncio gioioso, in realtà si apre una nuova inchiesta, affidata
116 nu 225
lucia abignente
ciò non vuol dire che io dovrò dimenticarvi del tutto. E come potrei
dimenticare i buoni esempi che mi avete dato, la vostra gentilezza,
la vostra carità? Non vi dimenticherò nella preghiera, come, son
certo, neppure voi mi dimenticherete, pregherò anzi molto il Signo-
re che realizzi quanto prima, nella maniera che a Lui più piaccia, le
vostre nobili e sante aspirazioni20.
un autunno di sospensione
L’autunno del 1954 è segnato dal lavoro tenace di p. Orlini. I primi prov-
vedimenti da lui presi sembrano infrangere la gioia che l’ordinazione di don
Foresi aveva portato. «Siamo in piena inchiesta», scrive Chiara il 30 settem-
bre a mons. de Ferrari e spiega: «Don Foresi venne staccato e si dubita che
anche l’On. Giordani sia tolto (se non dal Movimento, da capo di quelli, fra i
nostri, sposati)». Continua dunque:
118 nu 225
lucia abignente
Nel post scriptum della lettera comunica poi una notizia: «sembra non sia
stata accettata la Regola fatta per noi da P. Orlini»28 . La si potrebbe consi-
derare una notizia negativa e, invece, la Lubich la esprime con sollievo. Lo si
comprende perché ella sa che quella Regola, a cui non aveva potuto dare un
vero contributo, non corrispondeva al disegno di Dio sull’Opera. «Se è vero
– conclude Chiara nella comunione con il suo arcivescovo –, anche in questo
tratto non c’è da vedere che la Sapiente Mano provvidenziale di Dio Che ci
vuole come ci ha fatti»29.
Il 1954, anno di abissi e di vette, uno dei più dolorosi e dei più importanti
nella storia dell’Opera di Maria30, sembra dunque concludersi con segnali
positivi ed eventi che infondono speranza, in modo diverso da come si era
aperto. In realtà, la scelta rinnovata di Gesù nel suo abbandono sottostà e
lega in uno questo come, si potrebbe dire, ogni tempo. «Fin d’ora L’assicuro,
[…] che il mio e nostro cuore è avvinghiato alla Croce e quindi speriamo di
non edificar invano»31: così Chiara Lubich aveva scritto a mons. de Ferrari in
primavera, nei giorni di attesa dell’ordinazione di Pasquale Foresi, giorni di
gioia che l’avevano allo stesso tempo concentrata sull’Abbandonato, su cui
tener sempre fissa la bussola della vita32. Un impegno che le lettere scritte
alla fine del 1954 e indirizzate a persone diverse confermano inequivocabil-
mente.
conclusione
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lucia abignente
luce»33. Nel tempo di gestazione nel grembo della Chiesa Madre, la vita di
Chiara e di chi le è accanto testimonia come la venuta alla luce dell’approva-
zione si attende non attendendo, valorizzando ogni incontro con il Dio ab-
bandonato. Lo esprime significativamente una lettera che, in occasione del
Natale 1954, Chiara Lubich scrive a tutti i focolarini nei confronti dei quali, lo
ricordiamo, proprio all’inizio di quell’anno Dio le aveva dato di riscoprire più
profondamente la maternità34.
Oggi, in un tempo in cui, di fronte ai drammi dell’umanità, ciascuno è
nuovamente invitato a uscire dalla propria indifferenza, ad andare oltre se
stesso per «accogliere l’altro, tutti: chi è nel bisogno, chi ha lasciato la pro-
pria terra costretto dalle guerre e dalla fame, chi è solo, marginato, carce-
rato…» così che, come affermava Maria Voce, l’«aver sperimentato l’amore
di Dio che ci salva» renda capaci di «essere una mano tesa a “salvare” chi ci
è accanto», il messaggio di questa lettera si rivela di luce e particolarmente
attuale. Nello stesso tempo ci fa capire l’autenticità di quella vibrante affer-
mazione della Lubich, quando, ricordando anni dopo la prova vissuta negli
anni Cinquanta – nella coscienza del proprio limite che, per dare gloria a
Dio, la induceva a ripetere con san Paolo: «Non mi vanterò fuorché delle mie
debolezze» (2 Cor 12, 5) – riconosceva:
Tuttavia non potevo negare che Dio stava donando a me per prima
uno dei più grandi favori che egli fa a un’anima: la maternità spiri-
tuale. E ora, che la Chiesa ha riconosciuto il compito che Dio m’ha
affidato, quella maternità mi autorizza a dire ai miei, pur cosciente
della mia nullità: «Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi
in Cristo, ma non certo» molte madri; «perché sono io che», nell’u-
nità con Gesù abbandonato, «vi ho generato» focolarini (cf. 1 Cor
4, 15).
Carissimi,
Fra poco è Natale e mai come quest’anno la mia anima l’attende con
gioia: non è un’attesa, è una continua festa natalizia!
Perché sarà?
Forse perché l’Ordine è già nato, forse perché nascerà.
E in questa gioia intima, gioia di Gesù, mai ho sentito d’amarvi così
tanto, ad uno ad uno e tutti insieme.
L’Ordine è figlio di Maria ed, avendo Dio scelto, come prima anima
dell’Ordine, la mia, forse Maria mi fa sentire un po’ quella gioia che
Lei – come Madre – dovrebbe sentire per il figlioletto nascituro o
neonato.
______
Certo è che ciò che importa è l’Amore, l’Amore vero: quello garan-
tito perché nulla v’è di nostro, ma tutto è di Dio, quell’Amore che
abbiamo imparato ad avere in cuore non distogliendo lo sguardo da
Gesù Abbandonato.
È qui il segreto dell’Unità, la rinascita delle anime nostre, dell’Ordi-
ne e, forse, del mondo.
Volevo scrivervi per farvi gli auguri.
Eccoli:
Gesù Abbandonato rinasca in quella notte radioso nei nostri cuori come
unica stella della vita nostra.
Che Dio chiuda gli occhi nostri a tutto per aprirli solo su di Lui.
Chiediamo quest’unica grazia per ciascuno e per tutti: di amarLo
per tutta la vita onde Iddio possa fare di essa una scia di Luce: una
testimonianza di Dio.
E basta.
Ciò basta.
AmiamoLo in noi, nelle infinite sfumature dei nostri dolori, ma
amiamoLo soprattutto fuori di noi, nei fratelli, in tutti i fratelli.
E se fra i fratelli possiamo aver preferenze, amiamoLo nei più pec-
catori, nei più miserabili, nei più cenciosi, nei più ripugnanti, nei più
abbandonati, nei rifiuti della società, nei più straziati.
«Veni aevangelizare pauperibus»: sia la nostra comune parola.
È per essi soprattutto il Vangelo che promette beatitudini: a chi
piange, a chi ha fame, ai perseguitati...
Prendiamo quelli di mira: sono i prediletti del Signore; siano i pre-
diletti nostri.
Diamoci senza misura cercando e trovando il Volto dell’Abbando-
nato fra noi e attorno a noi e chiediamo a Natale che nasca a tal
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lucia abignente
punto l’Amore in noi da essere “altro Gesù”, Chiesa che vive, “al-
tra Maria”, talmente Maria che l’Umanità sofferente, e soprattutto
peccatrice, possa dire di noi, dell’Acies nostra: “Refugium peccato-
rum”, “Consolatrix afflictorum”, “Auxilium Christianorum”.
È la Mèta dell’attimo presente e della vita dell’Ordine: terminato
l’Anno Mariano35, incominci l’èra di Maria: in noi.
______
«Gesù, dacci d’amarTi Abbandonato, così bene
che il mondo veda nell’Ordine “rinata”,
misticamente, Maria».
Ecco la nostra preghiera quella notte.
E questo logicamente il reciproco augurio fra tutti noi.
Chiara36.
1
Sul rapporto tra Chiara Lubich e mons. Carlo de Ferrari, mi permetto di segna-
lare il saggio in via di pubblicazione per i tipi dell’editrice Città Nuova, dove viene an-
che trattato, più ampiamente, il tema affrontato nel presente articolo: L. Abignente,
«Qui c’è il dito di Dio». Carlo de Ferrari e Chiara Lubich: il discernimento di un carisma.
2
Sacra Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari – Sacra Congregazio-
ne per i Vescovi, Mutuae relationes. Criteri direttivi sui rapporti tra i Vescovi e i Religiosi
nella Chiesa, 1978, n. 12.
3
C. Lubich, Il grido. Gesù crocifisso e abbandonato nella storia e nella vita del Mo-
vimento dei Focolari dalla sua nascita, nel 1943, all’alba del terzo millennio, Città Nuova,
Roma 2000, p. 11.
4
Ibid., pp. 68-69.
5
In riferimento a quel tempo Chiara scrive: «Generare significava sempre sof-
frire. E soffrire significava turbarsi, cadere a volte sotto il peso della croce; così come
Egli ha pianto, si è turbato, ha avuto paura, Egli, che non ha tolto il dolore, ma l’ha
valorizzato e sublimato. Generare significava però anche conoscere gioie profonde,
allorché l’abbandono dava il suo frutto: “La donna quando partorisce, è afflitta, per-
ché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più
dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo” (Gv 16, 21). Come Gesù
abbandonato che, quale madre, nel suo straziante grido frutta la redenzione del
genere umano» (ibid., p. 85).
6
Ibid., pp. 59-60.
7
Lettera di Chiara Lubich ad alcuni focolarini e focolarine, 14 novembre 1953,
in Archivio Chiara Lubich (d’ora in poi ACL), F 120 01 10. L’archivio citato è al cuore
dell’Archivio Generale del Movimento dei Focolari (AGMF) a Rocca di Papa.
8
C. Lubich, Igino Giordani: il confondatore, in «Nuova Umanità», 97 (1995/1), pp.
8-9.
9
Cf. la Lettera di Valeria Ronchetti a Maria Elena Holzhauser, in ACL, senza
data e segnatura. Il documento è presumibilmente degli ultimi giorni di dicembre
1953. Ad esso viene allegata la lettera di Chiara Lubich a p. Giovanni Battista Tomasi
del dicembre 1953, qui riportata.
10
Con l’espressione “popo” o “popa”, che in trentino significa ragazzo/a, si è
usato indicare, dai primi anni del Movimento, il profilo di chi, come il “bambino
evangelico”, segue Gesù nella spiritualità dell’unità e, in particolare, i focolarini e le
focolarine.
11
Lettera circolare di Enzo Fondi a focolarini/e, 16 gennaio 1954, in ACL, senza
segnatura.
12
Ibid.
13
Lettera di Chiara Lubich a Luigia Lubich, 22 gennaio 1954, in ACL, F 120 01-00 11.
14
Lettera circolare di Lia Brunet a focolarini/e, 22 gennaio 1954, in ACL, senza
segnatura.
15
Lettera circolare di Chiara Lubich a focolarine/i, 25 gennaio 1954, in ACL, F
120 01 11.
16
Lettera di Giosi Guella ai focolarini/e responsabili delle diverse zone territo-
riali, 1 febbraio 1954, in ACL, senza segnatura.
17
Lettera di Chiara Lubich a mons. Carlo de Ferrari, 13 marzo 1954, in ACL, F
140-01 01-01 02.
18
Cf. Lettera circolare di Chiara Lubich a focolarini/e, 9 marzo 1954, in ACL, F
120 01 11.
19
Poesia di Igino Giordani «Il fiore dell’Ordine di Maria», in ACL, senza data e
segnatura.
20
Lettera di p. Enrico Corrà a Chiara Lubich, 4 agosto 1954, in ACL, F 140-01
01-04 01.
21
Per un approfondimento cf. P. Siniscalco, L’Est europeo, Chiara Lubich e Paolo VI,
in Paolo VI e Chiara Lubich. La profezia di una Chiesa che si fa dialogo, Giornate di Stu-
dio, Castel Gandolfo (Roma), 7-8 novembre 2014, P. Siniscalco - X. Toscani, (edd.),
Edizioni Studium, Roma 2015, pp. 86-110.
22
Lettera di Chiara Lubich a mons. Carlo de Ferrari, 30 settembre 1954, in ACL,
F 140-01 01-01 02.
124 nu 225
lucia abignente
23
Il rapporto e la stima di p. Orlini nei confronti del Movimento si approfondi-
ranno in breve tempo. La positività del suo giudizio sembra possa aver concorso alla
conclusione del suo mandato nel 1956.
24
Cf. la Lettera di Igino Giordani a mons. Carlo de Ferrari, 7 ottobre 1954, in
ACL, F 140-01 01-01 03.
25
Lettera di Chiara Lubich a p. Andrea Balbo, 12 ottobre 1954, in ACL, F 120 01 11.
26
Cf. Lettera di Igino Giordani a mons. Carlo de Ferrari, 12 novembre 1954, in
ACL, F 140-01 01-01 03.
27
Lettera di Chiara Lubich a mons. Carlo de Ferrari, 15 dicembre 1954, in ACL, F
140-01 01-01 02
28
Ibid.
29
Ibid.
30
Va segnalato che risalgono al 1954 anche intuizioni importanti di Chiara Lu-
bich circa gli aspetti concreti della vita dell’Opera di Maria, i cosiddetti “colori”, quali
espressioni della carità. Per una conoscenza di essi, cf. C. Lubich, Una via nuova. La
spiritualità dell’unità, Città Nuova, Roma 2002, pp. 63-160.
31
Lettera di Chiara Lubich a mons. Carlo de Ferrari, 13 marzo 1954, cit.
32
Cf. C. Lubich, La vita, un viaggio, Città Nuova, Roma 1984, pp. 142-145.
33
Non sono solo stelle. All’udienza generale il Papa parla della speranza di Abramo,
in «L’Osservatore Romano», 29 dicembre 2016, p. 8.
34
Lettera circolare di Chiara Lubich ai focolarini/e, dicembre 1954, in ACL, F 120
01 11.
35
In occasione del centenario della definizione dogmatica dell’Immacolata Con-
cezione, Pio XII promulgò, per il 1954, l’Anno Mariano, il primo nella storia. Venne
aperto dal papa l’8 dicembre 1953 e chiuso il 1o novembre 1954.
36
Lettera circolare di Chiara Lubich ai focolarini/e, dicembre 1954.
Economia è cooperazione
di Stefano Zamagni / Michele Dorigatti (edd.)
nu 225
alla fonte del carisma dell’unità
Storia di Light. 9
Luce e fuoco in una società assiderata
i focolari
Igino
Nell’assideramento dello spirito che l’Avversario di
Giordani Dio sta diffondendo per dilatare la morte, ecco che il Si-
gnore accende i focolari e cioè case, dove arde lo Spirito
(1894-1980)
confondatore di Dio, per vivificare le anime, sì da offrire ad esse un
del movimento rifugio e un alimento.
dei focolari. In queste case, distribuite in mezzo all’abitato, come
scrittore, centri di calore spirituale, si raccolgono cristiani dell’uno
giornalista e
e dell’altro sesso a vivere il Vangelo, restando nel mondo
parlamentare
della repubblica senza essere del mondo. Non abbandonano la loro pro-
italiana. fessione, non indossano distintivi, non si separano dagli
altri; ma convivono per l’unum sint, messaggio supremo
di Gesù la sera del sacrificio. I componenti dei focolari
si impegnano ad amare Dio con tutta l’anima, tutte le
forze, tutta l’intelligenza, sopra ogni cosa; e ad amare i
fratelli, in cui cercano la presenza del Signore, convinti
con san Paolo che ante omnia valga la vicendevole carità.
Essi sanno che dove due o tre si adunano nel nome
di Gesù, Gesù è in mezzo a loro. E siccome per amare e
farsi uno con Dio e coi fratelli sanno di dover annullare
se stessi, ecco che a questo mirano perché Cristo viva
con loro.
Per questo i componenti del focolare si mettono ad
amare i fratelli come Lui li ha amati e come Lui vuole che
siano amati: sino a dare se occorre, la vita. Intanto danno il cuore, l’ingegno e
i frutti del lavoro; mettendo in comune i beni temporali, se ne hanno, e quelli
spirituali, quanti ne hanno, piangendo con chi piange, ridendo con chi ride;
vivendo il fratello, nella convinzione che, per il tramite di lui, vivono il Cristo,
che è nel fratello: sopra tutto nel fratello che soffre.
Perciò se si dovesse definire la funzione dei focolari, si potrebbe dire che
essi sono fusione di anime raccoltesi in unità per amare; amare con un cuore
solo: il cuore di Gesù. Ignis caritas. Questo amore è un fuoco divoratore: il
fuoco di Dio che è Amore, il quale dai componenti dei focolari è donato ai
fratelli fuori dai focolari: e quanto più è donato, tanto più cresce.
Come è del pane eucaristico, nutrimento quotidiano di tali anime, il vero
amore reficit sed non deficit: nutrisce ma non si esaurisce.
E come è proprio della vita soprannaturale, esso è dato senza alcun se-
condo fine: si ama perché questo è il precetto del Signore, perché questa è la
vita del cristiano: la vita di Dio in noi. Tutto qui? I focolari non vogliono altro:
sono fucine di carità, nelle quali si mette in atto il Vangelo di Gesù, venuto
per mettere fuoco al mondo e desideroso solo che questo fuoco arda.
Naturale che, dando essi amore e cioè volgendosi verso ogni prossimo
col cuore di Gesù – definirono prossimo qualunque persona venga messa
dalle circostanze, momento per momento, a loro contatto: ricchi e poveri,
dotti e ignoranti, uomini e donne –, è naturale che il prossimo venga ai foco-
lari ad attingere fuoco: a chiedere quell’amore che è il pane di vita di cui si
ha bisogno e senza di cui più si soffre. Oggi la società muore davvero dal mal
d’amore: e cioè di penuria di questa sostanza divina della vicenda umana,
non servendo alla fame delle anime quella contraffazione o quel surrogato
che è il sentimento di solito inteso in quel vocabolo.
E chiunque si rivolge ai focolari è sicuro d’essere trattato come un fra-
tello: amato per Gesù. Questa confluenza di anime dei santi: crea una con-
vittualità spirituale che si proietta anche in solidità temporale, perché non
potrebbe amare il fratello che, potendo, non lo assistesse nelle necessità,
dividendo con lui le proprie risorse, attua insomma il disegno del Corpo Mi-
stico, in cui si vive l’un con l’altro per formare insieme l’unico corpo di Cristo.
Ciò vuol dire che non si suscita, attorno ai focolari, una organizzazione,
così come la fiamma d’un fuoco non crea un partito e un sodalizio tra coloro
128 nu 225
igino giordani
a cui esso spinge il calore; così come la luce sopra il moggio illumina, ma
non separa in un corpo chiuso le persone della stanza. Il calore è donato a
tutti e può essere cercato da tutti, laici e sacerdoti, mamme e suore, persone
di Azione Cattolica e anime perdute alla Chiesa, cristiani e pagani, asceti e
atei: tutti i fratelli e quindi tutti aventi diritto al nostro amore, che vuol dire
il nostro servizio. C’è chi, innamorato di tale ideale, che è il testamento di
Gesù vissuto alla lettera, convive più intensamente, pur rimanendo nella sua
vocazione e stato, coi focolari: ma tale convivenza, se aggiunge calore alla
attività di lui, non toglie ai suoi doveri professionali o d’apostolato.
Nei focolari ci si santifica, ma senza serrarvisi. Le sue porte sono spalan-
cate a tutti. È un raccogliersi per donarsi; con una pietà centrifuga, perché
nutrita di amore: e l’amore è fiamma che abbisogna di dilatarsi per alimen-
tarsi; mentre serrata si estingue. I Focolari – da seguaci di Cristo – si santifi-
cano santificando; curando i loro interessi eterni, servendo gli interessi dei
fratelli. Fanno la rivoluzione dell’amore, bandita da Cristo: quella che neutra-
lizzò le pseudo rivoluzioni dell’avarizia e dell’odio.
Per il fatto che si tengono sempre a servizio del prossimo, i fratelli e le
sorelle dei focolari non possono cadere nell’isolamento egoistico dei così
detti angelisti e soprannaturalisti, i quali col pretesto di darsi a Dio, diser-
tano gli uomini; neppure possono incorrere nel dissipamento futile dei così
detti naturalisti, i quali, col pretesto di servire gli uomini, trascurano la grazia
di Dio e l’unione con Lui. No: il focolare vuol essere la casa di Gesù, uomo
e Dio; posto di smistamento tra i fratelli e il Padre, conforme all’economia
umano-divina della Redenzione.
Questa vocazione perciò sta tutta nel servire e amare Dio servendo e
amando i fratelli. Poiché chi ama e chi è amato resta nella propria vocazio-
ne, non nasce alcuna vana pretesa di creare quasi dal nulla la Chiesa, che
già c’è; i focolari sono nella Chiesa, della Chiesa e per la Chiesa e nulla più;
e neppure generano un’opera nuova né costruiscono nuovi sodalizi. Essi si
fanno tutto a tutti, ma senza voler sostituire nulla e nessuno. Portano dove
possano un aiuto, un impulso vivificatore: ricreano potendo e vivificando
coscienze e istituti; ma non mortificano né disturbano. Il Vangelo è per tutti:
e la loro parola, come la loro condotta, vuol essere Vangelo vissuto nello
spirito della Chiesa, nell’obbedienza ai superiori ecclesiastici, riducendosi
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igino giordani
Poi mi ero innamorato di tutti i Padri della Chiesa, fra cui mi avevano
impressionato uomini come Crisostomo, come Agostino. Il Crisostomo il
quale voleva fare una società di cristiani in cui anche i laici, anche i coniu-
gati vivessero da monaci. Questa era un’idea che mi pareva remotissima,
assurda. Ma come tutti i coniugati, io partecipavo allora (come ancora ne
partecipano tanti anche ora) di quella specie di complesso di inferiorità per
cui noi laici e soprattutto noi coniugati ci ritenevamo una razza inferiore.
Vedevo che non c’era nel calendario, nel martirologio nessun santo coniu-
gato all’infuori dei vedovi e dei martiri. Cioè bisognava diventare vedovi per
essere santi: ci voleva il morto.
Come era questa storia? Vedevo in sant’Agostino, in sant’Ambrogio
questo amore della Chiesa, questa convivenza viva alla quale erano asso-
ciati i coniugati anche gli analfabeti, anche gli operai, anche i contadini.
Sant’Agostino che chiamava i contadini africani Chiesa viva; i padri di
famiglia li chiamava compagni dell’episcopato, coepiscopi… Mi pareva che
questi grandi ideali fossero appartenuti ai primi tempi della Chiesa; che ai
tempi attuali ormai bisognasse accontentarsi delle briciole. Noi sembrava-
mo il proletariato spirituale. Così io lo sentivo, perciò mi innamoravo del
passato per rifugiarmi un po’ nelle glorie che erano state.
Altro problema che mi aveva interessato era l’unità della Chiesa. Mi
pareva che tutta la storia dell’umanità fosse una marcia di ritorno all’uno,
una marcia di ritorno a Dio; il peccato aveva fatto la divisione, la redenzione
doveva recuperarsi a fare unità, fare di tutti Cristo, il Cristo totale. E allora
vedevo con piacere movimenti protestanti di ritorno alla Chiesa dalla divi-
sione2: una divisione provocata dai poteri politici senza che il popolo ne sa-
pesse niente.
Altro argomento che mi interessava ancora molto, la sociologia, cioè
una società in cui l’uomo fosse uomo, fosse cioè libero come è stato rifatto
da Cristo; e che quindi avesse anche la libertà dalla miseria, la libertà dalla
fame, la libertà dal bisogno: una società in cui si vivesse da fratelli. È possi-
bile questo? Perciò avevo studiato i Padri della Chiesa i quali davano delle
risposte audacissime. Il cristianesimo, vedevo, era la vera rivoluzione di tutti
i tempi e così avevo scritto una quantità di libri su questa roba.
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igino giordani
e schermi; sotto il Suo soffio l’incendio divampava: nella luce nuova scoprivo
Dio e il fratello.
Di fuoco ne avevo posseduto anche prima un volume discreto. Non ave-
vo sofferto penuria di combustibili. Ma era un fuoco umano, soprattutto:
dove ardeva più orgoglio di apologeta che amore di fratello, dacché, come
apostolo, volevo più vincere che convincere, da bravo scrittore anziché da
figlio di Dio. La mia prosa cattolica era nata sulla Apologetica di Tertulliano:
tuoni e fulmini. Ora invece trovare luce e calore soavemente sposi.
Ora i rapporti umani, gli stessi rapporti familiari e sociali, assumevano
un valore nuovo, apprendevo ad avvicinare le anime più con l’amore che con
l’intelligenza: così le comprendevo di più e quel comprendere era davvero
prenderle in sé per contenerle: farle proprie, viverle, amandole come me
stesso. E capivo come da una siffatta approssimazione derivasse una solida-
rietà, una convitalità che avrebbe cambiato la faccia del mondo nel periodo
della sua più cruda crisi sociale, sorta dalla difficoltà della comunicazione
del Bene e dei beni: dalla carenza della comunione.
Scoprivo sperimentalmente quella parentela asserita negli scritti sacri,
in cui Dio si muoveva come Padre, Gesù circolava come fratello, lo Spirito
Santo tesseva i legami di una bellezza insospettata; e tutta l’esistenza saliva
su, oltre i piani del rapporto di interessi e simpatie e lotte; per svolgersi in
uno scenario di pace, di logica, di luce, in un equilibrio che da solo attestava
la presenza di Dio.
Era la vita dello spirito, che si svolgeva nel circuito unico determinato
dalla convivenza di Dio, dei fratelli e di me.
Se esaminavo il fatto criticamente trovavo che non avevo scoperto nulla
di nuovo. Nel sistema di vita che si stava aprendo alla mia anima ritrovavo
i nomi, le figure, le dottrine che avevo studiato e amato. Tutti i miei studi, i
miei ideali, le vicende stesse della mia vita mi apparivano diretti a questa
meta. Nulla di nuovo: eppure tutto nuovo: gli elementi della mia formazione
culturale e spirituale venivano a disporsi secondo il disegno di Dio. Si mette-
vano al loro giusto posto. Vorrei dire, che, disuniti, si univano componendosi
in un alveo, per cui alla vita soprannaturale fu dato di liberamente e copio-
samente fluire.
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E per vivere questa nuova vita, per nascere in Dio, non dovevo rinunziare
a niente delle mie dottrine: dovevo solo metterle nella fiamma della carità,
perché vivessero; e allora attraverso il fratello presi a vivere Dio. La grazia
sgorgò più libera, i diaframmi tra la sopranatura e la natura crollarono. L’esi-
stenza divenne tutta un’avventura vissuta, in unione col Creatore.
E Maria splendette di una bellezza nuova; i santi entrarono tra i familiari;
il paradiso divenne la casa comune. «Noi sappiamo d’essere passati dalla
morte alla vita, perché amiamo i nostri fratelli… Chi odia il fratello è omici-
da; e l’amicizia non ha la vita eterna dimorante in lui»: e dunque chi ama il
fratello ha invece la vita eterna in sé: il paradiso dimora in lui sin dalla vita
temporale.
Questa la scoperta, questa l’esperienza.
Avevo tanto meditato il Vangelo: or ecco che mi si svelava in una orga-
nicità e vivezza nuove. Tutto si faceva chiaro: non mi occorrevano esegesi
lambiccate. Dovevo viverlo: questo esige la vita di unità.
Vivendolo, ogni suo frammento diventava Verbo vivo, così come ogni
frammento d’Ostia è Gesù vivo. E la sua ricchezza mi era svelata, non da
professori, ma da creature semplici, che l’avevano scoperta vivendolo e
dunque vedevo sperimentalmente che le verità di Gesù erano rivelate ai pic-
coli, e non ai dotti, e quindi la sapienza stava nel farsi semplici come fanciul-
li, nel rimuovere le montagne di boria, contro cui urta la fede e si schiaccia
la carità.
Per tal modo sentii di passare dalla fede alla carità; e nel passaggio rinac-
que la speranza. In certo senso passavo dall’Antico al Nuovo Testamento:
cioè al Cristo vivo dal Cristo cercato, al completamento della legge dalla
legge incompleta.
Ovvero respiravo in Chiesa a due polmoni quando sinora avevo respirato
di solito con un polmone solo.
Penso quanti sforzi si facciano – e si perdano – per attingere questa bea-
titudine, poiché si battono strade fuori uso e disagevoli.
L’amore spinto all’unità con Cristo e coi fratelli offre una scorciatoia: o se
si vuole, appresta un reattore che sostituisce la diligenza. Una croce portata
da una creatura alla fine schiaccia; portata insieme da più creature con in
mezzo Dio, ovvero prendendo come Cireneo Gesù che si sobbarca per amo-
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Suo supremo abbandono: quello in cui, deriso dagli uomini, sotto un cielo che,
ribelle, si caricava di nembi, Egli si sentì abbandonato anche dal Padre. In Lui
la prova e le sofferenze sono risolte: e rapidamente. Le lagrime sono l’olio della
loro lampada, che arde di carità.
E così fatiche e dolori sono messi a frutto per la salute del Corpo mistico.
Per questo agisce la costante comunione di sentimenti e una carità fatta
di verità: Veritatem facientes in caritate. Per questo ciascuna di queste ani-
me ama l’altra come se stessa: ma per questo ciascuna odia l’altra come se
stessa, nel senso che ne detesta l’Io – ciò che non è Dio.
Si ama nel fratello Gesù: ciò che non è Gesù è un intralcio all’unione con
Dio.
Chi cade, chi coltiva le proprie tristezze, decade dall’unità: decade da
Gesù: e allora la comunità non si ritiene in ordine sino a che non abbia recu-
perato l’anima provata.
Il perdono ripristina l’unità. Ma esso ha da essere totale: cancellazione,
sì che non resti nulla del peccato. L’uomo cui si perdona, è “nuovo di zecca”:
il passato è distrutto, non si ricorda più, non interessa più. Conta il solo pre-
sente. Persino dei propri mancamenti è inutile star a piangere: si chiede per-
dono a Gesù e, avutolo, non ci si pensa più. Torna la serenità, come l’azzurro
sui monti trentini, sulla cui costa è impiantato il Focolare chiamato “Fuoco”:
pari a una fornace, che arde per riscaldare la città sottostante.
Mi colpì la soluzione dei rapporti dei focolarini e delle focolarine coi ri-
spettivi genitori e parenti. Genitori e parenti sono da loro abbandonati come
tali («Chi non lascia padre e madre…»), ma recuperati come fratelli, come
Gesù: e amati perciò soprannaturalmente: inseriti nella famiglia in cui uno
solo è il Padre, Dio, e una sola la Madre, Maria. Anche i bambini, anche le
persone di servizio, sono visti come fratelli: e i papà e le mamme stesse, che
vi sono nelle comunità, trattano i familiari come fratelli soprannaturalmente.
Capii così la differenza di questa da altre spiritualità, seguite dai santi:
altre vie, grandi (come la grande via del Poverello) o piccine (come la piccola
via di santa Teresina). Poiché Lui stesso è la Via, si può senz’altro immettersi
in essa: non valersi di sussidi intermediari, ma gittarsi senz’altro al centro
dell’incendio. Questo più che seguire o sant’Agostino o san Francesco o
santa Teresina o altro santo, è un seguire Lui, il Santo.
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igino giordani
dei presenti, erano dagli altri manifestati i suoi difetti. Un giorno che io mi
trovai colà, fu estratto il mio nome; e toccò a me la ventura di essere fatto
oggetto di rilievi, che sgonfiarono un poco la mia vanità. E appresi allora, e
più volte poi, che la maggior carità sta in questa severità, che è la faccia della
verità. Intesi più che in passato come carità e verità fossero due aspetti di
Dio fra noi.
E Gesù in mezzo a quei raduni si sentiva, con una presenza calda e dolce,
che dava agli spiriti una serenità e una serietà, quale penso debba essere
degli angeli in paradiso.
Se nella comunione eucaristica Gesù collegava quelle anime nella Sua
stessa consanguineità, in questa comunione spirituale seguitava a collegar-
le col vincolo perfetto della carità: una sorta di prolungamento mistico della
comunione eucaristica, dove il fratello faceva da “sacramento” di Dio.
In quell’atmosfera, anche la correzione – come ho detto – diveniva atto
di amore. Ricordo come una delle pope non riuscisse a trattenere le lacrime
nel sentirsi scoprire certe sue manchevolezze. Queste lacrime apparvero – e
si disse – come una possibile manifestazione di vanità ferita. Essa disse con
semplicità: «Non sono io che piango, è l’uomo vecchio che suda».
Con siffatta severità gioiosa, si attende senza pietà a uccidere in tutti
l’uomo vecchio, sì che ognuno arrivi alla misura dell’età di Cristo e non viva
più lui, ma Cristo in lui.
Al “purgatorio” del mattino seguì il così detto “paradiso” nella serata:
e cioè, se prima si erano rivelate le deficienze di A, B, C, ora di queste per-
sone si rilevarono le virtù: ma con l’intesa che si lodassero, in esse, non la
persona, ma Gesù in loro. I difetti sono dell’io; le virtù di Dio. Quindi era un
lodare nelle manifestazioni delle creature, l’opera del Creatore. Ne risultava
un aumento della umiltà dei singoli e dello zelo di tutti.
Un tale spettacolo fu e resta per me la lezione, anzi il corso di eserci-
zi spirituali, più fruttuoso. Vorrei dire che queste creature, pur in mezzo a
occupazioni faticose, sono sempre in esercizio: esercizio spirituale. Sanno
che, fermandosi, retrocederebbero: la marcia è verso l’infinito e perciò sono
sempre in cammino, senza posa, prodigandosi sin oltre – e questo più volte
mi ha angosciato – sin oltre il limite delle forze fisiche. Per salvare un’ani-
ma, per assistere un povero, non guardano a orario; non risparmiano salute:
sono date tutte a tutti, non guardano più a sé.
Rare volte mi è capitato, nella mia vita, di incontrare anime così pure,
libere e semplici. Sin dal principio io ho preso a riconoscere i seguaci del
nostro Ideale dagli occhi. Occhi limpidi, che vedono Dio, disimpegnati da ri-
spetti umani e calcoli di qualsiasi genere. Ma la purezza; come l’obbedienza,
la povertà, l’onestà, la pazienza ecc., non sono da loro cercate, una per una,
per se stesse: sono virtù scaturite tutte dalla carità, come conseguenza lo-
gica di esse, in cui sono incluse. Amano Dio e il fratello e, vivendo Dio, sono
naturalmente (della naturalezza soprannaturale) pure, docili, umili, pietose,
prudenti, pie, contemplative e attive.
«Hai la carità, hai la Trinità»: come ho capito questa intuizione di sant’A-
gostino!
Vidi dunque come la loro letizia interiore fosse frutto di sacrificio quoti-
diano. E assistetti a una delle sanzioni più gaudiose date dal Signore alla loro
opera, che trae ispirazioni e forza dal contemplare – dal vivere – l’abbandono
di Gesù in croce.
Una mattina i Focolari appresero, con la gioia comprensibile, che la Chie-
sa accordava le prime approvazioni all’Opera: la Chiesa è Cristo continuato.
Nel meriggio entrò nel Focolare principale Cristo Abbandonato medesi-
mo – il Cristo delle loro anime – sotto forma di un’Ostia consacrata tolta da
una comunione sacrilega. Abbandonata in un canto, essa era stata raccolta
– quasi strappata – dal sacrilegio consumato e dall’abuso a cui era destinata
e portata, con lacrime e preghiere, in casa, col consenso dell’Autorità eccle-
siastica. E ricordo la letizia, la commozione di quelle anime, a cui Gesù veni-
va a far visita in casa nella veste sotto la quale era stato da esse più amato,
come per una sanzione miracolosa.
Coi Focolari frequentai a Trento la comunità. Ce ne erano quasi in ogni
quartiere. Tenevano convegni, di solito con l’assistenza o la presenza di qual-
che sacerdote, per lo più in case private. Io parlavo a più convegni e la mia
emozione era sempre grande: vedevo la Chiesa in casa di A, in casa di B,
come nella casa di Prisca e Aquila. In una cucina di un quartiere operaio pro-
vai la più grande commozione: sentii la Chiesa viva; rividi la moltitudine di un
cuor solo e di un’anima sola; e mi persuasi di più che il comunismo si cura con
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igino giordani
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igino giordani
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igino giordani
1
Questo capitoletto “I focolari” è stato pubblicato sul quotidiano: «Vita trenti-
na» di giovedì 11 maggio 1950, firmato da Igino Giordani.
2
Queste affermazioni, e soprattutto il modo di esprimersi, sono da compren-
dersi considerando l’epoca in cui Giordani scrive.
3
La comunità cristiana, in «Fides», 48 (1948) n. 10, pp. 279-280 testo succes-
sivamente ripubblicato in C. Lubich - I. Giordani, «Erano i tempi di guerra…», Città
Nuova, Roma 2007, pp. 44-48.
4
Il termine “capo” non viene più usato nell’ambito del Movimento dei Focolari,
perché sottolinea troppo l’autorità, mettendo in secondo piano l’amore fraterno e il
servizio. Viene attualmente usata piuttosto la parola responsabile.
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in biblioteca
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Oltre la crisi della Chiesa. Il pontificato di Benedetto XVI
ecclesia semper reformanda est. Un motivo ricorrente nei capitoli del volume,
che sintetizza le linee essenziali proposte da Regoli per comprendere il pon-
tificato di Benedetto XVI (cf. pp. 416-418), è “riforma”. Il ruolo e le scelte di
Ratzinger sono misurate da uno «spirito riformistico» (p. 88), necessario
per rilanciare il cattolicesimo, nel solco dello spirito conciliare secondo la
sua corretta «ermeneutica della riforma» (p. 128), estendibile ad ogni espe-
rienza della Chiesa contemporanea, quando viene letta a confronto con le
sfide del suo contesto socioculturale (cf. pp. 130; 420). L’autore sottolinea
i passaggi di crisi-riforma condotti da Benedetto XVI in ogni ambito e mo-
mento del suo magistero: la trasmissione della fede (cf. pp. 86-108), la cu-
ria, la liturgia, l’ecumenismo, l’etica (cf. p. 302), il ministero petrino (cf. p.
412) sono tutti significativi esempi dei dinamismi di “rinascita” spirituale e
pastorale. La categoria di riforma illumina un’adeguata considerazione del-
la “Tradizione” come di quell’unica identità ecclesiale che sa non sottrarsi
all’esigenze di dialogo, di ricostruzione di unità, di «restaurazione innovati-
va» (p. 129) o di modernizzazione, di consolidamento e rilancio (cf. p. 415)
in ogni epoca. Queste vie, apparentemente contrastanti, vengono percorse
da Benedetto XVI. Con intuizioni e tentativi – non esenti da critiche da parte
dei media e delle sensibilità più distanti – egli recupera diverse sfide interne
alla recezione e all’attuazione delle riforme conciliari, alle tensioni tra cri-
stiani o tra religioni (come il caso dei lefebvriani, le esigenze dello “spirito di
Assisi”), ai cambiamenti della politica, della cultura e della tecnica. Quello di
Ratzinger è «un pensiero che provoca» (p. 329) ad intra e ad extra la missio-
ne ecclesiale, guidata dalla centralità di Cristo e dall’intelligenza della fede e
teso alla promozione e alla garanzia dei princìpi di pace, libertà di coscienza
e religiosa, valori non negoziabili, carità nella verità (cf. p. 381).
Le domande, cui la storia potrà provare a riflettere, riguardano queste
spinte di innovazione, sui molti campi della vita ecclesiale. La lettura del
volume di Regoli ne consegna una prima sistematizzazione e visione d’in-
sieme, per incoraggiare e attendere la ricerca sul pontificato di Benedetto
XVI, a partire dal suo «riformismo ecclesiale e soprattutto papale» (p. 417).
Un riformismo, affrontato nonché sofferto, in grado di condurre la Chiesa
“oltre la crisi”.
Luca Montelpare
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Povertà e gratitudine in Georg Simmel
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Povertà e gratitudine in Georg Simmel
Claudia Gifuni
1
Rispettivamente dottore di ricerca sociale e assegnista di ricerca presso il Di-
partimento di Scienze umanistiche sociali e della formazione dell’Università degli
studi del Molise e dottore di ricerca in Scienze sociali presso l’Università di Chieti-
Pescara.
2
Espressione coniata nel 1974 da Easterlin per indicare il mancato aumento di
felicità in corrispondenza di un miglioramento del reddito.
murales
di Giovanni Berti
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english summary
158 nu 225
english summary
and has been welcomed into the legal be one» (Jn 17, 21) – which is the char-
frameworks of Italy and Europe. ismatic mandate and mission of the
movement itself. The meeting ground
In Dialogue with Muslims: Living that the foundress, Chiara Lubich, indi-
cated is the humanity of Jesus, for chris-
Unity in Diversity Together tians the man-God, whose Word is im-
P. Lemarié portant for all those who seriously wish
p. 77 to engage in dialogue with the values of
existence. By way of example, we offer
The Focolare Movement was born of an
an interview with Moreno Orazi, a non-
ecclesial charism whose first fruits are
believing architect, who is part of the
a spirituality of communion and a mo-
community of the Focolare Movement
vement in the catholic Church which is
open to all those who wish to become in Spoleto (Italy).
part of it, including muslims. This es-
say offers a synthetic presentation of alla fonte del carisma dell’unità
how its spirituality has been offered to
muslims, looking at both form and con-
Generating a Work of God:
tent. It will be based on speeches made Movements of History
by Chiara Lubich to muslims in which L. Abignente
deep accord with Ecclesiam suam and
Nostra aetate is manifest. p. 109
70 years after the approval at the dioc-
Deep Dialogue: Interview to esan level of the Focolare by the arch-
bishop of Trent, Carlo de Ferrari, this
Moreno Orazi article looks at the period of waiting for
A cura di F. Kronreif the definitive approval on the part of the
p. 95 church of Rome during the 1950s. This
period was characterized by careful
Is deep dialogue between believers and
study by the Holy Office of the person
non believers really possible? What is
of Chiara Lubich and the new ecclesial
the meeting ground upon which this
reality that she had brought about. The
dialogue can take place in such a way
article concentrates especially on the
as to permit the reciprocal respect of
year 1954 to study, on the basis of un-
the dialogue partners and respect of
the truth? The experience of the Foco- published documents, the rapid devel-
lare Movement, which includes persons opments which appeared to suggest
without religious faith, testifies that hope or threaten the dissolving of the
not only that such dialogue is possible, movement. These were precious mo-
but that it is to be encouraged and in- ments of light and trial, lived in faithful-
deed necessary in order to bring about ness to God and to the Church.
the testament of Jesus – «That all may
Story of Light. 9. Light and Fire in a that this brought to his life as a catholic
Frozen Society author, lover of the Church fathers, and
responds point by point to questions
I. Giordani raised about the Focolare Movement.
p. 127
The evangelical life of the Focolare, in biblioteca
while giving strong witness to the sur- p. 149
rounding society, also raised criticism.
A highly placed member of the Church murales
hierarchy asks Giordani to speak of
his experience, and Igino describes his G. Berti
meeting with Lubich and the newness p. 156
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