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Adriano

Sofri sul Coronavirus.



Prendere la febbre al mondo. Addio mascherine

Grandissimo è il disordine sotto il cielo: e la situazione? La promozione
dell’epidemia a pandemia, poco più che un gioco di parole per il pubblico, pone il
problema di uno sconquasso globale e acuto. Solo in questo senso si può
alludervi come a una guerra, tentazione cui altrimenti sfugge chi abbia vissuto o
viva tuttora in un vero stato di guerra. Oltretutto, la mobilitazione contro il virus
“nemico” sconosciuto, insidioso, insomma sleale, un’iperbole del terrorismo, fa
sottovalutare il fatto che non si tratta di un’inimicizia violenta fra umani, e che
potrebbe perfino favorire qualche progresso nella confederazione fra umani.
Un evento che attraversa, in tempi corti e ravvicinati, l’intero pianeta, sarebbe
stato visto da rivoluzionari di professione come una colossale occasione: come le
guerre, appunto. Le guerre sono state le matrici necessarie delle rivoluzioni
moderne, compiute non in nome della pace, se non ipocritamente, ma in nome
della trasformazione delle guerre fra gli Stati in guerre civili, che sostituissero la
frontiera di classe a quelle nazionali: l’esito non fu mai questo. La pandemia
attuale rimette al centro della scena il conflitto fra Nord e Sud del mondo, che si
era molto appannato salvo che nelle migrazioni - capaci di spaventare i cittadini
del nord e di squassare le loro istituzioni ma dopotutto ancora ridotte. Il
conflitto fra Nord e Sud è ora soprattutto incarnato dall’opposizione fra vecchi e
giovani. L’Europa, che è per antonomasia il Vecchio continente, è peculiarmente
esposta.

Si può chiedersi se la pandemia agisca come un movente, fosse pure solo un
acceleratore, di cambiamenti globali, o come un rivelatore. Anche in ciascun
paese del Nord del mondo, da noi per esempio (mettiamo ora da parte l’infinito
riprodursi dei nord e dei sud: ciascuno è il sud o il nord di qualcun altro) il
contagio ha preso la forma prevalente, benché niente affatto esclusiva, della
differenza fra vecchi, vulnerabili fino alla morte, e giovani, immuni o più capaci
di guarigione. Sono successe cose brutte. Distrazioni iniziali sugli “anziani con
patologie pregresse”, quasi danni collaterali di una malattia dopotutto non
micidiale. Il destino atroce di molte case di riposo. L’affiorare, in paesi nordici, di
sbrigative rassegnazioni quasi eugenetiche, temperate comunque
dall’onnipresenza di gruppi gerontocratici. Da noi ci sono avvenimenti
drammatici, anziani e vecchi privati di colpo della propria morte personale,
morti soli e insepolti o sepolti anonimamente, famigliari distanti e senza
conforto. Ma la pietas per i morti e i superstiti non è venuta meno, e l’operato di
chi ha in cura le persone ha investito anche la solidarietà e la compassione.
Chissà se un cinismo ingenuo, per così dire, di giovanissimi e giovani, quelli che
“ci avete rubato il futuro”, sia esistito e quanto sia diffuso, ma la morìa dei nonni
l’avrà arginato almeno quanto già facevano l’affetto e le pensioni.
Sulla scala mondiale, il divario fra paesi e continenti vecchi e giovani è enorme,
nella doppia forma dell’età media e della durata media della vita. E il divario
vecchi-giovani è capace di sussumere anche altri termini decisivi della
disuguaglianza: ricchi e poveri, potenti e destituiti di potere e diritti. (La
differenza che non vi si riduce è ancora quella di genere).

Ricchi sono i paesi vecchi rispetto ai giovani, com’è implicito nella longevità. E
ricchi sono gli individui vecchi rispetto ai giovani, negli stessi paesi poveri. La
pandemia offre una rappresentazione spettacolare del divario, chiedendo o
ordinando a tutti, in tutto il pianeta, di starsene a casa, e una parte colossale
degli abitanti del pianeta non ha una casa. Le avanguardie di quella parte stanno
anche da noi, sparute, a San Ferdinando o sotto il colonnato di Bernini o nel
parcheggio di New York: ma guardiamo le processioni di sfollati nella clausura
indiana. Nei paesi giovani, cioè poveri, il Coronavirus è un flagello fra i tanti, e i
loro giovani possono soccombervi più largamente quando il vantaggio dell’età
ceda alla denutrizione e alla sottonutrizione - alla fame - alla miseria delle cure
sanitarie e delle condizioni igieniche. Ma quei paesi hanno dalla loro parte il
numero. Sono tanti e tanto disperati da poter sfidare come irrilevante la
minaccia della malattia, senza il bisogno di sostenersi su un fanatismo religioso o
ideologico, senza gridare che Dio è grande - solo per assaltare supermercati e
quartieri vigilati con le armi. Potranno avere caduti, anche se non martiri, non si
fermeranno a contarli. Il numero è all’origine dei trionfi storici, e il Dio della
scrittura promette ai suoi beniamini di renderli più numerosi dei granelli di
sabbia del deserto. Solo in parte e solo provvisoriamente il progresso civile e
tecnico ne ha avuto ragione, l’Atene dei liberi contro gli asiatici persiani,
l’Europa della rivoluzione industriale contro la lentezza del Celeste Impero.

Il numero, i numeri, fanno la parte del leone nei bollettini quotidiani della nostra
cosiddetta guerra contro il virus. Il numero si è ripreso da tempo i suoi diritti, in
Cina, dov’è stato imbrigliato, in India, nel sudest asiatico, sempre più in Africa.
L’Africa specialmente è come un esercito arretrato il cui Stato maggiore possa
comportarsi inesauribilmente come il general Cadorna, mandando le sue truppe
allo sbaraglio, attingendo alla riserva per ogni successiva ondata del mattatoio.
Quando si sente intimare che bisogna stare in casa per mettersi al riparo dalla
malattia, e si è senza casa, si guarderà con un’attenzione nuova oltre i recinti e le
finestre di chi le case le ha e vaste. Possiamo immaginare così i giovani del sud
del mondo, come i nostri topi di appartamento, categoria la più spiazzata dal
Coronavirus, che studiano le mappe degli spostamenti dei signori rifugiati nelle
seconde case al mare e ai monti, per rintracciare gli appartamenti svuotati in
città. I giovani del sud del mondo non sono topi di appartamento, né squatter,
non ancora. Ma quando vengano più massicciamente all’assalto, e trovino
qualcuno a guidarli, rimettendo in causa la proprietà a partire dal suo pilastro -
donne a parte - la casa, i regimi autoritari o dispotici, che già rivendicano per sé
il privilegio dell’efficacia di fronte all’imbelle e inerte democrazia, zavorrata
oltretutto dal senso di colpa, avranno un altro vantaggio. La dinamica che ha
fatto della migrazione lo strumento per il successo della più limacciosa e turpe
nomenclatura politica si moltiplicherà per mille, e saranno le dittature a
presidiare i confini.

Fra gli innumerevoli, strepitosi e drammatici e patetici episodi che la cronaca di
questi giorni riempie le nostre case chiuse, uno è specialmente impressionante:
il caso della portaerei a propulsione nucleare Theodore Roosevelt alla fonda a
Guam, evacuata di gran parte della sua forza - 5.000 uomini - per la diffusione
del coronavirus. Che sembra aver colpito anche una seconda portaerei nel
Pacifico, all’ancora in un porto giapponese. A un ammiraglio giapponese di una
volta sarebbe venuta l’acquolina in bocca. Grandissimo è il disordine sotto il sole.
La situazione? La conversione ecologista, l’argine alla degradazione climatica,
sono anch’essi largamente privilegi e lussi dei paesi vecchi e ricchi, almeno
quanto sono frutto dei loro modi di vita: è probabile che retrocedano
precipitosamente.

Ora che si fa tanto più urgente il vero social distancing, la distanza di sicurezza
da prendere nei confronti del mondo povero e giovane, già pagata a un tanto al
km alla Turchia di Erdogan o alla Libia delle bande, i regimi svelti di mano
infittiranno la loro offerta di mercato, Putin e Orban e Cina, compresi i cargo
promozionali di visiere plasma di Wuhan e mascherine.

E noi, i vecchi italiani?

Abbiamo pur sempre un passato.
Quanto mi piacciono queste mascherette graziose! (Goldoni).
Venite pur avanti, vezzose mascherette (Da Ponte-Mozart).
Addio mascherine, addio mascherine (Pinocchio, al gatto e alla volpe, fine).

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