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Di esempi se ne possono fornire a iosa. A Milano, il partito democratico vorrebbe puntare sul commissario
dell’Expo Giuseppe Sala, Berlusconi pensa all’ex amministratore delegato di Eni ed Enel, Paolo Scaroni. A
Roma, il Pd esce con le ossa rotte dal folle giro di giostra con Ignazio Marino, e non ha uno straccio di
candidato. Il centrodestra, invece, offre lestamente i suoi voti al costruttore Alfio Marchini, il quale ringrazia
ma fa subito capire di accettare solo i voti, non le etichette di partito. A Napoli, cinque anni di opposizione
in consiglio comunale non sono bastati a dare a Gianni Lettieri il profilo di uomo di partito, e lui non ci
pensa nemmeno a rinunciare al marchio della società civile. Nel centrosinistra, sembra invece tornare l’ora
di Antonio Bassolino. Perfino di lui si può dire ormai che viene da fuori: ha rappresentato per una vita il
mondo dei partiti, e torna in auge proprio perché i partiti non sono capaci di selezionare candidati
all’altezza. (E già che ci siamo: anche a Salerno il centrodestra va offrendo candidature a imprenditori e
magistrati, ricevendo per ora solo dinieghi, mentre il centrosinistra rimane appeso alle parole di Vincenzo
De Luca, che faticherebbe pure lui, biografia a parte, a definirsi uomo di partito).
Infine, al di fuori della dialettica fra i due tradizionali schieramenti (che si dicono tradizionali solo per
comodità), ci sono i Cinque Stelle, i quali rifiutano per principio di confondersi con i partiti politici. Loro
peraltro teorizzano nuove forme di organizzazione, nuovi canali di partecipazione, nuove regole di
selezione delle candidature. Tutto, pur di non sembrare un partito. Col risultato che i loro uomini di punta –
i Di Maio e i Di Battista, per capirci – si sono visti proiettati ai vertici della scena istituzionale del Paese con
la stessa velocità con cui il vincitore di un reality strappa un contratto discografico. Napoli o Roma, le città
per i cui consigli comunali avrebbero potuto passare prima di arrivare in Parlamento, sono già molto più
indietro del punto al quale sono arrivati. O così essi credono, almeno.
Che dire poi del fatto, segnalato da Sabino Cassese sul Corriere della sera, per cui una condizione generale
di anomia, cioè di assenza di regole, o di debolissima effettività di regole ed istituzioni, permette che
l’Agenzia delle Entrate si rivolti contro il principio costituzionale dell’accesso all’impiego pubblico tramite
concorso, o che una Procura parta lancia in resta contro la Banca d’Italia con grande risalto mediatico e
pochissima sostanza giuridica, o che il popolo del web si scateni contro una decisione del Consiglio di Stato,
a proposito della trascrizione delle unioni civili, con poca o nulla preoccupazione per il profilo tecnico della
sentenza? Siamo un popolo di finissimi giuristi o viviamo piuttosto sotto un costante, asfissiante pressing
comunicativo?
In realtà, la prima Repubblica era tenuta unita dal collante dei partiti politici, che integrava lo scarso senso
dello Stato, poco diffuso nel Paese, con un robusto cemento ideologico. La seconda Repubblica ha dovuto
fare a meno di quel vecchio impasto, ma non riesce a trovarne uno nuovo. Così i migliori candidati
continuano ad essere cercati fra magistrati e imprenditori (e un tempo – breve tuffo nel passato – questo
connotato «di classe» o «di ceto» non sarebbe passato inosservato), mentre nelle stanze sempre più
disadorne dei partiti continua a cucinarsi quel poco che rimane: la politica dell’imbroglio, della
raccomandazione, della corruzione piccola o grande. Il punto non è se sia vera o no questa
rappresentazione che continua a dominare la scena pubblica, ma se, sotto queste condizioni, dall’anomia si
riuscirà mai ad uscire.