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Heinrich Cornelius

Agrippa von Nettesheim

DELL’INCERTITUDINE E
DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE
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Heinrich Cornelius
Agrippa von Nettesheim

Dell’incertitudine e
della vanità delle scienze
a cura di
Tiziana Provvidera

presentazione di
Giovanni Pugliese Carratelli

Nino Aragno Editore


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© 2004 Nino Aragno Editore

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corso Vittorio Emanuele II, 68 - 10121 Torino

sede operativa
via Vittorio Emanuele III, 37 - 12035 Racconigi

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INDICE

Presentazione di Giovanni Pugliese Carratelli IX


Nota editoriale XI
Criteri adottati nella presente edizione XIII

L’AGRIPPA ARRIGO CORNELIO AGRIPPA


DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE
TRADOTTO PER M. LODOVICO DOMENICHI

All’illustrissimo et eccellentissimo signor


Cosmo de Medici dignissimo duca di Fiorenza 3
Luoghi comuni, o capi delle cose che s’hanno a trattare 5
Arrigo Cornelio Agrippa da Nettesheim, allo spettabile
messere Agostino Fornaro cittadino genovese 11
Arrigo Cornelio Agrippa al lettore 15

OPERA DI ARRIGO CORNELIO AGRIPPA


DELLA INCERTITUDINE E VANITÀ DELLE SCIENZE,
TRADOTTA PER LODOVICO DOMENICHI

1. Delle scienze in generale 25


2. De i caratteri delle lettere 33
3. Della grammatica 37
4. Della poesia 47
5. Della istoria 55
6. Della retorica 63
7. Della loica 71
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VI DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

8. Della sofistica 75
9. Dell’arte di Lullio 81
10. Dell’arte della memoria 83
11. Della matematica in genere 85
12. Della aritmetica 87
13. Della geomanzia 89
14. Dell’arte de dadi 91
15. Della sorte di Pitagora 93
16. Della aritmetica un’altra volta 95
17. Della musica 97
18. Delle danze e de balli 105
19. Della gladiatoria 109
20. Della istrionica 111
21. Del retorismo 113
22. Della geometria 115
23. Della optica, overo perspettiva 119
24. Della pittura 121
25. Della scultura et arte di gettare 123
26. Della arte de gli specchi 127
27. Della misura del mondo 129
28. Della architettura 133
29. Della arte metallaria 137
30. Della astronomia 141
31. Della astrologia giudiciaria 151
32. Delle divinazioni in genere 163
33. Della fisionomia 165
34. Della metoposcopia 167
35. Della chiromanzia 169
36. Della geomanzia un’altra volta 173
37. Della aruspicia 175
38. Della speculatoria 177
39. Della interpretazion de sogni 179
40. Del furore 181
41. Della magia in genere 185
42. Della magia naturale 187
43. Della magia matematica 191
44. Della magia venefica 193
45. Della goezia e negromanzia 197
46. Della teurgia 203
47. Della cabala 205
48. De prestigii 211
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INDICE VII

49. Della filosofia naturale 215


50. De principii delle cose naturali 217
51. Del numero de mondi e quanto abbino a durare 219
52. Della anima 221
53. Della metafisica 231
54. Della filosofia morale 235
55. Della politica 243
56. Della religione in genere 249
57. Delle imagini 253
58. Delle chiese 259
59. Delle feste 263
60. Delle ceremonie 267
61. De i magistrati della Chiesa 273
62. Delle sette de monaci 281
63. Della arte meretricia 287
64. Della ruffiania 297
65. Della mendicità 313
66. Della economia in genere 319
67. Del governo privato 321
68. Del governo regio, overo di corte 327
69. De i cortigiani nobili 331
70. De i cortigiani plebei 335
71. Delle donne di corte 339
72. Della mercanzia 343
73. Della questura 349
74. Della agricoltura 351
75. Della pastura 353
76. Della pescagione 355
77. Della caccia e del ucellare 357
78. Il rimanente della agricoltura 363
79. Della arte della guerra 367
80. Della nobiltà 373
81. Dell’arte de gli araldi 395
82. Della medicina in genere 401
83. Della medicina operatrice 407
84. De l’arte de gli speciali 423
85. Della chirurgia 429
86. Della anotomia 431
87. Della veterinaria 433
88. Della dieta 435
89. Della arte del cuoco 437
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VIII DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

90. Della alchimia 443


91. Della ragione e delle leggi 449
92. Della ragion canonica 455
93. Dell’arte de gli avocati 461
94. Dell’arte del notaio e del procuratore 463
95. Della scienza di ragione 465
96. Dell’arte de gli inquisitori 467
97. Della teologia scolastica 473
98. Della teologia interpretativa 479
99. Della teologia profetica 485
100. Della parola de Iddio 495
101. De i maestri delle scienze 505
102. Digressione in lode dello asino 509

Conclusione dell’opera 515


Al Magnifico M. Giovan Pietro Domenichi
suo Padre onorando 521

APPENDICI
1. Indirizzo al lettore 525
2. Elenco delle asserzioni del De vanitate condannate
dai teologi di Lovanio 529
3. Corrispondenza Agrippa-Erasmo da Rotterdam 537

Fonti utilizzate 557

Indice dei nomi 569


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PRESENTAZIONE

Nel rinnovato fervore di studi sul primo Rinascimento è oggetto di


particolare attenzione l’interesse che tra il Quattrocento e il Cinquecen-
to si accentuò per le indagini naturalistiche e le “scienze esatte”, in
coincidenza con la progrediente cognizione delle grandi correnti filoso-
fiche dell’antichità e delle metodiche sperimentali d’ispirazione pitago-
rica e platonica. In quegli anni, infatti, medici e physiologoi, mate-
matici e tecnici hanno saputo far tesoro di dottrine classiche nell’af-
frontare problemi concernenti le molteplici forme della natura e del vi-
vere umano e nel cercar soluzioni ai contrasti che inevitabilmente sor-
gevano con radicate tradizioni e istituzioni religiose e politiche. Si è di-
stinto tra quei dotti, in un momento assai critico per la vita civile del-
l’Europa, un medico di Colonia, Cornelio Agrippa di Nettesheym, com-
ponendo nel 1526 una De incertitudine ac vanitate scientiarum
declamatio invectiva, seguita da una Apologia, l’una e l’altra no-
tevoli per la vasta erudizione umanistica oltre che per l’esperienza fisio-
logica e per l’ispirazione tratta da grandi pensatori laici e religiosi del
Quattrocento, quali Nicola Cusano e Giovanni Pico della Mirandola.
Egli volle – e in ciò si attenne a dottrine platoniche – riaffermare la su-
premazia dell’intelletto illuminato da una fede religiosa. Che il suo im-
pegno non sia rimasto inefficace mostra la versione italiana a cui fu
sollecito ad applicarsi il Domenichi; e di questa è dunque opportuna
l’accurata riedizione che qui si presenta.

Giovanni Pugliese Carratelli


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NOTA EDITORIALE

La prima edizione del De incertitudine di Heinrich Cornelius


Agrippa von Nettesheim (1486-1535) apparve ad Anversa nel
settembre del 1530 in un volume in quarto pubblicato presso
l’editore Johannes Grapheus con il titolo completo di Splendi-
dae nobilitatis viri et armatae militiae equitis aurati, ac utriusque Ju-
ris Doctoris, Sacrae Caesareae Majestatis a consiliis et archivis iudicia-
rii, Henrici Cornelii Agrippae ab Nettesheym, De incertitudine et vani-
tate scientiarum et artium atque excellentia verbi Dei declamatio. Del
testo originale latino si ebbero, negli anni 1531-1532, altre set-
te edizioni in ottavo: gennaio 1531 (senza luogo di pubblica-
zione e marca editoriale), gennaio 1531, Colonia; gennaio/
febbraio 1531, Anversa; febbraio 1531, Parigi; 1531, Colonia;
gennaio 1532, Colonia (?); settembre 1532, Parigi (?). Nove
successive edizioni in diversi formati apparvero prima della fi-
ne del Cinquecento, quasi tutte mutile, mentre altre otto furo-
no pubblicate nel corso del Seicento. Il titolo varia nelle diver-
se edizioni, sebbene sia possibile evidenziare tre versioni di ba-
se a seconda se il libro sia stato stampato ad Anversa, a Colonia
o a Parigi.
Si pubblica qui il testo della traduzione italiana di Ludovico
Domenichi dell’edizione del 1547 in ottavo conservata presso
la Biblioteca Nazionale di Firenze (11.9.205). Questo testo è
stato collazionato con le copie dell’edizione dello stesso anno
conservate presso la Biblioteca Nazionale di Roma (202.5A.17)
e presso la Biblioteca Apostolica Vaticana (R.G. Filosof. V.
958). Per il testo latino si sono utilizzate l’edizione in ottavo
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pubblicata a Colonia nel 1531 con il titolo di Henrici Cornelii


Agrippae ab Nettesheym, De incertitudine et vanitate scientiarum de-
clamatio invectiva, qua universa illa Sophorum gigantomachia plus
quam Herculea impugnatur audacia, doceturque nusquam certi quic-
quam, perpetui et divini, nisi in solidis eloquiis atque eminentia Verbi
dei latere (Biblioteca Apostolica Vaticana, Palatina V 940) e l’e-
dizione in quarto pubblicata a Colonia nel 1584 con il titolo di
Henrici Cornelii Agrippae ab Nettesheym, De incertitudine et vanitate
scientiarum declamatio invectiva, ex postrema authoris recognitione
(Biblioteca Apostolica Vaticana, Cicognara II. 2), da cui sono
state espunte le proposizioni censurate contenute nell’editio
princeps. Si è inoltre consultata l’edizione in ottavo pubblicata a
Parigi nel febbraio del 1531 recante lo stesso titolo dell’editio
princeps del 1530 e conservata in microfilm presso la Biblioteca
Nazionale di Parigi (coll. 80.5). Di quest’ultima si sono segna-
late in nota alcune glosse a margine dell’autore e si è trascritto
l’indirizzo al lettore (di cui forniamo la traduzione italiana)
impresso in calce all’edizione e che compare solo in rarissimi
esemplari, tra i quali la stampa di Anversa (gen. 1531). Dati i ri-
correnti riferimenti al De vanitate, infine, si è ritenuto opportu-
no, per l’utilità del lettore, aggiungere in Appendice l’interes-
sante corrispondenza tra Agrippa ed Erasmo da Rotterdam ini-
ziata nell’autunno del 1531 e terminata nel 1533, di cui si dà
una traduzione italiana.
Desidero ringraziare il personale della Biblioteca Apostolica
Vaticana e della Biblioteca Casanatense di Roma, in particola-
re il Dott. Marco Buonocore per i preziosi suggerimenti in me-
rito ai riscontri con l’edizione latina, e la Dott.ssa Margherita
Palumbo e il Dott. Rosario Todero per la gentilezza e la dispo-
nibilità che sempre appartiene loro.
La realizzazione di questo lavoro non sarebbe stata possibile
senza l’alto magistero filologico del Prof. Giovanni Aquilec-
chia, i suggerimenti e consigli del Prof. Giovanni Pugliese Car-
ratelli, della Prof. Patrizia La Malfa e del Prof. Franco Voltag-
gio, il contributo fondamentale della Prof. Vittoria Perrone
Compagni, l’incoraggiamento e la stima dell’editore Nino Ara-
gno – cui si devono anche l’idea e la struttura del libro – e l’in-
cessante sostegno morale e materiale dei miei genitori. A tutti
costoro va il mio pensiero più grato.
T.P.
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CRITERI ADOTTATI NELLA PRESENTE EDIZIONE

In linea generale si è cercato di mantenere i caratteri fono-


morfologici e stilistici dell’ortografia della lingua volgare toscana
del Cinquecento. Si è tuttavia ritenuto necessario intervenire, al
fine di una modernizzazione del testo, nei seguenti casi:

a) Si è eliminato l’h etimologico laddove non avesse funzione


diacritica secondo l’uso del linguaggio moderno; si è tutta-
via mantenuto in posizione intervocalica qualora la sua eli-
minazione avesse provocato l’incontro di due vocali uguali.
Nel caso di interiezione si è ritenuto opportuno aggiungere
l’h alle vocali a e o. Si è distinto, laddove fosse necessario, o
da oh esclamativo o vocativo. Si è inoltre modernizzato c’heb-
be > ch’ebbe, c’havendo > ch’avendo, ecc.

b) La grafia -ti- + vocale è stata resa con -zi-, e lo stesso è avve-


nuto per le terminazioni -antia ed -entia che è parso oppor-
tuno modernizzare in -anza ed -enza. I gruppi latinizzanti -cti
e -pti sono stati mantenuti, così come si è conservata la grafia
-ci- del tipo ocio, speciale.

c) La grafia arcaica -gniu è stata mantenuta nel caso di ogniuno,


mentre la grafia -oua per statouaria/statoua/Capoua è stata
modificata in statuaria/statua/Capua, così come la grafia ar-
caica -gli è stata modificata in -lli nel caso di frategli > fratelli,
uccegli > uccelli, capegli > capelli e in -li nel caso di Itagliani >
Italiani, esiglio > esilio, famigliare > familiare per conformità al-
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XIV DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

l’uso moderno. Si è mantenuta l’alternanza -d/-t nel caso di


imperadore/imperatore, amadore/amatore.

d) Le terminazioni in -ij e -ii atone sono state unificate sul mo-


dello -ii. Per i plurali che potevano risultare ambigui (per es.
principi) si è posto un accento sulla vocale tonica delle paro-
le proparossitone.

e) La i diacritica è stata mantenuta per indicare il suono pala-


tale di c e g (per esempio faccie, leggiero).

f) Le grafie ch, gh sono state conservate nei limiti dell’uso dia-


critico moderno; ph e th sono state rese con f e t; il gruppo
mph è stato reso con mf.

g) Nei nomi propri si è mantenuta la x iniziale o intervocalica.

h) Nel caso di consonanti doppie o singole, si è mantenuta la


grafia originale provvedendo a intervenire solo nel caso di
errori tipografici o di ambiguità (es. capelli/cappelli). Si sono
mantenute inoltre anche le esitazioni come innanzi/inanzi,
inalzare/innalzare, overo/ovvero, giamai/giammai.

i) La separazione tra le parole è stata ristabilita in tutti quei casi


in cui la soppressione sembrava imputabile a un errore tipo-
grafico. Nel caso delle preposizioni articolate si è conservata la
separazione tra la serie a, da, de, co, ne, su, + i/gli. Si sono man-
tenute le esitazioni perché/per che, poiché/poi che. Si sono mante-
nute le separazioni più tosto, non che, acciò che, né pure, presso che,
la onde, mentre si sono unite le forme a pena > appena, a punto >
appunto, in vano > invano, in tanto > intanto, a pieno > appieno,
non nulla > nonnulla, a bastanza > abbastanza, tal’hora > talora, al-
l’hora > allora, d’ogn’hora > d’ognora. Quanto ai gruppi pronomi-
nali, si è mantenuta la separazione di gli le, gli ne mentre si è la-
sciata la grafia originale essinoi/essonoi.

j) Si è mantenuta, in generale, la grafia originale delle parole


latine, compresi i dittonghi.

l) La congiunzione et, resa nell’originale anche con il segno &,


è stata ridotta a e davanti a una consonante, ma è rimasta
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CRITERI ADOTTATI XV

inalterata qualora preceda una vocale, eccetto nei testi poe-


tici dove è rilevante per la metrica.

m) Le parole abbreviate, compresi i nomi propri, sono state


trascritte nella loro forma completa.

n) Per quanto riguarda i numeri si sono adoperate le cifre ara-


be per gli aggettivi cardinali e le cifre romane per gli ordi-
nali. Nei numeri espressi in lettere, è stata mantenuta l’e-
ventuale separazione delle migliaia, delle centinaia e delle
dozzine.

o) L’uso delle maiuscole è stato modernizzato. Si è conservata


la lettera maiuscola per le iniziali dei titoli dei destinatari
delle dediche. Si sono invece eliminate le maiuscole all’ini-
zio di ogni singolo verso.

p) Per quanto concerne la punteggiatura si è cercato di mo-


dernizzarla secondo le esigenze della logica e della sintassi e
di intervenire modificandone i segni in uso nel XVI secolo
con i loro equivalenti moderni. La virgola è stata general-
mente soppressa quando non aveva valore di pausa, in parti-
colare nei casi delle proposizioni relative o subordinate. Si
sono utilizzate le virgolette caporali (« ») per le citazioni o i
discorsi all’interno del testo; le virgolette doppie alte (“ ”)
per le citazioni all’interno di citazioni; gli apici (‘’) per le
espressioni evidenziate. Si è utilizzato il corsivo per i titoli
delle opere e per tutte le parole straniere o latine.

Le parentesi quadre ([ ]) sono da intendersi come interven-


to del curatore a integrazione e correzione del testo sulla base
dell’edizione latina; tra parentesi uncinate (< >) si sono poste
le proposizioni che, in seguito alle condanne del 1530 e del
1531, sono state successivamente espunte dalla maggior parte
delle edizioni posteriori al 1539. L’elenco delle asserzioni cen-
surate dai teologi dell’Università di Lovanio nel settembre del
1530 è riportato in Appendice 2.

Indichiamo infine una lista di interventi per emendare


eventuali errori tipografici, refusi o lapsus d’autore che non
rientrano nei casi sopra elencati (il n. di pagina e le righe si ri-
feriscono alla presente edizione).
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XVI DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

p. 4 riga 26 : ogiuno > ogniuno


p. 15 riga 16 : Diomede strascinare > Diomede, strascinare
p. 17 riga 22 : Detratti > retratti
p. 19 riga 27 : cristei > cristeri
p. 19 riga 28 : antomisti > anatomisti
p. 21 righe 11-12 : anno > hanno
p. 22 riga 6 : roppo > troppo
p. 29 riga 2 : augumĕto > augmento
p. 29 riga 20 : laql > la quale
p. 30 riga 20 : alle morte > alla morte
p. 32 righe 4-5 : arithmetico. l’astrologo > aritmetico. L’astrologo
p. 34 riga 14 : libro. > libro:
p. 37 riga 14 : Millote > Mallote
p. 37 riga 19 : nati > nate
p. 38 riga 1 : E nondimeno > È nondimeno
p. 38 riga 21 : sapiamo > sappiano
p. 39 riga 18 : considera > considero
p. 39 riga 19 : religio > relligio
p. 41 riga 7 : collocati > cocollati
p. 41 riga 17 : overo > o vero
p. 43 righe 31-2 : lunga > lingua
p. 46 riga 4 : problemi. ma > problemi. Ma
p. 48 riga 13 : dell’oro > d’oro
p. 50 riga 19 : Tichteo > Tirteo
p. 52 riga 14 : la Domăda > la domanda
p. 53 riga 1 : vifo > vi fo
p. 55 riga 1 : l’ode > lode
p. 55 riga 2 : cotme > come
p. 55 riga 10 : letta > netta
p. 57 riga 3 : Vopisco Trebellio > Vopisco, Trebellio
p. 57 righe 6-7 : Gnidio, Cresia > Gnidio Ctesia
p. 58 riga 18 : Huni > Unni
p. 59 riga 11 : Candano > Cardano
p. 60 riga 5 : lunghi > luoghi
p. 60 riga 11 : Rhegino Sigisberto > Regino, Sigisberto
p. 61 riga 7 : Dietero > Diotero
p. 62 riga 14 : Anniballe > Annibale
p. 67 riga 6 : harebbe > avrebbe
p. 72 riga 3 : tirate > tirati
p. 72 riga 4 : professore > professori
p. 72 righe 12-13 : demostrazioni > demostrazione
p. 78 riga 14 : dunqne > dunque
p. 83 riga 11 : natura Questa > natura. Questa
p. 92 riga 3 : homini > uomini
p. 97 titolo: Cap. XXII > Cap. XVII
p. 97 righe 11-12 : tuono > tono
p. 98 riga 3 : Thersandro > Terpandro
p. 98 riga 9 : disciplina. ma > disciplina. Ma
p. 99 riga 14 : mazzo > amazzò
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CRITERI ADOTTATI XVII

p. 99 riga 23 : Hiastio, vario > Iastio vario


p. 99 riga 26 : cinq; / e > cinque
p. 102 righe 6-7 : s’ella > s’elle
p. 105 riga 9 : stormenti > stromenti
p. 106 riga 8 : Coribati > Coribanti
p. 107 righe 18-19 : E necessario > È necessario
p. 107 riga 30 : diserto > deserto
p. 111 riga 12 : historie > istrione
p. 115 riga 15 : c’habbiamo > ch’abbiano
p. 120 righe 3-4 : l’al / eratione > l’al / terazione
p. 123 riga 6 : scolpisse > scolpisce
p. 127 riga 12 : braccio. fassi > braccio. Fassi
p. 128 riga 15 : rapprasentano > rappresentano
p. 129 riga 9 : gnomini > gnomoni
p. 130 riga 16 : mederni > moderni
p. 130 riga 19 : con eui > con cui
p. 134 riga 20 : dellaqual > della quale
p. 134 riga 20 : Herodoto, era > Erodoto) era
p. 138 riga 2 : ricchezze della avaritia, > ricchezze, della avarizia
p. 141 riga 3 : cianze > ciance
p. 149 riga 18 : harei > avrei
p. 152 riga 36 : quan o > quanto
p. 152 riga 40 : Tolemeo Dicendo > Tolemeo dicendo
p. 152 riga 41 : date > da te
p. 154 riga 21 : peroche > perché
p. 161 riga 17 : Valĕtiano > Valentiniano
p. 170 riga 6 : Alphorabio > Alfarabio
p. 171 righe 14-15 : apoco apoco > a poco a poco
p. 173 righe 2-3 : dell’arithmetica > nell’aritmetica
p. 173 righe 7-8 : similitudini dello > similitudini, dello
p. 175 riga 10 : de gi > de gli
p. 176 riga 9 : parti > parte
p. 179 riga 10 : materie > materia
p. 181 riga 15 : tira i > tirati
p. 182 riga 2 : purgato > purgata
p. 189 riga 15 : Nazabarub > Nazabarus
p. 189 riga 15 : Berith > Aerith
p. 189 riga 15 : Salamon > Salomon
p. 195 riga 13 : Iambico > Iamblico
p. 201 riga 6 : resurrettioni > resurrezzione
p. 205 riga 9 : Pithagorice > pitagoriche
p. 206 riga 4 : bibia > Bibbia
p. 206 riga 13 : mercana > mercava
p. 207 riga 1 : notoriacon > notariacon
p. 207 riga 3 : themantia > teomanzia
p. 209 riga 30 : tentato > tentano
p. 210 riga 5 : perfidia > perfida
p. 212 riga 5 : chel dottissimo > che’l dottissimo
p. 212 riga 17 : Soria > Siria
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XVIII DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

p. 213 riga 22 : chio havessi > ch’io avessi


p. 214 riga 8 : amatorii, agogimi > amatorii agogimi
p. 214 riga 9 : Membre > Mambre
p. 217 riga 14 : Paramenide > Parmenide
p. 218 riga 4 : matteria > materia
p. 222 riga 8 : Passidonio > Possidonio
p. 225 riga 21 : che gle > ch’egli
p. 234 riga 8 : è che più > e che più
p. 235 riga 18 : moglie > mogli
p. 236 riga 13 : ladronici > ladronecci
p. 237 riga 23 : n’hano > n’hanno
p. 238 riga 30 : dissi? che > disse che
p. 239 riga 14 : Ceriniaci > Cirenaici
p. 239 righe 18-19 : Hecatore > Ecatone
p. 240 riga 10 : vole > vuole
p. 240 riga 10 : Epimenide > Epinomide
p. 240 riga 13 : Scotto > Scoto
p. 240 riga 24 : tocano > toccano
p. 241 righe 6-7 : Euricole > Euriloco
p. 240 riga 25 : essa > esca
p. 243 riga 5 : popolare, Prossime > popolare. Prossime
p. 243 riga 14 : ponto > punto
p. 244 riga 5 : cnosigli > consigli
p. 244 riga 16 : e>è
p. 244 riga 26 : riccheze > ricchezze
p. 245 riga 4 : hauto > avuto
p. 245 riga 7 : è > et
p. 245 riga 7 : Salamone > Salomone
p. 245 riga 11 : lat > la
p. 248 riga 6 : aniicamente > anticamente
p. 248 riga 31 : in piedi si reggono > in piedi, si reggono
p. 250 riga 2 : lui. Allhora > lui: allora
p. 251 riga 2 : nostri > mostri
p. 255 riga 11 : oco > loco
p. 257 riga 7 : Magna > Lamagna
p. 268 riga 20 : qn̆ > quando
p. 268 righe 33-34 : inconsequentia > in consequenza
p. 269 riga 36 : fecere > fecero
p. 270 righe 9-10 : constitioni > constituzioni
p. 270 riga 30 : in > un
p. 274 riga 28 : ciechi > cieche
p. 276 riga 8: Porcheto > Procheto
p. 276 riga 12 : chel papa > che’l papa
p. 277 riga 22 : seranno > saranno
p. 278 riga 27 : tntte > tutte
p. 279 riga 13 : che > chi
p. 281 riga 10 : cattini > cattivi
p. 282 righe 1-2 : balene, smisurate > balene smisurate
p. 282 riga 7 : di scuro di nero > di scuro, di nero
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina XIX

CRITERI ADOTTATI XIX

p. 283 riga 5 : mondano > mandano


p. 284 riga 3 : perfettione ? > perfezzione.
p. 284 riga 8 : fofession > profession
p. 284 righe 21-22 : cressendo > crescendo
p. 285 riga 3 : chi > che
p. 289 riga 4 : Mgaresi > Megaresi
p. 290 riga 2 : Ismael > Israel
p. 290 riga 16 : arrivvò > arrivò
p. 291 riga 14 : Gionăna > Giovanna
p. 292 riga 4 : splendissimi > splendidissimi
p. 292 riga 5 : Gostătino > Costantino
p. 292 riga 5 : Clodoneo > Clodoveo
p. 293 righe 13-14 : volumni > volumi
p. 293 riga 22 : tuttti > tutti
p. 293 riga 23 : heretiche > erotiche
p. 295 riga 41 : Punto > Ponto
p. 296 riga 17 : Rodorico > Rodoaldo
p. 296 riga 22 : nergognato > vergognato
p. 298 riga 8 : nna > una
p. 298 riga 19 : Tritheimo > Tritemio
p. 298 righe 29-30 : letere > lettere
p. 298 riga 30 : dis’honesti > disonesti
p. 299 riga 28 : Enea, Silvio > Enea Silvio
p. 300 riga 16 : effetti > affetti
p. 300 riga 27 : invitare > imitare
p. 301 riga 5 : corotto > corrotto
p. 303 riga 1 : d’amore. ma > d’amore. Ma
p. 303 riga 6 : dadole > dandole
p. 303 riga 17 : s’ingegnano > s’insegnano
p. 303 riga 27 : monisteri > monasteri
p. 304 riga 22 : elimosine > elemosine
p. 317 riga 24 : tiranniacamente > tirannicamente
p. 318 riga 16 : proposto > preposto
p. 318 riga 20 : baste > basti
p. 322 riga 6 : Georgia > Gorgia
p. 322 righe 22-23 : voce > croce
p. 323 riga 23 : Antonio > Antonino
p. 325 riga 1 : mazzare > amazzare
p. 326 riga 13 : vituperio Percioche > vituperio. Percioché
p. 326 riga 16 : Prenesti > penesti
p. 327 riga 3 : raunanza > ragunanza
p. 327 righe 14-15 : inalzato i semplici > inalzato, i semplici
p. 331 righe 4-5 : dorati, a costoro > dorati. A costoro
p. 331 righe 10-11 : adobbati mangiano > adobbati, mangiano
p. 335 riga 3 : maessi > ma essi
p. 335 riga 12 : metendosi > mettendosi
p. 336 riga 5 : che > chi
p. 338 riga 26 : nobili, > nobili.
p. 339 riga 9 : oio > dio
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina XX

XX DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

p. 339 riga 14 : atulterij > adulterii


p. 344 riga 5-6 : mentire giurare il falso > mentire, giurare il falso
p. 344 riga 15 : dovere. dice > dovere. Dice
p. 344 righe 16-17 : poeta. / Giura > poeta: / Giura
p. 345 righe 8-9 : dinari corrompono > dinari, corrompono
p. 345 riga 16 : spaventono > spaventano
p. 345 riga 32 : republica Essi > republica. Essi
p. 345 righe 40-41 : piazza Ma > piazza, ma
p. 347 riga 3 : mercatantia > mercanzia
p. 347 riga 5 : Gregorio di Crisostomo > Gregorio, di Crisostomo
p. 349 riga 1 : thesoreri > tesorieri
p. 350 riga 11 : però > perciò
p. 353 riga 2 : Tauri. Pomponij > Tauri, Pomponii
p. 353 riga 16 : Davit > David
p. 360 riga 5 : Ebilitano > Elibitano
p. 360 riga 14 : cŏdanata > condannata
p. 368 riga 21 : vettoria > vittoria
p. 369 riga 23 : huomini Ne > uomini. Né
p. 369 righe 28-29 : santa santorum > sancta sanctorum
p. 374 riga 20 : Zeth > Seth
p. 376 riga 15 : figliuole, per mogli > figliuole per mogli,
p. 378 riga 8 : Egittii > Etiopi
p. 378 riga 15 : così > con
p. 378 riga 31 : prircipato > principato
p. 378 riga 32 : gindici > giudici
p. 379 riga 13 : Abimelch > Abimelech
p. 382 riga 14 : caua > causa
p. 382 riga 16 : la giustizia chi più > la giustizia, chi più
p. 382 riga 26 : malvagità: furore > malvagità, furore
p. 383 riga 20 : havena > aveva
p. 383 riga 21 : con lui La monarchia > con lui. La monarchia
p. 384 riga 8 : consiggliatore > consigliatore
p. 385 riga 16 : umulto > tumulto
p. 386 riga 8 : garnde > grande
p. 386 riga 24 : gli persuase > egli, persuasi
p. 386 riga 31 : rede > re de
p. 387 riga 23 : ase > a sé
p. 390 righe 4-5 : ridure > ridurre
p. 390 riga 11 : fortificarsi > fortificatisi
p. 390 riga 16 : si > se
p. 390 riga 18 : gagaliarda > galiarda
p. 390 riga 23 : grande: come, > grande, come
p. 391 riga 10 : soccorrrono > soccorrono
p. 392 riga 22 : afflito > afflitto
p. 396 riga 25 : nuoni > nuovi
p. 397 riga 22 : delle > dalle
p. 398 riga 28 : si > ti
p. 399 riga 19 : hnomini > uomini
p. 401 riga 3 : philosophi > filosofia
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina XXI

CRITERI ADOTTATI XXI

p. 401 riga 11 : e > le


p. 402 riga 1-2 : Parasagora > Prassagora
p. 402 riga 2 : Herosistrato > Erasistrato
p. 402 riga 23 : Pomponio Leto > Pomponio Leneo
p. 403 riga 6 : Ambi > Arabi
p. 404 riga 1 : colore > calore
p. 404 riga 12 : la > lo
p. 404 riga 12 : sangne > sangue
p. 404 righe 22-23 : elementt > elementi
p. 404 riga 23 : habito > alito
p. 405 riga 7 : tuto > tutto
p. 407 riga 2 : facili > fallaci
p. 408 riga 27 : scilopi > sciropi
p. 412 riga 5 : Giovi > Giove
p. 413 riga 32 : si fosse: uoluto > si fosse voluto
p. 415 riga 29 : la > il
p. 420 riga 5 : induttto > indutto
p. 420 riga 19 : bottege > botteghe
p. 421 riga 13 : il > in
p. 421 riga 14 : Questo > queste
p. 423 riga 3 : molto > molte
p. 424 riga 24 : che > chi
p. 425 riga 8 : ingagno > inganno
p. 427 riga 9 : età, ; > età;
p. 433 riga 18 : do > di
p. 434 riga 2 : Nippocrate > Ippocrate
p. 436 riga 4 : stomaco i legumi > stomaco, i legumi
p. 437 riga 4 : ar / e > ar / te
p. 438 riga 8 : pelano > pelamo
p. 439 righe 9-10 : la Didia la Licinia > la Didia, la Licinia
p. 439 riga 11 : ma Anchora > ma ancora
p. 440 riga 22 : balena, queste > balena. Queste
p. 441 riga 16 : a > ha
p. 441 riga 18 : fessero > fossero
p. 441 riga 26 : malatie > malattie
p. 442 riga 9 : digerisse > digerisce
p. 442 riga 20 : possiamo > passiamo
p. 447 righe 33-34 : inabro > cinabro
p. 448 riga 1 : musico > musivo
p. 450 righe 9-10 : Charinonda > Charmonda
p. 451 riga 23 : composi > compose
p. 451 riga 32 : di > de
p. 452 riga 18 : Pphilippo > Filippo
p. 452 riga 20 : finalmente fu conosciuto > finalmente conosciuto
p. 456 riga 11 : Pontiers > Poitiers
p. 457 riga 7 : enangelica > evangelica
p. 457 riga 9 : colette > collette
p. 457 riga 25 : tl > il
p. 458 riga 8 : uid. > iud.
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XXII DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

p. 470 riga 7 : avenire > a venire


p. 471 riga 1 : fittioni > finzioni
p. 473 titolo: stica. scola > scolastica
p. 474 riga 19 : mendatosi > mandatosi
p. 476 riga 7 : Occanista > Occamista
p. 476 riga 27 : rinformano > riformano
p. 476 riga 36 : da > dal
p. 477 riga 12 : fosero > fossero
p. 477 riga 17 : dorttina > dottrina
p. 477 riga 17 : cilica > ciclica
p. 477 riga 20 : Persio Tito Livio > Persio, Tito Livio
p. 479 riga 7 : dichiarate > dichiarati
p. 480 righe 14-15 : spiritali > spirituali
p. 480 riga 21 : espotione > esposizione
p. 480 riga 24 : fuggire > figure
p. 481 riga 10 : la virtù celesti > le virtù celesti
p. 483 riga 5 : ch’erarono > ch’errarono
p. 488 riga 8 : horrora > orrore
p. 488 riga 29 : Pol / bio > Polibio
p. 488 riga 30 : Diotima, i Anasimădro > Diotima, Anasimandro
p. 490 righe 3-4 : d’huomini non > d’uomini, non
p. 492 riga 6 : dono passione > dono, passione
p. 493 riga 4 : Ahia > Achia
p. 494 riga 1 : perfettione > prefazzione
p. 496 riga 27 : mortali > morali
p. 498 riga 26 : rossezza > rozzezza
p. 498 riga 33 : Sinapeo > Sinopeo
p. 499 riga 14 : pin > più
p. 500 riga 11 : vivande rivoltare > vivande, rivoltare
p. 500 riga 37 : anentura > aventura
p. 502 riga 17 : tuto > tutto
p. 505 riga 7 : o>è
p. 506 riga 4 : Aristole > Aristotele
p. 506 riga 28 : como > sono
p. 508 riga 24 : legge da gli scribi > legge, da gli scribi
p. 509 riga 16 : fra > fa
p. 509 riga 18 : rompa > rompe
p. 509 riga 18 : gravi, Hora > gravi. Ora
p. 510 riga 17 : rrdĕtione > redenzione
p. 510 riga 26 : dalla > della
p. 510 riga 27 : non ritornati > ritornati
p. 511 riga 24 : altri. habbiamo > altri. Abbiamo
p. 512 riga 10 : sapientia? > sapienza,
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L’AGRIPPA
ARRIGO
CORNELIO AGRIPPA DELLA
VANITÀ DELLE SCIENZE
TRADOTTO PER M. LODOVICO
DOMENICHI

Con grazia e privilegio per anni X

IN VENEZIA M. D. XLVII
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ALL’ILLUSTRISSIMO ET
ECCELLENTISSIMO SIGNOR
COSMO DE MEDICI
DIGNISSIMO DUCA DI
FIORENZA

Fu sempre intenzion mia, Magnanimo Principe, di giovare


in alcuna parte non pure a gli amici privati, ma al ben pubbli-
co ancora, e se le forze non hanno risposto a tal desiderio, s’è
però di continuo veduto per le azzioni mie, da quegli uomini
che drittamente giudicano, che io di sì lodevol pensiero non
meritava ricever biasimo. Coloro che più sanno di me, i quali
in ogni loco son molti, insegnando e consigliando potranno ri-
tornare sulla dritta strada gli altri c’hanno bisogno di scorta e
di guida, e facendo ciò, lode ne riporteranno, e guiderdone.
Io, che so poco o nulla, ritenni meco ogn’ora una ardentissima
brama d’imparare (e sempre ho reputato invidiosi quegli che
potendo non insegnano e non ammaestrano ogniuno), venen-
domi sdegno e compassione d’alcuni i quali dicono ch’egli
non è onesto ch’ogni idiota abbia a sapere quello che un lette-
rato in molti anni con studio grande s’avrà acquistato da i libri
greci e latini, parole disconvenienti io non dirò solo a uomo
cristiano, ma a ciascuno uomo, sapendosi quanto noi siamo ge-
neralmente tenuti ad amare ogniuno e giovar l’un a l’altro, e
molto più all’anima che al corpo, alla quale maggior beneficio
per altrui fare non si può che nello agevolarle la via dell’inten-
dere. E s’egli è vero, come è verissimo, che tutti gli uomini na-
turalmente desiderino sapere1, certo non merita di esser chia-
mato uomo chi questo universal desiderio impedisce, e secon-

1
Cfr. ARIST., Metaph., 980a.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 4

4 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

do il dono speciale avuto dal cielo non l’aiuta. Ma perché non


è dato a ciascuno di potere in così breve spazio di tempo,
quanto è il corso della vita umana, la diversità delle lingue e la
varietà delle scienze imparare, assai fanno coloro che, lasciata
la cura de gli idiomi, comunque e’ possono, il meglio alla co-
gnizione delle cose si danno, e quegli ancora ch’alla necessità
loro soccorrono meritano a mio giudicio loda e premio. Glo-
riossi Boezio nel Proemio ch’egli fa alla sua traduzzione de Pre-
dicamenti di Aristotile quando e’ dice che essendo uomo con-
solare e poco atto alle cose della guerra, farebbe opera d’in-
struire i cittadini suoi con le lettere, e che non credeva di me-
ritare manco onore, né di giovare meno a quegli insegnando
loro la greca sapienza, che gli altri, i quali debellando regni e
provincie, alla republica avevano accresciuto maestà et impe-
rio2. Onde, essendo io da sì bello e virtuoso essempio eccitato,
a questi giorni tradussi in lingua toscana la bellissima declama-
zione invettiva che già fece l’Agrippa Della vanità delle scienze, la
quale essendo universalmente utilissima, spero anco che da
molti sarà gradita et avuta cara. Per questo certissimo mi rendo
io d’avere in ciò parimente piacciuto a Vostra Illustrissima Ec-
cellenza. La quale, avendo tutti i suoi gravissimi pensieri e le
sue dignissime azzioni indirizzato alla salute, alla quiete et alla
utilità de i popoli che la servono e le ubbidiscono (con tener
sempre gli occhi dell’animo intenti al grandissimo Re del Cie-
lo che sempre giova e non nuoce giamai) ha confermato nelle
menti d’ogniuno fermissima opinione dello esser dignissima
di posseder regni e di governare imperi. E così fosse ella imita-
ta, come da tutti gli altri principi è conosciuta, e con maravi-
glia onorata. Ma perché qui non è loco, né io mi sento degno
di entrare nelle infinite lodi di Vostra Eccellenza, m’appres-
serò alla fine pregando quella che con l’usata benignità degni
ricevere questa mia debil fatica sì come cosa nata nel Suo feli-
cissimo dominio, e frutto di me suo volontario e deditissimo
servo, il quale in purissima affezzione verso di Lei non cedo a
quale altro glie ne abbia dato la sorte e la natura. E perché non
ho dubbio di esser compiacciuto dalla grandezza Sua in questo
mio così onesto desiderio, ringraziando immortalmente Vostra
Illustrissima Signoria di tanto favore, continuerò la incomin-

2
Cfr. BOEZIO, Categ. Arist., II, prohem.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 5

DEDICA 5

ciata traduzzione dell’opere di Xenofonte, et in quanto le mie


picciole forze s’estenderanno, porrò ogni cura e tutto il mio
studio in fare ch’elleno meritamente escano in luce col glorio-
so titolo del Magnanimo Duca Cosmo. Al quale umilmente in-
chino, e con riverenza bacio le mani.
Alli VI di Giugno M. D. XLVI. Di Fiorenza.
Di Vostra Eccellenza.
Umilissimo Servo
Lodovico Domenichi.
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ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 7

LUOGHI COMUNI, O CAPI


DELLE COSE CHE S’HANNO A TRATTARE

Delle scienze in generale Capitolo 1


De i caratteri delle lettere 2
Della grammatica 3
Della poesia 4
Della istoria 5
Della retorica 6
Della loica 7
Della sofistica 8
Dell’arte di Lullio 9
Dell’arte della memoria 10
Della matematica in genere 11
Dell’aritmetica 12
Della geomanzia 13
Dell’arte de dadi 14
Della sorte pitagorica 15
Un’altra volta dell’aritmetica 16
Della musica 17
Delle danze e de balli 18
Della gladiatoria 19
Della istrionica 20
Del retorismo 21
Della geometria 22
Dell’optica 23
Della pittura 24
Della statuaria e plastica 25
Dell’arte de gli specchi 26
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8 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Della misura del mondo 27


Dell’architettura 28
Della metallaria 29
Dell’astronomia 30
Dell’astrologia giudiciaria 31
Delle divinazioni in genere 32
Della fisionomia 33
Della metoposcopia 34
Della chiromanzia 35
Un’altra volta della geomanzia 36
Dell’aruspicia 37
Della speculatoria 38
Della somnispicia 39
Del furore 40
Della magia in genere 41
Della magia naturale 42
Della magia matematicale 43
Della magia venefica 44
Della goezia e negromanzia 45
Della teurgia 46
Della cabala 47
Delle malie 48
Della filosofia naturale 49
De i principii 50
Del mondo 51
Dell’anima 52
Della metafisica 53
Della filosofia morale 54
Della politica 55
Della religione in genere 56
Delle imagini 57
De i tempii 58
Delle feste 59
Delle cerimonie 60
De i magistrati della Chiesa 61
Delle sette monastiche 62
Dell’arte meretricia 63
Dell’arte ruffianesca 64
Della mendicità 65
Dell’economia in genere 66
Dell’economia privata 67
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LUOGHI COMUNI 9

Dell’economia regia, over di corte 68


De i cortigiani nobili 69
De i cortigiani plebei 70
Delle donne di corte 71
Della mercanzia 72
Della questura 73
Dell’agricoltura 74
Della pastura 75
Della pescagione 76
Della caccia e dell’uccellare 77
Il rimanente dell’agricoltura 78
Dell’arte militare 79
Della nobiltà 80
Dell’arte de gli araldi 81
Della medicina in genere 82
Della medicina operatrice 83
Della speciaria 84
Della cirusia 85
Dell’anotomia 86
Del medicare animali 87
Della dieta 88
Dell’arte della cucina 89
Dell’alchimia 90
Della ragione e delle leggi 91
Della ragion canonica 92
Dell’arte de gli avocati 93
Dell’arte de notai e procuratori 94
Della scienza di ragione 95
Dell’arte de gli inquisitori 96
Della teologia scolastica 97
Della teologia interpretativa 98
Della teologia profetica 99
Della parola di Dio 100
De i maestri delle scienze 101
Digressione in lode dell’asino 102
Conclusione dell’opera
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 10

10 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Fra gli dèi Momo riprende ogniuno1.


Fra gli eroi Ercole perseguita tutti i mostri.
Fra i demonii Plutone re dell’Inferno si coruccia con tutte
l’ombre.
Tra i filosofi Democrito ride d’ogni cosa.
Per lo contrario Eraclito piange d’ogni cosa2.
Pirria non sa nulla3.
Et Aristotele crede di sapere ogni cosa.
Diogene sprezza ogni cosa.
L’Agrippa qui non perdona ad alcuno.
Sprezza, sa, non sa, piange, ride, si coruccia, perseguita, e ri-
prende ogni cosa.
Questo filosofo, demonio, eroe, Dio, et ogni cosa.

1
Sulla critica incessante che Momo riservava agli dèi (mw'mo" = biasimo), al punto
di essere scacciato dall’Olimpo, si veda ESIODO, Teog., 214. Il personaggio di Mo-
mo ricorre anche in alcuni dialoghi di Luciano di Samosata (ca.120-ca.181); di
qui penetra nella letteratura umanistica e rinascimentale, in particolare nel Mo-
mus (a. 1450) di Leon Battista Alberti (1404-1472), nei Dialogi piacevoli (1539) di
Niccolò Franco (1515-1570) e ne I mondi e gli inferni (1552-53) di Anton France-
sco Doni (1513-1574), fino a comparire nel Moriae encomium (1509) di Erasmo da
Rotterdam (1466-1536) e ad assumere un ruolo fondamentale nello Spaccio de la
bestia trionfante (1584) di Giordano Bruno (1548-1600).
2
L’epiteto di gelasi'no", ‘ridente’, attribuito a Democrito, e la raffigurazione del
filosofo che rideva di tutto opposto a Eraclito che piangeva di tutto, appartengo-
no alla leggenda posteriore, sorta nella letteratura moralistica e sviluppatasi in se-
guito in quella romanzesca. Si veda, per es., LUCIANO, Vit. auct., XIII sgg.; STOB.,
Flor., III, 20, 53; GIOVEN., Sat., X, 28-53; ELIANO, Var. hist., IV, 20 e 29; CIC., De orat.,
II, 58. Per il sec. XVI, si veda A. Phileremo Fregoso, Opera nova la qual tratta de doi
Philosophi, cioe de Democrito che rideva de le pazie di questo mondo et Heraclito che pian-
geva de le miserie umane (1534); ERASMO, Adagia, III, 3, 1.
3
Allusione a Pirrone di Elide (ca. 365- ca. 275 a.C.), considerato il fondatore del-
lo scetticismo che, dal suo nome, fu detto anche pirronismo. Tra le dottrine pù
importanti del suo insegnamento vi è l’assenza di opinioni, di inclinazioni e di
turbamenti da cui discendono l’ajfasiva, il non asserire né affermativamente né
negativamente, e l’ajtaraxiva o imperturbabilità.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 11

ARRIGO CORNELIO AGRIPPA DA NETTESHEIM,


ALLO SPETTABILE MESSERE AGOSTINO
FORNARO CITTADINO GENOVESE1

Considerando io, virtuosissimo Agostino, il quale mi t’hai


perpetuamente obligato con lo studio di farmi beneficio a ren-
derti grazie, con che onore, con che riverenza, con che pegno,
o con che industria d’ingegno, io potessi farti conoscere que-
sta affezzione dell’animo mio, mi venne in mente di farti alcun
bello et onorevole dono (poiché tu di bellissimi e d’onorevo-
lissimi sei degno) et offerirti i più secreti libri dell’una e l’altra
literatura divina et umana, con ornatissima integrità di parlare
e con abondantissima dignità di cose. Ma perché io di dottrina
e d’ingegno mi sento inferiore a così grande animo mio, e con
lento passo lo seguo ancora d’eloquenza di dire e di eleganza
di parlare, non ho nella facultà del mio ingegno cosa ch’io
possa darti se non una nobile ignoranza, et è di modo oppres-
so l’ingegno dallo sdegno della fortuna mia, che per questo
sdegno quasi son trasformato in cane insieme con l’Ecuba
troiana2, e di nessuna forza sono a dir bene: niente altro più mi
ricordo se non mordere, abbaiare, maledire e villaneggiare. Et

1
Agostino Fornari (Augustinus Furnarius), ricco mercante genovese che intratte-
neva affari a Lione e ad Anversa. Seguace delle pratiche occulte, aiutò finanzia-
riamente Agrippa negli anni in cui questi si trasferì da Lione ad Anversa (1527-
28). Agrippa conobbe Agostino Fornari nel 1527 dopo aver completato la stesura
del De vanitate a lui dedicato. Sui rapporti tra Agrippa e Fornari, si veda, per es.,
AGRIP., Epist. V, 3, 20-23; 28.
2
Allusione all’episodio narrato in OVID., Metam., XIII, 547-575, in cui Ecuba, mo-
glie di Priamo, dopo aver accecato Polimèstore, il re tracio reo di aver ucciso il fi-
glio di lei Polidoro, si trasforma in cagna.
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12 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

essendo concio in tal modo scrissi a questi giorni un volume as-


sai grande, il quale intitolai Della incertitudine e vanità delle scien-
ze, nel quale libro ho talmente abbaiato contra tutta quella
guerra gigantesca delle scienze e dell’arti, e con gagliardissimi
morsi stretto di maniera tutti quei valorosissimi cacciatori delle
scienze e dell’arti, che ogni volta ch’io lo ritorno a vedere, io di
me stesso mi maraviglio vedermi fatto d’uomo cane, e tal che
più non mi manca altro che la sola adulazione, benché ella sia
molto necessaria in un cortigiano. Per non mancarti dunque
dell’affezzion mia, poi ch’io non posso darti doni abondanti,
degni di te, e cavati da i tesori delle scienze, almeno io ti pre-
sento dalla medesima bottega della ignoranza e dello sdegno
mio questa declamazione canina3 in testimonio della benivo-
lenza mia verso di te: questa ti dono io, questa ti dedico, e vo-
lentieri, s’io potessi, ti mostrarei la grandezza dell’animo mio
verso di te e come nella persona mia tu t’abbia acquistato un
vigilante guardiano, una aveduta spia, uno ardito soldato et un
magnanimo capitano, il quale e di lontano, come da loco emi-
nente, do segno de gli inimici che vengono acciocché i cittadi-
ni delle divine lettere si riparino in più securi luoghi, e met-
tendomi ancora per la salute di tutti loro a essere stracciato da
ogniuno, e primo de gli altri, e dappresso, combatto in ordi-
nanza. Per la qual prova non temo io punto l’invidia, anzi cre-
do io che ogniuno me ne debba ringraziare sì come quello che
per la publica utilità in un medesimo tempo e spia e soldato,
aviso e combatto contra quei che mettono in pericolo la salute
umana, et oltra ciò mi faccio capitano a quegli ch’uscendo fuo-
ra del laberinto delle scienze umane vanno nella rocca della
verità. Prendi dunque Agostino carissimo, quale ella si sia, que-
sta mia declamazione, et abbila per cosa tua, perciocché io so
che se tu ami i cacciatori et i cani, ch’ella non può esserti se
non gratissima. Ma io ora sto per farmi di cane crocodillo, o
drago, o qualche altro serpente che getta fuoco, et inconta-
nente credo di finire la Pirografia (opera che l’età nostra più
non n’ha veduto alcuno tale, ma che non è per giovare se non

3
Il testo latino reca: «Cynicam declamationem», con evidente riferimento alla
scuola cinica antica. Ai Cinici fu attribuito quel nome dal greco kuvwn, che signifi-
ca appunto «cane», per la loro esistenza infima, o dal ginnasio di Cinosarge dove
insegnò il loro maestro Antistene; secondo Agostino anche per le loro teorie be-
stiali (De civit. Dei, XIV, 19 e De nupt. et concup., I, 22, 24).
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DEDICA 13

ad alcuno famoso destruttor del mondo4); allora mi laverò io


dell’acqua sacra e nel fiume vivo5, acciocché finalmente, spo-
gliatomi queste fatali maschere6, di nuovo ritorni uomo, affine
che non talora troppo pitagorizando, e trasformandomi in co-
sì varie bestie, allo ultimo io non mi cangiassi in uno asino filo-
sofante a guisa di Luciano e di Apuleio7. Ma attendi tu ora a fe-
licissimamente vivere, e ricordati nel leggere delle cose mie
che felicissima vita è il non saper nulla8.

4
L’opera con ogni probabilità non fu mai scritta o portata a compimento.
5
Cfr. VIRG., Aen., IV, 635; II, 719-720.
6
Ivi, IV, 355.
7
Allusione al romanzo che ha per protagonista Lucio, un giovane greco che un
maldestro esperimento magico trasforma in asino. Secondo il patriarca costanti-
nopolitano Fozio, il romanzo dell’asino sarebbe stato trattato da Luciano (l’ope-
ra che ci è pervenuta con il titolo di Lucio o l’asino è però concordemente ricono-
sciuta come non autentica), da Apuleio nei Metamorphoseon libri XI e da Lucio di
Patre, ignoto scrittore greco, la cui opera è andata perduta, e del quale si è pen-
sato dipendessero, in modo autonomo l’uno dall’altro, le due opere precedenti.
Secondo altre ipotesi, invece, Apuleio si sarebbe ispirato all’opera pseudolucia-
nea oppure Apuleio stesso sarebbe la fonte o l’autore dell’opera greca, riassunto
delle più estese metamorfosi apuleiane.
8
Cfr. ERASMO, Moriae enc., XII, la cui fonte è SOFOCLE, Aiax, 554.
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ARRIGO CORNELIO AGRIPPA AL LETTORE

Non ti parrà egli, o lettore studioso, questa mia impresa di


grande ardire, e quasi simile alle fatiche di Ercole, il prendere
l’armi contra tutta la machina delle scienze e dell’arti, e provo-
care a battaglia tutti i valorosissimi cacciatori delle scienze e
delle arti? Abbaierà contra di me la gravità de i dottori, la dot-
trina de i licenziati, l’auttorità de i maestri, lo sforzo de i baci-
lieri, il zelo di tutti gli scolastici e la sedizione de i mecanici. I
quali se da me resteranno vinti, non sarà egli tanto, et anco
più, che si fusse il percotere con la mazza il leon Nemeo, l’uc-
cidere col fuoco l’idra Lernea, l’amazzare il cinghiale d’Eri-
manto, il prendere la cerva nel bosco di Menalo, ch’aveva le
corna d’oro, l’infilzare con le saette gli uccelli Stimfalidi nelle
nuvole, soffocare Anteo nelle braccia, piantare le colonne nel-
l’Oceano, vincere Gerione, ch’aveva tre teste, menarne i buoi,
uccidere il toro, vincere Achelao da corpo a corpo1, rubbare i
cavalli di Diomede, strascinare Cerbero legato in catena, rapi-
re le poma d’oro delle Esperidi2, e molte altre prove di questa
sorte, le quali furono fatte da Ercole e con fatiche grandi, e
con non minor pericolo, non essendo di minor fatica ma ben
di grandissimo pericolo superare questi mostri de gli studi e
delle scole. E ben veggio io quanto sanguinosa battaglia ho da
far con loro, quanto questa guerra abbia da essere piena di pe-

1
Il testo latino reca: «Acheloum monomachia superare». L’annotazione a margine
corrispondente reca: «monomaciva, id est singulari certamine».
2
Tutto il periodo: «percotere con la mazza…delle Esperide», relativo alle fatiche
di Eracle è preso letteralmente da REUCHL., De arte cabal., II, G1v.
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16 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

ricoli, ritrovandomi circondato dall’essercito di così potentissi-


mi inimici. Ohimè, con quante machine mi combatteranno,
con quante forze m’assaliranno, con quante villanie mi accom-
pagneranno? Prima faranno strepito i pidocchiosi grammatici,
e con le loro etimologie di Agrippa mi daranno un nome da
gottoso. Gli storditi poeti mi strascineranno ne i versi loro per
Momo o per il becco di Esopo3. Gli istorici venditori di ciance
m’infameranno più che non fu giamai Pausania et Erostrato4.
Gli oratori, che gran cose promettono, con occhi corucciati,
con volto terribile, con voci strepitose, e con gesti crudeli mi
accuseranno per rubello. I mostruosi professori di memoria mi
romperanno il cervello con le loro immaginazioni. Gli ostinati
loici mi lancieranno contra infiniti dardi di sillogismi. I sofisti,
che in ogni parte volgono il parlar loro, co i suoi lacci intricati
di parole, a guisa di freno, mi tureranno la bocca. Il barbaro
lullista, con parole goffe e con solecismi mi empierà il capo di
pazzia. I crudeli matematici mi bandiranno della terra e del
cielo. Gli aritmetici scrittori d’atomi, concitandomi gli usurai
contra, mi sforzeranno a render conto de miei debiti. Lo indu-
rato giuocatore mi ridurrà a farmi impiccare. Il pitagorista in-
dovinatore calculerà numeri infelici. Il geomante co i punti mi
getterà adosso prigione, maninconia e figure infelici. I musici
co i molti tuoni mi faranno favola del vulgo per le strade, e con
strani rumori, e strepiti discordanti di conche, di bacini e di
pentole più mi conturberanno che non si suole ne gli sponsali-
zii di quei che due volte si maritano. Le pompose matrone mi
caccieranno da i balli. Le lascive fanciulle non mi vorranno ba-
ciare. Le fanti cibeche5 mi scherniranno per un camello saltan-
te. L’istrione saltatore in una disonesta scena farà di me trage-
dia. Il gladiatore con cento mani m’assalterà da destra e da si-
nistra. Gli inviluppati geometri ponendomi fra piedi triangoli,
tondi, e forme quadre, et allacciandomi con essi, come co i no-
di gordiani6, mi faran lor prigione. Il vano prospettivo mi scol-

3
Allusione alla favola della volpe e della capra in ESOPO, Fab., 40. «Becco» è la tra-
duzione in volgare del latino «hircus», ossia «capro».
4
Per Pausania ed Erostrato, si veda infra, pp. 55-56, note 2 e 3.
5
Il testo latino reca: «garrulae ancillae», reso con «fanti cibeche», ovvero le vec-
chie serve ciarlone, in uso nel linguaggio comico. «Cibeche» viene infatti dal gre-
co kuvbhx che vuol dire «vecchiaccia».
6
Secondo la leggenda il re Gordia possedeva un carro il cui timone era attaccato
con un nodo così complicato che chiunque fosse riuscito a disfarlo avrebbe otte-
nuto l’impero d’Asia. Si narra che Alessandro Magno nel 334 a.C. riuscì nell’im-
presa recidendo il nodo con un colpo di spada.
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AL LETTORE 17

pirà o mi dipingerà più brutto assai d’una simia, o di Tersite7. I


cosmografi erranti mi rilegheranno oltra i Moscoviti8 e’l mare
agghiacciato9. Il Dedaleo architetto10, con inespugnabili ma-
chine, nascosamente mi farà mine, e cogliendomi in confusi
labirinti mi sforzerà andare errando. L’infernale metallario mi
condennerà alle arrugite11. Gli astrologi fatali mi minaccieran-
no le forche, e col loro vano girar de cieli non mi lascieranno
ascendere al paradiso. I minacciosi indovinatori m’annunzie-
ranno ogni male. L’importuno fisionomo m’infamerà per uo-
mo freddo e di poca possanza ne gli atti venerei. Il pazzo me-
toposcopo mi pronunzierà per asino ostinato12. L’indovinatore
chiromante indovinerammi tutte le cose a rovescio. L’aruspice
presago con tristo augurio mi vorrà augurare. Il mostruoso
speculatore mi manderà contra le fiamme vendicatrici di Gio-
ve et i fuochi del folgore. Il tenebroso insognatore mi spaven-
terà con notturni fantasmi. Il furibondo profeta m’ingannerà
con dubbioso oracolo. I prodigiosi magi mi trasformeranno a
guisa d’uno altro Apuleio, o di Luciano13, in asino non già d’o-
ro, ma ben per aventura di sterco. L’oscuro negromante mi
perseguirà con spiriti e con diavoli. Il sacrilego teurgo consa-
crarà il mio corpo a i corvi14, o forse a i cessi. I circoncisi caba-
listi mi pregheranno la sua retratti15. Il vecchio maliatore mi

7
Il testo latino reca l’annotazione a margine: «Thersiten omnium Grecorum, qui
ad Ilion expugnandum venerant, turpissimus fuisse, scribit Homerus Ilia. secun-
do». Per la bruttezza di Tersite, si veda OMERO, Iliad., II, 219-277; LUCIANO, Mort.
dial., 30; GIOVEN., Sat., VIII, 269-271.
8
Il testo latino reca: «Sauromatas», con riferimento alle popolazioni che abitava-
no le terre bagnate dal Danubio, corrispondenti all’attuale Romania.
9
Cfr. GIOVEN., Sat., II, 1; ERASMO, Antib. (ed. D’Ascia), p. 102.
10
Per Dedalo inventore dell’arte del costruire, si veda PLIN., Nat. hist., VII, 66, 198.
11
Il senso ne è: «Il Dio del fuoco (Efesto) mi condannerà a restare imprigionato
nelle gallerie delle sue miniere». Il termine latino «arrugia» ricorre in Plinio
(Nat. hist., XXXIII, 21, 70) e ancora oggi viene usato in Spagna per indicare le
miniere situate a grandi profondità.
12
I metoposcopisti erano coloro che potevano indovinare il carattere di una per-
sona e predire il futuro attraverso la lettura dei tratti della fronte o del viso. Si ve-
da infra, p. 167.
13
Cfr. supra, nota 7, p. 13.
14
Il testo latino reca: «Sacrilegus Theurgus caput consecrabit ej" kovraka"», con
annotazione corrispondente a margine: «Erat autem kovrax locus supplicii in
Thessa».
15
Il testo latino reca: «Imprecabuntur suam retractim dementulati cabalistae»,
che alla lettera andrebbe reso: «I circoncisi cabalisti mi augureranno la loro sot-
trazione». Si allude qui all’antico rito di iniziazione al matrimonio riservato agli
individui di sesso maschile consistente nell’asportazione del prepuzio. Tale prati-
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18 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

farà parere o senza capo o senza testicoli. I contenziosi filosofi


mi lacereranno con ostinatissime opinioni. I circulatori pitago-
rici mi faranno diventare o cane o crocodillo. Gli sporchi e
mordaci cinici mi chiuderanno o in una botte o in una sepol-
tura. I pestilenti academici mi grideranno ch’io debba mettere
la moglie in comune16. I devoratori epicurei m’amazzeranno
con la crapula. L’empii peripatetici mi faranno l’anima im-
mortale e mi caccieranno di paradiso. I severi stoici, levatomi
gli umani affetti, mi trasformeranno in un sasso. I cianciatori
metafisici ad ogni ora mi volgeranno la mente sotto sopra con
paradossi di cose che non sono, né saranno giamai, come dal
caos di Demogorgone17. I censori etici mi riporteranno in cen-
to tavole. Il politico fabricator di leggi m’impedirà gli uffici del
publico. Il principe volontario18 mi caccierà di corte. Gli ambi-
ziosi nobili mi leveranno di Senato. Il popolo pazzo mi villa-
neggierà per le strade. Falari, terribile tiranno, mi rinchiuderà
nel toro a farmi tormentare19. I parziali governatori20 mi man-
deranno fuor della patria in bando. La plebe furiosa, e mala
bestia di molti capi21, senza udire la mia ragione mi strascinerà
alla morte. Ogni afflitta republica mi condannerà di tradimen-

ca fu adottata dagli Ebrei come segno di appartenenza al popolo di Dio, ma la


scelta della traduzione denota qui un taglio chiaramente ironico.
16
Il testo latino reca l’annotazione a margine: «Academici in sua rep. uxores com-
munes esse volebant».
17
Antichissima divinità della Terra, il cui mito appare piuttosto stravagante: secondo
la leggenda Demogorgone, raffigurato da un vecchio tutto coperto di muschio, pal-
lido, emaciato e sfigurato nel volto, abitava nelle viscere della terra in compagnia
del Caos e dell’Eternità e, stanco alfine della vita monotona che vi conduceva, e as-
sordato dalle grida di dolore che emetteva Caos, liberò dal seno di questi il dio Pa-
ne, le tre Parche, il Cielo, la Discordia, la Persuasione, la Terra e l’Erebo. In segui-
to, levatosi in aria, pose il cielo attorno alla Terra; compose il Sole d’una porzione
del fuoco del fulmine e gli diede poi come sposa la Terra; dalla loro unione egli fe-
ce nascere la Notte e il Tartaro. Gli antichi, anche prima che fossero ordinate le ge-
rarchie celesti, lo dicevano creatore del Cielo e della Terra; e gli Arcadi, che lo ado-
ravano, non ardivano neanche di pronunciare il suo nome.
18
Il testo latino reca: «voluptuarius», ossia «voluttuoso».
19
Per il terribile toro di bronzo all’interno del quale Falaride, tiranno di Agri-
gento (VI sec. a.C.), rinchiudeva i suoi oppositori per poi bruciarli vivi, si veda,
per es., PIND., Pit., I, 94-98; ERACLIDE PONTICO, fr. 2 (ed. Wehrli), 233, 37; POL., Hi-
st., XII, 25, 1-3; DIOD. SIC., Bibl. hist., XIII, 90, 4-6 e IX, 18-19; CIC., De re pub., I, 44 e
III, 43; VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., IX, 2, Ext. 9; SEN., Ad Lucil. epist. mor., LX-
VI, 18; OROSIO, Hist. adv. pag., I, 20; POLID. VIRG., De invent. rer., III, 18.
20
Il testo latino reca: «In exilium agent factiosi Oligarchae», con l’annotazione a
margine: «ojligarcaiv qui paucorum imperio subditi sunt».
21
Cfr. infra, p. 246.
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AL LETTORE 19

to. I sacerdoti avari mi caccieranno da gli altari. I cocollati22 im-


mascherati e gli ingiuriosi ipocriti mi diranno villania su i per-
gami. Gli onnipotenti pontefici riserveranno i miei peccati al
fuoco eterno. Le lussuriose meretrici mi minaccieranno il mal
francese. L’ingordo ruffiano e l’ubriaca pollastriera mi castre-
ran la borsa. I furfanti cancerosi non mi vorranno negli speda-
li23. I trovantoni erranti24 mi lancieranno addosso il fuoco di
santo Antonio et i morsi rabbiosi, e priverannomi delle loro in-
dulgenze. Il dispensatore economo m’impegnerà alla becca-
ria25. Il bestemmiator marinaio mi caccierà nelle Scille. Il ribal-
do mercatante mi ingiottirà co i cambi e con l’usure. Il ladro
tesoriere mi rubberà la provisione. I duri agricoltori non vor-
ran ch’io entre ne i loro orti ameni. I pastori ociosi mi conse-
gneranno a i lupi. Il pescatore, che va per l’acque, mi metterà
sotto uno amo ascoso. Il cacciatore dalle terribili grida mi man-
derà adosso i cani e gli sparvieri. Il soldato valoroso nell’armi
mi assassinerà. I gentiluomini imporporati mi caccieranno del-
l’ordine loro. Gli araldi impivialati26 mi leveranno l’arme de
miei vecchi, e facendosi prove di cavalleria, le quali essi chia-
mano torneamenti, mi publicheranno per contadino sottopo-
sto alle angarie27. I medici divora sterchi28 m’imbratteranno
d’orina e di sporcizie. Di questi medesimi il cianciator logisti-
co, disputando dell’infirmità, mi leverà il rimedio opportuno.
Il temerario prattico con dubbioso esperimento mi metterà al
pericolo della morte. Il fallace metodico prolungando i rime-
di, tirerà la malattia in lungo per utilità di lui. I puzzolenti spe-
ciali mi suggeranno co i cristeri. I cirusici castratori m’insidie-
ranno a i denti et a i testicoli. I crudeli anatomisti domande-

22
Dal latino «cuculliones», ossia «incappucciati».
23
Il testo latino reca: «xenodoches», con l’annotazione a margine: «xenodokivon lo-
cus ubi hospites et peregrini excipiunt».
24
Il testo latino reca: «gyrovagi quaestuarii».
25
Il termine latino «macello» viene qui reso con il volgare «beccaria», ossia «arte
del macellaio».
26
Dal latino «paludatus», ossia «in divisa da militare».
27
Il testo latino reca: «pro rustico exactionario inclamitabunt». Il termine in vol-
gare «angaria» si riferisce all’istituto presente nell’antica Roma (prestazioni di
trasporto gratuito nell’interesse dello Stato), trapassato nel Medioevo quando
con l’avvento del Feudalesimo viene a significare l’obbligo di prestazioni gratuite
di lavoro da parte dei servi della gleba, o corvées.
28
Il testo latino reca: «scatophagi», con l’annotazione a margine: «skatofavgoi di-
cuntur medici in antiqua Comedia, quasi dicas merdae commestores» (si veda in-
fra, p. 413).
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20 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

ranno ch’io sia dato loro nelle mani per tagliarmi in minuzzo-
li. Lo sporco medico d’animali rinchiuderammi in uno anga-
rio29, e caverammi gli occhi con polvere di carretta30. Il dietario
prevaricatore farammi morire di fame. Il cuoco scalmanato mi
getterà inanzi una stomacosa minestra. Il prodigo alchimista
m’aiuterà a consumare le ricchezze, e confinerammi intorno
alle fornaci. Gli invincibili giuristi m’affogeranno co i grandis-
simi volumi delle chiose loro. I boriosi legisti m’accuseranno
d’offesa maestà. Gli arroganti canonisti mi scomunicheranno
con maledizzioni crudeli. I litigiosi avocati mi intenteranno
contra secento calonnie. L’astuto procuratore abbandonando
la causa avrà intendimento con l’aversario mio. Il dubbioso
notaio sottoscriverà il falso. L’inesorabile giudice mi condan-
nerà nell’azzione, e negherammi quegli ch’essi chiamano gli
apostoli dell’appellazione. L’imperioso gran cancelliero non
vorrà segnarmi la supplica. Gli ostinati teosofisti mi chiame-
ranno eretico, o sforzerannomi ad adorare gli idoli suoi. I no-
stri gravi maestri mi sforzeranno a cantare la palinodia, e gli
Atlanti di Sorbona mi bandiranno con infamia grande31. Ora
tu puoi vedere, lettore, a quanti pericoli io mi son posto? Non-
dimeno io porto speranza di facilmente uscirne, pure che tu
sopportando la verità, e posto giù l’invidia, ti metta con animo
sincero a leggere queste cose. Oltra di questo ho anco per di-
fendermi la parola di Dio, la quale coraggiosamente porrò lo-

29
Il testo latino reca: «in angario», ossia in un luogo chiuso, confinato.
30
Il testo latino reca: «quadrigario pulvere», ossia «con polvere di quadrivio». È
opportuno notare che il termine latino «quadrigarius» viene qui tradotto «car-
retta» con riferimento al suo significato principale di «quadriga». Un’accezione
ulteriore del termine quadrigarium o quadrivium è propriamente il luogo in cui
fanno capo quattro strade (crocevia o crocicchio); nella tradizione magica la pol-
vere prelevata dai quattro angoli di un luogo (che corrispondevano ai quattro
punti cardinali), ossia da un quadrivio, veniva impiegata nella preparazione di
pozioni per malefici.
31
Allusione ai membri della facoltà di teologia della Sorbona che nel marzo del
1531 condannarono il De vanitate con la seguente accusa: «Liber qui dicitur: Cor-
nelii Agrippae De vanitate et incertitudine scientiarum, impressus de novo Parisiis, in
vico Sorbonico, et prius Coloniae, Lutheranae doctrinae plurimum favet, multa
habens contra cultum imaginum, templorum, festorum et caeremoniarum eccle-
siae, nec non in scriptores sacri canonis blasphemus est; et ideo publice exuren-
dus». Nello stesso anno l’Università di Lovanio compilò una lista di proposizioni
incriminate cui seguì un’ingiunzione da parte del consiglio privato di ritrattare
pubblicamente le opinioni indicate (si veda Appendice 2). A tali accuse Agrippa
rispose componendo un’Apologia e una Querela in difesa della sua opera, stampa-
te entrambe a Colonia nel 1533.
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AL LETTORE 21

ro incontra per iscudo e riparo32. E se bisognerà ancora, poi


che per amor di quella mi ho provocato contra tanti inimici, di
buona voglia mi metterò alla morte prima ch’io l’abbandone.
E voglio che tu sappia ch’io non mi son messo a scrivere queste
cose per odio, per ambizione, per inganno, o per errore, né a
questo fare m’ha indotto sacrilega cupidigia, né arroganza di
animo malvagio, ma l’interesse publico tanto giustissimo,
quanto verissimo. Perciocché io veggio molti insuperbire tal-
mente nelle discipline e scienze umane, che non pure sprezza-
no e fanno beffe de i ragionamenti delle Sacre Lettere e delle
Scritture canoniche dello Spirito Santo (perché elle non han-
no ornamenti di parole, forze di sillogismi, affettate persuasio-
ni, né peregrina dottrina di filosofi, ma semplicemente son
fondate nell’operazione della virtù e nella nuda fede) ma oltra
ciò con vituperio grande le perseguono ancora. Veggiamo an-
co de gli altri i quali, benché essi si stimino molto pii, vogliono
nondimeno provare e confermare le leggi di Cristo co i decre-
ti de i filosofi, attribuendo più a quegli che a i santi profeti di
Dio, evangelisti et apostoli, essendo essi però lontani da loro
più che’l diapason. Oltra di ciò in molti, e quasi in tutti gli stu-
di33, è nato un costume, anzi dannosa usanza, che con giura-
mento astringono i discepoli34, a i quali sono per insegnare di
non contradire giamai ad Aristotele, o Boezio, o Tomaso, o Al-
berto, o a qualche altro suo scolastico Dio35, da i quali se altri si
discosta pure quanto è larga una onghia, subito lo chiamano
eretico, scandaloso, offensivo delle orecchie pie e degno del
fuoco. Questi dunque così temerari giganti et inimici delle Sa-
cre Lettere sono da essere essaltati, le loro fortezze e rocche so-
no da essere combattute, e s’ha da mostrargli quanta è la cecità
loro, con tante scienze et arti, e con tanti maestri et auttori di
quelle allontanarsi sempre dalla cognizione della verità; e
quanto grande temerità, et arrogante presonzione sia preferi-
re le scole de filosofi alla Chiesa di Cristo, e preponere o agua-

32
Cfr. EF 6:16-17.
33
Il testo latino reca: «in multis ac ferme omnibus Gymnasiis», con riferimento
dunque ai luoghi dove era possibile ascoltare gli insegnamenti dei filosofi.
34
Cfr. ORAZIO, Epist., I, 1, 14.
35
Per «scolastico Dio», si deve qui intendere il Dio proprio della cultura scolasti-
ca, caratterizzata dal convincimento, variamente argomentato dai diversi espo-
nenti, che indipendentemente dalla Rivelazione si possa accedere al concetto di
Dio per via logico-argomentativa.
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22 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

gliare le opinioni de gli uomini alla parola di Dio36. Oltra di ciò


fargli conoscere quanto sia empia tirannia confinare gli inge-
gni de gli studiosi ad alcuni auttori, e levare a i discepoli la li-
bertà di speculare e di seguire la verità37. Tutte le quali cose poi
che così manifeste sono, che negar non si possono, mi si dovrà
perdonare se ad alcuno parrà ch’io abbia declamato troppo li-
beramente, e forse amaramente, contra alcuna quantità di di-
scipline, o contra i professori di quelle.

36
Tutto il passo, per i temi e le espressioni verbali, riecheggia l’argomentazione di
Erasmo nei suoi Antibarbari (1520).
37
Il tema dell’importanza dell’istruzione dei giovani ricorre con insistenza in qua-
si tutta l’opera di Erasmo.
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OPERA DI ARRIGO
CORNELIO AGRIPPA DELLA
INCERTITUDINE E VANITÁ
DELLE SCIENZE,
TRADOTTA PER
LODOVICO DOMENICHI
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1.
DELLE SCIENZE IN GENERALE

Antica opinione, e quasi concorde e comune sentenza, è di


tutti i filosofi per la quale credono ciascuna scienza portare
non so che di divinità all’uomo secondo la qualità e’l valore
dell’uno e dell’altro, di maniera che spesse volte sovra l’uso
mortale gli possano sollevare al consorzio de gli dèi. Di qui ne
nacquero quelle diverse et infinite lodi delle scienze con le
quali ciascuno si sforza, con non meno ornato che lungo par-
lare, porre inanzi l’altre et inalzare sopra il cielo quelle arti e
discipline nelle quali per continuo essercizio ha già sottigliato
le forze del suo ingegno. Nondimeno io, mosso per ragioni
d’altra sorte, son d’opinione che non possa accadere cosa di
maggiore danno, e più pestifera alla vita de gli uomini et alla
salute dell’anime nostre, di quel che sono l’arti e le scienze
istesse1, la onde giudico che si debba andare con ordine diver-
so, e l’opinione mia è che le scienze non si debbano inalzare
con tante lodi, ma più tosto per la maggior parte vituperare, e
che non ve ne sia alcuna la quale sia senza giusta censura di ri-
prensione, né che per sé medesima meriti lode veruna se non
in quanto n’acquista dalla bontà di chi la possiede. Desidero
bene che questo mio parere sia preso da voi con quella mode-
stia che non crediate ch’io voglia riprendere gli altri che sono
di contraria opinione, né a me troppo insolentemente arroga-

1
Asserzione condannata dai teologi dell’Università di Lovanio. Si veda Appendi-
ce 2, p. 531.
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26 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

re cosa alcuna. A me dunque darete perdono se in questo io


discordo da gli altri fin che io avrò dato principio a tale opi-
nione da tutte le scienze per ordine delle lettere, non pure con
argomenti volgari e tolti dalla superficie delle cose, ma con fer-
missime ragioni e tratte dalle intime medolle, non già con al-
cuna arguta eloquenza di Demostene o di Crisippo, la quale sa-
rebbe cosa vergognosa a me che faccio professione delle Sacre
Lettere, quasi ch’io amassi le adulazioni, seguendo le vanità
del dire. Perciocché un professore della Sacra Scrittura pro-
priamente dee ragionare, e non con eloquenza, e seguire la ve-
rità della cosa e non l’ornamento del parlare2. Perché non nel-
la lingua ma nel cuore è la sedia della verità. E non importa a
ragionare il vero che parlare usiamo, perciocché la menzogna
ha bisogno d’eloquenza e di parole limate acciocché possa pe-
netrare nelle menti de gli uomini, ma il ragionamento della ve-
rità, come scrive Euripide, è semplice e non desidera lisci né
colori3. Dunque se io nelle delicatissime orecchie vostre impri-
merò il negozio da me tolto senza alcun fiore d’eloquenza (la
quale anch’ella non pure è da essere riputata da noi ma bia-
smata), pregovi a voler sopportare ciò con quella pazienza con
la quale già quello imperatore romano si fermò con l’essercito
per ascoltare una donniciuola4, e’l re Archesilao volse talora
udire uomini rochi e di voce sgarbata, acciocché nell’udire poi
gli eloquenti maggior diletto sentisse. Ricordaretevi ancora di
quella sentenza di Teofrasto ch’anco gli uomini rozzi posson
ragionare alla presenza de i più savi e più valorosi pur che fa-
vellino con fede e con ragione. E per non lasciarvi sbadiglian-
do porger l’orecchie, ora vi porrò inanzi con quali vestigi et in-
dicii, a guisa di cani, io abbia giunto questa mia già detta opi-

2
Cfr. REUCHL., De arte cabal., I, B6v.
3
Cfr. EURIP., Fenicie, 469-470; ESCH., fr. 176 (ed. Nauck); PLUT., Mor., 62c; ERASMO,
Adagia, I, 3, 288.
4
Allusione alla storia dell’imperatore Traiano il quale, in procinto di andare in
battaglia con la cavalleria, si ferma per rendere giustizia a una vedovella cui era
stata assassinato il figlio. La leggenda, che prende spunto da un racconto di Dio-
ne Cassio (Hist. Rom., XIX, 5), era diffusissima nel Medioevo: prima compare nel-
la vita di san Gregorio compilata nel IX sec. dal diacono Giovanni, per poi ritro-
varsi nelle varie raccolte di exempla a uso dei predicatori e infine nei volgarizza-
menti e nelle raccolte più varie, come il Fiore di filosofi e il Novellino. L’episodio è
ricordato anche da Dante in Purg., X, 73-93, quale esempio di umiltà di contro al-
la superbia.
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1. DELLE SCIENZE IN GENERALE 27

nione, se prima io v’avrò fatto sapere che tutte le scienze sono


così cattive, come buone, e che a noi non reccano sopra il ter-
mine della umanità altra beatitudine di deità se forse ella non
è quella che l’antico serpente prometteva a i primi padri nostri
quando gli disse: «Voi sarete come dèi, e conoscerete il bene
e’l male»5. Vantinsi dunque in questo serpente coloro che si
gloriano di sapere la scienza, come si legge che ben fecero gli
Ofiti eretici, i quali adoravano il serpente ne’ suoi sacrifici di-
cendo che egli aveva introdotto la cognizione della virtù nel
paradiso6. Con questo si conforma l’istoria di Platone che un
certo demonio Theuto, inimico al genere umano, fu il primo
che ritrovò le scienze non meno dannose che utili, come pru-
dentissimamente disse Thamo re d’Egitto, ragionando de gli
inventori delle scienze e delle lettere7. Di qui viene che molti
grammatici espongono questa parola ‘demoni’ quasi sapienti,
ma comunque si sia, lasciamo oggimai le favole a poeti et a fi-
losofi, e rendiamoci certi che non furono altri inventori di
scienze che uomini; e sappiamo che questi tali furono figliuoli
di pessima generazione, sì come quei che nacquero di Cain, e
de i quali s’intese quella parola: «I figliuoli di questo secolo so-
no più savi de i figliuoli della luce in questa generazione»8. Se
dunque gli inventori delle scienze furono uomini, non è ogni
uomo bugiardo, né vi è pur uno che faccia bene9? Ma diciamo
che vi siano alcuni uomini buoni, le scienze però non avranno
in lor punto di bontà, né di verità, se non per aventura ciò che
n’acquistano da gli inventori, e da quei che le posseggono10.
Perciocché s’elle s’abbattono in qualche ribaldo, elle saranno
nocive e di cattivo lo faranno peggiore, come sarebbe un per-

5
GEN 3:5.
6
Il testo latino reca l’annotazione a margine: «Ophiti serpentem colebant unde
et nomen illis atributum. Nam o[fi" graece serpentem sonat daivmwn». Come ci
informa Agrippa, sotto il nome di Ofiti gli antichi ci hanno dato notizia di un mo-
vimento eretico che trae nome dal serpente, venerato quale elargitore agli uomi-
ni della conoscenza del bene e del male che il Dio del Vecchio Testamento aveva
proibito ad Adamo ed Eva. La potenza del serpente viene riconosciuta dallo stes-
so Gesù in GV 3:14.
7
Cfr. ERASMO, Moriae enc., XXXII; PLAT., Phaedr., 274c-275d.
8
LC 16:8.
9
Cfr. SL 14:3 e 116:11.
10
Asserzione condannata dai teologi dell’Università di Lovanio. Si veda Appendi-
ce 2, p. 532.
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28 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

verso grammatico, un cianciator poeta, un bugiardo istorico,


un retore tentore11, un borioso professor di memoria, un liti-
gioso loico, un perturbator sofista, un linguacciuto lullista,
uno aritmetico gettator di sorti, un lascivo musico, un disone-
sto danzatore, un vantator geometra12, un corsale nocchiero,
un fallace astronomo, uno scelerato mago, un perfido cabali-
sta, un sognator fisico, un mostruoso metafisico, un fastidioso
etico, uno iniquo politico, un tiranno principe, un oppressor
magistrato, un popolo sedizioso, un sacerdote scismatico, un
monaco superstizioso, un governator di famiglia prodigo, uno
mercatante spergiuro, un tesoriero rubbatore, un infingardo
lavorator di campi, un pastor ladro, un pescator maledico, un
cacciator ladrone, un soldato assassino, un nobile spogliator
de suoi sudditi, un medico micidiale, un ciurmatore maestro
di veneni, un coco divoratore, uno alchimista truffatore, un le-
gista che si volge ad ogni parte, uno avocato difensore di mille
ribalderie, un notaio falsario, un giudice vendibile e ladrone
sopra uno onorato tribunale, un teologo eretico e sollevatore
della moltitudine. E veramente che non è cosa più infelice
quanto una arte et una scienza circondata da impietà, et ogni
grandissimo artefice è dannosissimo auttore delle cose malva-
gie. Ma se ancora queste scienze si ritroveranno in alcuno non
tanto cattivo, quanto pazzo, cosa non è né più insolente, né
più importuna di lui, perciocché oltra quello che egli ha in sé
di natural pazzia, l’auttorità della dottrina lo difende, e ha le
lettere per instrumento a mantenere la sua sciocchezza, le qua-
li perché non sono ne gli altri pazzi, essi più piacevolmente far-
neticano, come dice Platone dell’oratore, il quale, dice egli,
quanto sarà più goffo e più ignorante, perciò dirà più cose et
imiterà meglio, né si stimerà dir cosa indegna di lui13. Non vi è
dunque cosa più pestifera che impazzare con la ragione in ma-
no. Ma se per aventura alcun uomo savio e da bene le posse-
derà, forse che le scienze saran buone et utili alla republica,
ma non perciò faranno più beato il possessor loro perché, co-
me dicono Porfirio e Iamblico, l’accumulazione delle parole e

11
Il termine latino è «palponem», ossia «adulatore». Si veda ERASMO, Moriae enc.,
III.
12
Il testo latino aggiunge: «cosmographum erronem, architectum pernitiosum»,
qui mancante.
13
Cfr. PLAT., Rep., 397a.
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1. DELLE SCIENZE IN GENERALE 29

la moltitudine delle discipline non è beatitudine, la quale non


riceve alcun augmento per la quantità delle ragioni e delle pa-
role14, che se ciò fosse, niuna cosa non impedirebbe coloro che
congregarono tutte le discipline che non fossero beati, e chi
ne fosse senza, ad essere infelice, et in questo modo i filosofi
più beati sarebbono che i sacerdoti non sono. Perciocché la ve-
ra felicità non consiste nella cognizion del bene ma nella vita
buona; non nell’intendere ma nel vivere con intelletto, perché
non la buona intelligenza, ma la buona volontà congiunge gli
uomini con Dio, né altro pro ci fanno le discipline aggiunte a
noi se non ch’elle ci danno una certa condizione purgatoria,
che pure ci dà un poco di felicità, ma non però ci danno la ra-
gione istessa, che basti a renderne compiutamente felici se
non vi è anco la vita trasformata nell’istessa natura del bene.
Perciocché, come dice Cicerone difendendo Archia, spessissi-
me volte s’è trovato la natura senza la dottrina, che la dottrina
senza la natura aver più conferito ad acquistare laude e virtù15.
Non ci sarà dunque necessario riempire l’animo di così lunga,
così difficile e quasi non mai investigabile, sì come vogliono gli
Averroisti, disciplina di tutte le scienze, la quale Aristotele an-
ch’egli chiama beatitudine molto commune16, e la quale
ogniuno facilmente potrebbe acquistarsi per una certa discipli-
na e diligenza, la quale, dice, ch’è facile e quasi commune fa-
cultà di contemplare l’oggetto nobilissimo sopra tutti gli altri,
cioè Iddio, il quale atto sì facile e commune a tutti di contem-
plare non si conduce a perfezzione con sillogismi e dispute,
ma col credere e con l’adorare. Quale è dunque la felicità del-
le scienze? Quale è la lode e la beatitudine de i savi e de i filo-
sofi, di che tutte le scuole rumoreggiano, risonando delle glo-
rie di coloro l’anime de i quali ode, e vide l’inferno esser tor-
mentato con crudeli supplici? Questo conobbe Agostino, escla-
mando quel detto di Paolo: «Gli ignoranti si levano e prendo-
no il regno del cielo e noi con la scienza nostra ruiniamo al-
l’inferno»17. Che se fosse lecito confessare il vero, tanto è peri-

14
Cfr.REUCHL., De arte cabal., II, I6v, dove però Giamblico non è menzionato;
PORF., De abstin., I, 29, 1.
15
Cfr. CIC., Pro Archia poeta, VII, 15.
16
Cfr. ARIST., Metaph., 982a-b.
17
Cfr. AGOST., Conf., VIII, 8, 19. La citazione è però inesatta, scrivendo Agostino:
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30 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

colosa et instabile la disciplina di tutte le scienze ch’egli è mol-


to più securo l’essere ignorante che sapere18. Adamo non sa-
rebbe mai stato cacciato del paradiso delle delizie se non aves-
se imparato, instrutto dal serpente, a conoscere il bene e’l ma-
le19. E Paolo vuole che siano cacciati della Chiesa coloro che
più vogliono sapere che non bisogna20. Socrate, poi ch’egli eb-
be investigato quasi tutte le discipline, fu giudicato allora sa-
pientissimo sopra ogniuno quando publicamente confessò di
non saper nulla21. Tanto è difficile, per non dire impossibile, la
cognizione di tutte le scienze, che tutta la vita manca a gli uo-
mini prima che perfettamente investigar si possa una minima
ragione di una sola disciplina22. La qual cosa a me pare che
l’Ecclesiaste affermi quando dice: «Io ho inteso che dell’opere
d’Iddio l’uomo non può ritrovare ragione alcuna di quelle che
si fanno sotto’l sole, e quanto più s’affaticherà a cercarne, tan-
to meno ne ritroverà. Et anco se’l savio dirà di saperla, non la
potrà però ritrovare»23. L’uomo non può avere cosa più pesti-
fera che la scienza: questa è quella vera peste la quale manda
in ruina tutto’l genere umano, la quale caccia ogni innocenza,
e noi ha fatto schiavi a tante sorti di peccati et alla morte anco-
ra; quella che estinse il lume della fede, mandando l’anime no-
stre nelle oscure tenebre; quella che condannando la verità
collocò gli errori nell’altissimo trono. Laonde a me pare che
non sia da essere biasimato Valentiniano imperatore (il quale
dicesi che fu crudelissimo inimico delle lettere), né Licinio im-
peratore (il quale soleva dire che le lettere sono veneno e pe-
ste pubblica), ma che più, dice Valerio, che Cicerone istesso,
abondantissimo fonte delle lettere, disprezzò finalmente le let-
tere24. È nondimeno tanto grande la libertà del vero, e libero il
valor suo, che non si può investigare con speculazioni d’alcuna

«Surgunt indocti et coelum rapiunt, et nos cum doctrinis nostris sine corde, ecce
ubi volutamur in carne et sanguine?».
18
Cfr. supra, p. 13.
19
Cfr. GEN 3.
20
Probabile allusione a 2 TM 2:23.
21
Cfr. REUCHL., De verbo mirif., I, A8r, ma si veda anche PLAT., Apol., 20e-21a; DIOG.
LAERZ., Vitae philos., II, 5, 32 e 37.
22
Cfr. REUCHL., De arte cabal., I, B6v.
23
ECCLE 8:17.
24
Cfr. VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., II, 2, 3, dove però l’epiteto di ‘dispregiato-
re del sapere’ è attribuito a Caio Mario e non a Cicerone.
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1. DELLE SCIENZE IN GENERALE 31

scienza, non con alcuno stretto giudicio di sensi, non con alcu-
ni argomenti di loico artificio, non con manifesta prova, non
con sillogismo che lo mostri, né con discorso alcuno d’umana
ragione, se non con la sola fede, la quale chi si ritrova avere è
chiamato da Aristotele nel libro delle Prime resoluzioni meglio
disposto che se fosse savio, la qual cosa espone Filopono, che
questo tale conosce meglio che per la dimostrazione che si fa
per la causa25. E Teofrasto ne’ suoi Transnaturali dice così: «Noi
possiamo bene infino a un certo che speculare per causa, to-
gliendo i principii da i sensi, ma quando abbiamo trapassati i
confini et i principii, non possiamo sapere più oltra, o sia per-
ché non abbiamo la causa, o per la infermità del nostro sen-
so»26. E Platone nel Timeo dice che lo esplicare queste cose è so-
pra le forze nostre, ma vuole che si creda a coloro che n’hanno
ragionato inanzi, benché non parlino con alcuna necessità di
dimostrazione27, perciocché furono molto stimati i filosofi Aca-
demici, i quali dissero che non si può affermare cosa alcuna28;
furono anche i Pirronici, e molti altri, che non affermavano
nulla29. Non ha dunque la scienza niente di speciale sopra il
credere, cioè laddove la bontà dell’auttore muove la libera vo-
lontà di credere de i discepoli. Di qui venne quel motto pita-
gorico: «Ragionando del maestro, egli ha detto così»30. E quel
proverbio vulgato de Peripatetici: «Egli si ha da credere a cia-
scuno prattico nell’arte sua»31. Così si dà fede al grammatico

25
Cfr. REUCHL., De arte cabal., II, F1r-v. Il luogo di Aristotele citato da Reuchlin, e
ripreso letteralmente da Agrippa, è in Analyt. post., 73a, ma si veda anche 100b,
dove il filosofo sostiene che tra gli stati di pensiero mediante i quali cerchiamo di
afferrare la verità ve ne sono di infallibilmente veri e di quelli che possono conte-
nere errore (fra questi ultimi, per es., l’opinione e il calcolo), laddove la cono-
scenza scientifica e quella noematica sono sempre vere, fermo restando il punto
che senza la seconda la prima non si determinerebbe. Ciò significa che per Ari-
stotele quella condizione del pensiero, o meglio dell’anima, la quale consente di
pervenire alla scienza è l’aspirazione ad attingere la verità. Si veda infra, p. 76 e
nota 3 quanto dice Duns Scoto a proposito della ‘intentio’.
26
Cfr. REUCHL., De arte cabal., II, E6r; TEOFR., Metaph., VIII, 25, 9b.
27
Cfr. REUCHL., De arte cabal., II, E6r; PLAT., Tim., 40c-e.
28
Cfr. ERASMO, Moriae enc., XLV; Antib., p. 149.
29
Il testo latino reca l’annotazione a margine: «Academici certo nihil affirmabant,
unde et skeptikoiv dicti quod considerarent omnia et expenderent».
30
DIOG. LAERZ., Vitae philos., VIII, 1, 46; CIC., De nat. deor., I, 5, 10.
31
Cfr. REUCHL., De arte cabal., I, B6v, che riprende un noto detto contenuto in PIE-
TRO ISPANO, Summ. log. (ed. de-Rijk), p. 75.
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32 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

della significazione de i vocaboli. Il loico crede d’intorno alla


parte dell’orazione tolta dal grammatico. Il retorico piglia i
luoghi dell’arguire dal loico. Il poeta piglia in presto le misure
dal musico. Il geometra toglie le proporzioni dall’aritmetico.
L’astrologo dà fede all’uno e l’altro. Appresso i transnaturali
usano le congietture de i naturali, et ogniuno presume bene
circa gli statuti dell’altro. Perciocché ogni scienza ha in sé al-
cuni principii certi, i quali bisogna credere, né si possono per
alcun modo mostrare, i quali, se pur alcuno sarà che ostinata-
mente voglia negare, i filosofi a patto veruno non disputereb-
bono più con lui, e subito direbbono che non si dee disputare
con chi nega i principii, e lo confineranno a certe altre cose
fuora de i termini della scienza, sì come sarebbe, dicono essi,
s’alcuno è che dica il fuoco non esser caldo, gettisi nel fuoco e
domandisi poi quel che glie ne pare: così finalmente di filosofi
diventano tormentatori e manigoldi, mentre che vogliono far-
ci confessare per forza quel che ne devevano insegnare per ra-
gione. Finalmente cosa non è più inimica né più dannosa alla
republica quanto son le scienze, nella quale se vi saranno uo-
mini pieni d’erudizione e di scienza, i negozii per lo più si go-
vernano a voglia loro, sì come di quei che più sanno, et essi,
confidatisi nella semplicità della plebe e nella ignoranza della
moltitudine, per loro soli s’usurpano tutta l’auttorità del magi-
strato, onde lo stato della republica di populare passa nella si-
gnoria di pochi, e di qui partendosi in fazzioni, facilmente di-
venta tirannia, la quale non si legge che in tutto il mondo ac-
quistasse giamai senza scienza, senza dottrina e senza lettere,
se non un solo L. Silla dittatore, il quale occupò la republica
senza lettere, nel quale atto però la republica è grandemente
obligata alla ignoranza delle lettere che alla fine di propria vo-
lontà depose la tirannia32. Finalmente tutte le scienze altro non
sono che ordini et opinioni de gli uomini, così dannose come
utili, così pestilenziose quanto salutifere, tanto cattive quanto
buone, in nessuna parte compite ma dubbiose, piene d’errore
e di contesa. E che questo sia vero, ora lo mostreremo passan-
do d’una in una per tutte le discipline delle scienze.

32
Nell’81 a.C. Lucio Cornelio Silla (138-78 a.C.) rifiutò il consolato che gli si vo-
leva rinnovare, e abdicò anche la dittatura.
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2.
DE I CARATTERI DELLE LETTERE

Principalmente chi è colui che non vegga che le arti del dir
bene, parlo della grammatica, della loica e della retorica, le
quali, solamente entrate e porte delle scienze e non scienze,
spesso portano seco non meno pestilenza che piacere, nelle
quali però non è altra regola di verità che l’arbitrio e la volontà
di alcuni che furono primi a ordinarle, la qual cosa manifesta-
mente si vede in fin dalle proprie invenzioni delle lettere, le
quale sono i primi elementi et instromenti delle arti istesse1, le
prime delle quali furono caldee, che Abraham ritrovò, come
dice Filone2, che furono usate poi da Caldei, Assirii e Fenici.
Ma sono alcuni che dicono che Rodomanto fu il primo che
diede le lettere a gli Assirii3. Mosè dopo queste diede le lettere
a i Giudei, per aventura con altri caratteri diversi da quegli
ch’oggidì essi adoprano, le quali (credesi) che fossero inven-
zione di Ezra4, il quale dicono che scrisse quasi tutti i libri del
Testamento Vecchio5. Appresso un certo Lino Calcide portò le

1
Il testo latino reca l’annotazione a margine: «Literarum elementa, de quibus co-
piose apud Polydorum Vergil. libr. I de Inventoribus rerum, cap. sexto». L’allu-
sione è all’opera dell’umanista Polidoro Virgilio (ca.1470-1555) intitolata De in-
ventoribus libris tres (1499), poi ristampata con aggiunte in Adagiorum liber. Eiusdem
de inventoribus rerum libri octo (1521), cui Agrippa qui si riferisce.
2
Cfr. FIL. EBREO, De Abrahamo, 82, ma si veda anche GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 1.
3
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., I, 6.
4
Ibid.
5
I libri di Esdra e di Neemia compongono, insieme ai due libri delle Cronache, un
secondo gruppo di libri storici che ripetono e poi continuano la storia deutero-
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34 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

lettere di Fenicia a i Greci, ma lettere fenici, infin che Cadmo,


figliuolo di Agenore, diede lor nuove lettere con altro caratte-
re, le quali furono sedici, alle quali Palamede nella guerra
troiana n’aggiunse quattro6. Da poi Simonide Melico altrettan-
te7. Ma il primo che diede l’usanza di scriver a gli Egizzii, fu un
certo chiamato Memnona per le figure de gli animali, come si
vede nelle piramidi8, ma il primo che lor diede le lettere fu
Mercurio, cioè quello che Lattanzio dice che fu il quinto Mer-
curio9, al quale successe nel regno Vulcano figliuolo di Nilo10.
A i Latini diede le lettere una femina Nicostrata, cognominata
Carmente11. Anticamente dunque fiorivano sette sorti di lette-
re, l’ebree, le greche, le latine, le sirie, le caldee, l’egizzie e le
getiche, delle quali il Crinito dice d’aver letto questi seguenti
versi in uno antico libro:

Mosè primo a gli Ebrei diede le lettere,


le greche fer con ingegno i Fenici,
e Nicostrata queste a noi Latini.
Abraam trovò le sirie e le caldee.
Iside primo anch’ei l’egizzie scrisse.
E Galfila fe l’altre ultime a Geti12.

nomista che va da Giosuè alla fine dei Re. In origine i due libri delle Cronache for-
mavano un libro solo e quelli di Esdra e di Neemia facevano parte della stessa rac-
colta, opera di un medesimo autore. L’affermazione secondo cui Esdra, sacerdo-
te della comunità babilonese, sarebbe l’autore di quasi tutti i libri del Vecchio Te-
stamento è ovviamente erronea e potrebbe risalire a GEROL., In Malach., Prolog. Si
veda anche AGRIP., De occ. phil. (ed. Perrone Compagni), III, 30, p. 491.
6
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., I, 6.
7
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 1; REUCHL., De verbo mirif., II, C6r; POLID. VIRG.,
De invent. rer., I, 6. Sull’invenzione e la trasmissione dell’alfabeto, si veda anche
TAC., Ann., XI, 14; EROD., Hist., V, 58, 3; DIOD. SIC., Bibl. hist., III, 67, 1; PLIN., Nat. hi-
st., VII, 46, 192. Diversa è la versione che ne danno Platone, Euripide e Pindaro:
le divergenze nella tradizione stanno a sottolineare la rivalità tra i diversi popoli,
egiziani, fenici e greci, nel rivendicare ciascuno il merito di avere inventato l’alfa-
beto.
8
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., I, 6.
9
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., I, 6, ma si veda anche LATT., Divin. instit., I, 6 e De
ira dei, XI. Mercurio rappresenta l’interpretatio romana del dio egiziano Toth, o
Teuth, inventore della scrittura e dei numeri (si veda supra, p. 27). Questa tradi-
zione risale a Cicerone che parla di un ‘quinto Mercurio’ venerato dagli abitanti
di Feneo in Arcadia (De nat. deor, III, 22, 56). Sulla discendenza di Ermete Tri-
smegisto dal ‘grande Mercurio’, si veda anche AGOST., De civit. Dei, XVIII, 39.
10
Cfr. IGINO, Fab., 277.
11
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., I, 6, ma si veda anche ISID., Etymol., V, 39, 11.
12
CRIN., De hon. discip., XVII, 1. I Geti erano una tribù della Tracia settentrionale
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2. DE I CARATTERI DELLE LETTERE 35

Gli altri popoli dapoi, e barbare nazioni, ne gli ultimi tempi


nuove lettere trovarono. Perciocché il vescovo Gordiano13 die’
le lettere a Goti e gli antichi Franchi, i quali sotto Marcomiro e
Faramondo soggiogarono le Francie, ebbero i suoi caratteri di
lettere poco differenti da Greci, con le quali Vuastaldo scrisse
un’istoria nella loro lingua, ma non si sa chi ritrovasse quelle
lettere. Vi sono ancora altre lettere de Franchi, le quali ritrovò
un certo chiamato Doraco, ma molto diverse dal carattere di
Vuastaldo; et altre appresso queste ritrovate da Hico Franco, il
quale venne di Scizia con Marcomiro alle foci del Reno. Beda
anch’egli ha scritto d’alcune, ma non si sa l’inventore, che fu-
rono di certi Normanni14. E molte altre nazioni in questo mo-
do o si fecero nuovi caratteri di lettere, o mutarono in parte i
tolti da gli antichi, o gli corrupero, come i Dalmati le greche e
gli Armeni le caldee, ma i Goti et i Longobardi vergognano i
caratteri delle lettere latine. Oltra di ciò molte lettere antiche
perirono, sì come quelle de gli antichi Toscani le quali, come
testimoniano Plinio e Livio, furono però anticamente in gran
prezzo appresso Romani e fino al dì d’oggi si trovano l’effigie
di queste ne i marmi antichi, ma del tutto incognite, perché
quando già i Romani signoreggiavano tutto il mondo, cancel-
late l’antiche e proprie di ciascuna nazione, essi per forza gli
comandavano che usassero le lettere loro15. A questo modo pe-
rirono le lettere de gli Ebrei quando andarono prigioni in Ba-
bilonia, e la loro lingua fu corrotta da Caldei. In tal guisa si
perderono le antiche lettere de Tedeschi, Francesi, Spagnuoli,

stanziata sulle rive del Danubio intorno al IV sec. a.C. Crinito è il soprannome di
Pietro Riccio (1476-1507), classicista e filologo autore, fra le altre opere, dei Libri
de poetis latinis (1505), accurato esempio di uno studio critico-biografico di poeti
latini, e dei Commentarii de honesta disciplina (1504), una specie di zibaldone di no-
tizie erudite dedicato a B. Carafa e raccolte da Riccio per preparare le sue lezioni
accademiche.
13
Probabile allusione a Jordanes (ca.500-ca.570), storico di origine gotica conver-
titosi al Cristianesimo, forse vescovo di Crotone e sostenitore, come Cassiodoro,
della politica di cooperazione tra i Goti e l’impero romano d’oriente. Fu autore
di un’opera intitolata De origine actibusque getarum (un compendio dell’opera an-
data perduta di Cassiodoro e che recava lo stesso titolo), che narra le vicende dei
Goti dalle origini a Vitige, e di una storia mondiale (De summa temporum vel origine
actibusque gentis romanorum) da Adamo al 551.
14
Cfr. BEDA, Hist. eccl., III, 28.
15
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., I, 6.
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36 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

et altre nazioni, introdutti che vi ebbero i caratteri romani; e le


lingue di quei popoli furono corrotte e mutate. Per contrario
le lettere e la lingua de i Romani furono anch’esse in cambio
corrotte e mutate da Goti, Longobardi, Franchi et altre barba-
re nazioni, perciocché la lingua latina ch’oggidì è, non è quel-
la ch’anticamente era, e parimente gran contesa è della lingua
e del carattere ebreo fra i talmudisti istessi: perché il maestro
Ieuda dice che’l primo padre Adamo parlò in lingua aramea;
Marsutra dice che la legge data da Mosè fu nel carattere che si
chiama ebreo16, ma nella lingua santa, la quale mutata da
Esdra in lingua aramea et in caratteri assiri, poco da poi rite-
nendo i caratteri assiri, ripigliò la lingua santa, avendo lasciato
il carattere ebreo, con la lingua aramea, a Chusi17, cioè a colo-
ro che insieme con essi presero la legge et adorano gli idoli, sì
come sono i Samaritani18. Alcuni altri dicono che da principio
la legge non fu scritta con altri caratteri che quei che s’usano
di presente, ma ben che per il peccato alcuna volta fu mutato il
carattere e dopo la penitenza restituito. Rabi Simone, figliuolo
d’Eleazaro, è d’opinione che per alcun tempo giamai non si
mutasse né la lingua, né il carattere, di modo che delle cose
ebraiche neanco appresso di loro Ebrei si ritrova alcuna cosa
di certo. E di questa maniera è la varietà de tempi che né lette-
re, né lingua alcuna è, la quale oggidì riconosca, o intenda la
forma della antichità sua.

16
Marsutra, scriba babilonese del III-IV sec., titolo onorifico che corrisponde al
‘Rabbi’ della tradizione ebraica.
17
Chusi è una località menzionata in GDT 7:18, che si trova a ovest di Aqrabeth e a
sud dell’odierna Nablus. Il nome è omesso nella Vulgata, ma compare nella ver-
sione in latino.
18
Sui Samaritani adoratori di idoli, si veda 2RE 17:24-41.
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3.
DELLA GRAMMATICA

E così di questi tanto inconstanti et ad ogni tempo mutabili


principii, delle lettere dico, e delle lingue, uscì prima la gram-
matica e poi l’altre arti del dir bene delle quali abbiamo parla-
to, perciocché parendo che non bastasse il saper lettere s’elle
non si congiungevano con certo grado e forma, e così delle let-
tere le sillabe, e finalmente di queste si formassero parole, e
per intelligenza del parlare si ragunassero insieme, ebbero ar-
dire gli uomini ingegnosi formare le regole del parlare, cioè i
costrutti del regimento e de i significati, e mettere quasi un fre-
no alla lingua, acciocché quando si dicesse secondo quelle, fos-
se ben detto, et in questo modo formassesi l’arte del dir bene,
e chiamarono questa arte grammatica. Dicesi che appresso i
Greci il suo primo inventore fu Prometeo; il primo che la
portò a Roma fu un certo Crate Mallote, mandato da Attalo al
Senato, fra la seconda e terza guerra africana1, la quale poi con
grandissima pompa insegnò Palemone, di modo che dié nome
all’arte, e la grammatica perciò ne fu chiamata l’arte di Pale-
mone. Fu costui molto arrogante2, sì come quello che si vanta-
va che le lettere erano nate con lui e morrebbono seco, e tanto
superbo ch’ebbe in dispregio tutti gli uomini dottissimi del
suo tempo, et ebbe ardire di chiamar porco Marco Varrone

1
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., I, 7; SVET., De gramm., II. Per Cratete di Mallo,
grammatico del II sec. a.C., si veda anche DIOG. LAERZ., Vitae philos., IV, 4, 23.
2
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., I, 7.
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38 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

istesso3. È nondimeno la grammatica latina tanto povera et


obligata alla letteratura greca, che chi non intende questa è da
essere incontanente cacciato del numero de grammatici. Tutta
la ragione dunque della letteratura, o grammatica, non sta in
altro che nella sola usanza et auttorità de gli antichi, a i quali
parve che così si devesse e chiamare e scrivere ogni cosa, e che
le parole s’avessero in questo modo a construere e comporre,
la qual cosa essi volsero che fosse ben detta. Onde la gramma-
tica drittamente si vanta essere l’arte del parlare, ma falsamen-
te, conciossia che questo molto meglio si impara dalle madri e
dalle balie che da i grammatici non facciamo. La madre lor
Cornelia formò la lingua de i Gracchi, i quali furono giudicati
eloquentissimi4; Istrina madre insegnò la lingua greca a Sile, fi-
gliuolo d’Aripite re di Scizia5. Chiaro è che in molte provincie
sono state introdotte colonie di strane nazioni, et i figliuoli
però sempre mantennero il parlar delle madri. Per questa ca-
gione Platone e Quintiliano così sollecitamente ordinarono
che si dovesse eleggere sofficiente balia a i fanciulli6. Non vo-
gliam dunque noi trasferire questo modo di parlar bene da
quelle ne i grammatici, i quali non facendo professione che di
grammatica sola, cosa non è che sappiano meno di quella. Per-
ciocché Prisciano non la puote pure imparare in tutto il tempo
della vita sua, e dicesi che Didimo ne scrisse quattro mila, o co-
me dicono alcuni, sei mila libri7. Leggesi che Claudio Cesare fu
tanto dato alle lettere greche, che egli aggiunse tre lettere nuo-
ve a quella lingua, et anco poi che fu imperatore non le lasciò
mai8. E Carlo Magno ritrovò la grammatica della lingua tede-
sca e pose nomi nuovi a i mesi et a i venti. E tuttavia fino al dì
d’oggi vi s’affatica dì e notte, si scrivono commentari, elegan-
ze, questioni, annotazioni, scolii, osservazioni, gastigazioni,
centurie, miscellani, antichità, paradossi, colletani, addizioni,
lucubrazioni, dupplicate e replicate edizioni. Et in questo mez-
zo ci si partoriscono tante grammatiche quanti sono i gramma-
tici. Né però alcuno di loro, o greco o latino che si sia, ha reso

3
Cfr. SVET., De gramm., XXIII.
4
Cfr. QUINT., Instit. orat., I, 1, 6; CIC., Brut., XXVII, 104.
5
Cfr. EROD., Hist., IV, 78.
6
Cfr. PLAT., Rep., 460c-d; Leg., 790 a-d; QUINT., Instit. orat., I, 1, 3-5.
7
Cfr. SEN., Ad Lucil. epist. mor., LXXXVIII, 37; ATEN., Deipn., IV, 139c.
8
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., I, 6; SVET., De vita Caes., V, 41.
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3. DELLA GRAMMATICA 39

la ragione come s’abbiano a distinguere le parti dell’orazione,


che ordine si debba servare nella costruzzione di quelli9: se so-
lamente sono quindici pronomi, come vuol Prisciano, o vera-
mente più, sì come dissero Diomede e Foca10; se il participio
da sé posto si rimanga talora participio; se i gerondi son nomi
o verbi; perché i Greci congiungano i nomi del più del genere
neutro col verbo del numero del meno; per qual ragione sia le-
cito a Latini i nomi che finiscono in a et in us proferirgli in um,
sì come per margarita margaritam, per punctus punctum; in che
modo il nominativo di Iupiter faccia il genitivo Iovis; e per qual
ragione alcuni admettono i verbi neutrali, alcuni altri gli esclu-
dono; perché alcuni scrivono molte parole latine con diftongo
greco, alcuni no, come foelix e quaestio; e se latinamente questi
diftongi ae et oe solamente si scrivono e non si proferiscono, o
se pure ambedue le vocali come elle si scrivono così sotto una
sillaba s’esprimono. Similmente perché questo sia che in molti
vocaboli latini alcuni usano la y greca, altri solo la latina, come
in considero. E perché certi in alcune parole doppiano le lette-
re, alcuni no, come in caussa e relligio. Perché caccabus avendo
la prima sillaba lunga per la posizione de i due cc, da molti poe-
ti per lo più nondimeno s’abbrevia. E più, se l’anima d’Aristo-
tele si dee scriver endelechia per d, overo enthelechia per t. Lascio
di dire infinite, e non mai per dover cessare, contese loro de
gli accenti, d’ortografia, della pronunzia delle lettere, delle fi-
gure, delle etimologie, delle analogie, et altri precetti, regole,
declinazioni e modi di significare, della mutazione de casi e va-
rietà de tempi, de modi, delle persone, de numeri, e de varii
impedimenti et ordine di construzzione. E finalmente del nu-
mero e geneologia delle lettere latine, e se l’h è lettera o no, e
molte altre cose simili. A questo modo non solo discordano in-
sieme nelle parole e nelle sillabe, ma ne gli elementi ancora,
senza renderne ragione alcuna, nel modo che Luciano Samo-
tese11 schernì con un libretto molto arguto il contrasto loro

9
Cfr. ERASMO, Moriae enc., XLIX.
10
Cfr. PRISC., Instit. de arte gramm., XII, 1, 1. Diomede (IV sec.) è autore di un trat-
tato di grammatica in 3 libri intitolato Ars grammaticae, mentre l’unica opera esi-
stente di Foca (V sec.) sull’argomento è l’Ars de nomine et verbo.
11
Il testo latino reca l’annotazione a margine: «Lucia. in iudicio vocalium». Il ri-
ferimento è appunto al dialogo di Luciano di Samosata intitolato Iudicium voca-
lium, in cui l’autore svolge una polemica contro gli atticisti fanatici che difende-
vano con atteggiamento estremo l’autentico uso della pronuncia attica. Per il di-
battito tra ‘atticisti’ e ‘asiani’, si veda infra, nota 31, p. 44.
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40 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

della s e t consonanti12, l’essempio del quale si può dare in tha-


lassa e thalatta. Scrisse anco un certo Andrea Salernitano con
chiara eloquenza la guerra grammaticale di questa cosa13. Ma
queste sono poche cose e leggieri. Potremmo dire più cose e
maggiori delle interpretazioni de nomi corrotte, con le quali
essi ingannano molto tutto il mondo. Delle quali prima nasco-
no grandissimi mali nel mondo, mentre ch’espongono la ser-
vitù essere sottoposta alle leggi, et interpretano la libertà de
cittadini esser quella dove è lecito a ciascuno quel che gli pia-
ce, e l’isonomia, cioè equalità di ragione14, dicono essere là do-
ve a ogniuno senza differenza si fa la medesima giustizia, il me-
desimo onore e’l medesimo premio. In questo modo dicono
quello imperio essere tranquillo dove ogni cosa si governa a
volontà del principe; felicissimo dove il popolo si corrompe
nella lussuria e nell’ozio15. E con infinite simili dichiarazioni
sono corrotte la medicina, le leggi et i canoni16, con le quali
sforzano fin le Sacre Lettere e Cristo medesimo discordare da
se stesso, torcendo quelle non al senso dello Spirito Santo, né
alla salute comune de gli uomini, ma alla propria utilità loro.
Dalla qual cosa spesse volte ne sono incorsi di gravissimi peri-
coli, e sì come suole l’errore ne i vocaboli partorire errore nel-
le cose. Nella maniera che già fu ingannato Saul primo re de
gli Ebrei nella parola Zobar, la quale significa ‘maschio’ e ‘me-
moria’: avendo detto Iddio: «Io cancellerò la memoria d’Ame-
lech», Saul si credette amazzando i maschi d’avere ubbidito al

12
Cfr. RODIG., Lect. antiq., VI, 8.
13
Probabile allusione al Grammaticale bellum nominis et verbi regum, de principalitate
orationis inter se contendentium (1512) di Andrea Guarna Salernitano (1470-1517).
14
Il testo latino reca: «iuris aequalitatem» che rende alla lettera il termine greco
ijsonomiva. L’uso del termine ‘ragione’, che rende nel volgare toscano il latino ius,
ricorre in tutto il testo.
15
Il testo latino reca l’annotazione a margine: «Pernicies in Respub. ex corrupta
et depravata nominum interpretatione».
16
Il termine «canone» (dal greco kanwvn) nel significato di «regola, norma», a par-
tire dal IV sec. è stato utilizzato dalla patristica per designare i libri accolti dalla
Chiesa (= «libri regolari») in opposizione all’aggettivo ‘apocrifo’ considerato in-
vece sinonimo di «non autentico», «erroneo», «eretico». In seguito il sostantivo
kanwvn è entrato nell’uso moderno anche per designare decreti conciliari o sino-
dali, norme disciplinari o giuridiche, momenti della liturgia, parti della messa,
elenchi di membri del clero, e infine cataloghi di libri religiosi di cui si autorizza-
va l’uso.
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3. DELLA GRAMMATICA 41

comandamento d’Iddio17. Avenne parimente a Greci et a Lati-


ni uno errore simile nella parola phos, la quale significa l’uomo
e’l lume. La onde i sacerdoti de Saturnali, ingannati già dal
dubbio del vocabolo, ogni anno sacrificano un uomo a Satur-
no avendolo non meno potuto placare con lumi accesi. La
quale gente così pazza finalmente s’emendò per Ercole, che di
ciò gli fece avveduti18. I teologi anch’essi, et i frati cocollati, in-
traponendosi ne i grammatici, combattono delle significazioni
de vocaboli con molti uncini d’eresie, mettendo sottosopra le
scritture per conto della grammatica, fatti cattivi interpreti del-
le cose che son dette bene: uomini vani e veramente infelici,
accecandosi loro medesimi con l’arte propria, fuggendo il lu-
me della verità. E mentre troppo curiosamente vanno investi-
gando la virtù delle parole, non vogliono intendere il senso
delle Scritture, ma appigliandosi a i vocaboli ignudi, si dimora-
no intorno quegli, sovertendo e perdendo la parola della ve-
rità. Come si dice di quel prete, o vero o favola che si sia, il qua-
le, avendo molte ostie, per non peccare in grammatica le con-
sacrò con queste parole: «Questi sono i miei corpi»19. Ma onde
è nata quella scelerata eresia de gli Antidicomarianiti e de gli
Elvidiani20, i quali negano la perpetua virginità della gloriosa
madre di Cristo, se non da questo solo vocabolo: donec? Perché
si legge ne i Vangeli che Giuseppe non si congiunse con lei, do-
nec ella partorì il suo figliuolo primogenito21. Quanta contesa
suscitarono fra la Chiesa latina e la greca quelle due minime

17
Cfr. REUCHL., De arte cabal., III, M5r; per il riferimento all’episodio biblico, si ve-
da DEUT 25:19; 1 SM 15.
18
Cfr. REUCHL., De arte cabal., III, M5r. L’usanza di sacrificare esseri umani a Satur-
no si ritrova anche presso i Cartaginesi e i Galli. Si veda, per es., DIOD. SIC., Bibl. hi-
st., XX, 14, 4; MACROB., Conv. saturn., I, 7; PLUT., Mor., 171c-d; GIUST., Epit., XVIII, 2;
TERTUL., Apolog. adv. gent., I, 2.
19
Cfr. LC 22:19.
20
Il testo latino dell’edizione del 1531 reca: «Antimantarum et Fluidianorum»,
mentre l’edizione del 1584 corregge in: «Antidicomarianitarum et Elvidiano-
rum». L’allusione è alla setta araba degli antidicomarianiti (fine IV sec., inizio V
sec.), i quali contestavano la verginità permanente di Maria. Successivamente ta-
le dottrina trova proseliti nel laico Elvidio e nei suoi seguaci, i quali avversavano
in generale la vita ascetica e il monachesimo. Tali sette sono menzionate da Ter-
tulliano, Origene ed Epifanio.
21
Cfr. MT 1:25. Si tratta chiaramente della Vulgata versio, ossia della traduzione com-
pleta in lingua latina della Sacra Scrittura a opera di san Gerolamo iniziata su com-
missione del papa Damaso nel 382, resasi necessaria dal moltiplicarsi di alterazioni
praticamente in ogni manoscritto. La traduzione, basata sul testo greco per il Nuo-
vo Testamento e sul testo ebraico per l’Antico Testamento, fu ultimata nel 405.
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42 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

parole, ex e per, affermando i Latini che lo Spirito Santo proce-


de dal Padre e dal Figliuolo, e dicendo i Greci che non dal fi-
gliuolo, ma dal Padre per il Figliuolo. Quante tragedie appres-
so mosse quella parola, nisi, nel Concilio di Basilea, afferman-
do i Boemi essere necessaria la communione dell’una e l’altra
specie, essendo scritto: «Nisi, se non mangiarete la carne del fi-
gliuolo dell’uomo e berete il suo sangue, non avrete vita in
voi»22. Donde è venuta ancora quella eresia de i Valdesi, e de i
seguaci, et altri più moderni circa la Eucarestia se non da quel-
la parola, est, la quale essi vogliono che solo sia detta simboli-
camente e significativamente, e che nelle parole vi sia figura, e
la Chiesa romana la espone essenzialmente? Vi sono ancora
delle altre dannose eresie di grammatici, ma di maniera occul-
te e sottili che a pena alcuno se ne potrebbe guardare, se non
che gli Ossoniesi, i più acuti teologi dell’Inghilterra, et i Sor-
bonisti de Parigini con occhi cervieri23 l’hanno vedute e con
gran censura condannate. Di questo modo sono, se alcuno
egualmente giudicherà detto bene, Christus praedicas, Christus
praedicat, Ego credis, tu credit, credens est ego. E che il verbo manens
può essere privato di tutti i suoi accidenti. E che nessun nome
è della terza persona, e cose simili a queste. Le quali veramen-
te se si debbono chiamare eretiche, prima saranno eretici Isaia
e Malachia profeti, che l’uno e l’altro introduce Iddio parlan-
do di se medesimo, il primo ad Ezechia con queste parole: «Ec-
ce ego addet super dies tuos rem»24, perché non dice addam nella
prima persona, ma addet nella terza. L’altro in questo modo:
«Et si domini ego, ubi est timor meus?»25, nel qual loco fa che Iddio
si chiama domini nel numero del più. Ma molto più eretici sa-
ranno tutti i teologi ch’oggidì sono per il mondo, in quanto
hanno tirato tutta la dottrina della Chiesa catolica con la no-
vità della pronunzia contra ogni arte et usanza de i grammati-
ci, a voci finte, a vocaboli mostruosi et a intricati sofismi, aven-
do oltra di questo ardire d’affermare che la teologia non si
può insegnare in parlare corrotto. Sono infinite cose simili a

22
GV 6:53. Nel 1433, per iniziativa del Concilio di Basilea (1431-1449) fu ricono-
sciuto alla comunità ussita di Boemia il diritto di ricevere l’Eucaristia nelle due
specie, il pane e il vino. Si veda anche infra, pp. 270-271.
23
Cfr. ERASMO, Moriae enc., LIII; Adagia, III, 7, 1 e II, 1, 54.
24
IS 38:5. In realtà nel testo biblico Dio si rivolge a Isaia affinché questi riferisca la
sentenza a Ezechia.
25
ML 1:6.
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3. DELLA GRAMMATICA 43

queste, et è una compassione all’età nostra a quante contese et


errori muovano gli ostinati grammatici et i superbi sofisti con
le loro perverse interpretazioni de vocaboli, mentre che alcuni
raccolgono sentenze dalle parole, altri il contrario parole dalle
sentenze. Di qui ogni giorno nascono infiniti contrasti et erro-
ri nell’arte di medicina, nell’una e l’altra ragione, in filosofia,
teologia et altre facultà di lettere. Perché li grammatici non
mostrano nulla, ma si fondano solo nelle auttorità, le quali
spessissime volte sono fra loro tanto varie e discordanti che
egli è necessario assaissime di quelle esser bugiarde, ne i pre-
cetti delle quali coloro che più si confidano parlano assai peg-
gio di tutti gli altri. Perciocché tutto il modo del parlare non è
ne i grammatici, ma appresso il popolo, et acquista la prattica
di dir bene con la usanza volgare. Nondimeno poiché il vigore
del parlar latino, crescendo il furore de barbari, mancò nel po-
polo, non si dee però ricercare la regola di quello da i gram-
matici, ma da i valorosi e dotti scrittori, sì come sono Cicerone,
Catone, Varrone, l’uno e l’altro Plinio, Quintiliano, Seneca,
Svetonio, Quinto Curzio, Tito Livio, Salustio et altri simili, ap-
presso i quali soli restano le antiche delizie della latinità e l’uso
di parlar bene, non appresso i litterati grammatici, i quali con
le loro regole delle declinazioni de verbi e de casi, composizio-
ni e deponenze, ingannano molto la latinità, e spessissime vol-
te construiscono tai vocaboli, i quali uno uomo latino non po-
trebbe usare se per aventura a un Sorbona parigino non gli
mette nel numero de gli articoli. S’alcuno dirà che non si dee
dar fede a i grammatici della verità del parlar latino, e nondi-
meno questi litterati grammatici si fanno loro soli censori, giu-
dici et interpreti di tutti gli scrittori, et hanno ardire di cassare
tutti gli auttori et i libri o levargli di regola; e non fu mai autto-
re di così eccellente ingegno il quale fuggisse la maledica lin-
gua di costoro, che non abbiano tassato, e nel quale molte co-
se non abbiano biasmato. In Platone riprendono la confusione
e vi ricercano ordine, de i vizii del quale Giorgio Trapezontio
ha composto libri il quale, come dice il Crinito, ne fu perciò da
gli altri chiamato Conotimon et Etinim26. Cercano in Aristotile
una lucida chiarezza, riprendono la sua tenebrosa oscurità e lo

26
Probabile allusione alla Comparatio philosophorum Platonis et Aristotelis (1458),
pubblicata a Venezia nel 1523, in cui Giorgio Trapezunzio (1395-ca.1472/3) at-
tacca Platone in difesa di Aristotele, e che rappresenta il testo che dette avvio alla
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44 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

chiamano ‘Sepia’27; tassano Virgilio come uomo di poco inge-


gno e lo accusano come accumulatore et usurpatore dell’al-
trui28. A Tullio non sodisfa Demostene29, e quel gran retorico
de Latini è chiamato in giudicio da Greci a restituire il mal tol-
to, e viene accusato di molti difetti sì come timido, superfluo
nelle replicazioni, freddo nelle facezie, lento ne i principii,
ozioso nelle digressioni, rare volte infiammato, tardi veemen-
te30, et è stato ancora biasmato da i nostri, da M. Capella, come
ch’egli abbia parlato con numero turbato31; Apollinare lo
chiamò fiacco e supino32. Trogo chiama le orazioni di Livio fin-
te e Plauto non piace ad Orazio, il quale biasma Lucilio per i
suoi versi male ordinati33. Plinio è detto che a guisa di fiume
torbido rivolge molte cose senza digerirne alcuna. Dicono che
Ovidio troppo compiace alla natura sua. Salustio vien ripreso
per affettatore da Asinio Pollione34. Terenzio è notato d’aver
rubbato e recitato le cose d’altri e d’esser stato aiutato da La-

celebre polemica con il cardinale Bessarione. Impreciso è però il riferimento al


Crinito, il quale in De hon. discip., III, 1, definisce Trapezunzio usando i termini
‘Cenotimon’ ed ‘Erynnis’.
27
«Seppia», per il colore nero dell’inchiostro che questo animale secerne. Il testo
latino reca l’annotazione a margine: «Opinor compositam dictionem ajpo; ta; kenov"
quod vanum et ineptum notat et tivmwn cognomento misavnqrwpo" quem Laertius
et vehementem scribit acris ingenii fuisse, sed ad irridendum promptum».
28
Cfr. AUL. GELL., Noct. att., IX, 9; MACROB., Conv. saturn., V, 2.
29
Cfr. CIC., Orat., XXIX, 104. Per il giudizio di Cicerone su Demostene (ca.384-
322 a.C.), si veda, per es., PLUT., Cic., XXIV, 6; QUINT., Instit. orat., X, 1, 24.
30
Cfr. PLUT., Cic., V, 3-6.
31
Tutto il passo richiama il dibattito sulla retorica presente nella cultura ellenisti-
co-romana, che concerne l’alternativa fra lo stile detto ‘attico’ e lo stile detto
‘asiano’. Va ricordato che se Demostene fu il grande maestro dello stile attico, col
passare del tempo finì per essere assorbito dagli esponenti dello stile asiano incli-
ni a un periodare ampio e pletorico contestato da Cicerone. A sua volta Cicero-
ne, che si ispirava a una supposta tradizione attica, parve ad alcuni come oratore
poco rispettoso di quelle clausole e regole della retorica da cui un periodare am-
pio e diffuso non potrebbe prescindere senza perdere di efficacia (stile asiano).
La vera retorica, dunque, per gli esponenti dello stile asiano deve rispettare mi-
nuziosamente il calcolo di durata delle frasi, dei termini, dei silenzi nell’enuncia-
zione. L’opera di Marziano Capella (V sec.) è il De nuptiis Mercurii et Philologiae,
ma in essa non vi è traccia di questa critica a Cicerone.
32
Questa affermazione è inesatta. Apollinare Sidonio (431/2-ca.487), infatti, pro-
diga Cicerone di molte lodi nelle sue Epistulae.
33
Per il giudizio di Trogo su Livio, si veda GIUST., Epit., XXXVIII, 3; per la critica
di Orazio a Plauto e Lucilio, si veda ORAZ., Epist., II, 1, 169-176; Serm., I, 4, 6-13.
34
Cfr. AUL. GELL., Noct. att., X, 26.
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3. DELLA GRAMMATICA 45

beone e Scipione35. Seneca fu domandato calcina, overo sab-


bia36, il quale Quintiliano lo tassa con queste parole: «S’egli
non avesse sprezzato alcuno de pari suoi, se parte non avesse
desiderato, se tutte le cose sue non avesse amato, se con minu-
tissime sentenze non avesse rotto i pesi delle parole, Seneca sa-
rebbe più tosto approvato dal giudizio de gli uomini dotti che
dall’amore de fanciulli»37. M. Varrone anch’egli fu domandato
porco38 et Ambrogio cornacchia e fabulatore. Macrobio, uomo
eruditissimo, fu tassato di vergognoso et ingrato ingegno e Lo-
renzo Valla, dottissimo sopra tutti i grammatici, non perdonò
ad alcuno di quei c’hanno scritto latino39, e Mancinello da poi
lacerò lui40. Era già fra i grammatici Servio ch’avea giovato
molto alla lingua latina, e’l Beroaldo lo impugnò; finalmente i
più moderni grammatici hanno poi tassato lui come barbaro41.
Così tutti i grammatici sono usati di combattere l’un contra
l’altro; finalmente per opera di costoro è venuto che la traduz-
zione della Sacra Scrittura, tante volte mutata sotto pretesto di
correzione, oggimai tutta discorda da se medesima42. Per le
censure di questi tali lungo tempo s’è dubitato dell’Apocalisse

35
Cfr. SVET., Vita Teren., III, dove però si afferma che Terenzio fu aiutato da Sci-
pione e da Lelio, amico di questi e console romano nel 190 a.C.
36
Cfr. SVET., De vita Caes., IV, 53.
37
QUINT., Instit. orat., X, 1, 130.
38
Cfr. SVET., De gramm., XXIII.
39
Probabile allusione all’opera intitolata Elegantiae latinae linguae libri sex (1449)
di Lorenzo Valla (1405-1457), trattazione organica della grammatica latina e che
costituisce uno dei contributi più originali dell’umanesimo italiano alla forma-
zione del moderno metodo filologico.
40
Probabile allusione al De poetica virtute, et studio humanitatis impellente ad bonum
(1492) di Antonio Mancinelli (1452- ca.1500), che contiene una critica ai metodi
antiquati in uso nell’insegnamento del latino.
41
Servio è l’erudito e grammatico latino del IV sec., autore del più importante
commento antico a Virgilio; Filippo Beroaldo (1453-1505), filologo e critico
umanista, autore di numerose opere tra le quali le Annotationes in commentarios
Servii Virgiliani commentatoris (1482), i Commentarii in Propertium (1487) e i Com-
mentarii in Asinum aureum Apuleii (1500).
42
Il testo latino reca: «denique horum opera factum est, ut sacrae scripturae tra-
ductio correctionis praetextu, toties immutata, iam tota a seipsa dissonet». Il fatto
che la traduzione si discosti dall’originale evidenzia un tipico atteggiamento dei
traduttori rinascimentali per cui spesso essi piuttosto interpretano di quanto ren-
dano alla lettera l’originale. Nel caso specifico qui si vuole sottolineare non tanto
il fatto che per secoli sia rimasta intatta la traduzione di san Gerolamo, quanto
che nei tempi contemporanei si siano moltiplicate le traduzioni quale principale
conseguenza dell’atteggiamento di dignità epistemica della filologia.
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46 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

di Giovanni apostolo, della epistola di Paolo a gli Ebrei, dell’e-


pistola di Giuda e di molti altri capitoli del Nuovo Testamen-
to43, e più, si sono sforzati di ridurre gli Evangeli istessi a pro-
blemi. Ma passiamo a i poeti.

43
Nel I e nel II sec., mentre il Vangelo di Marco e Matteo erano ovunque accetta-
ti, sul Vangelo di Luca si esprimevano molte riserve e quello di Giovanni incon-
trava in alcuni ambienti una considerevole opposizione, mentre vi era chi rico-
nosceva soltanto l’autorità delle lettere paoline e di una parte del Vangelo di Lu-
ca. Eusebio di Cesarea, alla fine del III sec. definisce ‘antilegomeni’ (dal greco
ajntilegovmena), ossia ‘libri discussi’, l’Apocalisse, il Vangelo secondo gli Ebrei, le Lettere
di Giuda, le Lettere di Giacomo, e la Seconda lettera di Pietro (si veda Hist. eccl., II, 23-
25 e III, 3; 25). Dubbi riguardo a questo gruppo di libri si ritrovano anche in Cle-
mente Alessandrino, Origene e presso i padri della Chiesa. La canonicità dell’A-
pocalisse, della Seconda lettera di Pietro, della Lettera di Giacomo e della Lettera di Giu-
da, per i loro contenuti e per la dubbia autenticità, continua a essere discussa nei
secc. XV e XVI, e ancora oggi si trovano tra i libri deuterocanonici, mentre il Van-
gelo secondo gli Ebrei è considerato un testo apocrifo.
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4.
DELLA POESIA

La poesia, come vuol Quintiliano, è un’altra parte di gram-


matica1, molto superba per questo solo, ch’al tempo antico i
teatri e gli amfiteatri, pomposissimi edifici de gli uomini, non a
i filosofi, non a i giurisconsulti, non a i medici, non a gli orato-
ri, non a i matematici, non a i teologi, ma con spese grandissi-
me erano fabricati per le favole de poeti. Arte che non fu ritro-
vata ad altro fine se non per lusingare l’orecchie de gli uomini
sciocchi2 con rime lascive, con numeri e pesi di sillabe e con va-
no strepito di nomi, e per ingannare gli animi con piacevolez-
ze di favole e con centone di menzogne. Per la qual cosa me-
ritò d’esser chiamata fabricatrice di bugie et osservatrice di
malvagie dottrine, et acciocché quanto spetta al furore, alla
ubriachezza, alla sfaciatezza et all’ardimento le perdoniamo,
chi sarà che possa con animo tranquillo sopportare quella se-
cura fiducia di mentire? Perciocché qual loco lascia ella privo
di sciocche ciance e favole? Ella facendo principio delle sue fa-
vole3 infino dal Caos, racconta il castramento di Celo, il parto
di Venere, la guerra de Titani, la culla di Giove, gli inganni di
Rea e le supposizioni della pietra4, la prigionia di Saturno, la

1
Cfr. QUINT., Instit. orat., I, 4, 4.
2
Cfr. ERASMO, Moriae enc., L.
3
Tutto il lungo elenco delle favole mitologiche fino ai Centauri è ripreso letteral-
mente da LUCIANO, Salt., 37-56.
4
Il testo latino reca: «lapidis suppositiones», con probabile riferimento alla statua
in pietra in onore di Giove Capitolino eretta nella città di Roma. Si veda, per es.,
AGOST., De civit. Dei, II, 29 e IV, 15.
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48 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

rebellione de Giganti, il furto e’l supplicio di Prometeo, gli er-


rori di Delo, le fatiche di Latona, la morte di Pitone, le insidie
di Titio, il diluvio di Deucalione e’l nascimento de gli uomini
dalle pietre, lo strazio de Iacco5, l’inganno di Giunone, l’in-
cendio di Semele, i due sessi di Bacco6 e ciò che nelle favole
greche si racconta di Minerva, Vulcano, Erictonio, Borea, Ori-
tia, Teseo, Egeo, Castore, Polluce, del rapimento d’Elena e del-
la morte d’Ippolito. Oltra di ciò gli errori7 di Cerere, Proserpi-
na rapita e ritrovata, e quanto si ritrova scritto di Minos, di
Cadmo, di Niobe, di Penteo, Atteone, Edipo, delle fatiche
d’Ercole, del contrasto del Sole e di Nettuno, della pazzia d’A-
tamante, d’Io mutata in vacca e d’Argo guardiano di lei morto
da Mercurio, del vello d’oro, Peleo, Giasone, Medea, della
morte di Agamennone, del gastigo di Clitennestra, di Danae,
Perseo, Gorgone, Cassiopea, Andromeda, Orfeo8, Oreste, de
gli errori9 di Enea e d’Ulisse, di Circe, Telagonio10, et Eolo, Pa-
lamede, Nauplio, Aiace, Dafne, Ariadna, Europa, Fedra, Pasi-
fe, Dedalo, Icaro, Glauco, Atlante, Gerione, Tantalo, di Pan, de
i Centauri, de i Satiri, delle Sirene, et altre notabili menzogne
di questa sorte. Né però contenta delle cose umane, ultima-
mente ha chiamato gli dèi a parte delle sue favole, e con vene-
nosa eloquenza di parole e pestifera soavità di verso tessendo i
nascimenti loro, le morti, le liti, le villanie, gli odii, l’ire, le

5
Iacco, identificato con Dioniso Zagreo, figlio di Persefone e di Zeus, su istiga-
zione di Era venne ucciso dai Titani che ne lacerarono le membra. Sull’identifi-
cazione di Iacco con il dio Dioniso, si veda OVID., Metam., IV, 15.
6
Il testo latino reca: «Bacchi utramque stirpem», ovvero «Bimadre» o «Binato».
Narra una leggenda che Zeus, essendo stata arsa viva Semele con la quale aveva
concepito Bacco, estrasse il figlio dal grembo di lei e lo tenne per due mesi in ge-
stazione in una propria coscia, fino a raggiungere il momento del parto, allorché
Bacco nacque una seconda volta (si veda OVID., Metam., III, 317 e IV, 12; MANIL.,
Astron., II, 2).
7
Il testo latino reca: «errationem Cereris», con riferimento alle peregrinazioni
della dèa Demetra alla ricerca della figlia diletta Persefone rapita da Ades (si ve-
da, per es., OVID., Metam., V, 438-465; APUL., Metam., XI, 2).
8
Il testo di Luciano qui menziona Cefeo, non Orfeo. Re di Etiopia, padre di An-
dromeda, Cefeo partecipò alla spedizione degli Argonauti e dopo la morte fu an-
ch’egli, come la figlia e la moglie Cassiopea, mutato in astro (si veda, per es.,
OVID., Metam., V, 42-45).
9
Il testo latino reca: «Aenaeae et Ulyssis erroribus», nel significato di «peregrina-
zioni» (si veda supra, nota 7).
10
Si tratta di Telegono, figlio di Ulisse e di Circe, supposto fondatore di Tuscolo e
di Preneste. Secondo la mitologia fu responsabile della morte del padre Ulisse e
in seguito, per volere di Atene, sposò la vedova di lui Penelope, da cui ebbe se-
condo Igino un figlio, Italo, che diede il nome all’Italia (IGINO, Fab., CXXVII).
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4. DELLA POESIA 49

guerre, le ferite, i lamenti, le prigionie, gli amori, i ruffiana-


menti, le lussurie, le fornicazioni, gli adulterii, gli abbraccia-
menti con gli uomini11 e con le bestie, e s’altre cose vi sono più
vergognose e disoneste di queste, non solo inganna e contami-
na i presenti, ma participa ancora questi furiosi veneni, con-
servati in leggiadri versetti e consonanze, a quei c’hanno a ve-
nire, e costrigne, a guisa di morso di cane rabbioso, tutti quei
che una volta avrà macchiato con sue dottrine e menzogne a
imperversare con simile rabbia. Perciocché con tanto artificio
sono finte le bugie sue che spesso pregiudicaro alle istorie ve-
re. Sì come è cosa chiara dell’adulterio mentito di Didone con
Enea e di Troia presa da Greci. Son però alcuni venuti a tanto
furore di pazzia, i quali credono ch’ella abbia in sé certe sorti
di divinità, perché altra volta i demonii rispondevano con versi
poetici: per questo chiamano quei profeti e poeti inspirati dal-
lo Spirito divino, et usano i versi de poeti per oracoli a indovi-
nare. Di qui gli antichi chiamarono le sorti d’Omero per gli
versi d’Omero, come ancora le sorti di Vergilio da i versi di
Vergilio, delle quali fa menzione Spartiano nella Vita d’Adria-
no12. La quale superstizione oggidì è trapassata alle Sacre Let-
tere et a versetti de salmi non senza consentimento di molti
maestri della nostra religione. Ma ritorniamo alla poesia. Ago-
stino vuole ch’ella abbia bando della città di Dio13, Platone pa-
gano la caccia della sua Republica14, Cicerone non vuole ch’el-
la si admetta15, Socrate avertisce che se alcuno ha grandissima
cura dell’onore e desidera conservarlo intiero, fugga di avere
alcun poeta inimico, perciocché non hanno sì gran forza in lo-
dare quanto in dir male e vituperare16. Minos, re giustissimo,
celebrato da Esiodo et Omero, si concitò contra i poeti tragici
perché mosse guerra a gli Ateniesi, i quali poeti lo confinarono
all’inferno17. Scrive Licofrone di Penelope, illustrata da Omero

11
Cfr. CIC., De nat. deor., I, 16, 42; ma si veda anche GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 2.
12
Cfr. ELIO SPART., De Vita Hadr., II, 8. Allusione alla tradizione in uso nella tarda
epoca romana di trarre oracoli attraverso l’interpretazione di versi degli antichi
poeti e della Bibbia.
13
Cfr. AGOST., De civit. Dei, II, 14.
14
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De studio div. et hum. phil., I, 6; PLAT., Rep., 568b-d; 595a;
607a-b.
15
Cfr. CIC., De re pub., IV, 9, ma nel Pro Archia Poeta, in partic. VI, 12-19, Cicerone
loda la poesia e i poeti.
16
Cfr. PLAT., Min., 320e.
17
Cfr. ESIODO, fr. 145 (ed. Merkelbach-West); OMERO, Odyss., XI, 568-571.
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50 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

per singolare pudicizia, ch’ella giacque con alcuni suoi inna-


morati18. Ennio poeta, cantando i fatti di Scipione, fu il primo
che finse Didone edificatrice di Cartagine, vedova castissima,
essersi innamorata di Enea, il quale però secondo il conto de i
tempi ella non puote aver giamai veduto, la quale menzogna
fu poi così bene ornata da Vergilio ch’ella è stata creduta per
vera istoria19. Infine questa licenza di mentire e malvagità di dir
male è passata sì inanzi che fu necessario a i censori fare una
legge per la quale s’avessero a ristringere simili vituperi e men-
zogne de poeti. Ma appresso gli antichi Romani ancora pubbli-
camente la poesia fu tenuta in disonore et in modo tale che,
col testimonio di Gellio e di Catone, chi studiava in quella era
chiamato publico assassino20; e più oltra fu per questo tassato
Quinto Fulvio da Marco Catone che, sendo mandato procon-
solo in Etolia, menò seco Ennio poeta21. E l’imperator Giusti-
niano non volse onorare d’alcun privilegio i professori di quel-
la. Gli Ateniesi ancora condannarono in cinquanta dragme co-
me persona pazza Omero, il quale è chiamato filosofo di tutti i
poeti e poeta di tutti i filosofi, e si fecero beffe di Tirteo poeta
come d’uomo povero di cervello22. Oltra di questo i Lacede-
moni fecero portar fuora della città loro i libri d’Archiloco
poeta23. Di questo modo tutti gli uomini virtuosi rifiutarono la
poesia come madre delle menzogne, veggendo che i poeti così
mostruosamente mentono, sì come quei c’hanno posto lo stu-
dio loro in non dire, né scrivere, cosa alcuna di buono, ma con
affamati versetti cantacchiare nelle orecchie di pazzi, rumoreg-
giare con invogli di favole e machinare ogni cosa sopra il fu-
mo, sì come già scrisse il Campano in certo loco:

Vivono i pazzi poeti di versi,


s’affameran, se lor le ciance levi.
Le menzogne gli son ricchezze et oro.
Fingon ciò che lor piace, e ben per gloria,
quanto più menton vergognosamente24.

18
Cfr. LIC., Alex., 771-792.
19
Cfr. VIRG., Aen., I e IV.
20
Cfr. AUL. GELL., Noct. att., V, 6, 24-26.
21
Cfr. CIC., Tusc. disp., I, 2, 3.
22
Cfr. DIOG. LAERZ., Vitae philos., II, 5, 43 (si veda ERACLIDE PONTICO, fr. 169, ed.
Wehrli).
23
Cfr. VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., VI, 3, Ext. 1.
24
Il testo latino reca l’annotazione a margine: «Campanus de poetarum vanitate».
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4. DELLA POESIA 51

Sono oltra di ciò crudelissime contese fra poeti non solo del
carattere del verso, de i piedi, de gli accenti, della quantità delle
sillabe (perché di queste frascherie contendono ancora tutti i
grammatici plebei), ma delle ciancie, figmenti e menzogne,
come sarebbe del nodo d’Ercole25, dell’arbor casta26, delle let-
tere di Giacinto27, de i figli di Niobe28, delle piante appresso le
quali Latona partorì Diana29, della patria d’Omero e del suo se-
polcro, e che fu prima Omero o Esiodo, se Patroclo fu di più
tempo che Achille30, in che portamento del corpo dormisse
Anacarsi Scita31, perché Omero non fece onore ne suoi versi a
Palamede, se Lucano è da esser posto nel numero de poeti o
de gli istorici, delle rubberie di Vergilio e di che mese egli si
morì, e chi

I versi sono da attribuire a Giovanni Antonio Campano (1429-1477), la cui Opera


omnia apparve nel 1495. I suoi Poemata furono stampati in 8 libri, di cui i primi tre
si compongono essenzialmente di liriche di contenuto elegiaco modellate sugli
esempi dei classici, mentre nei rimanenti cinque volumi appaiono poesie più
propriamente di occasione, ma comunque di notevole importanza come fonti
storiche.
25
Il nodo di Eracle, secondo la leggenda intrecciato dai serpenti nel caduceo di
Ermes, era difficile da sciogliere e non era possibile vederne la fine. Nel Medioe-
vo e nel Rinascimento era usato in funzione di amuleto contro i malefici e posse-
deva proprietà terapeutiche; per queste sue caratteristiche, era possibile trovarlo
in vasi, fermagli, catene e collane. Si veda, per es., PLIN., Nat. hist., XXVIII, 17, 63-
64; MACROB., Conv. saturn., I, 19, 16; ERASMO, Adagia, I, 9, 48.
26
L’allusione potrebbe essere all’albero sacro dai frutti d’oro custodito, insieme
al mostruoso drago Ladone, dalle Esperidi, figlie di Atlante e di Esperide (si veda,
per es., OVID., Metam., XI, 113-114).
27
Secondo la leggenda Giacinto, amato da Apollo e da lui involontariamente uc-
ciso in una gara di lancio del disco, sarebbe poi stato trasformato dal dio in un
fiore (non il nostro giacinto, ma una specie di giglio) sul quale sarebbero incise
le lettere AI AI, a indicare perennemente cordoglio (si veda OVID., Metam., X,
162-219).
28
I figli di Niobe, moglie di Anfione re di Tebe, sarebbero stati sterminati da
Apollo e Diana in seguito all’offesa recata alla loro madre Latona dalla stessa Nio-
be che si era detta migliore di lei perché madre di sette figli e sette figlie (si veda
OVID., Metam., VI, 148-315; SOFOC., Antig., 823-833).
29
Latona, amata da Giove, dopo essere stata dappertutto scacciata da Giunone, giun-
ta infine nell’isola di Delo, dà alla luce i due gemelli Apollo e Diana appoggiata a
una palma e a un olivo, albero di Pallade (si veda OVID., Metam., VI, 332-336).
30
Cfr. SEN., Ad Lucil. epist. mor., LXXXVIII, 6.
31
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De studio div. et hum. phil., I, 7. Per Anacarsi, figura leg-
gendaria e principe scita dell’età di Solone, il cui nome figura talvolta negli elen-
chi dei Sette Sapienti, si veda, per es., EROD., Hist., IV, 76-77; EFORO, fr. 70 F42 (ed.
Jacoby); DIOG. LAERZ., Vitae philos., I, 8, 101-105; PLAT., Rep., 600a.
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52 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Fu primo auttore della mesta elegia,


sono in dubbio grandissimo i grammatici,
e tuttavia la lite è sotto’l giudice32.

Sono tutti i versi de poeti pieni di favole, non per altro


scritti che a diletto de gli sciocchi, sotto colore d’adulazione,
o di riprendere i più scelerati vizii. Tutto quel che i poeti si
fanno, ragionino, lodino, invochino, adulano con le favole
loro. Oltre di ciò, se riprendono, se mordono, s’accusano, so-
no sulle favole; vero è che sempre son pazzi. Meritamente
dunque Democrito non la chiamò arte ma pazzia33. Et è sen-
tenza di Platone che uomo d’ingegno indarno picchia alle
porte de poeti34. Cantano allora cose mirabili i poeti quando
impazzano o sono ubbriachi. Però Agostino chiama la poesia
vino d’errore, ministrato da dottori ubbriachi35. Girolamo la
domanda cibo de diavoli36. Oltra di questo ella è arte molto
debile e nuda, la quale posta da sé è tutta cosa pazza s’ella
non è vestita e condita d’alcuna altra disciplina. Arte ch’è
sempre affamata, e la quale a guisa de topi mangia il pane al-
trui37, e nondimeno io non so in che modo, fra le ciancie e le
favole, con le cicale di Titone38, con le rane de Licii39 e con le
formiche de Mirmidoni40, ardisce di promettere immortal
gloria a i nomi e dire:

32
ORAZIO,Ars poet., 77-78.
33
Cfr. CIC., De divin., I, 37, 80 e De orat., II, 46, 194; ORAZIO, Ars poet., 295-301. La
fonte per Democrito è il fr. 68, B17-18 (ed. Diels-Kranz).
34
Cfr. SEN., De tranq. anim., XVII, 10; PLAT., Phaedr., 245a. Per il giudizio di Platone
sulla poesia, si veda anche Ion, 533e-535a; Apol., 22b-c; Leg., 669b-670a, 682a,
719c, 816d-817e; Rep., 397b, 398a, 401b, 568b-c, 605a-608b. La diffidenza di Pla-
tone e di Cicerone verso i poeti e la poesia viene ricordata anche da Agostino in
De civit. Dei, II, 14.
35
Cfr. AGOST., Conf., I, 16, 26.
36
Cfr. GEROL., Epistola XXI (Ad Damasum de duobus filiis), 13.
37
Cfr. PLAUTO, Capt., I, 77.
38
Sulla vicenda di Titone, trasformato in cicala da Zeus, si veda OMERO, Iliad., II,
11; ORAZIO, Sat., I, 28; II, 16.
39
Sull’episodio dei contadini della Licia trasformati in rane dalla dèa Latona, si
veda OVID., Metam., VI, 313-381.
40
Sui Mirmidoni, antico popolo greco che trae origine dalle formiche, da cui
prendono il nome stesso (muvrmhke" = formiche), si veda ESIODO, fr. 205 (ed.
Merkelbach-West); OVID., Metam., VII, 622-654.
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4. DELLA POESIA 53

Vivetevi felici, e se i miei versi


cosa alcuna potran, vi fo securi,
che non si spegnerà secolo il nome41.

La qual fama per dire il vero, o è nulla, o non è per giovare


in conto alcuno. Ma questa impresa gli istorici diranno che è
di lor e non de poeti.

41
VIRG., Aen., IX, 446-449. Gli stessi versi sono citati in SEN., Ad Luc. epist. mor., XXI,
5 e poi ripresi in BRUNO, De gli eroici furori (ed. G. Aquilecchia), vol. II, p. 654.
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5.
DELLA ISTORIA

La istoria è un ragionamento delle cose fatte con lode o con


vituperio, la quale sì come ella fosse una certa viva pittura, met-
te inanzi gli occhi i consigli delle cose grandi, le azzioni, i fini,
le imprese de i re e de gli uomini grandi, con l’ordine e la de-
scrizzione de i tempi e de i luoghi. E però quasi ogniuno la
chiama maestra della vita, et utilissima alla instituzione di quel-
la, perciocché ella con gli essempi di molte cose, parte infiam-
ma tutti i migliori per la gloria immortale della laude e del no-
me ad ogni valorosa impresa, parte perché con lo spavento di
perpetua infamia netta da i vizii tutti i ribaldi e malvagi uomi-
ni, benché questo disegno spessissime volte sia andato ad con-
trario. E molti, come disse Livio di Manlio Capitolino, vogliano
più tosto aver fama grande che buona1; e parecchi altri, perché
col mezzo delle virtù non possono, vogliono con le ribalderie
acquistar credito et essere scritti nelle istorie, sì come Giustino
racconta da Trogo di Pausania Macedono, famoso per l’omici-
dio del re Filippo2, e come riferiscono Gellio, Valerio e Solino
d’Erostrato, il quale abbrugiò il tempio di Diana Efesia, la più

1
Cfr. LIV., Ab Urbe cond., V, 47; PLIN., Nat. hist., VII, 28, 103.
2
Cfr. GIUST., Epit., IX, 6. Come l’autore stesso afferma nella Prefazione (praef., 4),
l’opera di Marco Giuniano Giustino, composta probabilmente nel III secolo e
che godette di ampia fortuna nel Medioevo, si basa quasi interamente sulle mo-
numentali, e per noi perdute, Historiae Philippicae in 44 libri di Pompeo Trogo (I
sec. a.C.) le quali, partendo dalla descrizione degli antichissimi regni asiatici, si
concludevano con il regno di Augusto.
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56 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

eccellente fabbrica che di quei dugento anni si fusse edificata


in tutta l’Asia3. E benché con asprissime leggi si fosse provedu-
to che nessuno ricordasse questo uomo né in voce né in scrit-
to, nondimeno egli conseguì il fine per lo quale aveva com-
messo tanta scelerità, essendo per tanti secoli arrivato il nome
e la fama di lui fino all’età nostra. Ma ritorniamo alla istoria.
Questa arte, benché ella ricerchi l’ordine di tutte le cose4, la
consonanza e la verità, nondimeno di queste cose non ne dà
alcuna: tanto sono fra loro discordanti gli storici, e così varie e
diverse cose trattano d’un medesimo negozio, che impossibile
è che infiniti di loro non siano pieni di menzogne. Non dico
solo del principio del mondo, del diluvio universale, della edi-
ficazion di Roma, da i quali principii si vantano di scrivere le
cose avenute, conciossia che non è alcuno che sappia il primo
di questi, l’altro non lo crede ogniuno, il terzo appresso di lo-
ro è incerto. Laonde essendo quelle cose lontanissime, né per
un medesimo modo approvate da tutti, perdoniamo loro que-
sti errori. Ma circa i tempi più nuovi è ben da essere imputata
loro la colpa delle menzogne, e le tante cagioni di quelle sono
le molte discordanze. Perciocché infiniti che non furono pre-
senti a i tempi, a i luoghi, alle persone et a i fatti delle cose rac-
contate, raccogliendo i ragionamenti del popolo dalla relazio-
ne altrui, cosa alcuna non scrivono né certa, né stabile, del
qual vizio da Strabone son ripresi Eratostene, Metrodoro Scep-
zio, Possidonio e Patrocle geografo5. Sono alcuni altri, i quali
avendo veduto parte delle cose, come per transito di guerra, o
mendicando sotto pretesto di voti, scorrendo per gli spedali e
per le provincie, hanno ardimento di scrivere istoria, sì come
già scrissero Onosicrito et Aristobolo dell’India6. Son di quegli

3
La storia di Erostrato e di come egli nel 356 bruciò il tempio di Artemide, una
delle sette meraviglie del mondo antico, si trova raccontata in numerosi testi. Si
veda, per es., AUL. GELL., Noct. att., II, 6, 18; VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., VIII,
14, Ext. 5; SOLINO, Coll. rer. memor., XL, 2-5; PLUT., Alexand., 3-7.
4
Il testo latino aggiunge: «fidem», qui mancante.
5
Cfr. STRAB., Geogr., II, 1, 27 sgg.
6
Probabile allusione all’opera di Onesicrito di Astipalea (IV sec. a.C.) intitolata
L’educazione di Alessandro (si veda DIOG. LAERZ., Vitae philos., VI, 4, 84), che è poi di-
ventata parte della tradizione popolare alessandrina, e all’opera di Aristobulo di
Cassandrea (IV sec. a.C.) su Alessandro Magno, di cui non si conosce il titolo, che
costituisce la fonte principale dei racconti di Strabone sulle vicende in India del
condottiero macedone. Sul viaggio di Onesicrito in India insieme ad Alessandro,
si veda PLIN., Nat. hist., VI, 25, 96 sgg.
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5. DELLA ISTORIA 57

che per cagione di diletto trapongono alcuna bugia nelle cose


vere, spesse volte ancora lasciando la verità, del qual vizio Dio-
doro Siculo tassa Erodoto7; Liberiano e Vopisco, Trebellio8;
Tertulliano et Orosio ne riprendono Tacito9, nel qual numero
metteremo ancora Danude10 e Filostrato. Vi sono de gli altri i
quali rivolgono le cose vere alle favole, sì come sono Gnidio
Ctesia, Ecateo11 e molti altri istorici antichi. Sono molti che
sfacciatamente facendo professione d’istoriografi, per non pa-
rere di non sapere ogni cosa, o d’aver tolto da altri, mentre
con novità piena di ciancie s’hanno pensato di scrivere delle
provincie incognite et inaccessibili, non hanno detto se non
eleganti ciance e mostruose menzogne, sì come sono le favole
che si leggono de gli Arimaspi, grifi, Pigmei, delle gru, de i Ci-
nocefali, Astromori, Ippopodi, Fanesii e Trogbaditi12, a gli er-
rori de i quali s’accostano quei ch’affermano il mare agghiac-
ciato essere sotto l’Artico. E nondimeno ritrovo uomini pazzi e
senza giudicio che gli credono cose simili, e l’hanno per ora-
colo, fra i quali si può annoverare Eforo, il quale disse che gli
Iberi hanno una città sola, sapendosi che essi abitano una sì

7
Cfr. DIOD. SIC., Bibl. hist., I, 69, 7.
8
Cfr. FLAV. VOP., Divus Aurel., II, 1, dove però a criticare Trebellio Pollione sono
Flavio Vopisco e Giunio Tiberiano, non Liberiano.
9
Cfr. TERTUL., Apol. adv. gent., I, 3, n. 63 e I, 16; OROSIO, Hist. adv. pag., I, 5, 1-5 e 10, 1-6.
10
Il testo latino reca: «Planudem». Probabilmente si tratta del monaco Massimo
Planude, umanista e teologo bizantino vissuto tra il XIII e il XIV sec., autore del-
la silloge di epigrammi greci nota con il nome di Antologia Planudea, una delle
fonti principali per la conoscenza nel Rinascimento di questo genere poetico.
11
Ctesia di Cnido, storico del tardo V sec. a.C., compose una Storia della Persia in
23 libri, una Storia dell’India e un trattato di geografia. L’opera di Ctesia era rite-
nuta inattendibile già dagli antichi. Ecateo di Mileto, vissuto intorno al 500 a.C. è
autore delle Genealogie, o Storie e origine degli eroi, in 4 libri, dedicate alla saga di
Deucalione ed Eracle e dei loro discendenti.
12
Il testo latino reca: «troglodyti». ‘Trogloditi’ è un termine generico con cui i
geografi greci designavano le tribù cavernicole. Secondo Erodoto (Hist., IV, 183),
parlavano una lingua diversa da tutte quelle conosciute, si cibavano di rettili ed
erano velocissimi nelle corse. Secondo Plinio (Nat. hist., VII, 9-32), i Trogloditi era-
no uomini con gli occhi nelle spalle; i Cinocefali uomini con la testa simile a quella
di un cane e che parlano abbaiando; i Pigmei popolazioni dalla statura piccolissi-
ma; gli Arimaspi uomini con un solo occhio al centro della fronte; gli Astomi uo-
mini senza bocca; gli Ippopodi uomini con zoccoli equini e i Fanesii uomini dalle
enormi orecchie con le quali si coprono interamente il corpo. Su queste popola-
zioni, si veda anche, SOLINO, Coll. rer. memor., XXXI, 3sgg.; DIOD. SIC., Bibl. hist., III,
32-34; STRAB., Geogr., XVI, 4, 17; AGOST., De civit. Dei, XVI, 8; AUL. GELL., Noct. att., IX,
4, 6-10; REUCHL. De verbo mirif., I, A5r. I grifi o grifoni sono uccelli favolosi, con la te-
sta armata d’un becco d’aquila, dalle ali potenti e dal corpo di leone.
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58 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

gran parte dell’Ispagna. E Stefano greco, il quale disse che i


Franchi sono popoli dell’Italia e Vienna essere una città di Ga-
lilea, per Galazia. Et Arriano greco, il quale afferma che le
stanze de Germani sono poco longi dal mare Ionio, co i quali
va Dioniso ancora nelle cose che falsamente disse de i monti
Pirenei13. Oltra di ciò le cose che Cornelio Tacito, Marcello,
Orosio e Biondo dicono de i luoghi della Germania per la
maggior parte son lontane dal vero. Scrive similmente Strabo-
ne che l’Istro, cioè il Danubio, nasce poco lungi dal mare
Adriatico, et Erodoto dice che egli viene dall’Espero et appres-
so i Celti, i quali sono gli ultimi popoli d’Europa, et entra in
Scizia14. Strabone dice anco che Lapo e Visurgo fiumi vanno al-
l’Amaso, benché Lapo si mescoli nel Reno e Visurgo si scarichi
nell’oceano15. Plinio anch’egli mette che’l fiume della Mosa va
nell’oceano, e pure è vero ch’entra nel Reno16. Con sì fatti er-
rori fra gli istorici e geografi moderni, il Sabellico falsamente
vuole che gli Alani siano venuti da gli Alemanni e gli Ungheri
da gli Unni. Dice ancora che i Goti et i Geti sono Sciti, e
confonde i Dani coi Daci, e mette il monte di santa Ottilia in
Baviera, essendo appresso ad Argentorato17. Il Volterrano an-
ch’egli confonde l’Austerania e l’Austria, Avari e Savari, e Lu-
cerna e Nansio, e dice che Plinio ha fatto menzione de i Ber-
nesi Svizzeri, i quali gran tempo dopo ebbero origine da Bar-
toldo duca de Zaringi18. Similmente Currado Celte crede che i
Daci siano una medesima cosa co i Fiamenghi et i Cherusci co
i Cerusi, e dice che i monti Rifei sono in Sarmazia, oggi Polo-
nia, e mette che l’ambro è gomma che nasce da uno albero19.

13
Cfr. DION. ALIC., Antiq. rom., XIV, 1, 3-5.
14
Cfr. STRAB., Geogr., I, 3, 15; EROD., Hist., IV, 48.
15
Cfr. STRAB., Geogr., VII, 1, 3-4.
16
Cfr. PLIN., Nat. hist., IV, 14, 100.
17
Probabile allusione all’opera in 63 libri intitolata Rapsodiae historiarum ennea-
dum ab orbe condito ad annum salutis humanae 1504 di Marcantonio Coccio
(ca.1436-1506), detto Sabellico come forma più nobile per ‘Sabinus’, che molti
gli attribuirono, dal suo paese di origine Vicovaro situato in Sabina.
18
Cfr. VOLTER., Comm. rer. urban., III e VII. Il luogo di Plinio potrebbe essere Nat.
hist., XXXVII, 11, 42. Volterrano è il soprannome di Raffaele Maffei (1455-1522),
allievo di Giorgio Trapezunzio e studioso di classici greci e di teologia. La sua
opera principale è il Commentariorum rerum urbanarum libri XXXVIII (1506), una
grande enciclopedia cui dedicò gran parte della sua vita.
19
Conrad Celtis ovvero Konrad Pickel (1459-1508), umanista tedesco e poeta lati-
no, autore di numerose poesie e di un’opera intitolata De origine, situ, moribus et
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5. DELLA ISTORIA 59

Vi sono anco de gli altri fra gli istorici c’hanno la colpa di bu-
gie molto maggiori, i quali essendosi ritrovati presenti alle co-
se, o sapendo che elle passarono d’altra maniera, vinti nondi-
meno dalla benevolenza e dalla affezione, adulando a i suoi
confermano il falso contra il vero. Fra questi sono alcuni, i qua-
li togliendo a scriveri istorie per accusare o difendere le cause
altrui, raccontando quelle cose solo che fanno a proposito lo-
ro, l’altre dissimulando, trapassandole, o facendole debili, scri-
vono storie corrotte e difettose, del quale vizio il Biondo tassa
Orosio perché egli tacque quella gran ruina dell’Italia nella
quale i Goti disfecero Ravenna, Cardano, Aquileia, Ferrara, e
quasi tutta l’Italia, per non debilitare l’argomento che s’aveva
preso. Oltra di ciò sono molti i quali corrotti per paura, ranco-
re, ovvero odio d’alcuni scrivono il falso. Altri mentre che vo-
gliono inalzare i fatti de suoi, diminuiscono le prove altrui e
l’abbassano in umiltà, e scrivono non quel ch’è, ma ciò che
vorrebbono, quel che vogliono e quel che gli piace, confidan-
dosi che non gli abbiano a mancare compagni e defensori del-
le menzogne loro, e di devere avere per testimoni coloro a i
quali notabilmente avranno adulati. Il qual vizio anticamente
era famigliare a gli scrittori greci, ma oggidì quasi tutti gli isto-
rici d’ogni nazione hanno simil difetto, come il Sabellico e’l
Biondo nelle cose di Viniziani20, Paolo Emilio e Gaguino ne i
fatti de i Francesi21, i quali per altra utilità non sono trattenuti
da i principati se non, come dice Plutarco, acciocché co’l mez-
zo del buono ingegno, soffocando la virtù con gli altri meriti,
secondo la maestà dell’istoria con ciance e finzioni celebrino i
fatti loro. A questo modo gli storici greci scrivendo gli invento-
ri delle cose, ogni cosa attribuirono a loro medesimi, ma non

institutis Norimbergae, che doveva forse fare parte di una più ampia opera intitola-
ta Germania illustrata.
20
Probabile allusione alle Historiae rerum Venetiarum (1487) di Sabellico e al De ori-
ginibus et gestis Venetorum (1454) di Antonio Biondi (1392-1463), noto attraverso la
latinizzazione del nome come Biondo Flavio o Flavio Biondo.
21
Paolo Emilio (Paulus Aemilius) o Emili (ca.1460-1529), cronista dei re Carlo
VIII e Luigi XII, autore del De rebus gestis Francorum, (1515-1519) in 7 libri, cui poi
se ne aggiunsero altri 3, che costituisce una delle fonti più importanti per la sto-
ria del XV sec.; Robert Gaguin (ca.1433-1501), o Robertus Gaguinus, giurista
francese e storico umanista insigne, autore di un Compendium supra Francorum ge-
stis, pubblicato a Parigi nel 1497. Interessante è la sua corrispondenza con Era-
smo da Rotterdam.
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60 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

erano sue. Ecci un’altra sorte corrottissima d’adulatori, i quali


mentre che s’ingegnano tirare l’origine de suoi principi a qua-
li si fossero i più antichi re del mondo, non potendo aggiu-
gnervi nel suo genere, ricorrono a favole e principii strani, fin-
gono nomi di re e di luoghi, e non è cosa dove non dicano
menzogna. Di questo modo è quello Unibaldo Barbaro il qua-
le, scrivendo la istoria de Franchi, s’imaginò Scitica, Sicambria,
Priamo giovane, et altri nomi di luoghi e di re de i quali nessu-
no istorico antico giamai fece menzione22, e nondimeno uomi-
ni di ingegno simile a lui hanno seguito le sue ciance, cioè Gre-
gorio Tornese, Regino, Sigisberto23 et altri infiniti. Di questa fa-
rina è Vitilkindo ancora, il quale dice che i Sassoni, antichissi-
mi e primi abitatori della Germania, uscirono di Macedonia, e
gli deriva dalle reliquie d’Alessandro Magno24, il quale in que-
sto errore ha infiniti compagni. Sono anco molti che scrivono
istorie non tanto per dire il vero, quanto per dilettare, o per
imprimere e dipingere l’imagine di alcun famoso principe do-
ve gli pare. I quali se d’alcuno saranno ripresi di menzogna, di-
cono che non risguardano tanto alla cosa fatta, quanto alla uti-
lità de i posteri et alla fama dell’ingegno, e che per questo non
dicono tutte le cose come sono successe, ma nel modo che gio-
va dirle, e che ostinatamente non vogliono difendere la verità
dove l’utilità comune richiede o finzione, o falsità, citando per
testimonio Fabio, il quale dice che quella menzogna non è da
essere vituperata la quale conduce alla persuasione dell’one-
stà25. Oltra di questo, perché essi scrivono a quei c’hanno a ve-
nire, dicono non importar molto con che nome, o con quale
ordine, sia messo in publico l’essempio d’un prencipe buono:
è certo che Xenofonte, scrivendo di Ciro non come egli era,

22
Probabile allusione al De origine gentis Francorum compendium (1514), un affasci-
nante racconto della storia dei Franchi dell’abate e teologo tedesco Johannes
Trithemius (1462-1516), ricco di falsificazioni letterarie e personaggi inventati
quali il cronista ‘Hunibald’ qui menzionato da Agrippa.
23
Gregorio, vescovo di Tours (ca.538-594), o Gregorio Turonense, santo ed eru-
dito dell’epoca merovingica, la cui opera più importante è l’Historia Francorum in
10 libri; Reginone da Prüm (m. 915), è noto per il Chronicon, opera in 2 libri dal-
la nascita di Cristo fino al 906; Sigberto di Gembloux (ca.1130-1112), monaco be-
nedettino noto per una serie di opere a carattere storico e agiografico, tra cui il
Chronicon ab anno 381 ad annum 1111.
24
Vitichindo di Corvey (X sec.), cronista sassone di ignota provenienza, autore
dei Rerum gestarum Saxonicarum libri tres (957/8).
25
Cfr. VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., VII, 3, 7; PLUT., Fab. Max., XX e Mor., 195f.
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5. DELLA ISTORIA 61

ma quale devrebbe essere stato, fece una bella et elegante isto-


ria ma senza fede di verità, per essempio et idea di uno ottimo
prencipe26. Di qui finalmente è venuto che molti accommodati
da natura et industria a mentire, hanno scritto storie favolose
con argomenti finiti, come sono le pazzie di Morgana, Marga-
lona, Melusina, Amadis, Florando, Tirante, Conamoro, Artù,
Dietero, Lancilotto e Tristano27, dico quelle favolose e dissipi-
de sciocchezze di poeti, più favolose che le comedie e le favole
non sono. Ma tra gli uomini in queste cose Luciano et Apuleio
ottennero il principato, anzi, come dice Cicerone, in Erodoto
padre della istoria, in Diodoro et in Teopompo sono infinite
favole28, et essi sono pieni di bugie, perciocché in loro si legge:

Da i Medi soli i fiumi essersi secchi,


e fatto vela in Atho, oltra di quello,
che la Grecia bugiarda ha nell’istoria29.

E queste sono le cagioni perché in parte alcuna non si può


compiutamente dar fede all’istoria, e se pure ve la cerchiamo,
difficilissima cosa è ritrovarvi il giudicio che farebbe bisogno in
discernere il vero. Perciocché non facendosi scritture publiche
delle cose avvenute, le quali mostrassero la verità del fatto e fa-
cessero tacere i bugiardi, ma essendo lasciato ciascuno nella
sua opinione, di qui hanno acquistato l’auttorità d’errare e di
mentire. Onde fra gli istorici è nata tanta discordia che, come
dice Giosefo contra Appione, si riprendono l’un l’altro con
suoi libri, e scrivono molto diversamente d’una medesima co-
sa; in quanti luoghi dice il medesimo e contrario Ellanico ad
Agesilao30 delle genealogie, et in quanti Agesilao corregge Ero-

26
Allusione alla Ciropedia, opera in 8 libri di Senofonte di Atene (ca.444-ca.355
a.C.).
27
I personaggi di Artù, Morgana, Conamoro, Lancillotto e Tristano fanno parte
del ciclo delle leggende arturiane della Tavola Rotonda; Margalona è un’eroina
di un libro popolare francese; Dietero potrebbe identificarsi con Dietrich di Ber-
na, personaggio delle saghe del re ostrogoto Teodorico di Ravenna (456-526);
Amadis, Florando eTirante sono personaggi di libri di saghe popolari e di ro-
manzi cavallereschi molto diffusi nel XV sec.; per Melusina, si veda infra, p. 389,
nota 76.
28
Cfr. CIC., De legib., I, 1, 5.
29
Cfr. GIOVEN., Sat., X, 173-177, la cui fonte è EROD., Hist., VII, 22-24.
30
Probabile allusione allo storico Acusilao di Argo, di cui si veda infra.
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62 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

doto, e come Eforo in assaissime cose mostra che Ellanico è


bugiardo, Timeo riprende Eforo, quei che furono dopo di lui
Timeo, et universalmente ogniuno Erodoto. Ma né in ogni co-
sa s’è degnato Timeo di concordarsi con Antioco, Filisto e Cal-
lia; in molte cose ancora Tucidide è accusato per fallace, ben-
ché paia ch’egli abbia scritto una scrupolosissima istoria31.
Questo scrive Giosefo de gli altri, e’l nostro Egesippo corregge
lui32. Oltra di questo de gli istorici molti scrivono molte cose,
ma non tutte da essere approvate, e sono alcuni che approva-
no quel che non si devrebbe admettere, assaissimi propongo-
no ad imitare di pessimi essempi. Perciocché coloro che con
lode mirabili dipingono Ercole, Achille, Ettore, Teseo, Epami-
nonda, Lisandro, Temistocle, Xerse, Ciro, Dario, Alessandro,
Pirro, Annibale, Scipione, Pompeio e Cesare, che altro hanno
descritto se non grandi e furiosi ladroni e famosi assassini del
mondo? Io confesso che furono ottimi capitani pur che non si
nieghi che furono anco uomini pessimi e sceleratissimi; che se
alcuno vorrà dire che dalla lezzione dell’istorie io ne acquisto
una notabil prudenza, io non lo nego, purché mi si conceda
che da quelle medesime se ne tragga parimente grandissimo
danno. E come dice Marziale: «Son molte cose buone, molte
mediocri e molte cattive»33.

31
Cfr. FLAV. GIUS., Contra Apion., I, 3, 16-18. Ellanico di Mitilene (V sec. a.C.) è uno
storiografo contemporaneo di Erodoto autore di opere mitografiche, etnografi-
che e cronografiche quali la Storia di Troia, i Costumi dei barbari, la Storia dell’Attica;
Acusilao di Argo (VI sec. a.C.), è autore di genealogivai, ossia di tradizioni sulle
origini dei Greci organizzate sotto forma genealogica; Eforo di Cuma (V/IV sec.
a.C.), scolaro di Isocrate, è autore di una storia a carattere universale in 30 libri,
della quale ci sono pervenuti solo alcuni frammenti; Timeo di Tauromenio
(ca.356- ca.260 a.C.) è autore di una storia della Sicilia in trentotto libri; Antioco
di Siracusa (IV sec. a.C.) è autore di un’opera sulla Sicilia e sull’Italia; Filisto
(ca.430 a.C.-356 a.C.) e Callia (IV-III sec. a.C.) sono storici siracusani.
32
Egesippo (II sec.) scrisse 5 libri di commentari (uJpomnhvmata), di cui possediamo
solo alcuni frammenti riferiti da Eusebio di Cesarea. Si veda, per es., Hist. eccl., II,
23; III, 32, e in partic., IV, 22.
33
MARZ., Epigr., I, 16.
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6.
DELLA RETORICA

Disputasi fra gli uomini se la retorica, la quale è vicina a que-


ste, sia arte o no, e la lite tuttavia è nelle mani del giudice1. Per-
ciocché Socrate appresso Platone, con fermissime ragioni, pro-
va ch’ella non è né arte né scienza, ma una certa astuzia, e che
ella non è né famosa né onesta, anzi vergognosa e servile adu-
lazione2. Onde Lisia, Cleante e Menedemo dissero che la elo-
quenza non si contiene in arte alcuna, ma che ella viene solo
dalla natura, la quale insegna a ciascuno quando fa bisogno
che’l lusingare, dire le cose sue e fondarle con argomenti, la
vera pronunzia, la memoria e’l bel modo della invenzione non
viene se non dalla natura3, il che si conobbe in Antonio princi-
pe de i romani oratori4. Oltra di ciò benché inanzi Tisia, Cora-
ce e Gorgia nessuno abbia insegnato o scritto l’arte della reto-
rica, furono nondimeno molti uomini eloquentissimi e di
bontà d’ingegno5. E quantunque l’arte sia diffinita essere una
raccolta di regole che vanno tutte ad un fine, infino ad ora
contendono i retori qual sia il fine di quella, o persuadere o

1
Cfr. ORAZIO, Ars poet., 78 (si veda anche supra, p. 52).
2
Il testo latino reca: «quinimo turpem, illiberalem ac servilem adulationem». Cfr.
PLAT., Gorg., 463a-b; Theaet., 173a.
3
Per il riferimento a Lisia (ca.458-ca.380 a.C.) e a Cleante (ca.331-ca.232 a.C.), si
veda QUINT., Instit. orat., II, 15, 30-34; 17, 6; 17, 41. Per Menedemo di Eretria
(ca.350- ca.278 a.C.), si veda DIOG. LAERZ., Vitae philos., II, 17, 125-144.
4
Cfr. CIC., De orat., I, 38, 172.
5
Cfr. CIC., Brut., XII, 46-47.
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64 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

dir bene, né rimanendo contenti alle vere cause, se ne imagi-


nano ancora delle nuove e delle finte. Hanno oltra di questo
ritrovato tante tesi, ipotesi, figure, colori, guide, caratteri, sua-
sorie, controversie, declamazioni, proemi, insinuazioni, capta-
zioni di benevolenza et artificiosissime narrazioni ch’appena
numerare si possono, e nondimeno dicono che non s’è posto
ancora fine alla retorica. Questa arte fu rifiutata in tutto da La-
cedemoni, i quali dicevano che’l parlare de gli uomini da bene
non dee venire dall’arte ma dal cuore. Gli antichi romani an-
cora molto tardi tolsero i retori nella città, e benché Cicerone
dopo molta disputa si sforzasse di mostrare che la facultà ora-
toria non viene tanto dall’arte quanto dalla prudenza, et a que-
sto fine scrivesse l’opera del perfetto oratore, nondimeno que-
sto tale oratore ch’egli fabbrica come uno essemplare et idea,
non è approvato da ogniuno, anzi parve egli sempre sospetto a
Bruto, uomo di singolare integrità, e sempre vinse la sentenza
de i retori che i precetti del ben dire nuocono più che non
giovano alla vita de gli uomini. E s’egli è pur lecito dire il vero,
chiaro è che tutta la disciplina della retorica altro non è che
uno artificio d’assentazione e d’adulazione e, come certi più li-
cenziosamente dicono, di dir menzogne, acciocché quello che
far non si può con la verità della cosa si persuada col liscio del-
la orazione, sì come Archidamo dice di Pericle sofista (come
testimonia Ennapio), il quale domandato s’egli era più poten-
te di quello, rispose: «Benché Pericle sia stato vinto da me in
battaglia, nondimeno egli ha tanta eloquenza che ragionando
di queste cose non pare vinto ma vincitore»6. E Plinio dice di
Carneade che quando egli argomentava, difficilmente si pote-
va conoscere il vero7. E di questo medesimo si legge ch’avendo
un giorno in publico, e sapientemente e con grande eloquen-
za, detto di molte cose in favore della giustizia, l’altro di con
non minore dottrina e facondia orò contra la giustizia8. Era in
Siracusa Corace retore, uomo d’acuto ingegno e di più pronta
lingua, il quale publicamente insegnava questa arte per prez-
zo; andò Tisia da lui e, non avendo dinari allora, gli promise
doppia mercede quando gli avesse insegnato la retorica, il qua-

6
Cfr. EUNAP., Vitae philos. et soph., 498.
7
Cfr. PLIN., Nat. hist., VII, 30, 112.
8
Cfr. CIC., De orat., II, 36, 155.
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6. DELLA RETORICA 65

le Corace tolse con questa condizione e gli insegnò. Tisia, poi


ch’ebbe imparato, volendo ingannare il maestro del prezzo,
domandò Corace ciò che fosse retorica, il quale rispondendo-
gli ch’ella era maestra delle persuasioni, fece uno argomento
in questo modo contra il precettore: «Tutto quello ch’io dirò
della mercede, s’io ti farò conoscere che non ti debbo nulla,
non ti pagherò9; se non te lo potrò persuadere, neanco ti sarò
debitore, perché non m’hai insegnato a sapere persuadere».
Allora Corace parve che rivoltasse questo argomento contra
Tisia. Disse egli: «Tutto quello ch’io dirò intorno il pagamento,
s’io ti persuaderò di deverlo avere, io lo riceverò per avertilo
persuaso; se anco non potrò farlo, pur lo devrò avere, avendo
fatto un discepolo sì grande che vinca il maestro»10. I Siracusa-
ni udendogli contrastare fra loro con argomenti che ad ogni
parte rivolgere si potevano, esclamarono: «Di cattivo corvo,
cattivo ovo»11, volendo inferire che un malvagio maestro aveva
fatto un più ribaldo discepolo. Gellio racconta una istoria po-
co differente da questa di Protagora sofista e di Evatlo suo sco-
lare12. Nondimeno il saper dire perfettamente, ornatamente,
gravemente e copiosamente, è sempre bella cosa, dilettevole et
utile, alcuna volta però disonesta et importuna, spessissime vol-
te pericolosa, ma con tutto ciò d’ogni tempo sospetta, la onde
Socrate non crede che i retori siano degni di riputazione alcu-
na, né gli ha per uomini che debbano avere auttorità veruna in
ben governata Republica. E Platone volse che insieme co i tra-
gici, istrioni e poeti fossero esclusi, e meritamente, della sua
Republica13. Perciocché cosa non è più periculosa a gli offici ci-
vili di questo artificio, dal quale derivano i prevaricatori, i pro-
lungatori, i calonniatori, i gaglioffi et altri nomi di così scelera-
ta lingua. Perché gli uomini da questa arte ammaestrati nelle
città le più volte fanno congiure, movono sedizioni, mentre

9
Il testo latino a questo punto reca: «quia non debere persuasi; si non persuase-
ro, nihil debeo, quia non debere persuasi», qui mancante. Il senso della tradu-
zione rimane comunque inalterato.
10
Cfr. CIC, De orat., I, 20, 91.
11
Cfr. ERASMO, Adagia, I, 9, 25; Antib., p. 97.
12
Cfr. AUL. GELL., Noct. att., V, 10, 1-3. Un racconto articolato della lite tra Prota-
gora ed Evatlo si trova in APUL., Flor., 18. Si veda anche QUINT., Instit. orat., III, 1,
10; DIOG. LAERZ., Vitae philos., IX, 8, 56.
13
Cfr., per es., PLAT., Gorg., 515b; Rep., 595b, 599d-e; Leg., 817b-d.
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66 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

che con questo artificioso cicalamento alcuni ne ingannano,


alcuni mordono, alcuni ne malignano, altri ne lusingano, e
nelle persone innocenti s’usurpano una certa tirannia. Perciò
disse bene Euripide che’l sapere dire molte cose ha non so che
del tiranno, et Eschilo dice che’l più vergognoso male di tutti
sono i parlari bene ordinati14. Raffaello Volterrano, studiosissi-
mo d’istorie e d’essempi, confessa che posti insieme quanti es-
sempi egli ha udito e letto di antichi e di moderni, pochissimi
uomini si sono ritrovati eloquenti.15 Non si sono per questo so-
lo più volte gravemente travagliate le famose republiche, e
spesso in tutto ruinate? Di questa cosa sono essempi i Bruti, i
Cassii, i Gracchi, i Catoni, Cicerone e Demostene16, i quali sì
come furono stimati i più eloquenti de gli altri, così sempre an-
co furono i più sediziosi. Perciocché Catone Censorino qua-
ranta volte accusato, egli sopra più ne accusò settanta volte gli
altri, travagliando tutto il tempo della vita sua la tranquillità
della republica con sciocche declamazioni17. L’altro Uticense
provocando Cesare mise la libertà romana al fondo18. Non me-
no Cicerone provocò Antonio a danni della republica, e De-
mostene Filippo in ruina de gli Ateniesi19. Finalmente non fu
stato alcuno di republica che talora non sia stato ruinato da
questa arte, nessuno n’è rimaso senza offesa se egli ha dato
orecchie al vizio della eloquenza. Egli è di grande auttorità la
fiducia dell’eloquenza ne i giudicii, il suo patrocinio difende le
cause ingiuste e chi è colpevole, con l’aiuto suo, vien liberato
dal pericolo della legge, e l’innocente accusato da lei spesse
volte è stato condannato, né fu alcuno mai tanto difeso dall’ar-
tificio di questa che non ne sia stato offeso chi era dall’altra
parte. M. Catone, prudentissimo fra i Romani, non volse che

14
Cfr. EURIP., fr. 335 (ed. Nauck); ESCH., Prom., 686.
15
Cfr. VOLTER., Comm. urban., I.
16
Cfr. ERASMO, Moriae enc., XXIV.
17
Ibid.
18
Ibid. Sull’attività giudiziaria di Catone il Censore (234-149 a.C.), si veda PLUT.,
Cato mai., XV-XVII; PLIN., Nat. hist., VII, 27, 100; per l’episodio riguardante Marco
Porcio Catone, detto l’Uticense (95-46 a.C.), si veda PLUT., Cato mino., XXXII-
XXXIIII.
19
Cfr. ERASMO, Moriae enc., XXIV. L’allusione è alle Filippiche, le celebri orazioni di
Demostene contro Filippo, e alle 14 orazioni pronunciate da Cicerone contro
Antonio (Gellio, infatti, le chiama Antonianae), il cui titolo rivela l’intenzione del-
l’autore di emulare quelle dell’oratore greco.
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6. DELLA RETORICA 67

quei tre oratori ateniesi, cioè Carneade, Critolao e Diogene,


publicamente fossero ascoltati nella città di Roma, perché
avendo essi così acuto ingegno, faconda orazione e gagliarda
eloquenza, avrebbono facilmente potuto persuadere le cose
giuste e le ingiuste20. Chiaro è questo, che Demostene già si diè
vanto con gli amici ch’ad ogni suo piacere avrebbe potuto con
l’artificio del parlare rivolgere alla sua volontà le sentenze de
giudici, e secondo il parere di lui ebbero spesse volte gli Ate-
niesi guerra e pace con Filippo. Sì grande era in lui la forza
della eloquenza in concitare e quetare gli affetti de gli animi e
delle volontà, che come se egli avesse avuto l’imperio de citta-
dini suoi, gli rivolgeva col parlare dove gli piaceva. Per questa
medesima ragione Cicerone fu chiamato re da molti in Roma,
perché egli voltava col suo dire il Senato dove voleva, gover-
nando ogni cosa con la sua eloquenza. Di qui si vede che la re-
torica non è altro che una arte di persuadere e di movere le
passioni, la quale con sottile eloquenza, con esquisito liscio e
con falsa simiglianza di vero, rapisce gli animi de i semplici e
gli conduce in prigionia d’errore, volgendo sottosopra il senso
della verità. Che, se per beneficio della natura, cosa non è la
quale non si possa esprimere con vocabolo vero, qual maggior
peste si può trovare che lo studio delle parole ornate? Il parla-
re della verità è semplice ma vivo21, penetrante e conoscitore
delle intenzioni del cuore, et a guisa di scure e di spada facil-
mente separa e taglia tutti gli artificiosi argomenti de gli orato-
ri. Però Demostene, benché facilmente sprezzasse tutti gli altri
eloquenti, temeva solo Focione, il quale simplicemente, e con
brevità, parlava cose vere e pertinenti al fatto, onde soleva chia-
mare la «scure delle sue orazioni»22. I Romani per aventura
avevan conosciuto queste cose, i quali, secondo che dice Sveto-
nio, per publico editto cacciarono due volte i retori della città
di Roma: la prima essendo consoli Gaio Fannio Strabone e M.
Valerio Messala, l’altra di nuovo sotto Gneo Domizio Enobar-
bo e L. Licinio Crasso censori; la terza volta sotto Domiziano
imperatore per universale provisione del Senato li cacciarono

20
Cfr. CRIN., De hon. discip., XXII, 4. L’episodio è raccontato anche in CIC., De orat.,
II, 37, 155; AUL. GELL., Noct. att., VI, 14, 8-10; PLUT., Cat. mai., XXII, 1-7.
21
Cfr. ERASMO, Adagia, I, 3, 288. Si veda anche supra, p. 26 e nota 3.
22
Cfr. PLUT., Foc., V, 9-10.
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68 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

fuor di Roma e di tutta l’Italia23. Gli Ateniesi gli proibirno che


non andassero in giudicio come destruttori della giustizia, e fe-
cero tagliar la testa a Timagora perché fra gli uffici della salu-
tazione, secondo il costume di quella nazione, egli avea adula-
to il re Dario24. I Lacedemoni cacciarono Ctesifone, il quale
s’era vantato di potere tutto un dì intiero parlare di qual si vo-
glia cosa25. Perciocché presso di loro cosa non era più odiata
che’l diligente artificio di questa lingua in coloro che non dan-
no punto cura di dire il vero, ma proponendo un debile lavo-
ro, s’ingegnano di pulirlo con vaghezza d’orazione e con boria
di parole, e con la dolcezza del dire ingannare gli animi de gli
auditori e, legatigli con la lingua loro, menarli per l’orazione.
E cosa chiara è che nissuno mai diventò migliore con questo
artificio; assaissimi sì divenuti peggiori, i quali benché più or-
natamente potessero ragionar delle virtù, gli veggiamo però es-
ser molto più eleganti e di più felice eloquenza a difender gli
errori, a seminar le liti, a suscitar le parzialità, a dire villanie,
maledizzioni e calonnie che a conciliare la pace, la concordia e
la tranquillità, et a predicare la fede, la carità e la religione. La
onde assaissimi confidati in questo artificio si sono partiti dalla
fede catolica, e di qui ne sono nate le sette, gli scismi, le super-
stizioni e l’eresie, mentre che alcuni hanno di tal modo scher-
nito la Sacra Scrittura perché ella è senza eloquenza et orna-
mento ciceroniano, ch’alcuna volta con polite persuasioni
d’argomenti pagani hanno tenuto contra la catolica verità. La
qual cosa manifestamente si vide ne gli eretici Taciani26, et in
quegli che Libanio sofista e Simmaco oratore, difensori dell’i-

23
Cfr. SVET., De rhetor., I; De vita Caes., VIII, 10.
24
Cfr. VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., VI, 3, Ext. 2; Sull’accusa di tradimento ri-
volta a Timagora, membro di un’ambasceria ateniese inviata alla corte persiana a
Susa nel 367 a.C., si veda anche SENOF., Hell., VII, 1, 33; PLUT., Pelop., XXX, 5, e Ar-
tax., XXII, 5-12; ATEN., Deipn., II, 48d-e e VI, 251b, dove però il re adulato da Ti-
magora è Artaserse, non Dario.
25
Cfr. PLUT., Dem., XXIV, 2.
26
Possibile allusione ai seguaci di Taziano di Siria (ca. 120-ca.174), apologeta ed
esegeta greco cristiano discepolo di Giustino e fondatore dell’eresia encratita, au-
tore intorno al 170 di un’opera intitolata Diatessaron, che risulta essere una sorta
di armonizzazione siriaca dei quattro vangeli canonici. Di questo testo, che ebbe
larga fortuna fino ai secoli XIII e XIV, ne esiste una versione in greco e una in la-
tino risalenti all’inizio del III sec., oltre a una traduzione araba e a una versione
medievale olandese basata su una traduzione in latino volgare. Su Taziano, si ve-
da EUSEB., Hist. eccl., IV, 29; GEROL., De vir. ill., XXIX; IREN., Adv. haer., I, 28.
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6. DELLA RETORICA 69

dolatria, Celso Africano e Giuliano apostata subornarono, le-


vandosi contra Cristo con grandissimi colori retorici, onde gli
eretici tolsero dalla loro dannosa e piena di bestemmie elo-
quenza molti argomenti di persuasioni, i quali facendogli pe-
netrare nelle orecchie de gli uomini semplici, gli rimossero
tutti dalla parola della verità. Ma perché si fermiamo noi ne gli
essempi de gli eretici antichi? Risguardiamo un poco i nostri
tempi. Quali sono i capi delle eresie tedesche, le quali avendo
avuto principio da un Lutero solo27, oggidì son tanto moltipli-
cate che quasi ciascuna città ha la sua particolare eresia? Non
sono eglino auttori di quelle uomini eloquentissimi, armati
d’eloquenza di lingua e d’eleganza di stile, et i quali pochi an-
ni inanzi abbiamo veduto essere tanto lodati dalla scienza del-
le lingue, dall’ornamento del parlare e dalla prontezza di dire
e di scrivere, che nulla si sarebbe potuto aggiugnere alle lodi
loro? Oggi gli veggiamo capi e principi de gli eretici, e così in-
fin ad ora son molti i quali datisi alla eloquenza, mentre che
vogliono farsi ciceroniani, si fanno pagani, e quegli che più di-
ligentemente studiano Aristotele e Platone, quegli diventano
superstiziosi e questi impii28. Ma tutti quegli ch’oltra le sempli-
ci parole della verità, spargono oziosi ragionamenti nell’orec-
chie de gli uomini, si presenteranno in giudicio e renderanno
conto delle cose che vanamente han finto e mentito contra
Dio.

27
Il testo latino reca l’annotazione a margine: «Lutherani rhetoricae periti». Per
le posizioni di Agrippa nei confronti di Lutero relative agli anni della pubblica-
zione del De vanitate, si veda la lettera a Filippo Melantone del 17 Settembre 1532,
in AGRIP., Epist., VII, 13.
28
Cfr. ERASMO, Antib., p. 99.
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7.
DELLA LOICA

A queste altre giunge in soccorso la loica, et anco ella non è


altro che artificio di contenzioni e di tenebre per la quale tutte
l’altre scienze diventano più oscure e più difficili da imparare,
et ella ancora si chiama loica, cioè scienza di dire e di ragiona-
re. Misera veramente e priva di ragione sarebbe la generazione
umana se senza questa disciplina ragionare non sapesse. Non-
dimeno Servio Sulpizio la chiamò grandissima di tutte le arti e
quasi luce alle cose che sono insegnate da altrui, insegnando
ella, come dice Cicerone, a distribuire tutta la materia in parti
e, diffinendo, esplicare quel che è ascoso, interpretando, spia-
nare l’oscura, contemplare e distinguere la dubbiosa, et ella ci
dà regola per giudicare le cose vere e le false1. Oltra di ciò pro-
mettono i loici, come essi dicono, di potere ritrovare l’essen-
ziale di diffinizione di ciascuna cosa; nondimeno e’ non posso-
no darla giamai con alcune parole tanto chiara che l’animo
non ne resti sempre ignorante. Anzi, s’alcuno dirà a uno idiota
in cambio d’uomo: «animale razionale mortale», egli lo inten-
derà meno che se semplicemente avesse detto uomo. Molte di
queste cose Boezio ha scritto fra Latini, l’opere del quale non
si ritrovano. Ma vincono tutte l’altre quelle c’ha scritto Aristo-
tele, cioè i Predicamenti, gli Elenchi, i Luoghi topici, la Periherme-
nia, l’Analitica e l’altre, il quale seguitandolo i Peripatetici cre-
dono che alcuna cosa non possa stare, né sapersi, se non è sil-

1
Cfr. CIC., Brut., XLI, 152-153 e Academ., I, 8, 30.
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72 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

logizzando provata per demostrazione, cioè quella ch’Aristote-


le dipinge, ma non però l’osservò mai ne suoi trattati, essendo
tirati da lui tutti i suoi argomenti da i presuppositi, l’opinione
del quale essendo seguita da tutti questi professori di scienze,
infino a qui non ci hanno date alcune demostrazioni, o po-
chissime vere, neanco nelle cose naturali, ma tutte le derivano
da i precetti o dal suo Aristotele, [o] d’alcuno altro che inanzi
di lui n’ha parlato, l’auttorità de i quali si servano per principi
di demostrazione2. Nondimeno Aristotele dice che [è] la vera
demostrazione che dee fare la scienza, la quale si fa, come di-
cono i loici, per quiddità e per le proprie differenze delle cose
a noi ascose et incognite. Oltra di ciò dice che la demostrazio-
ne si fa delle cause, di quelle che sono da per sé e secondo lo-
ro stesse, le quali enunciazioni essendo convertibili et inseren-
dosi fra loro, dice nondimeno che non si trova demostrazione
circolare dalle cause3. Se dunque ora i principii della dimostra-
zione son molto mal conosciuti, et il circuito non s’admette,
veramente di ciò non si può avere scienza alcuna se non po-
chissima4 et incerta, perciocché bisognerà credere alle cose
mostrate per certi principii fragili, a i quali diamo fede o per la
precedente auttorità de savi come a termini conosciuti, overo
con esperienza gli apponiamo per gli sensi. Perciocché ogni
notizia, come essi dicono, ha principio da i sensi, e l’esperi-
mento dei veri ragionamenti, come dice Averroè, è che si
concordino con le cose sensate5. E quella cosa è più conosciu-
ta e più vera nella quale più sensi si accordano: dalle cose sen-
sibili adunque per opinione loro siamo guidati per mano a
tutte quelle cose che per noi si possono sapere. Ma poi che
tutti i sensi spesse volte sono fallaci, veramente a noi non pos-
sono provare alcuna esperienza. Oltra di ciò, [non] potendo i
sensi arrivare alla natura intellettuale, et essendo le cause del-
le cose inferiori (dalle quale le nature di quelle, gli effetti e le
proprietà, overo passioni, si devrebbono dimostrare) di con-
senso d’ogniuno del tutto incognite a i nostri sensi, non si co-

2
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 17.
3
Ibid.
4
Ibid.
5
Cfr. AVERR., Phys. (ed. Giunta), VIII, comm. XXII, 357 B-C.
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7. DELLA LOICA 73

nosce egli che la via della verità è chiusa a i sensi? Laonde an-
cora a tutte quelle deduzzioni e scienze, le quali fin dalle ra-
dici son fondate ne i sensi, tutte saranno incerte, erronee e
fallaci6. Quale è dunque ora la utilità della loica, e che frutto
si trae da quella savia demostrazione da i principii e da gli
esperimenti a i quali, a guisa di termini manifesti, sarà neces-
sario consentire? Non si sapranno eglino questi tali principii
più tosto esperimentati che provati? Ma io voglio ora ripetere
questa arte un poco più di lontano. I loici numerano dieci
predicamenti i quali essi domandano generi generalissimi.
Questi sono: sustanza, quantità, qualità, relazione, quando,
dove, sito, abito, azzione e passione, ne i quali credono che si
contenga ogni cosa e s’intenda ciò che si contiene nella ma-
china dell’universo mondo. Oltra di ciò mettono qui che si
predicano di questi e delle parti loro che son cinque, cioè ge-
nere, specie, differenza, proprio et accidente, i quali per que-
sto domandarono predicabili. Appresso ritrovarono quattro
cause di ciascuna cosa: naturale7, formale, efficiente e finale8,
nelle quali si credon potere ritrovare la verità e la falsità di
tutte le cose con una certa infallibile, come essi pensano, de-
mostrazione, cioè sillogismo, il quale bisognerà che sia sopra
diciannove modi di figure, come essi chiamano, con l’uno de
i tre modi. Costoro compagnano ogni sillogismo, o demostra-
zione, di tre termini, i quali sono: subietto del quesito, e que-
sto si chiama la minore; l’altro predicato del quesito, e si do-
manda la maggiore; il terzo è un mezzo che partecipa dell’u-
no e dell’altro. Appresso di questi formano due proposizioni
le quali chiamano ‘premisse’, la maggiore e la minore; da
queste finalmente nasce la conclusione, cioè trapassando da
un estremo all’altro, come dall’entrata al termine9. Questo è
tutto il mirabile artificio, tali sono gli estremi confini di quel-
lo co i quali si danno a credere di combinare, dividere e con-
cludere ogni cosa per certe conclusioni che gli pare impossi-

6
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, Prohem., p. 2r.
7
Il testo latino reca: «materialem», qui reso con «naturale». Siamo di fronte o a
una svista di traduzione o a una dilatazione semantica di termini come ‘materia’
e ‘materiale’ identificati con ‘natura’ e ‘naturale’.
8
Cfr. ARIST., Metaph., 983a.
9
Cfr. REUCHL., De arte cabal., I, B5r.
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74 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

bile potere rigittare10, e di questa maniera sono gli alti e mira-


colosi misterii dell’arte loica, con gran fatica ritrovati da mae-
stri fallaci, i quali non è lecito che ogniuno le insegni né impa-
ri sì come cose occulte e secrete se non a quegli che per averla
possono pagare di grandi salarii et i quali con grandissime spe-
se s’abbiano comprato questa auttorità fra gli scolari. Questi fi-
nalmente sono i loro cani e le loro reti, secondo che si credo-
no, co i quali prendono la verità di tutte le cose, o suggette al-
la natura, come le fisiche, o che accompagnano la nature, co-
me le matematiche, o che in un certo modo vincono la natura
istessa, come son le metafisiche, le quali però con quello artifi-
cio11, secondo il proverbio di P. Clodio e di Varrone, co’l tem-
po disputare si perdono12. E questi solamente sono i confini de
gli antichi loici.

10
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, Prohem., p. 2r.
11
Cfr. REUCHL., De arte cabal., I, B5r.
12
Cfr. PUBLILIO SIRIO, fr. N40 (ed. Meyer).
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8.
DELLA SOFISTICA

Ma molti più prodigi e maggiori miracoli di questi vi ha ag-


giunto la moderna scuola de sofisti, delle passioni de termini,
dell’infinito, de i comparativi, de superlativi, della differenza
d’uno, del principio e del fine, della formalità, delle ecceità1,
delle instanti, delle ampliazioni, delle restrizzioni, delle distri-
buzioni, delle intenzioni, delle supposizioni, delle appellazio-
ni, delle obligazioni, delle consequenti, delle indissolubili, del-
le esponibili, delle reduplicative, delle esclusive, de casi instan-
ti, delle particolarizazioni, de suppositi, de mediati et imme-
diati, de compiti e non compiti, de complessi e non complessi,
et altri intolerabili e vani vocaboli i quali son posti ne i piccioli
loicali, co i quali tutte le cose che veramente son false et im-
possibili facilmente convinceranno esser vere, e per il contra-
rio tutte le cose che son vere, come si uscissero del cavallo
troiano, per mezzo di queste machine subito romperanno con
l’incendio e con la ruina delle parole2. Appresso vi sono de gli
altri i quali non admettono se non tre predicamenti e due fi-
gure di sillogismi, e di quei solo provano otto modi, ridendosi
de i termini generati et astratti. E si trovano alcuni che v’ag-
giungono l’undecimo predicamento e la quarta figura de sillo-

1
Il termine haecceitas, largamente utilizzato dalla filosofia scolastica, indica una
differenza o proprietà che compete a questo determinato individuo e non a un
altro; vale a dire un’entità positiva che viene a costituire l’individuo nella sua
concreta individualità.
2
Cfr. VIVES, In pseudodial. (ed. Fantazzi), p. 49.
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76 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

gismi, et accrescono il numero de predicabili e delle cause, e


v’hanno introdotto tante invincibili e scotiche sottilità3 che le
arguzie di Cleante e di Crisippo, con le circonvenzioni di Dafi-
ta, d’Eutidemo e di Dionisiodoro4, sono per essere in tutte roz-
ze e contadinesche se saran poste al paragone di queste nove
invenzioni de nostri sofisti, nelle quali universalmente oggidì
quasi tutta la turba de gli studenti, con misero e dannoso stu-
dio occupata, altro non pare che curi se non come impari ad
errare, e con perpetue contese o far più oscura, o smarrire, la
verità5, tutta la disciplina de i quali altro non è che una certa
malizia che dalle corrotte parole de vocaboli, con fraudolenta
cavillazione6, ruina l’uso del parlare e fa violenza alla lingua
ch’ella non intende, trasmutando la verità secondo la verisimi-
le esposizione, la gloria de i quali non è posta in altro se non in
villanie e strepito, sì come quei che non desiderano tanto di
vincere quanto di combattere e l’intento loro non è di ritrova-
re il vero ma di contendere, di modo che è tenuto il primo fra
costoro colui che grida più forte, che è più sfacciato e maggio-
re strepito fa con la lingua. De i quali, dice il Petrarca, o che
questo proceda da sfacciatezza di stile, o dal confessare l’igno-
ranza, sono implacabili di lingua, non contendono con la pen-
na, né vogliono che si vegga quanto debili siano le cose di che
s’ornano7; e però, secondo l’usanza de Parti, combattono fug-
gendo, e proferendo parole di poco peso commettono quasi le
vele a i venti. Questi sono quegli che dice Quintiliano essere

3
L’allusione è ai complessi e sofisticati studi di logica dell’età scolastica che sfo-
ciano, grazie soprattutto all’opera di Duns Scoto (ca.1265-1308) nella scoperta
dell’undicesimo predicamento, cosiddetto ‘intentio’, di cui non vi è traccia in
Aristotele. Assume, infatti, Aristotele che ove si dia compresenza spazio-tempora-
le di un intelligibile e di un intelletto, si produca immediatamente l’intellezione.
Osserva Duns Scoto che ove non si dia una tensione orientata dell’intelletto al-
l’intelligibile, il processo conoscitivo non principia. Cionondimeno Aristotele pa-
re toccare una prospettiva analoga a quella dell’undicesimo predicamento in un
luogo degli Analytica posteriora (si veda supra, p. 31 e nota 25).
4
Sugli inganni di Dafita di Telmesso (III sec. a.C.), si veda VAL. MASS., Fact. et dict.
memorab., I, 8, Ext. 8; CIC., De fato, III, 5; per Eutidemo e Dionisidoro di Chio (V
sec. a.C.), si veda, per es., PLAT., Euthyd., 273a-d; VIVES, In pseudodial., p. 47; sulle
sottigliezze filosofiche di Crisippo di Soli (III sec. a.C.) e sulla complessità della
sua teoria logica, si veda ERASMO, Moriae enc., LIII e Antib., pp. 127, 131, 163, 211.
5
Cfr. ERASMO, Moriae enc., LI.
6
Cfr. VIVES, In pseudodial. (ed. Fantazzi), p. 45.
7
Cfr. PETR., Famil. rer. lib., I, 7, 2.
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8. DELLA SOFISTICA 77

mirabili nel disputare, ma quando si partono da quella cavilla-


zione non essere più sofficienti in alcuno atto più grave di quel
che sono alcuni piccioli animaletti i quali, mobili ne luoghi
stretti, vengono presi alla campagna, e però fuggono di venire
in campo libero8. Et è pur vero che i nascondimenti et i ripo-
stigli sono d’aiuto a chi è debole, acciocché chi non può corre-
re fugga co’l volgersi qua e là. Così temono i sofisti di combat-
tere sotto i notai e co i libri e gli auttori in mano, ma vogliono
contendere con le forze della memoria sola e co i fugitivi gridi
della lingua, non alle penne, ma all’orecchie, che facilmente si
scordano. E credono che non importi qual ragione usi ciascu-
no purché dia una istanza, e che non sia da curare, dica quel
che si voglia o creda, purché ragioni e valorosamente conten-
da, perciocché colui c’ha più parole è giudicato fra loro il più
dotto. Costoro con malie vanno intorno alle scuole, alle piazze
et alle tavole, cercano i concorrenti i quali sono da loro invita-
ti, pregati e sollecitati a disputare; e si vengono alle mani, e gli
stringono, ricorrono a i diverticoli, e cercano dove nasconder-
si, e si riparano alle cose usate, tante angustie facendo come se
gli bisognasse circondare il labirinto. Che se alcuno sarà che
non voglia, o gli aggravi il contendere con loro, lo assaltano
con alcuna domanda piena d’inganno, la quale facilmente
non si potrebbe ben conoscere, acciocché in tal modo o con-
vincano di fallo colui ch’alla improvisa risponde, o se dice di
non sapere lo facciano vergognare, e così essi nell’una e l’altra
parte paiano d’esser dotti. Ma veggiamo un poco che frutto
nella Chiesa di Cristo n’abbia partorito e partorisca la loica co’
suoi sofisti, i quali non rimanendo quieti alla dottrina divina, la
confondono con ragioni composte e derivate da sensi fallaci,
alle quali mentre che troppo credono, partendosi la luce della
verità, vengono su le tenebre, nelle quale rivolti et accecati, e
fatti maestri e scorte de ciechi9, con questi falsi argomenti e ve-
risimili ragioni, molti seco ne tirano alla fossa10; e sempre no-
tando nel profondo della ignoranza e nel pelago degli errori,
sdrucciolando a guisa de serpenti e con parole d’inganno e di
subornazione sotto entrando, sollevano i manco dotti a dar fe-

8
Cfr. QUINT., Instit. orat., XII, 2, 14.
9
Cfr. RM 2:12.
10
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 8.
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78 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

de alle loro finzioni, et innalzando quelle, ardiscono dire che


la sacra teologia non può stare senza loica, senza dialettica,
senza rissa, senza contesa e senza sofismi. Io non dico che la
loica non giovi allo essercitare de gli studi, ma io non so già ve-
dere quel che ella conferisca alla teologica contemplazione, di
cui la maggior loica è posta nell’orazione. Perciocché Cristo
invano non ci promise dicendo: «Domandate e riceverete»11.
Così, dunque, prima che i contenziosi studenti la sua loica ap-
parino, questi fedeli di Cristo da lui che è maestro della verità
ottengono ogni necessaria verità. Oltra di questo la loica per
varie ciance non può finalmente arrivare più alto che alla filo-
sofia, ma co’l mezzo della orazione fedele, per dritta, certissi-
ma strada s’ascende alla somma sapienza delle cose divine e
dell’umane ancora. S’ingannano dunque tutti coloro che dico-
no la loica essere la più gagliarda machina dell’altre a ruinare
gli eretici, essendo ella in effetto tutta la fortezza de gli eretici
istessi. In questa arte, confidatisi già Arrio e Nestorio eretici,
così sfacciatamente impazzarono che l’uno affermava diverse
sostanze nella Trinità a secondo i gradi et i tempi, l’altro dice-
va che Maria Vergine non era madre di Cristo, e questo perché
avevano avuto ardire di misurare le operazioni divine co i sofi-
smi loici osservando più i dialettici argomenti d’Aristotele che
considerando le parole della Scrittura di Dio. Perciocché, co-
me dice Girolamo, tutte le dottrine de gli eretici s’hanno tro-
vato fede e riposo fra gli spineti d’Aristotele e di Crisippo12. Per
questo Eunomio dice: «Quel ch’è nato, non fu inanzi che na-
scesse»13. Di qui Manicheo, per liberare Iddio dalla condizione
de i mali, lo fa auttore del male14. Perciò Novato leva il perdo-

11
7:7; GV 16:24.
MT
12
Cfr. GEROL., Comm. in Naum proph., LXX. Anche le successive affermazioni su
Eunomio, Manicheo e Novato, sembrerebbero prese letteralmente da questo pas-
so di san Gerolamo.
13
Cfr. EUNOMIO, Liber apol., XII, 10-11. Eunomio di Cizico (IV sec.) è il principale
rappresentante dell’arianesimo. Il concetto su cui si fonda la sua dottrina è l’af-
fermazione dell’ajgennhsiva, cioè dell’essere ingenerato, come qualità significativa
dell’essere divino di Dio Padre, per cui il Figlio, in quanto da lui generato (= crea-
to) non può partecipare della sua natura e ne possiede gli attributi divini a livello
nettamente inferiore. Tale affermazione risultava non essere in accordo con le
Sacre Scritture e dunque eretica.
14
Mani (nelle fonti greche e latine Mavnh", Manes, o Manicaio", Manichaeus), è il
fondatore nel III sec. delle dottrine gnostiche secondo le quali all’origine del ma-
le sarebbe Dio. Dalla Mesopotamia il manicheismo si diffuse ben presto anche in
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8. DELLA SOFISTICA 79

no per tor via la penitenza15. Da quelle fonti tutte le dottrine


de gli eretici derivano i rigagnuoli delle loro argomentazioni,
perché non essendo parlare alcuno che non abbia contraddiz-
zione, né argomento alcuno che per un altro non si possa
mandare a terra, di qui viene che gli uomini per mezzo delle
dispute loicali non possono aggiungere ad alcun fine della
scienza, né a veruna cognizione della verità. Ma interviene an-
co che molti dalla verità declinano nelle eresie, mentre che
con gli argomenti loicali si credono aver ritrovato una sem-
bianza di più gagliarda verità, o in tal maniera reprovano gli
eretici, ch’essi però non dicono cose punto migliori. Perché
Platone volse che la loica fosse tocca molto tardi da i guardia-
ni, perciocch’ella disputa all’una parte e l’altra e rende ragioni
poco ferme dell’onesto e disonesto16. E questo basti aver detto
della loica.

Egitto, in Occidente e nell’Asia centrale, dove sopravvisse per quasi un millennio.


Nel 297 fu colpito dall’imperatore Diocleziano con un editto di proscrizione (si
veda infra, p. 446, e nota 16).
15
Novato è il presbitero cartaginese che nel 250 prese parte alla controversia dei
lapsi, o ‘caduti’ (ossia coloro che avevano peccato di apostasia e chiedevano di es-
sere riammessi nella comunità ortodossa), contro il vescovo Cecilio Cipriano (ca.
205-258), fino a provocare uno scisma. La posizione di Novato era quella di con-
cedere il perdono a tutti i lapsi, riammettendoli così alla comunione. Sulla con-
troversia dei lapsi, si veda CIPR., Epist. 43; 55.
16
Cfr, per es.,. PLAT., Rep., 538a-540e.
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9.
DELL’ARTE DI LULLIO

Trovò Raimondo Lullio ne più moderni tempi una arte pro-


digiosa, poco differente dalla loica, per la quale, come già si
vantò Gorgia Leontino (il quale primo in gran numero d’uo-
mini litterati ebbe ardire di volere disputare d’ogni cosa)1,
ogniuno copiosamente potrà ragionare di qual si voglia sug-
getto, e con una certa artificiosa perturbazione di nomi e di
verbi ritrovare. Et all’una e l’altra parte con questo più ch’ele-
gante artificio, con ostinazione piena di ciance disputare d’o-
gni curioso ragionamento, né lasciare altrui loco alcuno di vin-
cere et ampliare in infinito tutte le cose minutissime e picciole.
Ma non bisogna ragionare molto di queste cose, che su questa
arte già v’abbiam fatto assai grandi comenti2, ma io non voglio
però ch’essi ingannino alcuno in artificio sì leggiero, che se
ben quivi è paruto che l’abbiam voluto inalzare, nondimeno la
cosa per se medesima si fa chiara, sì che non bisogna che mol-
to vi si disputi intorno. Ma di questo vi voglio ben fare avisati:
che questa arte vale più alla pompa dell’ingegno e demostra-
zione di dottrina che ad acquistar scienza, e ha più ardimento
che possanza. Oltra di ciò ella è tutta rozza e barbara se non
viene ornata da alcuna più limata eloquenza.

1
Cfr. CIC., De fin., II, 1, 1; PLAT., Gorg., 447d-448a.
2
Il testo latino reca l’annotazione a margine: «Agrippae commentaria in artem
brevem Lullii». Si tratta dell’opera intitolata In artem brevem Raymundi Lullii com-
mentaria scritta intorno al 1517 e pubblicata per la prima volta a Colonia nel 1531.
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10.
DELL’ARTE DELLA MEMORIA

Tra queste arti vien numerata ancora la memorativa la qua-


le, come dice Cicerone, altro non è che una certa induzzione e
ragione di precetti, posta in luoghi et immagini sì come in una
carta, trovata già in caratteri da Simonide Mellitone, da poi per
Metrodoro Scepzio ridotta a perfezzione1. Nondimeno essa,
quale si sia, non può stare da sé senza memoria naturale, la
quale spesse volte è retta con mostruose imagini, e talora indu-
ce smania e frenesia in cambio di tenacità di memoria: cioè
mentre che aggravando la natural memoria con imagini d’infi-
nite cose e parole, fa diventare pazzi con arte quei che non
stanno contenti a i termini della natura. Questa è quella arte
ch’essendo già offerta a Temistocle da Simonide, o da chi si
fosse, egli rispose: «Io vorrei più tosto scordarmi, perciocché di
molte cose mi ricordo che non vorrei, ma non posso scordarmi
quello ch’io vorrei»2. E Quintiliano, parlando di Metrodoro,
disse: «Veramente la sua fu vanità e boria, gloriandosi egli cir-
ca la sua memoria più dell’arte che della natura»3. Di questa
scrisse Cicerone nella Retorica nuova4, Quintiliano nelle Institu-

1
Cfr. CIC., De orat., II, 86, 353; Per Simonide di Ceo (556-468 a.C.) e Metrodoro di
Scepsi (ca.170 a.C.), si veda CIC., De orat., II, 86, 351 e QUINT., Instit. orat., X, 6, 4;
XI, 2, 11; 22; 26.
2
Cfr. CIC., De fin., II, 32, 104-105, ma si veda anche PETR., De rem. utr. fort., I, 8, 16.
3
QUINT., Instit. orat., XI, 2, 22.
4
Uno scritto con questo titolo non compare fra le opere di Cicerone. Agrippa al-
lude qui probabilmente alla cosiddetta Rhetorica ad Herennium (XVI, 28-30), ope-
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84 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

zioni, Seneca5, e de moderni Francesco Petrarca, Matteuolo Ve-


ronese, Pietro da Ravenna, Ermanno Buschio6 et altri, ma in-
degni di far numero, uomini poco conosciuti; e molti oggidì
ne fanno professione, ma non si ritrova chi v’abbia fatto gran
frutto, et i maestri di quella in cambio di guadagno spesso ne
riportano infamia. Perciocché alcuni gaglioffi ne gli studi spes-
se volte sogliono con la professione di questa arte truffare gli
scolari e, con la novità della cosa, cavar dinari da gli uomini po-
co accorti. Finalmente è gloria fanciullesca ostentare memoria
et è cosa vergognosa e da persona sfacciata mettere inanzi la
porta la lezzione d’infinite cose, a guisa che i mercatanti fanno
le merci loro essendo intanto la casa vuota.

ra di retorica in 4 libri attribuita per tutto il Medioevo e il Rinascimento a Cice-


rone, ma in tempi più recenti assegnata a un Cornificius citato da Quintiliano
(Instit. orat., III, 1, 21; V, 10, 2; IX, 2, 27; IX, 3, 71, 89, 91, 98).
5
Si tratta di Lucio Anneo Seneca, detto il Retore o il Vecchio, padre del più cele-
bre Seneca, filosofo e scrittore latino.
6
Pietro Tommai da Ravenna (ca.1448-ca.1508), umanista celebre per le sue teo-
rie sull’arte della memoria, autore della Phoenix sive ad artificialem memoriam com-
paranda introductio (1491); Hermann von dem Busche (ca.1468-1534), o Her-
mannus Buschius, professore di retorica e poesia a Wittenberg, Lipsia, Colonia e
Marburgo, autore di uno scritto in difesa dell’Umanesimo intitolato Vallum hu-
manitatis. Seguace del luteranesimo, alle cui dottrine aderì nel 1521 durante la
Dieta di Worms, difese Johannes Reuchlin dall’accusa di eresia e intrattenne rap-
porti di amicizia con Erasmo da Rotterdam.
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11.
DELLA MATEMATICA IN GENERE

Ma egli è tempo oggimai che parliamo delle discipline ma-


tematiche, le quali molto più dell’altre sono stimate certissime,
e nondimeno tutte non stanno in altro che nelle opinioni de
suoi dottori, a i quali si dà gran fede, i quali in esse hanno an-
co molto errato, di che ne fa testimonio Albubatar1, uno di
quegli, dicendo che gli antichi fin dopo il tempo d’Aristotele
non seppero matematica2. E perché queste arti per lo più si
stanno d’intorno la sferica, o rotonda, la figura, numero, o mo-
to, sono finalmente costretti a confessare che in alcun loco
perfettamente non si ritrova il rotondo o sferico, neanco se-
condo l’arte3. E benché queste discipline poche o nessuna ere-
sia abbino dato nella Chiesa, nondimeno, come dice Agostino,
niente appartengono alla salute dell’anima, ma più tosto met-
tono in errore e rimovono da Dio4 e, secondo Girolamo, elle
non sono scienze di pietà5.

1
Abu– Bakr al-H.asan ibn al-Ìas.¥b (ca. IX sec.), noto con il nome latinizzato di Al-
bubater, astronomo arabo di origine persiana la cui opera principale fu tradotta
in latino con il titolo di Liber de nativitatibus.
2
Cfr. REUCHL., De arte cabal., I, B4v.
3
Il testo latino aggiunge: «neque secundum naturam», qui mancante.
4
Cfr. AGOST., De ord., II, 16, 44; Conf., V, 3. Per un giudizio di Agostino sulle scien-
ze in generale, in cui egli distrugge gli argomenti razionali e la loro pretesa di
certezza, si veda Solil., II, 20.
5
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De studio div. et hum. phil., I, 6; GEROL., Comm. in epist. ad
Titum, Prologus.
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12.
DELLA ARITMETICA

Fra queste la prima è l’aritmetica, cioè la disciplina de nu-


meri, la quale è all’altre a guisa di madre, non meno supersti-
ziosa che vana, e per la vile prattica di numerare non istimata
se non da mercatanti per conto dell’avarizia. Perché ella tratta
dei numeri, delle divisioni loro, quale è pare, quale dispare,
quale parimente pare, quale parimente impare, quale dise-
gualmente pare, quale superfluo, quale diminuito, quale per-
fetto, quale composto, quale incomposto, quale per sé, quale
ad altro. Della proposizione ancora e della proporzionalità e
delle specie di quelle, de i numeri armonici e geometrici, delle
varie passioni de minuzie de i numeri e del modo di contare1.

1
Appare chiaro come l’aritmetica dell’epoca sia ancora fondamentalmente tri-
butaria della tradizione pitagorica, per la quale quantità e qualità sono inscindi-
bilmente connesse. Per allontanarsi da questa visione bisognerà aspettare la rivo-
luzione cartesiana.
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13.
DELLA GEOMANZIA

Ne ha finalmente l’aritmetica partorito la divinazione di


geomanzia1, le tessere prenestine2, i tali et i dadi e tutto ciò che
vi è di indovinamenti numerali, benché quasi ogniuno attri-
buisca la geomanzia alla astrologia per la ragione simile di giu-
dicare, et anco perché cavano le forze di quella non tanto dal
numero, quanto dal moto, secondo quel detto d’Aristotele nel
primo della Meteora: «Il moto del cielo è perpetuo, et è princi-
pio e causa di tutti i moti inferiori»3. Di questa fra gli antichi
scrisse Hali; de moderni Gherardo cremonese, Bartolomeo da
Parma et un certo Tondino4. Scrissi anch’io una certa Geo-

1
La geomanzia, metodo divinatorio d’origine araba, si fondava sull’interpretazio-
ne in rapporto alle stelle di alcuni punti tracciati sulla sabbia dall’interrogante. Il
metodo ebbe una grande fortuna nel Medioevo.
2
Le tessere prenestine erano in uso presso l’antica Roma per le divinazioni poi-
ché si diceva che esse contenevano il fato dei Romani. Cfr. CRIN., De hon. discip.,
XXII, 3; AGRIP., De occ. phil., II, 53, p. 380.
3
ARIST., Meteor., 339a.
4
Abu– ‘Al¥ Ya‘qb ibn al-Kayar (IX sec.), conosciuto con il nome latino di Alboha-
li, noto per le sue pratiche di geomanzia astrologica, autore di un trattato di
astrologia genetliaca che ebbe molte traduzioni latine con il titolo di De nativita-
tibus; Gerardo da Cremona (1114-1187), uno dei traduttori in latino più prolifi-
ci di testi arabi filosofici, astrologici, medici e alchemici, tra i quali l’Almagesto di
Tolomeo, il Liber canonis di Avicenna, il Liber de aluminibus et salibus attribuito al
medico arabo al-RÇz¥ (si veda infra, nota 28, p. 416), il Lumen luminum o De per-
fecto magisterio, il primo libro dei De septuaginta attribuiti a JaÇbir ibn HayyÇn o Ge-
ber (si veda infra, nota 15, p. 446); Bartolomeo da Parma (XIII sec.) è autore di
tre trattati di geomanzia: la Summa (1288) dedicata all’imperatore Massimiliano
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90 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

manzia molto differente dall’altre, ma non meno superstizio-


sa, fallace e, se volete ch’io il dica, bugiarda ancora5.

II, e il Breviloquium (1294) e i Verba collecta (1295), due compendi della Summa;
Tondino potrebbe identificarsi con ¥um†um al-Hind¤, personaggio più o meno
leggendario cui la tradizione araba attribuisce un gran numero di opuscoli sulle
pratiche divinatorie e magiche, in particolare sulla chiromanzia, sulla spatuloman-
zia e sulle convulsioni (si veda a riguardo T. Charmasson, Recherches sur une technique
divinatorie: la géomancie dans l’Occident médiéval, Dror Campion, Genève-Paris,
1980, p. 15).
5
Possibile allusione al trattato intitolato In geomanticam disciplinam lectura la cui
datazione è incerta.
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14.
DELL’ARTE DE DADI

L’arte de dadi anch’ella è tutta divinatoria, della quale quan-


to più uno ne sarà studioso, tanto sarà più ribaldo e più infeli-
ce, mentre che desiderando l’altrui, getta il suo e non ha ri-
spetto alcuno al patrimonio. Questa arte è madre delle bugie,
de i pergiuri, de i ladronecci, delle liti, delle ingiurie e de gli
omicidii, veramente invenzione de i diavoli dell’inferno, la
qual dopo ruinato il regno d’Asia1, fra le spoglie della città de-
strutta, sotto varia sorte passò a i Greci. Di qui ne vengono le
tessere, i calcoli, senio, monarco, tricolo, orbicoli, taliorco, la
volpe; oltra di questo l’ottocedro e’l duodecacedro, ne i quali
credono alcuni che vi sia certo modo d’indovinare2. Vi sono di
quei che dicono che Attalo Asiatico ritrovò questa arte e che se
l’imaginò con l’artificio del numerare. Ma de Romani dicesi
che Claudio imperatore ne compose un libro3, della quale arte
et egli et inanzi lui Augusto imperatore4, n’erano stati e studio-
sissimi e molto desiderosi. Arte ch’è tutta infame e vietata dal-
le leggi di tutte le nazioni e, che più, Cobilone Lacedemonio,
sendo mandato ambasciatore a Corinto per far lega, ritrovan-
do i principali e più vecchi de Corinzii che giocavano a dadi, se
ne partì senza fare altro dicendo che non volea macchiare la

1
Sull’origine del gioco dei dadi presso i Lidi, in Asia, si veda EROD., Hist., I, 94.
2
Cfr. AGRIP., De occ. phil., II, 53, p. 380.
3
Cfr. SVET., De vita Caes., V, 33.
4
Ivi, II, 71.
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92 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

gloria de Spartani con quest’infamia che fossero detti d’aver


fatto lega con giocatori. Et ella fu tenuta in tanto vituperio ap-
presso tutti gli uomini grandi che’l re de Parti mandò al re De-
metrio dadi d’oro per rinfacciarli la sua leggierezza5, e nondi-
meno oggidì questo è gioco essercitatissimo di tutti i re et uo-
mini nobili. Ma che dico io gioco? Anzi sapienza di coloro che
in questo essercizio sono più dannosamente ammaestrati ad
ingannare.

5
Cfr. GIUST., Epit., XXXVIII, 9.
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15.
DELLA SORTE DI PITAGORA

Io non voglio passare con silenzio quel che dicevano i Pita-


gorici, e secondo l’opinione d’alcuni fu creduto anco d’Aristo-
tele, che i caratteri delle lettere hanno certi suoi numeri, da i
quali s’indovinava per i nomi proprii de gli uomini, avendo
raccolti i numeri nella somma di ciascuna lettera le quali, es-
sendo poste insieme, davano la vittoria a colui la somma del
quale avea avanzato l’altra secondo che s’era mosso il dubbio o
di guerra, o di lite, o di matrimonio, o di vita, o d’altra simil co-
sa1. Et in questo modo dicono che Patroclo fu vinto da Ettore,
et egli da Achille, la qual cosa Terenziano pose in questi versi:

Et i nomi dicon fatti nelle lettere,


che questi siano in numero maggiore,
e gli altri si ritrovino assai meno.
E quando sien de la guerra al periglio,
la vittoria sarà col maggior numero,
e la morte dove è la minor somma.
Ettor con Patroclo avere ucciso,
e lui per man d’Achille esser poi morto2.

Vi sono anco di quegli che con simil conto promettono di


ritrovare gli oroscopi, come di loro disse un certo Alessandri-

1
Cfr. PITAG., Spera, f. 175. Si veda anche AGRIP., De occ. phil., II, 3, pp. 254-255 e II,
20, p. 306 in cui si precisa che questa specie di arte divinatoria è chiamata ‘arit-
manzia’ (si veda infra, p. 207 e nota 12).
2
TERENZIANO, De litt. syll. (ed. Keil), 267-273.
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94 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

no3, filosofo di poca fama, il quale dicono che fu discepolo


d’Aristotele. E Plinio dice che questo si dice anco essere stato
invenzione di Pitagora: il numero dispare delle vocali ne nomi
propri significare accecazione d’occhi, zoppicare di piedi, et
altri simili casi4.

3
Cfr. ALCHAND., De verit. et praed. (ed. Roussat), a4r. Il testo latino reca: «Alchan-
drius»: probabile allusione all’astronomo Alhandreus o Alcandrus, autore di
un’opera di matematica di cui esiste una versione in latino in un manoscritto del
X sec. Un Alchadrinus o Archandrinus è menzionato da Michele Scoto nel suo
Liber introductorius e da Pietro d’Abano nel Lucidator astronomiae quale successore
di Ermete Trismegisto.
4
Cfr. PLIN., Nat. hist., XXVIII, 4, 33. La citazione di Plinio, così come quelle pre-
cedenti di Terenziano e di Alcandrino, ricorrono anche in AGRIP., De occ. phil., II,
20, p. 306.
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16.
DELLA ARITMETICA UN’ALTRA VOLTA

Ma ritorniamo di nuovo alla aritmetica. Platone dice che el-


la fu prima mostrata dal demonio cattivo insieme col gioco de
tali e de dadi1. E Licurgo, quel grande uomo che diede le leggi
a Lacedemoni, volse che come cosa travagliosa ella fosse cac-
ciata della republica2. Perciocché ella richiede una fatica vana
e senza pensieri, e leva gli uomini dalle utili et oneste imprese,
e spesso con grandissime villanie contende di cose di nessun
valore. Di qui ne viene quella ostinata guerra de gli aritmetici:
qual numero si debba porre inanzi, o il pare o il dispare; qual
numero sia più perfetto, il tre, il sei o il dieci. E qual numero si
dice egualmente pare, circa la diffinizione del quale vogliono
che Euclide, principe della geometria, fosse in grande errore3.
Oltra di questo, difficilmente potrei dire quai misterii pitagori-
ci e quali forze magiche si sognano che siano ne’ numeri, an-
cora che nudi siano delle cose, et hanno ardimento di dire che
Dio non avrebbe potuto creare il mondo se non con quegli in-
stromenti e modelli, e che la cognizione di tutte le cose divine

1
Cfr. PLAT., Phaedr., 274d.
2
Cfr. PLUT., Lycurg., IX, 3 e XXIV, 4.
3
Cfr. EUCL., Elem., VII, 6, definit. La definizione di pari data da Euclide non parve
convincente perché non risolveva il problema della commensurabilità tra gran-
dezze di estensione misurabile con un numero pari, ma irriducibili per configu-
razione l’una nell’altra, come per esempio un quadrato e un cerchio, la cui area
sia misurabile in 4 metri. Nella tradizione geometrica questa difficoltà è nota co-
me problema della quadratura del cerchio.
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96 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

si contiene ne numeri sì come in regola molto più certa di tut-


te l’altre. Di qui son nate l’eresie di Marco Mago e di Valentino
fondate ne numeri e derivate da numeri, i quali per mezzo
d’alcuni numeri freddissimi si presumevano di potere ritrova-
re e dichiarare la religione divina e gli innumerabili secreti
della divina verità4. Appresso di queste va la pitagorica tetracti5
posta tra i sacramenti, e molte altre cose simili a queste, le qua-
li tutte son vane, false e finte. Né rimane altro di vero a gli arit-
metici se non un numero insensato e senza anima, e nondime-
no perciò si credono d’esser posti fra gli uomini divini perché
sanno numerare, ma ciò difficilmente gli concedono i musici,
dando più volentieri questo onore alla sua armonia.

4
Una componente della dottrina della setta gnostica che fa capo a Valentino (II
sec.) riguarda la simbologia numerica, particolarmente sviluppata dal suo disce-
polo Marco il Mago, attivo nella seconda metà del II sec. nella regione di Lione,
fino a elaborare una vera e propria cabala di simboli numerici. Per Marco il Ma-
go, si veda IREN., Adv. haer., I, 13-21 e II, 11-22; TERTUL., De praes. haer., L. Per Va-
lentino, si veda TERTUL., Adv. Valentin., IV; IREN., Adv. haer., III, 4, 3 e III, 15, 2;
EPIF., Haer, XXXI, 7-12.
5
L’allusione è ancora alla dottrina valentiniana per cui la tetractys sarebbe la fon-
te della natura eterna (si veda IPPOL., Refut., VI, 34). Si tratta di un evidente rie-
cheggiamento pitagorico dal momento che tetractys era il termine adoperato da
quella scuola per indicare la somma dei primi quattro numeri (1+2+3+4=10), rap-
presentabile con un triangolo rettangolo che ha il 4 per cateto. Si veda a questo
riguardo PITAGORA, fr. 455 (ed. Diels-Kranz); GIAMB., Vita Pyth., XX; REUCHL., De
verbo mirif., II, E3v-E4r e De arte cabal., II, F4v; F5v-F6r; H3r; GIORGIO, De harm. mun-
di, I, 4, 1.
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17.
DELLA MUSICA

Il nostro ragionamento sarà dunque della musica, della qua-


le fra Greci copiosamente scrisse Aristoseno, il quale disse che
l’anima è musica1; Boezio dapoi scrisse i suoi documenti a La-
tini; parlo di quella che consiste nell’armonia delle voci e de i
suoni, non quella che chiamano di versi, di rime e di finzioni
di versi, ch’è poesia, la quale come dice Alfarabio, è portata
non tanto da speculazione o ragione, quanto da furore di paz-
zia (della quale abbiamo parlato di sopra), ma intendo quella
delle modulazioni, la quale è concento di nervi o di voci con-
sonanti ne suoi modi, senza offesa dell’orecchie, perch’ella
tratta de suoni, de gli intervalli, del genere di sistemate, del to-
no, delle mutazioni e delle modulazioni. Gli antichi la divise-
ro in enarmonica, cromatica, diatonica, ma lasciarono la pri-
ma, cioè la enarmonica, per la sua troppo ascosa difficultà, pa-
rendo loro impossibile di poterla intendere, l’altra rifiutarono
per essere disonesta et infame, e solo admisero la terza specie
credendola molto conforme alla composizione del mondo2.
Vi sono de gli antichi ancora, i quali distinsero i modi musici
secondo i vocaboli delle nazioni, come in frigio, lidio, dorio3,
i quali, come dice Polimestre e Saccada Archivo, furono anti-

1
Cfr. CIC., Tusc. disp., I, 10, 19 e I, 11, 24. Aristosseno di Taranto (IV sec. a.C.), di-
scepolo di Aristotele, è autore di un’opera in 3 libri intitolata nella sua versione
latina Elementa harmonica, in cui è trattato il tema dell’analogia tra anima e musi-
ca. Simili concezioni si ritrovano in PLAT., Phaed., 85e-86d; Leg., 819b sgg.
2
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 22; PLUT., Mor., 1143e. La fonte di Plutarco è ARISTOSS.,
Elem. harm., I, 2. Sull’argomento, si veda anche PROCLO, In Tym. comm. (ed. Diehl),
III, 192A; MACROB., Comm. in somn. Scip., II, 4, 13; GIORGIO, De harm. mundi, I, 5, 16.
3
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 22.
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98 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

chissimi4, a i quali Saffo Lesbia, secondo che dice Aristosseno,


vi aggiunse il quarto, cioè il mixolidio5. Ma alcuni son che cre-
dono esserne stato inventore Terpandro, altri Pitoclide trom-
betta6. Lisia disse che Lamprocle ateniese ne fu l’auttore e così
l’auttorità de gli antichi celebrò per famosi questi quattro mo-
di7. E tutto questo chiamarono astruzzione enciclopedia, quasi
circolo delle scienze, perché la musica abbraccia tutte le disci-
pline, come dice Platone nel primo delle Leggi, non si potere
trattare la musica senza la universale disciplina8. Ma di questi
quattro modi non approvano il frigio, perché aliena e tira a sé
l’animo9; ma Porfirio lo chiama barbarico, perché egli è solo
accommodato a eccitare battaglie e furore10. Alcuni lo doman-
dano bacchico come furibundo, impetuoso e turbato, con l’ar-
monia del quale, che essi dichiarano co’l piede anapesto, leg-
gesi che i Lacedemoni et i Cretensi furono concitati alle ar-
me11. Timoteo con questo medesimo incitò il re Alessandro a
prendere l’armi, et un giovane taurominitano, secondo che di-
ce Boezio, svegliato da questo suono frigio, corse ad abbrugia-
re la casa dove era ascosa una meretrice12. Platone biasma anco
il lidio come acuto e lontano dalla modestia del dorio, accom-

4
Cfr. PLUT., Mor., 1134a-1136d. Si tratta dei due musici antichi Polimneste di Co-
lofone (VII sec. a.C.) e Sacada di Argo (VI sec. a.C.).
5
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 22; PLUT., Mor., 1136c-d. Per Aristosseno, si veda fr. 81
(ed. Wehrli) e test. 106 (ed. Da Rios).
6
Cfr. PLUT., Mor., 1132c-1133d; BOEZIO, De musica, I, 1; GIORGIO, De harm. mundi,
Prohem., p. 4r; III, 1, 12. Per Terpandro di Antissa (VII sec. a.C.) inventore dei
modi musicali, si veda THIMOTH., Persae, 234; PROCLO, Chrest., 45; fr. 2 (ed. Muller),
II, p. 23; PLIN., Nat. hist., VII, 56, 204; per Pitocle di Ceo, maestro di musica, si ve-
da PLAT., Alcib. I, 118c; PLUT., Pericl., IV, 1.
7
Cfr. PLUT., Mor., 1136d. Lisia non è il famoso oratore attico del V-IV sec. a.C., ma
uno dei tre interlocutori del dialogo di Plutarco. In realtà è Soterico, un altro de-
gli interlocutori, a riferire che «alcuni scrittori di armonica» attribuiscono a Ter-
pandro l’invenzione dei quattro modi musicali.
8
Cfr. PLAT., Leg., 642a. Il concetto viene poi sviluppato in 654a sgg. Per il valore
etico-pedagogico dei vari modi musicali in Platone, si veda anche Rep., 400a sgg.
9
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 22; ATEN., Deipn., XIV, 624c (si veda ERACLIDE PONTICO,
fr. 163, ed. Wehrli).
10
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 22.
11
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., I, 15; PLUT., Mor., 1140c; AUL. GELL., Noct. att., I,
11, 5-6. La tradizione che vuole i Cretesi e gli Spartani incitati dalla musica al
combattimento risale a EROD., Hist., I, 17 e TUCID., Hist., V, 70.
12
Cfr. BOEZIO, De musica, I, 1. L’episodio di Timoteo di Mileto (V-IV sec. a.C.), che
incita Alessandro Magno a suon di musica è riportato anche in DIO CRISOST., Orat.,
I, 1-2; GIORGIO, De harm. mundi, Prohem., 4r; RODIG., Lect. antiq., V, 27; AGRIP., De
occ. phil., II, 24, p. 323 e III, 46, p. 547.
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17. DELLA MUSICA 99

modato a lamentazioni13. Nondimeno, come vogliono alcuni,


egli è ancora atto a coloro che da natura sono allegri e giocon-
di. Per questo dicono che i Lidii, popoli allegri e molto piace-
voli, si dilettarono di queste musiche14, le quali i Toscani, anco-
ra discesi da i Lidii, solevano fare nelle danze e ne i balli. Ma il
dorio come più grave e più onesto, et in tutti i modi modesto15,
accomodato a tutti i più gravi affetti dell’animo e movimenti
del corpo, et utile a bene e drittamente vivere, fu messo inanzi
a tutti gli altri e perciò fu in gran reverenza tenuto da Cretensi,
Lacedemoni et Arcadi16. E’l re Agamennone, essendo per an-
dare alla guerra troiana, lasciò a casa un musico dorico, il qua-
le co’l piede spondeo conservasse in pudicizia et in castità sua
moglie Clitemnestra, laonde ella non fu viziata da Egisto se pri-
ma con inganno crudelmente egli non amazzò il musico17. Ap-
presso dicono che’l mixolidio, accomodato a tragedie e cose
meste, ha forza d’incitare e di rimovere, e tiene l’imperio della
maninconia18. A questi quattro modi sono alcuni che ve n’han-
no aggiunto de gli altri, come quegli che chiamano collaterali,
cioè ippodorio, ippolidio et ippofrigio, acciocché rispondano
ad altrettanti sette pianeti, a i quali Tolemeo vi accresce l’otta-
vo ipermixolidio, acutissimo più di tutti gli altri, attribuito al
firmamento19. Ma Lucio Apuleio nel primo de Floridi ne scrive
cinque modi: eolio, iastio vario, lidio lamentevole, frigio belli-
coso e dorio religioso20. A questi aggiungono alcuni il ionico al-
legro e florido21. Marziano ancora, secondo la dottrina d’Ari-
stosseno, numera cinque modi principali e deci collimizii22. E
benché confessino che questa arte ha di molta soavità, nondi-
meno egli è comune opinione, et anco ogniuno se’l vede per

13
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 22; PLAT., Rep., 398e-399a.
14
Cfr. MARZ. CAP., De nupt. Merc. et Phil., IX, 927-929. La fonte di Capella è VARR., De
re rust., III, 17.
15
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 22.
16
Cfr. ATEN., Deipn., XIV, 626a-626e. La fonte utilizzata da Ateneo è POLIB., Hist.,
IV, 20, 5-21.
17
Cfr. OMERO, Odyss., III, 267-272; SEST. EMP., Adv. math., VI, 11, 12.
18
Cfr. PLUT., Mor., 1136c. Sull’accordo tra i quattro generi di musica e i quattro
umori e tra quelli e i pianeti, si veda AGRIP., De occ. phil., II, 26, pp. 325-328.
19
Cfr. BOEZIO, De musica, I, 1; ATEN., Deipn., XIV, 625b-e; CENSORINO, Fragm. (ed.
Frick), XII.
20
Cfr. APUL., Flor., IV; ATEN., Deipn., XIV, 624c-625a.
21
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 22.
22
Cfr. MARZ. CAP., De nupt. Merc. et Phil., IX.
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100 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

esperienza, ch’ella è essercizio d’uomini vili e d’infelice e


stemperato ingegno che non hanno ragione di cominciare, né
di finire, come si legge d’Arcabio trombetta, il quale bisognava
pagare più per farlo restare che per farlo cantare23. De i quali
musici tanto importuni dice Orazio:

Questo vizio i cantori han fra gli amici


che pregati cantar non voglion mai,
e non pregati ogn’or si stan cantando24.

Per questo la musica fu sempre mossa per prezzo e per dina-


ri e serva delle ruffiane, della quale non fece mai professione
uomo grave, modesto, pudico o forte. E però i Greci con voca-
bolo comune gli chiamano artefici del padre Bacco o, secondo
Aristotele, dionisiaci tecniti, cioè artefici baccanali25, i quali
per la maggior parte furono sempre usati d’avere viziosi costu-
mi, facendo per lo più vita lasciva, parte anco in miseria et in
povertà, la quale e genera e cresce i vizii. I re de Persi e de Me-
di mettevano i musici fra i parassiti e buffoni sì come quei che
prendevano piacere dell’essercizio loro e facevano poca stima
de i maestri26. Et Antistene, che fu quello uomo savio, udendo
dire che un certo Ismenia era ottimo trombetta, disse: «Egli è
un ribaldo, che non sarebbe trombetta se fosse uom dabbe-
ne»27 perché, come si suol dire, quella non è arte di uomo so-
brio e da bene ma di ozioso e giocolare. Questa era sprezzata
da Scipione Emiliano e da Catone come lontana da i costumi
romani. Augusto e Nerone furono biasmati perché troppo in-
gordamente seguivano la musica. Ma Augusto, essendone ri-
preso, se ne astenne; Nerone vi andò più dietro e perciò ne
venne in dispregio et in poca stima28. Il re Filippo intendendo
che’l figliuolo in certo loco aveva soavissimamente cantato, lo

23
Cfr. ATEN., Deipn., XIV, 623d, dove però il citaredo si chiama Amebeo.
24
ORAZ., Serm., I, 3, 1-3.
25
Il termine è usato in ARIST., Probl., 956b per indicare una sorta di corporazione
di cui facevano parte attori e musicisti, ossia tutti coloro che lavoravano nel tea-
tro. Si veda anche ARIST., Rhet., 1405a; POL., Hist., XVI, 21, 8; ATEN., Deipn., V, 198c
e 212d; IX, 406f; XIV, 626b.
26
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 28.
27
Ibid; PLUT., Per., I, 5; per Ismenia di Tebe (IV sec. a.C), si veda anche PLUT., Mor.,
174e-f; 632c; 1095f; Dem., 889b.
28
Cfr. PETR., De rem. utr. fort., I, 23, 16; SVET., De vita Caes., VI, 20-25 e 53.
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17. DELLA MUSICA 101

riprese dicendogli: «Non ti vergogni tu di sapere così ben can-


tare? Egli è bene assai e d’avantaggio che un prencipe abbia
ozio d’udire quando gli altri cantano»29. Giove non canta ap-
presso i poeti greci, né suona la citara; Minerva dotta gettò via
il piffero. Appresso Omero suona un citaredo et Alcione et
Ulisse lo stanno ad ascoltare30. In Virgilio canta e suona Iopa,
Didone et Enea lo ascoltano31. Cantando Alessandro Magno
una volta Antiogono32, suo pedagogo, gli ruppe la citara e la
gettò via dicendogli: «Alla tua età si conviene oggimai regnare
e non cantare». Ma gli Egizzii ancora, come testimonia Diodo-
ro, non volevano che i giovani loro imparassero musica sì co-
me quella che effemina gli animi de gli uomini33. Et Eforo, se-
condo che dice Polibio, disse che ella non era stata trovata se
non per ingannare gli uomini34. E per dire il vero, che cosa è
più inutile, più da sprezzare e più da esser fuggita di questi pif-
feri, cantori e d’altra sorte musici? I quali con tanto variate e
diverse voci di canti35, vincendo il garrire di tutti gli ucelli, con
una certa venenosa dolcezza, a guisa di Sirene, con voci, gesti e
suoni lascivi ammaliano e corrompono gli animi de gli uomini.
Per la qual cosa le donne de Ciconi perseguitarono fino alla
morte Orfeo, perché con la musica sua corrompeva i maschi36.
Che se si dee dare fede alcuna alle favole, Argo aveva cento oc-

29
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 28; PLUT., Per., I, 5.
30
Cfr. OMERO, Odyss., VIII, 24-64. Il riferimento è comunque impreciso, trattando-
si di Alcinoo e non di Alcione colui che ascolta insieme a Ulisse il citaredo Demò-
doco.
31
Cfr. VIRG., Aen., I, 740-747.
32
Il testo latino reca: «Antogionus», ma l’edizione del 1584 corregge in: «Antigo-
nus».
33
Cfr. DIOD. SIC., Bibl. hist., I, 81, 7.
34
Cfr. ATEN., Deipn., XIV, 626a. Si veda anche POLIB., Hist., IV, 20, 5-6; EFORO, fr. 70
F8 (ed. Jacoby).
35
A questo punto il testo latino reca: «praecinentium, decinentium, intercinen-
tium, occinentium, et concinnentium», qui mancante.
36
Sulla morte di Orfeo per mano delle Baccanti, si veda OVID., Metam., XI, 1-66;
PLAT., Symp., 179d; VIRG., Georg., IV, 520-527; STRAB., Geogr., VII, fr. 18 (Epit. Vat.);
DIOG. LAERZ., Vitae philos., I, prohem., 5 e DIOD. SIC., Bibl. hist., V, 75, 4, dove però
Orfeo viene fatto a pezzi dai Titani. I Ciconi sono una tribù semileggendaria del-
la Tracia, che figura nell’Iliade tra gli alleati di Priamo (Iliad., II, 846) e nell’Odis-
sea come il primo popolo da cui approda Ulisse lasciando Troia (Odyss., IX, 39-
66). Secondo la leggenda presso di loro viveva Orfeo, il quale in quei luoghi fu
iniziato ai misteri di Apollo.
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102 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

chi in capo, i quali furono però tutti addormentati e spenti al-


l’armonia d’una sampogna sola37. E nondimeno di qui si glo-
riano molto questi musici quasi ch’essi più che gli oratori aves-
sero imperio di movere gli affetti, i quali sono stati tanto tirati
in su dalla pazzia c’hanno affermato che ancora i cieli istessi
cantano, con voci però non intese giamai da uomo alcuno s’el-
le, per aventura, non son venute a notizia di questi musici per
il suo euouae38, o per forza di vino o di sogno; e non è però an-
cora disceso dal cielo alcun musico ch’abbia conosciuto tutte
le consonanze dalle voci, né che abbia ritrovato tutti i modi
delle proporzioni. E nondimeno dicono ch’ella è una arte per-
fettissima, ch’abbraccia tutte le discipline e che senza cognizio-
ne di tutte le discipline non si può trattare, dandole ancora
forza d’indovinare, con la quale le abitudini del corpo, le pas-
sioni et i costumi dell’animo per essa giudicare si possono. Di-
cono ancora che ella è arte senza fine e che con ingegno alcu-
no non si può compiutamente acquistare, ma che di giorno in
giorno secondo le forze di ciascuno ella dà nuova melodia. E
però Anasila39 non disse male: «Per Dio che la musica», disse
egli, «non altramente che l’Africa40, ogni anno sempre ci par-
torisce alcuna nuova fera»41. Atanasio per la vanità sua la vietò
alle chiese, ma Ambrogio più desideroso assai delle cerimonie
e delle pompe, ordinò alle chiese l’uso del cantare e sonare42.
Ma Agostino, stando di mezzo, disse nelle sue Confessioni che di
ciò gli era nato un molto difficile dubbio43, ma oggidì tanto è

37
Cfr. OVID., Metam., I, 713-722. Il testo latino reca l’annotazione a margine: «Mer-
curius enim Argum fistulae cantu delinitum occidit».
38
Allusione all’interiezione latina «Eu-hoè» (dal greco ejuoi') che indica l’urlo di
gioia durante le celebrazioni in onore di Bacco. Si veda, per es., SOFOC., Trach.,
219; LUCIANO, Bacc., 4; VIRG., Aen., VI, 517; CATULLO, Carm., LXIV, 255, ORAZIO, Sat.,
II, 19, 5-7.
39
Il testo latino reca: «Anaxillas», con riferimento al poeta comico Anassila (IV
sec. a. C), autore di alcune commedie. Si veda, per es., DIOG. LAERZ., Vitae philos.,
III, 28.
40
Il testo latino reca: «Lybia», ossia l’Africa per gli antichi.
41
Cfr. ATEN., Deipn., XIV, 632e; RODIG., Lect. antiq., V, 22. La fonte per Anassila è
l’opera, perduta, intitolata Giacinto (si veda fr. 27, ed. Kassel-Austin). Sull’antico
proverbio greco secondo cui l’Africa produce sempre qualcosa di nuovo, si veda
ARIST., De gen. anim., 746b e Hist. anim., 606b; PLIN., Nat. hist., VIII, 17, 42; GIOVAN-
FRANC. PICO, Exam. vanit., I, 16.
42
Cfr. PETR., De rem. utr. fort., I, 23, 14; AMBR., Enarr. in Psal., I, 12 e De off. min., I, 18,
67.
43
Cfr. PETR., De rem. utr. fort., I, 23, 14, AGOST., Conf., X, 33.
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17. DELLA MUSICA 103

grande la licenza della musica nelle chiese che ancora insieme


con l’ordine della messa vengono tramezzate con gli organi
delle più disoneste canzoni, e gli uffici divini co i sacri preghi
dell’orazioni vengonsi a cantare da musici lascivi, condotti per
grandissimo prezzo, non a intelligenza di quei ch’odono, non
ad elevazione di spirito, ma a disonestissima lascivia, non con
voci umane, ma con strepiti di bestie, mentre che fanciulli a
uso di cavalli fanno il soprano, alcuni come buoi il tenore, al-
cuni abbiano il contrappunto, alcuni ruggiscono l’alto et altri
intonano il basso, et intanto fanno ben che s’ode assaissimo
suono, ma non già che s’intenda punto delle parole, né dell’o-
razione: così si viene in questo modo a levare all’orecchie et al-
l’animo l’auttorità del giudicio.
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18.
DELLE DANZE E DE BALLI

Alla musica appartiene ancora l’artificio delle danze e de i


balli, fuor di modo grato alle fanciulle et a gli amanti, e quello
che con grandissima cura imparano e senza stancarsi lo man-
dano fino oltra mezzanotte, e con gran diligenza s’ingegnano
di danzare con gesti ordinati e passi temperati al suono del
ciembalo o de i pifferi per fare, come essi credono, prudentis-
simamente e con molta leggiadria, una cosa la più pazza di cia-
scuna altra e poco differente dalla pazzia istessa, la quale, se
non fosse temprata dal suono degli stromenti e, come si suol
dire, una vanità non desse riputazione all’altra, non sarebbe
spettacolo alcuno più ridicolo né più dissipato delle danze.
Questa è uno all’argomento della morbidezza, amica della sce-
lerità, incitamento della libidine, inimica della pudicizia et in-
degna di tutti i giuochi onesti; quivi spesse volte una gentil-
donna, come dice il Petrarca, v’ha perduto l’onor suo lungo
tempo conservato1; spesso l’infelice verginella vi ha imparato
quel ch’era meglio non sapere; quivi s’è spenta la fama e l’o-
nestà di molte, infinite di là ne sono ritornate a casa disoneste,
molte con l’animo dubbioso, ma nessuna più casta. E spesso
abbiamo veduto che la donnesca onestà nelle danze è caduta a
terra e sempre travagliata e combattuta. Nondimeno alcuni
scrittori Greci l’hanno laudata sì come ancora hanno fatto di
molte cose sporche e dannose, et hanno detto che i principii

1
Cfr. PETR., De rem. utr. fort., I, 24, 10.
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106 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

di queste danze divinamente derivarono da gli andamenti del-


le stelle e de pianeti, dal loro andare e tornare, abbracciamen-
to et ordine, quasi da una certa danza armonica delle cose ce-
lesti, insieme con la generazione del mondo. Alcuni dicono
ch’ella fu invenzione de Satiri, et affermano ancora che Bacco
con questa arte vinse i Toscani, gli Indi et i Lidi, popoli bellico-
sissimi2. Di qui finalmente questa saltazione fu ridotta in reli-
gione, et ella fu fatta da i Coribanti in Frigia, e la dea Rea la fe-
ce fare a i Cureti in Creta3, et in Delo non si compivano sacrifi-
ci dove non si facesse anco la saltazione, né mai vi furono cele-
brate feste, né cerimonie senza la saltazione4. I Bracmanni5, an-
co essi popoli dell’India, dalla mattina alla sera rivolti al sole
saltando l’onoravano. La saltazione fu posta nelle cerimonie
de i sacrifici appresso gli Etiopi, gli Egizzii, i Traci e gli Sciti, sì
come quella ch’era stata ordinata da Orfeo e Museo ottimi sal-
tatori6. Avevano i Romani anch’essi i sacerdoti Salii, i quali sal-
tavano in onore di Marte7. I Lacedemoni, di gran lunga più va-
lorosi de gli altri Greci, avendo imparato [a] saltare da Castor
e Polluce, erano usati di fare ogni cosa con saltazioni8. Ella fu
tanto stimata in Tessaglia che i popoli presidenti e capi de gli
altri erano onorati co’l nome de saltatori9. E Socrate anche
egli, che fu giudicato dell’oracolo il più savio di tutti gli uomi-
ni, essendo già attempato non si vergognò d’impararla, anzi
con grandissime lodi la inalzò, numerandola fra le discipline
gravi10, et a lui parve cosa assai più grave di quello che ragiona-
re si possa, sì come quella ch’era nata tutta divina insieme con
la generazione del mondo e venuta in luce con Amore anti-
chissimo Iddio11. Ma non è maraviglia che i Greci filosofino di
questo modo, i quali hanno fatto auttori gli dèi d’adulterii, di

2
Cfr. LUCIANO, Salt., 22.
3
Ivi, 8.
4
Ivi, 16.
5
Per i Bragmani dell’India, si veda infra, p. 187, nota 3.
6
Cfr. LUCIANO, Salt., 15 e 17-19.
7
Ivi, 20.
8
Ivi, 10.
9
Ivi, 14.
10
Ivi, 25, ma si veda anche SOCRATE, test. 1 C175 (ed. Giannantoni); DIOG. LAERZ.,
Vitae philos., II, 5, 32; SENOF., Simp., II, 15-16; ATEN., Deipn., I, 20e-21a; PETR., De rem.
utr. fort., I, 23, 16.
11
Cfr. PLAT., Symp., 178a-.c
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 107

18. DELLE DANZE E DE BALLI 107

stupri, di parricidii e finalmente d’ogni ribalderia. Essi scrisse-


ro molti libri della saltazione ne i quali si contenevano tutte le
sorti, le qualità et i numeri di quella, e registrarono tutti i nomi
di quelle e di che modo ciascuna fosse e da chi ritrovata, per la
qual cosa non parlerò più oltra di loro. Gli antichi Romani, uo-
mini gravi per prudenza e per auttorità, rifiutarono tutte le sal-
tazioni, né appresso di loro si lauda alcuna matrona onesta per
aver saltato. Per questo Salustio rinfaccia a Sempronia ch’ella
cantasse e saltasse più maestrevolmente che non sarebbe con-
venuto a donna da bene, e che più fu stimata vergogna in Ga-
binio ch’era stato consolo et in M. Celio l’aver troppa scienza
di saltare12. E M. Catone rimproverò a L. Murena per vizio d’a-
ver saltato in Asia, il quale, difendendolo Cicerone, non ebbe
ardire di difendere ciò come cosa ben fatta, ma francamente
negò che non aveva fatto dicendo: «Nessun sobrio salta se non
fosse pazzo, né in solitudine, né in convivio temperato et one-
sto, ma la saltazione è l’ultima compagnia d’un convivio disor-
dinato, d’un gioco intemperato e delle delicie disoneste»13. È
necessario dunque che la saltazione sia l’ultimo di tutti i vizii,
né facilmente si potrebbe dire i mali che qui ne traggono e la
vista e l’audito, i quali partoriscono poi e ragionamenti et ab-
bracciamenti: saltasi con atti disordinati e con mostruoso stre-
pito di piedi a molli suoni, a lascive canzoni, a disonesti versi,
maneggiansi fanciulle e matrone con mani e baci impudichi e
con abbracciamenti disonesti, e le cose che la natura ha nasco-
so e la modestia coperto, con le mani della lascivia allora si di-
scopruono e la ribalderia vien adombrata con la coperta di gio-
co. Essercizio certo non disceso da i cieli, ma ritrovato da i dia-
voli dell’inferno in ingiuria della divinità: quando il popolo
d’Israel si fabricò il vitello nel deserto, il quale poi ch’ebbero
sacrificato, cominciarono a mangiare e bere, indi si levarono
giocando, e cantando saltavan in cerchio14. E questo basti aver
detto delle saltazioni de balli.

12
Cfr. SALL., Bellum Cat., XXV, 2; MACROB., Conv. saturn., III, 14, 15.
13
CIC., Orat. pro Murena, VI, 13.
14
Cfr. ES 32:6; 19.
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19.
DELLA GLADIATORIA

Io non mi scordo però in questo loco che vi sono ancora


molte altre sorti di saltazioni celebrate da gli antichi scrittori,
de quali grandissima parte oggidì non è più in uso, sì come è la
saltazione armata accomodata alla gladiatoria, alla scrimia1, al-
la milizia, artificio veramente tragico nel quale s’ha per giuoco
l’uccidere uno uomo innocente et infamia grande l’aver rile-
vato un poco lentamente una ferita mortale. Arte vituperosa a
ogniuno, alla pazzia della quale s’avvicina la crudeltà e tutte
queste simili sorti di saltazioni, sì come elle son piene di vanità
e di sfacciatezza, non son tanto da esser vituperate quanto fug-
gite, perché elle non insegnano altro se non alcune maravi-
gliose usanze in che modo s’abbia a impazzare.

1
Il testo latino reca: «chironomiae». Propriamente per ‘chironomia’ si intendeva
la ‘danza delle mani’, ossia la gesticolazione cadenzata delle mani e delle braccia
propria delle danze, movimenti che in qualche caso, come nella tradizione orien-
tale, assumevano un valore simbolico. Da queste danze si svilupparono delle for-
me di ‘danza in armi’, ossia delle danze di guerra eseguite da uomini armati co-
me in battaglia. Tale danza era chiamata anche ‘pirrica’, i cui movimenti sono de-
scritti da Platone in Leg., 815a. Sulla danza pirrica, si veda anche ATEN., Deipn.,
XIV, 630d-631b. Il termine ‘chironomia’ ricorre anche in Plutarco e Luciano con
riferimento all’ ‘arte di sferrare colpi da vicino’, ossia al pugilato.
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20.
DELLA ISTRIONICA

L’istrionica saltazione è artificio d’imitazione e di demostra-


zione che con gesti accomodati rappresenta le cose concette
nell’animo. Ella così chiaramente e vivamente ci dimostra a
tutti i costumi e le passioni che, ciascuno il quale sta a vedere,
da infiniti moti e gesti chiaramente intende l’istrione ancora
che punto non favelle. Tanto può dare la istrionica che non fa
bisogno d’interprete alcuno, perciocché tanto accomodata-
mente con leggiadri gesti rappresenta un fanciullo, un vec-
chio, una donna, un servo, una fante, uno ubriaco, un corruc-
ciato, le differenze e gli affetti di tutte le persone che ancora lo
spettatore, benché di lontano non oda la favola, intende l’ar-
gomento di quella per lo solo movimento dell’istrione. Per
questo si legge che gli istrioni furono avuti in gran prezzo et è
certo, come racconta Macrobio, che Cicerone soleva conten-
dere con Roscio istrione (il quale fu carissimo ancora a Silla
dittatore) s’egli spesse volte faceva una medesima sentenza
con diversi gesti, o se pure per l’abondanza della eloquenza la
proferiva con diverso parlare, la qual cosa indusse Roscio a
scrivere un libro nel quale paragona l’eloquenza con l’istrioni-
ca1. Nondimeno la città di Marsiglia, come scrive Valerio, fu
guardiana di tanta gravità che non volse giamai né istrioni, né
buffoni, perché la maggior parte de gli argumenti loro conte-
nevano atti di stupri, acciocché l’usanza di vedere cose tali non

1
Cfr. MACROB., Conv. saturn., III, 14, 11-13.
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112 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

facesse ancora licenza d’imitarle2. E però l’essercizio dell’i-


strione non solo è disonesta e scelerata occupazione, ma lo sta-
re a vedere ancora e’l dilettarsene è vergognoso, perciocché il
diletto dell’animo lascivo si trasforma in peccato. E per con-
chiuderla non fu anticamente giamai nome alcuno più infame
che gli istrioni, e per le leggi ancora tutti quegli ch’avevano
rappresentato comedia in teatro erano privati di tutti gli onori.

2
Cfr. VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., II, 6, 7. Sulla fama di Marsiglia di città dai
costumi sobri e severi, si veda anche STRAB., Geogr., IV, 1, 4-5; RODIG., Lect. antiq.,
IX, 8.
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21.
DEL RETORISMO

Eravi ancora la saltazion retorica, poco differente dell’istrio-


nica ma un poco più dimessa, la quale Socrate, Platone, Cice-
rone, Quintiliano1 et assaissimi Stoici giudicarono essere molto
utile e necessaria all’oratore, perciocché ella è formata d’un
certo acconcio gesto del corpo e d’uno abito composto del vol-
to e del corpo, et anco di vigore d’occhi, di gravità di aspetto e
di suono di voce accomodato a ciascuna parola e sentenza, con
efficace movimento di corpo, a quelle cose che si ragionano,
ma però senza atteggiamento delle membra. Nondimeno que-
sta retorica saltatoria, ovvero istrionica, finalmente cominciò a
essere lasciata da tutti gli oratori, et Augusto avertì Tiberio che
ragionasse con la bocca, non co i diti2. Et oggidì è levata del
tutto, solamente è tuttavia osservata da certi fratacci scenici
(benché altre volte fossero cacciati di Chiesa gli istrioni e de-
negatogli il santo sacramento della Comunione), de quali og-
gidì ne veggiamo alcuni sgridare da i pergami alla plebe con
mirabile contenzione di voci, con volto di varii colori, con oc-
chio vagabondo e lascivo, slanciando le braccia, saltando co
piedi, con le reni infiammate e con diversi movimenti, rivolu-
zioni, trasportamenti, atteggiamenti, salti, con tutto il corpo in
comedia, sì come quello che dalla leggierezza dell’animo è

1
Cfr. PLAT., Leg., 816a; CIC., De orat., I, 34, 156; 251-252; III, 56-61, 227; QUINT., In-
stit. orat., XI, 3, 61-149.
2
Cfr. CRIN., De hon. discip., IV, 8.
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114 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

sforzato anch’egli ad aggirarsi, ricordandosi per avventura del-


la sentenzia di Demostene, il qual (come dice Valerio) sendo
domandato che cosa fosse di grande possanza nel ragionare,
rispose: «L’ipocrisia»; domandato la seconda e la terza volta,
fece la medesma risposta e che quasi tutta la forza del dire sta
in questo3. Ma per non andar molto lontano dal suggetto, cam-
miniamo ora verso la geometria.

3
Cfr. VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., VIII, 10, Ext. 1. Questo detto di Demostene
è riportato in numerosi autori dell’antichità: si veda, per es., FILOD., Rhet., I, 196,
3; CIC., Orat., XVII, 56 e Brut., XXXVII, 142.
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22.
DELLA GEOMETRIA

La geometria, la quale Filone Giudeo chiama principe e ma-


dre di tutte le discipline1, questa laude ha più che le altre
scienze, che essendo grandi et infinite contese fra le sette di
quasi tutte le discipline, tutti i geometri in ogni parte s’accor-
dano insieme, né mai di quella è fra loro contenzione alcuna
se non che infino ad ora disputano de i punti, delle linee e del-
le superficie se si possono dividere o no, ma non perciò son
differenti insieme né di dottrina, né di precetti, ma ciascuno si
sforza di superare l’altro con nuove e più sottili invenzioni, e le
quali nessuno s’imaginò giamai. Nondimeno geometra alcuno
non ha ritrovato ancora la vera quadratura del circulo, né ha
dato linea eguale alla costa, benché Archimede Siracusano già
si pensasse d’aver ritrovato queste cose, e molti dopo lui fino a
questi tempi il medesimo, ma invano a un certo modo si sono
sforzati benché paia ch’abbiano detto cose simili al vero. Tale è
però l’ambizione loro che non s’acquetano mai a precetti de’
primi, ma credendosi in cose tali ritrovare alcuna cosa di più
che i maestri loro, da se stessi vengono in tanta pazzia che l’el-
leboro di tutta la terra non basterebbe a purgarla2. Nondime-
no dalla geometria istessa pendono, oltra questo, ch’ella consi-

1
Cfr. FIL. EBREO, De agric., 13. Il termine utilizzato da Filone per definire la geo-
metria è propaivdeuma.
2
L’elleboro è una pianta di cui si usano le radici, velenose, le cui proprietà erano
ritenute efficaci nella cura della pazzia. Si veda, per es., PLAT., Euthyd., 299b; TEO-
FR., Hist. plant., IX, 10; STRAB., Geogr., IX, 3, 3; PLIN., Nat. hist., XXV, 48-49.
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116 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

dera i lineamenti, le forme, gli spacii, le grandezze, i corpi, le


misure et i pesi, tutti gli ingeniosi lavori de gli organi e gli in-
stromenti artificiosi, manganari, macanopocetici, poliorcetici,
così di guerre quanto d’architettura, et accomodati a uso del-
l’altre cose, come arieti, testudini, cuniculi, catapulte, scorpio-
ni, exostre, sambuche, scale, tolleoni, torri che caminano, elio-
poli, navi, galee, ponti, mole, carrette di due rote, di tre e di
quattro, troclee, clicleole, ruote, argani et altri instromenti per
mezzo de i quali con picciola forza si tirano et inalzano di gran-
dissimi pesi. Oltra di questo tutte le cose che sono composte o
di peso, o d’acqua, o di spirito, o di nervi e di corde, sì come
sono orologi che vanno con peso, et organi che suonano per
fiato di vento, e tutti gli instromenti ancora d’acqua e di spiri-
to, e di questi anco quei che son fabricati per dar piacere e ma-
raviglia sì come sono palle che saltano da se stesse, lucerne che
si fanno i lor lucignoli e zucchette che soffiano fuoco da loro,
e quello animale che dice Poliziano, il quale mentre ch’è ta-
gliato in tavola bee e rappresenta i movimenti e le voci come se
fosse vivo. Di questa simile maestria dice Mercurio che gli Egiz-
zii fecero i simulacri de gli dèi per fargli proferire voce distinta
e caminare3. Archita Tarentino anch’egli con ragioni geome-
triche formò in tal modo una colomba di legno ch’ella si leva-
va in alto e volava4. E leggesi ancora che Archimede primo fa-
bricò con tanto magistero un cielo di bronzo che vi si com-
prendevano chiarissimamente i moti di tutti i pianeti e le revo-
luzioni di tutte le sfere celesti, simile al quale di questi giorni
ne ho veduto fabricato un altro5. Da questa arte ne vengono
ancora varie sorti d’instromenti da guerra e bombarde et altri
artificii che gettano fuoco, de i quali nuovamente io n’ho com-
posto un libro speciale col titolo di Pirografia, di che finalmen-
te ora molto me incresce perché egli non insegna altro che un

3
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 9; CORP. HERM., Asclep., 23-24 e 37-38; AGOST.,
De civit. Dei, VIII, 23.
4
Cfr. AUL. GELL., Noct. att., X, 12, 8; FIC., Theol. plat., XIII, 3 e De vita, III, 13; RODIG.,
Lect. antiq., I, 38, ma si veda anche REUCHL., De verbo mirif., II, C2r; GIORGIO, De
harm. mundi, III, 4, 9; AGRIP., De occ. phil., II, 1, pp. 249-250.
5
Cfr. CIC., Tusc. disp., I, 25, 63 e De re pub., I, 21-22. La notizia della sfera costruita
da Archimede è riportata anche in FIC., Theol. plat., IV, 1 e XIII, 3 e in REUCHL., De
arte cabal., II, H2v. Nel De vita lo stesso Ficino riferisce di un orologio astronomi-
co costruito da Lorenzo della Volpaia per Lorenzo de’ Medici simile alla sfera ari-
stotelica (De vita, III, 19). Di questo orologio con le rappresentazioni dei pianeti
si ha notizia anche da Poliziano, Vasari ed altri.
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22. DELLA GEOMETRIA 117

magistero da far di grandissimo male6. Infine tutto l’artificio


ch’è nella pittura, nella misura del mondo, nell’agricoltura,
nell’arte della guerra, nel fondere i metalli, nel lavorare di get-
to7, nella statuaria, nella fabrile8, nell’architettura e nella me-
tallica, per la maggior parte viene dalla geometria.

6
Cfr. supra, nota 4, p. 13.
7
Il testo latino reca: «in plastica», vale a dire l’arte del modellare in materiale fit-
tile.
8
Il testo latino reca: «in fabrile», vale a dire l’arte della fucina.
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23.
DELLA OPTICA, OVERO PERSPETTIVA

Vicina alla geometria è l’optica, la quale si chiama perspetti-


va, dapoi la misura del mondo e l’architettura. Questa perspet-
tiva, overo optica che si domandi, tratta tre modi di vedere: la
diritta, la piegata e lo scorcio; insegna ciò ch’è luce, ombre e
spazii, e conosce le cause delle cose visibili, le quali si veggono
per gli intervalli falsi; considera lo spargere de i raggi per una
o più cose chiare sopra diverse figure di corpi; le figurazioni
dell’ombre e de i lumi ancora, e quello che accade alle cose, al-
l’uso1 et al mezzo, e mostra in che modo e la cosa e la visione,
per la diversità del mezzo, variamente si veggono. Ma varie e
diverse opinioni sono della ragione del vedere2. Platone crede
che la vista si faccia secondo la chiarezza, quella cioè che viene
da gli occhi scorrendo la luce a uno aere estrinseco, quella
ch’è riportata da i corpi incontrando la luce; ma quella che sta,
circa l’aere, di mezzo ha faccia che si sparge e si rivolge alla
virtù del vedere distesa e di simile foco3. Galeno è d’un mede-
simo parere con Platone, ma Ipparco dice che i raggi distesi da
gli occhi, toccando quasi con una certa palpitazione fino a
quei corpi, rendono quel che pigliano alla vista4. E gli Epicurei

1
Il testo latino qui reca: «visui», ossia letteralmente «alla vista». Si tratta di una
probabile svista del traduttore.
2
Cfr. AUL. GELL., Noct. att., V, 16, 1-2.
3
Ivi, V, 16, 4-5. Il testo latino reca: «ea vero quae circa aerem medium est, facile
effusibili, vertibilique, coextensae igniformi visus virtuti». Per le considerazioni di
Platone sulla vista, si veda Tim., 45b-e; Rep., VI, 507d-508d.
4
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 15 (si veda AEZIO, IV, 13, 9-10, ed. Diels).
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120 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

affermano che le sembianze delle cose ch’appaiono, da se stes-


se entrano ne gli occhi. Aristotele è d’opinione che le sem-
bianze non già corporee, ma secondo la qualità per l’alterazio-
ne dell’aere, il quale è nel circuito, dalle cose visibili viene fino
alla vista5. Ma Porfirio dice che né i raggi, né le sembianze, né
alcuna altra cosa è cagione del vedere ma l’anima istessa, che
se medesima conosce visibile e che è una di tutte, conosce se
medesima in tutte le cose che sono6. I geometri et i prospettivi,
accostandosi un certo modo a Ipparco, sottoscrivono certi coni
fatti dall’incontrarsi insieme de i raggi, i quali si mandano fuo-
ra per gli occhi, onde la vista comprende insieme molte cose
visibili, ma certissimamente quelle là dove i raggi s’incontrano
insieme. Altro però dice Alchindo de gli aspetti, ma pare ad
Agostino che la potenza dell’anima faccia alcuna cosa nell’oc-
chio7, il che non è per ancor conosciuto da gli studiosi della sa-
pienza. Questa scienza dunque giova assaissimo a comprender
la varietà de i corpi celesti, la distanza, la grandezza, il moto, le
rivoluzioni e gli aggiramenti di quegli, e serve ancora all’archi-
tettura in misurare gli edificii. Appresso di questo aggiunge
grandissimo ornamento all’artificio del dipingere et alla fabri-
ca de gli specchi, di maniera che queste arti senza essa non si
possono ridurre a perfezzione. Perciocché ella ne mostra con
che ragione non dobbiamo fingere né cose senza numero, né
deformi nelle imagini, le quali si veggono per cagion de gli
spazii e delle altezze.

5
Cfr. ARIST., De anima, 418a-419a; si veda anche De sensu, 438a-438b.
6
Cfr. PORF., De abstin., I, 33-34; FIC., Theol. plat., XIII, 2.
7
Cfr. AGOST., De quant. anim., V, 9.
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24.
DELLA PITTURA

La pittura è una arte mostruosa, ma accuratissima per l’imi-


tazione delle cose naturali, la quale è composta di descrizzione
di lineamenti e di debita accomodazione di colori. Questa fu
anticamente in tanta stima ch’ella teneva il primo grado delle
arti liberali. Ella è però non meno libera che la poesia, come
ben disse Orazio:

I pittori et i poeti
ebber sempre di far possanza eguale1.

Dicesi che la pittura non è altro che una poesia che tace e la
poesia una pittura che parla2, tanto sono elleno parenti insie-
me. Perciocché i pittori così fingono le istorie e le favole come
i poeti fanno, et esprimono le imagini di tutte le cose, il lume,
lo splendore, l’ombre, i rilievi e le depressioni. Oltra di ciò la
pittura ha questo dalla prospettiva, ch’ella inganna la vista e
sparge molte sembianze a gli occhi de i risguardanti, variato si-
to in una immagine, et ella aggiunge dove non può arrivare la
scultura: dipinge il fuoco, i raggi, il lume, i tuoni, i lampi, i fol-
gori, il tramontar del sole, l’aurora, la sera, le nebbie, le pas-
sioni dell’uomo, i sensi dell’animo, e quasi esprime la voce
istessa, e con mentite misure fa vedere le cose che non sono

1
ORAZIO, Ars poet., 9-10.
2
Cfr. PLUT., Mor., 394c.
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122 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

come quelle che sono, e quelle che così non sono in altro mo-
do le fa parere, sì come raccontano gli istorici di Zeusi e Parra-
sio pittori, i quali essendo venuti a contesa di chi più fosse sof-
ficiente nell’arte sua, et avendo mostrato il primo delle uve di-
pinte con tanta similitudine che a quelle volarono gli uccelli,
l’altro mise fuora una tavola con un velo dipinto, contraffacen-
do tanto il vero che quell’altro, insuperbito per lo giudicio del-
la pittura sua che n’avevano dato gli uccelli, mentre che gli fa-
ceva instanza che volesse levare il velo e mostrargli la sua figu-
ra, conosciuto alla fine l’error suo, fu costretto a cedergli la vit-
toria, avendo Zeusi ingannato gli uccelli e Parrasio il maestro3.
E Plinio dice che ne i giuochi di Claudio vi fu una maraviglia di
pittura che i corvi ingannati dalla apparenza volarono alla sem-
bianza delle tegole, e secondo che dice il medesimo auttore
nel triumvirato famoso si vide per prova che gli uccelli si rima-
sero di cantare per un serpente dipinto4. Oltra di ciò la pittura
ha questo, che in tutte le opere sue sempre vi s’intende e vi si
giudica più di quel che si vede, come diligentissimamente que-
ste cose ha investigato Plutarco ne suoi ritratti, e benché l’arti-
ficio sia grande, l’ingegno però avanza l’artificio.

3
Cfr. PLIN., Nat. hist., XXXV, 36, 65-66.
4
Ivi, XXXV, 7, 23; XXXV, 38, 121.
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25.
DELLA SCULTURA ET ARTE DI GETTARE

Appresso la pittura vanno la scultura, l’arte di gettare, la fu-


soria e la criptica1, artificii d’ingegno importuno le quali però
si possono comprendere ancora sotto l’architettura. La scultu-
ra fabrica gli idoli delle cose di pietra, di legno, d’avorio, et an-
co fa i modelli di creta. Ma l’arte fusoria gli rappresenta di ra-
me e d’altri metalli. Il gioielliere scolpisce nelle pietre e nelle
gemme. Di queste arti fra moderni n’ha scritto Pomponio
Gaurico2; nondimeno tutte queste arti insieme con la pittura
credo che siano state ritrovate da i diavoli dell’inferno a pom-
pa, a libidine et a superstizione, gli artifici della quale furono
quei primi i quali, secondo le parole di Paolo, mutarono la glo-
ria dello incorruttibile Iddio nella sembianza della imagine
corruttibile dell’uomo, de gli uccelli, delle bestie e de serpenti,
i quali contrafacendo al precetto divino che non vuole che si
faccia idolo di scultura, né sembianza, tanto delle cose che so-
no su in cielo, quanto di quelle che sono giù in terra, introdus-
sero l’idolatria odiosissima a Dio3, de i quali dice il Savio: «L’i-
dolo istesso è maledetto e chi l’ha fatto, e ciò ch’è fatto pati-
ranno tormenti»4, perciocché la vanità de gli uomini, come di-

1
Da «cripticus», ossia «sotterraneo», dunque «arte di operare sotterraneamente».
2
Probabile allusione all’opera intitolata De sculptura (1505) di Pomponio Gaurico
(1481/2-1530).
3
Cfr. 1 RM 1:22-25.
4
DEUT 27:15. Sulla condanna dell’idolatria, si veda anche IS 44:9-20; DEUT 5:8-9 e
13:1-19; ZC 13:2.
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124 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

ce il medesimo, ritrovò queste arti in tentazione dell’anima de


gli uomini e per ingannare gli sciocchi, e l’invenzione di quel-
le è corruzzione della vita5. E nondimeno noi cristiani più che
l’altre nazioni talmente impazziamo che non ci vergogniamo
di tenere questa corruttela di vita e di costumi in ogni loco
nelle sale, nelle stanze e nelle camere, acciocché le nostre
donne e figliuole con le imagini lascive s’infiammino alla lus-
suria, e quel che più importa ancora, con grandissima rive-
renza le portiamo nelle chiese, ne i luoghi sacri e ne gli altari
di Iddio, non senza pericolo d’idolatria6. Ma di questo ragio-
neremo più appieno nella religione7. Nondimeno io imparai
già in Italia che nelle pitture e nelle statue vi è auttorità di
grande stima, perciocché essendo uno ostinato litigio tra i fra-
ti agostiniani et i canonici regolari inanzi al papa circa l’abito
di santo Agostino, cioè s’egli vestiva la stola nera sopra la to-
naca bianca o il bianco sopra il nero, né ritrovandosi cosa al-
cuna nelle Scritture che bastasse a por fine a tanta lite, parve
così a i giudici romani che questa differenza si devesse rimet-
tere a i pittori et a gli scultori, e quello che essi potessero ri-
trarre dalle pitture e statue antiche fosse tenuto per sentenza
diffinitiva. Avendomi io stabilito su questo essempio, et aven-
do talora con grandissima diligenza investigato l’origine di
questa cocolla fratesca, né potendo sopra ciò cosa alcuna ri-
trarre dalle Scritture, finalmente me n’andai a trovare i pitto-
ri, e di questa cosa cercai ne i chiostri e nelle loggie de i frati
dove per lo più le storie dell’uno e l’altro testamento si veggo-
no dipinte, e non avendo potuto ritrovare in tutto il Testa-
mento Vecchio nessuno de patriarchi, né di sacerdoti, né de
profeti, né de Leviti, né pure Elia istesso, il quale i Carmeliti
vogliono che sia loro patrone, con la cocolla, facendomi al Te-
stamento Nuovo vi ritrovai Zaccheria, Simeone, Giovan Batti-
sta, Giuseppe, Cristo, gli apostoli, i discepoli, gli scribi, i fari-
sei, i pontefici, Anna, Caifa, Erode, Pilato e molti altri, né in
alcun loco seppi mai vedere cocolla, e di nuovo diligentemen-
te da principio ogni cosa essaminando, poco da poi nella fron-

5
Cfr. SP 14:12-15.
6
«…non est absque idolatriae vitio, sive periculo»: asserzione condannata dai teo-
logi di Lovanio. Si veda Appendice 2, p. 533.
7
Cfr. infra, pp. 253-257; 476.
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25. DELLA SCULTURA ET ARTE DI GETTARE 125

te dell’istoria mi si fa inanzi il diavolo con la cocolla, cioè


quello ch’andò per tentar Cristo nel deserto. < Così molto mi
rallegrai d’aver ritrovato nelle pitture quello che fino allora
non aveva potuto vedere nelle lettere, cioè che il diavolo fosse
stato il primo auttore della cocolla8, dal quale credo che da
poi gli altri monaci e frati abbiano preso la foggia sotto diver-
si colori, e forse se l’hanno ritenuta sì come cosa lasciata loro
per ragione d’eredità>.

8
«Diabolus est author cucullae»: asserzione condannata dai teologi di Lovanio. Si
veda Appendice 2, p. 533.
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26.
DELLA ARTE DE GLI SPECCHI

Ma ritorniamo di nuovo alla prospettiva, la quale anch’ella è


di grande aiuto all’artificio de gli specchi mostrando tutte le
affezzioni e gli inganni di quegli, gli esperimenti de i quali si
veggono in varie sorti di specchi come sono gli incavati, i rile-
vati, i piani, i colonnari, i piramidali, i torbinali, i gobbi, i ro-
tondi, gli angulari, gli inversi, gli eversi, i regolari, gli irregola-
ri, i sodi et i chiari. Così leggiamo, come racconta Celio nelle
Lezzioni antiche, ch’al tempo di Augusto un certo chiamato
Ostio, ma veramente capo della disonestà, fece specchi di tal
sorte che rappresentavano le imagini molto maggiori, di modo
che il dito di lunghezza e di grossezza avanzava la misura del
braccio1. Fassi uno specchio ancora nel quale alcuno vedrà la
imagine d’un altro e non la sua. Et uno altro che posto in loco
incerto non imaginerà nulla e trasportato altrove rappresen-
terà le imagini; uno che mostrerà le imagini inverse e d’una
cosa farà vedere molte sembianze. [Un altro] D’una altra ma-
niera che contra la usanza de gli altri specchi rende il destro al
destro e’l sinistro al sinistro. E fannosi specchi che brusciano
dinanzi e di dietro, et un altro che non rappresenta la imagine
presa dentro di sé, ma molto più lontano la getta in aria e qui-
vi la fa parere come una figura aerea, e gagliardamente manda
il fuoco, avendo in sé raccolti i raggi del sole per spazii lontani
in ogni cosa che si può ardere, e molte altre cose simili, come

1
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 2; SEN., Nat. quaest., I, 16, 2.
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128 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

talora ho veduto e saputo fabricare. Hanno ancora gli specchi


chiari i loro inganni, cioè che una grande fanno parere piccio-
la e per contrario le minime parer grandi e le lontane dap-
presso, e quelle che son vicine mostrano di lontano, quelle che
sono sotto i piedi di sopra, e quelle che sono sopra di noi pare-
re in fondo e mostrarsi all’aspetto nostro in uno altro sito. Vi
sono de gli specchi ancora che una cosa fanno parere molte, et
altri che rappresentano le cose in diversi colori, come è nel-
l’arco celeste, e di quegli che ingannando la vista rappresenta-
no sotto diverse e differenti figure, e cose simili. Et io so fabri-
care de gli specchi ne i quali, quando luce il sole, tutte le cose
che sono illuminate da i raggi di quello, per lontanissimo spa-
zio sì come di quattro o cinque miglia chiarissimamente veder
si possono2. Et è questo degno di maraviglia ne gli specchi pia-
ni, che quanto son minori per la forma loro, rappresentano la
cosa minore di quel ch’ella è, e siano pur grandi quanto si vo-
glia, non mostrano però giamai la cosa maggiore di se stessa, il
che considerando Agostino, scrivendo a Ebridio3, è d’opinione
che vi sia dentro alcuna cosa occulta, e pure alla fine tutte que-
ste cose son vane e superflue, né ritrovate per altro se non a
pompa et ozioso diletto. De gli specchi hanno scritto molti
Greci e Latini, ma il migliore di tutti gli altri è un Vitellio4.

2
Cfr. AGRIP., De occ. phil., II, 1, p. 250.
3
Cfr. AGOST., Epist., III, 3; IV, 1. Il testo latino reca correttamente: «Nebridium».
4
Allusione all’opera di Witelo di Slesia, o Vitellio (ca.1230-ca.1275) intitolata Per-
spectiva o Ottica, destinata a diventare il più importante trattato medievale di otti-
ca fino al XVII secolo. L’opera, in 10 libri, composta circa nel 1270 e stampata
per la prima volta a Norimberga nel 1535, è dedicata a Guglielmo di Moerbeke
ed è una compilazione di testi greci e arabi, tra i quali spicca per importanza la
traduzione del De aspectibus o Perspectiva dell’arabo Alhazen (si veda infra, nota 7,
p. 142), spesso menzionato come «Auctor perspectivae».
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27.
DELLA MISURA DEL MONDO

Ragionaremo ora brevemente della misura del mondo, e


questa si divide in cosmografia et in geografia, l’una e l’altra
misura il mondo e lo distingue, ma la prima secondo la ragio-
ne delle cose celesti e la distinzione di quelle mostra i siti delle
terre e de i luoghi sottoposte a quelle per misure di gradi e di
minuti, e con ragioni matematiche insegna le ragioni de i cli-
mi, le differenze de i dì e delle notti, i cardini de i venti, i varii
nascimenti delle stelle, le elevazioni de i poli, i paralleli et i me-
ridiani, l’ombre de i gnomoni1, e l’altre cose che vi restano a
tutti i luoghi. Ma l’altra senza cercare ragione alcuna delle co-
se celesti misura il mondo per stadii e per miglia e lo distingue
per monti, selve, laghi, fiumi, mari e riviere e mostra le genti, i
popoli, i regni, le provincie, le città, i porti e l’altre cose che vi
sono degni di memoria:

Mostra i costumi e gli abiti de i luoghi,


quel che porta un paese e che rifiuta2.

E quasi imitando la pittura, secondo le ragioni della geome-


tria e della prospettiva, finge tutto il mondo in una palla o in
una tavola piana, pingendo tutto il mondo in poco spazio. Al-
cuni sotto questi generi vi numerano la corografia, la quale se-

1
Lo gnomone è uno strumento rudimentale, costituito da un’asta disposta verti-
calmente sul suolo, per misurare l’altezza del Sole sull’orizzonte e per determi-
nare l’istante del mezzogiorno locale.
2
VIRG., Georg., I, 52-53.
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130 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

paratamente investigando alcuni luoghi particolari, gli dipinge


con più perfetta e quasi finita sembianza:

Con vario modo d’ornamento fatta


per ogni parte, di vigne, di selve,
di prati e campi, e quali umidi fiumi
empiano i mari, ove le valli abbassano,
ove s’alzano i monti, e con le cime
passano quasi fin sopra le stelle3.

Tutte queste cose, e quelle ch’abbiamo detto prima, ci sono


promesse dalla misura del mondo, ma quegli auttori che a noi
la vogliono insegnare, con molte discordie sono in contesa fra
loro de i termini, delle lunghezze, delle larghezze, delle gran-
dezze, delle misure, delle distanze, de i climi, essendo molto
differenti l’uno dall’altro nelle abitudini loro. Le quali altra-
mente hanno distinto Eratostene, Strabone, Marino, Tolemeo,
Dionisio et i moderni. Hanno anco diverse opinioni qual sia il
mezzo della terra, il quale Tolemeo mette sotto il cerchio equi-
noziale4, Strabone credette che fosse Parnaso monte de la Gre-
cia5, con cui sono Plutarco e Lattanzio grammatico, pensando
che quel monte al tempo del diluvio universale fosse il confine
delle acque e del cielo. Come di questo cantò Lucano:

Questo sol fuor dell’acque apparve, allora


ch’elle copian la terra, e fu confine
tra l’altissime stelle, e’l mar profondo6.

Che se questa ragione bastasse a vincere, l’ombilico della


terra non sarebbe in Parnaso monte della Grecia, ma in Gordi-
co dell’Armenia il quale, come testimonia Beroso, scopertosi il
primo dopo il diluvio, raccolse l’arca di Noè7. Altri sono di de-
verso parere e dicono che ’l mezzo della terra fu ritrovato co’l
volare delle aquile. Vi sono i teologi, i quali mettendo la falce

3
OVID.,
Metam., I, 32-44.
4
Cfr. TOLOM., Geogr., I, 24.
5
Cfr. STRAB., Geogr., IX, 3, 1. Il riferimento a Strabone è però impreciso.
6
LUCANO, De bello civ., V, 75-77.
7
Cfr. GEROL., Chron., I, 11, 1. Beroso, storico babilonese (IV-III sec. a.C.), è autore
di un’opera in 3 libri intitolata Babylonicarum rerum, di cui ci restano solo alcuni
frammenti (si veda BEROSO, ed. Jacoby, 680, III, pp. 364-397).
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27. DELLA MISURA DEL MONDO 131

loro in questa biada, vogliono che Gierusalem sia il mezzo del-


la terra, ritrovandosi scritto dal Profeta: «Iddio ha operato sa-
lute in mezzo della terra»8. Vengono a questa censura Lucre-
zio, Lattanzio et Agostino, i quali così ostinatamente dissero
che non erano antipodi9. Et oltra loro quegli altri i quali nega-
rono che fuor dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa vi fosse uno
altro mondo abitabile, la qual cosa, però, noi che siam venuti
da poi, abbiam conosciuto essere altramente per le navigazioni
de gli Spagnuoli e Portughesi, i quali n’hanno mostrato anco-
ra, contra le ciancie de poeti e l’opinion falsa d’Aristotele, tut-
ta la zona sotto il zodiaco essere abitata. Abbiamo oltra questi
di sopra negli istorici recitati molti altri errori de i geografi.
Nondimeno questa arte, mentre ella si sforza d’insegnarci la
grandezza della terra, la profondità del mare, i siti delle isole e
di tutti i paesi i confini e l’insegne, e parimente le incognite
origini di innumerabili nazioni, le usanze, i costumi e le diffe-
renze, nessuno altro frutto ne caviamo se non che mentre
troppo ingordamente investighiamo le cose altrui, impariamo
a non conoscere noi medesimi. E, come dice Agostino nelle
Confessioni: «Gli uomini vanno a speculare le altezze de i mon-
ti, le grandi inondazioni del mare, i larghissimi corsi de fiumi,
il circuito dell’oceano e gli aggiramenti delle stelle et abban-
donano se stessi»10. Plinio anch’egli dice ch’egli è pazzia misu-
rar la terra la quale, mentre che misuriamo, spessissime volte
usciamo della misura11.

8
SAL 74:12. Sull’uso del termine ‘profeta’ applicato al Salmista, e in generale ai
traduttori delle Scritture per la loro interpretazione guidata dallo Spirito Santo,
si veda, per es., AGOST., De civit. Dei, I, 7; XVII, 1; XVIII, 38 e 43.
9
Cfr. LUCR., De rer. nat., I, 1052-1067 e V, 534-538; LATT., Divin. instit., III, 24 sgg.;
AGOST., De civit. Dei, XVI, 9. L’idea di un mondo abitato anche nell’emisfero op-
posto a quello allora conosciuto, è da ascrivere probabilmente a Pitagora (si veda
DIOG. LAERZ., Vitae philos., VIII, 1, 26), ed è poi ripresa da Platone (Tim., 63a). Un
parere in favore di tale idea si trova in PLIN., Nat. hist., II, 65, 161-162; MACROB.,
Comm. in somn. Scip., II, 5, 24-28; MARZ. CAP., De nupt. Merc. et Phil., VI, 606-609.
10
AGOST., Conf., X, 8.
11
Cfr. PLIN., Nat. hist., II, 1, 3.
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28.
DELLA ARCHITETTURA

Non è dubbio alcuno che l’architettura ci porta grandissima


utilità et ornamento, e ne pubblici edificii e ne privati: questa
ci dona i muri, i tetti, le pistrine1, le carrette, i ponti, le navi, le
chiese, i tempii, gli oratorii, le muraglie, le torri e machine d’o-
gni sorte, con le quali le cose de gli uomini, così publiche co-
me private, sono difese et ornate. Disciplina per altro e molto
necessaria et onesta, s’ella non obligasse tanto le menti de gli
uomini, di modo che non si ritrova quasi alcuno il quale
(quando le facultà non gli mancassero) non desideri d’aggiun-
gere qualche cosa di nuovo alle cose che son bene edificate.
Per lo quale insaziabile desiderio e studio di edificare è venuto
che a questa cosa non è mai stato posto modo né fine2. Perciò
si sono tagliati i monti, empiute le valli, messi al piano i colli,
forati i sassi et aperti gli scogli del mare, cavate le viscere della
terra, rimossi i fiumi, i mari giunti co i mari, vuoti i laghi, sec-
cate le paludi, ritenuti i golfi, ritrovati i fondi del mare, fatte
nuove isole e di nuovo delle altre ritornate in terra ferma, tut-
te le quali cose, e più da queste, benché contrastino con la na-
tura istessa, hanno però spesse volte portato grandissima utilità
a tutto’l mondo3. Ma facciamo paragone con queste di quelle

1
Il termine latino «pistrina» indica la bottega dove si fa il pane. Si veda, per es.,
PLIN., Nat. hist., XVIII, 20, 86 e XIX, 52, 167.
2
Cfr. ERASMO, Moriae enc., XXXIX.
3
Cfr. AGRIP., De occ. phil., II, 1, pp. 250-251.
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134 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

cose che non sono punto d’utile alcuno a gli uomini se non da
guardare e maravigliarsi e, come dice Plinio, con grandissime
spese son fabbricate a oziosa e sciocca pompa di dinari4, sì co-
me sono i miracoli superstiziosi d’opere de gli Egizzii, de i Gre-
ci, de Toscani, de Babilonii e d’alcune altre nazioni, labirinti,
piramidi, obelisci, colossi, mausolei, mostruose statue di Rapsi-
nate, di Sesostre e d’Amasi, e quella maravigliosa Sfinge nella
quale credesi che sia posto il re Amasi5. Perciocch’ella era, co-
me dice Plinio, lavorata di sasso naturale e rosso, il circuito del
capo del mostro era per la fronte cento e duo piedi, la lun-
ghezza cento e quarantatre6. Ma vi sono ancora cose maggiori
di queste, l’opera di Memnone e di Semiramide in Bagisiano,
monte della Media: la effigie era grande diciassette stadii, che
fan due miglia et un ottavo, le quali cose nondimeno di gran
lunga avrebbe passato chi che si fu quell’architetto, o Stasicra-
te, come dice Plutarco, o Dinocrate, secondo che racconta Vi-
truvio, il quale si vantava di voler fare l’effigie di Alessandro
del monte Athos la quale avesse in mano una città capaci di
dieci millia uomini7. Numereremo con queste la vedetta di Ba-
bilonia, la base della quale (come testimonia Erodoto) era d’o-
gni parte l’ottava parte d’un miglio, e quella torre la quale era
fabricata nel profondo del mare sopra granchi di vetro8. Vanno
con queste ancora le case gordiane, gli archi triomfali et i tem-
pii de gli dèi, e specialmente quel di Diana Efesia fabricato da
tutta l’Asia in termine di dugento anni, e’l tempio di Latona in
Egitto fatto d’una pietra sola, largo nella fronte quaranta brac-
cia, e coperto anco d’una pietra sola, e la statua di Nabucho-
donosor, re di Assiria, d’oro di grandezza sessanta braccia, la
quale chi non adorava era fatto morire9, et un’altra di quattro
braccia fatta di topazio per una reina d’Egitto. Di questa ma-
niera sono le chiese edificate con superbissime spese a i nostri
santi et i campanili drizzati con mirabile altezza, raccolta gran-

4
Cfr. PLIN., Nat. hist., XXXVI, 15, 75.
5
Cfr. EROD., Hist., II, 175.
6
Cfr. PLIN., Nat. hist., XXXVI, 17, 77.
7
Cfr. PLUT., Mor., 335c-e; Alex., 705a; VITRUV., De archit., II, praef. Si veda però
STRAB., Geogr., XIV, 1, 23 e PLIN., Nat. hist., V, 11, 62; VIII, 37, 125, dove l’architetto
macedone figura con il nome rispettivamente di Chirocrate e Dinocare.
8
Cfr. EROD., Hist., I, 178; 181, dove però i granchi di vetro non sono menzionati.
9
Cfr. DN 3:1-7.
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28. DELLA ARCHITETTURA 135

dissima quantità di pietre, essendosi gettati via infiniti dinari


sacri et elemosine, co i quali molti poveri di Cristo, veri tempii
et immagini di Dio, che si stanno intanto penando di fame, se-
te, freddo, infermità e povertà, più onestamente sarebbonsi
potuti, e più debitamente, sostentare. Dall’altra parte, di quan-
to danno spessissime volte sia cagione questa arte a gli uomini
testimonio ne fanno le rocche, le machine da guerra, bombar-
de, artigliarie e ballestre, et altri instromenti di rovinare la vita
de gli uomini et i popoli vinti con l’ingegno di quegli. Né pur
ciò si vede solo in terra, avendo ella ancora insegnato a fabri-
care navi che somigliano castella e rocche, con le quali e navi-
ghiamo et abitiamo i pericolosi mari, e benché per natura sua
mille pericoli ne minaccino, con questi navigli molto più peri-
colosi gli facciamo, assassinando e guerreggiando in quegli,
non altrimenti che se fossimo in terra ferma. Il primo che
scrisse d’architettura fu Agatarco Ateniese, da poi Democrito
et Anassagora, presso Silenio10, Archimenide, Aristotele, Teo-
frasto, Catone, Varrone, Plinio; da poi Vitruvio, Nigrigento. De
moderni Leon Battista Alberti, Frate Luca et Alberto Durero.

10
Cfr. VITRUV., De archit., VII, praef., 11-12. Sileno è un architetto sconosciuto men-
zionato da Vitruvio.
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29.
DELLA ARTE METALLARIA

Nell’architettura si contiene ancora l’arte de metalli, vera-


mente arte di grande ingegno. Perciocché prima ella insegna
[a] conoscere dalla superficie della terra e de i monti le vene
che vi sono dentro, dove elle si estendono, gli esiti e le fibre, et
in che modo cavate che sono le viscere della terra s’abbiano da
sostenere le machine de monti, delle quali cose fra gli antichi
Stratone Lampsaceno scrisse un libro il quale intitolò Delle mac-
chine de metalli 1. Nondimeno o pochissimi, o nessuno, infino ad
ora perfettamente ha mostrato il modo di cuocere i metalli pu-
ri con lo struggimento del fuoco dalle pietre cavate delle mi-
niere, e quando e’ sono mescolati insieme a sapergli partire.
Forse perché questa arte, come mecanica e plebea, è avuta in
poco prezzo da gli uomini dotti e da gli ingegni nobili. Nondi-
meno, essendo stato io già alcuni anni passati dalla Maestà Ce-
sarea messo sopra alcune miniere, avendo, quanto mi fu possi-
bile, investigato ogni cosa, cominciai a scriverne un libro spe-
ciale, il quale ho tuttavia appresso di me, continuo accrescen-
dolo per maggior cognizione delle cose e correggendolo, spe-
rando ancora di non dovere lasciare cosa alcuna che apparten-
ga a ritrovare i metalli, a conoscergli, a considerare e disfare le
vene, a sostenere i monti, alle machine da cavare et altri artifi-

1
Allusione all’opera intitolata Delle macchine per lo scavo delle miniere di Stratone di
Lampsaco (III sec. a.C.), menzionata in DIOG. LAERZ., Vitae philos., V, 3, 59.
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138 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

ci fino a questa ora non conosciuti2. Questa arte è sostegno di


tutte le umane ricchezze, della avarizia delle quali tanto desi-
derio a gli uomini è venuto che vivi passano fino all’inferno, e
con rovina grande della natura cercano le ricchezze nelle stan-
ze dell’anime dannate, sì come dice Ovidio:

Passato han de la terra ne le viscere,


per le secrete, e poste infin nel centro.
E già il ferro malvagio, e più di lui
l’oro n’uscia, per la cui brama ardente
ogni mal venne al mondo. Onde onestade,
e fede, e verità volser le spalle.
Vennero in vece lor frode, et inganni,
forza, insidie, e desio d’aver ingordo3.

E come disse un altro poeta:

L’oro ha fatto fuggir la fede, e l’oro


ha fatto la giustizia esser vendibile4.

Il primo dunque che ritrovò le minere dell’oro e l’altre vene


de metalli, ritrovò un gran tradimento al viver nostro e, come
dice Plinio, tanto più nociva hanno eglino fatto la terra che
non sono da essere tenuti meno temerarii di quegli che vanno
a cercare le perle nel profondo del mare5. L’invenzione di que-
sto s’attribuisce a molti, ma gli istorici ne sono in discordia fra
loro. Ma i più degni dicono che’l piombo la prima volta fu ri-
trovato nelle isole poste dirimpetto la Spagna, dette Cassiteri-
di, il rame in Cipro, il ferro in Candia, ma l’oro e l’argento ap-
presso Pangeo, monte di Tracia; finalmente ne lordarono tutto
il mondo. Gli Scitarchi soli, come racconta Solino, dannarono
in eterno l’uso dell’oro e dell’argento, in tal modo levandosi
dalla commune avarizia6. Circa la superfluità dell’oro, era altra
volta, appresso Romani, proveduto con una legge antica, et
eravi la legge censoria delle miniere dell’oro per la quale, sì

2
Annotazione a margine di Agrippa: «Agrippae liber de metallaria». L’opera è
andata perduta.
3
OVID., Metam., I, 125-131, di cui il brano riportato è una libera parafrasi.
4
PROP., Eleg., III, 13.
5
Cfr. PLIN., Nat. hist., XXXIII, 21, 71.
6
Cfr. SOLINO, Coll. rer. memor., XV, 14-15.
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29. DELLA ARTE METALLARIA 139

come dice Plinio, era vietato nel territorio vercellese a pubbli-


cani che non avessero più di cinque uomini7. Ma o pur piaces-
se a Dio che gli uomini con quello studio s’inviassero al cielo,
col quale investigano le viscere della terra tratti dalla sola vena
delle ricchezze, le quali non hanno potere di far l’uomo così
felice che molti, e ciò non di rado, gravemente si pentano del-
la fatica perduta.

7
Cfr. PLIN., Nat. hist., XXXIII, 21, 78, ma il numero massimo di uomini che se-
condo questa legge potevano essere impiegati è di cinquemila, non di cinque.
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30.
DELLA ASTRONOMIA

Ultimamente ci si para davanti l’astrologia, la quale si chia-


ma ancora astronomia, tutta fallace affatto e molto più piena
di ciance che le favole de poeti non sono, i maestri della quale,
uomini veramente prosontuosi et auttori di prodigii, con em-
pia curiosità, secondo la volontà loro, sopra la sorte umana (sì
come i Basilidi eretici1) fabricano le sfere de i cieli, le misure
delle stelle, i moti, le figure, le imagini, i numeri, i concenti,
come se pure ora fossero venuti dal cielo2, et anco dimorativi
per alcun tempo, co i quali credono ch’ogni cosa si stia, si fac-
cia e si possa sapere. Di queste medesime cose però fra loro
molto discordi, contrarii e di continuo in contesa3, di modo
che io oso dire insieme con Plinio che l’incostanza di quest’ar-
te publicamente arguisce ch’ella è un nonnulla4, perché circa i
principii suoi una opinione hanno gli Indi, una i Caldei, una
gli Egizzii, una i Mori5, una i Giudei, una gli Arabi, una i Greci,
una i Latini, una gli antichi, un’altra i moderni. Perché Plato-
ne, Proclo, Aristotele, Averroè, e quasi tutti gli astrologi inanzi
Alfonso, eccetto alcuni pochi, trattando il numero delle sfere

1
Sulle dottrine cosmologiche di Basilide e dei suoi seguaci, si veda IREN., Adv.
haer., 1, 19, 4.
2
Cfr. ERASMO, Moriae enc., LII.
3
Ibid.
4
Cfr. PLIN., Nat. hist., VII, 49, 162.
5
Il testo latino reca: «Mauri», con riferimento agli abitanti della Mauritania.
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142 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

solo n’hanno numerato otto6. Nondimeno Averroè e maestro


Isaac dicono che Ermete et alcuni Babilonii v’hanno messo la
nona sfera7, alla quale opinione s’accosta Azarchele Moro8, Te-
bith e’l medesimo dotto uomo maestro Isaac et Alpetragio9, co
i quali è Alberto Tedesco, cognominato al suo tempo, io non
saprei dire per qual prova, il Magno, e tutti quegli c’hanno
provato il moto dell’andare e del partire10. Ora gli astrologi
moderni contano dieci sfere, la qual cosa Alberto è di parere
che anco Tolemeo la credesse11. Averroè anch’egli credette

6
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 3, 6; GIOV. PICO, Disp. adv. astr. divin. (ed. Garin),
VIII, 1. Le otto sfere sono: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno e
le cosiddette stelle fisse (ottava sfera).
7
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 3, 6. L’introduzione della nona sfera o primum
mobile, animata da un moto di rotazione con periodo di ventiquattr’ore che co-
municava all’ottava sfera, fu resa necessaria per spiegare il cosiddetto ‘moto di
precessione’ delle stelle, ossia il lento moto apparente parallelamente all’eclitti-
ca, da ovest a est, nel corso del quale le longitudini delle stelle crescono mentre
le latitudini rimangono inalterate. Tale introduzione è stata attribuita all’opera di
Abu– ‘Al¥ H.asan ibn H.asan ibn al-H.ayt–am, noto come Alhazen (965-1038), cono-
sciuta dai latini mediante la versione del De mundo e di altre compilazioni della fi-
ne del XII sec. e dell’inizio del XIII sec.
8
Abu– Ish.a–q al-Naqqa–‰ al-Zarqa–lluh (1029-ca.1087), conosciuto nel mondo latino
come Azarquiel o Azarchel astronomo arabo spagnolo, famoso soprattutto per le
sue teorie sul moto di trepidazione dell’ottava sfera (si veda infra, nota 22, p. 144)
e per aver contribuito alla compilazione delle Tavole toledane, tavole planetarie co-
sì chiamate per il loro riferirsi al meridiano della città di Toledo.
9
Probabile allusione a Ish.aq ibn H.unayn (VIII-IX sec.), noto per la sua traduzio-
ne in arabo dell’Almagesto di Tolomeo, portata a compimento con alcune corre-
zioni da T– a–bit ibn Qurrah circa nel 880-890, parte della quale fu utilizzata da Ge-
rardo di Cremona per la sua traduzione latina del testo tolemaico stampata a Ve-
nezia nel 1515; Abu– Ish.a–q al-I‰bı–lı– al-Bit.ru– ǧı– (m.1204), conosciuto come Alpetra-
gius o Alpetragio, filosofo arabo musulmano della Spagna, ebbe rinomanza nel-
l’Occidente europeo per un suo libro di astronomia nel quale tenta una nuova
spiegazione geometrica dei moti solari e planetari, eliminando gli epicicli e gli
eccentrici di Tolomeo in quanto contrari alla fisica aristotelica. L’opera fu tradot-
ta in latino da Michele Scoto (si veda infra, n. 6, p. 170) con il titolo di De motibus
coelorum circularibus (1217), mentre una versione in latino tradotta da un com-
pendio in ebraico dell’opera apparve a Venezia nel 1531 con il titolo di Alpetragii
arabi planetarum theorica.
10
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 10. Sul moto di trepidazione, introdotto dagli
astronomi arabi, in particolare da T– a–bit ibn Qurrah e accettato da Arzaquiel, si
veda infra, nota 22.
11
Ivi, I, 3, 6; GIOV. PICO, Disp., VIII, 1. La decima sfera, o cielo empireo, sembra de-
stare nei pensatori medievali notevoli problemi, sia relativamente al problema se
essa – e di conseguenza tutto l’universo – si trovi o meno in un luogo naturale co-
me ogni corpo fisico, sia a quello se essa sia costituita o meno da tante sfere quan-
ti sono i movimenti localizzati in questa parte dell’universo.
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30. DELLA ASTRONOMIA 143

che ne numerasse nove, benché in effetto Tolemeo non ne


ponga più che otto12. Ma Alfonso alcuna volta seguendo il giu-
dicio di maestro Isaac, cognominato Bazam13, tenne nove sfe-
re, ma quattro anni dopo che egli diede fuora le sue tavole14,
accostandosi alla opinione di Albuhassen15, del Moro16 e di Al-
bategno17, si ritornò alle otto. Et anco il maestro Abraham Ave-
nazre e maestro Levi e maestro Abraham Zacuto18, sono di pa-
rere che non vi sia alcuna sfera mobile sopra la ottava. Ma gli
astrologi ancora variano molto fra loro del moto dell’ottava

12
Cfr. GIOV. PICO, Disp., VIII, 1; TOL., Almag., VII e VIII.
13
Probabile allusione all’astronomo ebreo Yis.h. a–q ben Said, detto H . asan, che in-
sieme al medico Yehudá ben Moshe ha-Kohén diresse la redazione delle Tavole
alfonsine.
14
Le Tavole alfonsine, così chiamate dal nome del re di Castiglia Alfonso X (1221-
1284), detto el Sabio, furono fatte calcolare per il meridiano di Toledo da due
astronomi ebrei in base alle note tavole toledane di Azarquiel, i quali introdusse-
ro una serie di emendazioni al sistema fino ad allora conosciuto. Le Tavole, ter-
minate nel 1252, si diffusero in Occidente attraverso la versione latina datane in-
torno al 1320 dagli astronomi parigini Jean de Murs (Johannes de Muris) o Jean
de Lignières (o de Linières, Johannes de Lineriis) e godettero di grandissima fa-
ma in tutta l’Europa sino al sec. XVI.
15
Abu– ’l-H – ––
. usayn ‘Abd al-Rah.man ibn ‘Umar al-S.ufı (903-986), astronomo e mate-
matico persiano di lingua araba, noto soprattutto per il trattato sulla costellazio-
ne delle stelle fisse o Uranometria, che esercitò un notevole influsso non solo nel
mondo arabo, ma anche nell’Europa medievale e rinascimentale. È interessante
notare che nel primo dei 4 libri intitolati Libros del saber de astronomia, un’opera
di astronomia attribuita ad Alfonso di Castiglia, al-S.u–fı– viene menzionato con il
nome di Abolfazen, che diventerà Albofaçen nella traduzione italiana del 1341 ca.
(il cui unico manoscritto esistente si trova conservato presso la Biblioteca Apo-
stolica Vaticana), e Albuhassin nell’opera di Agostino Ricci (si veda infra, nota 25,
p. 144) di cui, con ogni probabilità, si servì Agrippa come fonte per le sue cita-
zioni.
16
Si tratta di Azarquiel, precedentemente menzionato come «Azarchele Moro».
17
Abu– ‘Abdalla–h Muh.ammad ibn Ǧa–bir ibn Sina–n al-Batta–nı– (ca. 858-829), noto
anche come Albatenio o Albategno, astronomo e matematico arabo la cui fama è
legata alla sua opera monumentale, al-Zij al-S. a–bı– (Tavole sabee), che costituisce il
solo trattato completo di astronomia araba che sia stato tradotto integralmente in
latino con il titolo di De scientia stellarum et motibus da Platone di Tivoli nel XII sec.
18
Abraham ben Me’ir ibn ‘Ezra (1092/3-1167), esegeta biblico, filosofo e scien-
ziato ebreo spagnolo, autore di un trattato sull’astrolabio e di un’opera astrologi-
ca nota nella traduzione latina di Enrico Bate di Malines con il titolo di De nativi-
tatibus pubblicata a Venezia nel 1485; Le–wî ben Ge–r‰ôn (1288-1344), noto anche
come Leo Hebraeus, Gersonide o Léon de Bagnoles, esegeta, filosofo, matemati-
co e astronomo ebreo, interprete del sistema aristotelico nell’esposizione di Aver-
roè; ’Avra–ha–m ben 1emû’e–l Zakku–t (ca.1450-ca.1522), astronomo ebreo maestro
di Agostino Ricci e autore di un manuale di astronomia intitolato Almanach perpe-
tuum (1469).
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144 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

sfera e delle stelle fisse, perciocché i Caldei e gli Egizzii affer-


mano ch’ella si muove solo a un modo, co i quali s’aderiscono
Alpetrago, e fra i moderni Alessandro Achilino19; ma gli altri
astrologi da Ipparco fino a i nostri tempi dicono ch’ella s’aggi-
ra con diversi moti20. I Giudei talmudisti gli attribuiscono dop-
pio moto21; Azarchele, Tebith e Giovanni da Monteregio il mo-
to della trepidazione, il quale si chiama d’andare e di torna-
re22, gli hanno descritto sopra piccioli cerchi circa i capi dell’A-
riete e della Libra, ma in questo sono differenti insieme, per-
ché Azarchele dice che’l capo mobile non può esser lontano
dallo stabile più che dieci parti23, e perciò tiene che le stelle fis-
se non si rivolgono sempre a una medesima parte del mondo;
ma Tebith dice che non più di quattro parti con circa dician-
nove minuti. Giovanni da Monteregio crede che non più di ot-
to parti, e perciò le stelle fisse non si rivolger sempre alla me-
desima parte del mondo, ma alcuna volta ritornare onde elli
hanno cominciato. Ma Tolemeo, Albategno, maestro Levi24,
Avenazre, Zacuto, e di moderni Paolo fiorentino et Agostin
Riccio, mio grandissimo amico in Italia25, affermano che le stel-

19
Alessandro Achillini (1463/61-1512), sostenitore dell’interpretazione averroisti-
ca del sistema aristotelico, e in particolare della tesi dell’eternità del mondo, è au-
tore, fra l’altro, di alcune opere di astronomia, tra le quali il De intelligentiis e il De
distributionibus ac de proportione motuum (1494), il De orbibus (1498).
20
Cfr. GIOV. PICO, Disp., IX, 11.
21
Ivi, VIII, 1 e IX, 11.
22
Ibidem. Il moto di trepidazione (trepidatio fixarum o accessus et recessus) è uno spo-
stamento a onde intorno alla linea polare, ossia quella che sarà chiamata la nota-
zione del polo dell’asse terrestre. Le teorie del moto di trepidazione dell’ottava
sfera, introdotte per spiegare la precessione degli equinozi, furono sviluppate in
modo particolare dagli astronomi T– a–bit ibn Qurrah (836-901) nello scritto De mo-
tu octavae sphaerae (operetta che i latini gli attribuirono ma che non è certo se sia
sua), e Azarquiel. Tali teorie, però, non furono accettate da Tolomeo, e di conse-
guenza da molti importanti astronomi arabi tra i quali Albategno e al-S.u–fı–. Per
Giovanni da Monteregio o Regiomontanus, si veda infra, nota 43, p. 147.
23
Cfr. GIOV. PICO, Disp., IX, 11.
24
Ivi, VIII, 1.
25
Paolo Dal Pozzo Toscanelli (1397-1482), astronomo, medico italiano e studioso
insigne di geografia matematica, le cui opere sono andate quasi tutte perdute;
Agostino Ricci, probabilmente fratello del Paolo Ricci traduttore in latino del te-
sto cabbalistico Sha’aré orà di Yosèf Giqatilla, con il titolo di Portae lucis, fu autore
di un’opera di astronomia e di cabbala intitolata De motu octavae sphaerae, pubbli-
cata nel 1513, cui Agrippa qui si riferisce. Interessato all’occultismo e alle prati-
che magiche, Agostino Ricci fu allievo dell’astronomo Abraham ibn Samuel Za-
chut sopra menzionato e divenne in seguito medico personale del papa Paolo III.
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30. DELLA ASTRONOMIA 145

le sempre e continuo si movono secondo le successioni de i se-


gni. Ma gli astrologi moderni danno moto di tre sorti all’ottava
sfera: un proprio, ch’abbiamo chiamato trepidazione, il quale
si viene a compire in settemila anni; l’altro, che domandano
aggirazione dalla nona sfera, la revoluzione della quale non si
finisce in meno di quarantanove mila anni; il terzo dalla deci-
ma sfera, che chiamano moto del primo mobile, o moto di rap-
to, ovvero diurno, il quale in termine d’un giorno naturale
ogni dì ritorna al suo principio26. Oltra di ciò, quei c’hanno at-
tribuito moto doppio all’ottava sfera non s’accordano tutti in-
sieme, perché quasi tutti i moderni, e quei ch’admettono il
moto della trepidazione, argomentano ch’ella è tirata dalla sfe-
ra superiore27. Ma Albategno, Albuhassen, Alfragano28, Aver-
roè, maestro Levi, Abraam Zacuto et Agostin Riccio sono d’o-
pinione del moto diurno, il quale alcuni vogliono che sia moto
di rapto, non sia proprio d’alcuna sfera, ma si faccia da tutto il
cielo29. Non sono però meglio d’accordo insieme nella misura
del moto dell’ottava sfera e delle stelle fisse. Perciocché Tole-
meo dice che le stelle fisse si movono un grado in cento anni30.
Albategno dice che questo si fa in sessantasei anni egizzii31, a
cui s’aderiscono maestro Levi, maestro Zacuto et Alfonso nella
correzzione delle sue tavole32. Azarchele Moro dice ch’elle si

26
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 3, 6; GIOV. PICO, Disp., VIII, 1.
27
Cfr. GIOV. PICO, Disp., VIII, 1.
28
Abu– ’l-‘Abba–s Ah.med ibn Muh.ammad ibn Kat––ı r al-Far*a–nı– (m. ca.860), cono-
sciuto anche con il nome latinizzato di Alfargano, astronomo e geografo arabo,
autore di un compendio dell’Almagesto, conosciuto nell’Occidente latino con il
titolo di Liber de aggregationibus scientiae stellarum et de principiis coelestium motuum
nella traduzione di Gerardo da Cremona (ante 1175), in cui si scorgono i primi
segni di un’analisi critica e le prime correzioni che gli astronomi arabi apporta-
rono al testo tolemaico. In particolare, al-Far*a–nı– corregge il valore tolemaico
dell’obliquità dell’eclittica e afferma che l’apogeo del Sole e quello della Luna,
che Tolomeo riteneva fissi, seguono in realtà il movimento di precessione delle
stelle fisse.
29
Cfr. GIOV. PICO, Disp., VIII, 1; RICCI, De motu oct. sph., B2r-v. A questo punto il te-
sto latino reca: «Ipse etiam Averrois ait Ptolemaeum in quodam libro suo (quem
narrationum inscripsit) negare motum gyrationis, et Rab. Leui ait illum cum
Auerroe sensisse motum diurnum fieri a toto coelo», qui mancante.
30
Cfr. GIOV. PICO, Disp., IX, 11; GIORGIO, De harm. mundi, I, 3, 6; RICCI, De motu oct.
sph., A6r.
31
Cfr. RICCI, De motu oct. sph., A6r; GIOV. PICO, Disp., IX, 11 .
32
Ibid.
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146 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

movono un grado in settantacinque anni33; Ipparco in settanta


otto34; molti Ebrei, come maestro Giosuè, maestro Mosè Raibo-
no35, maestro Avenazra, e dopo loro maestro Benrodam36 in
settanta anni37; Giovanni da Monteregio in ottanta. Agostin
Riccio tiene il mezzo fra le opinioni d’Albategno e de gli Ebrei,
tenendo che le stelle fisse una parte del cielo non si mova più
tosto che in sessantasei, né più tardo che in settanta anni38. Ma
ancora maestro Abraam Zacuto, come dice il Riccio, afferma
secondo la dottrina de gli Indiani, che vi sono ancora due stel-
le in cielo opposte l’una all’altra per diametro, le quali contra
l’ordine suo non fanno il corso loro se non in cento quaranta-
quattro anni39. Alpetrago anch’egli è di parere che tuttavia sia-
no ne cieli varii moti non conosciuti da gli uomini40, il che s’è
vero vi possono essere ancora e stelle e corpi a i quali quei mo-
ti si convengano, i quali gli uomini o non possono vedere per
la troppa altezza, o infin ad ora non hanno potuto conoscere
con alcuna osservazione d’arte; al quale parere s’aderisce an-
cor Favorino filosofo in Gellio nell’orazion sua contra i gene-
tliaci41. Resta dunque che non è disceso ancora alcuno astro-
nomo di cielo che n’abbia potuto insegnare il moto vero e cer-

33
Cfr. GIOV. PICO, Disp., IX, 11 .
34
Ibid.
35
Ibid. Il testo latino reca: «Maymonus». Raibono è infatti l’acronimo di Moshè
ben Maimon o Maimonide (1138-1204), conosciuto anche come «Mosè egizio»,
il filosofo e teologo ebraico autore del Mi&neh Torah (composto tra il 1170 e il
1180), grande codice giuridico, e della Guida dei perplessi (terminata intorno al
1190) in cui espone, in forma rigorosamente concettuale, i fondamenti essenzia-
li della sua filosofia religiosa. Si veda anche GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 7.
36
Abu– l’ H.asan ‘Alı– ibn Rid.wa–n ibn ‘Alı– ibn Ÿa‘far (ca.998-1061/67), o Haly He-
ben Rodan, astronomo e medico arabo autore di molte opere, la più importante
delle quali è il commentario all’Ars prava di Galeno, tradotto in latino da Gerar-
do da Cremona. Ad Haly Heben Rodan viene attribuito anche un commento al
Tetrabiblos di Tolomeo conosciuto nel mondo latino nella traduzione di Aegidius
de Thebaldis del XIII sec., che contribuì in maniera decisiva alla diffusione della
dottrina astrologica tolemaica nel Medioevo.
37
Cfr. RICCI, De motu oct. sph., A5v; GIOV. PICO, Disp. IX, 11.
38
Cfr. RICCI, De motu oct. sph., D7r-v.
39
Ivi, A6r.
40
Cfr. GIOV. PICO, Disp. VIII, 1.
41
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., III, 8; POLID. VIRG., De invent. rer., I, 23; AUL.
GELL., Noct. att., XIV, 1. Gli astrologi per estensione si chiamavano ‘Caldei’ per es-
sere la Caldea la patria dell’astrologia, e ‘genetliaci’ in rapporto alla pratica del-
l’oroscopo, ossia coloro che praticavano l’astrologia divinatoria.
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30. DELLA ASTRONOMIA 147

to dell’aplane42. Né infin ad ora è stato conosciuto il vero moto


di Marte, di che si lamenta ancora Giovanni da Monteregio in
una certa epistola a Bianchino43. Et è stato un certo Guglielmo
da san Clodoaldo, astrologo famoso, che già più di dugento
anni sono ha lasciato scritto l’errore di questo moto, né però
alcuno dopo lui l’ha saputo correggere44. E ch’è più, impossi-
bile è ritrovare il vero entrare del Sole ne i punti equinozziali,
il che maestro Levi prova con molte ragioni45. Ma che diremo
delle cose ritrovate da poi, del modo che circa quelle s’ingan-
narono gli antichi. Perciocché molti insieme con Tebith han-
no creduto che la grandissima declinazione del sole si varie di
continuo, andando ella però sempre con misura. Hanno circa
questo avuto altro parere Tolemeo; altramente n’hanno senti-
to Albaten, maestro Levi, Avenazra et Alfonso46. Similmente
ancora circa il moto del Sole e la misura dell’anno diversa opi-
nione hanno tenuto coloro da Tolemeo e da Ipparco47. Tolo-
meo parimente ha avuto un parere circa il moto dell’auge del
Sole differente da Albategno e da li altri48. Delle immagini del
cielo ancora e delle considerazioni delle stelle fisse, a un modo
hanno tenuto gli Indiani, uno i Caldei, uno gli Ebrei, uno gli
Arabi, uno Timoteo, uno Arsatili49, uno Ipparco, un Tolemeo
et un altro i moderni50. Taccio qui del principio del cielo de-
stro e sinistro le pazzie che ne dicono, de i quali però Tomaso
d’Aquino et Alberto Tedesco, teologi superstiziosi, mentre che

42
Cfr. GIOV. PICO, Disp., IX, 9. Con il termine latino «aplanes», dal greco ajplanhv",
si indica l’area o sfera delle stelle fisse (si veda, per es., ARIST., Meteor., 343b e Me-
taph., 1073b; CORP. HERM., II, 6 ).
43
Cfr. GIOV. PICO, Disp., IX, 9. Johannes Müller (1436-1476), o Regiomontanus,
astronomo e matematico bavarese, intraprese la riforma dell’astrologia, resa ne-
cessaria dagli errori che si erano scoperti nelle Tavole alfonsine. Discepolo di Gio-
vanni Bianchini (Iohannes Blanchinus, XV sec.), la cui fama è legata principal-
mente alle Tabulae astronomiae o Canones super Tabulas (1495) e alle Canones tabu-
larum super primo mobili, intrattenne con il suo maestro una fitta corrispondenza.
44
Guglielmo di St.-Cloud (attivo a Parigi nella seconda metà del XIII sec.), astro-
nomo allievo di Ruggero Bacone e fondatore della scuola astronomica parigina.
45
Cfr. GIOV. PICO, Disp., IX, 11.
46
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De rerum praenot., V, 11; GIOV. PICO, Disp., IX, 9.
47
Ibid.
48
Ibid. e Exam. vanit., III, 8; GIOV. PICO, Disp., IX, 9.
49
Per gli astronomi antichi Timocare e Aristillo (III sec. a.C.), si veda TOLOM.,
Synt. math., VII, 2; PLUT., Mor., 402f.
50
Cfr. GIOV. PICO, Disp., VIII, 3.
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148 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

alcuna cosa con ordine ne volsero dire, non poterono ritrovar


niente che si potesse mostrare; né alcuno certamente ne potrà
ritrovar giamai. Et anco gli astrologi non sanno ancora quel
che sia galaxia, cioè il cerchio di latte51. Né voglio allungare il
ragionamento circa gli eccentrici, concentrici, epicicli, retro-
gradazioni, trepidazioni, accessi, recessi, rapti, altri moti e cer-
chi di moti, conciossia che tutte queste cose non sono opre di
Dio né della natura, ma mostri di matematici e ciancie di favo-
latori derivate dalla filosofia corrotta e dalle favole de poeti, al-
le quali però, come a cose vere, create da Dio o formate dalla
natura, non si vergognano quegli maestri di dar tanta fede che
a queste ciancie attribuiscono, sì come a cause, tutte le cose
che si fanno in questi luoghi inferiori e dicono che quei moti
imaginati son principii di tutti i moti inferiori. La serva d’Ana-
simene argutamente riprese con un motto faceto questi astro-
nomi: ella soleva talvolta andare co’l padrone Anasimene, il
quale essendo uscito una notte per tempo fuor di casa a con-
templare le stelle, non si ricordando del sito, mentre che secu-
ramente guardando il cielo considerava le stelle, cadde in una
fossa che gli era inanzi a i piedi. Dissegli allora la fante: «Mi
maraviglio, padrone, del modo con che ti credi di conoscere le
cose che sono in cielo non sapendo prevedere quelle che hai
davanti a i piedi». Dicesi che Talete Milesio con questa medesi-
ma facezia fu ripreso da Tressa sua fante52. Tullio dice di loro
quasi l’istesso: «Gli astrologi mentre che contemplano le con-
trade del cielo, nessuno di loro vede quel che gli è inanzi a i
piedi»53. Anch’io sendo fanciullo bevvi quest’arte da mio pa-
dre, da poi vi ho consumato dentro e tempo e fatica grande; fi-
nalmente ho conosciuto che tutto il valor suo non è posto so-
pra altro fondamento che pure ciancie e figmenti d’imagina-
zioni, e non solo me n’incresce, ma mi pento ancora d’avervi
speso fatica, e vorrei potermi spogliare e l’uso e la memoria di
quella. Et è già buon tempo ch’io me l’ho tolta dell’animo, né

51
Il testo latino reca l’annotazione a margine: «Lacteus circulus incognitus». Il
termine «lacteus circulus» qui usato da Agrippa si ritrova in OVID., Metam., I, 169;
SEN., Nat. quaest., VII, 15, 2; PLIN., Nat. hist., XVIII, 69, 280; CIC., De re pub., VI, 15,
16. Aristotele, nei Meteorologica fornisce una spiegazione dell’origine, delle cause
e della natura della via lattea (Meteor., I, 345a- 346b).
52
Cfr. DIOG. LAERZ., Vitae philos., I, 1, 34; PLAT., Theaet., 174a.
53
CIC., De divin., II, 13; PLIN., Nat. hist., XVIII, 67, 253.
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30. DELLA ASTRONOMIA 149

giamai la ripigliarei se i violenti preghi de gli uomini grandi (i


quali talora sogliono servirsi de i chiari e valorosi ingegni a
molti indegni artificii) spesse volte non mi sforzassero a porvi
mano e s’io non fossi persuaso dall’utilità propria a dovere al-
cuna volta trar frutto dalla pazzia loro e compiacere di ciancie
a coloro che tanto desiderano le ciancie. E dico ciancie, per-
ciocché altro non ha l’astrologia se non mere ciancie e favole
di poeti e mostruose finzioni delle quali s’hanno imaginato
che’l cielo sia ripieno affatto. E non è sorte alcuna d’uomini
che più si confaccia insieme quanto gli astrologi et i poeti, se
non che discordano fra loro di Lucifero e di Vespero, affer-
mando i poeti che in quel giorno che Lucifero appare inanzi
che si levi il Sole, ch’egli viene appresso ancora quando e’ tra-
monta. E quasi tutti gli astrologi negano che ciò si possa fare in
quel medesimo giorno, salvo quei che mettono Venere sopra il
Sole, perciocché le stelle che sono molto più oltra pare a noi
che piuttosto nascano nel nascimento e più tardi s’ascondano
nell’occaso. Ma bene avrei passato, se non me ne fossi ricorda-
to, questa astrologia del sito delle stelle o discordia de pianeti,
perciocché ella non è tanto cosa d’astrologi quanto di filosofi.
Perché Platone mette la sfera del Sole seconda dopo la Luna54;
il medesimo fanno gli Egizzii mettendo il Sole fra la Luna e
Mercurio55. Archimenide et i Caldei pongono il Sole quarto in
ordine; Anasimandro, Metrodoro Chio e Cratete dicono che’l
Sole è posto ultimo di tutti, dopo lui la Luna, infra queste l’al-
tre erranti e fisse56; Xenocrate crede che tutte le stelle si mova-
no in una stessa superficie. Né sono meno in discordia della
grandezza del Sole, della Luna e dell’altre stelle, né fra loro è
fermezza alcuna d’opinioni, né verità delle cose celesti. E non
è maraviglia, essendo il ciel proprio ch’essi contemplano in-
constantissimo sopra l’altre cose e ripieno di ciancie e di favo-
le, perciocché i dodici segni e l’altre boreali et australi figure
non ascesero in cielo se non con le favole. E nondimeno gli
astrologi con queste favole vivono, truffano e guadagnano,
mentre che i poeti, inventori di queste cose, nobilmente si
muoiono di fame.

54
Cfr. GIOV. PICO, Disp., X, 4.
55
Cfr. GIOV. PICO, Disp., X, 4; PLAT., Tim., 38d.
56
Cfr. AEZIO, Dox. gr. (ed. Diels), II, 15-16 A18.
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31.
DELLA ASTROLOGIA GIUDICIARIA

Restaci ancora un’altra sorte d’astrologia che si chiama divi-


natoria, o giudiciaria, la quale tratta delle revoluzioni de gli an-
ni del mondo, delle natività, delle domande, delle elezzioni,
delle intenzioni e de pensieri1, et insegna anco a predire, a re-
vocare, a schivare, o fuggire i fini di tutte le cose c’hanno a ve-
nire e le secrete disposizioni della providenza divina. Però gli
astrologi comprano gli effetti de i cieli e delle stelle da gli anni
lontanissimi, o inanzi ogni memoria del fatto, o i tempi di Pro-
meteo, dalle grandi, come essi dicono, congiunzioni inanzi il
diluvio, et affermano che gli effetti, le forze et i moti di tutti gli
animali, pietre, metalli, erbe e d’ogni altra cosa ch’è creata in
questi luoghi inferiori, deriva da i cieli e dalle stelle e pende
tutto di là, sì che si può considerare uomini veramente incre-
duli e non meno empi, che questo pur non conoscono: che Id-
dio aveva già creato l’erbe, le piante e gli alberi prima che fa-
cesse i cieli e le stelle. Anzi tutti i filosofi più gravi come Pita-
gora, Democrito, Bione, Favorino, Panezio, Carneade, Possi-
donio, Timeo, Aristotele, Platone, Plotino, Porfirio, Avicenna,
Averroè, Ippocrate, Galeno, Alessandro Afrodisio e Cicerone
ancora, Seneca, Plutarco e molti altri, i quali hanno investigato
le cause delle cose da ogni arte e scienza, non ci rimettono gia-

1
Il testo latino aggiunge: «de virtutibus», qui mancante. La distinzione fra astro-
nomia propriamente detta, o astrologia matematica, e astrologia divinatrice fu
posta chiaramente da Tolomeo (si veda, per es., Tetrab., I, 4).
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152 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

mai in queste cause d’astrologia2, le quali, ancora che fossero


cause, nondimeno perché i corsi delle stelle e le forze loro
chiaramente non si conoscono (la qual cosa è chiarissima a tut-
ti gli uomini savi), non potrebbono dare giudicio certo de gli
effetti loro3. Né però mancano fra loro, sì come sono Eudosso,
Archelao, Cassandro, Oichilace Alicarnasso, peritissimi mate-
matici, e molti altri moderni e grandissimi auttori, i quali con-
fessano che egli è impossibile ritrovarsi alcuna cosa certa della
scienza de giudicii4, così per infinite altre cause le quali opera-
no insieme co’l cielo, le quali bisogna considerar tutte. E lo co-
manda ancora Tolemeo come anco per che s’appongono a
quelle assaissime occasioni, sì come sono le usanze, i costumi,
la creanza, l’onestà, l’imperio, il loco, la natività, il sangue, il ci-
bo, la libertà dell’animo e la disciplina, conciossia che quegli
influssi non isforzano, come essi dicono, ma inclinano5. Oltra
di ciò, coloro c’hanno scritto le regole de i giudicii d’una cosa
medesima son tanto differenti e contrarii, che impossibile è
che uno astrologo da tante e così diverse opinioni possa pro-
nunziare alcuna cosa certa s’egli non ha dentro di sé alcun sen-
so o instinto d’indovinare delle cose future et occulte, o piut-
tosto una secreta e nascosa inspirazion del diavolo con la qua-
le possa di questa cosa saper dare giudicio, o per alcun altro
modo sia mosso ad accostarsi ora a questa, ora ad altra opinio-
ne. Lo qual istinto chi non si trova avere, costui, come dice Ha-
li, non può essere veritevole ne i giudicii d’astrologia6, perché
si può vedere che l’indovinare d’astrologia non sta tanto nel-
l’arte, quanto in una certa oscura sorte astrologica delle cose, e
come non per arte ma a sorte esce il verso da i libri di giuoco,
il quale dice talora il vero, così ancora lo indovinare esce del-
l’animo dell’astrologo non per arte ma a ventura; di che ne fa
ancora testimonio Tolemeo dicendo: «La scienza delle stelle è
da te, e da quelle», volendo inferire che l’indovinare le cose fu-
ture et occulte non vien tanto dall’osservazione delle stelle
quanto da gli affetti dell’animo7. Non è dunque certezza alcu-

2
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 3, 11; GIOV. PICO, Disp., I e IV, 12.
3
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 4, 9.
4
Cfr. GIOV. PICO, Disp., I; CIC., De divin., II, 43.
5
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 4, 9.
6
Ivi, I, 3, 8.
7
Ivi, I, 4, 9.
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31. DELLA ASTROLOGIA GIUDICIARIA 153

na in questa arte, ma ella si può accommodare a ogni cosa se-


condo l’opinione che si cava da congietture, da estimazione o
da inspirazione di demonii, che non si può capire, o da super-
stiziosa sorte. Non è dunque altro, questa arte, che una fallace
congiettura d’uomini superstiziosi i quali per prattica di lungo
tempo hanno fatto scienza delle cose incerte, nella quale
scienza a un medesimo tempo ingannino gli ignoranti per ca-
varne dinari, e se medesimi ancora. Che se l’arte di costoro è
vera et intesa da loro, onde è che tanti e sì sconci errori si veg-
gono ne i pronostichi loro8? Se anco no, non fanno eglino in-
darno, pazzamente e crudelmente professione d’una scienza
di cose che non sono o non sono intese? Ma i più accorti fra lo-
ro circa le cose a venire non parlano se non oscuramente, e
con artificiosa astuzia fingono pronostichi dubbiosi, i quali si
possono applicare a ogni cosa, tempo, principe e nazione. Ma
poi che alcuna di queste cose sarà accaduta, allora raccolgono
le cagioni di quella e così dopo il fatto, con ragioni nuove, sta-
biliscono pronostichi vecchi per parere d’avere indovinato, nel
modo che fanno gli interpreti de i sogni: quando veggono il
sogno non sanno cosa di certo, ma poi che alcuna cosa n’è lo-
ro avenuto, allora accomodano il sogno a quel ch’è accaduto.
Oltra di questo, essendo impossibile in tanta varietà di stelle
non ne ritrovar alcune bene, alcune poste male, prendono oc-
casione da queste di dire ciò che vogliono e promettono a chi
gli pare vita, salute, onori, ricchezze, grandezza, vittoria, sa-
nità, figliuoli, amici, matrimonii o prelature, magistrato, e cose
simili. Che se ad alcuni son male favorevoli, a costoro pronun-
ziano morti, forche, disonori, calamità, exilii, privazione di pa-
renti, infermità e disgrazie, non tanto con l’arte scellerata loro,
quanto con gli scelerati affetti mandando in ruina gli uomini
che danno fede a questa empia curiosità, e spesse volte ancora
facendo venire all’armi i popoli et i principi con crudeli par-
zialità e guerre. Che se per aventura la fortuna si verrà a incon-
trare co i pronostici loro, sì che fra tanti dubbi n’accada uno o
uno altro vero, cosa mirabile è a vedergli pavoneggiarsi e con
quanta intolerabile insolenza di ciò si vanno vantando. Che se
per mentire sempre saranno una volta convinti di menzogna,
allora lo scusano con la bestemmia, ovvero con una bugia ne
ricoprono un’altra dicendo che l’uomo savio signoreggia le

8
Ibid.
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154 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

stelle (benché, per dire il vero, né le stelle il savio, né il savio le


stelle, ma l’uno e l’altro signoreggi Iddio), ovvero dicono che
la dapocaggine di chi riceve s’è apposta alle stelle. Poi si coruc-
ciano con quei che cercano maggior fede e tuttavia questi ciur-
matori ritrovano principi e magistrati che gli credono ogni co-
sa e gli intratteggono con publici salari, non essendo in effetto
alcuna qualità d’uomini più dannosa alla republica di questi
che dalle stelle, dal guardar le mani, da i sogni e simili artificii
d’indovinare, promettono le cose a venire e seminano prono-
stichi, uomini oltra di ciò sempre inimichi a Cristo e tutti que-
gli che credono in lui, de i quali Cornelio Tacito si lamenta: «I
matematici» (così sono essi chiamati dal vulgo), dice egli, «ge-
nerazione d’uomini infedele a i principi, fallace a quei che gli
credono, sono licenziati sempre fuor della nostra città ma non
si cacciano mai»9. Varrone, anch’egli auttor grave, afferma che
la gravità di tutte le superstizioni sono derivate di grembo del-
l’astrologia10. Era anco una gabella in Alessandria che gli astro-
logi pagavano blacenominon11, chiamata così dalla pazzia loro,
perciocché guadagnano da una ingegnosa pazzia, e non vanno
a loro per consiglio se non uomini pazzi e temerarii: che se la
vita e la sorte de gli uomini vien dalle stelle, perché se ne pi-
gliamo noi cura12? E perché non si rimette di queste cose a Dio
et a cieli, i quali non possono errare né far male, et essendo
noi uomini, non doveremmo cercare di sapere più alto che le
forze nostre non sono, ma investighiamo solo le cose umane; e
ch’è più, sendo noi cristiani, e credendo in Cristo, lasciamo
l’ore et i momenti a Dio Padre, il quale li pose in possanza sua.
Ma se la vita e la fortuna nostra non sono dalle stelle, non cor-
re egli ogni astrologo a voto? Ma è il genere umano tanto timi-
detto e credulo che a guisa di fanciulli più temono delle favole
de gli spiriti, e credon più le cose che non sono che quelle che
sono, e quanto meno la cosa è possibile, tanto n’hanno paura
maggiore, e quanto ella è men verisimile, tanto più fermamen-
te la credono. E certo se questi tali non fossero, gli astrologi e
gli indovinatori morrebbono di fame e la pazza credulità loro

9
TAC.,Hist., I, 22.
10
Cfr. GIOV. PICO, Disp., II, 5; VARR., Antiq. rer. div. (ed. Agahd), p. 148 sgg.
11
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 30. Il traduttore qui corregge il testo latino che reca:
«blacenomion».
12
Il testo latino reca: «quid timemus, quid solicitamur?».
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31. DELLA ASTROLOGIA GIUDICIARIA 155

scordatasi delle cose passate, negligente delle presenti e preci-


pitosa nelle future, tanto favorisce questi truffatori che quan-
tunque ne gli altri uomini per una sola menzogna tanto si levi
di fede a chi parla che tutti gli altri veri s’oscurino13. Per lo con-
trario, in questi maestri di bugie, una verità detta a caso fa fede
ancora alle publiche menzogne, nelle quali coloro veramente
che più si confidano, più di tutti gli altri ancora diventano in-
felici, sì come sogliono quelle superstiziose ciancie arrecar
danno a suoi partigiani, il che l’antichità ne testimonia in Zo-
roaste, Faraone, Nabuchodonosor, Cesare, Crasso, Pompeio,
Deiotauro, Nerone e Giuliano apostata, i quali sì come furono
inclinatissimi a queste ciancie, così miseramente morirono per
confidarsi in quelle14, et a coloro a i quali gli astrologi tutte le
cose avevano promesso liete, tutte avvennero meste, sì come a
Pompeio, a Crasso et a Cesare, a i quali avevano promesso che
nessun di loro dovea morire se non vecchio, in casa propria e
con onore, e nondimeno ciascun di loro si morì malamente et
inanzi tempo15. Qualità d’uomini veramente ostinata e straor-
dinaria, i quali si vantano d’indovinare le cose a venire e non
sanno le passate, né le presenti, e facendo professione di dire a
tutti tutte le più secrete cose, le più volte essi non sanno quel
che si faccia in casa et in camera loro, di qual sorte astrologo fu
tassato dal Moro inglese in questo bellissimo epigramma:

Le stelle tutte, Astrologo, tu vedi,


et elle il fato altrui ti fan palese.
Né le stelle però veder ti fanno,
che la tua moglie in publico si metta.
Saturno è lungi, e dicon ch’era cieco,
ch’un fanciul da una pietra non conobbe.
La Luna va con gli occhi onesti, e bassi,
e vergin non vedria che cose caste.
Giove ad Europa, a Vener Marte ha il core,
Venere a Marte pensa, a Dafne Apollo.
Mercurio d’Irce si rimembra ancora.
E di qui viene, astrologo, che sendo
tua moglie fatta femina del mondo,
le stelle non però tel posson dire16.

13
Cfr. AGRIP., Epist., IV, 8.
14
Cfr. CIC., De divin., II, 9, 22.
15
Ivi, II, 47, 99, ma si veda anche GIOV. PICO, Disp., II, 9.
16
MORE, Epigr., 43 e 47.
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156 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Oltra di ciò, quanto di queste medesime regole di giudicii


siano discordanti fra loro i Giudei, i Caldei, gli Egizzii, i Persi, i
Greci e gli Arabi è manifesto ad ogniuno, et in che modo Tole-
meo rifiutò tutta l’astrologia de gli antichi, e sì come egli è di-
feso da Avenrodan17, così è ripreso da Albumasar18, e tutti que-
sti sono lacerati da Abraham Avenazre Ebreo19; finalmente Do-
roteo, Paolo Alessandrino, Efestione, Materno, Aomar,20 Te-
bith, Alchindo, Zahel, Messahalla21 e quasi tutti gli altri tengo-
no diverse opinioni22, e quando non possono provar per vere
le cose che dicono, si difendono con la ragion sola dell’esperi-
mento. Né però tutti communamente s’accordano in quella,
né meno son differenti delle proprietà delle case dalle quali

17
Cfr. supra, nota 36, p. 146.
18
Ÿa‘far ibn Muïammad Ab) Ma‘&ar al-Balh¤ (786-886), astronomo arabo la cui
opera risulta fondamentale per l’elaborazione dell’astrologia medievale. Le sue
opere principali, conosciute in traduzione latina, sono l’Introductorium maius in
astronomiam nelle due traduzioni di Ermanno di Carinzia (1140) e di Giovanni di
Siviglia (1133); il De magnis coniunctionibus, in 8 libri, e l’opera più breve, l’Isagoga
minor Iapharis in astronomiam nella traduzione di Adelardo di Bath.
19
Cfr. GIOV. PICO, Disp., II, 6.
20
Doroteo di Sidone (I-II sec.), autore di un poema astrologico in 5 libri molto
apprezzato in Oriente dove fu presto tradotto in Phalavi nel III sec. e successiva-
mente in arabo; Paolo di Alessandria (IV sec.), astrologo autore di una introdu-
zione all’astronomia (Isagogica) in cui espone le dottrine fondamentali circa le
proprietà dei segni dello zodiaco, le loro relazioni con la geografia astrologica e
la iatromatematica e il loro legame con i pianeti; Efestione di Tebe (ca.380), au-
tore di un’opera astronomica in 3 libri in cui espone i caratteri fondamentali del-
l’astrologia; ‘Umar Muh.ammad ibn al-Farruïa–n al-¥abar¤) (m. ca.815-816), noto
anche come Omar Tiberiade, matematico e astronomo persiano attivo a Bagh-
dad, riformatore del calendario persiano e autore di opere astrologiche.
21
Abu– ‘Ut–ma–n Sahl ibn Bisr ibn Hani (ca. 822-ca. 850), noto come Zahel, astro-
nomo ebreo che si richiama alla tradizione di Doroteo di Sidone, propugnatore
di un sincretismo astrologico tra astrologia babilonese, greca e indiana, e autore
di numerose opere tra le quali i Fatidica, tradotto in latino nel 1138 da Ermanno
di Carinzia; Abu– Yu–suf Ya‘qu–b ibn Ish.a–q ibn Sabbah al-Kindı– (ca.800-ca.873), ma-
tematico, fisico e astronomo arabo, noto nell’Occidente latino come Alchindis,
autore di numerose opere di logica, filosofia e ottica, tra le quali la Theorica de ra-
diis stellicis seu arcium magicarum, pervenutaci nella versione latina medievale, e il
De somno et visione nella traduzione latina di Gerardo da Cremona; Ma–&a–’alla–h (m.
ca.815), astronomo ebreo conosciuto nel mondo latino come Messahalla (con al-
cune varianti), autore di numerose opere di astrologia tra cui il De scientia motus
orbis o De elementis et orbibus coelestibus nella traduzione latina di Geardo di Cremo-
na. A Messahalla venne erroneamente attribuito il più importante trattato sulla
costruzione e sull’uso dell’astrolabio, di cui si è perso l’originale arabo mentre è
sopravvissuta una traduzione latina.
22
Su tutti questi autori, si veda GIOVANFRANC. PICO, De rerum praenot., V, 12.
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31. DELLA ASTROLOGIA GIUDICIARIA 157

cavano la predizzione di tutti i fini, le quali Tolemeo assegna a


un modo, Eliodoro23 a un altro, Paolo a un altro, Manlio24 a un
altro, Materno a un altro, Porfirio a un altro, Abenragel25 a un
altro, altramente gli Egizzii, gli Arabi, i Greci et i Latini, altra-
mente gli antichi, altramente i moderni26. Perché essi non so-
no ancora fra loro risoluti del modo che bisogna ordinare i
principii et i fini delle case, perché gli antichi gli fanno a un
modo, Tolemeo a un altro, Campano27 a un altro e Giovanni
da Monteregio a un altro28. La onde avviene che essi medesimi
con le osservazioni proprie si levano il credito, ascrivendo di-
verse proprietà principi e fini diversi a gli istessi luoghi: malva-
gia generazione d’uomini che le cose che sono d’Iddio solo,
danno alle stelle, e noi che siamo nati liberi fanno servi delle
stelle. E sapendo noi che Iddio ha creato tutte le cose buone,
essi vogliono che vi siano alcune stelle maligne, cagioni di sce-
lerità e di mali influssi, mettendo, non senza ingiuria grandis-
sima d’Iddio e de i cieli, che ne i luoghi del cielo, in quel Se-
nato divino, si trattino i mali e le ribalderie che s’hanno da fa-
re, e quel che noi pecchiamo per colpa del volere, e quel che
per difetto della materia naturalmente accade, tutto l’attribui-
scono alle stelle29. Oltra di ciò non si vergognano d’insegnare
et eresie et infidelità molto dannose, cioè mentre con empia
temerità confessano che il dono della profezia, la forza delle

23
Eliodoro (V/VI sec.), astronomo neoplatonico cui vengono attribuiti due scrit-
ti astronomici, fu scolaro alla scuola di Proclo e collaborò all’edizione della Sin-
taxis di Tolomeo.
24
Manilio (I sec.) è autore dell’importante opera in versi latini intitolata Astrono-
mica in 5 libri. Poche sono le notizie certe intorno al poeta: nativo dell’Italia, non
è da escludere che sia romano, e persino vi sono dubbi circa il suo nome (Mani-
lius o Manlio). La sua dottrina astronomica ci è pervenuta soprattutto attraverso
Posidonio.
25
‘Al¤ ibn Ab¤ al-Rigal (ca. 965-1040), uno degli autori più conosciuti e influenti
dell’astronomia medievale e moderna, autore di numerose opere tra le quali il De
iudiciis seu fatis stellarum, il De revolutionibus nativitate e le Regulae utiles de electioni-
bus.
26
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De rerum praenot., V, 12; GIOV. PICO, Disp., VI, 3.
27
Campano da Novara (m. 1296), matematico, astronomo e medico, autore di
numerose opere di astronomia e di matematica, tra le quali la Theorica planetarum
e il Tractatus de sphaera, stampato nel 1518, nel quale discute le prove pro e contro
l’immobilità della Terra.
28
Cfr. GIOV. PICO, Disp., VI, 3.
29
Per la critica di Agrippa all’uso distorto, ossia deterministico, dell’astrologia, si
veda anche De occ. phil., III, 39, pp. 517-519.
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158 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

religioni, i secreti della conscienza, l’imperio sopra i demonii,


la virtù de i miracoli, la possanza de i preghi e lo stato della vi-
ta futura, tutto dipenda dalle stelle, da quelle sia donato e da
loro si riconosca. Perciocché dicono ch’ascendendo il segno di
Gemini, e questo ritrovandosi Saturno e Mercurio giunti in
Aquario, nella nona casa del cielo, che ne nasce un profeta30, e
perciò nostro Signor Cristo ebbe tante virtù, perché egli in
quel loco aveva Saturno ne Gemini. Distribuiscono ancora le
sette delle religioni, alle quali fanno special padrone Giove per
le mescolazioni dell’altre stelle, talché Giove con Saturno fac-
cia la religione de Giudei, con Marte de Caldei, col Sole de gli
Egizzii, con Venere de Saracini, con Mercurio de Cristiani, con
la Luna quella che dicono c’ha da venire, d’Anticristo31. E che
Mosè per ragioni d’astrologia ordinò il Sabbato per festa a i
Giudei32, e che perciò errano i Cristiani, i quali secondo la
usanza de Giudei non fanno festa il Sabbato astenendosi da la-
vorare, essendo quello il giorno di Saturno33. Credono ancora
che si possa conoscere la fedeltà di ciascuno così a gli uomini
come a Dio, e la religione professa, i secreti della conscienza
ancora dalla parte del Sole e dalla terza, dalla nona e dall’un-
decima abitazion del cielo, e per conoscere ancora i pensieri e
come essi le dicono, intenzione de gli uomini34. Molti danno di
molte regole et attribuiscono le configurazioni delle cose cele-
sti per cagioni all’istesse opere miracolose della divina poten-
za, sì come è quella del diluvio universale, della legge data per
Mosè, e del parto della Vergine, e cianciano che la morte di
Cristo, redentrice del genere umano, fu opera di Marte35. An-
ziché Cristo istesso ne suoi miracoli eleggeva l’ore nelle quali i
Giudei nol potessero offendere, mentre egli andava in Gieru-
salem. E però ch’egli disse quando i suoi discepoli glielo vieta-
vano: «Non ha il dì dodici ore?»36. Dicono oltra di ciò che se al-
cuno avrà Marte felicemente posto nella nona casa del cielo

30
Cfr. GIOV. PICO, Disp., V, 14, ma si veda anche AGRIP., De occ. phil., II, 38, p. 359.
31
Cfr. GIOV. PICO, Disp., V, 17.
32
Cfr. DEUT 5:12-14; GEN 2:2-3; ES 20:8-11.
33
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 4, 5, ma si veda anche FIC., De vita, III, 22; GIOV.
PICO, Disp., II, 5; AGRIP., De occ. phil., II, 9, p. 278.
34
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De rerum praenot., V, 7.
35
Cfr. GIOV. PICO, Disp., II, 5 e V, 12.
36
Ivi, II, 5; BONATTI, De astron., I, 13. Per il luogo biblico, si veda GV 11:9.
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31. DELLA ASTROLOGIA GIUDICIARIA 159

ch’egli avrà possanza di cacciare i demonii con la presenza so-


la, e chi farà orazione a Dio, ritrovandosi congiunti la Luna e
Giove col capo del Dracone in mezzo del cielo, ch’egli è per
impetrare tutto quello che domanderà37; e che Giove e Satur-
no donano alla vita la felicità futura38. Che s’alcuno avrà nella
natività Saturno felicemente posto in Leone, l’anima sua dopo
questa vita mortale, liberata da infinite angustie, applicata a
Dio, ritornerà al cielo et a i principii della sua origine39. E non-
dimeno a queste scelerate ciancie e dannosissime opinioni,
non senza infamia d’eresia, vanno presso Pietro d’Abano, Rug-
gier Bacone, Guido Bonatto, Arnoldo da Villanova filosofi40, il
cardinale Aliacese teologo41, e molti altri dottori del nome cri-
stiano, et ardiscono a far testimonio e sostenere d’aver provato
queste cose per vere42. Scrisse nondimeno contra gli astrologi,
pochi anni sono, dodici libri Giovan Pico della Mirandola43, in

37
Cfr. GIOV. PICO, Disp., IV, 8; GIOVANFRANC. PICO, De rerum praenot., V, 7. La dottrina
dell’influenza benefica della posizione della Testa del Drago (Caput Draconis) nel
Mezzo Cielo (ossia nella decima casa) in buon aspetto con Giove e con la Luna ri-
prende a sua volta una citazione di Pietro D’Abano (Concil., diff. 156) che si ri-
chiamava a un’antica tradizione Vishnu esposta dall’astronomo arabo Albumasar
nell’operetta che circolò nel mondo latino con il titolo di Excerpta de secretis Albu-
masaris, o Albumasar in Sadan, nella traduzione probabilmente dello stesso Pietro
d’Abano da una versione greca. Si veda in proposito, SADAN, I segreti astrologici di
Albumasar (ed. Federici Vescovini), p. 84. Una definizione della natura del Caput
Draconis si ritrova anche in Picatrix (ed. Pingree), III, 1, p. 195.
38
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De rerum praenot., V, 7; GIOV. PICO, Disp., IV, 8; FIC., De vita,
III, 22.
39
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De rerum praenot., V, 7; GIOV. PICO, Disp., IV, 8.
40
Guido Bonatti (XII sec.), astronomo e matematico, autore dei Tractatus decem de
astronomia o Liber astronomicus, pubblicato per la prima volta nel 1491; Arnaldo de
Villanova (ca.1238-1314), o Villanovanus, scrittore catalano di opere alchemiche
e mediche, anche se, per molte di esse, l’autenticità è dubbia. Tra queste si ricor-
dano il Rosarius philosophorum, il De sigillis, le Parabolae medicationis, il Libellus de im-
probatione maleficiorum.
41
Pierre d’Ailly (1350-1420), cardinale francese, teologo e filosofo. Insieme a
Jean Gerson (si veda infra, nota 21, p. 233) durante il concilio di Costanza (1414-
1418) diede un contributo decisivo nel far condannare le dottrine nate dal pen-
siero di John Wyclif, l’ispiratore del movimento eretico dei lollardi.
42
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De rerum praenot., V, 7.
43
Si tratta evidentemente delle Disputationes adversus astrologiam divinatricem di
Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494) pubblicate postume nel 1496. Un
contributo rilevante fornito da Pico al percorso di emancipazione da credi tradi-
zionali macchiati di pregiudizio e di superstizione si trova in modo particolar-
mente efficace nell’orazione De hominis dignitate, in cui l’autore nega che Dio ab-
bia dato all’uomo una qualsivoglia natura nel senso di principio del nascimento e
di collocazione preordinata nella scala degli esseri, così rendendolo autonomo
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160 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

tanta abbondanza ch’appena ha lasciato passare un argomen-


to, e con tanta efficacia che fino a quest’ora né Lucio Balancio,
fortissimo difensore della astrologia44, né alcun altro favorito
di questa arte, l’hanno potuto salvare dalle ragioni allegate dal
Pico, perciocché egli prova con gagliardissimi argomenti ch’el-
la non fu invenzione d’uomini, ma de diavoli dell’inferno; la
qual cosa dice parimente il Firmiano45. Per la quale essi si son
sforzati di cancellare tutta la filosofia, la medicina, le leggi e la
religione, perché ella prima leva la fede alla religione, debilita
i miracoli, nega la providenza, mentre che ci mostra tutte le co-
se accadere per forza di costellazioni e con necessità fatale de-
pendere dalle stelle. Oltra di ciò difende i vizii, scusandogli co-
me se dal cielo in noi discendessero; contamina e ruina tutte le
buone arti, tirando prima la filosofia e le cagioni delle cose dal-
le vere ragioni alle favole, da poi rivolgendo la medicina da i
naturali e possenti rimedii alle vane osservazioni et alle super-
stizioni dannose e mortali al corpo et all’anima. Oltra di ciò
manda ella in tutto per terra le leggi, i costumi e ciascuna arte
della prudenza umana, conciossia ch’alla astrologia sola si do-
mandi consiglio a qual tempo, con qual ragione e con quai
mezzi alcuna cosa si debba fare, et ella sola tiene lo scettro del-
la vita, de i costumi, del publico e del privato come s’avesse aut-
torità da cielo sopra tutte le cose, e tutte l’altre che lei non ri-
conoscessero per padrona fossero stimate vane. Arte veramen-
te dignissima, della quale fecero già professione i demonii per
ingannare gli uomini e fare ingiuria alla divinità. Laonde l’ere-
sia de i Manichei, la quale in tutto nega e rimove la libertà del-
l’arbitrio, d’altro loco non ebbe origine che dalla falsa opinio-
ne e dottrina de gli astrologi intorno il fato46. Da questo mede-
simo fonte derivò l’eresia di Basilide, il quale disse che v’erano
trecento sessanta cinque cieli fatti per successione e somiglian-
za l’un con l’altro, e la dimostrazione di questi essere il nume-

artefice del proprio vivere, il che implicitamente nega l’efficacia di qualsiasi in-
flusso astrale che limiti il libero arbitrio umano e divino.
44
La difesa dell’astrologia divinatrice e degli oroscopi fu tentata da Lucio Bellan-
ti (m. 1499) nelle Responsiones ad J. Pici comitis obiectiones quas adversus astrologiam
(1498) e nel De astrologica veritate liber quaestionum. Astrologiae defensio contra Ioan-
nem Picum Mirandulanum (1502).
45
Cfr. LATT., Divin. instit., II, 16.
46
Cfr. GIOV. PICO, Disp., II, 5. Sull’eresia dei Manichei, si veda anche supra, p. 78.
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31. DELLA ASTROLOGIA GIUDICIARIA 161

ro de i giorni dell’anno, et assegnava a ciascuno di loro certi


principii, virtù et angeli, e gli mettea anco i nomi, e chiamava-
si Abraxas principe di tutti, il qual nome in greco contiene in
sé trecento sessanta cinque quanti appunto sono i luoghi de i
cieli ritrovati da lui47. Queste cose abbiamo detto acciocché co-
nosciate l’astrologia essere ancora madre de gli eretici. E sì co-
me tutti i più famosi filosofi si fanno beffe di questa astrologia
divinatoria, così Mosè, Isaia, Giobbe, Gieremia e gli altri profe-
ti del Testamento Vecchio48; et Agostino fra i dottori catolici
vuole ch’ella sia cacciata della religion cristiana49. Basilio e Ci-
priano se ne ridono50; Crisostomo, Eusebio e Lattanzio la rifiu-
tano51; Gregorio, Ambrogio e Severiano la vituperano52; il Con-
cilio Santo di Toleto la proibisce e danna53. Ella fu scomunica-
ta ancora nel concilio di Martino, e da Gregorio giovane et
Alessandro III pontefici, et appresso punita dalle leggi civili de
gli imperatori54. Appresso gli antichi romani, essendo impera-
tori Tiberio, Vitellio, Diocleziano, Costantino, Valentiniano,
Graziano e Teodosio, fu cacciata di Roma, proibita e punita, e
da Giustiniano55 ancora condannata sotto pena della testa, la
qual cosa si può vedere nel suo codice56.

47
Cfr. IREN., Adv. haer., I, 24, 3 e 7; IPPOL., Refut., VII, 14-27; GEROL., De vir. ill., XXI.
La corrispondenza tra le lettere che compongono il nome mistico «Abraxas» (o
Abrasax) e i numeri è la seguente: a = 1, b = 2, r = 100, a = 1, s = 200, a = 1, x = 60.
Il nome Abraxas compare più volte anche nei testi gnostici di Nag Hammadi.
48
Cfr. GIOV. PICO, Disp., I e XII, 7. Per le fonti bibliche, si veda ES 9:11; IS 47:13-15;
GER 27:9-10; DN 2:2-12.
49
Cfr. GIOV. PICO, Disp., I; AGOST., Conf., IV, 3, ma si veda anche De doctr. christ., II,
21-23. A questo punto il testo latino reca: «Hieronymus hanc idolatriae genus es-
se disputat», qui mancante.
50
Cfr. GIOV. PICO, Disp., I; BASIL., Hom. in Hexaem., VI, 5-7; CHAMPIER, Annot., 272v-
273r.
51
Cfr. GIOV. PICO, Disp., I; EUSEB., Praep. evang., VI, 6, 1; LATT., Divin. instit., II, 16, 1;
CRISOST., Homil. VI in Math.
52
Cfr. GIOV. PICO, Disp., I; AMBR., Hexaem., IV, 4; SEVERIANO, De mundi creat. orat., III,
3.
53
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De rerum praenot., IV, 8; GIOV. PICO, Disp., I; GRAZ., Decr.,
pars II, causa XXVI, quaest. V, 1-5.
54
Cfr. GIOV. PICO, Disp., I.
55
Ivi, I e XII, 7.
56
Cfr. COD. IUST., IX, 18, 2.
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32.
DELLE DIVINAZIONI IN GENERE

Questo loco mi ricorda ch’io debba ragionare ancora delle al-


tre arti di divinazioni, le quali indovinano non tanto per osserva-
zione delle cose celesti, quanto delle inferiori c’hanno una certa
ombra et imitazione di quelle del cielo, acciocché quando le ave-
rete inteso, possiate meglio conoscere questo albero di astrolo-
gia, il quale simili frutti produce e da cui n’è nata una fiera di
molti capi a guisa dell’idra di Ercole. Fra queste arti, dunque, che
caminano alla via del guadagno, si numerano la fisionomia, la
metoposcopia, la chiromanzia, la geomanzia, della quale abbia-
mo anco di sopra parlato, l’aruspicia, la speculatoria, l’onirocriti-
ca, la quale è interpretazione de sogni, e gli oracoli de furiosi1.
Ma però tutti questi artificii non hanno alcuna dottrina stabile,
né si fondano in veruna certa ragione, ma investigando le cose
occulte o con sorte di ventura, o con agitazione di spirito, o con
certe congietture apparenti, le quali sono cavate da osservazioni
continue e di lungo tempo. Perciocché tutte quelle mostruose ar-
ti di divinazioni non sogliono difendersi con altro che col titolo
dell’esperienza et in tal modo districarsi da i lacci dell’obiezzioni
qualora insegnano e promettono alcuna cosa sopra la fede e la
ragione, delle quali nella legge è stato in questa maniera coman-
dato: «Non sia di voi chi purghi il suo figliuolo menandolo per il
fuoco, né si consigli da gli indovini, ovvero osservi sogni et augu-
ri, né sia malefico o incantatore, perché il Signore ha in odio
queste cose»2.

1
Il testo latino a questo punto aggiunge: «hic fedem sibi vendicarunt», qui man-
cante.
2
DEUT 18:10-12.
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33.
DELLA FISIONOMIA

Di queste arti la fisionomia seguendo, come ella dice, la na-


tura, si presume di poter con segni probabili ritrovare, dal con-
siderar tutto il corpo, gli affetti dell’anima e del corpo1 e quale
ha da esser la sorte dell’uom secondo ch’ella pronunzia questo
Saturnino o Gioviale, quello Marziale o Solare, l’altro Venereo,
Mercuriale o Lunare. E dall’abito del corpo ritrova gli ascen-
denti loro, passando a poco a poco, come essi dicono, da gli ef-
fetti alle cause dell’astrologia, dalle quali ciancia da poi quel
che gli piace.

1
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 6, 4; AGRIP., De occ. phil., I, 52, p. 187.
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34.
DELLA METOPOSCOPIA

Si vanta anch’ella, la metoposcopia, di indovinare con saga-


cissimo ingegno e dotata esperienza, per la considerazione del-
la fronte sola, tutti i principii de gli uomini, gli andamenti et i
fini, e chiamasi, come l’altre, creata dall’astrologia.
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35.
DELLA CHIROMANZIA

Forma la chiromanzia nella palma della mano sette monti


secondo il numero de pianeti1, e si crede per linee che vi si veg-
gono di potere conoscere qual sia la complession dell’uomo,
gli affetti, la vita e la fortuna, per certa corrispondenza armo-
nica delle lettere2, come per alcuni stimmati celesti a noi quivi
da Dio e dalla natura scolpiti, et i quali Iddio, secondo l’autto-
rità di Giobbe, ha posto nelle mani de gli uomini acciocché
per quegli ciascuno conosca le sue operazioni, benché, per di-
re il vero, il divino profeta non intendesse in quel loco della va-
nità di chiromanzia, ma della libertà dell’arbitrio3. Oltra di ciò
difendonsi i detti indovinatori che benché non potessero dar
giudicio de gli effetti per le cagioni delle cose, nondimeno per
segni impressi da quelle o simili cagioni, i quali siano sempre i
medesimi nelle cose istesse e simili a i simili, lo potrebbon fare.
E dicono che Pitagora usò già queste arti, il quale faceva giudi-
cio de i costumi, delle nature e de gli ingegni de i giovani per
lineamenti e l’abito del volto e di tutto il corpo, e quello che
gli pareva sofficiente, lo toglieva ad ammaestrare. Il medesimo

1
Cfr. GIOV. PICO, Disp., II, 5.
2
Il testo latino reca: «per linearum harmonicam corrispondentiam». Si tratta cer-
tamente di una svista del traduttore o di un errore tipografico. Si veda, infatti, in-
fra, p. 316, dove l’originale latino «ex chiromantica divinatione» viene reso con
«mostrando di sapere indovinare per le linee della mano».
3
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 3. Per il luogo biblico, si veda GB 37:7.
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170 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

dice Filostrato che soleva fare Faraote re de gl’Indi4; nondime-


no a noi non fa mistiero impugnare l’errore di tutte queste ar-
ti con altra ragione che questa: cioè che non hanno in loro ra-
gione alcuna. Hanno però scritto di quelle molti antichi uomi-
ni gravissimi, Ermete, Alchindo, Pitagora, Faraote indiano, Zo-
piro, Eleno, Tolemeo, Aristotele, Alfarabio; oltra questi Gale-
no, Avicenna, Rasis, Giuliano, Materno, Loxio, Filemone, Pole-
mone, Constantino Africano; e finalmente de i principi roma-
ni, Lucio Silla e Cesare dittatore ne furono studiosi sopra mo-
do5; de i moderni Pietro d’Abano, Alberto Tedesco, Michele
Scoto, Antioco6, Bartolomeo Cocle7, Michele Savonarola, An-
tonio Cermisone, Pietro dell’Arca, Andrea Corvo, il Tricasso
Mantovano, Giovanni d’Indagine8, e molti altri famosi medici.
Nondimeno alcuno di loro non fa mostrare altro che congiet-
ture et osservazioni d’esperienza, ma che in quelle congietture
et osservazioni non si ritrovi alcuna regola di verità, di qui si
può vedere, perch’elle sono volontarie finzioni, e sopra le qua-

4
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 6, 4.
5
Ibid.
6
Michele Scoto (ca. 1175-ca. 1234), matematico e medico scozzese, tra i cui scrit-
ti si segnalano il Liber introductorius, il Liber particularis e la Phisionomia (quest’ulti-
ma spesso nota con il titolo di De secretis naturae), che costituivano con ogni pro-
babilità 3 sezioni di un’unica opera di argomento magico-astrologico, la Chiro-
mantica scientia, uno scritto intitolato De alchimia, nonché traduttore dall’arabo di
numerose opere astronomiche e mediche; Antioco Tiberto di Cesena (XV sec.),
autore di un trattato di chiromanzia (1494) di cui si hanno scarse notizie.
7
Bartolomeo della Rocca (1467-1504), detto Cocles, autore di un’importante
opera di fisiognomica e chiromanzia intitolata Chyromantie ac physionomie Anastatis
(1504); Michele Savonarola (1384-1464), autore di numerose opere mediche, la
più importante delle quali è la Pratica o Opus medicinae (ca. 1440), e di fisiogno-
mica.
8
Antonio Cermisone (XIV sec.), medico e lettore di arti nello Studio patavino,
autore dei Consilia medica contra omnes fere aegritudines a capite usque ad pedes (1476)
e di un’opera intitolata Recollectae de urinis (1475) stampata in appendice al com-
mento al Canon di Avicenna di Iacopo da Forlì (si veda infra, nota 33, p. 405); Pie-
tro dell’Arca, medico del XIV-XV sec., di cui si hanno scarse notizie; Andrea Cor-
vo (XV sec.), autore di uno dei primi testi di chiromanzia, di cui esistono nume-
rose edizioni; Patrizio Ceresara (1491-ca. 1550) detto Tricasso, autore di un Epito-
ma chyromantico (1538); Johannes von Hagen (1457-1537), detto Giovanni da In-
dagine, astrologo e teologo tedesco autore delle Introductiones apotelesmaticae in
physiognomiam (1522), un’opera che combina l’astrologia con la fisiognomica e la
chiromanzia, e delle Rationes astronomicae (1530). Le opere di Tricasso, Giovanni
da Indagine, Pietro d’Abano, Cocles, insieme alla Chiromantia di Andrea Corvo,
furono tutte messe all’Indice dalla Chiesa.
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35. DELLA CHIROMANZIA 171

li gli istessi maestri di quelle, uomini di dottrina et autorità


eguale, non concordano, laonde grandemente farneticano e
s’ingannano che per questi segni, oltra la complessione del
corpo e la disposizion della natura, vogliono indovinare anco-
ra i moti proprii e gli affetti della fortuna e dell’animo, la qual
cosa si provò abbastanza nel giudicio che Zopiro fece di Socra-
te9. Né vi faccia fede quel che Appione grammatico scrisse
d’un certo Alessandro10, il quale così discretamente dipingeva
le sembianze delle imagini che da quelle il metoposcopo pre-
vide gli anni della morte futura o passata, la qual cosa non è
tanto incredibile, quanto impossibile, che con queste arti si
possa sapere. Ma questa sorte d’uomini vendiciancie suole in
tal modo farneticare per instigazione de i diavoli dell’inferno
che dall’errore gli tirano alla superstizione, e da questa a poco
a poco nella infedelità.

9
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 6, 4, ma si veda anche CIC., Tusc. disp., IV, 37, 80
e De fato, V, 10.
10
Cfr. PLIN., Nat. hist., XXXV, 10, 88. L’opera è andata perduta.
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36.
DELLA GEOMANZIA UN’ALTRA VOLTA

Tutti gli scrittori di quella affermano che la geomanzia è fi-


gliuola dell’astrologia1, della quale abbiamo ragionato nell’a-
ritmetica2, la quale gettando certi punti fatti a caso o per certa
forza, da i quali per numeri pari e dispari forma certe figure at-
tribuite a i segni celesti, e per quelle indovina3. Ecci anco
un’altra specie di geomanzia, la quale Almadel arabo introdu-
ce, la quale anch’ella indovina per certe congietture tolte dalle
similitudini, dallo strepito della terra, dal moto, dalla fessura,
dalla enfiatura, o da se stessa, overo dalla infiammazione e dal-
lo ardore, o da i tuoni che vengono4, la quale anch’ella è fon-
data in vana superstizione d’astrologia, sì come quella che os-
serva le ore5, i nascimenti e le figure delle stelle.

1
Cfr. GIOV. PICO, Disp., II, 5.
2
Cfr. supra, pp. 89-90.
3
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 3.
4
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De rerum praenot., VI, 3; AGRIP., De occ. phil., I, 57, p. 204.
Per Almadel, si veda De firm. sex scient. (ed. Pack), 5, pp. 168-169.
5
Il testo latino aggiunge: «et lunationes», qui mancante.
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37.
DELLA ARUSPICIA

L’augurio, di cui sono molte specie, fu una arte che era in


grandissima osservazione a i tempi antichi, e tanta che senza
augurio cosa non fecero mai che appartenesse né al publico
né al privato1. Questa arte, come scrive Pomponio Leto, è anti-
chissima: ella venne da i Caldei a i Greci, appresso a i quali Am-
fiarao, Tiresia, Mopso Amfilote e Calcante furono tenuti buoni
auguri; da i Greci a Toscani; da quegli a i Latini2. E Romulo an-
ch’egli fu augure et ordinò che i magistrati si confermassero
con gli augurii, e Dionisio dice che l’arte dell’augurare fu anti-
ca fin de gli Aborigini e che Ascanio prese l’augurio inanzi
ch’egli uscisse fuora in campo contra Mezenzio, il quale poi
che conobbe felice, combatté e vinse3. Finalmente i Frigii, i Pi-
sidi, i Cilici, gli Arabi, gli Umbri, i Toscani e molti altri popoli
seguirono gli augurii4. I Lacedemoni anch’essi diedero uno au-
gure per assessore a i suoi re e volsero ch’egli intervenisse al
publico consiglio5. I Romani avevano il collegio degli auguri6, e
quegli che acquistarono fede a quest’arte furono quei che mo-
strarono che da i corpi celesti discendevano certi lumi di pre-

1
Cfr. AGRIP., De occ. phil., I, 53-54, pp. 187-196.
2
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., I, 23.
3
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 1; DION. ALIC., Antiq. rom., I, 14; 65.
4
Cfr. CIC., De divin., I, 41, 92 e 42, 93-94.
5
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 3.
6
Ibid.
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176 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

sagii sopra tutti gli animali inferiori, a guisa d’alcuni segni po-
sti nel moto loro, nel sito, nel gesto, nello andare, nel volare,
nella voce, nel cibo, nel colore, nell’operare e nel fine, ne i
quali essendo quasi posta una certa forza occulta et un tacito
consenso, s’accordino talmente co i corpi celesti, delle forze
de i quali essi qualità prendono, che possono poi tutte queste
cose indovinare quante n’hanno pensato di fare i corpi cele-
sti7. Onde si conosce che queste divinazioni non va dietro se
non a congietture tolte parte, come essi dicono, dalle influen-
ze delle stelle, parte d’alcune similitudini paraboliche, delle
quali cosa non è più fallace, la onde di lei si fanno beffe Pane-
zio, Carneade, Cicerone, Crisippo, Diogene, Antipatro, Gio-
sefo e Filone, e le leggi e la Chiesa la danna8. E di questa ma-
niera sono i misterii de i Caldei e de gli Egizzii, i quali prima i
Toscani, da poi i Romani, et oggi tuttavia il superstizioso vulgo
de gli uomini, come oracoli adora.

7
Cfr. CRIN., De hon. discip., XXI, 15.
8
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 1.
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38.
DELLA SPECULATORIA

Da questo fondamento medesimo esce la speculatoria1, la


quale interpreta i tuoni et i folgori e l’altre impressioni de gli
elementi, et anco gli ostenti, i portenti et i prodigii, non però
con altra via che di congiettura e di similitudine, la quale cer-
tamente dubbio non è che molto erra, perché tutte queste so-
no opre naturali e non pronostichi.

1
Cfr. AGRIP., De occ. phil., I, 56, pp. 202-204.
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39.
DELLA INTERPRETAZION DE SOGNI

Vien con l’altre l’onirocritica, la quale è interpretazione di


sogni, gli interpreti de i quali propriamente si chiamano co-
niectori, come dice Euripede:

Chi congiettura bene è buon poeta1.

Al quale artificio diedero ancora i filosofi grandi alcuna aut-


torità, specialmente Democrito, Aristotele e’l discepolo suo Te-
mistio, e Sinesio platonico, fondandosi talmente ne gli essem-
pi di quei sogni ch’alcuna sorte ha fatto veri, che per ciò si sfor-
zano di persuadere ch’alcuna cosa non si sogna indarno. E
però dicono che sì come gli influssi celesti nella materia cor-
porale producono forme diverse, così da quei medesimi influs-
si nella potenza fantastica, la quale è organica, s’imprimono i
fantasmi con disposizion celeste, consentanea di produrre al-
cuno effetto, e massimamente ne i sogni, perché l’animo allo-
ra libero dalle cure del corpo et estranie, più liberamente rice-
ve quei divini influssi, onde molte cose intendono quei che
dormono che i vigilanti non possono vedere2. Si sforzano dun-
que specialmente con questa ragione d’acquistar fede di verità
a questi sogni. Nondimeno circa le cause de i sogni così intrin-
seche, quanto di fuori, non hanno tutti una medesima opinio-

1
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De rerum praenot., I, 5; GIOV. PICO, Disp., IV, 4; CIC., De di-
vin., II, 5, 12; PLUT., Mor., 432c e 399a (si veda EURIP., fr. 973, ed. Nauck).
2
Cfr. AGRIP., De occ. phil., I, 59, pp. 210-211 e III, 51, pp. 556-560.
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180 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

ne, perché i Platonici le attribuiscono a specie e cognizioni ge-


nerate nell’anima, Avicenna all’ultima intelligenza che move
la Luna, co’l mezzo di quel lume co’l quale s’illumina la fanta-
sia de gli uomini quando dormono3, Aristotele le dà al senso
comune ma fantastico4. Averroè all’imaginativa5, Democrito a
gli idoli separati dalle cose6, Alberto all’influsso delle cose di
sopra, mediante però alcune specie, le quali di continuo deri-
vano dal cielo7. I medici a i vapori e gli umori, alcuni a gli af-
fetti et a i pensieri della vigilia, alcuni Arabi alla potenza intel-
lettuale, alcuni dicono ch’elle dipendono dalle potenze dell’a-
nimo e dall’influsso del cielo e da i simulacri insieme. Gli astro-
logi vogliono che siano causate dalle costellazioni loro, altri at-
tribuiscono le cause loro all’aere che circonda e che penetra.
Scrissero Daldiano et Artemidoro della dichiarazione de so-
gni8, e vanno attorno alcuni libri sotto il nome d’Abraham, il
quale Filone ne libri De giganti e Della vita civile dice che fu il
primo che ritrovasse le interpretazioni de sogni9, et altri sotto il
nome di Salomone e di Daniello, finti a questo proposito, ne i
quali trattandosi di sogni, altro che puri sogni non si veggono.
Ma Marco Tullio istesso ne suoi libri Delle divinazioni, con for-
tissime ragioni ch’io non voglio addurre in questo loco, dispu-
ta contra la vanità e la pazzia di coloro che danno fede a so-
gni10.

3
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 1; AGRIP., De occ. phil., I, 13, pp. 110-111.
4
Cfr. ARIST., De insomn., 459a.
5
Cfr. AVERR., De divin. per somn., I, 462b, ma si veda anche FIC., De volupt., VIII, 8, la
cui fonte è AVERR., Coll., II, 7, 17.
6
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 15.
7
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 1; AGRIP., De occ. phil., I, 13, p. 111.
8
Il riferimento è all’opera in 5 libri, intitolata De somniorum interpretatione, di Ar-
temidoro di Daldi (II sec.) che è la più vasta opera dell’antichità sull’argomento.
Qui erroneamente Agrippa considera Artemidoro e Daldiano due autori distinti.
9
Il riferimento è impreciso, non trovandosi una dottrina di Abramo sull’inter-
pretazione dei sogni negli scritti di Filone. Uno scritto intitolato Della vita civile
non si ritrova tra le opere di Filone. Forse Agrippa intendeva riferirsi al De vita
contemplativa dello stesso autore.
10
Cfr. CIC., De divin., II, capp. 58-72.
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40.
DEL FURORE

Ma quello che quasi n’era uscito di mente, numeriamo an-


cora fra questi sognatori quei che danno fede di divinità a i va-
ticinii de gli infuriati e vogliono credere che coloro c’hanno
perduto la cognizione delle cose presenti, la memoria delle
passate et ogni senso umano, abbiano acquistato la divina pre-
scienza di quelle c’hanno a venire, e ciò che non possono ve-
dere i savi et i vigilanti lo veggono i pazzi et i dormienti1, come
se loro fosse Iddio più vicino ch’a i sani, a quegli che vegghia-
no, che intendano e che considerano inanzi2. Miseri veramen-
te son gli uomini che credono a queste vanità et ubbidiscono a
quegli inganni, che pascono simili artefici e sottomettono gli
ingegni e la fede sua al ventre di costoro. Ma che crederem noi
che sia furore, se non alienazione dell’animo umano travaglia-
to da i diavoli dell’inferno, o per le stelle, o per gli instromenti
inferiori tirati da gli spiriti maligni3? La qual cosa parve che
Lucano in tal modo esprimesse quando introduce Aruuo To-
scano indovino,

Che conoscea del tuono i moti, et ancora


le fibre delle vittime, e sapea

1
Cfr. cic., De divin., II, 54, 110.
2
Il termine latino è «praemeditantibus», ossia i preveggenti.
3
Cfr. AGRIP., De occ. phil., III, 46, p. 545, ma si veda anche FIC., In Symp. comm., VII,
13.
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182 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

trar da gli ucei volanti augurio e segno4.

Dopo che fu purgata la città di Roma, dopo sacrificate le vit-


time e considerate l’interiora, finalmente il Figulo diede sen-
tenza in queste parole:

Qual sciagura è la nostra, o dèi, qual peste


n’ha apparecchiato crudeltà sì grande?
Gli ultimi dì si son raccolti in uno.
Se’l freddo segno di Saturno avesse
acceso in cielo i neri fuochi suoi,
nuovo diluvio avria l’Aquario indutto,
e’l mar tutta la terra avria coperto.
Se’l Sol co’ raggi suoi fosse in Leone,
per tutto’l mondo andrebbe incendio e fuoco,
e’l ciel dal carro suo s’infiammerebbe.
Or cessan questi ardor, ma tu che incendi
con l’infiammata coda il fiero Scorpio
Marte, perché sì grave mal minacci?
Sta Giove umile oppresso inver l’occaso,
e de la figlia ha la salubre stella,
sendo Mercurio a lui veloce appresso
Marte sol tiene il cielo, e gli altri segni
abbandonato han tutti i suoi viaggi,
e per lo mondo oscuramente vanno.
Splende Orion con l’empia spada a lato.
la rabbia ecco de l’armi, ecco che ’l ferro
manderà tosto la Giustizia a terra.
E ’l nome di virtù starà sepolto
dal vizio, che vivrà mille anni, e mille5.

Tutti dunque questi artificii di divinazioni hanno le sue radi-


ci et i fondamenti nell’astrologia, perciocché se si veggono il
corpo, il volto o la mano, o che si sia veduto o sogno, o prodi-
gio, o auspicio, o che’l furore abbia inspirato, vogliono che si
formi la figura del cielo per gli indicii della quale, insieme con
le congietture delle similitudini e de i segni, vanno cavando
l’opinioni de i significati, e così tutte le divinazioni richiedono
l’arte e l’uso dell’astrologia e confessano ch’ella è come una

4
LUCANO, De bello civ., I, 587-588. «Aruuo» sta per «Arrunte», l’aruspice etrusco
che abitava le mura di Lucca.
5
Ivi, I, 650-669.
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40. DEL FURORE 183

chiave necessaria alla cognizione di tutti i secreti. Per la qual


cosa tutte queste arti di divinazioni publicamente mostrano
quanto elle siano lontane dalla verità, servendosi tanto manife-
stamente di principii falsi e finti da temerità poetica, i quali
benché non siano, né siano stati, né siano per essere giamai,
vogliono però che siano cause e segni delle cose che sono, at-
tribuendo gli eventi delle cose contra la verità a quegli.
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41.
DELLA MAGIA IN GENERE

Questo loco richiede egli che qui ragioniamo della magia,


perciocché ella è sì congiunta e stretta con l’astrologia che chi
fa professione di magia senza astrologia non fa nulla ma smar-
risce tutta la strada. Suida è di parere che la magia abbia avuto
il nome e l’origine da i Magusei1. La opinion commune è che
questo sia nome persiano, alla quale s’accostano Porfirio et
Apuleio, e che in lingua loro significhi quel medesimo che sa-
cerdote, savio o filosofo2. La magia, dunque, abbracciando tut-
ta la filosofia, la fisica e la matematica, aggiunge a quelle anco-
ra le forze delle religioni. E per questo ella contiene anco la
goezia e la teurgia, per la qual cosa molti hanno partito la ma-
gia in due, cioè in naturale e ceremoniale.

1
Cfr. SUIDA, Lexic., s.v. Mageiva.
2
Cfr. PORF., De abstin., IV, 16, 1; APUL., De magia, XXV, la cui fonte è PLAT., Alcib. I,
122a; ma si veda anche GIOV. PICO, Oratio de hom. dign. (ed. Garin), p. 63; POLID.
VIRG., De invent. rer., I, 23.
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42.
DELLA MAGIA NATURALE

Dicono che la magia naturale non è altro ch’una somma


possanza delle scienze naturali, la quale perciò chiamano gran-
de altezza della filosofia naturale e perfettissima consumazio-
ne di quella, e mostra qual sia la parte attiva della filosofia na-
turale, la quale con l’aiuto delle virtù naturali, secondo la
scambievole et opportuna applicazion di quelle, publica l’ope-
re sopra ogni qualità di maraviglia1. La qual magia era usata
molto da gli Etiopi e da gli Indi, là dove era abbondanza d’er-
be, di pietre e d’altre cose appartenenti a quella. Dicono che
Girolamo intese di questa, scrivendo a Paolino, dove dice che
Apollonio Tianeo fu mago o filosofo come i Pitagorici2. E che
di questa sorte furono anco i Magi i quali andorno ad adorar
Cristo quando nacque, visitandolo con doni, e gli interpreti de
gli Evangelii gli espongono filosofi de i Caldei, sì come furno
Iarca presso i Bracmani, Tespione appresso i Gimnosofisti3,

1
Cfr. AGRIP., De occ. phil., I, 2, p. 86, ma si veda anche GIOV. PICO, Apol. (ed. 1572),
pp. 120-121; 168; Oratio de hom. dign., p. 67.
2
Cfr. GEROL., Epistola LIII (Ad Paulinum), 1.
3
Con il nome di ‘bragmani’ (ossia ‘bramini’), riferibile di per sé alla prima delle
quattro caste indiane, la sacerdotale, si vuole intendere, già in età antica, un’i-
deale popolazione dell’Oriente, che viene mitizzata per la sobrietà dei costumi,
dell’alimentazione, del vestiario, e per il rigore del pensiero. La successiva dosso-
grafia medievale pone in India, accanto ai Bragmani, anche i Gymnosophisti, uo-
mini che vivevano nudi ed erano dediti a pratiche ascetiche. Si veda, per es., SO-
LINO, Coll. rer. memor., LII, 25; PLIN., Nat. hist., VII, 2, 22; PORF., De abstin., XVII;
GIANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 2.
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188 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Budda appresso i Babilonii, Numa Pompilio appresso i Roma-


ni, Zalmoxide appresso i Tracii4, Abbari appresso gli Iperbo-
rei5, Ermete appresso gli Egizzii, Zoroaste figliuolo d’Oromaso
presso i Persi6. Perché gli Indiani, gli Etiopi, i Caldei et i Persi
furono molto eccellenti in questa magia nella quale, come di-
ce Platone nello Alcibiade, s’ammaestrano i figliuoli de i re Per-
si, acciocché anch’essi imparino a ministrare e governare la re-
publica sua a sembianza della republica del mondo7, e Cicero-
ne ne i libri Delle divinazioni dice che i Persi non farebbono al-
cuno re loro, il quale non avesse prima imparato magia8. La
magia naturale è dunque quella la quale, avendo contemplato
le forze di tutte le cose naturali e celesti, e con diligenza curio-
sa l’ordine loro considerato, in tal modo publica le nascose e
secrete possanze di natura, copulando le cose inferiori con le
doti delle superiori, a guisa di certe lusinghe, per una scambie-
vole applicazione di quelle, di maniera tale che spesse volte di
qui ne nascono di stupendi miracoli non tanto per l’arte,
quanto per la natura, alla quale quand’ella opera di queste co-
se questa arte si dà per ministra9. Perciocché i magi, come dili-

4
Secondo il racconto di Erodoto (Hist., IV, 93-96), lo schiavo di Pitagora Zamols-
side, o Zalmossi, era venerato dai Geti che lo ritenevano Crono (si veda anche
DIOG. LAERZ., Vitae phil., VIII, 1, 2). A lui Pitagora avrebbe insegnato la dottrina
dell’immortalità dell’anima (si veda, per es., STRAB., Geogr., VII, 3, 5; GIAMB., Vita
Pyth., XXX, 173; PORF., Vita Pyth., XIV). Platone lo presenta come un re dai pote-
ri taumaturgici innalzato al rango di divinità (Charm., 156d-158b).
5
Gli Iperborei (coloro che abitano al di là della Borea, del vento del nord) erano
un popolo mitico che incarna modelli di giustizia e di pace, la cui identità è tut-
tora avvolta nel mistero. Il primo a menzionarli è ESIODO, Cat., fr. 71.21. Una de-
scrizione più accurata di questa popolazione si trova in PLIN., Nat. hist., IV, 12, 89-
91. Secondo una tradizione gli Iperborei potrebbero identificarsi con gli abitanti
della Gran Bretagna. Per Abari sacerdote degli Iperborei, si veda, per es., PORF.,
Vita Pyth., XXVIII.
6
Cfr. PLIN., Nat. hist., XXX, 1, 2; RODIG., Lect. antiq., V, 42, GIOV. PICO, Oratio de hom.
dign., p. 65; CRIN., De hon. discip., I, 2. Moltissime e disparate sono le notizie anti-
che relative a Zoroastro o Zarathustra, dal V sec. a. C. in avanti, che lo fanno in so-
stanza il sacerdote cui era attribuita la sistemazione dottrinale e liturgica dell’an-
tica religione cristiana, il mazdeismo. Egli avrebbe appreso da Oromazo (Ormizd
o Hormizd), suo padre, le principali dottrine alla base della religione iranica,
quali il dualismo del bene e del male e il perenne conflitto tra questi due princi-
pi.
7
Cfr. PLAT., Alcib. I, 121d-122a, ma si veda anche APUL., De magia, XXV; RODIG.,
Lect. antiq., V, 42; GIOV. PICO, Oratio de hom. dign., p. 65; CRIN., De hon. discip., I, 2.
8
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 42; CIC., De divin., I, 41, 90.
9
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 42; GIOV. PICO, Oratio de hom. dign., p. 67.
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42. DELLA MAGIA NATURALE 189

gentissimi esploratori della natura, conducendo quelle cose


che sono preparate da lei, applicando gli attivi a i passivi, spes-
sissime volte inanzi al tempo ordinato dalla natura producono
effetti i quali dal vulgo son tenuti per miracoli, sendo però
opre naturali, non v’intervenendo altro che la sola anticipa-
zion del tempo, come s’alcun facesse nascer rose nel mese di
marzo, o crescer l’uve mature, le fave seminate e’l prezzemolo
in poco spazio d’ore in pianta perfetta, e cose maggiori di que-
ste, come nuvole, pioggie, tuoni, animali di diverse sorti, et in-
finite trasformazioni di cose, qualmente si vanta d’averne fatte
molte Rogerio Bacon con la pura e natural magia10. Hanno
scritto dell’opre di quella Zoroaste, Ermete, Evante re de gli
Arabi, Zaccheria Babilonio, Giuseppe Ebreo, Boco, Aaron, Ze-
noteno, Kiranide, Almadel, Thetel, Alchindo, Abel, Tolemeo,
Geber, Zahel, Nazabarus, Tebith, Aerith, Salomon, Astafone,
Ipparco, Alcmeone, Apollonio, Trifone e molti altri di cui si ri-
trovano ancora l’opre intiere e molti fragmenti, e talora mi son
venuti alle mani11. Ma de moderni pochi hanno scritto nella
magia naturale, e quegli poche cose, sì come Alberto, Arnoldo
da Villanuova, Raimondo Lullio, Bacone, Pietro d’Abano e
l’auttore del libro ad Alfonso publicato sotto’l nome di Picatri-
ce 12, il qual però mescola molta superstizione con la magia na-
turale, la qual cosa hanno fatto gli altri ancora.

10
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 9. Probabile allusione al De mirabili potestate
artis et naturae (1521) di Ruggero Bacone (1214-1294).
11
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 1; AGRIP., De occ. phil., I, 13, p. 110. Un elenco
dettagliato di libri magici attribuiti a molti degli autori qui citati si trova in TRIT., An-
tip. malef., I, 3. Si veda, inoltre, GIOVANFRANC. PICO, De rerum praenot., VI, 31.
12
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De rerum praenot., VI, 31. Picatrix è il titolo latino del testo
arabo intitolato Gha–yat al-H –
. akı m (La meta del saggio), la più importante opera
astrologica trasmessa dal mondo islamico all’Occidente latino. Il trattato, compo-
sto probabilmente tra l’XI e il XII sec., tradotto dall’arabo in spagnolo nel 1256
per Alfonso re di Castiglia e quindi in latino, fu falsamente attribuito all’astrono-
mo spagnolo Maslama ibn Ah.mad (X-XI sec.), meglio conosciuto con il nome di
al-Majrı–t.–ı . L’opera, in uso solo a partire dalla seconda metà del sec. XV grazie so-
prattutto a Marsilio Ficino, esercitò un influsso significativo sulle dottrine magi-
che e astrologiche degli autori rinascimentali.
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43.
DELLA MAGIA MATEMATICA

Oltra di questi vi sono de gli altri sagacissimi emoli et ardi-


tissimi inquisitori della natura, i quali senza le virtù naturali,
con le sole discipline matematiche, aggiungendovi gli influssi
de i cieli, si vantano di poter produrre cose simili all’opere del-
la natura, come sono i corpi che vanno e parlano, i quali non
però avranno le virtù dell’anima, come fu la colomba di legno
d’Archita, la quale volava, e le statue di Mercurio che parlava-
no, e’l capo di bronzo fabricato da Alberto Magno, il quale di-
cono che favellò1. In queste cose fu eccellente Boezio, uomo di
grandissimo ingegno e di dottrina diversa, a cui scrivendo Cas-
siodoro di cose simili, disse: «Tu ti hai deliberato di conoscere
le cose difficili e di mostrar miracoli, con l’ingegno de l’arte
tua muggiscono i metalli, Diomede più fortemente suona nel
rame, il serpente di bronzo sibila, et hai finto gli uccelli, e que-
gli che non hanno voce propria si sono uditi mandar fuora la
dolcezza del canto. Poche cose diciamo di colui il quale può
imitare il cielo»2. Di questi artificii credo che s’intendesse quel-
lo che Platone disse nell’undecimo delle Leggi: «Hanno gli uo-

1
Per la colomba di Archita e le statue parlanti di Mercurio, si veda supra, note 3 e
4, p. 116; per la testa di bronzo parlante fabbricata da Alberto Magno, di cui
Agrippa fa cenno anche in De occ. phil., II, 1, p. 251, si veda GIORGIO, De harm. mun-
di, III, 4, 9; GUGL. ALV., De univ., I, 1, 51 e De legib., XXVI.
2
Cfr. CRIN., De hon. discip., XVII, 12, la cui fonte è CASSIOD., Epistola XLV (Boetio vi-
ri illustri patricio Theodoricus rex). Il passo è riportato anche in AGRIP., De occ. phil.,
II, 1, p. 250.
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192 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

mini una arte con la quale generano le cose ultime, non però
partecipi della verità e della divinità, ma ne derivano alcune
sembianze molto simili alle istesse»3. E sono passati tanto oltra
i magi, uomini audacissimi a fare tutte le cose, massimamente
col favore di quello antico e terribile serpente promettitore
delle scienze, che si sono sforzati di contrafare Iddio e la natu-
ra, simili a loro come simie4.

3
PLAT., Leg., 889c-d. Si tratta però del libro X e non dell’XI.
4
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 9.
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44.
DELLA MAGIA VENEFICA

Ecci una specie di magia naturale, la quale si chiama venefi-


ca, ovvero farmacia, la quale si fa con bevande, rimedii amato-
rii e varii medicamenti di veneni, sì come leggesi che Democri-
to fece, col quale si generassero felici et aventurosi figliuoli1; et
un altro con cui si può benissimo intender le voci de gli uccel-
li, qualmente Filostrato e Porfirio raccontano d’Apollonio.
Vergilio anch’egli parlando d’alcune erbe di Ponto, disse:

Spesso con queste Meri ho veduto io


farsi lupo, e nascondersi ne boschi,
spesso l’anime uscir fuor de sepolcri,
e le biade da un loco a un altro andare2.

E Plinio dice che un certo Demarco Parrasio, in un sacrificio


che gli Arcadi facevano a Giove Liceo d’un corpo umano, gu-
stò l’interiora del fanciullo sacrificato e divenne lupo3, per la
quale trasformazione d’uomini in lupi Agostino crede che fos-

1
Cfr. PLIN., Nat. hist., XXIV, 102, 166. La fonte citata da Plinio è uno scritto di De-
mocrito intitolato Ceirovkmhta. L’opera è menzionata anche in VITRUV., De archit.,
IX, 1, 14 come democritea, ma si veda COLUM., De re rust., VII, 5, 17 che ne attri-
buisce la paternità all’autore egiziano di lingua greca Bolo di Mende, vissuto nel
III sec. a.C., il quale scrisse e spacciò diverse opere sotto il nome di Democrito.
2
VIRG., Bucol., VIII, 97-99.
3
Cfr. PLIN., Nat. hist., VIII, 34, 82, dove il personaggio si chiama Demeneto di Par-
rasia.
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194 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

se posto il nome a Pane Liceo et a Giove Liceo4. Racconta il


medesimo Agostino che, ritrovandosi egli in Italia, alcune fe-
mine incantatrici, a guisa di Circe, dato l’incantesimo a fore-
stieri nel formaggio, gli trasformarono in bestie, e poi che eb-
bero portato i carichi che elle volsero, di nuovo gli ritornarono
uomini, e che ciò avvenne allora a un certo padre Prestanzio5.
Ma perché alcuno non credesse che questi fossero farnetichi e
cose impossibile, ricordisi di quel che dicono le Sacre Lettere,
che il re Nabuchodonosor fu trasformato in bue e sette anni
visse di fieno, e finalmente per misericordia di Dio ritornò uo-
mo, il corpo del quale, dopo la morte sua, il figliuolo Evilme-
rodath6 diede mangiare a gli avoltoi acciocché talora non risu-
scitasse da morte a vita colui che di bestia era ritornato uomo7;
e l’Esodo dice molte cose di questa sorte de i magi di Faraone8.
Nondimeno di questi o magi, o incantatori, intende il Savio
quando dice: «Iddio tu gli hai avuto in odio perché con incan-
ti facevano opere orribili»9. Oltra di ciò voglio che sappiate
questo, che i magi non solo speculano le cose naturali, ma
quelle ancora che la natura accompagnano et in un certo mo-
do la spogliano, sì come sono moti, numeri, figure, suoni, voci,
concetti, lumi, affetti d’animo e parole. Così gli Psilli et i Marsi
chiamavano i serpenti, altri gli cacciavano10; a questo modo Or-

4
Cfr. AGOST., De civit. Dei, XVIII, 17-18. Liceo era un attributo del dio Pan, dal
monte omonimo dell’Arcadia a lui sacro, spesso luogo di sacrifici anche in onore
di Giove.
5
Ivi, XVIII, 18; GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 9. L’episodio, come quello prece-
dente di Demeneto di Parrasia, è ricordato da Agrippa anche in De occ. phil., I, 41,
p. 161 e I, 45, pp. 171-172.
6
Il testo latino del 1531 reca: «Emilmeradach», mentre l’edizione del 1584 reca:
«Evilmerodach». Lo storico Beroso lo chiama «Evilmarudochus» (si veda GEROL.,
Chron., I, 11, 5).
7
Cfr. DN 4:28-33.
8
Cfr. ES 8:14 e 9:11.
9
SP 12:4. Si veda anche 2 RE 17:17-18 dove il Signore si adira con il popolo d’I-
sraele perché i suoi profeti e veggenti praticavano la divinazione e gli incantesimi
per compiere cose malvagie.
10
Cfr. CRIN., De hon. discip., I, 3; PLIN., Nat. hist., XXI, 45, 78 e XXVIII, 6, 30. Per gli
Psilli, abitanti della costa sud-occidentale dell’odierna Libia, e i Marsi, abitanti
dell’Abruzzo, popolazioni entrambe associate alla pratica della magia grazie alla
quale erano in grado di guarire dai morsi velenosi dei serpenti, si veda anche
EROD., Hist., IV, 173; ORAZIO, Epodi, XVII, 27-29; OVID., Ars amat., II, 101-102;
STRAB., Geogr., XIII, 1, 14; PLIN., Nat. hist., XXVIII, 4, 19 e VII, 2, 14-15; AUL. GELL.,
Noct. att., XVI, 11, 1-3. Il tema ricorre anche in AGRIP., De occ. phil., I, 58, p. 208.
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44. DELLA MAGIA VENEFICA 195

feo acquetò con un inno la fortuna di mare de gli Argonauti11;


et Omero dice che’l sangue d’Ulisse si ristrinse con parole12; e
nella Legge delle Dodici Tavole fu messa pena a quegli che in-
cantavano le biade13, di modo che non è dubbio che i magi con
le sole parole ancora, affetti, et altre cose simili, spesse volte
producono alcun maraviglioso effetto, non pure in loro mede-
simi, ma nelle cose stranie ancora, tutte le quali operazioni
credono che spargano la forza posta in loro nelle altre cose et
a sé le tirino o da sé le caccino, o in alcun altro modo qualità
gli diano nel modo che la calamita tira il ferro14 e l’ambro le
paglie, o del modo che’l diamante e l’aglio legano la calamita.
E così per questa graduaria et incatenata composizione di cose
Iamblico, Proculo e Sinesio, secondo l’opinione de magi, con-
fermano che non solo i doni naturali et i celesti, ma gli intel-
lettuali et i divini ancora, di sopra si possano ricevere, il che
confessa Proculo nel libro Del sacrificio e della magia, cioè che
per questo tale consenso delle cose i magi usassero di costrin-
gere gli spiriti15. Perciocché alcuni di lor sono venuti a tanta
pazzia che si credono che con diverse costellazioni di stelle, di-
rittamente osservate per ispazio di tempo e con una certa ra-

11
Cfr. REUCHL., De verbo mirif., II, C8r, ma si veda anche APOLL. ROD., Argon., IV, 891
sgg.; VAL. FLAC., Argon., I, 187-196 e 470-472. La connessione della figura di Orfeo
con la spedizione degli Argonauti è frequente nelle fonti classiche.
12
Cfr. APUL., De magia, XL; PLIN., Nat. hist., XXVIII, 4, 21; OMERO, Odyss., XIX, 455-
458.
13
Cfr. CRIN., De hon. discip., V, 7; APUL., De magia, XLVII; Lex XII tab., VIII, 1 e 8a.
Per le Leggi delle Dodici Tavole, il più antico codice della legislazione romana,
istituito probabilmente in tempi tanto remoti da risalire ai primi anni della Re-
pubblica romana (509-287 a.C.), si veda, per es., LIV., Ab Urbe cond., III, 35-37;
DION. ALIC., Antiq. rom., X, 1-60; POMPONIO, Dig., I, 2, 2, 3, 4, 24; CIC., De Rep., II, 36,
61 e Leg., II, 23-24; TAC., Ann., III, 27. Per la proibizione contenuta in una delle
Leggi delle Dodici Tavole di gettare il malocchio (excantare fruges) sulle messi e
sui prodotti della terra altrui, si veda anche PLIN., Nat. hist., XXVIII, 4, 17-18; SEN.,
Nat. quaest., V, 7; AGOST., De civit. Dei, VIII, 19. La credenza secondo la quale era
possibile, operando incantesimi, ‘trasportare’ i frutti di un campo in un altro ter-
reno è attestata in VIRG., Aen., VII, 338 e Georg., VIII, 99; OVID., Remed. amor., 255.
14
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 42. Il potere del magnete rappresenta un esempio
classico di proprietà occulta. Si veda, per es., FIC., De vita, III, 15; AGRIP., De occ.
phil., I, 10, p. 104; DELLA PORTA, Magia nat., VII.
15
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 42; PROCLO, De sacr. et magia, in FIC., Opera (ed. 1576),
p. 1928; GIAMB., De myst., II, 5; SINESIO, De ins., in FIC., Opera (ed. 1576), p. 1969.
Sullo stesso argomento, si veda anche FIC., De vita, III, 15; AGRIP., De occ. phil., I, 38,
pp. 155-156.
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196 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

gion di proporzioni, per consentimento de gli spiriti del cielo


un’imagine fabricata possa ricevere spirito di vita e d’intelletto,
col quale risponda poi a chi la vorrà domandare e riveli i secreti
della occulta verità. Di qui si vede che questa magia naturale,
passata alcuna volta in goezia e teurgia, spessissime volte è in-
ciampata nell’astuzie e nelle illusioni de diavoli dell’inferno16.

16
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 42.
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45.
DELLA GOEZIA E NEGROMANZIA

Della magia ceremoniale sono parti la goezia e la teurgia. La


goezia, fondata nella prattica de gli spiriti maligni, con usanze
di malvagia curiosità composta d’incanti e scongiuramenti illi-
citi1, è cacciata e sbandita per la volontà di tutte le leggi. Di
questa maniera sono quegli ch’oggidì negromanti chiamiamo,
et incantatori:

Gente odiosa a Dio, dotta a potere


macchiare il ciel, naturalmente tristi,
i quai potrian le stelle, e l’altre cose
stabili, a voglia lor volger sozzopra.
Perch’or fermano i poli, et i fiumi, e l’aria
mandan sotterra, e rendon piani i monti2.

Questi son quegli dunque che richiamano l’anime de morti3


e quegli che erano da gli antichi chiamati epodi, che incanta-
no i fanciulli e gli fanno dire oracoli e che menano intorno i
demoni paredri, sì come leggiamo non so che di Socrate4, e
quegli che, come si dice, pascon gli spirti nel vetro, per li quali

1
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 42.
2
Cfr. ORAZIO, Epod., V, 45 e XVII, 77-78; VIRG., Bucol., VIII, 69; OVID., Metam., VII,
202 e 205, i cui versi sono qui liberamente parafrasati.
3
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 42; POLID. VIRG., De invent. rer., I, 23. Sull’etimologia del
termine «necromanzia» da nekrov", ossia «morto» e manteiva, ossia «divinazione», si
veda ISID., Etym., VIII, 9, 12 sgg.
4
Cfr. RODIG., Lect. antiq., I, 24.
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198 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

si vantano di profetare5. E tutti questi procedono in due modi,


perciocché alcuni si sforzan di scongiurare e costringere i dia-
voli dell’inferno, massimamente congiurati con certe virtù de i
nomi divini6, e veramente, poi ch’ogni creatura teme e riveri-
sce il nome del suo fattore, non è maraviglia se i goetici, e que-
gli anco che son infedeli, pagani, Giudei, Saracini, et uomini
di qual si voglia scelerato collegio o setta, astringono i demonii
con l’invocazione del nome d’Iddio. Alcuni altri ribaldissimi,
con malvagità abominevole e degna da esser punita col fuoco,
sottomettendosi a demonii, gli sacrificano e gli adorano, et in
questo modo si fanno idolatri e colpevoli d’una vilissima adu-
lazione, a i quali peccati, benché i primi obligati non siano,
nondimeno a manifesti pericoli si mettono7. Perciocché i dia-
voli, ancora che costretti, veggiamo sempre per ingannare noi
erranti8. Dalla setta di questi goetici uscirono tutti i libri di te-
nebre, i quali Ulpiano giurisconsulto chiama di lezzione dan-
nata, et ordinò che si dovessero stracciare affatto9. Nel modo
che si dice essere stato primo a immaginarsi un certo Zabulo
inclinato alle arti proibite10, da poi un Barnaba di Cipro11, et
oggidì ancora vanno attorno libri con titoli finti sotto i nomi
d’Adamo, d’Abel, d’Enoch, d’Abraam12, di Salomone, di Paolo
ancora13, d’Onorio, di Cipriano, d’Alberto, di Tomaso, di Giro-
lamo e d’un certo Eboracese14, le ciancie de i quali pazzamen-

5
Cfr. LATT., Divin. instit., II, 16, 1, dove la necromanzia è associata all’astrologia e
alla magia. Su questo argomento, si veda anche CIC., De divin., I, 132; Tusc. disp., I,
16, 37.
6
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 9; RODIG., Lect. antiq., V, 42.
7
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 10.
8
Ibid.
9
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 42; Dig., X, 2, 4, 1.
10
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 42. Zabulo potrebbe forse identificarsi con Zabel, di
cui si veda TRIT., Antip. malef., I, 3: «Est alius liber Zabel qui praenotatur Liber
eventuum fortuitorum, vanus quidem, sed nihil continens artium diabolicarum;
et partim accedit ad omnia: quicquid enim fortuitum acciderit ad significationem
aliquam occultorum reducit. Incipit autem sic: Rerum accidentium occultos eventus».
11
Possibile allusione all’apocrifo del V sec. intitolato Atti di Barnaba, opera con-
servata in greco e attribuita a Giovanni Marco, collaboratore di Paolo.
12
Cfr. REUCHL., De arte cabal., I, D1v.
13
Anche in questo caso la fonte di Agrippa potrebbe essere TRIT., Antip. malef., I,
3, dove sono elencati una serie di libri magici attribuiti ad Adamo, Abel, Enoch,
Abramo, Salomone, Cipriano, Alberto, e molti altri. Si veda supra, nota 11, p. 189.
14
Cfr. GIOV. PICO, Disp., I per gli scritti attributi a Ruggero Bacone, Alberto Magno
e san Tommaso. L’Eboracensis é Roberto di York (XIV sec.), il cui soprannome
deriva appunto dall’antico nome della città di York.
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45. DELLA GOEZIA E NEGROMANZIA 199

te hanno seguito poi Alfonso re di Castiglia, Roberto d’Inghil-


terra, Bacone e Pietro d’Abano15, e molti altri uomini di scele-
rato ingegno. Oltra di ciò non pure hanno fatto auttori di così
malvagia dottrina gli uomini, i santi, i patriarchi e gli angeli
d’Iddio, ma fanno mostra ancora di libri scritti da Raziole e Raf-
faello, angeli d’Adam e di Tobia16, i quai libri nondimeno a chi
sottilmente gli considera, apertamente mostrano l’ordine de
suoi precetti, la usanza delle cerimonie, la qualità delle parole e
de caratteri, l’ordine della costruzzione, la frase pazza: non ave-
te altro in loro che ciancie schiette e truffe, e d’essere stati com-
posti ne i tempi più nuovi da uomini ignoranti nella magia an-
tica, dannatissimi artefici delle dannazioni, con alcune scelera-
te osservazioni mescolate et inserte nelle cerimonie della nostra
religione, con molti nomi e signacoli incogniti, affine di spa-
ventare gli uomini rozzi e semplici e per generare maraviglia ne
gli sciocchi et in quei che non sanno le buone lettere. Né però
manifestamente si vede che queste arti siano favole, che se ve-
ramente così non fossero, e per mezzo di quelle non si facesse-
ro molte cose maravigliose e nocive, non così strettamente le
leggi divine et umane avrebbono comandato ch’elle si caccias-
sero dal mondo. E la ragione è tale perché questi goetici si ser-
vono solo de diavoli dell’inferno, che gli angeli buoni difficil-
mente compaiono perché aspettano il comandamento d’Iddio,
e non usano se non con uomini mondi di core e santi di vita.
Ma i cattivi si fanno facili a chiamare, falsamente favoreggiando
e contrafacendo la divinità, apparecchiati sempre a ingannare
con l’astuzia loro per essere riveriti et adorati. E perché le femi-
ne più ingorde sono de i secreti e meno accorte, et inclinate al-
la superstizione, e più facilmente si gabbano, perciò si mostra-
no loro molto più facili e fanno di miracoli grandi, sì come di-
cono i poeti di Circe, di Medea e dell’altre. Testimonio ne fan-
no Cicerone, Plinio, Seneca, Agostino e molti altri così filosofi
come dottori et istorici catolici, e le Sacre Lettere ancora17. Per-

15
Cfr. REUCHL., De verbo mirif., I, C1v; GIOV. PICO, Disp., I. Roberto d’Inghilterra è
Robertus Anglicus (XIII sec.), autore nel 1271 di un commento alla Sfera di Sa-
crobosco, e nel 1276 del Tractatus quadrantis.
16
Cfr. GIOV. PICO, Disp., I. L’angelo Raziel, intermediario del sapere divino, svolge nel
cerchio della Cabala un ruolo fondamentale. A lui vengono attribuiti libri di conte-
nuto magico-mistico (si veda, per es., TRIT., Antip. malef., I, 3). L’angelo Raffaele, il
cui compito è quello di aiutare il pio Tobia in numerose situazioni di pericolo, ap-
pare nel libro deuterocanonico di Tobia e nell’apocrifo Primo libro di Tobia (I-II sec.).
17
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 9.
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200 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

ciocché si legge ne libri de i Re che quella donna Pitonissa, la


quale era in Endor, chiamò l’anima di Samuel profeta18, ben-
ché molti dichiarino che ella non fu l’anima del profeta, ma
spirito maligno che prese la imagine di lui. Nondimeno i
maestri de gli Ebrei dicono, la qual cosa ancora Agostino scri-
vendo a Simpliciano non nega che fare non si potesse19, che
egli fu lo spirito vero di Samuel il quale, inanzi che fosse pas-
sato l’anno da che partì del corpo, facilmente si puote richia-
mare, sì come affermano i negromanti, ma che più i magi ne-
gromanti son d’opinione che si possa fare con alcune forze
naturali e legami, sì come noi trattiamo ne i nostri libri del-
l’occulta filosofia20. E perciò gli antichi padri, ammaestrati
nelle cose spirituali, non senza cagione ordinarono che i cor-
pi morti si seppellissero in loco sacro, s’accompagnassero co i
lumi, si bagnassero d’acqua benedetta, si profumassero d’in-
censi e si purgassero con orazioni infinché stavano sopra la
terra21. Perché, come dicono i maestri de gli Ebrei, tutto il no-
stro corpo e l’animal carnale22, e ciò che in noi si fonda sopra
la materia mal disposta della carne, si lascia per cibo al ser-
pente, e come essi lo chiamano, Azazele23, il quale è signore
della carne e del sangue e principe di questo mondo, e nel
Levitico si domanda principe de i deserti24, a cui fu detto nel
Genesi: «Tu mangerai terra in tutto il tempo della vita tua»25,
et in Isaia: «Il tuo pane sarà polvere»26, cioè il corpo nostro
creato di polvere della terra infin che non sia santificato e tra-
smutato in meglio, sì che non più del serpente ma sia fatto di
Dio, cioè di carnale spirituale, secondo la parola di Paolo che
dice: «Seminasi quel ch’è dell’anima e risuscitarà quel ch’è

18
Ibid. L’episodio biblico (1 SM 28:3-25) è ricordato anche in AGRIP., De occ. phil.,
III, 18, p. 453 e III, 42, p. 536; GIOV. PICO, Apol., p. 145; GIOVANFRANC. PICO, De rerum
praenot., IV, 9.
19
Cfr. AGOST., De diver. quaest. ad Simpl., III, 1-2.
20
Cfr. AGRIP., De occ. phil., I, 58; pp. 206-210 e III, 42, pp. 535-538.
21
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, II, 3, 6.
22
Cfr. Zohar (ed. de Pauly), I, 1.
23
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 5, 6; AGRIP., De occ. phil., III, 41, p. 523.
24
Cfr. LV 16:7-10. Azazel è il demonio cui era inviato un capro simbolicamente ca-
ricato dei peccati del popolo d’Israele durante la celebrazione più famosa del ca-
lendario giudaico, il cosiddetto Yom-Kippur, il giorno del perdono o dell’espiazio-
ne. L’animale veniva poi allontanato nel deserto dove, estinguendosi, estingueva
anche il peccato d’Israele.
25
GEN 3:14.
26
IS 65:25.
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45. DELLA GOEZIA E NEGROMANZIA 201

spirituale»27. Et altrove: «Ogniuno veramente risuscitarà, ma


non tutti si trasformeranno, perché molti si rimarranno in
perpetuo cibo del serpente»28. Noi dunque mettiamo giù que-
sta brutta et orribil materia di carne, e nella morte la lasciamo
cibo del serpente per doverla un’altra volta ripigliare trasfor-
mata in miglior sorte e spirituale, e ciò sarà nella resurrezzio-
ne de morti. E già s’è fatto in quegli c’hanno gustato le primi-
zie della resurrezzione, e molti questo medesimo hanno con-
seguito in vita per virtù dello spirito deificante, Enoch, Elia e
Mosè, i corpi de i quali trasformati in natura spirituale, non si
sono corrotti, né come gli altri cadaveri lasciati in possanza
del serpente29. E questa è la contesa del diavolo con Michele
del corpo di Mosè, della quale fa menzione Giuda nella sua
epistola30. Ma basti aver detto questo della goezia e della ne-
gromanzia.

27
1 COR 15:44.
28
Il passo non compare nella Bibbia, ma si veda 1 COR 15:51-53 dove invece Paolo
afferma: «Non tutti morremo, ma tutti saremo trasformati: in un istante, in un
batter d’occhio, all’ultima tromba; suonerà infatti la tromba, i morti risorgeran-
no incorrotti e noi saremo trasformati».
29
Per Enoch assunto in cielo, si veda GEN 5:24 e ECCLI 44:16, 49:14; per il rapi-
mento in cielo di Elia su un carro di fuoco, si veda 2 RE 2:1-11 e ECCLI 48:9; per
Mosè, si veda DEUT 34:5.
30
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 7, 1 (si veda GD 9). Secondo Clemente di Ales-
sandria (si veda Fragmentum in epistolam Judae, 9) e Origene (si veda De princ., III,
2, 1), l’accenno alla lotta tra l’arcangelo Michele e il diavolo dipende dall’apo-
crifo intitolato l’Assunzione di Mosè o Testamento di Mosè, un testo che si è conser-
vato unicamente in un manoscritto latino incompleto del VI sec.
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46.
DELLA TEURGIA

Vogliono molti che la teurgia non sia proibita, quasi ch’ella


si governi da gli angeli buoni e per nume divino, essendo però
spessissime volte sotto i nomi di Dio e de gli angeli astretta da i
malvagi inganni de diavoli, perché non solo con le forze natu-
rali, ma con certe solennità e cerimonie ancora, a noi concilia-
mo e tiriamo le cose celesti, e per quelle divine virtù delle qua-
li gli antichi magi, avendone fatto volumi, con molte regole ne
trattano1. La maggior parte di tutte le cerimonie consiste in
conservarsi mondi: circa la mondezza prima dell’animo, e poi
del corpo ancora e delle cose che stanno circa il corpo, sì come
è nella pelle, ne vestimenti, nelle abitazioni, ne vasi, nelle mas-
serizie, nelle oblazioni, nelle ostie, ne sacrificii, la purità de i
quali dispone alla consuetudine et alle cerimonie delle cose di-
vine, e molto è ricercata nelle cose sacre, secondo le parole d’I-
saia: «Lavatevi e sarete mondi, e lasciate i cattivi vostri pensie-
ri»2. Ma la immondizia, perché ella spesse volte corrompe l’a-
ria e l’uomo, disturba quel purissimo influsso delle cose celesti
e divine e caccia gli spiriti mondi d’Iddio. Nondimeno alcuna
volta gli spiriti immondi e le possanze che ingannano per farsi
riverire et adorare per dèi, ricercano anch’essi questa purità, e
però qui bisogna avvertir molto a sapersi guardare3, di che lar-

1
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 42.
2
IS 1:16.
3
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 1, 8.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 204

204 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

gamente abbiamo ragionato ne nostri libri d’occulta filosofia4.


Ma Porfirio, il quale disputa molto di questa teurgia, o magia
delle cose divine, finalmente conclude che con le consecrazio-
ne teurgie si può ben fare l’anima dell’uomo sofficiente al ri-
cevere gli spiriti e gli angeli, et a vedere gli dèi, ma ogniuno ne-
ga che a patto alcuno con questa arte si possa dare la via di ri-
tornare a Dio5. Di questa medesima scuola sono l’arte di Alma-
del, l’arte notoria6, l’arte paolina, l’arte delle revelazioni7, e
molte altre cose di simili superstizioni, le quali tanto son più
dannose quanto a gli ignoranti paiono più divine.

4
Cfr. AGRIP., De occ. phil., III, 54, pp. 564-566.
5
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 42; AGOST., De civit. Dei, X, 9.
6
Durante il Medioevo furono attribuiti a Salomone, il re biblico di Israele consi-
derato il più saggio tra gli uomini, una serie di opere magiche, tra cui il Liber sa-
cratus che tratta dell’Ars notoria, ossia il metodo di acquistare la conoscenza di tut-
te le cose e raggiungere la comunione con Dio principalmente attraverso l’invo-
cazione degli angeli, le figure mistiche e le preghiere magiche. Nello Speculum
astronomiae Alberto Magno elenca, tra i libri di necromanzia, cinque trattati attri-
buibili a Salomone, tra i quali figurano il De figura Almandel, il De novem candariis
e il De quatuor annulis. I libri contenenti l’ars notoria, considerata da Lutero come
una forma di credo e di superstizione, e derisa dallo stesso Erasmo da Rotterdam,
furono prima condannati dai teologi della Sorbona nel 1324 e successivamente
nel 1634 posti all’Indice.
7
L’Ars paulina sembra richiamarsi alla dottrina esposta dall’apostolo Paolo in 1
COR 2:6-10; mentre l’Ars revelationum consisterebbe nell’arte per raggiungere un
sapere superiore.
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47.
DELLA CABALA

Ricordomi qui delle parole di Plinio, il quale dice: «Vi è


un’altra fazzione di magia, la quale i Giudei dicono d’avere
avuto da Mosè e Latopea»1, le quali parole mi fanno sovvenire
della Cabala de Giudei, la quale ferma opinione è appresso gli
Ebrei che Dio medesimo nel monte Sina la desse a Mosè, e
ch’ella sia poi passata per gradi di successioni, senza memoria
di lettere, con la sola viva voce, a i descendenti fino al tempo di
Esdra2, come altra volta Archippo e Lisiade, i quali tennero
scuola a Tebe in Grecia, insegnavano le dottrine pitagoriche
nelle quali i discepoli, tenendo a mente i precetti de maestri, si
servivano dell’ingegno e della memoria in vece di libri3. E così
alcuni Giudei, rifiutando le lettere, collocarono questa in me-
moria et osservazione e precetto di voce, onde gli Ebrei la chia-
marono Cabala, quasi cosa ricevuta dalla voce un dell’altro4.
L’arte, come si dice, è molto antica, ma il nome suo non è sta-
to conosciuto se non a tempi nuovi appresso [i] Cristiani. Di-

1
PLIN.,
Nat. hist., XXX, 2, 11.
2
Cfr. RODIG., Lect. antiq., VI, 1.
3
Cfr. REUCHL., De arte cabal., II, I5r, dove però i discepoli di Pitagora sono Ipparco
e Liside.
4
Ivi, I, B6r, ma si veda anche REUCHL., De verbo mirif., I, A8v; GIORGIO, De harm.
mundi, I, 2, 7; GIOV. PICO, Oratio de hom. dign., p. 73; RODIG., Lect. antiq., VI, 1. Il si-
gnificato etimologico del termine ebraico qabba– la– h è appunto ‘ricezione’, e si ap-
plica in genere a indicare il ricevimento che una generazione fa della tradizione
trasmessa da un’altra.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 206

206 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

cono ch’ella ha doppia scienza5: l’una di bresith6, la quale si


chiama ancora cosmologia, cioè che dichiara le forze delle co-
se create, e naturali e celesti, e che espone con filosofiche ra-
gioni i misteri della legge e della Bibbia, la quale veramente
per questo rispetto non è punto differente dalla magia natura-
le nella quale crediamo che fosse molto eccellente il re Salo-
mone. Perché si legge nelle Sacre Istorie degli Ebrei7 ch’egli
era usato disputare dal cedro di Libano fino all’issopo8, e delle
bestie ancora, de gli ucelli, de minuti9 e de pesci, tutte le quali
cose possono far mostra d’alcune forze magiche di natura, e
fra gli ultimi ancora Mosè Egizzio nelle sue esposizioni sopra i
cinque libri10, e molti talmudisti l’hanno seguita. L’altra scien-
za della Cabala chiamano de mercava, la quale è quasi una cer-
ta simbolica teologia delle più sublimi contemplazioni delle di-
vine et angeliche virtù e de i sacri nomi e signacoli, nella quale
le lettere, i numeri, le figure, le cose et i nomi de i caratteri, le
linee, i punti e gli accenti, tutti sono significativi di profondis-
sime cose e di secreti grandi11. Questa di nuovo si divide in due

5
Cfr. REUCHL., De arte cabal., I, D2v. Il riferimento è alla suddivisione, che risale al-
la letteratura talmudica dei primi secoli dell’era volgare, delle dottrine cabbalisti-
che in Ma‘aseh Bereshìth (= l’opera della creazione), vale a dire le speculazioni co-
smogoniche, e Ma‘aseh Merkavah (= l’opera del carro), vale a dire l’interpretazio-
ne mistica della visione di Ezechiele del carro celeste che trasporterebbe il trono
di Dio Creatore, che costituiscono un aspetto fondamentale nelle concezioni del-
la mistica ebraica. Le tradizioni di merkavah erano conosciute da alcuni autori del
Nuovo Testamento (si veda 2 COR 12:1-4).
6
Con la parola ebraica Bereshìth, ossia «In principio», gli Ebrei intitolano il primo
libro della Bibbia, quale principio del Pentateuco o Torah, principio dell’essere nel-
la creazione, principio del dialogo tra Dio e l’uomo. Il termine troverà la sua rie-
dizione definitiva nell’«In principio era il Verbo» del Vangelo di Giovanni.
7
Cfr. REUCHL., De verbo mirif., I, C1r; De arte cabal., III, K4v. Per il luogo biblico, si
veda 1 RE 5:13.
8
L’issopo è una pianta aromatica usata dagli Ebrei per la purificazione dei leb-
brosi, per tingere le porte con il sangue dell’agnello, per aspergere l’offerta per il
peccato (si veda LV 15:49-57).
9
Il testo latino reca: «reptilibus», ossia «esseri striscianti».
10
Allusione all’opera di Maimonide conosciuta con il titolo di Mi&neh Torah. Cfr.
REUCHL., De arte cabal., I, D5r-v: «De terra promissionis, de Ierusalem civitate cuius
participatio est in id ipsum, de monte dei, et loco sancto eius, et via sancta, et
sanctuario, et atriis domini, et templo domini, et domo domini, et porta domini,
et caeteris similibus multis, quae Rabi Moyses aegyptius in suo Misne, id est deu-
teronomio, sic etiam intelligi de coelesti beatitudine voluit». Su Maimonide, si ve-
da anche supra, p. 146 e nota 35.
11
Cfr. supra, nota 5.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 207

47. DELLA CABALA 207

parti, in aritmanzia, cioè quella che si chiama notariacon, la


quale tratta delle virtù angeliche, de i nomi, de signacoli e del-
le condizioni de i demoni e delle anime12, et in teomanzia, la
quale investiga i misteri della maestà divina, le derivazioni13, i
nomi sacri et i pentacoli, la quale chi bene intende dicono che
ha di mirabili virtù, di modo ch’ad ogni suo piacere sa le cose
a venire, comanda a tutta la natura, ha possanza sopra i demo-
nii e sopra gli angeli e fa miracoli. Con questa credono che
Mosè facesse tanti segni, che tramutasse la verga in serpente e
l’acqua in sangue, che mandasse le rane, le mosche, i pidocchi,
le locuste, i bruchi, il fuoco con la tempesta, le vesiche14 e le in-
firmità a gli Egizzii, che facesse morire tutti i primogeniti del-
l’uomo e delle bestie, e menandone i suoi, aprisse il mare, che
facesse uscire l’acqua della pietra e venire le coturnici15 da cie-
lo, che indolcisse le acque amare, che mandasse inanzi di gior-
no a suoi i folgori e le nuvole e di notte la colonna del fuoco,
che facesse udire di cielo la voce d’Iddio al popolo, che gasti-
gasse gli arroganti co’l fuoco e quei che mormoravano con la
lepra, che con subita uccisione punisse i malvagi et altri facesse
ingiottire dalla terra, che pascesse il popolo di celeste cibo, che
umiliasse i serpenti, che sanasse gli avvelenati, che conservasse
turba infinita dell’infirmità e le vesti loro da corrosione, et
averla fatta vincitrice de gli inimici suoi16. Dicono ancora gli

12
Cfr. REUCHL., De arte cabal., I, C4r; III, M5r. L’importanza dei nomi divini e del
loro potere e virtù è uno dei punti essenziali della Cabbala. Nella letteratura cab-
balistica classica del secolo XIII, si distinguevano tre tecniche di esegesi mistica:
la Gematrià, ossia la valutazione del valore numerico delle parole ebraiche secon-
do determinate regole e la ricerca di relazioni con altre parole o frasi aventi lo
stesso valore numerico; la Temurà, ossia la sostituzione di alcune lettere con altre
secondo regole definite; il Notariqon, ossia il metodo consistente nell’estrarre dai
nomi propri delle cose certi numeri divini che, se sommati, permettono di giudi-
care delle cose presenti e future. Questa arte di divinazione è chiamata ‘aritman-
zia’ (si veda AGRIP., De occ. phil., II, 19-20, pp. 304-306 e III, 25, pp. 472-473).
13
Il testo latino reca: «emanationes», termine che rinvia alle ejklavmpsei" (effulgu-
razioni) di Plotino. Non avendo l’ortodossia cattolica assorbito contenuti di ori-
gine neoplatonica, ma non avendo neppure potuto prescindere dalle tematiche
legate alle Enneadi, tentò di risolvere la problematica connessa facendo ricorso
al termine ‘derivazione’ che ha una natura eminentemente linguistico-nomina-
listica.
14
Latinismo da «vesica», ossia rigonfiamento, vescica.
15
Forma italianizzata del latino scientifico Coturnix, genere di uccelli della fami-
glia fasianidi che comprende le quaglie.
16
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 8. Per gli episodi biblici, si veda ES 4 sgg.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 208

208 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Ebrei che con questa arte di miracoli Giosuè fece fermare il so-
le, Elia mandò fuoco dal cielo contra gli aversari suoi e ritornò
in vita il fanciullo morto, Daniello serrò la bocca a leoni, et i
tre giovani salmeggiando stettero securi nella fornace arden-
te17. Affermano ancora i perfidi Giudei che Cristo fé così spes-
so cose tanto maravigliose con questa arte, e che Salomone era
dottissimo in questa scienza, e però ne scrisse una arte contra i
demonii mostrando i modi da legargli, da scongiurargli et i ri-
medi anco contra le infirmità, come testimonia Giosefo18. Ma
nondimeno io, sì come io son certo che Dio rivelò a Mosè o a
gli altri profeti molte cose ch’erano coperte sotto la scorza del-
le parole della legge, misteri da non comunicare all’ignorante
vulgo, così conosco questa arte Cabala della quale tanto si glo-
riano gli Ebrei, et io con gran fatica ho talora investigato, altro
non essere che una pura consonanza di superstizione et una
certa magia teurgica, che se, come si vantano i Giudei, venuta
da Dio, ella fosse di giovamento alla perfezzione della vita, alla
salute de gli uomini, al culto d’Iddio, a intendere il vero, certa-
mente quello spirito di verità, ch’abbandonata la sinagoga ven-
ne a insegnarci ogni verità19, non l’avrebbe tenuta ascosa fino a
questi ultimi tempi alla sua Chiesa, la quale veramente ha co-
nosciuto tutte le cose che sono d’Iddio, la benedizzione del
quale, il battesmo e gli altri sacramenti di salute, sono revelati
e perfetti in ogni lingua, perciocché ciascuna lingua ha una
medesima et egual virtù, mentre ch’ella abbia ancor egual
pietà, né altro nome è in cielo né in terra nel quale bisogna
che noi ci salviamo et in cui bene operiamo, salvo che il nome
solo di Giesù, nel quale si recapitolano e si contengono tutte le
cose20. Perciò i Giudei, peritissimi ne i nomi di Dio, poco o nul-
la dopo Cristo operar possono, come solevano gli antichi padri

17
Cfr. GS 10:12-13; 2 RE 1:10-14; 2 RE 4:18-37 (ma il bambino viene risuscitato da
Eliseo, non da Elia); DN 6:23 e 3:13-97.
18
Cfr. FLAV. GIUS., Antiq. Jud., VIII, 45, ma la fonte di Agrippa potrebbe essere REU-
CHL., De verbo mirif., I, C1r oppure CRIN., De hon. discip., IX, 5 o anche POLID. VIRG.,
De invent. rer., I, 22. Sebbene la Bibbia non contenga descrizioni o riferimenti al-
l’arte di Salomone di invocare i demoni e di guarire gli infermi, tanto le tradizio-
ni ebraica e cristiana, quanto quella araba, tramandano numerose leggende a ri-
guardo, molte delle quali si trovano nella raccolta di novelle Le mille e una notte.
19
Cfr. LC 13.
20
Cfr. AT 4:12.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 209

47. DELLA CABALA 209

loro21. Ma quello che proviamo e vediamo con le revoluzioni,


come essi le chiamano, di questa arte, spesse volte cavarsi mi-
rabili sentenze di misterii grandi dalle Sacre Lettere, tutto que-
sto non è altro che un certo gioco d’allegorie, le quali uomini
oziosi occupati nelle lettere, ne i punti e ne i numeri (il che
questa lingua e modo di scrivere agevolmente comporta) se-
condo che piace loro fingono e refingono, le quali benché ta-
lora paia che importino di grandi misterii, non possono però
provare né mostrar cosa alcuna che, secondo le parole di Gre-
gorio, con quella facilità istessa non sia lecito a sprezzarle
ch’elle sono affermate. Con simile artificio ha finto molte cose
Rabano monaco, ma con caratteri e versi latini, inserendogli
diverse imagini, i quali letti da ogni parte, per tutti i lineamen-
ti della superficie e delle imagini, dimostrano alcun sacro mi-
sterio, rappresentativo della istoria che quivi è dipinta, le quali
cose ancora non è chi non sappia che trar si possano dalle
mondane lettere se avrà letto le centone di Valeria Proba com-
poste de i versi di Vergilio sopra Cristo22, tutte le quali cose so-
no speculazioni di uomini oziosi. Ma quanto spetta alla opera-
zione de miracoli, io non penso che alcun di voi sia così privo
d’ingegno che creda potersene dare arte o scienza alcuna. Al-
tro non è dunque questa Cabala de Giudei che una certa dan-
nosissima superstizione con la quale a voglia loro raccolgono,
partono e trasportano le parole, i nomi e le lettere sparte nella
Scrittura, e facendone d’una un’altra, disfanno le membra del-
la verità, construendo qua e là con le loro proprie finzioni, ra-
gionamenti, induzzioni e parabole, vogliono accomodare a
quelle le parole di Dio, infamando le scritture, e dicendo che
le loro finzioni sono composte di quelle, calonniano la legge
di Dio e tentano d’inferire violente e scelerate prove della per-
fidia loro per mezzo delle computazioni sfacciatamente strasci-
nate di parole, di sillabe, di lettere e di numeri. Oltra di ciò, da
queste ciancie gonfiati, si vantano di poter ritrovare e sapere

21
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, II, 2, 16.
22
La poetessa Proba Petronica (IV sec.) riscosse un grande successo in un parti-
colare genere letterario, il centone virgiliano, che consisteva nel trarre da Virgilio
versi o parte di versi, ricomponendoli in modo da creare una poesia di spirito e
contenuti nuovi. Intorno al 360 Proba compose un centone virgiliano di 694 esa-
metri su episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Nell’attribuire alla poetes-
sa il nome Valeria, Agrippa potrebbe essersi confuso con il grammatico e filologo
latino Marco Valerio Probo, autore di importanti commenti alle opere virgiliane.
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210 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

gli ineffabili misterii di Dio et i secreti che sono sopra la Scrit-


tura, per le quali ancora non si vergognano senza rossore di
profetare, di fare virtuti e miracoli, e con grande ardimento di-
re la menzogna. Ma intraviene loro quello che al cane d’Eso-
po, il quale lasciato il pane et aprendo la bocca all’ombra di
quello, perdé il cibo23: così questa perfida et ostinata genera-
zione d’uomini, sempre occupata nelle ombre della Scrittura,
e con la sua artificiosa ma superstiziosa Cabala facendo furia
circa quelle vanità, perde il pane della vita eterna e perde la
parola della verità pascendosi di nomi vani. Da questa massa
giudaica di superstizion cabalistica sono usciti, credo io, gli
Ofiti, i Gnostici, i Valentiniani eretici, i quali anch’essi co’ di-
scepoli suoi si ritrovarono una certa cabala greca, volgendo
sottosopra tutti i misteri della fede cristiana, e con eretica mal-
vagità strascinandogli a lettere e numeri greci, fabricando di
quelle un corpo, il quale chiamano di verità, mostrando che
senza quei misterii di lettere e di numeri non si può ritrovare
la verità ne gli Evangeli perché sono diversi et in alcuni luoghi
a sé medesimi contrarii, e scritti pieni di parabole, acciocché
quei che li veggono non le veggano, quei che odono non oda-
no e quei ch’intendono non intendano24, ma poste inanzi a i
ciechi et a gli ignoranti secondo la capacità de la cecità e del-
l’error loro, e che la pura verità nascosa sotto quelle è stata
confidata a i perfetti soli non per i scritti, ma per successiva
pronunzia di viva voce25, e che questa è quella alfabetaria et
aritmantica teologia la quale Cristo manifestò a gli apostoli in
secreto26, e Paolo dice che ne ragionava ma non già se non fra
i perfetti27. Perciocché, sendo questi altissimi misterii, non so-
no stati scritti né si scrivono, ma si salvano in silenzio appresso
i savi, i quali secretamente gli tengono fra loro. Et appresso di
loro savio non è tenuto se non chi sa fabricare grandissimi mo-
stri d’eresia.

23
Cfr. ESOPO, Fab., 185.
24
Cfr. MC 4:12; LC 8:10.
25
Cfr. EF 3:3.
26
Cfr. MT 17; MC 9:9.
27
Cfr. 1 COR 2:6-8.
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48.
DE PRESTIGII

Ma ritorniamo alla magia, della quale è particella ancora lo


artificio de prestigii, cioè delle illusioni, le quali solo si fanno
secondo l’apparenza1. Con queste i magi fanno i fantasmi e
con inganni da ciurmatori giuocano molti miracoli e mandano
i sogni, la qual cosa non si fa tanto con incanti goetici, impre-
cazioni et inganni di demonii, quanto ancora con certi vapori
di profumi, lumi, medicamenti, cerotti, legami e sospensioni,
oltra di ciò con anella, imagini, specchi et altre simili ricette et
instromenti d’arte magica, e con naturale e celeste virtù. Fan-
nosi molte cose ancora con pronta sottigliezza et industria di
mani, come tuttodì veggiamo fare da gli istrioni e giocolari, i
quali per questo si domandano chirosofi, cioè savi di mano. Di
questo artificio vi sono i libri de i prestigi d’Ermete2 e d’alcuni

1
Praestigia sono le opere magiche, gli incantamenti (si veda, per es., TOMM. D’A-
QUINO, Summa theol., II, 2, q. 95).
2
Cfr. TRIT., Antip. malef., I, 3: «Unde ex libris Hermetis est unus, qui praenotatur,
Liber praestigiorum Hermetis, in quo multa vana habentur, atque suspecta; qui
sic incipit: Qui Geometria aut Philosophiae peritus, expers Astronomiae»; ALBERTO MA-
GNO, Specul. astr., XI. L’allusione è al Liber prestigiorum Elbidis secundum Ptolomeum et
Hermetem, di cui esistono tre versioni manoscritte, una conservata presso la Bi-
blioteca Municipale di Lione (ms. 328, s. XIV (1395), cc. 70r-74r e due presso la
Biblioteca Apostolica Vaticana (ms. Pal. lat. 1401, s. XIV-XV, cc. 39v-41v e ms. Lat.
10803, s. XV, cc. 62v-66v. Secondo la critica più recente si tratterebbe di una tra-
duzione latina di Adelardo di Bath dell’originale arabo di un’opera attribuita al-
l’astronomo T– a–bit ibn Qurrah, noto anche con il nome latinizzato di Thebit o Te-
bizio. Di questa opera circolò in Occidente, in due diverse redazioni entrambe at-
tribuite a Giovanni di Siviglia, la più conosciuta traduzione latina con il titolo di
De imaginibus, di qualche anno più tarda della traduzione di Adelardo. È interes-
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212 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

altri. Abbiamo letto ancora d’un certo Pasete prestigiatore, il


quale soleva mostrare a forastieri uno abondantissimo convivio
e quando gli pareva lo faceva sparire, avendo messo fame e se-
te a quei che s’erano posti a tavola3. Leggesi ancora che Numa
Pompilio usò questi tali prestigii4. Et anco che’l dottissimo Pi-
tagora fece talora di questi giuochi: egli scriveva col sangue
nello specchio ciò che gli pareva, il quale avendo rivolto al ton-
do della luna piena, mostrava a chi gli era dopo le spalle le co-
se scritte nel cerchio della luna5. Con questo va parimente tut-
to ciò che si legge delle trasformazioni de gli uomini cantato
da poeti, creduto da gli istorici et affermato ancora da alcuni
teologi cristiani e dalle Sacre Lettere similmente. In questo
modo gli uomini paiono asini, cavalli o altri animali a gli occhi
abbagliati, o travagliato il mezzo, e ciò con arte naturale. Talo-
ra queste cose si fanno da i buoni e cattivi spiriti, o a preghi de
buoni da Dio, come si legge nelle Sacre Lettere d’Eliseo profe-
ta assediato dall’essercito di Vallante Dothain re di Siria6. Ma
queste cose non possono abbagliare gli occhi puri et aperti da
Dio: così quella femina che era giudicata bestia dal vulgo, a Ila-
rione non parve bestia ma donna come ella era7. Le cose dun-
que che in tal modo si fanno secondo l’apparenza, si chiama-
no prodigii, ma di quelle che si fanno con arte di coloro che
mutano o trasformano, sì come di Nabuchodonosor e delle
biade trasportate da un campo all’altro, n’abbiamo parlato di
sopra8. Dell’arte de prestigii parla Iamblico in questo modo:
quelle cose che i prestigiati, o fascinati, s’imaginano non han-
no essenza alcuna d’azzione e d’essenza salvo imaginativa, per-

sante notare che tanto l’autore dello Speculum, quanto l’abbate Tritemio, ometto-
no intenzionalmente o ignorano la paternità di T– a–bit del testo da loro menziona-
to. Si veda in proposito l’articolo «Studiosus incantationibus». Adelardo di Bath, Er-
mete e Thabit, in «Giornale critico della filosofia italiana», LXXX, I, 2001, pp. 36-
61 di Vittoria Perrone Compagni, alla cui cortesia devo la stesura di questa nota.
3
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 42.
4
Ibid., ma si veda anche PLUT., Numa, VIII; XV; AGOST., De civit. Dei, VII, 35.
5
Cfr. RODIG., Lect. antiq.,V, 42. Sulla capacità degli oggetti di trasmettere immagi-
ni e impressioni delle cose per effetto della potenza dell’aria, si veda AGRIP., De occ.
phil., I, 6, pp. 94-99; FIC., De vita, III, 13.
6
Cfr. 2 RE 6:13-23.
7
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, II, 9, 10. Ilarione di Gaza (I sec.), è il fondatore, se-
condo san Gerolamo, del monachesimo palestinese. Si veda, per es., GEROL., Vita
Hilar. e SOZ., Hist. eccl., V, 10.
8
Cfr. supra, p. 194.
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48. DE PRESTIGII 213

ché il fine di questo tale artificio non è il fare semplicemente,


ma porgere imaginazioni fino all’apparenza, delle quali non
compaia poi vestigio alcuno9. Da quel che s’è detto chiaramen-
te si vede che la magia non è altro che uno abbraciamento d’i-
dolatria, d’astrologia e di superstiziosa medicina. Da i magi an-
cora è nata nella Chiesa una gran caterva d’eretici, i quali sì co-
me Gianne e Mambre, che si ribellarono a Mosè10, così quegli
s’opposero alla verità apostolica. Capo di costoro fu Simon Sa-
maritano al quale in Roma sotto Claudio imperatore per que-
sta arte fu intitolato una statua con questa inscrizzione: «A Si-
mone dio santo»11. Le bestemmie di costui copiosamente sono
scritte da Clemente, da Eusebio e da Ireneo. Da questo Simo-
ne, come da ceppo di tutte l’altre eresie, per molte successioni
derivarono i mostruosi Ofiti, gli sporchi Gnostici, gli empii Va-
lentiniani, Cerdoniani, Marcionisti, Montaniani e molti altri
eretici12, dicendo il falso contra Dio per guadagno e vanaglo-
ria, non facendo utilità né beneficio alcuno a gli uomini, ma
ingannandogli e mandandogli in ruina et in precipizio, e chi
crederà loro saranno confusi nel giudicio di Dio. Essendo io
giovane ancora scrissi delle cose di magia tre libri in assai gran
volume, i quali intitolai D’occulta filosofia, ne i quali libri tutto
quello ch’io avessi errato per colpa della giovanezza curiosa,
ora fatto più accorto, voglio che sia ridetto con questa palino-
dia, perciocché già consumai in queste vanità e tempo e fa-

9
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 42; GIAMB., De myst., III, 25, ma si veda anche III, 28-29.
10
Cfr. 2 TM 3:8. Negli scritti giudaici Iannes e Iambres (Vulg. e altri codici hanno:
«Mambres»), supposti discepoli o anche figli di Balaam, sono i capi dei maghi
d’Egitto che si oppongono a Mosè e Aronne in ES 7:11. Ma il riferimento potreb-
be essere anche all’apocrifo intitolato Penitenza di Iannes e Iambres, scritto in Egit-
to verso la fine del I sec., e pervenutoci unicamente in frammenti greci e latini. Il
testo apocrifo esprime l’interesse per la negromanzia negli ambienti giudei, oltre
a fornire indicazioni sulla forma della propaganda religiosa giudea nel mondo
pagano.
11
Cfr. CRIN., De hon. discip., VIII, 1, ma si veda anche EUSEB., Hist. eccl., II, 13, la cui
fonte è GIUST., Apol., I, 26. La notizia della statua a Simon Mago trae origine da un
fraintendimento operato da Giustino e successivamente da Tertulliano (Apolog.
adv. gent., XIII, 9): l’iscrizione Semoni Sanc[t]o deo Fidio sacrum, ritrovata nel 1574
su un altare nell’isola Tiberina, non si riferisce a Simon Mago, bensì a un’antica
divinità umbro-sabina garante del giuramento.
12
Agrippa si uniforma qui a tutte le testimonianze antiche che qualificano, con
unanime consenso, il samaritano Simon Mago come primo rappresentante del-
l’eresia gnostica, che appare come la somma e la matrice delle idee eterodosse
successive. Su Simon Mago si veda, per es., AT 8:9-24; IREN., Adv. haer., I, 23, 1-4; IP-
POL., Refut., VI, 7-20; EUSEB., Hist. eccl., II, 13.
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214 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

cultà infinita. Finalmente ne cavai questo frutto, ch’io ho im-


parato con quai ragioni bisogne levar gli altri da questa ruina13,
perciocché tutti quegli ch’ardiscono divinare e profetare non
nella verità, né in virtù di Dio, ma in elusione di demonii e se-
condo l’operazione de gli spiriti maligni, e che essercitando in-
ganni d’idolatria e mostrando prestigii e fantasmi, che subito
cessano, si vantano d’operar miracoli per vanità magiche, esor-
cismi, incanti, amatorii agogimi14 et altre vanità diaboliche, tut-
ti costoro insieme con Ianne, Mambre e Simon Mago15, saran-
no condannati al supplicio del fuoco eterno.

13
Per l’analogia dei toni e delle espressioni verbali, si veda REUCHL., De verbo mirif.,
II, C2v. Si tratta della famosa ritrattazione di Agrippa con la conseguente con-
danna delle scienze occulte, sulla cui valutazione la critica è tuttora in disaccor-
do. Tale recantatio, con riferimento al De vanitate, viene ribadita nell’Epistola al
lettore premessa al De occulta philosophia: «Ideo, si alicubi erratum sit sive quid li-
berius dictum, ignoscite adolescientiae nostrae, qui minor quam adolescens hoc
opus composui, ut possim me excusare ac dicere: “Dum eram parvulus, loquebar
ut parvulus, sapiebam ut parvulus; factus autem vir, evacuavi quae erant parvuli
ac in libro nostro De vanitate ac incertitudine scientiarum hunc librum magna ex
parte retractavi”». In realtà Agrippa opera una chiara distinzione tra magia legit-
tima, che agisce «in veritate» e «in virtute Dei», e magia nera o demoniaca. No-
nostante la ritrattazione, inoltre, dalla corrispondenza appare chiaramente che
Agrippa continuò a occuparsi non soltanto di cabbala, ma anche e soprattutto di
alchimia, di astrologia, di geomanzia, di magia anche negli anni successivi alla
pubblicazione del De vanitate e del De occulta philosophia.
14
Dal termine greco ajgwvgimon nel significato di «filtri d’amore» (si veda PLUT.,
Mor., 1093d).
15
Cfr. supra note 9 e 11.
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49.
DELLA FILOSOFIA NATURALE

Ma egli è tempo oggimai di passar più oltra e di investigare


le opinioni della filosofia, le cose che considerano la natura, e
le scienze che con acuti sillogismi cercano de i principii e de i
fini delle cose. Le quali veramente uomo non è che sappia
quale altra certezza abbiano che la fede de dottori suoi. Di
questa prima fecero professione i poeti, de i quali dicono che
primi inventori furono Prometeo, Lino, Museo, Orfeo1 et
Omero. Qual verità dunque a noi potrà dare la filosofia essen-
do ella generata dalle ciancie e favole de poeti? La qual cosa
prova Plutarco con manifesti indicii esser vera, cioè che tutte le
sette de filosofi ebbero principio da Omero; et Aristotile me-
desimo confessa che naturalmente i filosofi furono studiosi
delle favole2. Divisero alcuni le sette de filosofi in nove, altri in
dieci, ma Varrone molto maggior numero ne fece3. Ma se alcu-
no ancora ragunasse tutti i filosofi, tuttavia fra loro non si po-
trebbe sapere qual fosse setta migliore et alla dottrina di cui si
devesse più tosto ubidire, di maniera fra loro in tutte le cose
combattono e discordano e di età in età questa lite perpetua
nodriscono. E come dice il Firmiano, ciascuna setta ruina tutte
l’altre per istabilire sé e le cose sue, né una concede che l’altra

1
Per Lino, Museo e Orfeo primi poeti, si veda DIOG. LAERZ., Vitae philos., I,
prohem., 3-5.
2
Cfr. PLUT., Mor., 164b; ARIST., Rhet., 1393b.
3
Cfr. GIANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 3; AGOST., De civit. Dei, XIX, 1.
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216 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

sappia per non confessare di non sapere ella4, e benché la filo-


sofia di tutte le cose disputi et abbia opinione, non è però cer-
ta d’alcuna. Onde io non so s’io mi debbo numerare i filosofi
fra le bestie o fra gli uomini: parmi bene che vincano gli ani-
mali bruti perché hanno ragione et intelletto. Ma in che modo
potranno eglino chiamarsi uomini, se le ragioni loro instabili
modo non hanno di persuadere cosa alcuna, ma sempre van-
no sdruciolando in opinioni mobili e l’intelletto loro, a ogni
cosa dubbioso, non sa che tenere si debba o seguire? Et ora
che ciò sia vero più longamente si sforzeremo di mostrare.

4
Cfr. LATT., Divin. instit., III, 4.
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50.
DE PRINCIPII DELLE COSE NATURALI

Gravissima battaglia fra gravissimi filosofi si combatte de i


principii delle cose naturali, sopra i quali si fonda tutta questa
scienza, e tuttavia la lite è sotto il giudice: adducono ragioni
persuadibili et invincibili de contrarii chi di loro abbia detto
meglio. Perciocché Talete Milesio, giudicato il primo savio del-
l’oraculo d’Apolline, voleva che tutte le cose fossero fatte d’ac-
qua; Anasimandro, auditor suo e successore nella scuola, disse
che i principii delle cose sono infiniti; Anasimene, discepolo di
lui, affermò che l’aere è infinito principio delle cose1; Ipparco
et Eraclito Efesio il fuoco2. A questi due s’accosta in un certo
modo Archelao Ateniese3. Anasagora Clazomeno infiniti prin-
cipii a guisa di particelle minute e confuse ma ridotte poi in or-
dine dalla mente di Dio4; Xenofane che uno era ogni cosa, e
questo non si moveva; Parmenide il caldo e’l freddo, come il
fuoco che mova e la terra che forme5; Leucippo, Diodoro e De-
mocrito il pieno e’l voto6; Diogene liberò l’aere c’ha però in sé
la ragion divina7; Pitagora Samio volse che’l numero fosse prin-

1
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 2; I, 2, 1; REUCHL., De verbo mirif., I, A6v-A7r;
AGOST., De civit. Dei, VIII, 2.
2
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 3.
3
Cfr. AGOST., De civit. Dei, VIII, 2.
4
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 1; AGOST., De civit. Dei, VIII, 2.
5
Cfr. ARIST., Metaph., 984b.
6
Ivi, 985b, dove però non è menzionato Diodoro, per il quale si veda GIANFRANC.
PICO, Exam. vanit., I, 3-4.
7
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 3; CIC., De nat. deor., I, 12, 29-30.
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218 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

cipio delle cose, a cui s’aderisce Alcmeone Crotoniate8; Empe-


docle Agrigentino la lite e l’amicizia et i quattro elementi9; Epi-
curo gli atomi e’l vano10; Platone e Socrate Iddio, le Idee, la
materia11; Zenone Iddio, la materia e gli elementi12; Aristotele
la materia, ad appetito della forma per privazione, la quale es-
so mette il terzo fra i principii contra quello che egli disse al-
trove: gli equivoci non si dovere numerare13, laonde alcuni Pe-
ripatetici moderni, in cambio della privazione, vi posero un
certo moto che raguna ambidue il quale, sendo accidente, co-
me può egli essere principio di sostanza? O quale sarà il moto-
re di quel moto? Perciò i filosofi de gli Ebrei volsero che fosse-
ro materia, forma e spirito.

8
Ibid.
9
Cfr. REUCHL., De arte cabal., I, B2v; ARIST., Metaph., 985a.
10
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 3.
11
Ibid.
12
Ibid.; CIC., De nat. deor., I, 14, 36.
13
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 3; ARIST., Metaph., 983b-988a.
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51.
DEL NUMERO DE MONDI E QUANTO ABBINO A DURARE

Questi filosofi son però anco differenti quando disputano


del mondo: Talete disse che v’era un mondo e quello essere
fattura di Iddio1; Empedocle similmente uno, ma che era solo
una piccola particella dell’universo; Democrito et Epicuro, il
contrario, che v’erano mondi infiniti2, i quali segue Metrodo-
ro, discepolo loro, dicendo che sono innumerabili mondi per-
ché senza numero sono le cause di quegli, e che non è meno
cosa pazza dire nell’universo essere un mondo solo non altri-
menti che nascere una sola spica in un campo3. Aristotele,
Averroè, Cicerone e Xenofane parlando della durazione del
mondo dissero ch’egli era eterno e che mai non si corrompe-
rebbe, perciocché, come dice Censorino, non potendo eglino
intendere qual prima sia generato l’ovo o l’ucello, non essen-
do possibile che nasca ovo senza ucello, et ucello senza ovo,
perciò credettero che questo mondo e’l principio e fine di cia-
scuna cosa generata, con perpetua rivoluzione fosse sempiter-
no4. Pitagora e gli Stoici dissero ch’egli era stato generato da
Dio e che alcuna volta, quanto è per la natura di lui, s’aveva da
corrompore, co i quali sono Anasagora, Talete, Ierocle, Avi-
cenna, Algazel, Alcmoo e Filone Ebreo5. Ma Platone dice che

1
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 8.
2
Ibid.
3
Ibid.
4
Ivi, I, 1, 14. Per la disputa sull’uovo e la gallina, si veda MACROB., Conv. saturn.,
VII, 16, 1-2.
5
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 8; REUCHL., De arte cabal., II, I2r. Il nome Alc-
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220 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

fu fabricato da Dio secondo l’essempio di lui, né mai era per


aver fine6; Epicuro il contrario ch’egli aveva da finire; Demo-
crito dice che’l mondo fu generato una volta et una volta ha da
perire, né mai più da rifarsi7; Empedocle et Eraclito Efesio af-
fermano che’l mondo non una volta, ma sempre, si generi e si
corrompa8. Ma ragioniamo un poco d’alcuna cosa particolare,
la quale essi specialmente dicono procedere da causa naturale,
come sarebbe del terremoto: essi non si sono anco potuti ac-
cordare in ritrovarlo ma, vagando per molte cose, Anasagora
ha detto ch’egli è aria, Empedocle fuoco, Democrito e Talete
Milesio acqua, Aristotele, Teofrasto et Alberto vento, overo va-
pore di sotterra, Asclepiade caso, o ruina, Possidionio, Metro-
doro, Calistene, Parca, Seneca et altri divisi in diverse parti,
cercarono indarno della cagione di questo effetto9. E perciò gli
antichi Romani quando avevano sentito tremar la terra, o ne
fosse venuto nuova, comandavano che si sacrificasse ma non
publicavano a quale Dio bisognasse sacrificare, perciocché
non sapevano per qual forza e per qual Dio si tremasse la terra.

moo, qui menzionato, si deve a una serie di refusi tipografici: «Alcinous platoni-
cus», nel testo di Giorgio, diventa «Alcimous» nell’edizione latina di Agrippa e
«Alcmoo» nella traduzione in volgare.
6
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 14; PLAT., Tim., 37d.
7
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 8.
8
Ibid.
9
Ivi, III, 4, 1.
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52.
DELLA ANIMA

Ma se noi vorremo intendere da loro alcuna cosa dell’ani-


ma, molto meno gli troverem d’accordo, perché Crate Tebano
dice che non vi è anima alcuna, ma che i corpi così si movono
da natura1. Ma quei c’hanno confessato l’anima, molti di loro
hanno tenuto ch’ella sia un corpo sottilissimo, sparso in questo
copro grosso. Alcuni di quegli dissero ch’egli è di fuoco, come
Ipparco e Leucippo2, co i quali in un certo modo consentono
gli Stoici, che dicono l’anima essere uno spirito fervido, e De-
mocrito, il quale dice ch’ella è spirito mobile et infocato inser-
to ne gli atomi3. Altri dissero ch’ella è aria, come Anasimene et
Anasagora, Diogene Cinico e Crizia, a i quali s’accosta Varrone
che dice così: «Anima è aere concetto nella bocca, bollito nel
polmone, temperato nel cuore e sparso per lo corpo»4. Alcuni
d’acqua, come Ippia; altri di terra, come Esiodo e Pronopide,
co i quali in un certo modo si convengono Anasimandro e Ta-
lete, ambidue cittadini Milesii5; alcuni vogliono che sia spirito
misto di fuoco e d’aere, come Boete et Epicuro6; alcuni di ter-
ra e d’acqua, come Xenofonte7; alcuni di terra e di fuoco, co-

1
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 4.
2
Cfr. FIC., Theol. plat., VI, 1.
3
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 4; REUCHL., De verbo mirif., I, A7v.
4
Cfr. AGOST., De civit. Dei, VII, 6. La fonte di Agostino è VARR., Antiq. rer. div., XVI,
226.
5
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 4.
6
Ibid., ma si veda anche REUCHL., De verbo mirif., I, A7v.
7
Cfr. REUCHL., De verbo mirif., I, A7v.
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222 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

me Parmenide8; alcuni sanguigno, come Empedocle e Circia9;


alcuni spirito sottile sparso per lo corpo, come Ippocrate me-
dico10; alcuni carne con essercizio di sensi, come Asclepiade11.
Molti altri ancora s’hanno creduto che l’anima non sia quel
corpiccino, ma una certa qualità e complessione di quello,
sparsa per le particelle di quello, come Zenone Citico e Di-
cearco, il quale diffinisce l’anima esser complessione de i quat-
tro elementi12; e Cleante, et Antipatro e Possidonio, i quali di-
cono ch’ella è calore, o complessione calda, a i quali s’accosta
Galeno Pergameno13. Vi sono anco de gli altri, i quali hanno
detto che l’anima non è quella qualità, o complessione, ma a
guisa d’alcun punto di quella in alcuna certa parte del corpo
posta, come nel cuore o nel cervello, che di là tutto il corpo go-
verna, nel numero de i quali sono Crisippo, Archelao et Eracli-
to Pontico, il quale disse che l’anima era luce14. Vi sono anco
de gli altri, i quali hanno creduto che l’anima sia un certo che
di più libero, come punto alcun libero, non legato a parte al-
cuna del corpo, ma separato da ogni determinato sito del cor-
po, e tutto presente a ciascuna parte del corpo, il quale o che
generato sia dalla complessione, o da Dio, è però uscito del
grembo di natura. Di questa opinione furono Xenofane Co-
lofonio, Aristosene et Asclepiade medico, il quale dice che l’a-
nima è coesercitazione de sensi15. E Critolao Peripatetico dice
ch’ella è quinta essenza16; e Talete Milesio dice che l’anima è
natura inquieta e che si move17; Xenocrate la chiama numero
che da se stesso si move18, il quale seguono gli Egizzii che dico-

8
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 4.
9
Ibid. Il nome Circia, che Agrippa riprende letteralmente da Giorgio, potrebbe
essere un errore per Crizia, citato da Aristotele tra coloro che considerano la ca-
pacità di percepire come l’attributo peculiare dell’anima e ritengono che essa sia
da attribuirsi alla natura del sangue. (De anima, 405b). Si veda anche REUCHL., De
verbo mirif., I, A7v e GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 14, che recano: «Critias».
10
Cfr. REUCHL., De verbo mirif., I, A7v.
11
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 4.
12
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 14.
13
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 4.
14
Ibid.; REUCHL., De verbo mirif., I, A7v.
15
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 4.
16
Ibid.; REUCHL., De verbo mirif., I, A7v.
17
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 14.
18
Cfr. REUCHL., De verbo mirif., I, A7v; GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 14.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 223

52. DELLA ANIMA 223

no l’anima essere una certa forza che passa in tutti i corpi, et i


Caldei, i quali vogliono ch’ella sia una virtù senza forma deter-
minata, la quale però riceve in sé tutte le straniere19. Tutti però
s’accordano in questo, che l’anima sia una certa forza agile a
moversi, overo una certa armonia sublime delle parti del cor-
po, ma nondimeno dependente da essa natura del corpo. Se-
gue l’orme di costoro l’indiavolato Aristotele20, il quale ritrova-
to un vocabolo nuovo chiama l’anima entelechia, cioè perfezzio-
ne di corpo naturale organico, che ha vita in potenza, la quale
perfezzione gli dà principio d’intendere, di sentire e di mover-
si21. E questa è la debile diffinizione della anima di così appro-
vato filosofo, la quale non dichiara la essenza, la natura o l’ori-
gine di quella, ma gli effetti22. Sopra tutti costoro sono de gli al-
tri, i quali dissero che l’anima è una certa sostanza divina, tutta
individua e tutta presente in tutto’l corpo et in ciascuna parte
di quello, talmente prodotta dall’auttor incorporeo ch’ella de-
pende dalla sola virtù dell’agente, non dal grembo della mate-
ria. Di questa opinione furono Zoroaste, Ermete Trimegisto,
Orfeo, Aglofemo, Pitagora, Eumenio, Ammonio, Plutarco,
Porfirio, Timeo Locro e’l divino Platone, il quale dice che l’a-
nima è una essenza che move se medesima ripiena d’intellet-
to23. Eunomio vescovo, tenendo parte con Aristotele, parte con
Platone, diffinisce l’anima essere sostanza incorporale fatta nel
corpo, sopra la qual diffinizione hanno formato poi l’altre dot-
trine loro Cicerone, Seneca, Lattanzio, e dicono che in alcun
modo non si può sapere ciò che sia anima. Ecco che pur vede-
te quanto essi discordano insieme circa l’essenza dell’anima,
né meno ridicolamente variano fra loro della stanza di quella,
perciocché Ippocrate et Ierofilo la mettono ne i ventricoli del
cervello24, Democrito in tutto’l corpo, Erasistrato circa la mem-
brana epicranide25, Stratone nello spazio fra le ciglia26, Epicuro

19
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 4.
20
Sul soprannome di ‘demonio della natura’ che Averroè assegna ad Aristotele, si
veda REUCHL., De verbo mirif., I, B2v.
21
Ivi, I, A7v; ARIST., De anima, 412a-412b.
22
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 4.
23
Cfr. REUCHL., De verbo mirif., I, A7v; GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 14; PLAT.,
Phaedr., 245e.
24
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 14; GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 4.
25
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 14.
26
Ibid.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 224

224 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

in tutto’l petto27, Diogene nel ventricolo arteriato del cuore28,


gli Stoici con Crisippo in tutto’l cuore e nello spirito che vi è
d’intorno29, Empedocle nel sangue30, col quale si conforma
Mosè, che perciò ha vietato che non si mangi sangue, perché
l’anima dello animale sta in quello31, Platone, Aristotele e gli
altri più nobili filosofi in tutto il corpo, ma Galeno crede che
in ciascuna parte del corpo vi sia la sua anima, parlando in tal
modo nel libro Della utilità delle parti: «Molte sono ancora le
particelle de gli animali, queste maggiori e quelle minori, et al-
cune del tutto indivisibili nella specie de gli animali. Nondime-
no, ciascuna anima necessariamente ha bisogno di tutte que-
ste, perché il corpo è organo di lei, e perciò le particelle de gli
animali son molto differenti insieme, perché così sono ancora
le anime»32. Né qui mi pare di tacere l’opinione di Beda teolo-
go, il quale scrivendo sopra Marco dice: «Il principale loco del-
l’anima non è, come dice Platone, nel cervello, ma secondo
Cristo nel cuore»33. Del durare dell’anima, Democrito et Epi-
curo dicono ch’ella muore insieme co’l corpo. Pitagora e Pla-
tone affermano ch’ella è immortale e che uscendo del corpo
vola alla natura del suo genere. Gli Stoici, quasi stando in mez-
zo fra costoro, l’anima abbandonando il corpo, se come più in-
ferma in questa vita non si sarà inalzata con alcuna virtù, ch’el-
la si muore insieme con quello, ma s’ella si sarà ornata d’eroi-
che virtù, credono ch’ella s’accompagni alle nature che dura-
no e penetri alle più alte stanze. Aristotele dice che alcune par-
ti dell’anima, le quali hanno le stanze corporee, sono insepa-
rabili da quelle et insieme con esse muoiono, ma l’intelletto,
che non ha alcuno organo di corpo, come perpetuo ch’egli è,
separarsi dal corruttibile34; ma e’ parla tanto coperto e dubbio-
so che gli interpreti suoi tuttavia disputano di questa cosa.

27
Ibid.
28
Ibid.
29
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 4.
30
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 14.
31
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 4. Per il divieto di Mosè di mangiare le carni
di animale, si veda LV 17:10-16.
32
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 14; GAL., De usu part., I, 2.
33
BEDA, In Marci evang. expos., II, 7. Il luogo del Vangelo di Marco è 12:30; per Pla-
tone, si veda Tim., 45b, 73d.
34
Cfr. ARIST., De anima, 408b.
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52. DELLA ANIMA 225

Alessandro Afrodiseo dice manifestamente che egli ha messo


l’anima mortale35; di questo, medesima opinione è fra i nostri
Gregorio Nazianzeno. Contra costoro Platone36, e de i cristiani
Tommaso d’Aquino, combattono per Aristotele e dicono che
egli ha inteso bene della immortalità dell’anima. Averroè,
quello grandissimo commentatore d’Aristotele, dice che ogni
uomo ha la sua propria anima, ma mortale; nondimeno che la
mente umana, o vogliamo dire intelletto, ch’è in tutto, così
dalla parte dinanzi quanto di dietro, eterna, ma che tutti gli
uomini, o di specie umana, n’hanno una, della quale solamen-
te si servono in vita37. Temistio dice ch’Aristotele ha messo una
mente agente sola, ma la capace di più sorti, e l’una e l’altra ha
fatto perpetua38. Intanto che per opera di questi filosofi s’è ve-
nuto a tale, che fra teologi cristiani ancora è nata discordia del-
l’origine dell’anime, alcuni de i quali dicono che l’anime di
tutti gli uomini furono fatte in cielo fin dal principio del mon-
do, fra i quali molti vi è il dottissimo Origene39. Agostino an-
ch’egli dice che l’anima del primo padre nella creazione delle
cose celesti è più antica del corpo, e che dapoi avendolo consi-
derato stanza accomodata a lei, volontariamente se la elesse,
benché non paia ch’egli affermi questo per molto ferma opi-
nione40. Alcuni credono che una anima si generi dall’altra, co-
me corpo da corpo, nella quale opinione furono Apollinare

35
Cfr., per es., GIOV. PICO, Conclus., III, 15, 2.
36
Il testo latino reca: «Pleton». L’allusione è dunque al filosofo e umanista bizan-
tino Giorgio Gemisto (ca.1360-ca.1452), noto con lo pseudonimo di Pletone, so-
stenitore della superiorità di Platone nella disputa scolastica tra platonici e ari-
stotelici e ispiratore di Cosimo de’ Medici nella fondazione dell’Accademia pla-
tonica fiorentina.
37
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 14.
38
Cfr. REUCHL., De arte cabal., II, E6v; TEMIS., Paraphr. in lib. de anima, V, 3.
39
Origene (ca.185-ca.254), esponente di spicco della scuola alessandrina, scritto-
re ecclesiastico ed esegeta cristiano, filosofo d’ispirazione platonica, elaborò nei
quattro libri del De principiis (ca.220) alcune teorie condannate come eterodosse,
quali quelle dell’eternità della creazione, della preesistenza delle anime, dell’a-
pocatastasi o salvezza universale al termine di un ciclo cosmico. Tali dottrine eser-
citarono un influsso significativo sulla teologia umanistica. Agostino scrisse un li-
bro, seppure breve, sulle dottrine ereticali di Origene intitolato Contra Priscillani-
stas et Origenistas (Epist., 169, 4, 13), così come Giovanni Pico ne trattò diffusa-
mente nella sua Apologia (1487).
40
Cfr. AGOST., De Gen. ad litt., VII, 24, 35, ma sulla teoria dell’anima di Agostino, si
veda anche De civit. Dei, XII, 24.
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226 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

vescovo di Laodicea, Tertulliano, Cirillo e Luciferiano41, contra


l’eresia de i quali Girolamo gagliardamente disputa. Altri dico-
no che l’anime ogni dì son create da Dio: di questi è Tomaso,
combattendo con argomento peripatetico di questa maniera,
che sendo l’anima forma del corpo, ella non si deve creare se-
paratamente ma nel corpo, la quale opinione è già quasi ap-
provata da tutta la scuola de moderni teologi. Lascio stare i
gradi dell’anime, l’ascensioni, introdotte da gli Origenisti, ma
non corroborate dalle Divine Scritture, né conformi alle dot-
trine de Cristiani, di modo che non si ha alcuna cosa certa del-
l’anima né appresso i filosofi, né appresso i teologi, perciocché
Epicuro et Aristotele la fanno mortale42, Pitagora la mena in-
torno43. «E sono alcuni», come in un certo loco dice il Petrar-
ca, «i quali la tirano al suo corpo; sono di quegli che le spargo-
no ne i corpi de gli animali; sono altri che le rendono al cielo;
alcuni la costringono andare errando circa la terra; alcuni met-
tono lo inferno, altri lo negano; sono di quei che vogliono che
ciascuna anima sia stata creata per sé, altri ch’elle siano tutte
create insieme»44. Queste sono le parole sue. Fuvi ancora Aver-
roè, il quale avendo avuto ardimento di dire non so che più
maraviglioso, fece, come io dissi, l’unità dell’intelletto45. Gli
eretici manichei dissero che ve n’era una sola di tutti, o anima
dell’universo, partita in tutti i corpi così animati come inani-
mati, ma che meno ne partecipano quegli che a noi paiono
senza anima, e più quegli animati, ma molto più i celesti, e co-
sì finalmente concludono che l’anime singolari altro non sono
che parti dell’anima universale. Platone anch’egli vuole che vi

41
Apollinare di Laodicea (310-ca.392), diede vita a un’eresia, denominata ap-
punto apollinarismo, le cui tesi pregiudicavano l’integrità della natura di Cristo;
Cirillo d’Alessandria (m. 444), autore di opere esegetiche e di commentari al
Vecchio e Nuovo Testamento, pur distinguendosi per il suo zelo contro i novazia-
ni e i nestoriani, fu accusato di sottoscrivere all’apollinarismo per le sue dottrine
riguardanti le due nature di Cristo; Quinto Settimio Florente Tertulliano di Car-
tagine (ca.155-ca.230), studioso di diritto e di retorica, autore di numerose opere
in lingua latina, tra cui l’Apologeticus, nel 210 ca. aderì al montanismo; Lucifero di
Cagliari (m. 370/1), impegnato nella polemica antiariana, per la sua intransigen-
za causò lo scisma dei luciferiani e l’insorgere di diverse correnti erticali. Per tut-
ti questi personaggi, si veda GEROL., De vir. ill., XXVI, LIII, CXII, XCV.
42
Cfr. PETR., Contra med. quend., II, 8.
43
Ibid.
44
Ibid.
45
Ibid., ma si veda anche GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 14.
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52. DELLA ANIMA 227

sia una anima di tutto l’universo, ma altre de particolari, quasi


che separatamente l’universo sia anima sua delle anime e par-
titamente ancora i particolari46. Oltra di questo alcuni altri af-
fermano una specie d’anime; altri non una ma due, la raziona-
le e la irrazionale; alcuni molti, e quante sono le specie de gli
animali. Galeno medico dice che diverse anime sono in diversi
secondo la specie; mette anco che molte anime siano in un
medesimo corpo. Sono alcuni che fanno due anime in uno uo-
mo, una sensitiva dal generante, l’altra intellettiva dal creante,
fra i quali è Occam teologo47. Plotino dice che l’una è l’anima,
l’altro lo intelletto, et Apollinare è della medesima opinione.
Alcuni non distinguono l’anima dall’intelletto, ma dicono che
egli è parte principale della sostanza dell’anima; Aristotele af-
ferma che questo vi è in potenza e che in atto vi sopraviene di
fuori, e ch’egli non giova alla natura et essenza dell’uomo, ma
alla perfezzione della cognizione e della contemplazione; e
però dice che pochi uomini, e soli i filosofi, hanno quello che
si chiama intelletto in atto48. E veramente è ancora gran dispu-
ta fra teologi se ne gli animali morti, la quale fu opinione di
Platonici, vi rimanga memoria e senso delle cose c’hanno fatto
e lasciato in vita, o che ne perdano ogni cognizione, la qual co-
sa fermamente tengono i Tomisti co’l suo Aristotele, et i Certo-
sini lo confermano con essempio di quel teologo parigino ri-
tornato dall’inferno, il quale essendo domandato ciò che gli
era rimaso della scienza sua, rispose che non sapeva altro se
non la pena, et allegando il detto di Salomone: «Non è ragio-
ne, non scienza, non ricchezza nell’inferno», pareva a loro
ch’egli avesse concluso ch’a i morti non rimaneva cognizione
alcuna49, la qual cosa è però manifestamente contra non tanto
all’opinione de Platonici, quanto contra l’auttorità e la verità
della Scrittura, dicendo la Scrittura che i ribaldi vedranno e sa-
pranno ch’egli è Iddio, ma che più renderanno conto ancora

46
Cfr., per es., PLAT., Tim., 30b.
47
Guglielmo di Occam (1280-1349) sostiene che la conoscenza astratta è indi-
pendente dalle sensazioni, così rallentando i vincoli del corpo con l’anima. Pone
perciò tre forme sostanziali: una forma di corporeità, un’anima sensitiva, un’ani-
ma intellettiva; quindi «hominis est unum tantum esse totale», che comprende
«plura esse partialia» (Quodl., II, 10).
48
Cfr., per es., ARIST., De anima, 429b.
49
Cfr. ECCLE 9:5 e 10. Il libro giunto a noi con il titolo di Ecclesiaste, o Qohèlet, veni-
va attribuito a Salomone, figlio di Davide.
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228 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

non pure di tutti i fatti, ma delle parole e de pensieri oziosi50.


Vi sono anco di quegli i quali ardiscono scrivere e contare mol-
te cose delle apparizioni delle anime, e cose bene spesso lonta-
ne dalla dottrina evangelica e da i sacri canoni; e benché l’A-
postolo comandi che non si debba credere a gli angeli del cie-
lo, s’alcuna non nunciassero contraria da quel ch’è scritto51, in
tal modo è fatto antico questo Evangelio appresso di loro, che
più tosto e maggiormente credono a un morto che ritorni in
vita ch’ai profeti, a Mosè, a gli apostoli et a gli evangelisti. Tale
fu veramente la dottrina e l’opinione del ricco sepolto nell’in-
ferno, il quale credeva che i suoi fratelli rimasi vivi allora de-
vessero credere s’alcun morto andasse a loro e glie ne facesse
testimonio. Al quale credendo egli in questo modo Abraham
contradice nell’Evangelio, dicendo: «Se non credono a Mosè
et ai profeti, manco sono per credere se vi si manda uno de
morti»52. Io non nego però in tutto le sante apparizioni de
morti, le ammonizioni e le revelazioni, ma io aviso ch’elle sono
molto sospette, trasformandosi spessissime volte Satanasso nel-
lo angelo della luce e contrafacendo l’effigie delle anime, on-
de non si dee fermare in quelle l’ancora del credere, ma ben si
debbono pietosamente accettare a edificare, come anco delle
altre cose che sono fuora de i sacri canoni o numerate fra le
apocrife. Vanno attorno di queste ciancie molti libri favolosi di
Tundalo53, e quello ch’è intitolato Consolazione delle anime54, et
alcuni altri, e con gli essempi de i quali alcuni predicatori spa-
ventano la plebe ignorante e ne cavano de doni. Scrisse anco
un certo protonotario francese, uomo ribaldo e truffatore, po-
chi dì sono, certa favola d’uno spirito di Lione. Ma fra gli scrit-
tori lodati tratta di queste cose Cassiano et Iacopo da Paradiso

50
Cfr. MT 12:36-37.
51
Cfr. GA 1:8-9.
52
LC 16:31.
53
Possibile allusione al romanzo anonimo intitolato Tondali Ritters aus Hiberneien
Entzückungen, un’opera molto diffusa in Germania e in Europa alla fine del XV
sec. e all’inizio del XVI, il cui testo è tratto da una versione anonima del XII sec.
in cui si narra il viaggio attraverso l’Inferno e il Paradiso di Tundalo, leggendario
cavaliere irlandese.
54
Il libro intitolato Consolatio animorum rappresenta un genere letterario che si
diffonde in Europa a partire dal 1350 come guida filosofica e spirituale in con-
trapposizione al genere letterario dei romanzi cavallereschi.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 229

52. DELLA ANIMA 229

certosino55; nondimeno non è anco stato rivelato da queste ri-


velazioni dell’anime punto di verità sincera o di secreta sapien-
za per edificare la salute delle anime nostre56, ma solo ci sono
state persuase elemosine, peregrinaggi, orazioni, digiuni et al-
tre opere di pietà popolare, le quali però, e meglio e più salu-
tiferamente ci sono insegnate dalle Sacre Lettere e comandate
dalla Chiesa. Di queste apparizioni largamente ho scritto io nel
dialogo nostro dell’uomo e ne i libri Dell’occulta filosofia57. Ma
ritorniamo oggimai a i filosofi. Tutti i pagani c’hanno tenuto
l’anima essere immortale, di comune consentimento afferma-
no il passaggio dell’anime e che le anime razionali vanno ne i
corpi irrazionali, et infino nelle piante, per alcuno spazio di
tempo, o come altramente suole accadere. Dicesi che Pitagora
fu auttore di questi passaggi58, del quale Ovidio nelle Trasfigu-
razioni cantò in questo modo:

L’alme sono immortai, ma abbandonata


la prima stanza, a nuove case vanno,
e qui raccolte stansi, et hanno vita.
Ch’io mi ricordo alla Troiana guerra,
ch’Euforbo er’io di Panto figliuolo,
e Menelao con l’asta sua m’uccise.
Conobbi io dianzi di mia man lo scudo
in Argo là nel tempio di Giunone59.

Molte più cose di questo pitagorico passaggio hanno scritto


Timone, Xenofane, Cratino, Aristofone, Ermippo, Luciano,
Diogene Laerzio60; ma Iamblico, e molti altri insieme con Tri-
megisto, consentono che i passaggi si facciano non da gli uo-
mini a gli animali irrazionali, né da questi a gli uomini, ma da
gli animali a gli animali e da gli uomini a gli uomini. Ma vi so-
no anco filosofi nel numero de i quali si ritrovano Euripede se-

55
Probabile allusione a Giovanni Cassiano, monaco ed eremita del IV sec., autore
delle Institutiones, un’opera che tratta della vita monastica e dei vizi capitali, e a Ja-
copo di Varsavia (1381-1465), autore teologico.
56
Il testo latino reca: «quae veram charitatem et animarum nostrarum salutem ae-
dificarent».
57
Cfr. AGRIP., Dialogus de homine (1515-1516) e De occ. phil., III, 16-18, pp. 445-457.
58
Cfr. REUCHL., De arte cabal., II, G3r; DIOG. LAERZ., Vitae philos., VIII, 1, 4-5.
59
OVID., Metam., XV, 158-164.
60
Cfr. REUCHL., De arte cabal., II, G3r; H1r; DIOG. LAERZ., Vitae phil., VIII, 1, 4-5.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 230

230 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

guace d’Anasagora, Archelao fisico61, e dopo loro Avicenna, i


quali dicono che i primi uomini a uso d’erbe nacquero della
terra62, in questo non meno ridicoli de poeti, i quali favoleg-
giano ch’alcuni uomini nacquero di denti di serpente semina-
ti63. Sono di quegli che negano in tutto la generazione, come
Pirrone Eliese e di quegli che negano il moto, come Zenone64.

61
Cfr. DIOG. LAERZ., Vitae phil., II, 4, 17.
62
Cfr. AVIC., De diluv. (ed. Alonso), p. 305.
63
Cfr., per es., APOLL. RODIO, Argon., III, 1333-1407.
64
Cfr. DIOG. LAERZ., Vitae phil., IX, 11, 72.
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53.
DELLA METAFISICA

Ma passiamo oggimai più inanzi e mostriamo che questi fi-


losofi non solo contendono delle cose che sono, ma delle fin-
zioni de suoi pensieri ancora, e di quelle che non fermate in
principio alcuno, né si sa certo se siano o non siano, come di
quelle che credono che possano stare senza corpo e materia e
da loro chiamate forme separate, le quali perché non sono in
essere, ma credesi che siano sopra natura, perciò le domanda-
no trasnaturali, ovvero metafisiche1. Di qui nacquero quelle in-
finite, et in ogni parte a se medesime contrarie, opinioni de gli
dèi, non meno impie che ignoranti, perciocché Diagora Mile-
sio e Teodoro Cirenaico dissero che non v’era alcun Dio2. Ma
Epicuro disse ben che v’era Dio, ma che però non prendeva
cura alcuna delle cose inferiori; Protagora disse che non si po-
teva sapere se vi fosse o no; Anasimandro pensava che gli dèi
nascessero e che per lunghi spazii nascessero e morissero; Xe-
nocrate disse che v’erano otto dèi3; Antistene era d’opinione
che vi fossero ben di molti dèi popolari, ma un naturale gran-
de artefice del tutto4. Ma molti di loro caderono in tanta pazzia

1
Cfr. REUCHL., De verbo mirif., I, A4v.
2
Cfr. SEST. EMP., Adv. math., IX, 55-56 e IX, 51; DIOG. LAERZ., Vitae philos., II, 8, 86,
97, 100; CIC., De nat. deor., I, 23, 63. I nomi di Diagora di Melo (V sec. a.C.) e di
Teodoro di Cirene (IV/III sec. a.C.) si trovano costantemente uniti insieme a
quello di Evemero di Messene (IV sec. a.C.) come i tre tipici rappresentanti del-
l’ateismo.
3
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 2.
4
Ibid.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 232

232 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

ch’essi con le proprie mani si fabricavano gli dèi, i quali adora-


vano, come era la statua di Belo appresso gli Assirii5. Nondime-
no cosa maravigliosa è quanto Ermete Trimegisto nel suo Escu-
lapio innalzi questi dèi fatti a mano6. Ma ragionando della divi-
na essenza, Talete Milesio disse che Dio era mente, il quale fe-
ce ogni cosa d’acqua7; Cleante et Anassimene dissero che Dio
era aere8; Crisippo una forza naturale ripiena di ragione, ovve-
ro necessità divina; Zenone una legge divina e naturale9; Ana-
sagora una mente infinita mobile per se stessa10; Pitagora uno
animo ch’è intento e passa per la natura di tutte le cose, dal
quale ogni cosa prende vita11. Alcmeone Crotoniate disse che il
Sole, la Luna, e l’altre stelle erano dèi12; Xenofane volse che
tutto quel ch’è fosse Dio13; Parmenide fece Dio un certo cer-
chio de continenti della luce, il quale chiamò stephane, cioè co-
rona14; Aristotele, quasi che si potesse avere assai manifesta co-
gnizione de gli dèi per lo moto de cieli, s’imaginò gli dèi se-
condo la natura di quegli, et ora attribuisce la divinità alla
mente, ora chiama Dio ardor del Cielo quando vuole che’l
mondo istesso sia Dio, e talora gli fa presidente uno altro Dio15.
Teofrasto lo segue con la medesima inconstanza16. Lascio di di-
re quel c’hanno di ciò creduto Stratone, Perseo, Aristone di-
scepolo di Zenone, Platone, Xenofonte, Speusippo, Democri-
to, Eraclide, Diogene Babilonio, Ermete Trimegisto, Cicerone,
Seneca, Plinio e gli altri, l’opinioni de i quali non vanno molto
lontane da quelle prime e già recitate17. Potrei ancora trascor-
rere l’altre liti loro e mostri di parole dell’idee, de gli incorpo-
rei, de gli atomi, de hile18, della materia, della forma, del vacuo,

5
Ibid.
6
Ibid.
7
Ibid.; CIC., De nat. deor., I, 10, 25.
8
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 2; CIC., De nat. deor., I, 10, 26.
9
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 2.
10
Ibid.; CIC., De nat. deor., I, 11, 26.
11
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 2.
12
Ibid.; CIC., De nat. deor., I, 11, 27.
13
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 2; CIC., De nat. deor., I, 11, 28.
14
Ibid.
15
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 2.
16
Ibid.
17
Le opinioni di tutti questi filosofi si trovano in GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 2.
18
Il testo latino reca: «hyle», dal greco u{lh, ossia «materia».
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 233

53. DELLA METAFISICA 233

dell’infinito, della eternità, del fato, de i transcendenti, della


introduzzion delle forme, della materia del cielo, se le stelle so-
no fatte d’elementi o di quinta essenza, che mette Aristotele19,
e d’altre cose simili, le quali danno materia a gli uomini pazzi
di credere, di dubitare e di contendere. Ma parmi d’aver di-
mostrato abbastanza quanto siano differenti i filosofi tra loro
della verità, a i quali quanto più alcuno s’appressa, tanto più va
lungi dal vero e s’allontana dalla religione catolica. Per questo
sappiamo che fu in errore Giovanni XXII, pontefice romano,
il quale voleva che l’anime beate non fossero per vedere la fac-
cia di Dio inanzi al giorno del giudicio. Sappiamo che per altra
cagione Giuliano apostata non rinnegò Cristo se non perché
sendo troppo studioso della filosofia, incominciò a schernire e
farsi beffe della umiltà della fede cristiana. Per la medesima ca-
gione Celso, Porfirio, Luciano, Pelagio, Arrio, Manicheo, Aver-
roè e molti altri con tanta rabbia abbaiarono contra Cristo e la
Chiesa sua. Di qui n’è nato quel proverbio del vulgo che tutti i
grandissimi filosofi sogliono essere grandissimi eretici. Ma Gi-
rolamo ancora gli chiama patriarchi de gli eretici, primogeniti
d’Egitto e catenacci di Damasco20, e troppo col vero, percioc-
ché quante eresie furono giamai, tutte son derivate da i fonti
della filosofia come da prima origine loro. Da questa quasi tut-
ta la teologia è stata adulterata, et in cambio de i dottori evan-
gelici sono nati falsi profeti, eretici e filosofi, i quali hanno pa-
reggiato gli oracoli di Dio alle invenzioni umane e con mutabi-
li dottrine de gli uomini macchiati gli hanno, e ridotto hanno
la semplice teologia, come dice Gerson, a loquacità sofistica e
piena di favole et a matematica colma di chimere21. Il che pre-
vedendo Paolo apostolo tante volte ne conforta, e comanda
che debbiamo guardarci non talora alcuno ci assassini e subor-

19
Cfr. per es., ARIST., De coelo, 269a-b.
20
Cfr. GEROL., Epist. CXXXII, 2; Dial. adv. Pelag., III, 8; Psal., CXXXIV; Comm. in
Amos proph., I, 4 e 5.
21
Jean Le Charlier (1364-1429), teologo francese, detto Gerson dal villaggio
presso cui nacque. La sua teologia morale e mistica, influenzata dall’occamismo,
è contenuta nel De consolatione theologiae (a imitazione del De consolatione philo-
sophiae di Boezio) in cui si afferma che la vera conoscenza di Dio non è quella
concettuale e astratta fornita dalla teologia scientifica, ma quella che l’anima
percepisce nel suo intimo attraverso l’amore e l’abbandono di ogni determina-
zione razionale.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 234

234 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

ne con filosofia22. Agostino contra di quella combatte e difen-


de la città di Dio23. E quasi tutti gli altri teologi e santi padri
hanno voluto ch’ella si cacci e diradichi affatto dalle cristiane
scuole. Né ci mancano ancora essempi di pagani, i quali leg-
giamo che alcuna volta il medesimo hanno fatto, perciocché
gli Ateniesi fecero morire Socrate padre della filosofia, i Ro-
mani cacciarono i filosofi della città, i Messani et i Lacedemoni
non gli admessero giamai, e che più al tempo di Domiziano fu-
rono cacciati di Roma e dato lor bando di tutta Italia24. Ecci an-
cora una ordinazione del re Antioco contra i giovani, i quali
avevano ardire di imparare filosofia, e contra i padri ancora, i
quali concedevano questo a figliuoli; né solamente furono e
dannati e cacciati da gli imperatori e da i re, ma con libri com-
posti reprovati da uomini dottissimi, nel numero de quali sono
Fliasio e Timone, il quale scrisse una opera intitolata Sillos in vi-
tuperio de filosofi; et Aristofane, il quale scrisse una commedia
contra di loro, il titolo della quale è le Nebbie; e Dione Pruseo
scrisse una orazione eloquentissima contra i filosofi25. Aristide
anch’egli scrisse una orazione contra Platone molto elegante
per quattro nobili ateniesi26; Ortensio Romano, anch’egli uo-
mo eloquentissimo e di nobilissima famiglia, con fortissime ra-
gioni perseguitò la filosofia27. Ma basti questo che s’è detto.

22
Cfr. COL 2:8.
23
Cfr. AGOST., De civit. Dei, VIII.
24
Cfr. SVET., De vita Caes., VIII, 10.
25
Timone di Fliunte (ca.325-ca.235 a.C.), poeta e filosofo, è autore di un’opera in
tre libri intitolata Sivlloi in esametri nella quale attaccava i filosofi dogmatici; Dio-
ne Crisostomo di Prusa (ca.40–ca.120), fra le numerose opere, è autore degli
scritti polemici dal titolo Contro i filosofi.
26
Publio Elio Aristide (ca.117-ca.185), autore di numerose orazioni, tra le quali
l’ ‘Uper tw'n tettavrwn, dal carattere fortemente polemico, in risposta ad alcuni pas-
si contenuti nel Gorgia platonico, in cui egli prende le difese di Milziade, Temi-
stocle, Cimone e Pericle.
27
L’allusione è all’oratore Quinto Ortensio Ortalo al quale Cicerone, nel dialogo
protrettico che da quello prende nome, l’Hortensius seu de philosophia liber, mette
in bocca la tesi contraria alla filosofia, mentre Cicerone ne sosteneva la difesa.
L’Hortensius, opera per noi perduta, fu composto probabilmente dopo il 45 e si
ispirava a uno scritto giovanile di Aristotele, il Protrettico; ebbe grande fortuna nei
secoli successivi e soprattutto lo amò Agostino che, per sua ammissione (Conf.,
III, 4), fu proprio da questo dialogo spinto alla vita speculativa.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 235

54.
DELLA FILOSOFIA MORALE

Ora al rimanente, se vi è pure, come vogliono alcuni, filoso-


fia o dottrina alcuna de costumi, credo io ch’ella sia fatta non
tanto di ragioni debili di filosofi, quanto di diverso uso, con-
suetudine, osservazione e prattica di viver comune, e ch’ella sia
mutabile secondo l’opinione di tempi, de luoghi e de gli uo-
mini, la quale con minaccie e con lusinghe s’insegna a fanciul-
li et a gli attempati con leggi e con vendetta. E la industria ha
dato alcune cose naturali a gli uomini che non si possono inse-
gnare, ma se ne vengono via pigliando auttorità lecitamente e
contra dovere, secondo l’uso del tempo e la conspirazione de
gli uomini, la onde avviene che quello che una volta fu vizio,
ora è tenuto virtù, e quello che qui è virtù, altrove è vizio1;
quello che a uno è onesto, a uno altro è vizioso; ciò che a noi è
giusto, a gli altri sia ingiusto, secondo l’opinioni o le leggi del
tempo, del loco, dello stato e de gli uomini2. Appresso gli Ate-
niesi era lecito che l’uomo togliesse per moglie la cognata, e
questo appresso Romani era tenuto ribalderia. Altra volta i
Giudei, et oggidì Turchi, possono pigliare molte mogli et anco
tenere delle concubine: questo appresso di noi cristiani non
tanto è malfatto, quanto infamia e disonestà. In Grecia è tenu-
to per onore a un garzone ch’egli abbia di molti amatori, e fi-
nalmente fra quelle nazioni non è vergogna alcuna né a femi-

1
Cfr. REUCHL., De verbo mirif., A3v.
2
Cfr. GIANFRANC. PICO, Exam. vanit., III, 13.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 236

236 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

ne, né a maschi, il comparire in scena et essere spettacolo del


popolo, le quali cose però appresso Latini e Romani erano sti-
mate abiette, infami e lontane dall’onestà. Non si vergognava-
no i Romani di menare le mogli a i conviti e farle conversare in
publico, et abitare nella parte dinanzi delle case, ma in Grecia
né la moglie viene a convivio, se non di parenti, né usa se non
nella più secreta parte della casa, dove non va alcuno che non
sia parente prossimo. Gli Egizzii et i Lacedemoni avevano per
cosa onorevole il rubare; appresso di noi i ladri s’impiccano su
le forche. Giulio Firmico ne suoi Astrologici scrivendo a Lollia-
no dice: «Alcune nazioni sono talmente formate dal cielo che
elle sono notabili per la singolarità de costumi loro proprii»3.
Gli Sciti assassinano con orribile crudeltà de ladronecci, gli Ita-
liani furono sempre splendidi di nobiltà reale, i Francesi pazzi,
i Siciliani acuti, gli Asiatici sempre lussuriosi et occupati ne pia-
ceri, gli Spagnuoli furono d’ognora boriosi e gagliardi vantato-
ri. Ciascuna nazione ha le differenze particolari de suoi costu-
mi donategli da i cieli, per le quali facilmente si conoscono l’u-
na dall’altra, acciocché agevolmente si conosca di quale nazio-
ne uno è nato dalla voce, dal parlare, dalla orazione, dal consi-
glio, dalla conversazione, dal vivere, dal negocio, dall’amore e
dall’odio, dall’ira, dalla milizia e da altri simili essercizii. Per-
ciocché qual è colui che vegga un uom andare con passo di
gallo, con gesto bravo, con volto sfrenato, con voce buina, con
parlare austero, di costumi feroci, d’abito dissoluto, ovvero di-
visato, e subito non lo giudichi tedesco? Non conosciamo noi i
Francesi dall’andar moderato, dal gesto lascivo, dal volto pia-
cevole, dalla voce soave, dal parlare facile, da i costumi mode-
sti e dall’abito pomposo? E gli Spagnuoli dallo andare, da i co-
stumi e da i gesti festeggievoli, dal volto alzato, dalla voce la-
mentevole, dal parlare elegante e dall’abito delicato? Gli Italia-
ni veggiamo andare con passo un poco più tardo, gravi nel ge-
sto, inconstanti nel volto, rimessi nella voce, astuti nel parlare,
magnifici ne costumi e riposati nell’abito. Sappiamo ancora
che gli Italiani nel canto belano, gli Spagnuoli piangono, i Te-
deschi urlano et i Francesi fanno musica. Gli Italiani nella ora-
zione son gravi, ma astuti; gli Spagnuoli ornati, ma gloriosi; i
Francesi pronti, ma superbi; i Tedeschi duri, ma semplici. Lo

3
FIRM. MAT., Math., I, 10, 12.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 237

54. DELLA FILOSOFIA MORALE 237

Italiano è provido ne i consigli; lo Spagnuolo astuto; il France-


se inconsiderato; il Tedesco utile. Lo Italiano nel vivere è net-
to, lo Spagnuolo delicato, il Francese abondante, il Tedesco
sporco. Gli Italiani sono amorevoli verso forestieri, gli Spa-
gnuoli piacevoli, i Francesi umani, i Tedeschi salvatichi et ino-
spitali, gli Italiani sono savi nelle conversazioni, gli Spagnuoli
accorti, i Francesi mansueti, i Tedeschi imperiosi et intollerabi-
li. Gli Italiani sono gelosi ne gli amori, gli Spagnuoli impazien-
ti, i Francesi leggieri, i Tedeschi ambiziosi. Gli Italiani ne gli
odii sono secreti, gli Spagnuoli ostinati, i Francesi minacciosi, i
Tedeschi vendicativi. Gli Italiani nel fare delle faccende sono
circospetti, i Tedeschi laboriosi, gli Spagnuoli vigilanti, i Fran-
cesi solliciti. Gli Italiani sono valorosi ma crudeli nella guerra,
gli Spagnuoli astuti e rapaci, i Tedeschi crudeli e vendibili, i
Francesi magnanimi ma inconsiderati. Gli Italiani sono famosi
nelle lettere, gli Spagnuoli nella navigazione, i Francesi nella
civiltà, i Tedeschi nella religione e ne gli artificii meccanici. E
ciascuna nazione, quale ella si sia, o civile o barbara, ha i suoi
peculiari costumi et usanze dategli dell’influsso del cielo diver-
si da gli altri, i quali cader non possono sotto alcuna arte o fi-
losofia, ma nascono ne gli uomini con la sola virtù naturale,
senza disciplina veruna. Ma rivoltiamo il nostro ragionamento
a coloro che n’hanno dato in scritto la disciplina di queste co-
se. Questi veramente, avendo fatto l’ufficio del serpente,
n’hanno dato quel frutto co’l cibo del quale possiamo impara-
re il bene e’l male: questa è la prima pestilente opinione di lo-
ro, che’l bene e’l male si debbano sapere, et in questo modo
dicono che gli uomini meglio seguiranno la virtù e fuggiranno
i vizii. Ma quanto più securo e più utile sarebbe, quanto anco
più felice, che non solo i mali non si facessero, ma non si sa-
pessero ancora? Chi è colui che non sappia che con questo so-
lo noi tutti siamo fatti miseri, allora quando i primi parenti del
genere umano impararono quel ch’era bene e male4, ma per
aventura questo errore si potrebbe perdonare a i filosofi se
non ci insegnassero ancora, sotto nome delle virtù e de i beni,
i pessimi mali e gli sporchissimi vizii. Molte sono le sette di
quegli che trattarono de costumi, come l’Academica, la Cire-
naica, l’Eliaca, la Megarica, la Cinica, la Eroitica, la Stoica, la

4
Cfr. GEN 1.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 238

238 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Peripatetica, e molte altre. Di questi fra gli altri in tal modo fi-
losofò quel Teodoro, il quale dicono gli scrittori che fu chia-
mato Dio, cioè il savio darà opera al furto, all’adulterio et al sa-
crilegio quando ne sarà tempo, perché nessuno di questi vizii
naturalmente è vergognoso5. Ma se si torrà via da loro la opi-
nion volgare, la quale è stata fatta dalla plebe vile de i pazzi e
de gli ignoranti, l’uomo savio potrà publicamente usar con
puttane, senza rossore alcuno d’esservi colto. Vi sono delle al-
tre opinioni di questo filosofo divino, delle quali non so se co-
sa si potesse dire più disonesta se non quella che leggiamo es-
sere stata approvata da Aristotele, e concessa in Candia con
una legge fatta sopra ciò, la lussuria co i maschi, la quale è ce-
lebrata ancora con questa ragione da Girolamo peripatetico, il
quale dice che per cagioni di essa si sono già tolte via di molte
tirannidi6. Ma le parole d’Aristotele nella Politica, dove giudica
ch’ella sia utile alla Republica acciocché gli uomini plebei non
crescano troppo in figliuoli, sono queste: «Molte cose ha savia-
mente e con studio ordinato il fattor delle leggi per la tempe-
ranza del cibo, come cosa molto utile, e de i divorzii delle don-
ne, acciocché elle non partorissero soverchia moltitudine, co-
mandò che si dovesse usare co maschi»7. Questo è quello Ari-
stotele, i costumi del quale furono riprovati da Platone, onde
ne nacque l’odio e l’ingratitudine di lui verso il maestro, il qua-
le temendo il giudizio della sua scelerata vita, nascosamente et
in fretta si fuggì d’Atene, il quale ingratissimo verso i suoi be-
nefattori, col veleno dell’acqua di Stige uccise quello Alessan-
dro Magno dal quale così manifestamente e liberamente era
stato onorato, quello che gli aveva fidato nelle mani la vita, il
corpo e l’anima, e di più gli aveva rifatto la sua patria. Il quale
Aristotile, avendo ancora falsa opinione dell’anima, disse che
dopo la morte non v’era loco d’allegrezza, il quale avendo rub-
bato e malignamente interpretato i detti de gli antichi, con fur-
to e con calonnia s’acquistò laude d’ingegno. Il quale essendo
già invecchiato ne cattivi giorni, venuto in rabbia per lo immo-

5
Cfr. DIOG. LAERZ., Vitae philos., II, 8, 99-100. Per Teodoro di Cirene, si veda anche
supra, p. 231, nota 2.
6
Cfr. ATEN., Deipn., XIII, 602a (si veda IERONIMO DI RODI, fr. 34, ed. Wehrli).
7
Cfr. ARIST., Polit., 1772a. Il testo latino reca l’annotazione a margine: «Aristotelis
sceleratum documentum».
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54. DELLA FILOSOFIA MORALE 239

derato desiderio di sapere, s’ammazzò da se stesso8, fatto de-


gno sacrificio a quei demonii che gli avevano insegnato a sape-
re, veramente oggidì dignissimo dottore delle latine scuole e
d’essere numerato ancora fra i santi da i miei teologi di Colo-
nia, i quali hanno composto un libro e dato alle stampe col ti-
tolo Della salute d’Aristotele, et un altro ancora in verso della vita
e della morte di Aristotele illustrato da loro con chiosa di teo-
logia, nella fine del qual libro conchiudono ch’Aristotele è sta-
to così precursore di Cristo nelle cose naturali come Giovanni
Battista nelle gratuite9. Ma per non andare più longi dal pro-
posito udiamo, vi prego, quel che i filosofi tengono della feli-
cità e del summo bene, perciocché alcuni l’hanno posto nel
piacere, come Epicuro, Aristippo, Gnido Eudosso, Filoseno o i
Cirenaici10; altri hanno congiunto l’onestà col piacere, come
Dinomaco e Califone11; altri nelle cose primogenite della natu-
ra, come Carneade e Girolamo Rodiano12; altri nello augmen-
to13, come Diodoro; altri nelle virtù, come Pitagora, Socrate,
Aristone, Empedocle, Democrito, Zenone Citico, Cleante, Eca-
tone, Possidonio, Dionisio Babilonico, Antistene e tutti gli Stoi-
ci14. E molti ancora de nostri teologi, accostandosi in un certo
modo a quegli, disputano tuttavia della connessione delle
virtù, e che ciò sia il fondamento comune della felicità nel qua-
le tutte le virtù s’hanno da cumulare. Perciocché se tutte le
virtù non si ragunano insieme, elle non faranno giamai l’uomo

8
Per l’accusa di empietà e il conseguente esilio di Aristotele da Atene nel 323
a.C., si veda infra, nota 5, p. 288. L’assassinio di Alessandro Magno da parte di Ari-
stotele, la pazzia e il suicidio del filosofo appartengono alla leggenda.
9
Possibile allusione al Carmen de vita et mortis Aristotelis, un testo pubblicato ano-
nimo nel 1490 presso l’editore Henricus Quentell che si rifaceva ai Problemata di
Aristotele. L’opera si ricollega a una corrente filosofica della scolastica che pro-
pone la redenzione dei protocristiani attraverso un comportamento individuale e
una condizione dell’anima e non attraverso il sacrificio di Cristo.
10
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 5; LATT., Divin. instit., III, 7.
11
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 17; CIC., Tusc. disp., V, 30, 84-85; LATT., Di-
vin. instit., III, 7.
12
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 17.
13
Il testo latino reca: «in indolentia», con riferimento all’assenza di dolore sog-
gettivamente prodotta, che corrisponderebbe all’aumento, al potenziamento,
del dominio di sé. Si veda, a proposito, GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 17: «pe-
ripateticus Diodorus indolentia et honestate iunctas [bonum] pertulerit»; LATT.,
Divin. instit., III, 7: «Summum bonum posuit Hieronymus in non dolendo».
14
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 5; GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 17.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 240

240 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

felice purché ve ne manchi una sola. Essendo dunque disegua-


li et in un certo modo contrarie le virtù fra loro, la liberalità e
la parsimonia, la magnanimità e l’umiltà, la misericordia, e la
giustizia, e la contemplazione, e la opera solicita nel continuo
ministerio, e molte altre simili, s’elle non si accordano tutte in
uno, non più virtù ma chiamar si possono vizii. Ora quello in
che elle si debbono concordare tutte Ambrogio, Lattanzio e
Macrobio, seguendo Platone nella sua Republica, vogliono che
sia la giustizia15; altri la temperanza che mette modo a tutte le
cose; altri la pietà, come vuole Platone nell’Epinomide16; altri la
carità, senza la quale non si fa frutto alcuno nelle virtù, come
tiene Paolo17; e tuttavia sopra queste cose disputano Tomaso,
Arrigo18, Scoto, e gli altri19. Ma ritorniamo di nuovo: alcuni
hanno posto la felicità nella fortuna, come Teofrasto, ma Ari-
stotele nella fortuna congiunta co i primi genii e con le virtù,
anzi nel piacere, ma dipinto co i beni delle virtù, quasi che l’E-
picuro non difenda anch’egli il suo piacere con questi beni; e
finalmente gli altri Peripatetici ne la speculazione. Erillo filo-
sofo, Alcidamo e molti socratici credevano che la scienza fosse
il sommo bene20, ma i popoli Tiberini vicini a i Calibi, de i qua-
li Apollonio e Pomponio hanno fatto menzione21, dissero che
la lascivia e’l riso è la somma felicità. Vi sono anco di quegli
c’hanno posto il sommo bene nel silenzio, ma i Platonici, i
quali col loro Platone e Plotino toccano sempre delle cose del

15
Cfr. PLAT., Rep., 433a-b.
16
Cfr. PLAT., Epinom., 989b sgg. È interessante notare che l’argomento del dialogo
Epinomide riguarda appunto quale scienza permetta all’uomo di acquisire la vera
sapienza. Il metodo seguito da Platone è quello di passare in rassegna le specifi-
che scienze, o arti, rendendosi conto del perché non costituiscano sapienza e del
quale sia la vera sapienza attraverso la quale le singole scienze possano assumere
valore allorché si fondino su di essa.
17
Cfr. 1 COR 13:4-13.
18
Enrico di Gand (XIII sec.), filosofo e teologo autore dei Quodlibeta (1518) che
testimoniano le polemiche parigine degli anni 1276-1292 attorno all’aristoteli-
smo e della Summa theologica (1520), pubblicata incompleta con il titolo di Summa
quaestionum ordinariarum; sono inotre a lui attribuiti alcuni commenti a testi ari-
stotelici.
19
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 1, 12.
20
Ivi, I, 2, 5, ma si veda anche DIOG. LAERZ., Vitae philos., VII, 3, 165; CIC., De fin., V,
24, 73; LATT., Divin. instit., III, 7.
21
Cfr. APOLL. RODIO, Argon., II, 377; POMP. MELA, Chor., I, 19, 106, ma si veda anche
EROD., Hist., I, 28 e III, 94.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 241

54. DELLA FILOSOFIA MORALE 241

cielo, posero la felicità col sommo bene nell’unione22. Biante


Prieneo nella sapienza23, Bione e Boristene nella prudenza24,
Talete Milesio nella cumulazione di queste25, Pittaco Mitileneo
nel far bene26, Cicerone nello essere libero da tutte le cose; ma
questo non si può ritrovare se non in Dio. Lascio stare gli altri
filosofi plebei i quali tolsero via ogni felicità, come Eliese27, Eu-
riloco e Xenofane28, e quei che posero la somma felicità nella
gloria, nell’onore, nella potenza, nell’ozio, ne la ricchezza et
in cose simili, come Periandro Corinzio, Licofrone,29 e quegli
di cui disse il Salmista: «La bocca de i quali ha parlato la vanità
e la lor destra è destra d’iniquità. I figliuoli de i quali sono co-
me piante novelle nella giovanezza loro. Le loro figliuole ad-
dobate et ornate a similitudine del tempio. Le loro dispense
piene che votano dell’una nell’altra. Le loro pecore gravide
abandonati ne parti suoi, e le loro vacche grasse. Non è ruina
alla siepe, né al transito, né al clamo nelle piazze loro. Hanno
chiamato beato il popolo che ha queste cose»30. Sono anco
contrarie opinioni del piacere il quale, come già avete udito,
Epicuro vuole che sia il sommo bene; per contrario Archita Ta-
rentino, Antistene e Socrate dicono ch’egli è il sommo male;
Speusippo et alcuni antichi academici dissero che’l piacere e’l
dolore sono due mali posti l’un contra l’altro, e che il bene è
ciò che sta in mezzo di loro. Zenone disse che’l piacere non è
ben né male, ma indifferente; Critolao peripatetico e Platone
dicono che’l piacere è male, et esca e padre de tutti i mali.
Troppo lungo sarebbe il raccontare le opinioni di tutti della fe-
licità e fare una ragunanza di quelle cose delle quali altri
n’hanno scritto infiniti libri, perciocché Agostino dice che
Marco Varrone raccolse di queste dugento ottantaotto opinio-

22
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 5.
23
Ibid.
24
Ibid. Si tratta in realtà di un unico personaggio, Bione di Boristene (ca. 325 - ca.
265 a.C.), filosofo greco che subì l’influsso del cinico Cratete.
25
Ibid.
26
Ibid.
27
Il testo latino reca: «Pyrrho Heliensis», con riferimento al filosofo greco Pirro-
ne di Elide, su cui si veda supra, nota 3, p. 10.
28
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 5.
29
Ibid.
30
SAL 144:8; 11-15.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 242

242 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

ni31, e noi crediamo d’aver fatto abbastanza avendo recitate qui


le più famose. Ma veggiamo ora in che modo queste cose s’ac-
cordino con Cristo, e così si vedrà che noi non acquistiamo la
felicità e la beatitudine per virtù stoica, né per purgazione aca-
demica, né per speculazione peripatetica, ma per fede e grazia
nella parola di Dio. Avete inteso come alcuni filosofi hanno
posto la felicità, o beatitudine, nel piacere, ma Cristo in fame e
sete; alcuni in onore, fama e grandezza di nome, ma Cristo nel-
la maledizzione e nell’odio de gli uomini; alcuni ne primige-
nii, nella sanità, nell’allegrezza e nell’augmento, ma Cristo nel
pianto e ne i sospiri; alcuni nella prudenza, nella scienza e nel-
le virtù morali, ma Cristo nella innocenza, simplicità e mon-
dità di core; alcuni nella fortuna, ma Cristo nella misericordia;
alcuni nella gloria della guerra e vittoria delle terre, ma Cristo
nella pace; alcuni nell’onore e nella pompa, ma Cristo nella
umiltà, chiamando beati i mansueti; alcuni nella potenza e nel-
la vittoria, ma Cristo nello essere perseguitato; alcuni nelle ric-
chezze, ma Cristo nella povertà. Cristo ne insegna che la virtù
perfetta non s’acquista se non con la grazia data di sopra, i fi-
losofi ch’ella s’impara con le proprie forze e con essercizio;
Cristo ne mostra ch’ogni desiderio è peccato, i filosofi per con-
trario lo mettono fra le cose comuni, le quali non sono né
virtù, né vizii, e che riescono in virtù s’alcuno mediocremente
se ne compiace. Cristo ne insegna che dobbiamo far bene a
tutti et amare anco gli inimici, prestare liberamente e senza
premio a non prendere vendetta d’alcuno, che si debba dare a
ogniuno che domanda; per lo contrario i filosofi se non a co-
loro che compensano beneficio con beneficio; oltra di ciò che
sia lecito corrucciarsi, odiare, contendere, guereggiare e dare
a usura. Oltra di ciò eglino ci diedero eretici a Pelagio col suo
libero arbitrio, col lume naturale della ragion32. Tutta la filoso-
fia morale, come dice Lattanzio, è falsa e vana e non istruisce
alle imprese della giustizia, né conferma l’ufficio, né le ragioni
dell’uomo33. Finalmente tutta quanta ella è, repugna in modo
alla legge et a Cristo istesso che la gloria di lei non è devuta ad
altri che al diavolo dell’inferno.

31
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 5; AGOST., De civit. Dei, XIX, 1.
32
Sul tema del libero arbitrio e dell’eresia pelagiana, si veda anche AGRIP., De occ.
phil., II, 28, pp. 340-341.
33
Cfr. LATT., Divin. instit., III, 7.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 243

55.
DELLA POLITICA

A questa filosofia appartiene ancora la politica, la quale è ar-


te di governare la republica. Di questa ne sono tre sorti, cioè la
monarchia, la quale è il governo d’uno; l’aristocrazia, ch’è po-
chi ma nobili ricchi, overo ottimati; la democrazia, la quale è
della plebe, overo popolare. Prossime a queste sono la tiranni-
de, l’oligarchia e l’anarchia1. Ma non si sono ancora accordati
gli scrittori quale di queste sia da essere posta inanzi. Percioc-
ché quegli che disputano la monarchia essere più eccellente,
fortificano l’opinion loro con gli essempi della natura, dicen-
do che sì come nell’universo è solo uno grande Iddio, nelle
stelle un sole, nelle api un re, nelle gregie una guida, ne gli ar-
menti un rettore, e le gru vanno dietro a una, così nella Repu-
blica bisogna che sia un re come capo, dal quale le membra
non abbiano punto a discordare. Questa più che le altre fu ap-
provata da Platone, Aristotele, Apollonio, a i quali s’aderisco-
no de nostri Cipriano e Girolamo. Ma quegli che lodano l’ari-
stocrazia dicono che non è meglio per governare le cose gran-
di che le consultazioni di molti e de migliori che s’accordino
in uno2, e che nessuno solo sa quanto conviene, essendo que-
sto officio di Dio solo. A questa opinione si sottoscrivono Solo-
ne, Licurgo, Demostene, Tullio e quasi tutti quegli antichi legi-

1
Cfr. ARIST., Polit., 1279a-b e Eth. nicom., 1160a.
2
A questo punto il testo latino reca: «nam ex pluribus optimis necesse est optima
constare consilia», qui mancante.
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244 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

slatori, e Mosè anch’egli. Con costoro tiene Platone ancora, di-


cendo che a lui pare quella republica e città essere posta in ot-
timo e felicissimo stato la quale è governata da uomini savi3, al-
la quale piacemi che vi aggiungiamo anco da nobili, perché
questa opinione è fondata nel consiglio di molti. Ma quegli
c’hanno messo inanzi la republica de populi, la chiamarono
con più bel nome dell’altre isonomia, cioè equalità di ragione.
Perché quivi tutte le cose si riferiscono in commune, e tutti i
consigli si pigliano più certi dalla moltitudine, nella quale sen-
za dubbio tutti si ritrovano. Finalmente si suol dire: «Voce di
popolo, voce di Dio», però necessario è che tutto quello che
piace a ogniuno e che s’ordina per consentimento comune del
popolo, si tenga per cosa ottima e giustissima. Dicesi insomma
che questo governo è più securo che quello de gli ottimati per-
ché non è sottoposto punto al pericolo della sedizione, per-
ciocché non mai, o pur di rado, il popolo è in discordia fra lo-
ro, ma i nobili e grandissimamente e spessissime volte. Oltra di
questo nel governo popolari è tutta la equalità e la libertà non
oppressa dalla tirannide d’alcuno, dove sono i gradi eguali de
gli onori, né alcuno è maggior del vicino ma ciascuno, e tutta
la moltitudine insieme, comanda a vicende et è comandato.
Questa dunque sopra l’altre lodarono Otane Persa, Eucrate e
Dione Siracusano; e noi veggiamo oggidì che Viniziani e Sviz-
zeri con questa democrazia fioriscono sopra tutti i principati
della cristianità et ottengono la palma della vittoria e la laude
di providenza, di grandezza, di ricchezze e di giustizia; et anco-
ra la Republica de gli Ateniesi la quale, altra udita, potentissi-
mamente signoreggiava, governavasi con la sola democrazia, e
tutte le cose erano fatte al popolo et appresso il popolo. I Ro-
mani, che già provarono tutti i modi di governi, acquistarono
grandissima parte dell’imperio sotto la democrazia popolare,
né mai stettero peggio che sotto i re e sotto i nobili, ma peggio
che mai sotto gli imperatori, sotto i quali tutta la grandezza lo-
ro andò al fondo. Non si può dunque facilmente giudicare
quale di queste tre sia la migliore e la più utile, avendo ciascu-
na i suoi difensori e partigiani. Perciocché i re, ai quali è lecito
fare ogni cosa senza pena, come lor piace, pochissime volte si-
gnoreggiano bene, né regnano mai senza strepito di guerre.

3
Cfr., per es., PLAT., Rep., 540d.
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55. DELLA POLITICA 245

Ha questo male pestifero ancora in sé la regalità che anco que-


gli che già sono stati uomini ottimi e lodati dal consentimento
d’ogniuno, tosto che hanno acquistato il regno, come ch’aves-
sero avuto licenza di far male, diventano et insolenti e pessimi,
la qual cosa si vide in Caligula, Nerone, Domiziano, Mitridate e
molti altri, e le Sacre Lettere ancora lo pongono in Saul, in Da-
vid et in Salomone, eletti re da Dio. E così de i re di Giudea po-
chi appena ne furono approvati, de i re di Samaria nessuno;
ma quegli ancora che oggidì sono chiamati re, imperatori e
principi, si credono d’essere nati e creati non per il popolo,
per i cittadini, per la plebe, per la giustizia, ma per difendere e
conservare la nobiltà, e reggono in tal modo che non pare che
le facultà di tutti i cittadini gli siano state date in guardia ma in
rapina, et a sacco, togliendo a ogniuno ogni cosa. E servonsi de
sudditi secondo che gli pare, talvolta ancora come gli piace, et
usano male contra i sudditi la possanza che egli è stata data di
sopra, caricando senza modo e senza fine i cittadini di impre-
sti, la plebe di gravezze, alcuni d’angarie, e gli altri di gabelle
l’una sopra l’altra. Che s’alcuni principi un poco più modesti
queste cose rimettono, non lo fanno però per ben comune ma
per utilità loro, lasciando che i sudditi stiano bene, acciocché
anch’essi torni bene et abbiano ove poter rubbare quando ne
vien loro voglia, e per avere anco lode di giusti, strettamente
ordinano leggi, ma vestono l’avarizia e la crudeltà di giustizia,
puniscono i colpevoli con terribili supplici, con confiscazioni
di beni e molti altri disordini: in questo non migliori de tiran-
ni, perché desiderano che vi siano molti erranti, perciocché si
come le scelerità di quei che peccano sono le forze de tiranni,
così la moltitudine de gli erranti son le ricchezze de principi.
Io ebbi già molto stretta amicizia con un gran principe in Ita-
lia, il quale confortandolo io talora che nello Stato suo levasse
le fazzioni di Guelfi e Gibellini, mi confessò che col mezzo di
quelle parzialità ne guadagnava il suo fisco ogni anno di con-
dannagioni da dodicimila ducati. Ma di questo ragioneremo
appieno nel libro della nobiltà politica4. Ma quando gli ottima-
ti tengono il regno della republica, quivi insieme con esso loro
vivono l’ira, l’odio, l’emulazione, per la qual cosa rarissime vol-
te regnano d’accordo insieme, e mentre che ciascun vuole

4
L’argomento non verrà più ripreso.
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246 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

che’l suo parere sia posto inanzi gli altri, et essere egli il primo,
si levan fra lor gli odii privati, onde spesso ne nascono fazzioni
e parzialità, morti e guerre civili in danno della republica. Infi-
niti essempi di questo male sono scritti nelle istorie de Greci e
de Latini, et oggi tuttavia molte città d’Italia danno miseri spet-
tacoli di quegli. Ma quasi ogniuno giudica il governo del po-
polo per lo peggiore. Apollonio con molte ragioni lo dissuade
a Vespasiano, e Cicerone dice che nel vulgo non è ragione,
consiglio, differenza, né diligenza5, come dice il Poeta:

Partesi il vulgo incerto in varii studi6.

Et Otane Persa dice che non è cosa più insolente, né più


pazza, della moltitudine del popolo, et è proprio della plebe
non intendere nulla ma precipitosamente, e senza consiglio,
correre ad esseguire le imprese, assomigliandosi a fiume tor-
rente7. Demostene anch’egli chiama il popolo mala bestia, e
Platone lo domanda bestia con molti capi, di che fa menzione
Orazio8. E Falari scrivendo ad Egesippo dice: «Ogni popolo è
temerario, pazzo e da poco, prontissimo ogni volta che gli ac-
cade a mutare opinione, perfido, incerto, veloce, traditore,
fraudolento, utile solo nella voce e facile all’ira et alla laude»9.
Di qui viene che colui il quale nelle imprese della republica si
sforza di piacere al popolo, si ruina con vituperi onesti. Onde
Licurgo, legislator lacedemonio, domandato una volta perché
nella republica sua non avea ordinato lo stato popolare, rispo-
se a chi nel domandò: «Farai tu prima in casa tua il Principato
del popolo»10. Aristotele anch’egli nella Etica giudica che’l go-
verno del popolo sia pessimo e quel d’un solo ottimo11. Per-
ciocché la plebe è capo de gli errori, maestra delle cattive usan-

5
Cfr. CIC., De re pub., I, 43; 44; 69.
6
VIRG.,
Aen., II, 39; ERASMO, Moriae enc., L.
7
Cfr. EROD. Hist., III, 81.
8
Cfr. DEMOST., Orat., VII, 25; PLAT., Rep., 588c; ORAZIO, Epist., I, 75.
9
Nella tarda antichità cominciò a circolare un corpus di epistole attribuite a Fala-
ride, tiranno di Agrigento del VI sec. a.C. noto per la sua efferatezza (si veda su-
pra, nota 19, p. 18). L’autenticità di queste lettere, già messa in dubbio da nume-
rosi scrittori rinascimentali, fu definitivamente negata verso la fine del XVII sec.,
quando se ne stabilì l’attribuzione a un autore probabilmente del II sec.
10
PLUT., Lycur., XIX, 7 e Mor., 228c.
11
Cfr. ARIST., Eth. nicom., 1160 a-b.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 247

55. DELLA POLITICA 247

ze e cumulo grande di mali; ella piegar non si può con ragioni,


con auttorità, né con persuasioni, perché quelle non intende e
queste rifiuta, alle persuasioni è dura et ostinata, i costumi suoi
son sempre inconstantissimi, desidera cose nuove et odia le
presenti, né si può raffrenare per dottrina di savi, per discipli-
na di padri, per auttorità di magistrati, né per maestà di princi-
pi, dalla quale i consigli de gli uomini savi o non furono ascol-
tati giamai, o dati indarno, essendo quasi sempre di maggiore
auttorità la pazzia della moltitudine, sì come è chiaro di Socra-
te nell’opinione de gli dèi, in Capo Troiano de la introduzzio-
ne del cavallo, in Magio Campano, il quale consigliava ch’An-
nibale non si togliesse dentro la città, in Paolo Emilio, il quale
disconfortava che non si combattesse a Canne12, e finalmente
in tante predizzioni de profeti di Dio non ascoltate punto dal
popolo ebreo. La onde, come potranno esser buoni gli statuti
del popolo e le ordinazioni della plebe se la moltitudine del
popolo quasi sempre è ignorante delle cose migliori? Essendo
la maggior parte di quella artefici manovali, e parte ancora
perché non sono fondati nella ragione della equità e della giu-
stizia, ma nel numero, nel quale sempre son più i cattivi che i
buoni, e non è guidata da perfetto giudicio delle cose, ma da
studio e numero della moltitudine, come dice Plinio secondo:
«Le sentenze si numerano ma non si pesano»13. Perciocché
nelle deliberazioni del popolo non è di maggiore auttorità
quello che i più savi giudicano, ma quello ch’al maggior nu-
mero piace. Fra i quali stimandosi ogniuno eguale all’altro, co-
sa non è tanto diseguale quanto l’equalità istessa. Niente dun-
que utilmente s’ordina nella confusa furia della moltitudine,
nulla si ripara in meglio delle cose che sono ruinate in peggio,
anzi le cose ottimamente ordinate più tosto si conturbano e si
levano dalla licenza della plebe. Ora fra questi tanto diversi go-
verni di republica, molti hanno eletto una politica mista di due
sorti, sì come quella che Solone instituì de i nobili e del popo-
lo, et a questo modo fece parte a ogniuno de gli onori suoi.
Molti altri ancora ne ordinarono una mescolata di tutti, come

12
Per Capi si veda OMERO, Iliad., XX, 239; VIRG., Aen., II, 35; per Decio Magio, si ve-
da LIV., Ab Urbe cond., XXIII, 7; per Lucio Emilio Paolo, si veda LIV., Ab Urbe cond.,
XXII, 38-50.
13
PLIN. IL GIOV., Epist., II, 12, 5.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 248

248 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

era quella de Lacedemoni, perciocché appresso di loro il re


era perpetuo ma signoreggiava solo in tempo di guerra, eravi
ancora il Senato de gli ottimati fatto de più ricchi e più poten-
ti, creavano parimente dieci efori della plebe perpetui, i quali
avevano auttorità della vita e della morte e rappresentavano lo
stato della plebe. Appresso Romani anticamente la democrazia
era mescolata con la aristocrazia per l’auttorità del Senato,
perciocché molte cose erano in man del popolo et alcune ap-
presso il Senato. Oggidì in molti luoghi i re et i principi co-
mandano come lor piace, tolgono però i nobili delle provincie
ne i magistrati, ne i consigli e nel trattare le imprese. E di qui
nasce un dubbio: quale republica sia più secura, o quella dove
è il principe cattivo et i consiglieri buoni, o dove è il principe
buono e virtuoso, ma i consiglieri ribaldi. Mario Massimo, Giu-
lio Capitolino e molti altri eleggono la prima, a i quali però
d’infiniti altri gravi auttori non consentono, veggendo noi per
l’esperienza istessa che più spesso i cattivi sono corretti dal
principe buono che’l cattivo principe emendato da i buoni.
Ma finalmente a governare benissimo la republica non è ne-
cessaria filosofia, arte, né scienza alcuna, ma la bontà de retto-
ri. Perciocché ottimamente uno, ottimamente pochi, ottima-
mente governa il popolo se son buoni, e pessimamente se ri-
baldi sono. Ma quello che avanza ogni temerità di malizia, ben-
ché molti confessino o di non sapere o di non potere lavorare
un campo, pascere una greggia, reggere una nave, governare
una famiglia, allevare figliuoli, alcuno però non si ritrova il
quale voglia dire che la natura non gli abbia concesso di sape-
re reggere un magistrato nelle città, fare il re e’l principe, e
quello ch’è molto più difficile, comandare a popoli e nazioni.
Ma di quello che qui spetta alla scienza delle leggi civili, con le
quali tutte le repubbliche e città stanno in piedi, si reggono,
s’accrescono e si conservano, ne ragionaremo più a basso.
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56.
DELLA RELIGIONE IN GENERE

Alla integrità della republica appartiene ancora la religione,


la quale è una certa disciplina delle cerimonie e delle cose sa-
cre esteriori per cui siamo avisati delle cose interne e spirituali
come per certi segni. Cicerone la diffinisce disciplina per la
quale s’essercitano le cerimonie del culto divino con riverente
servigio1, la quale e Cicerone et Aristotele ancora hanno giudi-
cato che sia molto utile e necessaria alle città2. Dice egli nella
Politica: «Bisogna che’l principe più che gli altri paia riverente
a Dio»3. Perciocché sopportano più i sudditi il patire da uomi-
ni tali alcuna cosa iniqua, e machinano meno contra quel tale,
quasi ch’egli abbia in sua difesa ancora gli dèi. La religione è
talmente ne gli uomini inserta da natura che per quella, più
che per essere razionali, siamo differenti da gli altri animali4. E
che naturalmente la religione in noi si trovi lo confessa Aristo-
tele. Oltra ch’egli è chiaro da questo, che quante volte con
qualche travaglio ruiniamo in pericoli e paure subitanee, subi-
to prima che consideriamo altro, et inanzi ogni elezzione ri-
corriamo a chiamare Iddio, insegnandoci la natura, senza altro
maestro, a domandare il divino aiuto. E già fin dal principio
della creazione del mondo Cain et Abel religiosamente sacrifi-

1
Cfr. CIC., De nat. deor., II, 28, 71.
2
Cfr. CIC., De invent., II, 53, 161.
3
ARIST., Polit., 1314b-1315a.
4
Cfr. FIC., Theol. plat., XIV, 9.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 250

250 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

carono a Dio5; ma Enoch fu il quale instituì il modo col quale


si dovesse invocare Iddio. La onde dice la Scrittura di lui: «Al-
lora finalmente cominciò a invocarsi il nome di Dio»6. Dopo il
Diluvio furono date da molti molte leggi di religioni a molte
nazioni, perciocché leggesi che Mercurio e’l re Mennale, die-
de a gli Egizzii; Melisso, balio di Giove, a Cretensi; Fauno, e pri-
ma di lui Giano, a Latini; Numa Pompilio a Romani; Mosè et
Aarone a gli Ebrei; Orfeo a Greci. Trovasi scritto che Cadmo,
figliuolo d’Agenore, fu il primo che diede a Greci venendo di
Fenicia i misterii e le solennità de gli dèi, le consecrazioni de i
simulacri, gli inni e l’altre cose sacre, le pompe e le celebrità
con le quali s’onorano gli dèi7. E più ancora fecero la divinità
de i ladronecci e delle scelerità, né solamente diedero i nomi a
gli dèi, ma ordinarono sacrifici ancora. I Romani adorarono
Giove adultero e ruffiano e dedicarono in palazzo un pubblico
tempio alla Febre8 et un altare alla mala Fortuna nelle Esqui-
lie9. Ritrovarono ancora dèi nell’inferno da essere adorati, per-
ché adoravano lo istesso principe dell’inferno, Satanasso infi-
mo e molto più misero di tutti gli altri, sotto nome di Dite, Plu-
tone e Nettuno, assegnandogli per guardiano Cerbero con tre
teste, cioè divoratore di carne, il quale va sempre dattorno,
cercando chi poter mangiare, non perdonando ad alcuno, no-
cendo a tutti et accusando ogniuno10. Perciò fu chiamato il dia-
volo quasi accusatore, onde il Poeta dice:

Il Signor de l’Inferno al popol chiede


i vizii di loro vita, e non ha alcuna
de gli uomini pietà, con tutti irato.
Stan le furie d’intorno, e varie pene;
e diversi supplici han le catene11.

5
Cfr. GEN 4:3-4.
6
Ivi, 2:26.
7
Cfr. GEROL., Chron., I, prohem., 3; EROD., Hist., II, 49.
8
Alla dea Febbre furono dedicati a Roma un sacello fin da tempi antichissimi,
forse per la diffusione delle febbri nell’Agro romano, e poi successivamente un
tempio sul Palatino (si veda CIC., De nat. deor., III, 25, 63-64 e De leg., II, 11, 28;
PLIN., Nat. hist., II, 5, 16; VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., II, 5, 6).
9
Cfr. CIC., De leg., II, 11, 28; PLIN., Nat. hist., II, 5, 16.
10
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, II, 2, 14.
11
Ibid.; BOCCAC., Geneal. deor. gentil., VI.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 251

56. DELLA RELIGIONE IN GENERE 251

Adorarono già gli Egizzii con gli altri loro dèi gli animali
bruti ancora et i mostri, e sono anco oggidì di quegli che ado-
rano gli idoli et i simulacri. Et i Turchi, i Saracini, gli Arabi et i
Mori, e gran parte del mondo, oggidì adorano Machometto,
fabricatore d’una religione sciocchissima, et i Giudei perseve-
rando tuttavia nella perfidia loro, ostinatamente aspettano il
lor Messia che abbia a venire. E diversi nostri pontefici in di-
versi tempi e paesi hanno prescritto costumi di religioni a noi
cristiani, cosa mirabile a vedere in quante leggi discordino fra
loro circa le usanze, circa le cerimonie, circa il culto, circa i ci-
bi, circa i digiuni, circa il vestire, circa i guadagni, circa le pom-
pe, circa le mitre, circa la porpora, et altre cose tali. Ma una co-
sa sola è che vince la maraviglia di tutte le cose mirabili, che es-
si credono di potere ascendere al cielo con quegli ambiziosi
costumi che già ne fecero cadere Lucifero. E finalmente tutte
queste leggi di religioni non s’appoggiano sopra altro fonda-
mento che nelle volontà de i maestri loro, et oltra di ciò non
hanno altra regola di certezza se non il credere istesso. Consi-
derate dal principio del mondo quanti vi sono e quanti ve ne
sono stati studii nella religione, quante cerimonie, quanti cul-
ti, quante usanze, quante eresie, quanti pareri, quanti voti,
quante leggi, e la religione del Signore Iddio da cotanti secoli
passati non può condurre gli uomini alla dritta fede senza la
parola de Iddio, il quale poi che prese carne umana e trionfò
su la Croce de gli inimici nostri, ruinarono i tempii e gli idoli,
furono levate le auttorità a gli dèi e mancarono gli oracoli.

Tolto s’è via l’oracol, che nessuno


poteva revocar; già cessa Apollo
per lungo tempo, e tace a porta chiusa.
Lascia dunque la patria, e fatti avendo
i sacrifici ben, tornati a casa12.

Perciocché dapoi che la parola di Dio per la nova dello


Evangelio cominciò a risplendere al mondo, tutti gli dèi de
Gentili, come tocchi dal folgore, ruinarono in terra, sì come
dice Cristo appresso Luca: «Io vidi Satanasso cadere dal cielo
come folgore»13. Ma di quello che qui appartiene alla fede, alla

12
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, II, 2, 16; PORF., De phil. ex orac. haur. (ed. Wolff), I.
13
LC 10:18.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 252

252 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

teologia et alle ordinazioni de canoni, ne ragioneremo di sot-


to14. Noi parliamo qui della religione quanto a quelle arti le
quali appartengono al guadagno de sacerdoti, ornare la repu-
blica co suoi simulacri, statue, imagini, tempii, chiese, capelle,
feste, pompe e magistrati di sacerdotii, delle quali cose dispu-
tai altra volta con lungo ragionamento fra le opinioni teologi-
che per me declamate in Colonia l’anno 151015, onde qui con
brevissimo discorso le passeremo, mostrando che nelle cose
ancora, le quali sono state ritrovate per conto di onorare la re-
ligione e per salute de gli uomini, spesse volte vi si ritrova di
molta malizia congiunta con vanità. La qual cosa mostreremo
ora essere vera, discorrendo d’una in una queste materie.

14
Cfr. infra, pp. 455-460.
15
Allusione alle tesi teologiche sostenute nel 1510 di fronte all’Università di Co-
lonia. L’episodio è ricordato anche in AGRIP., De beatiss. Annae monog., B6v.
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57.
DELLE IMAGINI

Tutti i popoli anticamente non admessero l’adorazione del-


le imagini. Perciocché i Giudei, come narra Giosefo, cosa non
aborrirono più che i simulacri, né alcuna imagine fecero di
quello ch’essi adorarono, né di quelle cose delle quali tennero
memoria1. Perché la legge di Dio per Mosè vietò loro che non
facessero simulacri, né fossero posti ne tempii, né adorare
inanzi a quegli2. Appresso i popoli Seri ancora, come testimo-
nia Eusebio, era la quale proibiva che non si riverissero i simu-
lacri3. Leggesi parimente in Plutarco e Clemente che per ordi-
nazione di Numa, per cento settanta anni dopo che fu edifica-
ta Roma, non si vide ne’ tempii de Romani imagine alcuna né
scolpita, né dipinta4. Agostino anch’egli fa testimonio di que-
sto medesimo con l’auttorità di Varrone, le parole del quale,
dice egli, chiarissimamente affermano che in Roma per cento
e sessanta anni non fu simulacro alcuno di dèi, e che da poi
venne che per la moltitudine delle statue e delle imagini, il cul-
to della religione fu poco stimato et avuto in dispregio5. I Persi
ancora, secondo che dicono Erodoto e Strabone, non fabrica-

1
Cfr. FLAV. GIUS., Contra Apion., II, 6, 75.
2
Cfr. LV 26:1; DEUT 4:16-18.
3
Cfr. EUSEB., Praep. evang., V, 10.
4
Cfr. CRIN., De hon. discip., XIV, 12 la cui fonte è CLEM. ALESS., Strom., I, 15, 71, ma
si veda anche PLUT., Numa, VIII, 13-14.
5
Cfr. CRIN., De hon. discip., XIV, 13; AGOST., De civit. Dei, IV, 31. La fonte di Agostino
è VARR., Antiq. rer. div., I, 18.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 254

254 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

vano statue6. Ma in quelle grandi impietà e sciocchezze usava-


no gli Egizii, derivata da poi in tutte le nazioni. < il quale co-
stume e falsa religione di Gentili, quando essi incominciarono
a venire alla fede di Cristo, imbrattò la nostra religione ancora
et introdusse nella Chiesa nostra simulacri et imagini e molte
sterili cerimonie di pompe, delle quali cose punto non aveva-
no avuto quei primi e veri cristiani. Di qui incominciammo a
portare i simulacri mutoli de nostri santi nelle nostre chiese e
con gran riverenza collocargli su gli altari di Dio, e dove abbia-
mo per male che ascenda l’uomo vera imagine di Dio, quivi
mettiamo simulacri senza sentimento, a quegli inchiniamo il
capo, diamo baci, offeriamo lumi, appicchiamo scomuniche,
accomodiamo miracoli, compriamo donagioni e finalmente a
quegli peregriniamo, a quegli facciamo voti, gli riverimo non
pure, ma gli adoriamo. > Né si potrebbe dire ancora quanta su-
perstizione, per non dire idolatria, si nodrisca nelle imagini
appresso la plebe rozza et ignorante, infingendosi i sacerdoti
di non vedere queste cose, i quali di qui ne fanno un grosso
guadagno. E qui difendono con le parole di Gregorio, il quale
dice le imagini essere i libri del vulgo acciocché possa avere
memoria delle cose, e quegli che non hanno imparato lettere
leggano in queste e vedendole si levino alla contemplazione
d’Iddio7. Ma queste sono invenzioni umane di Gregorio che le
scusa, benché il santo uomo approvi le imagini, non loda che
elle s’adorino8. Ma vi sono altri comandamenti d’Iddio che lo
vieta, perché non bisogna che noi impariamo dal libro d’Id-
dio, il quale è il libro delle Scritture9. Colui dunque che desi-
dera conoscere Iddio, non lo cerchi dalle imagini de i pittori e
de gli scultori ma, come dice Giovanni, consideri le Scritture,
le quali danno testimonio di lui10. Quei che non sanno leggere,
odano la parola della Scrittura, perché la fede loro, come dice

6
Cfr. EROD., Hist., I, 131; STRAB., Geogr., XV, 3, 13.
7
Cfr. GREG., Epist., XI, 13 (Ad Serenum Massiliensem Episcopum).
8
Ibid.
9
Il testo latino reca: «non enim decet nos ex vetito imaginum libro discere, sed
ex libro dei, qui est liber scripturarum», ossia «non infatti bisogna che noi impa-
riamo dal libro proibito delle immagini, ma dal libro di Iddio il quale è il libro
delle Scritture». È evidente che il traduttore qui ha saltato una riga del testo ori-
ginale.
10
Cfr. GV 5:37-39; AT 18:28.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 255

57. DELLE IMAGINI 255

Paolo, è nell’udire11. E Cristo appresso Giovanni dice: «Le mie


pecore odono la voce mia»12. E se pure anco, come dice Cristo,
nessuno può andare a lui se non è tirato dal Padre, e nessuno
va al Padre se non per mezzo di Cristo13, perché leviamo noi la
gloria a Dio dandola alle pitture et alle statue, come s’elle ci
potessero tirare alla contemplazione d’Iddio? Appresso questo
va ancora l’immoderato culto delle reliquie. Perché confessia-
mo, né alcuno lo può negare, che sante sono le reliquie de san-
ti sì come quelle che risplenderanno una volta di gloria dell’e-
ternità. E però confessiamo che i santi debbano essere adorati
da noi con gran riverenza, e benché in ogni loco essaudiscano
coloro che pietosamente gli domandano, più nondimeno là
dove essi hanno alcuna cosa delle sue reliquie quasi come pe-
gno. Ma perché non s’ha la medesima certezza di tutti, cre-
dendosi che in varii luoghi siano i pegni di quei medesimi san-
ti, necessario è che la confidanza o di questi o di quegli, sia
pazza. Per non incorrere dunque in idolatria o in superstizio-
ne, più securo è non porre fede alle cose visibili, ma riverire i
santi in spirito e verità, domandando l’aiuto loro per nostro Si-
gnor Giesù Cristo. Non abbiamo dunque né più certe, né più
degne reliquie del sacramento del corpo di Cristo, il quale so-
lo santo de i santi si salva nelle chiese nostre, perché adoriamo
e riverimo Cristo presente, il quale benché sia presente in ogni
luogo, quivi nondimeno corporalmente ancora si ritrova pre-
sente. Ma la generazione ingorda de sacerdoti, uomini avari,
non pure s’hanno fatto gli instromenti della sua rapina, di le-
gni, di pietra, ma ritrovando materia alla avarizia sua dall’ossa
di morti e dalle reliquie de santi, alzano sepolcri di confessori,
mettono fuora reliquie di martiri, vedendo i toccamenti et i ba-
ci loro, ornano i simulacri di quegli e con pompe grandi fanno
le feste lor, gli predicano per santi e con lodi grandissime gli
inalzano al cielo, ma ben fuggono di lontano la vita di coloro
che tanto laudano. Non parlò egli il Salvatore a questi: «Guai a
voi ch’edificate i sepolcri de profeti e sete simili a quei che gli
uccisero»14. Onde essi secondo il costume de pagani distribui-

11
Cfr. RM 10:14-17.
12
GV 10:27.
13
Ivi, 14:6.
14
LC 11:47; MT 23:29-31.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 256

256 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

scono gli uffici a i santi e con Nettuno mettono questo a soc-


correre a i pericoli dell’acque, quello con Giove a trarre le
saette, o con Vulcano il fuoco, un altro con Cerere ad aver cu-
ra delle biade, l’altro con Bacco sopra le viti. Et hanno le don-
niciuole le sante loro, alle quali domandano figliuoli, come da
Lucina o Venere, e di quelle che con Giunone placano o ven-
dicano i mariti corucciati. Vi sono anco di quegli che fanno ri-
coverare i furti o le cose smarrite o perdute, e non è sorte al-
cuna di malattia che fra i santi non abbia il suo medico, la qual
cosa è cagione che i medici guadagnano manco che gli avoca-
ti, non essendo lite alcuna sì picciola né sì giusta, la quale ri-
trovi santo che la difenda. Ma sì come l’anima nostra per di-
versi membri distribuisce atti diversi, e quegli secondo la diver-
sità delle disposizioni loro ricevono diverse potenze, come gli
occhi il vedere, l’orecchie l’udire, così nostro Signor Giesù Cri-
sto nel suo corpo mistico, di cui egli è l’anima, amministra e di-
stribuisce diversi doni della grazia sua in queste cose inferiori
per diversi suoi santi, come membra accomodate a questo, e
ciascun santo n’acquista il suo particolare ufficio d’operare, e
ciascuno concede certe grazie, secondo la quale diversa distri-
buzione di grazie, parte rivelata a gli uomini, parte acquistata
per congietture pie, ricorriamo a i santi con varii preghi et in-
vocazioni. Perciocché, sì come Cristo con la morte sua ha re-
dento la morte nostra, nella morte del quale le sante morti in-
cominciarono e le morti di tutti i fedeli si santificano, così cre-
diamo che quei martiri, i quali morirono di certa sorte d’infer-
mità o furono cruciati da tormento simile a questo, da quello
medesimo abbiano possanza di liberarci come se per noi l’a-
vessero patito, e ciò veramente ha gagliarda ragione. Ma ben
dobbiamo ridere di quegli che queste cose attribuiscono a san-
ti per la similitudine del nome, per la confusione delle voci e
per altre di questa maniera debili invenzioni, come i Tedeschi
ch’ascrivono il mal caduco a Valentino perché questo nome si-
gnifica cadere, e Francesi attribuiscono gli idropici a Eutropio
per la somiglianza della parola. Io non voglio però in questo
loco derogar punto alla possanza di Dio, né a i meriti de i san-
ti. Perciocché è impio ciascuno che ha mala opinione della
pietà cristiana e de miracoli de santi, ma son bene anco super-
stiziosi e ribaldi coloro che per miracoli mettono in istoria pro-
digiose menzogne e favolose ciancie e fannole credere a i sem-
plici in loco d’oracolo facendone gran romore di parole; e
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57. DELLE IMAGINI 257

molto più pazzi sono coloro che danno fede a queste favole e
sogni. E voglio che sappiate che sì come il superfluo culto del-
le imagini è idolatria, così la ostinata dannazione di quelle è
eresia, della quale furono già condannati Filippo e Leon III
imperatori15, la quale altre volte generata da un certo Vigilan-
zio francese e discacciata da Girolamo16, ora di nuovo ha co-
minciato a germogliare pochi anni sono nella Lamagna insie-
me con coloro che biasmano le imagini.

15
Il testo latino a questo punto ripete: «Sic etiam quemadmodum reliquiarium
abusus execrabile scelus est, ita earundem irreuerentia detestanda haeresis est»,
qui mancante.
16
Vigilanzio (IV sec.), prete di Calagurri, nell’Alta Garonna, era un presbiterio
che rifiutava il celibato dei preti e il culto delle reliquie. Nel 406 san Gerolamo
scrisse un trattato contro le sue dottrine intitolato Adversus Vigilantium.
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58.
DELLE CHIESE

Ma parliamo ora delle chiese. Noi sappiamo che questa fu


già una grandissima superstizione de pagani, i quali fabricava-
no il suo tempio a ciascuno de suoi dèi, a imitazione de i quali
cominciarono dapoi i Cristiani a dedicare chiese a santi suoi.
Nondimeno molte nazioni non avevano tempio alcuno, e dice-
si che Xerse altra volta abbrusciò tutti i tempii ch’erano per la
Grecia a persuasione de i magi, perché era cosa empia e ribal-
da chiudere i dèi dentro le mura1. Laonde Zenone Citico altra
volta ragionando de tempii filosofò in questa maniera: «E non
è punto necessario l’edificare tempii ne luoghi sacri perché ra-
gionevolmente non s’ha da tenere, né stimare per cosa santa
né sacra, la quale sia stata fabricata da gli uomini»2. Al tempo
antico i Persi non avevano tempio alcuno e gli Ebrei non ave-
vano se non un tempio solo in tutta la nazione, edificato da Sa-
lomone in Gierusalem, del quale però si legge in Isaia: «Il Si-
gnore dice queste parole: il cielo è la mia stanza e la terra è scabel-
lo de piedi miei. Che casa è questa che tu mi edifichi?»3. E Stefano pri-
mo martire dice: «Salomone gli edificò una casa, ma il Signore

1
Cfr. CRIN., De hon. discip., XIV, 12; CIC., De re pub., III, 9, 15 e De leg., II, 10, 27. Per
l’usanza presso i Persiani di non erigere luoghi di culto, si veda EROD., Hist., I,
131-132 e VIII, 109.
2
Cfr. CRIN., De hon. discip., XIV, 12 la cui fonte è CLEM. ALESS., Strom., V, 249, ma si
veda anche PLUT., Mor., 1034b. Per la fonte di Zenone, si veda Ethica, fr. 264 (ed.
von Arnim).
3
IS 66:1.
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260 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Iddio non sta in cose fatte a mano»4. E Paolo Apostolo disse a


gli Ateniesi: «Iddio non abita in tempii fatti a mano, il quale es-
sendo Signore del cielo e della terra, non è adorato per mano
de gli uomini come se egli avesse bisogno d’alcuna cosa»5. Ma
egli insegna bene che la natura umana, e gli uomini ancora,
ma puri, pii, santi, religiosi e devoti a Dio, sono tempii gratissi-
mi a lui, come egli dice scrivendo a Corinzii: «Il tempio santo
di Dio è quello che sete voi»6. Oltra di ciò confessa Origene
contra Celso che in quella nostra prima religione, dal princi-
pio della fede cristiana, e lungo tempo dopo la passione di Cri-
sto, non furono fabricati tempii a i nostri sacrificii, mostrando
con molte ragioni che non convengono punto a Cristiani per
lo vero culto di Dio e per la vera religione7. E Lattanzio dice:
«Non s’hanno da fabricare chiese a Dio con pietre poste in al-
to, ma ciascuno dee conservare un luogo nel suo cuore nel
quale si ritiri per adorare Iddio».

Iddio non sta ne tempii fatti a mano,


però che uom vero è proprio un tempio d’oro8.

E Cristo non manda quegli che sono per adorare al tempio


né alle sinagoghe, ma vuole che orino secretamente in came-
ra9. Et egli istesso, come si legge in Luca, non andò mai per
orare alle turbe, alle città,10 alle sinagoghe, ma su’l monte, e
quivi si stette in orazione la notte11. Nondimeno la Chiesa, la
quale non fa nulla se non mossa dallo spirito di Dio, essendo
già entrati, dopo che moltiplicò il popolo cristiano, nella Chie-
sa i peccatori co i fedeli e gli infermi co i forti, e come fu nel-
l’arca di Noè gli animali sporchi co i mondi12, ordinò certe
chiese sacre, tempii et oratorii, luoghi sacrati, liberi da ogni

4
AT7:47-49.
5
Ivi, 17:24-25.
6
1 COR 3:16-17. Il testo latino reca: «Templum dei estis, et spiritus dei habitat in
vobis. Templum autem dei sanctum est, quod estis vos». Qui viene tradotta sol-
tanto la seconda parte della sentenza.
7
Cfr. ORIG., Contra Celsum, VIII, 19 sgg.
8
LATT., Divin. instit., VI, 25.
9
Cfr. MT 6:5-6.
10
Il testo latino aggiunge: «ad templum», qui mancante.
11
Cfr. LC 6:12.
12
Cfr. GEN 7:2-3
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 261

58. DELLE CHIESE 261

prattica secolare, ne i quali publicamente si predicasse la paro-


la di Dio alla moltitudine cristiana, e gli altri sacramenti della
religione e più comodamente e più castamente s’amministras-
sero, i quai luoghi sacri, tenuti sempre in gran riverenza dal
popolo cristiano e favoriti da principi con privilegii, ora son
cresciuti in tanto numero, aggiugnendosi a quegli tanti orato-
rii di frati e private capelle, che molto necessario sarebbe le-
varne parecchi come membra indebite e soverchie. Aggiunge-
si a questo la superba magnificenza del fabricare, nel quale
ogni dì si consumano di molto sacri dinari et elemosine con i
quali, quel ch’abbiamo anco detto di sopra, infiniti poveri di
Cristo, veri tempii et imagini di Dio, i quali si muoiono di fa-
me, di sete, di caldo, di freddo, di fatica, di stanchezza e di po-
vertà, si devrebbono sostentare13.

13
Cfr. ERASMO, Adagia, III, 3, 1.
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ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 263

59.
DELLE FESTE

I giorni delle feste ancora furono sempre con gran religione


riveriti così appresso i Gentili, come appresso i Giudei, li quali
tutti separatamente in alcuni tempi dell’anno per certi et ordi-
nati giorni adoravano Iddio, quasi che fosse lecito rimanersi ta-
lora dal culto divino o forse che Iddio voglia essere adorato più
da un tempo che da uno altro, la qual cosa Paolo rinfacciò a
Galati come cosa malfatta, così scrivendo a loro: «Voi osservate
i giorni, i mesi, i tempi e gli anni; io temo di non avermi fatica-
to in voi indarno e senza causa»1. Della qual cosa avertendo an-
cora i Collossensi, comandò loro dicendo: «Nessuno giudichi
voi nel mangiare e nel bere in parte della festa, o di neomenia,
o del sabbato, le quali sono ombra delle cose a venire»2. Per-
ciocché i veri e perfetti cristiani non fanno alcuna differenza
di giorni, i quali sono sempre in festa, sempre riposano in Dio,
e senza intermissione fanno il vero sabbato, sì come profetò
Isaia a i padri de Giudei, che verrebbe tempo una volta che si
torrebbe via il sabbato loro e che quando sarà venuto il Salva-
tore, allora sarà sabbato perpetuo e neomenie perpetue3. Ma i
santi padri hanno ordinato al popolo più rozzo et alla moltitu-
dine inferma, et alla più imperfetta parte della Chiesa, questi
tali giorni ne i quali essi si ragunino a udire la sacra predica

1
GAL4:10-11.
2
COL2:16-17.
3
Cfr. IS 66:23
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264 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

della parola di Dio, a celebrare il culto divino e per cagione di


partecipare de i sacramenti, sì fattamente però che la Chiesa
non serva a i giorni ma i dì servano alla Chiesa. Hanno dunque
ordinato i Santi Padri nella Chiesa i giorni ne i quali la plebe si
rimanga da tutti i negozii estranei e da gli atti corporali, ac-
ciocché più liberamente ella possa servire a Dio, attendere alle
orazioni et alle contemplazioni, intervenire a gli officii divini
et alle prediche della parola di Dio, et altre cose simili le quali
si fanno allora per utilità della salute eterna. Ma quello dissipa-
tore della equità, ruina d’ogni ordine e bellezza, auttore di tut-
ti i mali, dico il diavolo, sforzandosi continuamente di ruinare
ciò che lo Spirito Santo edifica, ha quasi ruinato questa rocca,
talmente che la maggior parte del popolo cristiano non ispen-
de questo ozio sacro de i giorni delle feste non ad orare, non
ad udire la parola d’Iddio, non nell’altre cose per le quali è sta-
to ordinato, ma a corruttela diversa de i buoni costumi e della
cristiana dottrina, in balli, in comedie, in istrioni, in canzoni,
in giuochi, in convivi, in pompe, in spettacoli, et in tutte quan-
te le opere mondane, carnali e contrarie allo spirito et alla san-
tità, lo consuma. E come dice Tertulliano delle solennità de
Cesari, sogliono allora fare un grande officio, far fuochi e dan-
ze in publico, mangiare per le strade, profumare la città a uso
di taverna, empire la gola di vino, correre a prova a far delle in-
giurie, delle disonestà e de gli allettamenti di lussuria; in que-
sto modo con publica vergogna si palesa la publica allegrezza4.
Non siamo noi dunque meritamente da essere biasimati, cele-
brando in questa maniera le solennità di Cristo e de suoi santi?
Nondimeno pochissime eresie o nessuna abbiamo conosciuto
da i giorni delle feste salvo che la pazza bestemmia de Mani-
chei e le pestifere instituzioni de Catafrigi5. Diedero però gran-
dissima occasione di scisma nella Chiesa quando Vittore pon-
tefice romano scomunicò quasi tutte le chiese orientali et au-
strali per questa sola cagione, che nella osservazione del dì di
Pasqua tenevano diverso costume dalla romana usanza, a cui
s’oppose allora fra gli altri uomini eccellentissimi Policrate, ve-

4
Cfr. TERTUL., Apolog. adv. gent., I, 35.
5
Catafrigi, o semplicemente Frigi, dal nome della regione presso la quale nel II
sec. ebbe origine l’eresia, furono inizialmente detti i seguaci di Montano, propu-
gnatori della più assoluta intransigenza verso lo stato romano e il Paganesimo e
fortemente contestatori dell’autorità gerarchica della Chiesa ortodossa.
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59. DELLE FESTE 265

scovo d’Asia. Oltra di questo, Ireneo vescovo di Lione, benché


egli celebrasse la Pasqua secondo l’usanza romana, ebbe però
ardire di riprendere con libertà grande papa Vittore che, con-
tra l’essempio de predecessori suoi, fatto perturbatore della
pace, avesse diviso le Chiese, le quali non erravano nella fede
ma solo in alcune usanze discordavano dalla Chiesa romana6.
Furono fatte dapoi molte cose sopra questa osservazione di Pa-
squa, ordinazioni di concilii e di papi, calculazioni di padri e
quegli che si chiamano conti ecclesiastici. Né però hanno po-
tuto infino al dì d’oggi ordinare in tutto’l mondo un medesi-
mo giorno di Pasqua, e fino all’ora presente si disputa della
reformazione del calendario togliendone consilio da gli astro-
logi, ma non s’è anco diffinito il negozio, cosa veramente de-
gna, per la quale la Chiesa rilevasse così grande danno per la
ostinata religione d’un pontefice romano.

6
Le comunità cristiane d’Asia minore, seguendo l’uso dei primi cristiani di Pale-
stina, celebravano la Pasqua lo stesso giorno della Pasqua ebraica, il 14 di Nisan
(di qui la designazione di ‘quartodecimani’), dunque a data fissa e in un giorno
della settimana variabile. Viceversa, nelle altre Chiese si celebrava la Pasqua sem-
pre di domenica, giorno della resurrezione di Cristo. La questione si fece più de-
licata allorché il papa Vittore I (189-199) tentò, nei primi anni del suo pontifica-
to, d’imporre alle chiese d’Asia la celebrazione domenicale. L’intransigenza di
Vittore suscitò la reazione di Policrate di Efeso, il più autorevole dei vescovi del-
l’Asia, e di Ireneo vescovo di Lione, il quale scrisse una lettera al papa esortando-
lo a non rompere la comunione con chiese che conservavano un’usanza antica.
Per la controversia tra Vittore e Policrate relativa alla Pasqua, si veda EUSEB., Hist.
eccl., V, 23-25.
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60.
DELLE CEREMONIE

Dei membri della religione non sono i minori le pompe de i


riti e delle cerimonie, nelle vesti, ne i vasi, ne i lumi, nelle cam-
pane, ne gli organi, nel cantare, ne gli odori, ne i sacrifici, ne i
gesti, nelle pitture preziose, nella elezzione de i cibi e de digiu-
ni, e simili cose osservate in tal modo e con gran maraviglia e
con riverenza dalla plebe ignorante e da gli uomini, i quali
non hanno punto cura se non alle cose che tengono inanzi a
gli occhi. Numa Pompilio fu il primo che comandò le cerimo-
nie a Romani, sotto colore delle quali potesse invitare a fede,
giustizia e religione, e facilmente governare il popolo rozzo an-
cora e feroce, il quale aveva occupato lo imperio con forza e
con ingiuria1. Di ciò fanno testimonio gli scudi chiamati ancilii
e la statua di Pallade, sacri pegni de l’Imperio, Giano con due
faccie, arbitro della guerra e della pace, il fuoco della dea Ve-
sta, di cui teneva cura un sacerdote custode dell’Imperio e fa-
ceva che di continuo durava, l’anno partito in dodici mesi con
la varietà de i dì fasti e nefasti, il magistrato de sacerdoti diviso
in pontifici et auguri, e varii riti di sacrificii, di supplicazioni, di
spettacoli, di processioni, di tempi e d’officii, gran parte de i
quali, come dice Eusebio, è passata dapoi nella nostra religio-
ne ancora2. Nondimeno Iddio, che non si diletta della carne,
del corpo e de i segni sensibili, disprezza e rifiuta queste ceri-

1
Cfr. PLUT., Numa, VIII e XIV.
2
Cfr. EUSEB., Praep. evang., VI, 2.
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268 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

monie esteriori e carnali, perciocché Iddio non vuole essere


adorato nelle azzioni corporali, nell’opre sensibili3 e nel culto
carnale, ma in spirito e verità per Giesù Cristo. Perché egli ri-
sguarda alla fede, considera lo spirito interiore et i secreti de
gli uomini, investigatore de cuori che penetra l’intrinseco del-
la mente. Per la qual cosa quelle carnali et esteriori cerimonie
non possono inviare gli uomini a Dio, a cui nessuna cosa è gra-
ta se non la fede in Giesù Cristo4, con ardente imitazione di
quello in carità e ferma speranza di salute e di premio. Questo
è il vero culto di Dio e non violato da alcuna immondizia di
usanze esteriori e carnali, la qual cosa insegnandone, Giovanni
dice Iddio essere spirito, e quegli che lo vogliono adorare biso-
gna che lo adorino in spirito e verità5. Questo medesimo co-
nobbero ancora alcuni filosofi pagani. Però Platone nella rive-
renza del grande Iddio vuole che si levino tutte le cerimonie
esteriori6 < et Ermete ad Asclepio dice: «Questa cosa è simile a
[un] sacrilegio, quando tu preghi Iddio bruciarli inscenso, e
cose tali>. Perciocché cosa alcuna non manca a lui ch’è il tutto,
et in lui sono tutte le cose, ma noi riferendogli grazie lo dob-
biamo adorare. Questi sono i grandi incensi di Dio: quando gli
uomini lo ringraziano»7. Oltra di ciò cosa non abbiamo più
grata da dare a Dio che lode, gloria e ringraziamento. Né però
alcuno rimproveri i sacrifici della legge mosaica, i riti e le ceri-
monie, quasi che Dio si dilettasse di quelle. Iddio non gli menò
fuora dell’Egitto perché gli facessero sacrificio e gli abbruscias-
sero incensi ma acciocché, scordatisi dell’idolatria de gli Egiz-
zii, udissero la voce del Signore e gli ubidissero in fede et in
giustizia per la salute loro. Ma in quanto Mosè gli ordinò sacri-
ficii e cerimonie, questo lo fece egli compiacendo all’infermità
e durezza del cor loro, lasciando scorrere un poco d’errore per
levargli dalle cose disoneste et acciocché, secondo costume de
Gentili, non sacrificassero a i demonii e non a Dio. Perciocché
queste cose principalmente non furono concesse, ma in conse-
quenza, né quella legge gli puote obligare altramente se non

3
Asserzione condannata dai teologi di Lovanio. Si veda Appendice 2, p. 535.
4
Asserzione condannata dai teologi di Lovanio. Si veda Appendice 2, p. 535.
5
Cfr. GV 4:24.
6
Il riferimento è impreciso e non si trova questa affermazione in Platone.
7
CORP. HERM., Asclep., 41.
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60. DELLE CEREMONIE 269

in quanto era stata approvata dal consentimento del popolo.


Anzi Mosè, quando egli volse dare queste leggi di cerimonie,
raccolse i voti de i vecchi e del popolo per avergli molto mag-
giormente obligati. E però quella legge s’ha potuto mutare se-
condo la varietà de tempi e delle cose, e doveva essere una vol-
ta levata via del tutto. Ma la legge di Dio, che fu data nelle ta-
vole di pietra, è perpetua. Perciocché parlò il Signore per boc-
ca di Geremia: «A che fine mi portate voi incenso da Sabba e
cinnamomo di paesi lontani? Le vittime e sacrificii vostri non
mi dilettano punto»8. Et un’altra volta per l’istesso: «Il Signore
dice queste parole: Raccogliete le vostre vittime co i vostri sa-
crificii e mangiatevi le carni, perché di ciò non ho parlato io a
i padri vostri, e nel dì ch’io gli cavai dell’Egitto non gli coman-
dai né di vittime né di sacrificii, ma gli imposi ben questo par-
lare dicendogli: “Udite la voce mia, et io sarò il vostro Dio e voi
sarete il mio popolo; caminate per tutte le mie strade, in tutte
le cose ch’io vi comanderò e ve ne tornerà bene”»9. Et un’altra
volta dice il Signore per bocca d’Isaia: «Tu non m’hai offerto le
pecore dello olocausto tuo, né mi hai fatto lume ne sacrificii
tuoi, non m’hai servito ne sacrifici, né durato fatica alcuna nel-
lo incenso, né mi hai comprato incenso con argento, né io de-
siderai la grassa de tuoi sacrifici, ma con i peccati tuoi te ne ve-
nisti alla mia presenza. Sopra chi guarderò io dunque, dice
egli, se non sopra l’umile e quieto, e che trema delle parole
mie? Perciocché non le grasse, né le carni leveranno da te i
peccati tuoi. Il digiuno, che io mi ho eletto, dice il Signore, è
questo: sciogliti da ogni nodo d’ingiustizia, rompiti gli intrighi
di tutte le prattiche violente, lascia riposare i travagliati e
squarcia ogni Scrittura ingiusta. Dà mangiare il tuo pane a chi
ha fame, ma di core, e raccogli in casa tua il foristiero che non
ha albergo. Se tu vedrai un nudo, va, e vestilo, e non ischernire
i parenti del tuo sangue. Uscirà allora per tempo il tuo lume e
tosto ti nascerà la sanità, la giustizia t’anderà inanzi e la gloria
di Dio ti sarà d’intorno. E quando tu mi chiamerai, io ti ri-
sponderò subito: “Eccomi a te!”»10. Io non ascondo quel che
già fecero Mosè et Aaron nella sinagoga, e di mano in mano gli

8
GER6:20.
9
Ivi, 7:21-23.
10
IS 43:23-24; 58:6-9.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 270

270 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

altri pontefici, giudici, profeti, fino a gli scribi e farisei; e così


poi nella Chiesa ciò che fu fatto da gli apostoli, evangelisti,
pontefici, sacerdoti e dottori per adornarla come sposa inanzi
al marito con alcune cerimonie pie et eleganti usanze et insti-
tuti; hanno dapoi gli altri che son venuti ordinato molti statuti
e decreti, secondo la infirmità de gli uomini. Ma quello che
spesse volte suole avenire, che ciò che è stato provisto a rime-
dio vada in nocumento, così è avenuto che crescendo queste
leggi di cerimonie oggi sono aggravati i cristiani di più consti-
tuzioni che già non furono i Giudei. E quello ch’è più da do-
lersi, non essendo elleno per sé né buone né cattive, più si con-
fida il popolo in quelle e più strettamente le osserva che i pre-
cetti dati da Dio, mostrando di non veder ciò i nostri vescovi,
sacerdoti, abbati e monaci, i quali in questo mezzo notabil-
mente attendono al corpo loro. Ora benché le cerimonie non
abbiano dato eresia alcuna contra la fede, hanno però intro-
dotto innumerabili sette nella Chiesa e sono stati semi di gran-
dissimi scismi. Di qui prima la Chiesa greca s’è separata dalla
nostra, perché ella non consacra in azimo ma in lievito, con-
fessando però noi che veramente consacra. Dapoi ancora s’è
separata la Chiesa de Boemi, perché secondo l’usanza antica
ella comunica l’eucaristia sotto l’una e l’altra specie < contra le
proibizioni de i pontefici più nuovi11 >. Che se, come dice l’A-
postolo, la circoncisione e’l prepuzio non è nulla ma l’osserva-
re i comandamenti di Dio12, così le cerimonie ancora non sono
niente ma l’osservazione de i precetti della Chiesa. Egli è dun-
que mal fatto nell’uno e nell’altro loco per ogni picciola e de-
bile cagione, che non nuoce punto alla cristiana fede partire
l’unione della Chiesa e dividere il corpo di Cristo, e quello che
il Salvator nostro rinfaccia a i farisei, scorticare un tafano et in-
giottire un camelo13, e travagliando la pace della Chiesa com-
battere in quelle cose, onde più nuocia il danno dello scisma
che non giovi l’emendazione. Avrebbono potuto i pontifici ro-
mani levare di molti mali e conservare la Chiesa pacifica et in-
tiera s’avessero tolerato il lievito de Greci e’l calice de Boemi.
Né sono però queste cose di maggiore importanza che quello

11
Cfr. supra, p. 42, nota 22.
12
Cfr. 1 COR 7:19; GA 5:2-12; RM 2:25-29.
13
Cfr. MT 23:24.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 271

60. DELLE CEREMONIE 271

che Innocenzio VIII, come dice il Volterrano, concesse a Nor-


vegii, che potessero sacrificare il calice senza vino14.

14
Cfr. VOLTER., Comm. urban., III.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 272
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 273

61.
DE I MAGISTRATI DELLA CHIESA

Sono nella Chiesa e magistrati e varie sette d’uomini, parte


per ornamento della religione, parte per conservare l’ordine
delle cose sacre acciocché non nasca confusione. Ma tutto
quello che si fa nella Chiesa o per ornamento o per edificazion
della religione, così in eleggere i magistrati, come instituire i
ministri della Chiesa, se non è fatto con istinto dello spirito di-
vino, il quale è quasi l’anima della Chiesa, è vano è impio. Per-
ciocché ogniuno che non sarà chiamato al grande officio di
Dio et alla dignità dello apostolato dallo spirito di Dio, come
Aaron, e chi non entrerà per l’uscio, ch’è Cristo, ma d’altron-
de ascenderà in Chiesa per la finestra, per favori d’uomini, per
voci comprate, per imperio di principi, veramente costui non è
vicario di Cristo e de gli apostoli ma ladro et assassino, vicario
di Giuda Scarioth e di Simon Samaritano. Perciò gli antichi
padri circa l’elezzione di prelati, la qual cosa il sacro Dionisio
chiama sacramento di nominazione1, così strettamente ordina-
rono che i pontefici e gli apostoli, i quali sono presidenti a i
ministerii nella Chiesa, fossero eletti uomini di vita e di costu-
mi interi, sofficienti a rendere ragione d’ogni cosa nella sana
dottrina; ma cadendo a poco a poco della maestà loro le anti-
che constituzioni de i padri, e pigliando forze con biasimevole
usanza la moderna ragione de pontefici, tali molti pontefici et
apostoli ascendono oggidì sopra la fede di Cristo, quali erano

1
Cfr. DION. AREOP., De eccl. hier., V, 2, 509b-509c.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 274

274 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

già gli scribi e farisei, i quali sedeva sopra la catedra di Mosè,


che dicono e non fanno, legando pesi gravi sulle spalle del po-
polo, et essi non gli vogliono pur movere co’l dito. Ipocriti so-
no e fanno tutte l’opere loro per essere veduti da gli uomini:
facendo mostra della sua religione nelle scene ricercano i pri-
mi luoghi; in coro, nelle sinagoghe, nelle scuole et in ogni lo-
co in piazza vogliono essere chiamati rabi, maestri e dottori2;
serrano la via del cielo e, non v’entrando essi, fanno rimanere
ancora gli altri di fuora; mangiano le case delle vedove facen-
do orazioni lunghe; andando attorno per mare e per terra, sol-
levano e rubbano fanciulli acciocché, ritrovato uno proselito,
accrescano il perduto numero loro3. E per potere, essendo essi
perduti e condannati al fuoco dell’inferno, con le invenzioni e
precetti suoi ruinare di molti altri insieme con esso loro, im-
brattano le santissime leggi di Cristo e non istimando punto il
vero tempio di Dio, le vive imagini di Cristo e gli altari delle
anime del popolo, con occhio avaro tengono cura solo dell’o-
ro e dell’offerte4. Facendo le cose più leggiere, e quasi le sini-
stre della legge, ogni dì nuove cose introducono con diligenza
di decime, d’offerte, di collette e d’elemosine, e strettamente
ordinano le leggi delle cerimonie decimando biade, bestiami,
dinari, e tutte le più minime cose ancora, la menta, l’aneto e’l
comino, e di queste cose a modo di cani abbaiando su pergami
combattono co’l popolo. Ma bene disprezzano affatto le più
gravi e più destre opere dell’Evangelio, della legge e della giu-
stizia cristiana, il giudicio, la misericordia e la fede: scorticano
il tafano, ingiottiscono il camelo5, inciampano in una pietra e
trapassano un sasso grande; guide cieche, false et ingannatri-
ci6, generazione di serpenti7, calici forbiti, sepolture imbianca-
te, mostrando santimonia di fuora nelle mitere, ne i capelli,
nell’abito, nel vestire e nella cocolla, dentro sono pieni di brut-
tura, d’ipocrisia, d’iniquità8, puttanieri, danzatori, istrioni, ruf-
fiani, giuocatori, golosi, ubriachi, maestri di veneni, i quali, co-

2
Cfr. MT 23:1-7.
3
Ivi, 23:15.
4
Ivi, 23:16.
5
Ivi, 23:24.
6
Ibid.
7
Ivi, 23:33.
8
Ivi, 23:25-28.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 275

61. DE I MAGISTRATI DELLA CHIESA 275

me ben nota Giovanni vescovo Camotese9, sono saliti non per


virtù de i meriti loro ma o per sporco servigio, o per rispetto di
doni, o per favore di principi, o per forza d’armi a i sacerdozii,
a i beneficii, a i vescovati, o sotto colore d’ipocrisia s’hanno
queste dignità guadagnato cumulando ricchezze a uso privato
di loro de i beni della Chiesa, i quali sono de poveri, fabrican-
do fiere e mercati nell’elemosine de nostri padri, consuman-
dole poi in giuochi, in puttane, in caccie, in ogni lussuria e di-
sonestà.

Pascon cani e cavalli, per gire a caccia10.

Commovono popoli, travagliano regni, maneggiano guerra,


ruinano chiese fabricate dalla devozione de religiosi padri edi-
ficandone loro palagi, vanno in vesti di porpora e d’oro con
danno grande della plebe, infamia della religione et insoppor-
tabile gravezza della republica, i quali quel santo padre Ber-
nardo di Chiaravalle nella orazione ch’egli fece nel concilio
generale di Rems, alla presenza del papa, diffinì non mercena-
ri per pastori, non lupi per mercenari, ma diavoli per lupi11. Et
ancora il sommo pontefice romano (di che si lamenta quel
santo vescovo Camotese) è gravissimo et intollerabile a ogniu-
no, la pompa e superbia del quale non pareggiò mai tiranno
alcuno, e nondimeno costoro si vantano intanto che in loro so-
li consiste lo stato della religione e della Chiesa, quando essi ri-
buttando adosso altrui i carichi della religione e la parola dello
Evangelio, il quale è officio proprio di pontifici, essi, occupati
in fare le proprie leggi, pigliano la utilità della Chiesa, in un
medesimo tempo oziosi e ribaldi. E perché, come essi dicono,

9
Possibile allusione a Berthold Pürstinger, vescovo di Chiemsee (1465-1543), cui
viene attribuita l’opera intitolata Onus Ecclesiae, pubblicata nel 1524, contenente
un’aspra critica nei confronti del clero e degli abusi della Chiesa, nonché il pro-
gramma di una riforma delle gerarchie della Chiesa.
10
ORAZIO, Ars poet., 162. Il verso di Orazio «gaudet equis canibusque et aprici gra-
mine Campi», che nell’edizione latina Agrippa cita alla lettera, è qui tradotto li-
beramente.
11
Cfr. BERN. DA CHIARAV., Serm ad past. in Syn. congr., 3-4; De convers. ad cleric., XXII,
39. L’allusione è al Concilio di Reims del 1131 tenuto da Innocenzo II per otte-
nere di essere riconosciuto papa legittimo contro Anacleto. Il discorso di apertu-
ra dei lavori fu pronunciato da S. Bernardo di Chiaravalle (ca.1090-1153), il qua-
le intervenne poi a varie riprese nelle discussioni.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 276

276 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

la fede pontificia o approva i santi o fa i santi, perciò credono


che ogni cosa sia lecita loro, di modo che si servono ancora a
disonesti piaceri per la libidine loro e sfaciatamente e malva-
giamente delle sacre cerimonie della Chiesa, le quali i santi pa-
dri con ossarvanza grande ordinarono a instruere gli animi de
gli uomini e per farci acquistare la grazia di Dio, come ne leg-
giamo uno essempio nel Crinito di papa Bonifacio VIII verso il
cardinale Procheto: «Questo è quel Bonifacio, Magno, perché
fece tre cose magne e grandi: la prima fu che avendo inganna-
to Clemente con falso oracolo, gli persuase a rinunziare a lui il
papato; la seconda che compose il sesto libro delle decretali et
affermò che’l papa era signore di tutti; la terza, egli ordinò il
Giubileo, mercato delle indulgenze, e fu il primo che le distese
in purgatorio»12. Io non parlo di quegli altri mostri de pontefi-
ci romani, come papa Formoso13, e nove che dopo lui vitupe-
rosamente ebbero il governo della Chiesa; taccio ancora gli al-
tri più moderni, Paolo, Sisto, Alessandro e Giulio, famosi per-
turbatori della Cristiana Republica14. Lascio stare Eugenio il
quale, per aver violato il giuramento al Turco, pose la cristia-
nità in tante mortalissime guerre, come se non si devesse anco
servare la fede all’inimico15. Ogniuno sa con quanto danno del
popolo cristiano Alessandro VI avvelenò Zizimo fratello di
Baiazeto re de Turchi16. Et ancora i medesimi ambasciatori de
pontefici romani, come dice il Camotese et è chiarissimo per
continua prova, talora nelle provincie di tal modo infuriano
come se fosse mandato Satan dalla faccia di Dio a flagellare la

12
CRIN., De hon. discip., VII, 13. Annotazione a margine di Agrippa: «Tria Bonifacii
facta».
13
Successore di Stefano VI, Formoso fu eletto papa nell’891 e per le sue aderen-
ze con il partito spoletano fu ridotto allo stato laicale e successivamente ristabili-
to nel suo grado da Nicolò I. In seguito, per la vendetta degli spoletani, fu orga-
nizzato un processo postumo contro di lui durante il quale fu proclamato inde-
gno e illegittimo pontefice e i suoi atti ufficiali furono dichiarati senza valore.
14
Probabile allusione ai papi Paolo II (pont. 1464-1471), Sisto IV (pont. 1471-
1484), Alessandro VI e Giulio II (pont. 1503-1513).
15
Allusione al papa Eugenio IV (pont. 1431-1447) e al suo tentativo di porre fine
allo scisma con la Chiesa greca e alla disfatta subita contro i Turchi a Varna nel
1444.
16
La colpevolezza del papa Alessandro VI (pont. 1492-1503) nell’assassinio di
Gem (per i latini Zizim), fratello del sultano Bayazid, non è mai stata provata, ep-
pure la certezza di un avvelenamento durante la permanenza a Napoli di Zizim
nel 1495 a opera del pontefice era largamente diffusa presso i contemporanei.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 277

61. DE I MAGISTRATI DELLA CHIESA 277

Chiesa: conturbano e mettono sottosopra la terra17 acciocché


paiono d’aver cosa che bisogne sanarsi, allegransi quando si
fanno de i mali, giubilando delle cose pessime18, e appena rite-
ner possono il pianto, quando cosa non è degna di pianto. Per-
ciocché mangiano i peccati del popolo, se ne vestono, se ne pa-
scono e lussuriano in quegli. Hanno però gagliardissimi titoli
de i vizii loro, né cosa si può rinfacciar loro la quale costantissi-
mamente non iscusino e non difendano con l’essempio di
qualche santo. Perciocché se sarà rimproverato loro che siano
ignoranti e senza lettere, diranno che Cristo elesse gli apostoli
di questa sorte, i quali non furono maestri della legge, né scri-
bi, né andarono mai a scola19; se gli sarà imputata la barbarie
della lingua, ci addurranno Mosè, che balbettava, e Gieremia,
che non sapeva parlare, e Zacheria ancora il quale, benché fos-
se mutolo, non fu però escluso dal sacerdozio20; et anco se sa-
ranno tassati d’ignoranza nelle Sacre Lettere e d’infidelità, o
d’errore, o d’eresia, diranno che Ambrogio non essendo anco-
ra cristiano, ma gentile, fu eletto vescovo, e Paolo non pure es-
sendo infedele, ma persecutore ancora, fu chiamato all’apo-
stolato, et Agostino anch’egli fu una volta manicheo, e Marcel-
lino martire, essendo papa, diede gli incensi a gli idoli21. E
quando saranno ripresi d’ambizione, ci daranno per essempio
i figliuoli di Zebedeo22; se di timidità, timidi erano Iona e Tom-
maso, quello temendo d’andar a i Niniviti e questo a gli Indi23;

17
Cfr. GB 1:6-7 e 2:1-2.
18
Cfr. PRV 2:14
19
Il testo latino reca: «nec synagogas nec scholas unqam frequentaverint».
20
Cfr. ES 4:10; GER 1:6; LC 1:20.
21
Allusione a Marcellino (pont. 295-304), e all’accusa, che circolò soprattutto ne-
gli ambienti donatisti africani, di aver bruciato incenso sulle are pagane. Il suo
presunto tradimento è ricordato nel Liber Pontificalis (ed. Duchesne, I, pp. lxxiii-
lxxiv, xciv, pp. 162-164), dove però viene anche affermata la sua riabilitazione.
22
Cfr. MT 20:20-28; MC 10:35-45.
23
Cfr. GI 1:1-3 per Giona; per Tommaso la fonte potrebbe essere lo scritto apo-
crifo Atti di Tommaso, pervenuto in una versione greca che risale probabilmente a
un originale siriaco del III sec. In questo testo si racconta che nella divisione a
sorte fatta a Gerusalemme delle terre in cui andare in missione, a Tommaso fosse
toccata l’India. Tantissimi sono i segni che in terra indiana si conservano di un
suo passaggio; tuttavia, la tradizione cristiana è divergente circa la sua sorte: Eu-
sebio, seguito da altri autori, lo dice evangelizzatore dei Parti (Hist. eccl., III, 1, 1);
secondo altri sarebbe sbarcato a Mylapore, l’attuale Madras, dove avrebbe subito
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 278

278 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

se di perfidia, Pietro alla perfidia aggiunse il giuramento fal-


so24; se di fornicazione, Ozea abbracciò una meretrice e Sanso-
ne anch’egli25; se di percussione, se d’omicidio, se dell’arte del-
la guerra, Pietro tagliò l’orecchia a Malco26, Martino fu soldato
di Giugliano27 e Mosè amazzò uno Egizzio e l’ascose nel sabio-
ne28. Di modo che non è d’importanza alcuna appresso loro
qual che si sia chi si fa sacerdote, et allora bisogna che ciascu-
no sottometta il collo alla spada di questi maestri, dico alla spa-
da, non alla spada della parola di Dio, del quale essi devrebbo-
no essere custodi e ministri, ma col coltello dell’ambizione, col
coltello d’avarizia, col coltello delle condannagioni e delle ra-
pine, col coltello del male essempio, col coltello del sangue e
dell’uccisione, col quale saranno contra ogni verità, giustizia et
onestà.

Tutta la forza muor de i regni, allora


che la giustizia pende, e vanno a terra
gli altari col rispetto de l’onesto.
La libertà del male è che mantiene
i regni odiati, e’l modo di punire
tolto via, fa pur far di molti mali29.

Non si può senza pena contradire a le voglie loro, né oppor-


si alla lussuria di quegli, chi non è presto a morire martire per
Cristo. Questo sarebbe un farsi abbrusciare per eretico, sì co-
me intravenne già a Girolamo Savonarola, teologo dell’ordine
di predicatori et uomo il quale aveva spirito di profezia, che fu
abbrusciato in Fiorenza. Ma ogni possanza è buona venendo
da Dio, dal quale vengono tutte le cose, e tutte buone, benché

il martirio e dove ancora oggi si venera la sua tomba (si veda, per es., GREG. NAZ.,
Oratio 33 ad Arian., 11; NICEF., Hist. eccl., II, 40).
24
Cfr. MC 14:26-31, 72; MT 16:22:23; LC 22:54-62.
25
Cfr. ERASMO, Adagia, III, 3, 1; Antib., p. 188. Per il luogo biblico relativo a Osea e
a Sansone e la meretrice, si veda OS 1:2-3 e GDC 14-15, 16:1-22.
26
Cfr. GV 18:10; LC 22:51.
27
Probabile allusione a Martino (ca.330-397), vescovo di Tours, e al periodo gio-
vanile durante il quale fu incorporato nella guardia imperiale a cavallo all’epoca
dell’imperatore Giuliano.
28
Cfr. ES 2:11-14, ma si veda anche FIL. EBREO, De vita Mosis, I, 34-44 e Leg. all., III,
37-39.
29
LUCANO, De bello civ., VIII, 489-492.
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61. DE I MAGISTRATI DELLA CHIESA 279

talora siano cattive a chi le usa et a chi le sopporta; sono però


sempre buone allo universale, provedendo così colui che si
serve in bene i nostri mali. Perciocché Iddio ci manda sopra i
tiranni per la moltitudine de i peccatori, et i peccati del popo-
lo fanno che uno ipocrito ha il governo. Egli è dunque cosa
degna e giusta ubidire a colui che è stato fatto vescovo nella
Chiesa da Dio e non gli contradire in alcuna cosa, perciocché
chi sprezza d’obidire al vescovo et al sacerdote non lo scherni-
sce lui, ma Dio, sì come egli parlò de gli schernitori di Samuel-
lo dicendo: «Essi non hanno schernito te, ma me»30. E Mosè
disse contra il popolo che mormorava: «Non avete mormorato
contra noi, ma contra il Signore Iddio»31. Non rimarrà dunque
senza vendetta del Signore chi si sarà opposto contra il vescovo
e prelato suo. Dathan et Abiron s’opposero a Mosè, e la terra
gli ingiottì vivi. Molti insieme con Chore congiurarono contra
Aaron, e furono consumati dal fuoco. Achab et Iesabel perse-
guirono i profeti, et i cani gli mangiorono. Uscirono i fanciulli
e si fecero beffe di Eliseo, e gli orsi gli straziorono. Il re Ozia
avendo avuto ardire di usurparsi il sacerdozio contra i sacerdo-
ti, diventò leproso. Saul perché ardì sacrificare contra il volere
di Samuel, principe de sacerdoti, in un medesimo tempo fu
privato da Dio del sacramento regale e dello spirito profetico,
e dato in potere dello spirito cattivo32. È cosa infedele il non
credere alle Scritture Sacre et empia il farsi beffe de sacerdoti;
buoni sono i sacerdoti, megliore il vescovo, e sopra tutti santis-
simo il sommo pontifice e principe de sacerdoti, a cui furono
fidate le chiavi del regno del cielo e conmessi i secreti di Dio,
principe secondo Dio e pontefice secondo Cristo, il quale chi
l’onora sarà onorato da Dio, chi lo disonorerà Iddio lo disono-
rerà lui e non potrà fuggire la vendetta.

30
1 SM 8:7.
31
ES 16:8.
32
Cfr. NM 16 e 26:9-10; SAL 106:16-18; ECCLI 45:18-19 per le sommosse di Datan,
Core e Abiram; 1 RE 18:4, 21:17-24, 22:27-40; 2 RE 9:33-37 per Acab e Gezabele; 2
RE 2:23-24 per Eliseo e i fanciulli; 2 CR 26:16-23 per il re Ozia; 1 SM 13:9-14 per
Saul e Samuele.
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62.
DELLE SETTE DE MONACI

Sono ancora nella Chiesa popoli di diverse sorti, monaci,


frati et anacoriti, i quali non erano punto nel Testamento Vec-
chio. La Chiesa anch’ella ne fu senza in quel tempo ch’era ot-
tima e non ancora inviluppata in tante osservazioni di cerimo-
nie. Quegli che oggidì soli s’usurpano il nome di religiosi, han
fatto professione veramente di strette regole di vivere e di san-
tissimi offici, facendo mostra di nomi di lodevoli uomini e di
santissimi padri, sì come di Basilio, di Benedetto, di Bernardo,
d’Agostino, di Francesco e di simili, ma oggidì < pochi sono i
buoni fra loro, ma > de cattivi il numero è grande1. Perciocché
qui ricorrono essi, come a refugio di tutti i malvagi, tutti quegli
che la conscienza delle ribalderie spaventa, i quali per la ven-
detta delle leggi in nessuno altro loco sarebbono securi, i qua-
li hanno commesso peccati che meritano d’essere purgati col
supplicio, quegli che la disonestà della vita ha fatto infami,
quegli ch’avendo consumato le facultà loro in puttane, in
giuochi e nella gola, sono sforzati mendicare per i debiti e per
la vergognosa povertà, e quegli che fuggendo la fatica qui sono
stati cacciati dalla speranza dell’ozio, dalla impaziente dispera-
zione del desiderio fallito, giovani subornati o da ingiusta ma-
trigna o da malvagi tuttori, la squadra di tutti questi sono con-
giunti insieme con simulata santimonia, con abito cocollato e
con mendicità sana. E fanno poi quel mar grande, nel quale

1
Tutto il passo riecheggia ERASMO, Antib., pp. 124-125.
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282 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

insieme con gli altri pesci abitano Leviatan e Behemoth2, bale-


ne smisurate, bestie et animaletti minuti, i quali sono senza nu-
mero; di questo mare escono tante simie di Stoici, tanti inso-
lentissimi accattadinari, tante palliate3 furfanterie, tanti mostri
cocollati, con la barba, con la fune, con la correggia, col sacco,
con le scarpe di corda, co i zoccoli di legno, co i piedi scalzi,
vestiti di scuro, di nero, di grigio, con le cappe bianche, di di-
verso colore, di molte pelli, d’abito di lino, con le reti, co i pal-
lii, con le tonache, incappucciati, imbavagliati, cinti, e con le
bracche, et una gran ciurma d’altri istrionii i quali, non aven-
do credito alcuno nelle cose del mondo, tosto che s’hanno
messo l’abito della mostruosa veste, sono fidate loro le cose di-
vine. Et oggidì essi soli s’usurpano il sacro nome di religione e
vantansi d’essere compagni di Cristo e domestici de gli aposto-
li; la vita di costoro spesse volte è sceleratissima, piena d’avari-
zia, di lussuria, de gola, d’ambizione, di temerità, di poltrone-
ria e d’ogni peccato, ma secura sempre di non essere punita
sotto pretesto di religione. Perciocché fortificati sono con pri-
vilegi della Chiesa romana e sono essenti dalla giuredizzione di
tutte le chiese per potere fare di molte ribalderie e non essere
puniti, e benché essi possano convenire in giudicio tutti gli al-
tri, laddove lor piace, eglino però non possono essere chiama-
ti se non a Roma o in Gierusalem. Ora s’io mi volessi mettere a
scrivere le vanità e gli errori di costoro, non mi basterebbono
tutte le pelli di Madian4, di quegli dico, c’hanno fatto profes-
sion di religione non per conto di bontà, ma si sono vestiti la
cocolla per attendere al corpo5. Né però questo mio parlare of-
fende i buoni, ma voglio che s’intenda de i cattivi soli, i quali
sotto pelli d’agnelli son rapacissimi lupi, et in vestimenti di pe-
core portano dentro nel core astuzia di volpi e sanno così ben

2
Cfr. SAL 74:14, 104:25-26; IS 27:1; GB 40:15-24, 40:25-32, 41. Il Leviathan è un mi-
tico mostro marino che nella mitologia semitica rappresenta i nemici d’Israele.
Beemoth, che in lingua ebraica significa letteralmente ‘bestia’, era in tempi anti-
chi identificato con l’elefante e in seguito con l’ippopotamo. I due mostri, vere e
proprie incarnazioni del male, si distinguono per la loro incredibile forza e in-
vulnerabilità (si veda AGRIP., De occ. phil., III, 28, p. 490).
3
Il termine latino «palliatus» si riferisce al «pallio», ossia la veste tipica dei Greci
e in particolare dei filosofi. Si veda, per es., PLAUTO, Curc., 288; CIC., Philip., V, 14.
4
Cfr. NM 31:32-47.
5
Cfr. ERASMO, Adagia, III, 3, 1.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 283

62. DELLE SETTE DE MONACI 283

coprire l’artificio de gli inganni loro ch’egli si pare ch’altro


non abbiano imparato che una certa ipocrisia di comedia et
uno schietto modo di rubbare immascherato di santità, men-
tre che con pallido volto sembianti fanno di digiunare, et aven-
do sempre le lagrime preste, mandano dal core profondi so-
spiri e, dimenando le labra, fingono di dire orazioni con passo
grave e con movimenti riposati:

Col capo basso avendo gli occhi a terra6.

S’hanno usurpato la modestia e con abito coperto, con la co-


colla indosso, fanno professione di fuora d’umiltà e santimo-
nia, ma dentro hanno con esso loro disonestissimi costumi, e
benché fra queste cose commettano talora tutti i peccati orri-
bili, si salvano nondimeno e restano vincitori, ribattendo tutti i
colpi di fortuna con la cocolla a guisa di scudo, e securi da tut-
ti i pericoli del mondo e dalle molestie civili, mangiano il pane
ozioso e furfantato in cambio di quello che s’acquista con le fa-
tiche, dormendo agiatamente e senza pensieri. E credonsi che
questa sia la povertà evangelica: vivere in ozio e furfanteria del-
le fatiche altrui, e facendo essi professione di grande umiltà,
andando in abito vile, scalzi come contadini, imbavagliati co-
me istrioni, cinti di fune come ladroni presi, col capo raso co-
me pazzi, nella cocolla, dall’orecchie et i campanucci infuora,
molto simili a i buffoni et alle maschere di Carnovale, e van-
tandosi d’aver tolto in loro tutti gli altri segni d’infamia e di
viltà per amore di Cristo e della religione, si lasciano però vin-
cere dall’ambizione e trasferiscono tutto il modo delle regole
loro in arrogantissimi titoli. E vantansi d’essere chiamati para-
nimfi, rettori, guardiani, presidenti, priori, vicarii, provinciali,
abbati e generali, di modo che non si ritrova generazione
d’uomini che tanto desideri il primo loco quanto questa. Non
ci mancano di molti altri mali che malamente di costoro si po-
trebbono dire, ma già ne sono iti inanzi di quegli che n’hanno
predicato con vituperio grandissimo, di maniera che non pure
hanno vituperato e posto in vergogna molti buoni e padri ve-
ramente religiosi e di santa vita, ma le ordinazioni ancora e le
regole del ben vivere de i santi padri, la onde io non voglio qui

6
PERSIO, Sat., III, 80.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 284

284 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

aver detto nulla in biasimo di coloro i quali drittamente cami-


nando nelle professioni loro, et imitando i vestigi di quei santi
padri, aspirano al colmo della perfezzione. Io confesso che le
regole e le professioni loro sono sante, e confesso che oggidì ci
sono di santi monaci, di santi frati mendicanti, di santi romiti,
di santi canonici regolari, ma nondimeno si trovano anco fra
loro assaissimi infedeli, ribaldi et apostati, da i quali si vergo-
gna la profession della religione. E questo fu l’intento nostro
d’aver voluto mostrare che non fu mai professione sì casta d’al-
cuna religione nella quale non sia entrata macchia d’errore e
di malizia, perciocché leggiamo che gli angeli furono ribelli, et
i primi fratelli omicidi, et i profeti malvagi, gli apostoli tradito-
ri et i discepoli di Cristo perfidi. E fra i pontefici romani, oltra
molti scismatici e ribaldi, vi furono anco de gli eretici, et una
volta ancora una femina ascese al colmo di tanta dignità, la
quale fu chiamata Giovanni VIII, e lodata da ogniuno governò
la fede apostolica due anni con alcuni mesi e giorni, e quello
che alle donne è vietato nella Chiesa, diede gli ordini sacri,
creò vescovi, ministrò sacramenti e fece tutti gli altri ufficii de i
pontefici romani7. Né però i fatti di lei furono dannati nella
Chiesa perché l’error comune faceva ragione, il quale crescen-
do, credo che la Chiesa sforzata allora dissimulò molte cose, le
quale in altro tempo il rigore della religione comportato non
avrebbe, di maniera che nelle religioni cosa non si può ritrova-
re intiera, stabile e perpetua. Ma tutti quegli ch’introducono
sette nella Chiesa di Dio, e per compiacere a se stessi, per ca-
gione di guadagno, o per gloria di finta santità, si ribellano dal-
la principale Chiesa romana, questi come Nadab et Abiù,
ch’offerivano l’altrui fuoco allo altare di Dio, da lui saranno
abbrusciati8. E quegli che insuperbiti e di malvagio parere ri-
trovando delle eresie ardiscono di levarsi contra la Chiesa di
Dio, insieme con Dathan et Abbiron ingiottiti vivi dalla voragi-

7
Secondo una leggenda, dopo l’anno 855, tra Leone IV e Benedetto III la sede
apostolica sarebbe stata occupata per due anni e sette mesi da una giovane don-
na di Magonza o d’Inghilterra la quale, compiuti i suoi studi ad Atene in vestito
da uomo, sarebbe poi divenuta papa e infine scoperta in seguito a un parto oc-
corsole durante una processione che le causò la morte. Il racconto appare per la
prima volta in parecchie cronache verso la metà del XIII secolo e poco dopo si
venne largamente a diffondere incontrando quasi universalmente credenza fino
al XVI secolo.
8
Cfr. LV 10:1-2.
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62. DELLE SETTE DE MONACI 285

ne della terra descenderanno allo inferno9. Ma quegli che


rompono l’unione della religione, e partendo le membra di
Cristo affligono la Chiesa di Dio, della medesima pena che fu
punito Gieroboam castigati saranno10.

9
Cfr. NM 16:25 e 26:9-10; DEUT 11:16. Abbiron sta per «Abiram», che insieme al
fratello Datan, si ribellò all’autorità di Mosè.
10
Cfr. 1 RE 14:10-18.
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63.
DELLA ARTE MERETRICIA

Ora, perché appresso gli Egizzii, primi auttori delle religio-


ni, non si poteva fare sacerdote alcuno il quale prima non fos-
se stato introdotto ne sacrificii di Priapo1, et essendo approvato
nella nostra Chiesa che chi non ha testicoli non possa essere
papa, né potendosi ordinare sacerdoti spadoni, eunuchi e ca-
strati, e publicamente veggendosi che dove sono queste chiese
magnifiche, e collegii di sacerdoti e di monaci, per lo più vi so-
no appresso luoghi disonesti, et anco essendo assaissime case
di monache, di suore e di pizzochere come chiassi privati di fe-
mine publiche, le quali sappiamo ancora che i monaci et i reli-
giosi (per non dare infamia alla castità loro) s’hanno talora
mantenuto ne monasteri sotto cocolla di monaco e vestimenti
d’omo, mi è paruto che non sia stato fuor d’ordine aggiungere
qui appresso il ragionamento dell’arte delle puttane, la quale
arte parecchi uomini savissimi hanno giudicato non solo utile,
ma necessaria ancora al governo d’una bene ordinata republi-
ca. Perciocché Solone, quel grande uomo che fece le leggi a gli
Ateniesi, e giudicato dall’oracolo d’Apolline uno di sette savi,
sì come testimoniano Filemone e Menandro, provide a i giova-
ni di puttane comprate e fu il primo che dedicò il tempio di

1
Il culto di Priapo, dio della fecondità e della rigogliosa fertilità della natura, ori-
ginario dell’Asia Minore (era venerato soprattutto a Lampsaco sull’Ellesponto),
si estese a tutta la Grecia, e di lì passò poi a Roma. Per la particolare prestanza dei
suoi attributi della virilità, Priapo venne anche considerato dio della libidine e
della lussuria e il suo culto assunse un aspetto licenzioso e sfrenato.
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288 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Venere Pandemi dalle prigionie delle femine ch’erano in


chiasso, ordinò egli i luoghi publici disonesti, fece una legge e
la fortificò ancora con essenzione concessa alle puttane2. E fu-
rono in tanta riverenza tenute le puttane in Grecia che quando
Perse fece l’impresa contra Greci, le puttane corinzie andaro-
no a supplicare nel tempio di Venere per la salute della Grecia.
Avevano ancora questa usanza i Corinzii, che essendosi per
supplicare di qualche gran cosa a Venere, questa impresa si da-
va alle meretrici3. Furono fabricati in Efeso molti tempii di put-
tane, et un altro famoso n’edificarono gli Abideni per avere
col mezzo d’una meretrice ricovrato la libertà perduta4. Oltra
di ciò quel gran savio Aristotele non si vergognò d’onorare le
puttane con divini onori quando sacrificò a Ermia sua femina
come a Cerere Eleusina5. L’invenzione di questa arte s’attribui-
sce a Venere, la quale meritò per questo d’essere posta nel nu-
mero delle dee6. Perciocché essendo ella impudica et adoprata
in ogni qualità di lussuria, insegnò alle femine di Cipro a com-
piacere gli uomini del suo corpo per dinari7, onde nacque una
usanza in Cipro, come racconta Giustino, che le fanciulle loro
si mettevano in publico inanzi il tempo delle nozze sulla riva
del mare a guadagnarse la dote et a pagare a Venere le primi-
zie della castità loro8. I Babilonii ancora, come testimonia Ero-
doto, servavano un costume che quegli ch’avevano consumato

2
Cfr. ATEN., Deipn., XIII, 569d-569f, dove però le fonti menzionate sono Filemone
(fr. 3, ed. Kassel-Austin) e Nicandro di Colofone (fr. 271/2, F 9a, ed. Jacoby) non
Menandro.
3
Ivi, XIII, 573c-d. (si veda CAMELEONTE, fr. 31, ed. Wehrli e TEOPOMPO, fr. 115 F
285a, ed. Jacoby). L’episodio che riguarda le suppliche rivolte a Venere Afrodite
per infondere negli uomini la brama di combattere contro i Persiani durante la
spedizione di Serse contro i Greci nel 480 a.C., è narrato anche in PLUT., Mor.,
371b, dove però a pregare sono le matrone corinzie e non le etère.
4
Cfr. ATEN., Deipn., XIII, 527e-573a. Il tempio si trovava ad Abido, l’antica colonia
fondata da Mileto sulla costa tracica nell’Ellesponto (si veda PANFILO, fr. 29, ed.
Schmidt e NEANTE DI CIZICO, 84, F9, ed. Jacoby).
5
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De studio div. et hum. phil., II, 3; DIOG. LAERZ., Vitae philos.,
V, 1, 4. Secondo la versione di Diogene Laerzio, la cui fonte è l’opera di Aristippo
intitolata Della lussuria degli antichi, Aristotele si sarebbe innamorato di una con-
cubina di Ermia, suo amico e tiranno di Atarneo. Per quest’ultimo, invece, Ari-
stotele avrebbe composto un inno che gli valse l’accusa di empietà e, nel 323 a.C.,
l’esilio a Calcide di Eubea, dove morì l’anno seguente (si veda DIOG. LAERZ., Vitae
philos., V, 1, 5-8; ATEN., Deipn., XV, 696a-697a).
6
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., III, 17.
7
Ibid.
8
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., III, 17; GIUST., Epit., XVIII, 5.
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63. DELLA ARTE MERETRICIA 289

la facultà loro mandassero le sue figliuole a far guadagno co’l


corpo9. Et Aspasia meretrice di Socrate, secondo che scrive
Ateneo, riempì tutta la Grecia di puttane, per amore della qua-
le, e delle ministre sue rapite da Megaresi, dice Aristofane che
Pericle mosse la guerra della Morea10. Questa arte meretricia
fu molto inalzata da Eliogabalo imperatore il quale, come te-
stimonia Lampridio, ordinò in casa bordelli a gli amici, a i
clienti et a i servi, e fecegli grandissimi convivii di ventidue sor-
ti di vivande con condizione che gli invitati per ogni vivanda
che venisse in tavola avessero a usare una volta con le femine e
lavarsi, et erano obligati per giuramento a pigliarsi questo pia-
cere. Comperò anco più volte le meretrici da tutti i ruffiani e le
mise in libertà, delle quali leggesi che ne comperò una bellissi-
ma e formosissima puttana per trenta libre d’argento. Dicesi
ancora che un giorno egli andò a tutte le meretrici di Circo
Massimo, del teatro, dell’amfiteatro e di tutti i luoghi della
città, e donò loro un ducato d’oro per ciascuna. Alcuna volta
ancora ragunò nel palazzo publico tutte le puttane del Circo,
del teatro, dello studio e di tutti i luoghi e bagni, e quivi fece
loro una orazione quasi militare, chiamandole commilitoni
suoi, e tenne disputa delle figure e de i modi de piaceri, e do-
po l’orazione, come elle fossero state soldati, fece numerare lo-
ro in dono tre ducati per ciascuna. E parimente concesse alle
matrone romane ch’avessero voluto diventar meretrici che
non solo fossero sicure dalla pena, ma essenzione e privilegi, et
ordinò alle puttane salarii del publico tesoro. Appresso questo
publicò alcune ordinazioni amatorie e meretrice, e comandò
che fossero chiamate semiramidi dal nome della madre o della
moglie sua11. Ritrovò ancora alcuni modi di lussuria co i quali
cercò di vincere i numeri d’una Cirena femina disonestissima
(la quale, detta Dodecamecana perché aveva ritrovato dodici
modi da usare nel coito co i quali l’amico ne prendesse mag-
gior diletto, fu cognominata voragine di lussuria) e s’ingegnò
di superare tutte le antiche Tribadi, Ostie, Afie, Sfintrice, Ca-

9
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., III, 17; EROD., Hist., I, 196.
10
Cfr. ATEN., Deipn., XIII, 569f, 599b; ARISTOF., Acharn., 515-539.
11
Cfr. CRIN., De hon. discip., XI, 8; ELIO LAMP., Antonin. Heliogab., IV, 4. L’allusione è
a Giulia Soaemias Bassiana, detta Symiamira, madre dell’imperatore Antonino
Eliogabalo, la quale istigò il figlio a promulgare una serie di decreti riguardanti il
modo di vestire delle matrone, i gioielli adeguati da indossare e come esse doves-
sero comportarsi in pubblico e in privato. Symiamira non va qui confusa con la
regina assira Semiramide, di cui si veda infra, nota 26, pp. 291-292.
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290 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

salvade, Casirite12, et altre femine di luoghi disoneste13. Taccio


di Giuda, patriarca d’Israel, puttaniere, e di Sansone, giudice
del popolo di Dio, il quale non ebbe mogli se non meretrici, e
Salomone, sapientissimo re de Giudei, il quale dicesi ch’ebbe
le mandrie de concubine quasi senza numero14. Non parlo di
Cesare dittatore, uomo valorosissimo, per questa cagione chia-
mato marito di tutte le donne, né di Sardanapalo, monarca di
Babilonii, e d’altri infiniti potentissimi difensori delle meretri-
ci. E Proculo imperatore anch’egli non riportò l’ultima gloria
di questa arte, il quale, come ne fa testimonio una sua epistola
a Meziano, di cento vergini sarmatiche ch’egli aveva preso, die-
ci la prima notte n’assaggiò, e tutte l’altre corruppe in quindi-
ci giorni15. Ma egli è molto più quello che dicono i poeti d’Er-
cole, che egli cinquanta donzelle fece tutte donne in una not-
te16. Racconta Teofrasto, auttor grave, che si ritrova una certa
erba in India della quale mangiandone alcuno arrivò settanta
volte a i piaceri di Venere17. Nel rimanente ebbe questa arte
grandissimo ornamento da Saffo poetessa, innamorata di Fao-
ne18 e da Leonzio, femina di Metrodoro, dottissima in filosofia,
di modo che compose libri contra Teofrasto per difendere il
puttanesimo contra il matrimonio19. Con queste va Sempronia,
elegantissima in greco et in latino. Né qui s’ha da tacere di

12
Il testo latino aggiunge: «prostibulas», qui mancante.
13
Cfr. ELIO LAMP., Antonin. Heliogab., XXIV, 2-3; XXV, 5; XXX, 3-5; XXXI, 1;
XXXII, 9.
14
Cfr. GEN 38:12-26; 1 RE 11:1-3.
15
Cfr. FLAV. VOP., Firmus, Saturninus, Proculus et Bonosus, XII, 7.
16
Cfr. PAUS., Descr. Graec., IX, 27, 6. Ma la leggenda viene tramandata con alcune
varianti: secondo DIOD. SIC., Bibl. hist., IV, 29, 2-3 Eracle durante un banchetto sa-
rebbe soggiaciuto con le cinquanta ragazze, figlie di Tespio, una dopo l’altra; se-
condo APOLLOD., Bibl., II, 4, 10, Eracle avrebbe trovato ogni notte una ragazza di-
versa ma, stanco per la caccia, avrebbe creduto che si trattava sempre della stessa;
secondo ATEN., Deipn., 556f, la cui fonte è Erodoro di Eraclea (ca.400 a.C.), Eracle
tolse la verginità alle cinquanta ragazze in sette giorni.
17
Cfr. TEOFR., Hist. plant., IX, 9, 1.
18
Sulla storia d’amore tra Saffo e Faone, si veda NINFODORO, 572 F6 (ed. Jacoby).
Agrippa qui si riferisce chiaramente alla poetessa lirica vissuta fra il VII e il VI sec.
a.C. Secondo una diversa tradizione, tuttavia, ci furono a Lesbo due Saffo, la poe-
tessa e un’etèra sua omonima (si veda ELIANO, Var. hist., XII, 19), e a innamorarsi
di Faone sarebbe stata quest’ultima (si veda ATEN., Deipn., XIII, 596e).
19
Su Leonzio, etera ateniese concubina di Metrodoro di Lampsaco (331/30-
278/77 a.C.), si veda DIOG. LAERZ., Vitae philos., X, 22-23; ATEN., Deipn., 588b. Sulla
tradizione secondo la quale Leonzio avrebbe scritto una confutazione a Teofra-
sto, si veda CIC., De nat. deor., I, 93.
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63. DELLA ARTE MERETRICIA 291

Leena femina di Aristogitone Ateniese, donna di constantissi-


ma fede, la quale tormentata da i tiranni acciocché ella pale-
sasse l’amico suo, con silenzio ostinato sopportò tutti i tormen-
ti20. Nobilitò questa arte ancora Rodope meretrice, conserva e
compagna di Esopo favolatore, la quale acquistò tante ricchez-
ze co’l guadagno del corpo suo che edificò una piramide, ter-
za in ordine fra gli spettacoli del mondo21. Appresso questa va
Taide corinzia, la quale di famosissima bellezza essendo, non
degnava abbracciamenti se non di re e di principi22. Ma sopra
tutte l’altre onorò questa arte Messalina, moglie di Claudio im-
peratore, la quale visitando i chiassi vinse una fante nobilissi-
ma fra le compagne tra il dì e la notte di più che venticinque
coiti, e si partì stanca da gli uomini ma non sazia ancora23. Alle
quai potremmo aggiungere di più fresca memoria Giovanna il-
lustre regina di Napoli24, e molte altre principesse puttane e
cortigiane di palazzo, se si potessero securamente nominare,
benché elle siano per divulgata fama molto conosciute, in que-
sto però differenti dalle altri meretrici, che contra la legge d’E-
liogabalo non ne i luoghi disonesti25, ma nelle camere secreta-
mente si danno piacere e quasi di nascoso puttaneggiano. Po-
tremo mettervi ancora l’una e l’altra Giulia figliuola e nepote
di Ottaviano Augusto, Populea e Cleopatra reina d’Egitto, et
altre nobilissime meretrici, e numerarvi ancora gli antichissimi
essempi di lussuria di Semirami monarca e di Pasifae, la prima
delle quali ardeva di tanta rabbia che non pure ricercò d’ab-
bracciamento il proprio figliuolo, ma s’innamorò ancora d’un
cavallo et usò con esso26, l’altra, moglie del re Minos, si sotto-

20
Cfr. ATEN., Deipn., XIII, 595e-f; PAUS., Descr. Graec., I, 23, 1-2; PLIN., Nat. hist.,
XXXIV, 19, 72. Sulla vicenda della congiura dei Pisistratidi in cui fu coinvolta
Leena, si veda PLUT., Mor., VIII, 505e-f.
21
Sulla leggenda di Rodopi, etèra tracia che fu schiava insieme a Esopo, e della pi-
ramide di Micerino da lei costruita a Giza, si veda EROD., Hist., I, 134; II, 135; DIOD.
SIC., Bibl. hist., I, 64; PLIN., Nat. hist., XXXVI, 17, 82.
22
Qui Agrippa fa qualche confusione sui nomi delle etère: Laide, la famosa etèra
di Corinto, è conosciuta per i suoi amori con Aristippo e Diogene di Sinope (si
veda test. 60, ed. Mannebach; test. V B213, ed. Giannantoni; ATEN., Deipn., XIII,
570b-e; 588b-589b). Taide, invece, sarebbe l’etèra ateniese amata da Alessandro
Magno (si veda ATEN., Deipn., 576d-e).
23
Cfr. GIOVEN., Sat., VI, 114-120.
24
Giovanna II d’Angiò (1371-1435), regina di Napoli, sposa di Guglielmo d’A-
sburgo prima e in seguito del conte Giacomo di Borbone, famosa per i suoi mol-
teplici amori.
25
Il testo latino aggiunge: «ut Messalina illa imperatrix», qui mancante.
26
Cfr. OROSIO, Hist. adv. pag., I, 4, 7; GIUST., Epit., I, 2, 11. Per Semiramide, leggen-
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292 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

pose a un toro27. Io non voglio in questo loco fare un catalogo


delle puttane illustri, ma questo non è già da tacere che gli ab-
bracciamenti delle meretrici et adulterini ci hanno generato di
splendidissimi eroi come Ercole, Alessandro, Ismael, Abime-
lech, Salomone, Costantino, Clodoveo re di Francia e Teodori-
co de Goti, Guglielmo normanno e Raimiro d’Aragona. Ma di
quei re ch’oggidì regnano e governano assai pochi nati ne so-
no di legittime madri, e sono così poco stimate appresso di lo-
ro le ragioni del matrimonio ch’a lor piacere riputano, cam-
biano e barattano le sposate, giuste e vere mogli, e similmente
giungono e congiungono i figliuoli e le figliuole in tante nozze
e matrimonii che siamo costretti non sapere quale sia il loro
vero e legittimo matrimonio. Di questo mi si parano avanti
molti essempi, ma alcuni che sono avenuti questi anni passati
ci sodisfanno per tutti: Ladislao re di Polonia, poi che ebbe tol-
to per moglie la Beatrice, per la quale ottenne il Regno d’Un-
gheria, non ha egli finalmente, repudiata quella, toltane un’al-
tra concubina di Francia? Carlo VIII re di Francia, rifiutata
Margherita figliuola dello imperatore Massimiliano, non ha
egli rapito la sposa di lui e toltala per moglie? La quale mede-
sima donna dopo lui Lodovico XII, rifiutata la sua in simil mo-
do, s’ha pigliato per moglie, consentendo a queste cose e dan-
dogli aiuto i vescovi del regno et i pontefici a i quali è paruto
che più si debbano stimare le ragioni d’acquistare la Brettagna
che le ragioni di osservare il legittimo matrimonio. Et oggidì
odo dire ch’è stato persuaso a non so qual re che e’ possa li-
cenziare la moglie sua di più di venti anni e maritarsi a una
concubina28. Ma ritorniamo alle puttane, l’arti delle quali s’al-
cuno o che le voglia conoscere, cioè in che modo mettano in

daria regina assira del IX sec. a.C. e fondatrice della città di Babilonia, si veda an-
che EROD., Hist., I, 184; DIOD. SIC., Bibl. hist., II, 4 sgg. La sua condotta lasciva e in-
cestuosa è ricordata anche da Dante in Inferno, V, 52-60.
27
Per il mito di Pasifae e del toro, si veda DIOD. SIC., Bibl. hist., IV, 60; VIRG., Bucol.,
VI, 46 sgg.; APOLLOD., Bibl., III, 1, 2 e III, 1, 3-4; OVID., Metam., IX, 736-740 e VIII,
136-137. Molti Greci di epoca più tarda mostrarono di non gradire il mito di Pa-
sifae e preferirono credere che la fanciulla ebbe rapporti non con un toro, ma
con un uomo chiamato Tauro (si veda PLUT., Thes., 19).
28
Probabile allusione a Enrico VIII e al suo divorzio da Caterina d’Aragona, figlia di
Ferdinando il Cattolico, in favore della dama di corte Anna Bolena. La richiesta di
divorzio, presentata dal sovrano inglese e rifiutata dal papa Clemente VII, fu accol-
ta dal parlamento inglese nel 1529 e successivamente nel 1531. La questione fu li-
quidata definitivamente con la promulgazione nel 1534 dell’Atto di supremazia, con
il quale si stabiliva che il re era il capo supremo della Chiesa inglese.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 293

63. DELLA ARTE MERETRICIA 293

publico la pudicizia loro, con che lascivia d’occhi, con qual


maniera di volto, con quale atto di corpo, con quai lusinghe di
parole, con quai disonesti maneggiamenti, con quale abito e li-
scio esteriore incitino le persone lascive, e l’altre astuzie del-
l’arte puttanesca, nodi, lacci e malicie, leggale appresso i poeti
delle comedie. Ma chi desidera sapere con che modo, con che
piacevolezza, con che sguardo, con che parlare, con che baci,
con che carezze, con che toccamenti, con quai stringimenti,
con quai capestrarie, con che lotte, con che maniera, con quai
losinghe, con che costumi, con che spinte, con quali acco-
glienze, con che dipartenza, con qual prolungazione di piace-
re, con quale scambiamento e con quale rinovazione s’abbia
da compire il giuoco delle meretrici, lo troverà scritto ne i vo-
lumi de i medici. Hanno scritto libri delle puttane Antifane,
Aristofane, Apollodoro, Calistrato29, ma particolarmente Cefa-
lo oratore scrisse le lodi di Laide meretrice, et Alcidamo an-
ch’egli compose in laude di Naide donna di pari essercizio30.
De i disonesti amori hanno scritto così Greci, come Latini, Cal-
limaco, Filete, Anacreonte, Orfeo, Alceone, Pindaro, Saffo, Ti-
bullo, Catullo, Properzio, Vergilio, Giovenale, Marziale, Corne-
lio Gallo e molti altri, i quali non pure si sono mostrati poeti
ma ruffiani ancora. Ma Ovidio gli ha vinto tutti nelle epistole
erotiche e nelle scritte a Corinna, ma specialmente nel libro
Dell’arte d’amore, il quale meglio avrebbe intitolato Dell’arte di
puttaneggiare o di ruffianare, i quai libri per avere egli publicati,
e con lascivi ammaestramenti corrotto la gioventù, meritamen-
te fu mandato in bando da Ottaviano Augusto fino in Mosco-
via31. Archiloco Lacedemonio anch’egli fece già brusciare tutti
i libri di amore32, e nondimeno questa arte oggidì si legge da

29
Cfr. ATEN., Deipn., XIII, 567a e 591d. Ateneo attribuisce a una serie eterogenea
di autori, tra i quali Antifane di Atene (II sec. a.C.), Aristofane di Bisanzio (III-II
sec. a.C.), Apollodoro di Atene (II sec. a.C.) e Callistrato di Alessandria (II sec.
a.C.), un gruppo di testi in cui le etère figuravano come motteggiatrici.
30
Cfr. ATEN., Deipn., XIII, 592c. La notizia di Agrippa è tuttavia imprecisa: si tratta,
infatti, secondo la versione di Ateneo, degli encomi dell’oratore Cefalo (V-IV sec.
a.C.) per l’etèra Lagide, e di Alcidamante di Elea (IV sec. a.C.), allievo di Gorgia,
per l’etèra Naiade, di cui si veda: fr. 2 (ed. Baiter-Sauppe) per Cefalo; test. 1 (ed.
Avezzù) per Alcidamante.
31
Il testo latino reca: «ad Getas». Il riferimento è all’esilio comminato a Publio
Ovidio Nasone dall’imperatore Augusto nell’8, che il poeta latino scontò a Tomi
(oggi Costanza, in Romania), all’epoca un porto commerciale di Greci circonda-
to da popolazioni barbariche, i Geti e i Sarmati, che razziavano continuamente la
campagna circostante.
32
Cfr. VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., VI, 3, Ext. 1, dove però si dice che i Lace-
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294 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

noi, et i mastri di scuola la leggono a suoi discepoli e dichiara-


no facendovi sopra di sceleratissimi comenti. Ma che è più,
nuovamente ho veduto e letto io un libro scritto in lingua ita-
liana, intitulato La cortigiana, e stampato con caratteri di La-
magna, dialogo dell’arte meretricia, disonestissimo sopra tutti
gli altri nell’una e l’altra Venere, dignissimo d’essere arso in-
sieme con l’auttor suo33. Lascio di dire qui, e veramente a bello
studio, l’abominevole lussuria de cinedi e de sodomitti, ben-
ché il magno Aristotele la comendi34 e Nerone imperatore la
onorassi con publico matrimonio nel tempo che Paolo aposto-
lo scrivendo a i Romani gli minaccia dell’ira dell’onnipotente
Iddio35, perciocché pioverà sopra di loro il Signore lacci sì che
non potranno fuggire: il fuoco, il solfo e lo spirito delle fortu-
ne saranno parte del calice loro36. Contra questi comanda l’im-
peratore che si levino le leggi e s’armi la giustizia, e vuole che
dopo supplici esquisiti sia loro tagliato il capo; ma oggidì s’ab-
brusciano, la quale lussuria volse Mosè nelle leggi sue ch’ella
fosse svelta con pene crudeli37 e Platone la cacciò della sua Re-
publica e la dannò nelle Leggi38. Gli antichi Romani anch’essi,
come testimonia Valerio e gli altri, severissimamente la puniro-
no39. Di ciò furono essempi Q. Flaminio e quel tribuno ucciso
da Celio40, ma avendo noi rispetto alle oneste orecchie, parten-
dosi da questa mostruosa libidine e bestiale immondizia, ne ri-
torneremo alle meretrici. Perciocché questa lussuria ha dato
che fare a tutti, e non è alcuno che non abbia talora sentito il
fuoco di quella. Ma d’un modo ardono le femine, d’uno altro
gli uomini; d’una maniera i giovani, d’un’altra i vecchi; d’una
guisa i plebei, d’un’altra i nobili; d’una foggia i poveri, d’una
altra i ricchi. E quello ch’è più da maravigliarsi, secondo la di-

demoni misero al bando i libri di Archiloco perché giudicati immorali. Si veda


anche PLUT., Mor., 239b e supra, p. 50.
33
Probabile allusione alla commedia di Pietro Aretino intitolata La Cortigiana, la
cui prima redazione risale al 1525.
34
Cfr. ARIST., Polit., 1272a.
35
Cfr. RM 1:18-32; 2:5-8.
36
Cfr. SAL 11:6; DEUT 28. Si veda anche il commento del salmo biblico in AGOST.,
Enarr. in ps., X, 10-11.
37
Cfr. LV 3:13.
38
Cfr. PLAT., Rep., 403a-b e Leg., 835d-842a.
39
Cfr. VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., IX, praef. e sgg.
40
Per Lucio Quinto Flaminio, noto per la sua omosessualità, si veda LIV., Ab Urbe
cond., XXXIX, 42, 8; PLUT., Titus Flamin., XVIII; per Celio, si veda QUINT., Instit.
orat., X, 1, 115.
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63. DELLA ARTE MERETRICIA 295

versità delle nazioni e de paesi: a un modo gli Italiani, a un al-


tro gli Spagnuoli, a un altro i Francesi, a un altro i Tedeschi,
eleggendosi in questo modo col fuoco della lussuria la diffe-
renza diverse maniere di impazzare secondo la qualità del ses-
so, della età, della dignità, della condizione e del paese: l’amor
de gli uomini è più ardente, ma quel delle donne più ostinato;
l’amor dei giovani è lascivo, e de i vecchi ridicolo; il povero
s’ingegna di piacere con servitù, il ricco con doni; i plebei con
convivii, i nobili con pompa e con giuochi. L’ingegnoso italia-
no, tenendo l’amor suo coperto, assale la donna amata con
una certa adornata lascivia, la loda con versi composti e, met-
tendola sopra l’altre, l’inanza al cielo; se la ottiene, geloso, per-
petuamente la rinchiude e le mette le guardie sì come a pri-
gioniera; se ingannato d’amore sarà disperato d’averla giamai,
volgendosi a dirne male, la vitupera con infiniti villanie. Lo
spagnuolo precipitoso, impaziente dell’ardore, furioso con tra-
vagliata lascivia trascorre, e con miserabili lamenti il suo fuoco
piangendo, invoca et adora la amata sua; s’egli ha l’intento
suo, finalmente o geloso l’ammazza o sazio la tiene a guada-
gno; s’egli è costretto a desperare d’ottenerla, s’afflige da se
stesso e delibera morire. Il lascivo francese si sforza di servirla,
cerca di dilettare la donna sua con canti e con piaceri; s’è pre-
so dalla gelosia, maninconico piange; se manca di speranza, le
fa villania, minaccia di vendetta e prova di usar forza; se la ot-
tiene, finalmente la sprezza et innamorasi d’un’altra. Il freddo
tedesco lentamente s’accende; innamorato, tenta le arti e la
combatte con doni; fatto geloso, raffrena la liberalità; mancan-
do di speranza, non la prezza; ottenendola si raffredda. Il fran-
cese finge d’amare, il tedesco nasconde l’amore, lo spagnuolo
si persuade d’essere amato, l’italiano non sa amare senza gelo-
sia. Il francese ama la donna allegra, benché brutta; lo spa-
gnuolo ama la bella, benché goffa; l’italiano la vorrebbe più to-
sto timidetta; il tedesco la desidera un poco più ardita. Il fran-
cese, ostinatamente amando, di savio diventa pazzo; il tedesco,
dapoi che ha speso in amore tutte le facultà sue, divien savio,
ma tardi; lo spagnuolo, per desiderio di piacere alla donna
amata, tenta ogni grande impresa; l’italiano, per ottenere la
donna sua, si mette ad ogni grandissimo pericolo. Ma che più,
gli uomini grandissimi ancora allacciati nelle passioni di questi
amori e libidini, spessissime volte non cureno di molte genero-
se imprese e se le mandano dopo le spalle, nel modo che già fu
Mitridate in Ponto, Annibale in Capua, Cesare in Alessandria,
Demetrio in Grecia, Antonio in Egitto. Ercole si rimase già dal-
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 296

296 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

le imprese per Iole, Achille lasciò di combattere per Briseide,


Circe ritenne Ulisse, Claudio morì in prigione per Virginia,
Cesare fu impedito per Cleopatra, e quella medesima fu la rui-
na d’Antonio. Dicono le Sacre Lettere che per la fornicazione
de figliuoli di Seth con le figlie di Cain quasi tutto il genere
umano fu estinto col diluvio; per la furia della fornicazione fu-
rono ruinati Sichem, la casa di Emor, e quasi tutta la tribù di
Beniamin41. Quante volte fu percosso e dato in servitù il popo-
lo d’Israel per aversi congiunto con le donne straniere? E solo
per l’adulterio del re David quanta mortalità fu fatta con la pe-
ste, con la fame e con la spada42? Per i lascivi amori e rapini di
femine, combattuti e ruinati furono i Tebani, i Focesi et i Cir-
cei e, come abbiamo detto, Pericle fece l’impresa della Morea,
e con una guerra di dieci anni andò Troia in ruina, con danno
grandissimo di tutta la Grecia et Asia. Per sì fatte cagioni Tar-
quinio, Claudio, Dionisio, Annibale, Tolemeo, M. Antonio,
Teodorico Goto, Rodoaldo Longobardo, Childerico Francese,
Avincelao Boemo e Manfredi Napoletano patirono la morte e
la ruina della patria; per Cana Giulia, figliuola del governatore
della provincia Tingitana, vergognata dal re Roderigo, caccia-
tone i Goti, occuparono i Saracini tutta l’Ispagna. Arrigo II, re
d’Inghilterra, per avere vergognato la sua nuora, sorella di Fi-
lippo re di Francia, fu cacciato del regno da suo figliuolo. Per
le disonestà de mariti sdegnatesi le mogli, Clitennestra, Olim-
pia, Laodicea Beronica, Frigiobunda e Bianca ambedue reine
di Francia, e Giovanna di Napoli e molte altre, uccisero i mari-
ti. Questa medesima cagione spinse Medea, Progne, Ariadna,
Altea et Eristilla, cangiato l’amor materno in odio, a crudel-
mente uccidere i propri figliuoli43. E ne tempi moderni molte
altre donne hanno vendicato la lussuriosa vita de mariti ne fi-
gliuoli, e di umanissime madri divenute sono crudelissime Me-
dee, furiose Altee e dispiatate Eristille.

41
Cfr. GEN 34; GDC 19-20.
42
Cfr. 2 SM 11.
43
Medea, figlia del re della Còlchide, e grande maga, tradita da Giasone uccide la
sposa di lui, incendia la reggia e sgozza i propri figli (si veda OVID., Metam., VII, 1-
424); Progne, figlia del re di Atene, alla notizia che il proprio sposo Tereo, re di
Tracia, aveva abusato della sorella di lei Filomela, uccide quest’ultima insieme al
proprio figlio Iti (si veda OVID., Metam., VI, 421-674); Altea, madre di Meleagro,
alla notizia che il figlio aveva ucciso i propri fratelli, ne provocò la morte gettan-
do nel fuoco il tizzone di legno cui era legato, fin dalla nascita il destino di Me-
leagro (si veda OVID., Metam., VIII, 445-532).
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64.
DELLA RUFFIANIA

Ma perché le meretrici et i ruffiani per lo più commettono


le ribalderie loro per persuasione, consiglio et opera de i ruf-
fiani e delle ruffiane, si metteremo a ragionare dell’arte della
ruffiania. Perciocché sì come il puttanesimo è arte di mettere
in publico la propria pudicizia, così la ruffiania è arte di com-
battere e publicare l’altrui castità, la quale è di tanto maggiore
della meretricia quanto è più scelerata, tanto più gagliarda
quanto ella più accompagnata dal servizio di molte arti, ma
tanto più dannosa quanto ella abbraccia più discipline delle al-
tre arti e scienze, le quali stringendo a guisa di ragni, cava da
tutte le arti e discipline s’elle hanno in loro punto di veleno, e
con quello ne tesse le sue armi non già come le tele de i ragni
sono, le quali, lasciando gli ucelli, non pigliano se non le mo-
sche, né ancora nella maniera che sono quelle reti grandi de
cacciatori, le quali prendono le bestie grosse e lasciano scam-
pare le bestiuole picciole e più astute, ma lacci annoda così
forti e così saldi che non è fanciulla alcuna, né femina, così
semplice o sì accorta, così costante né sì ostinata, così vergo-
gnosa o timidetta, così potente o sì picciola la quale, se pure
una volta dà orecchie alla ruffiana, subito non sia presa et al-
lacciata. Ella è una astuzia la quale non può esser vinta da al-
cuna donnesca prudenza, da i lacci della quale non si trova se-
cura né fanciulla, né donna maritata, né vedova, né monaca al-
cuna. Costei, guereggiando senza armi, abbatte la castità di
molto più donne che alcuno, sia pure quanto si voglia grandis-
simo, essercito. Le truffe di costei, le fraudi, gli inganni, le ma-
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298 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

lizie e le astuzie sono tali che stile alcune non le potrebbe scri-
vere, né ingegno agualiare. E benché questa arte abbia assaissi-
mi maestri dell’uno e l’altro sesso, ella n’ha però fatto pochi
perfetti, e ciò non è maraviglia. Perché quantunque siano tan-
te sorti di ruffianamenti quante delle arti e discipline, perciò
non si può condurre a perfezzione senza averne la cognizione
di tutte. Bisogna dunque che il ruffiano e ruffiana perfetto e
consumato sappia d’ogni cosa, e che non risguardi a una sola
disciplina come alla stella tramontana, ma che le abbracci tut-
te facendo professione di quella arte a cui tutte l’altre discipli-
ne fanno servigio. Perciocché fanno tutte le scienze quasi una
certa servitù alla ruffiania. Perché prima la grammatica, disci-
plina di scrivere e di parlare, le dà l’epistole amatorie e gli ne
insegna a dettare con finte soluzioni d’amore, preghi, lamenti
e lusinghe, molti essempi delle quali ci hanno lasciato de mo-
derni Enea Silvio et Iacopo Caviceo 1, e molti altri. Ma vi è
un’altra maniera di grammatica del modo di scrivere secreta-
mente, come si legge in Aulo Gellio d’Archimede Siracusano2,
del quale artificio, pochi anni sono, Tritemio abbate Spanei-
mese ne scrisse due ingegnosi volumi: l’uno ne intitolò Poligra-
fia, l’altro Steganografia3. In questo secondo ha messo così secu-
ri e secreti modi e costumi di spiegare i concetti dell’animo
suo, sia pure di lontano quanto si voglia, che né la gelosia di
Giunone, ch’ogni cosa sapeva, né la strettissima custodia di Da-
nae, resistere vi potrebbe, né la vigilanza d’Argo, che tutto con
cento occhi vedeva, gli potrebbe spiare. Arte veramente non
tanto necessaria a i re, quanto comodissima a ruffiani et a tutti
gli amanti. Appresso questa va la poesia, la quale con sue rime
lascive, favole e canzoni d’amore, pastorali, epigrammi, lette-
re, ammaestramenti, comedie e versi disonesti da i più secreti
armarii di Venere cavati, ruffianando mette sotto sopra ogni

1
Probabile allusione agli Artis rhetoricae praecepta (1456) di Enea Silvio Piccolomi-
ni (1405-1464) e al romanzo in volgare Il Peregrino (1508) di Jacopo Caviceo
(1443-1511).
2
Non c’è traccia nell’opera di Aulo Gellio di questo riferimento ad Archimede.
3
Johannes Zeller Trithemius (1462-1516), abbate di Sponheim, autore di diverse
opere tra le quali la Polygraphia (1518) e la Steganographia, composta intorno al
1500, un sofisticato sistema di crittografia basato su una sintesi di magia e mne-
motecnica. L’opera fu stampata postuma solo nel 1606, ma ebbe grande diffusio-
ne nel Cinquecento in forma manoscritta. All’abate Trithemius Agrippa dedicò
la prima stesura del De occulta philosophia (1510).
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 299

64. DELLA RUFFIANIA 299

castità e corrompe la buona creanza et i costumi della giova-


nezza. Onde i poeti hanno quasi ottenuto il primo loco fra ruf-
fiani, del numero de i quali fra gli antichi furono più dotti que-
gli che ricordassimo di sopra nell’arte meretricia: Callimaco,
Filete, Anacreonte, Orfeo, Pindaro, Alceone, Saffo, Tibullo,
Catullo, Properzio, Vergilio, Ovidio, Giovenale e Marziale4. Et
oggi sono ancora poeti che scrivono versi pestilentissimi. Dopo
questi, gli oratori non tengono già l’ultimo loco fra ruffiani, sì
come quegli che sono maestri di fraudolente lusinghe e per-
suasioni, e quella è tra le ruffiane felicissima che ha in favore la
dea Persuasione. Stanno però sopra di loro gli istorici, quegli
specialmente c’hanno scritto le istorie d’amore di Lancilotto,
di Tristano, d’Eurialo, di Pellegrino, di Calisto e di simili5, ne i
quali le fanciulle da primi anni s’ammaestrano e s’avezzano al-
la lussuria et a gli adulterii. Né si ritrova machina più gagliarda
a combattere così la pudicizia delle donne maritate, come la
castità delle donzelle e delle vedove, quanto è la lezzione della
istoria lasciva: non è femina di così buona creanza che con
questa non si corrompa, e terrei per miracolo se si trovasse al-
cuna, o donna o fanciulla, di così perfetta castità o pudicizia, la
quale da così fatte lezzioni et istorie di pellegrina lussuria più
volte non s’infiammasse infino allo impazzarne. E nondimeno,
quella fanciulla che in così fatti libri è molto ammaestrata e
che sa gettar motti di quegli e della disciplina loro per molto
spazio di tempo copiosamente disputare con gli amanti, quella
è stimata gentile cortigiana. Sono stati di molti istorici ruffiani
i nomi de i quali son poco conosciuti; molti famosi scrittori an-
cora v’hanno dato opera, come tra i moderni Enea Silvio, Dan-
te, il Petrarca, il Boccaccio, il Pontano, Battista da Campofre-
goso6 et un altro Battista de gli Alberti Fiorentino. Pier Edo7

4
Cfr. supra, p. 293.
5
Per la storia di Lancillotto Agrippa potrebbe voler alludere all’opera di Ulrich
Füetrer intitolata Libro dell’avventura (ca.1475); la storia di Eurialo e Lucrezia è
raccontata nella Historia de duobus amantibus (1444) di Enea Silvio Piccolomini;
per il Libro del Peregrino di Jacopo Caviceo, si veda supra, nota 1; per la Tragicomme-
dia di Calisto e Melibea attribuita a Fernando de Rojas, si veda infra, nota 21, p. 302.
6
Battista Fregoso o Campofregoso (1452-1504), autore di un dialogo di argo-
mento amoroso, l’Anteros, composto probabilmente nei primi mesi del 1495 e
pubblicato a Milano nel 1496.
7
Pietro Del Zochul (1427-1504), conosciuto come Pietro Edus, o Capretto, dal
volgarizzamento dell’umanistico Haedus in cui aveva volto il suo cognome volga-
re Del Zochul che in friulano significa appunto capretto, autore di un poemetto
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 300

300 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

anch’egli, Pietro Aretino8, Iacopo Caviceo et Iacopo Calandra


Mantovano9 e molti altri, fra i quali però Giovanni Boccaccio,
avendogli vinto tutti, s’ha guadagnato la palma, massimamente
in quel libro ch’egli intitolò le Cento novelle, gli essempi et am-
maestramenti del quale altro non sono che astutissime malizie
di ruffianamenti. Ora, quando egli s’ha da combattere una fe-
mina vergognosa e timidetta, piena d’onestà e di religione,
quanto aiuto diano allora le arguzie della loica a i ruffiana-
menti ce lo mostra chiaramente la favola di Mirra in Ovidio10.
Fra le discipline matematiche ancora i giuochi d’aritmetica so-
no comodi alle ruffianie, e la musica anch’ella non è delle ulti-
me serve de i ruffianesimi, la quale, infiamando la lussuria con
la grazia della voce, con le pestifere canzoni e con le dilettevo-
li armonie de gli instromenti, mollifica l’animo ad ogni lascivia
e corruzione, ruina i costumi e gagliardissimamente accende
gli affetti et i desiderii della lussuria. Appresso questa va la co-
modità delle danze e de i balli, dove liberamente si può favel-
lare con le innamorate, toccarle, bacciarle e con mani impudi-
che maneggiarle come gli piace, e spesse volte ancora ritirarsi
al buio. Serve anco il geometrico architetto a ruffianamenti, il
quale con scale di corde ne vadia di notte a ritrovare l’innamo-
rata per verone o finestra e che con chiavi contrafatte, o simili,
come Dedalo fabricò a Pasifae11, così faccia servigio a gli inge-
gni de gli adulteri. Nelle pitture ancora leggono le femine che
non sanno lettere, e meglio da quelle intendono che l’altre
non veggono nelle scritture, mentre che nelle lor camere in
ogni parte risguardano cose lascive e ribalde di imitare; né me-
no si corrompe l’animo per gli occhi che per l’orecchie si fac-

giovanile in 19 canti in terza rima volgare, a imitazione di Dante e non privo di in-
fluenze petrarchesche, sul tema della delusione d’amore, e degli Antierotica sive de
amoris (1492), un dialogo in cui riprende alcuni temi di fondo dell’operetta gio-
vanile.
8
Il testo latino reca: «Petrus Bembus», e non fa menzione di Pietro Aretino. L’al-
lusione sarebbe dunque a gli Asolani (1505), l’opera in volgare, in prosa e in ri-
ma, ispirata da una vicenda autobiografica riguardante un amore infelice di Pie-
tro Bembo (1470-1547).
9
Giovanni Giacomo Calandra (1488-1543), autore di un’operetta in volgare, Au-
ra, nella quale dissertava delle contingenze d’amore. L’opera, scritta tra il 1507 e
il 1511 in lode di Isabella d’Este, è andata perduta.
10
Cfr. OVID., Metam., X, 311-502.
11
Cfr. DIOD. SIC., Bibl. hist., IV, 77.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 301

64. DELLA RUFFIANIA 301

cia, perciocché quegli così penetrano all’animo come queste,


e non meno s’invitano gli uomini alla lussuria con le lascive
imagini che con la presenza delle cose. Di ciò ne fanno testi-
monio Venere Gnidia, opera di Prassitele, stuprata nel tem-
pio12, e’l Cupido del medesimo scultore, corrotto d’Alchida
[Rodio] giovane ruffiano13, e la statua della Fortuna, di cui fa
menzione Eliano, così ardentemente amata da un giovane ate-
niese il quale, non potendola avere per dinari, vi morì appres-
so14. Terenzio anch’egli nell’Eunuco introduce un giovane in-
fiammato a lussuria per avere veduto una tavola nella quale era
dipinto come Giove, scendendo in pioggia d’oro, corruppe
Danae15; e però meritamente Aristotele ordinò la pena di pu-
blico a i pittori, i quali mettono cose inanzi a gli occhi della
moltitudine per cui s’accende la lussuria16. E non senza cagio-
ne disse il Savio che le arti della pittura e della scultura furono
ritrovate in tentazione dell’anime de gli uomini per ingannare
gli ignoranti e per corrompere il vivere umano17. Ora vengono
inanzi gli astrologi, i chiromanti, i geomanti, i sognatori, gli in-
dovini, gli aruspici e gli auguri, e l’altra ciurma de indovinato-
ri i quali, facendo tutti ufficio di ruffiani, con le malizie loro e
frodi di ribalda astuzia, promettono disonesti amori e spesse
volte gli rappatumano insieme, congiungono sceleratissimi
matrimonii e più che spesso i legittimi partono in adulterio.
Da questi ruffiani non pure le donne, ma quello ch’è di mag-
gior vergogna gli uomini ancora, tolgono augurio de gli amori
e matrimonii loro e ne pigliano speranza di ottenere l’amata, e
secondo i consigli loro non tanto pazzi, quanto impii, si con-
giungono e separano in matrimonio. Molti ancora sono venuti

12
Cfr. PLIN., Nat. hist., VII, 28, 127 e XXXVI, 4, 21; VAL. MASS., Dict. et fact. memorab.,
VIII, 11, Ext. 4. Secondo Ateneo, la statua fu plasmata a somiglianza di Frine,
l’etèra di Tespie amata da Prassitele (si veda ATEN., Deipn., 591a). Il racconto si
trova anche in CRIN., De hon. discip., XXIV, 10.
13
Cfr. PLIN., Nat. hist., XXXVI, 4, 22-23, dove il personaggio che abusa della statua
si chiama Alceta di Rodi. L’amore per figure scolpite o dipinte è detto ‘pigmalio-
nismo’, dal mito di Pigmalione, re di Cipro, innamoratosi di una statua d’avorio,
e poi sposatala una volta che Afrodite l’ebbe trasformata in donna viva (si veda
OVID., Metam., X, 243-295).
14
Cfr. ELIANO, Var. hist., IX, 39.
15
Cfr. TEREN., Eun., 583-589.
16
Cfr. ARIST., Polit., 1336b.
17
Cfr. SP 15:4, 14:18-20.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 302

302 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

a così strana credenza che credono potersi constringere ad


amare con imagini d’astrologia e con osservazioni d’ore, come
di ciò hanno ragionato Teocrito, Vergilio, Catullo, Ovidio,
Orazio, Lucano e molti altri cicaloni poeti. E gli astrologi, an-
ch’essi non meno bugiardi auttori che i poeti, hanno scritto re-
gole ferme ne i libri delle loro elezzioni, col quale servigio
ch’essi fanno a i ruffianesmi, tutti gli astrologi et indovini fan-
no grandissimo guadagno, a i quali subito si presenta in aiuto
la magia,

che con incanti lega, e scioglie i cuori,


come ella vuole, et a molti affanno mette18.

Lucano anch’egli ne ragiona in questo modo:

Fan penetrar nel cuore il proprio amore


le donne di Tessaglia con incanto19.

Et appresso Orazio Canidia, appresso Apuleio Pamfila in-


cantatrici astringono i loro amanti20, e nella Tragicomedia di Ca-
listo, Celestina ruffiana infiamma Melibea fanciulla21. Con que-
ste cose vanno ancora le malie, i sonniferi e le bevande amato-
rie, ma pericolose molto, sì come quelle che in cambio d’amo-
re talora inducono o morte, o alcuna grave malattia. Con l’in-
ganno di queste morì Lucullo, e Lucrezio, ma con spazio di
tempo, perdè l’ingegno e l’intelletto22. Leggesi ancora d’una
certa femina, la quale aveva ucciso un uomo con bevanda ama-
toria, che fu assolta da gli Areopagiti perché ella aveva com-

18
VIRG.,
Aen., IV, 487-488.
19
LUCANO,De bello civ., VI, 452-453.
20
Cfr. ORAZIO, Epodi, V, 15 e Sat., II, 1, 48; APUL., Metam., II, 5.
21
L’allusione è alla Tragicommedia di Calisto e Melibea, o La Celestina (1499), un te-
sto composito, a metà tra la commedia umanistica e la prosa dialogata, attribuito
a Fernando de Rojas (m. 1541). La storia è quella del giovane e nobile Calisto che
vede Melibea e se ne innamora. Respinto, si rivolge alla vecchia mezzana Celesti-
na la quale, maestra nel suo mestiere, convincerà Melibea a incontrare Calisto.
22
Secondo una leggenda Lucullo avrebbe trascorso gli ultimi anni della sua vita,
fino alla morte avvenuta nel 57 a.C., in uno stato di ebetudine a causa di un elisir
d’amore propinatogli da un liberto. L’aneddoto secondo il quale Lucrezio avreb-
be composto il De rerum natura «per intervalla insaniae» viene raccontato in GE-
ROL., Chron., II, col. 425.
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64. DELLA RUFFIANIA 303

messo ciò per colpa d’amore. Ma non vi è arte alcuna più ac-
comodata a i ruffianamenti che la medicina, la quale agevol-
mente ottiene il desiderio suo da qual si voglia fanciulla men-
tre che le promette di farla ritornare vergine al tempo del ma-
ritaggio, di ristringere le poppe ch’elle non crescano, di ritira-
re la pancia, dandole rimedii a non ingravidare per potere lun-
go tempo e, sicuramente, pigliarsi piacere, overo insegnando-
le, crollato il filo della schiena, gettare fuora il seme concetto,
come dice Lucrezio:

Le donne per suo conto incominciaro,


per non ingravidar, spesso a crollarsi
et anco per piacer meglio a gli amanti23.

Col quale beneficio de medici, già molte donne maritate e


fanciulle di corte, dico delle padrone, securamente si pigliano
diletto. Fanno a questo proposito ancora le incrostazioni delle
donne e gli altri lisci24 delle sfacciate femine, i quali si ritrova-
no e s’insegnano in tutti i libri de i medici che parlano dell’or-
narsi, co i quali si fanno più vendibili le dannose mercanzie
delle femine da partito. E perciò ne sono chiamati dalle Sacre
Lettere onguenti da meretrici, e con questi molte altre ricette
che infiammano a lussuria, con l’aiuto delli quali vantasi Ovi-
dio d’aversi preso piacere ben nove volte, e Teofrasto scrisse
che si ritrovava una pianta la quale cresceva forze sì che l’uo-
mo aggiugnerebbe al numero di settanta volte25. Ma per dire il
vero, non è ruffianesmo né più opportuno, né più a proposito,
di quello che sotto colore di medicina si suol fare, perciocché
non si ritrovano case così serrate, né monasteri tanto rinchiusi,
né prigioni sì ben guardate, le quali non tolgano dentro o
chiudano di fuori il medico ruffiano, da i quali secondo il te-
stimonio di Plinio, sono stati commessi ancora adulterii nelle
case de principi, come d’Eudemo in Livia di Druso, e di Vezzio
Valenzio in Messalina moglie di Claudio26. E perché alcuno

23
LUCR.,
De rer. nat., IV, 1274-1276.
24
Il termine latino è «fucus», ossia «stratagemma, inganno».
25
Cfr. supra, p. 290.
26
Cfr. PLIN., Nat. hist., XXIX, 8, 20-21. Per Livia figlia di Nerone Claudio Druso e
il medico metodico Eudemo, suo complice nell’avvelenamento del marito di
questa, si veda TAC., Ann., IV, 3, 51 e XI, 30-35; per Valeria Messalina, moglie del-
l’imperatore Claudio, condannata a morte insieme al suo amante Vezio Valente
per aver congiurato contro il marito, si veda TAC., Ann., XI, 31, 6 e 35, 7.
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304 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

non istimasse i filosofi poco utili alla ruffiania, questo non con-
sente Aristippo maestro de Cirenaici, il quale pratticando spes-
so insieme con gli altri concorrenti in casa la Taide meretrice
famosa, si dava vanto ch’esso solo possedea la Taide, essendo
gli altri posseduti da lei, e mentre che gli altri consumavano se-
co le facultà loro, esso ne prendeva piacere senza prezzo alcu-
no27. A questo modo la meretrice si servì di quel filosofo per
ruffiano, con l’essempio et auttorità del quale si valeva a tirare
a sé tutta la gioventù. Né bastò ad Aristippo lo essersi fatto ruf-
fiano d’una puttana, ma incominciò anco a insegnare publica-
mente le lussurie e le trasportò dal chiasso nelle scuole. Infini-
te arti mecaniche ancora hanno loco nella ruffiania, tra le qua-
li tengono il principato i lavori di riccamo, di filare, di tessere,
di cucire et altri essercizii donneschi, sotto colore de i quali
mentre che le ruffiane portano attorno lino, filo, veli, bende,
lavori, cintole, borse e guanti di giovani che furono già putta-
ne, diventate ora vecchie mercatanti, facilmente con queste
frascherie tirano sotto le tenere fanciulle e prendono occasio-
ne di parlagli, alle quali danno aiuto ancora le lavandaie, le
quali liberamente possono entrare nelle case et in assenza del-
le madri menarne seco a lavare le figliuole e le fanti. Vi sono
anco le povere, le quali con la pietà delle elemosine stanno al-
le porte, portano e ritornano ambasciate e lettere piene di ruf-
fianamenti:

E de l’amante il don danno a la sposa28.

Sono oltra questi gli essercizii virili de gli uomini nobili ac-
comodati alla ruffiania, come il maneggiar de cavalli, che il
vulgo chiama torneamenti, et i giuochi militari, con l’astuzia
de i quali Romolo già rapì le Sabine29. O quante volte ancora
ha accompagnato la caccia gli adulterii de i nobili e potenti ne
gli ascondimenti delle selve. Questo leggiadramente Vergilio
scrisse in Enea e Didone, tolta l’occasione dell’assenza de i
compagni dalla opportunità della caccia30. Giove anch’egli si
servì de i pastori per ruffiani. Fa testimonio ancora la città di

27
Cfr. DIOG. LAERZ., Vitae philos., II, 8, 74-75, dove la meretrice amata da Aristippo
si chiama Laide, non Taide. Si veda anche ATEN., Deipn., 544 d, 588b-f.
28
GIOVEN., Sat., III, 45.
29
Cfr. LIV., Ab Urbe cond, I, 9, ma si veda anche AGOST., De civit. Dei, II, 17.
30
Cfr. VIRG., Aen., IV, 123-128.
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64. DELLA RUFFIANIA 305

Vinegia della comodità che i barcaiuoli danno a i ruffianesmi,


e parimente le delicate vivande delle cucine e gli splendidi
conviti servono alle ruffianie, come elegantemente espresse
Vergilio nella sua Eneide :

Tolto già via le mense, e le vivande,


empion le tazze, e fan ghirlande al vino.
Fecesi allor dar la reina un nappo,
carco d’oro, e di gioie, e di vin pieno,
dicendo: «Celebrate allegri», e poi
appena lo gustò sol con le labbra;
et a Bicia lo die’, che lieto e pronto
vuotò la tazza, e s’attuffò ne l’oro;
gli altri Tirii, e Troian seguiro appresso.
Così Dido infelice in parlar vano
traea la notte, e’l lungo amor beeva31.

Vi sono ancora de gli altri artificii di ruffiania di cui non vo-


glio parlare, ma l’oro tutti gli vince, col quale se gli alchimisti,
come essi promettono, ne potessero sodisfare, essi veramente
sarebbono i più valorosi fra tutti gli altri ruffiani, perciocché
potentissima ruffiania è nell’oro e ne i dinari:

Perché l’oro n’acquista amici, fede,


moglie, dote, bellezza, e gran parentado32.

Con l’oro si placa il marito geloso, con l’oro si pacifica l’osti-


nato concorrente in amore, con l’oro si vincono i diligentissi-
mi guardiani, con l’oro s’apre ogni porta, con l’oro s’entra in
ogni camera, con l’oro si spezzano i catenacci, i sassi e gli in-
dissolubili legami del matrimonio. Ma che maraviglia è che
con l’oro si vendano le vergini, le fanciulle, le maritate, le ve-
dove e le monache, se con l’oro anco si vende fino a Cristo? Fi-
nalmente, molti con questa guida del ruffianesmo di bassissi-
mo stato sono ascesi quasi al supremo grado di nobiltà. Costui
ha messo la moglie sotto’l principe et è stato fatto senatore;
quell’altro la figliuola et è stato creato conte; costui ha fatto
che’l principe s’ha preso diletto con qualche gentildonna, e

31
Ivi, I, 723-724; 735-739;747-749.
32
ORAZIO, Epist., I, 6, 36-37.
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306 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

subito con gran provisione degnamente è divenuto cameriere


del re. Alcuni spettabili sono fatti per avere sposato le concubi-
ne del re, e sono stati messi sopra gli ufficii publici; con queste
arti medesime molti hanno guadagnato di molti grassi benefi-
cii da i cardinali e da i papi, né ci è altra più utile via. Ora,
quanto giovi la religione a ruffianesmi ce ne fa testimonio l’i-
storia di Paolina, matrona castissima et onestissima, scritta da
Egesippo, la quale i sacerdoti della dea Iside sottoposero a un
nobil giovane in cambio del dio Anube. La tripartita istoria33
ne dimostra ancora quel che in ciò può fare la nostra confes-
sione che si fa nell’orecchie, né mi mancano di molti essempi
nuovamente accaduti, s’io gli volessi dire. Perciocché hanno i
sacerdoti, i monaci, i frati, le monache e le suore speciale pre-
rogativa di ruffianie, avendo essi libertà, sotto pretesto di reli-
gione, d’andare dove gli piace e ragionare con tutte le persone
quanto e quando gli pare, in secreto e senza testimoni, sotto
specie di visitazione, di consolazione e di confessione, così san-
ta maschera hanno su’l volto i ruffianesmi loro. E sono di que-
gli c’hanno per peccato grande il toccare dinari, né però sono
punto mossi dalle parole di Paolo, il quale dice: «Egli è bene
non toccare donna»34, le quali essi molto spesso maneggiano
con disoneste mani e nascosamente vanno a i chiassi, corrom-
pono le sacre vergini e le vedove, adulterando anco le mogli di
quelle sciocche persone che si li lasciano venire in casa. E talo-
ra, quel ch’io medesimo so et ho veduto, come fece Parisse
Troiano, le menano via da i mariti, e secondo la legge di Plato-
ne, amorevolmente et in publico, ne fanno parte a gli altri
compagni e fratelli suoi; in cambio di quelle anime che de-
vrebbono acquistare a Dio, sacrificano i corpi al diavolo e con
furiosa lussuria molte altre cose commettono assai più ribalde
di queste, le quali troppo sarebbe male a voler dire, intiera-
mente sodisfacendo intanto al voto di castità se con parole or-
ribili riprendono e biasmano in altrui la libidine, la lussuria, la
fornicazione, gli adulterii e gli incesti, et essi ragionando di

33
L’allusione è alla Historia ecclesiastica tripartita di Flavio Magno Aurelio Cassio-
doro (490-ca.583), compiuta in collaborazione con il monaco Epifanio e ricavata
attraverso una compilazione di Teodoro Lettore (V sec.) da Socrate di Costanti-
nopoli, Sozomeno e Teodoreto di Ciro, tre continuatori della Historia ecclesiastica
di Eusebio di Cesarea.
34
1 COR 7:1.
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64. DELLA RUFFIANIA 307

virtù menano disonestissima vita. Ma bene spesso sotto quelle


pelli stanno ascosi ribaldissimi ruffiani e sceleratissime ruffia-
ne. < Hanno le gentildonne di corte per lo più di sì fatti mini-
stri nelle loro cose sacre, che gli servono ne i matrimonii e put-
tanesmi. Le leggi et i canoni similmente militano per le ruffia-
nie quando in favor de i grandi combattono per li matrimonii
ingiusti e disfanno i legitimi, et avendo vietato a sacerdoti le
nozze oneste, vergognosamente gli sforzano a putaneggiare35,
et hanno più tosto voluto quei facitori delle leggi che i sacer-
doti suoi tengano concubine con infamia che mogli con one-
sta fama forse perché maggior utilità delle concubine traggo-
no. Della qual cosa leggesi che a un convivio si vantò un certo
vescovo d’aver undici mila preti concubinarii, i quali ogni an-
no li pagavano un ducato per ciascuno. > Fu già nel tempio di
Venere in Roma un’ordinazione del Senato scolpita in due ta-
vole e la legge di ruffianie36, la quale abbiamo letto in Pietro
Crinito, scritta in queste parole: «Nella prima tavola si conte-
neva le ragioni del vedere, del seguitare, del buccinare, del
maneggiare, dell’intromettersi, del salutare, del ragionare e
del pregare, perpetuamente di giorno per me concesse saran-
no a gli innamorati. Non sarà persona ch’abbia a impedire
queste comodità dalla casa, dal buco, dall’orto, dall’uscio di
dietro e dal tetto; si serverà la fede, si daranno consigli e si pre-
sterà ogni aiuto e favore. Nella altra tavola era scritto: «Di not-
te si maneggieranno le intenzioni delle persone, si mescole-
ranno con giuramenti lamenti, si soliciterà e si terrà via ogni
vergogna e paura, si coprirà la maninconia e s’accomoderà al
tempo et a loco, non si perderà l’occasione, et anderanno at-
torno lettere e risposte. Con queste si alletteranno gli uomini a
speranza, a volontà, ad aspettazione, a necessità, a misericor-
dia; temperatamente userassi fraude, forza, inganno et osten-
tazione. Averanno, terranno e mostreranno ora sapienza, ora
sciocchezza; conserveranno in eterno alcuna cosa della inna-
morata per pegno e favore; con licenza sua anderanno a lei, ne
cercheranno una nuova; metterassi a seguirne una nobile di
pompa e di grandezza; tacitamente rinoveransi i contrasegni

35
Asserzione condannata dai teologi di Lovanio. Si veda Appendice 2, p. 532.
36
Il testo latino reca: «et lex futuaria scortatoribus et lenonibus admodum favora-
bilis» qui tradotto semplicemente «legge di ruffianie».
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 308

308 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

usati»37. Aveva Licurgo anch’egli fatto una legge: s’alcuno uo-


mo attempato e poco atto a matrimonio avesse tolto per mo-
glie una fanciulla di prima età, ch’egli potesse eleggere alcun
giovane di miglior nerbo e di maggior possanza il quale avesse
cura d’ingravidarla, pur che quello che ne nascesse fosse tenu-
to dal marito38. Eravi anco una legge di Solone, la quale simil-
mente dava licenza alle mogli, se i mariti erano disutili ne i
piaceri del letto, di potersi eleggere alcuno de i parenti col
quale si potessero congiungere, né però fosse riputato d’altrui
ciò che ne nasceva39. Io non parlo quante donne oggidì sono, e
si conoscono, e pure delle più nobili, le quali gravide ogni an-
no di seme estranio danno a i mariti i figliuoli che nascono per
suoi, e di nuovo ritornano dopo il parto a saziare gli adulteri;
peggiori di Giulia di M. Agrippa, la quale non toglieva noc-
chiero se non quando era piena la nave. E s’è levato in questi
tempi un valoroso eretico della scuola de teologi, Martino Lu-
tero40, il quale affermava che queste leggi di Licurgo e di Solo-
ne erano lecite nella Chiesa, la qual cosa voglio che sappiate
acciocché veggiate come i teologi anch’essi sono ruffiani41. I
Sacri Libri della Bibbia anch’eglino, s’è pur lecito dirlo, hanno
astuzie di ruffianesmi, come chiaramente si vede nella suocera
di Ruth et in Ionadab, chiamato dalla Scrittura uomo pruden-
te, et in Achitofel potente consigliere42. Abraham ancora aven-
do per moglie Sarra giovane e bella, e ritrovandosi forestiero
in Egitto, le disse: «Io conosco che tu sei bella, e quando gli
Egizzii ti vedranno diranno: «Ella è moglie di lui», e m’uccide-
ranno, e terranti appresso di loro. Dirai dunque, ti prego, che
tu sia mia sorella acciocché io ne riesca a bene per rispetto tuo,
e per amor di te viva l’anima mia»43. E così finalmente Sarra fu

37
CRIN.,
De hon. discip., XI, 8.
38
Cfr. PLUT., Lycur., XV, 7-12.
39
Cfr. PLUT., Sol., XX, 2-3.
40
Asserzione condannata dai teologi di Lovanio. Si veda Appendice 2, p. 532.
41
Asserzione condannata dai teologi di Lovanio. Si veda Appendice 2, p. 532.
42
Cfr. RT 1-4; per Ionadab, si veda 2 SM 13:3-5; per Achitofel, consigliere di Davide,
si veda 2 SM 15:12, 16:20-23, 17:1-23.
43
GEN 12:11-16. L’episodio biblico è raccontato anche da Agostino in De civit. Dei,
XVI, 19, dove egli ricorda di aver contestato le tesi di Fausto, vescovo manicheo,
che accusava Abramo di mercimonio della moglie. Sul mutamento dei nomi di
Abram e Sara in Abramo (Abraham nella Vulgata) e Sarra, si veda FIL. EBREO, De
Abrahamo, 82-83 e De gigant., LII, LIV; AGOST., De civit. Dei, XVI, 28; EB, 11:11; GE-
ROL., Hebr. quaest. in Gen., XVII.
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64. DELLA RUFFIANIA 309

menata in casa di Faraone e per rispetto di lei ad Abraam fu


usato rispetto. Questa astuzia medesima usò Abimelech ap-
presso il re de Palestini, concedendo la moglie quasi fino al-
l’atto di Venere in potere di duo re, ma però in diversi tempi44.
Il medesimo fece Isaac figliuolo d’Abraam45, e così ancora l’ar-
te della ruffiania è stata illustrata con essempi di santi. Oltra di
ciò ella è stata e riverita et onorata da gli dèi, da gli eroi, da i fa-
citori delle leggi, da i filosofi, da uomini savissimi e teologi, da
i principi e da gli istessi capi della religione. Furono ruffiani il
dio Pan e Mercurio, e’l fanciullo Cupido, fu ruffiano il barone
Ulisse46, fu ruffiano il legislator Licurgo, e quel savio Solone
che primo edificò i luoghi publici disonesti e provide alla gio-
ventù di meretrici.47 E ne i tempi nostri papa Sisto fabricò in
Roma un nobilissimo chiasso. Fu ruffiano Eliogabalo impera-
tore, il quale mantenne in casa sua le mandrie delle puttane e
ne fe’ copia a gli amici e servi sui48. Di questa cosa hanno spes-
se volte cura le reine e l’altre principesse e signore, e le madri
de i re sono alle volte state ruffiane de suoi figliuoli. Oltra di
ciò gli ottimati et i magistrati non hanno punto a schivo questo
ufficio perché furono già ruffiani i Corinzii, gli Efesii, gli Abi-
deni, i Cipriani, i Babilonii e molti altri magistrati, i quali nelle
città loro edificano e favoriscono i chiassi accrescendo anco
non picciola utilità alle entrate loro dal guadagno delle putta-
ne, il che s’usa molto in Italia dove le meretrici di Roma paga-
no ogni settimana un giulio al papa, la quale entrata rende ta-
lora al papa venti milia ducati l’anno, e questo ufficio è tal-
mente proprio de i prelati della Chiesa, che insieme con l’en-
trate dei benefici numerano ancora il prezzo delle ruffianie.
Perché io gli ho udito talora a far conto in questo modo, di-
cendo: «Colui ha due benefici, un curato di venti ducati, un al-
tro priorato di ducati quaranta e tre puttane in bordello che
ogni settimana gli rendono venti giuli». Sono nondimeno ruf-
fiani anch’eglino quegli vescovi et ufficiali i quali cavano ogni
anno entrata da i preti per le concubine che tengono, e ciò co-
sì palesemente fanno che non si vergognano punto che questa

44
Cfr. GEN 20:2-18 e 26:6-11. L’affermazione di Agrippa è però imprecisa.
45
Cfr. GEN 26: 6-11.
46
Il testo latino reca: «leno fuit heros ille Ulysses».
47
Cfr. supra, p. 287-288.
48
Cfr. supra, p. 289, nota 11.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 310

310 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

loro mercanzia di femine, o ruffiania, sia venuta in proverbio


appresso della plebe, la quale dice: «Abbia o non abbia, pa-
gherà un ducato per la concubina, et abbiala se vuole». Ma nel
regno dell’avarizia cosa alcuna non s’ascrive a vergogna la qua-
le partorisca guadagno. Io non parlo d’una invenzione di tole-
ranza per la quale, pagando certa somma di dinari a i vescovi,
la moglie del marito absente senza colpa d’adulterio, come es-
si dicono, ha licenza di potere stare con uno altro, le quali co-
se son tanto chiare e manifeste che siamo sforzati a non sapere
quale sia stata fin qui più goffa, o la poca vergogna de i vescovi
o la pazienza della plebe. Di modo che sono stati sforzati i prin-
cipi di Lamagna mettere questi ancora fra gli altri gravami di
quella nazione49, da i quali potrete molto ben comprendere
ancora quegli altri che si passano con silenzio. Di sì fatti difen-
sori ha dunque l’arte della ruffiania, la quale fino al dì d’oggi,
oh compassion grande, ha loco nella republica cristiana, e le
sono stati concessi nelle città teatri publici, privilegi e provisio-
ni, con una sola assai debile ragione umana contra le leggi di-
vine e la parola di Dio, o ver più tosto invenzione che serve al-
la ruffiania, con la quale dicono che questo si sopporta, accioc-
ché la gioventù, svaporando quivi il furore della lussuria, si ri-
manga di tentare cose peggiori. Essi dicono: «Rimovi le mere-
trici della Republica, ogni loco s’empierà di stupri, d’incesti e
d’adulterii; non vi rimarrà donna maritata alcuna casta; nessu-
na vedova ci sarà di salva onestà; le donzelle e le monache a fa-
tica saranno secure». Insomma, per questo concludono ch’im-
possibile è la republica poter stare in piedi senza meretrici,
senza le quali però il popolo d’Israel constantissimamente per
tanti secoli si mantenne, sì come comandò loro Iddio: «Non
sia meretrice né ruffiano, ne i figliuoli d’Israel»50. E nondime-
no questo vituperio passò già sotto specie di religione nella
Chiesa d’Iddio e generò l’eresia de Nicolaiti i quali, per ischi-
fare la gelosia, mettevano in publico le mogli e facevano vede-
re, quasi a usanza della legge platonica, ch’elle devevano esse-

49
Nel 1451, a Magonza, un chierico depone davanti alla porta del legato, Niccolò
Cusano, un promemoria in cui vengono elencate una serie di lagnanze nei con-
fronti di Federico III per non aver saputo opporre resistenza allo sfruttamento
dei paesi germanici da parte della fiscalità pontificia. Il testo, su ispirazione di
Martin Mayr, produrrà la redazione dei Centum gravamina germanicae nationis, so-
stenuto da molti principi elettori, tra i quali quelli di Treviri e di Magonza.
50
DEUT 23:18.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 311

64. DELLA RUFFIANIA 311

re communi51. Ma tutti quegli principi, giudici e magistrati che


daranno favore a i luoghi disonesti, o in qual si voglia modo gli
admetteranno, ancora che essi non putaneggiano, dirà loro il
Signore quel che dice il Salmista: «Se tu vedevi un ladro, tu an-
davi con lui, et avevi la parte tua con gli adulteri. Tu hai fatto
queste cose et io ho tacciuto. Tu ti hai creduto, o ribaldo, ch’io
sia simile a te, ma io te ne gastigherò e ti farò venire alla pre-
senza mia»52.

51
Le dottrine dei Nicolaiti, una setta riconducibile ai primi anni del Cristianesi-
mo, sono oggetto di condanna in APOC 2:2-6 e 14-15 e contro di esse si pronuncia
anche Paolo nelle lettere quando esorta a combattere i falsi profeti (2 COR 11:5-
13). Tali dottrine tolleravano anche alcuni compromessi con i culti pagani, come
la partecipazione ai banchetti sacri. Per la concezione platonica sulla comunione
delle donne, si veda PLAT., Rep., 449c-466d, 457c-d; Leg., 739c.
52
SAL 50:18 e 21. Asserzione condannata dai teologi di Lovanio. Si veda Appendi-
ce 2, p. 532.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 312
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 313

65.
DELLA MENDICITÀ

Egli è ufficio della republica e della religione lo avere cura


ancora de i poveri e de gli infermi, acciocché alcuno per la po-
vertà non faccia male e non rubbi o, andando attorno mendi-
cando, non ammorbi la città di peste, o non si muoia di fame
in vituperio della umanità. Per la qual cosa in molti luoghi so-
no stati ordinati di dinari del publico, e con singolar pietà, gli
ospedali de poveri, e con private elemosine de gli uomini ric-
chi ogni dì più si sono arricchiti. Perciocché sempre fin da
principio, e per le leggi di tutte le nazioni, fu vietato che publi-
camente si mendicasse, andando per le città. Perché nella leg-
ge antica Mosè comandò a Giudei che fra loro non devesse es-
sere né povero, né mendico alcuno1. Nella legge romana anco-
ra lo imperatore Giustiniano fece una stretta ordinazione de
gli uomini sani che vanno mendicando, che se alcuno, il quale
sia sufficiente a lavorare, sarà trovato domandare elemosina,
debba essere preso e posto in servitù Cristo, nella legge dell’E-
vangelio, comandò che quel che avanza si debba dare a pove-
ri2, acciocché nel popolo non si ritrovi né povero, né mendico
alcuno, ma ogniuno sia eguale, come scrive Paolo a Corinzii,
dicendo: «La abbondanza vostra supplisca alla povertà loro, ac-
ciocché ancora la abbondanza loro supplisca alla povertà vo-
stra, e facciasi equalità, come si trova scritto: “Chi ebbe molto

1
Cfr. DEUT 15:4-11.
2
Cfr. MT 19:21.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 314

314 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

non abbondò, e chi ebbe poco non ebbe bisogno”»3. E scriven-


do a gli Efesii dice: «Chi prima rubbava ora non rubbi più, ma
più tosto affatichisi lavorando di propria mano; che fia bene,
acciocché abbia onde potere soccorrere a chi si ritrova in disa-
gio»4. Il medesimo comanda a Tessalonicensi che debbano la-
vorare per avere abbondanza, ordinando quasi loro un decre-
to, che chi non vuole lavorare non mangi, e comanda che que-
gli che altramente faranno siano levati dalla communione de
fedeli5. E nella Epistola a Timoteo condanna coloro che stima-
no opra di pietà il guadagnare mendicando6. I decreti canoni-
ci ancora de pontefici hanno ordinato che le elemosine si di-
stribuiscano solo in quei poveri che non possono lavorare, e
numerano fra truffatori, ladri et assassini tutti quegli altri che
le pigliano. Con questi auttori dunque siamo avisati che non
s’ha d’aver tanto compassione alla povertà, quanto da biasma-
re la furfanteria7. E l’arti, che imaginato s’hanno per guada-
gnare dalla mendicità, sono da essere avute in odio da ogniu-
no, mentre che vogliono sulle porte delle chiese, in ingiuria
della natura umana e contra la legge di Dio, più tosto volonta-
riamente patire freddo mortale, stridere de denti, caldi ecces-
sivi e tormenti crudeli, cavandone fuora appena l’istessa mor-
te, che ne gli ospedali de poveri contenti dell’elemosina vivere
e medicare le infermità loro. E quello ch’è più da essere vitu-
perato, in questi tormenti di mali stannosi bestemmiando, ma-
ledici, pieni d’ingiurie, ubriachi e spergiuri, e talora simulata-
mente orando, facendosi beffe o dispregiando tutte le cose sa-
cre, né pure con riverenza alcuna adorano Cristo, di modo
ch’a risguardanti paiono non già martiri di Cristo, ma anime
dannate e spiriti dell’inferno. Ecci un’altra sceleratissima sorte
di mendicanti, di nessuna compassione degni, cioè di quegli
che con visco, farina, sangue e marcia, con piaghe incrostate di
sopra e bolle contrafatte, si dipingono tutti storpiati e cancero-
si; altri fingendo altre infirmità, con varie illusioni, si mostrano
molto miserabili in vista. Alcuni altri sono che, sotto pretesto

3
2 COR 8:14-15.
4
EF 4:28.
5
Cfr. 2 TS 3:6-14.
6
Cfr. 1 TM 6:5-8.
7
Il testo latino reca: «non tam paupertati condolendum, quam mendicitatem
ipsam detestandam».
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65. DELLA MENDICITÀ 315

di voti e di pellegrinaggi, vanno per il mondo, fuggendo quan-


to possono il disagio per l’amor di Dio8, con oziosa povertà
mendicando d’uscio in uscio, e questi tali non cambiarebbono
co i re la vita loro: essi possino andare liberamente dove lor
piace e fare quel che gli vien bene in tempo di guerra e di pa-
ce, in ogni loco securi dalle angarie, dalle gravezze publiche,
dalle servitù, dalle censure civili9, né sono chiamati in giudicio
per truffe, che si facciano, né per inganni, né per fraudi, né
per ingiurie, e come uomini consacrati a Dio passano senza ri-
cevere offesa da alcuno. E nondimeno dall’ordine loro nasco-
no di grandissimi inconvenienti e ne riescono d’orribili ribal-
derie, mentre che sotto pretesto di furfanteria vanno spiando i
secreti delle città e delle provincie, e mentre che essercitati et
instrutti in fraudi, inganni et ogni qualità di tradimenti, porta-
no innanzi et indietro lettere de gli inimici. Da costoro sono ta-
lora state abbrusciate le città, di che ne gli anni passati fa testi-
monio la Francia e la città Trirese10; essi alcuna volta hanno
corrotto l’acque, ammorbato le biade e venenato le vettovaglie
e, seminando pestilenza, fatto grandissima mortalità d’uomini.
Con questi tali sono da essere numerate quelle genti che si
chiamano Cingani11:

Dilettansi costor d’aver l’altrui,


e le proprie magioni in odio avendo
trascorron sempre in questa parte, et in quella.

Costoro, nati nel paese tra l’Egitto e l’Etiopia della genera-


zione di Chus, figliuolo di Cham, figliuolo di Noè, portano an-
cora a la maledizzione del progenitor loro, e scorrendo per
tutto il mondo, piantando fuor delle città ne i campi e nelle
strade padiglioni, con ladronecci e rubberie, con truffe e ba-

8
Il testo latino reca: «laborem ex industria fugientes», ossia «si industriano a sot-
trarsi al loro obbligo di lavorare i campi». Nel latino medievale il verbo «labora-
re» si riferisce pressoché esclusivamente all’attività agricola, come nel celebre
motto benedettino «ora et labora».
9
Il testo latino qui aggiunge: «undique et ubique liberi», forse ritenuto ridon-
dante e dunque espunto.
10
Si tratta della città di Treviri.
11
I Cingani, o zingari, sono popolazioni che conducono vita nomade, apparte-
nenti al gruppo etnico originario dell’India nordoccidentale e diffusosi, a partire
dal X sec., nel Medio Oriente, in Europa e nell’Africa settentrionale.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 316

316 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

ratti, e dando piacere ancora a gli uomini mostrando di sapere


indovinare per le linee della mano12, con queste fraudi si van-
no mendicando il vivere. Il Volterrano crede che siano gli Uxii,
popoli della Persia seguendo Scilare13, il quale scrisse l’istoria
di Costantinopoli14. Costui mette che Michele Traulo impera-
tore guadagnò l’imperio per indovinamento de gli Uxii, la
qual setta sparsa per la Mesia e per l’Europa, indovinava gene-
ralmente a ogniuno le cose a venire. Polidoro afferma che so-
no Assirii e Cilici15. Ma non pure questa peste di furfanteria sa-
na alberga fra secolari e vilissimi gaglioffi di disutil canaglia,
ch’ella è passata ancora alla religione nell’ordine de monaci e
sacerdoti. Di qui nate sono quelle sette di frati, monaci et altra
gente da rapina, nel numero de i quali sono quegli che con
malvagia sorte di religione, portando attorno, come essi dico-
no, reliquie di santi, o con insidiosa ippocrisia mostrandosi e
santi e buoni, con molte invenzioni di miracoli finti, minac-
ciando l’ira de santi, promettendo indulgenze e dispense, sot-
to pretesto d’elemosine uccellano alle ricchezze e, circondan-
do il paese, guadagnano da gli ignoranti contadini e dalle cre-
dule donniciuole superstiziosamente spaventate, la pecora, l’a-
gnello, il capretto, il vitello, il porco, i prosciutti, il vino, l’olio,
il butiro, il formento, i legumi, il latte, i formaggi, l’ova, le gal-
line, la lana, il lino, e ne traggono dinari ancora, svaligiando
tutto il mondo; e così carchi di grasse spoglie, ne ritornano a
casa, dove da tutti i suoi sono con gran festa ricevuti e lodati
d’avere così religiosamente truffato la semplice plebe e le mi-
sere feminuccie. E credonsi, con simili artificii di furfanteria e
notabili astuzie d’inganni, offerire gratissimi sacrificii a Dio et
a i santi ogni volta che carichi a questo modo di preda, con
gran dispendio del popolo e danno della republica, ingrassano
gli oziosi satelliti della famiglia loro, gettandosi affatto dietro le
spalle, schernendo e disprezzando l’opere della misericordia,
sotto colore delle quali sono lor fatte tante elemosine. Apuleio
scrisse già la favola di costoro nel suo Asino, parlando de i sa-
cerdoti della dea Siria16. Vanno appresso di questi infinite sette

12
Cfr. supra, p. 169.
13
Si tratta di Joannis Skylitzes (XI sec.), cronista bizantino.
14
Cfr. VOLTER., Comm. urban., XII.
15
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., VII, 7.
16
Cfr. APUL., Metam., VIII, 24-30.
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65. DELLA MENDICITÀ 317

di frati mendicanti e, come essi dicono, di beguardi17, i quali


abbandonata la santimonia delle regole loro, hanno cambiato
la pietade al guadagno, quasi che non avessero per altro fatto
profession di religione che per potere sotto titolo di povertà,
con sfacciata furfanteria, trascorrere per tutto e, con importu-
na ippocrisia, scorticare da ogni parte dinari, non si vergogna-
re d’alcun disonesto guadagno e, con mirabile gagliofferia, ab-
baiare al popolo in coro, in piazza, nelle chiese, nelle scuole,
nelle corti, ne i palagi, ne i privati e publici ragionamenti, nel-
le confessioni, nelle dispute, nelle prediche, dalle panche, dal-
le catedre, da i pergami e dalle bigoncie18, rocche della sfaccia-
tezza loro, vendere mercanzie d’indulgenze, e l’opere buone
loro misurare con cerimonie, trar preda delle cose male acqui-
state da i mercatanti, da gli usurai e da i nobili assassini, cavar
dinari da i rozi cittadini, dalla ignorante plebaccia e dalle su-
perstiziose vecchie, e con lo essempio del serpente allettar pri-
ma le pazze donniciuole e, per mezzo di quelle, ritrovar modo
a ingannare i mariti, i quali mentre che con affettata viltà di ve-
sti mostrano povertà, et abbaiando predicano che non si deb-
bano apprezzar i dinari e che si fugga l’ambizione, essi non
hanno maggior pensiero che di possedere infiniti dinari, e per
questa cagione circondano il mare e la terra, entrano nelle ca-
se e boteghe d’ogniuno, né sacramenti ministrano se non per
dinari, domandano tirannicamente l’elemosine a modo di tri-
buto, s’impacciano nelle facende d’ogniuno, saldano i matri-
monii mal fermati, mettono sottosopra i testamenti, accordano
le liti, riformano le sacre vergini, ma tutte queste cose fanno
con utilità loro. Questi sono le arti fratesche, con le quali mol-
ti di loro sono cresciuti in tanta auttorità, che mettono paura a
i papi et a gli imperatori, et hanno cumulato più ricchezze che
non sono le facultà de i mercatanti et i tesori de i principi, e
con molte migliaia di ducati hanno comprato e mitere e cap-
pelli, e con infiniti dinari hanno aspirato ancora al pontificato.
Tanto potere ha quella religiosa furfanteria. E benché posseg-
gono dinari senza fine, molti di loro fanno mostra di vera po-
vertà e di perfezzione molto maggiore che la evangelica, pur
che non gli tocchino con le mani, ma abbino un Giuda il qua-

17
Il termine latino tardo-medievale è «beguardus», donde l’inglese beggar, ossia
mendicante.
18
Il testo latino reca: «e suggestis», ossia «dai palchi», «dalle tribune».
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 318

318 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

le porti le borse loro e glie ne renda conto19. In questo mezzo


ardiscono dire come Pietro e Giovanni: «Argento et oro non
sta con essonoi»20. Ma se in questo non mentissero, e’l parlar
loro fosse fedele, avrebbono anco possanza di dire: «Levati, e
camina!», et insieme col beato padre Francesco, nudo e di di-
nari e di peccati, comandarebbono alle creature che gli ubidi-
rebbono, farebbono dell’acqua vino, passarebbono i fiumi sen-
za bagnarsi i piedi, farebbono tornare mansueti i rabbiosi lupi,
co’l comandamento solo acquetarebbono il garrire delle ron-
dini, farebbono un falcone che svegliarebbe a uso di gallo, co-
mandarebbono al fuoco, e molti altri miracoli farebbono che
quel santo uomo fece. Ma queste cose non fanno tutti quegli
che dicono: «Signore, Signore!», et a guisa di simie stoiche,
portano solamente di fuori le insegne di Cristo e l’abito di
Francesco, ma non osservano la volontà e’l testamento loro.
Scrissero già contra costoro Ricardo vescovo Armacano, Mal-
leolo preposto Tigurino e Giovanni vescovo Camotese21, e mol-
ti altri n’hanno fatto menzione, gli scritti de i quali molto più
tolerabili sarebbono, se non biasmassero tanto questa religiosa
mendicità, ma solamente l’abuso di quella. Ma di questo basti
per ora, accioché possiamo andare più innanzi.

19
Cfr. GV 12:4-6.
20
AT 3:6.
21
Richard Fitz Ralph (m. 1360) arcivescovo di Armagh, detto Amarchanus o Ard-
machamus, famoso per le sue controversie con gli ordini dei mendicanti, cui so-
no dedicati numerosi suoi sermoni e il trattato in 7 libri De Pauperie Salvatoris
(1357); Richard Felix Hemmerlin (ca. 1389-ca. 1459), detto Malleolus, teologo
svizzero canonico a Zurigo, autore del Tractatus contra validos mendicantes; per
Berthold Chimiensis, si veda supra, nota 9, p. 275.
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66.
DELLA ECONOMIA IN GENERE

Sotto il governo della republica si contiene ancora l’econo-


mia, la quale è una certa domestica republica, e non altro che
monarchia privata; ma le specie di quella son molte, percioc-
ché alcuna si chiama regia, overo di corte; un’altra satrapica,
overo castrense; di nuovo un’altra publica, o di comunità, o
conventuale, o di compagnia; e finalmente una privata, overo
monastica1. Questa insegna dunque in che modo s’hanno da
governare la moglie, i figliuoli, i parenti, la famiglia et i servi,
qualmente s’ha da conservare et aggrandire la casa e la posses-
sione, e dove s’hanno da levare le spese. Oltra di questo tutte
le astuzie che sono nelle rendite, nella moneta, nelle gabelle,
ne i dazii, nelle decime, nelle usure, ne gli avanzi, ne i trafichi,
e tutte le nuove arti et invenzioni di poter far guadagno et
avanzo. Delle compagnie ancora, delle convenzioni, delle liti e
della guerra, tutte le quali cose, perché non hanno né modo,
né regola, anomale si chiamano. Onde la economia non si può
veramente domandare né arte né scienza, ma una certa disci-
plina domestica composta dalla opinione, dall’uso, dalla con-
suetudine, dalla prudenza, o vogliam dire astuzia, de gli uomi-
ni, alla quale tutti gli artificii plebei et arti mecaniche si riferi-
scono, le quali consistono in lino, lana, legno, ferro, rame e di-
versi metalli, i servigi servili ancora di barbieri, di stuffaiuoli,
d’osti, e varii modi d’acquistare il vivere e d’accrescere facultà,
le quali non appartengono punto alla auttorità del governare,

1
Cfr. ARIST., Oec., 1345b-1346a.
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320 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

né danno alcuna utilità al reggimento della republica, non


speculano cosa veruna divina, liberale, né eroica, le quali sono
tante che annoverare non si possono, e tutte sono servili. Mol-
te altre ancora sono infami per parentado ch’elle hanno co i
vizii, sì come i carattieri, i barcaiuoli e gli osti sono reputati in-
fami per lo vizio di cianciar troppo, perché si dilettano di favo-
le e vanno seminando nuove; e similmente i barbieri, gli stuf-
faiuoli et i pastori, perché quelli sono stati fatti infami per la fa-
vola di Mida e per l’istoria di Silla ch’assediava Atene, questi al-
tri per la favola di Batto2. Sono similmente infami i cantori, i
pifferi, i citaredi, uomini che condotti per prezzo suonano in-
stromenti musici ne i convivii per cagione di dar diletto altrui.
Ma la vita de marinai è di tutte l’altre infelicissima e pessima: la
stanza loro è a guisa di prigione, il vivere asprissimo e senza
mondizia alcuna, i vestimenti sporchi, et in somma hanno in-
comodità di tutte le cose, perpetuo esilio, sempre vagabundi,
instabili, e non conoscono riposo, travagliati sempre dalla rab-
bia de venti e dall’instabilità delle onde, sottoposti d’ogn’ora
al caldo, al freddo, alla pioggia, a i folgori, alla fame, alla sete
et al disagio. Vanno appresso di questo le Scille, le Cariddi, le
Sirti, le Simplegadi e tanti manifesti pericoli del mare; oltra di
ciò le fortune di mare, delle quali cosa non è né più spavento-
sa né più orribile, e con tutti questi et altri infiniti mali, il con-
tinuo pericolo della vita. Et essendo i marinari i più infelici di
tutti gli altri uomini, sono anco in un medesimo tempo i più ri-
baldi. Ma fra tutte queste arti mecaniche i primi luoghi sono
della mercanzia, della agricoltura, della milizia, della medicina
e della arte de gli avocati, delle quali per ordine ragioneremo
più abbasso. Ma consideriamo prima i generali fondamenti
della economia.

2
Per il barbiere del re Mida, il quale, accortosi della deformità del suo padrone
(le orecchie d’asino fattegli spuntare da Apollo) mentre gli tagliava i capelli, non
seppe trattenere il segreto, si veda OVID., Metam., XI, 180-193; per Batto, vecchio
mandriano di Piro, trasformato da Mercurio in pietra per aver denunciato il fur-
to di alcune vacche compiuto dal dio, non avendo saputo trattenere il segreto, si
veda OVID., Metam., II, 676-707.
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67.
DEL GOVERNO PRIVATO

Tutta la forza del governo privato sta nel matrimonio, onde


Metello Numidico censore, confortando il popolo romano a
matrimonii disse: «Cittadini, se potessimo fare senza moglie,
tutti cercaremmo di fuggire quello impaccio, ma perché la na-
tura ha ordinato così, che né con quelle a bastanza comoda-
mente, né senza loro a modo alcuno vivere si possa, si dee più
tosto provedere alla salute perpetua che a un contento breve».
Queste cose racconta Aulo Gellio1. Perciocché né casa, né fa-
cultà alcuna può stare in piedi, né durare senza la moglie, per-
ciocché senza la moglie non si può accrescere il parentado, né
chiamarsi erede, né domandarsi eredità, né dirsi parenti, né
famiglia, né padre di famiglia. Chi non ha moglie, non ha casa,
perché non ferma casa; e se pur l’ha, sta in quella come fori-
stiero nell’albergo; chi non ha moglie, ancora che ricchissimo
sia, cosa alcuna non ha ch’appena si possa dir sua, perché non
ha a chi poter lasciare, né in cui fidarsi: tutte le cose sue sono
esposte alle insidie, i servitori lo rubbano, i compagni lo ingan-
nano, i vicini lo sprezzano, gli amici se ne fanno beffe et i pa-
renti gli tendono aguati; s’ha figliuoli fuor del matrimonio, gli
tornano di vergogna, e perché le leggi lo vietano, non può la-
sciare loro né il nome della famiglia, né l’arme de gli antichi,
né le facultà sue; et egli ancora è rimosso, di volere di tutti i le-
gislatori, da tutti gli uffici et onori publici. Perciocché non è

1
Cfr. AUL. GELL, Noct. att., I, 6, 2.
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322 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

degno di reggere la città chi non ha imparato a governare la


sua casa, né governare la republica chi mai non ha saputo go-
vernare la privata e famigliare, la quale è verissima idea et ima-
gine di quella. Questo intesero i Greci, i quali ingegnandosi Fi-
lippo Macedonico pacificare insieme, ch’erano in discordia, e
recitando Gorgia Leontino in Olimpia un libro della concor-
dia de Greci, rifiutando l’uno e l’altro, se ne fecer beffe, che si
sforzassero d’accordare gli altri coloro che in casa propria non
sapevano formare concordia alcuna. Perciocché Filippo aveva
a casa il figliuolo e la moglie in discordia, e Gorgia la moglie e
la fante, et in questo modo non credevano che la presonzione
della prudenzia e dell’auttorità di coloro che non bastavano
per acquetare le lor differenze di casa, potesse saviamente met-
tere d’accordo le discordie di fuori. Colui, dunque, ch’è posto
al governo della città e della republica, se prima non saprà go-
vernare se medesimo, la casa e la facultà sua, veramente piglia
tal carico invano. Questo finalmente è quel solo stato di vita
nel quale l’uomo può menare vita felicissima sopra l’altre,
amando la moglie, allevando i figliuoli, governando la fami-
glia, mantenendo le facultà, reggendo la casa et accrescendo il
parentado, nel quale se pure interviene carico o fatica alcuna
(che molte ve n’accadono, et ella ancora non è senza la sua cro-
ce) veramente questo solo è leggier peso e soave giogo che vi è
matrimonio: se la compagna però sarà tale che non avarizia, non
superbia, non inganno, non fraude, non furiosa lussuria, ma Dio
l’abbia congiunta, acciocché l’uomo abbandoni il padre e la ma-
dre, i figliuoli, i fratelli et i parenti, per accostarsi a sua moglie, il
cui amore dee vincere l’affezzione di tutti gli altri. Così Ettore,
veggendo dappresso la ruina di Troia, non s’afflige tanto dal pen-
sare al padre et alla madre, a i fratelli, né a se medesimo, quanto
alla cara moglie. Che in questo modo ragiona egli in Omero:

Dubbio non ho che Troia non ruine,


Priamo, e’l popolo suo molto, e feroce,
ma me del popol mio non prende cura,
del padre, della madre, o de fratelli,
benchè sian molti, e valorosa gente,
che morir debban per nemiche mani,
quanto di te mi duol mia cara moglie2.

2
OMERO, Iliad., VI, 447-455.
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67. DEL GOVERNO PRIVATO 323

Io confesso che di molti affanni e mali accompagnano i ma-


trimonii ingiusti, della maniera che già raccontò Socrate: il
perpetuo affanno, la gelosia che tormenta, le continue quere-
le, il rinfacciar de la dote, la trista ciera de parenti, il paragone
del matrimonio altrui, le molte spese, i dubbiosi fini de figliuo-
li, alcuna volta il rimanerne privo, il mancare della famiglia,
l’erede estraneo, et infiniti dolori. Aggiungi a questo il non fa-
re alcuna scelta della moglie, ma il pigliarla a caso, o baldanzo-
sa, o pazza, o di malvagi costumi, o superba, o sporca, o brutta,
o puttana: ogni difetto ch’ella ha si conosce dopo ch’è marita-
ta, ma non mai, o con gran fatica, si corregge. Sono essempi di
matrimonii diseguali: Marco Catone Censorio all’età sua poco
meno che capo della Republica romana, il quale appena ritro-
vava pare alcuno né in guerra, né in pace, avendo oggimai vec-
chio tolto per moglie una giovanetta figliuola d’un certo Salo-
mo, uomo povero e di bassa condizione, portandosi ella con
seco ritrosamente, in casa sua non aveva auttorità alcuna3. Ti-
berio avendo per moglie Giulia figliuola d’Augusto, infame
per manifesti adulterii, né avendo ardire di castigarla, d’accu-
sarla, di repudiarla, né di tenerla, fu sforzato andarsene a Ro-
do, non senza vituperio della fama e con pericolo della vita4.
M. Antonio filosofo, avendo tolto per moglie Faustina figliuola
d’Antonino Pio, fu costretto a ritenerla ancor che adultera per
non venire in contesa della dote e dell’imperio5. Ma tutti que-
sti incomodi avengono non tanto per colpa delle mogli, quan-
to per difetto de mariti, perché se non a cattivi mariti non suo-
le incontrare moglie ribalda. Di questa materia filosofò Varro-
ne appresso Gellio, dicendo in tal modo: «Il vizio della moglie
s’ha da tor via o da sopportare: chi lo leva, se la fa molto più
agevole; chi lo sopporta, diventa egli migliore»6. Di questo ab-
bian noi più largamente ragionato nella nostra declamazione
sopra il sacramento del matrimonio7. Né però l’allevare i fi-

3
Sul matrimonio tra Marco Porcio Catone il Censore e la figlia di un suo cliente
chiamato Salonio, si veda, per es., AUL. GELL., Noct. att., XIII, 20, 8.
4
Cfr. SVET., De vita Caes., III, 10-11.
5
Cfr. GIUL. CAPIT., Marc. Anton. phil., XIX, 8-9.
6
AUL. GELL, Noct. att., I, 17, 4. La fonte di Gellio sono le Satire menippee di Marco
Terenzio Varrone (116-27 a.C.), per cui si veda fr. 83 (ed. Bücheler).
7
Allusione all’opera di Agrippa intitolata De sacramento matrimonii declamatio
(1526).
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324 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

gliuoli riesce bene ad ogniuno, molti de i quali o hanno cattiva


fama o sono ribelli a i padri, alcuni altri gli hanno in odio, al-
cuni padri gli hanno pazzi e mentecatti, chi tardi e rozi; alcuni
menano la vita loro per i pericoli di tutti i vizii e ruinano i pa-
trimonii in gola, in lussuria et in giuochi; alcuni altri amazzano
chi gli ha generato, come furono Alcmeone et Oreste e P. Mal-
leolo, i quali uccisero la madre8. Et Artaserse Mnemone, aven-
do cento e quindici figliuoli, se ne levò dinanzi una gran parte
di loro che cercavano di torgli la vita9. Onde elegantemente
disse Euripide, e’l nostro Bernardo ripigliò, ch’egli è un bene
non conosciuto l’essere senza figliuoli. Augusto anch’egli feli-
cissimo imperatore, fu spesse volte sforzato per la figliuola et
nepote usurpare quel verso d’Omero:

Deh, foss’io stato senza moglie e figli!10.

Euripide dice similmente in questo modo de servi: «In casa


non s’ha né maggiore inimico, né peggiore, né più disutile del
servo». E Democrito dice: «Il servo è possessione necessaria,
ma non dolce»11. Il Petrarca scrisse anch’egli in certo loco: «Io
sapeva ben di vivere co i cani, ma non già d’essere cacciatore se
non ne fossi stato avisato. I servi si chiamano cani perché sono
mordaci, sono golosi et abbaiano sempre»12. Plauto nel Pseudo-
lo dipinge la natura loro in queste parole: «Generazione d’uo-

8
Alcmeone, figlio di Amfiarao ed Erifile, su ordine del padre uccise la madre re-
sponsabile della morte del marito (si veda TUCID., Hist., II, 102; PAUS., Descr. Graec.,
VIII, 24, 8-9; PLUT., Mor., 35e; 88f; CORN. NEP., De excell. duc. exter. gent., XV, 6, 2);
Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra, ricevette da Apollo l’ordine di ven-
dicare la morte del padre uccidendo la madre, responsabile insieme a Egisto del-
l’assassinio di Agamennone. La leggenda, sconosciuta in Omero, è narrata nelle
tragedie di Eschilo ed Euripide. L’episodio di Publio Malleolo che, con l’aiuto di
alcuni servi, uccise la madre, è ricordato in OROSIO, Hist. adv. pag., V, 16, 23. Su
questo episodio, si veda anche Ad Herenn., I, 23.
9
Cfr. RODIG., Lect. antiq., VI, 39; VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., IX, 2, Ext. 7; ELIANO,
Var. hist., IX, 42. Si tratta di Artaserse II, re di Persia dal 404 al 358 a.C., detto ‘Mne-
mone’ per la sua prodigiosa memoria (si veda, per es., ELIANO, Var. hist., I, 32).
10
Cfr. SVET., De vita Caes., II, 65. Il verso citato da Augusto si trova in OMERO, Iliad.,
III, 40.
11
La sentenza non compare nelle edizioni dei frammenti e delle testimonianze di
Democrito. Per un giudizio di Democrito sui servi, si veda fr. 270 (ed. Diels-
Kranz).
12
PETR., Famil. rer. lib., V, 14, 5.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 325

67. DEL GOVERNO PRIVATO 325

mini da sferza e da amazzare, che non hanno in mente giamai


cosa che bene stia, ma quando ne viene loro occasione: tieni!
piglia! rubba!, questa è l’industria loro, che meglio sarebbe la-
sciare i lupi appresso le pecore che costoro per guardia in ca-
sa»13. E Luciano nella Palinura dice: «Hanno sempre i servitori
le villanie in pronto contra i padroni, le rubberie, le truffe, la
fuga, la arroganza, la dapocaggine, la ebriachezza, la ingordi-
gia, il russar sempre, la tardità e la poltroneria»14. Onde n’è na-
to quel proverbio: «Noi abbiamo tanti inimici in casa quanti
servi»15. Ma noi spesse volte non tanto gli abbiamo, quanto se
gli facciamo, essendo contra di loro superbi, avari, fastidiosi e
crudeli, et in casa si vestiamo l’animo de i tiranni, e non quan-
to si conviene, ma quanto ne piace, vogliamo avere imperio so-
pra i servi16. Di questa materia ragiona in tal modo Strofilo ser-
vo nella Aulularia di Plauto:

Male usano i padroni i servi loro,


male i servi ubbidiscono a i padroni.
Così questi né quegli il dover fanno.
Chiudon con mille chiavi i vecchi avari
la volta, la cucina e la dispensa,
sì che appena ne fan parte a i figliuoli.
I servi giotti, traditori e ladri,
apron con mille chiavi i luoghi chiusi,
rubbando di nascoso, e consumando
ne i furti scopririan con cento forche.
Così vendetta fanno i tristi servi
de la lor servitù con riso e gioco.
Però dico che l’esser liberale,
più ch’altra cosa, servi fa fedeli17.

Molte republiche hanno già ricevuto di grandissimi danni


da i servi: di ciò testimonio fanno le guerre servili da gli istori-
ci scritte. Ma sopra tutte la città di Volsinesi18, piena di ricchez-
ze, ornata di costumi e di leggi, diede già compassionevole

13
PLAUTO,Pseud., 137-140; 153.
14
LUCIANO, Epist. saturn., 21.
15
MACROB., Conv. saturn., I, 11, 13; SEN., Ad Luc. epist. mor., XLVII, 5.
16
Cfr. SEN., Ad Luc. epist. mor., XLVII, 15 sgg.
17
PLAUTO, Aulul., 587-602, qui citato liberamente.
18
Per la città di Volsinii, oggi Bolsena, si veda LIV., Ab Urbe cond., V, 31 e VII, 3.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 326

326 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

spettacolo della insolenza de servi, la quale, avendo troppo fi-


nalmente allentato il freno a i servi, e talora chiamatogli ne i
consigli, finalmente avendo avuto ardire alcuni pochi d’entra-
re nell’ordine de senatori, occuparono in un tratto tutta la re-
publica, fecero scrivere i testamenti come piacque loro, non la-
sciavano fare conviti né ragunanze d’uomini liberi, sposavano
le figliuole de i padroni; ultimamente fecero una legge che gli
stupri loro nelle vedove e nelle maritate non fossero puniti, e
che nessuna vergine si maritasse in uomo libero se prima alcu-
no di loro non aveva preso saggio della verginità sua19. A que-
sto modo una città ricchissima, la quale era capo della Caria,
per usare troppa libertà e clemenza verso i servi, ruinò al
profondo delle ingiurie e del vituperio. Perciocché, come dice
Aristotele nelle orazioni politiche, tolta via la disciplina da ser-
vi, i padroni cadono nelle insidie, come fecero gli iloti contra i
Lacedemoni et i penesti contra i Tessali20.

19
Cfr. VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., IX, 1, Ext. 2, ma si veda anche FLOR., Epit.,
I, 21; OROSIO, Hist. adv. pag., IV, 5.
20
Cfr. ARIST., Polit., 1278b. Sugli iloti e i penesti, schiavi che non sono tali per na-
scita, ma che lo sono diventati come prigionieri di guerra, si veda anche PLAT.,
Leg., 776b-778a; ATEN., Deipn., VI, 263e-265c.
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68.
DEL GOVERNO REGIO, OVERO DI CORTE

Resta che brevemente ragioniamo del governo regio, cioè di


corte. Non è dunque in effetto la corte altro che un collegio di
giganti, cioè una ragunanza di nobili e famosi gaglioffi, un tea-
tro di pessimi satelliti, una scuola di corruttissimi costumi et un
rifugio di disonestissime ribalderie, dove la superbia, l’alterez-
za, la boria, la rapacità, la libidine, la lussuria, l’invidia, l’ira, la
crapula, la violenza, la impietà, la malizia, la perfidia, l’ingan-
no, la malignità, la crudeltà, e quanti vizii sono altrove e corot-
tissimi costumi, abitano, signoreggiano e regnano, dove gli stu-
pri, i rapimenti, gli adulterii e le fornicazioni sono i giuochi de
i principi e de gli uomini nobili: quivi ancora le madri de i si-
gnori e de i re sono talora ruffiane de figliuoli; quivi è uno in-
finito naufragio di tutte le virtù e fortuna di tutte le scelerità;
ogni uom da bene vi è oppresso et ogni ribaldo inalzato, i sem-
plici son beffati, i giusti perseguitati, i prosontuosi e gli sfaccia-
ti sono favoriti. Soli quivi vanno prosperando gli adulatori, i
mormoratori, le spie, gli accusatori, i calonniatori, i gaglioffi, i
malvagi, le male lingue, i truffatori, gli inventori de i mali et al-
tra generazion di ribaldi, i quali fanno professione di tutte
quante le ribalderie, tutta la vita de i quali è vergognosissima.
Quanta malvagità delle più scelerate bestie si ritrova al mondo,
tutta pare che si sia raccolta quasi in un corpo nel gregge de i
cortigiani: ivi è la ferocità del leone, la crudeltà della tigre, la
impietà dell’orso, la bestialità del cingiale, la superbia del ca-
vallo, la rapacità del lupo, l’ostinazione del bue, l’inganno del-
la volpe, la malizia del cameleonte, la varietà del pardo, la mor-
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328 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

dacità del cane, la desperazione dell’elefante, la vendetta del


camelo, la temedità della lepre, la petulanza del becco1, la bru-
tezza del porco, la semplicità della pecora, la pazzia dell’asino,
la buffoneria della simia; qui sono i furiosi Centauri, le perico-
lose Chimere, i pazzi Satiri, le sporche Arpie, le ribalde Sirene,
le Scille con due forme; quivi gli orrendi struzi, quivi gli ingor-
di griffoni, i terribili dragoni e quanti strani e spaventosi mo-
stri creò giamai la natura contra sua voglia, abita e si vede; qui-
vi ogni qualità di virtù patisce i suoi carnefici e tiranni; insom-
ma, o s’ha da fermarsi nella iniquità, nella malizia e nella im-
pietà, o da partire di corte. Non è chi vada senza castigo se non
i pazzi; esca di corte chi vuole esser buono. Alle città non può
incontrare alcuno più dannoso male che la corte d’un potente
signore: quando questa si move, a guisa di cometa nunziatrice
di tutti i mali, e non altramente che una mortalissima peste, a
ogni parte dove ella arriva porta con seco pericolissima disgra-
zia, et in ciascun loco dove ella aggiunge, lascia segni immedi-
cabili del suo veleno, come di quegli che morsicati sono da
rabbioso cane. In compagnia di lei va la perpetua caristia delle
cose, mentre che ogniuno cerca di guadagnar seco, crescendo
il prezzo delle robbe, il quale con grandissimo danno non si
può mai più abbassare. È accompagnata ancora dalla delica-
tezza delle vivande per la quale il popolo, essendosi introdotto
il modo de i cibi foristieri, ha incominciato ad avere in fastidio
i mangiari del paese; e generalmente attendendo alla cucina et
alla gola, disonestamente consuma le proprie sostanze. L’ac-
compagna anco la pompa, la quale mentre che i cittadini e le
donne s’ingegnano d’imitare, e tutte le case prendono di là il
modo e l’abito delle lor vesti, spendono ogni cosa in vestimen-
ti et in pompa. Ne viene appresso la curazione de i costumi,
male d’infinito danno, introducendo pessimi vizii. Ora quan-
do la corte si parte della città, oimè che sporca coda si lascia el-
la adietro: questi ritrovano le mogli vergognate, quegli altri
adulterate, o le figliuole menate via per puttane, alcuni altri i
figliuoli subornati, o i servi e le fanti corrotte. Che accade a dir-
ne molte parole? Fassi un pianto grande, e tutto l’aspetto della
città si vede mutato, come la faccia d’una meretrice. Io so che
una famosa città della Francia n’è per questa cagione così rui-

1
Cfr. supra, p. 16, nota 3.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 329

68. DEL GOVERNO REGIO, OVERO DI CORTE 329

nata ch’appena vi si vede alcuna gentildonna pudica, a fatica vi


si maritano le figliuole vergini, anzi si reputano a grande ono-
re l’essere stata puttana di corte, e le gentildonne vecchie son
ruffiane delle giovani. E questa disonestà talmente è cresciuta
che non v’ha più loco alcuno la vergogna, et a fatica i mariti
medesimi non si curano che le mogli siano puttane pure che,
come disse Abraham a Sara, essi la facciano bene, per rispetto
loro, e delicatamente possano vivere per amore di quelle2.

2
Per l’episodio di Abramo e Sara, si veda supra, pp. 308-309.
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69.
DE I CORTIGIANI NOBILI

Il popolo cortigiano è di due sorti: il primo loco è dei Satra-


pi, dico di quei nobili Trasoni1, i quali impazzano nella super-
bia, nella lussuria e nella pompa, vestiti di porpora e di broca-
to e di lavorio di pennachi, con vestimenti fregiati e dorati. A
costoro

Piaccion le meretrici, et i passi sconci,


i crini sparsi, et i portamenti nuovi2.

Questi tali mettono tutte le forze loro nella lussuria, et ap-


presso ogni sapere et ingegno nella gola e nel mangiare, cer-
cano in tutti i modi d’andare pomposamente adobbati, man-
giano splendidamente, mettendo tavola e cavalierescamente
vivendo. Costoro tengono a grandissimo onore se in un famo-
so convivio consumano tanto di suo in una volta, che poi senza
vergogna alcuna vadano per tre mesi continui alle tavole al-
trui. Intorno a costoro da ogni parte corrono citaredi, pifferi et
ogni sorte di musici, boffoni, istrioni, parasiti, meretrici, ruffia-
ni3, danzatori, cacciatori, e sì fatti mostri d’uomini, e si pasco-
no cani, cavalli, lupi cervieri, sparvieri et altri uccelli armati, si-
mie e papagalli, e s’altri vi sono mostri e vergogne della natura,
orsi, leoni, leopardi e tigri. I loro ragionamenti sono pure cian-

1
Cfr. ERASMO, Antib., p. 134.
2
PETRON., Satyr., CXIX, 25-26.
3
Cfr. ERASMO, Moriae enc., LVI.
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332 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

cie et oziose favole: dicono male, accusano, straparlano, men-


tono, o tra le cose vere meschiano le false. Questi molte cose
favoleggiano de cani, delle caccie, del circuito delle selve, del-
l’intrigo de boschi e de i fini delle caccie; quelli altri in molte
cose dicono la bugia, di cavalli, di guerra e di prodezze c’han-
no fatto. Se vi sarà presente alcuno invidioso, interrompendo i
ragionamenti altrui farà strepito mettendo in campo altre
ciancie e, con molta insolenza, racconterà le sue valentigie, le
quale penserà che gli debbano fare onore. Alcuno è che spesse
volte fa rimanere costui in bugia e con varie facezie se ne fa
beffe, onde bene spesso allora tutto il ragionamento del convi-
vio finisce in colera e villanie e, come avenne ne i conviti de
Centauri, non rimangono di volare attorno i bicchieri e le taz-
ze fin che si viene al sangue4. E così dalle tavole di questi corti-
giani spesse volte ritornano i foristieri con ferite, come se con
questa condizione fossero stati invitati:

Quel che ci resta è ch’attendiate a i corpi,


e siate sempre presti alla battaglia5.

Tutta la disciplina di costoro è in osservare i tempi de i prin-


cipi, acciocché fuor di tempo non gli proponessero alcuna co-
sa; e questo non pigliano dalle stelle, da i cieli, o dalle efimeri-
di, ma dal vino, dal desiderio, dal convivio, dalla caccia, o dal
riposo, quando il principe è allegro e ha ottenuto alcun suo
desiderio, e s’altri ne conoscono tempi e momenti piacevoli,
allora cominciano a spandere i romori delle novità, le quali di-
lettano all’orecchie del principe; da poi a poco a poco proce-
dono a quel che desiderano, avendo scritto da natura in loro il
consiglio d’Aristotele a Callistene suo discepolo, il quale lo
confortava a non parlare mai se non piacevolissimamente col
re, acciocché appresso l’orecchie del re fosse o più securo nel

4
Possibile allusione alla leggenda delle nozze di Piritoo, re dei Lapiti, durante le
quali i Centauri, esaltati dal vino, rapiscono la sposa, provocando una zuffa fero-
cissima (si veda OMERO, Odys., XXI, 295-298; OVID., Metam., XII, 210-541). I Cen-
tauri, inoltre, nelle leggende sono rappresentati quasi sempre (fanno eccezione
le figure di Chirone, Folo e Nesso) come esseri rozzi, volgari e crudeli, dediti al vi-
no e ai facili amori.
5
VIRG., Aen., IX, 157-158.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 333

69. DE I CORTIGIANI NOBILI 333

silenzio o più grato nel parlare6. Che se per aventura allora il


principe o il re avrà fatto buon volto ad alcuno, et avrà consen-
tito a quel ch’è ragione, se avrà detto o fatto alcuna cosa grata,
se gli avrà creduto alcuna cosa, se l’avra chiamato a cianciare
in secreto con lui, e questo non abbia fatto a gli altri, costui ve-
ramente sarà stimato grande ne gli occhi de gli uomini e già
comincierà a farsi lecito ogni cosa, morderà ogniuno, riderà
d’ogniuno, si farà beffe d’ogniuno, dirà male in secreto, ri-
prenderà in publico, parlerà di cose grandi, tenterà di fare
ogni cosa acciocché ogniuno lo abbia a temere, calpesterà gli
inferiori, si farà beffe de pari suoi, non degnerà i superiori,
vorrà non pure essere onorato ma adorato, ancora con ingiu-
ria altrui anderà tutto gonfio e superbo et aspirerà alle gran-
dezze.

La virtù loro è di mal far possanza7.

Chi non gli adula e non gli fa buono ogni cosa, ancora che
faccia male, subito ha errato, perché sarà giudicato o avere in-
vidia della fortuna sua, o non usare rispetto all’ufficio di lui, né
solamente sono allora questi tali odiosi a pari et inferiori loro,
ma spesse volte sono di grandissimo danno a principi suoi me-
desimi, a i quali pericolosamente stanno adulando sotto coper-
ta di prudenza8, di riprensione e di consigli, e molte volte an-
cora gli spingono a fare di crudelissime ribalderie, sì come in
Lucano Curio instiga Cesare:

Qual possanza ha le tue forze impedito?


Non ti fidavi tu forse di noi?
Mentre che’l sangue caldo in corpo avremo,
e dardi lancieran le braccia forti
lascierai che’l Senato abbia governo?9

Simili instigatori ebbe Alessandro Magno, i quali ogni dì più


infiammavano l’animo suo, che da natura era pazzo, alle guer-

6
Cfr. VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., VII, 2, Ext. 11, ma si veda anche DIOG.
LAERZ., Vitae philos., V, 1, 5. Il re è Alessandro Magno.
7
LUCANO, De bello civ., VIII, 491 e 494.
8
Il testo latino aggiunge: «saeveritatis», qui mancante.
9
LUCANO, De bello civ., I, 361-365, dove però a parlare è Lelio, non Curio.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 334

334 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

re et alle uccisioni. E di sì fatti consiglieri ebbe Roboam fi-


gliuolo di Solomone10, e di questa maniera n’hanno i principi
dell’età nostra, i quali compiacendo a i desiderii loro, non solo
gli ubidissero, ma gli confortano ancora ad ogni ribalderia,
overo in tal modo gli dissuadono che più gagliardamente ve gli
spingono, mentre che gli oppongono le ragioni loro così debi-
li et inferme acciocché, sopportando in questo modo d’esser
vinti, confermino l’errore de i principi i quali facilmente cre-
dono, ingannando talmente all’una e l’altra parte, che non ne
possano esser ripresi, ma oltra di ciò vengono ringraziati anco-
ra della perfidia del tradimento. Di questa sorte oggidì n’ha il
re Francesco troppo pronti a i cattivi consigli, i quali volentieri
lo spingerebbono contra Cesare ad ogni tradimento e tirannia,
et in questo mezzo sono stimati ottimi e fedeli11. Queste cose
bastino de i cortigiani nobili, de i quali chi n’offenderà uno,
sarà fatto colpevole di tutti gli altri.

10
Cfr. 1 RE 12:1-9; ECCLI 47:23.
11
Allusone a Francesco I di Valois (1494-1547), re di Francia. I consiglieri sono di-
versi principi e nobili italiani e francesi, tra cui il doge di Genova Andrea Doria.
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70.
DE I CORTIGIANI PLEBEI

Vi sono ancora certi plebei cortigiani, uomini d’animo mal-


vagio, i quali in vita loro non hanno mai auttorità sopra alcu-
no, ma essi di continuo servono: costoro vanno per le case de
nobili e parasitano con loro, vivendo alle tavole altrui, e stima-
no che’l sommo bene sia il vivere al piatto altrui1. Per questo
fanno servigio a ogniuno, adulano ogniuno, parasitano a
ogniuno e con ogniuno si sforzano d’essere ogni cosa trasfor-
mandosi in più modi de Proteo2 e, mutandosi in più forme per
acquistarsi il favore de i grandi, s’ingegnano di spiare i ragio-
namenti de i convitati per avere poi che ridire, e con astuzia di
volpe ricercano i secreti di quegli che sono in discordia, et ora
gli riferiscono a gli amici et ora a gli inimici3, mettendosi in
grazia a questi et a quegli, mentre che all’una e l’altra parte
mancano di fede, e tanto più sono accomodati a i tradimenti,
quanto meno per la finzione della semplicità sospetti sono. E
benché non sia più scelerato vizio che’l tradimento, non ne
hanno però i cortegiani alcuno altro né più utile né più breve
a guadagnarsi in corte e dignità e ricchezze di questo, né anco
che sia più grato né più accetto a i signori: s’accostano dunque

1
Cfr. GIOVEN., Sat., V, 2.
2
Cfr. REUCHL., De verbo mirif., I, B4r; ERASMO, Antib., p. 116. Proteo è il dio marino,
figlio di Oceano e di Teti, capace di mutarsi in qualunque cosa e di predire il fu-
turo (si veda, per es., OMERO, Odyss., IV, 543-582; VIRG., Georg., IV, 422 sgg.; OVID.,
Metam., VIII, 730-737; XI, 221-223 e 249-56; ORAZIO, Sat., I, 2).
3
Cfr. GIOVEN., Sat., III, 113.
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336 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

alle case de i grandi e vogliono sapere i secreti di casa4, e per


questo esser temuti. Che se pure una volta sono stati consape-
voli o di disonestà o di tradimento alcuno, allora son riusciti e
divenuti grandi. Perciocché

caro sarà a Verre chi d’ogni tempo potrà accusare Verre5.

Già s’hanno guadagnato essi una famigliarità, anzi domesti-


chezza, co i grandi, nella quale confidatisi facilmente possono
arrivare alle cose che desiderano. E per la prima cercano esse-
re scritti nella matricola de cortigiani, e questo è loro assai sen-
za altra provisione, perciocché il titolo solo senza salario anco-
ra è di guadagno e può far preda; dapoi non si diffidano di po-
tere acquistare tutti i grandi, i quali solecitano allora con lusin-
ghe, stimolano con servigi, e s’ingeriscono ne gli offici o per ri-
spetto dell’amicizia o con altro artificio, et essi ingordissima-
mente cercano tutte quelle cose che sono abbandonate da gli
altri o per paura de i pericoli, o per non potere durare la fati-
ca, o per caristia di guadagno. Vegghiano dì e notte, peregri-
nano e portano attorno ambasciate e lettere, prendono e sop-
portano di fatiche grandi et ardiscono di fare ogni cosa ancora
anche meritasse e la prigione e la forca6, finché co’l mezzo di
questi meriti sono fatti o secretari, o hanno l’officio della si-
gnatura, o la guardia del tesoro, o sono loro fidate le ragioni
dell’entrate. Et essendo già usciti le angustie delle fatiche, non
fanno più servigio alcuno senza essere pagati, ma d’allora
inanzi tutte le cose vendono a contanti, et avendo insieme co’l
nuovo onore mutati i costumi, scordandosi di tutte le cose pas-
sate e passando inanzi, sprezzano quel che avevano da prima,
desiderando sempre più oltra e, tratti dall’avarizia, rivolgono
ogni cosa alla preda et allo strepito del guadagno. Scarsi di fe-
de e larghi di parole, in un medesimo tempo e piacevoli et in-
sidiosi, nel parlare oscuri et a guisa d’oracoli dubbiosi: ciò che
veggono, ciò che odono, ciò che si dice, ciò che si fa, tutto pi-
gliano in mala parte; di se medesimi solo si fidano; solo se stes-
si amano e solo per loro proprii s’amano; non credono a fede

4
Ivi, III, 52.
5
Ivi, III, 53-54.
6
Ivi, I, 73.
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70. DE I CORTIGIANI PLEBEI 337

né amicizia d’alcuno; non tengono compagnia d’alcuno se


non per cagion di guadagno; mettono inanzi l’utilità propria a
tutte le cose; disprezzano a guisa d’alberi sterili tutti gli amici, i
foristieri, i parenti et i compagni che non gli portano guada-
gno; se vengono a incontrarsi ne i compagni di prima, passano
inanzi come se non gli conoscessero; se alcuno richiede il favor
loro, abondantemente lo pascono di parole e di promesse, e
promettono assai più che non attendono; se non porta loro al-
cuna cosa gli mancano d’aiuto o gli fanno perdere la causa;
vendono tutte le grazie et i favori; si fanno beffe d’ogni virtù e
con diverse opinioni sprezzano le lodi altrui, e dopo le spalle
artificiosamente dicono male d’ogniuno. Essi non laudano al-
cuno senza eccezione, nel modo che quello oratore diceva: «Io
confesso che Giulio Fortunato è uomo valoroso, e chiaramen-
te si sa che egli ha fatto molte prodezze; nondimeno io mi ma-
raviglierei più che molto in che modo egli sia stato assolto da
giusti giudici dello essere stato accusato d’aver rubbato nel ma-
gistrato, s’io non sapessi la forza dell’eloquenza sua». Et un al-
tro disse:

Proteo per figlio e per moglie è felice,


e si potrebbe dir beato appieno
senza l’error d’aver scannato Foco7.

Oltra di ciò stanno sempre a bocca aperta a guisa di avoltoi


intorno ai doni della corte, d’ogni parte tragono guadagno et
a chi possono tolgono, non altramente che a Fineo solevano le
Arpie tor fin di bocca le vivande8. S’allegrano delle disgrazie de
i loro emoli, non hanno compassione al male d’alcuno, cre-
donsi non essere obligati a servare le promesse a nessuno se
non quanto lor piace, non ringraziano persona alcuna ma giu-
dicano ogniuno egualmente indegno di beneficio o con negli-
genza lo passano, alcuno ne guiderdonano con odio, et ancora
che gli vogliono male, fingono amarlo e tengono coperta la co-

7
OVID., Metam., XI, 266-268, dove però è Peleo, figlio di Eaco e fratello di Tela-
mone, macchiarsi dell’omicidio del fratellastro Foco. Proteo è invece la divinità
marina già menzionata, di cui si veda supra, nota 2.
8
Per le vicende di Fineo, re della Tracia orientale, tormentato dalle Arpie al
punto da non riuscire a mangiare, si veda APOLLOD., Bibl., I, 9, 19; APUL., Metam.,
X, 15.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 338

338 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

lera, non onorano né riveriscono persona alcuna, salvo il re o


il principe, ma né questi ancora, se non o per paura o per uti-
le. E poi che travagliati infino alla vecchiezza ne i tradimenti,
ne gli inganni, nelle noie e nelle fatiche, con queste faticose
sporcizie s’hanno guadagnato ricchezze grandi et onori subli-
mi, allora confondono insieme il dritto e’l torto per potere la-
sciare i figliuoli eredi non tanto dell’onore, quanto della rapi-
na e della iniquità.

Così nodrisce la cicogna i figli


con biscia, o con lucerta a i prati avuta;
cercano poi questi animali anch’essi.
L’aquila, e gli altri generosi augelli
cacciano lepre, o damma, et al nido portano;
e i figli poi maturi alzati a volo,
s’han fame vanno a far l’istessa preda,
la qual gustar quando si ruppe l’ovo9.

E questi sono gli artificii de i cortigiani plebei, per mezzo de


i quali molti uomini di utilissimo stato sono saliti a grandissimi
uffici, questure e dignità, et avendosi acquistato la prossima
auttorità co i re e co i principi loro, accumulano ricchezze
eguali a i signori e fabricano palagi reali, et in quel mezzo che
gli altri più nobili cortigiani spendono tutto il loro in puttane,
in giuochi, in caccie, in giostre, in conviti, in pompe, in vesti-
menti et in superbia, consumando terre, castella, possessioni e
patrimonii, questi plebei li comprano, succedendo con questi
loro sceleratissimi artificii nel luogo de i nobili.

9
GIOVEN., Sat., XIV, 74-85.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 339

71.
DELLE DONNE DI CORTE

Hanno le donne di corte anch’egli i vizii suoi. Perciocché


molte ne veggiamo belle e leggiadre delle doti del corpo e del-
l’ornamento della bellezza; oltra di questo ornate ancora di ve-
stimenti di porpora e d’oro, di gioie e di monili, ma ogniuno
può vedere come bruttissimi mostri spesso s’ascondano sotto
quelle leggiadre pelli. Però Luciano comodissimamente le
aguaglia a i tempi Egizzii1, perché quivi si vede il tempio di fuo-
ra bellissimo e grandissimo fabricato, e composto di sontuosi
marmi, ma se tu cercherai il dio che vi è dentro, ritrovarai o si-
mia, o cicogna, o becco, o gatto. Il simile è di quelle fanciulle e
signore di corte le quali, nodrite dalla prima età e da gli anni
teneri in ozio molle, in danze et in ogni morbidezza, e ripiene
di pessime discipline da quei libri cortigiani d’amore e malva-
gissime istorie di lussuria, d’adulterii, di fornicazioni e di ruf-
fianie, comedie, novelle, facezie e canzoni, come dalla balia
hanno bevuto dannosissimi costumi, la vanità, l’insolenza, l’ar-
roganza, la fastidiosità, la sfacciatezza, la sporchezza, la conten-
zione, la contradizzione, l’ostinazione, la vendetta, l’astuzia, la
malizia, la morbidezza, la loquacità, la procacità et il disonesto
ardore di lascivia: hanno le lingue di cui il silenzio è pena, han-
no la bocca armata a ogni sorte di ciancie, con la quale produ-
cono ragionamenti oziosissimi e goffissimi, e le più volte noio-
si a quegli che sono sforzati udirgli. Perciocché che crederemo

1
Cfr. LUCIANO, Imag., 11.
ultima 27-10-2004 15:30 Pagina 340

340 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

noi che elle ragionino insieme per molte ore se non cose scioc-
che et oziose, sì come sarebbe in che modo s’hanno a conciare
le treccie, in che modo pettinare, tingere i capelli, in che mo-
do s’ha da fregare la faccia, da piegare la veste, e con che pom-
pa si dee andare, da levarsi, e d’assettarsi, quali donne e quale
abito debbono portare, a che persone si dee dar loco, con
quanti inchini salutare, quali donne e chi elle debbono bascia-
re o no, quelle che si debbono far portare sopra asino, cavallo,
sella, carretta o lettica, quelle che possono portare oro, gioie,
coralli, catene, quelle che possono avere alle orecchie penden-
ti, anelli e monili, et altri cicalamenti delle leggi di Semirami?2
Vi sono ancora le matrone vecchie, le quali raccontano quanti
innamorati elle hanno già avuto, quanti doni ricevuto e con
quante lusinghe siano state pregate: questa ragione di colui
ch’ella ama, l’altra a fatica può tacere di colui ch’ella ha in
odio, e ciascuna si crede di ragionare sempre con maraviglia
dell’altre. Talora sostengono il ragionamento con goffi motti o
con sfacciatissime menzogne, né mancano fra loro odi inten-
sissimi e crudelissime villanie, calonnie, maledizzioni e gagliof-
ferie, e quanti vizii sono di mala lingua: hanno gli occhi, il vol-
to, il riso pieni di lusinghe, hanno cenni et atti pieni di lascivia,
hanno astuzie e parole con le quali solecitano et ingannano gli
amanti e ne cavano doni; se hanno uno anneluzzo, una gioia,
una medaglia o una collanina, glie le levano con le lusinghe o
gli tolgono co i preghi, et in cambio di quegli danno baci, ca-
rezze, accoglienze, abbracciamenti, toccamenti e confabulazio-
ni, ch’a loro sono publica mercanzia e nodrimento dell’amor
cortigiano. Io mi vergogno a raccontare le secrete disonestà
che fanno nelle camere, essendo venute all’atto del matrimo-
nio in vituperio della natura, le quali poi che hanno mandato
giù i panni, si credono d’avere ascoso e coperto ogni cosa. Co-
me crederem noi, dunque, che queste tali abbiano da essere
mogli verso i mariti di fede e di bontà? O quanto dolore danno
elleno a i buoni mariti quando continuamente gli rinfacciano
la dote3, la bellezza e gli altrui matrimonii, con villanie e con
ingiurie rompono il capo a i mariti, sempre si lamentano men-

2
Sulle leggi concernenti le matrone, promulgate dall’imperatore Antonino Elio-
gabalo su istigazione della madre Symiamira, si veda supra, nota 11, p. 289.
3
Il testo latino aggiunge: «genus», qui mancante.
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71. DELLE DONNE DI CORTE 341

tre che si fanno del sobrio vivere di casa, et essendo avezze alle
delizie et alla pompa, rimproverano la splendidezza di corte a i
mariti, con l’ambizione de gli ornamenti consumano la facultà
di quegli, ruinano le case e talora costringono i miseri mariti a
cattivi e vergognosi guadagni, a i quali dì e notte tendono insi-
die con mille inganni, simulazione, tradimento et ipocrisia. Io
non parlo de gli amori stranieri, de gli adulterii occulti, de i
parti soppositizii, né de i figliuoli concetti di seme altrui, e se
pure una volta si mettono a voler male, apparecchieranno o la
gelosia o il veleno. Perché, come dice Girolamo contra Giovi-
niano, l’arti famigliari delle femine sono inganni, fraudi, vele-
ni, malie e vanità d’incanti4. Così Livia uccise suo marito ch’el-
la aveva troppo in odio, Lucilia amazzò il suo per gelosia: quel-
la volontariamente gli diede bere il veleno, questa ribalda lo fe-
ce impazzare dandogli bevanda amatoria5. Di modo ch’egli è
più securo, come dice l’Ecclesiastico, stare col leone e col ser-
pente che con una donna scelerata6. Chi vuole avere moglie
costumata, non prenda donna di corte. Ogni donna che vuole
avere marito da bene, non si mariti a cortigiano. Ma già con la
lingua è troppo andato inanzi il parlare: nondimeno io ho det-
to, e non posso non aver detto. Ma io mi porrò la mano sopra
la bocca e non aggiungerò altro a quel che ho detto, e però
uscendo ora di corte, esaminerò le altre parti della economia e
quelle discipline che abbiamo detto essere le principali fra le
mecaniche: la mercanzia, l’agricoltura, la milizia e le altre.

4
Cfr. GEROL., Advers. Jovin., I, 28.
5
Cfr. TAC., Ann., I, 5; GIUL. CAPIT., Verus, X, 3.
6
Cfr. ECCLI 25:15. Il titolo Ecclesiastico, attribuito al libro sapienziale che oggi si
preferisce chiamare Siracide (dal titolo che si trova nei principali codici greci: «Sa-
pienza di Gesù, figlio di Sirach», da cui il patronimico Siracide), risale ai primi se-
coli cristiani e sembra motivato prevalentemente dall’uso che si faceva di questo
libro nella Chiesa antica per l’istruzione morale dei catecumeni, al punto da es-
sere chiamato il libro della Chiesa (Ecclesiasticus) per antonomasia. Il primo auto-
re a utilizzare il titolo di Ecclesiasticus per designare questo libro è san Cipriano.
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72.
DELLA MERCANZIA

La mercanzia è una astutissima indagatrice de i guadagni


ascosi, ingordissima voragine di manifesta preda, né mai felice
per il frutto d’avere, ma sempre miserissima per lo desiderio di
acquistare. Molti nondimeno hanno stimato ch’ella sia di gran-
de aiuto alla republica, accomodata a fare amicizie di re e di
popoli stranieri, e molto utile ancora et in un certo modo ne-
cessaria alla vita privata de gli uomini. E Plinio crede ch’ella
fosse ritrovata per cagione del vivere1, la onde ancora molti uo-
mini illustri e savi non si sono degnati essercitarla, sì come fu-
rono, col testimonio di Plutarco, Talete, Solone, et Ippocrate2.
Nondimeno sì come di tutte le scienze et arti alcune admettia-
mo per il piacere, alcune estimiamo per la fatica, alcune segui-
tiamo per la virtù e per l’onestà, alcune onoriamo per la verità
e per la giustizia, né sono elle però tutte, benché necessarie, di
guadagno, dilettevoli e faticose, per questo oneste, lodevoli e
giuste. Così ancora gli essercizii de i mercanti, de i pizzicagno-
li, de gli usurai, de banchieri3, sono necessarii, utili e faticosi,
nondimeno si chiamano servili, di disonesto e malvagio guada-
gno, perciocché non li arti, ma gli accorti inganni loro si ven-
dono e si comprano, la qual cosa, come dice Cicerone, non è

1
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., III, 16; PLIN., Nat. hist., XXXIII, 3, 6.
2
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., III, 16; PLUT., Sol., II, 8. L’aneddoto secondo cui
Talete avrebbe esercitato l’arte del commercio è ricordato anche in ARIST., Polit.,
1259a.
3
Il testo latino aggiunge: «colybistarum», qui mancante.
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344 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

ufficio d’accomodato, di schietto, di nobile, di giusto, né di


buono uomo, ma di malizioso, oscuro, astuto, fallace e dop-
pio4. Perché tutti i mercanti e bottegai comprano qui per ven-
dere altrove più caro e sopra il capitale, et è tenuto migliore
quello che più guadagna. Il loro ordinario è di mentire, giura-
re falso, ingannare e truffare, né hanno modo alcuno di diso-
nesto guadagno; anzi dicono che le leggi gli concedono che
possono ingannare chi trafica con loro fino alla metà del prez-
zo giusto. E non è dubbio alcuno che essendo tutto il viver lo-
ro ordinato allo avanzare, al guadagno et alla robba, ch’essi
per cagione di questo non commettano molte cose vergognose
et inganni degni di castigo. Perciocché non è alcuno che senza
inganno diventi ricco e, come dice Agostino, chi non farà in-
ganno, non potrà aver guadagno5. E chi vuol mettere fuora le
sue mercanzie da vendere, le loda più del dovere. Dice anco
un altro poeta:

Giura falso il mercante per guadagno,


degno certo non d’altro che d’inferno.

Di qui l’un compra, l’altro vende; questo porta, quel leva;


questo è creditore, quel debitore; questo paga, quel receve; un
altro scrive i conti, ma però tutti giurano, ingannano et assassi-
nano, e non escludono pericolo alcuno dell’anima, del corpo,
né della fortuna purché sperino guadagno, né conservano le
parentelle, le prattiche, né le amicizie con alcuna fede se non
per l’utilità sola, e così tutti per ogni età corrono dietro il gua-
dagno e dietro le ricchezze come se non si potesse ritrovare al-
trove il riposo delle fatiche e la consolazione della vita:

Il veloce mercante in India corre,


fuggendo povertà per mille affanni6.

Ma non è alcuno che non sappia, non veggia e non tocchi se


non chi non ha provato i danni loro, gli inganni che i merca-
tanti fanno nella lana, nel lino, nella seta, nel panno, nella por-
pora, nelle gioie, nelle specierie, nella cera, nell’olio, nel vino,

4
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., III, 16; CIC., De off., I, 151.
5
Cfr. AGOST., Enarr. in Psalm., Sermo II, 14, ma si veda anche Sermo, II, 6 e IV, 6.
6
ORAZIO, Epist., I, 1, 45-46.
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72. DELLA MERCANZIA 345

nel fromento, ne i cavalli e ne gli altri animali. E questi sono i


più piccioli mali, che di molto maggiori ne rimangono a dire.
Questi sono quegli che portando dannose mercanzie, le quali
o per rarità o per delicie sono desiderate da donne e da fan-
ciulli, e che non fanno a necessità alcuna del vivere ma solo a
morbidezza, a pompa, ad ornamento, a gioco, a delicatezza et
a piacere, a guisa di lacci fin dalle ultime parti del mondo, spo-
gliano ogni anno le provincie et i regni di molti dinari, cor-
rompono i buoni costumi introducendo vizii stranieri, e tolto
via l’usanza del paese, ingegnandosi sempre di trovare cose
nuove e non più usate, la intricano con dannosissime foggie.
Questi sono quei che facendo le compagnie ordinano i mono-
polii contra l’onesto, il debito e le leggi, ogni cosa tentando,
imaginando e considerando per tirare a sé le ricchezze della
moltitudine, mentre che vincono gli altri di dinari ammassati,
alcuni ne prevengono, alcuni ne spaventano crescendo il prez-
zo delle cose, et essi soli comprano ogni cosa vendendole poi a
piacer loro per grandissimo prezzo. Eglino spesse volte poi che
hanno fatto debiti grandi, piantata l’abitazione altrove e per-
duto il credito per aver mutata patria, vagabondi, tardo o non
mai ritornando, ingannano i creditori e gli costringono o a de-
sperarsi o a impiccarsi. Essi sono quegli che intricano e scorti-
ficano i cittadini con scritti di mano e con obligazioni, e pian-
tano le radici delle obligazioni così faticose, funebri, profonde
e da non potersi schivare, che non si possono svellere, ma ger-
mogliando in cerchio e facendo nascere debiti di debiti, soffo-
cano e ruinano le città, et essi in questo mezzo, dati senza ri-
manersi giamai a gli avanzi et alle usure, divorano la sustanza
di tutta la plebe. Essi alcuna volta tosano le monete, ma però
sempre ora inalzano, ora abbassano il valore della moneta co-
me par loro che gli ritorni in guadagno, non senza danno di
tutta la republica. Essi fanno intendere a gli inimici i secreti de
i principi c’hanno spiato, i consigli della città et i rumori della
patria; alcuna volta ancora accordati in dinari tendono insidie
alla vita de i principi, et ogni cosa per conto di dinari tentano,
fanno, sopportano e vendeno. Ogni instituto loro altro non è
che bugie, ciancie, nebbie di parlare, spie, insidie, inganni e
manifesti tradimenti. Per questo [i] Cartaginesi ordinarono le
botteghe separate a mercatanti, né volsero ch’elle fossero co-
muni co i cittadini: nondimeno essi potevano andare in piazza,
ma nell’arsenale e ne gli altri più secreti luoghi della città, non
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 346

346 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

che gli concedessero andare, non pur gli lasciavano vedere. I


Greci non gli volevano a patto alcuno nelle città, ma acciocché
i cittadini fossero liberi dal sospetto del pericolo, gli ordinava-
no un mercato delle cose da vendere fuor de i borghi. Molte
altre nazioni non volsero che i mercatanti andassero a loro
perché corrompevano i costumi. Gli Epidauresi, oggidì Ragu-
se7, come dice Plutarco, veggendo che i cittadini suoi si faceva-
no ribaldi per la pratica ch’avevano con gli Schiavoni dubitan-
do che corrompendosi i costumi de cittadini loro per la con-
versazione de foristieri non si suscitassero cose nuove ne la
città, principalmente eleggevano uno uomo grave e saputo da
tutta la moltitudine de cittadini per ogni anno, il quale andas-
se in Schiavonia8 e comprasse ciò che bisognava per gli suoi.
Platone vitupera i mercanti, che essi corrompono i buoni co-
stumi, e statuì per legge che in una bene ordinata republica le
delizie delle nazioni estranie non fossero portate nella città, e
che nessuno cittadino minore di quaranta anni non andasse
pellegrinando, e che i foristieri fossero rimandati a casa loro9,
perciocché con queste tali pestilenze di pellegrini i cittadini di-
simparano la vecchia parsimonia de i padri e gli antichi costu-
mi cominciano ad avere in odio: onde da questo solo le più
volte diventano le città pessime e tutte imbrattate da ogni sorte
di fornicazioni, d’adulterii, di lussuria e di disonestà, come og-
gidì ne danno essempi Lione et Anversa, famosissime fiere di
mercatanti. Aristotele anch’egli comanda che si debba mettere
ogni cura che le città non siano punto corrotte dalle cose di
fuori, e benché i mercatanti sieno necessarii, non vuole però
che siano posti nel numero de cittadini, i quali biasma ancora
molto perché essi si dilettano di menzogne, nelle città trava-
gliano le piazze, sollevano tumulti e seminano discordie10. Era

7
L’aggiunta «oggidì Raguse» manca nel testo latino.
8
Il testo latino reca: «ad Illyricos», con riferimento all’antica popolazione in-
doeuropea e al paese da essi abitato, l’Illiria, comprendente gran parte dei terri-
tori del versante adriatico della penisola balcanica.
9
Cfr. PLAT., Leg., 705a-b e 950a sul commercio come corruzione dei buoni costu-
mi; 950d-952d sui viaggi all’estero; 952d-953e sull’atteggiamento nei confronti
degli stranieri. In realtà Platone si pronuncia decisamente in favore di una buona
accoglienza nei confronti degli stranieri, biasimando gli Egiziani e gli Spartani, i
quali erano accusati di xenhlasiva, ossia di mettere al bando, con leggi incivili, gli
stranieri.
10
Cfr. ARIST., Polit., 1327a-b.
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72. DELLA MERCANZIA 347

similmente una legge antica appresso molte republiche che


nessuno mercatante potesse avere magistrato e non fosse ad-
messo in senato, né in consiglio. La mercanzia è dannata in
tutto dalle sentenze teologiche e da i decreti canonici per la
auttorità di Gregorio, di Crisostomo, di Agostino, di Cassiodo-
ro e di Leone, vietata a tutti i veri cristiani. Perché, come dice
Crisostomo, il mercatante non può piacere a Dio. Nessun cri-
stiano dunque sia mercatante, e se pure vuole essere, sia cac-
ciato della Chiesa. Agostino anch’egli dice che i mercatanti et i
soldati non possono fare vera penitenza11.

11
Asserzione condannata dai teologi di Lovanio (si veda Appendice 2, p. 533).
L’espressione non si trova in Agostino, ma nell’Apologia Agrippa afferma essere
tratta dal Liber de poenitentibus (AGRIP., Apol., in Opera, II, p. 299).
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73.
DELLA QUESTURA

I tesorieri non sono molto migliori de mercatanti, genera-


zione di certi uomini ladri e per lo più servili e mercenarii, ove-
ro ch’obligato ha la sua fatica per salario: rozi e gaglioffi, ma
prosontuosi e sfacciati, né imparano se non alcuni artificii de-
bili come tale sorte d’uomini è capace di sapere, cioè modi di
scrivere e di far conto ma molto più di rubare, non già goffi,
ma molto più ingegnosi di quello che si converrebbe a volgari
ladroni, e per questo sono i maggiori ladri del mondo, e ricchi
per i diti soli co i quali fanno conto alle migliaia, i quali essi
hanno di modo viscosi e pieni d’infiniti uncini che ogni de-
naio, ancora che liggiero, fugace, veloce, et a guisa di biscia e
d’anguille sdruccioloso, tocco da loro subito s’attasca, né facil-
mente se ne può dispiccare. Ma in questo sono però manco
cattivi, parte perché non tendono insidie se non a tesori di re,
di principi e di signori, e parte perché quel che rubbano assai
volentieri spendono in puttane, in giuochi, in convivii, in edifi-
cii, in pascere parasiti, buffoni, cavalli e cani. Overo vecchi e
più savi divenuti, spesse volte ne lasciano figlioli i quali, quello
che i padri loro a poco a poco e minutamente hanno guada-
gnato con sacramenti falsi, con rapine, con rubberie e con ri-
balderie, partendolo di nuovo in molti fragmenti, pasteggian-
do, puttaneggiando, cacciando, ucellando, vestendo, e senza
lasciar cosa che sazie i loro appetiti, miseramente consumano
tutto. Nondimeno i tesorieri ancora essi prendono l’usura e,
prolongando i pagamenti, ne ritraggono doni, rubbano i debi-
ti, hanno intendimento co i capitani, fanno conti falsi, contra-
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350 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

fando scritti di mano e con finti sugelli ritornano a chiudere le


lettere, levano qualche cosa alle monete, talora le falsificano
con metallo cattivo. E per ciò sono molto amici de gli alchimi-
sti, e molto fanno professione di quella arte, e se pure non
hanno ingegno abastanza, la favoreggiano almeno. Ma poi che
Cicerone dice che la mercanzia non è da essere molto biasma-
ta, pur ch’ella sia e grande e copiosa, e porti d’ogni parte di
molte cose e senza vanità, e che i mercatanti et i tesorieri allo-
ra meritamente sono da essere lodati se alcuna volta, saziati del
guadagno, si riducono finalmente a lavorare i campi e le pos-
sessioni1, perciò metteremo qui sotto quella opinione che s’ha
d’avere della agricoltura.

1
Cfr. CIC., De off., I, 151.
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74.
DELLA AGRICOLTURA

L’agricoltura, con la quale vanno e la pastura e la pescagio-


ne e la caccia, fu in tanto onore appresso gli antichi che ne an-
co gli imperatori romani, i potentissimi re et i capitani non si
vergognarono di lavorare i campi, di maneggiare le semenze e
d’innestare gli alberi. A questa si ritrasse, deposto l’imperio,
Diocleziano, et Attalo lasciato il governo del regno. Ciro an-
ch’egli, quel gran re de Persi, si soleva gloriar molto quando,
venendo gli amici suoi a lui, gli mostrava uno orto lavorato di
sua mano et alberi da lui piantati e posti per ordine1. E Seneca
piantò de i platani, cavò vivai di sua mano, condusse acque, né
stava più volentieri altrove che ne i campi2. Di qui vennero i co-
gnomi di quelle nobilissime famiglie di Fabii, Lentuli, Cicero-
ni, Pisoni, cioè chiamati così dalla moltitudine di questi legu-
mi.

1
Cfr. CIC., De senect., XVII, 59; SENOF., Oecon., IV, 20-24.
2
Cfr. SEN., Ad Luc. epist. mor., LXXXVI.
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75.
DELLA PASTURA

In simil modo sono stati chiamati dal pascere delle pecore i


Iunii, i Bubulci, gli Statilii, i Tauri, [i] Pomponii, [i] Vituli, i Vi-
tellii, i Porzii, i Catoni, gli Annii et i Capre. Romolo e Remo,
edificatori della città di Roma, furono pastori e Diocleziano da
i pastori fu chiamato all’imperio. Pastore fu Spartaco, il qual
mise sì grande spavento alla grandezza romana1. Pastori erano
Paride et Anchise padre di Enea, e’l bello Endimione amato
dalla Luna, Polifemo anch’egli, et Argo da i cento occhi. E fra
gli dèi ancora Apollo guidò gli armenti d’Admeto re di Tessa-
lia2, e Mercurio, inventore della sampogna, fu principe de pa-
stori, e’l suo figliuolo Dafni3. E Pane fu dio de i pastori, e Pro-
teo pastore e dio. E, per ragionare de patriarchi de gli Ebrei,
de giudici e d’alcuni re, gli uomini grandissimi fra loro e gra-
tissimi a Dio furono pastori, come Abel giusto, Abraham padre
di molte nazioni et Iacob padre del popolo eletto. Mosè an-
ch’egli, legislatore e profeta familiare di Iddio, e’l re David
eletto secondo il core del signore; et ancora appresso gli anti-

1
Il gladiatore Spartaco (m. 71 a.C.) guidò una grande rivolta servile contro Roma
nel 73-71 a.C.
2
Admeto, re di Fere, in Tessaglia, partecipò in gioventù alla caccia del cinghiale
calidonio e alla spedizione degli Argonauti. Quando diventò re, la fama della sua
ospitalità divenne tale che Apollo, condannato da Zeus a essere schiavo di un
mortale per un anno, diventò il suo mandriano.
3
Figlio di Ermes e di una ninfa, Dafni era nato nelle alte valli siciliane in un bo-
schetto di alloro, donde il suo nome (dal greco davfnh = alloro). Le ninfe gli inse-
gnarono l’arte del pastore, Pan la musica.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 354

354 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

chi Greci ogni persona nobilissima era pastore. Onde alcuni


chiamarono Poliarni, altri Polimeli, altri Polibuti, cioè metten-
do loro i nomi della moltitudine de gli agnelli, delle pecore e
de buoi. Così parimente ogniun sa che l’Italia fu chiamata così
da i vitelli, i quali gli antichi Greci domandavano Itali. Non so-
no anch’eglino stati chiamati l’uno e l’altro Bosforo, il Cimme-
rio e’l Tracio, il mare Egeo, Argo et Ippio dal passare del bue,
dalle capre e da cavalli? E Numidia provincia dell’Africa ha
questo nome da i pascoli. Il primo vivere de gli uomini in terra
dopo il peccato d’Adamo fu pastorale: questa è quella che ne
dà, oltra le diverse carni de gli animali, il latte, il formaggio e’l
butiro per mangiare, e per vestirci la lana, le pelli et i cuoi, tut-
te cose e necessarie et utilissime alla vita umana, le quali furo-
no concesse all’uomo, ma dopo il peccato, avendogli per inan-
zi comandato Iddio nel paradiso ch’egli mangiasse solo i frutti
che la terra produceva da se stessa4.

4
Cfr. GEN 3:17-23.
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76.
DELLA PESCAGIONE

Appresso questa vengono la pescagione e la caccia. Lo stu-


dio del pescare fu già in tanto prezzo et onore appresso Roma-
ni, che a guisa di semenze in terra seminavano nel mare italia-
no i pesci foristieri e non conosciuti ne i lidi d’Italia, portan-
dogli con le navi di lontani paesi, giudicando che in essi fosse
una utilità grandissima della republica. Oltra di ciò con spese
grandi edificarono peschiere e vivai pieni di preziosissimi pe-
sci, da i quali finalmente molti principi e famiglie romane tras-
sero i cognomi, come Licinii, Mureni, Sergii, Orate1. Per que-
sto Cicerone chiamò Lucio Filippo et Ortensio piscinarii, cioè
dalle peschiere2. Leggesi ancora che l’imperatore Ottaviano
Augusto soleva pescare con l’amo, e Svetonio scrive che Nero-
ne pescò con una rete d’oro, con le corde tessute di porpora e
di cocco3. I modi del pescare non sono però molti, perciocché
quanti pesci ci sono si prendono con le reti, con l’amo, con la
nassa, co i dardi, col rastrello e con la pasta4. Ma la pescagione
è un poco meno onorevole, perché i pesci sono di duro notri-
mento e mal sani allo stomaco, né s’offeriscono in sacrificio a
gli dèi. Perciocché non è alcuno ch’abbia udito giamai che si
sia sacrificato pesce.

1
Cfr. MACROB., Conv. saturn., III, 15, 1-3.
2
Cfr. MACROB Conv. saturn., III, 15, 6; CIC., Epist. ad fam., I, 19.
3
Cfr. SVET., De vita Caes., VI, 30.
4
Si tratta di un impasto dolce usato come esca per i pesci.
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77.
DELLA CACCIA E DEL UCELLARE

Con quei medesimi ingegni che la pescagione si fanno an-


cora e la caccia e l’uccellare, aggiungendovi di più le forze del
corpo, la diligenza di cercare, e varii ingegni di lacci, di reti e
d’inganni, et appresso questo visco, aquile, sparvieri, cani, lupi
cervieri et altre fere domestiche accomodate alla rapina et alla
caccia. Arte veramente biasmevole, studio vano e contrasto in-
felice, con tante fatiche e vigilie combattere et incrudelire da
una sera all’altra contra le bestie. Arte tutta crudele e tragica, il
piacere della quale è nella morte e nel sangue, la quale la no-
stra umanità devrebbe avere a schivo1. Questa fin dal principio
del mondo fu sempre speciale essercizio d’uomini pessimi e di
peccatori, perché le Sacre Lettere mettono che Cain, Lamech,
Nembroth, Ismael et Esaù furono robusti cacciatori2, né si leg-
ge nel Testamento Vecchio ch’alcuni attendessero alla caccia
se non gli Ismaeliti, gli Idumei e le genti che non conobbero
Iddio. La caccia fu che diede principio alla tirannide, perché
ella non ritrovò più acconcio auttore che colui ch’aveva impa-
rato a sprezzare Iddio e la natura nella occisione e beccaria
delle fere e nello imbrattarsi di sangue. Nondimeno, i re de
Persi l’ebbero in pregio come vera meditazione delle cose del-

1
Cfr. ERASMO, Moriae enc., XXXIX.
2
Cfr. 10:8-9; 25:27 per Nimbrod ed Esaù cacciatori; per Caino, si veda GEN 4:2, do-
ve però si dice che egli divenne «coltivatore del suolo»; nessuna notizia si trova
nella Bibbia a proposito di Lamech e Ismaele cacciatori.
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358 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

la guerra, perché la cacciagione ha in sé un certo che di batta-


glia e d’orribile, mentre che la fera esposta a i rapaci cani, col
sangue sparso e le viscere stracciate, dà piacere, e con diletto
grande stassi a vedere a guisa di gioco una acerbissima morte.
In questo mezzo ride il crudele cacciatore, et accompagnato
da una gran comitiva a modo di trionfo riporta a casa la infeli-
ce preda atterrata da un essercito di cani, o dall’inganno de
lacci, dove allora si mette all’ordine una crudele giustizia, e
con una solenne chironomia3 e con vocaboli assegnati (né
d’altra maniera è lecito usargli), si straccia la bestia: pazzia ve-
ramente notabile de cacciatori e famosa battaglia, alla quale
mentre ch’essi danno troppo opera, gettatasi la umanità dietro
le spalle, diventano fere e con mostruosa ribalderia di costumi,
non altramente che Atteone, si trasformano in natura di be-
stie4. Et ancora infiniti di loro sono caduti in tanta pazzia che
sono diventati inimici della natura, come raccontano le favole
di Dardano. Dicesi che gli inventori di sì infelice artificio furo-
no i Tebani, nazione famosa per inganni, per rubberie e per
giuramenti falsi, vituperosa per uccisioni di padri e per con-
giungimenti disonesti tra parenti, da i quali passarono le rego-
le di questo essercizio a i Frigii, gente non meno impudica, ma
di più sciocca e vana, i quali per ciò furono poco stimati da gli
Ateniesi e da i Lacedemoni, popoli di loro più gravi. Ma poi
che gli Ateniesi ruppero la legge che vietava la caccia, e publi-
camente admettendo l’arte insieme con l’essercizio l’introdus-
sero nella republica loro, allora la prima volta fu presa Atene.
Di qui mi maraviglio che la caccia sia stata commendata da Pla-
tone, principe delle Academie, se forse non la loda per il fine e
per l’onestà e necessità del proponimento, non per il diletto5,
sì come fu quando Meleagro uccise il cinghiale che ruinava la
Calidonia, che non per piacer di lui, ma per utilità della repu-
blica, liberò la patria dalla bestia che la disfaceva6. E Romolo

3
Cfr. supra, nota 1, p. 109.
4
Cfr. PAUS., Descr. Graec., IX, 2, 3; IGINO, Fab., 181; OVID., Metam., III, 138-252. At-
teone, figlio di Aristeo, per aver osato vantarsi con gli amici di aver visto Diana
nuda mentre si bagnava in un fiume, fu da lei tramutato in cervo e poi sbranato
dalla propria muta di cinquanta cani.
5
Cfr. PLAT., Leg., 823b-824d.
6
Cfr. OMERO, Iliad., IX, 527-600; DIOD. SIC., Bibl. hist., IV, 34; OVID., Metam., VIII,
270-546. Allusione al mito di Meleagro, figlio del re di Calidone Eneo, il quale,
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77. DELLA CACCIA E DEL UCELLARE 359

andava alla caccia de cervi non per conto di piacere, ma per


necessità di pascer sé et i compagni. Ecci un altro essercizio di
caccia, il quale si domanda uccellare, di manco crudeltà sì, ma
non già di manco leggierezza: di qui si chiamarono gli uccella-
tori, i quali o cacciano gli uccelli, o per mezzo de gli uccelli, co-
me dice Baruch profeta, giocano con gli uccelli del cielo7. Di-
cesi che ne fu inventore Ulisse, il quale dicono che fu il primo
che dopo la presa di Troia portò in Grecia uccelli armati et am-
maestrati alla caccia, acciocché fossero consolazioni di nuovo
piacere a quei che sentivano i danni de parenti morti nella
guerra di Troia; non volle, però, che Telemaco suo figliuolo
s’impacciasse in questo essercizio. Questi essercizii finalmente,
benché siano e plebei e mecanici, sono venuti a tale che, messi
da parte tutti gli studi liberali, oggidì sono i primi elementi e
processi della nobiltà e, con la scorta di quegli, si perviene ad
alto grado di gentilezza. Et al tempo nostro la vita de i re e de i
principi, e la religione ancora, che più m’incresce dire, de gli
abbati, de i vescovi e de gli altri prelati della Chiesa, non è altro
che la caccia, nella quale essi molto s’adoprano e mostrano il
lor valore:

Et i pensier suoi son d’incontrar cinghiali,


o dal monte veder scender leoni8.

Et eglino che devrebbono essere essempii di pazienza, cer-


cano d’avere ogni dì cosa da vincere e da cacciare; e gli anima-
li, che da natura son liberi e secondo che vuol la ragione sono
di chi gli prende, le tirannie de i nobili con temerarie gride si
vanno usurpando: i lavoratori sono cacciati da i suoi poderi, a i
contadini son tolte le possessioni, et i campi a i lavoratori, chiu-
donsi i boschi et i prati a i pastori per accrescere i paschi alle
fere affine d’ingrassare e dar piacere a i nobili, a i quali solo è
lecito mangiarle, delle quali se contadino alcuno o lavoratore
punto ne assaggierà, come s’egli avesse offeso la maiestà del
principe, insieme con le fere è fatto preda del cacciatore. Leg-

dopo una battuta di caccia, uccide il cinghiale inviato nelle campagne di Calido-
ne da Diana adirata per non essere stata ricordata nei sacrifici fatti agli dèi.
7
Cfr. BAR 3:17.
8
VIRG., Aen., IV, 158-159.
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360 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

giamo ben le Scritture, veramente nelle Sacre Lettere e nelle


istorie de pagani non si ritrova che alcuno uomo santo, savio,
né filosofo fosse cacciatore, ma sì bene molti pastori et alcuni
pochi pescatori. Et Agostino dice che questa arte è la più mal-
vagia di tutte l’altre9, et i sacri concilii, l’Elibitano e quello
d’Orliens, la proibirono e la dannarono nel clero, e ne i sacri
canoni non pure è vietato a i cacciatori che non possano ascen-
dere a gli ordini sacri, ma si gli toglie ancora il grado del som-
mo sacerdozio che avessero già ottenuto. In quel medesimo lo-
co si legge che Esaù era cacciatore perché era peccatore10. Né
pure in parte alcuna la Scrittura Sacra piglia questo vocabolo
di caccia in buona parte. Perché non dee più dubitare alcuno
che la caccia non sia reprovata sì come quella ch’è stata e scac-
ciata e condannata dalla turba di tutti gli uomini santi e savi.
Anticamente ancora, quando gli uomini in innocenza viveva-
no, nessuno animale fuggiva da lui, nessuno l’odiava, nessuno
gli noceva, ma tutti soggetti a lui gli prestavano obedienza, gli
essempi de i quali son manifesti ancora ne i tempi nostri in co-
loro che vissero ottima vita, in che modo essi rimasero superio-
ri alle insidie delle fere, come Daniello a i leoni e Paolo apo-
stolo alla biscia. Un corvo portò da mangiare a Elia profeta11, a
Paolo et Antonio romiti12, et una cerva ad Egidio13. L’abbate
Eleno comandò ad un asino salvatico, e la bestia gli ubbidì e
portò il carico del santo uomo; egli comandò ancora a un co-
codrillo, che lo passò oltra il fiume14. Molti romiti abitavano ne
i deserti e stavano nelle spelonche e nelle caverne delle fiere, e
non avevano paura di leoni, d’orsi, né di serpenti. E così insie-
me col peccato entrò l’offesa, la persecuzione e la fuga de gli
animali e si ritrovarono le caccie. Perché, come dice Agostino
sopra il terzo del Genesi, gli animali da principio non furono
generati velenosi, inimici, né molesti alla generazione umana,

9
Cfr. AGOST., De Gen. ad Litt., III, 15.
10
Cfr. GEN 25:28.
11
Cfr. DN 6 per Daniele nella fossa dei leoni; AT 28:3-6 per Pietro e la vipera; 1RE
17:4 per Elia e i corvi. Sul potere esercitato dagli uomini sugli animali, si veda an-
che AGRIP., De occ. phil., III, 40, p. 520.
12
Cfr. GEROL., Vita S. Pauli, 10.
13
Allusione alla leggenda di Sant’Egidio eremita, vissuto fra il VII e l’VIII sec., il
quale rifugiatosi nella foresta di Nimes, si sarebbe nutrito miracolosamente del
latte di una cerva che veniva a trovarlo.
14
Cfr. RUFINO, Hist. mon., XI.
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77. DELLA CACCIA E DEL UCELLARE 361

ma dopo il peccato si gli fecero et odiosi et inimici15, il che


avenne per sentenzia d’Iddio in punizione della ingiusta ri-
bellione de primi padri, sì come fu la sentenza data al serpen-
te quando gli disse Iddio: «Io porrò inimicizia fra te e la femi-
na, e fra il seme tuo e’l seme di lei»16. Da questa tal sentenza è
nata la battaglia delle caccie, cioè de gli uomini con gli altri
animali.

15
Cfr. AGOST., De Gen. ad Litt., III, 15.
16
GEN 3:15.
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78.
IL RIMANENTE DELLA AGRICOLTURA

Ma ritorniamo al nostro proposito. Scrissero di queste arti


già dette della agricoltura, della pastura, della pescagione, del-
la caccia e dell’uccellare, Ierone, Filometro, Attalo et Archelao
re, Xenofonte e Magone1 capitani, et Oppiano poeta2; oltra di
questi Catone, Varrone, Plinio, Columella, Vergilio, Pietro Cre-
scenzo, Palladio3 e molti altri più nuovi di questi. Cicerone è
d’opinione che non sia cosa più degna, migliore, più abon-
dante, né più dolce in uomo libero di queste arti4. E molti han-
no posto il sommo bene e la suprema beatitudine in esse: per
questo chiamò Vergilio i contadini felici et Orazio beati5. Per

1
Cfr. PLIN., Nat. hist., XVIII, 4, 22. Gerone (m. ca. 466 a.C.) è il tiranno di Siracu-
sa cantato da Pindaro e Bacchilide; Archelao (V-IV sec. a.C.) re di Macedonia; At-
talo e Filometore sono la stessa persona: si tratta di Attalo III Filometore (138-133
a.C.) re di Pergamo. La confusione di Agrippa si ritrova anche in Plinio e in Colu-
mella (si veda De re rust., I, 1, 8). Non si sa quale siano le opere di agricoltura attri-
buite a questi re. Magone (II sec. d.C.) è uno scrittore cartaginese autore di un trat-
tato di agricoltura in 28 libri, contenente anche norme di zootecnia e di apicoltura.
2
Oppiano di Cilicia (II sec.), poeta greco autore di un poema in 4 libri Sulla cac-
cia, dedicato all’imperatore Marco Aurelio Antonino. Sotto il nome di Oppiano
ci è pervenuto un altro poema, in 5 libri, intitolato Sulla pesca, che sarebbe da at-
tribuire a un secondo Oppiano, nato ad Apamea in Siria nel III sec., al quale spet-
tano la maggior parte delle notizie biografiche tramandateci dagli antichi.
3
Pietro de’ Crescenzi (ca. 1233-ca. 1320), o Petrus de Crescentiis, agronomo au-
tore dell’Opus ruralium commodorum (Liber cultus ruris), composto tra il 1304 e il
1309 e considerato il più importante trattato di agronomia medievale; Rutilio
Tauro Palladio (ca. IV sec.), autore latino di un trattato in 12 libri, Opus agricultu-
rae, in 12 libri, molto letto e citato nel Medioevo e nel Rinascimento.
4
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., II, 1; CIC., De off., I, 151.
5
Cfr. VIRG., Georg., II, 458-459; ORAZIO, Epist., II, 1, 139.
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364 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

simil cagione l’oracolo di Delfo giudicò felicissimo un certo


Aglao, il quale lavorando un picciolo podere in Arcadia, non
era mai uscito di quello, e così con pochissimo desiderio po-
chissimo male aveva provato in vita sua6. Ma gli uomini miseri
che così altamente vogliono ragionare dell’agricoltura, non
sanno ch’ella è effetto del peccato e maledizzione del grande
Iddio. Perché cacciando egli l’uomo del paradiso delle delizie,
lo mandò ne i campi, ragionando in tal modo verso il peccato-
re Adamo: «Maledetta sia la terra nella opera tua! Nelle fatiche
mangierai de i frutti suoi tutti il tempo della vita tua: ella ti pro-
durrà spine e lappole, e tu mangierai dell’erbe della terra. Col
sudore del volto tuo mangierai il tuo pane, fin che tu ritorne-
rai nella terra onde fosti tolto»7. Ma non è chi più lo provi de i
contadini e lavoratori, i quali mentre che arano, seminano, ta-
gliano, potano, piantano, rimettono, mietono, vendemiano,
pascono, tosano, cacciano, pescano, dopo molte fatiche, que-
sto per la tempesta che gli ha ruinato i campi perde il pane, a
questo muoiono le pecore o i buoi, o gli sono menati via da i
soldati, quello perde la fera, un altro il pesce, e la moglie et i fi-
gliuoli gli piangono in casa e tutta la famiglia gli muore di fa-
me, e di nuovo con incerta speranza ritornano a dubbiosa fati-
ca. Inanzi questa maledizzione non ci sarebbe stato bisogno
d’alcuna artificiosa cultura di terra, non di pastura, non di pe-
scagione, non di caccia, né d’uccellare, perché da se stessa la
terra era per produrre ogni cosa e sempre sarebbe stata, così il
verno come la state, fiorita con dolcezza di frutti, con soavità
d’odori e con vaghezza di fiori. La terra finalmente non avreb-
be generato cosa alcuna nociva, non erba pestilente per vele-
no, non arbore inutile per difetto di sterilità, e sarebbe anco
stato separato ogni veneno di serpenti, di biscie e di tutti gli al-
tri animali cattivi8, sì come dice Beda9, e l’uomo avendo il prin-
cipato di tutti gli animali, avrebbe fatto i carichi suoi alle fere
et alle bestie, avrebbe comandato a i pesci del mare e gli uccel-

6
Cfr. PLIN., Nat. hist., VII, 47, 151.
7
Cfr. AGOST., De civit. Dei, XIII, 15; AGRIP., De occ. phil., III, 41, p. 523; Zohar, I, 1. Per
l’episodio biblico, si veda GEN 3:17-19.
8
Il testo latino reca l’annotazione a margine: «Natrix serpens qui Lucano violator
aquae appellat».
9
Cfr. BEDA, Hexaem., I; ma si veda anche De sex dier. creat., col. 215.
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78. IL RIMANENTE DELLA AGRICOLTURA 365

li sarebbono a un suo cenno volati a lui, e tosto che l’uomo fos-


se nato avrebbe avuto l’uso e l’essercizio di tutte le membra, e
menato avrebbe felicissima vita senza vestimenti del corpo,
senza tetti, senza vivande cotte e senza medicine, avendo egli
avuto quelle cose senza cercarle, come dice quel Poeta:

La terra cibo avria dato a fanciulli,


il caldo vestimento, e l’erba letto10.

Ma il difetto del peccato e la necessità della morte ogni cosa


ne fecero inimico: la terra non ne produce più nulla senza le
fatiche et i sudori nostri, anzi ella genera cose mortifere e ve-
nenose, mostrandoci publicamente che le dispiace che noi sia-
mo vivi. Né però gli altri elementi più piacevolmente si porta-
no con noi: il mare con l’onde sue crudeli molti ne affoga e le
mostruose bestie gli ingiottiscono, l’aria contra di noi combat-
te con tuoni, con folgori e con tempeste, e’l cielo anch’egli
congiura a danni nostri con la mortalità delle pestilenze. Gli
animali ancora a bello studio ne sono inimici, e l’uomo, come
dice il proverbio, è lupo all’altro uomo; gli spiriti maligni ne
sono intorno tentandoci con diversi lacci di peccati per strasci-
narne ne i tenebrosi ricetti de i supplici ad essere perpetua-
mente tormentati con eterni fuochi e crudelissime pene. E di
qui si vede che l’agricoltura non è altro che una perdita delle
cose migliori, invenzione di mali et incomodi della vita, insie-
me con gli altri essercizii aderenti suoi di pascere, di pescare e
di cacciare co i quali, fatta avisata l’umanità della necessità del-
la morte, noi per alcun tempo fuggissimo, o più tosto tempras-
simo, la sterilità della terra, il disagio del vivere e’l freddo co’l
vestirsi le pelli. Ora avrebbe l’agricoltura questa non picciola
lode della necessità, o pur calamità nostra, s’ella restando fra
questi termini non ci insegnasse tante mostruose fabriche di
piante, tanti strani innesti e metamorfosi d’alberi. E non ci
avesse mostrato ancora congiungere i cavalli con le asine et i
lupi con le cagne, onde ne nascono poi mule, licische et altri
mostruosi animali contra la legge della natura11. Et anco non ci

10
LUCR.,
De rer. nat., V, 816-817.
11
Il testo latino reca l’annotazione a margine: «Lycisca canis monstrosus, nimi-
rum ex lupi et canis coitu pregnatus, unum et nomen habet».
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366 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

avesse insegnato a rinchiudere nelle gabbie, nelle peschiere,


ne vivai e nelle prigioni quegli animali a i quali la natura asse-
gnò liberi il cielo, il mare e la terra, et ingrassarli ancora nella
stalla o accecandogli o tagliandogli alcuno membro, e simil-
mente non ci avesse assottigliato l’ingegno nel lino, nella lana,
nelle pelli e nella seta, e nelle cose che la natura ci dona per ve-
stirci, di tante tessiture, di tanti colori e simili artificii ritrovati
a pompa e grandezza, e spessissime volte ancora a ruina de gli
uomini. La onde del lino solo si lamenta Plinio12, nato di sì pic-
ciola semenza, il quale or pianta, e poi velo, con sottilissimo
fiato di venti ne porta qua e là per tutto il mondo, e sforza gli
uomini (come se fosse poco a morire in terra) ad affogare in
mare e farsi ingiottire dalle bestie marine. Lascio di dire mille
decreti et osservanze di lavoratori, di pastori, di pescatori, di
cacciatori e d’uccellatori, non tanto pazzi e da ridere, quanto
superstiziosi e contrarii alla legge divina, con li quali si credo-
no di potere acquetare le tempeste, accrescere i seminati, al-
lontanare tutte le cose che fan danno, cacciare i lupi e le fere,
fermare gli animali fuggitivi, prendere con mano i pesci e gli
uccelli, et incantare le infermità delle pecore, delle quali cose
quegli uomini savi ch’io ho ricordato di sopra hanno scritto
con gran credulità e maestria.

12
Cfr. PLIN., Nat. hist., XIX, 8, 28-30.
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79.
DELLA ARTE DELLA GUERRA

Ma passiamo oggimai da i lavoratori a i soldati, i quali Vege-


zio dice che sono più atti alla battaglia eletti da i campi1, da i
quali afferma Catone anch’egli che nascono uomini fortissimi
e soldati valorosissimi2. E col testimonio delle Sacre Lettere,
quel primo combattitore Cain fu lavoratore della terra e cac-
ciatore3. E Giano e Saturno, dèi gagliardissimi et antichissimi,
insieme con l’agricoltura menarono questa vita in terra4. Non
pare dunque che la arte militare sia punto da essere sprezzata,
la quale (come dice Valerio) acquistò il principato d’Italia al-
l’Imperio romano e gli diede regno di molte città, di grandi re
e di valorosissime nazioni, gli aperse le foci dello stretto et i
golfi del mare, gli diede aperti i chiostri delle Alpi e del monte
Tauro5. Scipione Africano si gloria appresso d’Ennio d’aversi
aperto la strada al cielo col sangue e con la uccisione de gli ini-
mici6, al quale Cicerone anch’egli consente dicendo che per
quella medesima via Ercole ascese in cielo7. Dicesi che i Lace-
demoni furono i primi che la insegnarono: per questo Anniba-

1
Cfr. VEGEZ., Epit. rei milit., II, 15.
2
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., III, 1; CAT., De agri cult., I, 4.
3
Cfr. GEN 4:2, ma si veda, supra, nota 2, p. 357.
4
Cfr. AGOST., De civit. Dei, VII, 19. Per l’etimologia di Saturno da satio, «seminagio-
ne», Agostino segue VARR., De ling. lat., V, 10, ma si veda anche LATT., Divin. instit.,
I, 23.
5
Cfr. VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., II, 8, praef.
6
Cfr. LATT., Divin. instit., I, 18; SEN., Ad Lucil. epist. mor., CVIII, 32-34.
7
Cfr. CIC., De nat. deor., II, 24.
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368 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

le, avendo da venire in Italia, cercò in Lacedemone un capita-


no di guerra. Con la scorta di questa arte si sono fatti i regni e
gli imperii, e quando non se n’è fatto stima tutti i più grandi
son ruinati a terra. Perciocché nelle mani di temerari capitani
caderono la bellicosa Numanzia, l’ornatissima Corinto, la su-
perba Tebe, la dotta Atene, la santa Gierusalem, Cartagine la
concorrente dell’Imperio romano, e finalmente ancora la po-
tentissima Roma. Questa arte è stata scritta con grandissimo
sangue del genere umano e con molto più che non furono le
leggi di Dracone: ella insegna a mettere elegantemente l’ordi-
ne della battaglia, a ordinare comodamente le squadre, assali-
re l’inimico, urtarlo, spingerlo, circondarlo, ferirlo da destra e
da sinistra, combattere alle insegne de capitani, passare inanzi,
sostenere la furia, resistere a gli inimici, calcare adosso a quei
che cedono, dar colpi e schivare quegli che sono dati, o rice-
vergli nello scudo, e non estimargli, e più gagliardamente ur-
tare contra l’inimico, spingere il cavallo, urtarlo di sproni, rite-
nerlo col freno, rivolgerlo a ogni parte, maneggiare armi, vi-
brar lancie, lanciare aste, secondo il loco e’l tempo assaltare gli
inimici dalla fronte, da fianchi e dalle spalle, né fuggire prima
che quando è desperata la vittoria, perseguire quei che fuggo-
no, amazzargli, prendergli, disarmargli, spogliargli, mettergli
in rotta, salvare i suoi, raccogliergli, rifar l’essercito, e quando
non vi è più speranza di vincere, infiammare l’animo all’ardo-
re della vendetta e gli altri uffici de soldati e de capitani. Ella
insegna ancora [ad] apparecchiare l’armate, a fabricare roc-
che, a fortificare castella, a mettere soccorsi, a cavare valli, a
edificare bastioni, a vuotar fosse, a cavar mine, a fabricar ma-
chine, a eleggere armi, a combattere mura, a portar vettova-
glie, a tessere inganni, a mettere aguati e sapere usare diversi
stratagemi. Ne mostra parimente ad assediar città, a lanciar
saette, a maneggiare artigliarie, ad accostar machine, a forar le
mura, a battere le torri, a prendere la muraglia, ad apparec-
chiar fuochi, a ruinar rocche, a spogliar chiese, a saccheggiar
città, a spianar castella, a guastar campi, a conculcare leggi,
adulterar matrone, stuprar vedove, rapire donzelle, de i citta-
dini alcuni pigliarne, altri imprigionare, altri confinare et altri
tagliare a pezzi. Finalmente, tutta questa disciplina non occu-
pata in altro che in danno de gli uomini, attende a questo fine
di fare famosi ruinatori del mondo e valorosi omicidi, e tra-
sformare gli uomini in usanze di fere e costumi di bestie. Però
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79. DELLA ARTE DELLA GUERRA 369

la guerra altro non è che un commune omicidio et assassina-


mento di molti, et i soldati altro non sono che assassini pagati
et armati in ruina della republica. Oltra di questo, essendo
sempre dubbiosi i fini delle guerre, e donando la sorte vittoria
e non l’arte, che giovamento danno gli stratagemi e le insidie e
gli altri precetti dell’arte della guerra? Non si sa egli ch’ogni
artificio è vano dove signoreggia la fortuna? Nondimeno il di-
vino Platone lodò questa arte e comandò che i fanciulli la im-
parassero, e subito cresciuti s’armassero soldati8. E Ciro, quel
valoroso re, diceva che ella non altramente era molto necessa-
ria della agricoltura9. Agostino e Bernardo, catolici dottori del-
la Chiesa, l’approvarono in certo loco10, et i decreti de papi
non la biasmano benché Cristo e gli apostoli siano di molto
contraria opinione. In somma benché Cristo no’l consenta, el-
la ha ottenuto nella Chiesa onorato grado11, essendosi levate
tante sette et ordini di cavalieri sacri, tutta la religione de qua-
li è fondata in sangue, in uccisioni, in rubberie e nello andare
in corso sotto colore di difendere e di ampliar la fede, come se
Cristo avesse voluto che l’Evangelio suo si fosse publicato non
col predicare la parola sua, ma con l’armi, non con la confes-
sione del cuore e col martirio, ma con la ostentazione, la vio-
lenza delle armi, la forza delle guerre, le uccisioni e la ruina de
gli uomini. Né basta a questi cavalieri adoprar l’armi contra i
Turchi, i Saracini et i pagani, che menano ancora l’armate per
Cristiani contra Cristiani. Finalmente la guerra e la milizia ge-
nerano di molti vescovi, e spesse volte ancora s’è combattuto
per il papato, e come dice quel santo vescovo Camotese, non
senza sangue de i fratelli, il sommo pontefice è entrato in sanc-
ta sanctorum12, et allora questo si chiama constanza di martirio

8
Cfr. PLAT., Leg., 813e-814b; Rep., 467a-e.
9
Cfr. SENOF., Oecon., IV, 19-25.
10
Asserzione condannata dai teologi di Lovanio (si veda Appendice 2, p. 533).
Agrippa dedica i capp. 24 e 25 della sua Apologia in difesa di questo luogo del De
vanitate, sostenendo che Agostino e Bernardo condannano la guerra in molti pas-
si delle loro opere (Apol., in AGRIP., Opera, II, pp. 300-303).
11
Asserzione condannata dai teologi di Lovanio (si veda Appendice 2, p. 533).
Per i luoghi del Vangelo a proposito della condanna della guerra da parte di Cri-
sto, cui fa espressamente riferimento Agrippa nell’Apologia (Opera, II, pp. 301-
302), si veda, per es., MT 5:38-45; 1 COR 7:15.
12
Secondo la tradizione biblica, il santuario costruito da Mosè per officiare il mi-
nistero sacerdotale di Cristo comprendeva due padiglioni o tende: nella prima,
denominata Sancta, vi erano il candelabro e la tavola e i pani esposti; la seconda,
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 370

370 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

quando valorosamente, e con grande uccisione di cristiani, si


combatte per il papato. Scrisse dell’arte militare Xenofonte,
Xenocrate, Onasandro13, Caton Censorino, Cornelio Celso,
Iginio, Vegezio, Frontino, Eliano, Modesto e molti antichi; de
moderni Valturio, Nicolò Machiavegli fiorentino, Iacopo conte
di Porcia14 et altri pochi. Questi maestri dell’arte, speculativi,
non sono così pericolosi come i prattici. I titoli della dignità et
i gradi de discepoli non sono baccilieri, maestri, dottorati, né
solamente vi sono di quegli che si domandano imperatori, du-
chi, conti, marchesi, cavalieri, capitani, colonnelli, caporali, al-
fieri e simili nomi di nobiltà nati dall’ambizione e dal mal fare,
ma in effetto son ladroni, guastatori, raptori, spadaccini, ladri,
sacrilegi, amazzatori, stupratori, ruffiani, puttanieri, adulteri,
traditori, spilorci, manigoldi, giocatori, bestemiatori, attossica-
tori, parricidi, incendiarii, assassini, corsali, tiranni e di simil
sorte. Tutti questi difetti, chi gli vuole esprimere in un nome
dica: soldati, cioè veramente barbariche feccie d’uomini scele-
rati, i quali dal malo animo e dalla mala mente stimolati sono a
fare ogni ribalderia, appresso i quali la licenza di far male e di
rubbare ha nome di dignità e di libertà, d’ogni parte cercando
come possono nuocere. Et hanno in odio l’innocenza come
una certa imagine di morte, e quasi tutti sono un medesimo
corpo del padre diavolo del quale essi sono membra, di cui di-
ce Iob: «Il corpo suo è come scudi gettati e composto di scaglie
che si toccano l’una l’altra, l’una si congiunge con l’altra, e per
quelle quasi non entra il fiato. Così tenendosi insieme non si
separeranno giamai: stanno così congiunte perché si sono ac-
cordate insieme contra il Signore e contra Cristo loro»15. Le in-
segne della milizia non sono porpora, collane, anella, né mite-

denominata Sancta Sanctorum, conteneva l’altare d’oro dell’incenso e l’arca del-


l’alleanza, nella quale vi erano un’urna d’oro che conteneva manna e la verga di
Aronne insieme alle tavole dell’alleanza. In questa seconda tenda poteva entrare
soltanto il sommo sacerdote, una volta all’anno, nel giorno dell’Espiazione (si ve-
da EB 9:2-7; LV 16, 23:26-32). A questa tradizione si richiamavano, anche in epoca
rinascimentale, i sostenitori della supremazia del potere spirituale sul potere
temporale e dunque dell’autorità assoluta del Pontefice sullo Stato.
13
Onasandro (I sec.), filosofo platonico e storico greco autore di un’opera mili-
tare intitolata Strathtikov" in cui si elencano doveri e virtù del comandante.
14
Jacopo Graf von Porzia (XV/XVI sec.), autore di un’opera intitolata De re mili-
tari (1537).
15
GB 41:15.
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79. DELLA ARTE DELLA GUERRA 371

re, ma ferite nel petto e corpi guasti per i segni di quelle. Es-
sercizio che non è congiunto se non con ruina e dolore d’infi-
niti, distruzzione delle leggi, de i costumi e della pietà, il quale
sempre combatte per diametro con Cristo, con la beatitudine,
con la pace, con la carità, con l’innocenza, con la pazienza. I
premi suoi sono la gloria della nobiltà acquistata con lo span-
dere del sangue umano, e l’ampliazione dell’Imperio con l’an-
sia di signoreggiare e di possedere, con perpetua dannazione
di molte anime. Perciocché, essendo la vittoria il fine d’ogni
guerra, nessuno può essere vincitore se non è omicida; per lo
contrario, nessun vinto che non muoia o ruine. La fine dun-
que de soldati è pessima, facendo loro il peccato epitafio catti-
vo. Quegli che amazzano sono iniqui ancora che la guerra sia
giusta, perciocché per questo non sono crudeli omicidi verso
quegli che malamente uccidono, ma perché hanno militato
per conto del guadagno e della preda. E se pure alcuni giusta-
mente sono da loro amazzati, coloro che gli uccidono metten-
dosi per loro medesimi nell’ordine de i carnefici, hanno meri-
tato questo grado di nobiltà, e benché le leggi severamente pu-
niscano gli assassini, gli incendiarii, i raptori, gli omicidi e gli
spadaccini, questi tali co’l nome della milizia sono stimati e no-
bili et onorati.
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80.
DELLA NOBILTÀ

Dalla milizia dunque è nata la nobiltà, cioè lo splendore del


sangue, valorosamente acquistata col sangue e con la morte de
gli inimici, da premio publico approvata et onorata con inse-
gne publiche d’onore. Perciò nacquero appresso Romani tan-
te sorti di corone civili, murali, obsidionali1 e navali, tanti doni
militari, bracciali, aste, barde, collane, anella, statue et imagi-
ni, con le quali s’onoravano i primi principii della nobiltà. Ap-
presso Cartaginesi gli erano donate tante anella quante erano
le battaglie dove s’era trovato. Gli Spagnuoli drizzavano tanti
obelischi intorno il sepolcro del morto quanto egli aveva ucci-
so inimici. Appresso gli Sciti solamente quegli potevano bere
in publico convivio a una tazza, ch’era portata intorno, i quali
avevano amazzato uno inimico. I Macedoni avevano una legge
che chi non aveva ucciso alcuno inimico, per vituperio d’igno-
bilità andasse cinto con un capestro2. Nel popolo di Lamagna
nessuno poteva tor moglie il quale prima non avesse portato al
re il capo d’uno inimico morto, e questo sdegno di non avere
avuto il debito onore a quegli che valorosamente avevano com-
battuto mosse già molti contra la patria a mettere sottospora la
libertà di quella. Di ciò ne danno essempio Coriolano, i Grac-
chi, Silla, Mario, Sertorio, Catilina e Cesare. Se vogliamo noi

1
La «corona obsidionalis» era il premio di cui veniva insignito il comandante che
riusciva a rompere un assedio. Si veda, per es., PLIN., Nat. hist., XXII, 4, 7-8.
2
Cfr. EROD., Hist., IV, 66.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 374

374 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

dunque ricercare i principii della nobiltà, ritroveremo che ella


s’è guadagnata con vergognosa perfidia e crudeltà; se guarde-
remo in che modo ella è entrata, la vederemo accresciuta con
milizia mercenaria e con ladronecci; e se vorremo ancora cer-
care l’origine de i regni e dell’imperio, ci si pareranno innanzi
gli empii omicidii de fratelli e de padri, matrimonii funesti e
padri cacciati del regno da i figliuoli, o signori tagliati a pezzi
da coloro che gli aveano giurato fedeltà. Ma consideriamo un
poco la nobiltà fin dal principio suo. Ella, per dire il vero, non
è altro che una gagliarda malizia e dignità guadagnata con ri-
balderie, benedizzione et eredità de i più tristi figliuoli, la qual
cosa n’hanno fatto conoscere che sia vera prima le Sacre Let-
tere, dapoi le istorie delle genti antiche e moderne. Percioc-
ché, avendo il prevaricatore Adamo fin dal principio della
creazione del mondo generato il suo primogenito Cain lavora-
tore, e l’altro Abel, pastore di pecore, ne i quali la famiglia
umana fece due vie: in Cain de i nobili, il quale essendo secon-
do la carne e crudele e superbo, perseguendo, come è usanza,
quello che secondo lo spirito era umile, amazzò Abel; ma si ri-
parò la famiglia plebea in Seth, terzo figliuolo di Adamo3.
Cain, adunque, fu il primo che con l’omicidio del fratello die-
de principio alla milizia et alla nobiltà, e sprezzate le leggi d’Id-
dio e della natura, ma confidandosi nelle proprie forze, usur-
pandosi la signoria, fu il primo ch’edificò le città, fece l’impe-
rio et incominciò a opprimere gli uomini liberi creati da Dio, e
figliuoli di generazione santa, con forza, con rapina, con ser-
vitù e con leggi d’iniquità, infin che quegli ancora, sprezzato il
giudicio d’Iddio e corrotta ogni carne, macchiati di lussuria
mescolata, generarono i giganti, i quali la Scrittura interpreta
uomini grandi e famosi del secolo. E questa è la vera e como-
dissima diffinizione de i nobili. Perciocché essi opprimevano i
poveri, inalzandosi con rubberie et insuperbendo per ricchez-
ze, celebrando i nomi loro mettendogli a i paesi, alle città, a i
monti, a i fiumi, alle acque et al mare, il primo padre de i qua-
li fu Cain maligno per natura, invidioso per odio intrinseco, in-
corrigibile dalla divina riprensione, traditore con lo sdegno co-
perto, omicidiale del proprio sangue, vagabondo et errante

3
Cfr. GEN 4.
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80. DELLA NOBILTÀ 375

per maledizzione, e sopra la maledizzione vi aggiunse ancora la


bestemmia. E queste sono le antichissime e prime imprese del-
la nobiltà, queste le virtù, questi gli ingegni co i quali fino al dì
d’oggi la nobiltà se ne va adornando, lo architetto delle quali fu
quel padre de i giganti, i quali Dio spense nel diluvio dell’ac-
que, riserbandone un solo Noè, uomo giusto nelle generazioni
di Seth, con la sua famiglia, il quale, avendo tre figliuoli, Sem,
Iapet e Cham, essi rinovato il mondo dopo il diluvio, a essem-
pio de gli antichi giganti, edificarono città e fondarono regni4.
Per questo la Scrittura non fa menzione alcuna d’uomini giusti
da Noè fino ad Abraham, perciocché essi furono tutti artefici
della nobiltà fino ad Abraham, cioè di valorosa malizia, d’im-
pietà, di confusione, di potenza, di milizia, di violenza, d’op-
pressione, di caccia, di lussuria, di pompa, di vanità e di simili
insegne di nobiltà, le quali i figliuoli di Noè gli avevano impres-
so, nel numero de i quali Cham, perché fu il più ribaldo di tut-
ti gli altri, e crudele verso il padre, meritò d’avere la prima mo-
narchia signora di tutti i regni5. Costui generò Nembroth, il
quale la Scrittura dice che fu valoroso in terra e robusto caccia-
tore contra Iddio6; questi fu ch’edificò Babilonia la grande, e fu
principio alla confusione delle lingue, insegnò la disciplina del
regnare e fece differenti i gradi delle nobiltà, gli onori, le de-
gnità, gli ufficii e le imagini. Di qui furono poi ordinate le leggi
contra la plebe, introdotta la servitù e le angarie7 al popolo,
scritti esserciti e fatte guerre crudeli. Dal medesimo Cham nac-
que Chus, dal quale vennero gli Etiopi, e Mizraim, dal quale gli
Egizzii, e Canaan, da cui ne vennero i Cananei, genti nobilissi-
me ma pessime, reprobate e maledette da Dio8. Finalmente, do-
po passato molto tempo, Iddio di nuovo elesse uno uomo giu-
sto, il patriarca Abraham, da cui egli si suscitò il seme e’l popo-
lo santo, il quale co’l carattere della circoncisione fece differen-
te dalla moltitudine delle altre nazioni9. Costui da principio ge-
nerò due figliuoli, un bastardo della fante, chiamato Ismael,

4
Ivi, XVI, 3, ma si veda anche GEN 10:9-10; 11:1-9, dove Nimrod è nipote di Cam,
essendo generato da Cus.
5
Cfr. AGOST., De civit. Dei, XVI, 1-2.
6
Ivi, 10:9-10; 11:1-9, dove il figlio di Cam si chiama Nimrod.
7
Il testo latino reca: «exactiones»; si veda supra, p. 19, nota 27.
8
Cfr. GEN 10:6-19.
9
Cfr. AGOST., De civit. Dei, XVI, 27.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 376

376 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

l’altro legittimo della moglie detto Isaac. Diventò Ismael uomo


crudele et arciero, nobile e possente signore, lasciando il suo
nome in perpetuo alla nazione de gli Ismaeliti; e Dio lo bene-
disse e gli confirmò la nobiltà sua nella rapina e nella milizia,
dicendo: «Le mani di lui saranno contra ogniuno, e le mani
d’ogniuno contra di lui; e pianterà i padiglioni dirimpetto a i
suoi fratelli»10. Ma Isaac, perseverando nella giustizia di suo pa-
dre, pascerà il gregge di quello, e costui generò da Ribecca sua
duo figliuoli, Esaù et Iacob. Esaù, dunque, odioso a Dio, uomo
rosso e peloso, cacciatore et arciero, mangiatore e dato alla go-
la, di modo che per una vivanda vendé la primogenitura, si fece
grande uomo e principe de gli Idumei, avendo ricevuto la be-
nedizzione della nobiltà nella grassezza della terra, nella rugia-
da del cielo, nella spada e nello scuotere del giogo11. Ma il giu-
sto Iacob, fuoriuscito appresso Laban suo zio, pasceva le pecore
di quello, di cui avendo con la servitù di quatordici anni meri-
tato le due figliuole per mogli, ebbe da quelle dodici figliuoli, e
fu chiamato Israel, il qual nome passò dapoi ne suoi discenden-
ti, sì che fu domandato il popolo d’Israel. Iacob, come ho detto,
aveva dodici figliuoli, cioè Ruben, Simeone, Levi, Giuda, Isacar,
Zabulon, Iosef, Beniamin, Dan, Neftalim, Gat et Aser, al nume-
ro de i quali furono numerate le dodici tribù d’Israel. Ma Iosef,
venduto da suoi fratelli in Egitto, imparò ogni disciplina de gli
Egizzii e diventò dottissimo interprete de i sogni et indovinava
nel calice. Era talmente ammaestrato nella scienza economica
che con l’astuzia del suo ingegno ritrovava nove arti d’accumu-
lare ricchezze e d’accrescere l’entrate, per la quale cosa gratissi-
mo al re Faraone, fu fatto da lui principe sopra tutto l’Egitto, e
di servo ch’egli era, all’usanza solenne de gli Egizzii, fu creato
nobile. Perciocché il re gli posse uno anello in dito et una cate-
na d’oro al collo, lo vestì di porpora e lo fece montare sopra
una carretta, facendo bandire a un trombetta che ogniuno per
lo inanzi lo dovesse riverire come nobile e come principe. Simi-
le modo di nobilitare era in tutto appresso i Persi, come si legge
nel libro di Ester di Mardocheo ebreo nobilitato dal re Artaxer-
se12. Di là è pervenuta fino al dì d’oggi questa usanza di creare

10
Ivi, 16:12.
11
Ivi, 25:19-34. AGOST., De civit. Dei, XVI, 37. Per i passaggi successivi, si veda GEN 27-50.
12
Cfr. EST 6:7-11; 8:1-8. Ma il re è Assuero, non Artaserse. L’errore di Agrippa può
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 377

80. DELLA NOBILTÀ 377

i nobili appresso i re e cesari, da i quali alcuni comprano la no-


biltà per dinari, altri l’hanno guadagnata per ruffianesmi, per
veneni e per omicidii. Il tradimento ancora ha fatto guadagna-
re a molti e nobiltà e ricchezze, come nelle istorie si legge di
Euticrate, di Filocrate, d’Euforba e di Filagro13. Infiniti son di-
ventati nobili per adulazione, per dir male, per calonnie e per
gagliofferia; molti altri per aver dato le mogli e le figliuole in
potere della lussuria de i re; parecchi sono stati inalzati alla no-
biltà per le caccie, per le rapine, per le uccisioni, per gli incan-
ti et altre arti cattive. Ma ritorniamo a Iosef. Essendo costui
grande nella casa del re, et avendo già avuto il suo primo fi-
gliuolo Manasse, gonfiato da questa adventizia nobiltà, in in-
giuria e dispregio della casa del padre, disse queste parole non
senza colpa: «Iddio m’ha fatto scordare delle mie fatiche e del-
la casa di mio padre»14, per la qual cosa nelle benedizzioni a
Manasse fu posto inanzi Efraim ch’era più giovane. Finalmen-
te esso Iosef, benché fosse figliuolo di Iacob, nondimeno per
questa condizione di nobiltà odiata da Dio non meritò di dare
il nome della tribù in Israel, ma fu dato a Efraim e Manasse fi-
gliuoli suoi15. E quegli non ebbero profeta nelle tribù loro e fu-
rono benedetti con la benedizzione minore di tutte le altre,
cioè nella fortezza e nella moltitudine della sua famiglia. Abitò
il popolo d’Israel in Egitto molti anni, et erano pastori di be-
stiami nella terra di Gessen, ma come incominciarono a cre-
scere in gente grande e possente, diventarono sospetti et odio-
si a i nobili e re d’Egitto, per la qual cosa gli affligevano in ope-
re dure di fango e di mattoni, et in ogni servitù de i lavori del-
la terra, et uccisero i loro fanciulli maschi affogandoli nel fiu-
me, acciocché non rimanesse semenza di loro in terra16. Uno

essere derivato dal fatto che per una confusione con il nome dei suoi successori,
il testo greco porta Artaserse, essendo Assuero la trascrizione latina e italiana del-
la forma ebraica del nome persiano Kshajarsha, in greco Xevrxh".
13
Euticrate, insieme a Lastene, corrotto dall’oro macedone, tradì i propri concit-
tadini favorendo, nel 348 a.C., la caduta della città di Olinto (si veda DEMOST.,
Orat., VIII, 40); Filocrate, statista ateniese del IV sec. a.C., fu accusato da Demo-
stene di corruzione e connivenza con il nemico (si veda PLUT., Mor., 668a; ATEN.,
Deipn., VIII, 343e); Euforbo, figlio di Alcimaco, e Filagro, figlio di Cinea, tradiro-
no la città di Eretria a vantaggio dei Persiani favorendo la presa della città (si ve-
da EROD., Hist., VI, 101).
14
GEN 41:51.
15
Ivi, 48.
16
Cfr. ES 1:7-22.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 378

378 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

di questi adunque, perché era bel fanciullo, fu salutato dalla fi-


gliuola del re, la quale lo adottò per figliuolo e lo chiamò Mo-
sè, perché lo aveva liberato dall’acque17. Venne Mosè crescen-
do nella casa del re, et avendo imparato ogni dottrina egizzia,
tenuto per figliuolo del re, fu fatto grande e capitano dell’es-
sercito di Faraone contra gli Etiopi. Tolse egli allora per mo-
glie una figliuola del re d’Etiopia, onde avendosi acquistato
l’invidia e l’odio de gli Egizzii, fu costretto andarsi in bando in
Madian dove, pigliando gara appresso un certo pozzo per alcu-
ne fanciulle, contra i pastori di quel paese, per quel beneficio
si guadagnò per moglie una d’esse, figliuola d’un sacerdote18.
Finalmente cresciuto in età et in sapienza, riconoscendo il ge-
nere suo della gente ebrea, ritornò in Egitto e, renunziata la
nobiltà egizzia, confortato da Dio, si fece capitano al popolo
d’Israel, e con molti miracoli lo condusse fuora d’Egitto19, et
avendo peccato il popolo contra Dio nel vitello d’oro, sdegna-
to Mosè, tolse con seco uomini forti figliuoli di Levi, dicendo
loro: «Pigliate le vostre spade, et andando e ritornando, cia-
scun di voi amazzi il fratello, l’amico e’l prossimo suo», e poi
che ebbero fatta questa notabile uccisione di quasi ventitre mi-
la uomini, tutti gli benedisse, dicendo: «Oggi consacrato avete
le vostre mani nel sangue, ciascuno di voi nel figliuolo e fratel
suo»20, e così si compie la benedizzione di Iacob, di Simeone e
di Levi, che gli chiamava vasi d’iniquità guerreggianti, il furore
de i quali è maledetto et ostinato e lo sdegno duro21. La nobiltà
d’Israel dunque ebbe principio in così notabile omicidio, per-
ché Mosè gli diede allora principi, capitani e capi dell’esserci-
to, tribuni, centurioni, quinquagenarii e decani, uomini belli-
cosi e combattitori valorosi per le tribù e parentadi loro, de i
quali, a chi gli pareva vincere gli altri di valore e di fortezza, gli
davano il principato e l’auttorità di giudicare22. Perciocché
non avevano re, ma si reggevano a giudici, de i quali Giosuè,

17
Ivi, 2:1-10.
18
Ivi, 2:11-21.
19
Ivi, 3-14.
20
Ivi, 32:27-29. Mentre il testo biblico parla di soli tremila uomini uccisi, la Vulga-
ta ha: «ventitremila», forse seguendo 1 COR 10:8, che può essersi ispirato a NM
25:1-9.
21
Per Simeone e Levi, si veda GEN 39:25-31; 49:5-7.
22
Cfr. ES 18:13-27.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 379

80. DELLA NOBILTÀ 379

uomo nobile, robusto e bellicoso, vincitore de i re, che non


aveva paura d’alcuno, tenne il principato dopo Mosè23, dopo la
morte del quale vissero senza principe, sotto democrazia, cioè
governo di popolo24. Ma venendo a sedizione, combatterono
fra loro e distrussero quasi la tribù di Beniamin, che non ve ne
rimasero se non seicento uomini; e perché gli avevano tolto le
figliuole loro, gli diedero quattrocento25 vergini de i prigioni
di Iabis Galaad; a gli altri dugento diedero licenza che si rapis-
sero vergini da Silo26. Et in questo modo s’adempì la benediz-
zione della nobiltà di Beniamin a guisa del lupo, il quale la
mattina piglia la preda e la sera parte le spoglie27. Dopo questo
ritornarono di nuovo alla aristocrazia e governo de principi,
fra i quali finalmente Abimelech, figliuolo bastardo di Iero-
boal della tribù di Manasse, poi che gli ebbe con solenne omi-
cidio fatto morire sopra una pietra settanta suoi fratelli legitti-
mi, fu il primo che ottenne il regno in Sichem28. Perché do-
mandando re tutto il popolo d’Israel, gli furono dati re nello
sdegno del Signore, pochissimi buoni e molti cattivi. Percioc-
ché Iddio si corucciò con loro e gli disse l’auttorità del re, il
quale avrebbe tolto loro i figliuoli e le figliuole, facendosi car-
rettieri e fornaie, e secondo che gli sarebbe piacciuto, avrebbe
decimato e distribuito fra servi suoi i campi, i greggi, le posses-
sioni, i servi, le fanti e tutte le cose migliori di loro, e con giogo
di servitù avrebbe oppresso il popolo; et ogni volta che il re
peccasse e facesse male, il popolo sarebbe punito per lui29. In
questo modo gli diede re un giovane della tribù di Beniamin,
chiamato Saul, uomo forte di corpo, grande di statura, di mo-
do ch’egli avanzava tutto il popolo dalle spalle in su, e Dio mi-
se paura in tutti, sì che lo riverirono come ministro suo30. Co-

23
Cfr. GS 1.
24
La frase: «cioè governo di popolo» manca nel testo latino e dunque va conside-
rata un’aggiunta del traduttore.
25
Il testo latino reca: «quadragintae», ossia quaranta, ma il passo della Bibbia re-
ca: «quattrocento».
26
Cfr. GDC 21:12-23. Sulla disfatta e la rovina della tribù di Beniamino, si veda GDC
21.
27
Cfr. ES 49:27.
28
Cfr. GDC 9:1-5.
29
Cfr. 1 SM 8:11-18.
30
Ivi, 9:2.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 380

380 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

stui, prima che incominciasse a regnare, era innocente come


un fanciullo di uno anno e di ottima speranza, ma poi ch’egli
acquistò la nobiltà del regno, diventò uomo malvagio e figliuo-
lo di Belial31. Levò dunque Iddio il regno della casa di Saul e
diedelo a David, figliuolo d’Isaia della tribù di Giuda32. E co-
stui, similmente di pastore di pecore fatto re, corrotto dalla
medesima pestilenza di nobiltà, diventò uomo di peccato, sa-
crilego, adultero et omicida: non però cessò la misericordia di
Dio da lui. Egli regnò da principio in Hebron, quando Isbo-
seth, figliuolo di Saul, regnava di là dal Giordane33; finalmente
gli fu confirmato il regno di tutto il popolo in Gierusalem34.
Egli però non ottenne la monarchia pacifica d’Israel, percioc-
ché vivendo ancora lui, suo figliuolo Absalone occupò il regno
in Hebron, il quale poi che fu ucciso, Siba figliuolo di Bacro as-
salì di nuovo il regno35. Aspirò parimente al regno Adonia, fi-
gliuolo di David36. Ma esso David, venendo a morte, instituì
erede il minore di età Salomone, figliuolo di Bersabè37 adulte-
ra, e questo fu il primo ch’ebbe la monarchia de gli Ebrei, la
quale confermò con l’omicidio d’Adonia suo fratello maggio-
re38, e similmente anch’egli, poi che fu fatto signore, traviò dal-
la strada dritta dietro le femine in fornicazioni et idolatria, ab-
bandonando la legge d’Iddio39. E gli successe nel regno il suo
figliuolo cattivo Roboam, peccatore anch’egli e scelerato in-
contra Iddio, e perciò si separò da lui la monarchia del popolo
e si gli ribellarono dieci tribù, le quali si fecero re Ieroboam,

31
Ivi, 16:14-23. Per l’espressione «figli di Belial», si veda DEUT 13:14 e GDC 19:22.
Belial, dal significato controverso di ‘iniquo’, designa in NA 1:11 e 2:1 un nemico
di Dio; il termine finisce con il qualificare Satana in 2 COR 6:15, con la forma Be-
liar.
32
Cfr. 1 SM 16, dove però il padre di David si chiama Iesse, non Isaia.
33
Cfr. 2 SM 2, dove però il figlio di Saul si chiama Is-Baal.
34
Cfr. 2 SM 5.
35
Per la rivolta di Assalonne, figlio di Davide, si veda 2 SM 15-18; per la rivolta di
Seba, figlio di Bicri, si veda 2 SM 20.
36
Cfr. 1 RE 1.
37
Il testo latino reca: «Bathsabae», in concordanza con il «Betsabea» del testo bi-
blico. Bersabea è invece il luogo dell’alleanza tra Abramo e Abimèlek, situato nel
Negheb, che segnava l’estremo confine sud della Terra Santa (si veda GEN 21:25-
32; GDC 20:1; 1 SM 3:20).
38
Cfr. 1 RE 1-2.
39
Ivi, 11.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 381

80. DELLA NOBILTÀ 381

uomo sceleratissimo, della tribù di Dan, il quale avelenò tutto


Israel subornando dieci tribù all’idolatria40, drizzati i vitelli in
Samaria perché s’empiesse la benedizzione, la quale diceva:
«Dan serpente sopra la via e drago sopra il sentiero, il quale
morde il calcagno del cavallo per far cadere adietro il cavalca-
tore»41. Ma la tribù di Giuda riposò sotto’l seme di David, sì co-
me l’aveva benedetta Iacob che non sarebbe stato levato lo
scettro di Giuda fino alla venuta del Messia42. Era questo Giuda
il peggiore de i figliuoli di Iacob, e disonestamente usato avea
con la nuora, et i figliuoli suoi erano malvagissimi e sceleratis-
simi, la onde gli ebbe la beatitudine della nobiltà nello scettro
del regno e nella fortezza del leone43. Finalmente si partoriro-
no ancora da i re d’Israel il popolo di Edom e di Lobne, e s’e-
lessero re secondo la volontà loro, sì come Dio aveva benedet-
to Esaù ch’a sua voglia potesse scuotere il giogo44. Ma fra tutti i
re di Giudea e d’Israel se ne trovarono appena quattro buoni.
Dapoi che furono spenti i re, con tutta la nobiltà, i Giudei fu-
rono portati in Babilonia in prigionia e servitù45, e di nuovo an-
cora dopo molto tempo per misericordia d’Iddio tornati in
Gierusalem, felicemente per un certo tempo governarono la
repubblica loro sotto i sacerdoti, gli ottimati e’l magistrato po-
polare, finché Aristobolo, figliuolo d’Ircano, si mise la corona,
e con l’uccisione della madre e de fratelli rifece il regno de
Giudei46, il quale passando dapoi per molti re, ultimamente eb-
be fine sotto Archilao, re disonesto et insolente, essendosi fatta
tutta la Giudea provincia di Romani47, e finalmente disfatta sot-

40
Ivi, 12.
41
Cfr. GEN 49:17.
42
Ivi, 49:10.
43
Ivi, 38.
44
Ivi, 27.
45
Cfr. 2 RE 24-25.
46
Qui Agrippa fa confusione tra Aristobulo I (134-104 a.C.), figlio di Ircano I, et-
narca di Giudea, e Aristobulo II, il quale, alla morte del padre Alessandro Ian-
neo, si impadronì del regno dopo aver cacciato il fratello Ircano II, erede legitti-
mo per designazione della madre Alessandra Salomè. Sull’episodio, si veda, per
es., EUSEB., Hist. eccl., I, 6, 5-8; FLAV. GIUS., Antiq. Jud., XX, 240-241.
47
Grazie all’appoggio di Gneo Pompeo Magno nel 63 a.C., Ircano II riuscì a scon-
figgere il fratello Aristobulo II e a ottenere il sommo sacerdozio della Giudea, ma
non conservò la sovranità ad esso legata, poiché la Giudea divenne tributaria sog-
getta a Roma. Alla morte di Ircano II nel 37 a.C., Antipatro, suo ministro, diven-
ne sommo sacerdote e in seguito etnarca di Giudea, Samaria, Galilea e Perea. Ad
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382 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

to Tito e Vespasiano48, e confinato tutto il popolo per lo mon-


do fino al dì d’oggi in perpetua servitù. In tal modo ne è paru-
to tor queste cose dalle Sacre Lettere per mostrare che fin dal
principio del mondo non è stata alcuna nobiltà la quale non
abbia avuto scelerata origine ancora nel popolo d’Iddio, e no-
biltà non essere altro che gloria e premio d’iniquità publica,
nella quale quanto la vita è più macchiata, tanto è più famosa,
quanto più ribalderie, tanto più premio e gloria, come arguta-
mente disse ad Alessandro Diomede corsale quando fu preso:
«Io, perché rubbo con un naviglio solo, son chiamato corsale;
tu, perché ciò fai con una grande armata, sei detto imperatore.
Se tu fossi solo e [in] prigione, saresti un ladro; se i popoli mi
ubidissero a un cenno, sarei chiamato imperatore. Perciocché
in quanto alla causa non siamo differenti se non ch’egli è più
cattivo chi piglia più malvagiamente, chi più vilmente abban-
dona la giustizia, chi più manifestamente impugna le leggi:
perciocché quegli ch’io fuggo, tu gli perseguiti; quegli ch’io
onoro sì come io posso, tu gli dispregi; la malvagità della fortu-
na e la povertà fanno me ladro, e te la intolerabile superbia e
la insaziabile avarizia. S’io potessi placare la mia fortuna, forse
ch’io diventarei migliore, ma tu quanto più aventuroso sarai,
tanto peggiore diverrai». Maravigliatosi Alessandro della con-
stanza di costui, lo fece scrivere al soldo perché potesse poi,
salve le leggi, militare, cioè assassinare49. Ora, passando alle
istorie de Gentili, mostriamo parimente che la nobiltà non è
altro che malvagità, furore, ladronezzo, rapina, omicidio, lus-
suria, caccia, violenza, in ogni loco nata da pessimi principii,
continuata da peggiori, e sempre avere avuto disonestissimo fi-
ne, la qual cosa si vedrà chiaramente in quelle quattro famose

Antipatro, ucciso a tradimento per invidia della sua grande fortuna, successe il fi-
glio Erode il Grande, in seguito nominato re dei Giudei. Alla morte di costui il re-
gno passò ai figli Erode Antipa, tetrarca, che ereditò la Galilea e la Perea, Arche-
lao, etnarca, che ottenne la Giudea, la Samaria e l’Idumea e Filippo, tetrarca, che
ereditò il territorio di Iturea, comprendente la Gaulanitis, l’Auranitis, la Tracho-
nitis e la Batanea. Si veda, per es., EUSEB., Hist. eccl., I, 5-7; FLAV. GIUS., Antiq. Jud., I,
19; 123-124 e 130-131; XVI.
48
Allusione alla campagna in Giudea di Tito Flavio Vespasiano, inviato da Nerone
nel febbraio del 67 per reprimere la rivolta degli Zeloti, e alla prosecuzione delle
operazioni militari conclusesi con la disfatta di Gerusalemme ad opera del figlio
Tito.
49
Cfr. AGOST., De civit. Dei, IV, 4; CIC., De re pub., III, 14, 24.
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80. DELLA NOBILTÀ 383

monarchie e poi ancora ne gli altri regni de nobili. La prima


monarchia dopo il diluvio fu quella de gli Assirii, alla quale
diede principio Nino il quale, primo de gli altri, non contento
de suoi confini, per desiderio d’ampliare l’imperio distese fuo-
ra l’armi e, movendo guerre sanguinose a suoi vicini, soggiogò
i popoli di tutto l’oriente, e sempre accrebbe la grandezza del-
lo imperio acquistato continuando in vittorie nuove e conti-
nuo accrescimento di provincie, soggiogata l’Asia e superato
Ponto. Appresso questo ammazzò Zoroaste, re de Battriani, da
lui vinto in battaglia50. La moglie di Nino avea nome Semirami;
costei, come racconta Dinone istorico, domandò al marito di
potere signoreggiare cinque dì, la qual cosa poi ch’ebbe otte-
nuto, s’acconciò la stola e la corona e, salita su la sedia regale,
comandò a sergenti che spogliato Nino suo marito de gli orna-
menti reali lo devesse uccidere, il quale poiché in questo modo
fu morto, ella successe nell’imperio51; né contentandosi de i
termini del regno, aggiunse l’Etiopia al suo imperio, fece guer-
ra in India, cinse Babilonia di superbissimo muro, ultimamen-
te fu uccisa da Nino secondo suo figliuolo ch’ella vituperosa-
mente aveva concetto, crudelmente esposto e sceleratamente
usato con lui52. La monarchia dunque de gli Assirii con questi
omicidii ottenne il principato, infin ch’ella ebbe fine sotto il re
Sardanapalo, uomo molto più corrotto d’ogni femina il quale,
ritrovato fra le mandre delle puttane, fu amazzato da Arbatto
prefetto della Media; et egli, facendosi re, trasferì tutto lo im-
perio de gli Assirii a i Medi53. E Ciro finalmente lo portò ne
Persi, appresso de i quali Cambise suo figliuolo, edificatore

50
Cfr. OROSIO, Hist. adv. pag., I, 4, 1-3; GIUST., Epit., I, 1, 1-5, 7 sgg.; GEROL., Chron.,
I, 15, 1-2; AGOST., De civit. Dei, IV, 6, ma si veda anche DIOD. SIC., Bibl. hist., II, 2, 5-
6, dove il re della popolazione dei Battriani si chiama Oxyarte.
51
Cfr. ELIANO, Var. hist., VII, 1. Si veda anche DIOD. SIC., Bibl. hist., II, 20, 4-5, dove
però si afferma che la leggenda è narrata da Ateneo, non da Dinone.
52
Cfr. supra, p. 291, nota 26.
53
Cfr. OROSIO, Hist. adv. pag., I, 19, 1; II, 2, 1-7; GIUST., Epit., I, 3, 6, ma si veda an-
che ATEN., Deipn., XII, 528f-529b; GEROL., Chron., I, 14, 3 e I, 15, 5, dove il prefetto
che uccide il re Sardanapalo si chiama Arbace (già Orosio segnalava il fatto che al
prefetto fossero attribuiti due nomi diversi). La leggenda della lussuria e della
mollezza di Sardanapalo, re d’Assiria, identificato con il grande re Assurbanipal
(668-626 a.C.), trae origine da ARIST., Polit., 1312a; Eth. nicom., 1095b; Eth. eud.,
1216b, e rimarrà uno stereotipo della letteratura europea fino al XIX secolo. Su
questo argomento, si veda anche DIOD. SIC., Bibl. hist., II, 21-28; GIOVEN., Sat., X,
362; CLEM. ALESS., Strom., II, 20; AGOST., De civit. Dei, II, 20.
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384 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

della nuova Babilonia, aggiunto molti regni, ebbe la seconda


monarchia, la quale egli consacrò con l’omicidio del fratello e
del figliuolo54. Questa finalmente mancò in Narso figliuolo
d’Ocho a cui, dopo ch’egli fu morto da Bageo eunuco55, suc-
cesse Dario Persa figliuolo d’Arsano, prima chiamato Gade-
manno, il quale, vinto da Alessandro Magno, insieme con la vi-
ta finì la monarchia de Persi56, la quale Alessandro, consapevo-
le e consigliatore della morte del padre insieme con la madre
adultera, con questo famoso omicidio trasferì a i Macedoni: e
questa fu la terza monarchia, la quale ebbe fine anch’ella, mor-
to che fu Alessandro57. Successe la quarta monarchia de Roma-
ni, di cui non fu altra più potente nelle cose umane, ma se
guarderemo l’ordine de i tempi della edificazione di Roma,
noi la ritroviamo avere avuto origine da pessimi principii e da
pessimi mezi continuata ancora, e perciò cominciaremo più al-
to da i primi edificatori della città. La città di Roma fu edifica-
ta in Italia da due fratelli Remo e Romolo, nati d’una Vestale
incestuosa, nodriti da una meretrice58, il regno della quale Ro-
molo, a guisa di Cain, corruppe con la morte del fratello59. E
sopportando egli d’essere chiamato figliuolo di dèi, raccolto
una squadra di scelerati sergenti, promettendo di fargli securi,
rapì le donne de Sabini, e dandogli per mogli quelle che s’ave-
vano eletto, ne generarono i giganti, dico quegli re e baroni
della nobiltà romana, torre di tutto’l mondo60. Ora avendo egli
con fraudolente patto e con giuoco di tradimento allettato le

54
Cfr. EROD., Hist., III, 30-32.
55
Sulla storia di Artaserse III, detto Oco, re di Persia dal 358 al 337 a.C., assassi-
nato dall’eunuco Bagoa, si veda ELIANO, Var. hist., VI, 8 e De nat. animal., X, 28.
56
Dario III Codomano (ca. 308-330 a.C.), figlio di Arsame, fu posto sul trono dal
potente eunuco Bagoa. Sconfitto in diverse battaglie da Alessandro Magno fu de-
posto e assassinato da una cospirazione.
57
Cfr. GEROL., Chron., I, 21, 7.
58
Il testo latino a questo punto reca: «in Italia primum condita est», qui mancan-
te.
59
Per la nascita di Romolo e Remo da Marte e da Rea vestale e per le notizie su
Acca Larenzia meretrice e nutrice dei gemelli, si veda LIV., Ab Urbe cond., I, 3 sgg.
L’affinità con la storia di Caino e Abele per la questione del fratricidio è sottoli-
neata anche da Agostino in De civit. Dei, XV, 5.
60
Il testo latino reca: «toto orbi formidabiles». Anche qui Agrippa stabilisce un’af-
finità con il racconto biblico, laddove in GEN 6:2-4 si racconta come ai tempi di
Sem, Cam e Giafet i figli di Dio, unendosi con le figlie degli uomini, generarono
i giganti. Sui giganti figli degli angeli e delle donne, si veda anche AGOST., De civit.
Dei, III, 5 e XV, 9 e 23.
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80. DELLA NOBILTÀ 385

femine e figliuole di Sabini, disonestamente rubbatole, e con


nozze crudeli a sé et a suoi accompagnate, et ottenutole con la
morte de i padri e de i mariti, appresso questi con altri nuovi
omicidii le difese. Perciocché non perdonando al sangue de
suoi suoceri, crudelmente amazzò Tito Tazio, vecchio giusto,
onoratissimo principe de Sabini, tolto da lui in compagnia del
regno61. Questi furono i principii del regno romano, il quale,
governato per dugento quaranta tre anni sotto crudeli re,
mancò sotto Tarquinio Superbo per la disonestà di Lucrezia
stuprata62. E sì come la successione di Cain perì nella settima
generazione sotto il diluvio delle acque, così ancora questi suc-
cessori di Romolo furono oppressi nel numero settenario de i
re dal tumulto del popolo, e benché la città di Roma avesse ab-
battuto l’imperio de i re, ella non poco puoté fuggire la tiran-
nide. Perciocché dopo che furono cacciati i re, essendo dopo
le inondazioni del tumulto del popolo pervenuto il regno a gli
ottimati, un certo Bruto, uomo nobile, fu eletto primo consolo
di Romani. Costui, per istabilire così grande imperio, si sforzò
non pure d’agualiare quel primo edificatore Romolo nell’omi-
cidio, ma di vincerlo ancora, sì come quello che fece battere
con verghe e tagliare la testa a due suoi figliuoli giovanetti, et
altrettanti Vitellii, fratelli di sua moglie63. Et essendo durato
questo imperio molti secoli sotto i nobili e la plebe, per diversi
magistrati e private tirannidi, terminò sotto Giulio Cesare, uo-
mo difficile a potersi dire qual fosse più o valoroso in battaglia
o corrotto in lussuria, e dapoi sotto Antonio, schiavo similmen-
te della lussuria, e tutta la somma dell’Imperio romano passò
in Ottaviano Augusto imperatore: in costui ebbe principio la
quarta monarchia del mondo. Ma non fu però cominciata sen-
za omicidio, benché questo Augusto fosse stimato il più piace-
vole di tutti gli altri principi, ch’egli fece morire un fanciullo et

61
Cfr. LIV., Ab Urbe cond., I, 14, 1-3.
62
L’oltraggio subito da Lucrezia, moglie di Tarquinio Collatino, a opera di Sesto
figlio del Superbo, rappresenta una delle più antiche leggende della storia di Ro-
ma, da cui poi traggono spunto molte delle discussioni di carattere morale. Nu-
merose sono le testimonianze sulla leggenda: si veda, per es., LIV., Ab Urbe cond., I,
58 sgg.; CIC., De re pub., II, 35, 46, De leg., II, 4, 10, De finib., II, 20, 66; DION. ALIC.,
Antiq. rom., IV, 66 sgg.; VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., VI, 1, 1; AGOST., De civit. Dei,
I, 19 e II, 17.
63
Su Lucio Giunio Bruto, primo console romano dopo la cacciata dei Re, si veda
LIV., Ab Urbe cond., II, 2-5; AGOST., De civit. Dei, III, 26.
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386 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

una fanciulla, figliuoli di Cesare suo zio e di Cleopatra, da cui


egli era stato adottato et instituito erede nell’imperio, non
avendo rispetto né al nome, né al beneficio, né al parentado,
né alla età. A questo modo i principi romani ottennero la mo-
narchia del mondo e generarono Nerone, Domiziano, Caligu-
la, Eliogabalo, Galieno et altri mostri di crudeltà e di vituperio,
sotto i quali tremò tutto il mondo, fin che fu dichiarato impe-
ratore dal Senato quel grande Constantino, poi che egli ebbe
amazzato Massenzio, il quale per la lussuria e crudeltà sua era
in odio al popolo romano. Costui, rinovando Bizanzio e facen-
do una città concorrente di Roma, e volendo che perciò ella
fosse chiamata Roma nuova e Constantinopoli dal suo nome,
volle ch’ella fosse la sedia de gli imperatori e trasferì l’imperio
romano a i Greci, e similmente lo consacrò in Constantinopo-
li, come aveva fatto Romolo in Roma, con la morte di due Lici-
nii, marito e figliuolo di sua sorella, e con l’omicidio de propri
figliuoli e della moglie, e così perseverò lo imperio ne i Greci
fino al tempo di Carlo Magno, nel quale passò solamente il no-
me dell’imperio a i Tedeschi. Ma basti aver detto questo de i
monarchi. Consideriamo un poco i principii et i fini d’alcuni
regni, e ritroveremo che non furono incominciati con migliori
augurii, né acquistati con minori ribalderie, né di nuovo di-
sfatti con minor lussuria. Io non parlo de gli omicidii di Dar-
dano, né in che modo egli, persuasi a malfare64, diede princi-
pio al regno di Greci65. Taccio similmente gli imperii delle fe-
mine acquistati con l’uccisione de gli uomini, come racconta-
no le istorie delle Amazoni66. Passiamo pure a i tempi più nuo-
vi e più appresso all’età nostra. Al tempo di Teodosio impera-
tore, il primo che regnò in Ispagna fu Atanarico Goto, ma nel
medesimo tempo ancora gli Alani et i Vandali possedevano l’I-
spagna. Il primo de i re de Goti ch’ebbe la monarchia d’Ispa-
gna fu Suitilla, la quale ultimamente il re Roderigo, per avere
sforzato la Giulia figliuola del prefetto della provincia Tingita-
na, perdé, mettendo fine all’imperio de Goti, perché i Saracini
occuparono allora l’Ispagna67. Ricoverati poi alcuni luoghi sot-

64
Il testo latino reca: «persuasis in scelus Achivis», ossia «indotti gli Achei al mi-
sfatto».
65
Cfr., per es., OROSIO, Hist. adv. pag., I, 12, 6.
66
Ivi, I, 15, ma si veda anche GIUST., Epit., II, 4.
67
Cfr. supra, p. 296.
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80. DELLA NOBILTÀ 387

to il re Pelagio, la prima volta allora si chiamarono re d’Ispa-


gna e non più de Goti, fermandosi il titolo del regno appresso
la città di Leone fino al tempo di Ferdinando figliuolo di San-
cio, il quale fu il primo che si fece domandare re di Castiglia, e
poi che egli ebbe amazzato suo fratello Garzia, con quello omi-
cidio acquistò anco il regno di Navarra. Ma Ramiro loro fratel-
lo, il quale il padre suo aveva generato d’una concubina, uomo
bellicoso e crudele, diventò il primo re d’Aragona. Ma Alfonso
fu il primo re di Portogallo, nato d’Arrigo di Loreno e di Tire-
sia figliuola bastarda d’Alfonso re di Castiglia, uomo valoroso
in armi, il quale in un fatto d’arme solo vinse cinque re di Sa-
racini: per questo i re di Portogallo portano nell’arme loro cin-
que scudi. Fu però questo Alfonso d’animo crudele verso la
madre, la quale perché s’era maritata la seconda volta, cacciò
in prigione perpetua, né fu mai possibile che si movesse a la-
sciarla fuora né per preghi d’amici, né per minaccie della
Chiesa. Finalmente tutti questi regni d’Ispagna furono acqui-
stati con gran ribalderie o confermati con le medesime arti. I
principii del regno d’Inghilterra son quasi favolosi. Questa iso-
la da poi è stata et abitata e sottomessa sotto varii re, e da mol-
te nazioni, da Scoti, Dani e Sassoni68. Ultimamente ottenne
monarchia quieta sotto Guglielmo Normanno, la quale egli
confermò a sé e descendenti suoi con l’omicidio d’Aroldo, re
de Vuestosassoni, suo parente, la successione del quale conti-
nua tuttavia fino al dì d’oggi famosa sopra modo per notabili
omicidii. Io non parlo de regni di Borgognoni e di Longobar-
di, incominciati prima da gli ultimi popoli di Lamagna in Fran-
cia et in Italia, qui dal re Gondiaco e là dal re Alboino, e conti-
nuati poi con crudelissimi omicidii69. Guardiamo il potentissi-
mo regno de Franchi in Gallia. I suoi primi principii ebbero
origine da Faramondo figliuolo del capitano Meroveo, il quale
primo che passò di Lamagna in Francia, fu fatto primo re di
Francesi, superiore a ogniuno in crudeltà et in terribilità70. La
linia di costui durò fino a Childerico III il quale, cacciato dal
regno per la dappocaggine sua in governare la republica e per

68
Il testo latino aggiunge: «Pictis», ossia «Pitti», popolo della Caledonia. Cfr. AMM.
MARC., Res gestae, XX, 1, 1.
69
Sulla storia dei Longobardi e del re Alboino, si veda PAOLO DIAC., Hist. Long., II.
70
Meroveo (m. 456), figlio di Faramondo, è il fondatore della dinastia merovingia.
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388 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

la lussuria verso le donne, fu confinato in un monasterio di


monaci71, succedendogli nel regno Pippino maggiordomo, il
quale avendolo acquistato a sé e descendenti suoi per tradi-
mento, appresso lo stabilì con l’omicidio di suo fratello Grifo-
ne, fino a Lodovico VI figliuolo di Lotario, il quale fu fatto mo-
rire con veleno da Bianca sua moglie per diffetto d’adulterio72.
Occupò il regno di Francia Ugo Ciapetta73, uomo sanguinolen-
to e valoroso combattitore, sì come quello che con queste arti
fu stimato molto dal popolo parigino, essendo per altro igno-
bile e nato d’un beccaio. Costui, ribellatosi contra Carlo, zio di
Lodovico e vero erede del regno, raccolta una quantità di sce-
leratissimi gaglioffi et una squadra di pessimi ladroni, essendo-
gli dato in mano il detto Carlo appresso Orliens, lo cacciò in
prigione e quivi lo fece morire. Così avendo commesso questo
omicidio contra il re e principe suo74, si pose la corona, et
avendo cambiato la beccaria a un regno, signoreggiò egli da-
poi e descendente suoi in Francia, la successione del quale du-
ra fino al dì d’oggi, finché ella di nuovo ruini in qualche servo
di lussuria e di puttane. Lungo sarebbe chi volesse raccontare
in questo loco i principii di tutti i regni e trascorrere per tutte
le istorie delle antiquità. Io ho descritto altrove in volume mag-
giore75 quella cosa che qui brevemente ho toccato, dove minu-
tamente ho dipinto la nobiltà con i suoi colori e lineamenti e vi
ho mostrato che non fu mai, né ora è alcun regno nel mondo,
né principato grande che non abbiano avuto principio da omi-
cidio di parenti, tradimento, perfidia, crudeltà, strage, uccisio-
ni et altre orrende sceleraggini, artificii certamente della no-
biltà, la quale poi che ha capi così fatti, facilmente conoscere
potremo come sien fatte le altre membra di questa bestia, e
quelle tutte essercitate e pronte a molestia, a rapina, a uccisio-

71
Childerico III, ultimo re della dinastia merovingia, fu deposto non legalmente
per decreto papale nel 751 a causa della fasulla Donazione di Costantino (si veda in-
fra, nota 5, p. 457-458). Gli successe Pipino III detto il Breve, che regnò fino al
768 dando inizio, con il figlio Carlo, alla discendenza carolingia.
72
In realtà si tratta di Ludovico V e non VI, figlio di Lotario re di Francia.
73
Ugo Capeto (ca. 940-996), capostipite dell’importante famiglia feudale che con
lui giunse a conquistare stabilmente il regno di Francia, fu incoronato re di Fran-
cia nel 987.
74
Il testo latino reca: «quo nephandissimo in regem et principem suum perpetra-
to parricidio».
75
L’opera probabilmente non è mai stata scritta.
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80. DELLA NOBILTÀ 389

ne, a caccia, a lussuria et a ogni sorte di disonestà. Chi si vuol


fare nobile, facciasi prima cacciatore: questo è il primo ele-
mento della nobiltà; diventi poi soldato pagato e per dinari
serva altrui a fare omicidii: questa è la vera virtù della nobiltà,
nella quale, se si porterà da valoroso assassino, non vi è altra
gloria maggior di gentilezza. Chi non è atto a far queste cose,
compri la nobiltà con dinari, perciocché anch’ella si vende; o
se ciò non potrà fare, diventi parasito a i re, o con alcuno altro
inganno cortigiano facciasi avanti, divenga ruffiano delle put-
tane di palazo, o sottometta la moglie o le figliuole al signore,
o sazie egli la lussuria delle signore, maritisi in una femina del
re, o tolga per mogli le loro figliuole bastarde: questo è il su-
premo grado di gentilezza, perché egli diventa un medesimo
corpo con essi, questi sono i sentieri, queste le scale e questi i
gradi co i quali per breve strada s’ascende all’altezza della no-
biltà. Ma quegli che vogliono parere nel suo genere più gene-
rosi e molto più nobili di tutti gli altri, si vantano d’essere di-
scesi da tali uomini che nessuno ardirebbe a disprezzargli, cioè
uomini stranieri, Troiani o Macedoni, vagabondi o fuorusciti
di paesi incerti e coperti di mille disonestissime ribalderie; e
nondimeno, se piace a Dio, bisogna lodare e mettere al cielo
questa nobiltà loro, la quale ha avuto così disonesti principii.
Alcuni, essendo venuti di schiatta di feminuccie vili e di putta-
ne, coprono questa vergogna con favole, come si legge di Me-
lusina76; sono di quegli c’hanno avuto altri scelerati nascimen-
ti, incesti, stupri, rapimenti, adulterii e simili. In questo modo
Baldovino, per avere concesso Giudith sua figliuola a Carlo
Calvo, fu creato primo conte di Fiandra77. Similmente quei

76
Cfr. AGRIP., De occ. phil., III, 19, p. 459. Melusina è una figura leggendaria per
metà serpente e per metà donna, maga incantatrice risalente all’VIII sec. alle di-
nastie regali dei Pitti o degli Sciti. Nel 1387 Giovanni, duca di Berry del casato dei
Valois di Francia, incaricò il suo segretario particolare Giovanni d’Arras di scrive-
re la storia della famiglia dei Lusignan. L’opera, intitolata La nobile storia dei Lusi-
gnan, conteneva al suo interno La storia di Melusina, la cui versione si basava, se-
condo quanto afferma lo stesso Giovanni d’Arras, su una precedente opera scrit-
ta in italiano e attribuita a un tale Guglielmo di Portenach. Sulla scia del raccon-
to francese della storia di Melusina, pubblicata a Parigi, Troyes, Lione, Tolosa, fe-
cero seguito numerose traduzioni e, a partire dal 1478, la leggenda divenne po-
polarissima contando edizioni a Ginevra, Copenhagen, Praga, Strasburgo, Hei-
delberg, Norimberga, Lipsia e Anversa.
77
Allusione a Baldovino I, detto Braccio di Ferro, e alle sue nozze segrete con
Giuditta, figlia di Carlo il Calvo e vedova di un re di Wessex. Il matrimonio, che in
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390 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

marchesi di Piemonte, cioè di Monferato, di Saluzzo, di Sena e


molti altri, furono fatti dall’imperatore Otone per rispetto del-
la figliuola che gli fu rapita da uno di loro. Perciocché soglio-
no talora i re e gli imperatori con qualche titolo di dignità ri-
durre a gloria le ingiurie ch’essi non possono vendicare senza
gran vergogna. Quattro principali uffici di questi nobili sono,
ne i quali è posto ogni felicità loro. Il primo è la rapacità di
quegli, con la quale contra ogni devere hanno, prendono e
possedono; l’altro è il piacere, co’l quale marciscono in ogni
sorte di lussuria e di poltroneria; il terzo è la libertà, con la
quale sprezzate le leggi e fortificatisi con le forze della violen-
za, fanno ciò che gli piace; il quarto è l’ambizione, con la qua-
le gonfiatisi sopra la condizione e lo stato loro, con ogni sorte
di sceleraggine vanno sempre più in alto. Finalmente la suffi-
cienza di tutti i gentiluomini si conosce in questo: se s’inten-
dono di caccia, se dannosamente sono amaestrati nel giuoco,
se mostrano le prodezze del corpo in molto bene, se fanno fe-
de di galiarda complessione nell’usare spesso i piaceri di Vene-
re, se arditamente et animosamente gettan via, se datisi alla su-
perbia, alla lussuria et ad ogni intemperanza, et inimici delle
virtù, si scordano d’esser nati e d’avere a morire78. Ma molto
più nobili sono se questa malvagità sarà discesa da i padri ne i
figliuoli e sarà entrata in loro con auttorità grande, come

Se’l giuoco piace al padre, il figlio anch’egli


se ne diletta, e carte adopra, e dadi79.

Queste sono le notabili virtù de gentiluomini. Ma oltra que-


ste, hanno alcune altre arti di nobiltà nelle quali, essendo essi
sopra tutti ribaldi, vogliono essere tenuti uomini giusti e da be-
ne e parere onorati per prudenza, liberalità, pietà e giustizia,
di maniera si mostrano eglino facili, piacevoli, affabili e chiari
nella ipocrisia di tutte le virtù, umiliano i suoi ragionamenti
più che l’olio, et essi sono i dardi, fanno ogni dì superbi convi-

un primo momento non ebbe l’approvazione di Carlo il Calvo, soltanto dopo le


insistenze del papa Niccolò I, preso il quale si erano rifugiati gli sposi, fu in se-
guito riconosciuto, allorché il re nell’863 concesse a Baldovino la regione nomi-
nata più tardi ‘Fiandra della corona’.
78
Cfr. ERASMO, Adagia, I, 3, 1.
79
GIOVEN., Sat., XIV, 4-5.
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80. DELLA NOBILTÀ 391

ti, e molto liberi nel parlare disputano della republica, e valen-


dosi delle opinioni altrui, da quelle s’acquistano fama di savi e
valorosi ne i concili de i principi; s’usurpano ancora credito di
liberali dall’avarizia, mentre che quello che tolgono a uno do-
nano a un altro, liberali assassini, e quello che gli antichi scri-
vono di Silla, mentre che s’ingegnano d’arricchire l’uno con
ingiuria dell’altro, essi fra le continue rapine sono sempre po-
veri. In questo s’usurpano anco nome di giustizia e di pietà,
che volentieri pigliano a difendere le questioni de i poveri e fa-
voriscono le cause loro contra i più ricchi, ma soccorrono solo
a quegli afflitti infin che hanno voto le borse de i più ripieni.
Perché l’animo loro non è da giovare a i poveri, ma di nuocere
a i ricchi, la qual cosa a ciascuno di loro è molto più facile che
far beneficio; e spesso con questa ombra di pietà e di giustizia
s’usurpano tanta licenza che fanno ingiuria alle città et a i più
grandi, e con publica nimistà gli travagliano. Et onde per l’aut-
torità delle leggi a nessuno è lecito sperar perdono, costoro
sotto protesto di nobiltà ne acquistano gloria, e non altramen-
te che i giganti antichi si vantano de i peccati loro, sì come è
che conciossia ch’essi a guisa de i diavoli dell’inferno cercano
sempre onde poter nuocere, allora sono creduti che grandissi-
mamente giovino quando solo si rimangono di far danno fa-
cendo ogni cosa per mettere spavento a ogniuno e non essere
amati da alcuno, avendo intendimento con tutti i ribaldi e sce-
lerati, saccheggiano et opprimono quei che si danno in guar-
dia loro, né generazione alcuna d’uomini è più pestifera alle
città di questi nobili i quali, vagheggiandosi da se stessi, gonfia-
no sempre con spirito di superbia, quasi che fossero più gene-
rosi de gli altri, de i quali per questo diede Aristofane buon
consiglio dicendo: «I leoni non si dovrebbono nodrire nelle
città, ma se pure vi sono allevati, bisogna anco fargli servigio»80.
Gli Svizzeri, oppressi già dalla tirannide di questi tali, amazza-
rono tutti i nobili, e tutta la progenie loro eradicarono della
patria: con questa notabile uccisione di nobili, per mezzo della
virtù loro nome famoso e libertà s’acquistarono, nella quale
già più di quattrocento anni felicemente signoreggiano e re-
gnano fino al dì d’oggi, et hanno sempre avuto in odio questa

80
ARISTOF., Ranae, 1431-1432.
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392 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

generazione d’uomini nobili81. Altra volta non erano uomini


più grati a popoli, né reputati degni di maggior guiderdone, di
quegli che avevano amazzato i tiranni insieme co i seguaci e fa-
voriti loro, et anco i fanciulli innocenti; anzi, i leggisti mostra-
no che giustamente talora si possono uccidere quei che non
hanno errato se ciò ritorna in grande utilità della republica,
come sarebbe quando s’è ucciso il tiranno amazzare anco i fi-
gliuoli perché non germoglia nuova tirannide, come ancora
fecero i Greci che dopo la ruina di Troia uccisero Astianatte, fi-
gliuolo d’Ettore, acciocché non vi restasse occasione di rifare
nuova guerra82. Leggansi gli istorici del tempo antico, Tito Li-
vio, Giosefo, Egesippo, Quinto Curzio, Svetonio, Tacito, Sere-
no e gli altri, sempre fu lecito insidiare a i tiranni, fu lecito in-
gannargli, onestissimo uccidergli et anco avelenargli, nel mo-
do che fu morto Tiberio III imperatore dopo Giulio Cesare,
ma benché sempre sia stato il veleno cosa vituperosa, il mondo
giudicò quello ch’amazzò Tiberio cosa onorata83. Di ciò fanno
testimonio ancora le Sacre Lettere in Eglon, in Sisara, in Olo-
ferne, i quali furono uccisi da Aiot, Iael e Giudit, che fosse le-
cito fino alla presenza di Dio liberarsi dal giogo di servitù con
la morte de i tiranni per qual si voglia misfatto84, e tutti quegli
che per prodezza loro liberarono il popolo afflitto, nelle Sacre
Istorie della Bibbia sono onorati per ministri d’Iddio. Ma bene
oggimai siamo certi che la nobiltà non è tanto cattiva per uso e
consuetudine, quanto per natura, perciocché fra gli ucelli e gli
animali da quattro piedi nessuno altro ha la prerogativa di no-
biltà se non quegli che sono non pure in odio, ma di danno an-
cora a gli altri animali et a gli uomini istessi, sì come sono aqui-
le, avoltoi, falconi, sparvieri, corvi, nibbi, struzzi, favolose ar-
pie, griffoni, sirene e simili mostri. Per sì fatta ragione ancora

81
La libertà della Svizzera inizia nella seconda metà del XII secolo con la cre-
scente autonomia di alcune grandi città, pur fondate dai nobili, come Friburgo e
Berna. A questo periodo si riferisce Agrippa, anche se la reale origine della con-
federazione elvetica sta nel patto giurato tra i cantoni di Uri, Schwyz e Unterwal-
den del 1291.
82
Sull’uccisione di Astianatte precipitato dalle mura di Troia da Neottòlemo, fi-
glio di Achille, si veda VIRG., Aen., III, 294-547; OVID., Metam., XIII, 415-417.
83
Sulla presunta morte di Tiberio per avvelenamento e per la gioia del popolo al-
la notizia di tale morte, si veda SVET., De vita Caes., III, 73 e 75.
84
Cfr. GDC 3:12-30 per Eglon, re di Moab, assassinato da Eud; GDC 4-5 per l’omici-
dio di Sisera per mano di Giaele; GDT 13:6-10 per l’uccisione di Oloforne da par-
te di Giuditta.
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80. DELLA NOBILTÀ 393

tigri, leoni, lupi, pardi, orsi, cinghiali, draghi, serpenti e bot-


te85. De gli alberi o nessuno o pochi sono nobili e sacri dèi se
non quegli che sterili sono, o frutto fanno che gli uomini non
possono mangiare, come la quercia, il leccio, il faggio, l’alloro
e’l mirto. Tra le pietre nobilissime sono reputate non i marmi,
non quelle da fabricar case o molini, ma le gioie ch’utilità al-
cuna a gli uomini non danno. E così de i metalli l’argento,
ch’è di gran danno, e l’oro più nocivo che’l ferro, più nobili
sono reputati e molto più degni, le quali con tante uccisioni e
spargimento di sangue umano i popoli abbiano a combattere
insieme.

85
Il testo latino reca: «bufones», ossia «rospi». Il termine ricorre in VIRG., Georg., I,
184.
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81.
DELL’ARTE DE GLI ARALDI

Di qui è proceduta ancora quella arte eroica de gli araldi, e


filosofia molto occupata in distribuire questi scudi de i nobili,
a i quali sarebbe cosa vergognosa et infame portare nell’arme
o bestia, o vitello, o pecora, o agnello, o cappone, o gallina, o
occa, o alcuno di questi animali i quali, per servitù o per uso,
son necesarii a gli uomini, ma bisogna che tutti abbiano l’inse-
gne della loro nobiltà da bestie crudeli e da fere rapaci. A que-
sto modo i Romani si elessero l’aquila rapacissima più de gli al-
tri ucelli, i Frigii il porco animal dannoso, i Tracii Marte, gli an-
tichi Goti l’orsa, gli Alani, ch’assalirono l’Ispagna, il gatto, ani-
mal rapace e fraudolento, i Franchi vecchi il leone, il medesi-
mo ancora i Sassoni, ma poi i Franchi ch’abitano in Francia
tolsero la botta, et i Sassoni il cavallo, animal bellicoso. I Fia-
menghi portavano il toro in segna di fortezza e di gagliardia;
l’insegna del re Antioco era una aquila che teneva un drago fra
l’onghie, di Pompeio un leone con la spada, d’Attila uno asto-
re coronato. Et i Romani istessi, i quali furono salvati dall’oc-
che che vigilavano in Capitolio contra Francesi, non si mossero
per tanto beneficio ricevuto a portare l’occa nell’insegne loro.
Ci sono per aventura di quegli che portano nell’armi il gallo
e’l becco, perciocché questi animali sono superbi e lussuriosi,
le quali sono speciali doti de i nobili. Per questo medesimo ri-
spetto portano il pavone per la superbia, e l’allodetta, la quale
anch’ella ha non so che di reale e porta la corona, né dà noia
alla nobiltà ch’ella faccia il suo nido nello sterco. Perciocché
Vespasiano imperatore anch’egli cavò una gabella dell’urina,
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396 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

dicendo che il guadagno non dà malo odore1. Molti animali


minuti ancora hanno prerogativa in queste imagini di nobili
pure che siano ammaestramenti d’alcuna ruina; altramente
non s’ammetterebbono. In questo numero sono conigli, talpe,
rane, locuste, topi, serpenti, salpeghi, scolopendri, da i quali
dice Plinio che alcuna volta sono stati cacciati i popoli e disfat-
te le città2. E noi per queste medesime ragioni di buona voglia
gli concederemo ancora i tafani, i cimici e le mosche e, se gli
vogliono, ghiandusse, stianze, la peste3, perciocché da queste
fu già flagellato l’Egitto sotto Faraone e Mosè4, et oggidì anco-
ra sono stimati più nobili de gli altri quei c’hanno più mal
francese5. Sono di quegli anco che mettono ne gli scudi loro
spade, pugnali, alabarde, scuri, archibugi, torri, rocche, ma-
chine, fuochi e molti altri instromenti d’omicidio e di far male;
anzi, l’insegna de gli Scitii fu già un folgore, l’arco e la faretra
de Persi e le ruote de Coralli. Similmente fra gli dèi Giove s’e-
lesse il folgore, Nettuno il tridente, Marte la spada, Bacco il tir-
so, Ercole la mazza e Saturno la falce. E queste insegne d’armi,
ciascuna secondo l’espressione della sua crudeltà, rapina, vio-
lenza, fortezza, temerità et altre virtù della nobiltà, secondo
che ordinano gli araldi, l’una è stimata più nobile dell’altra. E
quegli scudi che queste cose non hanno e mostrano dipinte
cose più mansuete come alberi, fiori, stelle e simili, come la ci-
tara d’Apolline e’l caduco di Mercurio, o sono distinti dalla so-
la diversità de i colori, sono molto più nuovi e manco nobili di
quei primi perché si giudica che non siano stati acquistati per
alcuna fortezza di guerra o per altro artificio di sangue e di
morte. Egli è però cosa degna di maraviglia il vedere con quan-
ta sapienza questi araldi in sì fatte cose astrologano, filosofano
e teologizzano mentre che assegnano il colore oscuro e nero a
Saturno, attribuendogli perciò la perseveranza, la taciturnità e

1
Cfr. SVET., De vita Caes., VIII, 23, 3.
2
Cfr. PLIN., Nat. hist., VIII, 42, 104.
3
Il testo latino reca: «vesicas, tabes, ulcera, pestes», ossia «vesciche, pus, piaghe,
peste».
4
Cfr. ES 9.
5
Il testo latino reca: «scabies gallica». Si tratta della sifilide associata a esantemi.
La malattia si diffuse nell’esercito francese guidato da Carlo VIII nella calata in
Italia nel 1494-95. In Francia venne chiamata anche mal napolitain o italien ap-
punto perché ne soffrivano i soldati tornati in Francia dalla campagna militare in
Italia.
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81. DELL’ARTE DE GLI ARALDI 397

la pazienza. Vogliono poi che’l turchino, o l’azurro, significhi


fede, o secondo l’opinione de Francesi gelosia, dandogli Giove
per padrone. Il rosso espongono per ira e per vendetta per la
signoria del furioso Marte. Il color giallo è dedicato al Sole, e
dicono ch’egli significa desiderio et allegrezza per il prezzo del
suo metallo e per lo splendore lucidissimo del Sole. L’incarna-
to danno a Venere, e’l verde ancora, e dicono che significano
amore, il quale s’accompagna benissimo col colore delle rose,
ma Francesi vogliono che importi astuzia di tradimento. Il ver-
de, per consentimento d’ogniuno, significa speranza, percioc-
ché quando i campi verdeggiano se spera frutto. Il color bian-
co s’attribuisce alla Luna, il quale essendo semplice senza mi-
stura alcuna, vogliono però che, per ricevere egli agevolmente
ogni macchia, significhi purità, semplicità et aptitudine. Tutti
gli altri colori mescolati attribuiscono a Mercurio, il quale, sì
come egli è vago e vario, così tutti quegli dimostrano varietà di
animo. Perciocché il berettino, come più vicino al nero, signi-
fica affanno; l’incarnato, come di sangue più rimesso, secreto
dolore d’animo o pensiero ascoso; il giallo o chiaro o scuro, sì
come sono le foglie quando cadono e l’erbe secche, despera-
zione e sospetto6. Longo sarebbe raccontare le ciancie ch’essi
fingono da gli umori, dalle complessioni e da i tempi de gli an-
ni, da i mesi, da i giorni, da i canti del mondo, da i venti, da i
segni, da i pianeti, dalle piante, dalle pietre, da i sacramenti e
da i misterii della Chiesa, e tirano quasi per forza tutta l’Apo-
calisse a queste favole. E questa è la eroica filosofia de gli eroi-
ci araldi. Io aveva pensato di far fine qui a questo negocio, se
non che mi sovenne ch’io aveva passato l’origine de gli araldi,
e però m’è paruto d’aggiungere a questo ragionamento. Enea
Silvio vuole che gli araldi siano detti de gli eroi. Gli eroi erano
soldati veterani i quali soli possono essere araldi, e così questo
vocabolo herald tedesco significa ‘vecchi nelle armi’, overo ‘sol-
dato veterano’. Ma oggidì alcuni uomini plebei, trombetti e
messaggieri, i quali non furono mai soldati, fanno questo uffi-
cio. Ma i privilegii e gli ufficii de gli araldi dal tempo antico du-

6
Cfr. FIC., De vita, III, 11, ma si veda anche GIOV. PICO, Disp., X, 13; AGRIP., De occ.
phil., I, 49, pp. 179-180. L’attribuzione dei colori alle ‘passioni’ e qualità dei pianeti
e ai loro domicili risale alla tradizione astrologica medievale. Particolarmente rile-
vante l’abbinamento del nero con Saturno, l’astro oscuro per antonomasia, altresì
collegato con uno degli umori del corpo umano, vale a dire con la bile nera.
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398 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

rano fino al dì d’oggi. Il primo loro auttore fu il padre Bacco,


il quale quando ebbe soggiogato l’India gli consacrò con que-
ste parole: «Io oggi vi libero dalle fatiche della guerra: voglio
che siate chiamati soldati veterani et eroi. L’ufficio vostro sarà
di provedere alla republica, di castigare i tristi, di lodare i buo-
ni, e da gli altri carichi liberi sarete; in ogni loco e parte dove
arrivarete, i re vi daranno il vivere e’l vestire, e sarete onorati
appresso ogniuno: i principi vi presenteranno con doni e vi da-
ranno le loro vesti, le vostre parole avranno fede e voi fuggire-
te le bugie, giudicarete i traditori e pronunzierete infami colo-
ro che trattano male le donne, voi avrete libertà d’andare per
ogni terra e securo passo et abitazione. Se alcuno sarà che con
parole o con fatti a voi o ad alcuno de vostri faccia ingiuria, co-
stui sarà punito con l’armi». Alessandro Magno dopo molto
tempo aggiunse a i privilegii di questi eroi che potessero por-
tare oro, porpora, vesti et abiti pavonazzi, e portare anco le ar-
mi et insegne reali in ogni loco dove che si ritrovassero. Volse
ancora se alcuno gli avesse battuto o ingiuriato di parole che,
privato de beni suoi, gli fosse tagliato il capo. Così riferisce
Enea che questo scrivono Tucidide, Erodoto, Didimo, Mega-
stone e Xenofonte. La terza volta Ottaviano Augusto, poi che
egli ebbe fondato la Monarchia romana, gli onorò con questa
legge: «Qualunque sia che per dieci anni avrai militato al no-
stro soldo pur che tu sia di quaranta anni, o cavaliere o pedone
che tu sia stato, da qui innanzi vuo’ che tu sia libero dalla mili-
zia, eroe e soldato veterano: non sia alcuno che abbia ardire di
cacciarti della città, della piazza, del tempio, dell’albergo, né
della casa; non sia alcuno che ti attribuisca difetto, ti metta ca-
rico, né ti domanda dinari; se in qualche cosa avrai peccato,
aspetterai solo d’esserne castigato da Cesare; in ogni disonestà
che gli uomini abbiano commesso voglio che tu sia loro giudi-
ce e manifestatore, o privati o principi che si siano; quello che
tu dirai et affermerai per vero, nessuno sia che riprenda per
falso; voglio che ti siano liberi et espediti tutte le strade e tutti i
luoghi; avrai auttorità di mangiare e di bere alle tavole de i
principi; ordinate ogni anno del publico ti saranno provisioni
per mantenere te e la famiglia tua; quella che tu avrai per mo-
glie legittima sia posta innanzi l’altre; quello che tu riproverai
e chiamerai infame, sia uomo reprovato et infame; essendo tu
eroe avrai auttorità di portare l’armi, insegne, i nomi e gli or-
namenti ch’ai re si convengono, et avrai potere di fare quel
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81. DELL’ARTE DE GLI ARALDI 399

che ti parrà in ogni loco e paese dove che tu ti ritrovi. S’alcuno


ti farà ingiuria, tagliata gli sia la testa». Ultimamente Carlo Ma-
gno, poi che avendo trasferito il nome dell’imperio a Tedeschi,
dopo vinti i Sassoni et i Longobardi fu chiamato Cesare et Au-
gusto, gli fece questo onore dicendo: «Soldati miei voi sarete
chiamati eroi, compagni de i re e giudici de i difetti: vivete da
ora inanzi liberi dalle fatiche, consigliate i re in nome publico,
riprendete le cose disoneste, fate favore alle donne, aiutate i
pupilli, non mancate di consiglio a i principi e domandate loro
il vivere, il vestire e la provisione; se alcuno di loro ve lo ne-
gherà sia villano et infame; se alcuno vi farà ingiuria, sappia
ch’egli avrà offeso la maiestà dell’imperatore. Ma voi avertite
bene di non macchiare tanto onore e tanto privilegio acquista-
to con giusta fatica di guerra, con ubbriachezza, buffoneria o
con altro vizio, acciocché quel che vi doniamo per onore, non
vi ritorni in castigo, il quale perpetuo reserviamo, in ogni volta
che fallirete, a noi et a nostri successori imperatori romani». E
questa è la magnificenza de gli araldi con la quale, per antica
consuetudine di tempo, si reputano grandi perché gli uomini
d’alto affare non gli possono, senza esser puniti, fargli dispia-
cere alcuno.
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82.
DELLA MEDICINA IN GENERE

Ma passiamo oggimai dalla milizia e dalla nobiltà alla medi-


cina, la quale anch’ella è una certa arte d’omicidii, mecanica
affatto, benché si creda di poter passare sotto titolo di filosofia,
e sopra la scienza delle leggi aspire al primo loco appresso la
teologia, onde grandissima contesa è fra i medici et i giuristi.
Perciocché i medici argomentano in questo modo: essendo tre
sorti di beni per ordine dell’anima, del corpo e della fortuna,
il teologo ha cura de i primi, il medico de i secondi, il giurista
de i terzi. Per questo vogliono che i medici abbiano il loco di
mezzo sopra i giurisconsulti, in quanto la fortezza e la sanità
del corpo avanza le ricchezze della fortuna. Ma fu un certo po-
destà che diffinì questa lite con una arguta domanda, percioc-
ché egli domandò a quei che litigavano che usanza e che mo-
do si servava in menare i mal fattori alla morte, quale andava
inanzi e quale dopo, o il ladro o il manigoldo. Et essendogli ri-
sposto che il ladro andava inanzi e’l manigoldo appresso, egli
diede sentenza in questo modo: «Vadano dunque inanzi i leg-
gisti e dopo i medici», tassando in questo modo le famose rub-
berie di quegli et i temerari omicidii di questi. Ma ritorniamo
alla medicina, la quale ha molte eresie, perciocché ve n’è una
che si domanda razionale, o sofistica, o dogmatica1, e questa

1
Medicina razionale o sofistica è quella della scuola di Cos, ossia della tradizione
ippocratica. Agrippa la identifica con quella dei Dogmatici, vale a dire con la
scuola fondata da Erasistrato, attivo ad Alessandria nella prima metà del III sec.
a.C., così chiamata perché i suoi appartenenti sostenevano di attenersi rigorosa-
mente ai precetti (dogmata) di Ippocrate. Sulla distinzione tra scuola medica em-
pirica, dogmatica o razionale e metodica, si veda GAL., De sectis, I-VII.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 402

402 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

hanno seguito Ippocrate, Diocle, Crisippo, Caristino, Prassago-


ra et Erasistrato2, la quale fu anco approvata da Galeno, che fu
molto tempo dopo loro, il quale seguendo Ippocrate sopra gli
altri revocò tutta l’arte della medicina alla cognizione delle cau-
se, alla notizia de i segni, alle qualità delle cose et alle diverse
abitudini e gradi de i corpi3. Ma perché questa eresia consiste
più circa le parole che circa le cose, io confesso che ella non è
la ultima parte della filosofia naturale; non è però molto neces-
saria a medicare gli infermi, per non dire dannosa, sì come
quella che confina la salute e la sanità de gli uomini a certi sofi-
smi storpiati più tosto che alle sincere medicine con le quali in-
firmità medicare si possano, et occupata in sillogismi scolastici,
ignorante delle sollitudini, de i boschi e de gli orti, non cono-
sce l’erbe e la medicina, la onde Serapione ha confessato che
questa medicina razionale non appartiene punto all’arte del
medicare4. Ecci dunque un’altra setta di medicina mecanica
affatto e da guadagno, dalla quale i medici infino al dì d’oggi
hanno tolto il nome loro. Per questo la domandano operatri-
ce, dividendola in empirica e metodica; di questa abbiamo a
ragionare noi5. La chiamano dunque empirica da gli esperi-
menti, della quale furono capi Serapione, Eraclide, et ambi-
due gli Apollonii6, i quali hanno poi seguitato fra latini M. Ca-
tone, G. Valgio, Pomponio Leneo, Cassio Felice7, Arunzio8, Cor-
nelio Celso, Plinio e molti altri9. Di questa Ierofilo Calcedonio
fece poi la metodica e la ridusse a certe regole per la lunga
esperienza maestra di tutte le cose, la quale poi Asclepiade, Te-
misione e Archigene con fortissimi argomenti approvarono10.

2
Cfr. CELSO, De medic., I, prooem., 8. Il personaggio nominato Caristino va identi-
ficato probabilmente con Diocle di Caristo (IV sec. a.C.), citato da Celso insieme
a Ippocrate, Crisippo, Prassagora ed Erasistrato.
3
Allusione alla dottrina galenica dell’eziologia della prognosi e della semeiotica
evidenziate nella mikrotecniva (detta nel Medioevo ‘articella’).
4
Cfr. CELSO, De medic., I, prooem., 10.
5
Ivi, 11.
6
Ivi, 10; 63-67, ma si veda anche GIANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 2.
7
Probabile allusione al medico Cassio, menzionato in PLIN., Nat. hist., XXIX, 4, 7;
CELSO, De medic., I, prooem., 69 e IV, 21, 2.
8
Personaggio medico del tutto sconosciuto, menzionato in PLIN., Nat. hist., XXIX,
4, 7-8.
9
Cfr. PIETRO D’ABANO, Concil., diff. 1.
10
Cfr. CELSO, De medic., 11. Per Temisone di Laodicea (I sec.), discepolo di Ascle-
piade di Prusa e fondatore della scuola medica dei Metodici, si veda PLIN., Nat. hi-
st., XXIX, 5, 6; per Archigene, medico pneumatico-eclettico dell’età di Traiano,
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 403

82. DELLA MEDICINA IN GENERE 403

Ma Tesillo Italiano fu quel che la ridusse a perfezzione, il qua-


le, come dice Varrone, tolse via tutte le opinioni de gli antichi,
e quasi con una certa rabbia ragionò contra tutti i medici del-
l’altra età11. Dopo questi molti filosofi barbari delle nazioni
estranie scrissero di quella, fra i quali crebbe talmente la glo-
ria de gli Arabi, che ad infiniti parvero essere stati inventori di
questa arte, e facilmente pare che ciò possano ottenere se gli
originali greci e i nomi latini usurpati da loro non mostrasse-
ro altro principio et origine di questa arte. Per questo i volumi
d’Avicenna, di Rasi e d’Averroè sono stati accettati nella me-
desima auttorità che i libri d’Ippocrate e di Galeno, e tanta fe-
de hanno acquistato che se alcuno si da a credere di sapere
medicare altri senza le opinioni di loro, manifestamente pare
che egli abbia in odio la salute publica. Nondimeno benché
queste sette di medici siano poche, non è però fra loro mino-
re la contesa e la diversità delle opinioni che tra i filosofi si sia.
Perché mi pare di farvi intendere con che ragioni da femine
essi disputano dello sperma, il quale è il seme che genera. Pi-
tagora disse ch’ella è una schiuma di sangue utilissimo, overo
superfluità utilissima di cibo12; Platone disse ch’egli è flusso
della midolla della spina, perché a quegli che usano troppo il
coito duole la schiena e le reni13. Alcmeone affermò ch’ella
era una parte del cervello, perciocché a chi piglia i piaceri di
Venere dolgono gli occhi, i quali sono parte del cervello14. De-
mocrito disse ch’è una certa cosa derivata da tutte le parti del
corpo15. Epicuro vuole che sia tolto dal corpo e dall’anima16.
Aristotele superfluità di alimento sanguigno, il quale è ultimo

autore di un trattato, De pulsibus, andato perduto, si veda GAL., Ars med., 407; GIO-
VANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 16.
11
La fonte sembra essere PLIN., Nat. hist., XXIX, 5, 9, dove il medico è Tessalo di
Tralles (I sec.), uno degli esponenti principali della scuola medica dei Metodici
(si veda GAL., De sectis, VI, 81). Galeno ci riporta la notizia di una lettera di Tessa-
lo a Nerone in cui egli spiegava la necessità di fondare una nuova scuola, data l’i-
gnoranza dei suoi predecessori.
12
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 16.
13
Ibid.; PLAT., Timeo, 73b-d; 91a; DEMOCR., fr. 68, B124 (ed. Diels-Kranz); GAL., De de-
finit. med., 439.
14
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 16; ALCMEONE, fr. 24, A13 (ed. Diels-
Kranz).
15
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 16; DEMOCR., test. 68, A141 (ed. Diels-
Kranz).
16
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 16; DIOG. LAERZ., Vitae phil., X, 66.
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404 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

a digerirsi nelle membra17. Altri credono che sia sangue cotto


dal calore de i testicoli et imbiancato, mossi solo per questa ra-
gione che quei che usano i deletti d’amore più che le forze loro
non comportano, gettano gocciole di sangue. Appresso questo
Aristotele e Democrito dicono che’l seme della donna non con-
ferisce punto alla generazione, e ch’elle non mandano fuora il
germe ma un certo particolare sudore18. Galeno dice ch’anco
elle mandano fuora lo sperma, benché imperfetto germe, e
che’l seme dell’uno e dell’altro, dell’uomo e della donna, ge-
nera la creatura19. Ma Aristotele vuole che i corpi de gli animali
si generino di sangue prossimamente, e immediate essere no-
driti, e che lo sperma sia generato del sangue20; Ippocrate al
contrario dice che i corpi de gli animali si generano prima de i
quattro umori21. Molti Arabi ancora hanno creduto che si pos-
sano generare animali perfetti senza congiungersi insieme il
maschio e la femina22, e per questo diceano che le matrici non
sono necessarie se non per accidente. Ma trattando delle cause
originali delle infermità Ippocrate le mette nel fiato senza spiri-
to23, Ierofilo ne gli umori24, Erasistrato nel sangue delle arte-
rie25, Asclepiade le considera da gli atomi derivati per gli invisi-
bili pori del corpo26, Alcmeone dalla abondanza, overo caristia
delle potenze del corpo27; Diocle dalla disagualianza de gli ele-
menti del corpo e dallo alito dell’aere28, Stratone crede che tut-
ti i morbi da altro non nascano che dalla superfluità, crudezza e
corrozzione del nodrimento29. Discordano similmente nella
conversione de cibi: perciocché Ippocrate, Galeno et Avicenna
affermano che i cibi si cuocono nello stomaco per il caldo30;

17
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 16; ARIST., De gen. anim., 726a.
18
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 16; ARIST., De gen. anim., 727a; 727b; 729a.
Per Democrito, si veda test. 68, A143 (ed. Diels-Kranz).
19
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 16. Sulla produzione di sperma da parte
delle donne, si veda anche REUCHL., De arte cabal., I2v.
20
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 16; ARIST., De gen. anim., 726b; 727b; 740a.
21
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 16; IPPOCR., Nat. homin., III sgg.
22
Il testo latino aggiunge: «ac sine semine produci», qui mancante.
23
Cfr. CELSO, De medic., I, prooem., 15.
24
Ibid.
25
Ibid., ma si veda anche GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 16.
26
Ibid.
27
Ibid. (si veda AEZIO, Dox. gr., ed. Diels, V, 3, 3).
28
Ibid.
29
Ibid.
30
Cfr. CELSO, De medic., I, prooem., 20.
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82. DELLA MEDICINA IN GENERE 405

Erasistrato vole che ciò si faccia nel ventre31; Plistonico e Pras-


sagora dicono che non pure vi si cuocono, ma si putrefanno
ancora32; ma che più Avicenna e gli espositori suoi, Gentile et
Iacopo da Forlì33, non senza notabile errore, mettono che lo
sterco si genera nello stomaco34. Ma Asclepiade e gli emuli suoi
credono che i cibi non si cuocano, ma crudi si dividano per
tutto il corpo, et oltra ciò dicono che le dottrine di tutti gli an-
tichi sono vane e superflue35. Io non parlo de i giudicii delle
urine non ancora perfettamente da loro intesi, e de le pause
de i polsi male comprese. Perché Ippocrate anch’egli, il quale
è da loro adorato per dio, non pure è differente in molte cose
da gli altri, ma vituperosamente ancora cade in errore. Percioc-
ché nel libro Della natura del fanciullo dice: «Generasi l’uccello dal
tuorlo dell’ovo, ma egli ha il nodrimento e l’accrescimento dal
bianco ch’è nell’ovo»36, la qual cosa prova Aristotele ch’è falsa
nel libro Della generazione de gli animali37 disputando contra Alc-
meone, il quale teneva con Ippocrate, e conclude così: «L’origi-
ne del pollo è nell’albume, il cibo vien dal torlo per l’ombilico»38,
alla quale opinione s’accosta Plinio ancora dicendo: «L’animale
s’incorpora dal liquor bianco dell’ovo, il cibo di quello è nel tor-
lo»39. Non è egli ancora bugiardo quello aforismo d’Ippocrate:
«E la femina non sente le gotte se prima non gli resta di venire il
suo fiore ogni mese»40, conciossia che molte donne che hanno il
suo menstruo ancora sentono le podagre?

31
Ibid., ma si veda anche GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 16.
32
GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 16.
33
Gentile da Foligno (fine XIII sec.-1348), medico insigne, professore di medici-
na a Bologna e a Padova, autore di commenti al Canon di Avicenna e di vari Con-
silia medici, fra i quali i Consilia peregrina ad quaevis morborum corporis humani gene-
ra (1492); Giacomo Della Torre (ca. 1360-ca. 1414), o Iacobus Forliviensis, do-
cente di arte e medicina a Padova e a Ferrara, autore di numerose opere, tutte le-
gate all’insegnamento, tra cui In aphorismos Hippocratis expositiones cum quaestioni-
bus e l’Expositio in Avicennae capitulum de generatione embrioni, oltre a una serie di
commentari delle opere di Galeno e Aristotele e al Canon di Avicenna.
34
Cfr. RODIG., Lect. antiq., VII, 44.
35
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, Exam. vanit., I, 16; CELSO, De medic., I, prooem., 21.
36
Cfr. IPPOCR., De nat. inf., XXIX, 3. Il libro De natura infantis appartiene al Corpus
Hippocraticum ma per molti studiosi non è da attribuire a Ippocrate. Molto proba-
bilmente il vero autore apparteneva alla scuola di Cnido.
37
Il testo latino reca: «quod falsum probat Aristoteles in libro de animalibus et in
libro de generatione animalium».
38
ARIST., De gen. anim., 752b.
39
PLIN., Nat. hist., X, 74, 148.
40
IPPOCR., Aphor., VI, 29.
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83.
DELLA MEDICINA OPERATRICE

Tutta l’arte del medicare1 non è fabricata con altro fonda-


mento che con fallaci esperimenti, e fortificata con una debil
credenza de gli ammalati, e non meno venefica che benefica,
di modo che spessissime volte, e quasi sempre, maggior peri-
colo è nel medico e nella medicina che nella infermità istessa,
la qual cosa i principi medesimi di questa arte liberamente
confessano, cioè Ippocrate, dicendo che questa arte è difficile
e fallace in esperimento2. Et Avicenna dice che spesse volte la
fede e la speranza dell’infermo verso il medico e la medicina fa
più che la medicina insieme col medico; e Galeno afferma che
difficilmente si può trovare medicina che giovi molto et in un
medesimo tempo in qualche cosa non nuoca; e non so chi al-
tro di loro dice che la cognizione della medicina è dilettevole,
come dell’altre cose tutte, le quali sono composte d’arte e di
regole, ma che l’operazione secondo la medicina è a caso. Va-
dano dunque ora gli aventurosi infermi e diano fede a i peri-
colosi esperimenti et al caso; ma tanto piacevole è, come dice
Plinio, la dolcezza di sperar per sé che ha ciascuno, che subito
si presta fede a ogniuno che fa profession di medico, non es-
sendo pericolo maggiore in altra bugia3. Di qui viene che spes-
sissime volte si cerca la salute dove è la morte, perché colui è

1
Il testo latino reca: «Tota praeterea medendi operatrix ars», con riferimento
esplicito alla medicina operatrice.
2
Cfr. IPPOCR., Aphor., I, 1.
3
Cfr. PLIN., Nat. hist., XXIX, 8, 17-18.
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408 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

creduto ottimo medico il quale è lodato dallo speciale, che


partecipa del guadagno, il quale s’intende con esso lui, i gar-
zoni del quale si va comprando con dinari, i quali facendo uffi-
cio di ruffiano e lodandolo lo mettono innanzi appresso i mi-
seri ammalati. Molto eccellente ancora è quel medico, il quale
è onorato per una veste pomposa tolta a nolo e per le molte
anella che gli rilucono fra i diti, et il quale s’avrà acquistato
auttorità, fama e fede per essere di lontano paese, per aver fat-
to lungo peregrinaggio, o per essere di diversa religione (co-
me sarebbe o Giudeo o Marano), per avere una efficacissima
sfacciatezza di volto ad ingannare et ostinato modo di vantarsi
con salde bugie d’avere rimedii grandi. Il quale abbia acquista-
to credito ancora d’uomo dotto per star sempre indurato a
contendere e di continuo avere in bocca molti vocaboli e mez-
zo greci e barbari, et in questo modo ammaestrato con gravità
più che di piombo, e con audacia quasi di soldato, con questa
ippocrisia si mette allora alla prattica del medicare. Prima visi-
ta l’ammalato, guarda l’urina, tocca il polso, gli vede la lingua,
gli palpa i fianchi, domanda se va del corpo, vuole sapere l’u-
sanza del viver suo e cerca ancora di cose se vi sono più secrete
quasi che per queste pesi gli elementi, e come se pesasse sulla
stadera gli umori dell’ammalato, et in tanto nobilmente favo-
leggia. Poi, con una boria grande, gli ordina le medicine: pi-
glia pillole, cavati sangue, facciansi de cristeri; facciansi pitme4,
facciansi fregagioni5, diansi lattovari6, diansi cose da masticare,
facciansi gargarismi, facciansi sacchetti, facciansi profumi,
diansi conditi, diansi sciropi, diansi acque e diansi triache7. E

4
Il testo latino reca: «pessi» (dal greco pessov" / pessovn, di origine sconosciuta), ossia
supposte per uso vaginale. Si veda, per es., CELSO, De medic., V, 21.
5
Il testo latino aggiunge: «fiant cataplasmata», ossia «facciasi impiastri caldi», qui
mancante. Il termine «cataplasma» indica propriamente una pasta composta di
sostanze vegetali mucillaginose, oleose o amilacee, raccolta in garza o panno sot-
tile e applicata per lo più calda sulla pelle, a scopo emolliente, sedativo e revulsi-
vo. Si veda, per es., CELSO, De medic., II, 33, 5-6; APUL., Metam., V, 10.
6
L’elettuario, o elettovario, ma anche lattuario e lattovario (probabile alterazio-
ne del greco ejlathvrion, ossia lassativo), è una preparazione semidensa in cui i va-
ri ingredienti sono mescolati o impastati con miele e sciroppi. Si veda, per es.,
ISID., Etymol., I, 4, 9; MESUE, Antidot., in Opera, (ed. 1562), 93v-108r; FIC., De vita, I,
19, 21, 23; II, 8, 18; III, 10, 13, 14.
7
La triaca o teriaca (dal greco qhriakhv) era un elettuario composto da moltissimi
ingredienti ed efficace contro ogni tipo di veleni e diversi altri mali. Si veda, per
es., MESUE, Antidot., 104v; GAL., De theriaca e De antid., I; PLIN., Nat. hist., XXIX, 8,
24; FIC., De vita, I, 12, 14, 17, 25; II, 7, 8, 9, 18; III, 12, 21.
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83. DELLA MEDICINA OPERATRICE 409

se’l male sarà leggiero e l’infermo delicato, gli andrà prove-


dendo di lusinghe, e con auttorità grande comanda che si fac-
cia tutte quelle cose che son grate e piacevoli alle donniciuole
et a gli uomini effeminati, e già con l’averlo messo in su un
molle letticiuolo, o con gotte stillanti d’acqua di fonte in un
bacino lo cerca di far dormire; già incomincia a estenuare il
male con fregagioni, stufe e ventose; già ristora l’ammalato in-
debilito con bagni, cibi più delicati e mutazione di aere. E per
essere tenuto di grande auttorità e maraviglia insieme, osser-
vando le ore, fa agroppare allegazioni e sospensioni fisiche, e
non ordina le medicine né i beveraggi se non con l’efemeride
matematica8: s’usurpa ancora imperio sopra lo speciale e vuole
ch’alla presenza di lui tutte le cose ordinate sieno, e finge di
scegliere i migliori medicinali, benché spesso non sappia di-
scernere i falsificati da i veri, né conosca pure le cose se non
per nome. Ora, se l’ammalato è ricco e di grande auttorità, al-
lora per acquistarne più utile e maggior riputazione, prolunga
quanto più può la malattia, e non lo rimette se non a poco a
poco ancora che potesse cacciare il male con un rimedio solo;
e talora, avendo con le sue medicine accresciuto il male, prima
che lo levi conduce l’uomo all’ultimo pericolo della vita, ac-
ciocché allora sia vantato d’averlo liberato da una gravissima e
pericolosa infermità. E se alcuna volta gli dà nelle mani uno in-
fermo ch’abbia gran male, e conoscerà che’l male sia pericolo-
so e’l fine suo incerto, allora entra sotto con queste astuzie:
con un volto severo gli ordina i modi del vivere, comanda cose
insolite, gli proibisce le ordinarie9, rifiuta quelle che si danno,
gli minaccia della morte, gli promette la vita e domanda premi
grandi. Se dubita del fine, conforta che si faccia collegio e do-
manda un compagno per medicare più securamente o, come
spesse volte si suol fare, più accortamente lo possa amazzare,
acciocché non talora sopravenendo un altro che solo guarisca
l’infermo, gli tolga la fama, la laude e’l guadagno insieme. Se’l
fatto riuscirà male all’ammalato, o se fuor di speranza per no-
tabile ignoranza l’avrà ucciso, quivi coloratamente s’iscusa egli

8
L’ ‘effemeride matematica’, dal greco ejfhmeriv", che significa propriamente
«giornale quotidiano», «diario», si riferisce al calcolo dei giorni in cui possono es-
sere somministrati farmaci od operati salassi. Criterio seguito di solito nell’antica
iatromatematica associata all’astrologia.
9
Il testo latino aggiunge: «arguit oblata», qui mancante.
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410 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

o per flusso soffocativo di catarro, o per alcuno altro simile su-


bito accidente e caso senza rimedio, e gravemente accusa la di-
subidienza dello infermo o la negligenza de guardiani, tassa i
compagni o dà tutta la colpa allo speciale, et in questo modo
viene a far credere che nessuno ammalato muore se non per
sua colpa, né può guarire se non per beneficio del medico. Ma
mostreremo ancora con testimoni de suoi medesimi che le più
volte i medici sono ribaldi. Dice il conciliator loro Pietro d’A-
bano che l’arte della medicina è attribuita a Marte, il quale è il
più odioso di tutti i pianeti, sì come quello ch’è auttore della
ingratitudine, delle ingiurie, d’ogni iniquità e malizia. E che
per questo i medici sono per lo più di cattivi costumi, parte per
lo influsso di Marte e dello Scorpione, e parte, come ci dice,
perché hanno avuto origine da vile e sterile ceppo, divenendo
poi gonfi e superbi quando si sono ingrassati10. Queste sono le
sue parole, ammaestrato per aventura dallo essempio d’Escula-
pio, il quale l’antiche favole dicono che fu il primo inventore
della medicina, generato dalla mente di Giove e mandato in
terra per la vita del Sole11. Ma Celso confessa che egli fu uomo
e poi collocato nel numero de gli dèi12. Molti altri affermano
che fu generato di meretricio congiungimento da una Coroni-
de, assai leggiadra femina, della quale spese volte i sacerdoti
nel tempio d’Apolline presero amoroso diletto, e finsero poi
ch’egli era figliuolo del dio13. Tutti però s’accordano in uno,
che questo dio Esculapio fu tanto scelerato che bisognò per ca-
stigarlo il folgore di Giove, del quale Lattanzio scrive in questo
modo a Costantino imperatore: «Esculapio, anch’egli nato
non senza malvagità d’Apolline, che cosa fece egli giamai de-
gna degli onori divini se non che guarì Ippolito? Certo ch’egli
morì onoratamente perché meritò d’essere folgorato da

10
Cfr. PIETRO D’ABANO, Concil., diff. 7.
11
Cfr. REUCHL., De arte cabal., II, F6r. La fonte citata da Reuchlin sono i Libri contra
Galilaeos di Giuliano l’Apostata.
12
Cfr. CELSO, De medic., I, prooem., 2-3; PIETRO D’ABANO, Concil., diff. 1. Si veda an-
che infra, p. 505.
13
Cfr. REUCHL., De arte cabal., II, F6v. Secondo la leggenda, Apollo, invaghitosi di
Coronide, figlia del re tessalo Flegia, ne ebbe un figlio, Asclepio. Ma Coronide
aveva ceduto all’amore d’un mortale, Ischi, figlio d’Elato. Avvertito di questa col-
pa, Apollo uccise l’infedele e avendo posto sul rogo Coronide, ne strappò il figlio
ancora vivo dal seno di lei (si veda, per es., PIND., Pit., III, 8; PAUS. Descr. Graec., II,
26, 3-7).
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83. DELLA MEDICINA OPERATRICE 411

dio»14. Queste son le parole di lui. Ma per dire il vero, i medici


sono uomini i più scelerati, i più discordanti, i più invidiosi et i
più bugiardi di tutti gli altri. Perciocché tutti sono talmente in
discordia fra loro che non si ritrova medico alcuno il quale ap-
provi una medicina ordinata da uno altro senza eccezzione,
addizione o permutazione; anzi che non la laceri e non la mor-
da per parere egli miglior medico, avendo detto male d’un
consiglio ancora che ottimo d’uno altro, e spesse volte ancora
aggiunto alcuna cosa a quelle che sono più che molte, onde fi-
nalmente è venuta in proverbio l’invidia e la discordia de i me-
dici. Perciocché quello che uno approva, l’altro se ne ride; né
cosa alcuna appresso di loro è certa, ma tutte le promesse di
quegli sono ciancie volatili e pure menzogne. Perciò il vulgo
volendo mostrare alcuno notabilmente bugiardo gli dice: «Tu
menti come un medico». E la maggiore industria de gli inge-
gni loro sta in questo, che nello imaginarsi cose nuove si fanno
beffe delle antiche che furono ben fatte, ascondono ancora
quelle poche che sanno e non le vogliono mostrare, come se la
riputazione della scienza si mantenesse in non insegnare a ve-
runo, e così portando invidia altrui defraudano la vita nostra
de i beni d’altri. Sono, oltra ciò, molto superstiziosi, arroganti,
di cattiva conscienza, superbi et avari, avendo sempre questo
proverbio in bocca: «Piglia mentre che duole», facendo ancora
dolere quel ch’è sano pur che si credano che loro torni utile,
come si legge di quel Pietro d’Abano, il quale essi chiamano il
Conciliatore, che leggendo medicina in Bologna, dicesi che fu
di tanta avarizia et arroganza, che andando in alcun loco fuor
della città a vedere ammalati, voleva ogni dì cinquanta ducati,
e chiamato una volta a medicare papa Onorio si convenne in
quattrocento ducati d’oro il giorno15. Pindaro dice ancora
ch’Esculapio, padre della medicina, fu folgorato da Giove per
merito della sua avarizia perché malvagiamente et in danno
della republica aveva essercitato la medicina16. Ora se per ven-
tura alcuna l’infermo sarà guarito nelle loro mani, si fa una fe-
sta intolerabile: nessuno è che basti a cantare la gloria di sì
gran miracolo; diranno ch’egli ha risuscitato Lazzaro; che rico-

14
Cfr. REUCHL., De arte cabal., II, G1r; LATT., Divin. instit., I, 10.
15
Cfr. PIETRO D’ABANO, Concil., diff. 1 e 5.
16
Cfr. REUCHL., De arte cabal., II, F6v-G1r; PIND., Pit., III, 55-59.
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412 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

noscono in dono da lui la vita dell’infermo e subito, usurpan-


dosi le cose che sono di Dio solo, si vanteranno d’averlo tratto
dell’inferno e diranno che premio alcuno non è sofficiente a
rimeritargli. Alcuni di loro si sono talmente gonfiati che s’han-
no lasciato adorare per dèi e fattosi chiamar Giove, come Me-
necrate medico siracusano il quale, scrivendo una volta ad
Agesilao17, dicesi che gli fece questo titolo: «Menecrate Giove
saluta il re Agesilao». Ma Agesilao, ridendosi della sciocchezza
di lui, gli rispose in tal modo: «Agesilao desidera sanità a Me-
necrate»18. Ma se alcuno ammalato infelice, il che spesse volte
suole avenire, viene a morire nelle mani de medici, danno la
colpa allora alla debilità della complessione, alla gravezza del
male o alla disubidienza dell’infermo, e che i rimedii dell’arte
sua non s’estendono a questo secreto della crudel natura, e
che essi sono medici, non dèi, che ben possono guarire i sana-
bili, ma non risuscitare i morti, e che eglino non possono dare
altro a gli ammalati che l’esperienza19. E con queste parole
hanno superbia ancora ne i casi sinistri, e riprendono ancora
quei che son morti d’aver fatto disordini; et in un medesimo
tempo vogliono esser pagati, avendo con le ricette loro amaz-
zato quegli che senza esse sarebbono potuti vivere, spogliando
in un tratto gli ammalati di fama, di dinari, di sanità e di vita,
salvando in questo mezzo la conscienza loro parte perché il
suo errore, come dice Socrate, è coperto nella terra, e parte
perché dal paese de morti non si ritorna, la dove essi innanzi
tempo sono stati mandati all’inferno, ingannati da parole vane
et ammorbati da medicine mortali sì che non possono diman-
dargli in giudicio i dinari e la vita che gli hanno levato a torto.
Sono oltra di questo i medici il più delle volte contagiosi e puz-
zolenti per le urine e per le feccie, pien di piscio e di sterco, e
più sporchi delle donne che aiutano a partorire, e macchiati in
tutti i sensi: mentre che con gli occhi guardano le più sporche
e scelerate cose, con l’orecchie e col naso ricevono tutti in loro
i rutti de gli infermi, gli strepiti mandati dalle parti da basso,

17
Il testo latino aggiunge: «Spartae regem», qui mancante.
18
Cfr. RODIG., Lect. antiq., VI, 38; PLUT., Ages., XXI, 5; ATEN., Deipn., 289c-f, ma si ve-
da ELIANO, Var. hist., XII, 51, dove il re è Filippo di Macedonia.
19
Annotazione a margine di Agrippa: «Excusationes medicorum aegroto mor-
tuo».
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83. DELLA MEDICINA OPERATRICE 413

l’alito, il fiato et il puzzo dell’aria corrotto, con le labra e con la


lingua assaggiano gli oscuri et infernali beveraggi; con le mani
maneggiano gli sterchi e le purgazioni, e dì e notte hanno nel-
la fantasia le orrende imagini et ombre de gli infermi, et infi-
niti omicidii travagliano la conscienza loro. E finalmente ogni
studio loro, favella, ragione, orazione, spirito et ingegno, altro
non prattica che circa cose triste, sporche, marcie et orribili
qualità di morte e di malattie, e tutto l’essercizio loro è in luo-
ghi puzzolenti, squallidi, occupato in cure vili e sporco artifi-
cio. Per cagione di guadagno infame stanno sempre intorno a
i cessi et a gli agiamenti de gli infermi, et a guisa della lodola,
uccello sporco, fanno nido nello sterco de gli uomini. Non ve-
dete voi ogni dì come essi caminano per la città co i diti fascia-
ti, con le robbe fangose, con volto tristo e di continuo smorto e
con frettoloso passo, tratti dalla speranza di vilissimo guada-
gno, corrono da una bottega all’altra cercando e mendicando
che alcuno gli faccia vedere o urina o conca di sterco, e sì co-
me quegli avoltoi da la cocolla a i corpi morti, così questi uo-
mini molto più volentieri di tutti gli altri porgono il naso allo
sterco, il quale dicesi che Ippocrate era usato d’assaggiare per
potere meglio conoscere la natura del male. La qual cosa mol-
ti attribuiscono ancora ad Esculapio, il quale da Aristofane per
questo fu chiamato scatofago20, con la qual parola sono signifi-
cati coloro che si pascono delle superfluità de i cibi, il qual no-
me è passato dapoi a tutti i medici, di modo che gli chiamano
scatofagi e scatomanti, cioè mangia sterco e guardatori di ster-
co. Per questo sono domandate scatomanzia, oromanzia e dri-
minanzia le indovinazioni o pronostichi de i medici cavate da
gli sterchi e dalle urine. La onde appresso molte nazioni questi
medici mecanici furono già reputati infami, et in modo tale
che, come dice Seneca, era tenuto grandissima infamia di chi
si fosse voluto valere del servigio d’un medico21; et oggidì an-
cora infiniti popoli cacciano i medici, le donne ch’aiutano a
partorire et i manigoldi dalle tavole e da i conviti, o che gli
danno mangiare e bere in piatti e bicchieri separati da gli altri.
La onde qui mi pare di avere sdegno contra una disonesta
usanza di molti principi, i quali tengono anco a tavola seco

20
Cfr. ARISTOF., Plut., 706.
21
Cfr. SEN., Ad Luc. epist. mor., XCV, 18.
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414 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

questi uomini ammorbati non pure nelle camere la mattina, i


quali sono sempre corrotti dalle continue prattiche de gli am-
malati e da nuovi vapori di pestilenza, e tosto che un medico si
ritrova a convito fra i cibi e le vivande, d’altro non ragionerà
che di sterco, di urine, di sudori, di marcia, di vomito e di men-
strui, e tratterà di gotte, di lepra, di stianze22, di rogna e di pe-
ste, e con la sporchezza de suoi ragionamenti moverà stomaco
a ogni convivio magnificamente fornito di delicatissime vivan-
de. Mettete un medico ancora nelle consulte civili, non trove-
rete cosa né più goffa né più scempia di lui, e questo per aven-
tura sarà perché, come dice il loro Conciliatore, la disciplina
de i medici non è di virtù, né di buoni costumi, e secondo che
il medesimo afferma, ogni medico naturalmente da bene dee
essere di cattivi costumi23. Et io so che in molte città sono ordi-
nazioni e statuti che i medici non entrino in consiglio, né ab-
biano magistrato, forse non tanto perché siano goffi, vani, mal-
creati, quanto perché sempre sono puzzolenti e talmente per
la continua prattica d’ammalati e di sterchi ammorbati, che
non pure ammorbano gli uomini che si gli appressano, ma le
panche ancora, e parimente avelenano i marmi, come elegan-
temente cantò Lucilio di un medico in uno epigramma greco,
fatto latino da Ausonio in questo modo, e poi toscano:

Alcon toccò Giove di marmo, et egli


l’ingiuria allor del medico conobbe.
Ecco lo portan fuor del tempio antico
a sotterrar, benché sia pietra e Dio24.

Ma quando si riducono a fare i suoi collegi per essaminare


quel che la notte l’infermo avrà urinato e cacato, et a guisa de
gli Efori lacedemonii per sentenziare della vita e della morte,
cosa maravigliosa è, ma molto più da dolersi, con quante mise-
re altercazioni, allora, senza ch’alcuno gli giudichi, si stanno a
contendere intorno al letto dell’ammalato, quasi che siano sta-
ti pagati a disputare, non a medicare, e come se l’infermo, al
quale (secondo il verso greco di Menandro, ma in questo mo-
do appresso noi: «Il medico che ha molte ciancie è un’altra in-

22
Il termine latino è «hulcera», ossia le ulcere e le piaghe in generale.
23
Cfr. PIETRO D’ABANO, Concil., diff. 125.
24
AUS., Epigr. de div. reb., LXXXI.
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83. DELLA MEDICINA OPERATRICE 415

fermità allo ammalato»25) quasi ogni sorte di parlare è noiosa,


abbia più bisogno delle dispute loro che delle medicine. Et
avendo tratti fuora, secondo che sogliono far mostra, alcuni
aforismi, i quali senza cambiargli giamai hanno sempre appa-
recchiati ad ogni bisogno, et invocati Ippocrate, Galeno, Avi-
cenna, Rasi, Averroè, Conciliatore e gli altri suoi dèi, i nomi e
titoli de i quali servono a loro per dottrina, per guadagnarsi fe-
de e riputazione di scienza appresso il vulgo igorante, poi che
s’è disputato assai delle cause, de i segni, de gli affetti, de gli
umori e del dì cretico26, con un poco di ordine, ma non però
decisa la discordia, concludono finalmente con ordinazion
freddissima del rimedio che si gli ha a dare, il quale deveva es-
sere il capo e la coda di tutto il negozio. E sì come suole essere
tra loro invidia scambievole, non volendo alcuno di loro co-
municare i suoi secreti (che così gli chiamano) a i suoi concor-
renti, come se essi avessero a perdere quel che insegnano a gli
altri, ricorrono alla teorica commune, la quale se loro vien me-
no, si riparano alla empirica non altramente che all’ancora sa-
cra, acciocché chi non è restituito dalla ragione, sia aiutato dal-
la temerità, dicendo ch’egli è molto meglio provare uno aiuto
dubbioso che nessuno; o che lasciano l’infermo, quando essi
non lo possono soccorrere e l’infermità, come dice l’Ecclesia-
stico, gli aggrava27, alla cura de i pronostichi, dicendo che Ip-
pocrate non vuole che si diano medicine a i disperati; o se pu-
re hanno un poco di religione, accomodano il male a qualche
santo; o che gli ordinano l’ultima ricetta, la quale è questa:
«Recipe un notaio e sette testimoni; aggiungi un sacerdote con
acqua et olio benedetto tanto che basti, et ordina la casa tua,
perché tu hai da morire». Per questo Rasi, il quale veramente
conosceva non pure la sciocca credenza de gli infermi, ma an-
cora la contenziosa ignoranza de i medici, volendo accorta-

25
MENANDRO, fr. 497 K (ed. Loeb).
26
I ‘giorni critici’ (dal greco krisivmou") sono i giorni in cui il medico della tradi-
zione ippocratica poteva apprezzare (dal greco krivnw, giudico) i segni e i sintomi
preannunzianti la crisi della malattia, vale a dire il presumibile sbocco del decor-
so morboso in remissione o guarigione, exitus, complicanza o cronicità. Si veda,
per es., CELSO, De medic., III, 4. La teoria dei giorni critici viene ripresa da Galeno
nel trattato De diebus decretoriis, in cui si accolgono motivi astrologizzanti e magici
legando il corso delle malattie ai moti lunari. Tale teoria sarà oggetto della critica
di Pico (si veda, per es., Disp., III, 16).
27
Cfr. ECCLI 10:10; 30:17.
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416 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

mente provedere all’uno e l’altro, all’infermo et al medico,


conforta negli aforismi suoi che si debba eleggere un medico
solo perché, dice egli, l’errore d’uno non mette grande infa-
mia, e la utilità d’uno, che fa allo ammalato, è lodata; ma chi
toglie di molti medici, incorre in grandissimo errore28. Queste
sono le parole di Rasi29. E di ciò fa testimonio quella antica in-
scrizzione di monumento: «Egli è morto per la turba de i me-
dici»30, e quel proverbio greco: «La presenza di molti medici
ha ucciso l’infermo»31. Quel detto ancora d’Adriano imperato-
re quando era per morire: «La turba de i medici amazza il
principe». Nessuno altro consiglio più utile adunque si può da-
re per conservare la vita e la sanità che non impacciarsi con
medici. Perciocché la sanità del corpo si riconosce da Dio e
non da i medici, e per questo Asa, re di Giudei, fu ripreso dal
profeta del Signore perché nell’infermità sua non cercò il Si-
gnore, ma si confidò nell’arte de i medici32, che chi vorrà dar
fede a i consigli loro non guarrà giamai, perciocché non vi è
una vita più misera di quella che si guida sotto la speranza del-
l’aiuto loro. Io presuppongo che i medici sappiano, e Dio vo-
lesse pure, che sapessero tutte le forze e possanze de gli ele-
menti, delle radici, dell’erbe, de i fiori, de i frutti, delle semen-
ze, de gli animali e de i minerali, e di tutte le cose che la madre
natura ha generato. Non possono però con tutte queste arti,
non pure far l’uomo immortale, ma quel che importa meno,
guarir sempre l’infermo di quale si voglia leggier male. O
quante volte la medicina che giovar deveva, non ha giovato, e
che deveva purgare non ha purgato! Quante volte ricadendo
l’infermo s’ha da tornare a medicare, e finalmente dopo molte
fatiche e spese, o allora, o poco dapoi, alla presenza de i medi-

28
Abu– Bakr Muh.ammad ibn Zaka–rı–ya–, al-Ra–zı– (ca.864-ca.923), meglio noto con il
nome latino di Razi, medico, filosofo, scienziato arabo, il cui Liber continens fu, in-
sieme al Liber canonis di Avicenna, uno dei testi base dell’insegnamento medico
nel mondo latino medievale. Gerardo da Cremona tradusse in latino un’altra sua
importante opera, il Liber Almansoris, o Liber El-Mansuri dictus, stampato a Venezia
nel 1557, mentre Michele Scoto sembra essere l’autore della traduzione dell’o-
pera alchemica Lumen luminis attribuita a Razi.
29
Il testo latino reca l’annotazione a margine: «Rasis sceleratum consilium».
30
Cfr. PETR., Epist. famil., V, 19, 4; POLID. VIRG., De invent. rer., I, 20.
31
Cfr. PLIN., Nat. hist., XXIX, 5, 11. La fonte di Plinio sembrerebbe essere un ver-
so di Menandro (fr. IV, 360 ed. Meinecke).
32
Cfr. 2 CR 16:12.
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83. DELLA MEDICINA OPERATRICE 417

ci ancora s’ha da morire! Quale speranza dobbiamo noi dun-


que porre ne i medici se, come dice Ippocrate istesso, l’espe-
rienza loro è fallace33? Che cosa certa possono promettere i
medici se vero è quel che scrive Plinio, che nessuna arte è più
incostante della medicina, né che più spesso si mute34? Molte
nazioni furono già, et oggidì sono, che vivono senza medici, le
quali nondimeno veggiamo gagliarde oltra l’età decrepita e vi-
vere più che cento anni. Per lo contrario questi popoli più de-
licati, i quali vivono con l’opera e con le promesse de medici,
per lo più invecchiare e morire a mezza età, e che è molto più,
gli istessi medici più de gli altri uomini, e quasi sempre essere
ammalati e morire innanzi tempo. Onde quel Lacedemone ri-
spose a un certo che gli diceva: «Tu non hai male alcuno?»,
«Perché io non adopro medico». E replicandogli pure colui:
«Tu sei fatto vecchio», rispose: «Perché io non ho mai adopra-
to medico», mostrando che non vi è altra via più certa alla sa-
nità et alla vecchiezza che lo stare senza medici. Che se alcuno
vorrà dire che molti sono guariti per opera de i medici, gli ri-
sponderemo in contrario che molto più ancora ne sono morti,
a i quali non ha giovato punto l’opera de i medici, e gli rim-
proveremo quel versetto d’Ausonio il quale dice:

La sorte liberolli, e non il medico35.

Perciocché gli Arcadi anticamente non usavano medicine


ma, come dice Plinio, adopravano il latte della primavera per-
ché allora, più che d’altro tempo, l’erbe son piene di sugo e
l’abondanza de pascoli serviva per medicina, ma più che gli al-
tri eleggevano il latte di vacca perché elle mangiano d’ogni er-
ba36. I Lacedemoni anch’essi, i Babilonii, gli Egizzii et i Portu-
ghesi, secondo il testimonio d’Erodoto e di Strabone, rifiutava-
no tutti i medici37, e quei ch’erano ammalati portavano in mer-
cato e nelle piazze, acciocché quegli che tentati da simil male
erano guariti o sapessero che altri fosse guarito, consigliassero

33
Cfr. IPPOCR., Aphor., I, 3.
34
Cfr. PLIN., Nat. hist., XXIX, 5, 11.
35
AUS., Epigr. de div. reb., IV.
36
Cfr. PLIN., Nat. hist., XXV, 53, 94.
37
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., I, 20; EROD., Hist., I, 197; STRAB., Geogr., XVI, 1, 20.
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418 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

altrui de i rimedii che avevano provato in sé medesimi38 cre-


dendo, come anco afferma Cornelio Celso, che non è cosa al-
cuna la quale conferisca più alla ragione del medicare che l’e-
sperienza39, con la quale più volte chiaramente s’è veduto che i
dottissimi medici sono stati vinti da una vecchia contadina, e
lei con una sola pianta et erbuccia avere compito quelle cose
che i più famosi medici non poterono fare con tutte le loro
preziose e lavorate medicine. Perciocché mentre essi si sforza-
no di guarire le infermità con intricate e mostruose misture
(avendoci proveduto la natura di tanti rimedii semplici che de-
vriano bastare), confondendogli per composta complessione
di diverse cose procedono più per congietture che per causa o
ragione, e fanno che tutta l’arte del medicare altro non è che
caso o congiettura. Ma questa, conoscendo la forza e la qualità
d’una semplice medicina, libera le malattie difficili con le for-
ze sode et approvate della natura. Essi di nuovo promettono e
vendono altrui la sanità con grande spesa per cose preziose e
venute fin dalle ultime parti dell’India o di Ponente, dando ad
intendere che non giovano se non le cose di gran prezzo: la na-
tura non pur promette, ma restituisce ancora la sanità con co-
se facilissime e di poco valore di quelle che ciascuno agevol-
mente può ritrovare ne gli orti suoi. Oltra di ciò costoro, con
un certo cicalamento e temerità prosontuosa, avendola impa-
rato su libri bugiardi e testi dipinti, s’usurpano per guadagna-
re la difficilissima arte di medicare. Questa avendo nella terra
e ne i campi considerato e conosciuto tutte le piante, i colori di
quelle, le figure, i sapori, gli odori e le diversità, e provato an-
cora quel ch’elle possano nelle malattie e ne gli altri casi, gra-
ziosamente e senza premio a ciascuno dà certissimi rimedii. I
medici istessi ancora confessano d’avere imparato molti eccel-
lentissimi rimedii dalle donniciuole, e degni d’essere scritti ne
libri loro, e come cose singolari da essere comunicate a quei
che verranno, come è quella medicina che Avicenna loda mol-
to insegnatogli da una femina contra il dolore del capo. Ma
s’egli è vero che la medicina, la quale dee apportare il tempe-
ramento della sanità, consiste nella proporzione e tempera-
mento delle cose insieme, così fra loro, come ancora con le

38
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., I, 20; STRAB., Geogr., III, 3, 7.
39
Cfr. CELSO, De medic., I, prooem., 12.
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83. DELLA MEDICINA OPERATRICE 419

qualità del corpo a cui elle si danno (e questa fu diligentissima


cura de i medici antichi in proporzionare e temprare le medi-
cine per giusti et armonici pesi, lasciando poi a i moderni que-
ste cose da essere compartite a i corpi de gli ammalati), che
prosonzione e sfacciatezza è questa, non solo mutare queste
cose, ma aggiungerli ancora, o sprezzarle affatto, o non le sa-
pere? Onde avvien poi che, sì come il giusto temperamento
della medicina devrebbe apportare sanità, così la discordanza
di quello induce dolore, spavento, aggravazione del male e ta-
lora morte, e però più securamente medica una vecchia villana
con una medicina composta con una o due erbe dell’orto, e
con l’opera della natura, che quel medico con le sue mostruo-
se, di grande spesa e con dubbiosa congiettura composte ricet-
te. Furono già di questa opinione molti et eccellentissimi filo-
sofi e medici, cioè che non si debba medicare se non con cose
semplicissime. Per questo considerando ben le forze de i sem-
plici e provandole, hanno lasciato a noi che dopo loro siam ve-
nuti notabili volumi di questa materia, sì come quello che Cri-
sippo scrisse del cavolo, Pitagora della scilla40, Marchion del ra-
fano, Diocle della rapa, Fania dell’ortica, Apuleio della betoni-
ca e molti altri antichi d’altre cose. Ma questi medici da botte-
ghe non gli curano, ma se ne ridono ancora, chiamando uo-
mini semplici quegli che studiano i semplici. Io per me dun-
que conforto ogniuno che non pure si consigli, ma che seguiti
ancora questi medici: io dico quegli che medicano per sempli-
ci. Ma io consiglio bene che si debbano fuggire e cacciare non
altramente che incantatori e stregoni, quegli maestri di botte-
ga, i quali con le loro mostruose composizioni fanno traffico
delle nostre infermità e gettano le sorti sopra la nostra vita.
Perciocché essendo necessario che le medicine composte si
facciano di molte specie differenti e contrarie, impossibile è, o
almeno difficilissimo, che il medico ordini alcuna cosa di certo
in quelle se non per sola opinione, estimazione, o congiettura,
e spesse volte essendo di molte cose, le quali ciascuna da sé par
che giove, il medico cumula quelle cose che la sorte o il caso

40
Il termine latino è «scilla», ossia «squilla», nome comune dell’Urginea maritima,
o Scilla maritima, nota anche come cipolla marina, la più grossa varietà di cipolla
in Europa. Il termine ricorre in VIRG., Georg., III, 451; ATEN., Deipn., II, 64b e III,
7e; PLIN., Nat. hist., XIX, 33, 93-94.
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420 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

gli presenta allora alla memoria, o nelle quali per alcuno in-
trinseco o nascoso istinto sarà più inclinato. La onde avviene
che quella ricetta composta piglia virtù et effetto non tanto
dalla possanza de i semplici che v’entrano, quanto dalla infeli-
ce o felice affezzione del medico, secondo ch’egli è indutto da
naturale, o celeste, o diabolico, o fortuito influsso ad eleggere
più queste che quelle. E questo è quello che communemente
si dice, et essi lo confessano, un medico essere più aventurato
dell’altro, e spessissime volte uno ignorante essere più felice
ch’un dotto. Ma che più, ho veduto io e conosciuto un medi-
co, uomo literatissimo, tanto disgraziato che di molti ammalati
pochissimi appena gli uscivano vivi dalle mani. Ho conosciuto
ancora uno altro mezzo savio, il quale felicemente guariva qua-
si tutti gli suoi ammalati, e molti ancora ch’erano stati lasciati
da gli altri per abbandonati. Io mi ricordo ancora aver letto
d’un medico, nelle mani del quale quanti uomini nobili e
grandi cadevano, guarivano, tutti i plebei e villani morivano o
gravemente pericolavano. Facil cosa è dunque a vedere questa
medicina dalle botteghe, nella quale può più la fortuna del
medico che la dottrina essere tutta, o per la maggior parte, in-
dovinatoria e perciò degna d’essere cacciata lontano e danna-
ta come venefica e micidiale. Perciò Romani anticamente sotto
Caton Censorio cacciarono tutti i medici della città di Roma e
di tutta Italia41, avendo in odio le loro mortali bugie e la cru-
deltà, cioè perché molto più n’amazzavano che non guarivano,
et anco perché essendo molto ammaestrati in far veneni, facil-
mente potevano essere mossi da42 ambizione o da guadagno a
dar veneno in cambio di rimedio, et accordati in dinari vende-
re la vita de gli uomini; come il medico di Pirro, o ch’egli fosse
Timocare come vuol Gellio, o Nicia, come alcuni altri, il quale
aveva promesso a Fabrizio ch’avrebbe ucciso il padrone con
una medicina, la quale ribalderia dispiacendo a Fabrizio, avisò
per una lettera Pirro, benché gli fosse inimico, che si guardas-
se dal medico43. Di che ragione Claudiano in questa maniera:

41
Cfr. PLIN., Nat. hist., XXIX, 8, 17.
42
Il testo latino aggiunge: «odio», qui mancante.
43
Cfr. AUL. GELL., Noct. att., III, 8, 1-8. Per l’episodio di Timocare di Ambracia e il
console Caio Fabrizio Luscino, si veda anche VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., VI,
5, 1; CIC., De off., III, 2, 86; PLUT., Pyrrh., XXI; FLORO, Epit., I, 13, 18.
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83. DELLA MEDICINA OPERATRICE 421

Romani sempre odiar gli uomini tristi,


però Fabrizio il medico, ch’aveva
promesso avvelenare il suo padrone,
al re mandò scoperto ogni suo inganno,
guerra avendo con lui, né finir volse
per mezzo così vil sì nobil guerra44.

Simili cose de medici de Greci scrive Catone in Plinio, avi-


sando il figliuolo e dicendogli: «Hanno giurato fra loro di vo-
lere uccidere tutti i barbari con la medicina, e questo vogliono
fare con mercede, acciò che gli sia creduto e facilmente possa-
no mandarlo ad effetto»45. E poco dopo soggionge: «Onde si
veggono molte insidie di testamenti e gli adulterii ancora nelle
case de principi, come manifestamente si sa quel d’Eudemo in
Livia di Druso Cesare». Queste sono le parole di Plinio46. So-
crate anch’egli appresso Platone non volse che i medici molti-
plicassero nella città47. Et oggidì ancora sarebbe utile alla repu-
blica che non vi fossero medici, o pochissimi, e che vi fosse an-
co una legge la quale punisse la malizia mortale così della
ignoranza come della negligenza loro. Perciocché è peccato
che merita la morte, e non importa che sia ignoranza o negli-
genza, pazzia o malizia, stracuratamente48 o a studio, che un
medico in cambio di medicina abbia dato veleno et abbia po-
sto l’uomo in pericolo della vita e che non fosse, come dice Pli-
nio, in potere d’un medico amazzare uno uomo senza pena49.
Il quale veramente è loro uno istesso e comune onore co’l ma-
nigoldo, cioè uccidere gli uomini et esser pagati, e questi soli
traggono premio dell’omicidio, onde la legge ha ordinato sup-
plizio a tutti gli altri e non ha voluto che alcuno resti senza pe-
na. Vi è però questa differenza, che il manigoldo non amazza i
malfattori se non per la sentenza del giudice, ma il medico
contra ogni giudicio uccide ancora gli innocenti. Non è stato
dunque se non cosa utile che le ordinazioni de i pontefici ab-

44
CLAUDIANO, De bello gild., I, 270-274.
45
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., I, 20; PETR., Famil. rer. lib., V, 19, 4-5; PLIN., Nat. hi-
st., XXIX, 7, 14.
46
PLIN., Nat. hist., XXIX, 7, 20.
47
Cfr. PLAT., Rep., 405a-408e.
48
Il termine latino è «perperam», ossia «per sbaglio», «per una svista».
49
Cfr. POLID. VIRG., De invent. rer., I, 20; PLIN., Nat. hist., XXIX, 8, 18.
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422 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

biano levati i cherici dal medicare, essendo l’arte della medici-


na cosa tanto sanguinosa che se fosse lecito a i sacerdoti e che-
rici fare il medico, potrebbono anco far l’ufficio del manigol-
do. E saviamente ancora vedere si dee che Porzio Catone altra
volta facesse quando interdisse i medici, parte perché sempre
si vanno guadagnando la fama di questa scienza con alcuna no-
vità, e parte perché, mentre che si vergognano, non portando
alcuna cosa di nuovo, andare per l’orme altrui, fanno espri-
menti con amazare questo e quello, e la loro arte imparano co
i nostri pericoli, con la quale negoziano sopra la vita nostra e
prolongano i mali de gli uomini che in brevissimo tempo levar
si potrebbono, e spesse volte ancora gli accrescono per trarne
utilità maggiore, onde gli Egizzii, per provedere a questo in-
ganno, ordinarono che i medici curassero i corpi de gli amma-
lati inanzi il terzo giorno a pericolo di quelli, dopo i tre dì di
loro medesimi.
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84.
DE L’ARTE DE GLI SPECIALI

Chiamano ancora i cuochi loro bottegari e speciali, i titoli


de i quali, come dice il proverbio, hanno i rimedi, e bossoli1 i
veneni o, come canta Omero, delle medicine composte molte
sono sane e molte nocive2, con le quali quando elle non ci vo-
gliono far danno alcuno, ne sforzano a comprare la morte no-
stra con molti dinari, mentre ch’essi ministrando una cosa per
un’altra, overo mescolandosi medicina marcia, vecchia e fradi-
cia, spesse volte danno mortifero beveraggio in cambio di vital
medicina, allora che essi comprano gli empiastri fatti molto
prima, i cerotti3, gli unguenti, i lattovari et altre medicine com-
poste dalla faccia e puzzo istesso delle spezie non altro che per
utilità delle botteghe; e non sapendo discernere fra queste co-
se, credono a i mercatanti barbari, i quali corrompono ogni
cosa con inganni e sofisticazioni. Potrei mostrarvi le loro dan-
nose discordie della cognizione delle medicine semplici che
essi usano, et i loro errori circa i nomi delle cose medicinali da
quegli male intesi e pessimamente usurpati, i quali assaissimi
Nicolò da Lonigo ha mostrato in un ampio volume4. Io mi ri-

1
Il testo latino reca: «pixides», ossia pissidi, piccole scatolette per medicine e un-
guenti.
2
Cfr. APUL., De magia, XXXI; OMERO, Odyss., IV, 229-230.
3
Il testo latino reca: «collyrium», ossia «unguento applicato all’occhio». Il termi-
ne «cerotto», adottato dal traduttore in volgare, allude alle proprietà dell’un-
guento per le malattie oftalmiche di disporsi sull’occhio quasi fosse cera.
4
Probabile allusione all’opera intitolata De Plinii et plurium aliorum in medicina errori-
bus (1491/2) di Niccolò Leoniceno (1428-1524), notissimo medico e letterato, che a
causa di questo scritto fu in polemica con Ermolao Barbaro e con Angelo Poliziano.
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424 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

mango ancora d’insegnarvi le mostruose composizioni e le mi-


sture di molte cose stranie con le quali, mentre che confon-
dendo ogni cosa, vogliono persuadere a noi che sono per fare
una medicina che quadri a tutte le nature (sì come hanno or-
dinato della composizione della triaca, della favola del Tiro5 e
di quello lattovario mitridatico6), nulla altro si viene a fare che
quel poetico Chaos:

Una roza mistura, et indigesta,


ch’altro non è che peso vano e semi
poco insieme concordi, insieme aggiunti.
Qui in un medesmo corpo il freddo e’l caldo
fan guerra insieme, e l’umido co’l secco,
co’l duro il molle, e co’l leggiero il grave7.

Ma poniamo che da gli antichi medici siano state imaginate


e ritrovate alcune utili medicine, le quali come cose provate si
possano ricevere; elle son però lontane da quel vero metodo e
dannate da loro medesimi medici sforzati dalla propria con-
scienza, et in tutti i modi rifiutate da Plinio, da Teofrasto, da
Plutarco, da Ippocrate, Galeno, Dioscoride, Erasistrato, Celso,
Scribonio et Avicenna, le parole de i quali troppo longo sareb-
be a scrivere in questo loco, e non solo da quegli antichi, ma
da molti moderni ancora, fra i quali uno Arnoldo da Villanova
dice ne gli aforismi: «Dove facilmente si possono avere i sem-
plici, chi volendo usare i composti vi si conosce inganno»8. Ma
oggidì sprezzati in tutto, e non pur conosciuti i semplici, non si
fanno le ricette se non di quei due luminari de i bottegari e te-

5
Il testo latino reca: «fabula», ossia «piccola fava», legume della specie minor re-
peribile nell’Africa settentrionale. Potrebbe identificarsi con la faba aegyptica, usa-
ta in diverse prescrizioni mediche, di cui si veda, per es., TEOFR., Hist. plant., IV, 8,
7-8; ATEN., Deipn., 72a-73c; CELSO, De medic., V, 23, 26; PLIN., Nat. hist., XVIII, 30,
121-122.
6
Contravveleno scoperto da Crateuas, medico di Mitridate VI Eupatore, re del
Ponto, cui attinge Pedanio Dioscoride, medico greco attivo nel I sec., nel celebre
scritto De veneniis. Tale antidoto risulta differentemente composto a seconda de-
gli autori che lo menzionano. Si veda, per es., PLIN., Nat. hist., XXIII, 77, 149 e
XXIX, 8, 24; CELSO, De medic., V, 23, 3; GAL., De meth. med., XIV, 152-154; FIC., De vi-
ta, I, 12.
7
OVID., Metam., I, 7-9; 18-20.
8
ARNALDO DA VILL., Spec. med., dottr. 2, reg. 13-15. Per Arnaldo da Villanova, si ve-
da supra, nota 40, p. 159.
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84. DELL’ARTE DE GLI SPECIALI 425

soro de gli speciali, ricettari dipinti e titoli indorati di Mesue e


di Nicolò9. E di qui viene che mentre questi medici attendono
all’ozio loro, governano le vite de gli uomini sotto la fiduzia de
bottegari, et essi senza lettere e senza cognizioni fidatisi ne i
mercatanti barbari per utilità della bottega mescolano le cose
insieme, molto maggior pericolo vien dalla medicina che dal
male. Ma ragioniamo un poco della falsificazione de i medici-
nali preziosi, i quali spesse volte con tanto inganno contrafatti
sono che ingannarebbono ancora gli uomini industriosi; e sa-
rebbe molto utile alla salute de gli uomini e della republica,
vietare affatto tutte le medicine foristiere et incognite, le quali
con tanto prezzo sono state menate da mercatanti assassini in
danno del publico, e cassare tutti i medici, e costringere gli
speciali, et ordinargli una legge10, come si legge già che in Ro-
ma (allora ch’era migliore) fece Nerone, con la quale fossero
astretti a usare solamente quei medicinali che genera il nostro
clima, conciossia che questi molto più si convengono alla natu-
ra di ciascuno di noi, sono anco molto più freschi, più eletti e
con minor difficultà e spesa aver si possono, e con minor peri-
colo che i foristieri, i quali per la maggior parte sono sospetti sì
come quegli che spessissime volte sono falsificati, contrafatti, o
rifiutati, o soffocati in nave, o annegati in acqua, o corrotti dal-
la vecchiezza, o non raccolti a tempo e loco debito, onde spes-
so s’incorre di grandissimi pericoli. Perciò la colloquintida
non matura tira il sangue et amazza, e quella che nasce sola o
scompagnata è veneno11. Similmente l’agarico maschio è mor-
tifero e’l vecchio è pericoloso12. Tutta la scamonia è falsifica-

9
Nicolaus Salernitanus (sec. XII), erroneamente detto Praepositus (probabil-
mente per uno scambio con il medico francese Nicolò Prevost, sec. XVI) pub-
blicò l’Antidotarium parvum, una raccolta di formule di farmaci composti che pre-
sto diventò un modello per tutte le opere successive di questo genere. A lui si de-
ve principalmente l’introduzione della farmacopea araba, soprattutto attraverso
la pubblicazione dell’Antidotarium di Yu–hanna– ibn Ma–sarjawaih (VIII-IX sec.), me-
dico arabo noto in occidente con il nome di Mesue.
10
Il testo latino reca l’annotazione a margine: «Consilium Agrippae».
11
La colloquinta, o coloquintide, è un frutto del Citrullus colocynthis, usato per la
sua azione lassativa. Si veda, per es., PLIN., Nat. hist., XX, 8, 14-17; MESUE, Antid.,
112r-v.
12
L’agarico è il nome usato per indicare in modo generico molte specie di funghi
a lamelle. Si veda, per es., PLIN., Nat. hist., XXV, 57, 103, 119, 128 e XXVI,17, 32
sgg. La specie maschile (Polyporus fomentarius), veniva utilizzata nella medicina
antica per le sue proprietà astringenti.
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426 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

ta13, e similmente è mancata la terra Lemnia14 e la fede de i si-


gilli15. Ma, per Dio, che bisogno è usare queste cose straniere se
la nostra terra produce le medesime cose, o simili e di simili
virtù? Non è egli una gran pazzia volere più tosto andare a tor-
re in India quel ch’abbiamo a casa, stimando che la propria
terra e’l mare non basti e mettendo inanzi le cose foristiere a
quelle della patria, le sontuose a quelle di poca spesa, le diffici-
li e condotte fin da gli ultimi termini della terra a quelle che
facilmente si possono avere? Non si può egli medicare la milza
senza armoniaco16 e’l fegato senza sandali17? Dunque quando
non avessimo bdellio18, non potremmo medicare il male delle
viscere? Né si potrà curare il capo senza musco e l’ambra? Né
lo stomaco senza mastice e coralli19? Se queste medicine fore-
stiere convenissero a i nostri corpi, senza alcun dubbio la natu-
ra, la quale provede a ogni cosa, avrebbe fatto ch’elle sarebbe
abondantemente nate anco appresso di noi. Non sono eglino

13
Il testo latino reca: «Scammonia omnis sophisticata est», ossia «la scammonia è
oggetto di sofisticazioni». La scammonia, o scamonea, è una pianta della famiglia
delle Convolvulacee (Convolvulus scammonia), diffusa nell’Asia Minore, nella Rus-
sia meridionale. Dalla solidificazione del suo succo, ottenuto per spremitura, si
otteneva una resina impiegata nella medicina antica per le sue proprietà lassati-
ve. Si veda, per es., DIOSCOR., De mat. med., IV, 170; ATEN., Deipn., I, 28D; PLIN., Nat.
hist., XXVI, 38, 59-61.
14
La Terra Lemnia, così chiamata perché estratta da una caverna dall’isola greca
di Lemno, è un argilla da cui si ricavava un medicinale di colore rosso e di consi-
stenza oleosa cui si attribuivano virtù taumaturgiche.
15
I «sigilla», cui si fa riferimento, sono le pietre, soprattutto dure, incastonate ne-
gli anelli da sigillo, cui la tradizione antica e medievale attribuiva virtù medica-
mentose e magiche. Sugli anelli, sul modo di costruirli e sulle loro proprietà, si
veda AGRIP., De occ. phil., I, 47, p. 174.
16
Il sale armoniaco o ammoniaco dal greco a{l" ajmmoniakov", non è il nostro cloru-
ro di ammonio, ma una varietà di salgemma dal colore bianco, di sapore salato,
molto solubile in acqua, così chiamato perché estratta nei pressi dell’oracolo di
Ammon a Cirene. Nel suo passaggio in Occidente il termine sal ammoniacus so-
pravvive sia nel suo significato originario che in quello moderno di cloruro d’am-
monio.
17
Il sandalo è un legno di due tipi: bianco e rosso. Dal legno di sandalo bianco si
ricava un olio essenziale che ha proprietà antisettiche e astringenti. Si veda, per
es., FIC., De vita, I, 10; II, 5, 7, 9, 13.
18
Il bdellio è una resina gommosa che si ricava dall’albero omonimo e da altri ar-
busti della famiglia Burseracee. Veniva impiegata in farmacia per emulsioni e im-
piastri dalle proprietà terapeutiche e come profumo.
19
Il mastice, resina appiccicosa ottenuta incidendo il fusto e i rami del lentischio
(Pistacia lentiscus), veniva abbondantemente impiegato nella farmacopea medie-
vale e rinascimentale per le sue proprietà aromatiche e lenitive.
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84. DELL’ARTE DE GLI SPECIALI 427

senza quelle e più sanamente vissuti i padri nostri? Queste cose


sono dunque ciancie di medici da poco, i quali non cercano di
conoscere le cose nostre et invenzioni de gli speziali, i quali
non amano la salute comune ma l’utilità del trafico suo, facen-
done credere che altro non ci può molto giovare se non le co-
se di gran prezzo, a i quali perciò rimprovera Gieremia: «Non
è egli resina in Galaad o non vi si trova medico?»20. La natura
genera e tempra le sue erbe a ciascun terreno e paese, nazio-
ne, clima, aria et età; concediamo che questo sia vero e che al-
cune abbiano maggior possanza in un loco e tempo che in uno
altro, nondimeno operano i medesimi effetti in ciascun tempo
e clima secondo il proprio temperamento de gli uomini; po-
niamo che quelle cose preziose e rare abbiano forze maggiori
che le nostre piante, ma noi dobbiamo credere ch’elle non sia-
no salubri se non ne gli uomini di quel clima, per li quali sono
state create e prodotte. Ma vi sono anco le rapine de gli empi-
rici, i quali ne danno a credere che alcune mostruose medici-
ne e differenti dall’uso di medicare possano molto giovare, e
che la salute nostra non possa stare senza quelle, esperimen-
tando i suoi comentarii con danno de i miseri. Per questo met-
tono nelle medicine e biscie e serpenti, e quanti animali vele-
nosi ci sono, e come se vi mancassero i rimedii, mettono anco-
ra il grasso umano nelle onzioni e, con grave offesa della natu-
ra, danno mangiare a gli uomini le carni umane conservate
nelle spezierie e la chiamano mummia.

20
GER 8:22.
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85.
DELLA CHIRURGIA

Restaci la chirurgia, la quale è una altra parte della medici-


na, la quale cura i mali del corpo che sono nella carne, l’opera
della quale sono manifesti e più securi rimedii, perciocché i
consigli de gli altri medici vanno alla cieca. I ciroici veggono e
palpano quel che fanno e secondo il bisogno mutano, aggiun-
gono e levano. Questa fra tutte le arti del medicare fu la prima
che venne in uso. Perciocché guerreggiando anticamente gli
uomini insieme, e facendosi delle ferite l’un l’altro, incomin-
ciarono a ritrovare rimedio a quelle. Perché si credevano che
uno uomo potesse sanare quei mali che uno altro uomo gli
aveva fatto. Ma giudicavano che le altre infermità e crucciati
delle interiora, come generati per sdegno de gli dèi, fossero in-
curabili per forze naturali. Il primo inventore della chirurgia
fu dunque Api re de gli Egizzii, o, come vuole Clemente Ales-
sandrino, un più antico di lui Mizrai, figliuolo di Cain nepote
del gran Noè1. Ma il primo che scrisse la medicina delle piaghe
fu Esculapio. Dapoi furono eccellenti in quella Pitagora, Em-
pedocle, Parmenide, Democrito, Chirone2, Peone. Dice Plinio
che il primo il quale la essercitò in Roma fu Arcagato della Mo-

1
Cfr. CLEM. ALESS., Hist. eccl., III, 2.
2
Al centauro Chirone, figlio di Cronos e Filira, vengono riconosciute virtù tera-
peutiche già in OMERO, Iliad., IV, 219; in seguito gli saranno attribuite anche ca-
pacità magiche. Si veda anche POLID. VIRG., De invent. rer., I, 21; PLIN., Nat. hist., VII;
56, 196-197.
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430 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

rea, e che per la crudeltà del tagliare e del brusciare publica-


mente fu domandato feritore, e ch’l nome passò poi in mani-
goldo, e finalmente che tutta l’arte venne a fastidio e fu discac-
ciata3. La chirurgia dunque è famosa per auttorità d’uomini
eccellenti non meno che si siano le fazzioni de gli altri medici,
ma poi è infame per bruttura de venenose marcie e sanguino-
sa crudeltà.

3
Cfr. PLIN., Nat. hist., XXIX, 6, 12-13. Alcuni rimedi di questo Arcagato sono men-
zionati in CELSO, De medic., V, 19, 27 e in CELIO AUREL., De chron. pass., IV, 7.
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86.
DELLA ANOTOMIA

Questa arte è però vinta di crudeltà dalla anotomia, publica


beccaria di questi e di quegli de certani e de ciroici, con la qua-
le altra volta con crudelissimi tormenti hanno tagliato quei
malfattori ch’erano condannati a morire in publico vivi e che
avevano ancora lo spirito. Ma oggidì, fatti un poco più pietosi
per riverenza della religion cristiana, ucciso prima l’uomo per
man loro o del boia, con queste crudeltà danno poi dentro nel
corpo morto e, sbranando il corpo umano, ricercano e consi-
derano l’ordine, la misura, l’opera, la natura et i secreti di tut-
te le membra per imparare di là in che modo et in quai luoghi
s’hanno da medicare, con questa crudele diligenza e spettaco-
lo orrendo et abominevole non meno che dispietato.
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87.
DELLA VETERINARIA

Evvi anco un’altra pratica di medicina che si domanda vete-


rinaria, la quale medica le infirmità de gli animali bruti, molto
più certa e più utile dell’altre, ritrovata, come si dice, da Chi-
ron centauro1 et illustrata da Columella, Catone, Varrone, Pe-
lagonio e Vegezio, nobilissimi scrittori. Nondimeno questi me-
dici inannellati non tanto se la recano a vergogna, quanto in
tutto ne sono ignoranti e se ne fanno beffe: essi son molto de-
licati e, come l’ucello allodetta, non si dilettano se non di ster-
co umano. Onde se alcuno domanda loro un rimedio per il
suo asino o bue, in cambio di medicina riceverà ingiuria, quasi
che non sia ufficio loro il sapere medicare non solo gli uomini,
ma gli altri animali ancora, specialmente quegli che danno uti-
lità a gli uomini, per la qual cosa Alfonso re d’Aragona altra
volta salariò con gran provisione due espertissimi dottori di
medicina per cavalli e per cani, e comandò loro che solecita-
mente investigassero quali rimedii e qual modo di medicare si
ricercasse a tutte le infirmità delle bestie, il che facendo essi
composero uno utilissimo libro di queste cose. Il medesimo fe-
ce a questi tempi Giovanni Ruello Parigino, uomo dottissimo
nell’una e l’altra lingua, e fisico de primi, il quale da gli anti-
chissimi auttori Apsirto, Ierocle, Teomenesto, Pelagonio, Ana-
tolio, Tiberio, Eumelo, Archedamo, Ippocrate, Emetrio, Afri-
cano, Emilio Spagnuolo e Litorio Beneventano, compose uno

1
Cfr. OMERO, Iliad., IV, 819; XI, 832.
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434 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

eletto volume sopra le infirmità de i cavalli et i rimedii loro, il


quale con grande utilità publica è per giovare molto a tutti i ve-
terinarii2.

2
Jean Ruel (1474-1537), illustre medico e botanico francese, autore di un tratta-
to intitolato Medicina veterinaria (1530) e di un De natura stirpium (1536) in cui si
trova per la prima volta un elenco in lingua francese di circa 300 nomi di piante.
Di notevole diffusione fu anche la sua edizione del De materia medica in 5 libri di
Pedanio Dioscoride (I sec.).
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88.
DELLA DIETA

Restaci ancora la medicina dietaria, della quale Asclepiade


fu principe sopra gli altri, il quale avendo per la maggior parte
levato l’uso delle ricette, ridusse tutta l’arte della medicina alla
ragione del vivere, alla quantità e natura de i cibi et al condi-
mento delle vivande1, da cui gli altri medici non discordano af-
fatto, ma in questo modo credono che l’uno abbia bisogno
dell’altro, il modo del vivere talora delle medicine, e simil-
mente quella della ragione e misura del vivere. Per questo or-
dinano, vietano, rifiutano et accusano i cibi et i vini che Dio ha
creato e compongono inosservabili regole di vivere; e quelle vi-
vande che non vogliono pure che altri assaggie, essi divorano
come i porzi le ghiande, et essi sono i primi di tutti che trapas-
sano le leggi del vivere, le quali ordinano ad altri non tanto ne-
gligentemente quanto a studio. Perciocché se eglino devessero
vivere secondo queste loro ordinazioni di dieta, gran perdita
farebbono di sanità e se, come essi vivono, lasciassero ancora
che gli ammalati vivessero secondo le leggi della natura, senti-
rebbono danno nella borsa. Di queste diete favella Ambrogio
in questo modo: «Contrari alla condizion divina sono i precet-
ti della medicina, i quali levano dal digiuno, non lasciano vigi-
lare e rimovono dall’intenzione del meditare, e così chi si dà
nelle mani de medici, rinega se medesimo»2. E Bernardo, scri-
vendo sopra la cantica, dice: «Ippocrate e Socrate insegnano a

1
Cfr. CELSO, De medic., III, 4, 2-3.
2
Cfr. AMBR., Exp. in Psalm. CXVIII, Sermo XXII, 23.
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436 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

salvare l’anime in questo mondo, Cristo et i discepoli suoi a


perderle. Quale maestro volete voi seguire di questi due?»3.
Manifesto si fa, chi disputa questo nuoce a gli occhi, questo al
capo, questo allo stomaco; i legumi sono ventosi, il formaggio
aggrava lo stomaco, il latte nuoce alla testa, il petto non com-
porta il ber dell’acqua, laonde questo avviene che difficilmen-
te ritrovar tu possa cosa da mangiare in tanti fiumi, campi, orti
e dispense. Ma poniamo che queste parole d’Ambrogio e di
Bernardo siano dette solo a i monaci, i quali per aventura non
devrebbono curar tanto la sanità, quanto la professione. Ma
non disconviene, però, che gli uomini civili, insieme con la cu-
ra della sanità, si dilettino ancora della varietà e delicatezza del
vivere, delle vivande e della tavola: il primo lo promette la me-
dicina della dieta, il secondo fa la cucina, disciplina d’apparec-
chiare i cibi et i beveraggi. Laonde Platone la domanda adola-
trice della medicina4, e molti la fanno parte della medicina die-
taria, benché Plinio, Seneca5 e l’avanzo della scuola de i medi-
ci confessino che diverse infirmità si generino per la varietà de
cibi eletti.

3
BERN. DA CHIARAV., Serm. in cant. XXX, 10.
4
Cfr. PLAT., Gorg., 464d-465a.
5
Cfr. SEN., Ad Luc. epist. mor., XCV, 20 sgg.
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89.
DELLA ARTE DEL CUOCO

L’arte del cuoco è molto commoda, né però è vergognosa


pur ch’ella non passe i termini della discrezione. E questo ri-
spetto ha mosso ancora de gli uomini grandi e continentissimi,
che non si sono vergognati scrivere dell’arte della cucina e de i
condimenti delle vivande. De i Greci Pantaleone, Miteco, Epi-
rico, Zofone, Egesippo, Pazanio, Epeneto, Eraclide Siracusa-
no, Tindarico Sitionio, Simonattide Chio, Glauco Locrese; de i
Romani Catone, Varrone, Columella, Apicio, e fra moderni il
Platina1. Ma gli Asiatici furono sempre in queste cose tanto lus-
suriosi et intemperanti, che’l nome loro è passato in cognome
de i golosi e mangiatori, i quali perciò si chiamano Asoti. Qui,
come racconta Tito Livio, le morbidezze foristiere dopo la vit-
toria dell’Asia entrarono nella città di Roma, e fu la prima vol-
ta allora che le vivande s’incominciarono apparecchiare con
maggior cura e spesa2. Allora il cuoco, che gli antichi avevano
tenuto per vilissimo servo, cominciò a essere in riputazione, in
uso et in pregio3, et uscendo della cucina tutto bagnato ancora

1
Bartolomeo Sacchi (1421-1481), detto il Platina, prestigioso esponente dell’Ac-
cademia Romana guidata da Pomponio Leto, autore di opere storiografiche, di
una biografia di Pio II, di alcuni dialoghi filosofico-morali e di un trattato di ga-
stronomia intitolato De obsoniis ac de honesta voluptate et valitudine (1480) di note-
vole successo.
2
Cfr. LIV., Ab Urbe cond., XL, 6, 9. Sull’opinione secondo la quale l’inizio del lusso
a Roma fu dovuto a un’influenza straniera, si veda anche SALL., Cat., V, 8; PLIN.,
Nat. hist., XXXIV, 17, 37.
3
Cfr. LIV., Ab Urbe cond., XXXIX, 6.
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438 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

[con] il brodo, tinto di fumo, con le pentole, i piatti, il pestel-


lo, il mortaio e con lo spiedo, entrò nelle scuole, e quello che
prima era stato mistier vile, incominciò a essere stimata arte
onorata, il cui pensiero è tutto in cercare d’ogni parte gli invi-
tamenti della gola, e qualità di cibi per empire la profonda in-
gordigia in ogni loco trovare, sì come molti ne racconta Gellio
da Varrone4, cioè il pavon da Samo, l’anitra di Frigia, le gru
Meliche, il capretto d’Ambracia, il pelamo5 di Calcedonia, la
murena Tartessia, l’asinello6 di Pessinunte, l’ostrighe di Taran-
to, il prosciutto7 di Chio, l’elope8 Rodiano, gli scari9 di Cilicia,
le noci Tasie, i datteri d’Egitto, le ghiande d’Ispagna, tutte le
quali foggie di mangiare sono state ritrovate per la malvagia la-
scivia della sazietà e della morbidezza. Apicio più che tutti gli
altri si usurpò la gloria e la fama di questa arte di modo che dal
nome di lui, come testimonia Settimio Floro, con una certa
imitazion filosofica, è derivato il cognome ne i cuochi che si
domandano ‘apiciani’10. Di costui Seneca scrisse in questo mo-
do: «Apicio mi ricordo io che viveva, il quale publicamente in-
segnava la scienza della cucina in quella città della quale alcu-

4
Cfr. AUL. GELL., Noct. att., VI, 16, 4-5. La fonte di Gellio è la satira di Marco Te-
renzio Varrone intitolata periv ejdesmavton, in VARR., fr. 403 (ed. Buecheler).
5
Il termine latino usato da Gellio è «pelamys» (dal greco phlov"), ossia «palamita»,
tonno di giovane età. Si veda, per es., ARIST., Hist. anim., 571a; ATEN., Deipn., III,
116e, 118a, 120f, VII, 277e-278d; 319a-b; PLIN., Nat. hist., IX, 18, 47-48, XXXII, 53,
146.
6
Il testo latino reca: «asellus», termine che può essere tradotto con «piccolo asi-
no», ma che sta a indicare anche una varietà di pesce. Si veda, per es., VARR., De
lingua lat., V, 77; ATEN., Deipn., VII, 301e-f, 302c; PLIN., Nat. hist., IX, 28, 61; XXXII,
53, 146.
7
Il testo latino reca: «pectunculus», che andrebbe tradotto con «pettine», ossia
un tipo di mollusco. Il termine latino ricorre anche in PLIN., Nat. hist., IX, 45, 84;
XXXII, 24, 70 e 53, 150.
8
Il termine latino è «helops», probabilmente da identificarsi con lo «storione».
Sull’èlops, si veda ATEN., Deipn., VII, 282d-e e 300d-e; PLIN., Nat. hist., IX, 27, 60;
XXXII, 54, 153.
9
Lo scaro è un pesce di mare dalla bocca piccola. Per una descrizione dell’ani-
male e delle sue abitudini, si veda ATEN., Deipn., 319f-320b; PLIN., Nat. hist., IX, 29,
62; XI, 61, 162; XXXII, 5, 11 e 53, 150; XXXVII, 187.
10
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 30. L’allusione è a Marco Gavio Apicio, noto epicureo
vissuto al tempo di Tiberio, autore, nonostante le incertezze, di un nucleo di ri-
cette di alta gastronomia, confluite in seguito nel De arte coquinaria, il più noto
manuale di medicina dell’antichità in 10 libri, la cui redazione è databile intorno
al IV sec.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 439

89. DELLA ARTE DEL CUOCO 439

na volta sono stati cacciati i filosofi come corruttori della gio-


vanezza; e così con la sua disciplina ammorbò il mondo»11. Pli-
nio ancora severissimamente lo chiamò profondissimo gorgo
di tutti i prodighi e dissipatori12. Sonsi finalmente imaginate e
ritrovati con l’ingegno di quegli apiciani tanti instromenti del-
la gola, tanti incitamenti di lussuria, tante varietà di vivande
che bisognò pure una volta con leggi et ordinazioni ristringere
le pompe della cucina. Per questo furono fatte quelle antiche
leggi sopra le spese e le vivande, cioè l’Archia, la Fannia, la Di-
dia, la Licinia, la Cornelia, la legge di Lepido, la legge d’Anzio
Restione. Ma ancora Lucio Flacco e’l suo compagno censori,
cacciarono Durionio del Senato perché, essendo tribuno della
plebe, volse cancellare una legge la quale s’era fatta per ristrin-
gere le spese de i convivii. Perciocché molto sfacciatamente
era salito Durionio su i rostri a dire quelle parole: «Cittadini e’
vi è stato messo la briglia, la quale in alcun modo non è da sop-
portare: voi sete legati e stretti d’amaro laccio di servitù, per-
ciocché s’è fatta una legge la quale vuole che siate parchi e so-
brii. Cancelliamo dunque quello imperio coperto dalla ruggi-
ne dell’orrida vecchiezza, perché che giova a noi avere la li-
bertà se quei che vogliono non possono consumare il loro?»13.
Vi erano ancora di molte altre ordinazioni le quali ora sono
tutte invecchiate e levate via, di modo che non fu alcuna età
giamai che con maggior pompa e splendidezza attendesse alla
gola che questa nostra, i quali per cagione di quella, come dice
Musonio, e dopo lui il nostro Girolamo, trascorriamo il mare e
la terra, e con opera di tutta la vita nostra s’affatichiamo a fare
che la malvagia14 et ogni prezioso cibo entri nella gola nostra15.
Tante sono oggidì appresso di noi cucine, tante osterie, tante

11
SEN.,
Ad Helviam matr. de consol., X, 8.
12
Cfr. RODIG., Lect. antiq., V, 30; PLIN., Nat. hist., X, 68, 133. Ateneo menziona tre
personaggi con il nome di Apicio: quello vissuto nell’età di Tiberio e autore del
manuale di cucina (Deipn., 17a e supra, nota 10); un secondo di età traianea, fa-
moso ghiottone (Deipn., 17d); e un terzo, responsabile nel 92 a.C. dell’esilio in-
flitto allo storico P. Rutilio Rufo (Deipn., IV, 168d-e). Plinio potrebbe dunque ri-
ferirsi al personaggio vissuto all’epoca dell’imperatore Traiano.
13
Cfr. VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., II, 9, 5. Sull’abolizione della legge sumptua-
ria da parte di M. Duronio e sulla conseguente rimozione di costui dal Senato ad
opera dei censori Marco Antonio e Lucio Flacco, si veda CIC., De orat., II, 68, 274.
14
Il termine latino è «mulsum vinum», ossia un vino misto a miele.
15
Cfr. GEROL., Advers. Jovin., II, 8.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 440

440 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

taverne di giotti e di puttane, dove gli uomini si ruinano in


mangiare, in ubriaccarsi et in lussuriare che spesse volte non
senza gran danno della republica divorano e consumano tutti i
patrimonii loro; tante sorti di vivande oggidì ritrovate si sono,
tanti intingoli, tanti manicaretti, tante leggi usanze e cerimo-
nie di tavole che i più sontuosi convivii de gli Asioti, de i Mile-
sii, de i Sibariti, de i Tarentini, et oltra questo di Sardanapalo,
di Xerse, di Claudio, di Tiberio, di Vitellio, d’Eliogabalo e di
Galieno imperatori (i quali, come dicono gli istorici, avanzaro-
no tutte le altre nazioni et uomini di delicie, di splendidezza e
di piacere della gola) diventarebbono affatto miseri, malcom-
posti e contadini se si mettessero a paragone con questi nostri
apparati di conviti. Oltra di ciò pare che non sia fatto nulla con
la delicatezza del mangiare e del bere se non vi è ancora tanta
abondanza che fastidie e che basti a ubriacare Ercole, il quale
spesse volte era portato e beeva in una medesima nave; e con la
sacietà del cibo riempia Milon Crotoniese e Fagone d’Aurelia-
no, l’uno de i quali soleva mangiare in una cena trenta pani
senza gli altri cibi, l’altro devorò in un dì alla tavola d’Aurelia-
no imperatore un cinghiale intiero, cento pani, un castrato, un
porcello, e bevve poi con una pevera16 più che non avrebbe be-
vuto una balena17. Queste cose oggidì sono molto in uso ap-
presso di noi in quei conviti publici di contadini, dedicazioni
di chiese et altre feste loro: voi direste che facessero sacrificio a
Bacco, talmente son quivi tutte le cose macchiate di furore, di
sangue e di diverse ribalderie di gola e d’ubriachezza; potreste
vedervi ancora i conviti de i Centauri, da i quali nessuno ritor-
na senza esserne ferito18, et una voracità simil a quella che Ovi-
dio scrive di Erisittone in questi versi:

Subito chiama ciò che nasce in mare,


in aria, in terra, e muor di fame a mensa,
e cerca ogn’or tra le vivande i cibi.
Ciò ch’al popol bastava, a le cittadi
a lui non basta, e più d’aver desìa,
per poter più mandar nel ventre ingordo.
E come il mar tutti riceve i fiumi,

16
Il testo latino reca: «in infundibulo», ossia «in un imbuto».
17
Cfr. RODIG., Lect. antiq., IV, 11; FLAV. VOP., Divus Aurel., L, 4.
18
Sui conviti dei Centauri, si veda supra, p. 332, nota 4.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 441

89. DELLA ARTE DEL CUOCO 441

né si sazia però, benché gli bea.


Come il fuoco non fugge esca veruna,
et arde molte faci, et in maggior copia
sempre più brama, e cresce il suo desio,
così de l’empio Erisitton la bocca
prende ogni cibo, e quanto più ne ingoia
più ne domanda, e’l cibo accresce il cibo,
sì che sempre a mangiare avanza loco19.

Erano già appresso i Greci, e poi ancora appresso i Romani,


i lottatori, uomini voracissimi, ma l’infamia di costoro final-
mente fu vinta da i consoli e da gli imperatori. Perciocché Al-
bino, il quale allora era padron dell’imperio nella Francia, di-
vorò in una cena cento pesche, dieci poponi, cinquecento fi-
chi e trecento ostrighe20, e Massimino imperatore, il quale suc-
cesse ad Alessandro figliuolo di Mammea21, mangiò in un dì
quaranta libre di carne e bevve una anfora di vino: l’anfora ha
una misura di quaranta otto staia22. Dicesi ancora che Geta im-
peratore fu di così disonesta vita che comandò che fossero por-
tare le vivande in tavola secondo l’ordine dell’alfabeto, e per
tre dì continui stette sempre a tavola mangiando23. E benché
Dio e la natura ci abbiano proveduto del mangiare e del bere
per cagion di salute e di fortezza, quale più ribalda cosa si po-
trebbe fare che noi per lo contrario si serviamo di quei diversi
artificii di vivande a darsi piacere, e trangugiamo ne i corpi no-
stri più che non può capire la natura umana, cagionando a noi
medesimi per questi rispetti malattie incurabili, onde chiara-
mente veggiamo esser vero quel che dice Musonio, i servi più
che i padroni, i contadini più che i cittadini, i poveri più de i
ricchi, e tutti quegli che usano cibi più grossi, essere molto più
gagliardi, più valenti e più forti de gli altri, e meglio sopporta-
re le fatiche e meno stancarsi in quelle, e rarissime volte am-
malare24. Né vi è alcuno che sia più travagliato da quelle gravi

19
OVID., Metam., VIII, 830-842.
20
Cfr. GIUL. CAPIT., Clod. Albin., XI, 2-4. Il popone, o peponio, è un frutto carnoso,
appartenente a una varietà di cetriolo. Si veda PLIN., Nat. hist., XIX, 23, 65.
21
Per il soprannome di «figlio di Mammea», con cui era solito essere menzionato
l’imperatore Severo Alessandro, si veda ELIO LAMP., Alex. Sev., III, 1 e XIV.
22
Cfr. GIUL. CAPIT., Max. duo, IV, 1.
23
Cfr. CRIN., De hon. disc., XIV, 11; ELIO SPART., Anton. Geta, V, 7.
24
Cfr. MUSONIO, fr. XVIII B (ed. Henze).
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442 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

infirmità, come è idropisia, gotta, morfea, dolor colico e simili,


che quegli che sprezzando il modo comune di vivere, mangia-
no sontuosamente e fuor dell’ordinario, e per contrario veg-
giamo quei che si contentano d’un vivere semplice essere più
sani. Con questo si conferma ancora Cornelio Celso, il quale
dice che il cibo semplice è utilissimo all’uomo e’l cumulo de i
sapori pestifero, e tutte le cose condite per due cagioni sono
inutili perché più si consuma per la dolcezza che non si con-
verrebbe, e più difficilmente si digerisce25. Oltra ciò molti uo-
mini et auttori gravissimi hanno biasmato questi incitamenti di
gola et artificioso diletto di vivande. Ma vi sono anco alcuni
che, sotto nome di religione, non pure riprendono e la gola e
la delicatezza, ma astenendosi dalle carni biasmano ancora al-
cuni cibi che Dio ha creato perché si mangino, ma nel vino,
nel quale, come dice l’Apostolo, è la lussuria26, più capaci che
gli Epicurei non sono, dicendo che fanno astinenza e digiuno
poi che s’hanno bene riempito d’ogni sorte di pesci e de i mi-
gliori vini che si ritrovino, alle quali cose portano armati i la-
bri, le lingue, i denti et i ventri, ma non le borse. Ma di ciò sia
detto abastanza, perché sia bene che passiamo da questa de i
cibi alla geberica, cioè alla cucina dell’alchimia, la quale non
consuma manco facultà che la gola.

25
Cfr. CELSO, De medic., I, 2.
26
Cfr. EF 5:18.
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90.
DELLA ALCHIMIA

L’arte dell’alchimia, o belletto, o persecuzione ch’ella si dee


chiamare della natura, certo ch’ella è una notabile e non pu-
nita truffa, la vanità della quale facilmente si conosce in que-
sto, ch’ella promette le cose che la natura in modo alcuno non
può patire né arrivare, benché nessuna arte non possa avanzar
la natura, ma imitarla sì, et andarle appresso a lunghi passi, es-
sendo molto più forte la possanza della natura che dell’arte.
Ma l’alchimia

Arte sospetta a i buoni, et in odio a molti


odiar fa ancor tutti gli amici suoi,
sì chiaramente assai bugiardi sono,
ch’ingannan se medesimi, e gli altri insieme1.

Mentre che si sforzano di trasmutar le specie delle cose e si cre-


dono di fabricare, come essi dicono, una certa benedetta pietra
de filosofi con la quale a uso di Mida tutti i corpi toccati subito di-
ventino oro et argento, s’ingegnano ancora di far descendere
dall’alto et inaccessibil cielo una quinta essenza, co’l mezzo della
quale a noi promettono non solo più ricchezze che non ebbe
mai Creso, ma ancora cacciata la vecchiezza una giovanezza e sa-
nità perpetua, e quasi ch’io non dissi immortalità2.

1
AUGUR.,
Chrysop., II, 566-568; 365.
2
La pietra filosofale, secondo la tradizione alchemica, era la pietra che consenti-
va all’uomo di trasformare, così come avviene in natura, la materia indifferenzia-
ta in oro mediante un duplice processo di purificazione e di degradazione. La
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 444

444 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Né però ancor fra tanti alcun si trova,


che con gli effetti, al ver fede acquistando
le maraviglie et i miracoli adegue3.

Ma con alcuni esperimenti di medicare, di cerosa4, di por-


porina, di stibio5 e di sapone, e simili colori, belletti et incro-
stazioni di donne e, come le Sacre Lettere gli sogliono doman-
dare, onguenti meretricii, raccolgono su dinari per mettere in
ordine la bottega geberica, onde finalmente è venuto in pro-
verbio: «Ogni alchimista, o medico, o saponista, arricchisce di
parole l’orecchie de gli uomini corrivi per votargli le borse di
dinari»6. E da quegli domanda[no] dramme, a i quali esso pro-
mette ricchezze: di qui manifestamente si conosce che questa
arte è nulla, ma ciancie grandi e vane invenzioni di mente paz-
za. Ritrovano però uomini desiderosissimi di tanta felicità, a i
quali con mirabile ingegno promettono di far guadagnare
maggiori ricchezze in idrargirio7 che la natura non può dargli
in oro, e benché già tre e quattro volte gli abbiano ingannati,
sempre con nuove malie di nuovo i poco accorti truffano e con
questa mostruosa barreria8 gli sforzano a soffiar co i mantici
nelle fornaci9. E non è alcuna più dolce pazzia che credere che
il fisso si possa far volatile, e’l volatile affisare; e così i carboni,
il solfo, lo sterco, i veleni e l’urina, et ogni dura pena è a voi
più dolce che’l melle, fin che dopo l’aver consumato e volto in
cenere tutti i poderi, le mercanzie et i patrimonii, mentre che

pietra filosofale si ottiene per unione della materia prima, vergine e oscura, con
il principio attivo del logos maschile. La pietra è un microcosmo simile all’uomo,
i suoi logoi seminali sono spiriti, semi, quintessenze della materia. Essa contiene
in sé il principio di ogni purificazione e serve tanto all’anima quanto al corpo. So-
lo colui che è puro può compiere la grande trasformazione, ottenere la pietra fi-
losofale.
3
AUGUR., Chrysop., II, 579-581.
4
Il termine latino è «cerussa», ossia «biacca», sostanza bianca a base di piombo
usata come vernice e cosmetico, oltre che come medicinale. Il termine si trova in
PLAUTO, Mostell., 258 e OVID., Medic. fac., 73.
5
Dal latino «stibium», termine scientifico del solfuro d’antimonio o stibina. Alcu-
ni dei suoi composti sono usati in medicina o nell’industria cosmetica (si veda,
per es., PLIN., Nat. hist., XXXIII, 33, 101 e XXXIV, 50, 169).
6
Cfr. HUTTEN, Epist. obscur. viror., p. 68.
7
Si tratta di mercurio ricavato dal cinabro. Il termine «hydrargyrus» si trova in
PLIN., Nat. hist., XXXIII, 20, 64 e 41, 123-125.
8
Il testo latino reca: «impostura».
9
Cfr. ERASMO, Moriae enc., XXXIX.
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90. DELLA ALCHIMIA 445

dolcemente si vanno promettendo i premi della lunga fatica, i


parti che debbano nascere d’oro e sanità perpetua con giova-
nezza, avendo ingiottito per molto tempo fino a le spese, allo-
ra cominciano a conoscersi vecchi, carchi d’anni, vestiti di pan-
ni grossi, morti di fame, sempre solforenti e fra carboni affu-
micati, e paralitici per lo continuo maneggiar l’argento vivo,
ricchi solo di colatura di naso, ma nel resto tanto miseri che
per tre soldi venderebbono l’anima loro. E quella metamorfo-
si che volevano fare ne i metalli, la provano in loro medesimi:
fatti già di alchimisti cacochimici10, di medici mendichi, di sa-
ponisti cauponisti11 e favola del popolo, sciocchezza manifesta
e giuoco del vulgo; et essi che rifiutarono di viver giovani in
mediocrità, dati in preda tutto il tempo della vita loro a gli in-
ganni de gli alchimisti, fatti già vecchi in gran povertà, sono
sforzati andar mendicando e, ritrovandosi in tanta calamità, in
cambio di favore e di misericordia, riportano disprezzo e riso,
e spesse volte costretti dalla povertà tralignano alle arti cattive
a corrompere la moneta, et altri falsificamenti. Perciò questa
arte non pure fu scacciata con le leggi dalla Republica romana,
ma ancora per le ordinazioni dei sacri canoni fu proibita in
tutta la cristiana Chiesa. Che se ancora oggidì tutti quegli che
senza singolar concessione del principe attendono all’alchimia
fossero cacciati del regno e delle provincie, aggiungendovi an-
cora la confiscazione de beni e la pena del corpo, certo non
avremmo tanti dinari falsi co i quali oggi s’inganna ogniuno
con danno grande della republica. Per questa cagione credo
che già Amasi re d’Egitto12 fece una legge, la quale ordinava
che ciascuno fosse sforzato a rendere conto a un magistrato
deputato a ciò, che artificio lo manteneva, et a chi nol faceva
era pena la morte. Io potrei dire ancora molte cose di questa
arte, a me però non molto inimica, s’io non avessi giurato, co-
me far sogliono quegli che si consacrano a i misteri, di tacer-
le13. Et è questo silenzio tanto costantissimamente e religiosa-

10
Il termine «cacochymia» (dal greco kakocumiva) indica, nel linguaggio medico
antico, uno stato di alterazione degli umori dell’organismo e, più in generale, de-
nota una condizione di debolezza e di malattia.
11
Il testo latino reca: «ex saponistis cauponistae», ossia «fabbricatori di sapone e
frequentatori di bettole».
12
Amasi regnò in Egitto dal 569 al 526 a.C., cercando l’appoggio dei Greci contro
la minaccia persiana.
13
Per Agrippa e l’alchimia, si veda De occ. phil., in particolare I, 14, pp. 112-114.
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446 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

mente osservato da gli antichi filosofi e scrittori14, che non si ri-


trovava in parte alcuna filosofo di provata auttorità o scrittor
fedele che in verun loco, pur con una sola parola, abbia fatto
menzione di questa arte, la qual cosa ha indotto molti a crede-
re che tutti i libri di questa arte siano stati finti da poco tempo
in qua, alla quale opinione acquista gran fede la oscura turba
et i nomi poco celebrati da gli altri de gli auttori suoi, Geber,
Morieno e Gilgilide15 et altri simili, et anco i vocaboli goffi del-
le parole che usano la viltà delle sentenze e’l perverso modo di
filosofare. Sono però alcuni che vogliono credere che la pelle
del monton d’oro fosse un libro alchimistico, scritto secondo
costume de gli antichi in su una pelle, nel quale si conteneva la
scienza di far l’oro, come si legge che Diocleziano, avendone
fatto cercare con gran diligenza, fece abbrusciare tutti i libri di
questa sorte ch’erano appresso gli Egizzi, i quali dicesi che fu-
rono dottissimi di questa arte, acciocché raccogliendo ricchez-
ze e confidandoli nella abondanza dell’oro gli Egizzii non aves-
sero alcuna volta ardire di movere guerra a Romani, e che d’al-
lora inanzi questa arte per publica ordinazione di Cesare fu
sempre reputata malvagia e proibita16. Ma troppo longo sareb-

14
Cfr. FIRM. MAT., Math., VII, 1, 1-3.
15
‘Geber’ è il nome con il quale ci è stato tramandato il testo che rappresenta l’e-
spressione più ampia e significativa della dottrina alchemica del XII sec., vale a
dire la Summa perfectionis magisterii. Per lungo tempo considerata la traduzione la-
tina di un testo originale arabo, in realtà, come ormai dimostrato dagli studi più
recenti, la Summa perfectionis è stata scritta direttamente in latino nella seconda
metà del ’200 dal francescano italiano Paolo di Taranto il quale utilizza lo pseu-
donimo di Geber, e per questo motivo confuso fino ai primi anni del secolo scor-
so con Ja–bir ibn Hayya–n (ca.721-ca.815), autore di importanti scritti alchemici
arabi; al monaco arabo Morienus (Mariano), discepolo di Stefano di Alessandria,
viene attribuita un’opera alchemica dal titolo Liber Morieni de compositione alchi-
miae, più noto come Testamento, generalmente considerato il primo testo d’alchi-
mia introdotto nell’Occidente latino attraverso la traduzione nel 1144 di Roberto
di Chester, noto per altre traduzioni scientifiche e per aver reso in latino il Cora-
no; Gilgilide è un personaggio non identificato.
16
Cfr. EUSEB., Hist. eccl., VIII, 2, 4; LATT., Liber de mort. persecut., XIII, 1. Nel 303 l’im-
peratore Gaio Aurelio Valerio Diocleziano (ca.243-305) emanò un editto che or-
dinava la demolizione delle chiese e la distruzione dei libri di magia, in particola-
re di quelli contenenti le dottrine manichee penetrate dalla Persia nell’impero,
già oggetto di un editto di proscrizione emanato ad Alessandria nel 297. A esso
seguirono altri tre editti, il primo dei quali, di incerta datazione, puniva con l’ar-
resto non solo i capi delle Chiese, ma anche tutti i chierici; il successivo commi-
nava gravi torture per i renitenti, e l’ultimo, della primavera del 304, impose l’ob-
bligo generale di sacrificio, pena la morte.
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90. DELLA ALCHIMIA 447

be raccontare tutti i pazzi misteri e vani enigmi di questa arte


del leon verde, del cervo fugitivo, dell’aquila volante, del pazzo
saltante, del drago che divora la sua coda, della botta enfiata,
della testa del corvo, di quel nero più nero del nero, del sigillo
d’Ermete, del fango della pazzia (io doveva dir sapienza) e di
simili infinite ciancie, e finalmente di quello unico e solo oltra
il quale non ve n’ha alcuno altro, ma nondimeno si trova in
ogni loco, cioè benedetto subietto della pietra de filosofi (io
sono stato quasi per lasciarmi uscir di bocca il nome, onde sa-
rei stato sacrilego rompendo il giuramento) ma io lo dirò per
circuito di parole, un poco più oscuro, sì che non lo intende-
ranno se non i figliuoli dell’arte e quei che sanno i misteri
suoi. Ella è una cosa che ha sostanza né troppo infocata, né in
tutto di terra, né semplicemente d’acqua, né acutissima, né
rintuzzatissima qualità, ma mediocre e leggiera a toccare, et in
un certo modo molle, o almeno non dura, né aspra, anzi pres-
so che dolce al gusto, soave all’odorato, grata alla vista, piace-
vole e gioconda all’udire, ampia al pensare. Io non posso dirne
più oltra, e sono però cose maggiori di queste, ma io giudico
che questa arte sia specialmente degna di quello onore (per la
familiarità che io ho con seco) del quale Tucidide diffinisce
una donna da bene quando dice ch’ella è ottima allora che
della laude o vituperio di lei si ragiona poco17. Io dirò solo que-
sta parola: che gli alchimisti sono i più ribaldi di tutti gli altri
uomini perché comandando Iddio che si debba mangiare il
pane con sudor del volto18, e dicendo altrove per bocca del
Profeta: «Perché tu viverai delle fatiche delle tue mani, per
questo sarai beato et avrai bene»19, costoro sprezzando il co-
mandamento divino e la promessa beatitudine, lungi dalla fati-
ca e, come si suol dire, nell’opera delle donne e nel giuoco de
fanciulli, bravano di fare i monti d’oro. Io non niego che da
questa arte non abbiano avuto origine molti sopra modo nobi-
li artificii. Di qui sono venuti i temperamenti dell’azurro, del
cinabro20, del minio21, della porpora e di quello che chiamano

17
Il luogo non si trova in Tucidide.
18
Cfr. GEN 3:19.
19
SAL 128:2.
20
Solfuro di mercurio di colore rosso vermiglio.
21
Termine che fin dall’antichità, e ancora nel Medioevo e nel Rinascimento, in-
dica, con qualche oscillazione, diversi composti di colore rosso vivo, utilizzati, per
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448 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

oro musivo22, e d’altri colori; da questa arte riconosciamo l’ot-


tone e le misture di tutti i metalli, le composizioni, gli assaggi
et i partimenti; l’invenzione della bombarda, spaventoso in-
stromento23, è suo; da lei è venuta l’arte nobilissima del vetro,
della quale un certo Teofilo ha scritto un bellissimo libro24.
Narra nondimeno Plinio ch’al tempo di Tiberio Cesare fu ri-
trovato un temperamento del vetro co’l quale si faceva molle e
piegava ad ogni guisa, ma che l’essercizio di quello fu spento
da Tiberio25, et anco che l’artefice istesso d’una sì grande in-
dustria (se si dà fide a Isiodoro26) fu fatto morire, e ciò si fece
acciocché l’oro non avvilisse per lo vetro e non si togliessero i
premi loro all’argento et al rame. Ma di ciò sia detto abastanza.

es., per ornare gli antichi codici, donde l’arte denominata miniatura. Per il mi-
nerale denominato minio, si veda, per es., PLIN., Nat. hist., XXXIII, 36, 111-124.
22
Bisolfuro di stagno (detto anche ‘giallo di stagno’ e, correntemente, ‘porpori-
na’), che si presenta in scaglie esagonali e polvere di colore giallo dorato. Fu lar-
gamente impiegato fino a tutto il XV sec. nelle miniature quale surrogato dell’o-
ro e sulle pergamene per ottenere scritture di aspetto aureo.
23
Sull’invenzione della bombarda, si veda POLID. VIRG., De invent. rer., II, 11 e III,
18.
24
Teofilo, pseudonimo di Roger di Helmarshausen, monaco benedettino dell’ab-
bazia di Stavelot, è l’autore della Schedula diversarum artium, un manuale latino di
ricette alchemiche in 3 libri, databile all’incirca al 1100.
25
Cfr. PLIN., Nat. hist., XXXVI, 66, 195.
26
Cfr. ISID., Etymol., XVI, 16, 6.
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91.
DELLA RAGIONE E DELLE LEGGI

Restaci ora a ragionare della scienza di ragione, la quale si


vanta di esser sola che discernere sappia tra il vero e’l falso, il
giusto e l’ingiusto, l’onesto e’l disonesto, della qual facoltà og-
gidì sono principi il papa e l’imperatore, i quali si vantano d’a-
ver riposto tutte le ragioni nello scrigno del suo petto, a i quali
la volontà sola serve per ragione, con l’arbitrio della quale si
presumono di giudicare e reggere tutte le scienze, l’arti, le
scritture, le opinioni e tutte quante l’opere de gli uomini. Per
questo fermamente comanda papa Leone a tutti i fedeli de
Cristo che nessuno abbia ardire nella Chiesa di Dio giudicare
cosa alcuna, né alcuno giustificare, né disputare cosa veruna se
non con l’auttorità de i santi concili, de i canoni e delle decre-
tali, delle quali cose è principe il papa; et anco che non possia-
mo usare determinazione d’uomini dottissimi, né di qual si vo-
glia santissimo teologo se non in quanto il papa lo permette e
le dà auttorità co suoi canoni. Et in altro loco ancora il canone
proibisce che non sia ricevuto altro volume né altro libro per li
teologi (anzi dice egli per tutto il mondo) se non quello che
sarà approvato per la Chiesa romana co i canoni del papa. Si-
mil ragione pretende avere l’imperatore nella filosofia, nella
medicina e nelle altre scienze, non concedendo punto d’aut-
torità a disciplina alcuna se non quanto gli vien concesso dalla
prudenza della sua ragione, appresso la quale1 se si fa parago-
ne di quante scienze et arti si ritrovano, tutte sono vili e poco
utili. Però disse Ulpiano: «La legge è re di tutte le umane e di-

1
Il testo latino ripete: «ut ait», qui omesso.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 450

450 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

vine cose»2, la virtù della quale è, come dice Modestino, co-


mandare, concedere, punire, vietare, delle quali dignità non si
ritrova alcuno ufficio maggiore3. E Pomponio nelle Leggi diffi-
nisce ch’ella è dono et invenzione d’Iddio, e dogma di tutti i sa-
vi, perciocché quegli antichi facitori delle leggi, per acquistarsi
auttorità con le loro ordinazioni appresso il vulgo ignorante,
finsero che le facevano qualmente erano ammaestrati da gli
dèi. Così diede a credere Osiri a gli Egizzii d’averle avute da
Mercurio; Zoroaste a i Battriani e Persi da Oromaso; Charmon-
da a Cartaginesi da Saturno; Solone a gli Ateniesi da Minerva;
Zantraste a gli Arimaspi dal buon nume; Zalmoxide a gli Sciti
da Vesta; Minos a Cretesi da Giove; Licurgo a Lacedemoni da
Apolline; Numa Pompilio a Romani dalla ninfa Egeria4. Ora ve-
dete voi come questa scienza di ragione si usurpa imperio sopra
tutte l’altre et in quelle essercita la sua tirannia, e qualmente
mettendosi inanzi all’altre discipline come primogenita de gli
dèi, tutte le ha per vili e vane, bench’ella tutta non sia composta
d’altro che di caduche et infirmissime invenzioni et opinioni
d’uomini, le quali sono cose più debili di tutte l’altre; et ella si
cambia a ogni mutazione di tempo, di Stato e di principe. Que-
sta fu che ebbe la sua prima origine del peccato del nostro pri-
mo padre, il quale fu cagione di tutti i nostri mali, del quale
venne la prima legge della natura corrotta che si chiama ragion
naturale, di cui sono tutte quelle nobili ordinazioni: egli è leci-
to riparare la violenza con la forza; a chi ti rompe la fede rom-
pigliele tu parimente; non è inganno ingannare chi t’inganna;
un truffatore non è tenuto all’altro in cosa alcuna; la colpa si
può compensar con la colpa; i malfattori non debbono godere
di giustizia, né di fede alcuna; ingiuria non si fa a chi la vuole;
quegli che traficano insieme si possono ingannare; la cosa vale
tanto quanto ella si può vendere; a se medesimo è lecito prove-
dere con danno altrui; nessuno è obligato all’impossibile; quan-
do necessario sia che si confonda l’uno di noi, io eleggerò più
tosto che tu sia confuso che io; e molte altre cose simili che poi
sono state scritte fra le leggi. Finalmente la legge della natura è
che non s’abbia fame, non sete, né freddo, né consumarsi nelle
vigilie e nelle fatiche, la quale cacciando ogni penitenza della
religione, e tutte l’opere della penitenza, s’ha eletto il piacere

2
Cfr. REUCHL., De verbo mirif., II, C8r.
3
Cfr. Dig., I, 3, 7.
4
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 5; REUCHL., De verbo mirif., I, A8r.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 451

91. DELLA RAGIONE E DELLE LEGGI 451

dell’Epicuro per suprema beatitudine. Di qui è venuta poi la ra-


gione delle genti, dalla quale sono derivate le guerre, le ucci-
sioni, le servitù, nati e distinti i dominii delle cose. Appresso
questa ne venne la ragion civile, overo popolare, la quale cia-
scun popolo fece proprio a se stesso, onde ne nacquero poi tan-
ti litigii fra gli uomini che col testimonio proprio delle istesse
leggi, si sono fatti più i negocii che non sono i vocaboli delle co-
se. Perciocché essendo gli uomini inclinati alle discordie, ne-
cessario fu, come essi dicono, il publicare la giustizia che s’aves-
se a osservare per mezzo delle leggi, acciocché in questo modo
si raffrenasse l’ardire de i cattivi e fra gli scelerati la innocenza
fosse sicura et i boni riposatamente vivessero fra i cattivi. E que-
sti sono quei tanto nobili principii della ragione, nella quale in-
finiti furono quasi quei che fecero le leggi, il primo de i quali fu
Mosè che scrisse le leggi a i Giudei in quel medesimo tempo
che Cecrope le diede a gli Egizzii. Feroneo dopo questi fu il pri-
mo che diede le leggi a i Greci5, appresso lui Mercurio Trisme-
gisto le diede a gli Egizzii, dapoi Dracone e Solone a gli Atenie-
si, Licurgo a Lacedemoni, e Palamede fu il primo che facesse le
leggi della guerra a giudicar l’essercito. Romolo fu il primo che
diede le leggi a Romani, le quali furono chiamate Curiate6. Do-
po il quale Numa Pompilio compose le leggi delle religioni, e
gli altri re de Romani per successione fecero le loro leggi, le
quali furono poi scritte tutte ne i libri di Papirio, onde si
chiamò la ragione Papiriana7. Dopo questi uscì la ragione delle
Dodeci Tavole, la ragion Flaviana, la ragione Eliana, la legge
Ortensia e la ragione Onoraria del pretore. Furono fatte anco-
ra le ordinazioni della plebe, i decreti del senato, la ragione de
i magistrati, della usanza e finalmente tutta l’auttorità di ordi-
nare ragione: io non parlo di quegli infiniti giurisconsulti, buo-
na parte de i quali sono scritti nella legge seconda de origine iu-
ris8. Quegli che cercarono di ridurre la ragion civile in volume,
il primo fu Gneo Pompeio e poi Gaio Cesare; ma l’uno e l’altro

5
Cfr. EROD., Hist., II, 111.
6
La lex curiata era la legge approvata dai comizi curiati, ossia le assemblee del po-
polo suddiviso in curie per approvare l’investitura di un magistrato, consultare gli
auspici e confermare le adozioni. Si veda, per es., CIC., De re pub., II, 13, 25.
7
Il testo latino reca: «inde ius civile papyrianum nomen sumpsit». Al periodo dei re
sarebbero appartenute le cosiddette leges regiae che, raccolte da un Sesto Papirio,
avrebbero poi costituito lo ius Papirianum. Secondo un’altra versione lo ius Papiria-
num sarebbe stato composto dopo la cacciata dei re dal Pontifex Maximus Caio Papirio.
8
Cfr. Dig., I, 2, 25-33.
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452 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

sopragiunto dalle guerre civili e da immatura morte non le


puote ridurre a perfezzione9. Costantino finalmente rinovò
tutte quelle leggi antiche e Teodosio minore le ridusse in un li-
bro chiamato dal nome suo Teodosiano; ultimamente Giusti-
niano compose il codice ch’oggidì è in uso10. Tutta l’auttorità
della ragion civile è nel popolo e ne i principi, et altro non è
ragion civile se non quel che gli uomini vogliono di comun
consentimento. Però dice Giuliano che le leggi per altro non
ci legano se non perché elle sono approvate dal giudicio del
popolo, il quale di comune consentimento trasferì tutto l’im-
perio e la possanza nel principe, onde s’alcuna cosa sarà piac-
ciuta al popolo et al principe, allora o per usanza, o per consti-
tuzione ha vigore di legge ancora che paresse errore o falsità,
perché l’error comune fa ragione e la cosa giudicata verità11. Il
che ne mostrò Ulpiano in queste parole, cioè che colui si dee
tor per libero benché si sia sentenziato di lui, e che in effetto
sia libertino, perché la cosa giudicata si piglia per verità. Il me-
desimo disse d’un certo Barbario Filippo, il quale essendo ser-
vo fugitivo, a Roma domandò la pretura, la quale administrò e,
finalmente conosciuto, fu sentenziato che non si mutasse cosa
alcuna di quelle cose che egli aveva fatto essendo servo con la
coperta di così gran dignità12. Et altrove un vecchio contadino
per auttorità dell’imperatore è talmente onorato che il giuri-
sconsulto vuol che s’argomente dalle parole di quello13. Dice
anco Paolo, dottissimo in ragione14, ch’oggi, per l’uso de gli
imperatori, se un candeliere d’argento è ridotto in argento,
ch’egli s’intende argento e non mobile, perché l’errore fa ra-
gione15. Il medesimo nel titolo delle leggi e senatus consulti dice

9
Per la morte improvvisa di Giulio Cesare, si veda SVET., De vita Caes., I, 44.
10
Il Codex Theodosianus (438/439), promulgato dall’imperatore Teodosio II (408-
450), è la prima raccolta ufficiale di costituzioni imperiali. Il Codice è diviso in 16
libri, ogni libro in titoli e le costituzioni sono in ordine cronologico. Esso ebbe vi-
gore in Oriente, ma inviato a Valentiniano III Imperatore d’Occidente, viene fi-
nalmente approvato anche dal Senato di Roma. Resterà in vigore in Oriente sino
al primo Codex Justinianus (529).
11
Cfr. Dig., I, 4, 1.
12
Ivi, I, 5, 25.
13
Ivi, I, 14, 13.
14
Il testo latino reca: «Romanorum iurisconsultissimus». Si tratta del giurista ro-
mano Giulio Paolo (III sec.), autore, oltre che di commenti a testi giuridici, di un
fortunato manuale intitolato Sententiae ad filium.
15
Cfr. REUCHL., De verbo mirif., I, A4r; Dig., XXXIII, 10, 3, 5. Il testo latino reca:
«quod error ius facit»: si veda in proposito la nota 14, p. 40.
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91. DELLA RAGIONE E DELLE LEGGI 453

che non si può render ragione di tutte le cose che sono state
ordinate da nostri antichi16. Di qui conosciamo dunque che
tutta la scienza di ragion civile pende dalla sola opinione e vo-
lontà de gli uomini, senza altra ragione che sforzi a così essere
che o la onestà de i costumi, o la comodità del vivere, o l’aut-
torità del principe, o la forza dell’armi, la quale se pur si ritro-
va essere conservatrice de i buoni e vendicatrice de i cattivi, è
disciplina buona; se altramente, è cosa pessima per le malva-
gità che si fanno quando il magistrato o il principe non le cura,
le comporta, o le approva. Anzi era opinione di Demonatte
tutte le leggi essere disutili e superflue, sì come quelle che non
sono fatte né per i buoni né per i cattivi; conciossia che quegli
non hanno bisogno di leggi e questi non si fanno punto mi-
gliori per quelle17. Oltra di ciò confessa Catone appresso di Li-
vio ch’a fatica si può fare una legge la quale sia commoda a
ogniuno e nella quale spessissime volte non accada che l’e-
quità combatta col rigore della ragione18. Aristotele anch’egli,
diffinendo la equità19, la domanda correzzione della legge giu-
sta, in quella parte dove ella manca, per essere fatta general-
mente20. Non si conosce egli dunque abastanza per questo so-
lo: che tutta la forza della ragione e della giustizia non pende
tanto dalle leggi, quanto dalla bontà et equità del giudice.

16
Cfr. Dig., I, 3, 20.
17
Cfr. LUCIANO, Demon., 59.
18
Cfr. LIV., Ab Urbe cond., XXXIV, 4, 5.
19
Il testo latino qui aggiunge: «in ethicis suis», qui mancante.
20
Cfr. ARIST., Eth. nicom., 1137b.
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92.
DELLA RAGION CANONICA

Dalla ragion civile derivò la ragion canonica, overo pontifi-


cia, la quale a molti potrebbe parer sacrosantissima, tanto in-
gegnosamente sotto color di pietà adombra ella i precetti della
sua avarizia et i modi di rubbare. Ancora che pochissime cose
ordinate vi siano appartenenti alla pietà, alla religione, al culto
di Dio et alle solennità de Sacramenti, io taccio d’alcune che vi
sono contrarie e repugnanti alla parola di Dio. Tutte l’altre
non sono che contese, litigi, superbia, pompa, trafichi di gua-
dagni e d’avanzi, et ordinazioni di pontefici romani, a i quali
non bastano anco i canoni che furono già composti da santi
padri se di continuo a quegli non accumulano nuovi decreti,
paglie1, estravaganti2, dichiarazione e regole di cancellaria, di

1
Il termine latino paleae sta a indicare i testi non inseriti nel Decretum Gratiani, os-
sia la collezione sistematica e completa delle leggi ecclesiastiche intitolata Concor-
dia discordantium canonum, composta tra il 1139 e il 1142 dal monaco camaldolese
Graziano. Come si evince dal titolo, la raccolta doveva rappresentare, nelle inten-
zioni del suo autore, lo strumento offerto ai canonisti per risolvere le contraddi-
zioni tra i canoni e conciliare le differenti dottrine. Poiché in origine l’opera di
Graziano non conteneva nulla sui rescripta, la delega dell’autorità, la procedura
giudiziaria, l’effetto delle sentenze in appello, i benefici, la procedura criminale
e il matrimonio, i decretisti pensarono di rimediare a queste lacune aggiungen-
dovi alcuni testi detti appunto paleae decreti.
2
Nel Medioevo si definivano extravagantes i testi legislativi restanti fuori di una
raccolta ufficiale, pur potendo essere in relazione con essa. L’espressione si diffu-
se soprattutto nel diritto canonico, e si chiamarono extravagantes le decretali che,
venute dopo il Decretum Gratiani, si aggiungevano in appendice ai manoscritti di
questo (extra decretum Gratiani).
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456 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

maniera che non s’è mai posto fine né misura a compor cano-
ni, la quale è sola ambizione e desiderio de pontefici romani,
cioè di far nuovi canoni, l’arroganza de i quali è tanto andata
crescendo che hanno comandato a gli angeli del cielo e s’han-
no pensato di far rapina e portar preda dall’inferno e mettere
mano fino all’anime de morti. E nella legge di Dio ancora tal-
volta hanno adoprato la tirannide loro, interpretando, dichia-
rando e disputando acciocché punto non mancasse, né levar si
potesse, alla grandezza della possanza sua. Non è egli vero che
papa Clemente nella bolla, la quale oggidì tuttavia si conserva
in Vienna, in Lemongies et in Poitiers col piombo ne gli scri-
gni de privilegi3, comandò a gli angeli del cielo che portassero
a i gaudii di vita eterna libera dalle pene del purgatorio l’ani-
ma di chi usa in pellegrinaggio a Roma per le indulgenze e
quivi si muore? Et appresso questo dice: «Noi non vogliamo
ch’a patto alcuno ella vada alle pene dell’inferno», concede
ancora a i segnati della croce ch’a piacer loro possano cavar di
purgatorio tre o quattro anime che più gli pare, la quale erro-
nea et intolerabile temerità, per non dire eresia, la scuola di
Parigi allora publicamente riprese e condannò. Ma per aventu-
ra oggidì si pentono di non avere interpretato quello iperboli-
co zelo di Clemente con alcuna pia invenzione, acciocché la
cosa più tosto valesse che perisse, poiché per loro affermare o
negare nulla si muta del fatto, e con l’auttorità del sommo
pontefice, i canoni e decreti del quale hanno talmente astretto
tutta la teologia che nessuno teologo ancora che contenziosis-
simo non ardisce concludere, non che credere o disputare al-
cuna cosa diversa da i canoni di pontefici senza protesto e li-
cenza, sì come scrive Marziale di Ruffo.

Nulla Ruffo suol far senza licenza:


se ride, piange, tace, o se ragiona.
Se cena, se domanda, afferma, o nega,
ci bisogna licenza, o che sta muto4.

Oltra di questo da i canoni e decreti loro abbiamo imparato

3
Possibile allusione alla bolla di papa Clemente V Universis Christifidelibus (Poitiers
1307), nella quale veniva affrontato il tema dell’importanza delle indulgenze.
4
MARZ., Epigr., I, 68, qui liberamente parafrasato da Agrippa.
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92. DELLA RAGION CANONICA 457

che’l patrimonio di Cristo son regni, castella, donazioni, fon-


dazioni, livelli, ricchezze e possessioni, e l’imperio e’l regno es-
sere de i sacerdoti di Cristo e de i prelati della Chiesa, e la spa-
da di Cristo essere la giurisdizzione e la possanza temporale, e
la pietra fondamento della Chiesa essere la persona del papa; i
vescovi non solo essere ministri, ma capi ancora della Chiesa,
et i beni della Chiesa essere non pure la dottrina evangelica,
l’ardor della fede, il disprezzo del mondo, ma le gabelle, le de-
cime, le oblazioni, le collette, la porpora, le mitere, l’oro, l’ar-
gento, le gioie, le possessioni et i dinari; l’auttorità del papa es-
sere il guerreggiare, romper leghe, disfar giuramenti, assolvere
dall’ubidienza e della casa dell’orazione farne spelonca di la-
dri. E così il papa può deponere un vescovo senza causa, che
può dare la cosa d’altri, che non può commettere simonia, che
può dispensare contra il voto, contra il giuramento, contra la
ragion naturale, e nessuno gli può dire: «Perché fai tu que-
sto?», e che possa ancora, come essi dicono, per alcuna causa
grave dispensare contra tutto il Testamento Nuovo, e non pure
la terza parte, ma più oltra delle anime fedeli confinare all’in-
ferno. Che l’ufficio de vescovi non sia più come era già, predi-
care la parola di Dio, ma con guanciate cresimare i fanciulli,
conferire ordini, dedicare chiese, battezar campane, consecra-
re altari e calici, benedir vestimenti et imagini, ma quegli ch’al-
zano un poco più l’ingegno sopra queste cose, lasciandone la
cura a certi vescovi che non hanno altro che il titolo, essi van-
no ambasciatori a i re, hanno in guardia gli oratorii loro o ten-
gono compagnia alle reine, iscusati per grande et importante
cagione di non servire a Dio nelle chiese pur che magnifica-
mente onorino il re nelle corti. Da i medesimi fonti sono deri-
vate queste cautele per mezzo delle quali oggidì senza simonia
si comprano e si vendono i vescovati et i beneficii, e quanti
mercati e fiere si vanno in grazie, in concessioni, in indulgen-
ze, in dispense e simili modi di rapine, con le quali s’è fatto il
prezio ancora nelle remissioni de peccati fatte graziosamente
da Dio, e s’è trovato modo di guadagnare nelle pene dell’in-
ferno. Oltra ciò, da questa ragione si riconosce quella falsa do-
nazion di Costantino5 benché in effetto, e col testimonio della

5
Con la pubblicazione della declamazione intitolata De falso credita et ementita Con-
stantini donatione (1440), il filologo umanista Lorenzo Valla (1405-1457) dimo-
strava che la famosa Donazione di Costantino (Constitutum Constantini), su cui la
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458 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

parola di Dio, né Cesare può lasciare il suo, né il clero si dee


usurpare le cose che sono di Cesare. Ma delle infinite leggi
d’ambizione, di superbia e di tirannia, io ve ne racconterò qui
sola una particella, le quali acquisteranno fede a quel ch’io
v’ho detto. Considerate dunque, se vi pare, nelle decretali an-
tiche6 il c. significasti e’l c. venerabilem de elect., il c. solite de maio.
et obed., il c. cum olim de privileg., il c. si summus pontifex de sent.
exc., il c. inter caetera de offi. iud. ord 7. Guardate poi nel VI delle
decretali composto da quel tiranno de papi Bonifacio VIII8 e
vedete ciò che dice nel prologo e nel c. I de immunitate ecclesia-
rum 9, né cede a questi quella clemenza arrogantissima pastora-
lis10 de sen. et re iud. con l’estravagante di Giovanni XXII, la qua-
le incomincia: «Ecclesiae Romanae», et un’altra del medesimo
sopra le nazioni. E l’estravagante di Bonifacio VIII Unam sanc-
tam11. Mi si fanno ancora incontra nella compilazione di Gra-
ziano12 il c. si cuius dis. XIV, il c. si omnis dis. XVIII, il c. sic om-

Chiesa fondava le proprie pretese temporali, era un falso. Comparsa per la prima
volta intorno alla metà dell’VIII sec. d.C., si diceva che la Donazione era stata ver-
gata dall’imperatore Costantino in persona 400 anni prima e da lui presentata al
papa Silvestro I, primo vescovo imperiale di Roma (314-335). Ma già nel 1433 Ni-
colò Cusano, pubblicò un commento critico sulla Donazione nella sua opera De
concordantia catholica.
6
Con il nome compilationes antiquae si indicano alcune raccolte di norme canoni-
che, quasi esclusivamente di decretali, promulgate dopo il Decretum Gratiani, chia-
mate antiquae per distinguerle dalla raccolta delle decretali di Gregorio IX
(1234) che fu detta Nova.
7
Cfr. CORP. IUR. CANON., I, 6, 4; I, 6, 34, I, 33, 6; V, 33, 14; V, 10, 4, I, 31, 15.
8
Le sei collezioni di diritto canonico che vanno sotto il titolo di Corpus juris canoni-
ci comprendevano: il Decretum Gratiani (si veda infra, nota 12), le Decretali di Grego-
rio IX, il Liber Sextus di Bonifacio VIII, le Clementinae o Liber septimus, le Extravagan-
tes Iohannis XXII e le Extravagantes communes.
9
Cfr. CORP. IUR. CANON., III, 49.
10
Il testo latino reca: «neque cedit istis illa Clementina pastoralis», ossia alla lettera
«né cede a questi la celebre pastorale di Clemente». Cfr. CORP. IUR. CANON. II, 11.
11
La famosa bolla Unam sanctam (1307) di Bonifacio VIII teorizzava la dottrina
della subordinazione dell’impero al papato.
12
La raccolta di Graziano è divisa in tre parti: la prima comprende 101 distinctio-
nes, suddivise in canones o capita; la seconda è divisa in 30 causae, ciascuna causa e
suddivisa in quaestiones e queste in canones; la terza si occupa di materia liturgica
ed è denominata de consecratione o Liber de Sacramentis. Il sistema adottato per cita-
re le varie parti è il seguente: per la prima e per la terza si indicano prima il ca-
none (con il numero e con le parole iniziali), e poi la distinzione (dis.), aggiun-
gendo la lettera D; si aggiungono, per la terza parte, le parole de consecratione, per
non confonderla con l’altra; per la seconda parte si citano prima il canone, poi la
causa (c.), e quindi la questione (q.).
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92. DELLA RAGION CANONICA 459

nes, il c. enimvero, il c. in memoriam, il c. si Romanorum dis. XIX,


il c. omnes dis. XXII, il c. tibi domino dis. LX, il c. Constantinus
dis. XCVI, il c. quando dis. LXXXVI con la chiosa sopra di quel-
lo, il c. si Papa dis. LX. Appresso questi vanno similmente il c.
cuncta IX q. 3, il c. conquaestus XV q. 6, il c. authoritatem XVII q.
4, il c. nemini XXI q. 5, il c. sunt qui XXIII q. 5, [il c.] omnium et
q. 8, il c. omni XXX q. 1, [il] c. omnia. Ora chi diligentemente
considererà questi canoni et altri simili, conoscerà come sono
fatti quei grandi, mirabili et ascosi misterii, li quali i pontefici
romani fruttificano ne suoi canoni, rivoltando ancora quelle
cose che altrove sono dette nelle Scritture Sacre e talora con-
trafacendole e con quelle finzioni loro simulandole et acco-
modandole: di qui son nate quelle ch’essi chiamano concor-
danze della Bibbia e de i canoni. Con questi vanno per ordine
tanti titoli di rapine de i pallii, delle indulgenze, delle bolle, de
confessionali, de gli indulti, de rescripti, de i testamenti, delle
dispense, dei privilegi, delle elezzioni, delle dignità, delle pre-
bende, delle case religiose, delle chiese sacre, delle immunità,
del tribunale, de i giudicii et altre cose simili, e finalmente tut-
ta quanta la ragion canonica è sopra ogni altra incostantissima
e più mutabile di Proteo e del cameleonte, e più intricato che’l
nodo gordiano non era13. E la istessa cristiana religione, dalla
origine della quale Cristo pose fine alle cerimonie, ora con
questa ragion canonica molte più ne ha che i Giudei non eb-
bero giamai, con la giunta del qual peso il giogo leggiero e soa-
ve di Cristo è diventato gravissimo più che tutti gli altri, e sono
sforzati i cristiani vivere più secondo l’ordine de i canoni che
dell’Evangelio. Tutta la scienza di questa ragione non sta in al-
tro che circa cose caduche, fragili, liquide, vane e negozii mon-
dani, trafichi e contese del vulgo circa morti d’uomini, rubbe-
rie, ladronecci, assassinamenti, fazzioni, conspirazioni, ingiu-
rie e tradimenti. Aggiungesi a questo giuramenti falsi di testi-
moni, falsificamenti di notai, prevaricazioni d’avocati, corruz-
zioni di giudici, ambizioni di consiglieri, rapine di presidenti,
con le quali sono oppresse le vedove, abbattuti i pupilli, confi-
nati i buoni, calcati i poveri, condannati gli innocenti e, come
dice Giovenale:

13
Per Proteo, si veda supra, nota 2, p. 331; per la leggenda del nodo gordiano, si
veda supra, p. 16, nota 6.
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460 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Perdona a i corvi, e le colombe afflige14.

E gli uomini ciechi quelle cose c’hanno creduto di potere


schivare per mezzo delle leggi e de i canoni, vi sono incorsi
dentro da loro medesimi, perché queste leggi e canoni non
vengono da Dio, né sono indirizzate a Dio, ma derivarono dal-
la corrotta natura et ingegno de gli uomini, che le ritrovarono
per guadagno e per avarizia.

14
GIOVEN., Sat., II, 63.
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93.
DELL’ARTE DE GLI AVOCATI

Evvi anco uno altro essercizio di ragione, la quale chiamano


arte placitatoria, overo de gli avocati, come dicono, necessaria
molto, arte antichissima e ripiena d’inganni, malvagiamente
ornata con una coperta persuasoria. La quale altro non è che
sapere addolcire il giudice con persuasione e sapere, ad ogni
voglia sua, usare le ragioni, le chiose o i comenti ritrovati, fin-
gere e rifingere tutte le leggi che li pare, o saperle con ogni
qualità di nascondimenti fuggirle, o prolungare una lite piena
d’inganno, sapere allegare le leggi in modo che l’equità si vol-
ga sottosopra, intricare di maniera l’auttorità de i chiosatori
che’l senso della legge e la mente del legislatore si rivolga al
contrario. In questa arte è di molta importanza il parlare alto,
essere sfacciato, prosontuoso e senza rispetto in litigare. E co-
lui è riputato ottimo avocato il quale più ne alletta a litigare e,
dandogli speranza di vincere, la lite gli mette in giudicio, e gli
va stimolando con empii consigli che uccella alle appellazioni,
ch’è famoso truffatore et auttore de litigii, che con le forze del-
la lingua e con l’abbaiare gridi fuor di misura, che sa porre in-
nanzi una qual si voglia causa all’altra con le malie de giudicii,
et in questo modo far parere vere e giuste le cose dubbie et ini-
que, con l’armi sue medesime sapere atterrare, ruinare et ab-
battere la giustizia, appresso i quali

Giustizia altro non è che merce publica,


e la ragion che venda e compri il giudice1.

1
PETRON., Satyr., XIV.
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462 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Ma quelle cose ancora che non sono in essere, cioè le priva-


zioni et i silenzii, le vendono a prezzo, perciocché sì come nes-
suno di loro parla senza esser pagato, così non tace senza pre-
mio, ad essempio, sì come io credo, di Demostene il quale,
avendo domandato Aristodemo, auttor di favole, quanto egli
avrebbe voluto per rappresentare, e rispondendo lui: «Un ta-
lento», «Ma io», disse Demostene, «molto più ho avuto per-
ch’io tacessi»2. Perciocché la lingua de gli avocati è tanto dan-
nosa che s’ella non è legata con duoni, impossibile è di far sì
che non ti nuoca.

2
Cfr. AUL. GELL., Noct. att., XI, 9, 2.
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94.
DELL’ARTE DEL NOTAIO E DEL PROCURATORE

A questo medesimo effetto si ritrovano ancora i procuratori


et i notai, chiamati tabellioni, e bisogna pazientemente sop-
portare le ingiurie, i danni, le ribalderie e tutte le falsità loro,
parendogli che per apostolica et imperiale auttorità abbiano
ottenuto la fede, la licenza e la possanza di fare ogni cosa. I
principali fra loro sono quegli che meglio sanno travagliar la
piazza, intrigar le liti, confondere le cause, falsificare i testa-
menti, gli instrumenti, le supplicazioni et i brevi, sapere anco
eccellentemente ingannare, truffare e quando bisognasse, giu-
rar falso e scriver falso, avere ardire di fare ogni male; né si la-
sciar vincer d’alcuno in fabricare inganni, fraudi, barrerie, ca-
lonnie, lacci, capzioni, insidie, intrighi, controversie, circon-
venzioni, Scille e Caribdi. Oltra di ciò non è notaio alcuno il
quale possa fabricare instrumento, come essi chiamano, tanto
intiero che necessario non sia di nuovo litigarvi sopra, se aver-
sario alcuno vi è che voglia contradire. Perciocché dirà o che vi
si sia lasciata fuori alcuna cosa, o che vi è falsità o inganno; o
opponerà qualche altra eccezione per impugnar la fede del-
l’instromento o del notaio. E questi sono quei rimedii di ragio-
ne a i quali insegnano ricorrere a i litiganti; queste son le vigi-
lie alle quali dicono che la ragion soccorre se non v’è chi più
tosto voglia combattere che litigare. Perciocché costui tanta ra-
gione avrà, quanto con la possanza sua potrà difendere, per-
ché la legge dice che non possiamo resistere a i più gagliardi di
noi.
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95.
DELLA SCIENZA DI RAGIONE

Qui risguardano ancora quei terribilissimi giganti, i quali


contra l’ordinazione di Giustiniano n’hanno generato tanti, sì
grandi et infiniti volumi di chiose, di comenti e d’esposizioni,
interpretando ciascun di loro diversamente l’un dall’altro.
Hanno oltra ciò con infelicissima fecondità partorito tante
procelle d’opinioni e tante selve di astutissimi consigli e di cau-
tele, con le quali s’ammaestrano e si nodriscono le malizie de
gli avocati, i quali tanto ristringono la riputazion loro con la ce-
lebre memoria di quei giurisconsulti per tutti i periodi, e come
essi gli chiamano paragrafi, quasi che la verità più tosto non
stesse nelle ragioni che ne i testimoni confusi tratti dalla ciur-
ma di così ostinati uomini, ne i quali è tanta laude, contrasto e
discordia che chi non discorda da gli altri, chi non sa contradi-
re con nuove opinioni a i detti altrui e mettere in dubbio tutte
le cose chiare, e con dubbiose esposizioni accomodare alle fin-
zioni loro le ben trovate leggi, punto non è stimato, né tenuto
uomo dotto. Per questo tutta la scienza di ragione è fatta un
malvagio consiglio et una ascosa rete de iniquità: questi sono
gli ingegni, queste l’arti con le quali oggidì la cristianità si reg-
ge, con le quali si fondano gli imperii et i regni e le signorie de
i popoli. E di questi manigoldi s’eleggono gli officiali, senatori
e presidenti de parlamenti de signori e de pontefici, come se
quegli che sono stati ribaldi avocati, debbano essere migliori
giudici, e questi tali finalmente diventano capi de i regni. Que-
sti si fanno ancora, come già i Titani a Giove, spaventevoli a i re
loro. Di costoro finalmente si fanno questi panciuti grandi can-
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466 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

cellieri de gli imperatori e de i re, e questi secretarii adobbati


di scarlatto, a cui si danno nelle mani tutte le cose importanti,
i quali vendono e vogliono che da loro siano comprate tutte le
cose, le concession de i principi, i doni, i benefici, gli uffici, le
dignità, l’espedizioni et i brevi, et appresso di questo la ragio-
ne, la giustizia, le leggi, l’equità e l’onestà. Secondo la volontà
di costoro si numerano gli amici e gli inimici de i re, co i quali,
come loro piace, ora fanno leghe e quando gli movono guerre
mortali. E benché essi dalla più vile fezza della plebe, per mez-
zo d’avarissima vendita di voce siano ascesi a tanta grandezza
di dignità, in un medesimo tempo passano a sì grande scele-
raggine d’ardimento, ch’alcuna volta ardiscono di sentenziare
per rubbelli i principi, e senza ordinazion di Senato e senza al-
tramente citargli, condannargli ancora nella pena della testa.
E così sono auttori di mutare gli stati ne i regni, andando essi
tuttavia gonfiati per le rubberie e ladronecci loro.
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96.
DELL’ARTE DE GLI INQUISITORI

In questa compagnia vanno ancora gli inquisitori de gli ere-


tici dell’ordine de predicatori, la giurisdizzione de i quali, de-
vendo tutta esser fondata nelle dottrine ideologiche e Scritture
Sacre, essi nondimeno crudelmente l’essercitano con la ragion
canonica e con le ordinazioni pontificie, come se impossibile
fosse che’l papa errasse, lasciandosi dopo le spalle la Scrittura
Sacra1 non altramente che lettera morta et ombra di verità, e
ch’è più, come essi dicono, la cacciano di lontano quasi ch’ella
sia scudo e riparo de gli eretici. Né però admettono le dottrine
de gli antichi dottori e padri santi, dicendo che possono essere
ingannati et ingannare, ma una Chiesa romana, la quale come
essi dicono, non può errare, di cui è capo il papa2. E si tolgono
per segno della fede lo stile della corte, non domandando al-
tro, quando fanno l’inquisizione, se non s’egli crede nella
Chiesa romana, la qual cosa se afferma, subito dicono la Chie-
sa romana danna questa proposizione o eretica, o scandalosa,
o offensiva dell’orecchie pie, o derogativa della possanza della
Chiesa, e così lo costringono alla palinodia et a revocare quel
che ha detto. Che se lo inquisito allora si sforzerà di difendere
la opinion sua con testimoni della Scrittura o con altre ragioni,
interrompendolo con lo strepito della bocca sdegnata, dicono
che egli non è ora alle mani con bacilieri e scolari alla catedra,
ma con giudici al tribunale, che quivi non s’ha da litigare e di-
sputare, ma semplicemente rispondere s’egli vuole stare al de-

1
Cfr. 1 RE 14:9; SL 50:17.
2
Tutto il passo riecheggia ERASMO, Moriae enc., LIII e LXIV.
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468 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

creto della Chiesa romana e revocare la sua opinione; quanto


che no, gli mostrano il fuoco e le fascine dicendo che con gli
eretici non s’ha da combattere con argomenti e Scritture, ma
con fascine e fuoco. E sforzano l’uomo senza convincerlo al-
tramente d’alcuna ostinazione, né insegnarli cose migliori, a
negare le cose sue contra conscienza. E quando non lo volesse
fare, lo danno nelle mani del giudice secolare, come rubello
della Chiesa, a farlo ardere, dicendo insieme con l’Apostolo:
«Levate via il male ch’è in mezzo di voi»3. Tanta fu anticamen-
te la mansuetudine della Chiesa e la clemenza de i pontefici, sì
come Graziano compilò nella distinzion quarta di consecrazio-
ne4, che neanco facevano morire quegli ch’erano ricaduti in
giudaismo, né davano supplicio a bestemmiatori. E Berengario
istesso, caduto in una abominevole eresia, non solo non fu uc-
ciso ma ne anco privato della dignità dell’Archidiaconato5. Ma
oggidì chi pure è caduto in un minimo errore si condanna più
che alla morte, et alcuna volta per ogni minimo difetto da que-
sti inquisitori è dato ad essere arso: per aventura oggidì è ne-
cessaria et utile alla Chiesa questa severa pena purché in que-
sto mezzo non muoia la pietà fraterna. Sono talora gli inquisi-
tori della eretica pravità anch’essi scelerati e possono anch’es-
sere eretici, la qual cosa diede occasione a Clemente di fare
una nuova constituzione6. Debbono dunque gli inquisitori di-
sputare contra gli eretici non per argomenti oscuri e per sillo-
gismi ostinati, ma per la parola di Dio sopra la fede catolica, e
convincere l’eretico con le Sacre Lettere. Dapoi, secondo gli
ammaestramenti de i canoni e le constituzioni de i sacri conci-
li, terminare il negozio e ridurre lo inquisito alla fede catolica,
o sentenziarlo per eretico. Perciocché eretico non è chi non è

3
1 COR 5:13.
4
Cfr. DECR. GRAT., de consecr. d. IV, c. XCIV.
5
Berengario di Tour (ca.1000-ca.1088), teologo scolastico, sostenitore di alcune
dottrine eretiche quali la negazione della transustanziazione nell’Eucarestia, a so-
stegno delle quali si avvalse dell’autorità di Giovanni Scoto Eriugena.
6
Allusione alla riforma della Chiesa attuata da Clemente V in seno ai lavori del
Concilio di Vienne (1312-1313). La legislazione che ne seguì è molto varia e ri-
guarda principalmente la salvaguardia delle libertà ecclesiastiche di fronte ai si-
gnori laici, i processi di eresia, l’apostolato, il comportamento degli ecclesiastici
nelle funzioni di culto, l’ammissione dei monaci e dei canonici agli ordini sacri,
la buona condotta delle monache e l’abito dei monaci. Dopo il concilio, Cle-
mente V fece ultimare la redazione dei canoni conciliari e vi aggiunse decretali
anteriori o successive da lui emanate. Il tutto andò a costituire il Liber septimus del
Corpus juris canonici che completava la nuova legislazione.
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96. DELL’ARTE DE GLI INQUISITORI 469

temerario, né si dee chiamare fautore de gli eretici chi difende


uomo innocente di peccato e non condannato d’eresia, sì che
egli non sia strascinato a lacerare dinanzi al tribunale di malva-
gi inquisitori, anzi di rapaci lupi, et in loco non securo. E ben-
ché sia provisto per ragione che gli inquisitori non abbian pos-
sanza né giurisdizzione alcuna di procedere sopra qual si vo-
glia sospizione d’eresia, difensione, ricettazione o favore, dove
e quando manifestamente non si sa che quivi sia eresia espres-
sa e risolutamente condannata, nondimeno questi avoltoi di
sangue ingordi, oltra i privilegi dell’ufficio dell’inquisizione a
lor concessi, s’intromettono ancora contra le ragioni et i cano-
ni nelle giurisdizzioni de gli ordinarii, usurpandosi la auttorità
de pontefici sopra quelle cose che non sono eretiche ma sola-
mente offensive dell’orecchie pie, scandalose, o in alcuno al-
tro modo erronee circa l’eresia, e crudelissimamente incrude-
liscono contra le donniciuole contadine le quali, essendo ac-
cusate o denunziate di stregamenti o di fatture, spesse volte
senza altri indizii ragionevoli avere, sono da lor poste a crudeli
e terribili tormenti, finché avendone tratto per forza confessio-
ni, che pur mai non furono pensate, hanno che potere con-
dannare, e veramente allora si tengono per inquisitori quando
non restano dell’officio loro infin che la misera femina non è
arsa o non ha indorato la mano all’inquisitore perché le abbia
misericordia sì che l’assolva come sofficientemente purgata ne
tormenti, perciocché spesse volte l’inquisitore può mutare le
pene corporali in dinari et applicare all’ufficio suo dell’inqui-
sizione, onde glie ne viene grandissimo guadagno. Hanno an-
co molte di quelle sventurate le quali sono costrette a pagargli
tributo ogni anno per non essere di nuovo strascinate et inqui-
site; oltra di ciò quando i beni de gli eretici s’applicano al fisco,
l’inquisitore anch’egli ne fa non picciola preda, e finalmente
ogni accusa, o denunzia, o sospizione d’eresia, ancora che leg-
gierissima, o di malia, e la citazion sola dello inquisitore porta-
no seco infamia, alla integrità della quale non si può provede-
re se non si dà dinari all’inquisitore, e questo anco è qualche
cosa. Con questa cautela ricordomi che quando io era in Italia,
molti inquisitori nel ducato di Milano molestarono molte one-
stissime matrone e delle più nobili che vi fossero e nascosa-
mente cavarono grandissimi dinari da quelle meschine spaven-
tate. Finalmente, scopertosi l’inganno, ne furono malamente
castigati da i nobili, et appena scamparono il ceppo e’l fuoco.
< Potrei raccontarvi in questo loco quella sottilissima e più che
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470 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

scotistica invenzione di quel famoso Hoocstrato, e de gli altri


miei Coloniesi, usata nell’inquisizione de Giudei, e tutta quel-
la tragedia di Capnione, e la guerra di dieci anni nella quale
tutto il nome, la riputazione e la dottrina de nostri maestri co-
loniesi ebbero danno senza rimedio alcuno, se queste cose
non fossero notissime a ogniuno, e col trionfo di Capnione l’i-
storia non fosse chiara a i secoli a venire7. > Io ebbi già, essen-
do io avocato e consigliere della Republica di Mediomatrice8,
molto grave contesa con l’inquisitore, il quale uomo scelerato
strascinò una povera contadinella per certi debili et iniquissi-
me calonnie alla sua beccaria et in loco non debito non tanto
per essaminarla quanto per tormentarla. Ora, avendola io pre-
so a difendere, e mostrando che nel processo non era indizio
alcuno che potesse farla tormentare, egli valorosamente mi
s’oppose dicendo: «Eccene un sofficientissimo: perché la ma-
dre di lei fu già arsa per strega». Ora replicando io, e facendo-
gli conoscere che questo articolo era impertinente e che si do-
veva ancora rifiutare per l’ufficio del giudice essendo fatto
d’altri, allegandovi ragioni e leggi, et egli subito contra, per
non parere d’aver favellato senza ragione, ne trasse una fuori
de i luoghi più secreti del martello delle streghe e da i fonda-
menti della teologia peripatetica, dicendo che ciò era vero per-
ché le streghe sogliono sacrificare i suoi parti, subito che son
nati, a i diavoli, et anco perché molte volte sogliono concipere
de gli spiriti folletti, onde avenne che la malizia rimaneva radi-
cata in questa prole a guisa di morbo che va per eredità. Allora
gli dico io: «A questo modo tu teologizzi dunque scelerato pa-

7
Jakob van Hoogstraeten (ca.1460-1527) fu uno dei teologi della facoltà di Colo-
nia che attaccarono Agrippa. Dal 1516 al 1520 capeggiò l’Inquisizione che so-
stenne il processo contro Johannes Reuchlin, noto anche con il nome grecizzato
di Capnio, autore del De verbo mirifico (1494) e del De arte cabalistica (1517), opere
tra le più importanti fonti degli scritti di Agrippa. Reuchlin, infatti, aveva preso
posizione contro il mandato dell’imperatore Massimiliano (1509) per la distru-
zione dei libri ebraici, compresi il Talmud e la Cabala (un accenno all’episodio si
trova anche in REUCHL., De arte cabal., III, K1v e in AGRIP., Epist., VII, 26). Per il
compiacimento di Agrippa in merito al successo che riportarono Reuchlin e
Franz von Sickingen su Hoogstraeten e sui teologi dell’Università di Colonia, si
veda, per es., AGRIP., Epist., II, 54.
8
Si tratta dell’incarico di advocatus e orator dello Stato ricoperto da Agrippa nella
città imperiale di Metz dal febbraio del 1518 agli inizi del 1520. Il caso qui de-
scritto portò Agrippa in conflitto con l’inquisitore dominicano Nicolò Savini e gli
procurò le inimicizie di molti personaggi di potere. L’episodio è ricordato anche
in AGRIP., Epist. II, 37; 38; 39; 40.
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96. DELL’ARTE DE GLI INQUISITORI 471

dre? Con così fatte finzioni strascini tu le misere donniciuole


alla tortura? Con questi sofismi giudichi tu gli altri eretici, non
essendo tu con questa opinione punto inferiore di Fausto e di
Donato eretici? Poniam che sia vero ciò che tu di’: non fai tu
vana la grazia del battesmo? Come se il sacerdote avesse detto
in vano: «Esci fuora spirito maligno, dà loco allo Spirito San-
to», se la creatura per lo sacrificio della ribalda madre devesse
rimanere in possanza del diavolo. E quando anco tu volessi di-
fendere le opinioni di coloro i quali confessano che gli spiriti
folletti possono generare, veramente nessuno di quegli che af-
fermano questo uscì giamai tanto fuor di se stesso che credesse
che quei demonii insieme col seme rubbato mettesse parte
della natura sua nella creatura. Anzi, io ti dico, secondo la fede
nostra, che per propria natura dell’umanità nostra noi siamo
nati tutti d’una massa di peccato e di maledizzione eterna, fi-
gliuoli di perdizione, figliuoli del diavolo, figliuoli dell’ira di
Dio et eredi dell’inferno, ma per la grazia del battesimo Sata-
nasso è scacciato da noi, e siamo fatti nuova creatura in Giesù
Cristo, da cui nessuno può esser separato se non per il proprio
peccato, quanto meno gli può far danno il fatto altrui. Ora tu
puoi vedere quanto sufficientissimo sia questo giudicio che tu
fai, quanto privo di ragione e per opinione ancora eretico»9.
Sdegnossi sopra di questo l’ipocrito crudele e minacciavami di
voler procedere contra di me come fauttore de gli eretici, ma
io però non restai di difendere quella poveretta, e finalmente
con la possanza della ragione la trassi salva di bocca a quel leo-
ne. E così rimase confuso quel sanguinoso monaco alla pre-
senza d’ogniuno e perpetuamente infame per nome di cru-
deltà, e non pur questo, ma i calonniatori ancora di quella fe-
mina che falsamente l’avevano accusata, furono condannati in
gran somma di dinari al capitolo della Chiesa Metense, alla
quale erano soggetti.

9
Cfr. AGRIP., De beatiss. Annae monog., S5v-S7v.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 472
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97.
DELLA TEOLOGIA SCOLASTICA

Ultimamente ci resta a parlare della teologia. Ma io passerò


la teologia de Gentili, descritta già da Museo, da Orfeo e da
Esiodo, la quale chiaramente si sa che tutta è favolosa e poeti-
ca. Questa già buon tempo con fortissime ragioni fu messa a
terra da Eusebio, Lattanzio et altri dottori cristiani, e meno
parlerò di quella di Platone, né de gli altri filosofi, i quali di so-
pra mostrato abbiamo tutti essere maestri d’errori. Ma in que-
sto loco il mio ragionamento sarà solo della teologia de cristia-
ni: chiaro è che questa non pende da altro che dalla fede de
suoi dottori, non potendo ella cadere sotto arte alcuna. Ma di-
ciamo prima della teologia scolastica, la quale disciplina è stata
composta dalla Sorbona de Parigini con una certa mistura di
ragionamenti divini e di ragioni filosofiche di due sorti come
s’ella fosse del genere de Centauri. Oltra di questo ella è de-
scritta con un certo nuovo genere d’insegnare lontano dall’u-
so de gli antichi, per questioncelle et arguti sillogismi, senza al-
cuna eleganza di parlare; ella nondimeno è per altro pienissi-
ma di giudicio e d’intelletto sì come quella c’ha recato grande
utilità alla Chiesa in convincere gli eretici. Gli auttori suoi, e
che in quella fama acquistarono, furono il Maestro delle sen-
tenze1, Tomaso d’Aquino, Alberto per sopra nome Magno, e
molti altri uomini eccellenti sì come fu Giovanni Scoto, dottor

1
Pietro Lombardo (ca.1100-1160), teologo scolastico e vescovo di Parigi, autore
dell’opera intitolata Libri quattuor sententiarum, terminata intorno al 1152 e che gli
valse il titolo di ‘Magister Sententiarum’.
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474 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

di sottile intelletto ma troppo inclinato a contendere2. Di qui


finalmente la teologia scolastica è caduta a poco a poco ne i so-
fismi, mentre che questi teosofisti moderni e tavernieri della
parola di Dio, i quali non sono teologi se non con titolo com-
prato, di così sublime scienza hanno fatto una certa logoma-
chia, fabricando opinioni e facendo violenza alle Scritture, an-
dando per le scuole, movendo questioncelle e, con intricate
parole, dando nuovo senso contrario a quelle, assai più pronti
a ventilare che essaminare, sono anco stati arditi d’imaginarsi
infiniti semi di contese, co i quali danno materia di contende-
re a i litigiosi sofisti mentre che cavano fuora le forme, dispu-
tano gli intelletti, mentre che chiamano le voci generi e specie,
mentre che alcuni si fondano nelle cose, altri ne i nomi soli, e
quel che tolgono a uno ascrivono all’altro, altri senza differen-
za lo pigliano, e ciascuno si sforza di ritrovar cosa onde possa
sostenere la sua eresia. Et in questo modo, di che si lamenta
ancora Tomaso di Aquino, mettono in riso e diffidenza la no-
stra sacrosanta fede appresso i savi di questo mondo, mentre
che mandatosi dopo le spalle le canoniche Scritture dello Spi-
rito Santo3, s’hanno fatto una scelta d’infinite questioni acco-
modate a disputarsi sopra le cose divine, nelle quali essercitan-
do l’ingegno e consumando l’età loro, in quelle sole hanno
collocato la dottrina di tutta la teologia, a i quali s’alcuno è che
voglia opporsi con l’auttorità delle Sacre Lettere, subito s’u-
dirà dire: «La lettera uccide. Ella è dannosa. Ella è inutile»4,
ma diranno che si dee ricercare quel ch’è ascoso nella lettera.
Poi rivoltatisi a interpretare, a esporre, a chiosare, a sillogizare,
ogni altro senso più tosto le vestono che’l proprio della lettera;
se tu farai maggiore instanza, se tu gli stringerai, ti sarà detto
villania e sarai chiamato asino sì come quello che non intenda
ciò ch’è ascoso nella lettera, ma che a guisa di serpente si pasca
di terra sola, di modo che nessuno appresso di loro è stimato
teologo se non chi sa notabilmente contendere et ad ogni pro-
posito dare instanza, prontamente fingere, ritrovar nuovi sensi
e far tanto romore con mostruosi vocaboli che non già per la
difficultà della cosa, ma per la novità delle parole non sono in-

2
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De studio div. et hum. phil., I, 3.
3
Cfr. supra, p. 467 e nota 1.
4
2 COR 3:6.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 475

97. DELLA TEOLOGIA SCOLASTICA 475

tesi da alcuno. E questi tali allora sono chiamati dottori < sotti-
li, angelici, semplici e divini >: quando hanno fatto sì che pun-
to non siano intesi, allora la moltitudine de gli auditori gli ru-
moreggia intorno, i quali ciò c’hanno da costoro credono che
sia tratto da i più ascosi misterii della teologia, e giurano nelle
parole del maestro, e credono che sia impossibile a sapersi ciò
che essi non sanno, e talmente s’imprigionano nelle opinioni
di quello, che non si possono convincere per nessuna contra-
ria ragione, né s’acquetano per veruna Scrittura, ma a guisa
d’Anteo si sforzano di racquistare le forze nel seno di sua ma-
dre dove sono ingenerati5, e domandano soccorso a suoi dot-
tori, allora che

Lasciando l’avoltoio le bestie et i cani,


ritorna, e porta a’ suoi parte d’un corpo.
E questo è cibo di se stesso, ond’egli
si pasce allor, quando fa il proprio nido6.

Di qui è venuto che la sublime scienza della teologia scola-


stica non è libera dall’errore e dalla malizia: tante sette e tante
eresie introdotto hanno i malvagi ippocriti et i temerarii sofisti
i quali, come dice Paolo, predicano Cristo non per buona vo-
lontà ma per contenzione7, di modo che più facilmente si tro-
va concordia tra filosofi che fra teologi, i quali con umane opi-
nioni e nuovi errori hanno estinto tutta la gloria della antica
teologia, et avendo ritrovato vari modi di esporre a guisa di la-
berinti, facendo con colorati titoli professione di biasimevole
dottrina, per furto e per rapina si usurpano il nome di sacra
teologia, et usando male i nomi e gli instituti de i santi dottori
hanno introdotto sette, come già nella Chiesa fu detto: «Io so-
no di Apollo, io di Paolo et io di Cefa»8, e pretendendo gli stu-
di di coloro per opra de i quali sono introdotti nelle dottrine e
giurando nelle parole del maestro, sprezzano tutti gli altri, non

5
Per la figura di Anteo, gigante figlio di Posidone e di Gea, e della sua forza in-
vincibile finché toccava la Terra, sua madre, si veda STAZIO, Theb., VI, 1273-1277;
OVID., Metam., IX, 183-184.
6
GIOVEN., Sat., XIV, 77-80.
7
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De studio div. et hum. phil., I, 3. Per il luogo biblico, si ve-
da FIL 1:15.
8
1 COR 1:12.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 476

476 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

attendendo quel che si dice ma da chi si dice. < Perciò ora nes-
sun teologo si può veramente chiamar dotto se non chi ha giu-
rato in quella setta e, tenendola presa co denti, ostinatamente
non la difende, et in ogni loco faccia mostra et abbia in bocca
il nome et i segni di quella, e vantisi di esser salutato e messo
innanzi col titolo di quella come tomista, albertista, scotista et
occamista9. Perciocché non è onesto che un puro cristiano si
chiame con tanti nomi, potendo essere commune con loro
quel cognome a beccai, a cuochi, a fornai, a sarti, a barbieri, a
guatteri, alle feminuccie ancora, et a tutta la plebe ignorante. >
Oltra di ciò questi settatori sono divisi in molte parti fra loro,
perciocché alcuni di loro c’hanno ingegno sublime e che vo-
gliono parere più dotti de i profeti e de gli apostoli, si presu-
mono di potere co i sillogismi loro ritrovare e dimostrare quel-
le cose ancora che si credono per fede sola10, e con vane que-
stioni filosofano delle cose divine, e con mostruosa confidenza
stanno a contendere, talvolta ancora con diverse opinioni
sciocche, sì come quando alcuni di loro distinguono la divina
essenza dalle relazioni per l’effetto istesso11, altri solamente
per la ragione, alcuni fabricano infinite, come essi dicono, rea-
lità a guisa delle idee di Platone, altri di nuovo le negano e se
ne fanno beffe. Oltra di ciò fabricano tanti mostri di Dio, tante
diverse forme della divinità, tanti idoli di fantasie e di pensieri
suoi delle cose divine, e con la malvagità delle opinioni loro
straziano Cristo Salvatore, e con sì varie maschere di sofismi lo
vestono, e con le loro sciocche supposizioni lo formano e lo
riformano come uno idolo di cera in ogni figura che vogliono,
di modo che la dottrina loro altro non pare che una mera ido-
latria. < Io non parlo delle altre loro eresie e contese circa i sa-
cramenti, il purgatorio, il principato, i comandamenti de papi
e le obligazioni loro, le indulgenze, Anticristo a venire, e mol-
te altre simili, nelle quali mostrano la loro pazza sapienza, e
con la presonzion di quella goffi et enfiati, sì come i giganti
che si raccontano nelle favole, accumulando questioni a que-
stioni et argomenti ad argomenti, inalzano le sentenze loro
contra Dio, sopra la impietà de i quali descende l’ira di Dio dal

9
Cfr. ERASMO, Antib., p. 134.
10
Cfr. ID., Moriae enc., LIII.
11
Il testo latino reca: «alii re ipsa», ossia «per la cosa in sé».
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 477

97. DELLA TEOLOGIA SCOLASTICA 477

cielo. > Gli altri, che non ascendono tanto alto, fanno le istorie
de santi mettendovi sotto color di pietra qualche bugia, trova-
no reliquie finte, fabricano miracoli e fingono quegli ch’essi
chiamano essempi, favole o da giuoco o terribili, annoverano
preghi, pesano meriti, misurano cerimonie, mercantano in-
dulgenze, distribuiscono perdoni, vendono le loro buone ope-
re e mendicando divorano i peccati del popolo. E quasi con
una certa legge pronunziano delle apparazioni, delle scongiu-
razioni e delle risposte de morti, e dai libri di Tundalo, o di
Brandario, o di Patrizio ammaestrato nella spelunca, favoleg-
giano tragedie de purgatori12 e le comedie delle indulgenze su
pergami, come se fossero in scena, e trasformandosi con mili-
tar bravura, con trasonica boria13, con occhi arroganti, con vol-
to mutato, con braccia stese, con gesti di più sorte, come i poe-
ti descrivono Proteo14, con lingua ventosa e voce di Stentore15
intonano alla plebe. Ma i più ambiziosi fra loro, che si attribui-
scono ornamento della dottrina e della eloquenza ciclica16,
questi in gridando: «Io m’ho creduto dire declamando!», can-
tano poemi, narrano istorie, disputano opinioni, citano Ome-
ro, Vergilio, Giovenale, Persio, Tito Livio, Strabone, Varrone,
Seneca, Cicerone, Aristotele e Platone, et in cambio de gli
evangelii e della parola di Dio, abbiano ciancie schiette e paro-

12
S. Brendano o Brandano (460-ca. 577), prima abate, poi vescovo di Clonfert in
Irlanda, fondatore di alcuni monasteri in Inghilterra. Un suo viaggio in Scozia
diede origine alla leggenda narrata nella Navigatio Sancti Brendani (ca. 1000), pro-
babilmente una delle fonti della Divina Commedia; S. Patrizio (n. 385), nato in
Scozia da genitori nobili, si narra che fu catturato e portato in Irlanda da pirati e
venduto come schiavo a un pastore irlandese. Secondo una leggenda medievale,
la profonda caverna nell’isola del lago irlandese di Dergh dove il santo, poi dive-
nuto nel 432 vescovo d’Irlanda, era solito ritirarsi in preghiera e dove morì, era
l’ingresso del Purgatorio: chi fosse riuscito a raggiungerne il fondo, superando
una serie senza fine di prove, avrebbe ottenuto la remissione dei peccati e l’ac-
cesso al Paradiso; per il personaggio leggendario di Tundalo, si veda supra, nota
53, p. 228.
13
Trasone, soldato fanfarone, è un celebre personaggio dell’Eunuchus di Teren-
zio. L’aggettivo trasonico che ne deriva è sinonimo di ‘sbruffone’ (si veda, per es.,
ERASMO, Antib., p. 134).
14
Cfr. supra, nota 2, p. 331.
15
Cfr. ERASMO, Adagia, II, 3, 37; Antib., p. 115. Stèntore era un eroe omerico dalla
voce possente (si veda OMERO, Iliad., V, 785-786; GIOVEN., Sat., XIII, 112), donde
l’aggettivo stentoreo.
16
L’espressione si ritrova in Marziano Capella per designare una sorta di sapere
enciclopedico (De nupt. Phil. et Merc., IX, 998).
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 478

478 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

le umane, predicando evangelio nuovo, adulterando la parola


di Dio, la quale annunziano non per grazia ma per guadagno e
per prezzo. Vivono non secondo la verità della parola, ma al
piacere della carne, e poi che di giorno con vario errore han-
no parlato in pergamo della virtù, la notte poi nelle camere at-
tendono ad affaticarsi ne i diletti di Venere. E questa è la lor
via per la quale si va a Cristo. Finalmente dove s’abbattono a
poter riprendere i vizii, cosa mirabile è vedergli con quanta
maledicenza di lingua si corucciano, con quale insolenza di ge-
sti s’infuriano, con che disonestà di parlare abbaiano, con che
sfacciatezza di voce esclamano, come se Cristo avesse voluto
che i trombetti della parola sua non fossero pescatori che con
piacevole rete tirassero dalla parte destra17, ma arcieri e caccia-
tori crudeli che ferissero dalla parte sinistra, e come se anco
essi non fossero uomini, o non siano ora sottoposti, o alcuna
volta non siano stati, o non possano essere per l’avenire, a quei
medesimi vizii ch’essi perseguitano. Così questi pescatori d’uo-
mini, i quali usano la lingua per rete per tirare i cattivi alla sa-
lute, sono fatti cacciatori alla dannazione ancora de i buoni,
hanno la bocca loro per arco di bugia e la lingua è saetta che
impiaga18. < Ma basti ciò che s’è detto, perciocché non è molto
sicuro il riprendergli con troppo libero modo di parlare per-
ché essi sogliono, ogni volta che si sdegnano, congiurare insie-
me e strascinare in giudicio coloro che gli riprendono dinanzi
gli inquisitori suoi e constringerli a dire il contrario, alcuna
volta castigargli co’l fuoco e con le fascine, o secretamente con
veleno torgli del mondo, perciocché hanno questo ancora fra i
misteri secreti della religione: s’alcuno è che partorisca scan-
dalo alla religione, che sia lecito et onesto, dandogli veleno in
ascoso, torgli la vita acciocché l’ordine non n’avesse infamia
quando publicamente fosse punito. > Ma lasciando il ragiona-
re di questo, passiamo ora alla vera teologia, e questa anch’ella
è divisa in due parti, perciocché l’una è profetica, l’altra inter-
pretativa. Prima ragionarem della ultima.

17
Cfr. MT 4:18.
18
Cfr. GER 9:2, 7.
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98.
DELLA TEOLOGIA INTERPRETATIVA

Credono i teologi interpretativi che sì come per liberalità


della natura crescono e maturano le uve, le olive, il fromento,
il lino e molte cose simili, dalle quali finalmente con l’ingegno
e l’aiuto de gli uomini si formano il vino, l’olio, il pane, la tela,
e così l’altre opere della natura si compieno con l’arti umane,
parimente ancora gli oracoli divini molto oscuri e nascosi, dati
a essere dichiarati dalle nostre interpretazioni, non già per le
nostre forze o invenzioni, quasi che gli oracoli di Dio, non al-
tramente che l’opere della natura, abbiano bisogno del nostro
aiuto, ma dallo stesso Spirito Santo di quelle Scritture, il quale
distribuisce i doni suoi a ogniuno secondo che vuole e dove
vuole, facendone alcuni profeti et altri interpreti de i profeti1.
Questa teologia dunque d’intepretar le cose divine non proce-
de secondo il costume de Peripatetici, diffinendo, o dividen-
do, o componendo, perché di questi modi nessuno arriva a
Dio, non potendo egli esser diffinito, né diviso, né composto,
ma è fatta per altra via di conoscere che è posta in mezzo fra
questa e la vision profetica, la quale è una aguaglianza di verità
con l’intelletto nostro purgato, sì come è la chiave con la top-
pa, il quale sì come egli è desiderosissimo di tutte le verità, co-
sì è accommodato a ricevere tutte le cose intelligibili. E per
questo si chiama intelletto possibile, col quale benché non in-
tendiamo a lume pieno le cose che dicono i profeti e quegli

1
Cfr. 1 COR 12:7-11.
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480 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

che veduto hanno le cose di Dio, nondimeno ci s’apre la porta


sì che dalla conformità della verità intesa all’intelletto nostro,
e dal lume che non illustra con tutti i penetrali aperti, molto
più siamo fatti certi che dalle apparenti demostrazioni, diffini-
zioni, divisioni e composizioni de filosofi. E ne viene concesso
che leggiamo et intendiamo non con gli occhi e l’orecchie
esteriori, ma intendiamo con sensi migliori e, levato il velo e
scoperta la faccia, caviamo la verità, la quale deriva dalla mi-
dolla delle Sacre Lettere, la quale sotto velame hanno descritto
coloro che con occhio sano hanno guardato le cose ch’erano
ascose a i savi di questo mondo et alle filosofiche considerazio-
ni, e noi la prendiamo con tanto giudicio di certezza che n’è ri-
mosso ogni dubbio2. E perciocché questa verità in molti modi
è nascosa nelle Sacre Lettere: per questo i santi e spirituali uo-
mini si sono posti a varie e diverse esposizioni delle Sacre Let-
tere, perché alcuni andando con leggier passo per la forza del-
la lettera, concordando le Scritture e secondo l’ordine delle
parole esponendo una lettera per un’altra, traendone alcun
senso per etimologie, per proprietà, per forza di vocaboli et al-
tre cose simili, ritrovano la verità della Scrittura, la quale per
questo chiamano esposizione literale. Alcuni altri riferiscono
ciò ch’è scritto al negozio dell’anima et alle opere della giusti-
zia, la quale esposizione perciò si domanda morale. Alcuni per
diversi tropi, o figure la tirano a secreti della Chiesa, il senso de
i quali però è stato detto tropologico. Alcuni dati alla contem-
plazione della vita celeste, tutte le cose riferiscono a i misterii
della gloria di Dio, e questa chiamano esposizione anagogica3.
E queste sono le quattro esposizioni de teologici essercitate
nella Chiesa, oltra le quali ve ne sono ancora altre due: l’una di
queste, che riferisce tutte le cose alle mutazioni de tempi, a gli
scambiamenti de i regni et alle restituzioni de secoli, è perciò
domandata tipica, nella quale sono stati eccellenti Cirillo, Me-
todo e l’abbate Giovacchino4, e de nostri moderni Girolamo

2
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 2, 10.
3
Cfr. REUCHL., De arte cabal., III, K2v. L’esposizione anagogica è un’interpretazio-
ne spirituale e mistica della Scrittura. La distinzione fra senso storico, tropologi-
co, allegorico e anagogico della Scrittura, conforme all’esegesi medievale, è spes-
so utilizzata da Erasmo nei suoi scritti.
4
Cfr. AGRIP., De occ. phil., III, 61, p. 584. Cirillo di Tessalonica (ca. 827-869), apo-
stolo degli Slavi e compagno di studi dell’imperatore Michele III, si adoperò, in-
sieme al fratello Metodio (ca. 815-885), alla traduzione della Sacra Scrittura in
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98. DELLA TEOLOGIA INTERPRETATIVA 481

Savonarola Ferrarese5. L’altra ricerca le forze e le virtù di tutto


l’universo, di questo mondo sensibile, di tutta la natura e della
fabrica mondana, nelle Sacre Lettere, la quale esposizione per
questa vien chiamata fisica, overo naturale. In questa fu eccel-
lente Rabi Simeone Ben Ioachim, il quale scrisse un grandissi-
mo volume sopra il Levitico, nel quale essaminando le nature
di quasi tutte le cose, mostra come Mosè secondo la conve-
nienza del mondo triplice e la natura delle cose, ordinò l’arca,
il tabernacolo, i vasi, le vesti, le cerimonie, i sacrifici, e gli altri
misterii a placare Iddio e le virtù celesti et a purificare l’uomo
imagine di queste cose6. E molti cabalisti seguono questa espo-
sizione, quegli cioè che trattano del Bresith, che sono le cose
create7. Perciocché quegli che disputando di Mercava, cioè del
tribunale d’Iddio, per numeri, per figure, per rivoluzioni, per
ragioni simboliche, riferiscono tutte le cose al principale istes-
so: questi tali investigano il senso anagogico8. Questi sono dun-
que sei famosissimi sensi delle Sacre Lettere, gli auttori de i
quali, espositori et interpreti, tutti con un medesimo vocabolo
son chiamati teologi. Di questa maniera furono tra nostri Dio-
niso, Origene, Policarpo, Eusebio, Tertulliano, Ireneo, Nazian-
zeno, Crisostomo, Atanasio, Basilio, Damasceno9, Lattanzio,

lingua slava, che fu introdotta anche nella liturgia; Gioacchino da Fiore (ca.
1130-1202), teologo e abbate dell’abbazia di Corazzo, autore del De unitate seu es-
sentia trinitatis (perduto), condannato dal IV Concilio Lateranense, e di numero-
si commentari al Vecchio e Nuovo Testamento.
5
Girolamo Savonarola (1452-1498), predicatore dominicano fautore di un rin-
novamento ecclesiasistico, autore di numerose opere in prosa religiose e morali,
di scritti filosofici e di sonetti.
6
Per molto tempo creduto l’autore del S’‰per ha-Zúhar (Libro dello splendore), il li-
bro la cui influenza, nel suo ambito, è paragonabile a quella della Bibbia o del
Talmùd, il rabbino tannaita Simone (Shim‘ún ben Y úhai, II sec.) è una delle fi-
gure più importanti della letteratura cabbalistica. Sebbene lo menzioni nel suo
Dialogus de homine (1515-16) e in De occ. phil., III, 24, p. 471, con molta probabilità
Agrippa conosceva questo testo soltanto in forma indiretta attraverso le opere di
Paolo Ricci (XVI sec.), di Ludovico Lazzarelli (1450-1500), di Johannes Reuchlin
(1455-1522) e la lettura del De harmonia mundi (1525) di Francesco Giorgio
(1460-1540). Per Paolo Ricci, si veda supra, nota 25, p. 144. Per i riti mosaici, si ve-
da anche ES 25-30.
7
Cfr. supra, nota 6, p. 206.
8
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 1.
9
Giovanni Damasceno (ca. 650-750), padre della chiesa di lingua greca, autore
del De fide orthodoxa, tradotto in lingua latina, che riprende e sintetizza dottrine
dei Padri greci, specialmente sulla Trinità, la creazione, l’incarnazione, i sacra-
menti e la mariologia.
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482 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Cipriano, Girolamo, Agostino, Ambrogio, Gregorio, Ruffino,


Leone, Cassiano, Bernardo, Anselmo10 e molti altri santi padri,
i quali vennero al mondo in quei tempi antichi, et ancora alcu-
ni altri più nuovi, come Tomaso, Alberto, Bonaventura, Egi-
dio11, Arrigo di Guanto12, Gerson e parecchi altri, ma di gran
lunga inferiori a quegli antichi. Nondimeno tutti questi teolo-
gi interpretativi, essendo uomini, patono anch’essi le cose
umane, in alcun loco errano, in altro loco scrivono cose con-
trarie o differenti, talora discordano da loro medesimi, in mol-
te cose s’abbagliano, né ogniuno tutte le cose vede. Perché so-
lo lo Spirito Santo ha piena scienza delle cose divine, il quale
distribuisce a ogniuno secondo una certa misura, riservandosi
molte cose, acciocché sempre gli siamo discepoli. Perciocché
noi tutti, come dice Paolo, non conoscemo né profetiamo se
non in parte13. Tutta dunque questa teologia interpretativa
consiste in libertà dello spirito et è una certa sapienza separata
dalla Scrittura, nella quale a ciascuno è concesso abondare se-
condo il suo senso, per quelle diverse esposizioni ch’abbiamo
recitato, le quali sono chiamate da Paolo con un solo vocabolo
misterii, overo ragionamenti di misterii, là dove dice: «Lo spiri-
to ragiona i misterii»14, onde Dionisio domanda questa mistica
e significativa teologia trattata da quei santi dottori in volumi
grandi, ma non già senza molti errori15. Non vi lasciate però se-
durre dalla santità et auttorità loro, che gli crediate ogni cosa,
perciocché molti di loro hanno perseverato in molte erronee
opinioni della fede, le quali sono state reprovate dalla Chiesa
per eretiche. Come chiaramente si sa di Papia vescovo Ieropo-
litano, di Vittorino Pittaviese16, di Ireneo di Lione, del Beato

10
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De studio div. et hum. phil., I, 7.
11
Egidio Colonna Romano (ca.1243-1316), primo maestro di teologia degli ere-
mitani di S. Agostino nello studio di Parigi, autore di commenti aristotelici e di
numerose opere, tra le quali sono di particolare importanza il De erroribus philo-
sophorum (ca.1270), il Tractatus contra gradus et pluralitatem formarum (1277-1278),
le Quaestiones de esse et essentia (1285-87), i numerosi Quodlibeta (1285/1286-1291)
e il De ecclesiastica potestate (ca. 1297).
12
Il testo latino reca: «Henricus Gandavensis», ossia Enrico di Gand, per cui si ve-
da supra, nota 18, p. 240.
13
Cfr. 1 COR 13:9.
14
Ivi, 14:2.
15
Cfr. DION. AREOP., Epist. IX, I, 1105d-1508a.
16
Papia, vescovo di Gerapoli, nella Frigia, scrisse intorno al 130-140 un trattato in-
titolato Explanatio sermonum Domini, di cui alcuni brani sono citati da Eusebio di
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98. DELLA TEOLOGIA INTERPRETATIVA 483

Cipriano, d’Origene, di Tertulliano e di molti altri, i quali ma-


nifestamente si sa ch’errarono nella fede, e le opinioni loro so-
no state dannate per eretiche, benché essi siano posti nel cata-
logo de santi. Qui nondimeno fa di bisogno avere più alto spi-
rito che giudichi e discerna, il quale ci sia dato non da gli uo-
mini, né dalla carne e dal sangue, ma di sopra dal Padre de i
lumi, perciocché nessuno senza il lume di Dio può drittamen-
te ragionare di Dio17. E questo lume è la parola di Dio, per lo
quale tutte le cose si sono fatte, che illumina ogni uomo che
viene in questo mondo, dandogli possanza di farsi figliuoli di
Dio a tutti quegli, dico, che hanno ricevuto e creduto in Lui18.
Né altri è che possa raccontare le cose di Dio se non la propria
parola di Lui, perciocché chi altro ha conosciuto il senso del
Signore? O quale altro è che sia stato fatto suo consigliere se
non il figliuolo di Dio, parola del Padre19? Di questa cosa ra-
gionaremo noi, ma prima tratteremo della teologia profetica.

Cesarea (Hist. eccl., III, 39), in cui mostra una conoscenza del messaggio cristiano
molto simile all’interpretazione ebionita; Vittorino (III sec.), vescovo di Petovio,
l’odierna Ptuj in Slovenia, è considerato il primo esegeta in lingua latina. Delle
sue numerose opere ci sono giunti soltanto i Commentarii in Apocalypsim Ioannis,
di carattere marcatamente millenarista, un frammento del trattato De fabrica mun-
di e un opuscolo di dubbia attribuzione intitolato Adversus omnes haereses. Su que-
sti personaggi, si veda GEROL., De vir. ill., XVIII, CL; per Origene, Ireneo di Lione,
Cecilio Cipriano e Tertulliano, si veda supra, note 39, 6, 15, 41, pp. 225, 265, 79,
226.
17
Cfr. MT 16:17.
18
Cfr. GV 1:12-13.
19
Cfr. RM 11:34.
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99.
DELLA TEOLOGIA PROFETICA

Sì come la profezia è parlar di profeti, così la teologia altro


non è che dottrina di teologi, cioè di coloro che parlano con
Dio. Perciocché non ogniuno che avrà ricordato alcuna profe-
zia e la saprà interpretare, subito è profeta, ma colui che nelle
cose divine con scienza di pietà è pieno di virtù e di scienza,
quello che parla con Dio, e dì e notte si sta pensando nella leg-
ge di Lui1, che in questo modo Giovanni auttore dell’Apocalis-
se nelle lettere di Dionisio fu nominato teologo, cioè dal ragio-
nar con Dio2; a questi tali disse la istessa verità: «Chi ascolta voi,
ascolta me, e chi fa beffe di voi, fa beffe di me»3, la qual parola
non è stata detta < a i nostri maestri, non > a i contenziosi teo-
sofisti, < non a i mercatanti delle indulgenze, > ma a i veri teo-
logi, a gli apostoli, a gli evangelisti, a i nunzii della parola di
Dio, i quali dicono: «Io non ardisco di dire alcuna cosa, che
Cristo non fa per me»4. Le sante dottrine dunque di questi teo-
logi della fede e della pietà sono teologia. Alle parole et a gli
scritti di costoro si dà fede come a cose fondate non nelle con-
tenzioni de sillogismi o nelle opinioni de gli uomini5, ma nella
dottrina sana6, come dice Paolo, divinamente inspirata7, non

1
Cfr. SAL 1:2.
2
Cfr. DION. AREOP., Epist., X.
3
LC 10:16.
4
RM 15:18.
5
Cfr. REUCHL., De arte cabal., I, B6r.
6
Cfr. TT 1:9.
7
Cfr. 2 TIM 3:16.
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486 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

secondo l’usanza de filosofi dividendo, diffinendo, componen-


do, né speculando acquistata, ma con un certo essenziale tatto
di divinità per chiara visione compresa co’l lume divino. Della
quale visione molte specie ne ritroviamo nella Divina Scrittura,
secondo le diverse disposizioni di profeti nel ricevere, perché
leggiamo d’alcuni che videro Iddio o gli angeli in forma d’uo-
mo, altri in forma di fuoco, altri in forma d’aere e di vento, al-
tri in forma di fiume e d’acqua, altri in forma d’ucelli, altri in
forma di pietre preziose e di metalli, altri in forma di lettere e
di caratteri, o di mano che scriva, altri in suono di voce, altri in
sogni, altri in un certo spirito abitante in sé medesimo, altri
nella energia dell’intelletto, onde la Sacra Scrittura chiama
tutti i profeti vedenti. Così leggiamo: vision d’Isaia, vision di
Gieremia, vision d’Ezechiele, e degli altri8. E nella Legge Nuo-
va Giovanni dice: «Io fui in spirito in quel giorno del Signore,
nel quale essendo portato vidi il trono d’Iddio»9. E Paolo testi-
monia d’aver veduto cose che non è lecito a uomo a dire, e
questo vedere è chiamato da molti rapto, o estasi10, o morte spi-
rituale, perciocché si fa allora una certa separazione dell’ani-
ma dal corpo, ma non del corpo dall’anima. Di questa morte
intende quel detto: «L’uomo non vedrà Dio e vivrà»11. Et altro-
ve: «Preziosa è nel cospetto del Signore la morte de suoi san-
ti»12. E tuttavia più chiaramente è stata espressa per l’Apostolo,

8
Cfr. 2 CR 32:32; IS 6:1; EZ 1-3. Un’opera intitolata Visione di Isaia o Ascensione di
Isaia, redatta nel II sec., figura tra gli scritti apocrifi del Vecchio Testamento. L’o-
pera descrive i misteri scoperti da Isaia nei sette cieli, ossia la visione del Figlio di
Dio che discendeva attraverso i vari cieli sulla terra, la sua nascita dalla Vergine, la
sua passione e ascensione al settimo cielo. Sulla visione profetica, si veda anche
REUCHL., De verbo mirif., II, D4v.
9
APOC 4:2-3, 1:9-20.
10
Cfr. 2 COR 12:2-4; 2 COR 5:13; 1 COR 14:18. Il termine e[ktasi" indica propria-
mente «cambiamento di luogo». Non sempre, ma molto spesso, la parola indica
uno stato passeggero di eccitazione, che può giungere anche sino a un irrigidi-
mento delle membra. Può, inoltre, designare lo stato di esaltazione: se il pazzo o
l’esaltato viene ritenuto «pieno di Dio», ispirato, dotato di una forza particolare,
allora si può parlare di «rapimento estatico» (si veda PLAT., Phaedr, 244a; 256b).
Nel Nuovo Testamento il termine è utilizzato nell’accezione di «stupore», «sbi-
gottimento» (LC 5:26) e di «rapimento estatico» negli Atti a proposito di Pietro
(AT 10:9 e 11:5) e di Paolo (AT 9:12 e 22:17). Con Paolo il momento estatico si ac-
compagna alla visione del Cristo o di Dio (1 COR 9:1). Sull’argomento, si veda an-
che AGRIP., De occ. phil., III, 43, p. 540.
11
ES 33:20.
12
SAL 116:15.
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99. DELLA TEOLOGIA PROFETICA 487

dove dice: «Voi sete morti e la vostra vita è ascosa con Cristo»13.
Di questa morte dunque bisogna che muoia ogniun che vuole
entrare ne i luoghi sacri della profetica teologia, e di due sorti
è lo sguardo di questa visione così deificante: l’uno, col quale
si vede Iddio da faccia a faccia, et allora veggono i profeti come
dice Paolo, quel che non è lecito all’uomo ragionar14, e cose ta-
li che lingua d’uomini né d’angeli non è sufficiente a esprime-
re, né penna a scrivere15. Perciocché questo è un certo tatto et
unione della divina essenza et illustrazione dell’intelletto puro
e separato senza imagine o sembianza alcuna, e però i teologi
la interpretano visione meridionale, sì come di queste cose
longamente ragiona Agostino sopra il Genesi et Origene con-
tra Celso16. Un’altra visione è quando si veggono le parti poste-
riori di Dio17, cioè quando con chiara vista s’intendono le crea-
ture, le quali sono parti posteriori et effetti di Dio, per la co-
gnizione delle quali si viene a conoscere il creatore artefice e la
prima causa che fa tutte le cose, come dice il Savio: «Dalla
grandezza della specie e dalla creatura si potrà conoscere il
creator di quelle»18. E Paolo di questo medesimo dice: «Le co-
se invisibili di Dio intese per quelle che sono state fatte si co-
noscono»19. I Peripatetici anch’essi hanno in uso un certo mo-
do di dire che, argomentando da gli effetti alle cause, sono
detti arguire dalla posteriore. Mosè godeva l’una e l’altra di
queste visioni, come ne fanno fede le Sacre Lettere, perché
dalla prima si legge che Mosè vide il Signore da faccia a faccia;
dell’altra leggesi che Dio gli disse: «Tu vedrai le mie parti po-
steriori»20, e secondo questa seconda visione Mosè fece la leg-
ge, ordinò i sacrifici e le cerimonie, edificò l’arca, et in quelle
abbracciò gli altri misterii e tutti i secreti dell’opre di Dio e del-
la natura secondo il diligentissimo modello di tutto l’universo.
E questa visione si divide ancora in due parti, perciocché o ella
vede le creature in Dio istesso, e chiamasi da teologi vision

13
COL3:3.
14
Cfr. ERASMO, Antib., p. 219.
15
Cfr. 2 COR 12:4; 1 COR 13:12; 1 COR 2:9.
16
Cfr. AGOST., De Gen. ad Litt., XII, 26-27; ORIG., Contra Cels., VI, 4-6.
17
Cfr. ES 33:23.
18
SP 13:5.
19
RM 1:20.
20
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 6, 3; AGRIP., De occ. phil., III, 13, p. 438. Per i
luoghi biblici, si veda ES 33:11 e 33:23.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 488

488 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

mattutina, o vede Dio nelle creature, e chiamasi visione della


sera. Ecci oltra di questo una certa altra vision profetica, cioè
che si fa in sogno, come si legge in Matteo che l’angelo appar-
ve in sogno a Giuseppe21. Et altrove che i Magi, poi che ebbero
adorato Cristo, furono avisati in sogno che per un’altra via de-
vessero ritornare nel suo paese22. Di questa sono molti altri es-
sempi nel Testamento Vecchio, e finalmente Giobbe dichiara
come sia fatta questa visione, dove dice: «Nell’orrore della vi-
sion notturna, quando il sonno cade sopra gli uomini e ch’essi
dormano in letto, apre allora l’orecchie, et insegnando, gli
ammaestra con la disciplina»23. E questa, come quarta specie
delle visioni, si chiama notturna. Sonoci ancora due altre sorti
di profezia, l’una che si riceve con la voce espressa, con la qua-
le sorte furono illustrati et ammaestrati Mosè nel monte Sina,
Abraam, Iacob, Samuel, e molti altri profeti del Testamento
Vecchio; nel Nuovo gli apostoli e tutti i discepoli di Cristo fu-
rono con vera e viva voce ammaestrati da Cristo. Un’altra sorte
di profezia fassi con l’agitazione dello spirito, cioè quando l’a-
nima presa da qualche divinità, attaccata allora a quella e sepa-
rata dall’uomo animale, è riempiuta da lei di sapienza e di co-
gnizione sopra ogni ingegno e forza umana, la quale correz-
zione non solo viene dalla divinità angelica, ma talora anco
dallo spirito di Dio, come si legge di Saul che lo spirito di Dio
entrò in lui e profetò, e si mutò in un altro uomo e fu menato
tra i profeti24. E ne gli Atti de gli Apostoli lo Spirito Santo entrò
ne i battezzati in fiamma di fuoco25, e questo spirito spesse vol-
te ancora prende gli uomini legati ne i peccati, e molti poeti
de Gentili, come Cassandra, Eleno, Calcante, Amfiarao, Tire-
sia, Mopso, Amfiloco, Polibio Corinzio et anco Calano India-
no, Socrate, Diotima, Anasimandro, Epimenide Cretese, i ma-
gi di Persi similmente, i Bracmani asiatici, i Gimnosofisti de gli
Etiopi, i profeti di Memfi, i druidi de Galli e le Sibille furono di
questo spirito ripieni26. E talora a volere aver questa profetica
corezzione dello spirito ci vanno inanzi prima alcune cerimo-

21
Cfr. MT 1:20-21, 2:13.
22
Ivi, 2:12.
23
GB 33:15-18.
24
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 4; per il luogo biblico, si veda 1 SM 10:8-13,
11:6.
25
Cfr. AT 2:1-4.
26
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 2; AGRIP., De occ. phil., III, 47-48, pp. 549-550.
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99. DELLA TEOLOGIA PROFETICA 489

nie, e molto ancora giovano a questo fare l’auttorità dell’uffi-


cio e la communione delle cose, come la Scrittura ne dà l’es-
sempio di Balaam27, et altrove della applicazione d’efod28, e l’E-
vangelista testimonia di Caifa ch’egli profetò essendo pontefi-
ce di quello anno29. E di qui ancora i Mecubali30 de gli Ebrei
ebbero ardire di comentare l’ufficio del profetare. Io passo le
cose che i teologi con profonda contemplazione d’intelligenza
trattano de trentadue sentieri, e quelle che Agostino toccò de
gradi, Alberto delle recezzioni delle forme, delle quali egli ne
riferisce sette modi in sogni et altretante operazioni vegghian-
do. Circa le quali cose solamente avertiamo d’una che s’ha da
considerare: che non sempre le divinità del cielo incontrano
di fuor via a i profeti nell’aspetto o nel parlare, ma spessissime
volte quelle si causano di dentro, cioè allora quando la mente
del profeta piglia il lume divino, l’illustrazione della quale
sparsa con raggi suoi per tutti i mezzi fino in questo corpo
grosso, rende partecipi ancora i sensi istessi della felicità sua, e
passando dall’intelletto per la ragione e per l’imaginazione, et
universalmente per tutta l’anima fino a gli instromenti de i
sensi di dentro, in quegli riesce coperto come luce, visione, lu-
me o ragionamento che move ciascun senso con la sua propria
condizione31. E ciò avenne a molti profeti, ad alcuni vegghian-
do, ad alcuni in sogno. Così si legge in Platone e Proculo di So-
crate, i quali dicono ch’egli fu inspirato non solo con intelligi-
bile influsso, ma ancora per voce e per ragionamento32; nondi-
meno queste cose più facilmente accadono in sogno, ma basti
aver detto questo. Ritorniamo oggimai al proposito nostro. La

27
Cfr. AGRIP., De occ. phil., III, 47-48, p. 549. Per il luogo biblico relativo a Balaam,
un mago arameo secondo la tradizione Elohista, ammonita secondo quella Jahvi-
sta, si veda NM 22-25.
28
Cfr. AGRIP., De occ. phil., III, 47-48, p. 550. L’efod, di etimologia incerta, designa
nel linguaggio biblico: 1) l’efod strumento divinatorio che serviva a consultare
Jahve; 2) l’efod bad, «perizoma di lino», che portavano i ministri del culto; 3) l’efod
del sommo sacerdote, un grembiule sostenuto da cintura e bretelle. A questo
grembiule è attaccato il «pettorale del giudizio» che porta i segni delle sorti sacre,
gli urim e i tummin, destinati alla consultazione oracolare di Dio. L’efod del som-
mo sacerdote è così messo in rapporto con l’efod divinatorio, come il suo nome ri-
chiama l’antico vestito dei sacerdoti (si veda ES 28:6-14 e 39; LV 8:6-9).
29
Cfr. GV 11:49-52.
30
I Mecubali, nella lingua ebraica, sono coloro che ricevono le visioni.
31
Cfr. FIC., Theol. plat., XIII, 4; AGRIP., De occ. phil., III, 43, p. 538.
32
Cfr. PLAT., Phaedr., 242b-c; PROCLO, De prov., XLVIII, 2-3.
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490 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

teologia profetica è quella che per inspirazion di vista33 ne in-


segna la stabile parola di Dio, ma l’auttorità e gli argomenti co
i quali si fortifica la verità di quella, non sono pareri d’uomini,
non usanza di lungo tempo, non comenti imaginati di savi,
non magnifici ordinazioni di sette, non sillogismi, non entime-
mi34, non induzzioni, non obligazioni, non consequenze inso-
lubili, ma oracoli divini consonanti insieme, approvati in tutta
la Chiesa per unanime e stabile consentimento, confermati
con miracoli, con prodigii, con portenti e con santità d’ogni
sorte e pericolo della vita, e col testimonio ancora del proprio
sangue sparso. Dottori di questa teologia profetica abbiamo
Mosè, Giobbe, David, Salomone, e molti altri canonici scrittori
e profeti del Testamento Vecchio. I dottori del Nuovo Testa-
mento sono gli apostoli e gli evangelisti, e benché tutti questi
fossero pieni dello Spirito Santo, tutti però in alcun loco man-
carono della verità, et in un certo che furono bugiardi35, non
già che a studio né con malizia abbiano detto alcuna bugia,
perciocché il voler dire questo è uno errore dannosissimo,
maggiore e più pericoloso che le eresie d’Arrio e di Sabellio36,
che metterebbe sottosopra l’auttorità di tutta la canonica Scrit-
tura. Nondimeno in questo così grandissimo errore già fu quel
grande e santo Girolamo disputando della riprension di Pietro
contra Agostino, perciocché Girolamo aveva detto che Paolo
maliziosamente aveva detto il falso. Che si ciò fosse concesso, e
nella Sacra Scrittura sì fatta bugia s’admettesse, incontanente,
come dice Agostino, ruinerebbe tutta la certezza delle Sacre
Lettere. A cui Girolamo riconosciuto l’errore e la verità, dopo
molte contradizioni e difese dell’error suo, pur alla fine ces-
se37. Quello ch’io dico dunque che i sacri scrittori in certo mo-

33
Il testo latino reca: «ex intuitiva inspiratione», qui reso letteralmente con «in-
spirazion di vista» dal latino intueor, ossia «vedo nel profondo dell’oggetto».
34
Nel linguaggio della retorica il termine «entimema» sta a indicare propriamen-
te una forma di sillogismo ellittico, nel quale una delle due premesse è sottintesa.
Si veda, per es., QUINT., Instit. orat., V, 10, 1 e 14, 1.
35
Asserzione condannata dai teologi di Lovanio. Si veda Appendice 2, p. 534.
36
Per Ario e la sua eresia, si veda supra, p. 78; Sabellio (III sec.) diede origine a un
movimento eretico propugnatore dell’unità di Dio e della pura funzione di modi
di essere del divino svolta dalle tre persone della Trinità. Sull’eresia di Sabellio, si
veda, per es., EUSEB., Hist. eccl., VII, 6.
37
Per la polemica tra san Gerolamo e Agostino a proposito del celebre incidente
di Antiochia, nel quale Paolo richiamò Pietro alla coerenza nel comportamento, si
veda GEROL., Epist. LVI, LXVII, CIV, CV, CXII, CXV, CXVI; AGOST., Epist. XXVIII,
3-5; ERASMO, Antib., p. 217.
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99. DELLA TEOLOGIA PROFETICA 491

do sono stati bugiardi in alcun loco, voglio che s’intenda non


che volontariamente abbiano errato, ma umanamente siano
caduti e, mutata la volontà di Dio, mancati. Così mancò Mosè,
il quale aveva promesso al popolo d’Israel che lo menarebbe
fuor d’Egitto e lo condurrebbe in terra di promissione, che
ben lo trasse d’Egitto, ma non lo guidò già nella terra promes-
sa. Mancò Giona a Niniviti annunziandogli la ruina loro in ter-
mine di quaranta dì, la quale fu però prolungata. Mancò Elia
predicando i mali che devevano avenire ne i giorni d’Achab, i
quali furono nondimeno diferiti fino alla morte di lui. Mancò
Isaia annunziando a Ezechia che sarebbe morto dell’altro gior-
no, la quale morte gli fu prolungata quindici anni ancora38.
Mancaron similmente de gli altri profeti, e trovansi tutte le
profezie loro alcuna volta levate o sospese. Mancarono gli apo-
stoli ancora, e gli evangelisti. Mancò Pietro quando fu ripreso
da Paolo39. Mancò Matteo quando scrisse che Cristo non era
ancora morto quando la lancia gli aperse il fianco40. Ma questo
difetto non è dello Spirito Santo, ma o difetto del profeta che
non intende bene quel che gli dice lo Spirito o gli mostra la vi-
sione, o per alcuna mutazione fatta nelle cose delle quali egli
indovinava, onde avien poi che la sentenza dell’oracolo o si
muta o si prolunga. Di qui viene anco che tutti i profeti e gli
scrittori in alcune cose paiono bugiardi, secondo la Scrittura
che dice: «Ogni uomo è bugiardo»41. Ma solo Cristo Dio et uo-
mo mai non fu trovato, né si troverà, bugiardo, né le parole
sue si muteranno o mancheranno perché egli solo non conob-
be giamai menzogna, né mai disse oracoli da provocare con er-
rore, sì come e’ disse: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie
parole non passeranno»42. E perché ogni verità è per lo Spirito
Santo, solo Cristo fermamente possiede questo Spirito Santo,
né mai sarà licenziato da lui perché e’ riposa in lui. Non è così
de gli altri, perché lo Spirito venne sopra Mosè, ma ne fu leva-
to nella percossa della pietra. Venne sopra Aaron, ma se ne

38
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 5; per i luoghi biblici, si veda ES 3:16 sgg.;
DEUT 4:21 sgg.; GI 3:1-10; 1 RE 21:17-29; IS 38:1-21.
39
Cfr. GA 2:11-21 e supra, p. 490 e nota 37.
40
Il luogo non si trova né nel Vangelo di Matteo, né nei Vangeli apocrifi. Si veda,
invece, GV 19:34, dove il centurione infligge il colpo di lancia al corpo di Cristo
quando questi è già spirato.
41
SAL 116:11; RM 3:4.
42
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 4, 5; per il luogo biblico, si veda LC 21:33; MT
24:35; MC 13:31.
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492 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

partì nel peccato del vitello. Venne sopra Anna sorella loro, ma
l’abbandonò nel mormorare ch’ella fece contra Mosè43. Venne
sopra Saul, David, Salomone, Isaia e gli altri, ma non si fermò
in loro. Né però i profeti sono sempre profeti, né sempre veg-
gono, né sempre indovinano, né abito continuo è la profezia
ma dono, passione e spirito che passa: non essendo alcuno che
non pecche, nessuno è da cui lo spirito non parta, o almeno a
certo tempo non l’abbandone, salvo che dal solo figliuolo di
Dio Giesù Cristo, di cui fu per ciò detto a Giovanni: «Quello so-
pra di cui tu vedrai discendere lo spirito e fermarsi in lui, que-
sto è il figliuolo di Dio, il quale battezza in Spirito Santo, e può
similmente compartirlo in altri»44. Onde, come dice Simonide:
«Solo Iddio ha questo onore, ch’egli è metafisico»45, e così noi
veramente potremo dire: «Solo Cristo ha questo onore, ch’egli
è teologo»; né però creda alcuno che le Scritture del Testa-
mento Vecchio, dopo che nacque l’Evangelio col divino parto
di Cristo, sieno per questo come vane e morte. Perciò ch’elle
vivono sempre in grande auttorità: gli apostoli con esse prova-
rono le dottrine loro e non hanno parlato di cosa alcuna senza
il testimonio di quelle; Cristo ne rimette a loro che le dobbia-
mo considerare46, l’Evangelio del quale non scioglie quelle
Scritture ma le ha adempite fino a un minimo iota e punto. Ma
di questo più largamente ragioneremo a basso47. Questo di
nuovo s’ha da avertire ancora, che la Sacra Scrittura istessa
manca di molti suoi volumi, il che facilmente in lei medesima
si conosce. Perciocché Mosè allega i libri delle guerre del Si-
gnore48 e Giosuè il libro de giusti49, Ester il libro delle cose de-

43
Cfr. ES 17, 32; NM:12. Il testo latino reca giustamente: «venit super Mariam», poi-
ché la sorella di Mosè e Aronne si chiama Maria e non Anna.
44
GV 1:33.
45
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 1, 8; ARIST., Metaph., 982b.
46
Cfr. GV 5:39-47.
47
Cfr. infra, pp. 493-494.
48
Cfr. NM 21:14. Nel passo biblico è riportato un frammento desunto da un altri-
menti sconosciuto Libro delle guerre di Jahvé, forse una collezione di canti militari,
da cui viene citato il canto del pozzo, collegato a descrizioni, anche geografiche,
delle spedizioni militari d’Israele.
49
Cfr. GS 10:13; 2 SM 1:18. Il Libro del Giusto (S’ïper Hayyasar) è una raccolta di can-
ti eroici andata perduta, dalla quale è tratto il canto dell’arco. È possibile che da
questo libro perduto, e da quello precedentemente menzionato Libro delle guerre
di Jahvé, derivino altre citazioni dell’antica poesia, ed è possibile dunque che essi
siano stati utilizzati come fonti dagli autori biblici.
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99. DELLA TEOLOGIA PROFETICA 493

gne di memoria50, e’l libro de Macabei cita i libri santi de Spar-


tiati51, e’l Paralipomenon52 ricorda i libri delle lamentazioni, i
libri della visione di Samuel, i libri di Nathan, di Gad, di Se-
meia, di Haddo, di Ahia Silonita, di Giesù figliuolo di Ammo-
nio profeti53. Allega Giuda nella sua Epistola canonica il libro
di Enoch54. Citati da uomini degni di fede il libro di Abraam
patriarca, i quali tutti sono spenti, né si ritrovano in loco alcu-
no55. Né però tutti quegli ch’oggidì si leggono egualmente so-
no approvati. < Perciocché molti capitoli per entro, e tutto il li-
bro de Macabei, è tra gli Apocrifi56. Il medesimo è intravenuto
ancora de gli Evangelii e delle Epistole. > Perciocché Dionisio
allega l’Evangelio di Bartolomeo57 e Girolamo fa menzione

50
Cfr. EST 6:1.
51
Cfr. 1 MC 12:9.
52
Nella Vulgata i Paralipomeni sono i libri oggi intitolati Cronache. Il termine signi-
fica «cose omesse o tralasciate», designazione inesatta, derivata da una superfi-
ciale comparazione con i libri di Samuele e i libri dei Re.
53
L’elenco di tutti questi libri si trova in REUCHL., De arte cabal., I, D1v. Per i riferi-
menti alle Sacre Scritture, si veda 2 CR 35:25; 1 CR 29:29; 2 CR 12:15; 2 CR 9:29; 2 CR
20:34. Al profeta Geremia viene attribuito un lamento sul re Giosia: si tratta cer-
tamente di lamentazioni diverse da quelle dell’omonimo libro canonico della
Bibbia, che piange la caduta di Gerusalemme; al profeta Natan e ai veggenti Sa-
muele e Gad viene attribuita una storia del re Davide, altrimenti sconosciuta; al
profeta Semaia viene attribuita una descrizione delle gesta di Roboamo, figlio di
Salomone; ad Achia, profeta di Silo, al veggente Iddo e di nuovo al profeta Natan
è attribuita una storia del regno di Salomone (si veda anche 1 RE 11:41, dove è ci-
tato il Libro degli Atti di Salomone che raccoglierebbe appunto le gesta del re Salo-
mone); al veggente Ieu, figlio di Canani, è attribuita una storia delle gesta di Gio-
safat, re di Giuda.
54
Cfr. GD 14. A Enoch, il patriarca antidiluviano «preso da Dio» (cfr. GEN 5:24), so-
no attribuiti tre libri apocrifi: il Libro di Enoch etiopico o Primo libro di Enoch (I-II
sec.), il Libro di Enoch ebraico o Terzo libro di Enoch (V-VI sec.), il Libro dei segreti di
Enoch o Secondo libro di Enoch, la cui datazione é incerta.
55
Sotto il nome di Abramo sono pervenuti gli scritti apocrifi intitolati Apocalisse di
Abramo (I sec.) e Testamento di Abramo (I-II sec.).
56
Sebbene non facciano parte del canone biblico ebraico, il primo e il secondo li-
bro dei Maccabei appaiono nelle liste canoniche della Chiesa a partire dal IV sec.
Il Terzo Libro dei Maccabei (ca.70) e il Quarto Libro dei Maccabei (I sec.) compaiono
invece tra la letteratura apocrifa del Vecchio Testamento.
57
Cfr. DION. AREOP., De myst. theol., I, 3. Il Vangelo di Bartolomeo si trova citato anche
in GEROL., Comm. in Matth., Prologus; EPIF., De vita beatae Virg., V, 25. Esso compare
anche nel Decretum Gelasianum de libris recipiendis et non recipiendis, che però non è
del papa Gelasio (m. 498) e neppure di papa Damaso (m. 384) come pretende
qualche manoscritto, ma appartiene al VI sec. Il testo offre, oltre al catalogo com-
pleto dei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento stabilito dal Canone, un lungo
elenco di apocrifi.
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494 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

dell’Evangelio secondo i Nazareti58, e Luca nella prefazzione


del suo Evangelo dice che molti avevano tolto a scrivere l’E-
vangelo59, i quai libri tutti sono spenti e più non si ritrovano e
molti di quegli, per essere stati corrotti da gli eretici o publica-
ti senza titolo di certo auttore, non sono stati admessi da i pa-
dri, né approvati dalla Chiesa. Taccio in questo mezzo de i falsi
profeti, i quali sono sotterrati per vanagloria, profetando cose
che lo Spirito Santo non gli ha detto, ma certe non più udite
bugie le quali non sono della verità della Scrittura, né introdu-
cono sette all’unione dello spirito, né alla pace della Chiesa, e
facendosi con una temeraria prosonzione quasi consiglieri
d’Iddio, hanno ardimento di pigliare il Testamento del Signo-
re nella sua bocca60 e scrivere profezie et Evangelii, tutte le
quali cose sono o eretiche, o apocrife, né inserte nel sacro ca-
none, come chiaramente si fa de i canoni de gli apostoli. Ma i
cantici di Salomone anch’essi non sono inserti nel Sacro Ca-
none de gli Ebrei se prima non furono castigati et approvati da
Isaia profeta61. E così da queste cose facilmente si vede che la
vera teologia, cioè la Sacra Scrittura, si trova privata de suoi vo-
lumi, et in un certo modo manca e defettiva, e come assai po-
chi di molti n’avanzano veri e certi, i quali come libri della vita
formino il sacro canone.

58
Numerosissime sono le testimonianze di san Gerolamo sul Vangelo dei Nazareni:
si veda, per es., GEROL., De vir. ill., III e XVI; Contra Pelag., III; Comm. VI in Ez.,
XVIII, 7; Comm. I in Matth., XII, 13; Comm. IV in Matth., XXIII, 35 e XXVII, 51; Epi-
stola CXX (ad Hedibiam), 8; Comm. in Is., XVIII, praef. L’esistenza di un Vangelo dei
Nazarei (o Nazorei o Nazareni), giudeo-cristiani della Siria, è attestata da Epifanio
di Salamina in Haer., XXIX, 9, 4, ma il carattere frammentario e indiretto della
documentazione a noi pervenuta, impedisce di ricostruirne genesi e contenuto.
L’autenticità delle ripetute affermazioni di Gerolamo circa una sua traduzione in
greco e in latino del Vangelo dei Nazareni, rimane dubbia, come non è certo che
egli abbia davvero letto e conosciuto il testo.
59
Cfr. LC 1:1-2.
60
Cfr SL 50:17.
61
Possibile allusione alla letteratura apocrifa attribuita a Salomone, vale a dire le
raccolte intitolate Odi di Salomone (70-125) e Salmi di Salomone (I sec.), oltre a un
racconto intitolato Testamento di Salomone (III sec.).
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100.
DELLA PAROLA DE IDDIO

Ecco che pur avete udito quanto tutte le discipline siano


dubbiose, quanto bifulcate, quanto incerte, quanto piene di
pericolo, che quanto è in loro siamo sforzati di non sapere do-
ve riposi la verità, dico nella teologia ancora, se non è chi abbia
la chiave della scienza1 e della discrezione. Perciocché l’arma-
rio della verità è serrato e coperto da vari misterii, e chiusa an-
cora a gli uomini savi e santi la via onde per noi si possa entra-
re a così incomprensibile tesoro. E questa è la sola chiave, né
altro, che la parola di Dio2; questa sola discerne ogni forza e
spezie di parole, e qual parlare vegna dall’arte sofistica, il qua-
le non mostri la verità ma una certa imagine di quella, giudica
ancora qual ragionamento possegga la verità non in sembianza
e belletto, ma in essere et in ragione. In quella si vince ogni ar-
te di malizia e di menzogne, né contra lei possono durare ar-
gomenti, né sillogismi, né astuzie alcune di sofismi. Chi non
s’acqueta in quella, o chi discorda da quella, questo tale, come
dice Paolo, è superbo e non sa nulla3. Bisogna dunque che noi
essaminiamo alla parola di Dio tutte le discipline e le opinioni
delle scienze come s’essamina l’oro alla pietra del paragone4,

1
Per l’espressione biblica «clavis scientiae», si veda LC 11:52.
2
Sul primato della preghiera e della parola divina, si veda anche AGRIP., De occ.
phil., III, 4-7, pp. 409-418.
3
Cfr. 1 TM 6:3-4.
4
Il testo latino reca: «Lydius lapis» (dal greco Ludiva livqo"), l’antico nome della
roccia ‘lidite’ o «pietra di paragone», varietà di diaspro di tinta unita nera adope-
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 496

496 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

et in tutte le cose abbiamo da ricorrere a lei come a saldissima


pietra. Con questa sola bisogna che si guadagniamo la verità di
tutte le cose e che giudichiamo di tutte le discipline, delle opi-
nioni e de i comenti d’ogniuno, < e che non si leghiamo per le
dottrine, per le chiose, per li comenti o per gli altri detti de gli
uomini, ancora che santissimi e dottissimi, di quei, dico, che
parlano o senza o contra l’auttorità della parola di Dio >. Per-
ciocché, come dice Gregorio, tutto quello che non ha auttorità
da lei, con la medesima facilità si sprezza ch’è provato, ma la
scienza di questa parola non ci è stata data da scola alcuna di fi-
losofi, < da alcuna Sorbona di teologi >, né da studii di alcuni
scolastici, ma da Dio solo e Giesù Cristo5 per lo Spirito Santo in
quelle Scritture che sono chiamate canoniche, alle quali se-
condo il precetto divino nulla si può levare né aggiugnere6.
Perché sia chi si voglia che ciò faccia, ancora che fosse l’angelo
del cielo, è anatema e maledetto dalla legge di Dio7. Questa
Scrittura ha tanta maestà e tanta possanza ch’ella non compor-
ta comento alcuno straniero, né umane, né angeliche chiose8.
Né come se fosse di cera piegar si lascia a gli opinioni de gli in-
gegni umani, né sopporta secondo il costume delle favole
umane, a guisa di alcuno Proteo poetico, di lasciarsi trasforma-
re o cambiare in vari sensi, ma sufficiente per se medesima,
espone e dichiara se stessa9, e giudicando tutte l’altre, ella da
nessuno è giudicata. Perciocché maggiore è l’auttorità sua, co-
me dice Agostino, che ogni sottilità d’umano ingegno, perché
ha un fermo, semplice e santo senso con cui solo sta la verità e
co’l quale si combatte e si vince10. Ma gli altri sensi morali fuor
di questo, mistici, cosmologici, tipici, anagogici, tropologici et
allegorici, co i quali molti la dipingono con varii e peregrini

rata per saggiare il titolo dell’oro e, più in generale, dei metalli preziosi (si veda
PLIN., Nat. hist., XXXIII, 43, 126; ERASMO, Adagia, I, 1, 5).
5
Da «ma la scienza…»: asserzione condannata dai teologi di Lovanio. Si veda Ap-
pendice 2, p. 534.
6
«…cui nihil addere licet nihilque detrahere»: asserzione condannata dai teologi
di Lovanio. Si veda Appendice 2, p. 534.
7
Cfr. APOC 20:1-10.
8
Asserzione condannata dai teologi di Lovanio. Si veda Appendice 2, p. 534.
9
«sed seipsam exponit»: asserzione condannata dai teologi di Lovanio. Si veda
Appendice 2, p. 534.
10
Cfr. AGOST., De civit. Dei, XI, 3.
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100. DE LA PAROLA DE IDDIO 497

colori, ben ne possono drittamente e veramente insegnare al-


cune cose e persuadere ancora a edificazione della plebe, ma
non possono già provare cosa alcuna, o impugnare o reproba-
re a confermare l’auttorità della parola di Dio. Perciocché alle-
ghi pure alcuno in contrasto alcuno di questi sensi, cite ancora
qual si voglia grave auttor di quello, alleghi lo interprete, alle-
ghi la chiosa, alleghi l’esposizione di tutti i santi padri, tutte
queste cose non ci legano in modo che non ci possiamo scior-
re. Ma dall’ordine della Scrittura, dal tratto e dall’ordine di
quella si annodano lacci che nessuno gli può rompere, né
uscirne, anzi, rompendo e dissipando tutte le forze de gli argo-
menti, lo sforza a dire e confessare che gli è il dito di Dio, che
l’uomo non ragionò mai di questa maniera, che non favella co-
me gli scribi e farisei fanno, ma come colui che ha possanza11.
Ma gli auttori di quella inspirati da Dio con salutifera auttorità
ne hanno fatto un canone, la magnificenza di cui è tale che bi-
sogna ch’ogni cosa gli crediamo, e quanto ha pronunziato et
insegnato, senza retrattazzione alcuna, per fermo e santo si
tenga. Come di questo intese Agostino ch’egli dava solo questo
onore a quei libri i quali si chiamano canonici, ch’egli fermis-
simamente crede che nessuno di quegli scrittori abbia errato,
ma che a gli altri non vuol credere con quanta dottrina e san-
tità hanno in loro, se con ragion manifesta non persuadono
con le Lettere Divine cose che non sia lontana dal vero12. A
queste ne confina Cristo, insegnandoci a considerar le Scrittu-
re. L’Apostolo da quelle comanda che proviamo ogni cosa e
tenghiamo le buone e gli spiriti ancora, se sono da Dio13, e che
in quelle si può rendere ragione d’ogni cosa e riprendere quei
che contradicono, acciocché in questo modo fatti spirituali,
giudicar possiamo ogni cosa e da nessuno esser giudicati14. Ma
la verità e l’intelligenza di queste Scritture, parlo delle canoni-
che, pende dalla sola auttorità d’Iddio rivelante, la quale com-
prendere non si può per alcun giudicio de sensi, per ragione
alcuna che discorra, per nessun sillogismo che dimostre, per
nessuna scienza, per nessuna speculazione, per nessuna con-

11
Cfr. MT 7:29.
12
Cfr. AGOST., Epist., CCXVII e De civit. Dei, XVIII, 38; 41.
13
Cfr. 1 TS 5:19-22.
14
Cfr. 1 COR 2:15.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 498

498 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

templazione, e finalmente con nessuna umana forza salvo che


per la sola fede in Giesù Cristo, infusa da Dio padre per lo Spi-
rito Santo nell’anima nostra. La quale è di tanto superiore e
più stabile d’ogni credenza delle scienze umane di quanto Id-
dio è più sublime e più verace de gli uomini. Ma che dico io
più verace? Anzi Iddio solo è verace et ogni uomo bugiardo15.
Tutto quel, dunque, che non viene da questa verità è errore, sì
come ciò che non è dalla fede è peccato16. Perché solo Iddio
ha in sé il fonte della verità, dal quale necessario è che attinga
chi desidera le vere dottrine, poi che non è, né si può avere,
scienza alcuna de i secreti della natura, delle sustanze separate,
né di Dio auttore di quelle, se non è divinamente rilevata17.
Perciocché le cose divine non si toccano con le forze umane, e
le naturali a ogni momento fuggono del senso, la onde aviene
che quella che noi crediamo scienza di queste cose è falsità et
errore; il che rimprovera Isaia dicendo in questo modo a i filo-
sofi e savi de Caldei: «La sapienza e scienza tua è quella che
t’ha ingannato: tu sei mancato nella moltitudine delle inven-
zioni tue»18. Con gran vigilanza sta avertito il grammatico di
non peccare nel parlare, di non proferire parola roza o barba-
ra, ma in questo mezzo punto non cura le disonestà et i pecca-
ti della vita. Similmente il poeta vuol più tosto zoppicare nella
vita che nel verso; l’istorico scrive e raccomanda alla memoria
i fatti de i re e de i popoli e l’ordine de i tempi, ma nessuno
conto tiene della propria vita, e se pur ne tiene, non vuole o si
vergogna confessarlo. L’oratore ha più a noia la rozzezza del-
l’orazione che la deformità della vita; il loico vuol più tosto ri-
negare la verità manifesta che cedere all’aversario con una
conclusione di sillogismo. Gli aritmetici et i geometri ogni co-
sa numerano e misurano, ma non fanno conto de i numeri, né
delle misure dell’anima e della vita19. I musici anch’essi tratta-
no di suoni e di canti non curando i costumi, né le dissonanze
dell’anima, come tassar gli soleva Diogene Sinopeo dicendo
che comodamente tempravano le corde della lira all’armonia,

15
Cfr. SAL 116:11; RM 3:4.
16
Cfr. RM 5.
17
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, I, 2, 8.
18
Cfr. REUCHL., De verbo mirif., I, B2v. Per il luogo biblico, si veda IS 47:10.
19
Cfr. ERASMO, Antib., p. 160.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 499

100. DE LA PAROLA DE IDDIO 499

ma i costumi dell’animo avevano discordi e distemperati20. Gli


astrologi considerano i cieli e le stelle, et indovinano nel mon-
do quel c’ha da venire a gli altri, ma non attendono a ciò che
tuttodì soprasta loro21. I cosmografi danno notizia delle terre,
della forma de i monti, del corso de i fiumi, de i termini delle
provincie, ma non però fanno l’uomo né migliore, né più sa-
vio. I filosofi con gran vanto investigano le cause, i principii
delle cose, ma non conoscono, né curano Iddio creatore d’o-
gni cosa22. Fra i principi et i magistrati non è pace alcuna, e l’u-
no per ogni poco d’utile corre alla ruina dell’altro. I medici cu-
rano i corpi de gli infermi e sprezzano l’anime loro. I giuristi
osservantissimi delle leggi umane trapassano i precetti divini,
la onde è andato in proverbio: «Né il medico ben vive, né il
giurista ben muore», essendo i medici la più disordinata sorte
d’uomini che siano, et i giuristi i più scelerati che vivano al
mondo, e come di continuo veggiamo, e Baldo giuriconsulto23
uomo di grandissima fama tra loro ne fa testimonio, spesse vol-
te muoiono di subitanea morte. I teologi gridando predicano a
noi i comandamenti di Dio e le sacre dottrine, ma nel viver lo-
ro gli stanno molto lontano24, e vogliono più tosto parere di co-
noscere che d’amare Iddio, < e fosse pur vero che molti di loro
ancora sotto protesto di teologia non difendessero la dottrina
del diavolo, conculcando e dannando la verità della parola di
Dio>. Colui dunque che sa tutte l’altre cose scrivere e ragionar
bene, sappia le forze del verso, le vicissitudini de secoli, i modi
dell’argomentare, gli ornamenti dell’orazione, i colori retorici
e la memoria di molte cose, le proporzioni e le sorti de i nu-
meri, l’armonia di tutte le voci et i modi delle saltazioni, le mi-
sure di tutte le quantità, i flessi e reflessi di tutti i raggi, i siti
della terra e del mare, le grandezze di tutti gli edificii, le varie
fabriche delle machine, le contese delle guerre, il lavorare del-
le campagne, le caccie, i paschi et il modo d’ingrassar gli ani-
mali, et ogni sorte dell’arte contadinesca, ogni industria delle

20
Cfr. DIOG. LAERZ., Vitae philos., VI, 2, 27 e 65.
21
Cfr. ERASMO, Antib., p. 160.
22
Ibid.
23
Baldo degli Ubaldi (1327-1400), appartenente alla scuola giuridica detta dei
commentatori o scolastici, è, insieme con Bartolo da Sassoferrato suo maestro, il
più importante dei giureconsulti del XIV sec.
24
Cfr. ERASMO, Antib., p. 160.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 500

500 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

arti mecaniche e de gli artefici, la pittura, la scultura, l’arte di


getto, l’arte del fabro, la mercantile e la navigatoria, i corsi del-
le stelle e gli influssi in queste cose inferiori, le ingeniose indo-
vinazioni de fati e tutto ciò che può indovinare le cose future e
secrete, gli inespugnabili e più che magici mostri delle arti ma-
giche, i secreti cabalistici, le cagioni di tutte le cose naturali, le
altissime sedi e nature de i trascendenti, le censure de i costu-
mi, le varie administrazioni della republica, le discipline do-
mestiche, i rimedi delle infirmità, le forze delle medicine, la
cognizione e le misture di quelle, i delicatissimi apparati delle
vivande, rivoltare le specie delle cose e trar di tutte lo spirito
del mondo. Sappia ancora l’una e l’altra ragione, le tragedie
forensi delle advocazioni, < le contese sorboniche, le ipocrisie
de i cocollati > e le dottrine pie de santi padri delle cose divine;
costui, dico io, ancora che tutte queste cose sappia, e s’altre ve
ne sono, nondimeno non sa nulla se non sa la volontà della pa-
rola di Dio e non la esseguisse: colui che tutte l’altre cose ha
imparato e non sa questa, indarno ha imparato, indarno sa
ogni cosa. Nella parola di Dio è la strada: quivi è la meta, quivi
è la regola dove bisogna andare chi non vuole errare e toccar
la verità; tutte l’altre scienze sono suggette al tempo et all’o-
blio; anzi non pure queste scienze et arti, ma queste lettere an-
cora, caratteri e lingue che usiamo periranno, e se ne leveran-
no dell’altre, e forse già più d’una volta sono state estinte e di
nuovo spesse volte ritorneranno in vita. Né sempre si tenne un
medesimo modo d’ortografia, né fu sempre simile appresso
ogniuno, né alla medesima età, e la vera pronunzia della lin-
gua latina oggidì non si ritrova in loco alcuno, e gli antichi ca-
ratteri de gli Ebrei sono spenti, ne s’ha memoria di quegli. E
quegli che s’usano ora gli ritrovò Esdra25, e la lingua loro è sta-
ta corrotta da Caldei, il che quasi a tutte le lingue è intravenu-
to perché oggidì non ve n’è alcuna che riconosca o intenda la
sua antichità, nascendo tuttavia di nuovi vocaboli e mancando
i vecchi, e questi di nuovo ritornando all’esser di prima, di mo-
do che cosa alcuna non v’è né stabile né continua. Finalmente
è sentenza di Terenzio che nulla ora si dica che prima non sia
stato detto26, e così per aventura cosa fatta non è che prima

25
Cfr. supra, pp. 33-34, nota 5.
26
Cfr. TEREN., Eun., 41.
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100. DE LA PAROLA DE IDDIO 501

non sia stata fatta; anzi alcuni, fra i quali è il Volterrano, vo-
gliono che la bombarda, la quale quasi comunemente da
ogniuno è riputata invenzion nuova de Tedeschi, fosse in uso
appresso de gli antichi, e questo provano co i versi di Vergilio:

Vidi anco Salmoneo patir gran pena,


mentre il folgor di Giove, e’l suon del cielo,
portato da cavai quattro, imitava.
Ei per la Grecia et in mezzo Elide andava
vittorioso, e si chiamava Iddio.
Pazzo, che i tuoni et i folgori voleva
contrafar col metallo, e co i cavalli27.

Di questo medesimo non ragionò egli l’Ecclesiastico, quan-


do disse: «Che è quello che già è stato, ciò che già fu fatto? Che
è quello ch’è stato fatto? Quello che s’ha da fare. Nessuna cosa
è nuova sotto il sole, né alcuno può dire: «Ecco che questa co-
sa è nuova», che già è stato ne i secoli che furono inanzi noi.
Non s’ha memoria delle cose passate, ma né di quelle cose an-
cora che hanno a essere da poi sarà memoria appresso di que-
gli che verranno l’ultimo giorno». E poco più a basso dice:
«Muore il dotto e l’ignorante ancora»28. Che direm noi qui
dunque se non che tutte le scienze e le arti sono soggette alla
morte et allo oblio29, né perpetuamente resteranno nell’ani-
ma, ma insieme con la morte passeranno nella morte, dicendo
Cristo che ogni pianta, la quale il Padre Celeste non avrà pian-
tato, sarà eradicata e posta nel fuoco eterno, tanto lontana è la
scienza da farci immortali30? Sola la parola di Dio dura in eter-
no31. La cognizione della quale è tanto necessaria a noi che chi
la sprezzerà non ne farà stima e non l’udirà, col testimonio
della parola istessa nelle Sacre Scritture, Iddio manderà sopra
di lui la maledizzione, la dannazzione e l’eterno giudicio32.
Non devete dunque pensarvi ch’ella appartenga solo a i teolo-
gi, ma ad ogniuno, < o maschio o femina, o vecchio o giovane,

27
VIRG.,
Aen., VI, 585-591.
28
ECCLI1:9-11 e 2:16.
29
Asserzione condannata dai teologi di Lovanio. Si veda Appendice 2, p. 535.
30
Cfr. MT 15:13.
31
Cfr. IS 40:8; GV 5:24.
32
Cfr. GER 11; DEUT 11:26-28.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 502

502 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

o fanciullo o terrazzano, o foristiero, > ogniuno, secondo la


grazia della capacità che gli è data, è tenuto ad averne cogni-
zione et a non partirsi da quella quanto importa un fuscello.
Per questo è comandato nel Testamento Vecchio: «Queste pa-
role ti staranno in core tutti i giorni della vita. Tu le dirai e co-
manderai a tuoi figliuoli e nipoti che n’abbiano ad aver cura et
essequirle; a quelle penserai stando in casa tua e caminando
per la strada, dormendo e levando. E te le legherai per segno
nella mano, farai d’averle sempre inanzi a gli occhi e di scrive-
re sul limitare e ne gli usci della tua casa»33. Così Giosuè lesse
tutte le parole e quelle cose ch’erano state scritte nel volume
della legge inanzi a tutto il popolo, alle donne, a i fanciulli et a
i foristieri34. Et Esdra portò il libro della legge dinanzi a tutta la
moltitudine de gli uomini e delle donne, e tutti quei che pote-
vano intendere, et apertamente lo lesse nella piazza35. E Cristo
comanda che’l suo Evangelo sia predicato a ogni creatura per
tutto il mondo36, e non già nelle tenebre, non nell’orecchie,
non di secreto, non nelle camere, non ad alcuni maestri e scri-
bi tratti da parte, ma publicamente, al lume sopra i tetti, al po-
polo, alle turbe. Perché egli in questo modo ragiona a gli apo-
stoli: «Quel ch’io dico a voi, io lo dico ad ogniuno; quel ch’io vi
dico nelle tenebre, ditelo voi al lume, e quello ch’udite nelle
orecchie, predicatelo sopra i tetti»37. E Pietro ne gli Atti dice:
«Egli ne comandò che predicassimo al popolo»38. E Paolo co-
manda che i fanciulli s’allevino nella instituzione e nella ad-
monizione di Cristo39; anzi Cristo medesimo riprese i discepoli,
i quali non lasciavano andare i fanciulli da lui40, la simplicità et
umiltà de i quali, sì come quei che non hanno l’animo preve-
nuto da alcune malvagie opinioni, né gonfio di veruna umana
scienza, mostra che talmente è necessaria all’auditore delle pa-
role divine, che se alcuno non si fa a guisa di fanciullo non è

33
DEUT6:6-9; 11:18-20.
34
Cfr. GS 8:35.
35
Cfr. ESD 8, ma si veda anche GEROL., Chron., II, CCXC.
36
Cfr. MC 16:15
37
MT 10:27.
38
AT 10:42.
39
Cfr. EF 6:4.
40
Cfr. MT 19:13-15.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 503

100. DE LA PAROLA DE IDDIO 503

pur un poco degno del regno di Dio41. Però Crisostomo in una


certa omilia vuole che i fanciulli sopra tutto si debbano occu-
pare nelle Divine Lettere, e vuole ancora che in casa e privata-
mente i mariti con le mogli e co i figliuoli disputino fra loro
delle Sacre Lettere, e che quando uno e quando un altro ne
cerchi e ne dia sentenza42. Et il Concilio Niceno ordinò ne suoi
decreti che alcun cristiano non stesse senza i sacri libri della
Bibbia. Sappiate voi dunque che non è alcuna cosa nelle Sacre
Lettere tanto aspra, tanto profonda, tanto difficile, tanto asco-
sa, tanto santa che non appartenga a tutti i fedeli di Cristo,
< né che talmente sia stata fidata a questi nostri maestri che
debbano, né possano, asconderla al popolo cristiano, > anzi
tutta la teologia deve esser comune a tutti i fedeli, ma a ciascu-
no secondo la capacità e misura del dono dello Spirito Santo.
È dunque ufficio di buon dottore distribuire a ciascuno quan-
to ne può capire, a quello nel latte, a quell’altro in cibo sodo, e
non mancare a nessuno del pasto della necessaria verità43.

41
Cfr. MC 10:14-16; LC 18:16-17.
42
Cfr. CRISOST., Epist. ad Eph. comm., Hom. XXI, 1.
43
Cfr. EB 5:12.
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ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 505

101.
DE I MAESTRI DELLE SCIENZE

Insomma, per ritornare in me stesso, voi avete inteso delle


cose che da principio insino a qui sono state dette niente altro
essere le scienze e l’arti che documenti de gli uomini, approva-
ti da noi per la buona credenza verso loro, e quelle tutte non
essere composte d’altro che di cose dubbie e d’opinioni, per
demostrazioni apparenti, e tutte essere non tanto incerte
quanto fallaci et impie ancora. La onde è totalmente impio a
credere ch’elle ne possano arrecare alcuna beatitudine di divi-
nità: questa fu già superstizione de Gentili, i quali con divini
onori riverivano gli inventori delle cose e quei che vedevano
avanzare gli altri in alcuna arte o scienza, e gli collocavano nel
numero de suoi dèi, dedicandogli tempii, altari e simulacri, et
adorandogli sotto varie imagini. Sì come Vulcano appresso gli
Egizzii, essendo primo filosofo, e riferendo i principii della na-
tura al fuoco, esso fu dapoi adorato per Dio del fuoco; et Escu-
lapio, come dice Celso, perché egli un poco più sottilmente es-
sercitò la medicina, ch’era ancor roza, fu per ciò messo nel nu-
mero de gli dèi1. E questa è la deificazione, né ve n’è altra del-
le scienze, la quale quello antico serpente artefice di così fatti
dèi prometteva a i nostri primi padri, dicendogli: «Voi sarete
come dèi, sapendo il bene e’l male»2. Vantisi dunque in questo
serpente che si gloria nella scienza, perciocché nessuno potrà

1
Cfr. CELSO, De medic., I, prooem.
2
GEN 3:5.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 506

506 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

possedere la scienza se non col favore del serpente, le dottrine


del quale non son altro che illusioni, e’l fine è sempre cattivo,
come anco è passato in proverbio appresso il vulgo: «Tutti i sa-
vi impazzano», col quale si conforma anco Aristotele, dicendo
che non v’è nessuna gran scienza senza mistura di pazzia3. Et
Agostino testimonia che molti per desiderio di sapere hanno
perduto il senso, né cosa alcuna è più contraria alla religione
et alla fede cristiana che la scienza; né meno si confanno insie-
me4. Perciocché sappiamo per le istorie ecclesiastiche, e la
esperienza ce l’ha insegnato, qualmente crescendo la fede di
Cristo le scienze sono andate a basso, di modo che la maggior
parte, e la miglior di quelle, si sono spente affatto, perché
quelle potentissime arti magiche se ne sono partite in guisa
che non v’è rimaso pure orma, e di tante sette di filosofi appe-
na ve n’è restata una, la peripatetica, né anco questa intiera.
Né però mai stette meglio, né in maggior riposo la Chiesa, se
non quando tutte quelle scienze erano ridutte all’estremo,
quando la grammatica non era se non appresso d’uno Alessan-
dro francese, la loica erano in mano di Pietro spagnuolo, alla
retorica bastava Lorenzo d’Aquileia, alle istorie sodisfaceva il
fascicolo de tempi, per le discipline matematiche il computo
ecclesiastico, et a tutte l’altre era assai d’uno Isidoro5. Ma ora
che sono risuscitate la perizia delle lingue, l’ornamento del di-
re e’l numero de gli auttori, e le scienze crescono, turbasi la
tranquillità della Chiesa e levansi nuove eresie. Né vi è genera-
zione alcuna d’uomini manco acconcia a ricevere la cristiana
dottrina quanto coloro c’hanno già ripiena la mente d’opinio-
ni di scienze. Perciocché essi sono tanto ostinati e saldi nelle
loro opinioni che non lasciano loco alcuno allo Spirito Santo,

3
Cfr. SEN., De tranq. anim., XVII, 10; ARIST., Probl., XXX, 1.
4
Asserzione condannata dai teologi di Lovanio (si veda Appendice 2, p. 534). Cfr.
AGOST., Contra Cresc. gramm., XXXIV, 43 e XXXVII, 48, ma si veda anche Contra
gaud. Donat., III, 3 e XIII, 14.
5
Alessandro di Villadei (ca.1170-1250), autore di una grammatica latina in versi
intitolata Doctrinale puerorum che ebbe grande diffusione nel periodo umanistico;
Pietro Ispano (1219/20-1277), autore delle Summulae logicales, composte verso il
1250, un compendio di logica che ebbe grande diffusione nei secoli successivi;
Lorenzo d’Aquileia (1269-1304), o Laurencius de Aquileia, autore di un’opera
intitolata Practica siue usus dictaminis; Isidoro di Siviglia (ca.560-636), l’ultimo dei
Padri occidentali, è noto soprattutto per gli Etymologiarum libri, un’opera in 20 li-
bri, autentica enciclopedia del sapere dell’epoca, che venne editata e conclusa da
Braulio di Saragozza.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 507

101. DE I MAESTRI DELLE SCIENZE 507

e talmente s’assecurano e confidano nelle proprie forze e nel


proprio ingegno che non cedono né admettono verità alcuna
se non quella che possono mostrare con ragion sillogistica, ma
di quelle cose ridono e fanno beffe ch’essi non possono inve-
stigare o intendere con le proprie forze e con l’industria. E
però Cristo l’asconde a i savi e prudenti, e la rivela a i pargolet-
ti6, cioè a quegli che sono poveri di spirito, che non posseggo-
no tesoro alcuno delle scienze, che sono mondi di core, né
macchiati da openioni di scienze, < e nel core de i quali, come
in tavola rasa, non vi è dipinto ancora nulla di dottrine umane,
> che sono uomini di pace, non settatori, non contenziosi, né
combattono la verità con ostinati sillogismi, e che patiscono
persecuzione per la verità e per la giustizia7, < che sono tenuti
per asini e per bestie di quei contenziosi sofisti che sono stra-
scinati per le scole, levati da i pergami, cacciati da gli studi, al-
cuna volta calonniati per eretici, e spesse volte ancora minac-
ciatogli pericolo della vita e con tormenti crudeli talora fatti
morire >. In questo modo in Atene fu già tolto del mondo So-
crate, Anassagora condannato alla morte, Diagora accusato di
vizio capitale, ma egli con veloce fuga scampò la morte che gli
soprastava8. Fra i profeti de gli Ebrei ancora Isaia fu tagliato
per mezzo, Gieremia lapidato, Ezechia ucciso, Daniel condan-
nato alle bestie, Amos amazzato con un bastone, Michea preci-
pitato, Zaccheria ucciso appresso l’altare9, Elia perseguitato da

6
Cfr. MT 11:16.
7
Ivi, 5:10; SP 11:20.
8
Cfr. REUCHL., De verbo mirif., I, B6v, ma si veda anche ATEN., Deipn., XIII, 611a-b.
Sulla condanna a morte di Anassagora di Clazomene (V sec. a.C.), si veda DIOG.
LAERZ., Vitae philos., II, 3, 12.
9
Cfr. REUCHL., De verbo mirif., I, C1r. Per la morte del profeta Isaia, tagliato con
una sega per ordine del re Manasse, la fonte è l’apocrifo intitolato il Martirio di
Isaia, un’opera giudaica con delle interpolazioni cristiane, redatte in aramaico o
ebraico tra il I sec. a.C. e il I sec. La causa del martirio è la profezia di Isaia sull’a-
postasia del re e della nazione e la dichiarazione di Isaia di aver visto Dio e la con-
seguente accusa di blasfemia nei suoi confronti (2 RE 21:16). Il racconto era co-
nosciuto anche da Origene, da Giustino e Tertulliano, ed è riportato anche nel
Talmud. Per la morte per lapidazione del profeta Geremia, la fonte è un altro
scritto apocrifo intitolato Paralipomeni di Geremia, scritto probabilmente in greco
fra il 118 e il 130; per la morte di Ezechia, il riferimento potrebbe essere all’apo-
crifo intitolato Testamento di Ezechia, racconto giudaico della fine del I sec.; per
Daniele nella fossa dei leoni, si veda DN 6; 14:31-42; Michea potrebbe essere il
profeta, figlio di Imla, che predisse la sconfitta del re Acab contro gli aramei e
per questo fu gettato in prigione (1 RE 22:5-28; 2 CR 18:7-27); per la morte di Zac-
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508 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Iezabele, la quale anch’essa amazzò di molti profeti10. E quel


santo patriarca Abraham anch’egli fu gettato in una fornace
da Caldei. Così furono ancora con diversi tormenti uccisi gli
apostoli di Cristo et i discepoli, et infiniti martiri testimoni del-
la divinità di Cristo. E tutti questi non ebbero male per altra ca-
gione se non perché più santamente credevano in Dio che i sa-
vi del mondo non facevano. Eccovi quegli che così nella po-
vertà dello spirito, nella purità del cuore e nella pace della
conscienza umili e pargoletti sono, apparecchiati ancora a ver-
sare il sangue per la verità: questi sono quegli a cui si dà quella
vera e deificante sapienza, la quale ne porta ne i cori de beati
dèi e ne trasforma in loro. Sì come chiaramente questo ne in-
segna Cristo dicendo: «Beati i poveri di spirito, perché il regno
di Dio è di quegli. Beati quegli c’hanno il cor mondo, perché
essi vedranno Iddio. Beati gli amatori della pace, perché saran-
no chiamati figliuoli d’Iddio. Beati quegli che sono perseguita-
ti per la giustizia, perché il regno del cielo è di loro»11. Meglio
è dunque e più utile restarsi idioti e non saper cosa alcuna, cre-
dere per fede e per carità, e farsi prossimo a Dio, che gonfian-
do et insuperbendo per la sottilità delle scienze cadere in pos-
sanza del serpente. Così leggiamo ne gli Evangelii in che modo
Cristo fu ricevuto da gli idioti, dalla roza plebe e dalla semplice
turba de i popoli12, il quale da principi de sacerdoti, da i dotti
nella legge, da gli scirbi, da i maestri e da i rabini era sprezzato,
beffato e perseguito fino alla morte13; e però Cristo anch’egli
non elesse i suoi apostoli non rabini, non scribi, non maestri,
né sacerdoti, ma uomini idioti del vulgo ignorante, privi d’o-
gni scienza, indotti et asini.

caria, figlio del sommo sacerdote Ioiadà, lapidato per ordine del re Giosia sul sa-
grato del Tempio per aver rimproverato ai Giudei la loro apostasia, si veda 2 CR
24:20-22. Sulla persecuzione dei profeti, si veda anche EB 11:32-38.
10
Cfr. 1RE 18:4, 19:1-2.
11
MT 5:3-10.
12
Ivi, 21.
13
Cfr. LC 17:20-21; 19:39-40, 47-48.
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102.
DIGRESSIONE IN LODE DELLO ASINO

Ma perché alcuno non mi calonnii ch’io abbia chiamato asi-


ni gli apostoli, discorreremo in poche parole i misterii dell’asi-
no, uscendo pian piano, ma non fuor di proposito. Perciocché
i dottori de gli Ebrei dicono che questo animale è uno essem-
pio di fortezza, e di valor mirabile di pazienza e de clemenza, e
che l’influsso di quello deriva da Sefiroth, e che vien detto hog-
ma, cioè sapienza1. Perciocché le condizioni di quello son mol-
to necessarie a un discepolo della sapienza. Egli vive di poco
pasto e contentasi di ogni cosa, sopporta molto la caristia, la fa-
me, la fatica, le busse, la negligenza, pazientissimo d’ogni per-
secuzione, di semplicissimo e poverissimo spirito, sì ch’egli
non sa discernere tra le lattughe et i cardi, di core innocente e
mondo e senza colera, e ha pace con tutti gli animali, e pa-
zientemente sottomette le spalle a tutti i pesi, in merito di que-
ste sue bontà non ha pidocchi, rare volte inferma, e più tardo
che ogni altra bestia muore. L’asino, come dice Columella, fa
molte opere sopra la parte sua e tutte necessarie, perch’egli
rompe la terra con l’aratro e tira di molte carette gravi2. Ora
nelle mulina e nel fare il fromento v’intraviene sopra tutto la
fatica di questo animale; ogni villa ha bisogno di così necessa-

1
Cfr. REUCHL., De verbo mirif., II, D5r. Secondo la tradizione cabalistica, dalla pri-
ma delle dieci Sefiroth, Ketar, procedono le altre due, Hokmah (= sapienza) e Bi-
nah (= intelletto). Il carattere divino dell’asino è legato, secondo Agrippa, all’in-
fluenza di Hokmah.
2
Cfr. COLUM., De re rust., VII, 1, 2.
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510 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

rio instromento quanto è l’asino, il quale comodamente e col


collo e con le spalle può portare e riportare nella città molti
usuigli3. Quanto egli ancora sia messo salutifero nell’augurio,
lo testimonia Valerio di Gaio Mario, il quale avendo già doma-
to l’Austro e l’Aquilone, finalmente dichiarato inimico della
patria e perseguitato da Silla, col consiglio e con la guida del-
l’asino fuggì dalle minaccie di Silla, et ebbe uno asino auttore
della fuga e della salute sua4. E nel Testamento Vecchio Iddio
onorò talmente l’asino ch’avendo comandato che ogni primo-
genito fosse amazzato in sacrificio, perdonò solo a gli asini et a
gli uomini, concedendo che l’uomo si liberasse per prezzo e
che l’asino si cambiasse a una pecora5. Questo animale, e di ciò
n’è manifesta fama, Cristo volse che fosse testimonio del suo
nascimento, e su questo volle essere salvato dalle mani d’Ero-
de6; e l’asino ancora fu consacrato dal tatto del corpo di Cristo
et onorato col segno della croce, perciocché ascendendo Cri-
sto in Gierusalem a triomfare per la redenzione del genere
umano, col testimonio de gli evangelisti, salì su questo anima-
le, sì come questo era stato predetto con gran misterio per l’o-
racolo di Zaccheria7. E si legge che Abraam, padre de gli eletti,
cavalcò solamente su gli asini8, sì che non è detto in vano quel
proverbio antico appresso il vulgo il qual dice che l’asino porta
i misterii9. La onde ora voglio avertir voi famosi professori del-
le scienze, anzi asini cumani10, che se poste giù le some dell’u-
mane scienze e spogliata quella pelle di leone tolta in presto
non già dal leone della tribù di Giuda11, ma da quello che va
dattorno ruggendo e cercando chi poter devorare, ritornati in
nudi e puri asini, che voi siate in tutto e per tutto inutili a por-
tare i misterii della divina sapienza. Né giamai Apuleio Mega-
rese sarebbe stato admesso a i sacri misterii d’Iside se prima di

3
Il termine latino reca: «utensilia», ossia utensili.
4
Cfr. VAL. MASS., Fact. et dict. memorab., I, 5, 5.
5
Cfr. ES 13:13.
6
Cfr. MT 2.
7
Ivi, 21:1-11; GV 12:14-17; ZC 9:9.
8
Cfr. GEN 22:3.
9
Cfr. ERASMO, Adagia, II, 2, 4.
10
Ivi, I, 7, 12.
11
Cfr. GEN 49:9; APOC 5:5. Per Gesù, chiamato «leone della tribù di Giuda», si veda
infra, p. 518, nota 24.
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102. DIGRESSIONE IN LODE DELLO ASINO 511

filosofo non fosse mutato in asino12. Leggiamo miracoli di di-


versi animali: uno elefante aver dipinto caratteri greci, e Plu-
tarco scrive d’uno altro, rivale d’Aristofane grammatico, ch’era
innamorato d’una fanciulla chiamata Stefanopolide, e nel me-
desimo auttore leggiamo d’un dracone ch’amò una giovane
d’Etolia, e che quello istesso animale conservò il suo balio e da
molti fu creduto che corresse alla voce di lui, che conosceva13.
Et appresso Plinio leggiamo che uno aspe14, il quale ogni dì so-
leva venire alla tavola di non so chi, poi che vide che un fi-
gliuolo dello oste era stato morto da un de suoi figliuoli, per
castigarlo della pena dell’ospizio violato, l’ammazzò, né mai
più per la vergogna ritornò in quella casa15. Il medesimo autto-
re dice che una pantera ringraziò un uomo che gli avea tratto i
figliuoli d’una fossa e, menatolo fuora delle solitudini, lo rimi-
se sulla strada publica16. È scritto ancora nelle istorie che Ciro
fu nodrito da una cagna e gli edificatori della città di Roma da
una lupa, essendo stati esposti nelle selve17. Taccio i miracoli de
i delfini et i benefici riconosciuti da i leoni, e le grazie rese da
loro18. Taccio dell’orsa Daunia e del bue Tarentino domesticati
da Pitagora19, e molte cose simili a queste, ma quello che vince
la maraviglia di tutti i prodigii, Ammonio Alessandrino, gran
filosofo al suo tempo, precettore d’Origene e di Porfirio, leg-
gesi ch’egli ebbe un asino auditore della sapienza discepolo di
quegli altri. Abbiamo veduto ancora nella sacra istoria della Bi-
blia d’uno asino ch’ebbe già spirito di profezia, perciocché
uscendo Balaam, uomo savio e profeta, per maledire il popolo
d’Israel, non vide l’angelo del Signore, ma ben l’asino vide, e
con voce umana parlò a Balaam che lo cavalcava20. E così vera-

12
Allusione alle Metamorphoses di Apuleio in cui il protagonista Lucio, trasforma-
tosi per errore in asino, dopo una lunga serie di peripezie viene iniziato ai segre-
ti della dèa Iside. Nel momento dell’iniziazione egli abbandonerà le spoglie del-
l’asino per diventare uomo al sevizio della dèa (si veda APUL., Metam., XI).
13
Cfr. PLUT., Mor., 972d-e; ELIANO, De nat. animal., I, 38; PLIN., Nat. hist., X, 96, 207.
14
Il testo latino reca: «aspis», ossia «aspide», «serpente».
15
Cfr. PLIN., Nat. hist., X, 96, 208, la cui fonte è FILARCO, fr. 81 F 28 (ed. Jacoby).
L’episodio è ricordato anche in AGRIP., De occ. phil., I, 55, p. 198.
16
Cfr. PLIN., Nat. hist., VIII, 21, 59-60.
17
Cfr. GIUST., Epit., XLIV, 4, 12.
18
Cfr. PLIN., Nat. hist., IX, 7-10 e VIII, 21, 56-58.
19
Cfr. PORF., Vita Pyth., XXIII e XXIV.
20
Cfr. NM 22:22-35.
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512 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

mente è che spessissime volte un uomo ignorante et idiota ve-


de quelle cose che non può vedere un dottore scolastico cor-
rotto nelle scienze umane. Non è egli vero che Sansone con la
mascella dell’asino percosse et amazò i Filistei, et avendo sete
pregò il Signore, il quale aperse un dente nella mascella del-
l’asino e ne uscirono acque vive delle quali beendo riebbe gli
spiriti e le forze21? Non si sa egli che Cristo nella bocca de gli
asini suoi semplici e rozzi idioti apostoli e discepoli suoi, vinse
e percosse tutti i filosofi Gentili et i maestri nella legge de Giu-
dei, superò e gettò a terra tutta l’umana sapienza, ministrando
a noi con la mascella di quegli asini suoi l’acque della vita e
della sapienza eterna? Leggiamo ancora nelle Istorie Ecclesia-
stiche e ne gesti de santi diversi e molti beneficii a preghi loro
fatti con la grazia di Dio a diversi animali, ma non ritroviamo
che risuscitasse giamai alcuno animal morto salvo che l’asino,
quello che fu ritornato in vita da S. Germano vescovo de Bre-
toni, col quale notabil miracolo fu mostrato che l’asino ancora
dopo questa vita partecipa dell’immortalità22. Per queste cose
dunque che già si son dette, più chiaro si vede che’l sole che
non è animale alcuno così capace della divinità quanto l’asino,
nel quale se voi non vi trasformarete non potrete portare i mi-
sterii divini. Anticamente appresso i Romani il nome proprio
di cristiani era chiamato asinari, e solevano dipingere l’imagi-
ne di Cristo con orecchie d’asino; di questo ne fa testimonio
Tertulliano23. Perché non si degnino più, né si rechino a ver-
gogna, i nostri vescovi et abbati se sono chiamati asini appresso
questi elefanti giganteschi delle scienze, né si maravigli il po-
polo cristiano se appresso questi prelati delle chiese e satrapi
de nostri sacrifici, quanto uno è più dotto tanto è stimato me-
no fra gli altri, perciocché i canti e l’armonie de i luscignuoli
non fanno all’orecchie de gli asini, et è in proverbio che il rag-
ghio strepitoso e senza musica de gli asini non s’accorda con la
lira24, e nondimeno, tratta la midolla dall’ossa de gli asini, se ne
fanno zuffoli migliori de gli altri, i quali pieni di fiato, sì come

21
Cfr. GDC 15:15-19.
22
Per la leggenda di Germano (ca. 380-448), vescovo di Auxerre, si veda Vita S.
Germ., II, 8, 103, in Acta Sanct., VII, p. 241.
23
Cfr. CRIN., De hon. discip., I, 9; TERTUL., Apolog. adv. gent., I, 16.
24
Cfr. ERASMO, Adagia, I, 4, 35; Moriae enc., LIV.
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102. DIGRESSIONE IN LODE DELLO ASINO 513

di gran lunga vincono et avanzano la dolcissima melodia di tut-


ti gli uccelli e gli elegantissimi suoni d’ogni lira e cetra, così
questi religiosi idioti con lo strepito loro asinino superano tut-
ti i loquacissimi sofisti. Così leggiamo d’alcuni filosofi pagani, i
quali, essendo andati a visitare Antonio per cagion di disputar
seco, furono in poche parole convinti da lui e con vergogna se
ne partirono confusi25. Leggesi ancora che un semplice idiota
vinse in poche parole e ridusse alla fede un certo astutissimo
eretico et essercitatissimo nelle lettere, il quale da uomini dot-
tissimi e vescovi che s’erano ragunati al Concilio Niceno, con
lunga e difficile disputa non era potuto esser vinto. Costui, do-
mandato dapoi da gli amici in che modo egli aveva ceduto al-
l’idiota avendo fatto resistenza a tanti dottissimi vescovi, rispo-
se ch’ai vescovi facilmente aveva dato parole per parole, ma
che non avea potuto resistere all’uomo idiota, il qual non par-
lava per sapienza umana ma per spirto di Dio26.

25
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De studio div. et hum. phil., II, 1. L’episodio è raccontato
in ATANASIO, Vita S. Antonii, 72-79.
26
Cfr. RUFINO, Hist. eccl., I, 3.
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CONCLUSIONE DELL’OPERA

Voi dunque, o asini, i quali essendo già co i vostri figliuoli


sotto il comandamento di Cristo per gli apostoli suoi messi e
prelettori di lui1 nel suo santo Evangelio sete sciolti dalla cali-
gine della carne e del sangue2, se desiderate conseguire questa
divina e vera sapienza non del legno della scienza del bene e
del male, ma del legno della vita, tratte da parte le scienze
umane et ogni considerazione e discorso della carne e del san-
gue, quali esse si sieno, o ch’elle scorrano nelle ragioni de i
parlari, o nelle considerazioni delle cause, o nelle speculazioni
dell’opere e de gli effetti, non più nelle scole de filosofi e ne
gli studi de sofisti, ma entrando in voi medesimi le conoscere-
te tutte. Perciocché concetta in voi è la cognizione di tutte le
cose, il che, come confessano gli Academici, così le Sacre Let-
tere ne fanno testimonio, perché Iddio creò tutte le cose mol-
to buone, cioè nel miglior grado ch’elle potessero essere3. Sì
come ei dunque creò gli alberi pieni di frutti, così creò l’anime
come alberi razionali piene di forme e di cognizioni, ma ogni
cosa rimase coperto per lo peccato del primo padre, e v’entrò
l’oblivione madre dell’ignoranza4. Rimovete, voi dunque che
potete, il velo dell’intelletto vostro, voi che sete involti nelle te-

1
Il testo latino reca: «per eius apostolos verae sapientiae nuntios praelectore-
sque».
2
Cfr. MT 16:17.
3
Cfr. GEN 1.
4
Ivi, 3.
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516 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

nebre della ignoranza5. Vomitate il beveraggio Leteo voi che ve


imbriacaste nell’oblio, vegghiate al vero lume voi che vi lascia-
ste prendere dal sonno irrazionale, e subito disvelata la faccia
passerete dallo splendore alla chiarezza6 perché, come dice
Giovanni, sete unti dal Santo e sapete ogni cosa, et un’altra vol-
ta: «Non avete bisogno ch’alcuno v’insegne perché l’unzione
di Lui v’insegna ogni cosa»7. Egli solo è che dà la bocca e la sa-
pienza: David, Isaia, Ezechiele, Gieremia, Daniello, Giovanni
Battista e molti altri profeti et apostoli non impararono lettere,
ma di pastori, contadini et idioti diventarono dottissimi in tut-
te le cose8. Salomone nel sogno d’una notte fu ripieno della sa-
pienza di tutte le cose superiori et inferiori9, di modo che non
ebbe pari al mondo10. E tutti questi furono uomini mortali, sì
come voi foste, e peccatori ancora. Forse direte che questo è
avvenuto a molti pochi, e pochi che furono cari a Dio e levati al
cielo con la virtù o figliuoli di Dio, l’hanno ottenuto11. Non vi
vogliate perciò disperare, che la mano del Signore non è ab-
breviata a tutti quegli che lo chiamano12. Antonio, e quel servo
Barbaro cristiano, co i preghi di tre giorni, come testimonia
Agostino, ottennero piena cognizione delle cose divine13. Ma
voi che non potete insieme co i profeti, con gli apostoli e co
santi in quelle cose guardare con chiaro e purgato intelletto,
procacciate d’avere l’intelletto da coloro che con chiara vista
l’hanno veduto. Questa via ci resta da cercare, come dice Giro-
lamo a Ruffino, acciocché quello che lo spirito insegnò a i pro-
feti et a gli apostoli, voi lo possiate acquistare con lo studio del-
le lettere, di quelle lettere, dico, che sono state date da gli ora-

5
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 2, 6 e III, 2, 9.
6
Cfr. CORP. HERM., VII, 1.
7
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 2, 6 e III, 2, 9; per il luogo biblico, si veda 1 GV
2:27.
8
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 2, 6; AGRIP., De occ. phil., III, 53, p. 564.
9
Il testo latino a questo punto aggiunge: «simulatque rerum gerendarum pru-
dentia», qui mancante.
10
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 2, 6; AGRIP., De occ. phil., III, 53, p. 564. Per il
luogo biblico relativo al sogno di Salomone, si veda 2 CR 1:7-12.
11
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 2, 6 e III, 2, 9; VIRG., Aen., VI, 129-131.
12
Cfr. IS 59:1. Il testo latino a questo punto aggiunge: «qui illi fidele praestant ob-
sequium», qui mancante.
13
Cfr. GIOVANFRANC. PICO, De studio div. et hum. phil., I, 2; AGOST., De doctr. christ.,
prol. 4.
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CONCLUSIONE DELL’OPERA 517

coli divini e di consentimento universale dalla Chiesa approva-


te, non di quelle che sono state ritrovate da gli umani ingegni,
perché queste non illustrano l’intelletto ma lo fanno oscura-
re14. Hassi a ricorrere dunque a Mosè, a i profeti, a Salomone,
a gli evangelisti, a gli apostoli, i quali rilucendo con dottrina
d’ogni qualità, sapienza, costumi, lingue, profezie, oracoli, mi-
racoli e santità, delle cose divine hanno ragionato da Dio istes-
so, e delle cose inferiori sopra li uomini, e n’hanno posto alla
luce chiara tutti i secreti di Dio e della natura. Perciocché tutti
i secreti di Dio e della natura, ogni ragione di costumi e di leg-
gi, ogni notizia delle cose passate, presenti e future, si ritrova
ne i sacri ragionamenti della Bibbia15. Ove correte dunque a
fiaccare il collo voi che cercate scienza da quegli c’hanno con-
sumato tutta l’età loro in cercarla, et hanno perduto il tempo e
la fatica, né hanno potuto ritrovare verità alcuna? O pazzi et
impii, che sprezzando i doni dello Spirito Santo v’affaticate
per imparare da i perfidi filosofi e da i maestri de gli errori
quelle cose che devreste ricevere da Cristo e dallo Spirito San-
to. Crederete voi che noi possiamo trar scienza dalla ignoranza
di Socrate, luce dalle tenebre di Anassagora, virtù dal pozzo di
Democrito, prudenza dalla pazzia d’Empedocle, pietà dalla
botte di Diogene, senso dallo stupore di Carneade16 e d’Arche-
silao, sapienza dall’empio Aristotele e dal perfido Averroè, fe-
de dalla superstizione de Platonici? Voi sete in grandissimo er-
rore, e sete ingannati da quei che sono stati ingannati. Ma ri-
tornate in voi medesimi, voi che sete desiderosi della verità,
partitevi dalle nebbie delle dottrine umane17 et accostatevi al
vero lume. Ecco una voce da cielo, voce che insegna di sopra, e
più chiaro del sole vi mostra: perché sete iniqui a voi stessi et
indugiate a ricevere la sapienza18? Udite l’oracolo di Baruch:
«Dio è quello ch’è, né altro sarà stimato presso di lui; egli ha ri-
trovato ogni via di disciplina e l’ha dato a Iacob suo fanciullo et
a Israel diletto suo, dando la legge et i comandamenti et ordi-

14
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 2, 9.
15
Ibid.
16
Ibid.; LATT., Divin. instit., III, 30.
17
«Discedite ab humanarum traditionum nebulis»: asserzione condannata dai
teologi di Lovanio. Si veda Appendice 2, p. 535.
18
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 2, 9; LATT., Divin. instit., III, 30.
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518 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

nando i sacrificii. Dopo questo è stato visto in terra, come


quando egli ha pratticato con gli uomini, cioè pigliando carne,
et a bocca aperta ha insegnato quel ch’egli aveva messo sotto
enigmi nella legge e ne i profeti»19. Et acciocché non crediate
che queste cose si riferiscano solo alle cose divine e non anco-
ra alle naturali, udite quel che di se medesimo testimonia il Sa-
vio: «Egli è che m’ha dato la vera scienza di quelle cose che so-
no, acciocch’io sappia le disposizioni del cerchio della terra, le
virtù de gli elementi, il principio, la consumazione, il mezzo e
le rivoluzioni de i tempi, il corso dell’anno, le disposizioni del-
le stelle, la natura de gli animali, l’ira delle bestie, la forza de i
venti, i pensieri de gli uomini, le differenze delle piante, le
virtù delle radici, e finalmente ho imparato tutte le cose im-
provvise e nascose; perciocché l’artefice d’ogni cosa m’ha inse-
gnato la sapienza»20. La scienza divina non manca mai, nulla le
fugge e nulla le accresce, ma ella tutte le cose comprende. Sap-
piate dunque ora che qui non è bisogno durar molta fatica, ma
fede et orazione; non studio di lungo tempo, ma umiltà di spi-
rito e mondizia di core; non sontuoso apparato di molti libri,
ma di purgato intelletto et acconcio alla verità, come la chiave
alla serratura. Perciocché la turba de i libri carica colui che im-
para, non l’ammaestra, e chi segue molti auttori erra con mol-
ti21. Ogni cosa è posta e si trova in un volume della Sacra Biblia,
ma con questa condizione, che non sono intese se non da gli il-
lustrati: a gli altri sono parabole et enigmi serrati con molti se-
gnacoli22. Orate dunque al Signor Dio non dubitando punto
nella fede23, acciocché vegna l’Agnello della tribù di Giuda e
v’apra il libro segnato24, il quale agnello è solo santo e vero,
egli solo ha la chiave della scienza e della discrezione, egli apre
e nessun serra, e quando egli chiude, nessuno può aprire.

19
3:36-38.
BA
20
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 8, 18. Per il luogo biblico, si veda SP 7:17-21.
21
Cfr. SEN., De tranq. anim., IX, 4-5.
22
Cfr. GIORGIO, De harm. mundi, III, 2, 9.
23
Cfr. GC 1:6.
24
Allusione ad APOC 5-6. Si tratta di una delle visioni profetiche, in cui si ha la pre-
sentazione del libro sigillato e la presa di possesso di esso da parte dell’Agnello
(Cristo), degno egli solo di ricevere e di aprire il libro, a significare che solo Cri-
sto detiene il potere di realizzare il piano di salvezza preparato da Dio. Per Gesù
discendente della tribù di Giuda, si veda GEN 49:9.
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CONCLUSIONE DELL’OPERA 519

Questo è Giesù Cristo verbo e figliuolo di Dio padre, e sapien-


za deificante, vero maestro, fatto uomo come noi siamo, per
farne figliuoli di Dio come lui, il quale è benedetto in tutto i se-
coli. Ma acciocché lungamente ragionando io non declamassi,
come si dice, più dell’ora, qui dell’orazion nostra sarà

IL FINE
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AL MAGNIFICO M. GIOVAN
PIETRO DOMENICHI SUO PADRE ONORANDO

Questa è una di quelle fatiche, o Padre e Signor mio aman-


tissimo, che io così senza fatica sono usato di fare, come anco
arditamente soglio publicare. E veramente che io non sono
tanto mosso da desiderio di fama che io ne speri al mio nome,
quanto incitato da speranza di utile che ne trarranno infiniti.
Né vi paia nuovo che io mi creda con così facile industria di
poter molto giovare al mondo, che se per aventura non aveste
più letto questa invettiva latina (il che mi pare verisimile per le
grandi occupazioni vostre) son certo che leggendola ora fatta
volgare, sì come spero che farete per rispetto mio, vi confor-
merete sulla medesima opinione. Leggetela dunque e come
cosa mia, e come cosa giovevole in universale. E s’egli è possi-
bile all’animo vostro (di che ne sono in dubbio, difficile ne sto
certissimo) di temprare l’aspettazione della presenza mia, del-
la quale troppo mi duole non poter consolarvi, pregovi a sod-
disfazzion mia che lo facciate. E se ciò non può essere, mitiga-
tela almeno, o talora la cambiate alla lezzione d’alcuna delle
cose mie, come questa è ch’io vi mando, e manderovvi per l’av-
venire, piacendo a Dio conservarmi sano. Attendete anco voi
col favor della sua grazia alla sanità del corpo et alla salute del-
l’anima. Alli 30 di Settembre 1546. Di Fiorenza.

Vostro figliuolo Lodovico Domenichi.


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APPENDICI
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1. INDIRIZZO AL LETTORE
(MANCANTE IN MOLTI ESEMPLARI SUCCESSIVI
ALL’EDITIO PRINCEPS DEL 1530)
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AD LECTOREM*

Si verum est quod Oratius ait, omne tulit punctum qui miscuit uti-
le dulci, multis sane nominibus hic liber Agrippae vobis gratissimus
esse debet: nimirum in quo dubites, plus ne sit frugis an iucunditatis:
Ita vera dicendo delectat, et delectando, veritatem in Democriti pu-
teo demersam, velut post liminio in lucem revocat, dum omnes om-
nium scientias ad sacram illam scripturam diuinitus (ut inquit Apo-
stolus) inspiratam, velut ad Lydium aliquem lapidem examinat: tam
apposite sciteque rem ipsam citra circuitionem aliquam explicans, ut
nullus Apelles penicillo melius exprimere potuisset. Verum si quibus
forte tam tenellae sunt aures, ut mordacem hanc veritatem ferre ae-
quo animo nequeant, atque ob id lingua viperina obliqui coeperint,
nimirum qui in suam professionem quippiam minus pro dignitate
dictum putent: ii meminerint se nihil adversus authorem dicere, sed
suam ipsorum sceleratam conscientiam prodere. Nihil enim peculia-
riter in facultatem aliquam scriptum est, sed generatim in omnes.
Qui vicia sua agnoverit, cuique conscientia secretam in aurem ob-
ganniverit, ut Persius inquit, illum summa ope adniti decet, ut sese
corrigat: sin minus, nihil in se dictum putet. Contra, si quis meliora
candide ac citra invidentiam in medium adferre poterit, is non solum
apud studiosos omnes, verum etiam apud ipsum authorem se sum-
mam gratiam initurum nihil ambigat. Bene Vale ex officina nostra.
Vale.

* L’indirizzo al lettore occupa la carta V7v (p. CLIX) dell’esemplare che reca in
calce: «Parisiis apud Sorbonam opera et impensa Ioannis Petri anno 1531 Mense
Februario».
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AL LETTORE

Se è vero come dice Orazio, che riscuote universale approvazione


chi sa unire l’utile al dilettevole1, certamente per molti motivi vi sarà
graditissimo questo libro di Agrippa: senza dubbio saresti incerto se
in esso vi sia maggior frutto o piacevolezza, poiché affermando il ve-
ro diletta e, dilettando, riporta nuovamente alla luce la verità già se-
polta nel pozzo di Democrito2 proprio mentre esamina tutte le scien-
ze di tutti i sapienti, usando come pietra di paragone3 quella Sacra
Scrittura ispirata, come dice l’Apostolo, da Dio4, sviluppando, fuor di
perifrasi, l’argomento in sé con tanta grazia e proprietà che nessun
Apelle avrebbe potuto col pennello meglio raffigurare. Se però qual-
cuno abbia orecchie così tenerelle da non potere di buon grado sop-
portare questa sferzante verità, e perciò malevoli comincino a critica-
re con lingua viperina (e per certo lo faranno coloro i quali pensano
che sia stato detto qualcosa di indegno contro la loro professione) ri-
cordino costoro che essi nulla dicono contro l’autore, piuttosto rive-
lano la loro scellerata coscienza. Nulla infatti è qui scritto in partico-
lare contro qualche facoltà ma, in senso generale, contro tutte. Colui
che avrà riconosciuto i suoi vizi e al quale avrà mormorato in segreto
all’orecchio la coscienza, come dice Persio5, conviene sforzarsi con il
massimo impegno per correggersi, in caso contrario pensi che nulla
è stato detto a suo biasimo. Se, invece, qualcuno potrà proporre ar-
gomenti migliori con animo sincero e scevro di malizia, costui sarà
certissimo di entrare in somma grazia non solo presso tutti i sapienti,
ma anche presso l’autore. Con buon augurio dalla nostra officina.
Salute.

1
Cfr. ORAZIO, Ars poet., 343.
2
Così Giovanni Pico nelle sue Disputationes: «[…] cum adhuc veritas super his
[…] in Heracliti antro lateat inexplorata» (Disp., IX, 12).
3
Il testo latino reca: «lydium lapidem», che nella tradizione in volgare è reso con
«pietra del paragone» (si veda supra, p. 495 e nota 4).
4
Cfr. 2 TM 3:16, ma si veda anche supra, p. 485.
5
Cfr. PERS., Sat., V, 96-97.
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2. ELENCO DELLE ASSERZIONI DEL DE VANITATE


CONDANNATE DAI TEOLOGI DI LOVANIO
(1530)
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ARTICULI LOVANIENSIUM AUTENTICO TRANSUMPTO,


SED ABSQUE ULLO INTERPOSITO SENATUS DECRETO
TRANSMISSI*

ASSERTIONES AGRIPPAE

Ex quodam libro De vanitate scientiarum.


Prima assertio in fronte declamationum post Epistolam ad Lecto-
rem: «Ego, inquit, aliis generis persuasus rationibus, nil perniciosus, nil
pestilentius hominum vitae, animarumque saluti posse contingere arbi-
tror, quam ipsas artes, ipsasque scientias»1.
Contra hanc assertionem videtur B. Augustinus in libris De doctrina
christiana, et in scriptis Contra Cresconium Grammaticum Donatistam.
Ubi varie demonstrat artes liberales cuilibet theologo doctori aut es-
se necessarias aut maxime conducibiles.
Sunt et ancillae quas ipsa Dei sapientia, ut vocarent ad artem misit
Proverb. 92.
Qui igitur eas damnat, est is, de quo Apostolus dicit I. Corinth. 2.
«Naturalis homo non percipit ea, quae sunt Spiritus Dei»3.
Unde cautum est ut diversis locis constituantur magistri et docto-
res, qui studia literarum artiumque liberalium doceant.
His artibus declaratur Sacra Scriptura et confunduntur haereses.
Unde Sapiens: «Qui elucidant me, vitam aeternam habebunt»4.
Non igitur apparet, quomodo nihil scire sit felicissima vita, cum di-

*
Dall’Apologia adversus calumnias, propter declamationem, De vanitate scientiarum, et ex-
cellentia Verbi Dei, sibi per aliquos Lovanienses theologistas intentatas, in AGRIP., Operum,
Lugduni, s.a. [1600], vol. II, pp. 264-272.
1
Cfr. supra, p. 25.
2
PRV 9:3.
3
1 COR 2:14.
4
ECCLE 24:31. Il riferimento è alla Vulgata.
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532 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

cat Apostolus: «Qui ignorat ignorabitur»5. Et Dominus inquit: «Prop-


terea captivus ductus est populus meus, quia non habuit scientiam»6.
§ Alia assertio quae loquitur de scientiarum inventoribus in eadem
declamatione inquit.
«Sunt homines aliqui boni, nihil tamen scientiae ipsae bonitatis,
nihil veritatis habebunt, nisi quantum ab ipsis inventoribus mutuant
vel acquirunt»7.
Quasi vellet innuere nullam scientiam habere in severitatem, sed
tantum mutuata ab authore.
Quod est contra Philosophum dicentem, scientiae sunt de nume-
ro bonorum honorabilium8.
Et est contra c. Si quis artem xxxvii dist9.
§ Sequuntur aliae propositiones piarum aurium offensivae.
«Canones sacerdotes sublatis honestis nuptiis, turpiter scortari
compellunt»10.
Volens innuere in effectu Sacerdotes posse contrahere, nisi obsta-
ret iuris dispositio.
Cum tamen a morte Christi non est auditum Sacerdotem duxisse
uxorem, nisi quod iam attemptarunt homines plurimum seducti.

In eodem fol. p. 2 habet


hanc propositionem11.

«Surrexit his temporibus ex theologorum schola invictus haereti-


cus Lutherus»12.
Et sequitur «quod ideo vos scire volo, ne putetis non etiam theolo-
gos esse lenones»13.
Et ibidem in fine concludens: «quicunque principes, iudices et
magistratus lupanaria fovent aut permittunt, dicetur illis a Domino il-
lud psalmographi: Si videbas furem»14, etc.

5
1 COR 14:38; AGOST., Epist., CLXIX, I, 1-2.
6
IS 5:13.
7
Cfr. supra, p. 27.
8
Cfr. ARIST., De anima, 402 a.
9
Cfr. DECR. GRAT., D. 37 c. 10.
10
Cfr. supra, p. 307.
11
I numeri di pagina si riferiscono all’editio princeps del De vanitate pubblicata nel
settembre 1530.
12
Cfr. supra, p. 308.
13
Ibid.
14
Cfr. supra, p. 311.
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APPENDICE 2 533

Quasi permittentes seu tolerantes minus malum, ad vitandum


maius, peccare censeantur contra sententiam Augustini, quae habe-
tur xxxiii q. ii c. ix, si quod verius dicitur «Si facturus est quod non li-
cet, faciat adulterium, et non homicidium»15.
Sic ergo permittitur minus malum ut evitetur maius, licet faciens
non excusetur.

Alia propositio sub litera D.


folio 3.

«Mercatores et milites veram poenitentiam agere non possunt»16.

Alia propositio sub litera F.

«Augustinus et Bernardus contra Christi sensum bella permit-


tunt»17.
«Et Christo repugnante ordo militantium est in Ecclesia»18.

Alia Propositio sub litera I.


folio 4.

«Habere imagines in templis, non est absque Ydolatriae vitio, sive


periculo»19.

Alia Propositio sub litera K.

«Diabolus20 est author cucullae»21.

Alia Propositio sub litera R.

«Moses, David, Apostoli, Evangelistae, prophetae, homines fue-

15
AGOST.,
De conjug adult., II, 15; DECRET. GRAT., C. 33 q. 2 c. 9.
16
Cfr. supra, p. 347.
17
Cfr. supra, p. 369.
18
Ibid.
19
Cfr. supra, p. 124.
20
L’edizione consultata reca erroneamente: «dialogus».
21
Cfr. supra, p. 125.
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534 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

runt, et a veritate in quibusdam defecerunt, et mendaces in quibu-


sdam inventi sunt»22.
Quasi innuat scripturam sacram una cum aliis scientiis humanis
esse ambiguam, incertam, et periculo plenam, nisi accedat verbum
Dei.
Asserens ulterius «quod verbum Dei nullas humanas glossas»23.
«Nec Angelicas patitur, sed seipsam exponit»24.
§ Contra has assertiones verbum Petri, 2. Pet. 1:
«Non enim voluntate humana allata est aliquando Prophetia, sed
Spiritu Sancto inspirati locuti sunt sancti Dei homines»25. Item
Prophetia est interdum comminationis et non eventus, sicut erat de
Iona apud Ninivitas.
Sub intelligebatur enim haec conditio: Si Ninivitae non poenite-
rent, ut dicit glossa,
Quare non oportet dicere Prophetam mendacem, quia semper est
unus sensus verus a Deo intellectus subintelligitur semper, nisi Deus
aliter disposuerit.

Alia Propositio litera R.


folio 3.

«Verbi Dei scientiam nulla philosophorum Schola, nulla theologo-


rum Sorbona, nec quorumcunque gymnasia scholasticorum nobis
tradidere, sed solus Deus atque Christus»26.
«Cui nihil addere licet nihilque detrahere»27.
«Nulla patitur externa commentaria, nullas humanas aut angelicas
glossas»28.

Alia Propositio sub litera S.


folio 3.

«Nulla res Christianae fidei et religioni tam repugnat quam scien-


tia, minusque se invicem compatiuntur»29.

22
Cfr. supra, p. 490.
23
Cfr. supra, p. 496.
24
Ibid.
25
Cfr. 2 PT 1:21.
26
Cfr. supra, p. 496.
27
Ibid.
28
Ibid.
29
Cfr. supra, p. 506.
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APPENDICE 2 535

Alia sub litera T. folio 3.

«Discedite ab humanarum traditionum nebulis»30.

Alia sub litera V. folio 2.

«Caeremonias exteriores despicit Deus, nec vult coli actionibus


corporalibus et sensibilibus operibus»31.
«Quia», ut inquit, «nihil est apud Deum acceptum praeter fi-
dem»32, contra illud Apostoli: «Si fidem habeam: ut montes transfe-
ram, charitatem autem non habeam, factus sum sicut aes sonans»33,
etc.
Charitas igitur excitat et promovet ad corporales actiones et sensi-
bilia opera.
Ulterius concludendo Vanitatem scientiarum, videtur asserere,
«quod scientiae capiunt finem in hoc seculo»34 cuius contrarium te-
net Hieronymus in prologo, dicens: «Discamus in terris quorum
scientia nobis perseveret in coelo»35.
Et quanquam dicat Ecclesiasticus: «Vanitas vanitatum et omnia va-
nitas»36, oportet intelligere sapientem interdum loqui ex sua perso-
na, aliquando eius personam gerere, qui ea quae in mundo sunt at-
tonitus admiratur, interdum in Persona stultorum, interdum in per-
sona prudentum.
Quamvis igitur Ecclesiasticus ostendat quaecunque sunt in mundo
vanitatem esse non tamen omnia damnat, verum reprehendit consi-
lia hominum, qui in hoc mundo spem suam posuisse videntur.
Et quia author ipse asserit versum in canem37, ac quod nullarum vi-
rium sit ad benedicendum, scripsitque volumen cui titulum fecit De
incertitudine et vanitate scientiarum, sic etiam eius Indicio liber est fa-
mosus, contumeliosus ac piarum aurium offensivus.

30
Cfr. supra, p. 517.
31
Cfr. supra, p. 268.
32
Ibid.
33
1 COR 13:1.
34
Cfr. supra, p. 501.
35
GEROL., Syn. Div. Bibl.
36
ECCLE 1:2; 12:8.
37
Cfr. supra, p. 12 e nota 3.
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3. CORRISPONDENZA
AGRIPPA-ERASMO DA ROTTERDAM
(19 SETTEMBRE 1531-21/25 APRILE 1533)
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AMICUS AD AGRIPPAM

S. P., vir clarissime. Iampridem volitas hic per omnium ora, prae-
sertim ob novum opus, quod edidisti De vanitate disciplinarum: de quo
quum eruditi complures ad me scripserunt, mihi tamen nondum vi-
dere contigit. In eo consentiunt, illic esse libertatis affatim; de caete-
ris variant sententiae. Curabo quamprimum ut habeam, ac totum de-
vorabo. Hic Andreas, sacerdos mea sententia modestus ac pius, huc
se contulit ut Erasmum inviseret; sed, sperato thesauro, carbones
repperit. Nunc tuum expetit congressum, nonnihil liquidioris sa-
pientiae e tuo pectore hausturus. Videtur unice amare tuum inge-
nium, ac libellum De occulta philosophia perpetuum habet itineris co-
mitem. Eum tibi non commendo, sed per illum potius tibi commen-
dari cupio. Ubi perlegero librum tuum, scribam ad te copiosius. In-
terim praecor, ut quam prosperrime valeas.
Datum Friburgi Brisgo[v]iae, decima tertia calendas Octobris, An-
no 1531.
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UN AMICO AD AGRIPPA

Ti saluto vivamente, o illustrissimo. Qui ormai da tempo sei sulla


bocca di tutti, in particolare per la nuova opera che hai dato alle stam-
pe, Della vanità delle scienze. Sebbene diversi dotti mi abbiano scritto a ri-
guardo, tuttavia non mi fu dato ancora di prenderne visione. Questi
dotti in una cosa concordano: che nell’opera vi è una grande libertà;
sul resto i pareri variano. Farò in modo di procurarmi quanto prima il
libro, e tutto lo divorerò. Questo Andrea, sacerdote che a mio parere è
giudizioso e pio, è venuto qui per far visita a Erasmo, ma invece del te-
soro sperato ha trovato carboni1. Ora desidera incontrarti per attingere
dal tuo petto una sapienza più chiara. Dà vista di nutrire straordinario
amore per il tuo ingegno, e reca con sé come costante compagno di
viaggio la tua operetta Dell’occulta filosofia2. Non te lo raccomando, ma
piuttosto desidero raccomandarmi a te per suo tramite. Appena avrò
letto il tuo libro ti scriverò con maggiore dettaglio. Per intanto prego
che tu abbia a stare più che bene.
Friburgo in Brisgovia, 19 settembre 1531.

1
Sull’incontro tra Erasmo da Rotterdam e il sacerdote francese Andrea, venuto
dalla Germania appositamente con il proposito di incontrare il grande umanista
e Agrippa, si veda AGRIP., Epist., VI, 32.
2
Alla data della lettera, il 19 settembre 1531, era apparso soltanto il primo libro
del De occulta philosophia, ma l’opera godeva già di un’ampia circolazione presso
gli ambienti eruditi, come si evince da una lettera del giugno del 1531di Eustache
Chapuy, ambasciatore della maestà imperiale presso la corte inglese, ad Agrippa:
«Libellis tuis, quorum alteri de Vanitate scientiarum, alteri de Occulta philosophia ti-
tulum fecisti, magno consensu hic ab eruditis ac studiosis omnibus applauditur,
libellis, inquam, si quidem crassitudine aut chartae numero eos aestimemus»
(AGRIP., Epist., VI, 19).
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AGRIPPA AD ERASMUM

Literas tuas, colendissime Erasme, a 13 Calendae Octobris ad me


datas, accepi quintas nonas Novembris. Vix dici queat, neque tu for-
te, si dicatur, fidem habeas, quam incomparabili laetitia affectus sim
hac insigni in me animi tui humanitate, qui me ignotum tibi homi-
nem non solum literis tuis illustrare dignatus sis, sed etiam plus prae-
stas, quam sperare liceat. Declamationem nostram De vanitate scien-
tiarum atque excellentia verbi Dei totam te lecturum tuamque de illa sen-
tentiam te mihi uberius perscripturum, polliceris. Age ergo nunc,
precor, domine mi Erasme, tantillum laboris tui Agrippae causa ne
refugias, et quid tua praestantia de hac sentiat, mihi significes. Tuus
enim sum, et in tua iuratus verba tibi me fidissimum militem dedo,
condono et commendo, cuius iudicium erit semper mihi loco anti-
quae et venerandae autoritatis, tantumque de humanitate tua mihi
persuadeo, ut te credam nostram libertatem dicendique licentiam
boni consulturum. Nosti enim, quid sit declamatio. Sed et illud te ad-
monitum volo, me de his, quae ad religionem attinent, nequaquam
secus sentire, quam sentit Ecclesia catholica. Andream sacerdotem,
tuarum literarum latorem, virum pium ac modestum et propriis vir-
tutibus et tuis literis mihi commendatissimum, detinui apud me ali-
quot diebus. Utinam is sim qui suis desideriis satisfacere queam, aut
talis aliquando futurus sim, qualem ille me existimat! Vale felicissi-
me, illudque certo scias, nihil posse mihi gratius contingere, quam si
spiritus meus tibi consecratus, eadem, qua offertur, animi magnitudi-
ne recipiatur. Iterum vale.
Ex hac omnium bonarum literarum virtutumque noverca aula
Caesarea, apud Bruxellas, decimo tertio Calendas Ianuaris Anno
1531.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 541

AGRIPPA A ERASMO

Ho ricevuto il 9 novembre, onorevolissimo Erasmo, la tua lettera


inviatami il 19 settembre. Difficile a dirsi, e se lo dicessi forse tu non
ci crederesti, quanto grande sia la gioia che mi ha preso per questa ri-
marchevole benevolenza dell’animo tuo verso di me, poiché tu non
solo ti degnasti con la tua lettera di onorare un uomo che non cono-
scevi, ma lo hai fatto più di quanto fosse lecito sperare. Tu mi pro-
metti di leggere per intero la mia declamazione Sulla vanità delle
scienze e sull’eccellenza della parola di Dio e di scrivermi in modo più det-
tagliato il tuo parere a riguardo. Erasmo, mio signore, ti prego dun-
que di accordare ad Agrippa un po’ della tua fatica e di segnalarmi
quel che la grandezza tua considera della mia opera. Tuo mi dico, e
avendo giurato sul tuo nome, mi consegno, dono e affido come fe-
delissimo soldato a te, il cui giudizio terrà per me sempre il luogo
della veneranda autorità degli antichi, e tanto sono convinto della
tua umanità nei miei confronti da credere che interpreterai favore-
volmente la mia libertà e licenza di esprimersi. Sai bene, infatti, che
cosa sia una declamazione. Ma voglio anche informarti che nelle co-
se di religione ho un sentimento per nulla diverso da quel che nutre
la chiesa cattolica. Ho trattenuto presso di me per alcuni giorni il sa-
cerdote Andrea, latore della tua lettera, uomo pio e giudizioso a me
carissimo tanto per le sue proprie virtù quanto per avermi recato la
tua missiva. Quanto vorrei poter soddisfare i suoi desideri, o diventa-
re davvero un giorno o l’altro tale quale egli mi stima! Sta bene e sap-
pi per certo che nulla di più grato può capitarmi di ciò: che il mio
spirito, a te consacrato, venga accolto con entusiasmo pari a quello
con cui viene offerto. Di nuovo sta bene.
Dalla corte imperiale di Bruxelles, nutrice di tutte le buone lettere
e delle virtù, il 20 dicembre 1531.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 542

S. D.

Literis illis tuis humanissimis, quas detulit ad me Andreas sacer-


dos, respondi nuper, Erasme colendissime, curavique per manus
Maximiliani Transylvani meas tibi reddendas; an acceperis, nescio,
puto autem accepisse, licet ego ex te aliud acceperim nihil, quippe
absens a Brabantia plures dies fui apud Reverendissimum et Illustris-
simum Principem Electorem Archipraesulem Coloniensem, qui te
unice et amat et veneratur. Saepissime nobis sermo est de tua inte-
gerrima et invincibili doctrina. Sunt apud illum multi tui nominis
praecones, inter quos Tilmannus de Fossa, tui nominis cultor studio-
sissimus. Hic cum narrasset, se habere opportunum ad te nuncium,
iniquum duxi, illum abire meis literis vacuum, et si nihil habeam,
quod nunc ad te scribam, aliud quam esse me tibi perpetuo addictis-
simum obligatissimumque, qui me hominem ignotum et humilioris
literaturae prior tuis literis illustrare dignatus es. Cum ergo ea sit hu-
manitas tua, quod praeclarus obscuri literas non despicis, parcito
huic audaciae meae, qui te rogo ut mihi per ocium aliquando rescri-
bas. Spero siquidem inde brevi futurum inter nos etiam de magnis
rebus ultro citroque saepissime scribendi et rescribendi argumen-
tum. Vale felicissime.
Ex Agrippina Colonia decimaseptima Martii, 1532.
Adhuc per mensem unum hic mansurus sum, inde abiturus in
Brabantiam.

Tue Praestanciae deditissimus


Hen: Corn: Agrippa, manu propria.

Erasmo Roterodamo Theologo Doctrina, Vita, Moribus Integerri-


mo, suo colendissimo. Friburgi Brisgavie.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 543

Salute a te. Già da molto tempo ho risposto, onorevolissimo Era-


smo, alla tua gentilissima lettera recapitatami dal prete Andrea, e ho
fatto in modo che la mia ti venisse consegnata per mezzo di Massimi-
liano Transilvano1. Non so se tu l’abbia ricevuta oppure no, ma pen-
so che tu l’abbia ricevuta, anche se non ho avuto alcuna tua risposta
dal momento che sono stato assente dal Brabante per molti giorni e
mi sono trattenuto presso il reverendissimo e illustrissimo Principe
Elettore Arcivescovo di Colonia2, che ha per te particolare amore e
venerazione. Assai spesso il nostro discorso si porta sulla tua integer-
rima e insuperabile sapienza. Presso di lui vi sono molti celebratori
della tua fama. Tra questi vi è Tilmanno de Fossa3, appassionatissimo
cultore del nome tuo. Poiché egli mi disse di disporre di un messo
opportuno per te, ho ritenuto indebito che questi partisse senza una
mia lettera, sebbene null’altro abbia ora da scriverti se non che io ti
sono sempre devoto e obbligatissimo per esserti degnato per primo
di onorare con la tua lettera un uomo sconosciuto e di assai modesta
dottrina quale io sono. Essendo la tua umanità tale che, pur illustre
come sei, non disdegni la lettera di un ignoto, perdona questa mia
audacia nel pregarti di rispondermi non appena ne avrai l’agio. Spe-
ro che di qui a breve avremo l’opportunità di corrispondere l’uno
con l’altro spessissimo. Sta bene.
Colonia, 17 marzo 1532.

Rimarrò qui per un solo mese, poi ritornerò in Brabante.

Devotissimo alla tua nobiltà,


Enrico Cornelio Agrippa di sua mano

al suo onorevolissimo Erasmo da Rotterdam teologo integerrimo


per dottrina, vita e costumi. Friburgo in Brisgovia.

1
Massimiliano Transilvano di Bruxelles (m. 1538), segretario e probabilmente fi-
glio naturale di Matteo Lang, vescovo di Gurk, autore di alcune opere in versi, fu
per alcuni anni sotto la guida di Pietro Martire Vermigli. Corrispondente di Era-
smo da Rotterdam, è anche il dedicatario del De nobilitate et praecellentia foeminei
sexus di Agrippa.
2
Hermann von Wied (1477-152), principe elettore arcivescovo di Colonia dal 1515
al 1547. Fu rimosso dalla sua carica per aver aderito attivamente al luteranesimo.
3
Tilmanno Gravius o da Fossa (n. ca. 1474), segretario nella Cattedrale di Colo-
nia e amico dell’arcivescovo della città Hermann von Wied.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 544

ERASMUS AD AGRIPPAM

Quum huc rediisset Polyphemus e Ratisbona, et languebam et ae-


dificabam, quo mihi nihil molestius: et obruebar studiorum labori-
bus, itaque mallem serius ad te scribere, quam committere, ut iure
queri possis te non accepisse iustam epistolam. Bellum cum Turca su-
scepimus cunctis male ominantibus. Eo mittendi erant robusti bonis
lateribus, ac bene vocales. Bene vale, Corneli doctissime. Ex nundinis
scribam et alacrius et copiosius.
Friburgi, Iacobi, Anno 1532.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 545

ERASMO AD AGRIPPA

Ritornato che fu Polifemo1 da Ratisbona, ero al contempo preso


da sfinimento e da operosità, della qual cosa nulla mi è più molesto:
ero gravato dalle fatiche degli studi, e per questo preferirei scriverti
più in là piuttosto che correre il rischio che tu possa a buon diritto la-
mentarti di non aver ricevuto una lettera esauriente. Abbiamo intra-
preso una guerra contro i Turchi senza alcun presagio favorevole. Lì
si dovevano inviare uomini robusti provvisti di buoni polmoni e di vo-
ce sonora. Sta bene, dottissimo Cornelio. Dopo le vacanze estive ti
scriverò con maggiore solerzia e dovizia.
Friburgo, nel giorno di san Giacomo [25 luglio] 1532.

1
Felix Rex (m. ca. 1549), di Ghent, soprannominato Polifemo probabilmente a
sottolineare la varietà di lingue di sua conoscenza. Luterano, lavorò per qualche
tempo nell’officina tipografica di Froben e fu latore di numerose lettere per Era-
smo durante il soggiorno di questi in Brabante.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 546

AGRIPPA AD ERASMUM

Ex literis tuis, candidissime Erasme, quas mihi Polyphemus ante


nundinas reddidit, accepi te et languore corpusculi, et labore studio-
rum, et aedificandi molestia obrutum, non potuisse tunc longiores
ad me literas dedisse: pollicebaris tamen post nundinas et alacrius et
copiosius te scripturum. Itaque expectabundus tuarum literarum no-
lui tibi molestus esse usque adhuc. Nunc vero nactus nuntii huius
oportunitatem, statui rursus silentia rumpere, non quod tecum ex-
postulem, sed ut te admoneam me nullas tuas accepisse, ne quando,
si forte scripsisses, et interceptae mihi perierint, meum in respon-
dendo silentium ignaviae aut ingratitudinis vitio abs te iure argui pos-
sit. Scripturus igitur ad me literas, destinabis Coloniam ad Tilman-
num de Fossa. Ego quas ad te redditurus sum, destinabo Basileam ad
Frobenium, vel Cratandrum, sic spero neuter nostrum fraudabitur.
Caeterum, quod te scire volo, bellum mihi est cum Lovaniensibus
theosophistis. Hactenus variis insidiis in meis castris oppugnatus, ve-
litari eruptione me defendi: nunc autem ingravescente praelio, pate-
factis foribus in apertam pugnam prorupi cataphractus. Non sunt il-
los destitutura Coloniensium et Parisiensium subsidia: mihi quae fu-
tura sint praesidia, nescio, nisi quod ea causa fretus, quam nulla ex-
pugnare potest contradictio, non ulla maculare potest falsitas, quae
nec ab advocatorum penuria, nec a fraude iudicum ullum pati potest
detrimentum. Sic munitus non dubito me vel solum exponere peri-
culo: sed si vicero certamen, non minor tua, quam mea futura est glo-
ria, qui non minus tuis, quam propriis armis atque telis strenue pu-
gno, eoque audentius in hunc campum prosilio, videbisque proxime
prodeuntem imperterrita libertate novum in arma militem. Tunc tu
ridebis, scio; alii admirabuntur; Sophistae crepabunt medium; ego
interea aut vicero, aut evasero. Vale, et boni consule.
Ex Bonna, decimatertia Novembris, Anno 1532.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 547

AGRIPPA A ERASMO

Dalla tua lettera, recapitatami da Polifemo prima delle vacanze


estive, ho appreso, chiarissimo Erasmo, che tu, oppresso da stanchez-
za fisica, dalla fatica degli studi e dall’affanno dell’operare, non hai
potuto in quel momento inviarmi una lettera più lunga; mi promet-
tevi tuttavia che dopo le feste mi avresti scritto con maggiore solerzia
e dovizia. Pertanto, in attesa della tua lettera, non volli ancor più im-
portunarti; ora però, avuta occasione di valermi di questo messo, ho
deciso di rompere di nuovo il silenzio non per dolermi con te, ma
per informarti di non aver ricevuto alcuna tua lettera affinché, se per
caso mi avessi scritto, e la lettera, sottratta, fosse andata perduta, il
mio silenzio nel risponderti non potesse da te esser interpretato co-
me segno di ignavia o di ingratitudine. Se hai intenzione di scrivermi
una lettera, puoi inviarla a Colonia presso Tilmanno de Fossa. Indi-
rizzerò la mia risposta a Basilea presso Froben o presso Cratander.
Spero così che nessuno di noi si sentirà defraudato. Del resto, questo
voglio che tu sappia: sono in guerra con i teosofisti di Lovanio. Sotto
pericoloso assedio nel mio accampamento mi difesi dapprima con
un assalto di fanteria leggera; ora poi, intensificandosi il combatti-
mento, spalancate le porte, mi son precipitato in campo aperto mu-
nito di corazza. Non è mancato ai teosofisti l’aiuto dei teologi di Co-
lonia e di Parigi. Ignoro quali siano i miei futuri alleati; confido per
altro, come in una fortezza, in quella causa che nessuna obiezione
può espugnare, nessuna falsità può macchiare, che non può subire
alcun danno né da scarsità di difensori né da frode di giudici. Così di-
feso, non dubito di espormi neppure da solo al pericolo, ma se vin-
cerò questa battaglia, la gloria non sarà meno mia che tua, poiché io
combatto strenuamente con armi sia leggere sia pesanti non meno
tue che mie, e in campo prorompo tanto più ardito, e presto vedrai
portarsi avanti in battaglia un novello soldato con imperterrita li-
bertà. Allora tu riderai, lo so; altri rimarranno ammirati; i sofisti stre-
piteranno; io nel frattempo o vincerò o quantomeno ne uscirò sano
e salvo. Salve e sta di buon animo.
Bonn, 13 novembre 1532.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 548

AGRIPPA AD ERASMUM

Pudet me, colendissime Erasme, tot infoecundis literis, et quae


praeter salve et vale nihil habent amplius, occupationes tuas inter-
pellare: sed cum huc transiret is tuus servulus, tuas mihi impartiens
salutes, turpissimae ingratitudinis accusari possem, si non scriberem.
Impatiens itaque silentii tui nominis veneratio, hunc abortivum cala-
mum coegit, non aliud nunciantem quam, si quid apud me est quod
tibi conducere putes, utere opera mea. Nam neque tardum, neque
defatigatum offendes tui Agrippae animum. Scripsi praestantiae tuae
a decimo tertio huius mensis per Reverendissimi Cardinalis Campe-
gii chartophorum, quas literas tibi redditurus erat Cratander Basi-
liensis typographus, ex quibus intelliges, quale bellum mihi est cum
theologis. Vale foelicissime.
Ex Bonna, vicesimasecunda Novembris, Anno 1532.
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AGRIPPA A ERASMO

Mi rincresce, onorevolissimo Erasmo, di interrompere le tue occu-


pazioni con tante lettere inutili e che non contengono nulla di più se
non convenevoli, ma passando da queste parti il tuo servo che mi re-
ca i tuoi saluti, potrei venire accusato di vergognosa ingratitudine se
non ti scrivessi. E così, incapace di tacere, la venerazione del tuo pre-
stigio mi ha indotto a riprendere in mano la penna anzi tempo de-
posta, la quale null’altro vuole dirti se non di avvalerti di me qualora
io abbia qualcosa che a tuo parere possa giovarti. Infatti l’animo del
tuo Agrippa non è né indolente né stanco. Scrissi alla tua eccellenza
il 13 di questo mese, valendomi del segretario del reverendissimo
cardinale Campeggi1, una lettera che avrebbe dovuto consegnarti il
tipografo Cratander di Basilea2, e dalla quale comprenderai qual sor-
ta di guerra sto conducendo contro i teologi. Sta bene.
Bonn, 22 novembre 1532.

1
Possibile allusione a Pietro di Bruxelles, segretario del cardinale Lorenzo Cam-
peggi (1474-1539), impiegato da Agrippa nel 1533 come ‘cartophoro’. Si veda
AGRIP., Epist., VII, 39.
2
Per la lettera datata 13 novembre e indirizzata al tipografo Cratander in cui
Agrippa prega quest’ultimo di inviare a Erasmo una copia della sua Apologia ad-
versus calumnias, propter declamationem de vanitate scientiarum, si veda AGRIP., Epist.,
VII, 16.
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ERASMUS AD AGRIPPAM

Salutem P. Hactenus, vir eruditissime, tuis literis non respondi, sa-


tius esse ducens omnino silere quam negligenter respondere. Hacte-
nus sane expectatum est ocium, sed hactenus non datum. Quem
chartophorum narres, nescio: nec tuam epistolam historiae theologi-
cae narratricem Cratander reddidit. Si quid posthac autem mihi bo-
na fide reddi cupis, fac tradas Hieronymo Frobenio. Tibi cum cra-
bronibus rem esse doleo. Explica te quantum potes. Paucis bene ces-
sit cum illis conflictari. Ad novam hirundinem scribam copiosius, fa-
vente Christo. Interim tibi persuade, Erasmum esse de numero bene
cupientium Agrippae.
Vale. Friburgi, nono die Dicembris, Anno 1532.
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ERASMO AD AGRIPPA

Ti saluto vivamente. Finora, eruditissimo, non ho risposto alla tua


lettera, pensando esser meglio tacere del tutto piuttosto che rispon-
dere con negligenza. Fino a questo momento, in verità, la tranquil-
lità che pur speravo, non mi è stata concessa. Non so nulla di quel se-
gretario di cui parli, né Cratander mi recò la lettera in cui racconti le
tue vicende con i teologi. Se desideri da ora in poi che qualcosa mi
venga recapitata con sicurezza, fai in modo di consegnarla a Gerola-
mo Froben. Mi dolgo che tu sia in mezzo a un vespaio. Cerca di libe-
rarti per quanto ti è possibile. Per pochi il conflitto con quella razza
di persone è finito bene. In primavera, se Cristo vuole, ti scriverò più
a lungo. Nel frattempo stai certo che Erasmo è fra coloro che deside-
rano il bene di Agrippa. Saluti.
Friburgo, 9 dicembre 1532.
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AGRIPPA AD ERASMUM

Multis et magnis de rebus ad te scripturus forem, ter maxime Era-


sme, nisi ex te plura maioraque expectarem. Sic namque prioribus li-
teris tuis polliceris, te per ocium longas easque necessarias literas ad
me daturum: sed occupationes tuas ulterius interpellare non audeo,
eo quod talem me fateor, qui tibi, quod te dignum est, retribuere
non possim. Tuas tamen literas summo desiderio exopto, rogoque
ut, qui te grandi diligit affectu, Agrippam tuum ne contemnas. Libel-
lus meus, quem adversus aliquot theologistas Basileae excudendum
tradidi, re infecta ad me rediit, eo quod nonnullos offendisset. Is
nunc excudetur alibi. Scripsi ad te de hac relatius, sed eas literas tibi
non fuisse redditas, ex tuis cognovi, pariterque ex Cratandro intel-
lexi. Sed de his alias. Caeterum nunc quod te scire convenit, reveren-
dissimus atque illustrissimus Princeps et Elector, Archiepiscopus Co-
loniensis, qui scriptorum tuorum studiosissimus, te unice diligit,
amat, observat et veneratur, tecum auspicari cupit amicitiam, teque
coram videre et audire desiderat, iussitque ad te scriberem, scirem-
que ex te, si per hanc aestatem sese accedere velis Bonnam, sive Co-
loniam, aliquot vel pauculos dies illi morem gesturus; effecturum se,
ut te itineris illius minime poeniteat. Tu, quid facturus sis, rescribe.
Unum hoc scio, si venturus sis, offendes Principem Christianissimi
animi, et penes quem Christianae Reipubblicae ac publicae tranquil-
litati tu plurimum conferre atque prodesse poteris.
Vale foelicissime, 10 Aprilis Anno 1533. Festino calamo.
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AGRIPPA A ERASMO

Vorrei scriverti di molti e importanti argomenti, tre volte sommo


Erasmo, se non attendessi da te maggiori e più interessanti notizie.
Nella tua precedente lettera mi promettevi infatti proprio questo,
che mi avresti inviato, quando ne avresti avuto l’agio, una lunga e
provvidenziale epistola, ma non oso interrompere ulteriormente la
tua attività per il fatto che riconosco di non poter rendere ricompen-
sa degna di te. Tuttavia desidero intensamente la tua lettera e ti pre-
go di non trascurare il tuo Agrippa, che ti ama con tanto affetto. L’o-
peretta che ho composto contro alcuni teologi di Basilea, e che ho
consegnato per farla stampare, mi è ritornata indietro senza aver ot-
tenuto il permesso perchè secondo loro avrebbe offeso qualcuno1.
Ora la pubblicherò altrove. Ti ho scritto diffusamente di quell’opera,
ma nella tua lettera affermi che la mia non ti è mai stata recapitata,
come ho appreso anche da Cratander, ma di questo ti parlerò un’al-
tra volta. D’altra parte è bene che tu sappia che il reverendissimo e il-
lustrissimo Principe Elettore Arcivescovo di Colonia, il quale è un
grande ammiratore dei tuoi scritti e predilige, ama, onora e stima
unicamente te, vorrebbe entrare in amicizia con te e desidera veder-
ti e ascoltarti di persona, e ha dato incarico di scriverti per sapere da
te se quest’estate vuoi andare a trovarlo a Bonn o a Colonia accon-
tentandolo per qualche giorno, o anche per pochissimi. Egli farà in
modo che tu non abbia a pentirti del tuo viaggio. Scrivimi che cosa
hai intenzione di fare. Questo soltanto so: se verrai, incontrerai quel
principe dal cristianissimo sentire, e presso di lui potrai giovare al
massimo alla repubblica cristiana e alla tranquillità dello Stato. Ti au-
guro di star bene.
10 Aprile 15332. Ti ho scritto di fretta.

1
Si tratta sempre dell’Apologia. Si veda supra, p. 549 e nota 2.
2
La lettera, con ogni probabilità, è stata scritta da Francoforte. Si veda AGRIP., Epi-
st., VII, 39, dove è riportata una lettera recante la stessa data e Francoforte come
luogo di provenienza.
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AMICUS AD AGRIPPAM

Scripsi pridem ad te paucis, significans in opere tuo illo, libro De


vanitate scientiarum, doctrinam hic doctissimis quibusque placuisse.
Nondum enim ipse legeram, aliquanto post nactus librum commodato,
iussi famulum a coena recitare. Nec enim alias vacabat, et ipse coenatus
ab omni studio temperare cogor. Placuit deivnwsi" et copia, nec video
cur tantopere indignentur monachi. Ut vituperas malos, ita laudas bo-
nos, sed illi tantum amant laudari. Quod tum tibi suasi, rursus suadeo
ut, si commode possis, extrices te ab ista contentione. Sit tibi exemplo
Ludovicus Barguinus, quem nihil aliud perdidit, quam in monachos ac
theologos simplex libertas, vir alioqui moribus inculpatissimis. Saepius
illi suasi ut arte explicaret sese ex eo negotio, sed illum fefellit victoriae
spes. Quod si non potes effugere quin experiare Martis aleam, vide ut e
turri pugnes, nec te committas illorum manibus. Illud imprimis cave,
ne me isti negotio admisceas. Plus satis oneror invidia, ea res et me gra-
vabit, et tibi magis obfuerit quam profuerit. Idem rogaram Barguinum,
et ille promittebat, sed fefellit, plus suo tribuens animo quam meo con-
silio. Exitum vides. Ne tantulum quidem fuisset periculi, si meis consiliis
obtemperasset. Toties illi occinebam, nec theologos, nec monachos vin-
ci posse, etiamsi haberet causam meliorem quam habuit Sanctus Pau-
lus. Et si quid haberem apud te autoritatis, etiam atque etiam monerem
ut istuc operae, quod insumpturus es periculosae digladiationi, impen-
das liberalibus studiis provehendis. In praesentia non vacabat pluribus.
Scribo enim plurimis amicis.
Vale. Friburgi, vicesimaprima Aprilis, Anno 1533.
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UN AMICO AD AGRIPPA

In precedenza ti ho scritto brevemente rendendoti noto che la


dottrina contenuta in quella tua opera Sulla vanità delle scienze è pia-
ciuta qui a tutti i più dotti1. Io infatti non avevo ancora letto il libro;
qualche tempo dopo, avendolo avuto in prestito, un giorno ho ordi-
nato a un servo di leggerlo ad alta voce durante il pranzo2. Non ave-
vo infatti un altro momento a disposizione, tanto più che dopo pran-
zo sono costretto ad astenermi da ogni attività intellettuale. Mi è pia-
ciuto per la foga e per la ricchezza3 e non comprendo perché i mo-
naci se ne indignino tanto. Come vituperi i malvagi, così lodi i buoni,
ma quelli vogliono solo essere lodati. Come ebbi a consigliarti allora,
ti consiglio di nuovo: tirati fuori, se ti è possibile farlo, da questa di-
sputa. Ti sia da esempio Ludovico Berquin4, uomo, per il resto, di co-
stumi irreprensibili, che null’altro ha mandato in rovina se non la
schietta libertà presasi nei confronti dei monaci e dei teologi. Ho
tentato spesso di convincerlo a districarsi accortamente da quella fac-

1
La lettera è andata perduta.
2
A questo proposito, si veda quanto scrive Erasmo in una lettera, datata 25 aprile
1533, indirizzata all’olandese Abel Colster: «De viro, de quo quid sentiam rogas,
magnificentius censeo quam ut de eius ingenio censuram ferre possim. Librum
non legi, sed nactus eum commodato, quum id temporis ob assiduos labores non
daretur ocium aliud, mihi a coena inambulanti famulus recitavit, idque carptim,
selectis aliquot capitibus. Cuius erat codex, non passus est eum diutius apud me
manere». Si veda ERASMO, Op. epist. (ed. Allen), vol. X, p. 210.
3
Sull’uso e il significato del termine greco deinosis, si veda QUINT., Inst. orat., VI, 2,
24.
4
Ludovico Berquin, erudito francese, fu bruciato come eretico, in Piazza di Grè-
ve a Parigi, il 22 aprile 1529.
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556 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

cenda5, ma lo ha ingannato la speranza di vincere. Se non puoi evita-


re i colpi di Marte, vedi di combattere dall’alto di una torre e non ti
consegnare nelle loro mani. Principalmente questo devi evitare, di
coinvolgermi in questa questione. Sono carico di animosità più che a
sufficienza; questo fatto peserà su di me e per te sarebbe assai più
dannoso che vantaggioso6. La stessa raccomandazione avevo fatto a
Berquin e lui prometteva di darmi ascolto, ma cadde in fallo, dando
retta più all’animo suo che al mio consiglio. Hai visto come è andata
a finire. Non avrebbe corso alcun pericolo se avesse seguito i miei
consigli. Quante volte gli ripetei il ritornello che non è possibile vin-
cere né teologi né monaci, anche se uno difendesse miglior causa di
quel che ebbe san Paolo. E se avessi una qualche influenza su di te,
continuerei ad ammonirti a rinunziare alla pericolosa sfida a cui stai
per accingerti, per dedicarti invece agli studi liberali. Al presente
non ho tempo di dirti altro. Infatti intrattengo corrispondenza con
moltissimi amici. Sta bene.
Friburgo, 21 aprile7 1533.

5
Si veda, per es., la lettera datata 23 dicembre 1528 che Erasmo invia a Ludovico
Berquin, in ERASMO, Op. epist. (ed. Allen), vol. VII, pp. 539-541.
6
Si veda nuovamente la lettera ad Abel Colster in cui Erasmo scrive di Agrippa:
«Hodie respondi illius ad me literis, admonens ut, si qua possit, ab his turbis sese
extricet – minatur enim se iam iusto Marte velle cum theologis confligere: id si
non possit, et omnino statuerit iacere aleam, duo prospiciat: alterum ut pugnet
in tuto, ne se coniiciat in manus hostium qui nec vinci possunt nec placari: alte-
rum ne me suo admisceat negotio. Scribit enim se non minus pugnaturum armis
meis quam suis: ea pars epistolae mihi nonnihil displicuit. Ego hactenus ancipiti
Marte depugno cum excetra non septem, sed innumerabilium capitum, vixque
subsisto ob Moriam, et alia quaedam liberius a me scripta. At vereor ne ille, si per-
gat, mihi totam renovet invidiam. Quem porro fructum spectet non video. Si pu-
tat theologos ac monachos vel corrigi per ipsum vel opprimi posse, tota nimirum
errat via. Quorsum autem attinet iam nonnihil fatigatos crabrones rursus iritare
et in bonorum capita immittere?». E a proposito di Ludovico Berquin, Erasmo
aggiunge: «Quod si haec non movent istum, saltem ne me involvat suo bello.
Idem saepe petieram a Berquino, et is se facturum promiserat: sed fefellit suo exi-
tio, meo gravi incommodo, Nunquam theologi censuras in me aedidissent, nisi
ab illo fuissent lacessiti» (ERASMO, Op. epist., ed. Allen, vol. X, pp. 210-211).
7
Dalla lettera ad Abel Colster si evince che la data dell’epistola di Erasmo ad
Agrippa potrebbe essere il 25 e non il 21 aprile del 1533 («Hodie respondi il-
lius…»).
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 557

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558 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

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tore, Torino 2002.
ERASMO DA ROTTERDAM, Moriae encomium
ERASMO DA ROTTERDAM, Opus epistolarum Desideri Erasmi Roterodami, ed.
P. S. Allen, Oxford Clarendon Press Oxford 1941.
ERODOTO, Historiae
ESCHILO, Fragmenta, in Tragicorum Graecorum Fragmenta [d’ora in avan-
ti TGF], ed. A. Nauck, Teubner, Leipzig 1889, pp. 1-128.
ESCHILO, Prometeus
ESIODO, Catalogo delle donne
ESIODO, Fragmenta Hesiodea, ed. R. Merkelbach e M.L. West, Claren-
don Press, Oxford 1967.
ESIODO, Theogonia
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562 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

ESOPO, Fabulae
EUCLIDE, Elementa
EUNAPIO, Vitae philosophorum et sophistarum
EUNOMIO, Liber apologeticus
EURIPIDE, Phoenicis
EURIPIDE, Fragmenta, in TGF, pp. 636-716.
EUSEBIO DI CESAREA, Historia ecclesiastica, in PG, XX, coll. 9-906.
EUSEBIO DI CESAREA, Praeparatio evangelica, in PG, XXI, coll., 21-1456.
FICINO MARSILIO, De vita libri tres
FICINO MARSILIO, De voluptate
FICINO MARSILIO, Theologia platonica
FILARCO, Fragmenta, in FGrHist 81, vol. II A, pp. 166-189.
FILEMONE, Fragmenta, in PCG, vol. VII, pp. 221-317.
FILODEMO, Rhetorica
FILONE EBREO, De Abrahamo
FILONE EBREO, De agricultura
FILONE EBREO, De gigantibus
FILONE EBREO, De vita Mosis
FILONE EBREO, Legum allegoria
FILOSTRATO IL GIOVANE, Imagines
FILOSTRATO, De vita Apollonii Thyanaei
FIRMICO MATERNO Matheseos libri VIII
FOZIO, Bibliotheca
FOZIO, Lexicon
FLAVIO GIUSEPPE, Contra Apionem
FLAVIO GIUSEPPE, Antiquitates Iudaicae
FLAVIO VOPISCO, Divus Aurelianus, in SHA, vol. III, pp. 192-293.
FLAVIO VOPISCO, Firmus, Saturninus, Proculus et Bonosus, in SHA, vol. III,
pp. 387-415.
FLORO LUCIO ANNEO, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum
DCC, libri II.
GALENO, De definitionibus medicis
GALENO, De methodo medendi
GALENO, De sectis
GALENO, De usu partium
GEROLAMO, Adversus Jovinianum libri II, in PL, XXIII, coll. 221-352.
GEROLAMO, Commentariorum in Amos prophetam libri, in PL, XXV, II,
coll. 1037-1148.
GEROLAMO, Commentariorum in Epistolam ad Titum, in PL, XXVI, coll.
589-634.
GEROLAMO, Commentariorum in Evangelium secundum Matthaeum, in PL,
XXVI, coll. 15-228.
GEROLAMO, Commentariorum in Isaiam prophetam, in PL, XXIV, coll. 17-
704.
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FONTI UTILIZZATE 563

GEROLAMO, Commentariorum in Malachiam prophetam, in PL, XXV, II,


coll. 1617-1654.
GEROLAMO, Commentariorum in Naum prophetam, in PL, XXV, II, coll.
1289-1332.
GEROLAMO, Commentariorum in Ezechielem prophetam, in PL, XXV, I, coll.
15-512.
GEROLAMO, Dialogus adversus Pelagianos, in PL, XXIII, coll. 517-630.
GEROLAMO, Epistolae, in PL, XXII, coll. 325-1224.
GEROLAMO, Liber de viris illustribus, in PL, XXIII, coll. 631-760.
GEROLAMO, Liber Hebraicarum quaestionum in Genesim, in PL, XXIII,
coll.983-1062.
GEROLAMO, Liber psalmorum, in PL, XXIX, coll. 121-420.
GEROLAMO, Synopsis Divinae Bibliothecae ex Epistola Hieronymi Paulino de-
sumpta, in PL, XXVIII, coll. 173-178.
GEROLAMO, Vita S. Hilarionis, in PL, XXIII, coll. 29-54.
GEROLAMO, Vita S. Pauli primi eremitae, in PL, XXIII, coll. 17-29.
GIAMBLICO, De mysteriis Aegyptiorum
GIAMBLICO, Vita Pytagorica
GIORGIO FRANCESCO, De harmonia mundi totius cantica tria, Venetiis
1525.
GIOVENALE, Saturae.
GIULIO CAPITOLINO, Marcus Antoninus philosophus, in SHA, vol. I, pp.
132-205.
GIULIO CAPITOLINO, Maximini duo, in SHA, vol. II, pp. 314-379.
GIULIO CAPITOLINO, Verus, in SHA, vol. I, pp. 206-231.
GIULIO CAPITOLINO, Vita Clodii Albini, in SHA, vol. I, pp. 460-493.
GIUSTINIANO, Digesta Iustiniani Augusti, ed. P. Bonfante, Formis Socie-
tatis Editricis Librariae, Milano 1931.
GIUSTINO, Apologia
GIUSTINO MARCO GIUNIO, Epitoma historiarum Philippicarum Pompei Trogi
GREGORIO MAGNO, Epistolarum libri XIV, in PL, LIIVII, coll. 441-1328.
GREGORIO NAZIANZENO, Orationes, in PG, XXXV, coll. 393-1252.
GUGLIELMO D’ALVERNIA, De legibus, in Opera, ed. B. Leferon, Orléans
1674-1675, pp. 18-102.
GUGLIELMO D’ALVERNIA, De universo, in Opera, cit., pp. 593-1074.
GUGLIELMO D’OCCAM, Quodlibet
HUTTEN ULRICH, Epistolae obscurorum virorum dialogus, Teubner, Leipzig
1869.
IERONIMO DI RODI, Fragmenta, in Die Schule des Aristoteles, cit., X, pp. 9-
44.
IGINO, Astronomica
IGINO, Fabulae
IPPOCRATE, Aphorismi
IPPOLITO, Refutatio contra omnes haereses
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564 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

IRENEO DI LIONE, Adversus haereses libri V


ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiarum libri XX (Originum libri)
LATTANZIO, Divinarum institutionum libri VII, in PL, VI, coll. 111-822.
LATTANZIO, Liber de ira Dei, in PL, VII, coll. 77-148.
LATTANZIO, Liber de mortibus persecutorum, in PL, VII, coll. 190-274.
Lex XII Tabularum, in Fontes iuris anteiustiniani, ed. S. Riccobono, Bar-
bera, Firenze 1941.
Liber Pontificalis, ed. L. Duchesne, Ernest Thorin, Paris 1886-1892.
LICOFRONE, Alexandra
LIVIO, Ab urbe condita libri
LUCANO, De bello civili (Pharsalia)
LUCIANO, Bacchus
LUCIANO, De saltatione
LUCIANO, Demonax
LUCIANO, Epistulae Saturnales
LUCIANO, Imagines
LUCIANO, Mortuorum dialogi
LUCIANO, Vitarum auctio
LUCREZIO, De rerum natura
MACROBIO, Commentariorum in Ciceronis somnium Scipionis, ed. F. Eys-
senhardt, Teubner, Leipzig 1893.
MACROBIO, Conviviorum primi diei saturnalium, ed. F. Eyssenhardt,
Teubner, Leipzig 1893.
MANILIO, Astronomica
MARZIALE, Epigrammaton liber (De spectaculis liber)
MARZIANO CAPELLA, De nuptiis Mercurii et Philologiae, ed. J. Willis, Teub-
ner, Leipzig 1893.
MENANDRO, Fragmenta comicorum Graecorum, ed. A. Meinecke, G. Rei-
meri, Berlin 1839-1857, vol. IV, pp. 69-374.
MESUE, Antidotarium
MORE THOMAS, Epigrams
NEANTE DI CIZICO, Fragmenta, in FGrHist 84, vol. II A, pp. 191-202.
NICANDRO DI COLOFONE, Fragmenta, in FGrHist 271-272, vol. III A, pp.
85-95.
OMERO, Iliadis libri XXIV
OMERO, Odysseae libri XXIV
ORAZIO, Ars poetica
ORAZIO, Carmina (Odae)
ORAZIO, Epistularum libri II
ORAZIO, Epodi (Iambi)
ORAZIO, Saturae (Sermones)
ORIGENE, Contra Celsum, ed. P. Koetschau, Teubner, Leipzig 1989.
ORIGENE, De principiis, ed. H. Crouzel-M. Simonetti, «Sources Chré-
tiennes», 252, Paris 1978.
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FONTI UTILIZZATE 565

OROSIO, Historiae adversum paganos


OVIDIO, Ars amatoria
OVIDIO, Medicamina faciei femineae
OVIDIO, Metamorphoses
OVIDIO, Remedia amoris
PANFILO, Fragmenta, in De Pamphilo et Diogeniano glossographis, ed. Sch-
midt, in Hesychii Alexandrini ‘Lexicon’, Halle, vol. IV, pp. lx-lxxxiii,
1864.
PAOLO DIACONO, Historia Longobardorum
PAUSANIA, Descriptio Graeciae
PERSIO, Saturae
PETRARCA FRANCESCO, Contra medicum quendam
PETRARCA FRANCESCO, De remediis utriusque fortunae libri II
PETRARCA FRANCESCO, Familiarum rerum libri
PETRONIO, Satyrica (comunemente: Satyricon)
PICATRIX, Picatrix. The Latin version of the Ghayat Al-Hakim, ed. by D.
Pingree, «Studies of the Warburg Institute», 39, London 1986.
PICO, GIOVANFRANCESCO, De rerum praenotione, in Opera, Basileae, 1572,
vol. II, pp. 248-466.
PICO, GIOVANFRANCESCO, De studio divinae et humanae philosophiae, in
Opera, cit., vol. II, pp. 1-28
PICO, GIOVANFRANCESCO, Examen vanitatis doctrinae gentium, et veritatis
Christianae disciplinae, in Opera, cit., vol. II, pp. 467-814.
PICO, GIOVANNI, Apologia
PICO, GIOVANNI, Conclusiones sive Theses DCCCC
PICO, GIOVANNI, Disputationes adversus astrologiam divinatricem, ed. E.
Garin, Vallecchi, Firenze 1943.
PICO, GIOVANNI, Oratio de hominis dignitate, ed. E. Garin, Edizioni Stu-
dio Tesi, Pordenone 1994.
PIETRO D’ABANO, Conciliator differentiarum philosophorum et praecipue me-
dicorum, Venetiis 1476.
PIETRO ISPANO, Summulae logicales
PINDARO, Pythia
PITAGORA, Fragmenta, in VS, vol. I, pp. 96-105.
PITAGORA, Spera pictagore, Parigi, Bibl. Nat., ms. lat. 7337, f. 175.
PLATONE, Alcibiades primus
PLATONE, Apologia Socratis
PLATONE, De Republica
PLATONE, Epinomis
PLATONE, Euthydemus
PLATONE, Gorgia
PLATONE, Ione
PLATONE, Leges
PLATONE, Minos
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566 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

PLATONE, Phaedo
PLATONE, Phaedrus
PLATONE, Symposium
PLATONE, Theaetetus
PLATONE, Tymaeus
PLAUTO, Aulularia
PLAUTO, Curculio
PLAUTO, Mostellaria
PLAUTO, Pseudolus
PLINIO IL GIOVANE, Epistularum libri X
PLINIO IL VECCHIO, Naturalis historiae libri XXXVII
PLUTARCO, Agesilaus
PLUTARCO, Alexander
PLUTARCO, Artaxerses
PLUTARCO, Cato maior
PLUTARCO, Cato minor
PLUTARCO, Cicero
PLUTARCO, Demosthenes
PLUTARCO, Phocio
PLUTARCO, Lycurgus
PLUTARCO, Moralia
PLUTARCO, Numa
PLUTARCO, Pelopidas
PLUTARCO, Pericles
PLUTARCO, Pyrrus
PLUTARCO, Solon
PLUTARCO, Theseus
PLUTARCO, Titus Flaminius
POLIBIO, Historiae
POLIDORO VIRGILIO, Adagiorum libri. Eiusdem de inventoribus rerum libri
VIII, Basileae 1521.
POMPONIO MELA, De chorographia, ed. C. Frick, Teubner, Leipzig 1880.
PORFIRIO, De abstinentia
PORFIRIO, De philosophia ex oraculis haurienda librorum reliquae, ed. G.
Wolff, Berlin 1865.
PRISCIANO, Institutio de arte grammatica
PROCLO, De sacrificio et magia interprete M. Ficino, in M. Ficino, Opera,
Basileae 1576, vol. II, pp. 1918-1919.
PROCLO, In Tymaeum commentarium, ed. E. Diehl, Teubner, Leipzig,
1903-1906.
PROPERZIO, Elegiae
PSEUDO-ARISTOTELE, Problemata
PSEUDO-CENSORINO, Fragmentum Censorino adscriptum, ed. C. Frick,
Teubner, Leipzig 1880.
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FONTI UTILIZZATE 567

PSEUDO-CICERONE, Rethorica ad Herennium


PSEUDO-IPPOCRATE, De natura infantis
QUINTILIANO, Institutio oratoria
REUCHLIN JOHANNES, De arte cabalistica libri III, Hagenau 1517.
REUCHLIN JOHANNES, De verbo mirifico, s.d. [Basel 1494].
RICCI AGOSTINO, De motu octave sphere: opus mathematica atque philosophia
plenum, ubi tam antiquorum quam iuniorum errores luce clarissima de-
monstrantur, Tridini 1513.
RODIGINO LUDOVICO CELIO, Lectionum antiquarum libri XVI, Venetiis
1516.
RUFINO, Historia ecclesiasticae libri II, in PL, XXI, coll. 461-540.
RUFINO, Historia monachorum, in PL, XXI, coll. 387-462.
SALLUSTIO, De coniuratione Catilinae (Bellum Catilinae)
SENECA, Ad Helviam matrem de consolatione
SENECA, Ad Lucilium epistulae morales
SENECA, De tranquillitate animi
SENECA, Naturales quaestiones
SENOFONTE, Cyropaedia
SENOFONTE, Hellenica
SENOFONTE, Oeconomicus
SENOFONTE, Symposium
SESTO EMPIRICO, Adversus mathematicos
SEVERIANO, De mundi creatione orationes VI, in PG, LVI, coll. 429-500.
SOCRATE, Socrate : tutte le testimonianze: da Aristofane e Senofonte ai padri
cristiani, ed. G. Giannantoni, Laterza, Bari 1971.
SOFOCLE, Antigone
SOLINO, Collectanea rerum memorabilium
SOZOMENO, Historia ecclesiastica
STAZIO, Thebaidos
STOBEO, Florilegium
STRABONE, Geographica
SUIDAS, Lexicon, ed. A. Adler, Teubner, Leipzig 1931.
SVETONIO, De grammaticis
SVETONIO, De rhetoribus
SVETONIO, De vita Caesarum libri VIII
SVETONIO, Vita Terentii
TACITO, Annales
TACITO, Historiae
TEMISTIO, Paraphrasis in libros de anima, ed. R. Heinze, in Commentaria
in Aristotelem graeca. Supplementum Aristotelicum, Reimer, Berlin
1885-1893, V, 3.
TEOFRASTO, De causis plantarum
TEOFRASTO, Historia plantarum
TEOFRASTO, Metaphysica
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568 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

TEOPOMPO, Fragmenta, in FGrHist 115, vol. II B, pp. 526-617.


TERENZIANO MAURO, De litteris, syllabis et metris Horatii, in Grammatici la-
tini, ed. K. Keil, VI, 2, Teubner, Leipzig 1871, pp. 313-314.
TERENZIO, Eunuchus
TERPANDRO, Fragmenta, in Fragmenta Historicorum Graecorum, ed. C. e
Th. Müller, voll. I-V, Didot, Paris 1848-1885.
TERTULLIANO, Adversus Valentinianos liber, in PL, II, coll. 557-632.
TERTULLIANO, Apologeticus adversus gentes pro Christianis, in PL, I, coll.
305-604.
TERTULLIANO, Liber de praescriptionibus adversus haereticorum, in PL, II,
coll. 9-92.
TIMOTHEUS, Persae, ed. T. H. Janssen, A. M., Amsterdam 1989.
TOLOMEO, Syntaxis (Almagestum)
TOLOMEO, Tetrabiblos (Quadripartitum)
TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae
TRITHEMIUS JOHANNES, Antipalus maleficiorum libri octo, Maguntiae
1605.
TUCIDIDE, Historia
VALERIO FLACCO, Argonautica
VALERIO MASSIMO, Factorum et dictorum memorabilium libri IX
VARRONE, M. Terentii Varronis Saturarum Menippearum fragmenta, ed. R.
Astbury, Teubner, Leipzig 1985.
VARRONE, Antiquitates rerum divinarum libri, ed. R. Aghad, Teubner,
Leipzig 1898.
VARRONE, De lingua latina
VARRONE, De re rustica libri III
VEGEZIO, Epitoma rei militaris, ed. C. Lang, Teubner, Leipzig 1885.
VIRGILIO, Aeneis
VIRGILIO, Bucolica (Eclogae)
VIRGILIO, Georgica
VITRUVIO, De architectura
VIVES JUAN LUIS, In pseudodialecticos, ed. C. Fantazzi, Brill, Leiden 1979.
VOLTERRANO (RAFFAELE MAFFEI) Commentariorum rerum urbanarum octo et
triginta libri, Basileae 1530.
ZENONE, Fragmenta, in Stoicorum Veterum Fragmenta, ed. H. von Arnim,
3 voll., Teubner, Leipzig 1903-1905, I, pp. 1-72.
ZOHAR, Sepher ha-Zohar (Livre de la splendeur), ed. J. de Pauly, Leroux,
Paris 1906-1911.
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INDICE DEI NOMI

Aaron, Aarone (Aronne), fratello di Abu– ‘Al¥ H.asan ibn H.asan ibn al-
Mosè, 250, 269, 273, 279, 491. H.ayt–am (Alhazen), 128n, 142n.
Aaron, autore di opere magiche, 189. Abu– ‘Al¥ Ya‘qb ibn al-Kayar (Alboha-
Abbari (Abari), re degli Iperborei, 188 li), 89 e n.
e n. Abu– Bakr al-H.asan ibn al-Ìas.¥b (Albu-
Abbiron (Abiram), 284, 285n. batar), 85 e n.
Abel (Abele), 249, 353, 374, 384n. Abu– Bakr Muh.ammad ibn Zaka–rı–ya–, al-
Abel, autore di opere magiche, 189, Ra–zı– di Baghdad (Rasis), 89n, 170,
198 e n. 403, 415, 416 e n.
Abenragel, vedi ‘Al¤ ibn Ab¤ al-Rigal. Abu– Ish. a–q al-I‰bı–lı– al-Bit.ru– ǧı– (al-Bi-
Abimelech, re di Gerar, 292, 309, 379, trudschi), 142 e n, 144, 146.
380. Abu– Ish. a–q al-Naqqa–‰ al-Zarqa–lluh
Abiù, 284. (Azarquiel, Azarchel), 142 e n, 143
Abraham (Abram, Abraam, Abramo), e n, 144 e n, 145.
33, 34, 180n, 198n, 228, 308 e n, Abu– Ish. aq ibn H.unayn, astronomo,
309, 329, 353, 375, 380n, 488, 493 e 142 e n.
n, 508, 510. Abu– ’l-‘Abba–s Ah.med ibn Muh.ammad
Abraham ben Me’ir ibn ‘Ezra (Avenaz- ibn Kat––ı r al-Far*a–nı– (al-Fargha–nı–),
ra), 143 e n, 144, 146, 147, 152, 145 e n.
156. Abu– l’ H.asan ‘Alı– ibn Rid.wa–n ibn ‘Alı–
Abraham Zacuto, vedi ’Avra–ha–m ben ibn Ÿa‘far (Haly Heben Rodan),
1emû’e–l Zakku–t. 145, 146 e n, 156.
Abraxas (Abrasax), 161 e n. Abu– ’l-H . usayn ‘Abd al-Rah.man ibn

Absalone (Absalonne), figlio di Davi- ‘Umar al-S.u–fı– (Abolfazen), 143 e n,
de, 380 e n. 144n, 145.
Abu– ‘Abdalla–h Muh.ammad ibn Ǧa–bir Ab) Ma‘&ar Muïammad al-Balh¤, 156 e
ibn Sina–n al-Batta–nı– (Albaten), ma- n, 159 n.
tematico arabo, 143 e n, 144 e n, Abu– ‘Ut–ma–n Sahl ibn Bisr ibn Hani
145 e n, 146, 147. (Zahel), 156 e n.
Abu– ‘Al¥ al-H –
. usayn ibn ‘Abdallah ibn Achab (Acab), re d’Israele, 279 e n,
Sina (Avicenna), 89n, 151, 171 e n, 491, 507n.
180, 219, 230 e n, 403, 404, 405 e n, Achelao (Acheloo), personaggio mito-
407, 415, 416n, 418, 424. logico, 15 e n.
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570 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Achia (Ahia) di Silo, profeta, 493 e n. 384n, 389n, 392n, 397n, 401n,
Achille, 51, 62, 93, 296, 392n. 412n, 426n, 445n, 456n, 470n,
Achillini, Alessandro, 144 e n. 471n, 480n, 481n, 486n, 487n,
Achitofel, consigliere di David, 308 e 488n, 489n, 493n, 495n, 509n,
n. 511n, 516n, 527, 531 e n, 537, 538,
Acusilao di Argo, 61 e n, 62n. 539 e n, 540, 541, 543n, 544-548,
Adamo, 27n, 30, 35n, 36, 198 e n, 199, 549 e n, 550-552, 553 e n, 554,
354, 364, 374. 556n.
Adelardo di Bath, 156n, 211n. Agrippa, Marco Vipsiano, 308.
Adler, Ada, 567. Ahia, vedi Achia.
Admeto, re di Fere, 353 e n. Aiace, 48.
Adonia, figlio di David, 380. Aiot, vedi Eud.
Adriano, Publio Elio, imperatore, 49, Albategno, vedi Abu– ‘Abdalla–h
416. Muh.ammad ibn Ǧa–bir ibn Sina–n al-
Aegidius de, vedi Thebaldis. Batta–nı–.
Aerith, autore di opere magiche, 189. Alberti, Leon Battista, 10n, 135, 299.
Aezio di Amida, 119n, 149, 404n. Alberto Durero, vedi Dürer, Albrecht
Afrodite, 301n. Alberto Tedesco, detto Magno, 21, 142,
Agahd, Reinhold, 154n, 568. 147, 170, 180, 189, 191 e n, 198 e n,
Agamennone, 48, 99, 324n. 204, 211n, 220, 473, 482, 489.
Agatarco di Atene, pittore, 135. Albohali, vedi Abu– ‘Al¥ Ya‘qb ibn al-
Agenore, re dei Fenici, 34, 337n. Kayar.
Agesilao II, re di Sparta, 412. Alboino, re dei Longobardi, 387 e n.
Agesilao, vedi Acusilao di Argo. Albubatar (Albubatar), vedi Abu– Bakr
Aghad, R., 568.
al-H.asan ibn al-Ìas.¥b.
Aglao, 363.
Albuhassen, vedi Abu–’l-Husayn ‘Abd al-
Aglofemo (Aglaofamo), 223.
Rahma–n ibn ‘Umar al-Su–fı–.
Agostino, Aurelio, vescovo di Ippona,
Albumasar, vedi Ÿa‘far ibn Muham-
12n, 20n, 29 e n, 34n, 47n, 49 e n,
mad Ab) Ma‘&ar al-Balh¤.
52 e n, 85 e n, 102 e n, 116n, 120 e
n, 124, 128 e n, 131 e n, 161 e n, Alceone (Alceo di Lesbo), poeta gre-
193, 194 e n, 195n, 199, 200 e n, co, 293, 299.
204n, 212n, 215n, 217n, 221n, 225 Alchandrino (Alchandrius, Alhan-
e n, 234 e n, 241, 242n, 253 e n, dreus), 93, 94 e n.
277, 281, 294n, 304n, 308 e n, 344 e Alchida (Alceta) di Rodi, ruffiano, 301
n, 347 e n, 360 e n, 361n, 364n, 367 e n.
e n, 369 e n, 375n, 376n, 382-385n, Alchindo, vedi Yu–suf Ya‘qu–b ibn Ish.a–q
482 e n, 487 e n, 489, 490 e n, 496 e ibn Sabbah al-Kindı–.
n, 497 e n, 506 e n, 516 e n, 531, Alcidamo (Alcidamante di Elea), 240,
532n, 533 e n. 293n.
Agrippa, Arrigo Cornelio, IX, XI, XII, 4, Alcimaco, padre di Euforbo, 377n.
10, 11n, 16, 20n, 27n, 31n, 33n, Alcinoo, re dei Feaci, 101 e n.
34n, 36n, 60n, 69n, 81n, 83n, 89n, Alcione, vedi Alcinoo.
91n, 93n, 94n, 98n, 99n, 116n, Alcmeone di Crotone, 218, 232, 403 e
128n, 133n, 138n, 143n, 144n, n, 404.
147n, 155n, 157n, 158n, 165n, Alcmeone, autore di opere magiche,
173n. 175n, 177n, 179n, 180n, 289.
181n, 187n, 189n, 191n, 194n, Alcmeone, figlio di Anfiarao, 324 e n.
195n, 198n, 200n, 204n, 207n, Alcmoo (Alcimous platonicus), 219 e
208n, 212n, 213n, 214n, 220n, n, 220n.
222n, 229n, 242n, 252n, 275n, Alessandrino, vedi Alchandrino.
276n, 282n, 290n, 291n, 293n, Alessandro d’Afrodisia, 151, 225.
298n, 299n, 309n, 323n, 347n, Alessandro Francese, vedi Villadei,
360n, 364n, 369n, 376n, 381n, Alessandro di.
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INDICE DEI NOMI 571

Alessandro Ianneo, padre di Aristobu- Anassagora di Clazomene, 135, 217,


lo II, 381n. 219-221, 230, 232, 517.
Alessandro III (Orlando Bandinelli, Anassila (Anaxillas), commediografo,
papa), 161. 102 e n.
Alessandro VI (Rinaldo Conti, papa), Anassimandro di Mileto, 149, 217,
276 e n. 221, 231, 488.
Alessandro, pittore, 171. Anassimene di Mileto, 148, 217, 221.
Alessandro, re di Macedonia, detto il Anatolio, medico veterinario, 433.
Grande (Magno), 16n, 56n, 60, 62, Anchise, padre di Enea, 353.
98 e n, 101, 134, 151, 238, 239n, Andrea Salernitano, vedi Guarna, An-
292, 333 e n, 382, 384, 398. drea.
Alfarabio (al-Fara–bı–), 97, 170. Andrea, sacerdote francese, 539 e n,
Alfonso I, Henriquez, re del Portogal- 541, 543.
lo, detto il Conquistatore, 387. Andromeda, 48n.
Alfonso V di Aragona, re di Napoli, Anfione, re di Tebe, 51n.
433. Angeleri, Carlo, 560.
Alfonso X, re di Castiglia, detto il Savio, Anna, alias Anania, sommo sacerdote
141, 143 e n, 145, 147, 189 e n, 199, del Sinedrio, 124.
387. Anna, vedi Maria, sorella di Mosè.
Alfragano, vedi Abu– ’l-‘Abba–s Ah.med Anneo Floro, Lucio, 326n, 420n, 438.
ibn Muh. ammad ibn Kat–ı–r al- Anneo Lucano, Marco, 51, 130 e n,
Far*a–nı–. 181, 182n, 278n, 302 e n, 333 e n,
Algazel (al-Gazza–lı–), 219. 364n.
Alhazen, vedi Abu– ‘Al¥ H.asan ibn Anneo Seneca Lucio detto il Vecchio,
H.asan ibn al-H.ayt–am. retore, 84 e n.
‘Al¤ ibn Ab¤ al-Rigal (Abenragel), 157 Anneo Seneca, Lucio, 18n, 38n, 43,
e n. 45, 51-53n, 84n, 127n, 148n, 151,
Aliacese, vedi Pierre d’Ailly. 199, 195n, 220, 223, 232, 325n, 351
Alighieri, vedi Dante Alighieri. e n, 367n, 413 e n, 436 e n, 438,
Allen, Percy Stafford, 555n, 556n, 561. 439n, 458n, 477, 506n, 518n.
Almadel Arabo, 173 e n, 189, 204. Annibale Barca, 62, 247, 295, 296.
Alonso, Manuel A., 230n, 559. Anselmo d’Aosta, vescovo di Canter-
Alpetragio, vedi Abu– Ish.a–q al-I‰bı–lı– al- bury, 482.
Bit.ru– ǧı–. Anteo, 15, 475 e n.
Altea, maga, 296 e n. Antifane di Atene, commediografo,
Amadis, 61 e n. 293 e n.
Amasi, faraone egizio, 134, 445 e n. Antigono di Caristo, precettore di
Ambrogio, vescovo di Milano, 45, 102 Alessandro Magno, 101 e n.
e n, 161 e n, 240, 277, 435 e n, 436, Antioco di Siracusa, storico, 62 e n.
482. Antioco Tiberto di Cesena 170 e n.
Amebeo, vedi Arcabio. Antioco, re di Siria, 234, 395.
Amfiarao, indovino, 175, 324n, 448. Antipatro di Tarso, 176, 222.
Amfilote (Anfiloco), indovino, 175, Antipatro, Erode idumeo, 381n, 382.
488. Antistene, filosofo cinico, 12n, 100,
Ammiano Marcellino, storico, 58, 231, 239, 241.
387n. Antonino Pio, imperatore romano,
Ammonio (Canani), profeta, 493 e n. 323.
Ammonio Alessandrino (Ammonio Antonio, eremita, 19, 360, 513, 516.
Sacca), 223, 511. Anube, divinità, 306.
Amos, profeta bibilico, 507. Aomar (Omar Tiberiade), vedi ‘Umar
Anacarsi Scita, 51 e n. Muh. ammad ibn al-Farruïa–n al-
Anacleto II (Pier Pierloni), antipapa, ¥abar¤.
275n. Apelle, pittore, 527.
Anacreonte, poeta lirico, 293, 299. Api, re d’Egitto, 429.
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572 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Apicio, ghiottone, 439 e n. Aristippo di Cirene, 239, 288n, 291,


Apicio, Marco Gavio, 437, 438 e n. 304 e n.
Apollinare di Laodicea, 225, 226n, Aristobolo I (Aristobulo I), governato-
227. re di Gerusalemme, 381 e n.
Apollinare di Sidone, 44 e n. Aristobulo di Cassandrea, 56 e n.
Apolline, vedi Apollo. Aristobulo II, 381n.
Apollo, 51n, 101n, 155, 215, 217, Aristofane di Atene, 229, 234, 289 e n.,
320n, 324n, 353 e n, 410 e n, 450, 391n, 413 e n, 511.
475. Aristofane di Bisanzio, 293 e n.
Apollodoro di Atene, 290n, 292n, 293 Aristogitone, nobile ateniese, 291.
e n, 337n. Aristone di Chio, 232, 239.
Apollonio di Cizio, medico, 402. Aristosene (Aristosseno di Taranto),
Apollonio di Tiana, 187, 189, 193. 97 e n, 99, 222.
Apollonio il Vecchio, medico, 402. Aristotile (Aristotele) di Stagira, 3n, 4,
Apollonio Molone, retore, 243, 246. 10, 21, 29 e n, 31 e n, 39, 43 e n, 69-
Apollonio Rodio, 195n, 230n, 240 e n. 72, 73n, 76n, 78, 85, 89 e n, 93, 94,
Appione, Grammatico, 61, 171. 97n, 100 e n, 102n, 120 e n, 131,
Apsirto, medico veterinario, 433. 135, 141, 147n, 148, 151, 170, 179,
Apuleio di Madaura, 13 e n, 17, 48n, 180 e n, 215 e n, 217n, 218n, 219,
61, 65n, 99 e n, 185 e n, 188n, 220, 222n, 223 e n, 224 e n, 225,
195n, 302 e n, 316 e n, 337n, 408n, 226, 227 e n, 232, 233 en, 234n, 238
419, 423n, 510, 511n. e n, 239 e n, 240, 243 e n, 246 e n,
Aquilecchia, Giovanni, XII, 53n, 560. 249 e n, 288 e n, 294 e n, 301 e n,
Aragno, Nino, XII. 319n, 326 e n, 332, 343n, 346 e n,
Arbatto (Arbace), 383 e n. 383n, 391n, 403, 404 e n, 405 e n,
Arcabio, citaredo, 100 e n. 413n, 438n, 453 e n., 477, 492n,
Arcagato, medico, 429, 430n. 506 e n, 517, 532n.
Archedamo, scrittore, 433. Armacano (Armacanus), vedi Fitz
Archelao di Mileto o di Atene, 152, ralph, Richard.
217, 222, 230. Arnaldo da Villanova (Arnoldo da Vil-
Archelao, etnarca di Giudea, 381, lanova), 159 e n, 189, 424 e n.
382n. Arnim, Hans-Jürgen von, 259n, 568.
Archelao, re di Macedonia, 363 e n. Aroldo II, re dei Vuestosassoni, 387.
Archesilao (Arcesilao) di Pitane, filo- Aronne, fratello di Mosè, 492n.
sofo scettico, 517. Arriano Greco (Arriano Flavio), stori-
Archesilao, re di Cirene, 26. co, 58.
Archia, Aulo Licinio, poeta di Antio- Arrigo da Guanto, vedi Enrico di
chia, 29. Gand.
Archidamo, re di Sparta, 64. Arrigo di Loreno, vedi Enrico di Bor-
Archigene di Apamea, 402 e n. gogna.
Archiloco di Paro, 50, 293, 294n. Arrigo II, vedi Enrico II, re d’Inghilter-
Archimede di Siracusa, 115, 116 e n, ra.
298 e n. Arrio (Ario) di Alessandria, 78, 233,
Archimenide, 135, 149. 490 e n.
Archippo di Samo, 205. Arsame (Arsano), padre di Dario III
Archita di Taranto, 116, 191 e n, 241. Codomano e fratello di Artaserse
Aretino, Pietro, 294n, 300 e n. II, 384n.
Argo, 48, 101, 353. Arsatili, vedi Aristillo di Alessandria.
Ariadna (Arianna), 48, 296. Artaserse (Artaxerse), 68n, 376 e n,
Aripite, padre di Scile, 38. 377n.
Aristeo, padre di Atteone, 358n. Artaserse II (Mnemone), 324 e n.
Aristide, Publio Elio, 234 e n. Artaserse III (Oco), 384 e n.
Aristillo (Arsatili) di Alessandria, 147 e Artemidoro di Daldi, 180 e n.
n. Artù, 61 e n.
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INDICE DEI NOMI 573

Arunzio, medico, 402 e n. ’Avra–ha–m ben 1emû’e–l Zakku–t (Abra-


Aruuo Toscano (Arrunte), indovino, ham Zacuto), 143 e n, 144 e n, 145,
181 e 182n. 146
Arzachele Moro, vedi Abu– Ish.a–q al-Na- Azarchele Moro (Azarquiel) (Azar-
qqa–‰ al-Zarqa–lluh. chel), vedi Abu– Ish.a–q al-Naqqa–‰ al-
Asa, re dei Giudei, 416. Zarqa–lluh.
Ascanio, 175. Azazele (Azazel), 200 e n.
Asclepiade di Prusa, 220, 222, 402 e n,
405, 435. Bacchilide, poeta lirico, 363n.
Asclepio (Esculapio), 268, 410, 411, Bacco, 48 e n, 100, 102n, 106, 256,
413, 429, 505. 396, 398, 440.
Aser, figlio di Giacobbe, 376. Bacone, Rugiero, nome italianizzato di
Asinio Pollione, Caio, 44. Roger Bacon, 147n, 159, 189 e n,
Aspasia di Mileto, meretrice, 289. 198n, 199.
Assuero, re di Persia, 376-377n. Bacro (Bicri), 380 e n.
Astafone (Astrofone), autore di opere Bageo (Bagoa) (Bagaeus) Artonteo,
magiche, 189. 384 e n.
Astbury, Raymond, 568. Baiter, Johann Georg, 293n, 560.
Atamante, 48. Balaam, 213n, 511n.
Atanarico, re dei Goti, detto il Balto, Balancio, Lucio, vedi Bellanti, Lucio.
386. Baldo degli Ubaldi, 499 e n.
Atanasio,vescovo d’Alessandria, 102, Baldovino I, Harleberq, marchese di
481, 513n. Fiandra, detto Braccio di Ferro, 389
Ateneo di Naucrati, 38n, 68n, 98n- e n, 390.
102n, 106n, 109n, 238n, 288n, 289 Barbaro, Ermolao, 423n.
e n, 290n, 291n, 293n, 301n, 304n, Barbera, Johannes, 564.
326n, 377n, 383n, 412n, 419n, Barnaba di Cipro, 198.
424n, 426n, 438n, 439n, 507n. Bartoldo (Bertoldo) di Zähringen, du-
Atlante, 48, 51n. ca di Carinzia, 58.
Attalo II, re di Pergamo, 37, 91, 351. Bartolo da Sassoferrato, giureconsul-
Attalo III Filometore, re di Pergamo, to, 499n.
363 e n. Bartolomeo da Parma, 89 e n.
Atteone, 48, 359 e n. Bartolomeo della Rocca, detto Cocles,
Attila, re degli Unni, 395. 170 e n.
Augurello, Giovanni Aurelio, 443n, Bartolomeo, apostolo, 493.
444n. Baruch, profeta biblico, 359 e n, 517.
Augusto, vedi Ottaviano, Cesare Otta- Basilide di Alessandria, gnostico,
vio Augusto. 141n, 160.
Aureliano, Lucio Domizio, imperato- Basilio, di Cesarea, detto Magno, padre
re, 440. della chiesa, 161 e n, 281, 481.
Aurelio Antonino, Marco, 323, 363n. Bassiana, Giulia Soaemias, vedi Giulia
Ausonio, Decimo Magno, 414 e n, 417 Soaemias.
e n. Bate, Enrico di Malines, 143n.
Austin, Colin, 102n, 288n, 558. Battista da Campofregoso (Battista
Avenazre (Ezra), vedi Abraham ben Fregoso), 299 e n.
Me’ir ibn ‘Ezra. Batto, mandriano di Pirro, 320 e n.
Avenrodan, vedi Abu– l’ H.asan ‘Alı– ibn Bayazid II, sultano ottomano, 276.
Rid.wa–n ibn ‘Alı– ibn Ÿa‘far. Bazam, vedi Ishaq ben Said.
Averroè, vedi Ibn Rushd. Beatrice di Aragona, regina d’Unghe-
Avezzù, Guido, 293n, 558. ria, 292.
Avicenna, vedi Abu– ‘Al¥ al-H . usayn ibn Beda, abate di Jarrow, detto il Venerabi-
‘Abdalla–h ibn Sina. le, 35 e n, 224 e n, 364 e n.
Avincelao III (Venceslao), re di Boe- Behemot, creatura biblica, 282 e n.
mia, 296. Belial, 380 e n.
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574 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Bellanti, Lucio, 160 e n. Bruno, Giordano, 10n, 53n.


Belo, re degli Assiri, 232. Bruto, Lucio Giunio, primo console
Bembo, Pietro, 300n. romano, 64, 385 e n.
Benedetto III, papa, 284n. Bücheler, Franz, 323n, 438n.
Benedetto, da Norcia, 281. Budda, 188.
Beniamin (Beniamino), figlio di Gia- Buonocore, Marco, XII.
cobbe, 296, 376, 379 e n. Buschio, Ermanno (Hermann von
Benrodam, vedi Abu– l’ H.asan ‘Alı– ibn dem Busche), 84 e n.
Rid.wa–n ibn ‘Alı– ibn Ÿa‘far.
Berengario di Tours, 468 e n. Cadmo, 34, 48, 250.
Bernardo di Chiaravalle, 275 e n, 281, Caifa, sommo sacerdote del Sinedrio,
324, 369 e n, 435, 436 e n, 482, 533. 124, 489.
Beroaldo, Filippo, detto il Vecchio, 45 e Cain (Caino), 27, 249, 296, 357 e n,
n. 367, 374, 384 e n, 385, 429.
Beronica (Berenice Sira), moglie di Calandra, Giovanni Giacomo, 300 e n.
Antioco II re di Siria, 296. Calano Indiano, gimnosofista, 488.
Beroso, storico babilonese, 130 e n, Calcante, indovino omerico, 175, 488.
194n. Califone (Callifone), filosofo greco,
Berquin, Ludovico, eretico francese, 239.
555 e n, 556 e n. Caligula, nome imperiale di Caio Cesare
Bersabè (Betsabea), 380 e n. Augusto Germanico, 245, 386.
Bessarione, Giovanni, cardinale di Bo- Calistene (Callistene) di Olinto, 220,
logna, 44n. 332.
Bianca, regina di Francia, moglie di Calisto, 299, 302 e n.
Ludovico V, 296, 388.
Calistrato di Alessandria, grammatico,
Bianchino (Johannes Blanchinus),
293 e n.
147 e n.
Callia di Siracusa, 62 e n.
Biante di Priene, 241.
Callimaco di Cirene, poeta greco, 293,
Bicia, 305.
299.
Biondo, Flavio, nome latino di Antonio
Biondi, 58, 59 e n. Cambise, re dei Persiani, 383.
Bione di Boristene, 151, 241 e n. Cameleonte di Eraclea, 288n.
Boccaccio, Giovanni, 240n, 250n, 299, Camotese, vedi Pürstinger Berthold.
300. Campano, Giovanni Antonio, 50, 51n.
Boco, autore di opere magiche, 189. Campano, Giovanni da Novara, 157 e
Boete (Boeto di Sidone), 221. n.
Boezio, Anicio Manlio Torquato Seve- Campeggi, Lorenzo, 549 e n.
rino, 4 e n, 21, 71, 97, 98 e n, 99n, Canaan, figlio di Cam, 375.
191, 233n, 241. Canani, 493n.
Bolena , Anna, regina d’Inghilterra, Canidia, incantatrice, 302.
moglie di Enrico VIII, 292n. Caos, 47.
Bolo di Mende, 193n. Capeto, Ugo, re dei Franchi, 388 e n.
Bonatti (Bonatto), Guido, 158n, 159 e Capnione, vedi Reuchlin Johannes.
n. Capo (Capi) Troiano, 247 e n.
Bonaventura da Bagnoregio, vescovo Carafa, Bernardino, 35n.
di Albano, 482. Caristino, vedi Diocle di Caristo.
Bonfante, Pietro, 563. Carlo I, duca di Lorena, 388.
Bonifacio VIII (Benedetto Caetani, pa- Carlo I, re dei franchi e imperatore,
pa), 276, 458 e n. detto Magno, 38, 386, 388n, 399.
Borea, 48, 188n. Carlo II, imperatore, detto il Calvo, 389
Brandario (Brendano, Brandano), ve- e n.
scovo di Clonfert, 477 e n. Carlo VIII, re di Francia, 59n, 292,
Braulio di Saragozza, 506n. 396n.
Briseide, 296. Carmenta, madre di Evandro, 34.
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INDICE DEI NOMI 575

Carneade di Cirene, 64, 67, 151, 176, Chirocrate, 134n.


239, 517. Chirone, centauro, 332n, 429, 433.
Cassandra, 488. Chore, 279 e n.
Cassandro, matematico e astronomo, Chus, figlio di Cam, 375 e n.
152. Ciapetta, vedi Capeto, Ugo
Cassiano, Giovanni, eremita, 229n, Cicerone, Marco Tullio, 10n, 18n, 29 e
482. n, 30 e n, 31n, 34n, 43, 44n, 49 e n,
Cassio, Felice, medico, 402 e n. 50n, 52n, 61 e n, 63n, 64 e n, 65n,
Cassiodoro, vedi Flavio Magno Aure- 66 e n, 67 e n, 68, 69, 71 e n, 76n,
lio. 81n, 83 e n, 84n, 97n, 107 e n, 111,
Cassiopea, 48 e n. 113 e n, 114n, 116n, 148 e n, 151,
Castore, 48. 152n, 155n, 171n, 175n, 176, 179n,
Caterina d’Aragona, regina d’Inghil- 180 e n, 188 e n, 195n, 198n, 199,
terra, 292n. 217n, 218n, 219, 223, 231n, 232 e
Catilina, Lucio Sergio, 373. n, 234n, 239n, 240n, 241, 246 e n,
Catone, Marco Porcio, detto il Censore, 249 e n, 250n, 259n, 282n, 290n,
43, 50, 66 e n, 100, 135, 232 e n, 343, 344n, 350 e n, 351 e n, 355 e n,
363, 367 e n, 370, 402, 420-422, 363 e n, 367 e n, 382n, 385n, 420n,
433, 437, 453. 439n, 451n, 477.
Catone, Marco Porcio, detto l’Uticense, Cinea, padre di Filagro, 377n.
66 e n, 107. Cipriano, autore di opere magiche,
Catullo, Caio Valerio, 102n, 293, 299, 198 e n.
302. Cipriano, Cecilio Tascio, vescovo di
Caviceo, Jacopo, 298 e n, 299n, 300. Cartagine, 79n, 161, 243, 341, 482,
Cecilio Firmiano Lattanzio, Lucio, 34
483 e n.
e n, 131 e n, 160 e n, 161 e n, 198n,
Circe, maga, 296.
215, 216n, 233, 239n, 240 e n, 242 e
Circia, vedi Crizia.
n, 260 e n, 367n, 410, 411n, 446n,
Cirillo d’Alessandria, 226 e n.
473, 4812, 517n.
Cirillo di Tessalonica, missionario, 480
Cecrope, legislatore, 451.
Cefalo di Siracusa, oratore, 293 e n. e n.
Cefeo, re di Etiopia,48n. Ciro, re di Persia, 60, 62, 351, 369, 383,
Celestina, incantatrice, 302 e n. 511.
Celio Aureliano, 430n. Claudio (Tiberio Claudio Nerone Ger-
Celio, Marco Rufo, 107, 294 e n. manico), imperatore, 38, 91, 122,
Celo, 50. 213, 291, 303 e n, 404, 440.
Celso Africano, 69, 233, 260, 487. Claudio Appio, console, 296.
Censorino, grammatico, 99n, 219. Claudio Claudiano, 420, 421n.
Cerbero, 15, 250. Cleante di Asso, 63 e n, 73, 222, 232,
Cerere, 48, 256, 288. 239.
Ceresara, Patrizio, detto Tricasso, 170 Clemente Alessandrino, 46n, 201n,
e n. 213, 253 e n, 259n, 383n, 429 e n,
Cermisone, Antonio, 170 e n. Clemente V (Bertrand de Got, papa),
Cesare, Caio Giulio, vedi Giulio Cesa- 276, 456 e n, 458n, 468 e n.
re, Caio. Clemente VII (Giulio de’ Medici, pa-
Cham (Cam), figlio di Noè, 315, 375 e pa), 292n.
n, 384n. Cleopatra, regina d’Egitto, 291, 296,
Champier, Simphorien, 161n. 386.
Chapuy, Eustache, 539n. Clitennestra (Clitemnestra), 48, 99.
Charinonda (Caronda), legislatore Clodio Albino, Decimo, imperatore,
greco, 450. 441.
Charmasson, Thérèse, 90n. Clodio Pulcro, Publio, 74.
Childerico III, re merovingio dei Fran- Clodoaldo, vedi Guglielmo di St.-
chi, 296, 387 e n. Cloud.
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576 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Clodoveo, re merovingio dei Franchi, 508, 510, 512, 515, 517, 518n, 534,
292. 551.
Cobilone Lacedemonio, 91. Critolao, filosofo peripatetico, 67, 222,
Cohen, Moshe, 143n. 241.
Collatino, Lucio Tarquinio, 385n. Crizia, filosofo, 221, 222 e n.
Colonna, Egidio, 482 e n. Crono, 188n.
Colster, Abel, 555n, 556n. Crouzel, Henri, 565.
Columella, vedi Giunio Moderato Co- Ctesia di Cnido, 57 e n.
lumella, Lucio. Ctesifone di Sparta, 68.
Conamoro, 61 e n. Curio (Curione Caio Scribonio), poli-
Constantino (Costantino) Africano, tico, 333.
medico, 170, 433. Currado Celte, vedi Pikel, Konrad.
Corace di Siracusa, retore, 63-65. Curzio Rufo, Quinto, 43, 392.
Corinna, donna amata da Ovidio, 293.
Coriolano,Gneo Marcio detto, 373. Da Fiore, Gioacchino, 480, 481n.
Cornelia, madre dei Gracchi, 38. Da Rios, Rosetta, 98n, 559.
Cornelio Celso, Aulo, 370, 402 e n, Dafita di Telmesso, 76 e n.
404n, 405n, 408n, 410 e n, 415 e n, Dafne, ninfa amata da Apollo, 48, 155.
418 e n, 424 e n, 430n, 435n, 442 e Dafni, figlio di Ermes, 353 e n.
n, 505 e n. Dal Pozzo Toscanelli, Paolo, 144 e n.
Cornelio Silla, Lucio, 32 e n, 111, 170, Daldiano, vedi Artemidoro di Daldi.
320, 373, 391, 510. Damasceno, vedi Giovanni Damasce-
Cornelio Tacito, Publio, 34n, 57, 58, no.
154 e n, 195n, 303n, 341n, 392. Damaso I, papa, 41n, 493n.
Dan, figlio di Giacobbe, 376, 381.
Cornificius, 84n.
Danae, 48, 301.
Coronide, 410n.
Daniello (Daniele), profeta biblico,
Corvo, Andrea, 170 e n.
180, 208, 360, 507 e n, 516.
Costantino I, Flavio Valerio, imperato-
Dante Alighieri, 26n, 292n, 299, 300n.
re, detto il Grande, 161, 292, 386,
Danude, vedi Planude, Massimo.
410, 452, 457 e n, 458n, 548n. Dario I, re di Persia, 62, 68 e n.
Cratander, Andreas, 549 e n, 551, 553. Dario III Codomano, re di Persia, 384
Cratete di Mallo, 37 e n, 149. e n.
Cratete di Tebe, 221. D’Ascia, Luca, 17n, 561.
Crateuas, medico di Mitridate (Ioan- Dathan (Datan), 284, 285n.
nes Sambucus) (Zsámboky János), Davide, re d’Israele, 227n, 245, 296,
424n. 308n, 353, 380 e n, 381, 490, 492,
Cratino di Atene, commediografo, 493n, 516, 533.
229. De Pauly, Jean, 200n, 568.
Crescenzo, Pietro (Pietro de’ Crescen- De Rijk, Lambertus Marie, 31n.
zi), 363 e n. Decio Magio, vedi Magio Campano.
Creso, 443. Dedalo, 17n, 48, 300.
Crinito, vedi Riccio, Pietro. Deiotauro (Deiotaro), re di Galazia,
Crisippo di Soli, 26, 76 e n, 78, 176, 155.
222, 224, 232, 402 e n, 419. Del Zochul, Pietro (Pietro Edus) detto
Cristo, Gesù, 21, 40, 41, 69, 78, 124, Capretto, 299 e n, 300n.
125, 154, 158, 187, 208, 209 e n, Della Porta, Giovan Battista, 195n.
210, 224, 226n, 233, 239 e n, 242, Della Torre, Giacomo, 170n, 404, 405
251, 254-256, 260, 261, 264, 265n, e n.
268, 270, 273, 274, 277, 278, 279, Delo, 51.
282-285, 305, 313, 314, 369 e n, Demarco Parrasio (Demeneto di Par-
370, 371, 436, 449, 457, 459, 471, rasia), 193 e n, 194n.
475, 476, 478, 485, 486n, 486, 487, Demetrio I Poliorcete, re di Macedo-
491 e n, 492, 496-498, 501-503, 506- nia, 92, 295.
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INDICE DEI NOMI 577

Democrito di Abdera, 10 e n, 52 e n, Dionigi di Alicarnasso, 58 e n, 175 e n,


135, 151, 179, 180, 193 e n, 217, 195n, 385n.
219-221, 223, 224, 232, 239, 324 e Dionisio Areopagita (Pseudo Dionigi),
n, 403 e n, 404 e n, 429, 517, 527. 175, 273 e n, 482 e n, 485 e n, 493 e
Demodoco, citaredo, 101n. n.
Demogorgone, figura mitica, 18 e n. Dionisio Babilonico, vedi Diogene di
Demonatte di Mantinea, filosofo cini- Babilonia.
co, 453. Dionisio il Periegeta, 130.
Demostene di Atene, 26, 44 e n, 66 e Dionisiodoro (Donisidoro) di Chio,
n, 67, 114 e n, 243, 246 e n, 377n, 76 e n.
462. Dioniso Zagreo, vedi Iacco.
Deucalione, 48, 57n. Dioscoride, Pedanio, medico, 424 e n,
Diagora di Melo, 231 e n, 507. 426n, 434n.
Diana, 51 e n, 55, 134, 358, 359n. Diotima di Mantinea, sacerdotessa,
Dicearco di Messina, 222. 488.
Didimo di Alessandria, erudito e filo- Dite, 250.
sofo greco, 38, 398. Dodecamecana, meretrice, 289.
Didone di Tiro, 49, 50, 101, 304, 305. Domenichi, Giovan Pietro, padre di
Diehl, Ernestus, 97n, 566. Ludovico, 521.
Diels, Hermann, 52n, 96n, 119n, Domenichi, Ludovico, IX, XI, 5, 23,
324n, 403n, 404n, 557, 558. 521.
Dietero (Dietrich di Berna), 61 e n. Domiziano, Tito Flavio, 67, 234, 245,
Dinocrate, architetto, 134 e n. 836.
Dinomaco (Deinomaco), filosofo, Domizio, Enobarbo Gneo, 67.
Donato il Grande, eretico, 471.
239.
Doni, Anton Francesco, 10n.
Dinone, storico, 383 e n.
Doraco, storico, 35.
Diocle di Caristo, 402 e n, 404, 419.
Doria, Andrea, doge di Genova, 334n.
Diocleziano, Gaio Aurelio Valerio,
Doroteo di Sidone, 156 e n.
79n, 161, 351, 353, 446 e n.
Dothain (Datam), re di Siria, 212.
Diodoro Crono, filosofo, 217 e n. Dracone (Draconte), legislatore ate-
Diodoro Siculo, 18n, 34n, 41n, 57 e n, niese, 368, 451.
61, 101 e n, 239, 290n-292n, 300n, Druso, Nerone Claudio, detto Druso
358n, 383n. Maggiore, politico, 303 e n, 421.
Diogene di Apollonia, 217. Duchesne, Louis, 277n, 564.
Diogene di Babilonia, filosofo stoico, Duns Scoto, Giovanni , 31n, 76n, 473.
67, 176, 217, 224, 232, 239. Dürer, Albrecht (Alberto Durero),
Diogene di Sinope, detto il Cinico, 10, 135.
221, 290n, 498, 517. Durionio (Duronio), Marco, tribuno
Diogene Laerzio, 30n, 31n, 37n, 50n, della plebe, 439 e n.
51n, 56n, 57n, 63n, 65n, 101n,
102n, 106n, 131n, 137n, 148n, Eaco, re di Egina 337n.
175n, 188n, 215n, 229-231n, 238n, Eboracese, vedi Roberto di York.
240n, 288n, 304n, 333n, 403n, Ebridio, vedi Nebridio.
499n, 507n, 517. Ecateo di Mileto, 57 e n.
Diomede, eroe mitologico, 15, 191, Ecatone di Rodi, filosofo stoico, 239.
382. Ecuba, 11 e n.
Diomede, grammatico, 39 e n. Edipo, re di Tebe, 48.
Diomede, pirata, 382. Edom, soprannome di Esaù, 381.
Dione Cassio, 26n. Efestione di Tebe, 156 e n.
Dione di Siracusa, consigliere di Dio- Eforo di Cuma, 51n, 57, 62 e n, 101 e
nisio il Vecchio, 244. n.
Dione Pruseo (Dione Crisostomo di Efraim, figlio di Giuseppe, 377.
Prusa), 98n, 234 e n. Egeo, 48.
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578 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Egeria, ninfa, 450. Epeneto (Epaineto), 437.


Egesippo, 62 e n, 246, 306, 392, 437. Epicuro di Samo, 218-221, 223, 224,
Egidio, santo, 360 e n. 226, 231, 239-241, 403, 451.
Egisto, 99, 324. Epifanio, vescovo di Salamina, 41 e n,
Eglon, re di Moab, 392 e n. 96n, 306n, 493n, 494n.
Elato, 410n. Epimenide di Creta, 488.
Eleazaro, sommo sacerdote, 36. Epirico, 437.
Elena, 48. Eraclide di Siracusa, 437.
Eleno, 170, 488. Eraclide di Taranto, medico, 402.
Eleno, abbate, 360. Eraclide Pontico, 18n, 50n, 98n, 232.
Elia, profeta biblico, 124, 201 e n, 208 Eraclito di Efeso, 10 e n, 217, 220.
e n, 360 e n, 491, 507. Erasistrato di Coo, 223, 401n, 402 e n,
Eliano, Claudio, 10n, 290n, 301 e n, 405, 424.
324n, 383n, 384n, 412n, 511n. Erasmo da Rotterdam, XII, 10n, 13n,
Eliano, scrittore di arte militare, 370. 17n, 22n, 26-28n, 31n, 39n, 42n,
Eliese, vedi Pirrone di Elide. 47n, 51n, 59n, 65n-67n, 69n, 76n,
Elio Lampridio, 289n, 290n, 441n. 84n, 133n, 141n, 204n, 246n, 261n,
Elio Spartiano, 49n, 441n. 278n, 281n, 282n, 331n, 335n,
Eliodoro, astronomo, 157 e n. 357n, 390n, 444n, 467n, 476n,
Eliogabalo (Heliogabalo), nome impe- 477n, 480n, 487n, 490n, 496n,
riale di Marco Aurelio Antonino, 498n, 499n, 510n, 512n, 539 e n,
289 e n, 291, 309, 340, 386, 440. 541, 542, 543 e n, 545 e n, 547, 549
Eliseo, profeta, 208n, 212, 279 e n. e n, 551, 553, 555 e n, 556n, 560.
Ellanico di Mitilene, 61, 62 e n. Eratostene di Alessandria, 56, 130.
Elvidio, 41n. Ercole (Eracle), 10, 15 e n, 41, 48, 51n,
Emetrio, vedi Ermero, Claudio. 57, 62, 163, 290 e n, 292, 295, 367,
Emilio (Emili), Paolo, 59 e n. 396, 440.
Emilio Paolo, Lucio, console romano, Erictonio (Erittonio), 48.
247 e n. Erifile, 324n.
Emilio Spagnuolo, medico veterina- Erillo di Cartagine, 240.
rio, 433. Erimanto, 15.
Emor, 296. Erisittone, figlio del re di Tessaglia,
Empedocle di Agrigento, 218-220, 440, 441.
222, 224, 239, 429, 517. Eristilla, 296.
Endimione, re di Elide, 353. Ermanno di Carinzia, 156n.
Enea Silvio, vedi Pio II. Ermero, Claudio, medico veterinario,
Enea, 48-50, 101, 304, 353. 433.
Eneo, re di Calidone, padre di Melea- Ermete Trismegisto, 34n, 94n, 116, 142,
gro, 358n. 170, 188, 189, 191 e n, 211 e n, 212n,
Ennapio (Eunapio) di Sardi, 64 e n. 223, 232, 250, 268, 447, 450, 451.
Ennio, Quinto, 50, 367. Ermia, tiranno di Atarneo, 288 e n.
Enobarbo, Gneo Domizio, 67. Ermippo di Smirne, 229.
Enoch, autore di opere magiche, 198 Erode Antipa, tetrarca di Galilea,
e n. 382n.
Enoch, figlio di Caino, 201 e n, 250, Erode il Grande, 124, 382n, 510.
493 e n. Erodoro di Eraclea, 290n.
Enrico di Borgogna, conte del Porto- Erodoto di Alicarnasso, 34n, 38n, 51n,
gallo, 387. 57 e n, 58 e n, 61 e n, 62 e n, 91n,
Enrico di Gand, 240 e n, 482 e n. 98n, 134 e n, 188n, 194n, 240n,
Enrico II, re d’Inghilterra, 296. 246n, 250n, 253, 254n, 259n, 288,
Enrico VIII, Tudor, re d’Inghilterra, 289n, 290n, 291n, 292n, 373n,
292n. 377n, 384n, 395, 417 e n, 451n.
Eolo, 48, 173. Erofilo di Calcedonia, 223, 402, 404.
Epaminonda, stratega tebano, 62. Erostrato di Efeso, 16 e n, 55, 56n.
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INDICE DEI NOMI 579

Esaù, figlio di Isacco, 357 e n, 376. Fagone, 440.


Eschilo di Eleusi, tragediografo, 26n, Falari (Falaride), tiranno di Agrigen-
66 e n, 324n. to, 18 e n, 246 e n.
Esculapio, vedi Asclepio. Fannio, Caio Strabone, 67.
Esdra, scriba, 33 e n, 34n, 36, 205, 500, Fantazzi, Charles Emanuel, 75n, 76n,
502. 568.
Esiodo di Ascra, 10n, 49 e n, 51, 52n, Faone di Lesbo, 290 e n.
188n, 221, 473. Faramondo, re merovingio dei Fran-
Esopo, 16 e n, 210 e n, 291 e n. chi, 35, 387 e n.
Esperide, 51n. Faraote (Fraate), re dei Parti, 170.
Ester, regina di Persia, 492, 493n. Fauno, 250.
Ettore, 62, 93, 322, 392. Faustina, Annia Galeria, detta Minore,
Euclide, 95 e n. figlia di Antonino Pio, 323.
Eucrate, 244. Fausto, vescovo manicheo, 308n, 471.
Eud, 392 e n. Favorino di Arles, 146, 151.
Eudemo di Rodi, medico, 303 e n, Febbre, 250n.
421. Federici Vescovini, Graziella, 159n,
Eudosso di Cnido, 152, 239. 558.
Euforba (Euforbo), cittadino di Ere- Federico III, imperatore, 310n.
tria, 377 e n. Fedra, 48.
Euforbo, figlio di Pantoo, 229. Ferdinando I, re di Castiglia e di Léon
Eugenio IV (Gabriello Condulmaro, detto el Magno, 387.
papa), 276 e n. Ferdinando II, d’Aragona, detto il Cat-
Eumelo di Corinto, medico veterina- tolico, 292n, 387.
rio, 433. Feroneo, legislatore, 451.
Eumenio, vescovo di Candia, 223. Festugière, André-Jean, 560.
Eunomio, vescovo di Cizio, 78 e n, Ficino, Marsilio, 116n, 120n, 158n,
223. 159n, 180n, 181n, 189n, 195n,
Eurialo, 299 e n. 212n, 221n, 249n, 397n, 408n,
Euriloco, discepolo di Pirrone di Eli- 424n, 426n, 489n, 566.
de, 241. Figulo, Nigidio Publio, 182.
Euripede (Euripide) di Salamina, tra- Filarco, storico greco, 511n.
gediografo, 26 e n, 34n, 66 e n, 179 Filemone di Megara, autore chiro-
e n, 229, 230, 324 e n. mantico, 170.
Europa, 48, 155. Filemone, grammatico greco, 287,
Eusebio di Cesarea, 46n, 56n, 62n, 288n.
68n, 161 e n, 213 e n, 253 e n, 256n, Filete (Fileta) di Cos, poeta e filologo,
266n, 267 e n, 277n, 306n, 381n, 293, 299.
382n, 446n, 473, 481, 482n, 490n. Filippo Barbaro, 452.
Euticrate, cittadino di Olinto, 377 e n. Filippo II Augusto, re capetingio di
Eutidemo, sofista, 76 e n. Francia, 296.
Eutropio, vescovo d’Orange, 256. Filippo il Macedone, 55, 66 e n, 67,
Eva, 27n. 100, 257, 322, 412n.
Evante, re degli Arabi, 189. Filippo, tetrarca d’Imrea, 382n.
Evatlo, scolaro di Protagora, 65 e n. Filira, madre di Chirone centauro,
Evilmerodath (Emilmeradach, Evilme- 429n.
rodach, Evilmarudochus), 194 e n. Filisto di Siracusa, 62 e n.
Eysenhardt, Franz von, 564. Filocrate, statista ateniese, 377 e n.
Ezechia (Ezechiele), profeta biblico, Filodemo di Gadara, 114n.
206n, 486, 507 e n, 516. Filomela, sorella di Progne, 296n.
Ezechia, re d’Israele, 42 e n, 491. Filometro, vedi Attalo III Filometore.
Filone di Alessandria (Filone l’Ebreo),
Fabio Massimo, Quinto Rulliano, 60. 33 e n, 115 e n, 176, 180 e n, 219,
Fabrizio, Caio Luscino, 420 e n, 421. 278n, 308n.
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580 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Filopono, Giovanni di Alessandria, ve- Galieno (Gallieno), Publio Licinio


di Johannes Grammaticus. Egnazio, 386, 440.
Filoseno (Filosseno) di Citera, 239. Gallo, Gaio Cornelio, 293.
Filostrato, Flavio, 57, 170, 193. Garcia III, re di Navarra, 387.
Fineo, re di Tracia, 337 e n. Garin, Eugenio, 142n, 185n, 565.
Firmiano, vedi Cecilio Firmiano Lat- Gat, figlio di Giacobbe, 376.
tanzio, Lucio. Gea, 475n.
Firmico Materno, Giulio, 156, 157, Geber, vedi Ja–bir ibn Hayya–n.
170, 236 e n, 446n. Gedeone, vedi Ierub-Baal.
Fitz Ralph, Richard, arcivescovo di Ar- Gelasio I, papa, 493n.
magh, 318 e n. Gellio, Aulo, 44n, 50n, 56n, 65n, 67n,
Flavio Giuseppe, vedi Giuseppe Flavio. 98n, 116n, 119n, 146n, 194n, 321n,
Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, 323n, 420n, 438 e n, 462n.
35n, 191, 306n, 347. Gem, fratello di Bayazid II, 276 e n.
Flavio Vopisco, 57 e n, 290n, 440n. Gentile da Foligno, 405 e n.
Flegia, re di Tessaglia, 410n. Gerione,15, 48.
Fliasio, vedi Timone di Fliunte. Germano, vescovo di Auxerre, 512 e n.
Florando, 61 e n. Gerolamo (Girolamo), santo, 34n,
Foca (Phoca grammatico), 39 e n. 41n, 45n, 52 e n, 68n, 78 e n, 85 e n,
Focione di Atene, 67. 130n, 187 e n, 194n, 198, 212n, 226
Foco, 337 e n. e n, 233 e n, 243, 250n, 257 e n,
Folo, centauro, 332n. 302n, 308n, 341 e n, 360n, 383n,
Formoso, papa, 276 e n. 384n, 439 e n, 478n, 480, 481n,
Fornari, Agostino, 11 e n, 12. 482, 483n, 490 e n, 493 e n, 494n,
Fozio, vescovo di Costantinopoli, 13n. 502n, 535 e n, 516, 535 e n.
Francesco d’Assisi, 281, 318. Gerson (Jean Le Charlier), 159n, 233
Francesco I, re di Francia,334 e n. e n, 482.
Franco, Niccolò, 10n. Gersonide, vedi Le–wî ben Ge–r‰ôn.
Frate Luca, vedi Pacioli, Luca. Geta, Lucio Settimio, imperatore, 441.
Fregoso, Phileremo Antonio, 10n. Gherardo Cremonese (Gerardo da
Frick, Carl, 99n, 566. Cremona), 89 e n, 142n, 145n,
Frigiobunda (Fredegunda, Fredgun- 146n, 156n.
dis), regina dei Franchi, 296. Giacinto,51 e n.
Frine, etèra, 301n. Giacobbe, vedi Iacob.
Froben, Gerolamo (Hieronymus), Giacomo II di Borbone, conte della
545n, 547, 551. Marra, 291n.
Frontino, 370. Giacomo, apostolo, 46n.
Füetrer, Ulrich, 299n. Giannantoni, Gabriele, 106n, 149n,
Fulvio Nobiliore, Marco, 50. 291n, 561, 567.
Gianne (Iannes), 213 e n, 214.
Gabinio, Aulo console, 107. Giano, 250, 267, 367.
Gad, veggente, 493 e n. Giasone, 48, 296n.
Gademanno (Codomano), vedi Dario Gieremia (Gieremia) profeta biblico,
III. 161, 269, 277, 427 e n, 486, 493n,
Ÿa‘far ibn Muïammad Ab) Ma‘&ar al- 501n, 507 e n, 516.
Balh¤ (Albumasar), 156 e n, 159n. Gieroboam (Geroboamo), re d’Israe-
Gaguino, Roberto (Robert Gaguin), le, 380, 385.
59. Giesù, vedi Ieu.
Galeno di Pergamo, 119, 146, 151, Gilgilide, alchimista, 446 e n.
170, 222, 224 e n, 227 e n, 263n, Giobbe, 161, 169, 448, 490.
401n, 402, 403 e n, 404, 405n, 407 e Giona, profeta biblico, 277n, 491, 534.
n, 408n, 415, 424 e n. Giorgio Trapezontio (Giorgio Trape-
Galfila (Ulfila o Wulfila), vescovo aria- zunzio), 43 e n, 44n, 58n.
no dei Goti, 34. Giorgio, Francesco, 33n, 34n, 49n,
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INDICE DEI NOMI 581

72n, 73n, 77n, 96n-98n, 116n, Giquatilla, Yosèf, 144n.


142n, 145n, 146n, 152n, 158n, Girolamo Rodiano, vedi Ieronimo di
165n, 169n, 170n, 173n, 175n, Rodi.
176n, 180n, 189n, 191n, 192n, Giuda Scarioth (Iscariota), 273, 317.
194n, 198n-201n, 203n, 205n, Giuda, figlio di Giacobbe, 376, 380-
207n, 209n, 212n, 217n, 218n- 381, 510 e n, 518 e n.
224n, 231n, 232n, 239n-242n, Giuda, fratello di Giacomo, 46 e n,
250n, 251n, 450n, 480n, 481n, 201, 493.
487n, 488n, 491n, 492n, 498n, Giudit (Giuditta), 392 e n.
516n-518n. Giudith (Giuditta di Fiandra), 389 e n.
Giosafat, re di Giuda, 493n. Giulia Mamea, madre di Severo Ales-
Giosefo, vedi Giuseppe Flavio. sandro, 441 e n.
Giosia, re di Giuda, 493n, 508n. Giulia Soaemias Bassiana detta Symia-
Giosuè (Gesù, figlio di Nun), 34n, 208 mira, madre di Antonino Elagaba-
e n, 378, 379n, 492 e n, 502 e n. lo, 289n.
Giosuè (Joshua ben Hananiah), rabbi- Giulia Vipsania, nipote di Ottaviano
no, 145. Augusto imperatore, 291.
Giovanna II d’Angiò, regina di Napoli Giulia, figlia di Ottaviano Augusto im-
detta Giovannetta, 291 e n, 296. peratore, 291, 308, 323.
Giovanni Crisostomo, 98n, 161 e n, Giuliano, Flavio Claudio detto l’Aposta-
234, 347, 481, 502, 503n. ta, imperatore, 69, 155, 170, 233,
Giovanni d’Arras, segretario del duca 278 e n, 410n.
di Berry, 389n. Giuliano, Salvio, giureconsulto, 452.
Giovanni d’Indagine (Johannes von Giulio Capitolino, 248, 323n, 341n,
Hagen), 170 e n. 441n.
Giovanni da Monteregio, vedi Müller, Giulio Cesare, Caio, 62, 66, 155, 170,
Johannes. 290, 295, 296, 333, 373, 385, 452 e
Giovanni Damasceno, 481 e n. n.
Giovanni di Sacrobosco, 199n. Giulio II (Giuliano della Rovere, pa-
Giovanni di Siviglia (Giovanni Ibn- pa), 276 e n.
Daud),156n, 211n. Giulio Solino, Caio, 55, 56n, 57n, 138
Giovanni di Valois, duca di Berry, e n, 187n.
389n. Giuniano Giustino, Marco, 41n, 44n,
Giovanni Evangelista, apostolo di Ge- 55 e n, 92n, 288 e n, 292n, 383n,
sù e santo, 27n, 42n, 46n, 78n, 386n, 511n.
158n, 206n, 254 e n, 255 e n, 268 e Giunio Giovenale, Decimo 10n, 17n,
n, 278n, 318n, 483n, 489n, 491n, 61n, 49n, 61n, 291n, 293, 299 e n,
492n, 501n, 510n, 516 e n. 304n, 333n, 335n, 338n, 355n,
Giovanni Marco, autore apocrifo, 383n, 390n, 459, 460n, 475n, 477 e
198n. n.
Giovanni Ruello, vedi Ruel, Jean. Giunio Moderato Columella, Lucio,
Giovanni VIII (papessa Giovanna), 193n, 363 e n, 433, 437, 509 e n.
284 e n. Giunone, 48, 51n, 229, 256, 298.
Giovanni XXII (Jacques d’Euse), 233, Giunta, Tommaso, 72n.
458. Giuseppe Ebreo, autore di opere ma-
Giovanni, autore dell’Apocalisse, 46, giche, 189.
485, 486. Giuseppe Flavio, 61, 62n, 176, 208 e n,
Giovanni, diacono, 26n. 253 e n, 381n, 382n, 392.
Giovanni, il Battista, 239, 492, 516. Giuseppe, padre di Gesù, 41, 124, 488.
Giove, 17, 47 e n, 51n, 101, 155, 182, Giustiniano I, Flavio Pietro Sabazio,
193, 194 e n, 250, 256, 301, 304, imperatore, 50, 161, 313, 452, 465.
396, 410-412, 414, 450, 465, 501. Giustino, martire, 68n, 213n, 507n.
Giovenale, Decimo Giunio, vedi Giu- Glauco di Locri, scrittore, 437.
nio Giovenale, Decimo. Glauco, 48.
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582 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Gondiaco (Gundiok), re dei Burgun- Iacopo Calandra Mantovano, vedi Ca-


di, 387. landra, Giovanni Giacomo.
Gordia, re leggendario, 16n. Iacopo Caviceo, alias Jacobus le Pele-
Gordiano, vedi Jordanes, vescovo di rin, 298 e n, 299n, 300.
Crotone, 35 e n. Iacopo da Forlì, vedi Della Torre Gia-
Gorgia di Leontini, 63, 81, 293n, 322. como.
Gorgone, 48. Iacopo da Paradiso (Jacopo di Varsa-
Grapheus, Johannes, editore, XI. via), 229 e n.
Graziano, Flavio, imperatore, 161. Iacopo, conte di Porcia (Jacopo Graf
Graziano, giurista, 161n, 455 e n, 458 e von Porzia), 370 e n.
n, 468, 532n, 533n. Iael (Giaele), 392 e n.
Gregorio di Nazianzo, 225, 278n, 481. Iamblico (Giamblico di Calcide), 28,
Gregorio di Nissa, 481. 29n, 96n, 188n, 195 e n, 212, 213n,
Gregorio I (Anicio, papa), detto il 229n, 299.
Grande, 26n, 161, 209, 254 e n, Iapet (Giafet), figlio di Noè, 375,
496. 384n.
Gregorio IX (Ugolino conte de’ Se- Iarca, divinità dei Bracmani, 187.
gni, papa), 458n. Ibn Rushd (Averroè), 72 e n, 141, 142,
Gregorio Tornese (Gregorio Turonen- 145 e n, 151, 180 e n, 219, 223n,
se), vescovo di Tours, 60 e n. 225, 226, 233, 403, 415, 517.
Gregorio VII (Hildebrando di Soana, Icaro, 48.
papa), detto il Giovane, 161. Ieroboal, vedi Gedeone.
Grifone (Grifo), fratellastro di Pipino Ieroboam, vedi Gieroboam.
il Breve, 388. Ierocle di Alessandria, 219.
Guarna, Andrea (Andrea Salernita-
Ierocle, medico veterinario, 433.
no), 40 e n.
Ierofilo Calcedonio, vedi Erofilo di
Guglielmo d’Asburgo, duca d’Austria,
Calcedonia.
291n.
Ierone (Gerone), tiranno di Siracusa,
Guglielmo d’Alvernia, 191n.
363.
Guglielmo di Moerbeke, 128n.
Guglielmo di Ockham, 227 e n. Ieronimo di Rodi, peripatetico, 238 e
Guglielmo di Portenach, 389n. n, 239 e n.
Guglielmo di S.-Cloud (da san Clo- Ierub-Baal, 379.
doaldo), 146, 147 e n. Iesabel (Gezabele), 279 e n.
Guglielmo I, duca di Normandia, detto Iesse, vedi Isaia, padre di David.
il Conquistatore, 292, 387. Ieu (Giesù), veggente, 493 e n.
Ieuda (Juda ha-Nasi), patriarca, 36.
Haddo (Iddo), veggente, 493 e n. Igino, 34n, 48n, 358n.
Hali, vedi Abu– ‘Al¥ Ya‘qb ibn al-Kayar. Ilarione di Gaza, 212 e n.
Heinze, Ricardus, 567. Imla, padre di Michea, 507n.
Hemmerlin, Felix, detto Malleolus, 318 Innocenzo II (Gregorio Papareschi),
e n. papa, 275n.
Henze, Winfried, 441n. Innocenzo VIII, papa, 271.
Hico Franco, re dei Franchi, 35. Io, 296.
Hieronymus Frobenius, Johannes, Ioachim, Rabi Simeone Ben, 481.
550. Ioaida, sommo sacerdote, 508n.
Hoocstrato (Jakob van Hoogstraeten), Ioas, re di Giuda, 508n.
470 e n. Iole, 296.
Hunibald, cronista, 60. Ionabad (Gionabad), 308 e n.
Hutten, Ulrich, 444n. Iopa, citaredo, 101.
Iosef (Giuseppe), figlio di Giacobbe,
Iacco (Dioniso Zagreo), 48 e n. 376, 377.
Iacob (Giacobbe, Israel), figlio di Isac- Ipparco di Nicea, 119, 120, 144, 146,
co, 376-378, 381, 488, 517. 147.
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INDICE DEI NOMI 583

Ipparco, filosofo pitagorico, 189, Kiranide, autore di opere magiche,


205n, 217, 22. 189.
Ippia di Elide, 221. Koetschau, Edouard, 564.
Ippocrate di Cos, 151, 222, 223, 343, 401 Kranz, Walther, 52n, 96n, 324n, 403n,
e n, 402 e n, 403, 404 e n, 405 e n, 407 404n, 558.
e n, 413, 415, 417 e n, 424, 435. Krüger, Paulus, 360.
Ippocrate, medico veterinario, 433.
Ippolito, personaggio mitologico, 48, La Malfa, Patrizia, XII.
410, 411. Laban, zio di Giacobbe, 76.
Ippolito, teologo e scrittore cristiano, Labeone, Lucio, 44-45.
96n, 161n. Ladislao, re di Ungheria e Boemia,
Ircano I, etnarca di Giudea, 381 e n. 292.
Ircano II, sommo sacerdote ed etnarca Lagide, etèra, 293n.
di Giudea, 381n. Laide, etèra, 291 e n 293.
Ireneo, vescovo di Lione, 68n, 96n, Lamech, figlio di Caino, 357 e n.
141n, 161n, 213 e n, 265 e n, 481, Lamprocle di Atene, 98.
482, 483n. Lancilotto (Lancillotto), personaggio
Isaac (Isacco), figlio di Abramo, 375- leggendario, 61, 299 e n.
376. Lang, Carl, 568.
Isabella d’Este, 300n. Lang, Matteo, vescovo di Gurk, 543n.
Isacar (Issacar), figlio di Giacobbe, Laodicea (Laodice), sorella di Bereni-
376. ce e prima moglie di Antioco II re
Isacco (Maestro Isaac), vedi Abu– Ish.aq di Siria, 296.
ibn H.unayn. Lastene, cittadino di Olinto, 377n.
Isaia (Iesse), padre di David, 380 e n. Latona, personaggio mitologico, 48,
Isaia, profeta biblico, 42 e n, 161, 200, 51 e n, 52n.
203, 259, 263, 269, 486 e n, 491, Latona, regina d’Egitto, 134.
492, 494, 498, 507 e n, 516. Latopea, 205.
Isboseth (Is-Baal), figlio di Saul, 380. Lattanzio, grammatico, 130.
Ischi, 410n. Lattanzio, vedi Cecilio Firmiano Lat-
Iside, 34, 510, 511n. tanzio, Lucio.
Isidoro, vescovo di Siviglia, 34n, 197n, Lazzarelli, Ludovico, 481n.
408n, 448n, 506n. Lazzaro, 411.
Ismael (Ismaele), figlio di Abramo, Leena, etèra, 291 e n.
292, 357 e n, 375. Leferon, B., 563.
Ismenia di Tebe, citaredo, 100 e n. Lelio, Caio Maggiore, console, 45n.
Israel, vedi Iacob (Giacobbe). Léon de Bagnoles, vedi Le–wî ben
Istrina, 38. Ge–r‰ôn.
Italo, personaggio mitologico, 48n. Leone I, detto il Grande, 347, 449, 482.
Leone III, detto l’Isaurico, 257 e n.
Ja–bir ibn Hayya–n (Geber), 89n, 189, Leone IV, papa, 284n.
446 e n. Leone X (Giovanni de’ Medici, papa),
Jacoby, Felix, 51n, 101n, 130n, 288n, 481.
290n, 511n, 559. Leonzio, etèra ateniese, 290 e n.
Jacopo di Varsavia (Jacob di Jüterbog), Leucippo di Abdera, 217, 221.
229n. Levi (Levi ben Gerson) vedi Le–wî ben
Jahve, 489n. Ge–r‰ôn).
Janssen, T. H., 568. Levi, figlio di Giacobbe, 376, 378 e n.
Johannes Grammaticus (Giovanni Fi- Leviathan, creatura biblica, 282 e n.
lopono), 31. Le–wî ben Ge–r‰ôn (Gersonide, Levi, Le-
Jordanes, vescovo di Crotone, 35 e n. vi ben Gerson), 143 e n, 144, 145 e
n, 147.
Kassel, Rudolf, 102n, 288n, 558. Libanio di Antiochia, 68.
Keil, Heinrich, 93n, 568. Liberiano, 57 e n.
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584 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Licinio Crasso, Lucio, censore, 67. Ludovico V, re di Francia, 388 e n.


Licinio Crasso, Marco, triumviro, 155. Ludovico XII, re di Francia, 292.
Licinio, Valerio Liciniano imperatore, Luigi XII, re di Francia, 59n.
30, 386. Lullio (Ramon Lull), 81 e n, 189.
Licinio, Valerio Liciniano, figlio di Li- Lutero, Martino, 69 e n, 204n, 308,
cinio imperatore, 386. 532.
Licofrone di Calcide, poeta, 49, 50n.
Licofrone, tiranno di Tessaglia, 241. Machiavegli (Machiavelli), Niccolò,
Licurgo, legislatore, 95, 243, 246, 308, 370.
309, 450, 451. Machometto (Maometto), 251.
Lignières, Jean de, vedi Murs, Jean de. Macrobio, Ambrogio Teodosio, 41n,
Lino di Calcide, poeta mitico e musi- 44n, 45, 51n, 97n, 107n, 111 e n,
co, 33, 215. 131n, 219n, 240, 325n, 355n.
Lisandro, generale spartano, 62. Maffei, Raffaele, detto il Volterrano, 58
Lisia di Atene, oratore, 63 e n. e n, 66 e n, 71 e n, 271 e n, 316 e n,
Lisia, personaggio di un dialogo, 98 e 501, 568.
n. Magie, David, 561-563.
Lisiade (Liside) di Taranto, 205 e n. Magio Campano (Decio Magio), 247 e
Litorio di Benevento, medico veterina- n.
rio, 433. Magone, generale cartaginese, 363.
Livia Drusilla, moglie di Augusto, 341. Maimonide, vedi Moshè ben Maimon.
Livia, figlia di Nerone Claudio Druso, Malachia, profeta biblico, 42.
303 e n, 421. Malco, centurione, 278.
Livio, Tito, 35, 43, 44 e n, 55 e n, 195n, Malleolo, Publio Publicio, 324 e n.
247n, 294n, 304n, 308n, 325n, Malleolo, vedi Hemmerlin, Felix.
384n, 385n, 392, 437 e n, 453 e n, Mambre (Iambres, Mambres), 213 e n,
477. 214.
Loeb, James, 415n. Mammea, vedi Giulia Mamea.
Lolliano (Lollio Mavorzio), politico, Manasse, figlio di Giuseppe, 377, 379.
236. Manasse, re di Giuda, 507n.
Lorenzo d’Aquileia (Laurencius de Mancinello (Antonio Mancinelli), 45
Aquileia), 506 e n. e n.
Lotario, re dei Franchi, 388. Manfredi, re di Sicilia, 296.
Loxio, scrittore, 170. Manicheo (Mani), 78 e n, 233.
Luca Evangelista, 46n, 251 e n, 260 e Manlio (Manilio), Marco, astronomo,
n, 494 e n, 495n. 48n, 157 e n.
Lucano, vedi Anneo Lucano, Marco. Manlio, Marco Capitolino, console,
Luciano di Samosata, 10n, 13 e n, 17 e 55.
n, 39 e n, 47n, 48, 61, 102n, 106n, Mannebach, Erich, 291n, 561.
109n, 229, 233, 325 e n, 339 e n, Marcellino I, papa, 277 e n.
435n, 453n. Marcello, vedi Ammiano Marcellino.
Luciferiano (Lucifero di Cagliari), 226 Marchion, scrittore, 419.
e n. Marco Antonio, oratore e uomo politi-
Lucilio (Lucillio), epigrammista, 414. co, 63, 439n.
Lucilio, Iuniore Caio, 44 e n. Marco Antonio, triumviro, 66 e n, 295,
Lucina, epiteto di Giunone, 256. 296, 385.
Lucio Marcio Filippo, 355. Marco Evangelista, 46n, 224 e n, 491n.
Lucio, personaggio di Apuleio, 13n, Marco Mago, 96 e n.
511n. Marcomiro, re dei Franchi, 35.
Lucrezia, moglie di Collatino, 299n, Mardocheo, cortigiano ebreo, 377.
385 e n. Margalona, personaggio leggendario,
Lucrezio, Caro Tito, 131 e n, 302 e n, 61 e n.
303 e n, 365n. Margherita d’Austria, 292.
Lucullo, Lucio Licinio, 302 e n. Maria, sorella di Mosè, 492 e n.
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INDICE DEI NOMI 585

Marino di Tiro, geografo, 130. Messahalla, vedi Masa allah.


Mario Massimo, storico, 248. Messala, Marco Valerio, 67.
Mario, Caio, 30n, 373, 510. Messalina, vedi Valeria Messalina.
Marsutra (Mar Zutra), 36 e n. Mesue, detto il Giovane, vedi Yu–hanna–
Marte, 106, 384n, 556 e n. ibn Ma–sarjawaih.
Martino, vescovo di Tours, 278 e n. Metello Numidico, Quinto, censore,
Marziale, vedi Valerio Marziale, Marco. 321.
Marziano Capella, 44 e n, 99 e n, 131n, Metodio (Metodo), missionario e san-
477n. to, 480 e n.
Masaallah (Messahalla), astronomo, Metrodoro di Chio, 149, 219, 220.
156 e n. Metrodoro di Lampsaco, 290 e n.
Maslama in Ahmad, detto al-Majriti, Metrodoro di Scepsi, 56, 83 e n.
astronomo, 189n. Mezenzio, re etrusco, 175.
Massenzio, Marco Aurelio Valerio, im- Meziano (Meciano), Lucio Volusio,
peratore, 386. 290.
Massimiliano I, imperatore, 292, 470n. Michea, profeta biblico, 507 e n.
Massimiliano II, imperatore, 89n. Michele, arcangelo, 201 e n.
Massimiliano Transilvano, 543 e n. Michele II, detto Traulo, re bizantino,
Massimino, Caio Giulio Vero, detto il 316.
Trace, imperatore, 441. Michele III, imperatore d’Oriente,
Materno, Giulio Firmico, 156, 157, 480n.
170, 236. Mida, re di Frigia, 443.
Matteo, Evangelista, 46n, 488 e n, 491 Migne, Jacques-Paul, 557, 559, 562,
e n. 563, 568.
Matteuolo Veronese, 84. Milone di Crotone, 440.
Mayr, Martin, 310n. Minerva, 48, 101, 450.
Medea, 48, 199, 296 e n. Minos (Minosse), re di Creta, 48, 49,
Medici, Cosimo de’, duca di Firenze, 291, 450.
3, 5, 225n. Mirra, personaggio mitologico, 300.
Medici, Lorenzo de’, 116n. Miteco, scrittore, 437.
Megastone (Megastene), storiografo, Mitridate IV, re del Ponto, 245, 295,
398. 424n.
Meinecke, Augustus, 416n, 564. Mizraim (Mesraim), figlio di Cam,
Melantone, Filippo, 69n. 375, 429.
Meleagro, eroe mitologico, 296n, 358 Modestino, Erennio, giureconsulto,
e n. 450.
Melibea, personaggio di una comme- Modesto, scrittore, 370.
dia, 302 e n. Momo, personaggio mitologico, 10 e
Melisso, personaggio mitologico, 250. n, 16.
Melusina, 61 e n, 389 e n. Montano, prete, 264n.
Memnone, 34, 134. Mopso, indovino, 175, 488.
Menalo, personaggio mitologico, 15. More, Thomas (Tommaso Moro), 155
Menandro, 287, 288n, 414, 415n, e n.
416n. Morgana, personaggio leggendario,
Menecrate di Siracusa, medico, 412. 61 e n.
Menedemo di Eretria, 63 e n. Morieno (Morienus) (Mariano), alchi-
Menelao, personaggio mitologico, mista, 446 e n.
299. Moro Inglese, vedi More, Thomas.
Mennale, personaggio mitologico, Mosè, 33, 34, 36, 145 e n, 158, 161, 201
250. e n, 205, 207-208, 213 e n, 224 e n,
Mercurio, 34 e n, 48, 116, 155, 309, 228, 244, 250, 253, 268, 269, 274,
320n, 353 e n, 396. 277-279, 285n, 294, 313, 353, 369n,
Merkelbach, Reinhold, 49n, 52n, 561. 378, 379, 396, 451, 481, 487, 488,
Meroveo, re dei Franchi, 387 e n. 490, 491, 492 e n, 517, 533.
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586 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Moshè ben Maimon (Mosè Maïmoni- Niobe, personaggio mitologico, 48, 51


de, Mosè Egizzio), 146 e n, 206n. e n.
Müller, Carolus, 568. Nock, Arthur Darby, 560.
Muller, Frederick H. G., 98n. Noè, 130, 260, 215, 375, 429.
Müller, Johannes (Regiomontanus), Novaziano (Novato) di Cartagine, pre-
144, 146 e n, 147 e n, 157. sbitero, 78 e n, 79n.
Müller, Theodorus, 568. Numa Pompilio, re di Roma, 188, 212,
Murena, Lucio Licinio, 107. 250, 253, 267, 450, 451.
Murs, Jean de (Jean de Lignières),
143n. Occam, vedi Guglielmo di Ockham.
Museo, poeta, 106, 215 e n, 473. Ocho, vedi Artaserse III.
Musonio, Caio Rufo, 439, 441 e n. Oichilace, vedi Schilace di Alicarnasso.
Oinopide di Chio, astronomo, 221.
Nabucodonosor II, re di Babilonia, Olimpia (Olimpiade), madre di Ales-
134, 155, 194, 212. sandro Magno, 296.
Naide (Naiade), etèra, 293 e n. Oloferne, 392 e n.
Narso (Arsete), successore di Artaser- Omar Tiberiade, vedi Aomar.
se III, 384. Omero, 17n, 49 e n, 50, 51, 52n, 99n,
Nathan (Natan), profeta, 493 e n. 101 e n, 195 e n, 215, 247n, 322 e n,
Nauck, Augustus, 26n, 66n, 179n, 561. 324 e n, 332n, 335n, 358n, 423 e n,
Nauplio, personaggio mitologico, 48. 429n, 433n, 477 e n.
Nazabarus, autore di opere magiche, Onasandro, scrittore, 370 e n.
189. Onesicrito di Astipalea (Onosicrito),
Neante di Cizico, 288n. 56 e n.
Nebridio, 128 e n. Onorio d’Autun, detto Augustoduno,
Neemia, 33n, 34n. negromante, 198.
Neftalim, figlio di Giacobbe, 376. Onorio IV (Giacomo Savelli, papa),
Nembroth (Nimrod), nipote di Cam, 411.
357 e n, 375 e n. Oppiano di Apamea, 363n.
Nepote, Cornelio, 324n. Oppiano di Cilicia, poeta, 363 e n.
Nerone, Lucio Domizio Claudio Cesa- Orazio, Flacco Quinto, 21n, 44 e n,
re, imperatore, 100, 155, 294, 355, 52n, 63n, 100 e n, 102n, 121 e n,
382n, 386, 403n, 425. 194n, 197n, 246 e n, 275n, 302 e n,
Nesso, centauro, 332n. 305n, 335n, 344n, 363 e n, 527 e n.
Nestorio, patriarca di Costantinopoli, Oreste, personaggio mitologico, 48,
78. 324 e n.
Nettuno, 48, 250, 256, 396. Orfeo, personaggio mitologico, 48 e
Nicandro di Colofone, 288n. n, 101 e n, 106, 195n, 215 e n, 223,
Niccolò Cusano, pseudonimo di Nicolò 250, 293, 299, 473.
Criffts, arcivescovo di Magonza, Origene, 41n, 46n, 201n, 225 e n, 260
Treviri e Bressanone, IX, 310n, e n, 481, 483 e n, 487 e n, 507n,
458n. 511.
Niccolò II, papa, 390n. Oritia (Orizia), personaggio mitologi-
Niceforo, Callisto Xanthopulo, scritto- co, 48.
re bizantino, 278n. Oromaso (Oromazo, Ormizd, Hor-
Nicia, medico, 420 e n. mizd), 188 e n, 450.
Nicolò (Nicolaus Salernitanus), 425 e Orosio, Paolo, 18n, 57 e n, 58, 59,
n. 292n, 324n, 326n, 383n, 386n.
Nicolò da Lonigo (Niccolò Leonice- Ortensio Romano (Quinto Ortensio
no), 423 e n. Ortalo), 234 e n, 355.
Nicostrata, vedi Carmenta. Osiri (Osiride), divinità, 450.
Nigrigento, scrittore, 135. Ostio, 127.
Nilo, personaggio mitologico, 34. Otane, re di Persia, 244, 246.
Nino I, re degli Assiri, 383. Otone (Ottone di Savoia), 390.
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INDICE DEI NOMI 587

Ottaviano, Cesare Ottavio Augusto, Paride, personaggio mitologico, 353.


imperatore, 55n, 91, 100, 113, 127, Parmenide di Elea, 217, 222, 232, 429.
291, 293n, 323, 324 e n, 355, 385, Parrasio, pittore, 122.
392, 398, 399. Pasete, prestigiatore, 212.
Ovidio Nasone, Plubio, 11n, 44, 48n, Pasifae, personaggio mitologico, 48,
51n, 52n, 101n, 102n, 130n, 138 e 291, 292n, 300.
n, 148n, 194n, 195n, 197n, 229 e n, Patrizio, missionario e santo, 477 e n.
292n, 293 e n, 296n, 299, 300 e n, Patrocle (Patroclo) d’Oponte, geo-
301n, 302, 303, 320n, 332n, 335n, grafo, 56.
337n, 358n, 392n, 424n, 440, 441n, Patroclo, personaggio mitologico, 51,
444n, 475n. 93.
Ozea (Osea), profeta, 278 e n. Pausania Macedone, 16 e n, 55.
Ozia, re di Giuda, 279 e n. Pausania, scrittore greco, 290n, 291n,
324n, 358n, 410n.
Pacioli, Luca, frate, detto Luca di Bor- Pazanio, scrittore, 437.
go, 135. Pedanio Dioscoride, medico greco,
Pack, Roger Ambrose, 173n, 558. 434n.
Palamede, personaggio mitologico, Pelagio I, re dei Visigoti, 387.
34, 48, 51, 451. Pelagio, 233, 242.
Palemone, vedi Remnio Palemone Pelagonio, medico veterinario, 433.
Quinto. Peleo, personaggio mitologico, 48,
Pallade, 51n, 267. 337n.
Palladio, Rutilio Tauro Emiliano, 363 Penelope, personaggio mitologico,
e n. 48n, 49.
Palumbo Argherita, XII. Penteo, personaggio mitologico, 48.
Pamfila (Panfila), incantatrice, 302, Peone (Paione), chirurgo, 429.
Pane (Pan), 18, 48, 194 e n, 309, 353 e Periandro, tiranno di Corinto, 241.
n. Pericle, 64, 234n, 289, 296.
Panezio di Rodi, 151, 176. Perrone Compagni, Vittoria, XII, 34n,
Panfilo, vescovo di Sulmona, 288n. 212n, 558.
Pantaleone, scrittore, 437. Perseo di Cizico, filosofo, 232.
Pantoo, padre di Euforbo, 229. Perseo, personaggio mitologica, 48.
Paolina, matrona, 306. Persio, Flacco Aulo, 283n, 477, 527 e
Paolino, vescovo di Nola, 187 e n. n.
Paolo di Alessandria, 156 e n, 157. Petrarca, Francesco, 76 e n, 83n, 84,
Paolo di Taranto, 446n. 100n, 102n, 105 e n, 106n, 226 e n,
Paolo di Tebe, eremita, 360. 299, 324 e n, 416n, 421n.
Paolo Diacono, 387n. Petronio, Arbitro, 331n, 461n.
Paolo Fiorentino, vedi Dal Pozzo To- Piccolomini, Enea Silvio, vedi Pio II.
scanelli, Paolo. Pico della Mirandola, Giovanfrance-
Paolo II (Pietro Barbo, papa), 276. sco, 49n, 51n, 85n, 102n, 119n,
Paolo III (Alessandro Farnese, papa) 146n, 147n, 156n-159n, 161n,
144n. 173n, 179n, 180n, 187n, 189n,
Paolo, Giulio, giureconsulto, 452 e n. 200n, 215n, 217n, 222n-226n,
Paolo, nome cristiano di Saulo di Tar- 235n, 239n, 288n, 402n-405n,
so, 29, 30, 46, 123, 198 e n, 200, 474n, 475n, 482n, 513n, 516n.
201n, 204n, 210, 233, 240, 255, 260, Pico della Mirandola, Giovanni, 142n-
263, 277, 294, 306, 311, 313, 360, 147n 149n, 151n, 152n, 154n-158n,
475, 482, 485, 486 e n, 487, 490 e n, 159 e n, 160 e n, 161n, 169n, 173n,
491, 495, 502, 556. 179n, 185n, 187n, 188n, 198n-
Papia, vescovo di Gerapoli, 482 e n. 200n, 205n, 225n, 397n, 527n.
Papirio, Caio, 451 e n. Pier Edo, vedi Del Zochul, Pietro.
Papirio, Sesto, 451 e n. Pierre d’Ailly, 159 e n.
Parca, 220. Pietro d’Abano, 94n, 159 e n, 170 e n,
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588 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

189, 199, 402n, 410 e n, 411 e n, Pletone, pseudonimo di Giorgio Gemi-


414 e n. sto, 225 e n.
Pietro da Ravenna, vedi Tommai, Pie- Plinio, Cecilio Secondo Gaio, detto il
tro. Giovane, 43, 247 e n.
Pietro dell’Arca, 170 e n. Plinio, Secondo Gaio, detto il Vecchio,
Pietro di Bruxelles, 549n. 17n, 34n, 35, 43, 44, 51n, 55n-57n,
Pietro Ispano, medico e filosofo, 31n, 58 e n, 64 e n, 66n, 94 e n, 98n,
506 e n. 102n, 115n, 122 e n, 131 e n, 133n,
Pietro Lombardo, 473n. 134 e n, 135, 138 e n, 139 e n, 141 e
Pietro, apostolo, 46n, 277, 278, 318, n, 148n, 171n, 187n, 188n, 193 e n,
486n, 490 e n, 491, 502, 534. 194n, 195n, 199, 205 e n, 232,
Pigmalione, re di Cipro, 301n. 250n, 291n, 301n, 303 e n, 343 e n,
Pikel, Konrad, cronista e storico, 58 e 363 e n, 364n, 366 e n, 373n, 396 e
n. n, 402 e n, 403n, 405 e n, 407 e n,
Pilato, Ponzio, 124. 408n, 416n, 417 e n, 419n, 420n,
Pindaro, poeta, 18n, 34n, 293, 329, 421 e n, 424 e n, 425n, 426n, 429,
299, 363n, 410n, 411 e n. 430n, 436, 437n, 438n, 439 e n,
Pingree, David, 159n, 565. 441n, 444n, 448 e n, 496n, 511 e n.
Pio II (Enea Silvio Piccolomini, papa), Plistonico (Pleistonico), medico, 405.
298 e n, 299 e n, 397, 398, 437n. Plotino di Licopoli, 151, 207 e n, 227,
Pippino (Pipino) il Breve, maggiordo- 240.
mo in Neustria e re carolingio di Plutarco di Cheronea, 26n, 41n, 44n,
Francia, 388 e n. 56n, 59, 60n, 66n-68n, 95n, 97n-
Pirria, vedi Pirrone di Elide. 101n, 109n, 121n, 122, 130, 134 e
Pirro, re dell’Epiro, 62, 240. n, 147n, 151, 179n, 212n, 214n, 215
Pirrone di Elide, 10n, 230, 241. e n, 223, 246n, 253 e n, 259n, 267n,
Pitagora di Samo, 93 e n, 94, 96n, 288n, 291n, 292n, 294n, 308n,
131n, 151, 169, 170, 188n, 205n, 324n, 343 e n, 346, 377n, 412n,
212, 217, 219, 223, 224, 226, 229, 420n, 424, 511 e n.
232, 239, 403, 419, 429, 511. Plutone, 10, 250.
Pitocle di Ceo, detto Pitoclide trombet- Polemone, scrittore, 170.
ta, maestro di musica, 98 e n. Polibio, 18n, 99n, 100n, 101 e n.
Pitone, personaggio mitologico, 48. Polibo, re di Corinto, 488.
Pittaco di Mitilene, 241. Policarpo, vescovo di Smirne, 481.
Planude, Massimo, 57 e n. Policrate di Efeso, 264, 265n.
Platina (Piadena), pseudonimo di Barto- Polidoro, personaggio mitologico,
lomeo Sacchi, 437 e n. 11n.
Platone di Atene, 27 e n, 28n, 30n, Polifemo, personaggio mitologico,
31n, 38n, 43 e n, 49 e n, 51n, 52 e n, 353.
63 e n, 65 e n, 69, 76n, 79 e n, 81n, Polifemo, vedi Rex Felix di Ghent.
95 e n, 97n, 98 e n, 99n, 101n, Polimèstore, re di Tracia 11n.
106n, 109n, 113 e n, 115n, 119 e n, Polimneste di Colofone (Polimestre),
131n, 141, 148n, 149 e n, 151, musico, 97, 98n.
185n, 188 e n, 191, 192n, 218, 219, Poliziano, pseudonimo di Angelo Am-
220n, 223 e n, 224 e n, 226, 227 e n, brogini, 116 e n, 423n.
232, 234, 238, 240 e n, 241, 243, 244 Polluce, personaggio mitologico, 48,
e n, 246 e n, 268 e n, 294 e n, 306, 106.
311n, 326n, 346 e n, 358 e n, 369 e Pompeio, Gneo Magno, 62, 155, 381n,
n, 403 e n, 421 e n, 436 e n, 473, 395, 451.
476, 477, 486n, 489 e n. Pompeo Leneo, medico, 402.
Platone di Tivoli, 143n. Pomponio Gaurico, 123 e n.
Plauto, Tito Maccio, 44 e n, 52n, 282n, Pomponio Leto, 175, 437n.
324, 325 e n, 444n. Pomponio Mela, 240 e n, 450 e n.
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INDICE DEI NOMI 589

Pomponio, Sesto, giureconsulto, Ramiro I, re di Aragona, 387.


195n, 450. Rapsinate III (Rampsinito, Ramesse,
Pontano, Giovanni, 299. Ramses), faraone egizio, 134.
Populea (Poppea) Sabina, matrona Rasis (Rasi) (Rhazes), vedi Abu– Bakr
romana, 291. Muh.ammad ibn Zaka–rı–ya–, al-Ra–zı–.
Porcheto (Spinola Porchetto), cardi- Raziel (Raziole), angelo, 199 e n.
nale e arcivescovo di Genova, 402. Rea, divinità, 47.
Porfirio di Tiro, 28, 29n, 98, 120 e n, Rea, Silvia, vestale, 106, 384n.
151, 157, 185 e n, 187n, 188n, 193, Regino (Reginone abate di Prüm),
204, 223, 233, 251n, 511 e n. cronista e storico, 60 e n.
Posidone, 475n. Reimeri, Georgii, 564.
Possidionio (Posidonio) di Apamea, Remnio Palemone, Quinto, grammati-
56, 151, 220, 222. co, 37.
Prassagora di Cos, medico, 402 e n, Remo, 353, 384 e n.
405. Reuchlin, Johannes (Capnio), 15n,
Prassitele, scultore, 301n. 26n, 29n, 30n, 31n, 34n, 41n, 73n,
Prestanzio, 194. 74n, 84n, 85n, 96n, 116n, 195n,
Prevost, Nicolò, 425n. 198n, 199n, 205-208n, 214n, 217-
Priamo il giovane, personaggio leg- 219n, 221-223n, 225n, 229n, 231n,
gendario, 60. 235n, 335n, 404n, 410, 411n, 450n,
Priamo, 11n, 101n, 322n. 452n, 470 e n, 480n, 485n, 486n,
Priapo, divinità virile, 287 e n. 493n, 498n, 507n, 509n.
Prisciano, grammatico, 38, 39 e n. Rex, Felix di Ghent, detto Polifemo,
Proba Petronia, poetessa, 209 e n. 545 e n, 547.
Probo, Marco Valerio, 209n.
Ribecca (Rebecca), moglie di Isacco,
Proclo di Costantinopoli, 97n, 98n,
376.
141, 157n, 195 e n, 489 e n.
Ricardo Amarcano, vedi Fitz Ralph, Ri-
Proculo, imperatore, 290.
chard.
Progne, figlia del re di Atene, 296 e n.
Ricchieri Ludovico detto Celio Rodigi-
Prometeo, personaggio mitologico,
37, 48, 151, 215. no, 40n, 97n-102n, 112n, 116n, 127
Pronopide, vedi Oinopide di Chio. e n, 154n, 188n, 194n-198n, 203n-
Properzio, Sesto, 138n, 293, 299. 205n, 212n, 213n, 324n, 405n,
Proserpina, personaggio mitologico, 412n, 438n-440n.
48. Ricci, Agostino, 143n, 144 e n, 145 e n,
Protagora di Abdera, 65 e n, 231. 146n.
Proteo, personaggio mitologico, 335 e Ricci, Paolo, 144n, 481n.
n, 337 e n, 353, 459 e n, 477, 496. Riccio, Pietro, detto Crinito, 34 e n,
Publilio, Siro, 74n. 35n, 43 e n, 44n, 67n, 89n, 113n,
Pugliese Carratelli, Giovanni, XII. 176n, 188n, 191n, 194n, 195n,
Pürstinger Berthold, vescovo di 208n, 213n, 253n, 259n, 276 e n,
Chiemsee, 276 e n, 318, 369 289n, 301n, 307, 308n, 441n, 512n.
Riccobono, Salvatore, 564.
Quentell, Henricus, editore, 239n. Richter, Aemilius Ludwig, 560, 563.
Quintiliano, Marco Fabio, 38 e n, 43 e Roberto d’Inghilterra (Robertus An-
n, 44n, 45 e n, 47 e n, 50, 63n, 65n, glicus) 199 e n.
76, 77n, 83 e n, 84n, 113 e n, 294n, Roberto di Chester, 446n.
490n, 555n. Roberto di York (Eboracensis), detto
Quinto Flaminio, Lucio, 294 e n. l’Eboracese, 198 e n.
Roboam (Roboamo), re di Giuda e fi-
Rabano, Mauro, 209. glio di Salomone, 334, 380, 493n.
Raffaello (Raffaele), arcangelo, 199 e Roderigo (Rodorico), re dei Visigoti,
n. 296, 386.
Raibono, vedi Moshè ben Maimon. Rodoaldo, re dei Longobardi, 296.
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590 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Rodomanto (Radamanto, Radaman- Scoto, Eriugena Giovanni (Eurioge-


ti), figura mitologica, 33. na), 468n.
Rodope (Rodopi), etèra, 291 e n. Scoto, Michele, medico, 94n, 142n,
Rojas, Fernando de, 299n, 302n. 170 e n, 240n, 416n.
Romolo, re di Roma, 304, 353, 358, Scribonio, Largo Designaziano, medi-
384 e n, 385, 386, 451. co, 424.
Roscio, Quinto Gallo, attore, 111. Sem, figlio di Noè, 384n.
Roussat, Richard, 94n. 558. Semeia (Semaia), profeta, 493 e n.
Ruben, figlio di Giacobbe, 376. Semele, personaggio mitologico, 48 e n.
Ruel, Jean (Giovanni Ruello), 433, Semiramide, regina degli Assiri, 134,
434n. 289 e n, 291 e n, 292n, 383.
Ruffino (Rufino di Aquileia), 360n, Sempronia, moglie di Scipione Emilia-
482, 513n. no, 107, 290.
Ruth, personaggio biblico, 308. Sempronio Gracco, Caio, 373.
Rutilio, Rufo Publio, 439n. Sempronio Gracco, Tiberio, 373.
Seneca, vedi Anneo Seneca, Lucio.
Sabellico (Marcantonio Coccio), sto- Senofonte, vedi Xenofonte.
riografo, 58 e n, 59 e n. Serapione di Alessandria, medico em-
Sabellio, 490 e n. pirico, 402.
Saccada Archivo (Sacada di Argo), Sereno, Sammonico, storico, 392.
musico, 97, 98n. Sergio Catilina, Lucio, 373.
Sacchi, Bartolomeo, vedi Platina. Sertorio, Quinto, politico, 373.
Sadan, nome latino di Ab) Ma‘&ar Servio, Mario Onorato, grammatico,
Muhammad al-Balh¤, 159n. 45 e n.
Sesostre III (Sesostri), faraone egizio,
Saffo di Ereso, 98, 290 e n, 293.
134.
Sallustio, Caio Crispo, 43, 44, 107 e n,
Sesto Empirico, 99n, 231n.
437n.
Sesto Tarquinio, figlio di Tarquinio il
Salomone, re d’Israele, 180, 192 e n,
Superbo, 385n.
204n, 206, 208 e n, 227 e n, 245,
Seth (Set), figlio di Adamo ed Eva,
259, 290, 292, 380, 490, 492, 493n, 296.
494 e n, 516 e n, 517. Severiano, vescovo di Gabala, 161 e n.
Samuel, profeta biblico, 200, 279 e n, Severo, Alessandro, Marco Aurelio,
488, 493 e n. imperatore, 441 e n.
Sancio (Sancho III di Navarra), 387. Shim‘ún ben Y úhai, 481 e n.
Sara (Sarra), 308 e n, 329 e n. Siba (Seba), figlio di Bicri, 380 e n.
Sardanapalo (Assurbanipal), re di Ba- Sicambria, personaggio leggendario,
bilonia, 290, 383 e n, 440. 60.
Saturno, 41e n, 47, 367 e n, 396, 450. Sickingen, Franz von, 470n.
Saul, re d’Israele, 40, 245, 279 e n, 379, Sigisberto (Sigberto di Gembloux),
380 e n, 488, 492. cronista, 60 e n.
Sauppe, Hermann, 293n, 560. Sile (Scile), re degli Sciti, 38.
Savini, Nicolò, 470n. Silenio (Sileno), scrittore, 135 e n.
Savonarola, Gerolamo, 278, 481 e n. Silla, vedi Cornelio Silla, Lucio.
Savonarola, Michele, medico, 170 e n. Silvestro I, papa, 458n.
Schilace di Alicarnasso (Oichilace), Simeone Ben Ioachim, Rabi tannaita,
astronomo e matematico, 152. vedi Shim‘ún ben Y úhai.
Schmidt, Erich, 288n, 565. Simeone, figlio di Giacobbe, 376, 378
Scilare, vedi Skylitzes, Joannis. e n.
Scipione, Publio Cornelio, detto Africa- Simeone, personaggio del Nuovo Te-
no, 50, 62, 367. stamento, 124.
Scipione, Publio Cornelio, detto Emi- Simmaco, Quinto Aurelio, Memmio,
liano, 45 e n, 100. oratore, 68.
Scitica, personaggio leggendario, 60. Simon Mago (Samaritano), 213n, 214.
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INDICE DEI NOMI 591

Simonattide di Chio, 437. Tebizio), 142 e n, 144 e n, 147, 156,


Simonetti, Manlio, 565. 189, 211n, 212n.
Simonide Melico, Simonide Mellitone Tacito, vedi Cornelio Tacito, Publio.
(Simonide di Ceo), poeta lirico, 34, Taide, etèra, 291 e n, 304 e n.
83 e n, 492. Talete di Mileto, 148, 217, 219-222,
Simpliciano, vescovo di Milano, 200. 232, 241, 343 e n.
Sinesio di Cirene, 179, 195 e n. Tantalo, personagio mitologico, 48.
Sisara (Sisera), 392n. Tarquinio Collatino, vedi Collatino,
Sisto IV (Francesco Della Rovere, pa- Lucio Tarquinio.
pa), 276, 309. Tarquinio il Superbo, re di Roma, 296,
Skylitzes, Joannis, cronista, 316. 385 e n.
Socrate di Atene, 30, 49, 63, 65, 106 e Tauro, personaggio mitologico, 292n.
n, 113, 171, 197, 218, 234, 239, 241, Taziano di Siria, 68n.
249, 289, 323, 412, 421, 435, 488, Tebith, vedi T– a–bit ibn Qurrah.
489, 507, 517. Telagonio (Telegono), figlio di Ulisse,
Socrate di Costantinopoli, 306n. 48 e n.
Sofocle di Atene, 13n, 51n, 102n. Telamone, personaggio mitologico,
Solino d’Erostrato, vedi Giulio Solino, 337n.
Caio. Telemaco, 359.
Solone di Atene, 51, 253, 247, 287, Temisione (Temisone) di Laodicea,
308, 309, 343, 450, 451. medico, 402 e n.
Soterico, personaggio di un dialogo, Temistio, filosofo neoplatonico di Co-
98n. stantinopoli, 179, 225 e n.
Sozomeno, Ermia (Heremias di Sala- Temistocle, generale ateniese, 62, 83,
234n.
mina), storico, 212n, 306n, 567.
Teocrito di Siracusa, poeta greco, 302.
Spartaco, gladiatore, 353 e n.
Teodoreto di Ciro, storico, 306n.
Spartiano, Elio, 49 e n, 441n.
Teodorico, re degli Ostrogoti, 61n,
Speusippo di Atene, 232, 241.
292, 296.
Stasicrate, architetto, 134.
Teodoro di Cirene, 231 e n, 238 e n.
Stazio, 475n. Teodoro Lettore, 306n.
Stefano di Alessandria, 446n. Teodosio II, imperatore, 161, 386, 452
Stefano di Bisanzio, geografo, 58. e n.
Stefano V, papa, 276n. Teofilo (Roger di Helmarshausen),
Stefano, protomartire, 259. 448 e n.
Stobeo, Giovanni, 10n. Teofrasto di Ereso, 26, 31 e n, 115n,
Strabone di Apamea, 56 e n, 57n, 58 e 135, 220, 232, 240, 290 e n, 303, 424
n, 101n, 112n, 115n, 130 e n, 134n, e n.
188n, 194n, 253, 254n, 417 e n, Teomnesto, medico veterinario, 433.
418n, 477. Teopompo di Chio, 61, 288n.
Strabone, Caio Fannio, vedi Fannio, Terenziano, Mauro, grammatico, 93 e
Caio Strabone. n, 94n.
Stratone di Lampsaco, filosofo, 137 e Terenzio Varrone Reatino, Marco, 37,
n, 223, 232. 43, 45, 74, 99n, 135, 154 e n, 215,
Stratone, medico, 404. 221 e n, 241, 253 e n, 323 e n, 363,
Suida di Costantinopoli, 185 e n. 367n, 403, 433, 437, 438 e n, 477.
Suitilla (Suintilla), re dei Visigoti, 386. Terenzio, Afro Publio, commedio-
Sulpicio Rufo Servio, giurista e orato- grafo, 44, 45n, 301 e n, 323n, 438n,
re, 71. 477n, 500 e n.
Svetonio, Tranquillo Caio, 37n, 38n, Tereo, sposo di Progne, 296n.
43, 45n, 67, 68n, 91n, 100n, 234n, Terpandro di Antissa, 98 e n.
323n, 355 e n, 392 e n, 396n, 452n. Tersite, personaggio mitologico, 17 e
n.
T– a–bit ibn Qurrah (Thabit, ben Qurra, Tertulliano, Quinto Settimio Florente,
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592 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

41n, 57 e n, 96n, 213n, 226 e n, 264 Tommai, Pietro (Pietro da Ravenna),


e n, 481, 483 e n, 507n, 512n. 84 e n.
Teseo, personaggio mitologico, 48, 62. Tommaso, apostolo, 277 e n.
Tesillo italiano, vedi Tessalo di Tralles. Tondino, vedi Tumtum el-Indi.
Tespio, 290n. Traiano, Marco Ulpio, imperatore,
Tespione, gimnosofista, 187. 26n.
Tessalo di Tralles, medico, 403 e n. Trapezunzio, vedi Giorgio Trapezon-
Thamo (Tammuz), re d’Egitto, 27. tio.
Thebaldis, Aegidius de, 146n. Trasone, personaggio di una comme-
Thetel, autore di opere magiche, 189. dia di Terenzio, 477n.
Theuto (Thot), divinità egizia, 27, Trebellio, Pollione, storico, 57 e n.
34n. Tressa, 148.
Tiberiano, Giunio, 57n. Tricasso, pseudonimo di Patrizio de Ce-
Tiberio, Claudio Nerone, imperatore, resari di Mantova, vedi Ceresara,
113, 161, 323, 392 e n, 438n, 439n, Patrizio.
440, 448. Trifone, scrittore, 189.
Tiberio, medico veterinario, 433. Tristano, personaggio leggendario, 61
Tibullo, Albio, 293, 299. e n, 299.
Tilmanno Gravius (da Fossa), 543 e n, Tritemio, vedi Zeller Trithemius,
547. Johannes.
Timagora, 68 e n. Trogo, Pompeo, 44 e n, 55 e n.
Timeo di Locri, filosofo pitagorico, Tucidide di Atene, 32, 98n, 324n, 398,
151, 223. 447 e n.
Timeo di Tauromenio, 62 e n. ¥um†um al-Hind¤ (Tondino), 89, 90 e n.
Timocare di Ambracia, medico, 420 e
Tundalo, personaggio leggendario,
n.
228 e n, 477 e n.
Timone di Fliunte, 229, 234 e n.
Timoteo (Timocari) di Alessandria,
Ulisse, 48 e n, 101 e n, 195, 296, 309,
astronomo, 147 e n.
359.
Timoteo di Listra, 314 e n.
Timoteo di Mileto, 98 e n, 485n, 568. Ulpiano Domizio, giureconsulto, 198,
Tindarico Sitionio, scrittore, 437. 449, 452.
Tirante, personaggio leggendario, 61 ‘Umar Muh.ammad ibn al-Farruïa–n al-
e n. ¥abar¤ (Aomar), 156 e n.
Tiresia (Teresa di Castiglia), figlia di Unibaldo Barbaro, vedi Hunibald.
Alfonso X, 387.
Tiresia, indovino, 175, 488. Valentiniano I, imperatore, 30, 161,
Tirteo, poeta, 50. 452n.
Tisia di Siracusa, retore, 63-64. Valentino, gnostico, 96 e n.
Tito Tazio, leggendario re di Roma, Valentino, vescovo di Terni, 256.
385. Valeria Messalina, moglie di Claudio
Tito, Flavio Vespasiano, figlio di Vespa- imperatore, 291 e n, 303 e n.
siano imperatore, 382 e n. Valerio Catullo, Caio, 102n, 293, 299,
Titone, personaggio mitologico, 52 e 302.
n. Valerio Flacco, Caio, poeta lirico,
Tobia, 199 e n. 195n.
Todero, Rosario, XII. Valerio Flacco, Lucio, 439 e n.
Tolomeo (Tolemeo), Claudio, 89n, 99, Valerio Marziale, Marco, 62 e n, 99n,
130 e n, 142 e n, 143 e n, 144 e n, 131n, 165, 293, 299, 456 e n.
145 e n, 146n, 147 e n, 151n, 152, Valerio Massimo, 18n, 30 e n, 50n, 55,
156, 157 e n, 170, 189, 296. 56n, 60n, 68n, 76n, 111, 112n, 114
Tomaso (Tommaso) d’Aquino, 21, e n, 250n, 293 e n, 294n, 301n,
147, 198, 211n, 226, 240, 473, 474, 324n, 326n, 333n, 367 e n, 385n,
482. 420n, 439n, 510 e n.
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INDICE DEI NOMI 593

Valgio, Rufo Gaio, scrittore e uomo West, Martin L., 49n, 52n, 561.
politico, 402. Wied, Hermann von, 543n.
Valla, Lorenzo, 45 e n, 457n. Willis, James, 564.
Vallante Dothain, re di Siria, 212. Wyclif, John, 159n.
Valturio, Roberto, scrittore, 370.
Varrone, vedi Terenzio Varrone Reati- Xenocrate, scrittore, 370.
no, Marco. Xenocrate (Senocrate) di Calcedonia,
Vasari, Giorgio, 116n. 149, 222, 231.
Vegezio, Renato Flavio, scrittore, 367 e Xenofane (Senofane) di Colofone,
n, 370, 433. 217, 219, 222, 229, 232, 241.
Venere, 47, 155, 158, 256, 288 e n, 397. Xenofonte (Senofonte) di Atene, 5,
Vergilio (Virgilio), Polidoro, 18n, 33n, 60, 61, 68n, 106n, 221, 232, 263,
34n, 35n, 37n, 38n, 98n, 146n, 270, 351n, 369n, 398.
175n, 185n, 197n, 208n, 288n, Xerse (Serse), re persiano, 62, 259,
289n, 316 e n, 343n, 344n, 363n, 288n, 440.
367n, 416-418n, 421n, 448n.
Vermigli, Pietro Martire, 543n. Yu–suf Ya‘qu–b ibn Ish.a–q ibn Sabbah al-
Vespasiano, Tito Flavio, imperatore, Kindı– (Abu– Yu–suf Ya‘qu–b ibn Ish.a–q
246, 382 e n, 395. ibn Sabbah al-Kindı–) (Alchindo),
Vesta, 267, 450. 120, 156 e n, 170, 189.
Vezzio Valenzio (Vezio Valente), medi- Yehudá ben Moshe ha Kohén, 143n.
co, 303 e n. Yishaq ben Said, detto Hasan, astrono-
Vigilanzio di Calagurri, 257 e n. mo ebreo, 143n.
Villadei, Alessandro di, 506 e n. Yu–hanna– ibn Ma–sarjawaih (Mesue),
Virgilio (Vergilio), Marone Publio, 408n, 409n, 425 e n.
13n, 44, 49, 50 e n, 51, 53n, 193,
101 e n, 102n, 129n, 193n, 195n, Zabulo (Zabel), autore di opere magi-
197n, 246n, 247n, 209 e n, 292n, che, 198 e n.
293, 299, 302 e n, 304 e n, 305, Zabulon, figlio di Giacobbe, 376.
332n, 335n, 359n, 363 e n, 392n, Zaccheria (Zaccaria), profeta, 124,
393n, 419n, 477, 501 e n, 516n. 507 e n, 508n.
Virginia, eroina romana, 296. Zaccheria Babilonio, autore di opere
Vitellio (Witelo di Slesia), 128 e n. magiche, 189.
Vitellio, Aulo Germanico, imperatore, Zacheria (Zaccaria), sacerdote, 277.
161, 440. Zacuto, Abraam ben Samuel, vedi
Vitige, re dei Goti, 35n. Abraham ibn Samuel Zachut.
Vitilkindo (Vitilchindo di Corvey), sto- Zahel, autore di opere magiche, 189.
riografo, 60 e n. Zahel, vedi Abu– ‘Ut–ma–n Sahl ibn Bisr
Vitruvio Pollione, Marco, 134 e n, 135 ibn Hani
e n, 193n. Zalmoxide (Zamolsside, Zalmossi), di-
Vittore I, papa, 264, 265 e n. vinità, 188 e n.
Vittorino, vescovo di Petovio, 482, Zambelli, Paola, 558.
483n. Zantraste, divinità, 450.
Vives, Juan Luis, 76n. Zebedeo, padre di Giacomo e Giovan-
Volpaia, Lorenzo della, 116n. ni, 277.
Voltaggio, Franco, XII. Zeller Trithemius, Johannes, abbate di
Volterrano, Raffaello, vedi Maffei, Raf- Sponheim, 60n, 189n, 198n, 199n,
faele. 211n, 298 e n.
Vopisco, Flavio, 57 e n, 290n, 440n. Zenone di Cizio, 218, 222, 232, 239,
Vuastaldo (Vastaldo), 35. 241, 259 e n.
Vulcano, 34, 48, 256, 505. Zenone di Elea, 230.
Zenoteno (Zenohemis), autore di
Wehrli, Frtiz Robert von, 18n, 50n, opere magiche, 189.
98n, 238n, 288n, 559. Zeus, 353n.
ultima 27-10-2004 15:31 Pagina 594

594 DELLA VANITÀ DELLE SCIENZE

Zeusi da Eraclea, pittore, 122. Zoroaste (Oxyarte), re dei Battriani,


Zizimo, vedi Gem. 383 e n.
Zofone, scrittore, 437. Zoroaste (Zarathustra), 155, 188 e n,
Zopiro di Taranto, fisiognomista, 170, 189, 223, 450.
171.

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