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I edizione: ottobre 2017

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ristampa anno

8 7 6 5 4 3 2 1 2017 2018 2019 2020


francesco brusco

estetica di sgt. pepper


genesi, linguaggi e ricezione
del capolavoro dei beatles
indice
_________________________________

Introduzione 11

Parte prima: la genesi 17


Estate 1966 19
Un inverno ad Abbey Road 41

Parte seconda: l’analisi 65


Elementi di base del linguaggio musicale in SGT. PEPPER:
armonia, melodia, ritmo 67
La ricchezza timbrica, stilistica e formale 107
Their production will be second to none:
l’uso innovativo dello studio di registrazione 145
I testi: storie, personaggi, fonti e forme del racconto 169

Parte terza: l’eredità 193


Originalità e tradizione in SGT. PEPPER 195
Ricezione e fortuna critica
SGT. PEPPER e la legittimazione culturale del rock 223
La fruizione. SGT. PEPPER ai tempi di Spotify 247

Bibliografia 271
Sitografia 279
Appendice: discografia pepperiana 281
Alla mia famiglia,
che suo malgrado
ha imparato questo disco a memoria.

Con riconoscenza.
introduzione
_________________________________

Questo libro ha avuto sin dall’inizio due obiettivi: parlare del «più
leggendario disco di tutti i tempi» rinunciando alla visione mitologica
che da sempre lo accompagna e resistere all’ovvia tentazione di inti-
tolarsi It Was Fifty Years Ago Today. Due imprese egualmente ardi-
mentose, considerando l’amore che chi scrive nutre da sempre per i
Beatles e che avrebbe potuto intralciare un’analisi obiettiva di quello
che viene tradizionalmente indicato come il loro capolavoro.
Ma la distanza che ci separa dalla Summer of Love e dalla nascita
del suo figliol prodigo ci aiuta a guardare da lontano al contesto in cui
quest’opera è venuta alla luce, permettendo di rileggerne criticamente
il contenuto artistico – spesso eclissato dalla sua stessa aura – e gli ele-
menti che lo compongono. Essa ci aiuta soprattutto a collocare l’al-
bum all’interno della produzione dei Beatles e a individuarne – indi-
pendentemente dal suo presunto status di «opera migliore» – le inno-
vazioni da un lato e le continuità dall’altro.
Incontrai la musica dei Beatles intorno al 1989, leggendone, prima
ancora di ascoltarla, sui libri di testo di musica e di inglese alle scuole
medie. Erano passati esattamente vent’anni dal loro scioglimento, ma
era piuttosto frequente vederli in tv da solisti (assiduo spettatore di
qualsiasi trasmissione vagamente musicale, ricordavo la presenza di
Paul McCartney e di George Harrison, in due distinte serate, al Festi-
val di Sanremo dell’anno prima). Inoltre, l’omicidio di John Lennon

11
ESTETICA DI SGT. PEPPER

rientrava ancora nel dominio della cronaca, più che della storia. I nomi
che leggevo erano quindi familiari e già a undici anni mi meravigliava
che simili celebrità avessero fatto parte dello stesso gruppo.
Quand’ero piccolo m’innamoravo di tutto, ma la passione per quella
musica proseguì, accrescendosi, negli anni a venire. Con quelli che og-
gi sembrano media antiquati, iniziai ad ascoltarli, a suonare i loro brani
e a informarmi sulla loro storia; tuttavia, per almeno due anni nessuna
di quelle caserecce antologie su nastro, precarie rappresentanti della
loro discografia, fornì il benché minimo accenno a SGT. PEPPER’S LO-
NELY HEARTS CLUB BAND. L’unica inconsapevole introduzione all’opera
era stata la messa in onda del film animato Yellow Submarine, gradito
regalo di compleanno della Rai nel bel mezzo dei match di Italia ’90.
Eppure, man mano che «approfondivo le letture», se così si può dire
riferendosi a riviste mainstream e dozzinali allegati, quel titolo così in-
trigante assumeva sempre più rilevanza, accompagnato da termini
quali capolavoro, leggendario, rivoluzione, simbolo, e tutta la gamma
dei loro sinonimi. Quando finalmente ne trovai alcuni estratti nella co-
siddetta «Antologia blu» (THE BEATLES 1967-70) realizzai che quelle
recensioni non erano poi così iperboliche, e ascoltare finalmente l’al-
bum per intero fu una di quelle rivelazioni mistiche che a volte si pro-
vano davanti alle più grandi opere d’arte di ogni tempo.
In breve, chi scrive – benché cronologicamente un po’ più vicino
agli eventi raccontati – si è trovato probabilmente nella stessa situa-
zione dei giovani ascoltatori di oggi, adolescenti che non hanno vis-
suto quella stagione in prima persona e che nella maggior parte dei
casi (come ho avuto modo di verificare discutendo di musica con i
miei allievi al liceo) hanno sentito il nome dei Beatles pronunciato in
modo «solennemente anonimo», come quello di altri protagonisti
della storia del Novecento, di cui ancora non conoscono l’opera. Ci
sono, certo, delle eccezioni: non mancano curiosi diciottenni appas-
sionati di musica che ammirano John, Paul, George e Ringo più degli
idoli contemporanei; pochi di loro, tuttavia, hanno mai ascoltato con
attenzione quello che viene – a ragione? – definito «il primo concept
album della storia». Fruendone in maniera prevalentemente distratta,

12
PARTE PRIMA – LA GENESI

attraverso iPod e smartphone che ne accompagnano il tempo libero


iniettando nelle loro orecchie playlist fatte per ascoltare «un po’ di
tutto», difficilmente essi riescono a cogliere il senso di unità e coeren-
za che l’album esprime.
Ma non sono soltanto gli adolescenti a trovarsi in questa condizio-
ne (che per fortuna non è esclusiva): è molto più ampia la fascia d’età
della Cloud generation, e molto più articolata, come vedremo, la sua
situazione.
A lungo mi sono chiesto quanto possa giovare oggi un’educazione
all’ascolto o, quanto meno, una guida che sappia stimolare l’attenzio-
ne e la partecipazione durante la fruizione di un’opera. Da queste do-
mande, e dalla voglia di raccontare ancora la favola di Pepperland
nei giorni del suo cinquantesimo anniversario, sono nati due articoli
– pubblicati su «Chitarra acustica» e «Distorsioni»1, cui rinnovo i
miei ringraziamenti – punto di partenza per l’idea di un vero e pro-
prio saggio su SGT. PEPPER’S LONELY HEARTS CLUB BAND.
Sono passati cinquant’anni, da quel 1° giugno 1967 che salutava
l’uscita dell’album più influente nella storia della musica leggera che,
da quel giorno, leggera non è più.
Mezzo secolo di suoni, parole, critiche, racconti e leggende su un
disco che è il portavoce di un’epoca da tempo conclusa ma che in es-
so è immortalata: impressa su SGT. PEPPER, l’immagine degli anni Ses-
santa ci giunge ancora abbagliante e intatta, come la luce di stelle or-
mai spente. Dopo cinque decadi i Beatles incantano ancora, vincen-
do – anche in senso commerciale – il confronto con gran parte della
produzione musicale attuale. La recente edizione deluxe del disco
conferma tale tendenza e il revival del vinile, venerandone l’epoca

1
Cinquant’anni di Sgt. Pepper raccontati alla Cloud generation, in «Chitarra acu-
stica», anno VII, n. 6, giugno 2017, pp. 20-27; SGT. PEPPER’S LONELY HEARTS CLUB
BAND e il suono della Summer of Love, cinquant’anni dopo, in Distorsioni.net, 1
giugno 2017, ultimo accesso il 15 settembre 2017. Gli articoli qui citati hanno
fornito una base di partenza per alcuni dei capitoli di questo saggio, in partico-
lare quelli sulla ricezione e sulla fruizione.

13
ESTETICA DI SGT. PEPPER

d’oro tra nostalgia e filologia, identifica ancora oggi un supporto ben


preciso con i suoi esiti migliori: i classici del rock. Nei mille articoli,
recensioni, film e libri dedicati a SGT. PEPPER, il mito sembra ancora
prevalere sulla storia.
Molte delle pur eccellenti pagine scritte su quest’album, declinan-
do di volta in volta il suo incipit in It was 30… 40… 50 years ago to-
day, si concentrano su quello che c’era attorno; in particolare sul con-
testo culturale della Swinging London.
Lo scopo di questo libro, giovandosi anche dell’attenzione media-
tica figlia del 50° anniversario del disco, è di concentrarsi su quello
che c’è dentro. E dentro quell’album, aperta la sua magnifica coper-
tina e lasciata per un attimo da parte l’epica che lo avvolge, c’è ancora
grande musica: è di questa che intendo trattare. A differenza delle più
note monografie su SGT. PEPPER – in particolare quelle di George Mar-
tin e Allan F. Moore, più storica e personale la prima, maggiormente
musicologica la seconda – il suo contenuto musicale non verrà espo-
sto scorrendone la tracklist brano per brano, ma per tematiche e per
elementi del linguaggio, affrontati dal più piccolo al più grande.
Come si confà a un ambito di popular music, fonte primaria per
l’esame musicologico è l’ascolto, più che la lettura: gli esempi riportati
su pentagramma sono stati trascritti direttamente dall’album, per for-
nire un supporto visivo ad alcuni dei passi più significativi; ma la par-
titura non può sostituire l’ascolto, specie per tale tipo di espressione
musicale. Anche per questo, più che a numeri di battute si farà rife-
rimento al minutaggio delle tracce: anche chi non abbia grande fami-
liarità con nozioni teoriche – di cui pur ci si dovrà servire – troverà nel
suo orecchio un fedelissimo compagno nel corso dell’analisi. Questa
sarà preceduta dal racconto della genesi dell’opera e seguita da un
esame della sua eredità: l’influenza musicale, la fortuna critica, la ri-
cezione e la fruizione nei cinquant’anni trascorsi dalla sua uscita. Dal-
la Summer of Love alla Cloud generation.
SGT. PEPPER’S LONELY HEARTS CLUB BAND viene spesso citato come
apice della parabola dei Fab Four: fu veramente essa una parabola

14
PARTE PRIMA – LA GENESI

con un unico picco? È davvero questo il punto più alto dell’opera dei
Beatles? E cosa lo renderebbe tale?
Nei cinquant’anni trascorsi da quel 1° giugno 1967, in molti hanno
cercato di fornire analisi e risposte a quest’opera fondamentale. Que-
sto studio si aggiunge alla letteratura su SGT. PEPPER mirando ad arric-
chirla, più che con vecchie risposte, con nuove domande.

15
PARTE PRIMA: LA GENESI
estate 1966
_________________________________

Essere rinchiusi dentro il New York Plaza, con miglia-


ia di fan che urlano fuori, è come essere ad Alcatraz;
solo il servizio in camera è leggermente migliore.
GEORGE MARTIN

Gli anni Sessanta, per molti versi, sono un decennio a sé; una storia
nella Storia, il cui capitolo cruciale viene scritto nell’estate del 1967,
la Summer of Love. Londra ne è lo scenario centrale: Carnaby Street
che diventa la nuova El Dorado; la Swinging London e il flower power;
la droga e le minigonne; il cinema e l’arte d’avanguardia; i suoni di una
musica in cui antico e moderno, oriente e occidente si innamorano,
nascondendo – ancora per poco – il fragore del Vietnam.
Ci sono le gallerie d’arte contemporanea come l’Indica e la Robert
Fraser Gallery, e i club – il Bag O’Nails, l’UFO, il Marquee Club, lo
Speakeasy – centri di irradiazione delle nuove idee. Ci sono gli hap-
pening dell’underground e la moda psichedelica, la pop art e la op art,
l’impazienza per il futuro e la nostalgia per il passato.
Ma Albione, per una breve stagione, smette di essere un’isola: in
America, sul basso continuo della Guerra fredda e dei nuovi conflitti
– esterni e interni – si staglia l’urlo di Allen Ginsberg e dei poeti beat,
il coro delle proteste studentesche, l’eco del canto di Martin Luther
King. La stampa alternativa e i dischi contagiano il Vecchio continente
con i fermenti della nuova cultura; da Haight-Ashbury, San Francisco,
si sprigionano le vibrazioni di colori mai visti e musica mai ascoltata.
«Se volete conoscere gli anni Sessanta, ascoltate la musica dei Bea-
tles», sosteneva il compositore Aaron Copland: SGT. PEPPER’S LONELY

19
ESTETICA DI SGT. PEPPER

HEARTS CLUB BAND è la più vivida testimonianza di quell’estate. L’al-


bum, semplicemente, non racconta il 1967: esso è il 1967.
Per narrarne la genesi bisogna tornare indietro di un’estate, e par-
tire proprio da San Francisco.

in fuga da sé stessi

L’addio alle scene


«That’s it. I’m not a Beatle anymore»: sprofondato nel sedile del Bo-
eing che sorvola la West Coast nella calda notte del 29 agosto 1966,
George Harrison sembra declamare l’epitaffio della band, che ha da
poco terminato il concerto al Candlestick Park di San Francisco, da-
vanti a 25mila spettatori. Undici brani, suonati all’interno di una
gabbia metallica alta due metri, per trentatré minuti di show: alle
22:00 in punto, dopo Long Tall Sally, il consueto rituale dell’inchino
e della corsa verso l’aeroporto. Sarà la replica conclusiva di questa
rodata cerimonia1.
Fino a quella sera i Beatles hanno tenuto qualcosa come 1.400
concerti, dagli esordi al Cavern Club fino alle grandi adunate negli
stadi americani. Una carriera dal vivo compiutasi in condizioni sem-
pre più critiche, anche considerando soltanto l’equipaggiamento di
cui i palchi vengono forniti: gli organizzatori, a cui in realtà bastereb-
be la mera presenza fisica dei quattro di fronte alla folla urlante (e pa-
gante), contribuiscono alla riuscita dei concerti con qualche micro-
fono e una manciata di cavi sufficientemente funzionanti. Per il resto,
sono i musicisti a dover provvedere con i propri strumenti e ampli-
ficatori: una dotazione che oggi sarebbe a malapena sufficiente per
una serata al pub dietro l’angolo. Se si pensa che i Fab Four si esibi-
scono in venues come lo Shea Stadium o l’Hollywood Bowl senza un

1
Con l’eccezione del celebre concerto a sorpresa sul tetto della Apple, il 30
gennaio 1969.

20
PARTE PRIMA – LA GENESI

monitor da cui ascoltare le proprie voci, si può avere una vaga idea
dell’impossibilità di interpretare la propria musica in maniera pro-
fessionale. Eppure, a dispetto di tali restrizioni, fino al 1965 il gruppo
è protagonista di esibizioni memorabili, di rara energia.
Dopo RUBBER SOUL però, appare sempre più evidente la diacronia
tra l’involuzione della band sul palco e l’evoluzione, inarrestabile, in
studio. In quell’estate 1966, è semplicemente impossibile proporre
dal vivo i brani di REVOLVER, come pure gran parte dello stesso RUBBER
SOUL. I Beatles sanno che continuare le tournée in queste condizioni
non farà che peggiorarli come musicisti e sottrarre tempo prezioso al-
la loro ricerca creativa, che può svilupparsi soltanto all’interno dello
studio di registrazione. Anni dopo, Lennon ricorderà: «La musica
non si sentiva. Eravamo solo fenomeni da baraccone: i Beatles erano
lo show, e non aveva nulla a che fare con la musica»2.
Infine, ma è questo l’aspetto più insostenibile, se gli anni passati tra
folle osannanti e camere d’albergo ne avevano posto a serio rischio il
sistema nervoso, è ormai la loro stessa incolumità fisica – e il margine
di salvaguardia assicurabile – a esser messa sul piatto della bilancia.
Nelle pagine dell’epopea beatlesiana, le tappe di questo ultimo
tour assumono l’aspetto di altrettante stazioni di una Via Crucis in-
tercontinentale, delirante epilogo di quella che è diventata una prigio-
nia itinerante.
Già dalle prime date giapponesi il gruppo viene messo alla gogna,
accusato dalla destra nipponica di profanare con la propria musica
sacrilega la Budokan Hall, tempio delle arti marziali. Le misure di
sicurezza per scongiurare i disordini vedono uno spiegamento di
forze da guerra civile. Gli spettatori, al contrario, assistono ai con-
certi in religioso silenzio, dando modo ai quattro – per la prima
volta dall’inizio della Beatlemania – di ascoltare la propria presta-
zione, nuda e cruda, realizzando quanto in basso sia caduta la loro
capacità esecutiva.

2
Beatles 2000, p. 229.

21
ESTETICA DI SGT. PEPPER

Un inizio demoralizzante, senz’altro, ma nulla in confronto all’an-


gosciosa tappa nelle Filippine. Sin dal loro sbarco a Manila, i Beatles
si accorgono che il loro status di intoccabili inizia a mostrare delle vi-
stose falle, per lo meno a certe latitudini; per la prima volta, inoltre,
si vedono prelevati dalle forze dell’«ordine» e separati dal guscio pro-
tettivo formato da Brian Epstein, Mal Evans e Neil Aspinall. «Tutti
erano armati», dirà Ringo, «e tirava un’aria del tipo caldo-cattolico-
pistola-Inquisizione spagnola»3.
Giunti a quel punto, i quattro non rinuncerebbero al loro giorno
libero per nessuna ragione al mondo, ed Epstein si adopera per decli-
nare nel modo più cortese possibile l’invito a palazzo da parte del con-
troverso presidente Marcos e della first lady Imelda (invito del quale
peraltro vengono informati solo all’ultimo minuto).
Ma qualcosa evidentemente va storto nelle comunicazioni, e il te-
legramma di Epstein viene completamente ignorato: l’indomani,
John e Ringo assistono increduli dalla loro stanza d’albergo a demen-
ziali edizioni straordinarie dei telegiornali che trasmettono lo sdegno
di Imelda («Mi hanno tradita!») alternando nelle inquadrature i pic-
coli Marcos in lacrime ai piatti sconsolatamente vuoti.
Ma il passo dal tragicomico al thriller è impietosamente breve:
mentre i giornali titolano in prima pagina I Beatles snobbano la fami-
glia presidenziale!, i Fab Four e il loro entourage, ormai pronti a la-
sciare il Paese, vengono fatti oggetto di una rappresaglia in piena re-
gola. Dapprima entra in azione il fisco di Manila, che li deruba del lo-
ro ingaggio, ma ne esige comunque il pagamento delle imposte; poi
le forze armate, che ritirano la scorta destinata al gruppo e cercano fi-
no all’ultimo di impedirne la partenza; infine la folla inviperita dalla
versione che la propaganda di regime ha dato dell’accaduto, che li ac-
cerchia fino alla scaletta dell’aereo. Ad aver la peggio sono Brian Ep-
stein, Mal Evans e soprattutto l’autista Alf Bicknell, con una costola
fratturata e una vertebra lesionata4.

3
Ivi, p. 217.
4
Lewisohn 1992, pp. 211-212.

22
PARTE PRIMA – LA GENESI

Intervistato sui programmi futuri non appena atterrato a Londra,


Harrison, spesso profetico, risponde: «Ci riposeremo due settimane
prima di andare a farci picchiare dagli americani».
E gli americani – quanto meno quelli della Bible Belt – accolgono
il loro arrivo con lo stesso calore con cui Torquemada avrebbe accolto
quello dei moriscos sul banco dell’Inquisizione.
Cinque mesi prima, nella famigerata intervista concessa all’amica
Maureen Cleave dell’«Evening Standard», Lennon aveva risposto –
in maniera forse incauta ma piuttosto fondata, e senza alcun intento
blasfemo – alle domande della reporter curiosa di conoscere la sua
opinione sulla situazione attuale della religione cristiana:

Il cristianesimo finirà. Svanirà nel nulla. Non c’è bisogno di discuterne:


ho ragione e il tempo mi darà ragione. Al momento siamo più popolari
di Gesù. Non so che cosa finirà prima, se il rock’n’roll o il cristianesi-
mo. Gesù era a posto, ma i suoi discepoli erano ottusi e mediocri. È la
distorsione che essi ne hanno fatto ad averlo rovinato, secondo me5.

Se in patria le visioni di Lennon non destano scalpore – inserite tra


l’altro all’interno di un’ampia conversazione sulla vita quotidiana del
Beatle – il «Vangelo secondo John»6 viene rilanciato a fine luglio dalla
stampa statunitense per teenager7, totalmente decontestualizzato, in-
trodotto da titoli del genere We’re bigger than Jesus Christ e citato co-
me inconfutabile prova di eresia. Il 31 luglio, dai microfoni di Waqy
Radio (Birmingham, Alabama), l’illuminato dj Tommy Charles deci-
de di far rivivere i fasti di Savonarola lanciando l’appello al «Beatle

5
Cleave 1966, p. 10.
6
Dopo l’omicidio di Lennon, come macabro messaggio da parte dell’as-
sassino, viene ritrovata nella stanza d’albergo di Mark Chapman una Bib-
bia aperta sulla prima pagina del Vangelo secondo Giovanni, al cui titolo
lo squilibrato fan aveva aggiunto il cognome della sua vittima: The Gospel
According To John Lennon.
7
La prima a riprendere il vecchio articolo è la rivista «Datebook», il 29 luglio.

23
ESTETICA DI SGT. PEPPER

Ban», una messa all’indice con annesso falò delle vanità su cui brucia-
re pile di dischi, libri, gadget e altro materiale vagamente connesso al
culto beatlesiano, da raccogliersi presso le principali chiese delle città
aderenti. Oltre venti emittenti radiofoniche decidono di boicottare la
musica dei Fab Four – comprese quelle che non l’hanno mai trasmes-
sa, ma che sono comunque smaniose di partecipare alla nuova caccia
alle streghe – con i membri del Ku Klux Klan che annuiscono muo-
vendo la testa sotto il cappuccio, prima di fare la loro comparsa come
«picchetto d’onore» durante alcuni dei concerti americani.
Le minacce di morte a Lennon e compagni saranno l’orribile leit
motiv di queste ultime date, e resteranno nella memoria dell’allora un-
dicenne Mark David Chapman, che quattordici anni dopo si impe-
gnerà a portare a compimento quel folle disegno.

Una (breve) separazione


Dopo un’estate del genere, il più grande desiderio dei quattro è fuggire
da sé stessi: lo fanno per un paio di mesi, intraprendendo strade ancor
più individuali e divergenti rispetto ai precedenti periodi di vacanza.
John diventa attore per Richard Lester, il regista dei primi due film
dei Beatles8, e vola in Germania e in Spagna per indossare i panni –
e gli occhiali, che da quel momento in poi gli resteranno sul naso – del
soldato semplice Gripweed in How I Won the War. Sebbene il suo sia
un ruolo minore e i due mesi passati in un deserto della Spagna me-
ridionale non siano propriamente la vacanza ideale per un artista che
abbia bisogno di ritrovare l’ispirazione, John ha con sé la sua chitarra
acustica e un registratore: l’idea per il brano con cui i Beatles ripren-
deranno l’attività in studio riabilita agli occhi della storia quel noioso
soggiorno ad Almeria. Lennon, col suo nuovo look, torna a Londra
il 7 novembre; appena due giorni dopo farà la conoscenza di un’arti-
sta concettuale giapponese che espone alla Indica Gallery.

8
A Hard Day’s Night (1964) e Help! (1965).

24
PARTE PRIMA – LA GENESI

Paul nel frattempo – stimolato anche dai ricercati gusti della famiglia
di Jane Asher, sua compagna – si dedica alla musica classica e alle avan-
guardie, ascoltando John Cage e Luciano Berio, e coltivando amicizie
e interessi nell’ambiente culturale londinese di cui l’album a venire si
gioverà immensamente. Guarda con vorace interesse a quanto succede
nella scena underground inglese e statunitense, e forse dentro di sé am-
bisce a un ruolo di leadership non solo all’interno del gruppo, ma nel-
l’ampio milieu artistico internazionale. È una fase di iperattività per
McCartney, se per «fase» si può intendere una tendenza che durerà fi-
no alla fine dell’attività dei Beatles come gruppo. Impaziente di atten-
dere il ritorno degli altri tre, si fa affidare l’incarico – in coppia con Ge-
orge Martin – per la colonna sonora del film The Family Way di Roy
Boulting. Dopodiché parte con Mal Evans per un viaggio in Francia e
in Kenya da cui tornerà con un bizzarro nome e un’idea in testa.
George, dopo averla a lungo vagheggiata, scopre l’India, da cui in
un certo senso non farà più ritorno. Il 14 settembre parte per Bombay,
dove trascorre sei settimane – celandosi sotto il falso nome di Sam
Hems e adottando anch’egli un nuovo look – al fianco di Ravi Shan-
kar per studiare sitar e immergersi nella meditazione, nella cultura e
nella religione hindu: è da lì che inizia il suo progressivo e liberatorio
distacco dall’essere un Beatle. Una ricerca interiore e sincera, lontana
da ciò che sarà moda, che lo accompagnerà fino agli ultimi giorni.
Ringo si conferma l’uomo di famiglia del gruppo; trascorre gran
parte di quelle settimane nella campagna londinese dove sta facendo
ristrutturare una casa maggiormente accogliente per il nuovo arrivato
Zak. Verso le fine dell’estate l’intera famiglia parte per la Spagna per
stare vicino a John. Dei quattro è apparentemente colui che accoglie
con più relax la nuova situazione e in quei tre mesi di pausa – per sua
stessa ammissione – semplicemente si diverte, e ingrassa.
Non bisogna dimenticare che in un’epoca in cui internet esiste solo
nell’immaginazione dei più lungimiranti appassionati di informatica,
e i media tradizionali non hanno ancora la forza trainante necessaria
a veicolare la musica su scala mondiale, i guadagni dei musicisti – es-
sendo risibili le royalties sulle vendite dei dischi – si basano in gran

25
ESTETICA DI SGT. PEPPER

parte sugli incassi derivanti dall’attività live. Va da sé che nella logica


del 1966 una band che smette di esibirsi dal vivo, semplicemente non
è più una band. Punto.
Perciò le voci di scioglimento iniziano a correre sui giornali e i Bea-
tles non si preoccupano più di tanto di smentirle. Anche quando tor-
neranno ad Abbey Road per lavorare sul nuovo album, la stampa con-
tinuerà ad attaccarli e – se non un divorzio – inizierà a vaticinare il
prosciugarsi della loro verve creativa, a causa del quale – sostengono
– essi sarebbero rinchiusi da mesi in quello studio, incapaci di tirarne
fuori nuova musica. La loro diagnosi si rivelerà leggermente errata.
Si aggiunga che ufficialmente in quell’agosto del 1966 i Beatles non
sono vincolati alla loro etichetta: il contratto con la Emi, scaduto da
alcuni mesi, è ancora in attesa di rinnovo, e mentre i Fab Four si go-
dono le loro rispettive vacanze, Brian Epstein resta a Londra a rine-
goziare gli accordi con Sir Joseph Lockwood e i vertici della casa di-
scografica9, che ha appena pubblicato REVOLVER.
Lo stress e la frustrazione di un tour vissuto in un’altalena di mi-
nacce, vessazioni ed esecuzioni umilianti per quattro ragazzi che sono
pur sempre dei musicisti, la voglia di staccare la spina dopo quattro
anni di sovraesposizione e di viaggi attorno al pianeta, la mancanza di
obblighi contrattuali e la possibilità di godersi l’eccellente accoglienza
di REVOLVER: nulla di tutto ciò impone la benché minima fretta di ri-
mettersi al lavoro. Nulla, tranne la voglia di potersi finalmente dedi-
care in maniera totale all’attività in studio – di cui RUBBER SOUL e RE-
VOLVER hanno fatto soltanto pregustare le possibilità – e un’ispirazio-
ne creativa che sta per raggiungere un climax epocale.

la musica che gira intorno

È proprio in quei mesi che il termine rock, col quale oggi ci rivolgiamo
indistintamente a molta della popular music degli anni Sessanta e Set-

9
Geller 2000, p. 130.

26
PARTE PRIMA – LA GENESI

tanta, comincia a essere utilizzato con valore specificativo. La nuova


rotta tracciata fra 1965 e 1966 ha bisogno di affrancarsi anche nomi-
nalmente dall’indifferenziato contenitore pop, abbreviazione che ini-
zia a essere rivestita di connotazioni commerciali: una musica main-
stream, disimpegnata, rea di andare incontro ai gusti delle masse.
Gli artisti che si fanno paladini di questo nuovo corso – che in de-
finitiva altro non vuole che elevare la musica da prodotto di mercato
a pura forma d’arte – vengono dapprima radunati sotto l’egida del-
l’underground per poi diventare, definitivamente, rock.
E il rock, naturalmente, si farà portavoce di tutte le istanze rivolu-
zionarie espresse dalla cosiddetta «controcultura», e sarà colonna so-
nora dei baby boomers diventati hippie, della loro ribellione e del loro
potere d’acquisto. Arte concepita da giovani per rappresentare gli
ideali dei giovani, il rock esige un’estetica dell’autenticità, un deside-
rio di innovazione e di maturità che si esprimerà anche nel look.
Quando i fan dei Beatles, abituati alla loro immagine di imberbi ra-
gazzi in bianco e nero, completo e caschetto mop-top, ritroveranno
sulla copertina di SGT. PEPPER quattro uomini baffuti in abiti psiche-
delici, comprenderanno ancor prima dell’ascolto che quei musicisti –
e quella musica – sono diventati adulti.

You tell me that you’ve heard every sound there is


Bob Dylan aveva conosciuto i Beatles due anni prima, quando era an-
dato a trovarli al Delmonico Hotel di New York durante il loro tour
americano del 1964; un incontro rimasto nella storia per l’iniziazione
di John, Paul, George e Ringo alla marijuana, gentilmente offerta da
Zimmerman. Le influenze più strettamente musicali derivanti da
quell’incontro saranno reciproche: se Dylan avvierà un processo di
elettrificazione che lo porterà a HIGHWAY 61 REVISITED e al concerto
di Newport, i Beatles a loro volta impareranno da lui più d’una lezio-
ne in termini di cura dei testi, che da quel momento in poi comince-
ranno a evolvere gradualmente fino a raggiungere il surrealismo e la
raffinatezza dei migliori episodi «pepperiani». Dopo l’uscita di SGT.

27
ESTETICA DI SGT. PEPPER

PEPPER, il commento di Bob ai ragazzi di Liverpool sarà: «Ok, ho ca-


pito, non volete più essere carini».
Nella seconda metà di quell’anno, una sontuosa messe di nuovi Lp
dà una prima massiccia spallata alla tradizionale concezione dell’al-
bum come mera raccolta antologica di canzoni, legando i brani in tra-
me sempre più serrate e coerenti che rendono gli album stessi un’ope-
ra conclusa, in cui il totale è proverbialmente maggiore della somma
delle parti.
Proprio Bob Dylan è incaricato di aprirne le fila con BLONDE ON
BLONDE, uscito il 16 maggio: è il primo doppio Lp della storia della
popular music, che finalmente viene arricchita da versi di assoluto li-
vello poetico, nella forma quanto nella sostanza. Il folk di protesta di-
venta rock d’autore, e le liriche si fanno visionarie, colte e metafisiche,
iscrivendo tutto il lavoro in un’unica cornice.
È un disco semplicemente meraviglioso, e per McCartney – il più
attento dei quattro a quanto musicalmente sta accadendo attorno a
loro – nessuno in futuro avrebbe potuto incidere «un disco di tale in-
tensità artistica».
Un altro doppio album viene pubblicato dopo poco più di un me-
se. Frank Zappa è protagonista di un esordio sconvolgente con le sue
Mothers of Invention: FREAK OUT! ha sul rock lo stesso effetto che il
dadaismo aveva avuto sull’arte. Se Dylan cita fra i suoi riferimenti let-
terari Shakespeare, Rimbaud e Platone, Frank introduce al pubblico
del rock Edgar Varèse e Igor Stravinskij. L’opera prima di Zappa ob-
bliga chi ne fruisce a modificare la propria prospettiva d’ascolto e ac-
quisisce coerenza dalla sua stessa incoerenza e dalla pluralità di stili
adottati: condizione questa che lo accomunerà in parte a SGT. PEPPER.
Ancora una volta è Paul quello che maggiormente resta impressio-
nato dal disco. Durante le registrazioni per il nuovo album, esclamerà
con perentoria dichiarazione d’intenti: «Questo sarà il nostro FREAK
OUT!». Ironia della sorte, proprio dal geniale compositore di Baltimo-
ra – che pure dichiarerà di apprezzarlo – arriverà la prima reazione
iconoclastica verso SGT. PEPPER, la cui copertina verrà parodiata dal
suo Lp successivo, WE’RE ONLY IN IT FOR THE MONEY (1968).

28
PARTE PRIMA – LA GENESI

Il verbo di Dylan, combinato col sound dei Beatles, è in quegli anni


la base di partenza per lo stile di un’altra band statunitense che sta se-
guendo alcuni sentieri paralleli al quartetto di Liverpool. Pubblicato
dalla Columbia – stessa etichetta di Zimmerman – il 18 luglio, FIFTH
DIMENSION, terzo album dei Byrds, è il primo a non contenere cover
del menestrello di Duluth e a orientarsi su altri due indirizzi che stanno
prendendo piede in quei mesi: il rock psichedelico e il raga-rock. Que-
st’ultima tendenza, muovendo le mosse dalla rivelazione di Norwegian
Wood e del suo sitar, si legherà alla prima attraverso analogie stilistiche
più o meno profonde – la qualità meditativa, il timbro, una sorta di an-
nullamento dello scorrere del tempo – contribuendo all’elevazione
spirituale del rock con l’innesto di influenze e strumenti indiani. Ritro-
veremo Roger McGuinn e David Crosby in altri punti del racconto.
Nell’estrema varietà delle scelte stilistiche da essi veicolate, ciò che
emerge è la progressiva propensione verso il 33 giri nei confronti del
singolo da parte della nuova leva di artisti: «Il formato di single, 45 gi-
ri, rispecchiava la passione per la velocità e per il controllo della tec-
nologia (contrariamente alla maggiore lunghezza dell’ellepì e a come
esso si impone in un ambiente)»10.
Il nuovo orientamento è condiviso su entrambe le sponde del-
l’Atlantico, e all’inizio di quell’anno anche i Rolling Stones entrano in
studio per sfornare a metà aprile il loro album più ambizioso fino a
quel punto: AFTERMATH. Seguendo l’esempio di Lennon/McCartney,
pionieri nella nuova concezione di interpreti di musica pop che sono
al contempo autori di sé stessi, Jagger e Richards approdano per la
prima volta alla realizzazione di un album privo di cover. Brian Jones,
nel suo ruolo di «terzo uomo», appare molto più vicino a George
Harrison, di cui anch’egli segue le impronte verso est. Il raga-rock
sboccia anche fra questi solchi, elargendo a brani come Paint It Black
e Mother’s Little Helper gran parte del loro fascino, mentre il dulcimer
adorna l’elisabettiana Lady Jane: oltre a guardarsi attorno nello spa-

10
Middleton 1990, p. 228.

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ESTETICA DI SGT. PEPPER

zio, i musicisti inglesi iniziano a esplorare il loro passato, alla ricerca


di un’identità britannica per il loro rock.
A essere espanso è anche il tempo, la durata della canzone pop, la
cui forma inizia a dissolversi e ad assumere velleità sinfoniche. Come
in una sorta di esame propedeutico prima di intraprendere il percorso
che il porterà all’opera rock, A QUICK ONE degli Who presenta una
«quasi title-track» (A Quick One While He’s Away) in forma di col-
lage musicale che sfonda il muro dei 9 minuti per raccontare in modo
originale una banale storia di infedeltà coniugale.
Per inciso, in Italia, in quello stesso 1966 si va ancora a 45 giri: il
singolo resta la modalità prediletta per fruire della rassicurante forma
canzone, e le classifiche annuali vedono in testa Strangers In The
Night, La fisarmonica, Riderà: una capacità di stare al passo con i tem-
pi pari soltanto a quella di Hiroo Onoda, il soldato giapponese che
per trent’anni continuò a combattere nella giungla, ignaro della fine
della Seconda guerra mondiale.
Questa, per sommi capi, la panoramica dei migliori frutti della pro-
duzione discografica nei mesi che precedono l’inizio della lavorazione
per SGT. PEPPER’S LONELY HEARTS CLUB BAND. Per completarla, man-
cano ancora i due dischi più significativi dell’anno, almeno ai fini del
nostro racconto.

Revolver
Il settimo album dei Beatles viene pubblicato il 5 agosto, nel bel mez-
zo della crociata contro la «blasfemia» di John Lennon, che non im-
pedirà comunque al disco di volare, come d’abitudine, in cima alle
classifiche.
Molto spesso si analizza REVOLVER insistendo fin troppo sulla sua
cruciale collocazione cronologica, che lo rende spartiacque tra il pri-
mo e il secondo periodo della carriera beatlesiana, cardine decisivo
fra RUBBER SOUL e SGT. PEPPER. È una visione un po’ sfocata, che non
riesce a inquadrare appieno tutta la sua complessità e il suo immenso
valore, che per molti critici, ascoltatori e musicisti – a livello di pura

30
PARTE PRIMA – LA GENESI

sostanza musicale – non sarebbe per nulla inferiore al suo illustre suc-
cessore: è all’indomani della sua uscita che Sam Andrew, allora chi-
tarrista di Janis Joplin con i Big Brother and the Holding Company,
sancisce che i Beatles sono definitivamente «saliti a bordo», unendosi
alla nuova leva del rock psichedelico11. La lavorazione di questo disco
era iniziata il 6 aprile, a soli quattro mesi dalla pubblicazione del pre-
cedente Lp, ma con un pezzo che è lontano anni luce da tutto ciò che
i Beatles, e la popular music in assoluto, avessero prodotto fino a quel
momento: Tomorrow Never Knows, il primo incredibile ritratto sono-
ro dell’esperienza psichedelica:

Lennon assunse Lsd per la terza volta nel gennaio del 1966. Evidente-
mente intenzionato a compiere un importante viaggio di scoperta di
sé, seguì le istruzioni fornite in The Psychedelic Experience, leggendone
le parafrasi del Libro tibetano dei morti a un registratore e riascoltan-
dole mentre la droga faceva effetto. Il risultato fu spettacolare, e Len-
non si affrettò a trasformarlo in canzone, prendendo molte delle frasi
del testo direttamente dal libro di Leary e Alpert; prima di tutto l’esta-
tica invocazione dell’ipotetica realtà oltre le apparenze: «the Void», il
Vuoto. Col titolo The Void la canzone fu la prima a essere registrata per
REVOLVER. Col titolo definitivo, Tomorrow Never Knows, presentava
l’Lsd e la rivoluzione psichedelica di Leary ai giovani del mondo occi-
dentale, diventando uno dei dischi più socialmente influenti mai rea-
lizzati dai Beatles12.

Ma non è soltanto questo a farne il più autorevole precedente dell’este-


tica di SGT. PEPPER: la produzione del brano, che in termini di innova-
zione «sta alla musica pop come la Sinfonia fantastica di Berlioz sta alla

11
Reising-Le Blanc 2008, p. 105.
12
McDonald 1994, p. 186. In realtà il titolo provvisorio durante la prima
registrazione è Mark I.

31
ESTETICA DI SGT. PEPPER

musica orchestrale dell’Ottocento»13 stabilisce una ricetta che contiene


tutte le nuove pratiche di utilizzo dello studio di registrazione come
strumento musicale che saranno sviscerate e sviluppate a distanza di
qualche mese in SGT. PEPPER. L’invenzione dell’Adt e l’utilizzo del Le-
slie14; le modalità di registrazione della batteria e della voce stessa; i ta-
pe-loop direttamente derivati dalla musica concreta e dall’Avanguardia
– l’ispirazione giunge a McCartney dall’ascolto di brani quali Gesang
der Jünglinge, di Karlheinz Stockhausen, e Thema (Omaggio a Joyce) di
Luciano Berio – e le tracce registrate al contrario; il finale «sdramma-
tizzante», tipico del modo in cui i Beatles manifestano il loro non pren-
dersi troppo sul serio e che si ripeterà in Within You Without You.
Basterebbe quest’unica traccia per porre REVOLVER più avanti di tut-
ta la suddetta concorrenza, quanto a sperimentazione sonora. C’era, e
c’è, molto di più: Love You To gioca anch’essa d’anticipo, intensifican-
do l’ascendente indiano – solo accennato dal sitar di Norwegian Wood
– così centrale in SGT. PEPPER; gli arrangiamenti di Eleanor Rigby, For
No One, Yellow Submarine e Got To Get You Into My Life danno al-
l’album una ricchezza stilistica e timbrica paragonabile a quella del suo
successore, e il contributo di ognuno dei quattro Beatles è assai più
equilibrato, in particolare per quanto riguarda l’apporto di Harrison,
molto più presente di quanto non sarà nel progetto successivo.
Come accadrà per SGT. PEPPER, sebbene con minor risonanza, l’al-
bum verrà ritenuto dai più – quanto meno, per i successivi dieci mesi
– la vetta assoluta e l’irripetibile capolavoro dei Beatles. E come acca-
drà per SGT. PEPPER, dal versante opposto, non mancherà chi definirà
il disco «un mucchio di spazzatura». È questo il commento che do-

13
Ivi, p. 188.
14
Automatic Double Tracking: sistema che permette di creare una doppia re-
gistrazione, a partire da un’unica esecuzione, della voce o di uno strumento
musicale, inventato proprio dai tecnici dei Beatles – Ken Townsend in parti-
colare – nel 1966. Il Leslie ha invece la caratteristica di diffondere il suono at-
traverso altoparlanti rotanti ed è alla base degli effetti chorus e tremolo.

32
PARTE PRIMA – LA GENESI

mina la recensione di un singolare critico musicale, il leader dei Kinks


Ray Davies, sulla pagine del «Disc and Music Echo»; il punto da sot-
tolineare in questa impietosa analisi è che l’album viene analizzato
canzone per canzone, finendo per decretare che i singoli brani inclusi
in REVOLVER non raggiungono la qualità di quelli su RUBBER SOUL: an-
che questo tipo di letture si ripeteranno a partire dal primo giugno
dell’anno successivo. In un’intervista del 1974 John Lennon tornerà
su quel periodo, con parole che anticipano i temi della fortuna critica
e della contestualizzazione storico-artistica di questi Lp all’interno
della produzione dei Beatles, prima ancora che nel quadro generale
della popular music di quegli anni:

Come sempre, la gente segue le mode, e ora la moda è pensare che RE-
VOLVER rappresentasse l’innovazione. E prima ancora era pensare che
RUBBER SOUL fosse l’innovazione, e poi l’altra moda fu SGT. PEPPER. Ma
la cosa avvenne gradualmente. Sapevamo che c’era una formula – sta-
va progredendo. Quello era un dato certo, che eravamo in viaggio –
non fisicamente, intendo dire «in viaggio» nello studio – e il tempo era
limpido15.

Registrato dal 6 aprile al 21 giugno, REVOLVER è quasi completato


quando Keith Moon degli Who rapisce Paul McCartney in un pub
londinese portandolo nella sua camera d’albergo per fargli ascoltare
un disco appena uscito, che turberà Paul a tal punto da fargli ritenere
il loro ultimo album una risposta non sufficiente a quella musica che
arriva dall’altra parte dell’Atlantico.

Verso il concept album


I limiti, anche quelli di forma e durata – i tre minuti canonici dei singoli,
ad esempio – vengono quindi abbattuti uno dopo l’altro; la popular

15
Beatles 2000, p. 212.

33
ESTETICA DI SGT. PEPPER

music cresce, in tutti i sensi, e si apre a contatti e suggestioni altre, dalla


musica classica a quella etnica, dal jazz all’opera, fino alle avanguardie
musicali e artistiche. E lo fa senza perdere nulla della sua vendibilità:
a cavallo fra anni Sessanta e Settanta i dischi più venduti possono – an-
zi, devono – essere anche quelli più sperimentali e innovativi.
Nonostante il mercato dei singoli non accenni affatto al declino, è
ormai chiaro che il campo su cui gli artisti dovranno misurarsi è quello
del 33 giri, l’album, l’unico medium in grado di veicolare un idioma
espressivo che ha bisogno di dipanarsi su un’estensione di ampio re-
spiro, e su un supporto capace di fornire anche altre informazioni: a
cominciare dalle copertine, per la cui ideazione vengono ingaggiati i
migliori artisti visivi in circolazione, e su cui proprio a partire da SGT.
PEPPER verranno inseriti i testi delle canzoni. E per album non si può
più intendere soltanto una mera raccolta antologica dei brani scritti e
registrati in un determinato lasso di tempo; i precedenti stabiliti so-
prattutto dagli Lp di Frank Zappa e degli Who – che nel 1969 sposte-
ranno ulteriormente in alto l’asticella con TOMMY – spingeranno SGT.
PEPPER verso una nuova dimensione, che avrà poi il suo culmine negli
anni Settanta con il progressive, il genere che maggiormente legherà il
suo destino al cosiddetto concept album. Il termine definisce – vaga-
mente, come vedremo più avanti – un’opera in cui tutti i brani sono in-
timamente legati da un filo conduttore, vuoi perché i testi sviluppano
un’unica storia attraverso le varie canzoni, vuoi per motivi ricorrenti e
altri legami musicali con cui il rock cercherà di avvicinarsi alla forma
sinfonica; oppure per un tema, un sentimento, un’atmosfera da cui
l’opera finale viene permeata. Saranno celebri, negli anni del prog, i
concept formati da un unico lunghissimo brano, dalla struttura para-
gonabile a una moderna suite: THICK AS A BRICK (1972) e A PASSION
PLAY (1973) dei Jethro Tull sono gli esempi quintessenziali del settore.
SGT. PEPPER viene sovente indicato come prototipo del concept al-
bum benché esso in realtà non presenti l’esplicito collegamento te-
matico che solitamente caratterizza questo tipo di produzioni. Tut-
tavia si avrà modo di apprezzare la sua unitarietà per così dire intrin-
seca, conferitagli soprattutto dal sound generale. In molti,

34
PARTE PRIMA – LA GENESI

successivamente, hanno spostato la linea cronologica indietro di un


decennio, per far coincidere la nascita del termine con l’Lp di Frank
Sinatra IN THE WEE SMALL HOURS (1954) – fondato sul tema, non pro-
prio originale, dell’amore perduto – o addirittura risalendo a DUST
BOWL BALLADS di Woody Guthrie (1940), che in effetti ha un colle-
gamento narrativo molto più stretto, essendo composto da testi am-
bientati durante gli anni delle grandi tempeste di sabbia, le dust
bowls appunto, dal 1931 al 1939.
Tuttavia, quello che manca a questi primi esempi di concept rispetto
agli album prodotti a partire dal 1966 è la reale funzione semantica del-
la musica. È in questo senso che SGT. PEPPER – e ancor più FREAK OUT!
– vanno considerati i veri padri della grande famiglia del concept al-
bum, pur sfuggendo alla sua classificazione: la continuità e la coerenza
dell’opera non sono assicurate soltanto dai testi, ma anche da elementi
interni alla musica stessa (la struttura, le forme, i motivi ricorrenti, il
sound). Musica che, nel suo rapporto con la parola, non funge da sem-
plice accompagnamento: essa è piuttosto un significante che si fa por-
tatore di uno stesso significato, ma con un linguaggio specifico. È un
po’ come un film in cui la componente musicale non sia extradiegetica
– la soundtrack – ma intradiegetica, interamente proveniente dallo
stesso mondo in cui si svolgono i dialoghi, si susseguono le immagini,
si compiono le azioni.
Non sono solo i Beatles quindi a essere diventati adulti, lo è anche
la musica underground, ormai ribattezzata rock, che sente il bisogno
– come qualunque forma d’arte matura – di riflettere il mutamento
sociale che sta avvenendo nella fase centrale del decennio, e di ispi-
rarlo a sua volta. Per un seppur breve periodo, molte delle barriere
imbastite da tempo immemore dalle diverse fazioni dell’arte dei sette
suoni vengono reciprocamente aperte all’accesso – in entrambi i sen-
si – dei rispettivi influssi. Il rock festeggia il suo ingresso nell’età ma-
tura brindando con i menestrelli del folk impegnato, così come con
gli esponenti della musica colta; cerca la complicità del jazz, che a sua
volta, personificato nel suo guru Miles Davis, si rivolge all’elettricità
propria del rock per dar voce alle sue nuove istanze espressive; l’im-

35
ESTETICA DI SGT. PEPPER

provvisazione, propria del linguaggio jazzistico, inizia a intromettersi


all’interno dei rigidi schemi pop, anche a rischio di sfociare – nelle
mani e nelle menti «sbagliate» – in mera autoindulgenza. In America,
i Velvet Underground oltrepassano la soglia per dar luogo a una col-
laborazione transartistica con Andy Warhol. George Harrison, da
parte sua, sarà il testimonial d’eccellenza per l’approdo in Occidente
della musica e della cultura indiana, diventando l’inconsapevole pa-
drino della world music.
Benché molte delle commistioni tentate dal 1966 in poi si rivele-
ranno col tempo deboli e forzati esercizi di fusione – e proprio il ter-
mine fusion etichetterà molte delle altrimenti indefinibili esperienze
del jazz-rock nel decennio successivo – esse saranno nondimeno sin-
tomo del positivo atteggiamento progressista che, con alti e bassi, pro-
seguirà fino all’avvento del punk.
C’è, infine, un termine che della seconda metà dei Sixties definirà
non soltanto la produzione musicale, ma tutto un modo di percepire
la realtà: psichedelia. La dietilammide dell’acido lisergico, Lsd, è agli
occhi degli hippie – e non solo – una via altrettanto degna della me-
ditazione per raggiungere la trascendenza, verso «nuovi reami di co-
scienza» per usare le parole di Timothy Leary che in quegli anni ne è
il profeta. Il proibizionismo non ha mai funzionato, meno che mai in
musica, ragion per cui nonostante l’Lsd venga dichiarato illegale in
Europa e negli Usa fra 1966 e 1967 il suo consumo non decresce, ed
esso assurge a influenza primaria – al pari di qualsiasi altra fonte let-
teraria, artistica, musicale, tecnica – per la creatività musicale. Nono-
stante Lennon smentisca la versione che vuole Lucy In The Sky With
Diamonds allusione letterale all’Lsd, è chiaro che sia il brano che l’in-
tero album da cui è tratto – come già REVOLVER – parlino attraverso
la percezione alterata dall’incontro con l’acido. Grazie a esso, i Byrds
riescono a volare Eight Miles High, e lo studio di registrazione con la
sua tecnologia batte gli strumenti tradizionali nel rendere tangibile la
percezione dei nuovi suoni.
Mentre i Beatles sono nel pieno della lavorazione di SGT. PEPPER
nello Studio 2 di Abbey Road, in quello accanto un gruppo emergen-

36
PARTE PRIMA – LA GENESI

te, che sarà tra gli alfieri della psichedelia e poi del prog, sta plasman-
do la sua opera prima: THE PIPER AT THE GATES OF DAWN.
L’impatto dell’acido sulla cultura dell’epoca è talmente forte da
modificare la percezione anche di chi non ne fa uso. Purtroppo, sarà
presto evidente come il percorso verso la trascendenza «via Lsd» sia
molto più rischioso dell’elevazione spirituale cui era stato paragonato.
Per gli stessi artisti che lo avevano accolto come artificiale musa crea-
tiva il prezzo del biglietto sarà altissimo, e molti dei più brillanti «cra-
zy diamonds» smetteranno, troppo presto, di risplendere.

la lunga sfida con brian wilson

In quello stesso 16 maggio in cui veniva pubblicato BLONDE ON BLON-


DE era uscito un altro 33 giri fondamentale per la storia della musica
e per il destino di SGT. PEPPER.
La letteratura cavalleresca sugli eroi del rock classico propone da
cinquant’anni un mitico scontro tra Beatles e Rolling Stones, dipinti
non solo come nemici ma come rappresentanti di due opposte este-
tiche musicali: una visione leggendaria che non viene scalfita dalle evi-
denti contraddizioni storiche. Innanzitutto giova ancora oggi ricor-
dare che fra i due gruppi – nonostante l’ovvia rivalità che d’altra parte
sorgeva anche all’interno delle stesse band – correvano rapporti estre-
mamente amichevoli: Jagger e Richards fra l’altro compaiono in più
d’una occasione ad Abbey Road, durante gli happening (oggi si di-
rebbe open days) che celebrano le registrazioni di A Day In The Life
o la messa in onda di All You Need Is Love. Soprattutto bisogna ricor-
dare che proprio Lennon e McCartney avevano regalato agli Stones
il loro primo hit, I Wanna Be Your Man.
Cosa ancor più importante da demistificare, non ce ne vogliano
Jagger & co., è che dal punto di vista compositivo e dell’attività disco-
grafica il confronto, eccetto che in rare occasioni, non si è mai posto;
non nel periodo precedente l’uscita di SGT. PEPPER comunque, nono-
stante gli ottimi risultati di AFTERMATH.

37
ESTETICA DI SGT. PEPPER

Piuttosto, sono i Beach Boys i veri avversari di una partita a scacchi


lunga due anni, giocata a colpi di dischi memorabili.

Matto in due mosse


L’apertura si era avuta con RUBBER SOUL, a fine 1965. Brian Wilson lo
ascolta per la prima volta in compagnia di sua moglie e alcuni amici,
sotto l’effetto della marijuana – in quei giorni è raro trovarlo in con-
dizioni diverse – e ne viene totalmente sconvolto:

Ascoltavo RUBBER SOUL, e dicevo: «Come è possibile che abbiano rea-


lizzato un album in cui le canzoni suonano come se provenissero tutte
dallo stesso luogo?». Non potevo capacitarmene, mi lasciava a bocca
aperta. E dissi: «Dannazione, devo farcela anch’io»16.

Dopo quel primo ascolto, Brian si siede al pianoforte e inizia a com-


porre God Only Knows, dando inizio alla sua più grandiosa risposta
alla band di Liverpool: PET SOUNDS.
Quando l’album verrà ristampato in Cd, il booklet interno testimo-
nierà per l’ennesima volta l’estrema ammirazione di McCartney per
quel brano, la sua canzone preferita di tutti i tempi, una delle poche
a portarlo alle lacrime ogni volta che l’ascolta.
Così come i Beatles erano passati in soli tre anni da Please Please
Me all’avveniristica Tomorrow Never Knows, Brian Wilson conduce
i Beach Boys in territori molto lontani dal loro primitivo e gioviale
sound à la Barbara Ann. La musica di PET SOUNDS brilla per maturità,
requisito ormai essenziale perché il rock si faccia portavoce della vi-
brazione culturale di quegli anni. L’uso di strumenti non convenzio-
nali per il pop (clavicembali, flauti, Theremin); gli effetti sonori (i suo-
ni di animali, da cui il titolo); l’ensemble allargato (durante le registra-

16
Il racconto di Wilson è tratto dal documentario The Beach Boys and
Satan (2008), diretto da Cristopher Dreher.

38
PARTE PRIMA – LA GENESI

zioni dell’album, Wilson si servirà di sezioni orchestrali più o meno


ampie e di rinomati sessionmen come il chitarrista jazz Barney Kes-
sel); lo sfruttamento espressivo della tecnologia degli studios (le for-
me di eco e riverbero, le modalità di stratificazione delle tracce)17; la
spazialità del suono e la rilevanza del basso elettrico. Sono solo alcuni
degli stimoli a cui i Beatles e George Martin saranno particolarmente
ricettivi nei mesi successivi.
L’album sembra portare in vantaggio i Beach Boys, che però tre
mesi dopo subiscono lo spiazzante contrattacco di REVOLVER, la pri-
ma avvisaglia di uno scacco in due mosse. Wilson, a differenza di Len-
non e McCartney non può giovarsi di un grande partner nella scrit-
tura; senza contare che i Beatles, caso senza precedenti, possono con-
tare su un terzo grandissimo autore che proprio nei due ultimi Lp ha
iniziato a mostrare le sue potenzialità. Nel tentativo di recuperare po-
sizioni, il leader dei Beach Boys, come già aveva fatto per PET SOUNDS,
lascia al resto del gruppo l’incombenza dell’attività live e si immerge
nella lavorazione solitaria per SMILE, l’album che dovrebbe sancire il
suo trionfo, ma che al contrario – in seguito alla sua cancellazione nel
1967 – segnerà l’inizio di un malessere mentale dal quale egli non si
riavrà mai completamente.
Ciononostante, il 10 ottobre, l’uscita del 45 giri Good Vibrations pa-
re capovolgere nuovamente le sorti dell’incontro. L’innovativo brano
di Wilson, costato oltre 50mila dollari e prodotto in circa sei mesi in
quattro diversi studi di registrazione – un’elaborazione che dimostra
come la moderna produzione discografica possa essere tecnicamente
più simile al montaggio di un film che alla tradizionale composizione
musicale – vende oltre 240mila copie in soli cinque giorni, mostrando
al mondo intero, a ai Beatles in particolare, un nuovo procedimento
tecnico-artistico nell’assemblaggio del materiale musicale in studio di
registrazione, e ampliando la gamma dei suoni con l’aggiunta dell’elet-

17
Già su PET SOUNDS i Beach Boys possono utilizzare registratori a otto
piste, il doppio rispetto allo standard fornito ai Beatles.

39
ESTETICA DI SGT. PEPPER

tronica (si ascolti il Tannerin, strumento simile al Theremin inaugurato


proprio da questo pezzo). In breve, è il più grande singolo mai pubbli-
cato fino a quel momento: un primato che tuttavia resisterà per soli
quattro mesi.
Nel frattempo i Beatles erano stati davvero colpiti da PET SOUNDS.
Il nuovo album avrebbe dovuto eguagliarlo, anzi superarlo.
La sensazione è che il leader dei Beach Boys abbia già esaurito le
sue mosse migliori e sia letteralmente sull’orlo dell’esaurimento ner-
voso, mentre ad Abbey Road hanno già calcolato la combinazione
vincente. Lo scacco matto, imparabile, arriverà il 1° giugno del 1967,
fra lo stupore generale. Esso viene anticipato da un altro inaudito col-
po da maestro: il 13 febbraio, mentre le cassandre dell’establishment
musicale cominciano a pronosticare l’imminente fine dei Fab Four
che «da ben sei mesi» non rilasciano materiali inediti, viene pubbli-
cato un incredibile 45 giri dal doppio lato A.
Quando ascolta per la prima volta Strawberry Fields Forever, Brian
Wilson crolla in lacrime, esclamando disperato «They got there first!».
Era proprio così: i Beatles c’erano arrivati prima.

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