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ristampa anno
Introduzione 11
Bibliografia 271
Sitografia 279
Appendice: discografia pepperiana 281
Alla mia famiglia,
che suo malgrado
ha imparato questo disco a memoria.
Con riconoscenza.
introduzione
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Questo libro ha avuto sin dall’inizio due obiettivi: parlare del «più
leggendario disco di tutti i tempi» rinunciando alla visione mitologica
che da sempre lo accompagna e resistere all’ovvia tentazione di inti-
tolarsi It Was Fifty Years Ago Today. Due imprese egualmente ardi-
mentose, considerando l’amore che chi scrive nutre da sempre per i
Beatles e che avrebbe potuto intralciare un’analisi obiettiva di quello
che viene tradizionalmente indicato come il loro capolavoro.
Ma la distanza che ci separa dalla Summer of Love e dalla nascita
del suo figliol prodigo ci aiuta a guardare da lontano al contesto in cui
quest’opera è venuta alla luce, permettendo di rileggerne criticamente
il contenuto artistico – spesso eclissato dalla sua stessa aura – e gli ele-
menti che lo compongono. Essa ci aiuta soprattutto a collocare l’al-
bum all’interno della produzione dei Beatles e a individuarne – indi-
pendentemente dal suo presunto status di «opera migliore» – le inno-
vazioni da un lato e le continuità dall’altro.
Incontrai la musica dei Beatles intorno al 1989, leggendone, prima
ancora di ascoltarla, sui libri di testo di musica e di inglese alle scuole
medie. Erano passati esattamente vent’anni dal loro scioglimento, ma
era piuttosto frequente vederli in tv da solisti (assiduo spettatore di
qualsiasi trasmissione vagamente musicale, ricordavo la presenza di
Paul McCartney e di George Harrison, in due distinte serate, al Festi-
val di Sanremo dell’anno prima). Inoltre, l’omicidio di John Lennon
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ESTETICA DI SGT. PEPPER
rientrava ancora nel dominio della cronaca, più che della storia. I nomi
che leggevo erano quindi familiari e già a undici anni mi meravigliava
che simili celebrità avessero fatto parte dello stesso gruppo.
Quand’ero piccolo m’innamoravo di tutto, ma la passione per quella
musica proseguì, accrescendosi, negli anni a venire. Con quelli che og-
gi sembrano media antiquati, iniziai ad ascoltarli, a suonare i loro brani
e a informarmi sulla loro storia; tuttavia, per almeno due anni nessuna
di quelle caserecce antologie su nastro, precarie rappresentanti della
loro discografia, fornì il benché minimo accenno a SGT. PEPPER’S LO-
NELY HEARTS CLUB BAND. L’unica inconsapevole introduzione all’opera
era stata la messa in onda del film animato Yellow Submarine, gradito
regalo di compleanno della Rai nel bel mezzo dei match di Italia ’90.
Eppure, man mano che «approfondivo le letture», se così si può dire
riferendosi a riviste mainstream e dozzinali allegati, quel titolo così in-
trigante assumeva sempre più rilevanza, accompagnato da termini
quali capolavoro, leggendario, rivoluzione, simbolo, e tutta la gamma
dei loro sinonimi. Quando finalmente ne trovai alcuni estratti nella co-
siddetta «Antologia blu» (THE BEATLES 1967-70) realizzai che quelle
recensioni non erano poi così iperboliche, e ascoltare finalmente l’al-
bum per intero fu una di quelle rivelazioni mistiche che a volte si pro-
vano davanti alle più grandi opere d’arte di ogni tempo.
In breve, chi scrive – benché cronologicamente un po’ più vicino
agli eventi raccontati – si è trovato probabilmente nella stessa situa-
zione dei giovani ascoltatori di oggi, adolescenti che non hanno vis-
suto quella stagione in prima persona e che nella maggior parte dei
casi (come ho avuto modo di verificare discutendo di musica con i
miei allievi al liceo) hanno sentito il nome dei Beatles pronunciato in
modo «solennemente anonimo», come quello di altri protagonisti
della storia del Novecento, di cui ancora non conoscono l’opera. Ci
sono, certo, delle eccezioni: non mancano curiosi diciottenni appas-
sionati di musica che ammirano John, Paul, George e Ringo più degli
idoli contemporanei; pochi di loro, tuttavia, hanno mai ascoltato con
attenzione quello che viene – a ragione? – definito «il primo concept
album della storia». Fruendone in maniera prevalentemente distratta,
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PARTE PRIMA – LA GENESI
1
Cinquant’anni di Sgt. Pepper raccontati alla Cloud generation, in «Chitarra acu-
stica», anno VII, n. 6, giugno 2017, pp. 20-27; SGT. PEPPER’S LONELY HEARTS CLUB
BAND e il suono della Summer of Love, cinquant’anni dopo, in Distorsioni.net, 1
giugno 2017, ultimo accesso il 15 settembre 2017. Gli articoli qui citati hanno
fornito una base di partenza per alcuni dei capitoli di questo saggio, in partico-
lare quelli sulla ricezione e sulla fruizione.
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PARTE PRIMA – LA GENESI
con un unico picco? È davvero questo il punto più alto dell’opera dei
Beatles? E cosa lo renderebbe tale?
Nei cinquant’anni trascorsi da quel 1° giugno 1967, in molti hanno
cercato di fornire analisi e risposte a quest’opera fondamentale. Que-
sto studio si aggiunge alla letteratura su SGT. PEPPER mirando ad arric-
chirla, più che con vecchie risposte, con nuove domande.
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PARTE PRIMA: LA GENESI
estate 1966
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Gli anni Sessanta, per molti versi, sono un decennio a sé; una storia
nella Storia, il cui capitolo cruciale viene scritto nell’estate del 1967,
la Summer of Love. Londra ne è lo scenario centrale: Carnaby Street
che diventa la nuova El Dorado; la Swinging London e il flower power;
la droga e le minigonne; il cinema e l’arte d’avanguardia; i suoni di una
musica in cui antico e moderno, oriente e occidente si innamorano,
nascondendo – ancora per poco – il fragore del Vietnam.
Ci sono le gallerie d’arte contemporanea come l’Indica e la Robert
Fraser Gallery, e i club – il Bag O’Nails, l’UFO, il Marquee Club, lo
Speakeasy – centri di irradiazione delle nuove idee. Ci sono gli hap-
pening dell’underground e la moda psichedelica, la pop art e la op art,
l’impazienza per il futuro e la nostalgia per il passato.
Ma Albione, per una breve stagione, smette di essere un’isola: in
America, sul basso continuo della Guerra fredda e dei nuovi conflitti
– esterni e interni – si staglia l’urlo di Allen Ginsberg e dei poeti beat,
il coro delle proteste studentesche, l’eco del canto di Martin Luther
King. La stampa alternativa e i dischi contagiano il Vecchio continente
con i fermenti della nuova cultura; da Haight-Ashbury, San Francisco,
si sprigionano le vibrazioni di colori mai visti e musica mai ascoltata.
«Se volete conoscere gli anni Sessanta, ascoltate la musica dei Bea-
tles», sosteneva il compositore Aaron Copland: SGT. PEPPER’S LONELY
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in fuga da sé stessi
1
Con l’eccezione del celebre concerto a sorpresa sul tetto della Apple, il 30
gennaio 1969.
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PARTE PRIMA – LA GENESI
monitor da cui ascoltare le proprie voci, si può avere una vaga idea
dell’impossibilità di interpretare la propria musica in maniera pro-
fessionale. Eppure, a dispetto di tali restrizioni, fino al 1965 il gruppo
è protagonista di esibizioni memorabili, di rara energia.
Dopo RUBBER SOUL però, appare sempre più evidente la diacronia
tra l’involuzione della band sul palco e l’evoluzione, inarrestabile, in
studio. In quell’estate 1966, è semplicemente impossibile proporre
dal vivo i brani di REVOLVER, come pure gran parte dello stesso RUBBER
SOUL. I Beatles sanno che continuare le tournée in queste condizioni
non farà che peggiorarli come musicisti e sottrarre tempo prezioso al-
la loro ricerca creativa, che può svilupparsi soltanto all’interno dello
studio di registrazione. Anni dopo, Lennon ricorderà: «La musica
non si sentiva. Eravamo solo fenomeni da baraccone: i Beatles erano
lo show, e non aveva nulla a che fare con la musica»2.
Infine, ma è questo l’aspetto più insostenibile, se gli anni passati tra
folle osannanti e camere d’albergo ne avevano posto a serio rischio il
sistema nervoso, è ormai la loro stessa incolumità fisica – e il margine
di salvaguardia assicurabile – a esser messa sul piatto della bilancia.
Nelle pagine dell’epopea beatlesiana, le tappe di questo ultimo
tour assumono l’aspetto di altrettante stazioni di una Via Crucis in-
tercontinentale, delirante epilogo di quella che è diventata una prigio-
nia itinerante.
Già dalle prime date giapponesi il gruppo viene messo alla gogna,
accusato dalla destra nipponica di profanare con la propria musica
sacrilega la Budokan Hall, tempio delle arti marziali. Le misure di
sicurezza per scongiurare i disordini vedono uno spiegamento di
forze da guerra civile. Gli spettatori, al contrario, assistono ai con-
certi in religioso silenzio, dando modo ai quattro – per la prima
volta dall’inizio della Beatlemania – di ascoltare la propria presta-
zione, nuda e cruda, realizzando quanto in basso sia caduta la loro
capacità esecutiva.
2
Beatles 2000, p. 229.
21
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3
Ivi, p. 217.
4
Lewisohn 1992, pp. 211-212.
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PARTE PRIMA – LA GENESI
5
Cleave 1966, p. 10.
6
Dopo l’omicidio di Lennon, come macabro messaggio da parte dell’as-
sassino, viene ritrovata nella stanza d’albergo di Mark Chapman una Bib-
bia aperta sulla prima pagina del Vangelo secondo Giovanni, al cui titolo
lo squilibrato fan aveva aggiunto il cognome della sua vittima: The Gospel
According To John Lennon.
7
La prima a riprendere il vecchio articolo è la rivista «Datebook», il 29 luglio.
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Ban», una messa all’indice con annesso falò delle vanità su cui brucia-
re pile di dischi, libri, gadget e altro materiale vagamente connesso al
culto beatlesiano, da raccogliersi presso le principali chiese delle città
aderenti. Oltre venti emittenti radiofoniche decidono di boicottare la
musica dei Fab Four – comprese quelle che non l’hanno mai trasmes-
sa, ma che sono comunque smaniose di partecipare alla nuova caccia
alle streghe – con i membri del Ku Klux Klan che annuiscono muo-
vendo la testa sotto il cappuccio, prima di fare la loro comparsa come
«picchetto d’onore» durante alcuni dei concerti americani.
Le minacce di morte a Lennon e compagni saranno l’orribile leit
motiv di queste ultime date, e resteranno nella memoria dell’allora un-
dicenne Mark David Chapman, che quattordici anni dopo si impe-
gnerà a portare a compimento quel folle disegno.
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A Hard Day’s Night (1964) e Help! (1965).
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PARTE PRIMA – LA GENESI
Paul nel frattempo – stimolato anche dai ricercati gusti della famiglia
di Jane Asher, sua compagna – si dedica alla musica classica e alle avan-
guardie, ascoltando John Cage e Luciano Berio, e coltivando amicizie
e interessi nell’ambiente culturale londinese di cui l’album a venire si
gioverà immensamente. Guarda con vorace interesse a quanto succede
nella scena underground inglese e statunitense, e forse dentro di sé am-
bisce a un ruolo di leadership non solo all’interno del gruppo, ma nel-
l’ampio milieu artistico internazionale. È una fase di iperattività per
McCartney, se per «fase» si può intendere una tendenza che durerà fi-
no alla fine dell’attività dei Beatles come gruppo. Impaziente di atten-
dere il ritorno degli altri tre, si fa affidare l’incarico – in coppia con Ge-
orge Martin – per la colonna sonora del film The Family Way di Roy
Boulting. Dopodiché parte con Mal Evans per un viaggio in Francia e
in Kenya da cui tornerà con un bizzarro nome e un’idea in testa.
George, dopo averla a lungo vagheggiata, scopre l’India, da cui in
un certo senso non farà più ritorno. Il 14 settembre parte per Bombay,
dove trascorre sei settimane – celandosi sotto il falso nome di Sam
Hems e adottando anch’egli un nuovo look – al fianco di Ravi Shan-
kar per studiare sitar e immergersi nella meditazione, nella cultura e
nella religione hindu: è da lì che inizia il suo progressivo e liberatorio
distacco dall’essere un Beatle. Una ricerca interiore e sincera, lontana
da ciò che sarà moda, che lo accompagnerà fino agli ultimi giorni.
Ringo si conferma l’uomo di famiglia del gruppo; trascorre gran
parte di quelle settimane nella campagna londinese dove sta facendo
ristrutturare una casa maggiormente accogliente per il nuovo arrivato
Zak. Verso le fine dell’estate l’intera famiglia parte per la Spagna per
stare vicino a John. Dei quattro è apparentemente colui che accoglie
con più relax la nuova situazione e in quei tre mesi di pausa – per sua
stessa ammissione – semplicemente si diverte, e ingrassa.
Non bisogna dimenticare che in un’epoca in cui internet esiste solo
nell’immaginazione dei più lungimiranti appassionati di informatica,
e i media tradizionali non hanno ancora la forza trainante necessaria
a veicolare la musica su scala mondiale, i guadagni dei musicisti – es-
sendo risibili le royalties sulle vendite dei dischi – si basano in gran
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ESTETICA DI SGT. PEPPER
È proprio in quei mesi che il termine rock, col quale oggi ci rivolgiamo
indistintamente a molta della popular music degli anni Sessanta e Set-
9
Geller 2000, p. 130.
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PARTE PRIMA – LA GENESI
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PARTE PRIMA – LA GENESI
10
Middleton 1990, p. 228.
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Revolver
Il settimo album dei Beatles viene pubblicato il 5 agosto, nel bel mez-
zo della crociata contro la «blasfemia» di John Lennon, che non im-
pedirà comunque al disco di volare, come d’abitudine, in cima alle
classifiche.
Molto spesso si analizza REVOLVER insistendo fin troppo sulla sua
cruciale collocazione cronologica, che lo rende spartiacque tra il pri-
mo e il secondo periodo della carriera beatlesiana, cardine decisivo
fra RUBBER SOUL e SGT. PEPPER. È una visione un po’ sfocata, che non
riesce a inquadrare appieno tutta la sua complessità e il suo immenso
valore, che per molti critici, ascoltatori e musicisti – a livello di pura
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PARTE PRIMA – LA GENESI
sostanza musicale – non sarebbe per nulla inferiore al suo illustre suc-
cessore: è all’indomani della sua uscita che Sam Andrew, allora chi-
tarrista di Janis Joplin con i Big Brother and the Holding Company,
sancisce che i Beatles sono definitivamente «saliti a bordo», unendosi
alla nuova leva del rock psichedelico11. La lavorazione di questo disco
era iniziata il 6 aprile, a soli quattro mesi dalla pubblicazione del pre-
cedente Lp, ma con un pezzo che è lontano anni luce da tutto ciò che
i Beatles, e la popular music in assoluto, avessero prodotto fino a quel
momento: Tomorrow Never Knows, il primo incredibile ritratto sono-
ro dell’esperienza psichedelica:
Lennon assunse Lsd per la terza volta nel gennaio del 1966. Evidente-
mente intenzionato a compiere un importante viaggio di scoperta di
sé, seguì le istruzioni fornite in The Psychedelic Experience, leggendone
le parafrasi del Libro tibetano dei morti a un registratore e riascoltan-
dole mentre la droga faceva effetto. Il risultato fu spettacolare, e Len-
non si affrettò a trasformarlo in canzone, prendendo molte delle frasi
del testo direttamente dal libro di Leary e Alpert; prima di tutto l’esta-
tica invocazione dell’ipotetica realtà oltre le apparenze: «the Void», il
Vuoto. Col titolo The Void la canzone fu la prima a essere registrata per
REVOLVER. Col titolo definitivo, Tomorrow Never Knows, presentava
l’Lsd e la rivoluzione psichedelica di Leary ai giovani del mondo occi-
dentale, diventando uno dei dischi più socialmente influenti mai rea-
lizzati dai Beatles12.
11
Reising-Le Blanc 2008, p. 105.
12
McDonald 1994, p. 186. In realtà il titolo provvisorio durante la prima
registrazione è Mark I.
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Ivi, p. 188.
14
Automatic Double Tracking: sistema che permette di creare una doppia re-
gistrazione, a partire da un’unica esecuzione, della voce o di uno strumento
musicale, inventato proprio dai tecnici dei Beatles – Ken Townsend in parti-
colare – nel 1966. Il Leslie ha invece la caratteristica di diffondere il suono at-
traverso altoparlanti rotanti ed è alla base degli effetti chorus e tremolo.
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PARTE PRIMA – LA GENESI
Come sempre, la gente segue le mode, e ora la moda è pensare che RE-
VOLVER rappresentasse l’innovazione. E prima ancora era pensare che
RUBBER SOUL fosse l’innovazione, e poi l’altra moda fu SGT. PEPPER. Ma
la cosa avvenne gradualmente. Sapevamo che c’era una formula – sta-
va progredendo. Quello era un dato certo, che eravamo in viaggio –
non fisicamente, intendo dire «in viaggio» nello studio – e il tempo era
limpido15.
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Beatles 2000, p. 212.
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PARTE PRIMA – LA GENESI
te, che sarà tra gli alfieri della psichedelia e poi del prog, sta plasman-
do la sua opera prima: THE PIPER AT THE GATES OF DAWN.
L’impatto dell’acido sulla cultura dell’epoca è talmente forte da
modificare la percezione anche di chi non ne fa uso. Purtroppo, sarà
presto evidente come il percorso verso la trascendenza «via Lsd» sia
molto più rischioso dell’elevazione spirituale cui era stato paragonato.
Per gli stessi artisti che lo avevano accolto come artificiale musa crea-
tiva il prezzo del biglietto sarà altissimo, e molti dei più brillanti «cra-
zy diamonds» smetteranno, troppo presto, di risplendere.
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Il racconto di Wilson è tratto dal documentario The Beach Boys and
Satan (2008), diretto da Cristopher Dreher.
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Già su PET SOUNDS i Beach Boys possono utilizzare registratori a otto
piste, il doppio rispetto allo standard fornito ai Beatles.
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