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Carlo Marongiu

Matricola 870328

Tesina “Letterature comparate”

Traduzione di No pases esa puerta di José Agustín


Sommario

1. Introduzione. (pag. 2)

2. Traduzione. (pag. 5)

3. Analisi della traduzione. (pag. 12)

3.1. Guida alla traduzione. (pag. 12)

3.2. Difficoltà traduttive. (pag. 13)

4. Bibliografia. (pag. 16)

5. Sitografia. (pag. 16)

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1. Introduzione.

José Agustín 1 è riconosciuto come uno degli scrittori più innovatori del panorama
letterario del Messico contemporaneo in quanto simbolo e capostipite della controcultura
messicana, movimento culturale cui aderiscono, a inizio anni ’60, molti giovani desiderosi di
opporsi al volere e ai costumi dei genitori e della società moderna in generale. Si guadagna tale
titolo in virtù della sua proverbiale vena polemica e del suo tono spiccatamente irriverente,
caratteristiche mai abbandonate nel corso della sua prolifica carriera, nonostante il gran numero
di generi letterari da lui investigati (romanzi e racconti, ma anche saggi e sceneggiature per
cinema e teatro). L’uso di un linguaggio colloquiale e disinvolto, finalizzato a catturare l’essenza
del contesto in cui pubblica i suoi libri, è ciò che lo converte in un critico e in un cronista urbano,
vero e proprio portavoce dello spirito ribelle insito nella società latinoamericana.
Sebbene il suo sia uno stile a tratti eccessivamente ricercato e sicuramente difficile da
seguire, José Agustín è riuscito a segnare un prima e un dopo nel modo di fare letteratura in
Messico. La letteratura messicana, che cominciava a farsi conoscere a livello internazionale
attorno alla metà del XX secolo (soprattutto grazie all’opera di Carlos Fuentes e di Juan Rulfo),
aveva una forma estremamente solenne e un tono arcaico, aspetti che la rendevano elitaria, dal
momento che esigeva che chi fosse intenzionato ad avvicinarvisi possedesse un alto livello
culturale. Tuttavia, a partire dalla pubblicazione de La Tumba (1964), sua opera prima, molti
giovani iniziano ad appassionarsi alla lettura. Ciò che essi ammirano in questo romanzo è il
linguaggio moderno, del tutto colloquiale e privo di censura, che rende evidente la totale assenza
di un filtro dell’autore adulto che rievoca i propri anni dell’infanzia o dell’adolescenza: il lettore
riconosce che l’autore è un membro della gioventù che si rivolge alla gioventù stessa, è un giovane
che dà voce ai giovani e consente loro di entrare prepotentemente in una società che fino a quel
momento li aveva marginalizzati. Si impone quindi come una delle figure maggiormente
simboliche della rottura avvenuta, a livello sociale e culturale, nel Messico degli anni ’60, ma, al
contempo, è bene guardarsi dal considerare datata la sua produzione: la sua opera affronta
certamente ciò che inquieta i giovani del contesto sessantottino, quindi droga, esoterismo e sesso,
ma queste tematiche, indubbiamente scomode, vengono trattate con una prosa allegra, libera e
spensierata che ha ispirato tutte le generazioni successive e che viene letta ancora oggi con grande
passione.

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José Agustín Ramírez Gómez è nato ad Acapulco il 19 agosto 1944. Ha studiato lettere classiche presso la Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Universidad Nacional Autónoma de México, poi direzione presso il Centro Universitario de
Estudios Cinematográficos e composizione drammatica all’Istituto Nazionale di Belle Arti. Conduttore e produttore di
programmi culturali per radio e televisione, è uno dei fondatori del giornale Reforma.
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Sempre con La tumba, José Agustín segna la nascita in America Latina della Literatura
de la Onda2, espressione coniata da Margo Glantz nello “Studio preliminare” alla sua antologia
Onda y escritura en México del 1971. Con Literatura de la Onda si indica quella letteratura
messicana scritta da giovani nati in Messico tra il 1938 e il 1951, che si ispirano al contesto storico
degli anni immediatamente precedenti al movimento studentesco del ’68. Gli autori dell’onda
sono quindi quelli che scendono in piazza per manifestare contro lo squilibrio sociale – visto come
conseguenza diretta della società di consumo e del capitalismo – e per esprimere la
disapprovazione della gioventù di fronte a ogni tipo di autorità (si trattasse di famiglia o dello
Stato e delle sue istituzioni). L’Onda è altresì considerata, anche in virtù dell’influenza che su di
essa hanno gli autori della beat-generation (su tutti Jack Kerouac e Allen Ginsberg), il primo
gruppo che divulga lo slang nella letteratura messicana. In generale, si può affermare che i
romanzi e i racconti che fanno parte di tale corrente, scritti da e per adolescenti, riflettono il mondo
dei giovani, la loro ribellione contro la società, contro le generazioni precedenti e contro ogni tipo
di legame con la tradizione: propongono valori di vita alternativi, che vadano contro gli ideali di
un paese che guarda con sempre maggiore attenzione e curiosità agli Stati Uniti.
Il José Agustín che entra a far parte del circolo delle personalità messicane più influenti,
nella fase iniziale della sua carriera, si allinea perfettamente a questi dettami e mai li abbandonerà.
Vive appieno il periodo in cui tutto viene messo in questione (la famiglia, la percezione, la
sessualità, le droghe), ma non si limita a un’esaltazione da un punto di vista meramente letterario,
bensì adotta e mette in pratica tali valori nel quotidiano, riuscendo così a fondere assieme vita e
letteratura, ovvero assumendo il tema della sua opera come stile di vita. Affronta con forza la
minaccia di essere divorato dalla società che rifiuta e non si tira indietro per paura di perdere la
propria autenticità; questa spavalderia si traduce nei suoi libri nell’assunzione, di fronte alla
minaccia dell’età adulta, di atteggiamenti adolescenziali. Eleva così la disobbedienza e l’illegalità
a valori supremi da opporre all’ordine e alle buone maniere imposte dalle istituzioni, proclama
l’amore e la pace contro la violenza, pratica la libertà sessuale, rompe tabù e accetta la
pornografia, consuma droghe come strumento di ispirazione letteraria e adotta la filosofia hippie,
si comporta da iperattivo, sente la necessità di muoversi, di viaggiare – sia fisicamente, per il
mondo, sia mentalmente, con l’ausilio di sostanze stupefacenti.
Le pubblicazioni successive, come detto, non abbandonano questi temi, ma li adattano al
cambiamento sociale: nei lavori pubblicati a partire dagli anni ’80 vi è la denuncia dell’avanzare
della tecnologia, il disprezzo verso quanti si allineano al sistema, la descrizione del
deterioramento e della crisi della famiglia. È questo il caso di No pases esa puerta, uno dei
racconti apparsi nella collezione No pases esta puerta, pubblicata nel 1992. Nonostante si tratti

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Corrente letteraria che si può situare in Messico a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta. Le opere più
emblematiche della Literatura de la Onda sono Gazapo (1965) di Gustavo Sáinz, De perfil (1966) di José Agustín e
Pasto verde (1968) di Parménides García Saldaña.
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di un testo redatto in età adulta, José Agustín non perde qui il carattere confessionale della sua
scrittura. Anche questo racconto è infatti una narrazione di pensieri, siano essi dell’autore o dei
suoi personaggi: tanto José Agustín quanto Lucio e Aurora (i due protagonisti) pensano ad alta
voce attraverso la scrittura. Proprio attraverso la freschezza del linguaggio l’autore produce una
nuova forma di realismo nella quale diventa centrale la sensazione pura, scissa da ogni tentativo
di razionalizzazione. Crea un nuovo spazio mitico, nato dalla fusione di diverse mitologie
(cristianesimo, buddismo, classicità greca e latina), in cui gli eroi si esprimono in forma diretta
mediante il ricorso allo slang o al gergo dei settori marginali della società, con espressioni che si
combinano tra loro formando giochi di parole che danno sonorità a un mondo altro, il mondo del
fantastico: mediante questo nuovo linguaggio, l’autore riesce a consegnare al lettore non la realtà
così com’è, ma come essa viene percepita quotidianamente da chi la osserva filtrata dalla lente
del fantastico.

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2. Traduzione.

Non oltrepassare quella porta.

Lucio arriva a casa. Il suo entusiasmo si deve al fatto che è (finalmente) riuscito a uscire
dalla prigione militare. La giornata è limpida, si nota dal modo in cui i rami di un albero
apparentemente secco si assottigliano sullo sfondo blu del cielo; Lucio pensa che il cielo e gli
alberi siano una cosa sola o quanto meno che abbiano una relazione così stretta da renderne
dolorosa la contemplazione. La casa, poi, è insuperabile. La moglie di Lucio (chiamiamola
Aurora) aveva scritto al carcere militare per dargli istruzioni meticolose per arrivare dove lei lo
avrebbe aspettato.
Lucio suona alla porta. La vede con affetto, Buongiorno porta, la saluta. Questa apre le
sue pesanti tavole di cedro e lì si trova Aurora. Lucio la abbraccia con forza, i corpi in contatto,
le bocche fuse, le lingue che si riconoscono.
Poi Aurora lo porta dentro casa. Lucio contempla i diversi saloni, i soffitti molto alti e le
enormi finestre, le statue negli angoli, i fregi sulle cornici, i cuscini dai disegni delicatamente
intricati, i grandi lampadari che pendono e gli specchi che raccolgono la luce e la restituiscono
con forza. C’è gente rilassata che riposa, legge, conversa o lavora. Aurora presenta Lucio a tutti
quelli che incontra e questi lo salutano con una candida gentilezza, che bello che sei arrivato, ti
aspettavamo. Sì, ti stavamo aspettando, conferma Aurora, ma io più di loro. In questo momento
Lucio ammette pienamente, con uno slancio di coscienza (un lampo, che splendore), quanto sia
un prodigio e una benedizione che ci sia qualcuno ad aspettarlo. Se non cogli l’importanza di tutto
ciò, ricorda almeno che ad aspettarti tutte le notti c’è il terzo cassetto della tua scrivania. Dentro
di sé Lucio costruisce un piccolo santuario e ringrazia il destino perché ha potuto ritrovare sua
moglie ed ora, dopo tutte le sofferenze vissute, si trova in questo posto. Il passato, passare vuole.
L’unica cosa che ora può fare per esternare la sua gratitudine è afferrare con forza (e affetto) il
braccio di sua moglie, che si gira verso di lui, avvicina la testa, che odore delizioso che emanano
i suoi capelli, e dice: ti amo.
Percorrono la casa. A Lucio inizialmente ricorda un museo, ma poi pensa a un palazzo.
Salgono sul terrazzo, dove ci sono poltrone reclinabili per prendere il sole e balconi per vedere il
paesaggio; i due vulcani sono un po’ lontani da lì, ma si vedono nitidi come raramente accade; la
neve brilla. Aurora spiega che in quei balconi di solito si riposano i vecchi e addirittura gliene
presenta alcuni. Gli anziani sorridono e chiudono nuovamente gli occhi. Lucio sente che tutti loro
(per via dell’età, chiaro) si trovano al di là di tutta quell’agitazione e quell’effervescenza di quelli
conosciuti al piano di sotto; e coltiva un fortissimo desiderio che il tempo trascorra, ma adesso,
in corsivo, che il nastro avanzi a tutta velocità e che sia lui il vecchietto incanutito che prende il
sole di fronte ai vulcani e saluta con un sorrisetto quella coppia che passeggia per il terrazzo.

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Le cantine praticamente sono un labirinto di corridoi bui, innumerevoli porte che
conducono a stanzette dove alcuni si dilettano a lavorare in un isolamento quasi totale e nelle
quali si immagazzinano mobili e oggetti di ogni tipo, specialmente libri, bellissimi libri, di ogni
volume ed età, che si intravedono attraverso le porte aperte. Lucio perde presto ogni senso
dell’orientamento a causa dell’umidità compatta e chiusa, ma soprattutto perché si è lasciato
affascinare dai libri, oh colto personaggio e/o autore. Nonostante l’aria sia pulita, diventa
inevitabile, o addirittura salutare, una certa apprensione vaga, ma di che cosa? Beh, di perdersi,
idiota, perché un corridoio conduce sempre a un altro e chissà dove diamine stanno le porte per
salire in casa, ci siamo persi ormai, dice lui, sentendo che sua moglie (ammesso che sia sua
moglie) è ora più forte perché lei conosce l’ambiente. L’ambiente, in questo e altri giochi, fissa
le regole. Tu ti sei perso, amore mio, ma io sì che so come trovare l’uscita. Davvero non sai più
per dove andiamo? Non ne ho la più pallida idea, riconosce lui. È che ti sei distratto, ma sono
sicuro che se fosse necessario troverei l’uscita, manca poco, no?
Aurora gli propone che sia lui a cercare la porta dalla quale sono entrati e Lucio cammina
per vari corridoi, entra in altri, apre porte e ogni volta avanza più rapidamente, con timore ed
esasperazione, perché non trova il cammino e perché poco alla volta arriva in luoghi più oscuri,
dove il silenzio è quasi totale. Per poco non si scorda, all’improvviso, che sta cercando un modo
per uscire e perde tempo affacciandosi in stanze quasi totalmente buie, dove si intravedono oggetti
metallici e si percepisce, lì sì, un’aria rarefatta, sempre più umida.
Non ci riesco, riconosce alla fine. Di più: credo di essermi ulteriormente allontanato
dall’uscita. Le uscite, lo corregge Aurora, anche lei a bassa voce; sono molte e ti do la mia parola
che è facile trovarle, ma tu sei appena arrivato in questa casa, amore mio, e io invece la conosco
molto bene. Lucio, guarda che a me la casa piace molto, ma da quando sono arrivata qui ho sentito
una particolare attrazione per queste cantine, ti giuro che non hai idea di quante cose incredibili
ci sono qui, potresti passare mesi affascinato a guardare quello che c’è nelle stanze, soprattutto i
libri, amore mio, ci sono libri che non avresti mai creduto di poter vedere, anche se la maggior
parte è roba vecchia, manoscritti di gente che chissà quando è vissuta e che ha narrato la propria
vita, morte e miracoli… e tutto ciò che ha pensato… ah, che bei punti di sospensione… sai, una
volta sono scesa nelle cantine da sola, senza nessuno che mi accompagnasse, e improvvisamente
mi sono persa perché sbirciavo dove non avrei dovuto, ormai non sapevo più nemmeno dove
cazzo stavo andando. Aurora, non essere scurrile. Perché no? È così piacevole. Una volta, in una
lettura, una ragazza mi ha giurato che non poteva concepire che la gente si esprimesse in questi
termini… insomma, come ti stavo dicendo, me ne sto tutta tranquilla e ti giuro, vita mia, che
qualcosa mi ha fatto camminare. Ti giuro che ho sentito come se delle mani mi prendessero dalle
spalle, prova a immaginartelo, e mi mettessero nella direzione esatta e allora da lì mi sono
incamminata con certezza, senza alcuna titubanza, e un attimo dopo ho trovato la scala, una delle
scale (pensa te come si manifestano gli echi dell’altra). Ti dico che da ogni lato c’è una via per

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salire in casa. Ciò che mi infastidisce, interviene Lucio, è che il mio senso dell’orientamento è
eccellente, tu invece non sai mai dove te ne vai. Bene, ora è al contrario, leoncino, commenta
Aurora con un sorriso. Dai Aurora, ora basta. Davvero, davvero non sai da dove si esce? Certo
che non lo so, Aurora! Ma tu sì: non metterti a giocare a ping-pong, adesso andiamo! Non ti
innervosire, amore mio, dopotutto perdersi può essere divertente. Ma sì, però perdiamoci un altro
giorno, no? Ora ti giuro che sento che mi sta mancando l’aria, andiamo di sopra, non mi hai
nemmeno fatto vedere la nostra stanza. Andiamo allora, concede Aurora la Bella, e Lucio crede
che sia tanto soddisfatta perché, per la prima volta, può essere lei a guidarlo. Questo lo
tranquillizza, dopotutto ora si può nuovamente respirare bene, perché c’è stato un momento in cui
la quiete e la penombra (e l’umidità) sono state sul punto di farlo esplodere. Tuttavia, dopo essere
avanzati un poco e con una leggera apprensione, Lucio si rende conto che nemmeno Aurora è
sicura del cammino, perché si è fermata a lungo, cercando di orientarsi o forse sperando che il
Grande Uomo (è sempre un bene vedere il Grande Uomo) la prenda dalle spalle e le dica: vattene
per di là, dolcezza. Sentimi, sei sicura di sapere dove dobbiamo andare? Sì, lo so, dice lei con una
risatina, ma allo stesso tempo non lo so.
Lo prende per mano e avanzano lungo un corridoio che, nonostante la penombra che già
c’era, sembrava scurirsi ancora di più. Sei sicura che sia per di qua? Ma insomma, su! esclama
lei, rimanendo molto seria. Si trovano in un luogo totalmente buio: in fondo, il corridoio termina
con una porta nella quale si intravede appena un numero 4 di metallo dorato. Che succede? Ormai
ho sbagliato, riconosce Aurora, è incredibile!, sentenzia poi con una risatina nervosa. Che cosa è
incredibile? chiede lui, sussurrando; senti andiamo, aggiunge, sentendosi ridicolo e infantile
perché non può concepire che un timore crescente lo domini. Di cosa ho paura? si chiede
fugacemente……… il buio: lo sconosciuto: tutti (o quasi) abbiamo paura di ciò che è sconosciuto,
paparino, non mi dire di no. Ciò che è incredibile è che siamo arrivati qui, Lucio, guarda che solo
una volta sono arrivata fin qui e quella volta mi accompagnava Amparo, una delle figlie del
padrone… bene, e che successe quella volta? No, non successe nulla, perché lei conosce la casa
come nessun’altro, dopotutto è casa sua, no? Allora? sussurra Lucio con maggiore impazienza.
Bene, allora Amparo mi disse la stessa cosa che sto per dirti; mi disse, e io anche te lo dico /
Aurora, diavolo, smettila con queste pagliacciate! Non ti innervosire, amore mio, questa è una
cosa importante, nessuno sa per quale cazzo di motivo, ma è importante. Aspetta, aspetta, non ti
arrabbiare. Bene, mi disse: Aurora, puoi camminare per casa quando vuoi e come vuoi e puoi
entrare ovunque, tutto è aperto per tutti, ma mai, mai e poi mai ti venga in mente di aprire questa
porta, questo sì che è proibitissimo. Ah, cavolo, e perché? chiede Lucio, trovando ridicolo tutto
questo e reso coraggioso dal fatto che ora c’è qualcosa di concreto che gli conferisce nuovamente
la sua forza. Vuoi avere dei segreti con me? Ah ah ah. Io le chiesi la stessa cosa, continua Aurora,
ma la maledetta Amparo non me lo spiegò. Mi disse che lei nemmeno lo sapeva. Ah, e ora mi
ricordo di un’altra cosa: mi disse: quando verrà tuo marito e se mai vorrai mostrargli le cantine e

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se per fortuna arriverete fino a qui, digli che per nessun motivo lui meno che mai apra questa
porta. Davvero? Tu stai provando a fregarmi, maledetta Aurora! No, ti giuro di no. Il fatto è che
questa porta non si può aprire, non la aprire, eh? Per nessun motivo. Ma perché, cosa c’è lì? Una
tiiiiigre, e ti mangia! esclama lei con una risatina (nervosa).
Non fare la pagliaccia, dimmi cosa c’è lì, tu lo sai. Non lo so, davvero, l’unica cosa che
so è che non si può entrare. Interdit d’entrer, Tancat. Sarà chiuso? mormora Lucio avvicinandosi
(con passi prudenti) alla porta. Lucio, non giocare! Vieni qui! Sarà chiuso? ripete Lucio, quasi
per sé stesso. Ha già la mano sulla serratura, quando una corrente gelata gli corre lungo la spina
dorsale. Lucio riesce a sopprimere la scarica di adrenalina che lo invita al panico, ignora le
avvertenze di Aurora – questa volta senza che ci sia niente da ridere – e gira la maniglia. La
maniglia è una protuberanza che esce dallo spioncino. Questa si muove e cede. Non ha chiave,
dice Lucio, ma prima che possa spingere la porta (ed entrare) gli sembra di respirare un’aria densa,
tesa, pesante e, anche se la respirazione non si sente molto, essa scatena un principio di panico in
Lucio, il quale, senza possibilità di discussione, lascia la maniglia della porta e torna con passi
rapidi verso Aurora, che lo abbraccia. I due rimangono immobili, esitanti, fissando la porta,
finché Lucio, ora irritato, esclama: che sfiga, cazzo! Non osa, però, tornare alla porta (un numero
4 in metallo dorato) e si lascia condurre da Aurora verso il corridoio, i corridoi, e si allontanano
da lì, con rapidità, in silenzio (minaccioso) e improvvisamente ritrovano i minimi suoni della
gente che legge i libri (pagina dopo pagina) nelle stanzette delle cantine.
Lucio vorrebbe parlare di tutto questo con Aurora, ma non trova il modo; inoltre, dopo
poco già si trovano nelle loro stanze: una piccola sala che affaccia su un giardino interno
quadrangolare (con una fontana al centro!) e una camera da letto spaziosa, con finestre che
anch’esse danno sul giardino, un grande letto, più duro che morbido, e mobili semplici e
gradevoli… Lucio e Aurora si svestono e fanno l’amore vigorosamente, intensamente, con la
ferocia che si riappropria dei loro corpi in conseguenza della (tanto prolungata) assenza; e più
tardi, quando entrambi si sono soddisfatti a vicenda, la tenerezza lascia il posto a una
conversazione lunghissima, interminabile, perché Lucio è sempre stato meravigliato dell’affinità
tanto grande che ha con sua moglie e di come, da quando si conoscono, riescono a parlare per ore,
senza avere idea di cosa possa essere la noia. Aurora gli racconta di come sia venuta a conoscenza
dell’esistenza di quella casa per ospiti, è sensazionale, no?, è costosa, ma non troppo, se lo può
permettere, sì è sensazionale, come no, perché i proprietari, una famiglia tra le più tranquille, a
breve li conoscerai, non stanno tutto il tempo a pensare ai soldi-soldi-soldi né a comprare-
comprare-comprare, anzi a loro piace convivere con una relativa tranquillità, perché, chiaramente,
i problemi, ovvero quei tipi funesti-rompipalle che si intrufolano e iniziano a sparare ogni genere
di volgarità (che bruttura), non mancano mai. Conchita (Conchita?), l’amica di Aurora (che
ridere), fu quella che le diede la dritta riguardo l’esistenza di quel posto e ora che Lucio è tornato,
e non appena otterrà un lavoro degno (non l’orrendezza di prima), potranno vivere per un po’ lì,

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comodi comodi, finché non sarà il loro turno di affittare o comprare una casa propria, oh amorino
mio davvero non hai voglia di vivere in una casa da bravi cristiani, come Anna Magnani, corregge
Lucio.
Però, come puoi immaginare (sempre che ti sia rimasta ancora un po’ di immaginazione,
perfidia e soldi), il buon Lucio non smette di essere attratto dalle cantine e dalla maledetta porta-
non-puoi-entrare-in-questa-stanza. Tu sai che chiunque – tranne quelli che vengono programmati
come docili agnellini del Partito Rivoluzionario Istituzionale – è affascinato dalle proibizioni,
sempre, vieni qui da me, mela cara, mio frutto del peccato; basta che qualcuno dica non fare
questo o quest’altro perché nasca il desiderio di farlo (o di non farlo), non passare col rosso, non
si ammettono minori d’età né donne col mestruo né uniformati con la divisa del Cruz Azul,
assolutamente vietato fermarsi, diecimila pesos di multa a chi spara sui segnali dell’autostrada,
non si può girare a sinistra senza Oecha signor presidente, vietato entrare scalzi, vietato
inseminare preservativi, vietato preservativare pubi, no shoes-no shirt-no service, vietato il
passaggio, vietato vietare, eccetera eccetera (vietati gli eccetera). Ah! Bisogna anche prendere in
considerazione tutti i racconti-delinquenti vecchi-vecchi-vecchi nei quali si avverte (avvertesi)
che per nessun motivo ti passi per la testa di aprire questa porta, amico: guarda, qui hai la chiave,
è questa d’oro a forma di croce dorata, ma non la usare mai, mai e poi mai, mi raccomando. Cosa
dovrebbe fare, in questi casi, il tanto celebre eroe Jiménez? Beh, aprire la porta (anche a costo di
restare orbo). Lucio, in questo, è uguale, sono uguale, sei uguale, e il divieto delle cantine è visto
come un proclama alla disobbedienza civile e misticista perché già una volta si è perso lì (lui!
Lui! LUI!), oh Dio, come ha potuto perdersi e poi farsi ritrovare dalla Bellaurora. Il suo orgoglio
da maschietto non può accettare che ci sia sempre una vecchia a salvarlo dal labirinto.
Perciò, appena gli è possibile, quando riesce a vincere definitivamente la voce interiore,
che è sensata, ma se la tira un po’, che gli dice oh valoroso giovane non andare di là perché poi
griderai ti pentirai di averlo fatto ti ricorderai con le lacrime agli occhi di quando te ne andavi
libero e tranquillo lì su, ma allora sarà tardi figlio mio sarà de-fi-ni-ti-va-men-te tardi, eheheh.
Lucio non fa caso a quella voce e improvvisamente si fa coraggio, si avventura e attraversa una
delle porte che conducono alle cantine (uhi uhi), sotto le scale, trova le stanze dove c’è gente che
legge, che scrive, che medita, che si gratta il naso, si gratta le palle, vegeta… Lucio cammina
lungo un corridoio, ne imbocca un altro, un altro ancora, apre porte, che orologio fantastico che
si vede lì, che meraviglia di legno intagliato, e tutti quei giocattolini di pezza, che delicatezza, che
quadro favoloso, sembra un Velázquez, come fanno a tenerlo qui in disparte, che idioti, vediamo
se me lo prestano per metterlo nella nostra saletta; Lucio apre altre porte e vede libri, pile di libri,
soffia la polvere accumulata sulle copertine, perbacco devo tornare un altro giorno per vedere
questi books con maggiore attenzione… maggiore attenzione… si incammina in un altro corridoio
e un altro e un altro e tutto diventa più buio, mi sarei dovuto portare una torcia, no? No! Avrei
dovuto seguire i consigli di mia sorella, la mitologia, e chiedere un filo ad Aurora la Bella per non

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perdermi, perché ormai si è perso, ormai non ha la più pallida idea di dove si trova (trovasi), ormai
non c’è gente, solo un silenzio che si direbbe pieno, come sono piene le sue palle, e denso, e non
si parlano, sì si parlano, nasce in lui un desiderio quasi invincibile di cercare quella chiave che
goccia per chiuderla per bene, bisogna chiudere per bene le chiavi di acqua affinché non goccino,
amico, sicuramente si è consumata, bisogna chiamare il ferramenta, chi?, tutto è più buio ora, da
qualche parte ci devono essere delle finestre, ma ovviamente non lì, inoltre, si dice Lucio, vedendo
che le cantine sono praticamente interminabili ed essendo convinto di girare sempre negli stessi
posti (quella porta l’ho già vista prima, no?), per una sua migliore comprensione del labirinto di
virgole, punti e virgole, frasi tra parentesi tonde e parentesi quadre, si ripete cosa mi assicura che
troverò la maledetta (perché maledetta?) porta col numero 4 appeso?, ah il quattro!, dice a sé
stesso mentre continua ad avanzare (continuiamo ad avanzare), la situazione non può essere tanto
brutta se c’è un quattro quadrato, solido, quadrangolare, un mandala quadri-laterale, una certa
forma uroborica, uruborica, signor Uroboro, perché è così buio qui?, è la notte (la notte?) che mi
riporta alla mente tanti ricordi… Lucio sbatte contro un mobile, cerca di aprire un cassetto, lo
apre, qui che c’è, vestiti, vecchi vestiti, devono essere quelli del Golem, ma che ci faccio io ad
aprire i coglioni: cioè, i cassettoni, e nel frattempo Lucio ricomincia a camminare, mi sa che siamo
già passati per di qua l’ultima volta (l’ultima!), perché tutto è penombra ormai, hai già notato che
si sente un tic tac?, no, se lo sta sognando, quella penombra e quel silenzio lo invitano a
un’allucinazione totale, a vedere saltare le cose quando in realtà non c’è nulla, non c’è nulla
(nulla), solo fatica nei piedi, non c’è nemmeno un luogo in cui sedersi, forse se aprissi una di
quelle porte potrei riposare, ma qualcosa gli dice di continuare in avanti, avanti Cubani, che Cuba
premierà il vostro eroismo!, ormai è ubriaco e il minimo che può fare è fermarsi di fronte al
pericolo e continuare, come fa l’orso, come fa il cinghiale, no, meglio, come fa l’acqua, ormai
riposerà più tardi, ma quando? (quando morirà, certo che of course!), un’altra curva ed ecco la
fine del corridoio: una porta che non può che essere una porta perché si intravede appena. Lucio
si avvicina lentamente (plin, plan) e gli sembra di distinguere un bagliore smorto, sì, è un numero
quattro-quadrato. Dorato. Lucio si ferma. Il silenzio non esiste, lo sostituisce un brusio che chissà
da dove viene, ah, viene proprio da lui, perché all’interno di Lucio-Lucifero c’è un vero e proprio
frastuono, la guerra totale, gli eserciti lottano hasta la victoria siempre 3, Cuba premierà il vostro
eroismo, ma quel rumoraccio folle si manifesta in superficie solo come un frastuono intenso,
uguale, risonante, che mette in corsivo la quiete e la penombra. Lucio non ci pensa più, vince il
timore che tenta di arrampicarsi su di lui e che gli è già arrivato alla gola (due gatti in gola) e
afferra la maniglia (dallo spioncino), la aziona: è aperto, non avere paura, e con un colpo violento
la spinge, apre la porta tra affanni e batticuore.
......... Dentro si trova (lo sapevi già, vero?) la donna più bella che Lucio abbia mai visto.
È una donna giovane, molto giovane, anche se in realtà l’età è imprecisabile, ed è nuda, i capelli

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Non tradotto volontariamente da me.
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si ondulano sulle spalle e cadono, interminabili, perdendosi dietro la schiena; la pelle mostra una
bianchezza e una soavità deliziose, dalle quali sorge la luce che la bagna così intensamente, che
deve sorgere proprio da lei stessa, proprio da lei stessa… le sue gambe, il bacino, la peluria, il
sesso, i seni conici, fermi e delicati, il collo e la faccia sono perfetti, un’armonia spettacolare
nonostante quest’immensa sfilza di sostantivi e di qualifiche, un colpo allo sguardo, un baccano
maggiore di quello che sta dentro di lui, la fenditura dell’universo che preferisce esplodere per
manifestare, in qualche modo, la propria gloria, il Gesù Cristo Miltoniano avanza col suo carro e
i suoi cavalli di luce e i demoni sdentati retrocedono, verso l’abisso, e Kuan-yin, la bodhisattva,
si rivela in tutto il suo splendore. Lucio, però, non può accogliere emozioni estetizzanti,
associazioni culturalizzanti e nemmeno ondate erotiche che vorrebbero accalcarsi, perché lo
sguardo di quella donna è tremendo, è molto duro, nei suoi occhi c’è un foro nerissimo,
atemporale, buco nero dello spazio che inghiotte luce, lì c’è la luce effervescente compressa
talmente tanto da toccare il suo opposto; sarebbe un vuoto totale, ma la donna guarda Lucio con
un calore calcinante, lacerante, ghiaccio-cocente-fuoco-gelato-ferita-che-fa-male-e-non-si-sente,
un’ira impressionante perché Lucio ha osato starle tanto vicino e vedere quella inconcepibile
nudità, con tutta la luce dorata, che stupido che sono, che idiota, si dice Lucio, perché la donna
sembra dirgli questo, che stupido che sei, Lucio, che stupido che sei stato, hai commesso l’errore
più grande, del quale ti lamenterai ogni giorno della tua vita, sempre che, prima o poi, tu riesca a
ricordare tutto questo. La donna retrocede di qualche passo e Lucio, pietrificato dal terrore, il suo
cuore in esplosioni infinite, le gambe dimagrite per la minaccia che implica quella bellezza
intollerabile, trova la forza per chiudere la porta di colpo. In quel momento, Lucio sente che delle
mani invisibili lo prendono dalle spalle e lo fanno girare in semicerchio e sa che deve correre
all’istante, ed è ciò che fa, nel buio, sbattendo sulle pareti e contro oggetti imprecisati, volendo
fuggire da quella figura che ancora devasta il suo interno e lo brucia e lo fa gridare, ululare di
terrore, quando cade e riesce a essere cosciente, immerso nella confusione caotica che bolle dentro
di lui, dentro la sua evidente fragilità.

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3. Analisi della traduzione.

3.1 Guida alla traduzione.

No pases esta puerta è un testo in cui le voci narranti sono quelle dei due protagonisti
della vicenda: Lucio e Aurora raccontano il loro incontro dopo un lungo (anche se imprecisato)
periodo di tempo e lo fanno in maniera fortemente ambigua, non solo a livello formale, ma anche
contenutistico. José Agustín, di fatto, invita il lettore a porsi diverse domande man mano che
questi prosegue nella lettura, ma non ha alcuna intenzione di indirizzarlo verso una risposta
predefinita e considerata universalmente valida. L’intento è evidentemente quello di lasciare
irrisolti gli interrogativi provocati nel lettore, che deve interpretare quanto ha appena letto.
Per quanto riguarda l’analisi della traduzione, ciò che interessa di più è il modo in cui
questa ambiguità e la conseguente sensazione di incompletezza vengano trasmesse al lettore a
livello formale. Come già visto in fase di introduzione, No pases esta puerta è anzitutto una
narrazione di pensieri e l’intento di José Agustín chiaramente non è solo quello di descrivere le
sensazioni dei due amanti; vuole giocare con la tradizione letteraria, manipolarla per creare uno
stile rivoluzionario che, nel suo oscillare tra sogno e realtà, dia finalmente conto dell’aspetto
fantastico della società contemporanea. La maniera fresca di narrare riflette l’atteggiamento
irriverente dell’autore, che riesce a comunicare agli altri attraverso la voce interiore dei
personaggi: i pensieri e le sensazioni dei due protagonisti arrivano diretti, senza bisogno di
particolari fioriture verbali. Il ritmo narrativo scorre come fosse un torrente di parole, idee e
associazioni tra queste; all’interno della lingua usata, quindi, vi è una mescolanza di espressioni
giovanili leggere e pimpanti, gergo cittadino e doppi sensi, neologismi e assonanze, che si
combinano tra loro in maniera incalzante e con un originale senso dell’umorismo.
Quanto detto finora è da considerare un’arma a doppio taglio per chiunque si accinga a
tradurre un testo del genere. L’assenza di una morfologia e di una sintassi tradizionali, in favore
di un lessico artificiale e di una struttura della frase frammentaria e irregolare, da un lato non può
che mettere in difficoltà chi ha alle spalle ore e ore di studio della linguistica spagnola, ma
dall’altro dà al traduttore un’enorme libertà interpretativa. Quest’ultima è la strada che ho scelto
di seguire, basandomi sull’idea secondo la quale, affinché venga recepito il messaggio di un
racconto originale come questo, non bisogna limitarsi a rendere il significato letterale del testo
d’origine, ma è necessario giocare allo stesso gioco dell’autore anche nella lingua d’arrivo: creare
termini nuovi, demolire la struttura della frase, rinnovare le leggi dell’uso della punteggiatura,
prestare particolare attenzione al suono delle parole e a come esse si incastrano tra di loro. Nella
pratica, ciò significa procedere a una prima traduzione letterale, il cui risultato non potrà mai
essere soddisfacente, e, sulla base di questo testo intermedio, interpretare nuovamente il tema per
poterlo adattare alla lingua italiana.

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3.2 Difficoltà traduttive.

Il primo aspetto su cui soffermarsi riguarda i tempi verbali. Una delle caratteristiche più
evidenti dello spagnolo nella sua varietà centro-americana è la prevalenza del pretérito indefinido,
corrispondente al nostro passato remoto, su tutti gli altri tempi del passato. Dal momento che
l’intento dell’autore è evidentemente quello di legare i fatti passati che vengono raccontati
all’interpretazione che i personaggi-narratori ne danno nel momento presente, ho deciso, in
italiano, di rendere queste forme verbali perlopiù con il passato prossimo. Prendiamo ad esempio
l’incipit: in “Lucio llega a la casa. Su entusiasmo se debe a que logró (al fin) salir de la prisión
militar”, il verbo logró deve essere semanticamente legato all’indicativo presente del primo
periodo ed è per questo che tradurre “è (finalmente) riuscito” ha più senso rispetto al più letterale
riuscì. Solamente nella parte in cui Aurora racconta di Amparo, la figlia del padrone di casa, mi
è sembrato più pertinente mantenere il passato remoto, visto che si tratta di un evento precedente
a quanto viene ricordato.
José Agustín in questo racconto ci pone delle domande e vuole avere la nostra risposta.
L’enigma di fondo si esplicita definitivamente nel finale, che è tutt’altro che chiaro: chi è la donna
che Lucio trova di fronte a sé? Potrebbe forse essere Aurora? E perché questa lo fulmina con lo
sguardo? Ma soprattutto, che fine fa Lucio dopo avere sentito “che delle mani invisibili lo
prendono dalle spalle e lo fanno girare in semicerchio e sa che deve correre all’istante, ed è ciò
che fa”? Queste domande riguardano chiaramente il contenuto dell’opera, ma si rispecchiano nel
suo aspetto formale; anche a livello narrativo vi è, quindi, un’identità circondata da un alone di
mistero, quella del narratore. Alcuni lettori credono che il testo si costruisca solo in virtù del
racconto dei protagonisti, che spesso si interrompono tra di loro; altri, invece, accanto alle voci di
Aurora e Lucio (che oltre a essere i protagonisti intervengono sicuramente anche come narratori)
sentono anche quella di un narratore esterno, che osserva e racconta la vicenda, mentre altri.
Per esempio, il fatto che appaia una frase come “Se non cogli l’importanza di tutto ciò,
ricorda almeno che ad aspettarti tutte le notti c’è il terzo cassetto della tua scrivania”, che spezza
la narrazione di un’Aurora intenta a esprimere quanto le sia mancato suo marito, induce a pensare
che il testo sia rivolto a un Tu generale: sarebbe quindi dimostrata l’esistenza di una terza voce,
che sarebbe poi quella stessa che si esprime nelle frasi tra parentesi, come nel caso di “Dentro si
trova (lo sapevi già, vero?) la donna più bella che Lucio abbia mai visto”. D’altro canto, poco più
avanti, dopo che Aurora chiede a Lucio se davvero si è perso, troviamo come motivazione “È che
ti sei distratto, ma sono sicuro che se fosse necessario troverei l’uscita, manca poco, no?”: il fatto
che l’aggettivo sicuro sia declinato al maschile singolare rende evidente il fatto che ci troviamo
di fronte a una frase che esplicita la convivenza dei due personaggi-narratori.
Tra le tecniche più utilizzate da José Agustín per la manipolazione del linguaggio vi è
l’uso di frasi inconcludenti, spezzate, nelle quali spesso un soggetto prende il posto dell’altro

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senza che il verbo concordi con nessuno dei due e la narrazione principale si interrompe per
lasciare spazio a una catena di aneddoti ed episodi secondari che rendono l’esperienza di lettura
vertiginosa, sfrenata e difficile da seguire. Per esempio:

Por tanto, tan pronto como le es posible, cuando logra vencer definitivamente la voz interior
sensata y un tanto mamertona que le dice o valeroso joven no te metas por allí porque después vas a chillar
vas a lamentar haberlo hecho te vas a acordar con lágrimas en los oclayos de cuando circulabas tan libre y
tranquilamente por allá arriba pero para entonces será tarde mi hijito será de-fi-ni-tiva-men-te tarde, je je.

Perciò, appena gli è possibile, quando riesce a vincere definitivamente la voce interiore, che è
sensata, ma se la tira un po’, che gli dice oh valoroso giovane non andare di là perché poi griderai ti pentirai
di averlo fatto ti ricorderai con le lacrime agli occhi di quando te ne andavi libero e tranquillo lì su, ma
allora sarà tardi figlio mio sarà de-fi-ni-ti-va-men-te tardi, eheheh.

Le difficoltà traduttive in una frase come questa sono molteplici. La prima cosa che salta
all’occhio è il fatto che, nonostante la subordinata temporale (introdotta da “cuando logra vencer
[…]”) venga presentata come un inciso e il periodo debba quindi concludersi con una
preposizione principale, quest’ultima non appare. È come se il narratore perdesse il filo del
discorso perché sommerso dai propri pensieri; pensieri che fluiscono con tanta veemenza da non
lasciarsi arginare nemmeno dalla punteggiatura (mancheranno quindi anche in italiano le
virgolette per introdurre il discorso diretto e le virgole per dividere le varie esortazioni rivolte al
“valoroso giovane”). Questo flusso di coscienza non porta a una conclusione logica, ma a una
risata (“je je”) con cui i personaggi sembrano quasi schernire il lettore. Per tradurre una frase
simile vi sono due opzioni: premiare la lingua d’arrivo e quindi dare maggiore importanza alla
correttezza dell’italiano rispetto alle scelte dell’autore oppure, come si è fatto, adattare il testo
d’origine affinché anche a un lettore italiano il ritmo risulti incalzante.
Per quanto riguarda il lessico, le difficoltà traduttive sono di varia natura. Chiaramente,
risulta complicato rendere in italiano le espressioni più fortemente legate alla realtà messicana.
Un esempio chiarificatore a riguardo è quello della frase “de repente me perdí por andar viendo
hasta lo que no, ya no sabía ni por dónde chingaos andaba”. Il verbo chingar, in base ai diversi
contesti in cui appare, assume significati anche molto diversi: ad esempio, una situazione se
chinga quando si rovina definitivamente, chíngale va considerato come un invito a perseverare,
un chingón è una persona particolarmente capace in un determinato campo, una cosa fatta en
chinga è stata conclusa di fretta, un chingo indica una quantità elevata di qualcosa. Questo verbo
può avere molte altre sfumature semantiche, ma tutte avrebbero come caratteristica comune quella
di esprimere un determinato concetto in maniera volgare; adattando quindi questa scurrilità alla
lingua italiana, si ottiene “improvvisamente mi persi perché sbirciavo dove non avrei dovuto,
ormai non sapevo più dove cazzo stavo andando”.
Inoltre, José Agustín, sempre nell’ottica di creazione di un linguaggio nuovo e
definitivamente fantastico, gioca spesso con il suono delle parole. In alcuni casi le fonde assieme:
è ciò che succede, per esempio, con “delicuentos”, che è un gioco di parole tra delincuente e
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cuentos e che si rende in italiano con “racconti-delinquenti” (deliracconti sarebbe stato un
neologismo fin troppo forzato), oppure “Luciofer”, crasi dei nomi Lucio e Lucifero. In altri casi,
i termini appaiono solo al fine di costruire rime e assonanze: l’esempio più eclatante è quello di
“no tienes ganas de vivir en una casa cual debe de ser, cual débora kerr, corrige Lucio”. Il
riferimento a Deborah Kerr, attrice britannica che si trova all’apice del successo a cavallo tra gli
anni ’40 e ‘50 del Novecento, ha senso solo in virtù della sua somiglianza fonetica con il “debe
de ser” precedente. La traduzione che propongo vuole quindi rispettare, assieme al significato
diretto dell’enunciato, ovvero l’esortazione a vivere in una bella casa, anche il fatto che ci sia una
rima e che questa sia resa con il nome di un’attrice famosa (anche se appartenente all’immaginario
culturale italiano): con “davvero non hai voglia di vivere in una casa da bravi cristiani, come Anna
Magnani, corregge Lucio”, viene data più importanza al gioco fonico perseguito dall’autore a
discapito del fatto che si percepisca che si tratta di un testo straniero.

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4. Bibliografia

PEREIRA, Armando, Diccionario de literatura mexicana. Siglo XX, Città del Messico, Ediciones
Coyoacán, 2004.

AGUSTÍN, José, Cuentos completos, Città del Messico, Debolsillo, 2001.

5. Sitografia

http://www.elem.mx/. Enciclopedia de la Literatura en México.

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