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Valentina Diana

Smamma

Einaudi
a mia mamma
Siamo tutti naturali e nel tempo.
Anche tu e io.
Come molte altre persone che scrivono, anch’io, quando scrivo,
scrivo di cose che mi stanno vicine. Questo libro è ispirato alla mia
vita, ma non è la mia vita. Fatti, dialoghi, personaggi e situazioni
sono della materia di cui son fatti i sogni.
Il come

Alle cinque del pomeriggio è sempre cosí, tu in camera tua e Gi


che gioca a Ruzzle nel suo sgabuzzino. Non c’è da stupirsi se mi
sento sola e mi vengono le idee.
Alle cinque e dieci ho bussato, non hai risposto.
Busso di nuovo, niente. Ho aperto un po’ la porta, ci ho infilato
dentro la testa. Eri sul letto sbagasciato al buio col cellulare in mano
e le cuffie alle orecchie.
– Tutto bene?
Hai tolto le cuffie, hai detto Eh?
– Tutto bene??
Hai fatto un segno con la mano a paletta come dire S-mam-ma.
– Eh?
– Smamma, – hai detto a parole, come a tradurre il significato del
gesto che stavi facendo con la mano.
– Aaah, – ho detto, come dire Ora capisco.
Ho chiuso la porta sussiegosa.
Ci penso un po’, dietro la porta. Poi la riapro. Apro la bocca per
dire qualcosa tipo Smamma tu carino. Tipo Come ti permetti di dire
smamma a tua mamma.
Tipo Cosa ci fai nel letto alle cinque di pomeriggio come un
anziano depresso.
Tipo Alzati dalla cuccia e vai a studiare, debosciato.
Invece ho detto: – Ti ricordi quel libro che ti leggevo da piccolo
quando facevi il bagnetto? Quel libro della scimmia che perde la
mamma? Sai mica dove l’abbiamo messo?
– Eh?
– Dicevo, quel libro, ti ricordi quel libro che ti piaceva da piccolo, il
libro della scimmietta che perde la mamma nella foresta e scambia
la giraffa la farfalla e la struzza per la sua mamma? Non lo trovo piú
e mi serve, pensavo che magari era rimasto in camera tua.
Ti sei posato il cellulare sul petto, hai detto: – Ti serve a cosa?
– Cose mie.
E stavo per dirti Ti piaceva da pazzi, quel libro. Te lo leggevo
durante il bagnetto e dopo ti riempivo di borotalco profumato, ti
ricordi il profumo del borotalco? Prima di scoprire che il borotalco è
tossico. Ha un odore buono, ha un bebè verde disegnato sulla
confezione, ma è altamente sconsigliato per i bambini. E io
t’innaffiavo di borotalco dalla testa ai piedi. Hanno poi fatto il sequel
di quel libro, La scimmietta cresce, s’intitola. Verso i quindici sedici
anni quella storia di quando non trovava piú la sua mamma le torna
su di colpo, si scopre che è stato un trauma.
Stavo per dirti.
Ma tu hai fatto di nuovo quel segno con la mano a paletta. E per
compendio, nel caso non mi fosse stato ancora chiaro, l’hai detto
anche a parole. – Smamma, – hai detto.
Io ho richiuso la bocca, ho richiuso la porta.

Però non mi davo pace. Ho ripreso a parlare col naso a un


centimetro dal vetro smerigliato. Da dentro potevi vedere una forma
tonda e deforme (la mia faccia) con al centro qualcosa che si
muoveva ostinata (la mia bocca) dire: «Il fatto è che io non so come
fare con te, e ti vorrei ammazzare. Ti voglio bene. Sei mio figlio. Ma
se dei marziani venissero a riprenderti e dicessero Tutto bene, è
stato un esperimento, è uno di noi, per questo non vi capivate, ce lo
riprendiamo, non dico che sarei sollevata. Stapperei una bottiglia di
champagne. Questo perché io ti odio. Io ti amo, a volte, non posso
negarlo. Ma per la maggior parte del tempo, io ti odio».
Avevo detto tutto questo quasi limonando con un vetro
smerigliato, ma ne era valsa la pena.

A questo punto, mi dico, tanto vale portare a termine la missione.


Riapro appena la porta e infilo la testa nella fessura. Nessuna
reazione e silenzio.
– Sei sicuro che non sia qua, il libro, ti dispiace se do un’occhiata
in giro?
Sempre bello svaccato hai ripreso le cuffie che avevi di fianco, le
hai guardate come per controllare che fossero proprio le tue e non
quelle di qualcun altro, ne hai divaricato l’archetto per posizionarle
sulle orecchie e, prima del sottovuoto definitivo, hai asserito
perentoriamente la parola S-mam-ma per la terza volta.
E a me è venuto all’improvviso, non so perché, da pensare a
quella s di smamma.
Che come esse doveva avere una funzione che non mi veniva in
mente, e che dovevo consultare subito a tutti i costi il dizionario
etimologico.
Perciò non dico piú niente, di quello che volevo.

Corro in cucina dal pc.


Digito: dizionario etimologico, viene fuori etimo.it, digito s, viene
fuori quello che sospettavo.
Chissà, ho pensato, se la s di smamma sta per ex o per dis, o se
è invece un bell’appoggio, un bel rinforzo, come dire appunto
sbattere, battere molto forte, sbeffare, beffare moltissimo, smamma
molto mamma, super mamma.
Gi, anche se era in partitella con Xandrabel.68 (avatar ruzzleiano
di Clara, la madre dei suoi primi due figli, nonché sua ex moglie),
doveva aver sentito qualcosa, perché si è messo a gironzolare per la
cucina con la scusa di cercare un temperino e ha buttato lí come per
caso (lo sa che nelle cose tra me e te deve farsi i cazzi suoi): – I
rapporti d’amore possono generare disperazione, e lo fanno.
Da quando, invece d’inchiostrare i fumetti gioca a Ruzzle e vince,
Gi è diventato filosofo.
Gi sostiene che quando una cosa è difficile da affrontare, come
smettere di fumare, basta far finta che sia passato tanto tempo. Per
esempio, se da due giorni non fumiamo, basta convincersi che sono
già tre anni e due giorni che alla sigaretta non ci pensiamo neanche
piú. E la stessa cosa la si può fare con tutto, è una tecnica facile
basata sul fatto che il tempo è come una cura, una specie di
cicatrizzante. Dice Gi.

Gi dice anche: Le situazioni vanno affrontate con calma. Tutto si


può sistemare.
Però non dice mai il come. Gioca a Ruzzle. Vince.
Faccio un caffè

L’adolescenza è una cosa naturale, come la vita.


Non è detto però che una cosa naturale sia per natura buona con
noi. Anzi. Una cosa naturale il piú delle volte è solo naturale.
Per la teoria degli insiemi la Natura non è che un insieme molto
grande al quale noi apparteniamo. Non è lei che ci appartiene, siamo
noi che apparteniamo a lei. La natura non ci vede neanche, siamo
troppo piccoli per i suoi occhi.
La natura vede solo cose grandi o molto grandi come il mare, le
montagne, il cielo. Cose cosí.

I figli non sono criceti. Non sono pesci rossi. Per quanto possa
sembrare strano, sono una cosa molto diversa. Però spiegare cosa
sono di preciso è difficile, sfuggono a qualsiasi definizione. Sono una
cosa che se non gli stai dietro, se non ti ci dedichi, cresce lo stesso.
Gi era andato a Bologna a trovare i suoi figli, mi ha telefonato
stamattina per dirmi Sai cosa ha detto Claudio ieri sera prima di
addormentarsi? Ho programmato il mio futuro, manca solo il nome
della scuola media, poi il classico, poi la Paolo Grassi a Milano, poi
farò l’attore, poi andrò in pensione, poi morirò all’Ospedale Maggiore
dove sono nato.

I figli, se crescono, diventano sempre piú qualcosa che non segue


le regole del tuo immaginario.

Nella palestra comunale noi mamme un po’ ci stipavano nello


spogliatoio un po’ subito fuori dalla porta. Ce ne stavamo lí, a fumare
al freddo. Aspettavamo bisbigliando che la lezione di karate finisse
per riprenderci i nostri figli, portarceli a casa per la cena.
Avevi otto anni, io trentasette.
Ho sentito che dopo gli inchini, prima di farvi uscire, il vostro
marziale maestro vi diceva, guardando in direzione nostra: Trattatele
bene le vostre madri, io la mia non l’ho trattata bene poi è morta e mi
è dispiaciuto tantissimo.
Ho pensato che il tuo insegnante di karate fosse un deficiente.
Poi negli anni questa idea del trattare bene le mamme l’ho molto
rivalutata.
Faccio un caffè.
Gi dice che non è possibile, non c’è nessun figlio che non ami la
sua mamma. Anche se può non sembrare, anche se dice il contrario,
anche a cinquant’anni anche a novanta finché vive, dice Gi, un figlio
amerà sempre la sua mamma.
E allora, gli dico, Nerone? Oreste? Pietro Maso?
Siediti

– Sí. Ecco. Oggi ho parlato con la tua prof di italiano. (Non potevo
farne a meno, visto che mi aveva convocato).
– Ha detto?
– Il problema non è tanto quello che ha detto rispetto al tuo
rendimento, quanto semmai il fatto che mi pare intendesse dire che
questo tuo rendimento evidenzia dei problemi che
– Cioè?
– Cioè, mi sembra che lei volesse comunicarmi il fatto che non
capisce bene, quando sei in classe, a cosa pensi e se te ne frega
qualcosa di quello che succede, dato che, a quanto mi dice, tu,
durante la lezione, ti estrani completamente e, a quanto mi dice,
sembri stare in un mondo tuo che lei non riesce a immaginare che
mondo sia, che però non sembra essere, a quanto mi dice, lo stesso
mondo nel quale stanno lei e tutti gli altri tuoi compagni di classe.
(Stai sul pezzo).
– Che cazzo dice?
– Dice che tu, durante la lezione, per esempio, fai dei disegni.
(Porcatroia).
– Disegni? Che disegni?
– Questi (tiralo fuori, tiralo fuori dalla borsa). Sí. Mi ha dato questo
foglio, per fare l’esempio dei disegni che fai. Dice che l’ha preso
dalla prima pagina del tuo quaderno. (Belli, però, questi disegni,
forse avrei dovuto insistere perché facessi l’indirizzo artistico ma tu
non volevi perché dicevi che fare gli artisti è da sfigati, portando me
a riprova del fatto che avevi ragione, dicendo che tu da grande volevi
fare un lavoro dove si guadagna tanto. Quale lavoro per esempio? Il
politico corrotto).
– Non li ho fatti io. Sono di Lupo. Era il quaderno di Lupo. Lo
stavo usando perché non avevo un quaderno.
(Uno a zero).
– Bene. Comunque, non è di questo che stavamo parlando. La
tua professoressa dice anche che tu hai detto che ti eri rotto le palle
che per il Giorno della Memoria si leggessero cose sull’Olocausto.
(Calma). Perché hai detto una cosa simile? Per provocazione?
– No.
– Perché allora l’hai detto? (Calma, calmati). Perché dici queste
cose che le persone che non ci conoscono
– Ho detto solo che è una palla. Ovvio poi che vi lamentate
dell’antisemitismo. Rompete i coglioni. Si potrebbero anche leggere
altre cose, non ci sono solo gli ebrei che sono stati vittime, cazzo,
allora se dovessimo leggere cose su tutte le vittime sai che palle.
– Sí. (Cosa stavamo dicendo? Non mi ricordo piú cosa dovevo
dire all’inizio del discorso). Ma tu sei ebreo. Il Giorno della Memoria
è un giorno importante perché di cose cosí gravi come l’Olocausto
non ne sono successe poi tante nella storia recente (mah) ed è
importante stare in guardia e ricordare per evitare che possa
ricapitare in futuro, tenendo conto che l’antisemitismo è latente
(saprà cosa vuol dire latente?) e viene fuori sempre in situazioni di
crisi, come ad esempio questo periodo, perché gli ebrei sono
sempre stati, da sempre, insieme naturalmente ad altre minoranze,
come gli zingari o gli omosessuali, ad esempio, perseguitati, nei
momenti in cui la gente aveva bisogno di prendersela con qualcuno
per sfogare le proprie paure, le proprie frustrazioni, la voglia di
arrabbiarsi e trovare un capro espiatorio (capro espiatorio, ecco la
parola che cercavo), per sentirsi al sicuro. E quindi il fatto di
ricordare questa cosa orrenda che è successa, neanche tanto tempo
fa, non duemila anni fa, non trecento anni fa, ma solo settanta anni
fa (non è, adesso che ci penso, una buona ragione, ma non
t’interrompere, vai avanti), è importante per tenere alta la soglia di
guardia, per far sí che la gente, ricordandosi, non ricaschi nella
tentazione di farci fuori tutti. Noi e gli omosessuali e gli zingari. E
anche gli altri che rischiano di fare una fine simile.
– Mangiamo?
– No.
– Ho fame.
– Stiamo parlando. (Lo stai perdendo, il pippone sul Yom Ha-
Shoah dovevi stringerlo).
– Di cosa mi devi ancora parlare?
– Del fatto che tu hai delle responsabilità rispetto a quello che fai,
a quello che dici, a quello che non fai eccetera.
– Ma io ho detto quello che pensavo.
– Hai detto una cazzata.
– Secondo te. Secondo me no.
– Secondo me hai detto una cazzata. E non soltanto secondo me,
anche secondo la maggior parte delle persone (conformista del
cazzo, che cazzo dici?) Cioè hai detto una cosa molto provocatoria e
molto grave. E allora, se la pensi davvero, questo mi preoccupa.
– Perché ti preoccupa. Non ti preoccupare.
– Come pensi di fare se ti bocciano?
– Perché dovrebbero bocciarmi?
– Perché hai sei insufficienze, per esempio. Gravi.
– Non so.
– Non sai? Vuoi una proposta?
– No.
– Non vuoi che ti dica come secondo me potresti fare se non vuoi
essere bocciato con sei insufficienze.
– No.
– Va bene. Fammi poi sapere tu, se a un certo punto senti di
avere bisogno di un aiuto o di un suggerimento o di qualunque cosa
possa occorrerti per far fronte a questo problema.
– Storia.
– Cosa storia?
– Se mi dai una mano.
– Vuoi una mano a studiare storia?
– Te l’ho detto. Cosa devo fare, ridirlo?
– Mangiamo, poi studi storia e poi ripetiamo insieme. (Come fa Gi
coi suoi figli, che qualche volta il giovedí li fa ripetere e qualche volta,
se capita, gli fa addirittura i compiti. Gi dice che non c’è niente di
male, allora io con te farò come fa Gi coi suoi figli, ti aiuterò a
ripetere e sarà bellissimo).
– Ma’, ora che ci penso, me la ripasso da solo, storia, se mai.
– Adesso non vuoi piú che ti aiuti? Hai appena detto che ti serviva
un aiuto e già non lo vuoi piú?
– Sí, ma chiedo a nonna.
– E cos’avrebbe piú di me nonna, a spiegare storia?
– La sa spiegare.
Sicuro

Io la prossima settimana non ci sono, ti ho detto. Dove vai? hai


detto. A Bologna, ho detto. A fare cosa? hai detto. A lavorare, ho
detto. Ti pagano? hai detto. Un po’, ma non subito, ho detto.
Quando? hai detto. Non so, ho detto. Quando torni? hai detto. Dopo
una settimana, ho detto. Mi dispiace dover partire di nuovo, ho
aggiunto. Sai quanto me ne frega che parti, hai detto. Devi dire a Gi
che non mi beva la mia acqua, hai aggiunto. Che acqua? L’acqua
che è nel frigo, è mia, hai detto. Perché? ho detto. Me la sono
comprata io, e lui me la beve, mi dà fastidio. Ma tu bevi la sua, ho
detto. La sua è del rubinetto, ci mette l’acqua del rubinetto. Ah, ho
detto. Glielo dico, ho detto. E anche il dentifricio, hai detto, mi
spreme tutto il dentifricio e lo lascia senza il tappo. Sei sicuro che sia
lui? ho detto. Hai detto che sei sicuro.
Solide basi

Con Karen ci siamo sentite su Skype, c’eravamo date


appuntamento perché dovevamo decidere se portare o no a
Marsiglia lo spettacolo il prossimo autunno, le ho detto che io e
Edoardo ne avevamo già parlato, che per noi Marsiglia andava
bene. Karen ha detto che però lei potrebbe raggiungerci solo due
giorni prima del debutto, perché prima avrà da fare a Berlino, e di
tenerci pronti perché vuole cambiare tutto. A Karen non piace
lasciare gli spettacoli cosí come sono, le piace che io e Edoardo si
vada in scena col panico, con la memoria fragile e una confusione
mentale al limite del tragico, perché secondo lei è piú interessante. È
un tragico molto comico, secondo lei. Solo io e Edoardo siamo
capaci di rendere comico l’imbarazzo di recitare in tre lingue
conoscendone bene una sola. Comunque abbiamo deciso di dire di
sí a Marsiglia.
Poi Karen ha detto Cara (Karen mi chiama sempre Cara, e allora
anch’io la chiamo Cara, è una nostra convenzione lessicale), ha
detto Cara, a parte le cose di lavoro, dimmi di te, come stai? Quando
mi chiede come sto ho sempre l’impressione che lo faccia per tirarsi
su il morale.
Le ho parlato di te. Le ho detto che da quando ero tornata dalla
tournée le cose andavano ancora peggio di prima, che ero stata via
quattro mesi e mezzo e tu ti eri spiaggiato, i tuoi voti erano ai minimi
storici e mi trattavi da schifo. Le ho detto che non me lo sapevo
perdonare.
Allora Karen ha detto Cara non sentirti in colpa, non l’hai mica
abbandonato sotto un ponte. Secondo me, ha detto Karen, questo
senso di colpa viene piú da dentro di te che dal teatro, io con due
figli (sottolineato due) faccio traduzioni, faccio teatro, faccio
moltissime cose eppure non mi sento mai in colpa, perché ho creato
delle buone basi.
E poi Karen ha detto Conosci Il Manuale dello Specialista
Tedesco? Compra il Manuale dello Specialista Tedesco e seguilo in
tutto e per tutto. È un manuale molto intelligente. È tedesco. Non è
un manuale di quelli che t’immagini tu, che semplificano tutto in
ovvietà e frasette idiote, ha detto Karen, fidati, vedrai che seguendo
passo passo questo Metodo non ti sentirai piú per niente in colpa,
anzi, sono sicura che riuscirai a trasformare tutte le difficoltà con
Mino in punti di forza. Il segreto sono le buone basi.
Ma tu l’hai letto questo manuale? ho chiesto a Karen.
Non ancora, ha detto, ma io lo Specialista Tedesco lo vedo tutti i
giorni ai giardinetti, si chiama Markus, siamo amici perché i nostri
cani sono amici.
E tu come stai, Cara? le ho chiesto.
Bene, ha detto Karen, traduco un libro di Carrère.
Carrère mi piace, le ho detto, ma trovo un po’ irritante il fatto che
parli sempre delle sfortune degli altri, come se non ne avesse di
proprie, su cui fare i suoi romanzi.
Possibile, ha detto Karen, possibile. Allora tu, ha aggiunto subito,
non avresti problemi a fare un romanzo, con tutte le sfighe che ti
capitano.

Sono uscita un attimo dal campo della webcam, ho aperto il


cassetto della cucina, quello di tutte le cose che non servono ma
hanno un posto, ho preso il pacchetto del tabacco secco che aveva
dentro ancora due cartine. Mi sono girata la prima sigaretta dopo tre
anni e sei giorni che non fumavo. Sono tornata nel campo della
webcam. Ciao Cara! ho detto.
Qui nevica, ma la bici la usiamo lo stesso, ha detto Karen
agitando la mano in saluto.

Ho comprato Il Manuale dello Specialista Tedesco. L’ho comprato


perché me l’ha detto Karen e anche perché il titolo m’ispirava fiducia.
Con molta disperazione e molta speranza ho comprato Il Manuale
dello Specialista Tedesco versione italiana e l’ho posato sul tavolo.
Gi è uscito dal suo sgabuzzino, l’ha preso in mano, l’ha sfogliato,
ha detto Interessante, finito il rendering lo leggo anch’io. Poi è
tornato a giocare a Ruzzle.
Il fatto è che io voglio impegnarmi. Voglio essere una madre
normale ma sono disperata perché non so da che parte cominciare.
Ma a quanto pare c’è la speranza.
La speranza è di uscire dal caos che provoca la disperazione.
La disperazione siamo noi, io e te e tutto quello che piú o meno ci
sta intorno. Le scarpe puzzolenti, le formiche in cucina, la tua lacca
per i capelli.
Non dà istruzioni precise

Cos’è la famiglia? chiede il Manuale. La famiglia è una relazione.


Può anche darsi. Non ne so molto di famiglie. La mia famiglia non
è mai stata una relazione, mai. È stata un luogo in cui prima tre poi
quattro poi tre poi quattro poi cinque poi di nuovo quattro poi di
nuovo tre poi ancora quattro poi nessuna persona, hanno passato
del tempo insieme e hanno usato la stessa cucina, gli stessi
asciugamani e la stessa chiave di casa, non facendosi domande o,
comunque, non facendosi le domande giuste.
Le domande giuste dovrebbero essere il segno di una relazione,
secondo il Manuale, e anche secondo me, dunque: una famiglia.
Non avendo mai avuto una famiglia, del tipo da manuale, mi è
stato difficile costruirne una per te.
Quando ho desiderato, come molti fanno, di farmi una famiglia
mia, perché era abbastanza normale, addirittura fisiologico e
naturale desiderarla, la famiglia, dacché ho pensato di farmela, mi è
venuta subito storta.
Era una famiglia che come famiglia, nel senso di una famiglia
come m’immaginavo potesse essere una famiglia non avendone mai
avuta una, era piuttosto una non famiglia.
Un inseguimento di una famiglia.
Due persone di sesso diverso fanno un figlio o piú di uno: voilà, la
famiglia.
Famiglia famiglia fa-migg-gglll-ia.
A volte capita che ripetendo tante volte una parola, dopo un po’ la
parola stessa perde significato. Come uno che parla al telefono e
parla e parla e poi si accorge che dall’altra parte non c’è piú
nessuno. E pensa che ha parlato da solo chissà da quanto, magari
cinque minuti, e tutto quello che ha detto è finito nella cornetta.
E quindi, famiglia, col cazzo, mi viene da dire.

Sull’argomento il Manuale non dice altro. Non dà istruzioni


precise. Perché quelle sono le basi. In un manuale non si può
parlare di tutto, alcune cose devono essere per forza date per
acquisite. Come a scuola i numeri pari e dispari. Alle superiori non ci
si può mettere a spiegare da capo il concetto di numeri pari e
dispari.
C’è un tempo per ogni cosa.
Tu sí, lui no

Alle sei e un quarto stamattina Jovanotti ha cantato Quando sarò


vecchio sarò vecchio nessuno dovrà piú venirmi a rompere i coglioni,
ma contrariamente alle previsioni di Gi, tu eri già barricato in bagno
col phon acceso.
Da quando Gi ha trovato un lavoro da illustratore a Modena il
mercoledí, per una casa editrice di libri scolastici, si punta la sveglia
alle sei e un quarto precise. Gi dice che si è studiato bene la
situazione del mattino, che è sicuro che tu ti svegli sempre alle sei e
mezzo e occupi il bagno fino alle sette meno un quarto, ma alle sette
meno un quarto esci per fare colazione col succo d’arancia e i
cereali, ed è lí che, a sentir lui, si aprirebbe la breccia temporale per
la sua barba. Quello che ci salva è che tu sei molto abitudinario e
non sgarri mai sugli orari del mattino, sostiene Gi. Quindi, secondo i
suoi calcoli, il bagno è libero tra le sei e un quarto e le sei e mezza e
poi tra le sette meno un quarto e le sette in punto, ora in cui tu, fatta
colazione, vuoi lavarti i denti, e Gi deve giocarsi tutto in quei minuti lí,
perché massimo alle sette e dieci dev’essere in auto verso
l’autostrada.
Tutto questo a causa del fatto che Gi deve per forza farsi la barba
per andare a Modena, perché non è una casa editrice di tipo
artistico, non fanno fumetti artistici, quindi gli illustratori e soprattutto
gli inchiostratori sono abituati a vederli con la barba fatta, non come
se la tiene lui di solito per stare nel suo sgabuzzino a giocare a
Ruzzle, à la Paz.
Stamattina era il quarto mercoledí del suo lavoro e Gi è entrato in
camera dove io dormivo ancora, nonostante l’ululo di Jovanotti, e ha
detto a voce sufficientemente alta Mi ha fottuto.
Allora mi sono dovuta per forza svegliare e ho chiesto Chi, e Gi
ha detto Indovina.
Ho detto Vuoi che lo faccia uscire dal bagno a calci in culo?
Ha detto Me la cavo da solo, sono cose tra noi e tu non c’entri.
Allora ho pensato Se te la cavi da solo potevi anche non
svegliarmi. E mi sono rimessa a dormire.
Ma poi sono subito stata invasa da un’infinita pena per Gi, e mi
sono alzata e sono venuta di là a vedere come andavano le cose tra
voi.
E ho visto Gi in piedi fermo come un alabardiere davanti alla porta
del bagno. Aspettava che tu uscissi, senza bussare e senza farsi
sentire, per non disturbarti. E dietro la porta del bagno alle sei e
quaranta, e da oltre quaranta minuti, c’eri tu, dentro, che facevi
qualcosa col phon.
Allora, contro il volere di Gi che faceva di no con la testa, ho
alzato il mio pugno vendicatore e bussato con prepotenza.
Hai detto Che c’è?
– Esci, è tardi e Gi deve farsi la barba che è mercoledí.
– Non se la poteva fare ieri?
Ho guardato Gi che non diceva niente, sempre fermo lí, fiero.
– No, – ti ho detto, – non se la poteva fare ieri, perché la barba se
non lo sai uno se la deve fare la mattina.
– Se la poteva fare ieri notte invece di giocare a Ruzzle, – hai
detto.
– Non ci si può fare la barba di notte, si rovina la pelle.
Non ero sicura di quello che dicevo ma contavo sulla tua
inesperienza in fatto di barbe.
– Un attimo, – hai detto.
Gi sempre impassibile, in piedi in mutande davanti alla porta del
bagno, mi ha dato un bacio sulla fronte.
Abbiamo aspettato.
Hai fatto andare il rubinetto del lavandino, l’acqua della doccia, il
phon, tutto assieme per qualche minuto. Sembrava un concerto di
Stockhausen.
Hai spento il phon, hai chiuso l’acqua della doccia e quella del
lavandino.
Hai aperto la porta del bagno.
Nell’uscire hai sorriso con educazione a Gi, hai detto Prego,
cerimonioso. Lui è entrato.
Dopo, quando eri sicuro che non ti sentisse, mentre ti versavi la
spremuta d’arancia nel bicchiere, mi hai detto:
– Se deve andare a lavorare a Modena, scusa, perché non se ne
stava a Bologna che era anche piú vicino?
– Perché Gi adesso vive qua, non ce l’ha piú la casa a Bologna, –
ti ho detto piano perché non sentisse, – vive con noi perché ci
amiamo.
– Appunto, – hai detto, – è una cazzata.
– E tu, perché ti sei svegliato alle sei se la scuola comincia alle
otto e sai che Gi il mercoledí si deve fare la barba e ha bisogno del
bagno?
– Perché io ho i capelli, – hai detto.
La renna c’è

Edoardo lo sa cos’è Abercrombie, ha detto che è la mecca dei


fighetti milanesi. Adesso lo pronuncio bene, ma all’inizio l’avevo
capito completamente diverso. Avevo capito Abel Krombiz. Stavo
tornando in treno da Bologna, tu mi hai chiamata e hai detto Visto
che per venire a casa passi da Milano già che ci sei fai un salto da
Abel Krombiz (come l’avevo capito io) che è un negozio che c’è solo
a Milano, a prendermi un costume da bagno? Mi sono scritta un
appunto. Ero molto contenta che tu mi avessi chiesto una cosa cosí
facile come passare da un negozio di un tipo ebreo, un certo Abel
Krombiz, a prenderti un costume da bagno.
Ho chiamato Edo, gli ho chiesto se lo conosceva, perché lui ne sa
abbastanza di cose di moda. Piú di me e di Gi, comunque. Edo ha
detto sí. Non mi ha detto niente del nome però, che non era Abel
Krombiz nome e cognome, ma tutto attaccato Abercrombie, ha
aggiunto solo: credo sia in San Babila, ma chiedi.
Nel frattempo tu mi hai chiamata tre volte, per specificarmi il
modello del costume, e il colore, e di non comprarlo medium, ma
small, e rosso, eccetera.
Poi mi hai chiamata che ero appena uscita dalla metropolitana per
sapere se l’avevo trovato, ti ho detto che no, che ero nella piazza
giusta, ma non lo vedevo ancora. Infatti non è proprio in piazza San
Babila, mi hai detto, è un po’ spostato piú in là. Calmati che lo trovo,
ti ho detto, e poi ti chiamo io.
Non mi chiamavi mai quando ero via per lavoro e adesso di colpo
quattro telefonate una dietro l’altra. Tre ragazzini a cui ho chiesto
dove fosse Abel Krombiz hanno detto Non si può sbagliare signora,
va dritta giú di là e poi lo vede, è dove ci sono tutte vetrine di
specchi. Lo riconosce dalla coda fuori, signora, ha detto un altro.
Signora, signora.
Ho camminato dritta giú di là. Camminavo, faceva caldo, erano
tutti giovani.
Quando sono arrivata ho capito che ero caduta in una delle tue
fottute trappole.
Sulla porta d’ingresso c’era un afroamericano nudo sopra e alto
quasi due metri che non ti lasciava passare se non rispondevi alla
domanda Vuoi fare una foto con me?
Una foto con me, ma dài. Scherzerà, ho pensato, sarà un
simpatico, ho pensato.
Ma non scherzava.
Ma non chiedeva a me.
Era lí sulla porta di quel posto e chiedeva Vuoi fare una foto con
me a chiunque entrasse. E quello era solo il primo vagone di un
lunghissimo trenino dell’orrore che quel luogo riservava agli entranti,
grandi e piccini.
Superato il fotomodello nero accattivante, sono entrata e non
c’era niente, nessuno a cui chiedere Scusi, per i costumi? Niente.
C’era una ninfetta aggrappata al mancorrente di una biforcazione di
una scala, c’era un americano palestrato con maglietta attillatina. Ma
nessuno a cui chiedere un’informazione. Non sembrava un posto in
cui si vendono vestiti. Era buio. Per esempio. Chi ha mai visto un
negozio buio. Questo era buio. E poi c’era un profumo, un odore che
t’impestava le narici e ti faceva lacrimare gli occhi. Ovunque
quest’odore di uomo sudato che si sta profumando senza prima
lavarsi.
La ninfetta mi sembrava comunque l’essere piú disponibile al
dialogo, le ho chiesto Per il settore costumi da bagno? Mi risponde
con la voce di Candy Candy: Vuoi per maschio o per femmina? Per
maschio, dico. Cioè, aggiungo, per mio figlio. Cioè lui non c’è ma mi
ha mandata lui per comprargli appunto il suo costume da bagno,
perché noi non siamo di Milano, cioè, dato che lui l’ha visto su
internet mi ha chiesto se dato che ero a Milano passavo di qui.
Non è che mi stesse proprio ascoltando, perché nel frattempo
doveva per forza (forse per contratto) continuare a sculettare a ritmo
di musica aggrappata al ferro.
La musica era forte. Fortissima. Rendeva difficile anche pensare.
Comunque la ninfetta mi ha urlato Vai su di qua, poi prendi il
corridoio lungo a sinistra, poi o lo trovi lí o al limite chiedi, se mai.
Se mai.
Sono salita sulla scala destra, quella opposta al mancorrente a
cui stava appesa lei.
Al piano di sopra niente piú ninfette. Solo bestioni dai gesti
morbidi e vagamente troppo eleganti. Persone che non diresti mai
che sono lí per venderti qualcosa. Persone in posizioni plastiche
assurde, per dei commessi di un negozio di abbigliamento.
Ho chiesto a un maschione se per favore poteva dirmi se c’erano
dei costumi da bagno e lui ha detto Yessss. E ha indicato uno
scaffale col dito. Seguendo quel dito, al buio, ho trovato una pila di
costumi.
Tutti di un tipo. Mi pareva.
Cioè, erano tutti uguali. Mi pareva. Tutti rossi. Mi pareva. E tutti
small.
Ho preso su uno di questi rossi small e ho detto: Questo.
Sicura? ha detto lui. No perché la taglia è importante.
Sí.
Aveva i pantaloni molto attillati, lo si coglieva anche in quel
semibuio a tratti illuminato dalle strobo. A momenti. Il suo pacco. A
momenti no.
Comunque è per mio figlio. Lui li ha già visti sul vostro sito e ha
detto che vuole una small.
Allora hai preso quello giusto. È piccolo? ha detto il bisteccone.
No. Piccolo no. È, come, come dire. Piú. Non so. Cioè (ho detto di
nuovo cioè) è alto piú o meno come me, però piú, piú stazzato. Un
po’ di piú.
Come me? ha detto.
(Ma sei scemo?) No, ho detto, non mi pare proprio. Piú come me,
forse con i fianchi piú stretti ma le gambe piú grandi. Cioè. Non so.
Non mi ricordo.
Allora lui ha preso il costume rosso e se l’è messo davanti per far
vedere la misura, se l’è messo tipo un gonnellino per farmi capire se
era giusto o no come taglia.
Figo, dico. Sí. Lo prendo proprio.
Allora lui mi ha detto Ti accompagno alla cassa. E io ero contenta,
anche perché senza luce non sapevo dove andare.
Alla cassa era pieno di luce.
E c’erano dei tipi, sempre abbastanza stazzati ma vestiti come
mormoni. Biondi. Con la faccia pulita. Educati. Che ti facevano
capire, con quella faccia, che un costume era ben poca cosa. Anche
se costava sessantacinque euro.
Accettate bancomat? ho chiesto al bambino biondo di dio.
Ha detto Sí certamente, yes. Con una specie d’inchino.
Poi mi ha parlato proprio con una gentilezza impensabile e mi ha
detto: Nel caso non dovesse per qualsiasi motivo andare bene è
importante conservare lo scontrino e indossare il capo con le
mutande sotto per poter accedere alla sostituzione.
Ha detto proprio accedere alla sostituzione. Aveva la frangetta
molto corta, i denti bianchissimi. Si sbianca i denti come te, questo,
ho pensato. Si mette quell’aggeggio luminoso in bocca tutte le sere
come fai tu, che te ne vai in giro per casa con quella specie di
sopradentiera in plastica luminosa sbiancadenti che ti sei fatto
comprare (non da me). Ma poteva essere anche un effetto della
luce, lí alla cassa, quasi fluorescente. Comunque, ho detto, credo sia
la taglia giusta. Anche se nel caso tengo il bigliettino.
E poi ho pagato.
Ho digitato il codice e i sessantacinque euro se ne sono andati al
signor Abel Krombiz.
Beato lui.
Beati tutti voi con questi corpi, pensavo mentre me ne andavo via,
via via, voi con questi corpi da canone policleteo, che vi muovete,
che vi aggirate con queste luci che vanno e vengono a ritmo di
musica, di questa musica forte. Via.
Quando sono uscita poi ti ho chiamato.
Sono uscita, ho detto, mi hai mandata a comprarti il costume da
bagno nella discoteca del paradiso?
Cioè? hai detto. L’hai trovato o no?
Cosa? ho chiesto.
Abercrombie.
Sí che l’ho trovato. Volevi che capissi qualcosa?
Il costume. L’hai preso? hai chiesto.
Il costume l’ho preso, ce l’ho qui.
L’hai preso rosso? hai detto.
L’ho preso rosso, ho detto, e lo tiravo su fin fuori dal sacchetto.
Cartoncino nero lucido tutto profumato di quel profumo vomitato. È
rosso.
Ce l’ha la renna? hai chiesto.
Che renna?
La renna di fianco.
C’è la renna non c’è la renna c’è la renna non c’è la renna. C’è.
La renna c’è. È piccola.
Sí. Dev’essere quello.
Allora arriviamo stasera.
Compra la cocacola, hai detto.
Ti ho detto No. Veemente. Perché l’ho detto? Già mi hai mandata
lí in quel posto, già sono stata in quel posto e adesso anche la
cocacola. No.
Per principio.
Per non dire sí.
Ho detto no.
Il nemico numero uno

Suonavano al cancelletto di casa.


Ho chiesto Chi suona?
Hai detto Nessuno.
Ti ho visto uscire e rientrare furtivo.
Chi era?
Nessuno.
Nessuno ti ha portato una confezione da sei bottiglie da un litro e
mezzo di cocacola.
Se noi

Ultimamente spio nelle case. Forse alla ricerca di una soluzione,


dato che mi è presa questa fissa di osservare le famiglie. Cioè, per
dirla come Il Manuale dello Specialista Tedesco, le relazioni tra le
persone che condividono uno stesso spazio abitativo.
Ho guardato molto nelle case, da fuori.
Quelle villette, in inverno, quando fa freddo e per le strade fiocca
neve, ho spiato le case dalle finestre, ci ho guardato dentro per
cercare di capire.
Mi è sembrato che in quelle case regnasse un’armonia, a
guardarle da fuori, una stabilità, una normalità, che noi non ci siamo
mai potuti sognare.
Io vorrei essere con tutta me stessa in una di quelle case che
guardo da fuori.
Vorrei che io e te e Gi stessimo tutti e tre insieme in una di quelle
case, case che dal di fuori, guardandole dalle finestre, quelle villette
serene o quegli appartamenti in centro, con i soffitti alti e i lampadari,
m’ispirano un senso di perfezione incommensurabile.
Se noi stessimo là. Se noi stessimo là dentro e non cosí fuori, le
cose filerebbero in un altro modo.
Mi sono appostata a osservare gli abitanti delle villette a schiera e
dei condomini per vedere cosa avevano loro che eventualmente a
noi mancava.
A parte i soffitti dipinti.
Niente. Non facevano niente. Niente di particolare. Si alzavano, si
spostavano. Accendevano magari una luce in una stanza, poi la
spegnevano.
Chiudevano le tendine o le lasciavano aperte. Riponevano i piatti
nell’acquaio, sparivano, ricomparivano gesticolando con qualcosa
nella mano. A volte ridevano. Mi pareva che ridessero.
Niente di particolare, come ti dico. Niente che lasciasse presagire
un segreto. E allora perché noi no, perché non possiamo anche noi
avere quello swing. Mi chiedo se qualcuno, passando fuori da casa
nostra e vedendo per esempio me e te e Gi a tavola, seduti zitti che
ci ascoltiamo masticare mentre tu con le cuffiette segui Juve-Roma
sull’iPhone, mi chiedo se qualcuno passando potrebbe avere
l’impressione, da fuori, che anche noi si sia una famiglia. Una
famiglia normale.
Tre bicchieri in meno

A casa di Macchianera c’erano le tagliatelle fatte apposta per te.


Il Meschino mandato a far spesa per l’occasione aveva comprato
quello che lei gli aveva scritto sulla lista, che aveva messo in tasca
appallottolata e poi perduta, tanto, diceva, mi ricordo tutto a mente.
Ma quella volta lí si era ricordato a mente solo l’insalata russa e le
olive.
Macchianera, arrabbiata per quell’insalata russa industriale, si era
rifiutata di mangiarla.
Tu ne avevi già messa un po’ nel piatto, ne avevi già mangiata un
po’, mentre il Meschino farfugliava qualche scusa e gli occhi di
Macchianera lampeggiavano saette, tu hai smesso di mangiare e hai
voluto cambiato il piatto, per le tagliatelle della nonna. Per non
sporcare le sue tagliatelle con l’insalata russa industriale.
Il Meschino è subito accorso da te, con la mano leggermente
tremolante ti ha preso il piatto e l’ha messo nell’acquaio per
sostituirtelo con uno pulito.
Macchianera l’ha redarguito che il piatto nell’acquaio con l’insalata
russa dentro non ci va, che prima si buttano gli avanzi e poi si mette
il piatto vuoto nell’acquaio (sottointendendo vecchio rincoglionito).
Il Meschino si era messo a raspar con le dita della sua mano da
pianista nel tuo piatto sporco tirando su un bel mucchietto e si
aggirava allampanato per la cucina alla ricerca del sacchetto
dell’organico. Tu guardavi con disapprovazione.
Quando il Meschino ha finalmente trovato il secchio dell’organico,
le tagliatelle gettate da poco nell’acqua bollente stavano
cominciando a fremere e l’acqua, con la schiuma del bollore,
minacciava la tracimazione.
Guarda che ti esce tutto, hai detto al nonno.
Il Meschino si è prontamente diretto verso i fornelli, pulendosi la
mano sulla gamba destra del pantalone prima di tirar su la pentola
col suo bollore.
Macchianera, seduta, lo osservava con perfetto disgusto.
Io e Gi eseguivamo il compito di mantenere la calma.
Solo il Meschino si agitava ancora intorno alla tavola
maldestramente.
Vuoi una mano? gli ho detto.
Ma lui non poteva sentirmi a causa della lieve sordità senile.
No no no, ha detto Macchianera. Fa da solo, ci mancherebbe. Lo
diceva, questo, perché c’era Gi, che comunque era un ospite.
Gi intanto, alle prese col cane di Macchianera, un po’ faceva le
carezze, un po’ lo scostava per non farsi leccare il piatto.
Io guardavo fuori dalla finestra, le altre gabbie dei cani di
Macchianera. I cani che non avevano il diritto di stare in casa.
Il Meschino nel frattempo aveva sollevato la pentola e rovesciava
le tagliatelle un po’ dentro lo scolapasta, un po’ per terra e un po’
sulle sue dita di vecchio pianista.
Nessuno ha detto né fatto niente.
Il Meschino è abituato cosí, a dare continuamente prova della
propria abilità, per dimostrare che non è ancora venuto il tempo di
abbatterlo. È una cosa che il Meschino e Macchianera si fanno fra
loro, ma anche in presenza d’altri, cosí tu hai appreso da lei l’arte del
comando, dell’insulto e della sopraffazione dei miti e degli indifesi.
Anche se a tuo nonno vuoi molto bene.
Il Meschino appena seduto a tavola mi ha detto: Sai la sonata
opera 26 di Beethoven in la bemolle maggiore? Sono in fase di
cambiamento, di miglioramento. Io pensavo di averla capita cinque
anni fa, quando ho fatto il concerto ad Alessandria, mi sembrava di
averla capita bene, ma adesso vedo che non è cosí.
Mentre il Meschino mi parlava dall’altra parte della tavola, ho
notato che tu sputavi a ripetizione pezzetti di pomodoro nel piatto.
È una cosa che fa proprio schifo, ho detto.
Se non gli piacciono, ha detto Macchianera.
Tu facevi finta di non sentire, continuavi a bersagliare il piatto di
cosine rosse.
Il Meschino mi spiegava di come Horowitz avesse interpretato la
sonata e di qualcun altro, forse Backhaus, non ricordo. Lo sai che
Horowitz è stato maestro del mio maestro? diceva. Il mio maestro
era veneziano e andava con la moglie di un direttore d’orchestra. Un
giorno quel direttore d’orchestra lo ha convocato per dirgli davanti a
tutti Si dice che tu te la faccia con mia moglie, e sai cosa gli ha
risposto lui?
(silenzio)
No s’è veeeeeeero. Capito? Gli ha detto No s’è vero. Ha negato,
capito? Ha negato tutto.
Anche se era vero e lo sapevano tutti. Eh eh.
Ti era ormai chiaro che il tuo sputare pomodorini nel piatto mi
arrecava un fastidio, ma avevi comunque deciso d’intensificare e
perfezionare i lanci, allontanandoti il piú possibile dal piatto per
saggiare la crescente precisione della tua mira. Parte dei pezzetti di
pomodoro ora cadevano ancora nel tuo piatto, ora al di fuori, ora
molto al di fuori. Quasi nel mio, che ti sedevo accanto.
Infatti dopo un po’ ho ridetto Che schifo.
Il Meschino mangiava le sue tagliatelle rapido, tutto compreso e
concentrato, perché sapeva che di lí a poco un altro ordine di
Macchianera lo avrebbe allontanato e non voleva.
Per qualche minuto siamo stati normali. Cinque persone davanti a
un piatto con forchette e coltelli e bicchiere.
È stato poco dopo che tu, rivolgendoti a me, hai detto Sei tu, che
fai schifo.
Gi mangiava le ultime tagliatelle e stava zitto. Non voleva rovinare
la serata.
Io non sputo la mia roba nel tuo piatto, ho detto.
Macchianera faceva la faccia di una che dice Son boiate.
Fai schifo lo stesso, hai detto, ma eri calmo. Ti vesti da pezzente,
perciò fai schifo perché sei una pezzente del cazzo anche se non
sputi niente.
Quest’ultima cosa, pezzente del cazzo, a casa nostra, secondo la
mia opinione, non l’avresti mai detta. Ma non eravamo a casa
nostra. Eravamo a casa di Macchianera, nell’era di Macchianera
sotto la giurisdizione di Macchianera. Per questo l’hai detta.
Allora ho detto Pezzente del cazzo lo dici a qualcun altro, tenendo
entrambe le mani posate sui lati del piatto per essere sicura che non
ti si alzassero contro.
La tensione cresceva.
Il Meschino, finite le sue tagliatelle, visibilmente soddisfatto e
ignaro della situazione, era un signore proprio contento. Suono solo
un passaggio, ci ha detto, alzandosi da tavola. Poi mi dite se
preferite questa versione o quella che facevo prima.
Macchianera, appena il Meschino ha attaccato a suonare, ha fatto
girare gli occhi e si è versata dell’altro vino nel bicchiere.
Tu ti sei alzato, stavi per uscire dalla cucina.
Metti il tuo piatto nel lavandino, ti ho detto.
Lo mette il nonno poi.
Metticelo tu, ho detto, le mani sempre ferme.
E tu l’hai messo. Però non l’hai posato, l’hai tirato.
Tutto è partito dal rumore di quel piatto lanciato, da quella
tensione che era sul punto di scatenare un fulmine. E quel fulmine
ce l’avevo in bocca.
C’è stata una lite, durante la quale tu parlavi a voce bassa, con
mezzi sorrisetti di scherno, e io urlavo, forsennata, come un’erinni.
Tu mi sfidavi con parole lente, io mandavo in pezzi tre bicchieri della
Nutella di casa di Macchianera, fino alla tua frase finale: È tutta la
tua cultura del cazzo che fa schifo, infatti come vedi non ti è servita a
un cazzo dato che sei una sfigata e manco c’hai piú la macchina.
E lí c’è stata la trasmutazione. Lí mi sono trasformata in quella del
film L’Esorcista e ho proferito, a detta di Gi, che ha poi testimoniato,
le seguenti parole: Fai male a dire che la cultura non serve a un
cazzo figliolo, perché qualsiasi lavoro ti venga il guizzo di fare, pure
di gran lunga piú redditizio del mio, pure se volessi putacaso
vendere il culo, anche lí, vedrai, dovrai intrattenere i clienti con
qualche parola e ti potrà venire molto comoda allora, vedrai, un po’
di cultura generale, per trovare argomentazioni sempre nuove e per
non annoiarli, i clienti, per essere spigliato e almeno un po’ brillante,
mentre te lo pigli al culo.
Tutto questo lo dicevo mentre raccoglievo i restanti piatti
disordinatamente con le mani non piú sotto controllo, ahimè.
A detta di Gi io proferivo tali parole, anche se, ora, non ne ho un
ricordo preciso.
Lui dice che è stato lui, appunto, Gi in persona, a operare
l’esorcismo, a scacciare il demone che mi possedeva e a convincere
il mio corpo, ormai spossato, a salutare tutto e tutti con la mano e a
salire in macchina per tornare a casa.
In macchina mi pare non sia successo altro. Gi guidava, si sentiva
solo il rumore del motore e del cambio, quando Gi cambiava marcia.
Tu, con estrema gentilezza, mi hai chiesto se ci fosse il latte, per la
tua colazione del mattino dopo, io ti ho detto di sí, che il latte c’era.
Di colpo era finita la furia. Ci sono anche i Plasmon, che in quel
periodo eri fissato coi biscotti dei neonati e mi è venuto in mente che
te li avevo comprati.
Il giorno dopo Gi ha detto che era meglio se non ci andavamo piú
da Macchianera, che al limite era meglio riprendere la consuetudine
di far venire loro a casa nostra. Che secondo lui andare in quella
casa non mi faceva bene e avevo detto cose che era proprio meglio
non dire mai, cose cosí, a un figlio, per niente costruttive. E io avevo
detto Sí. Infatti anche a me sembrava di non aver fatto tutto per
bene, e tornando indietro col pensiero e andando avanti piano,
cercavo e ricercavo il momento in cui le mani, da ferme e controllate,
si erano sollevate e insieme a loro le labbra si erano mosse, ma non
lo trovavo, non c’era, quel momento. Ed era quel non sapere che mi
preoccupava, quel non sapere piú niente di niente di quello che era
successo e del perché.
Allora Gi ha detto Facciamo finta che sono passati già tanti mesi e
che ci siamo dimenticati tutto e non ci pensiamo piú.
E quel giorno poi ero andata in un negozio e ti avevo comprato
una felpa col cappuccio con su scritto Tutte le mamme dicono mio
figlio è il piú bello del mondo ma solo la mia ha ragione, che però
non ti piaceva perché, dicevi, quella marca lí era da sfigati.
Sulla torta

Quando non so piú come prenderti vado al supermercato e


compro una torta di quelle nei sacchetti, che si preparano in fretta.
Potrei farla anche da zero, con la farina, il lievito eccetera. Ma non
mi sento sicura. Voglio fare una torta da vera mamma, ma non
sapendo bene cosa sia una vera mamma, mi affido al sacchetto con
l’impasto pronto. Perché in quel sacchetto c’è tutta la mammità che
riesco a immaginare. In quel sacchetto ci sono tutte le mamme
patinate, coi sorrisi a trecentosessantacinque denti, con i capelli
puliti e lucidi e le tette floride. Ci sono anche le mamme delle
mamme con la loro esperienza di mamme di una volta e la loro
saggezza su come si fa una torta e come si tirano su i figli.
Quando non so piú che pesci pigliare, compro una di queste torte
nei sacchetti.
Dopo, quando la tiro fuori dal forno, annuso il profumo e penso
che vorrei che tutta la nostra vita fosse come quel profumo:
inattaccabile.
Ma una torta non è una mamma.
Poso la torta sul tavolo, la lascio lí, esco. Quando torno la torta è
stata tagliata e mangiata quasi interamente, ne hai lasciato solo due
minuscole fettine per me e per Gi.
Due fettine di cortesia.
Una torta di dimensioni non eccessive, ma neanche un tortino.
Deduco che ti sia piaciuta.
Non parliamo mai delle cose che ti piacciono.
Cos’è?

Con la massima civiltà ho detto: Perché quando chiedi qualcosa,


come anche solo mi porti di qua o mi porti di là, non dici mai il
perfavore?
Perché è tuo dovere farmi le cose.
Tuo dovere un cazzo, carino. Tuo dovere un cazzo.
Dato che sei mia madre.
E tu sei mio figlio allora. Sarà un destino che ci ha assortiti cosí?
Sarà un disegno divino? Che sia il karma? Il karma, sí. È una cosa di
cui mi parla sempre un mio amico che fa yoga. Dev’essere cosí, che
tu, per esigenze karmiche tue, legate al tuo personale ciclo di
reincarnazioni, hai deciso, per ragioni imperscrutabili, di venirtene a
stare con me sotto il mio tetto, prima nella mia pancia e poi in giro
per casa dappertutto. Sarà cosí. Se però adesso il posto non ti
piace, se non lo trovi confortevole, sono problemi tuoi se il tuo karma
ti ha portato qua e non in un centro benessere. Ti devi adattare.
Io mi adatto a te, tu ti adatti a me.
Una mamma cos’è?
Una che fa le torte. Una che lava i piatti. Una che stira. Una che fa
la differenziata. Una che piega le cose e le ficca nei cassetti. Una
che mette le bollette pagate una sopra l’altra. Una che fa la raccolta
dei punti del supermercato. Una che ripassa la matematica la storia
la geografia l’italiano e l’inglese. E asciuga il bagno dopo che ti sei
fatto la doccia. Che raccoglie le formiche con la scopa e le mette
nella paletta e le butta fuori. Una che versa lo zucchero nella
zuccheriera. Che compra il Nesquik quando è finito. Che mette via le
calze spaiate. Che lava i vetri.
Come si distingue una mamma da una colf? Se avessimo la colf,
la chiameresti mamma?
Scrivo

Alla radio hanno spiegato che le cose lette prima di addormentarsi


rimangono impresse nel subconscio. Allora ho chiesto a Gi: Prima di
dormire me la leggeresti qualche pagina dello Specialista Tedesco?
Gi cerca gli occhiali, se li mette, aggiusta la luce e legge piano:
Attenti. Achtung bitte. Non raccontatevi storie. Se le cose tra voi e i
vostri figli non funzionano, siete voi a dover cambiare strategia. Se i
vostri figli hanno atteggiamenti provocatori è perché hanno bisogno
di provocarvi. Se i vostri figli vi mancano di rispetto è perché in un
certo senso non meritate il loro rispetto. Se i vostri figli non sono in
sintonia con voi, siete voi a essere fuori sintonia. Infatti questo
Manuale è stato scritto per voi, non per i vostri figli. I vostri figli non
hanno colpe.
Sticazzi, dico sbadigliando.
Continuo?
Continua.
E mentre lui legge io cado in coma onirico.
Mi sogno che faccio una torta glassata rosa enorme e perfetta, tu
la vedi e congiungi le mani in segno di massimo rispetto, t’inchini e
dici Madonna.

Il giorno dopo mi sono svegliata di pessimo umore, mi girava in


testa quella frase I vostri figli non hanno colpe I vostri figli non hanno
colpe, mi si era incastrata nel subconscio e non riuscivo a
liberarmene. In automatico faccio il caffè e accendo Rai3 (parlano di
diciotto anni di pena al magnate dell’eternit, calcolo:
trecentosessanta per diciotto, diviso per tremila vittime, viene fuori
due giorni virgola sedici per ciascuna. Appena due giorni virgola
sedici di prigione), arriva Gi col Manuale in mano, lo apre a pagina
otto, lo posa sul tavolo, prende la sua tazzina e se ne va al cesso a
giocare la sua prima partitella.
Attraverso la porta gli urlo Ti pare bello? Secondo loro io mi
comprerei il manuale di uno specialista per farmi insultare in modo
specialistico. Lo trovi giusto?
Nessuna risposta, solo grandi trilli di vittoria.

A pagina otto c’è scritto Inutile arrabbiarvi, inutile cercare di


affermare le cose con autorità, l’unica è parlare, condividere i dubbi,
occuparvi nello specifico di ogni singolo problema quando si pone
nel momento in cui si pone.
Provate a scrivere quello che succede, aiuta a prendere le
distanze e a farvi sentire meno coinvolti, a evitare reazioni impulsive
e irrazionali.
E allora scrivo.
Ieri, durante la cena, hai detto ripetutamente che gli
extracomunitari sui barconi che affondano avevano solo da
restarsene nel loro Paese.
Guardo quello che ho scritto e cerco di prendere le distanze.

Hai sostenuto con veemenza che Mussolini a parte un paio di


errori come entrare in guerra al momento sbagliato ha fatto anche un
sacco di cose buone per il popolo.
Per esempio?
Per esempio, hai detto, ha vietato la musica straniera e ha fatto
sviluppare solo la musica italiana.
Sai che il nonno e tutta la sua famiglia facevano musica da ballo e
durante il fascismo se ne andavano in giro a leggere i contatori
dell’acqua perché la sera non si potevano accendere le luci e non si
poteva ballare da nessuna parte? Chiamalo, ho detto, chiama il
Meschino e chiedigli bene come andava la musica italiana sotto il
Ventennio.
Hai chiamato il Meschino.
Il Meschino in viva voce ha confermato che c’erano solo canzoni
italiane con parole italiane di italiani tipo Parlami d’amore Mariú, o
Vincere, che faceva (sempre in viva voce)

Temprata da mille passioni


la voce d’Italia squillò!
«Centurie, coorti, legioni,
in piedi che l’ora suonò»
Avanti gioventú!

Vabbè, hai detto. Almeno difendeva i musicisti italiani.


Guardo quello che ho scritto, cerco ancora di prendere le
distanze.
Un giorno che studiavi hai letto che per tutelare i privilegi degli
ateniesi, il democratico Pericle aveva stabilito che fosse ateniese
solo chi aveva entrambi i genitori ateniesi, discriminando quindi i
cittadini delle colonie.
Una cosa di destra, hai detto, ben fatta.
Prendo distanza, riapro il Manuale. Attenzione! dice in grassetto e
colore rosso a pagina dieci, se vostro figlio vi provoca, è inutile
cadere nella provocazione.
È un esercizio di potere. Vostro figlio vuole trasformarvi in una
belva assetata di sangue? Lo fa per dimostrarvi che voi non siete,
come pensate forse di essere o come comunque cercate di
sembrare, ragionevoli, democratiche persone rispettose del
prossimo (chi l’ha tradotto sto manuale?), voi siete invece bestie
sanguinarie intrise di odio cieco. E lo siete, cosa da non
sottovalutare, per sua volontà.
Quindi, a fronte di una provocazione di vostro figlio, voi, con la
massima civiltà di cui siete capaci, chiedetegli con calma Perché?
Perché, figlio mio, mi stai provocando? E poi parlate di cosa questa
provocazione vi fa venire in mente, con onestà e sincerità e,
soprattutto, rispetto.
Gi esce dal cesso con un foglietto in mano. Era appallottolato
sulla lavatrice, dice.
C’è scritto in stampatello Comunisti punto, schiattate in un gulag
punto.
Volevo che tu lo sapessi

Pensavo a questo fatto che io, il barista del bar Mariú, se me lo


immagino, lo vedo dietro il bancone che batte il filtro contro il legno
per svuotarlo del caffè vecchio, o che riempie i bicchierini d’acqua ai
clienti, non me lo vedo che fa benzina o che balla il tango con sua
moglie. Anche quella del reparto pescheria del Pam, ci salutiamo
come se ci conoscessimo, ma, se adesso chiudo gli occhi e penso a
lei, per quanto sforzi la fantasia, riesco a vederla solo con una cuffia
in testa e i guanti di gomma. Credo di non averle mai visto i capelli,
non so neanche se li ha.
Cosí, se qualcuno per caso ti chiedesse chi sono io, risponderesti,
com’è ovvio, che sono tua madre. Ossia una cosa tua, che riguarda
te, che esiste declinata in quella direzione lí, di madre tua.
Però ci sono molte altre mie declinazioni che a te sfuggono,
questo volevo dire.
Quando sei figlio è normale pensare che i genitori siano piú che
altro genitori, che un padre sia piú che altro un padre e una madre
sia piú che altro una madre. Però quando si è genitori non si è solo
genitori, questo pensavo, ci sono molte altre cose che un figlio non
s’immagina proprio. Questo pensavo.
Potrebbe essere che io, oltre a essere tua madre, sia anche
qualcos’altro per qualcun altro, senza nulla togliere a te, che mi sarai
per sempre figlio e su questo non ci piove.
Ti starai chiedendo perché ti dico queste cose strane che
oltretutto neanche ti dico, sono qui sola, davanti allo specchio del
bagno, la verità è che non so proprio da che parte cominciare,
stamattina, con questo cazzo di discorso e parlo, parlo, parlo da
cinque minuti e non dico niente perché non sono capace di fare
questo discorso che non so.
No.
Cancelliamo tutto.
Sai, a volte è che uno si sente che è arrivato il momento di fare
una scelta vera, che sia come un segno che separa tutto il tempo
che è venuto prima da quello che viene dopo. Un segno che, piú che
una scelta, sia la memoria di una scelta. Come un tatuaggio o un
piercing, ecco sí! che uno si fa per ricordarsi di qualcosa di molto
importante che non vuole che sia dimenticato mai, solo che, invece
che sul corpo, questa scelta la fa nel nulla, nella distanza che separa
una persona dall’altra persona, in modo che quella distanza sia
diversa da tutte le altre. Per sempre. O quasi.
Vabbè.
Baaaaaaaaaaaaa, buuuu, maaaaaaaaaaaaaaa, brú, brí. Boh.
Io e Gi ci vogliamo sposare.
Volevo che tu lo sapessi.
Le prove

La tua bisnonna, la veneranda madre di Macchianera, mi ha


telefonato oggi per dirmi: Tu e tuo fratello ai tempi che studiavate,
non vi si faceva mancare mai un piatto caldo in tavola. Embè? le ho
detto. Vergognati, ha detto, e ha sbattuto giú la cornetta. Non capivo
proprio cosa intendesse dire. Poi, indagando, ho capito. Hai detto a
Macchianera che io non ti do niente da mangiare. Perché vai a dire
cose del genere a Macchianera? Sei scemo? Vuoi vedermi
cerebralmente morta? Cosí Macchianera l’ha detto alla veneranda
madre e quella poi con una voce straziata da campagna contro la
vivisezione mi ha telefonato per implorarmi, ma anche minacciarmi,
di darti da mangiare quando torni da scuola. Vedi tu.
Qua ci sono due hamburger. Devo uscire. Nella pentola trovi
anche del purè di patate, basta scaldarlo con un po’ di latte.
Ho fotografato tutto e l’ho spedito in allegato mail alla nonna.
Mentre mi metto lo smalto per non mangiarmi le unghie

Hai sedici anni. Io quarantaquattro.


Quando ne avevi tre, io ne avevo trentadue. Quando ne avrai
cinquanta io ne avrò settantotto, settantanove (dipende dal mese),
quando ne avrai venticinque, ne avrò cinquantaquattro. Quando ne
avevi cinque e venivo a prenderti all’asilo con tutti quei lettini dove vi
mettevano a fare il riposino dopo pranzo, tutti in fila, tutti sotto le
vostre copertine con il nome e il cuscino con la foderina con l’iniziale
di quelle che si appiccicano con il ferro da stiro, che bello. Avevo
trentacinque anni.

Quando eri piccolo ti facevo un massaggio indiano che avevo


imparato da un libro. Ti cospargevo tutto di olio profumato e ti
massaggiavo dalle dita dei piedi alla testa. Quel libro diceva che era
molto importante per il rapporto madre-figlio quel genere di contatto,
perché per un bambino molto piccolo quello è l’unico modo per
capire che al mondo ci sono altre cose oltre a lui e che non è solo.
Può stare tranquillo, diceva il libro, perché c’è qualcosa che gli
trasmette calore e lo fa sentire accudito amato e lo rilassa eccetera.
Non so se sia stato quel massaggio che ti facevo dopo il bagnetto
a farti diventare cosí stronzo.

Quando avrò cinquant’anni tu ne avrai ventuno. Chissà come


sarai quando avrai ventun anni.
Se ti sarai fatto furbo.
Giochiamo in casa

Il giorno prima che vengano a cena Macchianera e il Meschino, Gi


mi fa un lungo discorso pacato e mi dice di stare tranquilla, di
mantenere la calma e per nessuna ragione al mondo perderla. Allora
io mi preparo come per un incontro di pugilato dove Gi è il mio
allenatore, tu sei l’avversario e Macchianera è il tuo allenatore. O
viceversa. Gi mentre apparecchia mi dice Non stare subito sulle
difensive, dopo tutto questa volta giochiamo in casa, dobbiamo solo
mangiare, stare seduti, fare due chiacchiere e poi se ne vanno. Non
può succedere nulla.
Ma io so che quello che dice Gi non corrisponde al vero, l’incontro
di pugilato ci sarà. E sarà all’ultimo sangue.
Però per non essere sempre negativa e per dare l’impressione a
Gi di aver assimilato il suo discorso metto persino i fiori come
segnaposto e il vino in tavola.
Suonano. Sono Macchianera e i suoi. Apro il cancelletto.
Il loro arrivo è preannunciato da uno sbattere violento di portiera
con fragoroso rimbombo di materiale plastico e lamiera.
Comunque perché li inviti se non li vuoi invitare? dice Gi prima
dell’ingresso solenne di Macchianera, il cane di Macchianera, e il
Meschino a seguire.
Con le migliori intenzioni ci sediamo tutti col tovagliolino in
grembo. Ci godiamo il nostro classico momento di apparente quanto
effimera normalità. Olé.
Tu arraffi e sbafi poi ti alzi e te ne vai, senza fare una piega,
senza salutare, senza manco guardare in faccia, emettendo al piú
con veemenza il solenne ruttone, accolto dalla bonaria benevolenza
sorridente di Macchianera che, come ormai solo poche tribú di alcuni
deserti africani, attribuisce ancora al rutto una valenza ancestrale, di
gradimento entusiastico del desco.
Io mi trattengo, penso.
Gi sputa lí delle allegre frasette idiomatiche in inglese
contemporaneo apprese da Memorize, tenendomi d’occhio e
tenendosi pronto.
Il Meschino, forte della sua semisordità cronica, mangia e tace e
sorride placido al vino e al pane canticchiandosi una sonata di
Beethoven, del periodo non piú mozartiano, in cui la forma sonata è
ormai anarchica, con degli allegri a sorpresa, e se la ridacchia tra sé
e sé di alcune battute sporcaccione dette da qualche suo collega
d’orchestra negli anni Cinquanta.
È allora che Macchianera, che non parla mai esplicitamente
mentre mangia, infila subito con i modi, con le parole non dette o
dette farfugliando, il suo puntuto dubbio.
Che tu possa aver subíto, al solito, qualche sopruso o qualche
lurida ingiustizia per mia mano.
Gli è che Macchianera pensa, in cuor suo, che tua madre, ossia
sua figlia, ossia io, non sia una madre in tutto e per tutto come in
tutto e per tutto una madre dovrebbe essere. Cioè, non si sa. Cosa
dovrebbe essere una madre. Cosa dovrebbe essere, non si sa
proprio. Ma l’insinuazione c’è.
Forse nella sua mente, con l’avanzare dell’età, si è formata
un’idea, un’immagine archetipica, avrà visto le figure nei libri, chissà,
statuine fittili del paleolitico inneggianti la Dea Madre. In effetti non si
sa cosa possa essere successo a Macchianera nel corso della sua
lunga vita, cosa abbia dato forma a quest’idea nella sua mente, che
una madre-madre sia una persona, ma neanche una persona,
un’entità, devota e dalle grandi tette, preposta a evitare al proprio
figlio, o alla propria figlia, qualunque tipo di contatto diretto con la via
della selezione naturale e qualsivoglia disagio. Dal disagio motorio
(camminare troppo) al disagio alimentare (non mangiare abbastanza
bistecconi o non mangiare abbastanza nutella o non mangiare
abbastanza tout court. Non bere abbastanza cocacola o non avere
latte o biscottini a sufficienza per la colazione). Per tale ragione,
quando arriva, Macchianera, col suo sbattere di portiera e la sua
coorte canina e meschina, arriva sempre recando seco un bustone
pieno di vivande a te solo destinate 1.
Anche le bisteccone sono sempre solo per te. Macchianera non lo
dice, ma si capisce da come le guarda e poi ti guarda e poi le
appoggia sul tavolo, che la bisteccona non è da intendersi bene
comune. Si tratta sempre e comunque di bisteccone (qualora il
numero sia superiore all’unità) destinate a tamponare un possibile
disagio nutrizionale tuo, da ficcare in freezer per far fronte a periodi
di grande carestia o cattiveria materna.
Stesso dicasi per tutto il resto dei cibi che Macchianera ti fa
scivolare furtiva tra le grinfie, come roba trafugata alla borsa nera,
per garantirti la sopravvivenza 2.
Oltre al problema nutrizionale di cui sopra, Macchianera, durante
le sue incursioni travestite da invito a cena, come un enorme deus
ex machina femmina e cicciona, rimedia miracolosamente a tutto.
Tutto ciò che a suo parere, e tuo di conseguenza, è connesso a
omissioni di soccorso cui, secondo il suo modo di vedere, e tuo di
conseguenza, tu sei per mia sciaguratezza sottoposto.
Macchianera ti passa cosí sottobanco (anche se dissimulate con
occhiatine e gesti circospetti, ben sapendo che si tratta di una cosa
che mi fa grandemente incazzare) le tue felpazze di cotone, le tue T-
shirt firmate e talvolta persino (lo so benissimo) banali mutande,
debitamente portate a lavare e stirare in tintoria. Pagata da lei.
Macchianera ha come caratteristica intrinseca e precipua il compito
di rimediare alle mie manchevolezze con il suo denaro. Denaro di cui
a suo dire è sempre in penuria, ma che non le impedisce di pagare,
all’occorrenza, ogni minchiata ti guizzi in testa. Compresa questa
che le magliette e le felpe di cotone vadano portate in lavanderia.
E molte altre piccole cose accadono durante quelle cene, nelle
quali Macchianera a ogni tuo sussulto va in fibrillazione per
controllare che tu abbia abbastanza parmigiano reggiano grattugiato
sulla pastasciutta.
Come un cane in un canile. Come un orfano in un orfanotrofio.
E allora, dopo un po’, non subito, io non sono piú normale. Non
ho piú voglia di riprodurre i gesti, di mantenere la prassi, non ho piú
voglia di servire in tavola, di versare l’acqua, di passare il sale, mi
canticchio delle canzoni nella testa, conto i minuti che mi separano
dal momento in cui Macchianera, ormai rifocillata e rasserenata, si
leverà dal cazzo.
I nonni, si sa, sono fatti per viziare i nipoti. Ma Macchianera non si
limita a viziarti, ti sobilla, t’induce a pensare che tutto il creato sia
stato creato per essere lavato e stirato per te.

1 Talvolta non potendo o non volendo sembrare sfrontata, aggiunge alle tue
vivande qualche uovo, dichiarandolo solennemente bene comune.
2 Nesquik, insalata russa in vaschetta, capesante precotte, latte
condensato, burro d’arachidi, biscottini vari, blocchi da due chili di parmigiano
reggiano biologico doc, pizzette.
Fai schifo a scuola

Il Manuale dello Specialista Tedesco circa l’atteggiamento da


tenere di fronte a uno scarso rendimento scolastico è piuttosto
scarno, dice: La paura di un insuccesso dei figli di fronte alla società
porta la maggior parte dei genitori ad abbandonare e colpevolizzare i
ragazzi nel momento in cui cominciano ad avere problemi scolastici.
Lo Specialista non ha inserito un capitolo importante dal titolo
Come convincere i vostri figli che hanno scelto di fare il liceo in piena
libertà, senza nessuna costrizione, che per fare il suddetto liceo
basterebbe ogni tanto sedersi al proprio tavolo con un libro davanti
e, leggendo questo libro, cercare di capire cosa c’è scritto.
Io non ti voglio per niente abbandonare né colpevolizzare, ti voglio
allenare. Prendo un foglio e una penna, mi siedo vicino a te e ti
faccio vedere come si fa uno schema.
– Sono convinta che molte delle tue difficoltà nello studio derivano
dalla mancanza di allenamento.
– Derivino, hai detto derivano.
– Intendevo dire derivino, l’ho detto per semplicità.
– L’hai detto sbagliato.
– Non mi ricordo piú cos’ho detto.
– Hai detto derivano.
– Comunque il senso l’hai capito? Stavo cercando di spiegarti
come si fa uno schema.
– Sí, ma se parli sbagliato, cioè, non sai usare i congiuntivi mi
pare.
– Non è che non li so usare.
– Sappia.
– Non è che non li sappia usare, è che a volte non voglio, usarli.
Se uno sa usare i congiuntivi, a volte, per scelta, può anche decidere
di non usarli.
– Posso prendere un fazzoletto?
– Prendilo, ma intanto ascoltami, stavo dicendo che quasi tutto,
scolasticamente parlando, può essere risolto per mezzo di uno
schema. So che adesso quello che ti dico può sembrarti
inverosimile, ma se tu imparassi a farti degli schemi, mentali, logici,
non avresti piú problemi.
– Perché ti sei tagliata la frangia?
– Allora, dico, stai attento o cosa, non ti puoi alzare per bere o
soffiarti il naso o pisciare in continuazione, fai attenzione un minuto.
– È storta.
– Cosa?
– La frangetta.
– E allora?
– Non potevi andare dal parrucchiere?
– Sono fatti miei come mi taglio la frangetta.
– Sí, però stai male.
– Me ne frego di come sto, sono fatti miei. Mie-i capito? Mi piace
cosí. Se volevo farmela dritta me la facevo dritta, non me la sono
fatta dritta perché dritta, la frangetta, è da cretina. L’ho fatto per
scelta di tagliarmela cosí, capito?
– Come il congiuntivo.
– Adesso prendiamo il cazzo di foglio, prendiamo la matita rossa
temperata e ragioniamo nel seguente modo. Parti dal centro, qua, ci
mettiamo La crisi della lega panellenica. Poi tutt’intorno facciamo
delle frecce, due, tre, un po’. Queste frecce indicano tutti i fatti
collaterali, quello che questa crisi panellenica comporta, le alleanze,
le conseguenze, capisci? Gli interessi degli spartani, gli interessi
degli ateniesi, i persiani eccetera. Tu fai delle freccette cosí, ecco, e
poi le colleghi, le colleghi tra loro. Cosí alla fine, quando guardi lo
schemino, col suo centro e la sua periferia, hai tutto un discorso.
Non devi imparare a memoria niente, devi solo ricordarti i
collegamenti e i ragionamenti che stanno dietro questi collegamenti,
che sono freccette. Capisci? Perché socchiudi gli occhi?
– No scusa, mi ero distratto un attimo, me lo rispieghi?
– Cosa?
– Tutto.
Ancora sulla torta

Ieri ho preparato una nuova torta. Nuova per modo di dire. Ho


capito che non devo cambiare tipo, quando manifesti
apprezzamento per qualcosa. Ho capito che ti piace che le cose
restino sempre le stesse per sempre immutate nel tempo. Se
cambiassi tipo di torta, sono sicura che subiresti un qualche genere
di trauma, non arriveresti a perdonarmi il fatto di aver cambiato
qualcosa che ti riguarda (la torta), senza interpellarti e senza aver
avuto la certezza (assoluta) che la seconda torta sia migliore della
prima.
Qualche volta ti ho fatto presente che non è possibile scoprire
niente, andare incontro a nessuna novità, se ci si limita a rifare
sempre la stessa torta, a frequentare gli stessi amici delle
elementari, a sentire sempre la stessa musica. Inutile. Cosí ho
deciso di ripetere per sempre sempre lo stesso modello di torta
margherita. Certo, qualche volta può venire un po’ piú cotta, qualche
volta meno, qualche volta ci posso mettere un po’ piú di zucchero
sopra, e qualche volta un po’ meno. Una volta l’ho anche fatta del
tutto senza zucchero. È stato un azzardo.
Questa cosa della torta è un fulcro molto importante per noi,
anche se il Manuale non la menziona. Ti piace in tutto, non solo nel
sapore, anche il packaging, la foto che riproduce la torta come
dovrebbe essere se fosse fatta seguendo, nel dettaglio e con
scrupolo, le istruzioni (banalissime) stampate sul retro. Infatti
all’inizio, le prime volte, confrontavi con l’occhio, per vedere se la
mia fosse sufficientemente somigliante a quella della riproduzione
fotografica. Ti ho fatto presente che per realizzare le fotografie
alimentari, i fotografi usano anche cose non commestibili quali
gommapiuma o plastica o schiume poliuretaniche varie. Hai detto
Non diciamo cazzate. Non volevi saperne che dietro quelle immagini
rassicuranti potesse nascondersi (anche lí) un tradimento, una
fregatura, un imbroglio.
Sento che se avessi un minimo di senso civico o come si chiama,
uno spirito umanitario piú pronunciato, io dovrei scrivere allo
Specialista Tedesco per dirgli d’inserire un paragrafo dedicato al
potere taumaturgico magico-affettivo della TortaMargheritaCameo.
Lo Specialista Tedesco afferma che l’adolescenza è un periodo
della vita in cui molte cose cambiano, contemporaneamente e molto
in fretta. Nel corpo si verifica una tempesta ormonale (non solo il
Manuale dello Specialista Tedesco, ma quasi tutti i libri e le riviste
usano quest’espressione Tempesta Ormonale, per descrivere il fatto
che ai maschi crescono la barba e i baffi, i peli sul petto e si fanno
seghe a ripetizione, mentre alle femmine crescono le tette, vengono
le mestruazioni e si fanno raccontare da quelle piú grandi com’è
quando si scopa). Forse si dice Tempesta Ormonale perché dà l’idea
di qualcosa che cade dall’alto, come la grandine, o che incombe,
sempre dall’alto, facendo una certa paura, come i tuoni e i fulmini.
Dev’essere per questo motivo che l’adolescente ha bisogno di
certezze e, se trova una torta che piú o meno gli piace, ci si
aggrappa. Cambiare tipo di torta può risultare molto destabilizzante,
quando uno, da un giorno all’altro, ha la barba.
O forse in questo caso l’adolescenza, come fenomeno e fatto
della vita, non c’entra niente. E forse ci sono milioni di adolescenti
sperimentatori, per i quali cambiare tipo di torta è un piacere e una
soddisfazione e solo tu, in fatto di torte, sei molto reazionario.
Forse si potrebbe ipotizzare una relazione tra il fatto di avere idee
reazionarie, al limite dell’anticostituzionale, e l’oscurantismo
pasticcero.
Comunque, non volendo sempre fare di tutto polemica, ed
essendo il modello di torta che gradisci quello di piú semplice
realizzazione, preferisco non sollevare questioni. Sperando che
questa tipologia di torta non esca mai dal mercato o che non venga
modificata nell’immagine, come è accaduto ai Kinder barrette al
latte, che dall’oggi al domani hanno messo la fotografia di un altro
bambino sul pacchetto. Hanno tolto quello che c’era sempre stato,
con la faccia abbastanza magra, la frangetta, l’aria composta di uno
che si comporta bene e per tale ragione può mangiarsi il Kinder
Barretta Al Latte, un bambino che io ricordo con la cravatta, o
comunque molto ben vestito e compunto, e l’hanno sostituito con un
ragazzone sano stile americano, sempre con frangetta ma questa
volta scomposta, con l’aria di dire Se me lo merito o non me lo
merito me ne fotto, datemi le mie kinderbarretteallatte o vi denuncio.
Se quelli della Cameo, per strategie loro, che nulla hanno a vedere
con la tua Tempesta Ormonale, sostituissero l’immagine della
TortaMargheritaCameo con un’altra immagine (sempre di polistirolo,
o di gommapiuma, ma diversa, piú gialla, o meno gialla), io non so
cosa potrebbe succedere.
Ultimamente, comunque, mi rendo conto che sono molto tesa
quando cucino queste torte dal procedimento elementare. Ho
sempre paura che non vengano abbastanza belle e uguali alla
fotografia. Se mi capita di distrarmi, o di metterle nel forno al piano
piú alto, che la serpentina incandescente è troppo vicina, può
accadere il peggio. Perché il mio forno non è da casalinga vera
come la mamma di Lupo. La mamma di Lupo non potrebbe mai
commettere errori su una torta cosí elementare, anzi, si rifiuterebbe
addirittura di farla, una torta cosí elementare. La mamma di Lupo ha
tre forni. Uno per le cose che richiedono una ventilazione, uno per le
cose che richiedono un forte calore umido e uno per tutti i giorni, che
è una via di mezzo. In piú, il suo forno è stabile, ossia quando metti
la rotella a una certa temperatura, la temperatura resta quella.
Invece il nostro fa un po’ quello che vuole. Si scalda. Ma non si può
sapere se mantiene la temperatura o se, col passare dei minuti, si
stanca, molla un po’, poi riparte. Quindi le cose cuociono, sí, ma a
balzelli.
La mamma di Lupo ti è sempre piaciuta, non solo per via dei suoi
tre forni, ha sempre ottenuto la tua approvazione anche prima della
Tempesta Ormonale. Anche quando eri piccolo dicevi che secondo
te io avrei dovuto vestirmi come lei. Perché la mamma di Lupo aveva
le mèches. E aveva delle cinture abbastanza vistose. E metteva i
collant e a volte anche la gonna. E aveva le scarpe pulite. In pratica,
se io avessi seguito lo stile di abbigliamento della mamma di Lupo,
invece che vestirmi da barbona senza cinture dorate e senza scarpe
da femmina, tu non ti saresti vergognato quando venivo a scuola a
prenderti. Perché tu già a sei anni dicevi che quando fossi stato
grande e avessi fatto il lavoro che desideravi (il politico corrotto), mi
avresti regalato una cintura di Dolce & Gabbana. Eri piccolo,
pensavo che poi, con il tempo, avresti smesso di cercare di fare di
me la madre di Lupo. Invece.
Riflettendoci con piú attenzione, la torta è un simbolo.
Rappresenta la dedizione, la cura, la manualità e l’accudimento,
tutte cose che dovrebbero stimolare lo sviluppo di una personalità
aperta e ben disposta verso il prossimo. Però tu, piú ne mangi, piú
diventi leghista.
Non vorrei adesso dilungarmi in smancerie.
Noto semplicemente che ci sono delle relazioni tra le cose, le piú
impensate.
Un pensiero tuo

Stai trafficando con una gruccia di metallo, di quelle della tintoria,


con in cima un calzino sporco che ti cade continuamente e che devi
recuperare appunto con il gancio della gruccia tenendola per le
estremità.
– Cosa fai? – ti chiedo.
– Lo porto in lavatrice.
– Non puoi portarlo con le mani?
– Mi fa schifo toccarlo.
– Il tema, dicevo, lo trovo un po’ stringato. Non parli molto di te e
neanche di quello che pensi, – dico.
– Mica sono scemo.
– Cioè?
– Nei temi mica ci metti quello che pensi, ci metti quello che
pensa la prof.
– E cosa pensa la prof?
– Chennesò.
– Allora perché hai scritto che la vostra generazione non ha spirito
di adattamento e non si sa sacrificare?
– Boh.
Intanto il calzino è arrivato davanti all’oblò della lavatrice ma non
ci vuole entrare. Tu lo sollevi e cerchi di tirarlo dentro come se a
centrare il buco si vincesse qualcosa.
– Pensi di non avere spirito di adattamento?
– No.
– Cioè?
– Non me ne frega un cazzo.
– Non te ne frega un cazzo della questione del lavoro?
– Non so, cosa dovrei dire?
– Non puoi parlare di te, di quello che vuoi fare tu?
– Sono cazzi miei, quello che voglio fare.
– Sí ma nei temi ci dovresti mettere un pensiero tuo. Non puoi
parlare del fatto che vuoi fare il dj?
– Sí cosí mi mette due.
– Perché?
Hai finalmente centrato il buco: dato che hai raggiunto l’obiettivo e
non ti serve piú, posi la gruccia sul bidet. Il posto piú indicato per una
gruccia.
– Mica posso scrivere che voglio fare il dj.
– Perché?
– Pensa che sono scemo.
– Pensi che sia da scemi voler fare il dj?
– No. Io no.
– Pensi che lei pensi che sia da scemi?
– È ovvio.
– Perché?
– Boh. Non me ne frega niente.
– Hai scritto «La nostra generazione non ha molto spirito di
adattamento anche perché, guardando per esempio la televisione,
molta gente famosa e ricca, pensa che sia facile arrivare a diventare
come loro. Però questa è piú che altro un’illusione. Infatti molte
persone della mia generazione non ci arriveranno. A causa di questo
avranno dei disagi psicologici». In che senso?
– Quello che hai letto.
– Ma tu lo pensi?
– No.
Lettera alla madre

La spiegazione mi sarà difficile anche


perché ho ripensato e rivangato tutto per
tanti giorni e tante notti, che anche a me
adesso si è annebbiata la vista.
F. KAFKA, Lettera al padre 1

1. Cara mamma,

scusa se nel mio libro ti ho chiamata Macchianera e ho scritto che sei


cicciona. Non sei cicciona. Un pochino sovrappeso, d’accordo, ma cicciona
no. Mi serviva un’immagine forte, solenne, ieratica, per quello ho usato quel
termine, cicciona, che non ha niente a che fare con le tue reali fattezze fisiche.
Anche se, per via della mancanza di altezza, non si può certo dire che tu sia
magra.

2. Cara mamma,

quando leggerai questo libro è possibile che tu ravvisi una qualche


somiglianza tra te e il personaggio di Macchianera. Non affrettare le
conclusioni e non lasciarti ingannare dalle apparenze. Prima che tu ti risenta
per la storia della portiera sbattuta che fa risuonare la lamiera eccetera, ti dico
subito che il personaggio di Macchianera è un’invenzione, non c’entra con te,
è un personaggio di fantasia. Non è vero che sbatti tanto forte la portiera della
macchina quando la chiudi. Qualche volta può succederti, non si può negare,
ma di solito mi pare di ricordare che tu la portiera della macchina la chiuda
senza grande frastuono. Quindi, come vedi, tra te e l’orribile Macchianera c’è
un abisso. Tranne qualche piccolo particolare, come ti ripeto, del tutto
involontario e casuale.

3. Cara mamma,
se trovi che il personaggio di Macchianera non ti rappresenti, se ti pare di non
essere cosí nella realtà e che il ritratto che emerge di te sia ingeneroso, poco
fedele, grottesco e caricaturale, chiedi in giro, a quelli che ci conoscono.
Chiedi un po’ e senti cosa dicono.

1 Trad. it. di Enrico Ganni, Einaudi, Torino 2011, p. 42.


Parlate con loro come a degli esseri umani

– Hai mai sentito parlare di Ludwig Wittgenstein? Era un filosofo


tedesco. Ha scritto un trattato. Cioè un libro con un insieme di
affermazioni e di considerazioni. E di deduzioni. E anche di ipotesi. Il
Tractatus è un trattato di logica del linguaggio: a ogni frase, a ogni
considerazione, lui aveva dato un numero. E poi a ogni
considerazione o commento sulla considerazione precedente aveva
aggiunto un punto e poi un altro numero. Cioè, per esempio Questa
è una mela. Uno. Dire che questa è una mela è già una cazzata.
Uno punto uno. Anche dire che dire che è una cazzata dire che
questa mela è una mela può essere a suo modo una cazzata. Uno
punto uno punto uno. Non si sa se questa mela sia. Uno punto due.
Già mentre dico questa, riferito a mela, forse sono su una strada
sbagliata. Uno punto due punto uno.
[posso usare Traktor duo 2 per il timecode?]
– Non so se mi sono spiegata abbastanza bene.
[potrebbe essere anche possibile gestendo due processi
separatamente, due schede, due software]
– Ludwig Wittgenstein era anche bello. Aveva una bella faccia,
intelligente e sensibile, e io ci pensavo molto, a lui, quando avevo la
tua età.
[ma io voglio spendere molto meno di 500 euro anche perché il
timecode non mi interessa]
– Molti miei amici ed ex fidanzati mi hanno confessato che si
portavano in bagno il postalmarket. Era un catalogo di acquisti tipo
quelli di internet dove scegli le cose dalle fotografie, però di carta.
[magari potrei prendere due schede audio Traktor audio 2 e usarle
per suonare a quattro decks non so. Che dite?]
– A loro piaceva guardare quelle ragazze dimesse in grembiulino,
con i capelli dietro le orecchie, le guardavano e si facevano delle
discrete pugnette.
[dipende quanti in e quanti out ha la scheda audio della Hercules]
– Invece io, alla tua età, di sesso non m’interessavo molto, mi
annoiava, mi faceva paura. M’interessavo molto, invece, a Ludwig
Wittgenstein.
[credo ne debba avere almeno due in e due out]
– Ecco, pensavo, se incontrassi uno cosí forse mi piacerebbe
pure limonarci. Perché Ludwig era una persona gentile e sensibile e
intelligente. Non era come i miei fidanzati. Era spirituale. Io pensavo,
se uno cosí spirituale volesse fare sesso con me lo farebbe per
ragioni spirituali, non come i miei fidanzati. Questo per dirti che
anch’io alla tua età avevo le idee poco chiare sul sesso.
[problema: siamo sicuri che Traktor mi permetta di usarne due
contemporaneamente?]
– Io e Ludwig Wittgenstein purtroppo non ci siamo mai incontrati,
essendo lui morto diciassette anni prima che io nascessi. Oltre al
fatto che era omossessuale e parlava tedesco.
[intendo suonare con uno Xone:1D e uno Xone:K2,
concentrandomi sul mixaggio e sugli effetti, messa a tempo col sync
e via. Mixer esterno ovviamente quattro canali]
– Sto leggendo una cosa che dice che ai figli che hanno compiuto
i quindici anni, e tu li hai compiuti, bisogna parlare come a degli
esseri umani.
[no per il timecode ti serve la versione scratch di Traktor]
– Prima ho parlato di Ludwig Wittgenstein, non solo perché
quando avevo la tua età ci volevo limonare.
[dico la Hercules Mk2 come scheda audio per il timecode con
programmi come Virtual Dj Pro o MixVibes Cross]
– Ho parlato di lui, perché lui ha detto che il linguaggio traveste il
pensiero.
[sospettavo che senza mixer non avrebbe funzionato, falli
dialogare col midi]
– Per me questa cosa che il linguaggio travesta il pensiero, non
so. La trovo molto profonda.
[falli dialogare col midi]
– Molto profonda e molto vera.
[devi farli dialogare col midi]
– Oltretutto Ludwig Wittgenstein era di famiglia ricca.
– Beato lui.
– A un certo punto ha deciso che dei soldi poteva farne a meno e
li ha dati via.
[li hai fatti dialogare?]
– Li ha dati un po’ qua e un po’ là, soprattutto a degli amici poveri,
artisti, poeti, persone molto spirituali ma che per vivere avevano
bisogno di mangiare e che non si sono fatti problemi a prenderli.
Perché essendo in bolletta permanente, consideravano quel dono in
denaro un dono gradito, e non un impedimento. Perché avevano un
altro punto di vista. A volte la stessa cosa può essere vista come un
impedimento da qualcuno e come un dono gradito da qualcun altro.
Dipende. Per Wittgenstein quei soldi erano un grande impedimento
perché gli venivano, diciamo, da uno stato che non aveva
determinato lui: li aveva, quei soldi, perché i suoi genitori e i genitori
dei suoi genitori li avevano. E lui in questo ci sentiva una
pesantezza, una pesantezza insostenibile. E pensava che con tutto
quel senso di pesantezza non gli sarebbe stato possibile pensare.
Perché gli sembrava che tutta quella pesantezza, dovuta appunto a
tutto quel denaro che aveva per ragioni che non dipendevano in
alcun modo dalla sua volontà né dalle sue azioni, ma solo dal fatto
che era nato in un determinato contesto familiare e non in un altro,
che tutta quella pesantezza, dicevo, gli schiacciasse il pensiero.
Come uno che tiene il piede sul tuo e non ti permette di camminare
con agio e di andare dove vuoi.
[se sei in esecuzione e schiacci play sentirai l’mp3 il classico «ta-
ta-ta-ta-ta» della pausa del Cdj Pioneer senza Vinyl Mode]
– Ma se non ci fossero stati quegli amici, probabilmente li avrebbe
buttati o messi vicino a un cassonetto dell’immondizia.
– Cioè?
– Per trovarsi in quella condizione aveva bisogno che niente lo
distraesse, neanche i soldi.
– Sí ma i soldi non sono mica una distrazione.
[per Traktor il problema non si pone perché ti serve il pacchetto
Scratch e a quel punto la Hercules la butti nel cesso]
– Secondo lui sí, erano una distrazione. Come avere la
televisione accesa tutto il tempo. E allora lui ha dato via tutti i soldi
che aveva, e ne aveva tanti, e poi è andato a fare il maestro
elementare.
– Che pirla.
[quella di buttare la Hercules nel cesso è un’opzione da tenere
sempre in considerazione].
We will figure it out

Finalmente ci siamo sentite, con Karen. Era da dieci giorni che ci


davamo appuntamento su Skype ma poi quando chiamava io non
potevo o se la chiamavo io non poteva lei, ci mancavamo sempre di
venti minuti. Ma questa volta ho provato per caso e per caso
c’eravamo tutt’e due. Abbiamo parlato un po’ di come vanno le cose
in Italia, cercavo di farle capire che qui non si capisce piú niente, ma
lei continuava a dire di non credere, che anche da loro non va tanto
bene e non si capisce niente.
Le ho detto che l’altro giorno alla radio ho sentito che invece da
loro in Germania va alla grande, per lo spread, che la
disoccupazione è praticamente a zero e l’economia gira che è un
piacere. Ma Karen ha detto secca Non è vero Cara, non mi pare
proprio, la Merkel è al servizio della finanza.
Ho detto Sarà anche al servizio della finanza, la Merkel, ma alla
radio hanno detto che voi siete gli unici che mentre tutti in Europa
perdono posti di lavoro li guadagnate, Cara.
Non so dove tu abbia sentito questa cosa, ha detto lei, ma non è
per niente cosí. Avrai capito male, Cara.
Ti dico che dicevano proprio che da voi in Germania le cose
vanno al contrario di come vanno in Grecia, in Spagna, in Italia e in
tutto il resto dell’Europa, Cara. Dicevano che da voi in Germania non
si sa come, probabilmente grazie alla Merkel, la disoccupazione
invece di aumentare diminuisce.
Sarà, ha detto tristemente.
Era dispiaciuta, Karen, di non essere di una nazione in crisi anche
lei.
Per risollevarle il morale le ho detto che volevo ringraziarla per il
Metodo dello Specialista Tedesco, che mi era molto prezioso.
Cara, ha detto Karen, l’hai trovato? Sí, le ho detto, l’ho trovato e lo
sto leggendo. È molto interessante perché mette tutto in discussione
e ti fa capire che le certezze sono delle trappole mentali, è molto
dirompente, ma per adesso non mi pare che funzioni.
È un metodo non convenzionale, ha detto Karen, lo Specialista
Tedesco mi ha detto che il suo metodo è diventato famoso perché ti
aiuta mettendoti in crisi su tutto, liberandoti dai luoghi comuni.
Infatti, ho detto, è molto d’aiuto.
Bene, ha detto Karen, quando lo vedo glielo dico. Mi sembra un
passo avanti, rispetto al tuo modo solito di affrontare i problemi
senza metodo.
In che senso? ho detto a Karen, mi sembrava avesse la velata
intenzione di litigare, forse per quella storia della disoccupazione che
non le era andata giú.
Tu non sei una che accetta tanto le critiche, ha detto Karen.
Invece tu, ho pensato.
Di solito tu, Cara, sei una che se è nei guai magari chiede un
consiglio, fa finta di ascoltarlo, ma poi non lo ascolta, ha detto Karen,
è una cosa che ho notato anche sul lavoro. Quando reciti, è come se
le indicazioni ti passassero sopra.
E dato che non rispondevo niente ha aggiunto: Nel senso che di
solito quando hai un problema è difficile aiutarti perché di solito fai
fatica ad accettare l’idea di non essere perfetta. Di solito.
Ho preso il tabacco e ho cominciato a girare. Dato che non
replicavo, ha detto piú dolcemente: In ogni caso Cara, il fatto che tu
abbia deciso di comprare il Manuale dello Specialista Tedesco e di
leggerlo è un buon segno. Significa che hai accettato di metterti in
discussione. Di solito ti offende metterti in discussione.
Non mi offende, ho detto.
Hai tante qualità Cara, ha detto Karen, però hai anche tanti difetti.
Le tue qualità sono tantissime, ma anche i tuoi difetti sono tantissimi.
Tuo figlio ha una madre straordinaria da tanti punti di vista, ma non
dal suo. Magari un giorno riuscirà a capire che non sei stronza come
pensa lui.
Tu pensi che lui pensi quello di me.
Eh? ha detto Karen. A volte con Skype lo faccio anch’io. Finta di
non sentire.
Hai detto che lui pensa che io sia stronza.
Sí? ha detto Karen, e dopo una pausa ha detto: Nel senso buono.
Come buono?
Intendevo che è normale che lui non veda tutto di te ma solo
quello che dal suo punto di vista è rilevante. Cioè che non ci sei mai
o ci sei poco e tutte le cose che non gli dai eccetera.
Ah, ho detto a Karen, facendo l’ultimo tiro e preparandomi la
seconda.
Non che sia colpa tua, lo so che fai il possibile e che gli vuoi bene,
però dal suo punto di vista non è che le cose cambino piú di tanto se
fai il possibile o no.
Non cambieranno piú di tanto ma sono comunque due cose
diverse.
Come va tra lui e Gi? ha detto Karen, per farmi notare che si
ricorda il suo nome.
Abbastanza, ho detto. Cioè, all’inizio lo chiamava lo sporco ebreo.
Poi però adesso parlano di calcio, di iPhone, cose da maschi. Non
so. Mi pare che abbia cominciato a chiamarlo Gi.
Mi sembra una buona cosa. Lui ha bisogno di un padre, ha detto
Karen.
Anch’io ne avevo bisogno, ho detto a Karen. Però ho fatto anche
senza.
Appunto, ha detto Karen.
Ho fatto senza, ho detto.
È che, a volte, non ti offendere, tu non sei tanto tanto sintonizzata
con gli altri.
Cosa c’entra adesso questa cosa della sintonizzazione? Cosa
c’entra la sintonizzazione adesso? ho detto. Attacchiamo con la
sintonizzazione, ho pensato.
È sempre la stessa cosa, fa tutto parte dello stesso discorso, tu
non ti sintonizzi. Non ti vuoi sintonizzare con nessuno, davvero.
Ma cosa vuol dire che non mi sintonizzo, ho detto, guarda che io
mi sintonizzo, cerco continuamente di sintonizzarmi. E non capisco
cosa c’entri il sintonizzarsi con il fatto di avere un figlio leghista
omofobo e razzista.
Tu non ti sintonizzi. Lo dicono tutti che non ti sintonizzi, ha detto
Karen.
Tutti chi? ho detto.
Tutti, ha detto Karen.
Tutti sono degli stronzi, ho detto a Karen.
Vedi, ha detto Karen, tu insulti e colpevolizzi gli altri. Colpevolizzi,
colpevolizzi, colpevolizzi, ha detto Karen, sei distonica.
Ma dài, ho detto. Per essere tedesca ne sai di parole, ho pensato.
Ma adesso, ha detto Karen forse per rimediare, mi sembra che tu
voglia davvero metterti in discussione e sono contenta per te. Devi
renderti conto che hai una responsabilità enorme. La piú grande che
tu abbia mai avuto. Non voglio spaventarti, ma tuo figlio potrebbe
anche smettere a un certo punto di essere arrabbiato col mondo, di
colpo, e quando meno te lo aspetti riversare tutta la sua rabbia, la
sua disillusione, la sua frustrazione su se stesso.
Non mi pare che la situazione sia cosí grave, ho detto, non mi
pare.
Adesso, non ti pare, ha detto Karen, ma devi fare molta
attenzione. Il Metodo dello Specialista, comunque, non è solo un
Metodo, è un percorso vero e proprio. I casi sono due, ha detto
Karen, o hai comprato il Manuale dello Specialista Tedesco solo per
dire che lo hai comprato e non pensarci piú, oppure l’hai comprato
per affrontare sul serio i tuoi problemi con tuo figlio e cercare di
risolverli attraverso un percorso approfondito.
Io ho comprato il Manuale perché tu mi hai detto che funziona.
Funziona se intraprendi un percorso, ha detto Karen.
Percorso in che senso? Ho comprato e leggo il Manuale dello
Specialista Tedesco, è un percorso?
Ci sono delle strutture, non te l’ha detto nessuno? Sono strutture
certificate che seguono il Metodo dello Specialista Tedesco. Le puoi
trovare per esempio digitando Specialista Tedesco Percorso o
Specialista Metodo Tedesco Percorso o Struttura Certificata
Specialista Tedesco.
Io pensavo che bastasse leggere il Manuale, ho detto a Karen, lo
sto leggendo per la seconda volta, l’ho anche sottolineato con
l’evidenziatore e a volte me lo legge Gi di notte per fissarlo meglio.
Mi stavo impegnando. Non voglio che mio figlio riversi la sua rabbia
su se stesso, ho detto a Karen.

Allora, dopo la chiamata su Skype con Karen, mi veniva da


piangere e ho chiamato Gi al cellulare.
Gi in quel momento non era molto sintonizzato sulla mia tragedia,
stava studiando l’inglese con Memorize, mi ha detto Sai cosa vuole
dire We will figure it out?
E io ho detto No.
E Gi ha detto Neanch’io lo sapevo.
Mi siedo qui un attimo, posso?

È possibile che in qualche modo lei mi possa aiutare. Se invece


sto parlando da sola non farà mica male, parlare da sola.
Non vorrei darle l’impressione di essere di quelli che
piagnucolano e che hanno tanto bisogno di aiuto e non sanno come
fare. Immagino ne arrivi parecchia di gente del genere, a chiedere in
nome del proprio bisogno. Dev’essere fastidioso sentire tanta gente
che chiede aiuto. Però forse è anche giusto cosí, che ci sia qualcuno
che ascolta i bisogni degli altri e prova a soddisfarli senza chiedere
niente in cambio. Che offre un aiuto disinteressato come si fa nelle
comunità, che ciascuno mette a disposizione le proprie risorse.

Ho acceso una candela.


Ho messo anche due euro nella cassetta. Non sapevo che le
candele costassero tanto. Mi sono chiesta nel caso uno non avesse i
due euro se può comunque accenderla, la candela, per il gesto, poi
magari spegnerla subito per non consumarla troppo. Però io li avevo
in tasca, per fortuna, e li ho messi nella cassetta. Per non fare la
figura di una che fa la furba solo perché non c’è nessuno a
controllare. Anche se mi permetto di dire che due euro per una
candela mi pare davvero un prezzo fuori mercato. Forse però sono
candele particolari. Benedette. Chissà. Io ho messo i due euro e l’ho
accesa. Spero che funzioni anche con i non battezzati. Non c’è
scritto che funziona solo con i battezzati, c’è scritto solo che le
candele costano due euro. Perciò non c’è motivo di dubitare che la
candela la possa accendere chiunque purché dotato di due euro da
spendere per la propria causa.
Penso che per una volta ne valga la pena.
In realtà non sono qui per me. Sono qui per un’altra persona.
Questa persona giovedí ha un’interrogazione di storia. Immagino
che lei sappia di cosa sto parlando, si tratta di un concetto
temporale. Spero che lei sappia cos’è un concetto temporale.
Comunque.
Questa persona giovedí verrà interrogata sull’epoca di Temistocle
e di Pericle. Ecco, se lei solo per una volta volesse fare in modo che
questa persona potesse, per una sola volta, fare un bel discorso
sull’epoca di Temistocle, sui rapporti tra Atene e Sparta senza
impapocchiarsi. Con anche una piccola digressione sul concetto di
democrazia e di oligarchia, con qualche riferimento alla nostra
epoca, ma anche solo attenendosi ai concetti chiave dello schema
che gli ho già fatto. E senza esagerare. Un sette all’otto. Un sette e
mezzo. Non sotto il sette perché sarebbe inutile, dal momento che si
tratta di una persona in stato di grave insufficienza storica. Se le
fosse possibile, le chiederei il disturbo di farlo rimediare anche di
matematica. Si tratta di Ruffini, non so se ce l’ha presente, quello per
abbassare il grado del polinomio che si fa una specie di schemino,
come per giocare a tris, ma piú largo in mezzo. Mi segue? Sopra si
mettono i coefficienti dei termini con la x dal grado piú alto al grado
piú basso lasciando un buco se ne manca uno e sotto a sinistra si
mette non mi ricordo piú. Non mi ricordo piú cosa si mette. Mi pare il
divisore appunto del termine noto. Prendiamo per esempio un sei,
allora si prende un divisore del sei come le dico. Come piú uno
meno uno, piú due meno due eccetera. Poi guardi il coefficiente
della x col grado piú alto e anche per quello bisognerebbe trovare i
divisori, metta piú uno e meno uno (per semplicità), poi i divisori del
termine noto vanno divisi per i divisori del termine a grado massimo
e tra quelli sceglie quello che sostituito alla x annulla il polinomio. Di
solito non ce n’è uno solo, sono tanti, ma non tutti annullano il
polinomio, quindi bisognerebbe stare un po’ attenti. Ne sceglie uno,
per cominciare, bisogna provare, non è detto che vada bene al primo
colpo, e quel numero lo si sottrae alla x. Cioè si scrive x meno quel
numero. E quello diventa il divisore, come le dico, che però va
messo, importante questo, cambiato di segno. E quello lo mette in
basso a sinistra, ma non dentro, fuori dal riquadro come appoggiato
su uno scalino. Poi cala il primo coefficiente dall’alto, lo si fa cadere
giú, non dentro al riquadro ma piú giú, al piano di sotto, proprio sotto
ma sempre in corrispondenza della prima colonna tolta quella
esterna del divisore, naturalmente. Poi moltiplica questo coefficiente
per il divisore a sinistra e il risultato va finalmente dentro il riquadro
ma spostato di un posto, piú a destra di uno, subito sotto il secondo
coefficiente, per capirci, ma sempre dentro il riquadro in basso.
Spero mi stia seguendo. A quel punto mi sottrae dal secondo
coefficiente il risultato della moltiplicazione e lo cala giú, vicino al
primo coefficiente e via cosí finché non arriva all’ultimo prodotto
dell’ultimo coefficiente col divisore cambiato di segno a sinistra fuori
dal riquadro che, sottratto definitivamente al termine noto, che
doveva stare in alto fuori dal riquadro ma in alto, a destra, se tutto è
andato per il meglio dovrebbe dare zero.
Ecco, questa persona, a me vicina, avrebbe bisogno di fare un
compito di recupero su questo argomento in particolare e di
prendere diciamo, un nove? Al limite un otto al nove. Tenga presente
che il voto che deve recuperare è un due. Per recuperare un due ci
vuole un dieci, ma a volte, in considerazione dell’impegno
dimostrato, alcuni professori sono disposti a chiudere un occhio e
considerarlo recuperato anche con un otto al nove o al limite un otto
e mezzo. Anche se, come lei immagino converrà, a quel punto
varrebbe la pena di prendere un nove per evitare inutili discussioni.
Ecco.
Ci sarebbe poi un’altra piccola cosa relativa al latino. Per la
precisione ai verbi latini. Se lei potesse aiutare questa persona,
quando traduce, a riconoscerli o quanto meno a capire in generale
se si tratta di un presente di un passato o di un futuro, e a capire,
della frase, quale sia il soggetto, se non ci siano per caso delle
relative o altro, e se potesse indurlo a non cercare subito la prima
parola della frase sul dizionario procedendo a cazzo senza nesso
logico alcuno, solo per uscire in fretta da ogni dubbio e mettere in fila
parole a formare frasi sconnesse che nessuno, leggendole, potrebbe
attribuire a persone serie come i latini, che quando parlavano lo
facevano per dire qualcosa e non sotto l’effetto di psicotropi o di
assenzio.
Ecco, io non le ho mai chiesto niente. Mai. Né mai piú, glielo giuro
su me stessa, le chiederò niente. Se lei potesse dare una mano,
questo piccolo aiutino a questa persona, io le sarei davvero grata
come e piú che se l’avesse dato a me. Potrei accendere una
seconda candela.
Un’altra piccola cosa e poi chiudo.
Io non ho mai vinto a Ruzzle. Mai mai. Sa cosa vuol dire mai? Mi
esercito, mi esercito, ma niente. Se lei potesse farmi vincere una
sola volta, anche di poco, una partita, magari contro Gi, lo
considererei un dono non richiesto degno d’immenso gaudio e di
riconoscenza.
Questa cosa però naturalmente è secondaria, rispetto alla prima.
Se dovesse esaudire richieste per una sola persona alla volta,
consideri questa mia nulla e tenga presente solo la prima. Qualora
invece sia contemplata la possibilità, nell’ambito di una stessa
preghiera, anche di una doppia grazia, tanto meglio.
Ecco.
Grazie di avermi ascoltata anche senza il battesimo e tutte le altre
cose.
Lei non può immaginare quanto sia importante, per noi esseri
umani, parlare con qualcuno che ci può capire.
Quindi come le dicevo

– Suo figlio. Dunque vediamo. Sí. Suo figlio come le dicevo non ci
siamo.
– Sí, immagino che la situazione non possa essere molto
cambiata dopo quel due e l’altro compito di recupero che mi pare
fosse un tre?
– Infatti. Non è cambiata molto.
– Mi chiedo come sia potuto succedere. Voglio dire. Non voglio
dire. Voglio dire mi chiedo perché. Certo che prendere un due vuol
dire proprio che uno non sa niente, dato che comunque lui va a
ripetizione tutte le settimane mi chiedo come sia stato possibile.
Magari potrebbe essere stato anche un problema di emotività.
– Emotività?
– Magari.
– Mah non so. Io suo figlio non lo conosco neanche. Però mi dava
piú l’impressione di uno che non ne sapeva niente di niente e non gli
piaceva e non gli interessava proprio.
– Sí a volte può dare l’impressione.
– Non direi a volte. Direi sempre.
– Può dare quell’impressione. Tuttavia credo che sarebbe
importante per lui poter avere una possibilità di recupero. Pensavo
magari se lui avesse questa possibilità di recupero sarebbe forse un
segno, una direzione nel senso di una direzione. E di una disciplina
che forse potrebbe dargli una mano a capire che nella vita le cose si
devono conquistare voglio dire. Un segno che la fatica paga, che
con la fatica, se uno si affatica (…)
– Ecco appunto. Dà proprio l’impressione di uno che la fatica,
come le dico, certo io non lo conosco come lei, si direbbe che stia in
un mondo suo, in un mondo come dire (…) non è uno che disturba.
– Infatti. Non è uno che disturba.
– No no. Non disturba mai. È piú come (…) estraniato?
– Eppure come le dicevo quel giorno che ha preso quel due me lo
ricordo molto (…) come colpito.
– Eh.
– Sí. Me lo ricordo proprio che era. Non so. Io non sono di quelle
madri che vanno a parlare per insistere con i professori perché gli
promuovano il figlio, perché anzi io sono la prima a rendermi
perfettamente conto. Però pensavo che nel caso lui dimostrasse di
sapere bene questo teorema, questo teorema (…)
– Il teorema del resto e Ruffini, sí. La divisione di un polinomio.
– Appunto.
– Infatti.
– Se lui si mettesse lí di buzzo buono e dimostrasse in
un’interrogazione a tappeto su tutti questi teoremi di essere al
corrente di tutto. Secondo lei potrebbe rimediare?
– Perché no. Sí.
– Quindi secondo lei potrebbe essere una cosa da prendere in
considerazione?
– Se lui si presenta che sa.
– Perché non mi sembra stupido magari convincendolo a studiare
un po’.
– No no. Non sembra stupido. È piú come le dicevo, piú altrove.
– Infatti. Allora io potrei parlarne con lui e dirgli di mettercela tutta
per questa interrogazione su tutto.
– Va bene.
– Perché ho la sensazione che questo per lui sia un momento di
forte maturazione. Lo sento piú maturo. Piú triste. Piú maturo.
– Guardi, io le lascio le fotocopie degli ultimi compiti che come
vede sono abbastanza (…)
– Vedo.
– Cioè, è evidente che qui manca completamente un passaggio e
qui non c’è.
– In brutta? Forse l’ha fatto in brutta perché mi pare che lui abbia
dei problemi poi nel ricopiare, quindi magari guardando la brutta
chissà che delle volte non si trovi il passaggio che magari si è poi
dimenticato nell’emozione di riportare magari per mancanza di
tempo.
– Non c’è la brutta. Suo figlio non consegna brutte.
– Non l’ha consegnata la brutta? Strano, mi sembrava di ricordare
che avesse detto che l’aveva consegnata.
– L’ha consegnata come bella.
– A volte anche a casa fa i suoi calcoli tutti nella testa. È
impressionante. Invece di scriverli come facciamo tutti lui si fa tutti i
calcoli in testa e poi scrive il risultato, è impressionante.
– Veramente.
– Allora gli dico d’ora in poi che i calcoli li metta giú sul foglio,
anche per controllarli nel caso fossero sbagliati.
– Ottima idea.
– Ha questa facilità a farsi i calcoli mentalmente, non so da chi
l’abbia presa perché io non ho alcuna capacità di calcolo mentale,
uso le dita. Lui non le ha mai usate le dita. Neanche da piccolo. Ha
sempre avuto questa capacità incredibile coi calcoli mentali.
– Già. Gli dica che se li scrive in brutta e li consegna è meglio.
– Certamente.
– Ha parlato anche con gli altri colleghi, cosa dicono?
– Con la professoressa di italiano ho parlato l’altra settimana.
– Cosa dice?
– Problematico intelligente (protonazista qualunquista).
– Infatti. Come le dico suo figlio sembra davvero problematico. Un
enigma.
– Magari fa delle riflessioni sue, ha tutto un modo suo di affrontare
le cose, molto personale, anche a casa ci sono delle volte che è
incredibile come non
– Adesso mi spiace interromperla ma devo tornare in classe.
– Allora per l’interrogazione di recupero posso dirgli che si prepari
bene bene per il programma con il teorema del resto e Ruffini e tutto
e che lei ha detto che se si prepara bene bene è disposta a farlo
recuperare e a togliergli il due?
– Facciamo cosí.
Cosa c’entra il matrimonio con il pollo arrosto?

Mangiavamo normali il mezzo pollo arrosto che avevo comprato


alla Coop già arrostito e tagliato.
Mangiavamo questo mezzo pollo arrosto e io pensavo al karma,
ogni tanto ci penso. Se tu eri veramente venuto qua a mangiarti
questo mezzo pollo con me dopo il colloquio con la tua prof di mate
e avevi in qualche misura scelto proprio me perché andassi a parlare
con la tua prof di mate. E pensavo anche a come eravamo diversi.
Che io il mio pezzo lo mangiavo con le mani e tu lo mangiavi con la
forchetta e il coltello. In compenso tu ruttavi la cocacola senza
metterti la mano davanti. Mi chiedevo chi ti avesse insegnato a
mangiare il pollo con la forchetta e il coltello.
Cosa eravamo, noi due, nella vita precedente?
Siamo stati un po’ a tavola a mangiare il nostro mezzo pollo in
silenzio.
Avrei voluto dirti la cosa di me e Gi, che ci amiamo molto e ci
vogliamo sposare, ma non veniva mai il momento giusto. Cosa
c’entra il matrimonio con il pollo arrosto? ho pensato. È una notizia
che non c’entra con niente, un momento vale l’altro per dirglielo,
quindi diglielo adesso, ho pensato.
Ho aperto la bocca e l’ho richiusa.
Come un pesce.
È una notizia che non sta da nessuna parte, ho pensato.
Ti sei alzato, hai messo le ossa del pollo nel secchio dell’organico
e il tuo piatto nel lavandino.
Ho detto Non trovi che sarebbe bello un giorno o l’altro farci una
bella fotografia tutti insieme.
Prima della fine della frase eri in camera tua.
Il basilico

Tu e Gi siete andati insieme al supermercato a comprare la pasta


per la pizza, la salsa di pomodoro e la mozzarella da pizza (Gi dice
che sulla pizza non si deve mettere la mozzarella fresca perché
fondendo lascia l’acqua, la mozzarella per la pizza è un tipo
particolare, che si chiama sempre mozzarella ma contrariamente alla
mozzarella normale, che ha una forma sferica o al piú ovoidale, è un
rotolone, appunto, una specie di mozzarellone strizzato specifico per
essere affettato e piazzato sopra la pizza a cottura quasi ultimata.
Dice Gi che è in questo modo che fanno la pizza in un posto a
Bologna che secondo lui è il posto dove fanno la pizza piú buona del
mondo, secondo lui) e siete poi tornati con tutte le cose e in piú il
basilico. Non era un basilico secco sbriciolato di quelli che si
comprano al supermercato, questa era una piantina viva in un
vasetto di plastica marrone. Adesso i supermercati li vendono cosí i
basilici, per dare alle persone la sensazione del risparmio o perché
hanno scoperto che alla gente piace sentirsi un po’ ortolana. Li
vendono cosí, nel vasetto di plastica.
Siete entrati, tu e Gi, ed eravate molto di buon umore, soprattutto
tu. Si capiva che quella piantina di basilico per te non era un basilico
normale da strappare un paio di volte e lasciare poi appassire al suo
triste destino. Da come la tenevi in mano con attenzione e
cercandole subito un posto confortevole sul davanzale della cucina,
controllando che fosse al sicuro da eventuali spifferi, che non
rischiasse di scivolare giú e che prendesse luce a sufficienza ma
non diretta. Non ti eri mai preoccupato della luce.
L’hai guardata per alcuni minuti e le hai sfiorato le foglie con una
specie di carezza beata.
Quella piantina di basilico senza nessun apparente merito era
arrivata sparata in cima al tuo sistema gerarchico degli affetti. Sopra
la piantina di basilico nessuno, sotto la piantina di basilico parecchie
spanne di deserto. Dopo anni di aridità affettiva un basilico
spennacchiato si è piazzato al primo posto cosí.
È stato l’inizio di qualcosa di cui non si capiva ancora bene lo
sviluppo. È stato l’inizio del tuo voler bene conclamato a qualcosa di
vivente 1.
Il tuo primo esercizio di affezione. Un progresso.
Da quando la piantina di basilico è entrata in famiglia non c’è piú
stato giorno che tu non chiedessi di lei, di come stava, se avesse
ricevuto acqua a sufficienza. Te ne prendi cura come di una cosa tua
e che dipende solo da te.
Non so quanto possa vivere in media un basilico da vaso. Anche
curandolo e riservandogli mille attenzioni ho il sospetto che abbia
una vita media inferiore a quella di un albero di Natale.
Guardo con una certa preoccupazione al momento in cui la
piantina di basilico ci lascerà.
Ho chiamato un amico esperto nella coltivazione di piante da
balcone colture idroponiche e orti urbani, e gli ho chiesto
informazioni su come garantire alla piantina la massima longevità
possibile. Il mio amico ha detto di cimarla con regolarità, cioè
liberarla dalle infiorescenze non appena spuntano. Ho scritto
Liberarla dalle infiorescenze appena spuntano, senza la piú pallida
idea di cosa fosse un’infiorescenza. Il mio amico ha pietosamente
aggiunto che le infiorescenze sono dove si producono i semi. Ho
scritto I semi stanno nelle infiorescenze.
Se la pianta riesce a produrre il seme, ha detto, è come se
avesse compiuto il suo vero destino – che non è, come forse tu puoi
erroneamente pensare, condire una pizza, bensí riprodursi in una
nuova piantina il cui destino, una volta germogliato il seme e
sviluppatosi in piantina, sarà quello di produrre al piú presto un’altra
infiorescenza con dentro un seme da spargere all’aria per riprodursi
in una successiva piantina che a sua volta farà lo stesso con un’altra
infiorescenza e cosí via.
Ha detto il mio amico che il fine ultimo di una piantina di basilico,
dopo l’infiorescenza, è seccare. Ho scritto Le infiorescenze con
dentro i semi causano morte.
Quando la pianta ce la fa a produrre il seme per lei è finita, ha
concluso tautologicamente il mio amico.
Siamo stati un po’ zitti.
Ti sembra normale che una cosa vivente faccia di tutto per
produrre un’infiorescenza e morire? gli ho chiesto.
Tu vedi tutto in un’ottica tua, non ti sintonizzi. Una pianta di
basilico è felice solo quando si riproduce, non le importa niente di
niente di tutte le altre cose. Per una piantina di basilico il massimo è
riprodursi e morire con la consapevolezza genetica di aver compiuto
il suo ciclo naturale. Comunque, se proprio vuoi forzare il suo ciclo
naturale, devi strapparle le infiorescenze sul nascere.
Ho scritto Se le strappi le infiorescenze la costringi a
rinfiorescendere. Rinfiorescescere. O qualcosa del genere.
Alle prime infiorescenze, tu strappa, strappa subito via, ha detto il
mio amico, cosí la costringi a ricominciare da capo e a vivere ancora
un po’ di tempo. Ma sappi che cosí facendo la sottoponi a uno
stress.
Ho scritto Loro non la sentono come noi, la vita.

Comunque non c’è ragione che io mi preoccupi dato che la tua


piantina amata, per ora, ha solo foglie. Niente infiorescenze. Sarà un
ogm.
Speriamo.

1 Il Manuale dello Specialista Tedesco dice che è molto raro che un


adolescente si prenda cura di altro da sé, e che se questo accade è perché
probabilmente sta cercando di comunicare un disagio, una carenza.
Contrariamente a quanto possiate pensare, se vostro figlio o vostra figlia
comincia del tutto repentinamente a mostrare interesse per qualcosa di vivo e
se ne preoccupa, allarmatevi. Significa che voi non vi state preoccupando
abbastanza di lui o di lei, quindi non beatevene, non consideratelo indice di un
progresso perché non lo è.
La cena nell’organico

Ho contattato la struttura certificata, ha risposto una segretaria


molto gentile. Ho detto Buongiorno, ho comprato il Metodo dello
Specialista Tedesco e lo sto leggendo per la seconda volta, siccome
ho visto che siete una struttura certificata chiamo per
l’approfondimento.
Ha fatto bene a contattare la nostra struttura, ha detto la
segretaria.
Sí, infatti, sto imparando molte cose dal Manuale, ho capito che
tutto quello che pensavo prima è sbagliato. Però non sono riuscita a
capire bene come devo fare, nel concreto, per non sbagliare piú o al
limite sbagliare meno, eh eh (cazzo ridi?)
Lei sbaglia ancora molto? ha chiesto la segretaria senza senso
dell’umorismo.
Non molto, mi sono schermita subito, un po’. Diciamo che vorrei
molto che le cose andassero per il meglio ma poi a volte mi prende
un nervoso, faccio cose che il Manuale non prevede, cose, diciamo,
orrende.
Attenda in linea, ha detto la segretaria, le passo la responsabile.
La responsabile del percorso mi dice So già tutto, continui.
Anche se seguo il Manuale, le dico, non so perché le cose non
vanno lisce. Forse sono un caso disperato. Ho saputo che ci sono
delle statistiche che riferiscono che molti adolescenti possono
essere molto infelici a causa dell’incompetenza dei genitori. Io non
vorrei che mio figlio fosse infelice.
Certo, le ci vorrebbe proprio un percorso, ha detto la responsabile
del percorso. Il Manuale senza percorso è come una casa senza
finestre, ha detto. Per il momento purtroppo per lei però i nostri
percorsi stagionali sono tutti avviati. Non c’è piú posto.
Perché io avrei veramente bisogno, ho detto.
Già, ha detto la responsabile, capisco, e mi dispiace, ma le
sarebbe del tutto inutile accedere a un percorso già avviato. I
percorsi vanno seguiti dall’inizio alla fine, possibilmente senza
assenze.
Un percorso avviato è come una barca in mezzo al mare, ha detto
la responsabile.
Certo, ho aggiunto supinamente. C’è stata una sospensione,
come se entrambe fossimo alla ricerca di una soluzione.
Infine la responsabile, che mi aveva preso a cuore, ha detto che
se facevo un bonifico pari alla metà dell’importo dell’intero percorso
avrebbero potuto forse mettermi in lista d’attesa per eventuali
percorsi extraordinari, che a volte partono, ma non si sa quando. Ha
detto di fare al piú presto un versamento di duecento euro e poi
mandare la fotocopia al numero di fax che c’è sul loro sito internet,
oppure di fare un bonifico all’iban indicato. Da quel momento, e solo
da quel momento, ha detto la responsabile del percorso, verrei
inserita a pieno titolo nella lista d’attesa.
Duecento euro sono tanti soldi, ho detto.
Dipende, mi ha detto la responsabile, duecento euro possono
essere molti soldi o pochi soldi, dipende da cosa ne riceve in
cambio. In questo caso potrebbe esserci in gioco la vita di suo figlio.
Lei ama suo figlio?
Sí, ho detto debolmente.
Lei fa colazione la mattina? ha detto la responsabile.
Faccio il caffè e mangio un paio di biscotti o delle fette biscottate
con la marmellata oppure, nel caso avanzi della torta margherita,
prendo una fettina di quella. Ma ci sono anche giorni che bevo caffè
e basta, dipende anche dall’ora in cui mi sveglio, se mi sveglio
presto può capitare che faccia due colazioni, una col caffè e basta, e
una seconda verso le dieci, con un secondo caffè, un biscotto o due
o, al limite, un uovo alla coque. Oppure esco e mi faccio un
cappuccino e una brioche alla marmellata al bar Mariú davanti a
casa mia.
Non comprendendo bene la ragione della domanda, ho cercato di
essere il piú esaustiva possibile.
Duecento euro, signora, sono duecento caffè. Sono grosso modo
centottanta cappuccini. Sono un centinaio di cappuccini con brioche
o un’ottantina di cappuccini con brioche e spremuta d’arancia, ha
detto la responsabile del percorso.
E io ho detto Sí.
Sono andata alla posta e ho fatto il versamento.
I soldi li ho presi dal dimenticatoio, dove metto i soldi per non
spenderli, li ho presi dai Buddenbrook, duecento euro, e li ho versati
sul bollettino postale.
Poi ho fotocopiato la ricevuta e l’ho faxata al numero della
struttura.
Quando sono tornata a casa ero felice e leggera.

È stata la sera che hai buttato la cena nell’organico senza


assaggiarla.
CH4

Hai buttato la cena nell’organico.


Perché avevo messo l’olio al tartufo nella pasta perché era finito il
grattugiato.
Il grattugiato è fondamentale per la pasta al sugo, senza
grattugiato tu non la gradisci. Sarebbe un errore imperdonabile
servirti pasta al sugo priva di grattugiato. Ma una bottiglina di olio al
tartufo, una prelibatezza che stava lí da chissà quanto tempo, si era
chissà come materializzata sotto i miei occhi, quasi per magia,
perché potessi far fronte a quel momento di estrema emergenza. È
fatta, ho pensato, stavolta l’hai sfangata, ho pensato. Sarà una pasta
super chic questa, ho pensato, una cosa in grande stile.
Ho chiamato in tavola te e Gi. Appena ti sei seduto ho colto uno
strano movimento che facevi col naso, un movimento quasi
impercettibile ma abbastanza insistente. Come un coniglio.
Ho fatto finta di niente perché ero assai compresa nel mio ruolo di
casalinga felice.
Ho servito la pasta con leggiadria, suggerendo esperta una
facoltativa spolverata di pepe bianco. Tu hai guardato nel piatto, hai
smesso di muovere il naso e hai ruttato sonoramente in quella
direzione. È una cosa che fai quando vuoi segnalare la mancanza di
qualcosa, ma questa volta l’hai fatto con una potenza inedita. Forse
avevi bevuto piú cocacola del solito, forse avevi appreso una nuova
tecnica per accumulare CO2 e modularne l’emissione a piacimento.
Chissà. Chissà da quanto tempo serbavi nella manica quest’asso.
Poi hai detto Sa di gas.
Eh? ho chiesto io, ancora incredula per la durata e l’intensità
sonora del tuo rutto.
L’olio al tartufo, hai ripetuto secco, sa di gas.
Noo, ho detto. Dici?
Sa di gas, hai ripetuto ieratico.
Gi è intervenuto subito in mio soccorso non richiesto e ha detto
con la bocca piena: In effetti, a pensarci bene, se uno non sapesse
cosa si è appena messo in bocca, si potrebbe anche dire che sa un
po’ di gas, anche se non è la prima cosa che viene in mente. La
prima cosa che viene in mente è il tartufo, naturalmente, ma la
seconda, subito dopo il tartufo, in effetti, come aroma, potrebbe
anche essere il gas. Quello del bombolone, ha precisato.
Ma dài, ho detto.
Sí, ha aggiunto Gi, ma è anche il suo lato positivo. Perché è
proprio il tartufo che sa di gas, quindi, se la pasta sa di gas, è perché
l’olio al tartufo ha dentro almeno un po’ di vero tartufo.
L’olio al tartufo è una porcheria immonda, hai detto tu.
Dipende, ha detto Gi, ad alcuni piace. Per molti il tartufo è una
prelibatezza pazzesca.
Per alcuni, hai detto tu, anche i ragni o il cervello di scimmia e gli
scarafaggi sono una prelibatezza pazzesca.
Comunque al limite, ti ha detto Gi, puoi darle una sciacquata sotto
il rubinetto e spremerci sopra un bel po’ di ketchup.
Hai buttato tutta la pasta nell’organico senza assaggiarne
nemmeno una forchettata.
La pasta poi era buonissima. È vero che sulle prime, dopo che
l’avevi detto, era difficile non pensare al gas, ma mangiandola non ci
si pensava assolutamente piú. Se avessi accettato il mio consiglio, di
spolverarci su il pepe bianco, non ci avresti fatto piú caso, al sapore
di gas. Per niente.

Poi, siccome non mi davo pace, ho indagato sulla composizione


chimica del tartufo e ho scoperto che contiene naturalmente
bismetiltio-metano, mentre nel metano quell’odore lo mettono
apposta aggiungendovi tracce di butantiolo o addirittura
tetraidotriofene, o mercaptani vari, quando non delle carbilammine,
perché si avvertano le fughe di gas. Pertanto si potrebbe affermare
che le cose stiano in modo diametralmente opposto a quanto da te
sostenuto. Non è il tartufo che sa di gas, è il gas che sa di tartufo.
Il pacchetto

È passato quasi un mese dal bonifico. Oggi è arrivato per posta


un pacchetto indirizzato a me. Era una busta giallina di quelle col
pluriball, con dentro un audiovisivo.
Sulla custodia c’era la foto (baffi rossicci e occhiali in metallo
dorato con montatura larga) dello Specialista Tedesco, con il titolo:
Training autogeno per famiglie M.S.T. 1. Nella busta ho trovato anche
un biglietto scritto a mano che diceva:

Sperando di farLe cosa gradita, Le invio la nostra guida al training


autogeno per famiglie, fortemente consigliata a chi desideri
avvicinarsi al percorso. Si tratta di un facile esercizio di
decontrazione e rilassamento mentale che raccomandiamo di
svolgere tutti insieme, in famiglia, per condividerne i benefici. Se
svolta con regolarità quotidiana, questa pratica faciliterà un
approccio olistico al percorso del Metodo dello Specialista Tedesco.
Augurando a Lei e a tutta la sua famiglia tanta serenità, Le porgo i
piú cordiali saluti, da parte mia e di tutto lo staff del M.S.T.
A presto,
la responsabile del percorso
Olga Tappi

Nel pomeriggio l’ho buttata lí, a te e Gi, di fare insieme


quest’esperienza costruttiva, ma non c’è stato niente da fare,
nessuno dei due era interessato. Sono andata in camera da letto, ho
ficcato il dvd nel portatile e mi sono messa a piedi nudi sdraiata sul
tappetino scendiletto.
La cosa è partita morbidamente.
Mentre lo Specialista parlava piano scandendo bene le parole, in
tedesco, una voce, per fortuna italiana, gli parlava sopra appena
sfalsata. Io seguivo passo passo lui e la voce. Atmung, diceva lo
Specialista, la respirazione diceva la voce, Eingang und Ausgang,
diceva piú o meno lo Specialista, la visualizzazione dell’aria in
entrata e in uscita, diceva la voce subito dopo, ero molto concentrata
e rilassata, quando dalla tua stanza ha cominciato ad arrivare a tutto
volume una musica house techno.
Lo Specialista e la voce invitavano ad accogliere tutto quello che
arrivava senza opporre resistenza, quindi io ho accolto la tua musica
house techno come una cosa che arrivava. Lo Specialista e la voce
dicevano che ogni singola cosa dell’universo può essere trasformata
in armonia, e io ho accolto e trasformato in armonia ogni cosa
dell’universo e la tua musica house techno. Poi c’è stato un tempo,
non sarei in grado di dire quanto lungo, in cui stavo davvero bene, la
musica era cardiaca, risuonavo all’unisono con lei, mi sentivo un
tutt’uno col cosmo e col germogliare dei fiori di ciliegio e col ritmo
delle maree come non mi era mai capitato. Poi lo Specialista e la
voce hanno smesso di parlare. Sono rimasta ferma seduta sul
tappetino a visualizzare germogli che fiorivano e schiuma di flutti che
s’infrange sugli scogli per un quarto d’ora o forse di piú. Poi lo
Specialista e la voce hanno detto Adesso potete gradualmente
aprire gli occhi, ciascuno coi suoi tempi, e datevi la mano, e ditevi
quanto vi volete bene ma senza parlare, solo con lo sguardo del
cuore. Sentivo dalla tua stanza arrivare tonante una canzone che
ascoltavi da una settimana, di uno che mi avevi detto che si
chiamava Enrique Iglesias. Chissà se questo Enrique Iglesias è
parente di Julio, mi è venuto da pensare, e subito mi sono ricordata
che Julio Iglesias piaceva a una ragazza che qualche volta ci faceva
da baby sitter, a me e zio Mario, e che guardava le sue fotografie a
colori su Sorrisiecanzoni e diceva Julio Iglesias è bellissimo e le sue
canzoni sono piene d’amore. Era una ragazza molto romantica, si
chiamava Milena. Julio Iglesias aveva un modo di fare andare la
voce su e giú come un lamento che a un certo punto si spezzava,
era un lamento amoroso che si rompeva in un mugolio, uno strazio,
che mi creava una specie d’imbarazzo. Però quando Milena ci
mostrava quelle foto io le dicevo che Julio piaceva anche a me,
perché non mi costava niente e non mi andava di disturbare la sua
adorazione. Poi ho pensato che lo Specialista Tedesco e la voce si
erano raccomandati di non pensare a niente di niente fino alla fine
del training, che dovevamo eseguire e basta, e che pensare a
Enrique Iglesias o ancora peggio a Julio Iglesias, suo possibile
padre o addirittura nonno, era un’evidente trasgressione, e ho avuto
paura di aver rovinato tutto.
Ma il fatto è che io non posso dare la mano a nessuno, perché
non c’è nessuno qui, sono tutti di là, volevo dire allo Specialista
Tedesco, uno gioca a Ruzzle nello sgabuzzino e l’altro fonde musica
house techno con Enrique Iglesias, cosa mi consiglia di fare? Il
problema era che non c’era neanche lo Specialista Tedesco. A chi
potessi dare la mano e dire cose col cuore non so proprio.
Mi sono alzata e mi sono rimessa le calze di lana perché nel
frattempo mi si erano congelate le dita dei piedi.

1 Metodo dello Specialista Tedesco.


Hanno dentro il cavallo

L’altro giorno sono andata alla tua scuola per il colloquio con la
Buldoni, per l’Inghilterra. Me l’hai ripetuto tre volte perché tre volte ti
ho chiesto Buldoni o Buldone? Camminavo e mi dicevo Ci sarà il
mastino dietro il vetro che non ti fa entrare se non scrivi l’ora di
accesso e chi vuoi incontrare e perché, manco fosse un carcere di
sorveglianza speciale, butterò lí Buldoni Buldoni, sono qui per
l’incontro per l’Inghilterra con la professoressa Buldoni, come se io e
la Buldoni fossimo due che ci si conosce da un bel pezzo.
Camminavo e ha cominciato a piovere ma io sempre Buldoni
Buldoni non farti figure di merda.
Ero a meno di un chilometro dall’edificio e pioveva sempre piú
forte, il telefono ha cominciato a suonare e non lo trovavo, ho infilato
il braccio nella borsa in cerca con la mano della cosa piatta e
vibrante sempre dicendomi Buldoni Buldoni Buldoni, sono quelli
della Vodafone, dicono che (pioveva fortissimo) solo per me e per
altri pochi clienti relax c’è una proposta relax molto conveniente per il
fisso, Non me ne frega niente, ho detto, sarà anche una, Buldoni
Buldoni, proposta interessantissima, ma adesso piove e sto tenendo
il cellulare tra l’orecchio e la spalla e non posso dimenticarmi Bul, Le
dico, in questo momento non posso, sí una riunione di lavoro,
Buldone, mi richiama tra un paio d’ore per favore Buldo-ni?
Buldone o Buldoni. Buldoni Buldoni Buldone Buldone.
Non posso arrivare dal mastino e dire il nome sbagliato. Tutte le
madri sapranno il nome della professoressa perché sono mesi che
parlano del viaggio in Inghilterra e si telefonano e si mandano mail.
Io con la Buldoni Buldone non ci ho mai parlato perché ero via in
tournée e le relazioni con la Bulda le aveva intrattenute magno cum
gaudio Macchianera. Tornata dalla tournée avevo poi detto Grazie
Macchianera grazie, sono tornata, e adesso con la Buldroni ci parlo
io. E Macchianera Figurati, ha detto, va bene (sottointeso Tanto chi
gliele fa lavare le felpe in tintoria e le mutande e le magliette e gli
compra la cocacola e le bistecche coll’osso e il parmigiano reggiano
biologico?).
Entro a scuola tutta bagnata e vado dritta per raggiungere un
gruppetto di donne dal passo sicuro, Saranno loro, penso, quelle
della Buldra, altre mamme come me, ma il mastino mi blocca: Scusi
dica dove va? Mi fermo, faccio un sorriso calmante e dico, come se
fossi un’habituée: Ho l’appuntamento per l’Inghilterra con la
professoressa Bull/dnone/i. Chi? dice il mastino dal vetro.
L’Inghilterra, dico io, facendo cenno, come per dire sicuramente è di
là. Là, dove stavano andando le altre madri, di cui vedevo ormai
soltanto i culi dondolanti e le schiene.
– Vuole andare anche lei alla riunione con la professoressa
Buldoni?
– Sí, – ho detto, come se mi avesse chiesto se volevo sposarlo.
– Scriva qui nome cognome ora di accesso e la ragione della
visita.
Scrivo tutto tranne l’ora. – Scusi, – dico garbata, – mi saprebbe
dire che ore sono?
– Eh? – dice l’inutile guardiano del nulla, dal suo vetro.
– L’ora, – dico, – me la potrebbe cortesemente indicare.
– Le cinque e cinque, – dice lui, come se ci fosse qualcosa di
male in quel secondo cinque.
Ma poi mi lascia entrare.
Entro nello stanzone, tutte le mamme sono già lí, è come un
sabba, la Buldra con un plico in mano.
Mi metto su una sedia vuota che però, mi dicono, è prenotata.
Allora sto in piedi. Tutte le mamme hanno già la loro fotocopia
esplicativa dell’orario di partenza e di ritorno, cose da portare,
documenti fotocopiati, carta d’identità valida per l’espatrio e
tesserino sanitario sia originale che fotocopiato.
Faccio un cenno di simpatia come dire Ehi Bulda non ci siamo
mai viste ma sono io quella vera, non Macchianera, bello conoscersi,
nice to meet you, sgancia anche a me la fotocopia. Lei mi guarda,
stringe un po’ gli occhi come se fossi troppo lontana per vedermi
distintamente. Mi guarda come si guardano le barche all’orizzonte
che non si sa se si avvicinano o si allontanano.
– Il suo cognome me lo ricorda? – dice. Sempre con gli occhi da
barca lontana negli occhi miei.
– Il cognome di mio figlio, vuole dire, perché abbiamo cognomi
diversi, perché lui ha il cognome del padre mentre io ho il mio
cognome diverso. Siamo diversi. Siamo tutti diversi in famiglia
(Brava, confondile ancora di piú le idee).
Ma la Bulloni fa un gesto da prestigiatore e dal plico estrae, come
una magia, il foglio col tuo nome. Di Maggio Mino.
Prendo il foglio e mi metto a leggere forsennata quello che ormai
tutte le madri hanno già mandato a memoria. Per fare domande
pertinenti nell’ora delle domande. Per fare domande che facciano
capire che, a) mi preoccupo che la famiglia che ospita mio figlio/a
abbia il bidet e il miscelatore dei rubinetti, b) mi preoccupo che mio
figlio/a non faccia amicizia con italiani o peggio ancora spagnoli che
si sa che vanno lí per cazzeggiare e basta, ma solo con inglesi
madrelingua certificati, c) che mio figlio/a non si diverta
eccessivamente, d) che mio figlio non beva alcolici e vada a dormire
entro le dieci per poter affrontare la giornata di studio intensivo
riposato e competitivo quanto basta, e) che mio figlio/a non venga
inserito in una classe di studio troppo facile, f ) che mio figlio/a non
venga inserito in una classe di studio troppo difficile ma comunque
meglio troppo difficile piuttosto che troppo facile, g) desidero che mio
figlio/a vinca qualcosa o sia il migliore in qualcosa o si distingua per
qualcosa o venga menzionato per qualcosa o sia il preferito dalla
professoressa o salvi la vita a qualcuno o qualche sua impresa
memorabile rimanga comunque impressa nell’inconscio collettivo del
gruppo, h) che mio figlio/a , soprattutto, non si diverta. È un viaggio
studio.

Pronti partenza via.


Madri esperte tutte agguerrite (e sedute) alzano la mano e
chiedono a turno chiedono chiedono chiedono fottendosi le
domande migliori e quando arriva il turno mio già non ho piú
domande da fare e mi viene in mente solo: – Le prese elettriche
inglesi sono come le nostre?
Cosa c’entra. Cosa c’entra la domanda sulle prese elettriche?
dicono gli sguardi di tutte le chiocce che hanno già fatto la loro
domanda giusta.
C’entra, però. La Buldra mi assolve inclinando la testa in segno di
complimento. Chi l’avrebbe mai detto, sono diventata quasi la sua
preferita. La preferita mamma della Buldra. Fanculo. La Buldra
spiega infatti: Se desiderate che i vostri figli possano attaccare i loro
iPhone i loro iMac eBook iPod iPad senza disagio è conveniente it’s
wise, well-advised, shrewd dotarli di una presa di conversione.
Le peppione sedute si segnano sul blocchetto di prendere anche
loro la presa di conversione, che se non fosse stato per la mia
domanda tu saresti stato l’unico figlio con la presa inglese.
Dovevo tenermela e starmene zitta e covare in segreto il good
advice e serbare il trionfo per il momento della partenza: poi davanti
all’autobus dire come se niente fosse Ciao ciccio, allora la presa di
conversione te l’ho messa in valigia, lasciando le peppione con tanto
di naso a non sapere come fare con i figli scollegati elettricamente
per due belle settimane.
Ma ormai la domanda è andata.
Vabbè.
Comunque ho fatto una bella figura e adesso la Buldrona si
ricorderà che tu sei il figlio di quella smart. E ti tratterà con un certo
riguardo.
Poi è finito il tempo della riunione e la Buldra ha detto: Se ci sono
ancora domande… e io volevo avrei voluto concludere con uno
smacco definitivo ma niente, non mi veniva piú niente, e allora
mentre tutte si alzavano io mi sono seduta. Ho fatto finta di cercare
qualcosa nella borsa per rimanere sola con la Buldra almeno un
minutino e dirle È stato un piacere. Sono sicura che mio figlio si
troverà bene con lei perché mi fido, perché sento che questo viaggio
sarà istruttivo e interessante e stimolante. E lei dopo mi ha fatto
capire che solo io e lei sapevamo che cos’è l’Inghilterra e che gli
inglesi se ne fottono del cibo e bevono birra a quindici anni e vanno
a dormire alle quattro. Se vogliono.
Cosí, per ultima, me ne sono andata. Poi sono tornata a casa e
ho preparato la cena in quattro e quattr’otto con inaudita maestria
casalinga e ho detto Prontooo. Tu ti sei seduto a tavola come un
adagio lento, come un andante maestoso, hai versato la cocacola di
Macchianera nel bicchiere, hai ruttato e hai detto: Questi hamburger
tutti surgelati non li devi comprare piú, capito. Hanno dentro il
cavallo.
La tua sensibilità, la sensibilità del padrone di casa e
il basilico

Mi hai chiesto con apprensione del basilico. L’ho affidato al


padrone di casa per i giorni in cui non c’eravamo, ti ho detto. L’ha
messo sotto il suo ciliegio perché stesse all’ombra.
Sei subito uscito per andare a vedere se in cortile sotto il ciliegio
c’era davvero il tuo basilico. C’era.
Sei tornato dentro e mi hai detto Non è nello stesso vaso.
Ho detto Sí. Mi ha detto il padrone di casa che se non avevamo
niente in contrario lo metteva in un vaso piú grande per farlo
crescere di piú, perché secondo lui stava in un vaso troppo piccolo
per le sue radici. Ha detto che lo metteva in un vaso piú grande per
farlo diventare piú vaporoso (volevo dire rigoglioso ma non mi veniva
la parola).
Dopo un po’ hai detto Se lo dice lui.
Poi sei uscito di nuovo.
Sono venuta di nascosto a vedere cosa stessi facendo. Eri seduto
sotto il ciliegio vicino al basilico e c’era il padrone di casa che
trafficava con la terra e i vasi lí vicino. Stava invasando dei piantini e
mentre lavorava ti parlava con calma, ti spiegava qualcosa che non
sentivo e intanto tu strappavi dal basilico qualche foglia con molta
delicatezza. Lui ti parlava, t’indicava col dito i punti in cui dovevi
strappare e tu lo guardavi e lo ascoltavi.
Incredibile.
Poi sei tornato con sei o sette foglie di basilico in mano, le tenevi
sul palmo, come un premio fragile di una tua vittoria.
Se vuoi possiamo riprendercelo, ho detto, lo rimettiamo sul
davanzale della finestra, glielo avevo lasciato solo per i giorni che
eravamo via e non potevamo bagnarlo, ma è sempre tuo.
Hai detto Lasciamolo lí.
Le foglie le hai posate sul tavolo. Siamo stati un po’ in silenzio.
Poi hai detto Ha le mani d’oro.
Cosa? ti ho chiesto, non mi sembravano parole tue.
E tu hai detto ancora Il padrone di casa ha le mani d’oro.
E anche Biancaneve coi suoi uccelli se n’era andata
chissà dove

Oggi ti sei seduto sulle mie ginocchia e mi hai abbracciata, sei


rimasto lí su quelle stupide ginocchia ad abbracciarmi. Allora ho
pensato al salame al cioccolato, che quel tuo comportamento ne
fosse l’epifenomeno. Se cosí è, mi sono detta, il salame al cioccolato
dev’essere ancora piú potente della TortaMargheritaCameo.
Purtroppo non si trattava di un cibo altrettanto facile da riprodurre,
ero andata a caso, mescolando ingredienti a muzzo e senza
neanche pesarli. Perciò non si ripeterà mai piú.
Naturalmente non avevo preparato quel salame al cioccolato con
l’intento di farti sedere sulle mie ginocchia, chi ci pensava alle
ginocchia.
Era una giornata normale, tu in camera tua e Gi nello sgabuzzino
a far cose. Era un po’ corrucciato per ragioni di ordine odontopolitico.
Ieri a cena si è verificata un’inspiegabile coincidenza. Proprio
nell’attimo successivo alla tua sortita «Mica lo dico per provocare, se
sono fascista sono fascista, no?» gli si è spaccato un dente di colpo.
Esploso, come capita a certi bicchieri di cristallo leggermente
incrinati. Non stava neanche masticando, a quanto ricordo. Dice che
ha sentito qualcosa di strano con la lingua in concomitanza con la
fine della tua frase e quel qualcosa era un molare sbeccato.
Perciò da dopo il caffè se ne stava nel suo sgabuzzino in partitella
con Zubixbat.1, nome di battaglia di Nanda, la madre del suo figlio
piú piccolo, che gli aveva chiesto sei volte la rivincita. Lui e
Zubixbat.1 hanno un rapporto ruzzleianamente sadomaso.
Tu sulle mie ginocchia mi abbracciavi fortissimo.
È proprio vero che è bello quando i figli ti abbracciano forte seduti
sulle tue ginocchia. Era una cosa che non succedeva dalla prima
media. Ti cambia completamente la prospettiva con la quale guardi
lo stesso mondo che guardavi un attimo prima. Tutto diventa piú
pastellato, la luce si ammorbidisce come in un film di Zeffirelli e ti
dimentichi dei rutti protratti, delle mutande e dei calzini in stato di de-
composizione avanzata. Mi sentivo Biancaneve che saltella beata di
aver rifatto cosí bene i letti dei nanetti e gli uccellini le cantano
Impara a fischiettar provate a fischiettar vedrete che il lavoro piú
leggero vi sarà, volandole qua e là, da una spalla all’altra spalla.
Che bei momenti riserva a volte la vita quando uno meno se lo
aspetta. È proprio vero.
Un attimo dopo mi hai strizzato ancora abbastanza
affettuosamente il braccio e hai detto che al concerto poi ci andavi e
tornavi con un tuo amico se per me andava bene.
– Che amico? – ho detto mentre ti sollevavi dalle ginocchia dopo
aver compiuto la tua missione (ecco perché mi abbracciavi,
bastardo).
– Un mio amico che ha diciotto anni, – hai detto.
– E chi è questo tuo amico?
– Uno, – hai detto.
– Certamente che è uno, questo l’ho capito benissimo, ma chi?
intendo dire, chi è questo amico-uno con cui torni in macchina dopo
il concerto di questo come si chiama?
– Guetta, – hai scandito forte, – il concerto, te l’ho detto tre mesi
fa.
Dallo sgabuzzino Gi ha urlato Comunque sappi che mi sa che è
pure ebreo, questo Guetta. Non so come faccia a giocare a Ruzzle,
a vincere e a farsi infaticabilmente i cazzi nostri.
Hai fatto finta di non sentire.
– Comunque non me ne frega niente, – ho detto, –voglio solo
sapere come si chiama quello che ti ci porta, voglio sapere chi è
questo tuo amico neopatentato che ti dovrebbe accompagnare a
casa. Metti che si faccia qualche cannone di troppo e poi guidi
mezzo appannato, per esempio, – ho detto.
– Cosa hai detto che si facesse cosa.
Avevi gli occhi fuori dalle orbite come un prete che sta vedendo
l’anticristo nudo.
– Qualche cannone, – ho detto. – Non so adesso come li
chiamate voi. Comunque cannabis, erba, roba del genere. Che si
fuma ai concerti nei luoghi aperti.
– Ma sei scema?
– In che senso? – ho domandato facendo la finta tonta.
– Cioè ti pare che i miei amici si fanno cose del genere secondo
te?
– Non ci trovo niente di strano a farsi i cannoni a un concerto
all’aperto (vuoi finire denunciata alla narcotici dal tuo stesso figlio per
istigamento di minore all’uso di psicotropi?). Quello che volevo dire,
– ho aggiunto riprendendo il filo, – quello che volevo dire è che la
questione adesso non è se al concerto di ’sto David Ghetti
– Guet-ta. Si chiama Guetta. Ma ci fai o ci sei? – hai detto
impermalito.
– No, quello che intendevo dire è che se da ’sto Guetta ci si fanno
o non ci si fanno i cannoni o le trombe o i bombi o no non lo
possiamo sapere, quello che però so è che il tuo amico la patente ce
l’ha sí e no da qualche mese, quindi poni caso che si faccia anche
solo un tiro di fumo passivo, un’inspirazione da troppo vicino,
involontaria, potrebbe anche bastare perché alla fine del concerto la
sua prontezza di riflessi subisca un calo e il vostro ritorno in
macchina si trasformi in un articolo di cronaca del mattino dopo.
Metti caso, – ho detto.
– Boh, – hai detto, – vabbè.
– Sono tua madre, – ho detto.
– Cosa vuoi? Vuoi farmi fare una figura di merda come quella
volta che hai chiamato casa di Lele all’una e mezzo perché non
sapevi dov’ero e hai svegliato il padre?
– È normale svegliarsi tra padri e madri. È un modo per sentirci
vicini nella disgrazia, – ho detto.
– Sei patetica veramente.
– Patetica o no, portami qui questo tuo amico che non si è ancora
capito come si chiama, io lo guardo negli occhi e decido se tu con lui
in macchina ci vai o non ci vai, – ho detto.
– E cosa gli dici?
– Niente. Lo guardo e basta.
– Non gli dici niente?
– Gli offro un caffè.
– Non beve caffè.
– Gli offro una camomilla.
– Vabbè dài, – hai detto, – non sei seria.
– Sono serissima. (Hai recuperato. Hai recuperato. Sei perfetta e
dritta, vorresti che ti vedessero adesso, ma non sai chi). – Siccome
sono tua madre (e non ci piove) mi pare normale (no, non mi pare, è
normale), mi pare piú che normale (ribadire le cose due volte mi
indebolisce, perdo forza assertiva) che, se tu vai in macchina con
qualcuno, io questo qualcuno primo lo conosco, secondo lo guardo
nelle palle degli occhi e gli chiedo Come ti chiami e quando hai
preso la patente, terzo mi segno il suo numero di telefono su un
foglietto e lo appendo al frigo.
Ma mentre ti scandivo savonarolianamente il secondo punto, tu
non c’eri piú.
Il percorso del Metodo dello Specialista Tedesco

Mi ha chiamata la segretaria del Metodo dello Specialista Tedesco


per dirmi che c’era la possibilità di accedere a una prima tappa del
percorso. Ho detto che ero molto felice, mi ha detto di presentarmi
giovedí alle diciotto e trenta.
Ci sono andata. Cosí ho conosciuto la responsabile del percorso,
la signora Olga. Di lei al telefono mi ero fatta un’immagine del tutto
falsata. Me l’ero figurata con una faccia da pubblicità delle creme
Weleda o Dott. Hauschka, quelle donne giovanili, piú sane che belle,
con la pelle pulitissima senza un filo di trucco, capelli lisci, sorriso
mite, pudico, come se, fatta la fotografia, dovessero correre a
mettere in tavola per i cinque figli maschi e il marito ingegnere, ma
contadino. Invece Olga (ci siamo subito date del tu) è una tipa
bassetta con tacchetti e golfino in ciniglia con sopra un felino
ricamato a paillettes e perline che le stringe la pancia, ha i capelli
ricci, ramati (tinti) e un rossetto piuttosto coraggioso per la sua età
(cinquanta e oltre). Parla con accento vagamente emiliano e
potrebbe essere una che oltre che di educazione dei figli, se ne
intende di piada.
Ha detto che hanno deciso di far partire il percorso anche se non
c’era tanta gente, e lo Specialista aveva detto che andava bene, che
si poteva anche con poche persone, se c’era la motivazione (il
bonifico). In tutto, a parte Olga, eravamo tre madri e un padre. La
madre col padre erano una coppia si può dire perfetta, ossia genitori
degli stessi figli e sposati tra loro, invece l’altra madre era come me,
brada. Una donna sulla quarantina, capelli neri di henné, lunghi e
abbastanza spettinati, orecchie piccole ma con almeno cinque
orecchini per parte, bella. Abbiamo subito legato perché anche lei, al
contrario dei perfettini, non aveva compilato bene il questionario di
accesso. Si chiama Maria.
Olga ci ha fatto sedere in cerchio su delle sedie di legno, poi ha
detto Cominciamo, facciamo un giro di conoscenza, dite agli altri
perché siete qui eccetera. Hanno iniziato gli sposati. Erano molto
sicuri di sé e una volta presa la parola (non senza una falsa
riluttanza iniziale) non la mollavano piú. Parlavano a turno, sempre
guardandosi tra loro e mentre uno parlava l’altra assentiva e
viceversa.
Abbiamo fatto la scuola steineriana (dicevano Abbiamo fatto
questo abbiamo fatto quello, intendendo che i loro figli avevano fatto
questo o quello. Come se loro e i loro figli fossero un unico blocco).
Abbiamo fatto violino, dicevano, abbiamo fatto nuoto, abbiamo preso
il First Certificate e, da quando l’abbiamo ricevuto, abbiamo fatto
ogni sera il training autogeno dello Specialista Tedesco (questa era
la sola cosa che avevano fatto davvero tutti assieme). Io e Maria ci
guardavamo come dire Che palle. Si era ormai capito che quei
ragazzi, i figli dei perfettini, erano sportivi, suonavano il violino e
problemi non ne davano, che rispetto ai nostri, di figli, non si
potevano neanche dire adolescenti. Erano delle muffole.
Olga ascoltava, ogni tanto tirava fuori dalla sua borsa di lana fatta
all’uncinetto un sacchettino di carta tutto stropicciato pieno di crí-crí,
prima ne offriva a tutti (nessuno li accettava), poi ne scartava uno, se
lo metteva in bocca e riponeva il sacchetto, poi di nuovo, poi di
nuovo. Lo faccio perché ho appena smesso di fumare, diceva
sorridendo come per scusarsi.
Ancora prima di parlare delle motivazioni che ci avevano portato
lí, io e Maria avevamo fatto come un’alleanza. L’alleanza della sfiga.
Poi è toccato a Maria. Ci ha detto che suo figlio Otto ha
diciassette anni, è un OEL , cioè un operatore elettrico ed elettronico,
ma non ha voluto andare avanti e diventare un TIEL , cioè un tecnico
delle industrie elettriche, perché non gli interessa quello, gli piace la
pittura, il disegno. È una bella passione, lo penso anch’io, ha detto
Maria, però non ti dà da mangiare. Per qualche tempo ha lavorato,
ha fatto uno stage organizzato dalla scuola di formazione e lavoro,
però dopo lo stage non ti davano il lavoro perché avevano altra
gente nuova per lo stage. Per un po’ ha fatto il buttafuori nel
McDonald’s che c’è alla stazione, doveva stare alla porta nelle ore
notturne, sbattere fuori i drogati che avevano freddo, quelli che
cercavano di entrare. Ha mollato quasi subito, diceva che gli stava
sul cazzo proprio come lavoro. Anche perché lui è anarchico. L’anno
scorso è rimasto schedato e sono cominciati i casini. Perché una
notte con degli amici graffitari facevano street art. Li hanno beccati i
carabinieri e l’hanno chiamata sul cellulare alle tre di notte, per dirle
che siccome suo figlio era ancora minorenne doveva andarselo a
riprendere. Però il problema era che lei subito non ci poteva andare,
perché stava lavorando (Maria fa la OSS in comunità) e quella notte
appunto era di turno, quindi doveva cercare quello della reperibilità
che la sostituisse, che però a quell’ora, insomma aveva detto ai
carabinieri che avessero un attimo di pazienza e che arrivava il
prima possibile. Non può venire il padre? avevano chiesto i
carabinieri. Comunque quella notte quando è andata a prenderlo,
un’ora dopo circa, suo figlio Otto non era per niente agitato, era
calmissimo, le aveva detto che si era autodenunciato, che non gli
andava che i suoi amici fossero arrestati e lui no. Perché lui in quel
momento non stava spruzzando, non era stato visto spruzzare,
stava solo guardando, ma aveva ritenuto giusto farsi avanti e dire Se
portate via loro allora portate via anche me, che era un fatto di lealtà,
secondo lui. Allora i carabinieri avevano portato via anche lui e poi
avevano chiamato Maria e siccome non erano convinti, avevano
fatto la segnalazione ai servizi sociali.
E i servizi sociali sono un branco di stronzi, ha detto Maria. Loro
se vedono un problema, dietro il problema ci vedono subito un
problema psicologico. Vabbè. Comunque mi hanno consigliato
questo percorso per la genitorialità, perciò sono qui. Per portare ai
servizi sociali il certificato del percorso dello Specialista Tedesco.
Anche se non ho ancora ben capito cos’è la genitorialità. Cos’è la
genitorialità? ha chiesto Maria a tutti.
I perfettini si sono guardati, la femmina (si chiama Luigia) ha
aperto la bocca come per far vedere che stava per rispondere, ma
poi non ha parlato.
Olga ha fatto un mezzo sorriso e ha scosso la testa. Le sue crí-crí
erano finite.
Comunque una cosa mi dispiace, ha concluso Maria, che mio
figlio le bombolette, anche quelle dei suoi amici, le aveva comprate
coi miei soldi, che sono i soldi che gli do per aiutarlo dato che non
lavora, una specie di paghetta.
Mentre diceva la parola paghetta piegava la testa come per
scusarsi, un po’ come se confessasse che lei, a suo figlio, ogni tanto
gli dava ancora la tetta.
Poi è stato il mio turno, ho detto che ero lí per te, che avevo letto il
Manuale ma a volte mi capitava di trovarmi in stallo e non riuscivo a
capire cosa fosse giusto e cosa no. Per spiegarmi meglio ho
raccontato di quando è morto don Gallo, che avevo appeso il ritaglio
del giornale dove c’era la foto con lui che sventolava un pezzo di
stoffa rossa e sopra il titolo «Il padre nostro». La sera tu avevi detto
che non volevi foto di comunisti in cucina e io ti avevo detto che
primo don Andrea Gallo non era comunista, secondo era un prete e
terzo non si muoveva da lí. Ma nel frattempo tu la foto l’avevi
staccata. Allora era arrivato lo stallo, ho detto, perché non sapevo
piú, a quel punto, se dovevo riattaccarla con un atto di forza o
lasciarla staccata. Cosí avevo telefonato a Gi, Gi non è il padre di
mio figlio, è il mio compagno e ci vorremmo sposare, ho detto,
l’avevo chiamato per chiedergli un consiglio e lui aveva detto
Riattaccala, è casa tua. E io avevo detto che sí era casa mia ma era
anche casa tua, e che se tu avessi voluto per esempio attaccare in
cucina la foto del duce a me avrebbe dato fastidio. E Gi aveva detto
Allora non riattaccarla.
Olga prendeva degli appunti su un piccolo block notes, i perfettini
mi guardavano stringendo gli occhi come se parlassi in cinese e
Maria annuiva, ma forse solo in virtú della nostra tacita alleanza
pregressa, perché mi rendevo conto anch’io che di quello che avevo
detto non è che si capisse molto.
– Quindi, – ha detto Olga.
– Quindi niente, – ho detto io, – era per spiegare lo stallo.
– Cos’hai fatto? – ha detto Olga.
– Ho lasciato stare e ci ho pensato su.
– E poi?
– Poi sono venuta qui.
– Non hai fatto niente?
– Ho ragionato.
– Secondo me dovevi dargli un bel ceffone, – ha detto Maria. I
perfettini erano orripilati, Olga le ha lanciato un’occhiata di
rimprovero ma abbastanza bonaria, come dire Sono cose che si
pensano ma non si possono dire, soprattutto qui. Poi ha continuato
come se Maria non avesse mai parlato.
– E questo ragionamento, dove ti ha portata?
– Ho pensato di riappendere don Andrea Gallo.
Olga ha detto Prendiamoci tutti una pausa, e io e Maria siamo
uscite da sole a fumarci una sigaretta perché i perfettini non
fumavano e Olga aveva smesso.
Mentre fumavamo Maria ha telefonato al figlio. Allora anch’io ho
telefonato a te. Non sapevo cosa dirti perché normalmente non ci
telefoniamo. Ma vedendo che Maria telefonava a suo figlio ho
pensato che potevo farlo anch’io.
Hai risposto. Hai detto Sí, che vuoi?
Ho chiesto se avevi trovato la pasta da scaldare nel padellino con
il coperchio che avevo lasciato sui fornelli.
Hai detto Sí.
Ho chiesto se l’avevi scaldata.
Hai detto Sí.
Ho chiesto se avevi trovato l’insalata coi pomodori nel frigo.
Hai detto Sí, però non mi andava.
– Non l’hai mangiata?
– Non mi andava.
(Maria mi aspettava per rientrare, e da quando aveva finito la sua
telefonata ascoltava la nostra).
– Dovresti mangiarla perché l’insalata è importante, è una
verdura.
Hai detto Vabbè, volevi dirmi qualcosa?
Ho detto Sí. Ma non sapevo cos’altro dire, mi dispiaceva che la
nostra telefonata durasse cosí poco. Allora ho detto a voce scandita
che si sentisse: – Poi magari stasera parliamo ancora un po’ dell’età
di Pericle.
– Eh? – hai detto. – Sei scema o cosa? – E hai messo giú.
Non lo fa con convinzione, ma lo fa

Se vuoi che un cane trovi i tartufi ci sono due possibilità, diceva


Macchianera, o gli fai sentire l’odore del tartufo e poi tutte le volte
che trova un pezzetto di pane con l’olio al tartufo gli dai in premio
una polpettina di carne, o lo tieni a digiuno e finché non trova il
tartufo lo fai schiattare di fame. La prima strada è piú faticosa e non
garantisce risultati certi, perché il cane può anche decidere di
rinunciare alla polpettina e farsi i fatti suoi. La seconda raggiunge il
risultato quasi sempre. Funziona sulla privazione, sulla minaccia,
sulla sottrazione di un bisogno. Il cane trova il tartufo. Non lo fa per
allegria. Non lo fa con convinzione. Ma lo fa.
Come un coniglio

Eri sotto la doccia, ho bussato e ho detto Io e Gi la prossima


settimana ci sposiamo.
Stavo provando a fare il coniglio per la cena.
– Non credo proprio, – mi hai urlato da dentro il bagno.
– Per fortuna questa non è una cosa che dipende da te. In ogni
caso, sia che tu lo voglia sia che tu non lo voglia, io e Gi ci sposiamo
e basta, – ho detto.
– Quando? – hai chiesto. Il coniglio era nel forno da dieci minuti
ma senza olive. La ricetta le nominava in fondo e io prima l’avevo
letta solo fino a metà.
– Devo andare a comprare le olive, – ho detto.
– Subito?
– Prima che il coniglio ne risenta.
(Silenzio).
– Ne abbiamo parlato col rabbino, – ho detto.
– Rabbino? – Sei uscito in accappatoio, ti aggiravi per la cucina
come Obi-Wan Kenobi, scandendo il tuo silenzio a passi pesanti.
– Un matrimonio da ebrei, – hai detto, guardando il tavolo come
per farci un buco dentro con lo sguardo.
– Non è cosí strano, dato che siamo ebrei, – ho detto lavandomi
le mani, tesa, ma con noncuranza. Mi preparavo a uscire per le
olive.
Tenevo molto alla riuscita del coniglio, perché venivano Edoardo e
il suo nuovo fidanzato. Il giorno prima avevo chiamato Edoardo per
dirgli che per far festa, che finalmente dopo tanti anni aveva trovato
un fidanzato vero, avevo comprato un chilo e mezzo di fegato e le
cipolle e avrei fatto il molto prelibato fegato alla veneziana. E lí per lí
Edoardo era stato entusiasta di quella notizia, ma poi, qualche
minuto dopo, aveva ritelefonato bisbigliando per non farsi sentire che
assolutamente no, che a Uto non piacciono le cose come il fegato e
le frattaglie perché lavora in ospedale e tutte quelle cose non gli
vanno giú. Perciò a pranzo io te e Gi avevamo mangiato fegato alla
veneziana per cinque, perché il fegato non può essere surgelato.
– Non ci parliamo mai, – ti ho detto. E sono scappata al
supermercato.
Quando sono tornata con le mie olive nere, ho aperto il forno, le
ho rovesciate nella teglia e ho messo altro vino bianco. Ero fiera del
mio coniglio che stava fermo, si lasciava fare di tutto.
E tu eri ancora lí, incappucciato, con l’aria di uno che ha subíto
un’offesa. Un’onta incancellabile.
Stavo quasi in ginocchio, guardavo dentro al forno, come se da lí
dovesse arrivarmi un responso, uno scioglimento a quella notizia
fluida, inceppata nel tuo no. Non c’era da rispondere no, neanche sí,
ma solo, al limite, da dire Ah, beh, sono contento per voi. Una
risposta di circostanza sarebbe stata perfetta.
A te non stava bene che mi sposassi in tempio, né che mi
sposassi. Non c’erano vie d’uscita. Perciò guardavo dentro il forno.
– Anch’io, – dicevo, – quando Macchianera si è sposata col
Meschino, non ero contenta. A tuo zio non importava. Ma io non ero
contenta, mi sembrava presto e mi sembrava tardi. Perciò non devi
preoccuparti se non sei contento che tua madre si sposi, avrai preso
da me.
(…)
– E vedrai che tra un anno sarai contento anche tu, – mi
suggeriva il coniglio tutto circondato dalle sue olive, – saremo tutti
contenti tra un anno, non saremo neanche piú noi.
Hai detto Non se ne parla. Che Gi ti faceva schifo e che i figli di Gi
ti facevano schifo e che gli ebrei, non per antisemitismo, hai detto,
proprio come popolo, ti stanno sul cazzo.
Come il fegato, ho pensato, certe cose non vanno giú.
Tenevo d’occhio il coniglio per vedere se adesso anche lui si
metteva a ribellarsi, a uscire dal forno e dire Non se ne parla, sono
un coniglio, vado di fretta.
Cosa avrei potuto dirti, allora? Che siccome ti urtava la sensibilità
non mi sarei sposata piú?
Olga dice che con i figli bisogna comportarsi in modo normale,
non sottrarsi al conflitto, non evitare di confrontarsi col problema del
rifiuto eccetera. Dice di tenere sempre presente che i figli non sono
figli, sono persone.
Se tu fossi stato una persona, io non avrei avuto problemi a dirti
Non è che tu mi dici non se ne parla, sono io semmai che ti dico Se
ne parla, e non se ne parla piú.
Invece siccome non sei una persona, avevo paura. Perciò
guardavo il coniglio con tutte le mie forze, il coniglio, nelle olive, nel
vino, lo marcavo stretto.
Pensavo a Edoardo e Uto che non hanno figli e si sono appena
conosciuti e si amano cosí tanto.
Non vedevo l’ora che arrivassero.

– Un’amica di Macchianera tanti anni fa aveva una figlia della tua


età, – ti ho detto, – che aveva da poco cominciato a fumare. Allora
lei per farla smettere aveva detto alla figlia Sai che ho smesso, non
fumo piú. Gliel’aveva detto per darle il buon esempio per amore e
per darle un’educazione.
Ti sei seduto, hai cominciato ad arrotolarti lo scotch di carta
intorno a un dito, arrotolavi arrotolavi, come se volessi strozzartelo.
– Però poi, – ho detto, – in realtà l’amica di Macchianera fumava,
non aveva per niente smesso. Fumava sempre lo stesso numero
abbastanza cospicuo di sigarette. Però fumava sul balcone della
cucina, o in cucina con la porta chiusa, o in bagno di nascosto. Che
era poi lo stesso identico giochetto che faceva anche sua figlia.
Fumavano, ma per non darsi mai il dispiacere a vicenda, non se lo
dicevano.
– Di tutto quello che stai dicendo non me ne frega, – hai detto.
– Lo so. Ma l’amica di Macchianera era contenta di quella forza
enunciata, della propria rinuncia. Aver smesso di fumare per finta
era comunque una cosa molto sentita. E la figlia era anche lei
contenta. La mamma fumava in cucina e fumava al cesso, quindi lei
sapeva che, se voleva fumare, bastava che andasse in cucina o al
cesso dopo che la madre ne era uscita. Era impossibile sbagliare.
L’amica di Macchianera fingeva di non fumare piú, fingeva anche
che sua figlia non fumasse piú, fingeva di non sentire che in cucina e
in bagno c’era sempre un odore che chiunque avrebbe detto di
sigaretta. Fumavano che era una bellezza.

– Non voglio sposarmi con Gi di nascosto, senza dirti niente. Non


sarebbe un matrimonio vero, se tu non lo sapessi, se i figli di Gi non
lo sapessero. Potremmo sposarci senza dire niente, senza far su
polvere con te e con i figli di Gi. Sposati muti.
– Brucia, – hai detto.
Ma per fortuna non era cosí. Era soltanto il vino che evaporando
faceva quell’odore.
Il coniglio era riuscito, l’hai mangiato anche tu senza trovargli un
difetto. A Edoardo e Uto è piaciuto molto ed è stata una bellissima
serata e io ero contenta perché Edo aveva finalmente trovato uno
che lo guardava con amore.
Dopo il coniglio non ti andava di stare a tavola con noi, hai messo
il piatto nell’acquaio e hai salutato in modo molto educato. Eri
amichevole con loro, nonostante la tua acclarata omofobia, perché
eri arrabbiato con me.
Una mamma ebrea sposata a un ebreo.
Eri caduto nella teglia sbagliata.
La fissa delle orecchie

Questo giovedí Olga ha portato una torta fatta da lei. Un tre quarti
di crostata. L’ho fatta per il compleanno di mio nipote, ha detto, è che
la marmellata ai bambini non piace piú, allora ho detto a mio fratello
Per buttarla via me la riporto a casa, e lui l’ha incartata, ne avevano
sai quante. Ho pensato di portarvela perché se me la mangio tutta
da sola finisce che divento un baule. C’è anche il thermos con il tè
verde, se volete, l’ho messo sul tavolo.
Abbiamo preso tutti un po’ di crostata, non era cattiva, ma
pizzicava. C’è qualcosa che pizzica, dentro, ho detto a Olga. Mi sa
che è il lievito, ha detto lei, se ne metti troppo pizzica la lingua, mi sa
che è quello, ha detto.
Poi abbiamo iniziato, erano quasi le sette e Olga non voleva che
per parlare della crostata si sprecasse tempo.
Ha cominciato come sempre Maria, ha detto che Otto da qualche
settimana si vede con una ragazza e quando lei è di turno la notte se
la porta a dormire lí. Per me va bene, ha detto Maria, l’ho conosciuta
pure questa ragazza, è carina, educata, si chiama Agata, gli ho detto
che per me va bene che se la porti a casa, piuttosto che vadano a
scopare in situazioni pericolose, capito, chennesò. Ma non per
sempre, gli ho detto. Cioè non è perché sono gelosa o possessiva, è
solo che io me ne sono andata di casa presto, mi sono arrangiata da
sola, alla fine quando ti trovi una, non so, se si trovasse un lavoretto
al limite potrebbe avere un posto suo, anche per scopare, sarebbe
piú giusto, per come la vedo io.
I perfettini non seguivano, cercavano in tutti i modi scuse per
distrarsi. Luigia continuava a guardarsi un tallone senza motivo.
Olga ha detto che secondo lei invece era molto positivo che Otto
non avesse paura di farle conoscere la sua ragazza e la portasse a
casa, Vuol dire che si fida di te, ha detto a Maria.
Era sotto gli occhi di tutti che i perfettini non parlavano volentieri di
sesso e manco ne volevano sentir parlare.
Lei, Luigia, dopo un’occhiatina al marito e una carezza alla
borsetta, ha detto che per il momento i loro due figli sono molto
impegnati in altre attività, e per adesso non si preoccupano d’altro, e
che comunque sí, secondo loro era molto positivo quello che aveva
detto Olga (che lei non aveva sentito essendo troppo impegnata a
distrarsi col suo tallone per paura delle cose di sesso di Maria). Era
genericamente positivo.
Loro dicono sempre che secondo loro Olga ha ragione, di
qualsiasi cosa si parli. Secondo me, dice la perfettina, ha
abbastanza ragione Olga, oppure Sí, penso che Olga abbia detto
una cosa giusta.
Basta che non la metta incinta, ha detto Maria.
Io mi sono sentita invidiosa di Maria, di quel suo figlio che non
aveva il tuo pudore. Ho detto a Maria che secondo me doveva
essere contenta, che almeno adesso Otto non rischiava piú di
essere arrestato.
Abbiamo riso, abbiamo bevuto ancora del tè.
Volevo dire qualcosa anch’io, su questo periodo, ma non volevo
che si pensasse che di te non so quasi niente, che tra noi si parla
per lo piú in cucina, per lo piú di cose di cucina o al limite, sempre in
cucina, di cose di scuola.
Allora ho parlato delle orecchie.
Ho parlato molto a lungo delle orecchie di nonna Lea. Era l’unica
cosa che mi veniva in mente.
Ho detto che quando ero piccola il papà di Macchianera ci
portava, me e zio Mario, alla casa di riposo della Comunità ebraica,
a baciare sua mamma Lea, la nonna bis. Nonna Lea era
vecchissima, non aveva quasi capelli ma quelli che aveva erano
bianchi come non si poteva immaginare, un bianco vero, e quando
parlava non si capiva niente, sputava, forse per colpa del fatto che
non aveva i denti, non so, però le piaceva baciare i bambini ed
esserne baciata, e aveva delle orecchie enormi. L’enormità delle
orecchie di nonna Lea: era quello, che mi tornava in mente in quel
momento.
Pensavo al tempo.
Al tempo che passa.
Pensavo alla crescita.
Pensavo che da un certo punto in poi, nella vita, non cresciamo
piú.
L’unica cosa che continua a crescere sono il naso e le orecchie.
Perciò, ho detto, forse tu di me, quando sarai a tua volta diventato
adulto e avrai avuto dei figli e dei nipoti, la cosa che ti ricorderai di
piú, di me, saranno probabilmente le orecchie.
– Le orecchie? – ha detto Olga, e si è messa a ridere senza molto
rumore, ma con le lacrime.

Allora ho detto Altro non mi viene da dire.


Non ho detto, ovviamente, che questa cosa delle orecchie l’avevo
detta solo per non parlare di sesso.
Se tu portassi una ragazza a casa io l’accoglierei benissimo.
La mattina si farebbe colazione insieme, si berrebbe il caffè. O
forse lei verrebbe in cucina, lasciando te ancora in camera da letto, e
si parlerebbe tra noi, del piú e del meno, io le farei capire, con modi
affabili, che per me la sua presenza non è per niente un disturbo. Le
direi Bello, intendendo il tatuaggio della farfalla sulla spalla, chi te
l’ha fatto? E lei si accenderebbe una sigaretta e me ne offrirebbe
una, che io, nonostante abbia smesso ormai da anni, non potrei
rifiutare.
Poi lei direbbe Belle le tue orecchie.
E io direi Grazie.
Verserei il caffè nelle tazzine e le farei capire, senza parlare, di
portartelo di là, in camera tua, che è bello quando si dorme insieme,
che uno porti il caffè all’altro.

Olga ha detto che per quella sera le sembrava che fossero venute
fuori delle cose interessanti, che era contenta.
Ha chiesto se volevamo un pezzo della sua crostata da portare a
casa, ma nessuno l’ha voluta. Era troppo piccante.
Io e Maria siamo andate a berci una birra. E lei mi ha detto Lo sai
che la Tennent’s è l’unica birra che non gonfia la pancia?
Teoricamente te ne puoi anche fare dieci, perché la Tennent’s è
diversa dalle altre birre, non ha i lieviti. È dei lieviti, la colpa della
pancia.
Poi mi ha detto Secondo me dovresti farti i buchi nelle orecchie,
dato che mi pare che c’hai la fissa.
Ma io non ho la fissa delle orecchie, ho detto a Maria, per niente.
Il meno due

Al bar l’altra mattina c’erano due che parlavano dietro di me. Un


uomo e una donna. L’uomo diceva alla donna che non si va avanti
finché non si capisce che quando tra due persone c’è uno scambio
(non so che tipo di scambio intendesse) non solo nessuno ci
guadagna, ma tutt’e due ci devono perdere. Diceva cosí, che questo
accade a causa dell’entropia. Diceva: Se c’è uno scambio tra due
persone e una delle due ci guadagna o anche solo non ci perde,
significa che lo scambio non è stato equo. È a causa dell’entropia
che nessuno ci può guadagnare.
Lo scambio non può dare zero. Deve dare meno due. Perché una
parte dell’energia si perde nello scambio.
Ieri il nostro padrone di casa mi ha chiamata in cortile e mi ha
detto La mangia l’insalata? Non so, ho detto (ho sempre paura di
queste domande che non si sa dove possano portare), ma sí. Mi ha
chiamata nel ripostiglio e mi ha fatto vedere che in una cassetta
c’erano dieci o piú cespi d’insalata. Ne scelga un po’, ha detto.
– Per me? È la sua insalata questa?
Ha detto sí, ma con la testa, come si vergognasse e non volesse
darlo a vedere (che l’insalata l’aveva fatta lui). Perché era bella.
Allora ho preso due cespi della sua insalata. Era di un verde
delicato, un po’ frastagliata e ondulata al fondo delle foglie.
– Non so come si chiami questa qualità, – ho detto tenendola in
mano dal fondo.
– Neanch’io, – ha detto lui. – È un’insalata.
Poi io ho preso una delle bottiglie di vino rosso del matrimonio e
gliel’ho data. – Non so se bevete vino, – ho detto (è pieno di gente
che non beve piú o non ha mai bevuto o non può bere).
E lui allora l’ha presa, ma subito dopo si è fermato e ha detto: –
Non va bene cosí, se io le do l’insalata non è per avere qualcosa in
cambio.
Io ho detto: – Non è per l’insalata, era un po’ di giorni che ci
pensavo, sul serio, a darle una bottiglia. E questa è stata solo
l’occasione.
– Allora la prendo, – ha detto lui.
– Sí sí, la prenda.
E me ne sono tornata dentro, ho bussato alla porta della tua
stanza e ho detto Guarda qua.
Tu non capivi cosa dovevi guardare, eri sdraiato sul letto con
l’iPhone in mano e la stanza in penombra.
Ho agitato uno dei cespi per fartelo vedere, come se fossi tornata
dall’orto e non dallo sgabuzzino, tutta fiera. – L’insalata la mangi?
– Eh? – hai detto.
Io l’insalata me la immaginavo già con la cipolla di Tropea tagliata
a fettine. Ma tu la vedevi solo agitarsi vicino alla porta. Erano i nostri
punti di vista, ho pensato per un momento.
– Me l’ha data il padrone di casa. Pensavo che si potrebbe
metterci la cipolla di Tropea. O anche il pomodoro o la mozzarella
strappata. Col basilico.
Il basilico l’ho detto intendendo il tuo, di basilico, perché era una
cosa che vi legava, un filo tra te e il padrone di casa.
– Sí? – hai detto. – Ce l’abbiamo la mozzarella?
– No, ma la si potrebbe comprare (non è difficile).
– No, – hai detto. – Magari un’altra volta.
Le cose non vanno per niente bene. Gi dice che io e te parliamo
solo di cibo.
L’altro giorno ho detto per scherzo Lo sai che David Guetta è
ebreo?
Hai risposto Me l’avete già detto, non fa ridere.
Di cosa dovrei parlarti non so. Il sergente nella neve di Mario
Rigoni Stern non l’ho letto. O se l’ho letto non mi ricordo piú. Era nel
tuo elenco dei libri.
Sono andata in biblioteca a cercartelo, ho trovato un dvd di Marco
Paolini su Il sergente nella neve e ho pensato che saresti stato
contento. Ho preso il dvd, te l’ho posato sul tavolo, ma non
t’interessava.
Allora per forza, non essendoci altro, parlo di cibi. Insalata,
basilico, mozzarella, fave alla menta.
Di cosa devono parlare una madre e un figlio?
La mamma di Diego (quando eravamo fidanzati, mangiavamo
spesso a casa di sua mamma), lei per me era molto strana; gli
cucinava, gli diceva Ti ho lasciato il tortino in forno da scaldare, ti ho
messo le polpette nella pentola, hai trovato la mortadella? Era buona
quella mortadella? diceva, è difficile sai trovare una mortadella
artigianale, ma c’era un ragazzo giovane in piazza, stamattina,
appena l’ho vista, quella mortadella, non ho resistito, adesso sono
piú i giovani che recuperano queste cose, queste competenze,
costava piú del triplo di quella della Despar ma è un’altra cosa. L’hai
assaggiata Diego? diceva, l’hai assaggiata la mortadella? L’hai
assaggiata? Ripeteva la domanda almeno due volte. L’hai
assaggiata la mortadella io non lo dirò mai, pensavo, al tempo che
stavo con Diego, invece adesso, mi rendo conto, potrei anche dirlo.

Sono troppo vecchia in questi giorni.

Ho richiuso la porta e ho portato l’insalata in cucina. Devo


prendermi cura di tutte le cose.
Però non c’è nessun posto che sia davvero giusto, per l’insalata
vera. È troppo delicata. Nel frigo non va bene, fa troppo freddo. Fuori
dal frigo neanche.
Si sciupa.
L’insalata si sciupa, ho pensato.
Allora ho preso uno strofinaccio per i piatti, pulito e stirato anche
se aveva una macchia e il bordo appena un po’ strappato.
L’ho aperto e ci ho sdraiato dentro l’insalata e l’ho ripiegato e ho
messo tutto nel frigorifero.
L’entropia non l’hai ancora studiata. È una cosa molto bella da
studiare. La si può capire solo immaginandola dentro le cose, come
le cascate dei torrenti o altro. Le formule sono mute. Ma se forzi un
po’ l’immaginazione la puoi capire, perché sta nella vita.
Se scambi qualcosa, diceva il signore dietro di me al bar, alla sua
signora, Se due persone si scambiano qualcosa, nessuno ci può
guadagnare. Se tutti capissero questa semplice cosa, che non ci si
deve aspettare il guadagno, allora tutto il nostro mondo andrebbe
molto meglio. È questa la cosa piú importante, arrivare al meno due,
diceva.
La signora guardava da un’altra parte. Poi lui le ha detto Stai
pensando a cosa devi comprare al supermercato? No. Pensavo a
quello che hai detto, ha risposto lei, cercavo.
Giudizio sospeso

Se sei stato bocciato i tuoi voti non vengono piú, come una volta,
esposti sul tabellone. Ragioni di privacy.
La riga rimane bianca e alla fine della riga scrivono: Non
ammesso. Per avvisarti telefonano a casa, per dire a un genitore Si
prepari spiritualmente che quando andrà a vedere i risultati, sul
cartellone accanto al nome di suo figlio non troverà niente.
Se sei stato promosso i voti te li scrivono, di fianco ci scrivono
anche Ammesso, ma non ti telefonano a casa per fare le
congratulazioni. Almeno non nella scuola pubblica.
Se sei rimandato i voti a destra del tuo nome non ci sono, di
nessuna materia, neanche di quelle in cui hai avuto la sufficienza,
ma a differenza dei bocciati, invece che Non ammesso, all’estremità
destra scrivono Giudizio Sospeso. E non ti telefonano a casa.
Quindi, non essendoci state telefonate, sono andata serena alla
tua scuola a vedere la tua striscia bianca.
Credo che la striscia bianca sia un invito alla riflessione, perché al
posto di quel bianco uno possa mettere i propri pensieri.
Un giudizio sospeso è una cosa attaccata a un filo, come la spada
di Damocle, una cosa che ti spenzola sulla testa e può cadere o non
cadere, non si sa. Questo è stato il mio pensiero quando ho visto il
Giudizio Sospeso in fondo al bianco a destra.
Professori non ce n’erano, né nessuno, lí intorno, preposto alle
delucidazioni. Quelli dei figli con Giudizio Sospeso si aggiravano,
come me, ci si riconosceva dallo sguardo meno fiero degli altri,
dall’andatura meno determinata, da un andare vago.
Finché non è corsa voce che le sospensioni di giudizio venivano
delucidate nei sotterranei dell’istituto, in una costruzione che non era
quella dell’entrata, ma piú di fianco, in un padiglione a parte
raggiungibile tramite un cunicolo di congiungimento. Allora con due
genitori abbiamo intrapreso la discesa. Non era male perché era una
giornata calda e là sotto, lungo i corridoi ipogei, faceva un po’ piú
fresco. L’aula 46A , che era in un distaccamento di un corridoio del
padiglione distaccato, era l’aula dove venivano fornite delucidazioni
sui Giudizi Sospesi della tua sezione e della tua classe.
Una madre che era con me nella discesa, dritta come me, aveva
da raggiungere l’aula 31B , l’abbiamo persa quasi subito. La maggior
parte del gruppo si è poi dispersa in altre aule, con altri cartelli,
sempre recanti denominazione alfanumerica, che non aveva però,
tutti l’avevamo notato, alcuna connessione semantica né con la
sezione né con la classe di pertinenza.
Erano denominazioni alfanumeriche date cosí, un po’ a caso.
Sono rimasta sola.
Ho camminato ancora un po’ fino quasi alla fine del corridoio e ho
trovato come gli altri la mia aula, la 46A . La porta era aperta, mi sono
fermata all’ingresso per non disturbare, perché dentro c’era un
tavolo con una madre seduta, con una professoressa anche lei
seduta. La signora era molto arrabbiata con la professoressa perché
sua figlia era stata rimandata di latino. La guardava in un modo
come per farle capire che non la stimava per niente, che non
stimava nessuno e che nei confronti di sua figlia si era commesso un
grave errore. Che brava mamma questa, mi dicevo.
Quando ha concluso l’arringa è uscita via come una folata di
vento gelido e mi pare che nell’incrociarmi non abbia neanche
accennato un saluto.
Era il mio turno e allora sono entrata. Da subito ho percepito che
era come se fossi fuori tempo massimo. Come se tutte le
rimostranze a disposizione fossero già esaurite. Rimanevano solo
dei Sí e dei Capisco e dei Certamente.
Faceva caldo e la professoressa era visibilmente provata dalla
discussione con la mamma precedente. Mi ha guardata, aveva uno
sguardo di grande sofferenza ma anche vagamente minaccioso,
come a dire Non ci si metta anche lei.
– Suo figlio è Mino Di Maggio?
– Sí, – ho detto. – Si chiama proprio Mino, non è un diminutivo
(non me l’ha mica chiesto). Sí (ho già detto due sí).
– Bene, – ha detto la professoressa, – diciamo che Mino ha fatto
grandi progressi, significativi, incoraggianti, ma non ancora del tutto
sufficienti. Si è notato, con piacere, che è molto maturato nell’ultimo
periodo.
– Maturato, certamente, – ho detto (e un Certamente è andato).
– Ha migliorato i rapporti con la classe, ha socializzato, insomma
direi che siamo sulla strada giusta. Però resta il fatto che non studia.
– Capisco, – ho detto (un Capisco, un Certamente e due Sí, si va
alla grande).
– In virtú del suo miglioramento, – ha detto la professoressa, – si
è comunque pensato di limitarci a due materie. Per aiutarlo. Per
consentirgli di maturare ancora di piú.
– Certamente, – ho detto. Non volevo che pensasse che avrei
cominciato anch’io la manfrina di quella prima di me, perciò ho detto
un altro Sí, altri due Capisco e un ultimo, definitivo, Certamente.
Mi ha dato un foglio, la professoressa, con il programma e gli
esercizi di recupero. Italiano e matematica.
– Ci saranno i corsi di recupero. Cominciano la prossima
settimana. Ogni corso dura una settimana, – ha detto.
– Sono molto intensivi, – ho detto.
– Non sono retribuiti, – ha detto la professoressa.
– Certamente, capisco, – ho detto, alzandomi.
Poi le ho stretto la mano e sono uscita con i fogli sotto braccio.
Arrivata alla porta però non sapevo se andare a destra o a sinistra.
Sono tornata nell’aula e ho chiesto alla professoressa se poteva
dirmi come si faceva a tornare alla costruzione principale.
– Vuole dire al padiglione A.
– Quello da cui si esce di solito, – ho detto.
– Dunque, – ha detto la professoressa, – deve prendere qui a
sinistra, poi non al primo corridoio ma al secondo giri a destra, poi di
nuovo a destra sempre dritto, quando vede una porta azzurra non la
prenda anche se c’è scritto uscita, vada ancora avanti, troverà un
altro corridoio, a sinistra, non può sbagliare perché a destra non c’è
un altro corridoio, prosegua lungo quel corridoio e troverà le scale di
risalita.
– Certamente, sí, – ho detto.
E mi sono persa.
Quando ho trovato l’uscita sono andata dritta in piazza, sono
entrata in chiesa, ho acceso un cero.
Appena entrata in casa ti ho detto che avevi due materie, non eri
stupito, lo sapevi già. Sapevi già tutto.
Hai preso i fogli, li hai guardati, li hai messi sul tavolo della cucina
e hai continuato a fare quello che stavi facendo da prima che
entrassi in casa: raffreddarti una lattina di cocacola con lo spray
refrigerante al fluorometano che avevo comprato alla parafarmacia
un giorno che Gi si era slogato una caviglia.
Cher monsieur Guettà

Gentile signor David Guetta,

mi sono iscritta alla sua newsletter. Però non ho inserito l’anno di


nascita, anche se ho notato che lei è nato solo un anno prima di me.
Vabbè, adesso lo sa.
Io non sono propriamente una sua fan, a essere onesta di lei non so
quasi niente, ho cercato su internet e mi sono piaciute le parole del
coro di una sua canzone che dicono Tu mi spari ma io non cadrò
sono di titanio, tu mi spari ma io non cadrò sono di titanio, tu mi spari
ma io non cadrò sono di titanio, tu mi spari ma io non cadrò sono di
titanio, sono di titanio, sono di titanio…
Anche se lo stesso concetto è ripetuto forse con troppa insistenza
l’ho trovato comunque forte, come concetto.
L’idea che ci sia qualcuno che resta in piedi, che non si lascia tirare
giú perché è fatto di un materiale resistente, non so, la trovo molto
bella, ma, a parte questo, come le ho detto, non conosco molto del
suo repertorio, me ne dispiaccio perché sono sicura che lei abbia,
sia come musicista che come paroliere, moltissime qualità.
A volte è labile e sottile la differenza tra la lusinga e l’insulto, non
trova? Le giuro che le parlo con la massima sincerità, non la sto
prendendo in giro. È che m’imbarazza parlare con uno che non
conosco.
In realtà la ragione per cui le scrivo è che vorrei chiedere un piccolo
favore. Immagino lei sia molto impegnato. Piú che a lei come David
Guetta in carne e ossa, coi suoi piedi, le sue unghie, i suoi ponti
dentali (avrà anche lei almeno un ponte, alla sua età), scrivo a lei in
quanto David Guetta la star, con la barba biondiccia e incolta. Le
vorrei fare i complimenti per la sua barba che stando alle foto non
sembra affatto ritoccata, non sembra tinta, parrebbe proprio sua
naturale. Complimenti davvero. Sa quanti alla sua età, ma anche
con qualche anno in meno, si ritrovano con la barba già bianca e
quasi piú nessun capello in testa, se non completamente lisci come
palle da biliardo?
È anche alla sua fortuna che mi appello.
Infatti la ragione per cui le scrivo, caro David Guetta, è che mio
figlio, ho un figlio di sedici anni che si chiama Mino, è un suo grande
fan, è venuto al suo concerto al Palaolimpico di Torino (ha anche un
suo poster appiccicato in camera da letto).
Mi chiedevo, dunque, se lei potesse farmi questa enorme cortesia, o
al limite, nel caso questa lettera non la leggesse lei ma un qualche
suo scagnozzo incaricato di sbrigarle la corrispondenza sarebbe
uguale, infatti a me non interessa, come le ho detto poco fa, lei in
quanto lei, in quanto essere umano privato, ma solo lei in quanto
mito. Lei in quanto mito può essere chiunque, come le dico, anche
un suo segretario o un tempo determinato assunto apposta per
rispondere alle mail.
Mi basterebbe che lei (o chi per lei, purché in sua vece) mi scrivesse
una lettera (indirizzata a me, nello specifico, con nome e cognome e
possibilmente cartacea, spese a carico del destinatario) nella quale
lei in quanto mito mi racconta un po’ del suo passato di quando
aveva sedici diciassette anni, e mi dice che a quell’età era molto in
crisi, non andava bene a scuola, che per contro però aveva un
buonissimo rapporto con sua madre. Cioè, se lei potesse in quella
sua lettera raccontare qualcosa che metta in evidenza il fatto che
per lei sua madre è stata una figura molto positiva, senza la quale lei
non sarebbe mai diventato un famoso dj. Con qualche aneddoto, per
esempio sul fatto che sua madre la incoraggiava a studiare, la
incoraggiava a essere rispettoso di tutte le persone, a leggere molti
libri, a lavare i piatti almeno ogni tanto. E soprattutto, se potesse, mi
piacerebbe che lei sottolineasse il fatto che lei, fin da piccolo,
detestava le T-shirt stirate, le sarei molto grata se dicesse proprio
che, a suo parere, le magliette stirate sono da sfigati e che nessun
dj serio indossa magliette stirate. Sarebbe bello anche se lei mi
scrivesse (tra le righe, veda lei come inserirlo) che sua madre si è
sposata ebraicamente (lei è ebreo no? Con quel nome lí). Poi, nella
lettera, se potesse, vorrei anche ci scrivesse qualche parola
d’incoraggiamento per mio figlio Mino, qualche consiglio su come
deve fare un ragazzo che vuole entrare nel mondo del djismo, che
tipo di formazione e di esperienza è bene che si faccia, se deve
sapere le lingue o studiare musica, veda lei. Non le chiedo una
raccomandazione, è giusto che mio figlio faccia la sua strada e
ottenga quello che si merita con le sue forze, però, se mai dovesse
capitarle d’incontrarlo sulla sua strada, uno che si chiama Mino,
Mino Di Maggio, come il giocatore, beh.
Ecco tutto.
Allora la ringrazio.
Le accludo il mio indirizzo. Nel caso non abbiate proprio l’abitudine
di scrivere su carta può anche mandarmi una mail, purché si capisca
bene che viene da un sito certificato, che è una cosa che viene
davvero da lei, anche se poi non è proprio sua in persona.
La ringrazio di cuore.
E ringrazio eventualmente anche i suoi collaboratori.
Grazie David Guetta
stia bene
e complimenti ancora
alla sua barba.
Cavatappi

Questa volta avevo detto Comincio io, era troppo tempo che si
sacrificava Maria.
– Prego, – ha detto Olga, allora l’ho guardata meglio, si era
schiarita il rosso dei capelli e aveva una maglia di lycra che le
metteva in evidenza il seno forte, ocra. È strano come certe persone
si preparino a esser guardate, ho provato per lei una specie di
tenerezza, come se Olga mi apparisse per la prima volta in veste di
essere uma no. Di lei sola non sapevamo niente, se avesse dei figli,
un amore.
Ho preso un respiro, ho detto: – Dunque, non bisogna pensare
che loro siano come li vediamo noi, perché noi, essendo i loro
genitori, non percepiamo che una minuscola porzione di quello che
sono.
Siccome nessuno obiettava né mi contraddiceva, ho continuato: –
Inoltre i genitori non sono fatti per lasciare un buon ricordo.
Ho fatto una pausa guardando Maria che mi pareva stesse
sillabando quello che dicevo, senza sonoro, come quando si assiste
all’interrogazione di un compagno di classe e si pensa Al posto suo
avrei potuto esserci io. Ho ripreso coraggio e ho detto ancora: –
Ossia, noi giochiamo un ruolo, non dobbiamo restare, dobbiamo
andarcene. Cosí, – ho aggiunto, – non mi ricordo piú cosa stavo per
dire, – ho detto. (Hai fatto cadere tutto). – Era qualcosa sul ruolo.
Era qualcosa sul fatto che un genitore dev’essere lí per farsi passare
sopra. Sí, mi pare che fosse proprio cosí. Un genitore, un bravo
genitore, dev’essere disposto a farsi camminare sopra e
oltrepassare. Perché è naturale, è la natura che lo vuole. I figli, per
diventare adulti, devono, a un certo punto, passare proprio sopra i
genitori, come un trattore. (Ci siamo, non fermarti). E poi qui al
percorso, negli ultimi tempi si è insistito molto sul concetto chiave
che noi siamo una funzione. Fuori sarete anche persone, insegna lo
Specialista, avrete anche dei sentimenti, un qualche amor proprio,
ma mentre siete coi vostri figli, nella vostra forma genitoriale, lí, siete
solo funzioni, Funzioni Genitoriali. Con i pantaloni o l’ombretto sulle
palpebre, ma sempre e solo funzioni.
I perfettini facevano di sí con la testa, loro sapevano già di essere
funzioni essendo venuti solo per un ripasso.
– Detto questo però io, – ho detto, – mi rendo conto, adesso,
faccio fatica (no, non adesso, dài). Ho sempre fatto fatica (mollala
immediatamente) all’idea di essere una funzione, lo devo
ammettere.
Olga si lisciava i capelli nuovi e se li metteva dietro le orecchie,
sembrava dispiaciuta del mio cul de sac.
– Io devo dire, – ho detto, – che non so come arrendermi a
quest’idea di farmi passare sopra dal trattore, pur sapendo che è
naturale e positivo, e che questo trattore è nato da me. Uno perché
nasce da me adesso ha tutti i diritti?
– Come tu ce li hai avuti, – ha detto Olga, – nei confronti di quelli
da cui sei nata. Se non l’hai sfruttato, questo diritto, di passar loro
sopra, come un trattore, sono problemi tuoi. Avresti dovuto farlo, per
crescere bene, senza complessi, per diventare una persona
normale. Un adulto normale.
Aveva quella maglia di lycra assurda, era assurda, tutti noi, seduti
lí, eravamo improvvisamente assurdi.
Dio, ho pensato, ecco perché non sono normale: non sono stata
un buon trattore.
Avrei dovuto passare un po’ meglio sopra Macchianera, passare e
ripassare avanti e indietro da piccola per essere un po’ piú normale
da grande. Coi cingoli.
– Scusa se t’interrompo qua, – ha detto Olga, – ma a questo
proposito vorrei leggere una cosa per tutti, – ha sgrufugnato nel
borsone di lana qualche secondo, ne ha estratto una brossura senza
copertina e si è messa a leggere: «Se siete genitori voi non potete
continuare a vivere la vostra vita come se i vostri figli fossero vostri
amici o vostri fidanzati o i vostri vicini di casa. I vostri figli, – sto
leggendovi pagine ancora inedite del Manuale dello Specialista
Tedesco 3, – sono figli vostri. Per tale ragione vi si richiede una
specie di passo indietro, una specie di abdicazione. Come se voi
adesso, voi intesi come esseri umani, non aveste piú propriamente il
diritto di essere voi stessi interamente, ma aveste invece il dovere di
diventare qualcosa di meno solido, di piú decentrato, di piú
calpestabile. I vostri figli, – ha letto Olga, – hanno bisogno di
confrontarsi con qualcuno che rappresenti l’ostacolo, ma non sia un
reale ostacolo; hanno bisogno di affrontare una prova d’iniziazione
contro un antagonista forte, ma battuto in potenza, e questo
antagonista, spero sia ormai chiaro, siete voi».
– Bello, – dicevano i perfettini, commossi, come se avessero
assistito alla lettura di un pezzo di Isaia.
– Infatti loro, – ha aggiunto Luigia guardando prima il marito, poi
Olga, poi nella mia direzione, – devono arrivare a sentirsi persone
intere, complete e realizzate, e per arrivarci hanno come questo
bisogno, questo istinto, necessario. E questo dovere, di calpestare.
– Calpestare non è la parola esatta, – ha corretto bonaria Olga, –
perché in tedesco è un’altra parola. È Schritt, da cui anche der
Schritt, Passo, ossia, compiere un passo, andare oltre, andare
avanti passando sopra.
Passando sopra, annuivano seri i perfettini, come se fosse proprio
quello che stavano per dire loro.
– Come si sa, – ho ripreso, – nessun animale può sopravvivere in
natura senza essere in un certo senso spietato. Un leone, un
ghepardo, non possono permettersi di avere dei problemi di
coscienza nei confronti, per esempio, di una gazzella, perché sono
chiamati a mangiarsela. Il ruolo della gazzella è un ruolo
fondamentale nella vita di un leone o di un ghepardo, tuttavia non è
un ruolo sentimentale. Il leone non ha nel suo dna un amore
empatico nei confronti della gazzella e neanche il ghepardo, o il
puma. Non ce lo devono avere. Per i nostri figli è un po’ la stessa
cosa, – ho detto (vai benissimo che questo esempio del puma e
della gazzella è stato geniale). – Se non volete che i vostri figli
restino per sempre chiusi in un bozzolo, avvoltolati nel vostro ego
soffocante, accogliete l’idea che a un certo punto vi passino sopra
con i loro passi. Facciano alcuni passi sopra di voi. Sulla vostra
pancia, sulla vostra faccia, mi pare di aver capito, da quello che
leggeva Olga poc’anzi. Insieme al fatto che, come dicevo prima, non
siamo fatti per lasciare un buon ricordo. Anzi. Un buon genitore è
fatto per sparire, come la carta biodegradabile.
Biodegradabile, hanno ripetuto Luigia e Carlo, la parola era troppo
bella per lasciarmela dire da sola.
– Bravi, – ha detto Olga – infatti, come ha messo in evidenza la
vostra compagna di percorso, il titolo dello scorso incontro, non ve
l’avevo detto per non condizionarvi, era appunto Genitori
Biodegradabili. Biologisch abbaubare Eltern.
– Biologisc ab baú baren, – abbiamo ripetuto insieme un po’
stentati.
– Significa, – ho spifferato all’orecchio di Maria, – che dobbiamo
rassegnarci a sparire?
Lei ha alzato le spalle e mi ha guardata come dire Dopo ne
parliamo.
– Allora per la prossima volta provate a fare a casa, con i vostri
figli, questo esercizio di quasi sottomissione: la gazzella, come si è
giustamente detto, non si sottomette al ghepardo, ci mancherebbe,
non si sottomette neanche lontanamente. Però si concede a lui. Gli
consente di sbranarla. Lascia che la natura faccia il suo corso, voi
provate a fare lo stesso.
Maria, senza guardarmi, mi aveva tirato la maglia.
– Quindi, se ho ben capito, – ho ripreso, – il punto è che noi, nei
confronti dei nostri figli, non siamo il centro, siamo la periferia.
Dobbiamo accettare questo ruolo periferico, che è difficile. È come
se il sole dovesse convincersi di girare intorno a qualcosa che non è
lui (questa del sole è un po’ tirata, non ne avevi un’altra?). Noi siamo
al percorso appunto per renderci conto, per essere aiutati a renderci
conto, che non c’è niente di male a farsi un po’ da parte (cosa che
avrebbe dovuto fare, tra l’altro, Macchianera). Un’altra cosa che si è
capita, e concludo, è che noi fuori da questo ruolo genitoriale
saremmo anche liberi, ma qui in effetti non ho capito bene in che
senso (questo è quando uno non si sa fermare per tempo).
– Allora, – ha detto Olga (guardandosi le mani e anche un po’
annusandosele), – questo lo dico per tutti per l’ultima volta: il
sacrificio non esiste. Voi non vi dovete sacrificare per i vostri figli,
non dovete farlo. Voi dovrete tutt’al piú essere sbranati da loro. Ma
senza sacrificio. Se voi vi sacrificaste sareste presuntuosi e ignobili.
Il sacrificio, nel senso inteso dallo Specialista, è una forma subdola
di vessazione. Vi leggo per finire una delle sue massime piú famose:
«Un genitore che vota la sua vita ai figli, che rinuncia a se stesso,
che si abbrutisce e perde le proprie coordinate, è uno Arschfotze»,
cercatevi poi voi la parola, – ha detto Olga. – Non dovete immolarvi
perché dovete essere felici. Se non siete felici e soddisfatti di voi, i
vostri figli saranno infelici, si sentiranno colpevoli e non cresceranno
bene.
– Quindi dobbiamo essere felici? – ho interrotto. – Ma come
facciamo a essere felici facendoci anche passare sopra?
Olga si è portata un dito alle labbra e l’ha messo in un punto sulla
gamba, la calza di nylon. Aveva un filo tirato, una lieve smagliatura,
era lí che Olga aveva posato il suo dito appena bagnato, per fermare
la smagliatura con la saliva, altrimenti non l’avrei mai notata.

Dopo un attimo di silenzio ho detto: – Forse ho capito: come un


cavatappi (non ci credo). Se un cavatappi è buono a cavare i tappi, –
ho detto, – chissenefrega cosa farà nel tempo in cui non ci sono
tappi da stappare.
– Bene, – ha detto Olga. – Mi pare che per oggi possiamo finire
qua?
Sí sí

Quando poi sono uscita dal percorso, ero l’ultima, Maria mi


aspettava fuori. Mi ha offerto una sigaretta. Chissenefrega, l’ho
presa. Maria, fumando, ha detto Sí sí, come tra sé, ma in realtà
parlava con me, era come se dicesse di prendere tutte ’ste robe
colle pinze. Che non era una religione.
Mi ha chiesto se mi andava di accompagnarla a ritirare la giacca
di Otto che aveva portato a stringere da un suo amico sarto. Ho
detto Sí. Il mio amico si chiama Ignazio, ha detto Maria mentre
andavamo in centro, o meglio, dice di chiamarsi Ignazio perché il
suo nome è troppo difficile da pronunciare. È lunghissimo e magro e
ha delle mani affusolate con le dita lunghe e bellissime. È etiope, ha
detto ancora Maria, mentre camminavamo a passo abbastanza
sostenuto. Fa il sarto, è bravo ed è sempre aperto, anche la notte,
anche la domenica, anche a Natale, perché lui vive lí. Ha un piccolo
negozietto con tutti i vestiti ammonticchiati e quando gli spieghi cosa
hai bisogno di fare dice sempre Sí sí, e poi ride. È molto onesto e
lavora benissimo, però piano. Non devi avere fretta.
Siamo arrivate da Ignazio. Ignazio ha visto Maria e ha sorriso. Ti
ricordi? gli diceva Maria, Síí, diceva Ignazio. Intanto si stringevano le
mani.
– Cosa? – ha detto Ignazio, mentre ancora le sue lunghe dita
cingevano le dita bianco-rosa di Maria.
Maria si è messa a ridere, La giacca, la mia giacca, quella blu da
stringere che dovevi farmi già la settimana scorsa! Ahh, sí sí, adesso
ricordo. Un attimo, ha detto Ignazio, facendo l’uno con l’indice.
Intanto, già che ero lí, ha sorriso anche a me.
Ha tirato fuori da un mucchione una giacca blu, scarruffata. Ecco,
ha detto a Maria, con un sorriso bianco, enorme, porgendole la
giacca con quelle dita affusolate e perfette e bellissime, agli occhi di
Maria.
– Grazie, – ha detto Maria. – L’hai fatta?
– Sííí, – ha annuito Ignazio o come si chiama davvero.
– Sicuro? Non mi pare che sia molto diversa da prima.
– È piú stretta. Ho tagliato qua e qua e poi ricucito tutto, piú
stretto. Bene?
– Bene, – ha detto Maria guardandolo molto negli occhi. Occhi
bellissimi.
– Bene, – ho detto io.
E, dopo molti saluti, ce ne siamo andate.
Mentre camminavamo e Maria aveva tolto la giacca dal sacchetto
di plastica per scuoterla un po’ e piegarla meglio, io le ho detto: – Ma
tuo figlio non si lamenta se gli porti una giacca tutta stropicciata? –
Ci mancherebbe, – ha risposto Maria.
– Vuoi dire che Otto non si lamenta mai delle cose, di come sono
stirate o lavate?
– Non si lamenta perché le sue cose se le stira da solo, tanto per
cominciare, e poi perché se si lamentasse finirebbe male. Una volta
gli ho tolto il materasso.
Ho notato che mentre parlavamo e camminavamo in direzione
della metropolitana, dietro Maria intravedevo un alone, come
un’immagine appannata, in controluce, appena dietro la sua testa.
– L’ho fatto dormire per terra per due giorni, – ha detto Maria, –
perché aveva cambiato canale come un cafone.
– L’hai punito?
– Certo, – ha detto Maria, – che l’ho punito.
L’immagine sfocata che intuivo appena dietro di lei si faceva via
via piú nitida. Erano loro, le mamme-mamme, le mamme che piú
mamme non si può, le mamme delle torte erano venute a trovarmi!
con i loro foularini! le loro gonne al ginocchio e le loro ciabatte
dorate! Le ho salutate.
– Cosa dovevo fare? – diceva Maria, – lasciarmi sfilare di mano il
telecomando senza dire niente? Ci mancherebbe che adesso mio
figlio mi cambia canale mentre guardo Lost.
Le madri facevano una danzetta sotto braccio, incrociando le
gambe, e con il dito facevano No No No, tre passi a destra tre passi
a sinistra, dalla testa di Maria.
– Cosa guardi? – mi ha chiesto Maria.
– Niente, – ho detto.
– E allora, quello che ci ha detto Olga dello Specialista Tedesco,
che dobbiamo lasciarci sbranare in modo naturale? – le ho chiesto
poi.
– Senti, lo Specialista Tedesco è tedesco, io sono italiana, – ha
detto lei. – Io vengo al percorso perché voglio il certificato di
frequenza per portarlo ai servizi sociali, per attestare che ho lavorato
per migliorare la mia genitorialità, anche se non so cosa sia. Ma non
voglio farmi sbranare, – ha detto Maria, – e voglio guardarmi Lost in
santa pace.
Poi le madri dietro Maria poco a poco sono svanite, si sono sciolte
nella luce.
Ero piena di felicità.
– Il ragionamento, – ho detto a Maria dandole un bacio sulla
guancia, – non fa una grinza.
– Ti piace Ignazio? – mi ha chiesto.
– Molto, – ho risposto, – soprattutto le dita. Sono incredibili le sue
dita, sono proprio lunghissime.
Maria ha sorriso, stringendomi la mano. Un attimo dopo scendeva
con le scale mobili mentre io continuavo a piedi fino all’autobus per
venire a casa. Era già tardi.
Le dita di Ignazio, pensavo, sono lunghe quasi due volte le dita di
Gi.
Anche se anche Gi ha delle belle dita lunghe, pensavo, non ci
possiamo lamentare.
L’accenno di un inchino

La metafora del cavatappi mi ha fatto riflettere a fondo. Ho


pensato e ripensato e alla fine sono arrivata alla conclusione che piú
che un cavatappi una madre sarebbe una locomotiva. Perché la
locomotiva è molto piú pesante di un cavatappi, e perché è lei che
decide dove andare e se si va o non si va.
Però non l’ho detto a Olga, non l’ho detto a nessuno.
Quest’idea della locomotiva mi è venuta mentre leggevo le
metafore sul tuo libro di italiano, aspettando che mi raggiungessi in
cucina per organizzare il ripasso. Sfogliavo il libro.
Lo sfogliavo da un’ora. Dato che non arrivavi sono venuta a
cercarti e ti ho trovato al computer con le cuffie, la musica house
techno a palla. Ti ho fatto un cenno con le mani e col labiale ho detto
RIPASSARE LA METAFORA . Hai tolto le cuffie, mi hai guardata dritto
negli occhi e hai proferito l’imperitura frase Non mi rompere i
coglioni.
Dato che non mi muovevo, dato che ero rimasta ferma, radicata al
suolo e non reagivo in nessun modo, hai aggiunto Vado a farmi la
doccia. Ti sei alzato, hai posato le cuffie e sei uscito dalla stanza
lasciandomi sola.
Ero molto agitata. Le madri erano tornate, le vedevo abbastanza
chiaramente, ma questa volta non danzavano. Avevano lunghi
grembiuli e tenevano le mani in tasca; alcune a braccia conserte, lo
sguardo minaccioso, mi guardavano come a dire Adesso farai
qualcosa, cazzo.
Mi sono seduta sulla sedia della tua scrivania. Le cuffie col cavo
penzolante che sfiorava il pavimento. Ho preso in mano il cavo. Non
è stata una mia scelta, è stato il cavo, a far venire il gesto, mentre lo
tiravo gli staccavo il jack lo arrotolavo intorno alle cuffie e lo fermavo
col feltrino.
Le madri battevano il tempo col piede, davano il ritmo alla mia
nuova risolutezza.
Era il loro ritmo rap:

Ho spèn-to il Màc
staccàtolàprèsa
gli ho tòl-to-la-corre-nte-pèrsancírelasuarèsa
Hoarròtolatotút-to
fermàtocollaccèt-to
ilcàvosenestàvarròtolàtobellostrètto

Le madri scalmanate battevano i piedi, erano fuori di testa ma io


mi mantenevo calma, Calme ragazze, datevi una regolata, c’è
bisogno di freddezza in momenti simili, silenzio.
Ho sollevato la tua tastiera ultrapiatta, staccato il cavo usb che la
legava allo schermo del Mac, ho fatto su il cavo della tastiera intorno
alla tastiera medesima, con freddezza e meticolosità ho fermato il
cavo col suo apposito laccetto di velcro. Poi, tenendo stretta sotto le
ascelle la tastiera ultrapiatta e infilandomi le cuffie in un bicipite
come un salvagente, per avere libere le mani, ho sollevato il grande
Mac e ho portato tutto quanto in camera mia. Mi sono guardata in
giro, e ho optato per il sotto dell’armadio. Un classico, ho pensato.
Le madri danzavano leggiadre nell’aria coi loro grembiulini, i loro
mattarelli, dicevano Brava, brava brava. Qualcuna applaudiva,
qualcuna emetteva gridolini di gioia scema.
Concluse le operazioni di occultamento, ho respirato, ho
aspettato.
Nel frattempo tu, fatta la tua doccia, ciabattando tornavi in camera
tua, ancora ignaro dell’accaduto e privo di sospetto.

Mi sentivo orrenda, colpevole, cattiva. Ma anche leggera.


C’era un’aria d’irrealtà come quando si esaurisce una forte
grandinata, che tutto diventa bianco all’improvviso e non ci si
capacita del silenzio. Niente.
Pochi minuti dopo hai bussato alla porta della mia stanza. Hai
chiesto Posso entrare?
Ho detto Sí. Ho pensato Ecco la guerra. Mi sono irrigidita.
Invece hai detto Dài, mi hai abbracciata (una cosa che di solito
faccio io con te, per sdrammatizzare, per dire Ci si vuole bene lo
stesso, non facciamone un dramma) e poi hai detto Hai ragione. Ho
esagerato. Mi dispiace. Dài. Non lo faccio piú. Poi hai ripetuto due
volte ancora Mi dispiace. Sempre cercando di tenermi stretta
nell’abbraccio mentre io ero rigida come una palma.
Non sapevo che cosa fare né cosa dire. Era tutto diverso da come
mi ero immaginata.
Le madri si erano dissolte nel nulla. Eravamo di nuovo soli, e tu,
inspiegabilmente, inaspettatamente, eri diventato, di noi due, il piú
ragionevole nei modi.
Non hai reagito con rabbia, non mi hai insultata, non hai cercato
di toglierti la vita, né di togliere la mia a me, né alzato la voce. Era
come se si fosse ristabilito il corretto ordine delle cose. Ordine
gerarchico.
E non sembrava che la cosa ti dispiacesse.

Nei giorni a seguire guardavo il computer sotto l’armadio e mi


dicevo Una cosa bieca, hai fatto una cosa bieca. Hai fatto una cosa.
Bieca. Ecco cosa hai fatto.
Però poi arrivavano le madri, sorridevano, brindavano, non ci
pensavo piú.
Era stata una benedizione.
Tu eri diventato gentilissimo e una mattina hai persino fatto il caffè
e me lo hai portato a letto. Nel frattempo studiavi le metafore e facevi
gli esercizi di recupero di matematica.
Mi sentivo in un telefilm americano degli anni Sessanta, di quelli
con quei bambini educati, le gote grassocce, doppiati da voci
querule e acute che dicono sempre Sí papà, sí mamma,
accompagnando il tutto con l’accenno di un inchino.
L’accenno di un inchino. Potrebbe essere il titolo di una nuova
poesia.
L’accenno di un inchino
che tutti i vagoni fanno
al cospetto della locomotiva.
Prima di ogni partenza.
Prima di ogni arrivo.
Contratto.
(Ovvero come restituirti il Mac e sancire delle regole di
lunga durata)

Per alcuni giorni sei rimasto senza computer senza casse e senza
tastiera. Sapevi che erano sotto il mio armadio ma una qualche
forma d’istinto ti suggeriva di non tentare di recuperarli. Era un istinto
saggio.
Cosí, dopo quei cinque giorni, ci siamo finalmente seduti al tavolo
delle trattative.
E quello era il giorno del contratto.
Aspettava sul tavolo in cucina pronto per essere firmato da
entrambi.
Ci avevo lavorato tutta la notte per renderlo perfetto,
giuridicamente. Mi pareva di esserci riuscita. Avevo tralasciato le
cose piú marginali per battere sui fondamentali.
C’erano anche alcune madri sedute sul tavolo, con le gambe
incrociate sotto la gonna a pieghe, altre appoggiate al lavandino e
due ai fornelli.
Sul contratto avevo scritto un certo numero di regole basilari che
sarà nostro compito rispettare: in cambio, io porrò fine alla
requisizione.
Il primo punto era «Mai piú affermazioni razziste o leghiste od
omofobe o discriminatorie nei confronti di nessuno in questa casa o
a portata delle mie orecchie».
– Anche se le penso?
– Non importa quello che pensi tu dentro te stesso, importa quello
che esce dalla tua bocca. Per il momento.
Punto due. «Anche se le detesti e le vorresti sterminare in massa,
in questa casa non si userà mai il veleno per formiche».
Punto tre. «Ti sveglierai al mattino alle otto e mezzo, farai
colazione e metterai la tazza il cucchiaino e il bricco del latte nel
lavabo e comincerai a studiare per i tuoi esami di riparazione.
«Studierai tre ore poi ti riposerai. Poi mangerai. Metterai nel
lavabo il tuo piatto le posate e il bicchiere poi ti riposerai. Un’ora
massimo. Poi studierai altre tre ore. Poi ti riposerai. Poi cenerai.
Dopo cena metterai il tuo piatto le tue posate e il tuo bicchiere nel
lavabo e poi sarai libero di fare quello che piú ti piace. Ma solo fino a
mezzanotte. La notte non userai il computer, ma lo terrai spento e
userai invece la notte per dormire. E ti sveglierai il mattino alle otto e
mezzo e tutto come sopra».
Punto quattro. «La latta va con il vetro».
Punto cinque. «La carta sporca nell’indifferenziato».
Punto sei (aggiunto da te). «Non si usa il dentifricio di Mino».
Punto sette (aggiunto da te). «Non si canta Guccini in macchina».
È stato tutto veloce e si è svolto molto pacificamente. Abbiamo
firmato ogni pagina del contratto con le madri testimoni, commosse,
che mi davano, ardite, pacche sulle spalle.
Cosí dopo appena cinque giorni hai riavuto le tue cose, perché
non sono un padre padrone, ma una madre madrona.
Sono stati giorni bellissimi

Sono stati giorni in cui camminavo a testa alta e salutavo tutti e


tutti mi salutavano.
Mi vestivo coi tacchi, mi mettevo la gonna, mi mettevo il rossetto e
me ne andavo in giro, a comprare il giornale, a fare la spesa,
sorridevo, chiedevo alle commesse Ma lei nella pasta alla Norma la
melanzana la taglia a dadini o a fettine? E loro mi rispondevano
come se fosse una cosa normale. Era tutto bello, era tutto semplice,
perché avevo la chiave. La chiave bastava infilarla nella toppa,
girare, e la porta si apriva.
Pensavo cosí, in quei giorni in cui credevo che se fossi entrata in
un cerchio e avessi alzato un poco le braccia Vitruvio e Leonardo
avrebbero detto «Ferma, cosí, perfetta».
Gina

– Tua figlia? – ha detto la Gina dato che c’eravamo solo io e una


con la carta stagnola sulle ciocche che leggeva un MarieClaire sotto
il casco.
– Figlio.
– Sí già, infatti mi ricordavo non so perché che avevi una figlia.
– Figlio figlio.
– Che fa tuo figlio allora, che scema che sono sarà il caldo che in
questo periodo tra il phon l’aria condizionata e la calura non c’ho la
testa veramente.
– Beh, con tutte le clienti che hai è normale perdere il filo.
– Facciamo lo shampoo quello per i capelli opachi al tè verde ti
va? Dicevi di tuo figlio.
– Sí. Parte per l’Inghilterra, viaggio studio.
– Che bello, che interessante, e come va con lui che mi ricordo
che l’altra volta non avevi qualche problema? Mi pare che eri
stravolta per qualcosa.
– Sí, dev’essere stato il giorno del colloquio con quella d’italiano,
ma adesso guarda, piú nessun problema, quasi, veramente.
– Bella dimmi solo se ti va bene la temperatura dell’acqua se non
è troppo calda o troppo fredda, Inghilterra. Infatti quello me lo
ricordavo che avevi dei problemi che mi avevi detto l’altra volta.
– Sí infatti, ti ricordi bene perché in effetti qualche tempo fa ero
arrivata proprio a un punto di rottura, un punto di quelli che se vai
avanti cosí esplodi.
– Ti metto quella crema per riparare le squame che ti avevo
messo anche l’altra volta? È che li vedo sul serio un po’ opachetti.
– Metti metti, no, ti dicevo che comunque ero arrivata a un punto,
sai quando ne hai fin qua che dici non ce la faccio piú.
– Stiamo un attimo ferme cosí che vado a dare un’occhiata al
casco della signora.

– E dicevi che non ce la facevi piú, sono molto strinati in fondo, ci


mettiamo un quarto d’ora mezz’oretta sotto il casco anche noi? Con
un bell’impacchino all’aloe, dicevi di tua figlia?
– Figlio.
– No ma oggi sono completamente idiota. Scusami. Dicevi
comunque che le cose vanno meglio, infatti mi ricordavo che l’ultima
volta che eri venuta, quand’era già? che abbiamo fatto il riflessante
alle erbe. Era piú di tre mesi fa no? Infatti, che avevamo fatto il
riflessante che quando vuoi in qualsiasi momento lo possiamo rifare
preciso non ci vuol niente perché ho tenuto il codice per non doverlo
cercare. Quindi va molto meglio, il ragazzo, mi dicevi.
– Va meglio sí, molto.
– L’hanno promosso allora.
– No beh, promosso no. Ma va meglio lo stesso, perché
comunque si è molto impegnato, diciamo che a un certo punto ha
deciso d’impegnarsi e poi soprattutto come ti dicevo, ero arrivata a
un punto.
– Scusa bellissima ti spiace arrivo subito vado solo a dare
un’occhiata alle mèches un minutino.

– Dicevi che poi l’hanno promosso?


– No, promosso no, però rispetto alle aspettative come ti dicevo
prima è andata molto meglio, cioè, ci aspettavamo per come si
erano messe le cose a un certo punto, in quel periodo che ero
venuta a fare il riflessante, non so se ti ricordi che ti dicevo che
secondo noi era praticamente spacciato, invece poi ce l’ha fatta. Non
ce l’ha proprio fatta ma in un certo senso è stato comunque un
grosso salto.
– Non l’hanno promosso?
– Non proprio promosso, no. Però come ti dicevo prima non è
stato tanto questo, nel senso che anche secondo i professori, dicono
comunque che c’è stata una grossa maturazione.
– Ti metto qua, ecco, sotto il casco ci stai un quarto d’ora, tempo
che le squamette si succhiano il prodotto.
– Ti dicevo comunque che c’è stata una forte maturazione dovuta
anche probabilmente al fatto che come ti stavo dicendo a un certo
punto mi sono detta che era ora di cambiare atteggiamento.
– Dài! Cioè?
– Cioè, dato che non se ne poteva piú, che come ti dicevo era
assolutamente ingestibile ingovernabile, una bestia, non solo dal
punto di vista dello studio ma anche per quanto riguarda il
comportamento non so se mi spiego.
– Il comportamento bella mia è un incubo per tutti, perché
comunque adesso i ragazzi vengono su molto menefreghisti. Sai
quante volte me le dava mio padre, anche con la cinghia. Cioè mi
menava proprio. Però alla fine gli devo dire grazie, perché mi ha
insegnato il rispetto, i punti di riferimento, invece a questi gli
mancano completamente, non lo dico io eh, che mica sono un genio,
lo dicono gli specialisti anche alla televisione, non mi invento niente.
– Infatti. Appunto per questa ragione io a un certo punto non
sapendo piú cosa fare a forza di discorsi studia di qua studia di là o
anche solo di comportamento ti dico che ho speso tante di quelle
parole che a un certo punto mi sono detta sai cosa?
– No.
– Sai cosa ho fatto?
– Direi che può bastare adesso sciacquiamo e poi gli diamo
un’asciugata dritta.
– Ho pensato che a un certo punto era meglio dargli proprio una
bella punizione.
– E poi li stiriamo?
– Lasciamo stare, dammi solo un’asciugata. Le cose vanno molto
meglio.
– Quindi adesso sei contenta? Non hai piú i problemi dell’altra
volta.
– Ti dico che da quando gli ho dato la sua punizione le cose filano
in un altro modo.
– Ma sai che sono proprio contenta per te tesoro. Perché certe
volte i figli ti fanno proprio uscire di testa che ti mandano ai pazzi.
Invece si vede che adesso le cose ti vanno meglio, si vede proprio.
– Infatti vanno molto meglio. Ed è merito anche di questa nuova
strategia, chiamiamola strategia che ho adottato che anche mio
marito era da tanto che lo diceva di essere piú, come dire, non piú
dura ma un po’ anche sí.
– Noo. Cioè non dirmi che ti sei sposata? Ma tu sei pazza. E non
mi dici niente?
– Sí ma non abbiamo fatto proprio un matrimonio come ti puoi
immaginare tu, è stata una cosa piú per noi, era un po’ che ci
pensavamo.
– Ma dài, ma allora scusa potevi venire qui a farti i capelli prima
no, te li facevo benissimo scusa.
– No, ma non è stata una cerimonia del tipo da farsi i capelli,
perché siamo andati lí e abbiamo fatto una cosa molto piccola con
mia madre, sua madre, non c’erano neanche tutte le sue sorelle.
– Chissà com’era commosso tuo figlio al matrimonio. Ce le hai le
foto?
– Non ho molte foto perché come ti dico non abbiamo fatto
proprio una festa era solo una piccola cerimonia nella sinagoga
senza tante persone, senza il fotografo o quelle cose lí.
– Sí ma almeno tuo figlio con te e lo sposo scusa.
– Ma mio figlio non c’era. Non è voluto venire al matrimonio. Era
arrabbiato, diceva che non ci dovevamo sposare e che Gi, mio
marito, gli faceva schifo.
– Mio dio.
– Sí, ma questo è stato prima del periodo delle punizioni.
– Sí ma il matrimonio di sua madre, scusa, cioè io non so come
l’avrei presa, non so se l’avrei presa cosí tanto bene.
– Sí, infatti, se ci fossimo sposati dopo le punizioni sarebbe
venuto di certo. Avrei potuto requisirgli il cellulare e ci sarebbe
venuto. Avrei potuto staccargli la connessione wireless, cambiargli la
password vedi come sarebbe venuto, sarebbe venuto di corsa. Gli
avrei potuto dire Poiché mi sposo con Gi, poiché sono tua madre,
adesso sai cosa facciamo, ti fai una bella doccia e vieni al
matrimonio, oppure ti requisisco il Subwoofer, vedi come sarebbe
venuto. Non ci ho pensato perché in quel periodo ero ancora troppo
democratica, ero molle come ti dicevo.
– Però è un peccato scusa, neanche una foto con tuo figlio al tuo
matrimonio.
– È un peccato, però come ti dico noi foto non ne abbiamo fatte
tante.
– Un po’ di lacca?
– No lacca no.
– L’altra volta un po’ di lacca l’avevamo messa, ti tiene a posto i
capelli.
– Ma io non voglio i capelli a posto, li voglio normali.
– Allora abbiamo finito guarda ti faccio vedere il dietro, ti piace?
Secondo me è fantastico.
– Veramente Gina, fantastico.
– Allora sarebbero cinquanta con la crema cinquantasette ma se
non ti fa problema facciamo che qua segno la piega te la faccio da
quindici bella che tanto a te mica ti cambia niente.
– No.
– Allora auguri ancora e saluta il marito come si chiama?
– Gi.
– Che carino. È un artista anche lui?
– È un fumettista, anzi un inchiostratore, cioè lui non li disegna, i
fumetti, li inchiostra, ci mette le ombre, le luci capito, è un lavoro
molto di responsabilità.
– Ma dài. Ciao bellissima allora pensaci per il riflessante la
prossima volta magari che il codice te lo tengo sempre qua poi lo
facciamo eh.
Una formalità

Entrando Olga aveva posato sul tavolo un vassoio e tutto quello


che aveva nei sacchetti di plastica. C’erano cinque bottiglie di
spumante, acqua gasata, due succhi Ace, dei bicchieri di plastica a
calice e normali, dei tovagliolini.
Era l’ultimo incontro del nostro percorso, c’era da festeggiare e
fare un esamino finale, una formalità, aveva detto Olga. Per
l’occasione si era messa una palandrana di lino bianco che la faceva
sembrare una statua greca bassa coi tacchi.
Ci ha ridetto di stare sereni, che l’esame non era un vero esame,
dovevamo solo dirci quello che sentivamo, senza timori e senza
giudicarci tra noi, che l’importante era far emergere quello che ci
sembrava cambiato nel rapporto tra noi e i nostri figli, dall’inizio alla
fine del percorso.
– È importante rilevare se vi sentite cresciuti in qualche modo, se
alcune cose non vi paiono risolte, se avete ancora qualche dubbio.
Avevo l’impressione che, mentre diceva queste parole, Olga si
ricordasse di averle già dette altre volte, in passato, in altri percorsi.
E poi ha detto, come tornando in sé: – Dopo poi ci stappiamo lo
spumante e brindiamo.
– Cominciate voi? – ha chiesto con solennità ai perfettini. Ma i
perfettini si sono schermiti dietro un No modesto, a testa bassa,
come se non se la sentissero di attaccare per primi.
Chissà, ho pensato, ’sti stronzi, che effetti speciali.
Maria invece con una certa baldanza ha detto Io. Comincio io.
Era molto contenta, Maria, perché non vedeva l’ora di ricevere
l’attestato di frequenza, di portarlo ai servizi sociali per farla finita,
appunto, coi servizi sociali.
Si è alzata in piedi e ha detto: – Prima di tutto voglio ringraziarvi e
dirvi che mio figlio è uscito dal tunnel della street art.
Tutti abbiamo applaudito.
– Ha trovato una casa, una stanza con un bagno enorme. Ha
insistito che andassi a vederla, è un cesso, però a loro va bene.
Tutti abbiamo applaudito.
– Agata, la sua ragazza, di lavoro fa i tarocchi in un call center, fa
le carte a quelli che chiamano per sapere dell’amore dei soldi e della
salute, soprattutto dell’amore, dice, le piace. Anche se lei di
formazione è una ballerina, in teoria, una ballerina di danza
contemporanea.
Tutti abbiamo applaudito a lungo e sembrava che Luigia fosse
quasi lí lí per commuoversi.
– E il caso ha voluto, – ha detto ancora Maria, – che anch’io, in
questo stesso periodo, mi sia (pausa di attesa) innamorata.
Tutti ci siamo alzati in piedi e abbiamo grandemente applaudito.
– Abbiamo fatto una cena tutti assieme, con mio figlio, Agata e il
mio nuovo compagno, Ignazio.
Quando ha detto Ignazio davanti a tutti, io mi sentivo dentro una
specie d’orgoglio, ché solo io sapevo che dita lunghe aveva.
– Ignazio, – ha detto Maria, – ha proposto a mio figlio di lavorare
con lui nella sua sartoria e mio figlio ha accettato, anche per pagarsi
l’affitto, ma anche perché gli è sembrato un lavoro abbastanza bello.
Applauso corale con standing ovation e botto del tappo dello
spumante di Olga.
Lo spumante, ha spiegato Olga, non era pagato dal percorso,
l’aveva portato lei perché lo Specialista prevedeva solo bibite
analcoliche, ma per brindare, secondo lei, ci voleva lo spumante.
Perciò Maria ha avuto il suo lieto fine a cui abbiamo brindato.
I perfettini erano ancora rigidi, tenevano il bicchiere in mano e non
bevevano. Luigia si era solo avvicinata il calice di plastica alla bocca,
una cosa finta, per non sembrare scortese con Maria.
Olga allora ha detto Procediamo? rivolta a me.
Ma io non volevo parlare a braccio, non mi veniva.
– Avrei voglia di leggere delle cose che ho scritto, degli appunti,
magari per ultima, – ho detto.
E Olga allora si è rivolta ai perfettini col calice in mano, come se
brindasse soprattutto a loro.
– Diteci qualcosa voi.
La perfettina ha guardato il perfettino e lui ha guardato lei. – Vuoi
dire tu, Luigia? – ha detto.
Lei ha guardato da un’altra parte, sembrava stesse per piangere.
L’atmosfera si era molto raffreddata.
Io ho chiesto a Olga senza parlare, facendo un cenno col capo,
un rabbocchino di spumante.
Il perfettino si è alzato, si è schiarito la voce. Applauso
d’incoraggiamento.
– Io e Luigia volevamo dire – il perfettino ha guardato la
perfettina, la perfettina ha fatto un cenno come a dire Non avere
pietà – che siamo molto delusi dal Metodo dello Specialista Tedesco.
Il silenzio è calato come una mannaia. Chi aveva ancora il
bicchiere di plastica con lo spumantino in mano l’ha posato con
discrezione a terra.
La perfettina si rigirava l’anello al dito nervosamente. Il perfettino
era in piedi ma guardava in basso, sembrava che si guardasse le
scarpe. Aveva delle scarpe molto belle, scarpe artigianali, di cuoio,
scarpe che senza volerlo avevo pensato Costeranno minimo
duecento euro.
– Che belle scarpe, – ho detto.
Olga mi ha guardata male.
La perfettina di colpo è scoppiata a piangere, un pianto
irrefrenabile e scomposto.
Ho avuto paura che fosse a causa del mio commento sulle
scarpe, di essere stata inopportuna.
– Mi dispiace, non volevo, non pensavo, – ho detto, – non l’avrei
mai detto se avessi saputo.
– Cosa? – ha detto il perfettino.
– Non so.
L’atmosfera era da film Dogma.
La perfettina adesso piangeva giú dritta.
Il perfettino non si scomponeva, non la toccava, non cercava di
comunicare con lei. La lasciava fare come se aspettasse il flusso, lo
scarico, il prosciugamento delle scorte lacrimali, per poter continuare
a parlare. Si capiva che si stava trattenendo ma che sarebbe
riuscito, pur se a fatica, a mantenere il contegno (anche aiutato dalla
signorilità delle scarpe).
Allora Olga ha detto Che succede qua?
I due si sono guardati, lui ha offerto a lei il fazzoletto di stoffa
pulito e piegato per bene, che serbava in tasca.
Beata lei, che Gi, la sua massima cura, quando piango, è andare
a prendermi il rotolo della carta igienica.
La perfettina, soffiandosi il naso con le mani tremanti, dava sulle
prime l’idea di essersi ripresa, invece poi, rotta l’apnea, scoppiava in
un singhiozzo soffocato e tra la stoffa diceva Noooo tra bis ka.
– Eh? – diceva Olga, – non ho mica capito.
– Les-bi-ca, – ha aggiunto il perfettino puntuale in soccorso della
moglie, – l’abbiamo scoperto due settimane fa, ma non sapevamo
come dirlo. Ci vergognavamo.
Intanto il naso della perfettina era diventato un pomodoro oblungo
perino.
Olga si è tirata su le maniche, sembrava un’ostetrica che dovesse
far nascere un bambino in un posto di fortuna e con grande urgenza.
– Perché piangi Luigia? – ha chiesto.
– Perché mia figlia non aveva mai dato problemi, – ha detto lei,
dopo essersi strizzata definitivamente il naso a sangue. – È sempre
stata una ragazza che non dava problemi. Abbiamo letto il Manuale,
abbiamo seguito il Percorso Base la prima volta e poi, come se non
bastasse, ripassato e seguito l’approfondimento, sappiamo tutto a
memoria, l’abbiamo messo in pratica parola per parola. E adesso,
per premio, ci ritroviamo con una lesbica.
Olga ha versato dell’acqua in un bicchiere di plastica, l’ha offerto
alla perfettina.
Poi li ha guardati entrambi, senza dire niente. Io e Maria stavamo
in piedi.
– Lesbica, lesbica, – ha ripetuto il perfettino nervosamente. –
Lesbica.
Si guardava ancora i piedi.
– Riassumendo, – ha detto Olga professionale, – vostra figlia vi
ha detto di essere lesbica?
– Sí, – ha detto il perfettino, sempre sulle scarpe.
– Come ve l’ha detto? – ha ancora chiesto Olga, con pazienza.
– Non ce l’ha detto, – ha detto il perfettino. – L’abbiamo scoperto
da soli. L’ha scoperto Luigia.
– Come l’ha scoperto? – ha chiesto ancora Olga, mentre io
stappavo un’altra bottiglia di spumante attutendo lo scoppio, facendo
cenno a Maria, se ne voleva ancora un po’.
– Perché aveva la pagina di facebook aperta, – ha detto la
perfettina, a naso stappato e recuperando rispettabilità. – L’occhio mi
era caduto su una conversazione privata, per caso, senza volerlo, e
nella conversazione su cui involontariamente mi era caduto l’occhio
avevo letto Mi piace leccartela. E il messaggio era di una certa
Lorna, – ha detto, appoggiando l’imbarazzo sullo sguardo del marito.
– Un nome da femmina, – ha aggiunto il perfettino costernato.
– Quindi lei non ve ne aveva parlato? – ha chiesto Olga.
– No, – ha detto il perfettino.
– Noi con lei non ci parliamo, – ha detto Luigia.
– Non le parlate piú?
– No, – ha detto il perfettino, alzando finalmente lo sguardo, – ed
è colpa vostra.
La perfettina si era ripresa, ha detto Dille della denuncia.
– Abbiamo sporto denuncia, – ha detto il perfettino.
– Denuncia? – ha detto Olga.
– È colpa vostra. Abbiamo fatto tutto, seguito tutto per filo e per
segno. E adesso cosa ci rimane, Luigia? Diglielo tu cosa ci rimane.
– Una lesbica, – ha detto la perfettina, riprendendo a
singhiozzare, – una lesbica per figlia.
– Lo diremo a tutti, lo scriveremo ai giornali, vi distruggeremo,
siete finiti, – ha detto il perfettino. Sembrava serissimo.
– Ma di cosa state parlando? – ha detto Olga, versandosi a
questo punto un po’ dello spumante che avevo stappato in sordina.
– Parliamo della farsa, dell’inganno, del ladrocinio che si è
compiuto ai nostri danni. Voi, il vostro Metodo, produce mostri,
produce figli degeneri, degenerati. Produce figli gay.
Non so cosa mi è preso in quel momento. Non me ne fregava
molto dei perfettini, ma neanche mi sentivo una paladina dello
Specialista Tedesco. Non so di cosa me ne fregasse davvero in quel
momento. Forse solo di Ignazio.
Comunque mi sono alzata col bicchiere in mano e ho detto:
«Io vorrei brindare a voi.
Avrei tanto voluto un figlio gay e non l’ho avuto. Avrei tanto voluto
poter dire a Gina, la mia parrucchiera, ho un figlio gay.
Sapete cosa vuol dire avere un figlio omofobo? – ho urlato con
violenza tragica in direzione dei perfettini –. Cosa dico alla Gina, Mio
figlio è omofobo?
Cosa mi potrebbe rispondere? Felicitazioni?»
– Ma questa è fuori, – ha detto il perfettino. Hanno preso le loro
cose e se ne sono andati sbattendo la porta.
Eravamo rimaste solo io e Maria, oltre alla Olga. Dopo un
momento d’imbarazzo Olga ha rotto il silenzio e mi ha chiesto E tu?
Sei contenta del percorso? Ho detto Sí. Ha chiesto se le cose tra me
e te fossero migliorate, ho risposto Sí. Ho taciuto del contratto,
avevo paura che fosse una soluzione fuori ordinanza, una
scorciatoia.
Ha chiesto se avessi qualcosa d’importante, di rilevante, da dire
per chiudere la sessione. Ho tirato fuori un foglietto tutto stropicciato
dalla tasca dei pantaloni.
– Questo l’ho scritto oggi, prima di venire qua, mentre ero sotto il
casco dalla parrucchiera.
– Bene, – ha detto Olga, – leggicelo, sarà l’ultima cosa prima dei
saluti.
E io mi sono alzata e poi ho letto:

Che bello quando per un po’ tutto fila liscio


e sembra che i pezzi si ricompongano da soli
a formare un disegno sensato.
Dentro e fuori.

– Con questo abbiamo finito, – ha detto Olga. – I certificati di


frequenza vi verranno spediti a casa, firmati dallo Specialista
Tedesco, potrete richiedere la cornice originale in legno di faggio
della Foresta Nera intarsiato in ebano, facendo un versamento
aggiuntivo di sei euro alla casella postale del Percorso, – ha
concluso.
– E adesso, – ha detto poi, – si beve e basta.
E io, Maria e Olga ci siamo ubriacate.
Formiche

Cosí avevo capito come si faceva. Me ne andavo in giro, badavo


alle lose di gneiss del marciapiede e a ogni passaggio da una losa
all’altra stavo ben attenta a dire Questa riga non calpestarla, porta
male. Che bella vita liscia, pensavo, mentre scavalcavo le righe del
marciapiede.
Ero cosí stupita di non essermi accorta prima dell’implacabile
efficienza del comportamentismo.
Io saltavo le righe del marciapiede, non volendo certo imbattermi
in qualche malasorte, adesso che ero cosí fortunata.
E cosí, saltellando, me ne torno a casa, pensando Dovrei
scriverlo anch’io un bel manuale: Il Manuale del Contratto.
La casa è pulita. Addirittura piú pulita di come l’avevo lasciata. Ma
non mi stupisce che tu abbia deciso di pulirla di piú, di farla
risplendere ancora di piú.
Mi si stringe il cuore a saperti cosí ligio e rispettoso del contratto.
Poso il sacchetto della spesa. Dico Ho comprato la pasta fresca
per farla cacio e pepe.
Non ricevo alcuna risposta, ma la cosa non mi preoccupa né mi
impensierisce in alcun modo. Perché dovrebbe, sei in camera tua,
non avrai sentito.
Tu sei in camera tua che stai studiando.
Studi matematica, studi latino, studi italiano, tutto da solo, per tua
soddisfazione.
Mi sfrego le mani. Ci sono anche le mamme. Sono venute a farci
visita e anche loro si sfregano le mani con me.
Le mamme sono cosí di casa, stanno sulle mensole della cucina,
dicono Che si fa stasera?
Dico Cacio e pepe, e loro tutte in coro: Tonnarelli cacio e pepe /
tonnarelli cacio e pepe / cacio pepe e tonnarelliii.
Dalla cucina la voce mia dolce mammesca ti avvisa: – Meno di tre
minuti siamo a tavola.
Tu non rispondi.
Sarà molto concentrato sulle sue equazioni, dico alle madri, i figli
quando studiano sono cosí, a volte non rispondono, perché sono
cosí assorti, la concentrazione li risucchia, i numeri, le incognite,
sono cosí pervasi dalle incognite anche nelle orecchie.
Eh eh, fanno le mamme, comprensive e complici, sulle mensole,
aggiustandosi i fazzolettini e il fondo delle belle gonne di raso,
perché non si stropiccino.
Bene.
– La pasta è pronta, – ti dico.
Tu arrivi, ma invece di sederti scruti, guardingo, il pavimento.
– Che c’è?
– Formiche. Ancora.
– Sí, ma abbiamo già parlato di questo. Siediti e mangia. Il pepe è
qua, lo devi macinare da te dritto nel piatto, perché l’aroma non si
disperda.
– Me ne fotto dell’aroma, – dici. – Ci sono di nuovo le formiche.
Apri lo sportello sotto il lavandino, cominci a spruzzare una cosa
lungo il pavimento.
– Sei scemo? – cerco di proteggere con le mani i tonnarelli da
quella nube tossica. – Chi te l’ha dato?
– La nonna, – dici. – Diclorodifeniltricloroetano, lo usa anche lei.
– Non spruz-zarlo-piú, – urlo, – è velenoso.
Per terra si era formata una schiuma, e dentro la schiuma c’era
un pasticcio di formiche agonizzanti. Ti odiavo. Ti sei fermato.
– Mi mordono, – hai detto con rabbia, – non mi lasciano studiare.
– Come fanno a morderti? – urlo ancora. – Loro sono in cucina, tu
sei in camera tua.
– Vengono di là, fanno la fila. Mi entrano da questa cazzo di
nicchia e non mi lasciano studiare.
Tra la nicchia della cucina e la tua stanza in effetti non c’è un
muro, c’è solo il fondo in compensato del tuo armadio.
– Io non posso credere che le formiche partano dalla cucina per
venire fin nella tua stanza, – ho detto cercando di mantenermi
calma.
A volte lo fanno, ha detto una vocina sottile proveniente da non si
capiva dove.
Ho sollevato lo sguardo e l’ho vista: era seduta sul frigorifero, una
mamma piccolissima, forse la sola con gli occhiali, parlava con
un’altra, ignorandomi del tutto.
– Perché dovrebbero venire di là, – ti ho detto, – quando la cucina
è piena di briciole di pane, di granellini di zucchero?
– Non me ne frega del perché lo fanno, – hai gridato, – lo fanno e
basta.
E hai ripreso a spruzzare come se avessi tra le mani un
deodorante per ambienti.

Ero sola e non avevo piú parole.

Ha cominciato a salirmi dentro come un’alta marea di rabbia


scura e d’impotenza, stavi facendo una cosa che non volevo, e la
facevi apposta, contro la mia volontà, era una specie di sfida la tua,
nella quale le formiche non erano il problema. Le formiche non erano
che il mezzo per conseguire un fine. E il fine era: dimostrarmi che tu
potevi ferirmi, farmi male, farmi incazzare.
Con la sola forza di un tuo dito.
Ho stretto le labbra. Ti ho strappato di mano lo spray, che mi è
caduto a terra ed è rotolato via.
Ti ho preso per le spalle e sollevandomi un poco sulla punta dei
piedi ti ho tirato un grande ceffone, sonoro, ma non possente come
speravo.
Tu sei rimasto in piedi, fermo, mezzo sorridente.
Pensavo dentro di me Perché non sono un uomo, perché non ho
le mani grandi come un uomo, perché non sono un padre?
E poi tu mi hai abbracciata. Non per abbracciarmi. Per fermarmi.
Per farmi smettere di agitarmi. Un abbraccio e una camicia di forza,
per tua madre.
Una fine patetica.
Una rovinosa, devastante fine.
Ho azzardato ancora un Questa è casa mia, se vuoi ammazzare
fallo fuori di qua.
Tu hai scosso la testa come a dire Ma questa è fuori.
E questa, questa fuori, ero io.
Non sapevo piú niente.
C’era una luce deprimente, piatta, una luce da cucina. Un odore
di cose stanche, stantie. Tutto puzzava di vecchio. Di formiche
vecchie.
Le madri si erano volatizzate.
Che serata di merda, ho pensato. E anche tu, mi sa che devi aver
pensato qualcosa del genere.
Il muro

Alle nove il giorno dopo ho aperto gli occhi e mi sembrava di aver


sognato tutto, che la sera prima fosse una cosa tratteggiata nella
memoria come quelle bambole di cartoncino che si possono
ritagliare con le forbici. Avevo dimenticato di stendere, la roba si era
asciugata da sola, tutta sgualcita, abbandonata nel cestello formava
una palla buia. Tu dormivi, a spregio del contratto avevi deciso di
protrarre il sonno a piacimento.
Estratte le cose umide dalla lavatrice le ho ficcate nella bacinella
azzurra e sono uscita a stendere. Fuori c’era silenzio, il padrone di
casa non era ancora in cortile a bagnare le sue piante, o forse
l’aveva già fatto e se n’era tornato in casa. Si sentivano solo gli
uccelli che facevano una cosa strana. Prima uno solo partiva con un
suono ritmato, una specie di canto, e poco dopo altri gli
rispondevano in coro qualche tono sopra. Cosa si vorranno dire, ho
pensato. Sono rimasta lí vicino allo stendino senza muovermi, senza
stendere, per non distrarli. Mi sembrava che dopo il primo assolo ci
fosse una pausa, poi l’uccello solista ripeteva la sua cosa e poi
faceva un’altra pausa. Poi arrivava un coretto all’unisono di due o tre
o anche piú uccelli. Mi sembrava che quello solo cantasse ca-ca-
huè-te e che gli altri rispondessero Can-ti-na, can-ti-na. Ma a forza di
ascoltarli sono arrivata alla conclusione che dicessero invece tutti
quanti la stessa cosa, Cacahuète, con le stesse sillabe e lo stesso
ritmo, escluse pochissime eccezioni in cui il coro abbreviava un po’.
Per la maggior parte delle volte però la parola era
inequivocabilmente Ca-ca-huè-te. Reclameranno le loro arachidi del
mattino, ho pensato mentre appendevo un calzino per il momento
spaiato, faranno una loro protesta per rivendicare piú arachidi.
Non ho niente per voi, mi dicevo, mentre scuotevo con vigore una
tua maglietta e la stendevo di piatto sullo stendino, niente arachidi
per nessuno stamattina. Mentre parlavo mentalmente con gli uccelli
è suonato il mio cellulare in casa. Sono rientrata. Era Gi, chiamava
da Bologna per darmi il buongiorno ed era, al contrario di me, di
ottimo umore.
– Ho visto una cosa all’iper che quasi quasi sai, stavo per
comprarla.
– Ma dài, – dico di malavoglia, – e cosa?
– Un elicotterino che c’ha pure il telecomando e si guida con
l’iPhone, non come quello che avevi comprato tu all’autogrill la
scorsa estate per i bambini, che era una fregatura e non si riusciva a
guidare, questo è pazzesco, è veramente pazzesco.
Ha detto proprio Pazzesco perché Gi quando parla di giochini o
giocattoli o app del cellulare parla come uno di dieci anni, ha
veramente dieci anni. Allora io ho detto di nuovo Ma dài.
Avevo esaurito la capacità di sorprendermi. Avevo da finire di
stendere, volevo chiudere la telefonata al piú presto per tornare fuori
dai miei uccelli cacahuète.
– Beh? – dice Gi.
– Cosa?
– Tutto bene?
– Sí, – gli dico. – Se dici che è cosí bello, prendilo l’elicotterino.
– In realtà, – dice, – pensavo che sarebbe una sorpresa anche
per Mino, per le pause di studio, secondo me è una cosa divertente,
cosí quando fa le pause ci può giocare.
– Che pause, – ho detto.
– Dallo studio.
– Mi prendi per il culo? – Non so perché l’ho detto in quel modo
cosí sgraziato. E ho anche aggiunto: – Non dire che lo prendi per
Mino se lo prendi per te.
– C’è qualcosa che non va? Sei di cattivo umore?
Di colpo aveva trentasei anni in piú.
Dall’altra parte del telefono sentivo le voci dei suoi figli appena
svegli che lo chiamavano e lo salutavano, come gattini. Buongiorno
papà, buongiorno, ciao papà. Papàààà.
– Niente.
– Niente non è possibile.
Allora gli dico delle formiche, del veleno di Macchianera per
formiche, della fila delle formiche, del fondo dell’armadio e del tuo
spray. Dico che tu volevi uccidere le formiche e io ho provato a
impedirtelo, che nessuno mi ascolta, tutti se ne sbattono di quello
che penso. Gli dico anche della sberla.
Gi è stato un po’ zitto. Sentivo ancora i suoi figli in sottofondo che
facevano colazione, sentivo il rumore delle stoviglie mescolate alle
parole che si scambiavano tra loro.
– Avete litigato a causa delle formiche?
– Sí, – gli dico, – proprio, formiche.
– Dovresti stare attenta a questa faccenda delle formiche, a non
prenderla troppo sotto gamba, come un suo capriccio e niente piú. A
lui le formiche danno molto fastidio, l’ha detto tante volte, – mi dice
Gi.
– Sí, – dico. – Quindi per te è giusto che le faccia fuori col veleno
spray?
– Non è che sia giusto, – dice Gi. – Però potresti cercare di
capirlo, metterti un po’ dal suo punto di vista.
– Gli ho dato una sberla, – dico con rimorso, – e ho sbagliato
tutto. Sembrava che andasse tutto bene dopo il contratto invece
ecco qua, siamo tornati indietro come nel gioco dell’oca.
– Non è cosí grave, – dice Gi. – Quando sono venuto a vivere con
voi c’era sempre silenzio. Tu gli preparavi da mangiare, vi
preoccupavate solo di quello.
– Ci preoccupiamo ancora.
– Sí, – dice Gi, – ma adesso tra voi ci sono piú parole. L’altro
giorno, ero a letto, litigavate per la crema solare, vi ho sentiti, tu gli
dicevi di mettersi la crema solare e lui diceva che la protezione
cinquanta non lo fa abbronzare. Era buffo. Era bello.
– Scemate, – gli dico, – discutiamo sempre di cose idiote.
– È normale, – dice Gi, – anche le mie tre sorelle discutevano di
scemate, anche mia madre con le mie tre sorelle discuteva
esclusivamente di scemate. E anche io e mio padre, le poche volte
che ci parlavamo, credi che facessimo discorsi intimi o profondi? I
discorsi intimi e profondi uno se li fa nella testa ma poi quello che
esce quando si vive insieme nella stessa casa, nella stessa famiglia,
sono sempre cose cosí, cose piccole, in proporzione al pensiero.
Passano di lí, le cose, ma va bene, l’importante è che qualcosa
passi.
– Tu dici? – gli chiedo.
– È normale, non devi pensare sempre al peggio, non è che
perché avete uno scontro allora hai perso tutto quello che avevi
guadagnato. Quello resta. Vi parlate, vi mandate a cagare molto piú
spesso, va bene cosí, secondo me.
– Anche nelle famiglie intere ci si manda a cagare? – ho chiesto.
– Certo, – ha detto Gi.
– L’elicotterino, – ho detto, – quanto costava?
– Lo dici per cambiare discorso?
– No.
– Trentacinque euro. Neanche poi tanto se ci pensi, perché è
sofisticato, non è come l’altro, è un semiprofessionale, tendente al
professionale.
Era ormai chiaro che Gi da grande, di professione, voleva fare
l’elicotterista di elicotterini.
– Prendilo, – gli ho detto, – se non piace a Mino, al limite lo
useremo noi.
– Bene, – ha detto Gi, – devo andare, mi chiamano, il latte è
uscito sui fornelli e c’è puzza di affumicato.
Ci siamo salutati, lui è tornato a fare il papà e io sono rimasta in
piedi a pensarmi dentro quello che mi aveva detto, di non
spaventarmi delle liti, di mettermi di piú dal tuo punto di vista, di
cercare delle soluzioni alternative.
Un po’ di ragione ce la deve avere per forza, pensavo.
Sono tornata fuori e ho finito di stendere le ultime cose. I
cacahuète stavano zitti.
Sono rientrata in casa con la bacinella e sono andata a guardare
la nicchia della cucina, quella che dà sul fondo del tuo armadio. L’ho
studiata.
Ti sei svegliato e sei venuto in cucina. Abbiamo fatto finta di
niente, che quello che era successo la sera prima non fosse
successo. Nessuno dei due aveva voglia di andare avanti con la
guerra.
– Ho pensato a un muro, – ho detto, mentre risucchiavi il
caffelatte.
– Un muro?
– Sí, pensavo, se facessimo un bel muro da questa parte, un
muro in cartongesso che separi la cucina dalla tua stanza, le
formiche di là da te non ci passerebbero piú.
– Un muro.
– Le formiche non passano attraverso i muri, – ho detto. – Cosí
tanto per cominciare se ne restano in cucina. Se non hanno fessure
non possono piú venire a disturbarti mentre studi.
– Allora chiama Gus, – hai detto.
Non eri entusiasta ma eri d’accordo. Avevamo trovato un accordo
usando delle parole.
Chiamo Gus, gli chiedo se ha voglia di venire a dare un’occhiata
alla nicchia, se si può fare un muro in cartongesso. Gus dice che sí,
che verrebbe sabato sul presto. Che con cinquanta euro si fa anche
l’insonorizzazione con la lana di vetro.

Quando poi è tornato a casa, Gi, l’elicotterino non l’aveva


comprato. Gli ho chiesto perché, ha detto che dopo la telefonata era
convinto di tornare all’iper a prenderlo, ma poi ha fatto altre cose, era
coi bambini, l’elicotterino gli era uscito di mente.
Formica

– Non c’è un lieto fine nel rapporto fra una madre e un figlio
adolescente, – ha detto Gi mentre girava lo zucchero nella tazzina,
nel dehors del bar dove eravamo seduti. – Il lieto fine è la fine
dell’adolescenza.
Mi ha messo una mano sulla mano e ha sorriso.
Io guardavo una formica sul tavolino vicino alla mia brioche.
Trascinava una briciola gigante, grande due volte il suo corpo.
– Sai che le formiche hanno una forza pazzesca, – ha detto Gi, –
possono reggere trenta volte il proprio peso.
Ho sorriso anch’io.
– Dove la porta? – ho detto.
Abbiamo guardato la formica. A un certo punto ha lasciato quella
briciola enorme e ne ha preferita un’altra, piú piccola. Se l’è portata
giú fin dentro una crepa del tavolino del bar.
Dov’è la crepa del tavolino del bar? ho pensato. Da nessuna
parte, ho pensato.
Guardare una formica è come guardare le stelle, impone una
presa di coscienza, una sottomissione. Nell’istante in cui una formica
smette di essere solo una cosa minuscola diventa parte integrante
dell’esistente, nell’istante in cui smette di essere un puntino
calpestabile, soffiabile, schiacciabile con un dito, e diventa lei, un
mondo a sé, e per qualche ragione addirittura diventa lei il mondo,
ecco che tutti i parametri, le convenzioni, le certezze saltano via,
deflagrano nel trauma di quello scarto del pensiero. Guardare una
formica, pensavo, guardarla veramente, è una scuola di umiltà, ti
costringe a prendere atto del fatto che tutte le scelte di tutti, i
desideri, le necessità, insistono nello stesso luogo simultaneamente,
in modi differenti, in mondi differenti. Coesistono, si sfiorano, a volte
si toccano, ma non si vedono, non si capiscono. E dal momento in
cui succede, che tu l’hai guardata, l’hai vista, hai preso atto del fatto
che esiste davvero, che la formica ce l’hai sotto gli occhi, con la sua
briciola tra le zampe anteriori, e che fa la sua personale fatica, quella
sua fatica titanica per una sua ragione che a te sfugge, che ti
sfuggirà sempre, intuisci che la formica non è venuta al mondo per
esercitare un fastidio casalingo, ma per fare le sue cose come te,
trasportare la sua briciola da un punto all’altro, cambiare idea,
cambiare briciola, sbagliare strada, allora ti diventa cosí vicina,
all’improvviso, cosí vicina, che non puoi piú fare finta di niente. Non
puoi piú credere che la tua realtà, solo perché piú grande, sia
intrinsecamente piú vera della sua. La formica ti scombina i piani, te
li sovverte. La rivoluzione copernicana sta nel fatto che tu per lei, dal
suo punto di vista, non hai un cuore, non hai una brioche in mano,
non hai un marito di fianco che ti sorride e che ti ama con gli occhi,
non hai dei pensieri, dei ricordi, delle preoccupazioni, una casa, degli
amici, un figlio; tu, esattamente come lei per te, non esisti quasi, sei
al limite dell’esistente, ai margini dell’inorganico. Sei una montagna
enorme da scalare.
– Vuoi un altro caffè? – ha detto Gi.
– No, basta cosí.
– Andiamo, – ha detto Gi. – Andiamo a comprare un elicotterino?
Il lavoro di Gus

Sabato è venuto Gus, ha fatto il muro. Mentre faceva il muro ha


raccontato che gli si è fermata la macchina un’altra volta. Allora lui e
Lia hanno chiamato l’elettrauto, e l’elettrauto ha fatto quello che
avrebbe fatto al suo posto qualunque ladro, staccare i fili e fare
contatto. Però l’elettrauto, al contrario di qualunque ladro
minimamente normale, non sapeva bene come s’incrociavano dopo i
fili nel modo giusto. Cosí la macchina ha fatto cortocircuto e ha
preso fuoco.
Gus non è di quelli che se la prendono con un elettrauto. Per
questo poi lui e Lia hanno chiamato il carroattrezzi, piano piano di
nascosto, ha detto Gus, per non far arrabbiare l’elettrauto. Per non
fargli pensare che non era stato capace.

Abbiamo bevuto della cedrata giallissima. Non famosa. Era una


cedrata senza nome.
L’Inghilterra

C’erano dei fruttini in frigo, delle cose a metà tra uno yogurt e un
succo di frutta. E dei succhi di frutta veri e propri, di quelli monodose
in confezione da sei. Prima di andare a dormire volevo mettere tutto
in un sacchetto perché fosse pronto per la tua partenza, per non
dimenticare niente, ma alcune cose non si potevano lasciare tutta la
notte fuori dal frigo. Andavano messe nello zainetto all’ultimo
momento. Perciò quando è suonata la sveglia alle quattro meno
venti io avevo già gli occhi aperti da dieci minuti.
La Burda aveva detto di fornirvi cibo e bevande per il viaggio fino
all’aeroporto perché magari vi veniva fame, vi veniva sete, e quel
pasto non era contemplato nel pacchetto pasti. Se mi fossi
dimenticata saresti rimasto digiuno o disidratato fino in Inghilterra.
Ma per fortuna non mi ero dimenticata.
Alle tre e trentacinque valutavo anche l’idea delle uova che avevo
fatto sode, consideravo se non fosse piú opportuno eliminarle dal
menú per via di quell’odore che fanno a volte le uova sode
sgusciate. Cercavo mentalmente qualcosa di meno offensivo per
l’olfatto con cui sostituirle e di colpo mi è stato chiaro che i
formaggini sarebbero stati l’ideale. Sí, formaggini incartati,
termicamente stabili e ugualmente proteici.
Ma alle quattro meno venti era ormai troppo tardi per comprare
dei formaggini. Al primo trillo della sveglia sono saltata in piedi come
se mi fossi svegliata in quel momento, mi sono vestita in automatico,
sono scattata in cucina, ho messo su il caffè. Prima di venire a
svegliarti volevo sistemare la faccenda dei cibi da asporto. Ho aperto
il frigo, ho tirato fuori i succhi di frutta, i fruttini allo yogurt, due
bottigliette d’acqua e due pesche. Ho messo tutto in un sacchetto
che conteneva già biscotti, crackers al pomodoro e due pezzi di
focaccia, una bianca e una rossa, e dei tovagliolini di carta. Per un
viaggio di un’ora e trentasei minuti (avevo guardato su Google Maps
la durata del viaggio fino a Malpensa) c’era da mangiare a
sufficienza per tre o quattro persone. Il caffè era pronto, ho messo il
latte a scaldare nel bricchetto e sono venuta a svegliarti. Eri già
sveglio, trafficavi col trolley.
Ci muovevamo con urgenza, senza quasi parlare. Ti ho dato il
sacchetto che avevo chiuso, ho detto Questo ficcalo nello zainetto
del bagaglio a mano. Hai fatto quello che dicevo. Sembrava una
situazione di emergenza, anche se eravamo in enorme anticipo.
Parlavamo a bassa voce, non solo per non svegliare Gi, anche
per restare concentrati sui preparativi, per non dimenticare niente.
Ho spento il latte e l’ho versato nella tua tazza insieme al caffè. Sono
entrata in bagno, sulla lavatrice c’era la scatola di latta dei
medicinali, l’ho aperta, ho preso della tachipirina, delle pastiglie per il
mal di testa, qualche bustina di Fluimucil e dei flaconcini di fermenti
lattici. Pensavo alle malattie che potevano aggredirti. Non mi veniva
altro oltre alla febbre, alla tosse, al mal di gola e al cagotto. Non
abbiamo tante medicine. Ho messo quelle in una borsetta da
viaggio.
– Ficca questa nel trolley, – ho detto.
– Tachipirina? – hai detto a bassa voce, rapido, come un chirurgo
che chiede una pinza.
– Sí, – ho risposto.
Hai preso la borsina e l’hai portata via.
Filava tutto liscio fra noi. Credo fosse dovuto all’ora. La mattina
presto ha qualcosa di particolare. Il fatto che sia buio, non so. Il fatto
che dormano tutti. Eravamo degli esseri abusivi, anomali, quasi delle
ombre. Questo ci aiutava ad andare d’accordo, ad agire insieme in
rapidità ed efficienza.
– Non vuoi la colazione?
– No.
– Non vuoi il caffelatte? Sta sul tavolo.
– No.
Ho versato il caffelatte nel lavabo. Mi sono bevuta il mio caffè
mentre tu ti fonavi i capelli in bagno.
Quando sei uscito hai detto Andiamo? Erano le quattro e dieci.
L’appuntamento era per le quattro e quarantacinque in una piazza a
dieci minuti da casa nostra.
– Stai calmo, – ho detto.
– In che senso? – hai chiesto. Non lo sapevo.
– La carta d’identità ce l’hai? La tessera sanitaria ce l’hai? La
carta di credito ricaricabile ce l’hai? L’aggeggio per convertire le
prese elettriche? L’ombrello pieghevole? Il Parmigiano?
Il Parmigiano l’avevo dimenticato in frigo.
– Mi era uscito di mente, – ti ho detto.
– Non ho posto, – hai bofonchiato evasivo.
Ecco perché non avevi detto niente. Non lo volevi portare e
speravi che me lo dimenticassi.
– La Burda, – ti ho detto, – ha ripetuto due volte che la famiglia
ospitante vuole una sorpresa. Parmigiano, possibilmente Reggiano,
sottovuoto. Tutte le famiglie si aspettano un piccolo regalo, una
sorpresina, – ho detto, – e questa sorpresina è meglio che sia un
pezzo da circa due chili di Parmigiano Reggiano sotto vuoto. Devi
portarlo, non lo dico io, lo dice la Burda.
– Non ci sta nel trolley. Siamo al limite di peso.
– Togli qualcosa. Il Parmigiano è un chilo e tre.
Sei andato di là, hai trafficato col trolley, l’hai schiacciato, credo,
perché quando siamo usciti sembrava sul punto di esplodere.
Erano le quattro e venti. Tu hai voluto portare il trolley da solo e
anche lo zainetto. Io avevo la mia borsa e le chiavi della macchina in
mano. Quando abbiamo chiuso la porta c’era un enorme silenzio. Gi
dormiva, i vicini dormivano. Sembrava che stessimo scappando.
Tutto era buio e muto. Si sentivano solo i nostri passi e il rumore
delle rotelline del trolley sul marciapiedi.
Quando siamo arrivati all’auto di Gi, sedendoti nel sedile davanti
hai detto asciutto, a volume contenuto: – Questa macchina fa schifo,
è da pulire.
– Certamente, – ho detto. Non mi andava di litigare. Ho cercato la
sintonia dell’autoradio. Trasmettevano una cosa di lirica.
Ho fermato l’auto nella piazza grande dell’appuntamento, era
vuota, non c’era nessun pullman. È troppo presto, ho pensato. Poi
per un attimo un dubbio fulminante, una fitta al cervello.
Che l’appuntamento non fosse lí, in quella piazza, che l’orario di
partenza non fosse quello. Un fremito durato pochi secondi prima
che tu dicessi per la prima volta a voce piena: – Sono lí, vedo la prof.
C’era un gruppetto che era apparso cosí. La Burda ci salutava
con un cenno della mano, come dire Siamo qua.
Ho salutato anch’io, da dentro la macchina, sollevata.
Stavo per scendere, c’erano madri e ragazze e qualche ragazzo,
volevo condividere con loro qualcosa, anche se non sapevo ancora
cosa, ero invasa da un’ondata di socievolezza, volevo parlare un po’,
farmi lasciare numeri di cellulare per ogni evenienza (avvelenamenti,
arresti, restituzione salme), volevo sapere se qualcuna di quelle
madri avesse messo nella sportina della merenda delle uova sode,
volevo chiedere i nomi alle tue compagne di viaggio, mostrarmi
affabile, dire che tu avevi tanta focaccia, fin troppa, che se qualcuno
avesse avuto fame poteva chiedertela. Avevi una mamma aperta,
che parlava spregiudicatamente di uova sode e di focaccia. Ma tu,
appena ho mosso la mano sulla portiera per scendere, hai detto No.
Hai detto Preferirei andare da solo se non ti dispiace.
Ho richiuso la portiera. Mi sono messa a canticchiare dentro di me
Se non ti dispiace se non ti dispiace se non ti dispiace, seguendo
l’aria dell’opera lirica che usciva dall’autoradio. Sei sceso da solo, ti
ho aperto il cofano col pulsante, ti ho passato lo zainetto dal
finestrino, sempre canticchiando mentalmente Se non ti dispiace se
non ti dispiace. Ti allontanavi già rotolando il trolley sull’asfalto, eri
ancora a pochi metri ma era come se fossi già all’estero, una cosa
inarrivabile sulla quale non avevo piú nessun potere.
Quando ho messo in moto ti sei voltato nella mia direzione, hai
sorriso pochissimo, hai detto Allora ci vediamo.
A distanza di sicurezza, come si fa a sedici anni con una mamma
di quarantaquattro che ti accompagna al bus per l’Inghilterra alle
quattro e quaranta del mattino.
– Il basilico, non ti preoccupare, te lo innaffio io, – ho detto,
facendo retromarcia.
Quando avevi quasi già raggiunto il gruppo di tutta quella gente
che ancora non conoscevi, ti sei voltato di nuovo verso di me e mi
pareva dal labiale dicessi proprio Gra-zi-e.
Una differenza

In quel periodo che non c’eri e non c’erano neanche i figli di Gi, io
e Gi siamo andati un po’ in vacanza a Bologna, a casa della mamma
di Gi, che non c’era, era in vacanza in Grecia.
A casa della mamma di Gi la prima cosa che salta agli occhi sono
le fotografie di famiglia, tutte quelle foto di tempi diversi che se ne
stanno una accanto all’altra, sui ripiani, sui tavolini e sulle ante di tutti
i mobili in tutte le stanze. Le piú vecchie sono in bianco e nero.
C’è una foto della mamma di Gi giovanissima, coi capelli raccolti,
in piedi, con la sorella, anche lei giovanissima, e intorno foto di figli e
nipoti in scale di generazioni.
Foto di Gi e delle sue sorelle quando erano bambini, in un
giardino, con dietro un lago.
Foto dei figli delle sorelle di Gi al mare / in cortile / su un balcone
di città / su una spiaggia col gelato.
Foto del padre di Gi con un sorriso, con dietro un lago, e il sorriso
mi ricorda Gi.
Foto di Gi e sorella di Gi, in passeggino doppio, guardano
nell’obiettivo come in posa.
Foto della mamma e del papà di Gi, giovani, con altre due donne
giovani anche loro in inverno (Bologna?), la mamma di Gi ha una
gonna di lana.

Chiedo a Gi i nomi di tutti i figli e le figlie delle sue sorelle, lui me li


dice, io cerco di seguirne la crescita con gli occhi sulle foto: quanto
siano diventati alti, se i capelli si siano scuriti, se la faccia si sia
allungata.
Creo dei sottogruppi per naso, capelli ricci o lisci, linea della
bocca o sguardo, ascrivendo ciascuno di questi sottogruppi, per
similitudine, a una delle sorelle di Gi, le quali hanno tutte, tra loro,
caratteristiche morfologiche distinte. Per non confondermi, utilizzo
come riferimento base le foto, ad esempio, dei compleanni o delle
grandi feste di famiglia. Queste foto delle grandi occasioni sono di
fondamentale importanza per la comparazione, perché se non ci
fossero rischierei di perdermi, di ravvisare magari in diverse foto di
uno stesso nipote di Gi in età diverse nipoti di Gi diversi.
I figli di Gi posano spesso con le rispettive madri, che però non
compaiono mai nella stessa foto. Da cui evinco che le madri dei figli
di Gi non sono tra loro compatibili. Per quanto mi è dato capire però i
tre figli di Gi sono tutti tra loro compatibili e compatibili con l’intera
famiglia di Gi. Sono solo le madri dei figli di Gi che non coesistono
volentieri in una stessa fotografia. Forse per via che si davano il
turno alla macchina fotografica.
Festa di compleanno della mamma di Gi (si capisce perché c’è lei
che sta per soffiare sulle candeline) con tutte le figlie, i mariti delle
figlie, i figli e le figlie delle figlie della mamma di Gi e Gi, con i suoi
figli, e alcune cugine venute da Israele.
Foto di Gi con un cane, tutti i capelli in testa e la figlia in braccio.
Ho pensato a una foto che tra le foto della casa della mamma di
Gi non compare.
È una foto di Gi che bacia sua figlia Giulia, che Gi mi aveva
regalato la prima volta che era venuto a casa mia. È la foto dei baci
di Gi, di com’è Gi quando bacia qualcuno che ama, con molta felicità
e una stretta forte. Non è una foto in posa, è una foto che attesta
non la presenza di qualcuno, ma l ’atto d’amare qualcuno.
Alla fine ho pensato È una cosa primordiale, siamo al mondo
anche per questo. Per avere una stirpe.
Ma se ci mettessimo in gruppo, noi, la generazione di
Macchianera, saremmo piú o meno in uno.
Un’altra cosa che mi ha colpito sono i nomi. Nella famiglia di Gi i
nomi si ripetono.
Nelle fotografie di famiglia, uno col suo nome sta per sé ma sta
anche per qualcun altro con lo stesso nome che è venuto prima di lui
o che viene dopo. Quindi Pietro, per esempio, mentre sta facendo la
sua fotografia di famiglia penserà Ecco qua, io sono Pietro, ma sono
anche un po’ mio nonno Pietro, sono anche un po’ il nonno di mia
madre, Pietro, o il fratello Pietro di mio padre.
Siamo tutti delle metafore, alla fine.
In una foto di famiglia non ci sono quindici o sedici persone, dalle
piú grandi, sugli ottant’anni, alle piú piccole, sui due anni, ma
centinaia o addirittura migliaia di persone che sono venute prima o
che verranno poi. Una folla. Una massa. Un esercito.
A noi di Macchianera quell’esercito è completamente mancato. E
questo non solo perché nella nostra famiglia nessuno ha mai fatto
piú di un figlio o eccezionalmente due e nessuno ha mai sentito il
bisogno di fare una fotografia mettendo tutti quelli che c’erano stipati
in un’unica inquadratura, ma anche perché tutti abbiamo ricevuto un
nome che non veniva da nessuna parte. È stato cosí, ho pensato,
che ci siamo sparpagliati. E ci siamo persi.
Allora, pensavo, se in futuro ti capiterà di fare dei figli, sarebbe
bello che uno di loro portasse il mio nome e un altro, magari, il nome
di tuo zio, zio Mario, se poi ne facessi tre, potresti ficcarci addirittura
una Macchianera, come secondo o terzo nome.
E soprattutto, quando i tuoi figli faranno a loro volta dei figli,
ricordati qualche giorno, almeno una volta l’anno, di metterli tutti
insieme a fare, raggruppati per altezze, una fotografia. Nella quale
ovviamente io sarò al centro.
Pesce rosso

Ho aspettato le dieci e mezza per non svegliarla, poi ho chiamato


Ale.
– Ciao, come stai, senti, ma tu, quel pesce rosso che hai in
bagno, ti serve? – dico.
All’inizio non capiva bene dove volessi andare a parare.
– Pensavo se magari potevi lasciarmi il tuo pesce rosso. Dato che
lo tieni in bagno, – ho detto.
Ma Ale ha puntualizzato che quando va in bagno le piace sapere
che lí c’è il pesce rosso, nella sua boccia, che la fa sentire bene
vederlo tutte le volte che sta lí, sul cesso, e che non sa cosa fare. Lo
guarda, la rilassa sapere che in bagno c’è sempre qualcuno.
Cosí mi ha fatto venire ancora piú voglia, ovviamente.
– Perché non te lo compri un pesce rosso se proprio lo vuoi, – ha
detto Ale.
– Dici?
– Con quindici venti euro ti danno anche l’acquario e tutto. Però la
boccia non la vendono piú. È da qualche anno che hanno vietato la
boccia tonda.
– E tu, perché ce l’hai? (mi piaceva la sua boccia tonda).
– Perché quando l’ho preso io, – ha detto Ale, – l’ho preso dal set
di un film, la boccia era di scenografia, ma adesso non te le vendono
piú nel negozio. È vietato. Adesso te li vendono nell’acquario
rettangolare.
– Ma perché? – ho chiesto.
Allora Ale ha detto Aspetta che vado a prendere l’accendino, si è
accesa una sigaretta e poi mi ha spiegato con pazienza che i pesci
rossi siccome non hanno memoria vivono ogni momento come se
fosse l’unico momento della loro vita, il primo e l’ultimo, che dura piú
o meno due minuti. In una boccia tonda, in quei due minuti che
hanno la memoria, si perdono, mi ha spiegato Ale. Invece in uno
spazio rettangolare, in quei due minuti, si trovano con piú riferimenti
spaziali. Se non vendono piú la boccia tonda è per tutelarli, perché
hanno scoperto che per loro la boccia è uno stress psicologico o una
cosa del genere, mentre l’acquario rettangolare li rassicura, li aiuta e
gli dà maggiore serenità.
– E allora, – ho detto, – Ale, perché tu il tuo lo tieni ancora nella
boccia tonda?
– Perché è piú bella, la boccia tonda, me ne fotto se si stressa.
– Le cose belle, – ho detto, – si scopre che non vanno bene e
vengono sostituite con delle cose che vanno meglio ma sono brutte.
Come le lampadine.
– Sí, – ha detto Ale. – Se vai a comprartelo, prendimi un tubetto di
ali di mosca e insetti vari, poi ti do i soldi che il mio è quasi finito.
Poi abbiamo parlato un po’ del fatto che il suo pesce rosso
quando gli dà da mangiare la riconosce, salta e muove le pinne, le fa
festa.
Le ho chiesto come fa il suo pesce rosso a riconoscerla se ha una
memoria solo di due minuti. Ha detto che probabilmente quella cosa
gli si è fissata dentro nei due minuti, o chissà. Forse è un imprinting.
Forse riconosce solo la mano. Comunque fa festa solo a me, ha
detto Ale.
Alla fine della telefonata ero elettrizzata dall’idea di aver deciso di
comprare davvero un pesce rosso. M’immaginavo già lí a dargli da
mangiare, con lui che muoveva le pinne e per qualche secondo mi
riconosceva.
A me per essere felice basta solo un pesce rosso, mi sono detta.
E sono uscita per andare al negozio.
Sono entrata, era semibuio, ho detto Buongiorno, sono qua
perché vorrei un pesce, un pesce rosso.
Il tipo del negozio aveva i tempi rallentati, forse in parte anche
indotti dall’ambiente soffuso in cui lavora, non ha risposto subito. Mi
ha guardata senza dire niente, poi è andato di là, nell’altro locale, a
trafficare, e quando è tornato ha detto Un pesce rosso, come se
fosse l’inizio, il titolo, di un discorso.
Sí, ho detto, vorrei un pesce rosso, per favore.
Ha fatto un’altra lunga pausa guardandomi negli occhi come se
cercasse di penetrarci dentro.
– Perché?
– Perché cosa? – ho detto, mi sentivo aggredita. – Vuole sapere
perché voglio un pesce rosso?
Pensavo di aver fatto una battuta invece lui ha risposto serio Sí.
– Lei chiede sempre alla gente che vieni qui per comprare dei
pesci perché vogliono comprare un pesce?
– No, non sempre, alcune volte.
– Perché – ho detto – mio figlio è partito per l’Inghilterra, quindi ho
del tempo. E dello spazio, – ho aggiunto. – Ho pensato che era da
tanto tempo che volevo questo pesce rosso e adesso forse è venuto
il momento di comprarmelo. Mi pare una buona cosa, non sembra
anche a lei? – ho detto, per coinvolgerlo.
– Lei vuole dirmi che al posto di suo figlio ci vuole mettere un
pesce rosso? – ha detto il signore del negozio dei pesci.
– Ho detto che mi fa piacere avere un pesce. Non c’è niente di
male, credo, ad avere voglia di avere un pesce rosso.
– Mi permetta di farle notare, – ha detto il padrone di Mondo
Pesce, – che lei poco fa ha associato al desiderio del pesce rosso la
partenza di suo figlio per un viaggio, questo mi fa sospettare che,
quando suo figlio farà ritorno, lei, con molta probabilità, si
disinteresserà del tutto al pesce rosso, perché avrà smesso di
svolgere la sua funzione, per cosí dire, riparativa.
– No. Le giuro che no, – ho detto. – Le giuro che avrò cura del
mio pesce rosso, non lo trascurerò mai. Poi c’è anche il mio
compagno (non ho detto marito, in quel momento mi vergognavo
della parola marito), anche a lui piacciono molto i pesci rossi.
– Mi chiedo perché dovrei affidare un Carassius Auratus a una
come lei.
– Scusi, – ho detto, – come sarebbe a dire una come me. Se le
dico che gli metto l’acqua, gli do le scagliette, gli tolgo l’acqua, lo
prendo col retino e lo rimetto nell’acqua pulita. Non vedo il problema,
– ho detto.
– Lei si immagina questo? – ha detto il signore dei pesci
toccandosi la faccia vicino alla bocca. – Per lei è cosí che funziona,
è questo per lei avere un pesce?
– Rosso, – ho detto per puntualizzare.
– Un pe-sce ros-so, un pe-sce ros-so, – ha detto lui. – Tutti
vogliono un pesce rosso. Non ci vuole niente a volerlo. Ma poi?

– Mi spiace, – ha detto, – non posso darglielo. Non ravviso le


condizioni.
Mi veniva come da piangere, sentivo le lacrime salire e non
sapevo se era perché non mi voleva dare il pesce rosso o perché mi
pareva quasi che avesse ragione, che lo prendevo solo perché tu te
ne eri andato. Mi innervosiva ma anche mi toccava, come il signore
dei pesci avesse a cuore i suoi pesci e li proteggesse. Mi strofinavo
gli occhi.
– Quindi non me lo vuole dare?
– No, – ha detto categorico il signore dei pesci.
Certificato

Una mattina nella buca delle lettere c’era un pacco di carta gialla
col pluriball indirizzato a me. L’ho aperto. Dentro c’era il certificato di
frequenza di primo livello del percorso dello Specialista Tedesco. Era
una pergamena stampata, con il nome il cognome e la data scritti a
penna stilografica, con una grafia con molti sbuffi, gotica. In
sovraimpressione, ton sur ton sul giallino della carta, c’era la foto
dello Specialista Tedesco, che sorrideva alla scrivania, con un
quaderno e una matita in mano. Come se, mentre era nell’atto di
scrivere i suoi pensieri, qualcuno l’avesse chiamato di sorpresa,
disturbandolo persino un po’, pur di fargli una fotografia.
Non sapevo cosa farmene di quel certificato. L’ho tenuto
arrotolato. L’ho messo nel cassetto della cucina.
Otello, il ritorno

Ho bussato alla porta dello studio sgabuzzino e infilando la testa


ho chiesto a Gi se mi regalava una cosa. Lui ha detto Cosa vuoi
amore?
– Una frusta, – ho detto.
– Appena finito (la partitella, intendendo) vado.
Poi è uscito, è tornato con una cosa avvolta in una carta di
giornale, mi ha dato un bacio e mi ha detto Fanne buon uso.
Contemplavo in foto la torta paradiso del tuo ritorno, pensavo
Guarda che roba, è pure decorata con lo zucchero a velo. Pensavo
Alle sette di sera arriverai a casa, dopo quindici giorni di cibo inglese
ti verrà un colpo. E mi legavo un foularino nero a pois bianchi come
quello che avevano tutte le altre mamme lí per aiutarmi.
Penserà Finalmente a casa. Penserà Quanto ma quanto mi sei
mancata mammina. Sei proprio tu la mia mamma italiana. La mia
mamma a trecentosessantacinque denti sorridenti.
E ho cominciato a frustare.
Quando il composto sarà chiaro e spumoso ci metti il burro
ammorbidito e poi lo amalgami bene, mi aveva scritto Maria nella
ricetta che mi aveva mandato via mail con tanto di foto.
Perché piú aria incamera il composto, piú morbida sarà la base. E
soffice.
Ecco. Bella soffice, la vogliamo, ripetevano tutte le madri, accorse
dalle piú remote regioni d’Italia, a sovrintendere, a correggere, a dar
manforte. Le migliori mamme italiane mi svolazzavano intorno per il
grande evento: Torta paradiso fatta in casa senza supporto chimico.
Basta con la TortaMargherita, basta sacchetti, no alle multinazionali
della torta facilitata. Era arrivato il gran giorno del riscatto.
Albumi a neve ferma.

Grattugiamo ’sta buccia


l’aggiungiamo all’impasto
Imburriamoeinfà
infariniàmola teglia
la teglia da forno
ci versiamo il composto
e aspettiamo il richiamo

cantavano le mamme molto affiatate. Ero contenta, non le vedevo


dal giorno della strage delle formiche, quando erano volate via senza
manco salutarmi.
Forno non ventilato a 180° per circa 50 minuti.
Cinque minuti, contavamo tutte insieme al timer del forno.
Venti minuti, scandivamo massaggiandoci le caviglie stanche.
Venticinque minuti, dicevamo canticchiando Che sarà sarà,
mentalmente.
Ventotto minuti, sempre canticchiando.
Trenta minuti che guardiamo il forno e non si vede niente, perché
è un forno scadente senza lucina interna e col vetro anche un po’
sporco.
Trentadue minuti, intonavamo io e le altre speranzose col cuore
gonfio d’orgoglio.
Trentotto.
Meno dieci minuti, cantava la mammina esile con gli occhiali dal
fondo del coro.
A cinquanta abbiamo aperto il forno e, finalmente, orgogliosa
leggiadra, ho tirato fuori la cosa.
Grande emozione.
Posata sul tavolo, annusata, era buona.
Affondato lama lunga e sottile nel ventre caldo ancora fumante.
Uscita lama ricoperta d’un marrone chiaro.
Molle e bavoso.
Di colpo da sola.
Le madri italiane volatilizzate.
Puttane.
Volevo morire.
Volevo dimenticare al piú presto.
Volevo far sparire tutto.
Ma non potevo buttare la cosa nell’organico, era troppo liquida e
calda.
Erano le sette meno un quarto, stavi per tornare e non volevo che
la vedessi.
Cosí l’ho buttato nel cesso, quello schiumone bavoso è andato
giú senza dire niente. Si è lasciato risucchiare in silenzio. L’ho
guardato colare. Non è successo niente, mi sono detta.

Alle sette e un quarto circa sei entrato in casa. Hai posato il trolley
in camera tua, sei andato a farti una doccia, quando sei uscito hai
detto Ciao.
– Ciaoooo, bentornato, – abbiamo detto quasi in coro io dalla
cucina e Gi dal suo sgabuzzino.
– Cos’è questo odore? – hai chiesto.
– Niente, – ho detto evasiva.
– C’è una torta?
– No. Nessuna torta.
– C’è odore di torta, – hai detto.
– Ti sbagli, – ho detto, – verrà da fuori.
Sei entrato in cucina, hai guardato nel forno. Niente. Hai guardato
nell’armadio. Non c’era niente di niente. Hai aperto la finestra,
nessun profumo, nessuna torta.
Allora hai stretto gli occhi, li hai fatti diventare piccolissimi e li hai
fatti guardare in direzione dello sgabuzzino di Gi come a dire
Domandate di grazia a quel demonio lí per che cagione mi ha cosí
rovinato anima e corpo 1.

Per cena abbiamo mangiato la pasta con le olive e i pomodorini.


Gi ti ha chiesto se ti è piaciuta l’Inghilterra.
Hai detto Sí, abbastanza.
Ti ha chiesto se pioveva.
Hai detto Sí, qualche volta.
Io ti ho chiesto se avevi fatto amicizia con qualcuno.
Hai detto Sí, con degli spagnoli.
E con gli inglesi? ho chiesto.
Hai ribadito Con gli spagnoli.
Gi ti ha chiesto se l’Inghilterra ti era piaciuta.
Hai risposto Sí, abbastanza.
Ti ho chiesto se cucinavano bene.
Hai risposto Abbastanza.
Gi ha chiesto La sai la traduzione di we’ll figure it out?
Non hai risposto.
Poi mentre lavavo i piatti ho declamato a bassa voce È tutta colpa
della Luna, quando si avvicina troppo alla Terra fa impazzire tutti 2.
Ma Gi era già tornato nel suo sgabuzzino e tu, già vestito e
pettinato, col gel, i capelli all’insú, andavi con gli amici a festeggiare,
hai detto, il tuo ritorno.

1 W. Shakespeare, Otello, Einaudi, Torino 1997, trad. it. di Cesare Vico


Lodovici, atto V, scena II.
2 W. Shakespeare, Otello cit., atto V, scena II.
Marziani

Ero sola a letto quando, dalle persiane, ho intravisto una luce.


Non era una luce forte ma penetrava, arrivava dentro e portava un
leggero chiarore. Gli oggetti in prossimità della finestra, una bottiglia
d’acqua, la lampada da tavolo e un bicchiere, proiettavano sul muro
ombre nitide e mi sembrava addirittura che quelle ombre si
muovessero debolmente, un tremito leggero.
Da qualche giorno non vedevo piú bene, i contorni delle cose mi
risultavano vaghi, sfocati, quasi luminosi. Gi aveva detto che è
normale, quando uno sta tanto davanti allo schermo gli occhi gli si
stancano, a lui capitava anche di vedere delle macchie che cadono.
– Vedi le macchie?
– No.
– Allora, se ti può consolare, io sono messo peggio di te, – aveva
detto per rassicurarmi.
Mi aggrappavo quindi, in piena notte, a quelle spiegazioni
razionali, logiche, alle cose di cui si parla di giorno. Non avevo voglia
di aver paura.
Che ci sia qualcuno là fuori, forse con una torcia in mano? Ma
una torcia non produce ombre cosí nitide, mi dicevo. Forse sono le
macchie, come quelle di cui parlava Gi, le macchie che mi si
muovono negli occhi.
Lui però aveva parlato di macchie, forme indistinte, queste invece
erano proprio le ombre delle cose davanti alla finestra, i negativi
fedeli proiettati sul muro di ogni oggetto che poggiava sul tavolo.
Ho richiuso gli occhi cercando di mandare via quelle ombre
traballanti, di ricacciarle oltre il pensiero di averle viste. Pochi
secondi dopo però non ho resistito, li ho riaperti. Le ombre c’erano e
ancora traballavano. Sembrava che facessero una loro danza sulla
parete bianca. Per qualche istante è stato addirittura bello.
Forse non sono gli occhi, ho pensato all’improvviso, dev’essere
una cosa dentro il cervello.
Edoardo mi ha detto che un amico di un suo amico vedeva dei
bagliori e dei lampi e poi gli avevano detto che aveva un cancro. Ci è
voluto un po’ a capirlo, perché all’inizio pensavano che fossero
allucinazioni, invece poi magari fossero state semplici allucinazioni.
Arrivava l’angoscia a grandi falcate e non c’era neanche Gi da
svegliare.
Mi sono alzata, sono andata in bagno a fare pipí, ho aperto
l’armadietto, c’era una bottiglina di Lexotan che mi aveva prescritto
la sostituta del mio medico di base per la colite l’anno scorso. Non
l’avevo mai preso. Ne ho messe venticinque gocce in un bicchiere,
ho aggiunto un po’ d’acqua dal rubinetto e l’ho mandata giú. Era una
via di mezzo tra una cosa troppo amara e una cosa troppo dolce.
Sono tornata a letto e ho aspettato che le gocce mi facessero
effetto. Prima di entrare in camera però ho acceso la luce. Mi sono
addormentata con la luce accesa per non vedere altro.

Il giorno prima avevano chiamato sul fisso. Non chiama mai


nessuno sul fisso, tranne quelli delle offerte economiche delle
compagnie telefoniche. Invece erano quelli del gas, Buongiorno,
sono dell’Eni, ha detto una voce. Era una voce maschile, chiara,
gentile.
Non bisognerebbe mai essere gentili con quelli che chiamano sul
fisso, perché se gli si lascia anche solo uno spiraglio quelli ti
devastano, dice sempre Gi, io però ho detto lo stesso Dica, con
gentilezza.
La voce dall’altra parte ha detto di seguito Lei ha un contratto con
noi a quanto ci risulta, siccome stiamo facendo una promozione,
un’offerta un regalo alle famiglie che hanno già stipulato un contratto
con noi, se per lei va bene noi potremmo offrirle quest’opportunità
questa occasione e un nostro tecnico verrà a farle visita per una
consulenza gratuita, senza nessun tipo di proposta commerciale,
esclusivamente per darle maggiori informazioni. È sufficiente che lei
mostri al nostro esperto una sua bolletta del gas, e lui le saprà dire
che tipo di comportamento la porterà a un contenimento dei consumi
energetici.
– La ringrazio, – ho detto, – non si offenda, al momento preferisco
non occuparmi di questa cosa del gas, non perché non mi sembri
utile, è proprio che non mi va di pensarci, ho altri problemi, non so
dove siano le mie bollette vecchie, non ho voglia di mettermi a
cercarle e non mi ricordo dove le ho messe.
– Ne basta una, una sola bolletta anche non recente e il nostro
esperto saprà fornirle dei consigli preziosi per i risparmi futuri.
– Una dovrei averla, ma, come le dico, non so dove e non ho
voglia di mettermi a cercarla e non ho voglia di pensare al gas.
– Mi ascolti, signora, – ha detto la voce, – io sono laureato in
storia medievale, facevo il ricercatore, neanche a me interessa il
gas. È che se lei accetta mi dà una mano, capisce, io sono qui, la
chiamo da un call center, devo prendere appuntamenti con le
famiglie e le chiederei, se mi capisce, proprio il piacere di accettare
l’offerta, di farmi segnare il suo appuntamento.
– Vuole solo che fissi un appuntamento?
– Se non le creasse troppo disturbo, le sarei davvero
riconoscente. Domani alle dieci?
– Io non so, domani, – ho detto, – domani non posso. Magari
dopodomani.
– C’è suo marito, dopodomani?
– No. Perché?
– Servirebbe qualcuno che attestasse che lí, in quella casa, ci
vive una famiglia vera. Perché la cosa non si può fare solo per una
persona, ci vuole una famiglia, altrimenti niente offerta e niente
appuntamento. Capisce?
– Mio figlio? Le va bene un figlio?
– Suo marito non c’è?
– No.
– Non ci può proprio essere?
– Mio marito non ci può proprio essere.
– Capisco, – ha detto la voce, – andrà bene suo figlio, ma si
assicuri che ci sia. È di fondamentale importanza che suo figlio sia in
casa al momento della consulenza, ha capito?
– Sí. Non m’interessa la consulenza ma accetto lo stesso.
Mi ha ringraziata.
Alla fine della conversazione ero anche soddisfatta. Un ragazzo
giovane, uno storico professionista, pensavo, costretto per campare
a fare il procacciatore di appuntamenti per l’Eni, una cosa
deprimente e malvagia. Sentivo di aver fatto una buona azione.
Alle dieci hanno suonato. Non mi ricordavo piú
dell’appuntamento, ero ancora un po’ stordita dalle gocce. Ho spiato
dalla finestra della cucina per vedere chi fosse. Erano due tipi vestiti
uguali, maglietta bianca e tuta larga con la pettorina azzurra.
Entrambi erano abbastanza grassocci, coi capelli molto corti.
Sembrano due playmobil, ho pensato. Uno dei due portava gli
occhiali e aveva una ventiquattrore in mano.
Ho detto Sí? al citofono del cancelletto.
– Ci apre signora? Siamo venuti per la consulenza gratuita, Eni.
– Accomodatevi.
Ho aperto il cancelletto e li ho fatti entrare. Tu stavi dormendo.
Hanno subito chiesto se c’eri. Ci risulta che lei abbia un figlio,
hanno detto.
Ho trovato strano che quella fosse la loro prima domanda, però
ho detto Sí, mio figlio dorme ancora, è in camera sua, ma è in casa.
È tornato da poco dall’Inghilterra, ho aggiunto.
Ho socchiuso la porta della tua stanza, perché vedessero che,
anche se dormivi, c’eri davvero, che eri lí nel letto.
Hanno guardato a turno infilando la testa, prima quello con gli
occhiali, che sembrava piú intraprendente, poi l’altro, come se
stesse rispettando un ordine gerarchico. Stavano appollaiati con le
teste tra la porta, una sopra e una sotto, e sembravano molto
interessati.
Li ho fatti arretrare richiudendo, ho detto Scusate, adesso l’avete
visto.
Li ho fatti accomodare in cucina, quello con gli occhiali ha posato
la valigetta sulla sedia e mi ha chiesto di vedere la bolletta del gas.
– Una l’ho trovata, – ho detto, – però è di un periodo estivo, non ci
si legge il consumo legato al riscaldamento, che in effetti è quello piú
gravoso per noi.
L’hanno guardata distrattamente, non sembravano per niente
interessati ad analizzare davvero i dati sulla bolletta.
Quello senza occhiali ha detto meccanicamente: – Cara signora,
siamo qui per proporle un sistema di risparmio molto significativo.
– Allora mi spieghi, – ho detto.
Quello con gli occhiali ha estratto dalla valigetta un dépliant con
foto di pannelli solari di vario tipo. – Lei conosce le enormi
potenzialità del fotovoltaico?
– Guardi, – ho detto, – io qui sono in affitto, non posso mettere un
bel niente sul tetto. Se è per questo che siete venuti perdete tempo.
I due si sono guardati, hanno guardato l’ora. – A che ora si
sveglia suo figlio? – ha chiesto sempre quello con gli occhiali, che
doveva essere il capo.
– Non capisco cosa c’entri mio figlio coi pannelli fotovoltaici.
– Vorremmo parlare anche con lui.
– Non capisco di cosa dobbiate parlare. Siamo in affitto. Il tetto
non ci appartiene e basta.
– Signora, non si alteri, è che siamo venuti fin qua, lei ha fissato
un appuntamento a suo nome, il suo nome è nella lista di chi ha
richiesto la consulenza, capisce, come mai non ha detto subito che
lei non era proprietaria?
– Perché nessuno me l’ha chiesto, – ho detto. – Se lo vuole
proprio sapere, il vostro collega al telefono ha detto che studiava
storia medievale e che se accettavo di fissare questo appuntamento
gli avrebbero dato dei soldi. Perciò ho accettato. Per aiutarlo e
basta.
Si sono guardati tra loro come se quanto dicevo fosse la
conferma di qualcosa.
Quello senza occhiali ha detto: – Voi siete una famiglia,
comunque. A parte quello che dorme di là ci sono altri figli?
Ero infastidita, allarmata. Non si può dare retta a tutti, ti faranno
impazzire, mandali via, mi sono detta.
– Ascoltate, – ho detto, ero tesa, non piú disposta ad ascoltare. –
Come vedete la cosa non si può fare, mi sono fatta intenerire dalla
storia medievale, ecco perché siete qui, è stato bello ma, come
avrete certo inteso, noi non siamo padroni del tetto di questa casa,
siamo inquilini e quindi i pannelli fotovoltaici non possiamo prenderli
in considerazione in alcun modo, non è un problema di volontà.
Adesso, se non vi dispiace, avrei da fare.
– Vorrei parlare con suo figlio, – ha detto secco quello con gli
occhiali, che a guardarlo bene sembrava avere qualche anno in piú
del collega.
– Mio figlio è un ragazzo, non è lui che decide, non ne sa nulla di
queste cose.
– Ugualmente noi dobbiamo chiedere una firma sua e una a suo
figlio. Non possiamo andarcene senza che suo figlio abbia firmato,
capisce, è la prassi.
Mi tornavano in mente lo sfarfallio, le ombre danzanti della notte
precedente. Era come se la realtà non stesse seguendo le solite
regole.
– Scusate un attimo, – ho detto. Ho preso il telefono, ho chiamato
Gi. Ma il cellulare di Gi dava non reperibile.
L’ansia cresceva.
Non volevo che ti svegliassi, che quei due ti parlassero. Mi
sembrava che ci fosse qualcosa di strano e di minaccioso nella loro
presenza. È un bene che Mino dorma, ho pensato, devo lasciarlo
dormire, non devono piú vederlo.
– Signora, non ce ne andiamo se non ci fa parlare con suo figlio,
– ha detto quello con gli occhiali che doveva essere il capo o
comunque di una qualche categoria superiore, o solo, tra i due, il piú
risoluto.
– Perché? – ho chiesto.
– Lei ha sottoscritto una richiesta di consulenza familiare, non
importa che le circostanze non siano poi state favorevoli, il fatto che
manchino i requisiti è una cosa del tutto ininfluente, lei ha richiesto la
nostra consulenza e adesso deve sottostare alla clausola vincolante.
Parlava in modo forbito, requisiti, ininfluente, clausola. Sembrava
scegliesse le parole con una insolita attenzione.
– Ha studiato anche lei? – ho chiesto.
– Ho studiato, – ha detto sfiorandosi la pettorina con la mano, un
gesto leggero quasi sfuggito al controllo volontario, – cose.
– Cosa ha studiato?
Vediamo se sono tutti ricercatori di storia medievale, mi sono
detta.
– Sono un medico, un dottore, ma in questo momento mi occupo
di energia solare.
– Lo fa per passione? – gli ho chiesto ironica, cercando una
connivenza, come dire Lo so, che se potesse farebbe il medico, che
sono le circostanze a costringerla qui, coi suoi dépliant di pannelli
solari e la sua salopette azzurra.
Non ha per niente sorriso. Sembrava non aver capito il tono, o
forse ero io a non avere capito lui.
– Per molta passione, signora.
Continuava a sfuggirmi, il suo linguaggio a tratti sembrava
incoerente e a tratti invece mostrava eccessi di ricercatezza.
– E lei, – ho chiesto all’altro, a quello senza gli occhiali, che era
rimasto in silenzio quasi sull’attenti, – anche lei ha una laurea?
Sembrava altrove, non ha risposto subito, aveva lo sguardo come
perso, sognante. Poco dopo ha detto Sí. Studio le ragioni
dell’universo.
– In che senso? – ho detto. Mi sono seduta, tanto non se ne
andavano, non mi restava che parlare un po’ con loro, tanto piú che,
pensavo, forse conoscendoli meglio, dando loro un po’ di spazio, la
smetteranno di fare i burocrati, ci berremo un caffè, parleremo
d’altro, scherzeremo insieme su questo incidente del gas e qualche
altra volta, chissà, verranno a trovarmi solo per amicizia.
– Quindi lei cos’è, un fisico? Un astronomo? Si occupa di cosa?
– Di spazio-tempo, – ha risposto rapido, senza concessioni.
Sembrava aver cercato tra varie opzioni mentali la definizione
corretta per alcuni secondi e adesso, dopo averla individuata, era piú
rilassato.
– Vi scelgono tutti laureati, all’Eni?
– Perché? – ha ripetuto quello con gli occhiali, come se avessi
detto una cosa offensiva.
– No, niente, chiedevo, era una domanda come un’altra. Volete
un caffè?
– Caffè? – ha detto quello piú giovane.
– Sí, chiedevo se vi faceva piacere un caffè, lo farei anche per
me, perché sono un po’ stordita, ne ho bisogno.
Si sono di nuovo guardati per qualche secondo, occhi negli occhi,
come se cercassero qualcosa, una risposta, uno nello sguardo
dell’altro.
– Sí, grazie, – ha risposto quello senza occhiali. – Noi lo
prendiamo molto volentieri.
Ho messo su il caffè, ho fatto cenno di sedersi, di non stare piú in
piedi, c’erano sedie per tutti.
– Vede, – ho detto a quello con gli occhiali, mentre preparavo la
caffettiera, – se lei è un dottore mi potrebbe dare un suggerimento,
perché l’altro giorno mio figlio si è ustionato un polso.
– Un polso, – ha detto tirandosi gli occhiali piú su, sul naso.
– Sí, il polso sinistro, lui è mancino capisce, usa la sinistra. E
l’altro giorno appunto ha deciso di usarla per farsi una omelette.
– Omelette?
– Sono piatte, tonde, piene di uova sbattute, cose che escono
dalle galline, un po’ di sale, il burro caldo dentro una padella, sono
praticamente delle frittate.
– Omelette.
– Il fatto è che lui ha deciso di farsi questa omelette con un
oggetto di cottura del tutto inadeguato, una bistecchiera di ghisa
tonda col manico pieghevole, e quando ha cercato di rivoltare
l’omelette facendola volteggiare per aria come aveva visto fare in
televisione, l’omelette, invece di rigirarsi, è rimasta ferma sulla
bistecchiera, è stata la bistecchiera a rigirarsi come una frittata,
perché le bistecchiere, spesso, per ragioni di spazio, hanno il manico
che si gira all’interno. Per tale ragione si è ustionato gravemente il
polso sinistro.
– Omelette, – ha ripetuto accigliato il medico.
L’altro lo guardava, poi guardava me, che mettevo la caffettiera
sul fuoco.
– Il fatto è che mio figlio ha un carattere molto particolare, – ho
continuato. – Adesso è da molti giorni che tiene la scottatura chiusa,
bendata stretta, e non vuole lasciare che si formi la crosta, che
guarisca, dice che non vuole che gli venga la cicatrice. Ho provato a
spiegargli che prima la scottatura deve cicatrizzare e dopo, col
tempo, se ne andrà il segno della cicatrice. Ma lui continua a mettere
e togliere quella benda con una crema che ne impedisce la
cicatrizzazione. Lei cosa pensa?
– Dovrei vedere il polso, – ha detto.
– Certo, ha ragione, – ho detto. – Prima non volevo svegliarlo,
non so per quale motivo mi eravate sembrate due persone
pericolose, ma adesso mi pare che ci siamo conosciuti meglio, vado
a chiamarlo.
Eri ancora nel letto ma subito, appena la mia voce ti ha chiamato,
con uno scatto ti sei messo in piedi. Siamo entrati in cucina assieme.
Hai stretto educato la mano ai due del gas. Hai preso il loro dépliant,
l’hai sfogliato. Hai detto che il fotovoltaico l’avevi studiato a scuola.
Ti ho detto che il signore con gli occhiali era anche un medico,
che se volevi potevi mostrargli la tua scottatura, che ti avrebbe dato
un parere, dato che il mio parere non lo ascolti.
Sei andato di là a togliere la fasciatura, per pudore, perché non ti
andava di farti vedere mentre la sfasciavi. Sei tornato e subito gli hai
fatto vedere la scottatura.
Lui ti ha preso il polso con la mano e lo teneva stretto, molto
stretto.
Mi sono preoccupata, ho detto Guardi che gli si ferma il sangue.
Lui ha sorriso, non ha risposto.
Il caffè è uscito, l’ho versato per tutti ma intanto ero preoccupata,
il dottore non ti lasciava il polso, continuava a stringere con forza, e
tu non dicevi niente.
Ho posato le tazze sul tavolo, la mia, poi le loro. Ho detto Se
intanto volete bere il caffè, non ho messo lo zucchero, non so se lo
volete, quanto ne volete, servitevi voi.
Era un modo per distrarli.
Quello senza occhiali ha preso la sua tazzina, la guardava, la
studiava, non ci metteva lo zucchero ma neanche la beveva.
Quando ho messo due cucchiaini di zucchero nella mia e ho
girato, ha fatto la stessa cosa anche lui, molto rapidamente, ma poi
non ha bevuto il caffè, ha solo ripreso a guardarlo.
– Non lo beve? – ho chiesto.
– Prendo delle misure, – ha risposto.
Tu sembravi a tuo agio, né stupito né infastidito da quella
situazione insolita, stavi in piedi di fianco al dottore seduto che ti
teneva vicino a sé e ti lasciavi docilmente stringere il polso.
Adesso nessuno dei due parlava piú di documenti da firmare né di
fotovoltaico. Perché non vogliono piú nessuna firma? Non mi
capacitavo, ma l’atmosfera mi sembrava essere piú serena, quasi
che i due fossero dei nostri lontani parenti, degli amici di famiglia,
venuti a farci visita da chissà dove, una visita di cortesia, niente di
piú.
Quando il dottore ha liberato il tuo polso dalla stretta, non c’era
piú alcun segno di scottatura, ti aveva guarito e tu lo sapevi, non eri
per niente sorpreso, restava solo un arrossamento dove le sue dita
avevano esercitato quella pressione. Lo avevi lasciato fare, lo
conoscevi? Chi erano? Continuavo a ignorarlo.
Non avevano toccato il caffè nonostante lo avessero accettato di
buon grado e quasi non mi rivolgevano piú la parola. Sembrava che
il centro dell’attenzione, il loro fuoco, da quando eri arrivato in
cucina, fossi tu.
Il tempo si era paralizzato.
L’uomo con gli occhiali dopo averti guarito il polso ha detto È ora
di andare. L’ha detto al compagno, ma anche a te. Tu hai abbassato
appena lo sguardo e allora la luce, fuori, la luce del sole, si è
abbassata. Può succedere, mi sono detta, una nuvola passa, oscura
per qualche minuto e dopo il sole torna a illuminare ogni cosa. Ma la
nuvola, se era una nuvola, non si spostava per niente, ci teneva in
penombra. Devi fare i compiti, ho detto, non hai finito, avevo fretta di
tornare alla nostra vita di sempre, non volevo che quella visita ci
facesse inciampare nel tempo. Cercavo un modo di organizzarlo, di
farlo riprendere a girare, come se toccasse a me, fosse compito mio,
spingere avanti le lancette, con qualcosa che ti ancorasse al tempo
e ancorasse il tempo a se stesso, il tempo nostro, il tempo di ogni
giorno.
Ma tu non ti muovevi.
Nessuno si muoveva. Era la paralisi.
Poi, come risvegliato, sei uscito dalla cucina, sei andato in
camera tua.
Mentre tu non c’eri loro non mi hanno parlato, ti aspettavano, io
non c’entravo piú niente.
– Mio figlio ha bisogno di molte cure, – ho detto. Non so perché
l’ho detto.
Quello con gli occhiali ha detto: – Noi siamo venuti per lui, forse
l’avrà inteso, siamo venuti perché suo figlio appartiene a un altro
luogo.
– Molto lontano, – ha aggiunto l’altro. Finalmente aveva trovato il
suo ruolo: puntualizzava, arrotondava il discorso del suo capo.
– Certo, – ho detto. – Voi avrete notato che mio figlio è un po’
strano. È un ragazzo molto intelligente ma non è ancora cresciuto
abbastanza. Ha ancora bisogno di attenzioni.
Spiegavo tutto questo a loro, senza sapere perché lo stavo
facendo.
– Non deve preoccuparsi, suo figlio starà benissimo. Deve tornare
con noi, la sua casa non è questa. È stata molto brava con lui, mi ha
appena trasmesso col pensiero che qui le onde sono positive, che la
condizione è stata quasi sempre positiva. Ma è tempo che lui torni
alla sua vera vita, capisce, deve fare ritorno a casa. Sua madre lo
sta aspettando da dieci minuti, fuori da scuola, se non uscirà sarà
molto in apprensione.
– Dieci minuti? – ho detto.
– Dieci minuti nostri, – ha detto il gregario, – sono quasi
diciassette anni del vostro tempo.
– Capisce? La madre non sa che lui è stato prelevato, lo sta
aspettando, nel nostro pianeta lui ha sette anni.
– Sette anni?
– Quando lui è nato, lei, signora, non era ancora stata concepita,
– ha detto il gregario, quello senza gli occhiali.
– E neanche sua madre e suo padre, e nessuno dei suoi nonni.
Da voi le cose vanno troppo veloci, dal nostro punto di vista, avete
un tempo che corre da tutte le parti, come un cuore impazzito, – ha
aggiunto.
– Siete pazzi, – ha detto quello con gli occhiali.
– Comunque, – ho detto io, – lui di qua non se ne va.
– Avevamo analizzato nei dettagli le circostanze, ci siamo
accertati che lei lo avrebbe trattato con ogni riguardo e questo è
avvenuto, il nostro comitato scientifico è contento di lei, però come le
abbiamo detto non si tratta di un’opzione, si tratta di una necessità.
È quasi ora di pranzo, sua madre lo aspetta e non vogliamo che si
preoccupi.
– Sí, – ho detto, – ma io? Io come faccio? Se per voi questi dieci
minuti contano sedici anni, dovreste capire che per me questi sedici
anni che per voi sono dieci minuti contano sedici anni, cioè tutta la
sua vita.
– Certo, – ha detto quello con gli occhiali, – avevamo bisogno di
farlo nascere, altrimenti non sarebbe stato facile trovargli una
sistemazione. Questo è un pianeta nel quale è meglio nascere che
arrivare da fuori.
– State scherzando? – ho detto. – È uno scherzo che mi state
facendo, siete della televisione?
– Sappiamo cos’è la televisione, – ha detto il gregario, – ma non
siamo della televisione.
– Perché l’avete fatto? – ho chiesto. – Non capisco perché l’avete
mandato sulla Terra.
– Vuole sapere la ragione? – ha detto quello con gli occhiali.
– Sí.
Sei tornato in cucina e adesso ascoltavi anche tu la
conversazione.
– Certo che lo voglio sapere, altrimenti non l’avrei chiesto, non le
pare, – ho detto.
– Nel nostro pianeta amiamo le piante.
Sorridevi.
– Purtroppo non ne abbiamo molte, anzi, per la verità ne abbiamo
una sola, si chiama Spulmidium, ma non è molto decorativa. È un
gomitolo semisecco, un groviglio di spine. Fa dei fiori gialli, ma solo
una volta ogni centocinquant’anni. Non sapevamo ci fossero altre
qualità di piante finché non abbiamo raggiunto per caso il vostro
pianeta, di nessun interesse logistico. Ci siamo accorti che voi qui
siete molto fortunati, avete tante piante, fiori, cose che da noi non
esistono. Anche se non ve ne curate molto. Abbiamo pensato
d’inviare qualcuno per questa ragione. Vogliamo qualche piantina
delle vostre, per il nostro pianeta.
– Voi avete fatto tutto questo per qualche piantina?
– Sí, in particolare quelle profumate, il nostro Spulmidium è del
tutto privo di odore. Per noi non è un’impresa tanto straordinaria.
Una missione da dieci minuti, come le ho già detto. Facciamo
spesso cose del genere. Se in giro nell’universo c’è qualcosa che ci
interessa, andiamo e ce la prendiamo, non è un’impresa
eccezionale.
– Lo fate spesso?
– Lo facciamo con una certa regolarità.
– E tu lo sapevi? – ti ho chiesto.
Mi hai guardato un po’ confuso, hai detto Credo di sí, ma forse no.
Una parte di te sapeva, l’altra non sapeva.
Allora ho detto Non potreste lasciarlo qui altri dieci minuti dei
vostri?
Quello con gli occhiali ha guardato l’altro, per un momento ho
pensato che i loro sguardi indecifrabili stessero prendendo in
considerazione l’ipotesi.
Poi quello senza occhiali ha detto Purtroppo la mamma lo
aspetta, non possiamo arrivare in ritardo, ne andrebbe della nostra
precisione e della nostra affidabilità.
– Che vi fanno dieci minuti in piú o in meno?
Ti ho guardato, hai distolto lo sguardo.
– Noi ci teniamo molto ai nostri minuti, – ha detto sorridendo
quello con gli occhiali.
Mi sembrava che non ci fosse niente da fare, allora mi sono
alzata, mi sono avvicinata a te, ti ho abbracciato fortissimo, ti ho
detto Aspetta qui.
Sono uscita di casa, sono andata in cortile a prenderti il basilico.
Fuori dalla porta, sulla sinistra, proprio in corrispondenza della
finestra della mia camera da letto, c’era un disco volante.
C’era davvero un disco volante.
Un disco volante come nei film di fantascienza degli anni
Settanta. Tondo, piatto. Un disco volante dei piú elementari. Stava
su quattro zampette piegate. Come un uccello lacustre.
Sono tornata dentro con il basilico. L’hai preso tra le mani, hai
sorriso, hai detto Grazie.
Ci siamo abbracciati di nuovo.
I due si erano tolti la salopette, sotto avevano una tuta argento, di
maglina, molto attillata, ti aspettavano e si capiva che avevano fretta.
Tu non ti sei cambiato. Sciolto l’abbraccio sei rimasto in
pantaloncini e ciabatte, con la maglietta bianca con la mela, e
adesso te ne andavi con loro verso l’uscita strascicando i piedi, il
basilico in mano, ogni tanto ti giravi verso di me, senza emozione.

Io sono tornata in cucina, non sapevo cosa fare. Mi sono seduta a


guardare le tazzine di caffè sul tavolo, vi sentivo parlare in una
lingua che non capivo, sembrava il suono di una voce registrata su
un nastro quando la si fa scorrere in avanti premendo il tasto FF ,
quella voce che esce, da cartone animato, quel su e giú dei toni che
perdono senso e significato. Parlavate tra voi come cartoni animati e
vi capivate. E io, ho pensato, chi sono?
Chi sono io? Una cosa da nulla? che ti ho fatto da madre tutto
questo tempo.
Ho urlato No, non si fa cosí.
Sono uscita, il disco volante era ancora lí, forse eravate già entrati
perché non vi vedevo. Non c’era nessuna apertura, nessun
finestrino. L’oggetto si stava illuminando, emetteva una luce diffusa
ma fioca, come quelle lampade che si mettono nelle stanze dei
bambini la notte, per aiutarli a superare la paura del buio. Ho
bussato. Non rispondevate.
Ho cercato qualcosa per bussare con piú forza. Non ho trovato
niente.
Sono tornata in cucina, ho aperto il cassetto e dentro c’era un
martello. Ho preso il martello, sono tornata fuori, ho cominciato a
battere sul disco volante. Intanto il disco volante diventava sempre
piú trasparente e caldo. Non sapevo come fare. Mi sentivo proprio
perduta, Non voglio, non voglio, è mio figlio, non potete portarvelo
via, non potete, dovete lasciarlo qui, è la sua vita è la mia vita, non
c’è nessuno dall’altra parte, nessuno che possa amarlo come lo amo
io, non m’interessano le vostre piante, voglio mio figlio, lasciatelo qui
per favore. Gridavo ma nessuno mi sentiva.
Il disco volante ha cominciato a sollevarsi e io mi sono attaccata a
una delle sue zampette magre, metalliche, con entrambe le mani.
Mentre si sollevava ho sentito i piedi che si alzavano, facevo uno
sforzo sovrumano per resistere, per non mollare la presa. Se vi
portate via mio figlio portatevi via anche me, vengo con voi, non
posso lasciarvelo.
In un attimo eravamo in alto, vedevo gli appezzamenti, i colori
della terra, le strade, le auto, tra le case che diventavano sempre piú
piccole c’era anche la nostra, il suo cortile, il tetto. Dobbiamo tornare
giú, dobbiamo tornare! Ma la cosa spingeva sempre piú in alto
sempre piú velocemente, le mie mani scivolavano lungo il metallo, e
la presa si allentava. Di colpo sono caduta, ho sentito la
separazione, lo strappo, io cadevo verso la terra, mentre tu volavi in
su, salivi via.
Ero una cosa che cadeva giú.
Poco prima di raggiungere la terra ho lanciato un grido, un grido
di gabbiano. Mi usciva quel grido di gabbiano, un grido di rabbia, un
grido disperato fatto con la gola aperta a volume pieno che non
serviva a niente.
Quando sono caduta però non ricordo. Mi ricordo che ho avuto
paura che il mio urlo si fosse sentito. Ma per fortuna era stato un urlo
dentro il pensiero. Un urlo pensato. C’è una grande differenza tra le
cose che succedono dentro di noi e quelle che succedono fuori di
noi.
Quando ho aperto gli occhi era tutto come sempre.

Sono venuta in camera tua. Tu eri lí, ti guardavo.


Pensavo ancora a cose molto grandi, alla distanza tra le cose, a
come sia dato che una persona diventi a un certo punto cosí
importante per un’altra. Non trovavo una risposta. Il problema tuo, mi
sono detta, è che tu sei refrattaria a tutte le soluzioni. Hai un figlio.
Sai quante persone prima di te hanno avuto un figlio? Tantissime.
Milioni di milioni. In un modo o nell’altro questo figlio tuo, che dorme
nel suo letto, diventerà adulto, crescerà. Adesso ti sembra strano per
via delle coppette di gelato. Non devi piú comprargli le coppette di
gelato, al limite gli puoi dare i soldi che se le compri da solo, ma non
devi piú per nessuna ragione uscire a compragliele. Capisci? È tuo
figlio. Ma è anche un essere umano terrestre. Un terrestre, se vuole
una coppetta di gelato, se la compra da solo. E allora di colpo il
problema si è spostato, dal sogno alla realtà, dal tuo futuro al tuo
presente. Dall’esito dei tuoi esami di riparazione al fatto che esisti,
che respiri, che hai due gambe e due braccia eccetera.
Si è spostato e si è fermato al punto in cui siamo. Io in piedi
davanti a te che ancora dormi, nel letto della tua camera da letto,
nella nostra casa, nella cittadina in cui viviamo, che è in un Paese
circondato quasi interamente dal mare, un Paese pieno di cose e di
persone e di case e di cucine e di camere da letto, in cui tra poco
molte persone si sveglieranno, si alzeranno, si faranno la doccia e
un caffè. Non siamo soli, siamo uguali, uguali a centinaia di migliaia
di persone come noi che hanno paura, che hanno centinaia di
migliaia di paure e si arrabattano come ci arrabattiamo noi. Ero
piena di tenerezza e di pena e di felicità per questo pensiero cosí
stirato, cosí allargato come una coperta che cercasse di coprire tutti
come un velo, come un pudore. Noi esseri umani abbiamo questo
problema, ci preoccupiamo del futuro. Tu sei mio figlio, io voglio per
te il meglio ma questo meglio che voglio per te non so cosa sia, non
riesco a immaginarmelo. Se mi sforzo mi viene solo una cosa già
scritta, un pensiero che non è un pensiero, è un albero di Natale.
Se tu fossi una cosa piú semplice, se tu fossi un pesce rosso, ti
darei le tue scagliette d’ali di mosca, o zampe di formica, ti cambierei
l’acqua una volta alla settimana, ma ugualmente non potrei sapere
come va a finire. E non so neanche se sia quello che voglio sapere.
Come va a finire una storia non lo si può mai dire finché non finisce,
ma quando è finita, ahimè, è finita anche per l’occhio che la guarda,
per le orecchie che la sentono, per la bocca che la dice.
Tu sei libero. Siamo tutti liberi. Anche se lo sappiamo tutti, che
non è vero. Nessuno è libero. Primo per quello che ci portiamo tutti
dietro, le nostre nonne, le nostre bisnonne, le porte di casa, i cani e i
gatti che abbiamo o non abbiamo avuto da piccoli. E poi per quello
che ci sta intorno, che ci spinge di qua e di là e ci suggerisce la
strada anche se non è la nostra.
Adesso io non me la sento proprio d’insistere sulle strade. Tu
dormi, finché dormi va tutto bene, finché non ti alzi, non cominci a
muoverti, a fare confusione, a fare domande all’universo con la tua
sola presenza.
Da quando ci conosciamo, ho comprato per te tre vocabolari della
lingua italiana, un atlante geografico, un atlante storico e un libro di
fotografie con dentro le mappe oceaniche. Le mappe oceaniche mi
sembravano importantissime, in quel momento. Ma a te le mappe
oceaniche non parlavano come parlavano a me, erano mute, con la
bocca chiusa. E i vocabolari non ti sono mai serviti. Le tue strade
sono in questo tempo qua e nel tempo che gli viene appresso, dopo.
Io, mi pare di capire, se proprio posso fare qualcosa, posso farti
spazio, passare con una scopa di saggina, spostare le foglie,
scoprire il selciato perché tu possa guardare, almeno, dove posi i
piedi.
I piedi sono tuoi. La strada è tua. Ci metto le parole, ci metto le
mani e il cuore.
Ringraziamenti

Un grazie a Camilla di cui sono stata l’incubo quotidiano estivo e


autunnale, a Francesco per le speculazioni d’oltreoceano, a Vivian
per la dolcezza del suo sguardo e il pensiero, a Magú, a Dalia per le
sue sere e le sue domeniche, a Donata per i nostri caffè, a Uno e
Treecinquanta (i pesci rossi), a Dudo, anche per l’uomo del bar, a Lo
per tutto, a Enrico per il cane Titino e tutta la sua musica. A Tupo.
Il libro

«N

una madre e un figlio adolescente, – ha detto Gi
mentre girava lo zucchero nella tazzina. – Il lieto
fine è la fine dell’adolescenza».

Smamma è uno di quei libri che inizi e non molli piú, perché è un
generatore di allegria interiore, un antidoto, uno specchio. La
prova che un romanzo ironico e intelligente può essere piú
potente di mille teorie.

Può darsi che i vostri figli siano allegri, loquaci e premurosi. Che
leggano I Malavoglia con piacere, che vadano bene a scuola
senza essere secchioni, che rifacciano il letto con gaiezza, che
stendano i panni senza chiedere in cambio sette euro. Bene.
Bravi loro, bravissimi voi.
Ma se per caso anche voi non fate che chiedervi chi diavolo siano
quelle creature impenetrabili che avete generato, e soprattutto
come sia possibile che non vi assomiglino neanche un po’; se
anche voi vi siete domandati da quale pianeta provengano e
perché si aggirino per casa modificando lo spazio e il senso di
tutte le cose, compreso quello della vostra esistenza,
pronunciando frasi inudibili, involontariamente comiche, allora
questo libro vi salverà la vita. O perlomeno il buonumore, che è
un po’ la stessa cosa.
Tra tavole apparecchiate che diventano ring da combattimento,
irresistibili colloqui con gli insegnanti e con Dio, tentativi di
pasticceria liofilizzata e inaspettati momenti di tenerezza, l’esordio
narrativo di Valentina Diana è un romanzo che vive di scene
folgoranti, istantanee di una vera e propria «guerra dei mondi».
L’autore

Valentina Diana è nata a Torino nel 1968. Lavora in teatro come


attrice e «dramaturg». Per il teatro ha scritto: Fratelli, Ricordati
di ricordare cosa? (Premio nazionale di drammaturgia
contemporanea Il centro del discorso 2009), La bicicletta rossa
(Premio Eolo Awards 2013 per la drammaturgia), Swan e La
comitragedia teatrale.
© 2014 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
In copertina: foto Ale Ventura / PhotoAlto / Plainpicture.
Progetto grafico: Bianco.

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Ebook ISBN 9788858412572

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