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Smamma
Einaudi
a mia mamma
Siamo tutti naturali e nel tempo.
Anche tu e io.
Come molte altre persone che scrivono, anch’io, quando scrivo,
scrivo di cose che mi stanno vicine. Questo libro è ispirato alla mia
vita, ma non è la mia vita. Fatti, dialoghi, personaggi e situazioni
sono della materia di cui son fatti i sogni.
Il come
I figli non sono criceti. Non sono pesci rossi. Per quanto possa
sembrare strano, sono una cosa molto diversa. Però spiegare cosa
sono di preciso è difficile, sfuggono a qualsiasi definizione. Sono una
cosa che se non gli stai dietro, se non ti ci dedichi, cresce lo stesso.
Gi era andato a Bologna a trovare i suoi figli, mi ha telefonato
stamattina per dirmi Sai cosa ha detto Claudio ieri sera prima di
addormentarsi? Ho programmato il mio futuro, manca solo il nome
della scuola media, poi il classico, poi la Paolo Grassi a Milano, poi
farò l’attore, poi andrò in pensione, poi morirò all’Ospedale Maggiore
dove sono nato.
– Sí. Ecco. Oggi ho parlato con la tua prof di italiano. (Non potevo
farne a meno, visto che mi aveva convocato).
– Ha detto?
– Il problema non è tanto quello che ha detto rispetto al tuo
rendimento, quanto semmai il fatto che mi pare intendesse dire che
questo tuo rendimento evidenzia dei problemi che
– Cioè?
– Cioè, mi sembra che lei volesse comunicarmi il fatto che non
capisce bene, quando sei in classe, a cosa pensi e se te ne frega
qualcosa di quello che succede, dato che, a quanto mi dice, tu,
durante la lezione, ti estrani completamente e, a quanto mi dice,
sembri stare in un mondo tuo che lei non riesce a immaginare che
mondo sia, che però non sembra essere, a quanto mi dice, lo stesso
mondo nel quale stanno lei e tutti gli altri tuoi compagni di classe.
(Stai sul pezzo).
– Che cazzo dice?
– Dice che tu, durante la lezione, per esempio, fai dei disegni.
(Porcatroia).
– Disegni? Che disegni?
– Questi (tiralo fuori, tiralo fuori dalla borsa). Sí. Mi ha dato questo
foglio, per fare l’esempio dei disegni che fai. Dice che l’ha preso
dalla prima pagina del tuo quaderno. (Belli, però, questi disegni,
forse avrei dovuto insistere perché facessi l’indirizzo artistico ma tu
non volevi perché dicevi che fare gli artisti è da sfigati, portando me
a riprova del fatto che avevi ragione, dicendo che tu da grande volevi
fare un lavoro dove si guadagna tanto. Quale lavoro per esempio? Il
politico corrotto).
– Non li ho fatti io. Sono di Lupo. Era il quaderno di Lupo. Lo
stavo usando perché non avevo un quaderno.
(Uno a zero).
– Bene. Comunque, non è di questo che stavamo parlando. La
tua professoressa dice anche che tu hai detto che ti eri rotto le palle
che per il Giorno della Memoria si leggessero cose sull’Olocausto.
(Calma). Perché hai detto una cosa simile? Per provocazione?
– No.
– Perché allora l’hai detto? (Calma, calmati). Perché dici queste
cose che le persone che non ci conoscono
– Ho detto solo che è una palla. Ovvio poi che vi lamentate
dell’antisemitismo. Rompete i coglioni. Si potrebbero anche leggere
altre cose, non ci sono solo gli ebrei che sono stati vittime, cazzo,
allora se dovessimo leggere cose su tutte le vittime sai che palle.
– Sí. (Cosa stavamo dicendo? Non mi ricordo piú cosa dovevo
dire all’inizio del discorso). Ma tu sei ebreo. Il Giorno della Memoria
è un giorno importante perché di cose cosí gravi come l’Olocausto
non ne sono successe poi tante nella storia recente (mah) ed è
importante stare in guardia e ricordare per evitare che possa
ricapitare in futuro, tenendo conto che l’antisemitismo è latente
(saprà cosa vuol dire latente?) e viene fuori sempre in situazioni di
crisi, come ad esempio questo periodo, perché gli ebrei sono
sempre stati, da sempre, insieme naturalmente ad altre minoranze,
come gli zingari o gli omosessuali, ad esempio, perseguitati, nei
momenti in cui la gente aveva bisogno di prendersela con qualcuno
per sfogare le proprie paure, le proprie frustrazioni, la voglia di
arrabbiarsi e trovare un capro espiatorio (capro espiatorio, ecco la
parola che cercavo), per sentirsi al sicuro. E quindi il fatto di
ricordare questa cosa orrenda che è successa, neanche tanto tempo
fa, non duemila anni fa, non trecento anni fa, ma solo settanta anni
fa (non è, adesso che ci penso, una buona ragione, ma non
t’interrompere, vai avanti), è importante per tenere alta la soglia di
guardia, per far sí che la gente, ricordandosi, non ricaschi nella
tentazione di farci fuori tutti. Noi e gli omosessuali e gli zingari. E
anche gli altri che rischiano di fare una fine simile.
– Mangiamo?
– No.
– Ho fame.
– Stiamo parlando. (Lo stai perdendo, il pippone sul Yom Ha-
Shoah dovevi stringerlo).
– Di cosa mi devi ancora parlare?
– Del fatto che tu hai delle responsabilità rispetto a quello che fai,
a quello che dici, a quello che non fai eccetera.
– Ma io ho detto quello che pensavo.
– Hai detto una cazzata.
– Secondo te. Secondo me no.
– Secondo me hai detto una cazzata. E non soltanto secondo me,
anche secondo la maggior parte delle persone (conformista del
cazzo, che cazzo dici?) Cioè hai detto una cosa molto provocatoria e
molto grave. E allora, se la pensi davvero, questo mi preoccupa.
– Perché ti preoccupa. Non ti preoccupare.
– Come pensi di fare se ti bocciano?
– Perché dovrebbero bocciarmi?
– Perché hai sei insufficienze, per esempio. Gravi.
– Non so.
– Non sai? Vuoi una proposta?
– No.
– Non vuoi che ti dica come secondo me potresti fare se non vuoi
essere bocciato con sei insufficienze.
– No.
– Va bene. Fammi poi sapere tu, se a un certo punto senti di
avere bisogno di un aiuto o di un suggerimento o di qualunque cosa
possa occorrerti per far fronte a questo problema.
– Storia.
– Cosa storia?
– Se mi dai una mano.
– Vuoi una mano a studiare storia?
– Te l’ho detto. Cosa devo fare, ridirlo?
– Mangiamo, poi studi storia e poi ripetiamo insieme. (Come fa Gi
coi suoi figli, che qualche volta il giovedí li fa ripetere e qualche volta,
se capita, gli fa addirittura i compiti. Gi dice che non c’è niente di
male, allora io con te farò come fa Gi coi suoi figli, ti aiuterò a
ripetere e sarà bellissimo).
– Ma’, ora che ci penso, me la ripasso da solo, storia, se mai.
– Adesso non vuoi piú che ti aiuti? Hai appena detto che ti serviva
un aiuto e già non lo vuoi piú?
– Sí, ma chiedo a nonna.
– E cos’avrebbe piú di me nonna, a spiegare storia?
– La sa spiegare.
Sicuro
1 Talvolta non potendo o non volendo sembrare sfrontata, aggiunge alle tue
vivande qualche uovo, dichiarandolo solennemente bene comune.
2 Nesquik, insalata russa in vaschetta, capesante precotte, latte
condensato, burro d’arachidi, biscottini vari, blocchi da due chili di parmigiano
reggiano biologico doc, pizzette.
Fai schifo a scuola
1. Cara mamma,
2. Cara mamma,
3. Cara mamma,
se trovi che il personaggio di Macchianera non ti rappresenti, se ti pare di non
essere cosí nella realtà e che il ritratto che emerge di te sia ingeneroso, poco
fedele, grottesco e caricaturale, chiedi in giro, a quelli che ci conoscono.
Chiedi un po’ e senti cosa dicono.
– Suo figlio. Dunque vediamo. Sí. Suo figlio come le dicevo non ci
siamo.
– Sí, immagino che la situazione non possa essere molto
cambiata dopo quel due e l’altro compito di recupero che mi pare
fosse un tre?
– Infatti. Non è cambiata molto.
– Mi chiedo come sia potuto succedere. Voglio dire. Non voglio
dire. Voglio dire mi chiedo perché. Certo che prendere un due vuol
dire proprio che uno non sa niente, dato che comunque lui va a
ripetizione tutte le settimane mi chiedo come sia stato possibile.
Magari potrebbe essere stato anche un problema di emotività.
– Emotività?
– Magari.
– Mah non so. Io suo figlio non lo conosco neanche. Però mi dava
piú l’impressione di uno che non ne sapeva niente di niente e non gli
piaceva e non gli interessava proprio.
– Sí a volte può dare l’impressione.
– Non direi a volte. Direi sempre.
– Può dare quell’impressione. Tuttavia credo che sarebbe
importante per lui poter avere una possibilità di recupero. Pensavo
magari se lui avesse questa possibilità di recupero sarebbe forse un
segno, una direzione nel senso di una direzione. E di una disciplina
che forse potrebbe dargli una mano a capire che nella vita le cose si
devono conquistare voglio dire. Un segno che la fatica paga, che
con la fatica, se uno si affatica (…)
– Ecco appunto. Dà proprio l’impressione di uno che la fatica,
come le dico, certo io non lo conosco come lei, si direbbe che stia in
un mondo suo, in un mondo come dire (…) non è uno che disturba.
– Infatti. Non è uno che disturba.
– No no. Non disturba mai. È piú come (…) estraniato?
– Eppure come le dicevo quel giorno che ha preso quel due me lo
ricordo molto (…) come colpito.
– Eh.
– Sí. Me lo ricordo proprio che era. Non so. Io non sono di quelle
madri che vanno a parlare per insistere con i professori perché gli
promuovano il figlio, perché anzi io sono la prima a rendermi
perfettamente conto. Però pensavo che nel caso lui dimostrasse di
sapere bene questo teorema, questo teorema (…)
– Il teorema del resto e Ruffini, sí. La divisione di un polinomio.
– Appunto.
– Infatti.
– Se lui si mettesse lí di buzzo buono e dimostrasse in
un’interrogazione a tappeto su tutti questi teoremi di essere al
corrente di tutto. Secondo lei potrebbe rimediare?
– Perché no. Sí.
– Quindi secondo lei potrebbe essere una cosa da prendere in
considerazione?
– Se lui si presenta che sa.
– Perché non mi sembra stupido magari convincendolo a studiare
un po’.
– No no. Non sembra stupido. È piú come le dicevo, piú altrove.
– Infatti. Allora io potrei parlarne con lui e dirgli di mettercela tutta
per questa interrogazione su tutto.
– Va bene.
– Perché ho la sensazione che questo per lui sia un momento di
forte maturazione. Lo sento piú maturo. Piú triste. Piú maturo.
– Guardi, io le lascio le fotocopie degli ultimi compiti che come
vede sono abbastanza (…)
– Vedo.
– Cioè, è evidente che qui manca completamente un passaggio e
qui non c’è.
– In brutta? Forse l’ha fatto in brutta perché mi pare che lui abbia
dei problemi poi nel ricopiare, quindi magari guardando la brutta
chissà che delle volte non si trovi il passaggio che magari si è poi
dimenticato nell’emozione di riportare magari per mancanza di
tempo.
– Non c’è la brutta. Suo figlio non consegna brutte.
– Non l’ha consegnata la brutta? Strano, mi sembrava di ricordare
che avesse detto che l’aveva consegnata.
– L’ha consegnata come bella.
– A volte anche a casa fa i suoi calcoli tutti nella testa. È
impressionante. Invece di scriverli come facciamo tutti lui si fa tutti i
calcoli in testa e poi scrive il risultato, è impressionante.
– Veramente.
– Allora gli dico d’ora in poi che i calcoli li metta giú sul foglio,
anche per controllarli nel caso fossero sbagliati.
– Ottima idea.
– Ha questa facilità a farsi i calcoli mentalmente, non so da chi
l’abbia presa perché io non ho alcuna capacità di calcolo mentale,
uso le dita. Lui non le ha mai usate le dita. Neanche da piccolo. Ha
sempre avuto questa capacità incredibile coi calcoli mentali.
– Già. Gli dica che se li scrive in brutta e li consegna è meglio.
– Certamente.
– Ha parlato anche con gli altri colleghi, cosa dicono?
– Con la professoressa di italiano ho parlato l’altra settimana.
– Cosa dice?
– Problematico intelligente (protonazista qualunquista).
– Infatti. Come le dico suo figlio sembra davvero problematico. Un
enigma.
– Magari fa delle riflessioni sue, ha tutto un modo suo di affrontare
le cose, molto personale, anche a casa ci sono delle volte che è
incredibile come non
– Adesso mi spiace interromperla ma devo tornare in classe.
– Allora per l’interrogazione di recupero posso dirgli che si prepari
bene bene per il programma con il teorema del resto e Ruffini e tutto
e che lei ha detto che se si prepara bene bene è disposta a farlo
recuperare e a togliergli il due?
– Facciamo cosí.
Cosa c’entra il matrimonio con il pollo arrosto?
L’altro giorno sono andata alla tua scuola per il colloquio con la
Buldoni, per l’Inghilterra. Me l’hai ripetuto tre volte perché tre volte ti
ho chiesto Buldoni o Buldone? Camminavo e mi dicevo Ci sarà il
mastino dietro il vetro che non ti fa entrare se non scrivi l’ora di
accesso e chi vuoi incontrare e perché, manco fosse un carcere di
sorveglianza speciale, butterò lí Buldoni Buldoni, sono qui per
l’incontro per l’Inghilterra con la professoressa Buldoni, come se io e
la Buldoni fossimo due che ci si conosce da un bel pezzo.
Camminavo e ha cominciato a piovere ma io sempre Buldoni
Buldoni non farti figure di merda.
Ero a meno di un chilometro dall’edificio e pioveva sempre piú
forte, il telefono ha cominciato a suonare e non lo trovavo, ho infilato
il braccio nella borsa in cerca con la mano della cosa piatta e
vibrante sempre dicendomi Buldoni Buldoni Buldoni, sono quelli
della Vodafone, dicono che (pioveva fortissimo) solo per me e per
altri pochi clienti relax c’è una proposta relax molto conveniente per il
fisso, Non me ne frega niente, ho detto, sarà anche una, Buldoni
Buldoni, proposta interessantissima, ma adesso piove e sto tenendo
il cellulare tra l’orecchio e la spalla e non posso dimenticarmi Bul, Le
dico, in questo momento non posso, sí una riunione di lavoro,
Buldone, mi richiama tra un paio d’ore per favore Buldo-ni?
Buldone o Buldoni. Buldoni Buldoni Buldone Buldone.
Non posso arrivare dal mastino e dire il nome sbagliato. Tutte le
madri sapranno il nome della professoressa perché sono mesi che
parlano del viaggio in Inghilterra e si telefonano e si mandano mail.
Io con la Buldoni Buldone non ci ho mai parlato perché ero via in
tournée e le relazioni con la Bulda le aveva intrattenute magno cum
gaudio Macchianera. Tornata dalla tournée avevo poi detto Grazie
Macchianera grazie, sono tornata, e adesso con la Buldroni ci parlo
io. E Macchianera Figurati, ha detto, va bene (sottointeso Tanto chi
gliele fa lavare le felpe in tintoria e le mutande e le magliette e gli
compra la cocacola e le bistecche coll’osso e il parmigiano reggiano
biologico?).
Entro a scuola tutta bagnata e vado dritta per raggiungere un
gruppetto di donne dal passo sicuro, Saranno loro, penso, quelle
della Buldra, altre mamme come me, ma il mastino mi blocca: Scusi
dica dove va? Mi fermo, faccio un sorriso calmante e dico, come se
fossi un’habituée: Ho l’appuntamento per l’Inghilterra con la
professoressa Bull/dnone/i. Chi? dice il mastino dal vetro.
L’Inghilterra, dico io, facendo cenno, come per dire sicuramente è di
là. Là, dove stavano andando le altre madri, di cui vedevo ormai
soltanto i culi dondolanti e le schiene.
– Vuole andare anche lei alla riunione con la professoressa
Buldoni?
– Sí, – ho detto, come se mi avesse chiesto se volevo sposarlo.
– Scriva qui nome cognome ora di accesso e la ragione della
visita.
Scrivo tutto tranne l’ora. – Scusi, – dico garbata, – mi saprebbe
dire che ore sono?
– Eh? – dice l’inutile guardiano del nulla, dal suo vetro.
– L’ora, – dico, – me la potrebbe cortesemente indicare.
– Le cinque e cinque, – dice lui, come se ci fosse qualcosa di
male in quel secondo cinque.
Ma poi mi lascia entrare.
Entro nello stanzone, tutte le mamme sono già lí, è come un
sabba, la Buldra con un plico in mano.
Mi metto su una sedia vuota che però, mi dicono, è prenotata.
Allora sto in piedi. Tutte le mamme hanno già la loro fotocopia
esplicativa dell’orario di partenza e di ritorno, cose da portare,
documenti fotocopiati, carta d’identità valida per l’espatrio e
tesserino sanitario sia originale che fotocopiato.
Faccio un cenno di simpatia come dire Ehi Bulda non ci siamo
mai viste ma sono io quella vera, non Macchianera, bello conoscersi,
nice to meet you, sgancia anche a me la fotocopia. Lei mi guarda,
stringe un po’ gli occhi come se fossi troppo lontana per vedermi
distintamente. Mi guarda come si guardano le barche all’orizzonte
che non si sa se si avvicinano o si allontanano.
– Il suo cognome me lo ricorda? – dice. Sempre con gli occhi da
barca lontana negli occhi miei.
– Il cognome di mio figlio, vuole dire, perché abbiamo cognomi
diversi, perché lui ha il cognome del padre mentre io ho il mio
cognome diverso. Siamo diversi. Siamo tutti diversi in famiglia
(Brava, confondile ancora di piú le idee).
Ma la Bulloni fa un gesto da prestigiatore e dal plico estrae, come
una magia, il foglio col tuo nome. Di Maggio Mino.
Prendo il foglio e mi metto a leggere forsennata quello che ormai
tutte le madri hanno già mandato a memoria. Per fare domande
pertinenti nell’ora delle domande. Per fare domande che facciano
capire che, a) mi preoccupo che la famiglia che ospita mio figlio/a
abbia il bidet e il miscelatore dei rubinetti, b) mi preoccupo che mio
figlio/a non faccia amicizia con italiani o peggio ancora spagnoli che
si sa che vanno lí per cazzeggiare e basta, ma solo con inglesi
madrelingua certificati, c) che mio figlio/a non si diverta
eccessivamente, d) che mio figlio non beva alcolici e vada a dormire
entro le dieci per poter affrontare la giornata di studio intensivo
riposato e competitivo quanto basta, e) che mio figlio/a non venga
inserito in una classe di studio troppo facile, f ) che mio figlio/a non
venga inserito in una classe di studio troppo difficile ma comunque
meglio troppo difficile piuttosto che troppo facile, g) desidero che mio
figlio/a vinca qualcosa o sia il migliore in qualcosa o si distingua per
qualcosa o venga menzionato per qualcosa o sia il preferito dalla
professoressa o salvi la vita a qualcuno o qualche sua impresa
memorabile rimanga comunque impressa nell’inconscio collettivo del
gruppo, h) che mio figlio/a , soprattutto, non si diverta. È un viaggio
studio.
Questo giovedí Olga ha portato una torta fatta da lei. Un tre quarti
di crostata. L’ho fatta per il compleanno di mio nipote, ha detto, è che
la marmellata ai bambini non piace piú, allora ho detto a mio fratello
Per buttarla via me la riporto a casa, e lui l’ha incartata, ne avevano
sai quante. Ho pensato di portarvela perché se me la mangio tutta
da sola finisce che divento un baule. C’è anche il thermos con il tè
verde, se volete, l’ho messo sul tavolo.
Abbiamo preso tutti un po’ di crostata, non era cattiva, ma
pizzicava. C’è qualcosa che pizzica, dentro, ho detto a Olga. Mi sa
che è il lievito, ha detto lei, se ne metti troppo pizzica la lingua, mi sa
che è quello, ha detto.
Poi abbiamo iniziato, erano quasi le sette e Olga non voleva che
per parlare della crostata si sprecasse tempo.
Ha cominciato come sempre Maria, ha detto che Otto da qualche
settimana si vede con una ragazza e quando lei è di turno la notte se
la porta a dormire lí. Per me va bene, ha detto Maria, l’ho conosciuta
pure questa ragazza, è carina, educata, si chiama Agata, gli ho detto
che per me va bene che se la porti a casa, piuttosto che vadano a
scopare in situazioni pericolose, capito, chennesò. Ma non per
sempre, gli ho detto. Cioè non è perché sono gelosa o possessiva, è
solo che io me ne sono andata di casa presto, mi sono arrangiata da
sola, alla fine quando ti trovi una, non so, se si trovasse un lavoretto
al limite potrebbe avere un posto suo, anche per scopare, sarebbe
piú giusto, per come la vedo io.
I perfettini non seguivano, cercavano in tutti i modi scuse per
distrarsi. Luigia continuava a guardarsi un tallone senza motivo.
Olga ha detto che secondo lei invece era molto positivo che Otto
non avesse paura di farle conoscere la sua ragazza e la portasse a
casa, Vuol dire che si fida di te, ha detto a Maria.
Era sotto gli occhi di tutti che i perfettini non parlavano volentieri di
sesso e manco ne volevano sentir parlare.
Lei, Luigia, dopo un’occhiatina al marito e una carezza alla
borsetta, ha detto che per il momento i loro due figli sono molto
impegnati in altre attività, e per adesso non si preoccupano d’altro, e
che comunque sí, secondo loro era molto positivo quello che aveva
detto Olga (che lei non aveva sentito essendo troppo impegnata a
distrarsi col suo tallone per paura delle cose di sesso di Maria). Era
genericamente positivo.
Loro dicono sempre che secondo loro Olga ha ragione, di
qualsiasi cosa si parli. Secondo me, dice la perfettina, ha
abbastanza ragione Olga, oppure Sí, penso che Olga abbia detto
una cosa giusta.
Basta che non la metta incinta, ha detto Maria.
Io mi sono sentita invidiosa di Maria, di quel suo figlio che non
aveva il tuo pudore. Ho detto a Maria che secondo me doveva
essere contenta, che almeno adesso Otto non rischiava piú di
essere arrestato.
Abbiamo riso, abbiamo bevuto ancora del tè.
Volevo dire qualcosa anch’io, su questo periodo, ma non volevo
che si pensasse che di te non so quasi niente, che tra noi si parla
per lo piú in cucina, per lo piú di cose di cucina o al limite, sempre in
cucina, di cose di scuola.
Allora ho parlato delle orecchie.
Ho parlato molto a lungo delle orecchie di nonna Lea. Era l’unica
cosa che mi veniva in mente.
Ho detto che quando ero piccola il papà di Macchianera ci
portava, me e zio Mario, alla casa di riposo della Comunità ebraica,
a baciare sua mamma Lea, la nonna bis. Nonna Lea era
vecchissima, non aveva quasi capelli ma quelli che aveva erano
bianchi come non si poteva immaginare, un bianco vero, e quando
parlava non si capiva niente, sputava, forse per colpa del fatto che
non aveva i denti, non so, però le piaceva baciare i bambini ed
esserne baciata, e aveva delle orecchie enormi. L’enormità delle
orecchie di nonna Lea: era quello, che mi tornava in mente in quel
momento.
Pensavo al tempo.
Al tempo che passa.
Pensavo alla crescita.
Pensavo che da un certo punto in poi, nella vita, non cresciamo
piú.
L’unica cosa che continua a crescere sono il naso e le orecchie.
Perciò, ho detto, forse tu di me, quando sarai a tua volta diventato
adulto e avrai avuto dei figli e dei nipoti, la cosa che ti ricorderai di
piú, di me, saranno probabilmente le orecchie.
– Le orecchie? – ha detto Olga, e si è messa a ridere senza molto
rumore, ma con le lacrime.
Olga ha detto che per quella sera le sembrava che fossero venute
fuori delle cose interessanti, che era contenta.
Ha chiesto se volevamo un pezzo della sua crostata da portare a
casa, ma nessuno l’ha voluta. Era troppo piccante.
Io e Maria siamo andate a berci una birra. E lei mi ha detto Lo sai
che la Tennent’s è l’unica birra che non gonfia la pancia?
Teoricamente te ne puoi anche fare dieci, perché la Tennent’s è
diversa dalle altre birre, non ha i lieviti. È dei lieviti, la colpa della
pancia.
Poi mi ha detto Secondo me dovresti farti i buchi nelle orecchie,
dato che mi pare che c’hai la fissa.
Ma io non ho la fissa delle orecchie, ho detto a Maria, per niente.
Il meno due
Se sei stato bocciato i tuoi voti non vengono piú, come una volta,
esposti sul tabellone. Ragioni di privacy.
La riga rimane bianca e alla fine della riga scrivono: Non
ammesso. Per avvisarti telefonano a casa, per dire a un genitore Si
prepari spiritualmente che quando andrà a vedere i risultati, sul
cartellone accanto al nome di suo figlio non troverà niente.
Se sei stato promosso i voti te li scrivono, di fianco ci scrivono
anche Ammesso, ma non ti telefonano a casa per fare le
congratulazioni. Almeno non nella scuola pubblica.
Se sei rimandato i voti a destra del tuo nome non ci sono, di
nessuna materia, neanche di quelle in cui hai avuto la sufficienza,
ma a differenza dei bocciati, invece che Non ammesso, all’estremità
destra scrivono Giudizio Sospeso. E non ti telefonano a casa.
Quindi, non essendoci state telefonate, sono andata serena alla
tua scuola a vedere la tua striscia bianca.
Credo che la striscia bianca sia un invito alla riflessione, perché al
posto di quel bianco uno possa mettere i propri pensieri.
Un giudizio sospeso è una cosa attaccata a un filo, come la spada
di Damocle, una cosa che ti spenzola sulla testa e può cadere o non
cadere, non si sa. Questo è stato il mio pensiero quando ho visto il
Giudizio Sospeso in fondo al bianco a destra.
Professori non ce n’erano, né nessuno, lí intorno, preposto alle
delucidazioni. Quelli dei figli con Giudizio Sospeso si aggiravano,
come me, ci si riconosceva dallo sguardo meno fiero degli altri,
dall’andatura meno determinata, da un andare vago.
Finché non è corsa voce che le sospensioni di giudizio venivano
delucidate nei sotterranei dell’istituto, in una costruzione che non era
quella dell’entrata, ma piú di fianco, in un padiglione a parte
raggiungibile tramite un cunicolo di congiungimento. Allora con due
genitori abbiamo intrapreso la discesa. Non era male perché era una
giornata calda e là sotto, lungo i corridoi ipogei, faceva un po’ piú
fresco. L’aula 46A , che era in un distaccamento di un corridoio del
padiglione distaccato, era l’aula dove venivano fornite delucidazioni
sui Giudizi Sospesi della tua sezione e della tua classe.
Una madre che era con me nella discesa, dritta come me, aveva
da raggiungere l’aula 31B , l’abbiamo persa quasi subito. La maggior
parte del gruppo si è poi dispersa in altre aule, con altri cartelli,
sempre recanti denominazione alfanumerica, che non aveva però,
tutti l’avevamo notato, alcuna connessione semantica né con la
sezione né con la classe di pertinenza.
Erano denominazioni alfanumeriche date cosí, un po’ a caso.
Sono rimasta sola.
Ho camminato ancora un po’ fino quasi alla fine del corridoio e ho
trovato come gli altri la mia aula, la 46A . La porta era aperta, mi sono
fermata all’ingresso per non disturbare, perché dentro c’era un
tavolo con una madre seduta, con una professoressa anche lei
seduta. La signora era molto arrabbiata con la professoressa perché
sua figlia era stata rimandata di latino. La guardava in un modo
come per farle capire che non la stimava per niente, che non
stimava nessuno e che nei confronti di sua figlia si era commesso un
grave errore. Che brava mamma questa, mi dicevo.
Quando ha concluso l’arringa è uscita via come una folata di
vento gelido e mi pare che nell’incrociarmi non abbia neanche
accennato un saluto.
Era il mio turno e allora sono entrata. Da subito ho percepito che
era come se fossi fuori tempo massimo. Come se tutte le
rimostranze a disposizione fossero già esaurite. Rimanevano solo
dei Sí e dei Capisco e dei Certamente.
Faceva caldo e la professoressa era visibilmente provata dalla
discussione con la mamma precedente. Mi ha guardata, aveva uno
sguardo di grande sofferenza ma anche vagamente minaccioso,
come a dire Non ci si metta anche lei.
– Suo figlio è Mino Di Maggio?
– Sí, – ho detto. – Si chiama proprio Mino, non è un diminutivo
(non me l’ha mica chiesto). Sí (ho già detto due sí).
– Bene, – ha detto la professoressa, – diciamo che Mino ha fatto
grandi progressi, significativi, incoraggianti, ma non ancora del tutto
sufficienti. Si è notato, con piacere, che è molto maturato nell’ultimo
periodo.
– Maturato, certamente, – ho detto (e un Certamente è andato).
– Ha migliorato i rapporti con la classe, ha socializzato, insomma
direi che siamo sulla strada giusta. Però resta il fatto che non studia.
– Capisco, – ho detto (un Capisco, un Certamente e due Sí, si va
alla grande).
– In virtú del suo miglioramento, – ha detto la professoressa, – si
è comunque pensato di limitarci a due materie. Per aiutarlo. Per
consentirgli di maturare ancora di piú.
– Certamente, – ho detto. Non volevo che pensasse che avrei
cominciato anch’io la manfrina di quella prima di me, perciò ho detto
un altro Sí, altri due Capisco e un ultimo, definitivo, Certamente.
Mi ha dato un foglio, la professoressa, con il programma e gli
esercizi di recupero. Italiano e matematica.
– Ci saranno i corsi di recupero. Cominciano la prossima
settimana. Ogni corso dura una settimana, – ha detto.
– Sono molto intensivi, – ho detto.
– Non sono retribuiti, – ha detto la professoressa.
– Certamente, capisco, – ho detto, alzandomi.
Poi le ho stretto la mano e sono uscita con i fogli sotto braccio.
Arrivata alla porta però non sapevo se andare a destra o a sinistra.
Sono tornata nell’aula e ho chiesto alla professoressa se poteva
dirmi come si faceva a tornare alla costruzione principale.
– Vuole dire al padiglione A.
– Quello da cui si esce di solito, – ho detto.
– Dunque, – ha detto la professoressa, – deve prendere qui a
sinistra, poi non al primo corridoio ma al secondo giri a destra, poi di
nuovo a destra sempre dritto, quando vede una porta azzurra non la
prenda anche se c’è scritto uscita, vada ancora avanti, troverà un
altro corridoio, a sinistra, non può sbagliare perché a destra non c’è
un altro corridoio, prosegua lungo quel corridoio e troverà le scale di
risalita.
– Certamente, sí, – ho detto.
E mi sono persa.
Quando ho trovato l’uscita sono andata dritta in piazza, sono
entrata in chiesa, ho acceso un cero.
Appena entrata in casa ti ho detto che avevi due materie, non eri
stupito, lo sapevi già. Sapevi già tutto.
Hai preso i fogli, li hai guardati, li hai messi sul tavolo della cucina
e hai continuato a fare quello che stavi facendo da prima che
entrassi in casa: raffreddarti una lattina di cocacola con lo spray
refrigerante al fluorometano che avevo comprato alla parafarmacia
un giorno che Gi si era slogato una caviglia.
Cher monsieur Guettà
Questa volta avevo detto Comincio io, era troppo tempo che si
sacrificava Maria.
– Prego, – ha detto Olga, allora l’ho guardata meglio, si era
schiarita il rosso dei capelli e aveva una maglia di lycra che le
metteva in evidenza il seno forte, ocra. È strano come certe persone
si preparino a esser guardate, ho provato per lei una specie di
tenerezza, come se Olga mi apparisse per la prima volta in veste di
essere uma no. Di lei sola non sapevamo niente, se avesse dei figli,
un amore.
Ho preso un respiro, ho detto: – Dunque, non bisogna pensare
che loro siano come li vediamo noi, perché noi, essendo i loro
genitori, non percepiamo che una minuscola porzione di quello che
sono.
Siccome nessuno obiettava né mi contraddiceva, ho continuato: –
Inoltre i genitori non sono fatti per lasciare un buon ricordo.
Ho fatto una pausa guardando Maria che mi pareva stesse
sillabando quello che dicevo, senza sonoro, come quando si assiste
all’interrogazione di un compagno di classe e si pensa Al posto suo
avrei potuto esserci io. Ho ripreso coraggio e ho detto ancora: –
Ossia, noi giochiamo un ruolo, non dobbiamo restare, dobbiamo
andarcene. Cosí, – ho aggiunto, – non mi ricordo piú cosa stavo per
dire, – ho detto. (Hai fatto cadere tutto). – Era qualcosa sul ruolo.
Era qualcosa sul fatto che un genitore dev’essere lí per farsi passare
sopra. Sí, mi pare che fosse proprio cosí. Un genitore, un bravo
genitore, dev’essere disposto a farsi camminare sopra e
oltrepassare. Perché è naturale, è la natura che lo vuole. I figli, per
diventare adulti, devono, a un certo punto, passare proprio sopra i
genitori, come un trattore. (Ci siamo, non fermarti). E poi qui al
percorso, negli ultimi tempi si è insistito molto sul concetto chiave
che noi siamo una funzione. Fuori sarete anche persone, insegna lo
Specialista, avrete anche dei sentimenti, un qualche amor proprio,
ma mentre siete coi vostri figli, nella vostra forma genitoriale, lí, siete
solo funzioni, Funzioni Genitoriali. Con i pantaloni o l’ombretto sulle
palpebre, ma sempre e solo funzioni.
I perfettini facevano di sí con la testa, loro sapevano già di essere
funzioni essendo venuti solo per un ripasso.
– Detto questo però io, – ho detto, – mi rendo conto, adesso,
faccio fatica (no, non adesso, dài). Ho sempre fatto fatica (mollala
immediatamente) all’idea di essere una funzione, lo devo
ammettere.
Olga si lisciava i capelli nuovi e se li metteva dietro le orecchie,
sembrava dispiaciuta del mio cul de sac.
– Io devo dire, – ho detto, – che non so come arrendermi a
quest’idea di farmi passare sopra dal trattore, pur sapendo che è
naturale e positivo, e che questo trattore è nato da me. Uno perché
nasce da me adesso ha tutti i diritti?
– Come tu ce li hai avuti, – ha detto Olga, – nei confronti di quelli
da cui sei nata. Se non l’hai sfruttato, questo diritto, di passar loro
sopra, come un trattore, sono problemi tuoi. Avresti dovuto farlo, per
crescere bene, senza complessi, per diventare una persona
normale. Un adulto normale.
Aveva quella maglia di lycra assurda, era assurda, tutti noi, seduti
lí, eravamo improvvisamente assurdi.
Dio, ho pensato, ecco perché non sono normale: non sono stata
un buon trattore.
Avrei dovuto passare un po’ meglio sopra Macchianera, passare e
ripassare avanti e indietro da piccola per essere un po’ piú normale
da grande. Coi cingoli.
– Scusa se t’interrompo qua, – ha detto Olga, – ma a questo
proposito vorrei leggere una cosa per tutti, – ha sgrufugnato nel
borsone di lana qualche secondo, ne ha estratto una brossura senza
copertina e si è messa a leggere: «Se siete genitori voi non potete
continuare a vivere la vostra vita come se i vostri figli fossero vostri
amici o vostri fidanzati o i vostri vicini di casa. I vostri figli, – sto
leggendovi pagine ancora inedite del Manuale dello Specialista
Tedesco 3, – sono figli vostri. Per tale ragione vi si richiede una
specie di passo indietro, una specie di abdicazione. Come se voi
adesso, voi intesi come esseri umani, non aveste piú propriamente il
diritto di essere voi stessi interamente, ma aveste invece il dovere di
diventare qualcosa di meno solido, di piú decentrato, di piú
calpestabile. I vostri figli, – ha letto Olga, – hanno bisogno di
confrontarsi con qualcuno che rappresenti l’ostacolo, ma non sia un
reale ostacolo; hanno bisogno di affrontare una prova d’iniziazione
contro un antagonista forte, ma battuto in potenza, e questo
antagonista, spero sia ormai chiaro, siete voi».
– Bello, – dicevano i perfettini, commossi, come se avessero
assistito alla lettura di un pezzo di Isaia.
– Infatti loro, – ha aggiunto Luigia guardando prima il marito, poi
Olga, poi nella mia direzione, – devono arrivare a sentirsi persone
intere, complete e realizzate, e per arrivarci hanno come questo
bisogno, questo istinto, necessario. E questo dovere, di calpestare.
– Calpestare non è la parola esatta, – ha corretto bonaria Olga, –
perché in tedesco è un’altra parola. È Schritt, da cui anche der
Schritt, Passo, ossia, compiere un passo, andare oltre, andare
avanti passando sopra.
Passando sopra, annuivano seri i perfettini, come se fosse proprio
quello che stavano per dire loro.
– Come si sa, – ho ripreso, – nessun animale può sopravvivere in
natura senza essere in un certo senso spietato. Un leone, un
ghepardo, non possono permettersi di avere dei problemi di
coscienza nei confronti, per esempio, di una gazzella, perché sono
chiamati a mangiarsela. Il ruolo della gazzella è un ruolo
fondamentale nella vita di un leone o di un ghepardo, tuttavia non è
un ruolo sentimentale. Il leone non ha nel suo dna un amore
empatico nei confronti della gazzella e neanche il ghepardo, o il
puma. Non ce lo devono avere. Per i nostri figli è un po’ la stessa
cosa, – ho detto (vai benissimo che questo esempio del puma e
della gazzella è stato geniale). – Se non volete che i vostri figli
restino per sempre chiusi in un bozzolo, avvoltolati nel vostro ego
soffocante, accogliete l’idea che a un certo punto vi passino sopra
con i loro passi. Facciano alcuni passi sopra di voi. Sulla vostra
pancia, sulla vostra faccia, mi pare di aver capito, da quello che
leggeva Olga poc’anzi. Insieme al fatto che, come dicevo prima, non
siamo fatti per lasciare un buon ricordo. Anzi. Un buon genitore è
fatto per sparire, come la carta biodegradabile.
Biodegradabile, hanno ripetuto Luigia e Carlo, la parola era troppo
bella per lasciarmela dire da sola.
– Bravi, – ha detto Olga – infatti, come ha messo in evidenza la
vostra compagna di percorso, il titolo dello scorso incontro, non ve
l’avevo detto per non condizionarvi, era appunto Genitori
Biodegradabili. Biologisch abbaubare Eltern.
– Biologisc ab baú baren, – abbiamo ripetuto insieme un po’
stentati.
– Significa, – ho spifferato all’orecchio di Maria, – che dobbiamo
rassegnarci a sparire?
Lei ha alzato le spalle e mi ha guardata come dire Dopo ne
parliamo.
– Allora per la prossima volta provate a fare a casa, con i vostri
figli, questo esercizio di quasi sottomissione: la gazzella, come si è
giustamente detto, non si sottomette al ghepardo, ci mancherebbe,
non si sottomette neanche lontanamente. Però si concede a lui. Gli
consente di sbranarla. Lascia che la natura faccia il suo corso, voi
provate a fare lo stesso.
Maria, senza guardarmi, mi aveva tirato la maglia.
– Quindi, se ho ben capito, – ho ripreso, – il punto è che noi, nei
confronti dei nostri figli, non siamo il centro, siamo la periferia.
Dobbiamo accettare questo ruolo periferico, che è difficile. È come
se il sole dovesse convincersi di girare intorno a qualcosa che non è
lui (questa del sole è un po’ tirata, non ne avevi un’altra?). Noi siamo
al percorso appunto per renderci conto, per essere aiutati a renderci
conto, che non c’è niente di male a farsi un po’ da parte (cosa che
avrebbe dovuto fare, tra l’altro, Macchianera). Un’altra cosa che si è
capita, e concludo, è che noi fuori da questo ruolo genitoriale
saremmo anche liberi, ma qui in effetti non ho capito bene in che
senso (questo è quando uno non si sa fermare per tempo).
– Allora, – ha detto Olga (guardandosi le mani e anche un po’
annusandosele), – questo lo dico per tutti per l’ultima volta: il
sacrificio non esiste. Voi non vi dovete sacrificare per i vostri figli,
non dovete farlo. Voi dovrete tutt’al piú essere sbranati da loro. Ma
senza sacrificio. Se voi vi sacrificaste sareste presuntuosi e ignobili.
Il sacrificio, nel senso inteso dallo Specialista, è una forma subdola
di vessazione. Vi leggo per finire una delle sue massime piú famose:
«Un genitore che vota la sua vita ai figli, che rinuncia a se stesso,
che si abbrutisce e perde le proprie coordinate, è uno Arschfotze»,
cercatevi poi voi la parola, – ha detto Olga. – Non dovete immolarvi
perché dovete essere felici. Se non siete felici e soddisfatti di voi, i
vostri figli saranno infelici, si sentiranno colpevoli e non cresceranno
bene.
– Quindi dobbiamo essere felici? – ho interrotto. – Ma come
facciamo a essere felici facendoci anche passare sopra?
Olga si è portata un dito alle labbra e l’ha messo in un punto sulla
gamba, la calza di nylon. Aveva un filo tirato, una lieve smagliatura,
era lí che Olga aveva posato il suo dito appena bagnato, per fermare
la smagliatura con la saliva, altrimenti non l’avrei mai notata.
Ho spèn-to il Màc
staccàtolàprèsa
gli ho tòl-to-la-corre-nte-pèrsancírelasuarèsa
Hoarròtolatotút-to
fermàtocollaccèt-to
ilcàvosenestàvarròtolàtobellostrètto
Per alcuni giorni sei rimasto senza computer senza casse e senza
tastiera. Sapevi che erano sotto il mio armadio ma una qualche
forma d’istinto ti suggeriva di non tentare di recuperarli. Era un istinto
saggio.
Cosí, dopo quei cinque giorni, ci siamo finalmente seduti al tavolo
delle trattative.
E quello era il giorno del contratto.
Aspettava sul tavolo in cucina pronto per essere firmato da
entrambi.
Ci avevo lavorato tutta la notte per renderlo perfetto,
giuridicamente. Mi pareva di esserci riuscita. Avevo tralasciato le
cose piú marginali per battere sui fondamentali.
C’erano anche alcune madri sedute sul tavolo, con le gambe
incrociate sotto la gonna a pieghe, altre appoggiate al lavandino e
due ai fornelli.
Sul contratto avevo scritto un certo numero di regole basilari che
sarà nostro compito rispettare: in cambio, io porrò fine alla
requisizione.
Il primo punto era «Mai piú affermazioni razziste o leghiste od
omofobe o discriminatorie nei confronti di nessuno in questa casa o
a portata delle mie orecchie».
– Anche se le penso?
– Non importa quello che pensi tu dentro te stesso, importa quello
che esce dalla tua bocca. Per il momento.
Punto due. «Anche se le detesti e le vorresti sterminare in massa,
in questa casa non si userà mai il veleno per formiche».
Punto tre. «Ti sveglierai al mattino alle otto e mezzo, farai
colazione e metterai la tazza il cucchiaino e il bricco del latte nel
lavabo e comincerai a studiare per i tuoi esami di riparazione.
«Studierai tre ore poi ti riposerai. Poi mangerai. Metterai nel
lavabo il tuo piatto le posate e il bicchiere poi ti riposerai. Un’ora
massimo. Poi studierai altre tre ore. Poi ti riposerai. Poi cenerai.
Dopo cena metterai il tuo piatto le tue posate e il tuo bicchiere nel
lavabo e poi sarai libero di fare quello che piú ti piace. Ma solo fino a
mezzanotte. La notte non userai il computer, ma lo terrai spento e
userai invece la notte per dormire. E ti sveglierai il mattino alle otto e
mezzo e tutto come sopra».
Punto quattro. «La latta va con il vetro».
Punto cinque. «La carta sporca nell’indifferenziato».
Punto sei (aggiunto da te). «Non si usa il dentifricio di Mino».
Punto sette (aggiunto da te). «Non si canta Guccini in macchina».
È stato tutto veloce e si è svolto molto pacificamente. Abbiamo
firmato ogni pagina del contratto con le madri testimoni, commosse,
che mi davano, ardite, pacche sulle spalle.
Cosí dopo appena cinque giorni hai riavuto le tue cose, perché
non sono un padre padrone, ma una madre madrona.
Sono stati giorni bellissimi
– Non c’è un lieto fine nel rapporto fra una madre e un figlio
adolescente, – ha detto Gi mentre girava lo zucchero nella tazzina,
nel dehors del bar dove eravamo seduti. – Il lieto fine è la fine
dell’adolescenza.
Mi ha messo una mano sulla mano e ha sorriso.
Io guardavo una formica sul tavolino vicino alla mia brioche.
Trascinava una briciola gigante, grande due volte il suo corpo.
– Sai che le formiche hanno una forza pazzesca, – ha detto Gi, –
possono reggere trenta volte il proprio peso.
Ho sorriso anch’io.
– Dove la porta? – ho detto.
Abbiamo guardato la formica. A un certo punto ha lasciato quella
briciola enorme e ne ha preferita un’altra, piú piccola. Se l’è portata
giú fin dentro una crepa del tavolino del bar.
Dov’è la crepa del tavolino del bar? ho pensato. Da nessuna
parte, ho pensato.
Guardare una formica è come guardare le stelle, impone una
presa di coscienza, una sottomissione. Nell’istante in cui una formica
smette di essere solo una cosa minuscola diventa parte integrante
dell’esistente, nell’istante in cui smette di essere un puntino
calpestabile, soffiabile, schiacciabile con un dito, e diventa lei, un
mondo a sé, e per qualche ragione addirittura diventa lei il mondo,
ecco che tutti i parametri, le convenzioni, le certezze saltano via,
deflagrano nel trauma di quello scarto del pensiero. Guardare una
formica, pensavo, guardarla veramente, è una scuola di umiltà, ti
costringe a prendere atto del fatto che tutte le scelte di tutti, i
desideri, le necessità, insistono nello stesso luogo simultaneamente,
in modi differenti, in mondi differenti. Coesistono, si sfiorano, a volte
si toccano, ma non si vedono, non si capiscono. E dal momento in
cui succede, che tu l’hai guardata, l’hai vista, hai preso atto del fatto
che esiste davvero, che la formica ce l’hai sotto gli occhi, con la sua
briciola tra le zampe anteriori, e che fa la sua personale fatica, quella
sua fatica titanica per una sua ragione che a te sfugge, che ti
sfuggirà sempre, intuisci che la formica non è venuta al mondo per
esercitare un fastidio casalingo, ma per fare le sue cose come te,
trasportare la sua briciola da un punto all’altro, cambiare idea,
cambiare briciola, sbagliare strada, allora ti diventa cosí vicina,
all’improvviso, cosí vicina, che non puoi piú fare finta di niente. Non
puoi piú credere che la tua realtà, solo perché piú grande, sia
intrinsecamente piú vera della sua. La formica ti scombina i piani, te
li sovverte. La rivoluzione copernicana sta nel fatto che tu per lei, dal
suo punto di vista, non hai un cuore, non hai una brioche in mano,
non hai un marito di fianco che ti sorride e che ti ama con gli occhi,
non hai dei pensieri, dei ricordi, delle preoccupazioni, una casa, degli
amici, un figlio; tu, esattamente come lei per te, non esisti quasi, sei
al limite dell’esistente, ai margini dell’inorganico. Sei una montagna
enorme da scalare.
– Vuoi un altro caffè? – ha detto Gi.
– No, basta cosí.
– Andiamo, – ha detto Gi. – Andiamo a comprare un elicotterino?
Il lavoro di Gus
C’erano dei fruttini in frigo, delle cose a metà tra uno yogurt e un
succo di frutta. E dei succhi di frutta veri e propri, di quelli monodose
in confezione da sei. Prima di andare a dormire volevo mettere tutto
in un sacchetto perché fosse pronto per la tua partenza, per non
dimenticare niente, ma alcune cose non si potevano lasciare tutta la
notte fuori dal frigo. Andavano messe nello zainetto all’ultimo
momento. Perciò quando è suonata la sveglia alle quattro meno
venti io avevo già gli occhi aperti da dieci minuti.
La Burda aveva detto di fornirvi cibo e bevande per il viaggio fino
all’aeroporto perché magari vi veniva fame, vi veniva sete, e quel
pasto non era contemplato nel pacchetto pasti. Se mi fossi
dimenticata saresti rimasto digiuno o disidratato fino in Inghilterra.
Ma per fortuna non mi ero dimenticata.
Alle tre e trentacinque valutavo anche l’idea delle uova che avevo
fatto sode, consideravo se non fosse piú opportuno eliminarle dal
menú per via di quell’odore che fanno a volte le uova sode
sgusciate. Cercavo mentalmente qualcosa di meno offensivo per
l’olfatto con cui sostituirle e di colpo mi è stato chiaro che i
formaggini sarebbero stati l’ideale. Sí, formaggini incartati,
termicamente stabili e ugualmente proteici.
Ma alle quattro meno venti era ormai troppo tardi per comprare
dei formaggini. Al primo trillo della sveglia sono saltata in piedi come
se mi fossi svegliata in quel momento, mi sono vestita in automatico,
sono scattata in cucina, ho messo su il caffè. Prima di venire a
svegliarti volevo sistemare la faccenda dei cibi da asporto. Ho aperto
il frigo, ho tirato fuori i succhi di frutta, i fruttini allo yogurt, due
bottigliette d’acqua e due pesche. Ho messo tutto in un sacchetto
che conteneva già biscotti, crackers al pomodoro e due pezzi di
focaccia, una bianca e una rossa, e dei tovagliolini di carta. Per un
viaggio di un’ora e trentasei minuti (avevo guardato su Google Maps
la durata del viaggio fino a Malpensa) c’era da mangiare a
sufficienza per tre o quattro persone. Il caffè era pronto, ho messo il
latte a scaldare nel bricchetto e sono venuta a svegliarti. Eri già
sveglio, trafficavi col trolley.
Ci muovevamo con urgenza, senza quasi parlare. Ti ho dato il
sacchetto che avevo chiuso, ho detto Questo ficcalo nello zainetto
del bagaglio a mano. Hai fatto quello che dicevo. Sembrava una
situazione di emergenza, anche se eravamo in enorme anticipo.
Parlavamo a bassa voce, non solo per non svegliare Gi, anche
per restare concentrati sui preparativi, per non dimenticare niente.
Ho spento il latte e l’ho versato nella tua tazza insieme al caffè. Sono
entrata in bagno, sulla lavatrice c’era la scatola di latta dei
medicinali, l’ho aperta, ho preso della tachipirina, delle pastiglie per il
mal di testa, qualche bustina di Fluimucil e dei flaconcini di fermenti
lattici. Pensavo alle malattie che potevano aggredirti. Non mi veniva
altro oltre alla febbre, alla tosse, al mal di gola e al cagotto. Non
abbiamo tante medicine. Ho messo quelle in una borsetta da
viaggio.
– Ficca questa nel trolley, – ho detto.
– Tachipirina? – hai detto a bassa voce, rapido, come un chirurgo
che chiede una pinza.
– Sí, – ho risposto.
Hai preso la borsina e l’hai portata via.
Filava tutto liscio fra noi. Credo fosse dovuto all’ora. La mattina
presto ha qualcosa di particolare. Il fatto che sia buio, non so. Il fatto
che dormano tutti. Eravamo degli esseri abusivi, anomali, quasi delle
ombre. Questo ci aiutava ad andare d’accordo, ad agire insieme in
rapidità ed efficienza.
– Non vuoi la colazione?
– No.
– Non vuoi il caffelatte? Sta sul tavolo.
– No.
Ho versato il caffelatte nel lavabo. Mi sono bevuta il mio caffè
mentre tu ti fonavi i capelli in bagno.
Quando sei uscito hai detto Andiamo? Erano le quattro e dieci.
L’appuntamento era per le quattro e quarantacinque in una piazza a
dieci minuti da casa nostra.
– Stai calmo, – ho detto.
– In che senso? – hai chiesto. Non lo sapevo.
– La carta d’identità ce l’hai? La tessera sanitaria ce l’hai? La
carta di credito ricaricabile ce l’hai? L’aggeggio per convertire le
prese elettriche? L’ombrello pieghevole? Il Parmigiano?
Il Parmigiano l’avevo dimenticato in frigo.
– Mi era uscito di mente, – ti ho detto.
– Non ho posto, – hai bofonchiato evasivo.
Ecco perché non avevi detto niente. Non lo volevi portare e
speravi che me lo dimenticassi.
– La Burda, – ti ho detto, – ha ripetuto due volte che la famiglia
ospitante vuole una sorpresa. Parmigiano, possibilmente Reggiano,
sottovuoto. Tutte le famiglie si aspettano un piccolo regalo, una
sorpresina, – ho detto, – e questa sorpresina è meglio che sia un
pezzo da circa due chili di Parmigiano Reggiano sotto vuoto. Devi
portarlo, non lo dico io, lo dice la Burda.
– Non ci sta nel trolley. Siamo al limite di peso.
– Togli qualcosa. Il Parmigiano è un chilo e tre.
Sei andato di là, hai trafficato col trolley, l’hai schiacciato, credo,
perché quando siamo usciti sembrava sul punto di esplodere.
Erano le quattro e venti. Tu hai voluto portare il trolley da solo e
anche lo zainetto. Io avevo la mia borsa e le chiavi della macchina in
mano. Quando abbiamo chiuso la porta c’era un enorme silenzio. Gi
dormiva, i vicini dormivano. Sembrava che stessimo scappando.
Tutto era buio e muto. Si sentivano solo i nostri passi e il rumore
delle rotelline del trolley sul marciapiedi.
Quando siamo arrivati all’auto di Gi, sedendoti nel sedile davanti
hai detto asciutto, a volume contenuto: – Questa macchina fa schifo,
è da pulire.
– Certamente, – ho detto. Non mi andava di litigare. Ho cercato la
sintonia dell’autoradio. Trasmettevano una cosa di lirica.
Ho fermato l’auto nella piazza grande dell’appuntamento, era
vuota, non c’era nessun pullman. È troppo presto, ho pensato. Poi
per un attimo un dubbio fulminante, una fitta al cervello.
Che l’appuntamento non fosse lí, in quella piazza, che l’orario di
partenza non fosse quello. Un fremito durato pochi secondi prima
che tu dicessi per la prima volta a voce piena: – Sono lí, vedo la prof.
C’era un gruppetto che era apparso cosí. La Burda ci salutava
con un cenno della mano, come dire Siamo qua.
Ho salutato anch’io, da dentro la macchina, sollevata.
Stavo per scendere, c’erano madri e ragazze e qualche ragazzo,
volevo condividere con loro qualcosa, anche se non sapevo ancora
cosa, ero invasa da un’ondata di socievolezza, volevo parlare un po’,
farmi lasciare numeri di cellulare per ogni evenienza (avvelenamenti,
arresti, restituzione salme), volevo sapere se qualcuna di quelle
madri avesse messo nella sportina della merenda delle uova sode,
volevo chiedere i nomi alle tue compagne di viaggio, mostrarmi
affabile, dire che tu avevi tanta focaccia, fin troppa, che se qualcuno
avesse avuto fame poteva chiedertela. Avevi una mamma aperta,
che parlava spregiudicatamente di uova sode e di focaccia. Ma tu,
appena ho mosso la mano sulla portiera per scendere, hai detto No.
Hai detto Preferirei andare da solo se non ti dispiace.
Ho richiuso la portiera. Mi sono messa a canticchiare dentro di me
Se non ti dispiace se non ti dispiace se non ti dispiace, seguendo
l’aria dell’opera lirica che usciva dall’autoradio. Sei sceso da solo, ti
ho aperto il cofano col pulsante, ti ho passato lo zainetto dal
finestrino, sempre canticchiando mentalmente Se non ti dispiace se
non ti dispiace. Ti allontanavi già rotolando il trolley sull’asfalto, eri
ancora a pochi metri ma era come se fossi già all’estero, una cosa
inarrivabile sulla quale non avevo piú nessun potere.
Quando ho messo in moto ti sei voltato nella mia direzione, hai
sorriso pochissimo, hai detto Allora ci vediamo.
A distanza di sicurezza, come si fa a sedici anni con una mamma
di quarantaquattro che ti accompagna al bus per l’Inghilterra alle
quattro e quaranta del mattino.
– Il basilico, non ti preoccupare, te lo innaffio io, – ho detto,
facendo retromarcia.
Quando avevi quasi già raggiunto il gruppo di tutta quella gente
che ancora non conoscevi, ti sei voltato di nuovo verso di me e mi
pareva dal labiale dicessi proprio Gra-zi-e.
Una differenza
In quel periodo che non c’eri e non c’erano neanche i figli di Gi, io
e Gi siamo andati un po’ in vacanza a Bologna, a casa della mamma
di Gi, che non c’era, era in vacanza in Grecia.
A casa della mamma di Gi la prima cosa che salta agli occhi sono
le fotografie di famiglia, tutte quelle foto di tempi diversi che se ne
stanno una accanto all’altra, sui ripiani, sui tavolini e sulle ante di tutti
i mobili in tutte le stanze. Le piú vecchie sono in bianco e nero.
C’è una foto della mamma di Gi giovanissima, coi capelli raccolti,
in piedi, con la sorella, anche lei giovanissima, e intorno foto di figli e
nipoti in scale di generazioni.
Foto di Gi e delle sue sorelle quando erano bambini, in un
giardino, con dietro un lago.
Foto dei figli delle sorelle di Gi al mare / in cortile / su un balcone
di città / su una spiaggia col gelato.
Foto del padre di Gi con un sorriso, con dietro un lago, e il sorriso
mi ricorda Gi.
Foto di Gi e sorella di Gi, in passeggino doppio, guardano
nell’obiettivo come in posa.
Foto della mamma e del papà di Gi, giovani, con altre due donne
giovani anche loro in inverno (Bologna?), la mamma di Gi ha una
gonna di lana.
Una mattina nella buca delle lettere c’era un pacco di carta gialla
col pluriball indirizzato a me. L’ho aperto. Dentro c’era il certificato di
frequenza di primo livello del percorso dello Specialista Tedesco. Era
una pergamena stampata, con il nome il cognome e la data scritti a
penna stilografica, con una grafia con molti sbuffi, gotica. In
sovraimpressione, ton sur ton sul giallino della carta, c’era la foto
dello Specialista Tedesco, che sorrideva alla scrivania, con un
quaderno e una matita in mano. Come se, mentre era nell’atto di
scrivere i suoi pensieri, qualcuno l’avesse chiamato di sorpresa,
disturbandolo persino un po’, pur di fargli una fotografia.
Non sapevo cosa farmene di quel certificato. L’ho tenuto
arrotolato. L’ho messo nel cassetto della cucina.
Otello, il ritorno
Alle sette e un quarto circa sei entrato in casa. Hai posato il trolley
in camera tua, sei andato a farti una doccia, quando sei uscito hai
detto Ciao.
– Ciaoooo, bentornato, – abbiamo detto quasi in coro io dalla
cucina e Gi dal suo sgabuzzino.
– Cos’è questo odore? – hai chiesto.
– Niente, – ho detto evasiva.
– C’è una torta?
– No. Nessuna torta.
– C’è odore di torta, – hai detto.
– Ti sbagli, – ho detto, – verrà da fuori.
Sei entrato in cucina, hai guardato nel forno. Niente. Hai guardato
nell’armadio. Non c’era niente di niente. Hai aperto la finestra,
nessun profumo, nessuna torta.
Allora hai stretto gli occhi, li hai fatti diventare piccolissimi e li hai
fatti guardare in direzione dello sgabuzzino di Gi come a dire
Domandate di grazia a quel demonio lí per che cagione mi ha cosí
rovinato anima e corpo 1.
«N
’
una madre e un figlio adolescente, – ha detto Gi
mentre girava lo zucchero nella tazzina. – Il lieto
fine è la fine dell’adolescenza».
Smamma è uno di quei libri che inizi e non molli piú, perché è un
generatore di allegria interiore, un antidoto, uno specchio. La
prova che un romanzo ironico e intelligente può essere piú
potente di mille teorie.
Può darsi che i vostri figli siano allegri, loquaci e premurosi. Che
leggano I Malavoglia con piacere, che vadano bene a scuola
senza essere secchioni, che rifacciano il letto con gaiezza, che
stendano i panni senza chiedere in cambio sette euro. Bene.
Bravi loro, bravissimi voi.
Ma se per caso anche voi non fate che chiedervi chi diavolo siano
quelle creature impenetrabili che avete generato, e soprattutto
come sia possibile che non vi assomiglino neanche un po’; se
anche voi vi siete domandati da quale pianeta provengano e
perché si aggirino per casa modificando lo spazio e il senso di
tutte le cose, compreso quello della vostra esistenza,
pronunciando frasi inudibili, involontariamente comiche, allora
questo libro vi salverà la vita. O perlomeno il buonumore, che è
un po’ la stessa cosa.
Tra tavole apparecchiate che diventano ring da combattimento,
irresistibili colloqui con gli insegnanti e con Dio, tentativi di
pasticceria liofilizzata e inaspettati momenti di tenerezza, l’esordio
narrativo di Valentina Diana è un romanzo che vive di scene
folgoranti, istantanee di una vera e propria «guerra dei mondi».
L’autore