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© NERO, 2018
ISBN 978-88-8056-009-8
NERO
Lungotevere degli Artigiani 8b
00153 Roma
www.neroeditions.com
www.not.neroeditions.com
Traduzione di Fabio Gironi
INDICE
Introduzione 7
Conclusione 267
Postfazione 281
Ringraziamenti 305
Note 307
Introduzione
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INVENTARE IL FUTURO
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INTRODUZIONE
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INVENTARE IL FUTURO
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Capitolo 1
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IL NOSTRO SENSO COMUNE POLITICO
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IL NOSTRO SENSO COMUNE POLITICO
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SOPRAFFATTI
In che modo si è affermata la folk politics? Com’è possibile
che i suoi princìpi, nonostante le palesi carenze, siano diven-
tati così seducenti e invitanti per i movimenti di oggi? Ci
sono almeno tre spiegazioni possibili. La prima vede nella
folk politics una risposta al problema di come interpretare un
mondo sempre più complesso, e da lì riuscire a intervenire su
di esso. Una seconda spiegazione, legata alla prima, indivi-
dua nella folk politics una reazione alle esperienze storiche
del comunismo e della sinistra socialdemocratica. Infine, la
folk politics rappresenta anche una risposta immediata allo
spettacolo patetico offerto dai partiti politici attuali.
Il mondo multipolare delle politiche globali, l’instabilità
economica e il cambiamento climatico causato dall’uomo
tendono a progredire sempre più velocemente, rendendo
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OBSOLETI
Anche se l’ascesa della folk politics può essere spiegata dalle
reazioni a una complessità sempre maggiore, è comunque
impossibile non collocare il fenomeno all’interno della parti-
colare storia politica che la sinistra ha conosciuto nel corso del
XX secolo. Da un certo punto di vista, le tendenze della folk
politics sono reazioni comprensibili (anche se inadeguate) a
problemi che negli ultimi cinquant’anni hanno riguardato sia
le dinamiche interne della sinistra stessa, sia la battaglia contro
le forze del capitalismo e della conservazione.31 In particolare,
la folk politics si è fatta strada come reazione al collasso dei
sistemi socialdemocratici che tenevano assieme le istituzioni
della classe operaia, i partiti della sinistra, e la pervasiva ege-
monia liberale.32 La dissoluzione del blocco socialdemocratico
si è concretizzata lungo diverse linee di frattura, nonché in
diverse sfere: la nascita di nuove forme di lavoro affettivo oltre
che cognitivo; l’emergere di una crisi energetica che ha desta-
bilizzato le certezze della geopolitica; le sempre maggiori diffi-
coltà che l’economia capitalista sta incontrando nell’ottenere
profitti; la proliferazione dell’ideologia neoliberale tramite
network istituzionali e think tank universitari; l’esplosione di
nuove forme di soggettività politica; il generale discredito in
cui sono caduti i paesi (nominalmente) comunisti. Tanto in
Europa quanto in America, ognuno di questi fattori ha contri-
buito a demolire le fondamenta del sistema sociale nato nel
dopoguerra; nel corso di questo processo, abbiamo assistito
sia al superamento dei vecchi paradigmi della sinistra, sia alla
neutralizzazione in partenza di proposte alternative.
Il più significativo momento di destabilizzazione
dell’assestamento postbellico si colloca probabilmente tra
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TAGLIATI FUORI
Nello stesso momento in cui emergevano nuovi movimenti
di lotta, le basi economiche del consenso socialdemocratico
cominciavano a cedere. Gli anni Settanta furono gli anni della
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GUARDARE AVANTI
La critica alla folk politics che muoviamo in questo libro è
tanto un avvertimento quanto una diagnosi.55 È verso i pre-
cetti della folk politics che si stanno muovendo le forze della
sinistra radicale classica, e noi vogliamo invertire questa ten-
denza. L’obiettivo della prima metà di questo libro è dunque
quello di rompere con una serie di dogmi riguardo a come
ipotizzare strategie e fare politica oggi. Il capitolo 2 inizia
proprio con uno sguardo critico sulla politica esistente, e
tenta di rimando una diagnosi e una descrizione dei limiti
del pensiero «folk» contemporaneo. Il capitolo 3 dimostra
invece come, nonostante la sinistra abbia ormai abbandona-
to i progetti di egemonia ed espansione, il neoliberismo sia
stato capace di intraprendere con successo la strada opposta.
La seconda metà del libro suggerisce un progetto di sinistra
– alternativo alla folk politics – organizzato attorno a un’idea
di emancipazione globale e universale. Il capitolo 4 difende
la tesi che una sinistra orientata al futuro debba imposses-
sarsi del tema della modernità, con tutta l’enfasi necessa-
ria in termini di progresso ed emancipazione universale. Il
capitolo 5 propone un’analisi delle tendenze del capitalismo
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Capitolo 2
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ORIZZONTALISMO
Consolidatosi negli anni Settanta assieme ai movimenti di
protesta statunitensi, proiettato nel mainstream grazie a
zapatisti, attivisti no global e movimenti anti-austerity, l’oriz-
zontalismo è oggi diventato il principale filone della sinistra
radicale.2 In risposta al fallimento delle politiche «statocentri-
che», i movimenti orizzontalisti propongono di trasformare
il mondo a partire dal cambiamento dal basso delle relazioni
sociali,3 traendo ispirazione da una lunga tradizione teorica e
pratica condivisa dall’anarchismo, dal comunismo consiliare,
dal comunismo libertario e dall’Autonomia. L’obiettivo è, per
dirla con uno dei suoi portavoce, «cambiare il mondo senza
prendere il potere»:4 alla base di questi movimenti c’è quindi il
rifiuto dello Stato e delle istituzioni, e il privilegiare la società
intesa come spazio da cui dovrà emergere il cambiamento.
L’orizzontalismo rifiuta i progetti egemonici, considerati
intrinsecamente tirannici, per proporre al loro posto una poli-
tica basata sui gruppi di affinità:5 piuttosto che promuovere
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OCCUPY
La più significativa e recente incarnazione dei principi oriz-
zontalisti è stata quella dei cosiddetti «movimenti delle piaz-
ze». Sebbene le occupazioni non richiedano necessariamente
una gestione orizzontalista (non a caso i precursori di questa
tattica provengono originariamente da ambienti militari),20
è in questa chiave che si è declinata la maggior parte delle
occupazioni che si sono succedute dal 2008 in poi. Nel 2011,
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[Gli studenti che hanno insistito per non mettere sul tavolo
alcuna richiesta] hanno inteso l’occupazione come la creazione
di una sospensione momentanea nel tempo e nello spazio del
capitalismo, un riassetto che delinea i contorni di una società
nuova. Noi ci schieriamo con questa posizione antiriformista.
Sappiamo che sono zone parziali e transitorie, ma ugualmente
portano alla luce quelle tensioni tra il reale e il possibile che
possono spingere la lotta verso indirizzi più radicali.50
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ARGENTINA
Nella storia recente, l’esempio che più ha fatto sperare nelle
pratiche orizzontaliste è quello argentino: la nazione sud
americana è infatti stata investita da una svolta orizzontalista
che ha portato a un ampio controllo delle fabbriche da parte
dei lavoratori; ma a uno sguardo più attento è un esempio che
in realtà rivela nuove dimensioni dei limiti della folk politics.
In Argentina l’immediata necessità di nuove forme di orga-
nizzazione sociale si è imposta dopo il collasso dell’economia
nazionale: il paese fu colpito da una pesante recessione nel
1998 e l’economia ne risentì perdendo più di un quarto del
PIL entro il 2002. Le tensioni sociali giunsero al limite nel
dicembre del 2001, quando le politiche restrittive del governo
e il caos finanziario provocarono l’esplosione di enormi pro-
teste popolari. Il risultato fu la caduta del governo e la dichia-
razione dello stato di default sul debito pubblico. Governate
da un esecutivo incapace che non mostrava alcuna volontà di
venire incontro ai bisogni del popolo, le persone si trovarono
costrette a trovare nuovi modi per sopravvivere.
In seguito ai problemi del paese, molti argentini decisero
di organizzarsi dando vita a nuove strutture sia politiche che
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LOCALISMO
Meno radicale dell’orizzontalismo (ma altrettanto onnipre-
sente) è il cosiddetto localismo. Come ideologia si è diffuso
ben al di fuori della sinistra: è anzi riuscito a penetrare con-
temporaneamente le politiche dei pro-capitalisti come degli
anticapitalisti, della cultura mainstream come di quella più
radicale, assumendo davvero le forme di una specie di nuovo
senso comune. Alla sua base c’è la convinzione che la natura
astratta e le inconcepibili scale del mondo moderno siano la
radice di tutti i nostri problemi politici, ecologici ed econo-
mici, e che la soluzione risieda dunque nel «piccolo è bello».69
Piccoli gesti, economie locali, comunità chiuse e interazio-
ne faccia a faccia sono solo alcuni dei tipici tratti della visione
del mondo localista; in un periodo storico in cui la maggior
parte delle strategie e delle tattiche sviluppate nel XIX e XX
secolo appaiono superate e inefficaci, il localismo ha una sua
logica ammaliante: nelle sue diverse varianti – dal comunita-
rismo di destra70 al consumismo consapevole,71 passando per
gli strumenti di microcredito e le pratiche anarchiche con-
temporanee72 – promette agli individui concretezza e praticità
grazie a una politica dagli effetti riscontrabili e immediati. Ma
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CHILOMETRO ZERO
Grazie a un prestigio che quasi sempre manca ai circuiti della
politica, il localismo è recentemente riuscito a dominare il
dibattito sulla produzione, la distribuzione e il consumo di
cibo: basti pensare a fenomeni enormemente influenti come
Slow Food e quello che viene definito «locavorismo» (l’idea
cioè di consumare solo cibo locale).
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ECONOMIE LOCALI
Il localismo, in tutte le sue forme, rappresenta un tentativo
di sfuggire ai problemi e alle politiche di scala che sono il
cuore di sistemi estesi come l’economia, la politica e l’am-
biente: ma essendo i nostri problemi sempre più sistemici e
globali, richiedono come tali risposte altrettanto sistemiche.
Certamente l’iniziativa deve sempre prendere forma a livello
locale, e in effetti diversi princìpi localisti – a partire dalla
capacità di adattarsi in maniera elastica alle situazioni –
rimangono senza dubbio utili. Ma quando sconfina nell’i-
deologia, il localismo si spinge al punto di rifiutare qualsiasi
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LA RESISTENZA È INUTILE
Se un chiaro sentimento pro-folk politics si è manifestato
tanto nei movimenti orizzontalisti più radicali quanto nei
più moderati movimenti localisti, le stesse intuizioni di fon-
do animano anche vasti settori della sinistra contemporanea.
Tutti questi gruppi condividono una serie di assiomi: il picco-
lo è bello, il locale è etico, il semplice è meglio, la permanenza
è oppressiva, il progresso è finito. Simili valori vengono pre-
feriti alla costruzione di qualsiasi progetto controegemonico
che aspiri a una politica in grado di fronteggiare il potere
capitalista su larga scala. Di fatto, la maggior parte della folk
politics contemporanea esprime «un profondo pessimismo:
dà per scontato che il cambiamento sociale e collettivo su lar-
ga scala sia impossibile».91 È un atteggiamento disfattista tri-
stemente diffuso nella sinistra contemporanea, e forse anche
per buoni motivi, almeno considerate le ripetute sconfitte
subite negli ultimi trent’anni.
Per i partiti di centrosinistra il massimo a cui si può aspi-
rare è la nostalgia per i bei tempi andati, e il massimo della
radicalità è il vecchio sogno socialdemocratico, quando non
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Capitolo 3
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PRIMI PASSI
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale il mondo era
pronto a grossi cambiamenti nel campo delle idee economi-
che. La Germania dovette affrontare le difficoltà più grandi,
derivanti sia dal ben noto problema dell’iperinflazione nella
Repubblica di Weimar che dai difficili sforzi di ricostruzio-
ne. Mentre la maggior parte degli altri paesi si affidava alle
politiche keynesiane, la Germania prese una strada diversa,
guidata da pensatori neoliberali che già avevano partecipato
al convegno Lippmann. Considerato il totale collasso dello
Stato tedesco, il problema che questi pianificatori dovettero
affrontare fu quello di come ricostruire la macchina statale,
e in particolare come attribuirle legittimità senza già dispor-
re di un’infrastruttura funzionante. La risposta arrivò dagli
ideali cari ai primi ordoliberisti: creare uno spazio di libertà
economica. Questo generò a sua volta una rete di connessioni
tra individui, che riuscì a conferire legittimità al nuovo Stato
tedesco: era una legittimità che veniva da un’economia in
buona salute31 più che uno status di tipo legale, e che sarebbe
stata presa come spunto per i primi esperimenti di neolibera-
lismo di regolamentazione.
Dopo la guerra, gli ordoliberisti tedeschi iniziarono a otte-
nere posizioni di governo e ad applicare le loro idee, creando
una struttura materiale e istituzionale in grado di condizionare
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RIVENDITORI DELL’USATO
I neoliberali insistevano molto sull’importanza di combattere
su più fronti per influenzare le élite e istituire un nuovo senso
comune, e nel dopoguerra questo approccio si espanse alla
sfera accademica, a quella dei media e a quella istituzionale.
Uno dei metodi più innovativi per il consolidamento ideolo-
gico del neoliberismo fu il ricorso ai think tank; per quanto
diffusi già da più di un secolo, l’uso che ne fece la MPS fu una
novità assoluta: durante questi incontri venivano sviluppa-
te idee e soluzioni per iniziative di tipo politico e venivano
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AFFERRARE IL VOLANTE
Dopo i primi tentativi su scala nazionale, il neoliberismo gua-
dagnò attenzione a livello internazionale negli anni Settanta
proponendosi come soluzione all’alto tasso di disoccupa
zione e alla crescita dell’inflazione, insomma ai problemi cau-
sati dalle fluttuazioni del prezzo del petrolio, dall’aumento
dei prezzi dei beni di consumo e dei salari, e dall’espansione
del credito. L’ortodossia keynesiana dominante in quel perio-
do prevedeva che i governi stimolassero l’economia immet-
tendo denaro laddove la disoccupazione fosse alta, e ritiran-
do denaro – per rallentare la crescita dei prezzi – laddove
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Non basta esporre una visione utopica appena fuori portata per
motivare l’azione politica. Il gruppo che trionfa è quello che
riesce ad assemblare simultaneamente un insieme di proposte
politiche a prima vista indipendenti l’una dall’altra, capaci di
agire su orizzonti a breve, medio, e lungo termine, e di combi-
nare il regime della conoscenza con i risultati provvisori, facen-
do sì che il risultato finale sia il movimento inesorabile della
polis verso l’obiettivo prefissato. La scaltra strategia di giocare
simultaneamente un gioco a breve e lungo termine – dando
superficialmente l’idea di un conflitto interno ma sulla scorta di
un’unità di obiettivi teoretici generali – è probabilmente la cau-
sa principale del trionfo delle politiche neoliberali, in una con-
giuntura storica durante la quale i loro oppositori si aspettavano
che queste fossero del tutto rifiutate.66
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Capitolo 4
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PROGRESSO IPERSTIZIONALE
Invocare la modernità significa aprire la questione del futu-
ro. Cos’è che dal futuro dobbiamo aspettarci? Quale strada
dovremmo scegliere? Cosa significa essere contemporanei?
E il futuro a chi appartiene?
Fin dalla sua prima apparizione, la modernità si è pre-
occupata di disfare la nozione circolare o retrospettiva dello
scorrere del tempo, e di introdurre una rottura tra passato
e presente; in seguito a questa rottura, il futuro viene pro-
iettato come potenzialmente differente e migliore del pas-
sato:14 essendo la modernità equiparata alla «scoperta del
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UNIVERSALI SOVVERSIVI
Qualsiasi tentativo di elaborare una concezione alternativa
di progresso deve inevitabilmente scontrarsi con il problema
dell’universalismo: l’idea cioè che certi valori, ideali e obiet-
tivi siano validi per tutte le culture.31 Abbiamo detto che il
capitalismo è un universale espansivo, capace di infiltrarsi
nei vari tessuti culturali e di modificarli dall’interno: qual-
siasi opposizione al capitalismo che non sia a sua volta un
universale, finirà quindi con l’essere soffocata dall’asfissian-
te abbraccio delle relazioni sociali capitaliste.32 Vari parti-
colarismi – forme poltico-culturali localizzate e specifiche
– riescono a coabitare serenamente all’interno del sistema
capitalista, tanto che la lista di possibilità continua a crescere
mano a mano che il capitalismo si differenzia in capitalismo
cinese, capitalismo americano, capitalismo brasiliano, capi-
talismo indiano, capitalismo nigeriano e così via. La storia
insegna che lo spazio globale dell’universalismo è una zona
di conflitto dove i vari avversari aspirano alla relativa provin-
cializzazione di tutti gli altri,33 ed è per questo che la difesa
dei particolarismi è di per sé una strategia insufficiente. Se
davvero la sinistra ha intenzione di sfidare il capitalismo glo-
bale, deve ripensare un progetto universalista.
Certo, invocare un’idea del genere significa anche atti-
rare un gran numero di critiche: una politica universalista
punta a oltrepassare le battaglie locali per generalizzarsi su
scala globale ed estendersi al di là delle diversità culturali, ed
è proprio per questo che nel corso dei decenni è stata oggetto
di tante polemiche.34 Storicamente parlando, è impossibile
separare la modernità di stampo europeo dal suo lato oscuro,
vale a dire l’enorme rete di domini coloniali, il genocidio di
popolazioni indigene, il commercio di schiavi e lo sfrutta-
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LIBERTÀ SINTETICA
Benché la sinistra sia tradizionalmente associata a ideali di
uguaglianza (oggi concentrati sulle questioni retributive
e sulle disparità economiche), un altro principio fondante
di una modernità di sinistra non può che essere quello del-
la libertà. Nel corso del XX secolo su questo fronte si sono
combattute molte battaglie, tanto che gli Stati Uniti si sono
regolarmente presentati come «il mondo libero» schierato
contro un nemico totalitario (prima rappresentato dall’Unio-
ne Sovietica, oggi da nozioni sempre più incoerenti di «fasci-
smo islamico»). In questi scontri egemonici, il capitalismo
ha ripetutamente affermato la propria superiorità tramite la
difesa di un ideale di libertà negativa,46 ovvero la libertà del
singolo da interferenze arbitrarie provenienti da altri indivi-
dui, collettivi e istituzioni (fondamentalmente, lo Stato).
L’idea di libertà negativa, imperniata sull’indipenden-
za da ingerenze esterne, è uno strumento ideale nella lotta
contro i regimi considerati totalitari, ma è anche un concetto
di libertà mostruosamente ristretto: si riduce in pratica a un
pizzico di libertà politica dallo Stato (oggi, in tempi di sorve-
glianza digitale e guerra al terrorismo, ridotta al minimo) e
alla libertà economica di poter vendere la nostra forza lavoro
e di poter scegliere prodotti di consumo sempre più nuovi e
invitanti.47 Secondo il criterio della libertà negativa, ricchi e
poveri sono ugualmente liberi, malgrado le ovvie differenze
in termini di capacità di azione:48 la libertà negativa è in effet-
ti pienamente compatibile anche con la povertà di massa, la
fame nel mondo, l’emergenza abitativa, la disoccupazione e
le disparità di ogni tipo, nonché con quei metodi di marke-
ting asfissiante che aspirano a plasmare e costruire i nostri
stessi desideri. A questa nozione limitata di libertà, vogliamo
quindi contrapporne una versione assai più sostanziale:
quella di «libertà sintetica».
Mentre la libertà negativa garantisce un diritto formale
alla non interferenza, la libertà sintetica riconosce che un
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POVERI VIRTUALI
Il lavoro è un fenomeno comune a tutte le società, ma
all’interno del sistema capitalista acquisisce qualità stori-
camente uniche. Nelle società precapitaliste, nonostante il
lavoro fosse necessario, le persone avevano accesso comune
alla terra, praticavano forme di agricoltura di sussistenza e
avevano la disponibilità dei mezzi necessari quantomeno a
sopravvivere; i contadini erano poveri ma autosufficienti, e
la sopravvivenza individuale non dipendeva dal lavoro svolto
per qualcun altro. L’avvento del capitalismo cambiò tutto:
attraverso il processo conosciuto come accumulazione ori-
ginaria, i lavoratori precapitalisti furono sradicati dalla loro
terra ed espropriati dei mezzi di sussistenza.4 I contadini si
ribellarono, continuando a sopravvivere ai margini dell’e-
mergente mondo capitalista,5 e fu necessario l’uso della forza
– e di nuovi severi sistemi legislativi – per imporre il lavoro
salariato sull’intera popolazione. In altre parole, i contadini
furono trasformati in proletari.
La nuova figura sociale del proletariato venne dunque
definita proprio dalla mancanza di accesso ai mezzi di pro-
duzione e di sussistenza e dal bisogno di lavoro salariato per
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Capitolo 6
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PIENA AUTOMAZIONE
La nostra prima richiesta è un’economia completamen-
te automatizzata. Grazie agli sviluppi tecnologici recenti,
un’economia di questo tipo potrebbe liberare l’umanità dalla
schiavitù del lavoro e, allo stesso tempo, produrre una quantità
di ricchezza sempre maggiore. Senza una piena automazione
il futuro post-capitalista dovrà necessariamente scegliere
tra l’abbondanza di risorse a scapito della libertà (in qualche
modo replicando la centralità assoluta assegnata al lavoro
nella Russia sovietica) e la libertà a scapito dell’abbondanza
di beni sulla falsariga delle distopie primitiviste.7 Al contra-
rio, grazie all’automazione le macchine produrranno tutti i
beni e i servizi necessari alla società, liberando da questo peso
gli esseri umani:8 è per questo motivo che sosteniamo che
la tendenza alla crescente automazione (e alla sostituzione
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IMMAGINARI DEL POST-LAVORO
• Piena automazione
• Riduzione della settimana lavorativa
• Reddito base universale
• Rifiuto dell’etica del lavoro
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IMMAGINARI DEL POST-LAVORO
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Capitolo 7
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RICORDARE IL FUTURO
Oggi, uno degli aspetti più pervasivi e subdoli dell’egemonia
capitalista è la sua abilità nel porre limiti alla nostra immagi-
nazione collettiva. Nonostante sempre più persone tentino di
sovvertirlo, il mantra «non c’è alternativa» continua a regna-
re sovrano. Rispetto a quanto abbiamo visto nel XX secolo si
tratta di un cambiamento significativo, se non altro perché
il Novecento vide una grande proliferazione di immaginari
utopici con tanto di grandiosi piani per il futuro.
La conquista dello spazio è stata per esempio un simbolo
ricorrente del desiderio umano di controllare il proprio desti-
no;23 la Russia pre-sovietica conobbe un’immensa attrazione
per l’esplorazione spaziale, e benché l’aviazione fosse un
campo ancora relativamente giovane, il sogno di librarsi in
volo nel cosmo sembrava comunque promettere una «totale
liberazione dai significanti del passato: ingiustizia sociale,
imperfezioni, gravità e, in ultima analisi, la Terra stessa».24
Queste inclinazioni utopiche ebbero lo scopo di rendere intel-
ligibili i rapidi cambiamenti che stava conoscendo il mon-
do dell’epoca, di sottolineare l’idea che l’umanità avrebbe
potuto impartire alla propria storia una direzione razionale,
e di coltivare visioni per una società futura. Con sfumature
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NAVIGARE IL NEOLIBERISMO
Se le utopie provano a intervenire sull’egemonia culturale del
neoliberismo, per la trasformazione dell’egemonia intellet-
tuale occorre invece concentrarsi su un’altra istituzione chia-
ve: quella educativa. È il sistema scolastico che indottrina
le nuove generazioni, trasmettendo i valori dominanti della
società e riproducendo così la propria ideologia decennio
dopo decennio: tramite il sistema educativo i bambini impa-
rano le idee base di una società, il rispetto per l’ordine esi-
stente (o per meglio dire la sottomissione a esso), e le capacità
necessarie per essere poi collocati nei vari settori del mercato
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RIORIENTARE LA TECNOLOGIA
Come abbiamo sostenuto poco sopra, l’egemonia non è
semplicemente localizzata nell’ideologia dominante di una
società, ma è anche integrata nelle tecnologie che ci circon-
dano e nell’ambiente che abbiamo costruito. Tutti questi ele-
menti sono intrinsecamente politici: facilitano certi usi e cer-
ti gesti mentre ne impediscono altri. Per esempio, la nostra
infrastruttura attuale tende a strutturare la società in forme
individualistiche, competitive e basate sulle risorse fossili,
indipendentemente dalla volontà dei singoli o della collet-
tività. L’importanza di queste infrastrutture «politicizzate»
sta crescendo ancora di più con l’espansione della tecnologia
verso le più piccole nano-scale e le più grandi formazioni
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Capitolo 8
COSTRUIRE IL POTERE
La costruzione di un popolo è
il principale compito della politica radicale.
Ernesto Laclau
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ECOLOGIA ORGANIZZATIVA
L’organizzazione è l’elemento di mediazione chiave tra scon-
tento e azione effettiva, ed è capace di conferire un tipo di
potere qualitativamente differente a gruppi di persone con un
obiettivo comune ma privi di struttura interna. Come emerso
chiaramente da esperienze come Occupy o i movimenti paci-
fisti e antiglobalizzazione, il problema della sinistra non sta
necessariamente nei numeri: dal punto di vista puramente
quantitativo la sinistra non è particolarmente più «debole»
della destra, e anzi, considerando la sua capacità di mobilita-
re le masse, sembra semmai vero il contrario. Specialmente
nei periodi di crisi, la sinistra dà l’idea di essere particolar-
mente capace di mettere in moto un movimento populista; il
problema risiede semmai nel passo successivo: come questa
forza popolare viene organizzata e mobilitata.
Per la folk politics, «organizzazione» ha spesso significato
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PUNTI DI LEVA
Qualora un movimento populista riesca effettivamente a
costruire un ecosistema di organizzazioni controegemonico,
per poter essere efficace questo richiederebbe comunque la
capacità di ostacolare i processi produttivi. Anche con una
robusta ecologia di organizzazioni e un movimento di massa
ben coeso, il cambiamento resta impossibile senza la possibi-
lità di «fare leva» sul potere: in termini storici, molti tra i più
importanti passi in avanti compiuti dal movimento operaio
sono stati possibili anche grazie a lavoratori collocati in posi-
zioni strategiche. Che abbiano o meno ricevuto solidarietà,
ottenuto alti livelli di consapevolezza di classe, o conseguito
una forma organizzativa ottimale, questi lavoratori ebbero
successo grazie alla loro abilità nell’inserirsi all’interno e
contro il flusso dell’accumulazione capitalista.
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simili – tra cui gli scioperi degli affitti e del debito – affron-
tano altri aspetti della riproduzione capitalista con lo stesso
obiettivo basilare; anche i blocchi portuali sono una tattica
promettente, e modelli realizzati al computer possono offrire
suggerimenti su come evitare di compiere azioni politiche
disorganizzate e inefficaci.85 Queste nuove tattiche, natu-
ralmente, devono essere situate all’interno di un più ampio
piano strategico, se non vogliono essere semplicemente una
serie di movimenti temporanei che nascono e muoiono senza
lasciare tracce durature.
La classica base del potere del movimento operaio, dun-
que, è oggi più frammentata e più debole. Questo però non
deve necessariamente decretare la definitiva sconfitta della
lotta di classe: l’automazione e la precarietà forse segnano
il declino del sabotaggio dei luoghi di produzione, ma cer-
tamente non indicano la fine assoluta della possibilità di
interruzione del lavoro. E così, sebbene i tradizionali punti di
pressione politica siano spariti, nel contesto di una struttura
flessibile e globale questo cambiamento ha incrementato in
altri modi la vulnerabilità dell’infrastruttura stessa. Lotte
locali ben organizzate possono immediatamente diventare
globali:86 il compito che ci attende è quello di valutare atten-
tamente le trasformazioni della nostra realtà materiale e di
preparare strategie da applicare all’interno di nuovi spazi
di azione. Esistono già pratiche da cui trarre insegnamento,
come le «analisi delle strutture di potere» intraprese da sin-
dacati e attivisti, capaci di mappare le reti sociali locali e i loro
attori principali, determinandone forze e debolezze e indivi-
duando amici e nemici.87 Quello che qui sosteniamo è che a
un simile processo serve anche un complemento che enfa
tizzi le condizioni materiali della lotta anziché limitarsi ai
suoi network sociali. Ma per garantire il successo di entrambi
gli approcci sarà necessario connettere l’esperienza diretta
della situazione sul territorio con la conoscenza astratta di
condizioni economiche in continuo cambiamento.
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CONCLUSIONE
DOPO IL CAPITALISMO
Progetti come il post-lavoro e, in termini più ampi, il post
capitalismo, sono determinazioni progressive che emergono
dalla dedizione alla causa dell’emancipazione universale.
In pratica implicano la «dissoluzione controllata delle forze
del mercato… e la separazione del lavoro dal reddito».7 Ma
la traiettoria ultima dell’emancipazione universale è diretta
verso il superamento di tutti i limiti fisici, biologici, politici
ed economici. Questa ambizione di rimuovere ogni vincolo,
se spinta alle sue estreme conseguenze, conduce inesorabil-
mente a grandiose frontiere speculative. Per i cosmisti russi
persino la morte e la gravità erano ostacoli possibili da supe-
rare grazie all’intelligenza e alle invenzioni future.8 In simili
speculazioni post-planetarie, il progetto dell’emancipazione
umana viene reso costituzionalmente infinito, percorrendo
una strada tra due vie di sviluppo tra loro correlate: quella
tecnologica e quella umana.
Lo sviluppo tecnologico segue un cammino ricombi-
nante, capace di fondere idee, tecnologie e componenti tec-
nologiche in combinazioni sempre nuove. Oggetti semplici
vengono uniti tra loro fino a formare sistemi sempre più
complessi, e ogni invenzione che viene sviluppata diventa la
base per tecnologie ancora più nuove. Con questo ritmo di
espansione, le possibilità combinatorie proliferano in fretta.9
Ci viene detto che la competizione di stampo capitalista è
stata un potente motore di avanzamento tecnologico: secon-
do la narrazione dominante, la competizione intra-capitalista
spinge al cambiamento tecnologico del sistema produttivo,
mentre il capitalismo di consumo produce una domanda di
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Postfazione
REINVENTARE IL FUTURO
Dove eravamo arrivati? Nei mesi che sono trascorsi dalla prima
edizione inglese di Inventare il futuro ci sono stati numerosi e
significativi cambiamenti. L’elezione di Jeremy Corbyn a lea-
der del Partito Laburista britannico e l’inaspettata popolarità
di Bernie Sanders alle primarie delle presidenziali statunitensi
hanno trasformato le tradizionali aspettative della sinistra, e
il ritorno del socialismo in America è il sintomo di una vasta
frammentazione dell’egemonia politica nel mondo occidenta-
le. Questo è uno degli elementi più caratterizzanti del momen-
to presente: i partiti tecnocratici della sinistra e della destra
neoliberale vedono la propria capacità di tenere la società sot-
to controllo minacciata dalle stesse forze economiche che loro
stessi hanno imposto. La disuguaglianza, la crescita senza
lavoro e la generale stagnazione economica hanno diminuito
la fiducia del pubblico nelle virtù del centrismo politico. Tutto
ciò è causa di entusiasmo come di preoccupazione, e in questo
contesto stiamo assistendo a una crescita dei populismi sia di
sinistra che di destra. Il senso comune politico sta cambiando,
e stanno emergendo nuove possibilità.
Mentre Corbyn e Sanders hanno introdotto agli ideali del
socialismo un’intera nuova generazione, i movimenti reazio-
nari neonazionalisti hanno oggi più possibilità che mai di
assumere il totale controllo del sistema. Senza una strategia
ben definita, una visione positiva del futuro e la mobilitazio-
ne di una base di attivisti, risulterà fin troppo difficile vincere
la futura battaglia per l’egemonia politica. Troviamo però
incoraggiante osservare come si stiano creando delle rela-
zioni produttive tra nuovi socialismi, quello che rimane dei
movimenti orizzontalisti (come Occupy), movimenti politici
recenti come Black Lives Matter, Fight for 15, e battaglie come
quella per gli alloggi pubblici. Benché non siano sempre in
sincronia, stiamo forse assistendo all’avvento di una più
dinamica e potente ecologia politica consapevole – e questa
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FUTURI POST-LAVORO
In diversi articoli e recensioni sul nostro libro sono state
poste domande fondamentali su quali conseguenze implichi
la realizzazione del mondo post-lavoro che ci auspichiamo,
dal punto di vista dell’ambiente, del lavoro, della riprodu-
zione sociale e del colonialismo. Un mondo post-lavoro e ad
alta tecnologia implica anche l’esaurimento delle risorse e il
peggioramento del clima planetario? Un mondo post-lavoro
significa protrarre l’oppressione e il soggiogamento dei pae-
si più poveri? Che ruolo avranno, in questo mondo, i lavori
domestici e non salariati?
Sono domande estremamente importanti. Per tentare
delle risposte sarà utile immaginare una serie di possibili
futu
ri che esemplifichino diversi modi in cui il progetto
post-lavorista potrebbe concretizzarsi. In generale, possiamo
immaginare quattro tipi di futuro (con possibili intercon
nessioni): un mondo post-lavoro neocoloniale e razzista, un
mondo post-lavoro ecologicamente non sostenibile, un mondo
post-lavoro misogino e un mondo post-lavoro di sinistra.
Un primo possibile futuro post-lavoro sarebbe dunque
neocoloniale e razzista. In questo caso l’abolizione del lavoro
salariato verrebbe realizzata solamente nei paesi capitalisti
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I LIMITI DELL’ANALISI
Rivolgiamoci adesso a due importanti limiti di questo libro.
Il primo riguarda le preoccupazioni di carattere ecologico.
È evidente che nel nostro testo i problemi del cambiamen-
to climatico e della sostenibilità ambientale non sono stati
trattati con sufficiente profondità, anche perché una risposta
esauriente a queste problematiche avrebbe richiesto un in-
tero volume a sé. Ciononostante, abbiamo provato a rendere
chiaro il fatto che, secondo noi, una visione del futuro deve
essere ecologicamente sostenibile, e dunque non dipendente
da un’economia fondata su quell’accumulo e su quell’estra-
zione di risorse che finirebbero per rendere il nostro piane-
ta inabitabile (ecco dunque spiegata la nostra insistenza per
un’economia decarbonizzata). Se la piena automazione si di-
mostrerà ecologicamente sostenibile dipenderà da questioni
come la rimpiazzabilità dei combustibili fossili, l’espansione
delle energie rinnovabili, la sostituzione delle risorse ener-
getiche in via di esaurimento, la trasformazione di proces-
si manifatturieri inefficienti e l’eliminazione delle pratiche
lavorative basate sullo sfruttamento dei lavoratori: in altre
parole, una risposta soddisfacente al problema ecologico
dovrà basarsi su una vasta conoscenza tecnica e politica.
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COSTRUIRE FUTURI
Ci sono molti altri problemi che non abbiamo potuto affron-
tare, ma questa nostra risposta è già piuttosto lunga, e siamo
certi che ormai i lettori saranno in grado di trarre le proprie
conclusioni riguardo ai temi che abbiamo toccato. Vorremmo
quindi concludere parlando del futuro, e in particolare della
relazione tra il futuro in generale e la nostra particolare visione
di un futuro post-lavoro.
Nel capitolo sulla modernità di sinistra ci siamo riferiti
coscientemente e con regolarità a un futuro le cui visioni sono
tutte al plurale: «Altri tipi di modernità sono possibili, e nuove
visioni del futuro sono essenziali [per la sinistra]». Poco
dopo abbiamo insistito che «immaginare dei futuri possibili
è la condizione indispensabile per organizzare una risposta
efficace al capitalismo». E ancora, abbiamo scritto che una
modernità di sinistra «sarebbe finalmente una modernità
ambiziosa, capace di produrre visioni di un futuro miglio-
re». Se nella prima parte usiamo spesso la forma plurale, in
seguito ci siamo concentrati su una specifica ipotesi, quella
di un futuro post-lavoro. La seconda metà del libro difende in
effetti la plausibilità di questa particolare visione del futuro:
abbiamo sostenuto che un futuro senza lavoro è un obietti-
vo desiderabile, e il nostro tono risoluto deriva dalla forza di
questa nostra convinzione. Ma siamo consapevoli dal fatto
che questa non è l’unica visione possibile, e dunque abbiamo
insistito sulla necessità di «riconoscere l’agire di coloro che
sono al di fuori dei confini dell’Europa, e ribadire l’importan-
za delle loro voci per la costruzione su scala planetaria di un
futuro genuinamente universale». Ci poniamo poi all’interno
di un più ampio dibattito: «Una visione coerente del futuro
è invece in grado di avanzare proposte e obiettivi concreti, e
[questo libro] vuole appunto contribuire a questa potenziale
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Ringraziamenti
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Note
INTRODUZIONE
1. John Maynard Keynes, Possibilità economiche per i nostri nipoti, Adelphi 2009;
George Young, I cosmisti russi. Il futurismo esoterico di Nikolaj Fedorov e
dei suoi seguaci, Tre 2017; Mark Dery, «Black to the Future: Interviews with
Samuel R. Delany, Greg Tate and Tricia Rose», in Flame Wars: The Discourse of
Cyberculture, Duke University Press 1994; Shulamith Firestone, La dialettica dei
sessi, Guaraldi 1976.
2. Per altri esempi di questa posizione si vedano: Franco «Bifo» Berardi, Dopo il
futuro, DeriveApprodi 2013; T.J. Clark, «For a Left with No Future», in New Left
Review marzo/aprile 2012; Fernando Coronil, «The Future in Question: History
and Utopia in Latin America», in Craig Calhoun e Georgi Derluguian (a cura di),
Business as Usual: The Roots of the Global Financial Meltdown, New York
University Press 2011. Oppure, usando le parole di un recente intervento, «il
futuro non ha futuro»: Il comitato invisibile, L’insurrezione che viene, 2010.
CAPITOLO 1
1. Dave Mitchell, «Stuff White People Smash», apparso su rabble.ca il 26 giugno
2011.
2. È significativo che la ragione principale del fallimento delle negoziazioni in cor-
so al WTO di Doha sia da ricercarsi nella divisione tra gli Stati, più che in un
qualsiasi movimento di resistenza.
3. Altri punti di vista interni del dibattito occorso in Occupy sulla questione
delle richieste possono essere trovati in Astra Taylor e Keith Gessen (a cura
di), Occupy! Scenes from Occupied America, Verso 2011. Per una critica
dettagliata alla posizione del «nessuna richiesta» vedi Marco Deseriis e Jodi
Dean, «A Movement Without Demands?», apparso su possible-futures.org il
2 gennaio 2012.
4. Zach Schwartz-Weinstein, «Not Your Academy: Occupation and the Future of
Student Struggles», in A.J. Bauer, Christina Beltran, Rana Jaleel e Andrew Ross
(a cura di), Is This What Democracy Looks Like?, Social Text E-Book 2012,
reperibile su what-democracy-looks-like.com. Per un intervento che traccia
il peso sempre minore delle rivendicazioni concrete avanzate dagli studen-
ti durante l’occupazione della University College London nel 2010, vedi Guy
Aitchison, «Reform, Rupture, or Re-Imagination: Understanding the Purpose of
an Occupation», in Social Movement Studies 10:4, 2011, pag. 431-9.
5. I lavori di Hakim Bey sono probabilmente i più famigerati tra quelli che tratta-
no l’autosufficienza delle proteste autonome. Vedi Hakim Bey, T.A.Z. – Zone
Temporaneamente Autonome, Shake 1996. E anche Jeremy Gilbert, Anti-
Capitalism and Culture: Radical Theory and Popular Politics, Berg 2008, pag.
203-9, per una critica comprensiva dall’interno dei movimenti sociali sui peri-
coli dell’«immaginario attivista».
6. Linda Polman, L’industria della solidarietà, Bruno Mondadori 2009.
7. Radix, «Fracking Sussex: The Threat of Shale Oil & Gas», Frack Off 2013,
reperibile su frack-off.org.uk. La forza che più ha osteggiato il fracking è stato
il mercato stesso, con il recente abbassamento dei costi del petrolio.
8. Eviction Free Zone, «Direct Action, Occupy Wall Street, and the Future of
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308
NOTE
30. Questa è una domanda cruciale nel dibattito sui calcoli socialisti. Vedi Oskar
Lange e Fred M. Taylor, On the Economic Theory of Socialism, McGraw-Hill
1964; Fikret Adaman e Pat Devine, «The Economics Calculation Debate:
Lessons for Socialists», Cambridge Journal of Economics 20: 5, 1996; Allin
Cottrell e Paul Cockshott, «Calculation, Complexity and Planning: The Socialist
Calculation Debate Once Again», in Review of Political Economy 5: 1, 1993.
31. È importante notare qui come «sinistra» sia un termine fondamentalmente arti-
ficiale, ma senz’altro utile, usato per descrivere un universo di forze politiche e
sociali incredibilmente vario e potenzialmente contraddittorio. Per una discus-
sione completa sulle origini della distinzione tra destra e sinistra nella Francia
postrivoluzionaria vedi Marcel Gauchet, «Right and Left», in Lawrence Kritzman
(a cura di), Realms of Memory: Conflicts and Division, Columbia University
Press 1997. Tanto per chiarirci, consideriamo oggi «sinistra», nel suo senso più
largo, i seguenti movimenti, posizioni e organizzazioni: socialismo democrati-
co, comunismo, anarchismo, libertarismo di sinistra, anti-imperialismo, antifa-
scismo, antirazzismo, anticapitalismo, femminismo, autonomia, sindacalismo,
movimento queer e una gran parte del movimento ecologista, nei suoi vari
gruppi alleati o ibridati con le categorie precedenti. La possibile concordanza
tra queste diverse forze è una questione legata alle costruzioni o alle articola-
zioni politiche, più che un qualcosa di naturale o predeterminato.
32. Gerassimos Moschonas, In the Name of Social Democracy: The Great
Transformation, 1945 to Present, Verso 2002, pag. 15-17; John Gerard Ruggie,
«International Regimes, Transaction and Change: Embedded Liberalism in the
Postwar Economic Order», International Organization 36: 2, 1982.
33. Dopo la sconfitta del Sessantotto ci fu un breve ritorno del classico pensiero
rivoluzionario maoista e leninista. Questi tentativi di rilanciare rispetto alle forme
tradizionali di organizzazione rimasero numericamente marginali e finirono per
fallire. Per una storia di questo momento storico in America vedi Max Elbaum,
Revolution in the Air: Radicals Turn to Lenin, Mao and Che, Verso 2016.
34. Moschonas, In the Name of Social Democracy, pag. 35-6.
35. Per una critica femminista di questi modelli di organizzazione vedi Jo Freeman,
The Tyranny of Structurelessness, 1970, reperibile su struggle.ws.
36. Martin Klimke e Joachim Scharloth, 1968 in Europe: A History of Protest and
Activism, 1956-77, Macmillan 2008.
37. Ibid.
38. Giovanni Arrighi, Terrence Hopkins e Immanuel Wallerstein, Antisystemic
Movements, Verso 1989, pag. 45-7.
39. Ibid.
40. Peter Starr, Logics of Failed Revolt: French Theory After May ’68, Stanford
University Press 1995.
41. Grant Kester, «Lessons in Futility: Francis Alÿs and the Legacy of May ’68», in
Third Text 23: 4, 2009.
42. Gilbert, Anti-Capitalism and Culture, pag. 23-4.
43. Daniel Yergin, Il premio: l’epica corsa al petrolio, al potere e al denaro, Sperling
& Kupfer 1991; Barry J. Eichengreen, Global Imbalances and the Lessons of
Bretton Woods, MIT Press 2007.
44. Geoffrey Barlow, The Labour Movement in Britain from Thatcher to Blair, Peter
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Lang 2008.
45. A testimonianza del successo neoliberale nella demolizione del potere dei
sindacati, la densità di popolazione in età lavorativa iscritta ai sindacati nelle
nazioni OCSE passò dal 34,1 al 20,4 tra 1980 e 2000. OCSE, «Trade Union
Density», OECD Stat Extracts, su stats.oecd.org
46. David Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore 2007.
47. Ibid.
48. Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza 2005.
49. Tim Jordan, Azione diretta! Le nuove forme della disobbedienza radicale,
Elèuthera 2003.
50. Kimberlé Crenshaw, «Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A
Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and
Antiracist Politics», in University of Chicago Legal Forum 140, 1988.
51. Shulamith Firestone, The Dialectic of Sex: The Case for Feminist Revolution,
Morrow 1970; Mandy Merck e Stella Sandford (a cura di), Further Adventures
of the Dialectic of Sex: Critical Essays on Shulamith Firestone, Macmillan 2010.
52. Vedi, per esempio, James A. Geschwender, Class, Race and Worker
Insurgency, Cambridge University Press 1977.
53. Amory Starr, Naming the Enemy: Anti-Corporate Movement Confront
Globalization, Zed 2000.
54. Jordan, Azione diretta!; Taylor e Gessen, Occupy!
55. Questo lavoro ha l’intento di espandere quanto precedentemente proposto
nel Manifesto per una politica accelerazionista. Abbiamo evitato di usare il
termine «accelerazionismo» in questo libro a causa delle controversie interpre-
tative generate da quel concetto, non perché non vi crediamo più o altro. Per
approfondire vedi Alex Williams e Nick Srnicek, «#Accelerate: Manifesto for
an Accelerationist Politics», in Robin Mackay e Armen Avanessian (a cura di),
#Accelerate: The Accelerationist Reader, Urbanomic 2014.
CAPITOLO 2
1. Queste posizioni possono essere rintracciate nelle varie accuse al movimento
Occupy sul suo essere troppo liberale. A tal proposito vedi Mark Bray, «Five
Liberals Tendencies that Plagued Occupy», in Roar Magazine, 14 marzo 2014,
reperibile su roarmag.org. Argomenti simili sono già stati usati in passato. Lo
stesso Marx, per esempio, pensava che i contadini fossero una base insuffi-
ciente alle politiche rivoluzionarie, e che soltanto la classe lavoratrice industria-
le avrebbe avuto interessi in linea col pensiero comunista. La nostra posizione
è che, indipendentemente dalle connotazioni di classe dell’orizzontalismo, del
localismo e delle altre folk politics, si tratta comunque di fenomeni costretti
dalla nozione di immediatezza spaziale, temporale e concettuale.
2. Anna Feigenbaum, Fabian Frenzel e Patrick McCurdy, Protest Camps, Zed
2013, pag. 159. Occorre osservare come orizzontalismi alternativi fossero pre-
senti nelle politiche di sinistra già da prima di inizi Settanta, con dei precetti
proto-orizzontalisti già intuibili nell’anarchismo del XIX secolo così come in altri
movimenti precedenti.
3. In questo capitolo non tratteremo la lunga storia del movimento anarchico, al
fine di concentrarci sull’orizzontalismo come incarnazione contemporanea di
310
NOTE
311
INVENTARE IL FUTURO
21. Il successo relativo degli egiziani, dei tunisini e degli islandesi nel mettere in atto
pratiche di occupazione deriva da una varietà di condizioni che li differenziaro-
no molto dalle condizioni di partenza dei movimenti europei e nordamericani:
per esempio, la condizione di relativa omogeneità religiosa ed etnoculturale
della Tunisia e dell’Islanda; i forti legami tra le occupazioni e altre forme di re-
sistenza istituzionale in tutti e tre i paesi; la diversa (e più visibile) repressione
statale in Tunisia ed Egitto; la piccolezza dell’Islanda (insieme al tentativo con-
sapevole di esprimere il movimento in termini parlamentari); e gli ostacoli emo-
tivi (ovvero la paura) che andavano superati in Egitto e in Tunisia. Per queste e
altre ragioni è in questi paesi che tali tattiche hanno avuto maggior successo.
22. Research and Destroy, «The Wreck of the Plaza», Research and Destroy, 14
giugno 2014, reperibile su researchanddestroy.wordpress.com.
23. Josh MacPhee, «A Qualitative Quilt Born of Pizzatopia», in Kate Khatib,
Margaret Killjoy e Mike McGuire (a cura di), We Are Many: Reflections on
Movement Strategy from Occupation to Liberation, AK Press 2012, pag. 27.
24. Taylor e Gessen, Occupy!
25. George Ciccariello-Maher, «From Oscar Grant to Occupy: The Long Arc of
Rebellion in Oakland» in Khatib et al., We Are Many, pag. 42.
26. Manuel Castells, Reti di indignazione e speranza.
27. Feigenbaum, Protest Camps, pag. 35.
28. Ibid.
29. Ibid.
30. Vedi, per esempio, l’Australian Tent Embassy montata sulle terre degli aborige-
ni (ibid.); Castells, Reti di indignazione e speranza.
31. Lester Spence e Mike McGuire, «Occupy and the 99%», in Khatib et al., We
Are Many, pag. 58.
32. Raul Zibechi, «Latin America Today, Seen From Below», Upside Down World,
26 giugno 2014, reperibile su upsidedownworld.org, pag. 42-4. Potremmo
insomma dire che, mentre i movimenti politici e sociali spontaneisti che du-
rano un periodo relativamente breve hanno un loro ruolo, una politica che si
basa esclusivamente su tali espressioni troverà molto difficile smantellare e
rimpiazzare nel lungo termine quei fenomeni che caratterizzano il capitalismo
avanzato.
33. Anton Pannekoek, Workers’ Council, AK Press 2003; Gregory Fossedal,
Direct Democracy in Switzerland, Transaction 2007; Keir Milburn, «Beyond
Assemblysm: The Processual Calling of the 21st Century Left», in Shannon
Brincat, Communism in the 21st Century, Volume 3: The Future of Communism,
Praeger 2013.
34. Isabel Ortiz, Sara Burke, Mohamed Berrada e Hernan Cortes, World Protests
2006-2013, Initiative for Policy Dialogue e Friedrich-Ebert-Stiftung 2013, pdf
reperibile su fes-globalization.org.
35. Michael Albert, Oltre il capitalismo. Un’utopia realistica, Elèuthera 2007.
36. Samuel Farber, «Reflections on “Prefigurative Politics”», su International
Socialist Review, marzo 2011, reperibile su isreview.org.
37. Jane McAlevey, Raising Expectations (And Raising Hell): My Decade Fighting
for the Labour Movement, Verso 2014, pag. 11.
38. Not An Alternative, «Counter Power As Common Power», in Journal of Aes-
312
NOTE
313
INVENTARE IL FUTURO
passò dall’essere usata da un numero che stava tra un milione e due milioni
e mezzo di persone, a soltanto 100.000. Alcorta, «Solidarity Economies», pag.
272-3; Sitrin, Everyday Revolutions, pag. 77.
67. Feigenbaum et al., Protest Camps, pag. 159.
68. Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere. Il significato della rivo-
luzione oggi.
69. Ernst Schumacher, Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente
contasse qualcosa, Mursia 2010.
70. Philip Blond, Red Tory: How Left and Right Have Broken Britain and How We
Can Fix It, Faber & Faber 2010.
71. Justin Healey, Ethical Consumierism, Spinney 2013.
72. Uri Gordon, Anarchy Alive! Anti-Authoritarian Politics from Pratice to Theory,
Pluto 2007.
73. Alan Ducasse, «The Slow Revolutionary», Time, 3 ottobre 2004.
74. Carl Honoré, Elogio della lentezza: rallentare per vivere meglio, Rizzoli 2014.
75. Ibid.
76. Sarah Bowen, Sinikka Elliott e Joslyn Brenton, «The Joy of Cooking?», in Con-
texts 13: 3, 2014.
77. Miriam Glucksmann e Jane Nolan, «New Technologies and the Transformations
of Women’s Labour at Home and Work», in Equal Opportunities International,
20 febbraio 2007.
78. Will Boisvert, «An Environmentalist on the Lie of Locavorism», New York
Observer, 16 aprile 2013.
79. Alison Smith, Paul Watkiss, Geoff Tweddle, Alan McKinnon, Mike Browne,
Alistair Hunt, Colin Trevelen, Chris Nash e Sam Cross, The Validity of Food
Miles as an Indicator of Sustainable Development: Final Report, Department
for Enviroment, Food and Rural Affairs 2005.
80. Caroline Saunders, Andrew Barber e Greg Taylor, Food Miles: Comparative
Energy/Emissions Performance of New Zealand’s Agricolture Industry, Lincoln
University, Agribusiness and Economic Research Unit 2006, pdf reperibile su
lincoln.ac.nz.
81. In Gran Bretagna nel 2005 soltanto l’1% delle tonnellate di cibo è stato tra-
sportato per via aerea, generando però l’11% delle emissioni prodotte dalla
movimentazione degli alimenti in generale. Smith et al., Validity of Food Miles,
pag. 3.
82. Dough Henwood, «Moving Money (Revisited)», LBO News, 2010, reperibile su
lbo-news.com.
83. Stephen Gandel, «By Every Misure, The Big Banks are Bigger», Fortune, 13
settembre 2013, reperibile su fortune.com.
84. Victoria McGrane e Tan Gillian, «Lenders Are Warned on Risk», Wall Street
Journal, 25 giugno 2014.
85. OTC Derivatives Statistics at End-June 2014, Bank for International
Settlements 2014, pag. 2, reperibile su bis.org.
86. David Boyle, A Local Banking System: The Urgent Need to Reinvigorate UK
High Street Banking, New Economics Foundation 2011, pag. 8.
87. Ibid.
88. Giles Tremlett, «Spain’s Saving Banks’ Culture of Greed, Cronyism, and Polit-
314
NOTE
CAPITOLO 3
1. Jamie Peck, Constructions of Neoliberal Reason, Oxford University Press
2010, pag. 40.
2. Questa storia standard è in fase di riscrittura, e questo capitolo deve moltis-
simo ai pionieri di tali ricerche, inclusi i lavori inediti di Alex Andrews. Vedi,
per esempio, Philip Mirowski e Dieter Plehwe (a cura di), The Road from
Mont Pelerin: The Making of the Neoliberal Thought Collective, Harvard
University Press 2009; Philip Mirowski, Never Let a Serious Crisis Go to
Waste: How Neoliberalism Survived the Financial Meltdown, Verso 2013;
Peck, Constructions of Neoliberal Reason; Daniel Stedman Jones, Masters of
the Universe: Hayek, Friedman, and the Birth of Neoliberal Politics, Princeton
University Press 2012; Richard Cockett, Thinking the Unthinkable: Think-
Tanks and the Economic Counter-Revolution, 1931-1983, Fontana 1995;
Michel Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli 2015.
315
INVENTARE IL FUTURO
316
NOTE
317
INVENTARE IL FUTURO
CAPITOLO 4
1. Questo processo espansivo è stato concepito in svariati modi (non incompa-
tibili fra loro): per esempio attraverso sviluppi irregolari e combinati, interventi
sugli spazi e cicli espansivi egemonici. In ogni caso, la natura espansiva dell’u-
niversalismo capitalista è piuttosto evidente: vedi rispettivamente Neil Smith,
Uneven Development: Nature, Capital and the Production of Space, Verso
2010; David Harvey, La crisi della modernità, Il Saggiatore 2015; Giovanni
Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il
Saggiatore 2014.
2. Per un’articolata difesa di quanto affermiamo, vedi Vivek Chibber, Postcolonial
Theory and the Specter of Capital, Verso 2013.
3. «Perché è l’universale, infine... a fornire l’unica vera negazione dell’universali-
smo prestabilito.» François Jullien, L’universale e il comune. Il dialogo tra cul-
ture, Laterza 2010.
4. Mark Fisher e Jeremy Gilbert, Reclaim Modernity: Beyond Markets, Beyond
Machines, Compass 2014, pag. 12-14.
5. Sandro Mezzadra, «How Many Histories of Labour? Towards a Theory of
Postcolonial Capitalism», European Institute for Progressive Cultural Policies,
2012, reperibile su eipcp.net.
6. Mark Fisher, Realismo capitalista, NERO 2018.
7. Argomenti simili sono stati avanzati a proposito della postmodernità. Vedi
Harvey, The Condition of Postmodernity: An Enquiry Into the Origins of
Cultural Change, Wiley-Blackwell 1991.
8. Peter Wagner, Modernità. Comprendere il presente, Einaudi 2013.
318
NOTE
319
INVENTARE IL FUTURO
320
NOTE
minato: fino ad allora sarà costretto solo a gesti difensivi e di resistenza contro
l’espansivismo capitalista. Il pluriversalismo di conseguenza non può che pun-
tare sulla fine del capitalismo e su un progetto controegemonico postcapitalista
come sua precondizione esistenziale. Il problema dell’universalismo – e specie
di quello attualmente esistente – non può essere liquidato da semplici orpelli
teorici. Grosfoguel, «Deconolizing Western Uni-Versalism», pag. 101; Bhikhu
Parekh, «Non-Ethnocentric Universalism», in Tim Dunne e Nicholas J. Wheeler
(a cura di), Human Rights in Global Politics, Cambridge University Press 1999;
Mignolo, Darker Side of Western Modernity, pag. 275; Anthony Simon Laden,
Reasoning: A Social Picture, Oxford University Press 2014.
41. Ernesto Laclau, «Identità ed egemonia: il ruolo dell’universalità nella costitu-
zione delle logiche politiche», in Judith Butler, Ernesto Laclau e Slavoj Žižek,
Dialoghi sulla sinistra. Contingenza, egemonia, universalità, Laterza 2010.
42. Nora Sternfeld, «Whose Universalism Is It?», reperibile su eipcp.net; Jullien, On
the Universal, pag. 92.
43. Judith Butler, «Rimettere in scena l’universale: l’egemonia e i limiti del forma-
lismo», in Judith Butler, Ernesto Laclau e Slavoj Žižek, Dialoghi sulla sinistra.
Contingenza, egemonia, universalità.
44. Stefan Jonsson, «The Ideology of Universalism», New Left Review, maggio/
giugno 2010, pag. 117.
45. Matin, «Redeeming the Universal».
46. Per un classico riferimento sulla libertà negativa vedi Isaiah Berlin, «Two
Concepts of Liberty», in Henry Hardy (a cura di), Liberty, Oxford University
Press 2002.
47. Milton Friedman, Capitalismo e libertà, IBL 2010.
48. Friedrich Hayek, La via della schiavitù, Rubbettino 2011.
49. Qui ci sono dei punti di contatto con la distinzione operata da Philippe van Parijs
(e da molti altri teorici) tra libertà formale e reale; la nozione di libertà «sinteti-
ca» chiarifica però come non si tratti di un aspetto naturale dell’umanità, ma di
una costruzione sociale. Vedi Philippe van Parijs, Real Freedom for All: What (If
Anything) Can Justify Capitalism?, Oxford University Press 1997, pag. 21-4.
50. Daniel Raventos, Basic Income: The Material Conditions of Freedom, Pluto
2007, pag. 68; Mignolo, Darker Side of Western Modernity, pag. 300-1.
51. Karl Marx e Friedrich Engels, Ideologia tedesca, Bompiani 2011.
52. Steven Lukes, Il potere. Una visione radicale, Vita e Pensiero 2006.
53. Come afferma Erik Olin Wright: «L’idea di “prosperità” non include soltanto lo
sviluppo dell’intelletto umano e delle capacità sociali e psicologiche durante
l’infanzia, ma anche la continua opportunità di esercitare ulteriormente tali abi-
lità, e di svilupparne di nuove qualora le circostanze di vita lo richiedano». Erik
Olin Wright, Envisioning Real Utopias, Verso 2010, pag. 47-8.
54. Non esiste un ordine esatto di preferenza per questi tre elementi, anche se più
avanti nel libro ci concentreremo soprattutto sul primo.
55. Alex Gourevitch, «Labor Republicanism and the Tranformation of Work»,
Political Theory 41: 4, 2013, pag. 597.
56. Slavoj Žižek, «Utopia and Its Discontents», intervista con Slawomir Sierakowski,
23 febbraio 2015, reperibile su lareviewofbooks.org.
57. Karl Marx, Salario, prezzo, profitto, Bompiani 2010; Grundrisse, PiGreco
321
INVENTARE IL FUTURO
322
NOTE
CAPITOLO 5
1. Anche due recenti manifesti prodotti in India e in Germania hanno attaccato la
celebrazione del lavoro: Kamunist Kranti, «A Ballad Against Work», 1997, re-
peribile su libcom.org; Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro, DeriveApprodi
2003.
2. Karl Marx, Il Capitale, Libro III, Utet 2013.
3. Le ricerche suggeriscono che, nella formazione dei movimenti sociali, i cam-
biamenti di opportunità (come quelli che arrivano in momenti quali le crisi eco-
nomiche) sono molto più importanti del livello di insoddisfazione generale. In
altre parole, l’idea che il peggioramento della situazione porti necessariamente a
una rivoluzione ha poco sostegno empirico. Sidney Tarrow, Power in Movement:
Social Movements and Contentious Politics, Cambridge University Press 1998.
4. Karl Marx, Il Capitale.
5. Michael Perelman, The Invention of Capitalism: Classical Political Economy
and the Secret History of Primitive Accumulation, Duke University Press 2000.
6. Come scrive Marx, «proletariato» deve essere inteso, economicamente parlan-
do, come niente di più che la «massa dei salariati», e cioè chi produce e valo-
rizza il «Capitale» per essere poi «gettato sul lastrico non appena sia diventato
superfluo per i bisogni di valorizzazione». Marx, Il Capitale, Libro I.
7. In casi come quello dei lavoratori domestici non salariati, il proletario può anche
vivere con il salario generato da qualcun altro, con tutti i problemi di dipenden-
za che questo comporta. In casi del genere la sopravvivenza del proletario è
indirettamente dipendente dal lavoro salariato.
8. Richard Freeman, «The Great Doubling: The Challenge of the New Global Labor
Market», in John Edwards, Marion Crain e Arne Kalleberg (a cura di), Ending
Poverty in America: How to Restore American Dream, New Press 2007.
9. Steve Fraser, The Age of Acquiescence: The Life and Death of American
Resistance to Organized Wealth and Power, Little, Brown US 2015, pag. 60.
10. Il problema di come definire il surplus di popolazione viene spesso ignorato in
letteratura. Ma restano comunque questioni importanti che non possono essere
tralasciate: se il surplus viene definito in termini di lavoratori salariati vs. lavoratori
non salariati, significa quindi che la popolazione lavorativa carceraria non fa parte
del surplus? E che dire di tutto quel lavoro informale che lavora per un salario
e produce per il mercato? Altri problemi derivano se il surplus viene definito in
termini di lavoro produttivo e improduttivo. La posizione di Negri e Hardt è per
esempio che, visto che sotto il postfordismo il lavoro socialmente prodotto è
ovunque, un termine del genere abbia perso di significato (vedi Michael Hardt
e Antonio Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine mondiale,
Rizzoli 2004). È una conclusione che rigettiamo, e qui cerchiamo di dimostra-
323
INVENTARE IL FUTURO
324
NOTE
pag. 78.
19. Thor Berger e Carl Benedikt Frey, Technology Shocks and Urban Evolutions:
Did the Computer Revolution Shift the Fortunes of US Cities?, Oxford Martin
School 2014, pag. 6.
20. James Bessen, «Toil and Technology», Finance & Development 52: 1, 2015,
pag. 17.
21. L’evidenza suggerisce come la diffusione globale delle filiali bancarie stia già
diminuendo. Carl Benedikt Frey e Michael Osborne, Technology at Work: The
Future of Innovation and Employment, Citi – Global Perspective and Solutions
2015, pag. 25-6, reperibile su ir.citi.com.
22. Wassily Leontief, «National Perspective: The Definition of Problem and
Opportunities», in The Long-Term Impact of Technology on Employment and
Unemployment, National Academy of Engineering 1983.
23. Ci sono alcune prove del fatto che stia accadendo, con le aziende che denun-
ciano difficoltà a trovare lavoratori specializzati e l’innalzamento della disparità
di salario tra i lavoratori più e meno specializzati all’interno della stessa azienda.
Bessen, «Toil and Technology», pag. 19.
24. Boyan Jovanovic e Peter L. Rousseau, General Purpose Technologies,
Working Paper, National Bureau of Economic, gennaio 2005, reperibile su
nber.org; George Terbough, The Automation Hysteria: An Appraisal of the
Allarmist View of the Technological Revolution, W.W. Norton 1966, pag. 54-
55. Aaron Benanav e Endnotes, «Misery and Debt», in Endnotes 2: Misery and
the Value Form, Endnotes 2010, pag. 31.
25. Barry Eichengreen, Secular Stagnation: The Long View, National Bureau of
Economic Research, gennaio 2015, pag. 5, reperibile su nber.org.
26. Kalyan Sanyal, Rethinking Capitalist Development: Primitive Accumulation,
Governamentality and Post-Colonial Capitalism, Routhledge India 2013, pag.
55. In particolare, questo significa che questo settore economico è eminen-
temente contemporaneo, e non il residuo di un qualche modo di produzione
precapitalistico.
27. Gabriel Wildau, «China Migration: At the Turning Point», Financial Times, 4
maggio 2015, reperibile su ft.com; «Global Labor Glut Sinking Wages Means
US Needs to Get Schooled», Bloomberg, 4 maggio 2015, reperibile su blo-
omberg.com. Mentre l’Africa deve ancora essere integrata a pieno nel regime
capitalista globale, è da notare come l’integrazione della Cina e degli Stati
post-sovietici abbia generato un’impennata una tantum nella forza lavoro glo-
bale. D’ora in poi, la tendenza sarà di un generale declino dell’importanza di
questo meccanismo nella produzione del surplus di popolazione.
28. Notiamo qui che mentre i primi due meccanismi sono integrali all’accumula-
zione capitalista (cambi nelle forze produttive ed espansione delle relazioni
sociali capitaliste), la terza è una logica distinta dalla sola accumulazione. La
caratteristica empirica di tale gruppo cambia anche col tempo (vedi per esem-
pio l’integrazione delle donne nella forza lavoro negli ultimi quattro decenni).
Lynda Yanz e David Smith, «Women as a Reserve Army of Labour: A Critique»,
Review of Radical Political Economics 15: 1, 1983, pag. 104.
29. In altre parole, queste forme di dominazione sono spesso funzionali al capitali-
smo, anche se le loro funzioni non ne spiegano la genesi.
325
INVENTARE IL FUTURO
30. Ben trentasei milioni di persone sono oggi considerate sotto schiavitù: Global
Slavery Index 2014, Walk Free Foundation 2014.
31. Edward E. Baptist, Half Has Never Been Told: Slavery and the Making of
American Capitalism, Basic Books 2014; Silvia Federici, «Wages Against
Houseworks», in Revolution at Point Zero: Housework, Reproduction and
Feminist Struggle, PM Press 2012.
32. In termini di disoccupazione globale, le donne hanno dovuto affrontare le
conseguenze più dure della crisi negli ultimi anni. ILO, World Employment
and Social Outlook: The Changing Nature of Jobs, International Labour
Organization 2015, pag. 18.
33. Per esempio, gli uomini di colore negli Stati Uniti hanno sofferto in maniera par-
ticolare l’automazione e l’esternalizzazione dell’industria manifatturiera. William
Julius Wilson, When Work Disappears: The World of the New Urban Poor,
Vintage Books 1997, pag. 29-31.
34. Michael McIntyre, «Race, Surplus Population and the Marxist Theory of
Imperialism», Antipode 43: 5, 2011, pag. 1500-2.
35. Qui ci si richiama sostanzialmente alle divisioni operate da Marx tra esercito
flessibile/di riserva, latente e stagnante, aggiornando però quello stesso esem-
pio storico.
36. Gary Fields, Working Hard, Working Poor: A Global Journey, Oxford University
Press 2012, pag. 46.
37. Kalyan Sanyal le descrive come «economie del bisogno». Vedi Sanyal,
Rethinking Capitalist Development.
38. L’area dell’«impiego vulnerabile» oggi ammonta al 48% dell’occupazione totale:
cinque volte di più del livello pre-crisi. Si pensa inoltre che questo numero sia
sottostimato, vista la sua natura informale. ILO, Global Employment Trends
2014: Risk or Jobless Recovery?, International Labour Organization 2014,
pag. 12; David Neilson e Thomas Stubbs, «Relative Surplus Population and
Uneven Development in the Neoliberal Era: Theory and Empirical Application»,
Capital & Class 35, 2011, pag. 443.
39. Secondo la classica formula marxiana, si tratterebbe del tipico schema MDM:
trasformazione di merce in denaro e ritrasformazione di denaro in merce ai fini
della sussistenza. Differisce dalle economie precapitaliste di sussistenza nel
fatto che le merci non sono prodotte per un consumo personale, ma devono
essere necessariamente mediate dal mercato. Sanyal, Rethinking Capitalist
Development, pag. 69-70.
40. Michael Denning, «Wageless Life», New Left Review II/66, novembre/dicem-
bre 2010, pag. 86; ILO, G20 Labour Markets: Outlook, Key Challenges and
Policy Responses, International Labour Organization/OECD/World Bank
2014, reperibile su ilo.org, pag. 8.
41. Marilyn Power, «From Home Production to Wage Labour: Women as a Reserve
Army of Labour», Review of Radical Political Economics 15: 1, 1983.
42. David Harvey, Introduzione al Capitale. 12 lezioni sul primo libro e sull’attualità
di Marx, La casa Usher 2014.
43. ILO, Key Indicators of the Labor Market, 8th edn, International Labour
Organization 2013, reperibile su ilo.org.
44. State of the Global Workplace: Employee Engagement Insights for Business
326
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INVENTARE IL FUTURO
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bile su lebyinstitute.org.
138. Danning, «Wageless Life», pag. 84-6.
139. Aaron Bastani, «Weaponising Workfare», openDemocracy, 22 marzo 2013, re-
peribile su opendemocracy.net; Joe Davidson, «Workfare and the Management
of the Consolidated Surplus Population», Spectre 1, 2013, reperibile su
spectrecambridge.wordpress.com; Marta Russell, «The New Reserve Army of
Labor?», Review of Political Economics 33: 2, 2001.
140. Aufheben, «Editorial: The “New” Workfare Schemes in Historical and Class
Context», Aufheben 21, 2012, reperibile su libcom.org, pag. 4.
141. «Nel 1820 la Gran Bretagna aveva una popolazione di 12 milioni di abitanti,
ma tra il 1820 e il 1915 emigrarono in 16 milioni. In altre parole, più della metà
dell’incremento demografico emigrò ogni anno. Nello stesso periodo, il totale
dell’emigrazione europea verso il Nuovo Mondo (“regioni temperate con inse-
diamenti bianchi”) fu di 50 milioni di persone.» Foster, McChesney e Jonna,
«The Global Reserve Army of Labor and the New Imperialism»; Davis, Planet of
Slums, pag. 183.
142. Per esempio, negli anni Settanta e Ottanta la Svizzera mantenne un tas-
so di disoccupazione basso, nonostante una crescita lenta, rimpatriando gli
immigrati italiani. Therborn, Why Some People Are More Unemployed than
Others, pag. 28.
143. Tara Brian e Frank Laczko (a cura di), Fatal Journeys: Tracking Lives Lost
During Migration, ILO 2014, reperibile su publications.iom.int, pag. 12.
144. Dennis Arnold e John Pickles, «Global Work, Surplus Labor and the Precarious
Economies of the Border», Antipode 43: 5, 2011.
145. Tra il 1998 e il 2013 la popolazione carceraria è aumentata dal 25 al 30%,
mentre la popolazione mondiale è aumentata del 20%. Roy Walmsley, World
Prison Population List, International Centre for Prison Studies 2013, reperibile
su prisonstudies.org, pag. 1.
146. Molly Moore, «In France, Prisons Filled with Muslims», Washington Post, 29
aprile 2008; Scott Gilmore, «Canada’s Racism Problem? It’s Even Worse than
America’s», Macleans, 22 gennaio 2015, reperibile su macleans.ca; Jaime
Amparo-Alves, «Living in the Necropolis: Homo Sacer and the Black Inhuman
Condition in Sao Paulo/Brazil», presentato al Critical Ethnic Studies and the
Future of Genocide, Univesity of California, Riverside, marzo 2011, reperibile
su repositories.lib.utexas.edu.
147. Alexander, New Jim Crow, pag. 13.
148. George S. Rigakos e Aysegul Ergul, «Policing the Industrial Reserve Army: An
International Study», Crime, Law and Social Change 56: 4, 2011, pag. 355.
149. Angela Y. Davis, «Deepening the Debate over Mass Incarceration», Socialism
and Democracy 28: 3, 2014, pag. 16.
150. È sufficiente indicare qui due punti: che il picco nella costruzione di carceri
fu raggiunto in un periodo di diminuzione del tasso di criminalità e che, ben-
ché il tasso di criminalità sia rimasto costante negli ultimi trent’anni, gli Stati
Uniti sono diventati sei volte più punitivi. Alexander, New Jim Crow, pag. 218;
Wacquant, «Class, Race and Hyperincarceration», pag. 45.
151. Wacquant, «Class, Race and Hyperincarceration», pag. 42.
152. In California l’80% degli accusati si avvale di un avvocato d’ufficio. Ruth Wilson
334
NOTE
CAPITOLO 6
1. In maniera sia implicita che esplicita, questo capitolo deve molto al lavoro di
Kathi Weeks. Vedi Kathi Weeks, The Problem with Work: Feminism, Marxism,
Antiwork Politics and Postwork Imaginaries, Duke University Press 2011.
2. «Communiqué from an Absent Future», We Want Everything, 24 settembre
2009, reperibile su wewanteverything.wordpress.com.
3. Ben Trott, «Walking in the Right Direction?», Turbulence 1, 2007, reperibi-
le su turbulence.org.uk; Marco Deseriis e Jodi Dean, «A Movement Without
Demands?», Possible Futures, 3 gennaio 2012, reperibile su possible-futu-
res.org; Bertie Russell, «Demanding the Future? What a Demand Can Do»,
Journal of Aesthetics and Protest, 2014, reperibile su joaap.org.
4. Weeks, Problem with Work, pag. 218-24, 175.
5. Questo è un aspetto che le distingue dalle «richieste di transizione» articolate
da Leon Trotsky. Vedi Trott, «Walking in the Right Direction?»; Leon Trotsky,
Programma di transizione. L’agonia mortale del capitalismo e i compiti della
Quarta internazionale, Massari 2009.
335
INVENTARE IL FUTURO
336
NOTE
337
INVENTARE IL FUTURO
28. Isaac Arnsdorf, «Rolls-Royce Drone Ships Challenge $375 Billion Industry:
Freight», Bloomberg, 25 febbraio 2014, reperibile su bloomberg.com; «Amazon
Testing Drones for Deliveries», BBC News, 2 dicembre 2013; Danielle Kucera,
«Amazon Acquires Kiva Systems in Second-Biggest Takeover», Bloomberg,
19 marzo 2012, reperibile su bloomberg.com; Vicky Validakis, «Rio’s Driverless
Truck Move 100 Million Tonnes», Mining Australia, 24 aprile 2013, reperibile
su miningaustralia.com.au; Elise Hu, «The Fast Food Restaurant that Require
Few Human Workers», 29 agosto 2013, reperibile su npr.org; Christopher
Steiner, Automate This: How Algorithms Came to Rule Our World, Penguin/
Portfolio 2012; Mark Levinson, The Box: How the Shipping Container Made
the World Smaller and the World Economy Bigger, Princeton University Press
2008; Daniel Beunza, Donald MacKenzie, Yuval Milo e Juan Pablo Pardo-
Guerra, Impersonal Efficiency and the Dangers of a Fully Automated Security
Exchange, Foresight 2011.
29. Per un riepilogo un po’ datato ma ancora utile dei vari processi di automazione
vedi Ramin Ramtin, Capitalism and Automation: Revolution in Technology and
Capitalist Breakdown, Pluto 1991, cap. 4.
30. Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine,
Feltrinelli 2015, cap. 2-4.
31. Ibid., cap. 1; Frey e Osborne, Future of Employment, pag. 44.
32. Paul Lippe e Daniel Martin Katz, «10 Prediction About How IBM’s Watson
Will Impact the Legal Profession», ABA Journal, 2 ottobre 2014, reperibile su
abajournal.com.
33. Brynjolfsson e McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine, cap. 2.
34. Dave Cliff, Dan Brown e Philip Treleaven, Technology Trends in the Financial
Markets: A 2020 Vision, Foresight 2011, pag. 36. L’esatta tempistica dell’au-
tomazione dei mercati finanziari dipende dal singolo prodotto preso in esa-
me. Per un profilo dell’adozione incostante dell’automazione nel trading, vedi
Carl Benedikt Frey e Michael Osborne, Technology at Work: The Future of
Innovation and Employment, Citi – Global Perspective and Solution 2015,
pag. 26-7, reperibile su ir.citi.com.
35. Vauhini Vara, «The Lowe’s Robot and the Future of Service Work», New Yorker,
29 ottobre 2014.
36. Frey e Osborne, Future of Employment, pag. 19.
37. Ibid.
38. In un inaspettato revival della teoria marxista più classica, due recenti model-
li hanno suggerito che l’automazione porterà all’impoverimento dei lavoratori:
Jeffrey Sachs, Seth Benzell e Guillermo LaGarda, Robots: Curse or Blessing?
A Basic Framework, National Bureau of Economic Research, aprile 2015,
reperibile su nber.org; Seth Benzell, Laurence Kotlikoff, Guillermo LaGarda
e Jeffrey Sachs, Robots Are Us: Some Economics of Human Replacement,
National Bureau of Economic Research, febbraio 2015, reperibile su nber.org.
39. Lawrence Summers, «Roundtable: the Future of Jobs», presentato a The Future
of Work in the Age of the Machine, Hamilton Project, Washington, 19 feb-
braio 2015, reperibile su hamiltonproject.org. L’Organizzazione Internazionale
del Lavoro sostiene inoltre che il lento incremento del tasso di occupazione
globale è principalmente correlato all’altrettanto lenta crescita economica, ma
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NOTE
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INVENTARE IL FUTURO
Per alcune indicative critiche alla piena automazione, vedi Ernest Mandel, Late
Capitalism, Verso 1998, pag. 205; George Caffentzis, «The End of Work or
the Renaissance of Slavery? A Critique of Rifkin and Negri», in Letters of Blood
and Fire, PM Press 2012, pag. 78.
46. Bisogna dire che alcune implicite mansioni cognitive vengono sempre più au-
tomatizzate attraverso il controllo ambientale e il machine learning, con inno-
vazioni ancora più recenti che eliminano finanche il bisogno di un ambiente
controllato. Frey e Osborne, Future of Employment, pag. 27; Autor, Polanyi’s
Paradox; Sarah Yang, «New “Deep Learning” Technique Enables Robot
Mastery of Skills via Trial and Error», 21 maggio 2015, reperibile su phys.org.
47. Secondo Marx è per questa ragione che «in una società comunista, le macchi-
ne disporrebbero di un campo di azione ben diverso che nella società borghe-
se». Marx, Il Capitale.
48. Silvia Federici, «Permanent Reproductive Crisis: An Interview», Mute, 7 marzo
2013, reperibile su metamute.org.
49. Per un’eccellente visione d’insieme di alcune storiche esperienze ri-
guardanti soluzioni domestiche alternative vedi Dolores Hayden, Grand
Domestic Revolution: A History of Feminist Designs for American Homes,
Neighbourhoods and Cities, MIT press 1996.
50. Tuttavia, bisogna riconoscere che, storicamente, i dispositivi salva-lavoro do-
mestico tendono a imporre notevoli aspettative sul mantenimento della casa
piuttosto che creare più tempo libero. Ruth Schwartz Cowan, More Work
for Mother: The Ironies of Household Tecnology from the Open Heart to the
Microwave, Basic Books 1985; Leopoldina Fortunati, L’arcano della riprodu-
zione. Casalinghe, prostitute, operai e capitale, Marsilio 1981; Silvia Federici,
«The Reproduction of Labor Power in the Global Economy and the Unfinished
Feminist Revolution», in Revolution at Point Zero: Housework, Reproduction
and Feminist Struggle, PM Press 2012, pag. 106-107.
51. Intendiamo il termine «produttività» nella sua accezione più strettamente marxi-
sta, non per insinuare che il lavoro domestico sia inutile.
52. «Robots Capable of Sorting Through and Folding Piles of Rumpled Clothes»,
16 marzo 2015, reperibile su phys.org.
53. Ringraziamo Helen Hester per averci fatto notare questo aspetto.
54. Shulamith Firestone, The Dialectic of Sex: The Case of Feminist Revolution,
Farrar, Straus & Giroux 2003, pag. 180-181.
55. E.P. Thompson, «Time, Work-Discipline, and Industrial Capitalism», Past &
Present 38: 1, 1967, pag. 85; Stanley Aronowitz, Dawn Esposito, William
DiFazio e Margaret Yard, «The Post-Work Manifesto», in Stanley Aronowitz e
Jonathan Cutler (a cura di), Post-Work: The Wages of Cybernation, Routledge
1998, pag. 59-60; David Graeber, «Revolution at the Level of Common
Sense», in Federico Campagna ed Emanuele Campiglio (a cura di), What Are
We Fighting For: A Radical Collective Manifesto, Pluto 2012, pag. 171.
56. Benjamin Kline Hunnicutt, Work Without End: Abandoning Shorter Hours for
the Right to Work, Temple University Press 1988, pag. 9.
57. Roland Paulsen, «Non-Work at Work: Resistance or What?», Organization,
2013, reperibile su sagepub.com.
58. Witold Rybczynki, Waiting for the Weekend, Penguin 1991, pag. 115-117;
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NOTE
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NOTE
119. Mckay e Vanevery, «Gender, Family and Income Maintenance», pag. 280.
120. Hum e Simpson, «A Guaranteed Annual Income?», pag. 81.
121. Questa è una delle ragioni per cui il reddito base universale è una richiesta
migliore di quella per un salario per il lavoro domestico. Weeks, Problem with
Work, pag. 144.
122. Raventós, Basic Income, cap. 8; Chancer, «Benefitting from Pragmatic Vision,
Part I», pag. 120-122; Guy Standing, «The Precariat Needs a Basic Income»,
Financial Times, 21 novembre 2013; Gorz, La strada del paradiso.
123. Per un’eloquente polemica contro l’etica del lavoro vedi Federico Campagna,
L’ultima notte. Anti-lavoro, ateismo, avventura, Postmedia 2015.
124. Steensland, Failed Welfare Revolution, pag. 13-18.
125. Ibid.
126. Pierre Dardot e Christian Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della
razionalità neoliberista, DeriveApprodi 2013.
127. Campagna, L’ultima notte.
128. Weeks, Problem with Work, pag. 44.
129. Ibid.
130. Ibid.
131. Youngjoo Cha e Kim A. Weeden, «Overwork and the Slow Convergence in the
Gender Gap in Wages», American Sociological Review 79: 3, 2014.
132. Keir Milburn, «On Social Strikes and Directional Demands», Plan C, 7 maggio
2015, reperibile su weareplanc.org.
133. State of the Global Workplace: Employee Engagement Insight for Business
Leaders Worldwide, Gallup, 2013, reperibile su ihrim.org, pag. 12.
134. Come sempre, il giornale satirico The Onion è un passo avanti agli altri, tito-
lando di recente un articolo: «I lavoratori dell’industria cinese temono di non
essere mai rimpiazzati dalle macchine».
135. Gáspár Miklós Tamás, «Telling the Truth About Class», Grundrisse 22, 2007,
reperibile su grundrisse.net.
136. Pur aderendo a pratiche di folk politics non modulabile, il movimento del «ritor-
no alla terra» dei Settanta fu più che altro espressione del desiderio di sfuggire
all’etica del lavoro dominante. Bernard Marszalek, «Lafargue for Today», in The
Right to Be Lazy, AK Press 2011, pag. 13.
137. Gorz, La strada del paradiso.
138. Steensland, Failed Welfare Revolution, pag. 220.
CAPITOLO 7
1. Lesley Wood, Crisis and Control: The Militarization of Protest Policing, Pluto
2014.
2. Per una panoramica di alcuni dei dibattiti sulle origini del capitalismo vedi Ellen
Meiksins Wood, Imperi del capitale, Meltemi 2007, cap. 1-3.
3. Per un passo fondamentale verso la comprensione delle condizioni del ca-
pitalismo postcoloniale e dell’egemonia dello «sviluppo», vedi Kalyan Sanyal,
Rethinking Capitalist Development: Primitive Accumulation, Governmentality
and Post-Colonial Capitalism, Routledge India 2013.
4. Le condizioni uniche del Venezuela sembrano aver prodotto il solo spazio in
cui questa strategia è stata adottata in maniera significativa, sebbene in una
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NOTE
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NOTE
35. Fredric Jameson, Valences of the Dialectic, Verso 2010, pag. 413.
36. «Marx cercò di combinare la politica della rivolta con la “poesia del futuro” e si
dedicò alla dimostrazione che, rispetto al capitalismo, il socialismo era più mo-
derno e più produttivo. Per la sinistra di oggi recuperare quel senso del futuro
e quell’eccitamento è senza dubbio uno dei compiti principali di qualsivoglia
“battaglia discorsiva”.» Fredric Jameson, Representing Capital: A Reading of
Volume One, Verso 2011, pag. 90.
37. Fredric Jameson, A Singular Modernity: Essay on the Ontology of the Present,
Verso 2002, pag. 8.
38. Possiamo qui tracciare una distinzione tra utopie astratte e concrete: se le pri-
me proiettano un immagine del futuro slegata dalle attuali condizioni politiche,
le seconde sono guidate da un’analisi rigorosa della congiuntura corrente a
aspirano a incidere sul qui e ora. Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx,
Laterza 1973; Ernst Bloch, Il principio speranza, Garzanti 2005.
39. George Young, I cosmisti russi. Il futurismo esoterico di Nikolaj Fedorov e dei
suoi seguaci, Tre 2017.
40. Richard Stites, «Fantasy and Revolution: Alexander Bogdanov and the Origins
of Bolshevik Science Fiction»; Siddiqi, Red Rockets’ Glare, cap. 4.
41. Erik Olin Wright, Envisioning Real Utopias, Verso 2010, pag. 23.
42. Jameson, Singular Modernity, pag. 26; Vincent Geoghegan, Utopianism and
Marxism, Peter Lang 2008, pag. 16.
43. Zygmunt Bauman, Socialism: The Active Utopia, Routledge 2011, pag. 13.
44. Kilgore, Astrofuturism, pag. 237-8; Stites, Revolutionary Dreams, pag. 33.
45. Slavoj Žižek, «Towards a Materialist Theory of Subjectivity», Birkbeck, Londra,
22 maggio 2014, podcast su backdoorbroadcasting.net.
46. Weeks, Problem with Work, pag. 204.
47. Ruth Levitas, The Concept of Utopia, Peter Lang 2011.
48. E.P. Thompson, «Romanticism, Utopianism and Moralism: The Case of William
Morris», New Left Review, settembre-ottobre 1976, pag. 97.
49. La forma più condensata e interventista di questa dimensione utopica è il ma-
nifesto. Vedi Weeks, Problem with Work, pag. 213-18.
50. Manuel Castells, Reti di indignazione e speranza. Movimenti sociali nell’era di
internet, Università Bocconi Editore 2012.
51. Patricia Reed, «Seven Prescriptions for Accelerationism», in Robin Mackay
e Armen Avanessian (a cura di), #Accelerate: The Accelerationist Reader,
Urbanomic 2014, pag. 528-31.
52. Wendy Brown, «Resisting Left Melancholy», Boundary 2 26: 3, 1999.
53. Paul Mason, Why It’s Kicking Off Everywhere: The New Global Revolutions,
Verso 2012, pag. 66-73.
54. Mark Fisher, «Going Overground», K-Punk, 5 gennaio 2014, su k-punk.org.
55. Bloch, Il principio speranza.
56. Paul Gilroy, The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia co-
scienza, Meltemi 2003; Weeks, Problem with Work, pag. 190-3; Geoghegan,
Utopianism and Marxism, pag. 20.
57. Bizzarramente, questa assenza di brama per il profitto ha portato qualcuno a
sinistra a interpretare in maniera perversa l’esplorazione spaziale come una
«utopia capitalista». George Caffentzis e Silvia Federici, «Mormons in Space»,
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NOTE
della classe. David Autor, Frank Levy e Richard Murnane, «The Skill Content
of Recent Technological Change: An Empirical Exploration», Quarterly Journal
of Economics 118: 4, 2003; Amit Basole, «Class-Biased Technical Change
and Socialism: Some Reflections on Benedito Moraes-Neto’s “On the
Labor Process and Productive Efficiency: Discussing the Socialist Project”»,
Rethinking Marxism 25: 4, 2013.
112. Per una delle prime analisi di questo effetto, vedi Raniero Panzieri, «Sull’uso
capitalistico delle macchine nel neocapitalismo», in Lotte operaie nello svilup-
po capitalistico, Einaudi 1976.
113. David F. Noble, La questione tecnologica, Bollati Boringhieri 1993; Karl Marx,
Il Capitale, Libro I.
114. Melvin Kranzberg, «Technology and History: “Kranzberg’s Laws”», Technology
and Culture 27:3, 1986, pag. 545.
115. George Basalla, The Evolution of Technology, Cambridge University Press
1988, pag. 7.
116. Su come la tecnologia viene plasmata dai suoi utilizzatori, vedi Nellie Ooudshorn
e Trevor Pinch (a cura di), How Users Matter: The Co-Construction of Users
and Technology, MIT Press 2005.
117. Harry Cleaver, «Technology as Political Weaponry», in The Responsibility of the
Scientific and Technological Enterprise in Technology Transfer, American Asso-
ciation for the Advancement of Science 1981, pdf reperibile su academia.edu.
118. Anche se mai impiegate, le armi nucleari si fondano ancora su questa loro
primaria funzione.
119. Per una riflessione incisiva sul rapporto tra lavoratori cognitivi e altre figure
della classe operaia, vedi Matteo Pasquinelli, «To Anticipate and Accelerate:
Italian Operaismo and Reading Marx’s Notion of the Organic Composition of
Capital», Rethinking Marxism 26: 2, 2014.
CAPITOLO 8
1. Per «potere» intendiamo la capacità di portare avanti i propri interessi. Steven
Lukes, Il potere. Una visione radicale, Vita e Pensiero 2007.
2. John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, Intra Moenia 2004.
3. Qui ci concentriamo su tre fattori, ma senza dubbio ce ne sono innumerevoli altri,
compresi elementi imprevedibili quali la visione individuale e la semplice fortuna.
4. In termini di lotta di classe, qui possiamo trovare forme come il potere associa-
tivo, quello contrattuale e quello sul posto di lavoro. Beverly Silver, Le forze del
lavoro, Bruno Mondadori 2008.
5. Sotto il capitalismo, la caratteristica distintiva del conflitto di classe si ritiene
sia la sua tendenza a semplificare l’antagonismo. Karl Marx e Friedrich Engels,
Manifesto del Partito Comunista, Einaudi 2014.
6. «The Holding Pattern: The Ongoing Crisis and the Class Struggles of 2011-
2013», Endnotes 3, 2013, su endnotes.org.uk, pag. 49-50.
7. Frances Fox Piven e Richard Cloward, Poor People’s Movements: Why They
Succeed, How They Fail, Random House 1988, pag. 194.
8. Marx e Engels, Manifesto.
9. Come però ci ricorda Beverly Silver, non dobbiamo partire dal presupposto
che simili tattiche siano risultate ovvie sin da subito: al contrario, è stato
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CONCLUSIONE
1. È quello che Marx implica quando afferma che «di fatto, il regno della libertà
comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla
finalità esterna». Karl Marx, Il Capitale, Libro III.
2. La tenacia della divisione della società per linee di genere è ampiamente dimo-
strata in Maria Mies, Patriarchy and Accumulation on a World Scale: Women
in the International Division of Labour, Zed 1999.
3. Kathi Weeks, The Problem with Work: Feminism, Marxism, Antiwork Politics,
and Postwork Imaginaries, Duke University Press 2011, pag. 216.
4. Robert J. Van Der Veen e Philippe Van Parijs, «A Capitalist Road to Communism»,
Theory and Society 15: 5, 1986, pag. 637.
5. Gregory N. Mandel e James Thuo Gathii, «Cost-Benefit Analysis Versus the
Precautionary Principle: Beyond Cass Sunstein’s Laws of Fear», University of
Illinois Law Review 5, 2006.
6. Per una riflessione essenziale sul tema, vedi Benedict Singleton, «Maximum
Jailbreak», in Robin Mackay e Armen Avanessian (a cura di), #Accelerate: The
Accelerationist Reader, Urbanomic 2014.
358
NOTE
7. Paul Mason, «What Would Keynes Do?», New Statesman, 12 giugno 2014.
8. Singleton, «Maximum Jailbreak»; Nikolai Federovich Federov, «The Philosophy
of the Common Task», in What Was Man Created For?, Honeyglen 1990.
9. Per un’articolazione accessibile di questa posizione, vedi W. Brian Arthur, La
natura della tecnologia. Che cos’è e come evolve, Codice 2011.
10. Tony Smith, «Red Innovation», Jacobin 17, 2015, pag. 75.
11. Mariana Mazzucato, Erik Brynjolfsson e Michael Osborne, «Robot Panel», presen-
tato al FT Camp Alphaville, Londra, 15 luglio 2014, disponibile su youtube.com.
12. Michael Hanlon, «The Golden Quarter», Aeon Magazine, 3 dicembre 2014, su
aeon.co; Tyler Cowen, The Great Stagnation: How America Ate All the Low-
Hanging Fruit of Modern History, Got Sick, and Will (Eventually) Feel Better,
Dutton 2011, pag. 13.
13. Questa è una delle conclusioni principali a cui arriva Mariana Mazzucato in un
libro importante come Lo Stato innovatore, Laterza 2014.
14. Per un’approfondita analisi di come Apple abbia cinicamente fatto affidamento
sulle tecnologie sviluppate dallo Stato, vedi ibid. cap. 5.
15. Il fatto che così tanti megaprogetti proseguano nonostante la loro storia di
sforamento dei costi e mancanza di rimuneratività è considerato un para-
dosso da uno studio: Bent Flyvbjerg, Nils Bruzelius e Werner Rothengatter,
Megaprojects and Risk: An Anatomy of Ambition, Cambridge University Press
2003, pag. 3-5.
16. André Gorz, La strada del paradiso, Edizioni Lavoro 1984.
17. Vedi Karl Marx e Friedrich Engels, Ideologia tedesca, Bompiani 2011.
18. Questo appellarsi al concetto di umanità fuori dal capitalismo è, per esempio,
uno degli aspetti più problematici del lavoro di Jacques Camatte. Vedi Jacques
Camatte, This World We Must Leave, Semiotexte 1996.
19. Weeks, Problem with Work, pag. 169.
20. Ernest Mandel, Late Capitalism, Verso 1998, pag. 394-5.
21. Marx parla di «energie». Karl Marx, Il Capitale, Libro III.
22. Federico Campagna, L’ultima notte. Anti-lavoro, ateismo, avventura, Postmedia
2015.
23. Per una prima indagine a riguardo, vedi Alexandra Kollontai, Selected Writings,
Allison & Busby 1977.
24. Stephen Eric Bronner, Reclaiming the Enlightenment: Toward a Politics of
Radical Engagement, Columbia University Press 2004, pag. 15.
25. Weeks, Problem with Work, pag. 103.
26. Benjamin Bratton, The Stack: On Software and Sovereignty, MIT Press 2015.
27. Tiziana Terranova, «Red Stack Attack!», in Robin Mackay e Armen Avanessian (a
cura di), #Accelerate: The Accelerationist Reader, Urbanomic 2014, pag. 391-3.
28. I racconti di vita quotidiana sotto un’economia partecipativa fanno riflettere.
Vedi Michael Albert, Oltre il capitalismo. Un’utopia realistica, Elèuthera 2007.
29. Nick Dyer-Witheford, «Red Plenty Platforms», Culture Machine 14, 2013, pag. 13.
30. Misurata in termini di operazioni al secondo, ci si aspetta che la differenza tra
1969 e 2019 sia di 107 contro 1018.
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