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Chiara Tosetti

Lettere classiche, a.a. 2016-17


Corso di Lingua e letteratura greca I

RITUALE FUNERARIO NELL’ANTICA GRECIA


(Iliade)

INTRODUZIONE
Nell’antica Grecia il destino dell’anima andava di pari passo con quello del corpo. Infatti, solo nel
momento in cui il cadavere riceveva gli onori funebri e una degna sepoltura, l’anima poteva raggiungere la
dimora definitiva nell’aldilà, trovando pace e non tornando ostilmente fra i vivi. La cura del corpo del
defunto, il rito funebre e la sepoltura (γέρας θανόντων) erano quindi momenti fondamentali nella vita di
quel tempo, scanditi da regole ben precise. Il γέρας θανόντων era un obbligo
- dei superstiti verso il defunto
- dell’intera comunità verso i guerrieri sacrificatisi in battaglia per difendere il bene collettivo
- dei compagni sul campo di battaglia.1
Data l’importanza che avevano i cadaveri, una strategia in battaglia era quella di appropriarsi del corpo
dell’avversario per poi restituirlo solo dietro riscatto.2

FASI DEL RITO FUNEBRE


Esistevano per il rito funebre delle dinamiche fisse in tempi ben determinati e scanditi.
Nella prima giornata i parenti stretti lavavano, ungevano il cadavere, lo incoronavano con bende e fiori, lo
avvolgevano in bianchi panni e accanto al cadavere veniva messa una focaccia condita con miele per
calmare Cerbero, il mostro che controllava l’ingresso agli Inferi.
Il secondo giorno avveniva l’esposizione del morto (πρόθεσις)3: il cadavere veniva disteso sul letto (κλίνη)
nella parte anteriore della casa, cosicché avesse la faccia e i piedi volti verso l’entrata; presso il letto
venivano posti vasi di ceramica dipinti (λήκυθοι). I parenti e gli amici si riunivano nella casa immersa nel
lutto e le parenti sedevano piangendo intorno al letto del defunto. Uscendo dalla casa, si poteva trovare un
vaso che veniva posto accanto all’uscio, il quale conteneva acqua presa altrove e non dalla casa stessa del
morto che in quel momento veniva ritenuta contaminata; con quest’acqua si potevano quindi purificare
coloro che uscivano dalla casa.4

1
Ad esempio anche in Il. 16,419-683; 17, 1-70; ecc. possiamo vedere come i compagni cercavano di difendere il corpo
dei compagni caduti in battaglia per riportarli al campo e compiere le cerimonie funebri
2
P. GAGLIARDI 2007
3
Cfr. figg. D, G, H, I
4
F. LÜBKER 1898 (p.1043)
Nel terzo giorno, prima del sorgere del sole, si faceva il mortorio (εκφορά < εκφερέιν portare alla
sepoltura) trasportando il cadavere sulla κλίνη. Si veniva a creare un corteo funebre composto da parenti,
amici e, talvolta, anche da cantori di nenie funebri (θρηνῳδοί). Il corpo veniva bruciato sulla pira (πυρά)
oppure sepolto; le ceneri venivano deposte in vasi cinerari, il cadavere deposto in una bara di legno, argilla
o pietra. Nella tomba venivano deposti, insieme al cadavere, diversi oggetti. Successivamente avveniva il
banchetto funebre (περίδειπνον) alla presenza di tutti i parenti nella casa in lutto; seguiva il sacrificio
funebre del terzo giorno: τὰ τρίτα (ἱερά).
Il periodo di lutto era di durata diversa a seconda del grado di parentela e della località (ad Atene, ad
esempio, si prolungava fino al trentesimo giorno in cui si compiva il sacrificio funebre). In questo periodo di
manifestazioni pubbliche di cordoglio si indossavano abiti scuri o bianchi, non era ammesso portare gioielli
ed ornamenti, nemmeno usare profumi o cosmetici, i capelli dovevano stare sciolti o essere tagliati.
I parenti si prendevano poi cura delle tombe dei propri cari; in determinati giorni (negli anniversari di morte
e durante la νεκύσια, festa dei morti) si tenevano solennità funebri in cui si adornavano i sepolcri con
bende e corone, si facevano sacrifici e libagioni, versando il sangue sulla tomba del morto.
I sepolcri solitamente erano situati fuori dalla città abitata e murata; ad Atene i cenotafi5 (κενός τάφος,
tomba vuota) dei cittadini morti in battaglia, i cui corpi non erano stati rinvenuti, si trovavano fuori dalla
città. Spesso i morti venivano seppelliti nel loro podere o in sepolcri di proprietà delle famiglie.

IL RUOLO DELLE DONNE NEL RITO FUNEBRE


Le donne gestivano tutto il rituale e l’esecuzione del lamento funebre. Questo compito veniva
affidato proprio alle donne, che alla morte dei loro uomini, nella società patriarcale in cui si ritrovavano,
venivano a contatto con un doppio dolore. La sofferenza per il distacco dalla persona amata si
accompagnava infatti alla consapevolezza della propria debolezza per le difficoltà economiche e la perdita
di rispettabilità; pesava, inoltre, l’umiliazione che si trovavano ad affrontare dopo la perdita della figura
maschile. Da qui derivava una serie di comportamenti auto-distruttivi e di smarrimento che venivano
espressi dalle donne durante questo rito.

LA FUNZIONE DEL LAMENTO FUNEBRE e ideologia del CADAVERE – VIVENTE6


La funzione del rituale funerario, e in particolare del lamento, era proprio quella di creare
un’atmosfera irreale: alternando momenti di sfogo a momenti di calma, si arrivava quasi allo smarrimento
della coscienza, in uno stato di trance, a metà tra la veglia e il sonno, in cui solo a tratti si recuperava la
piena consapevolezza della perdita del proprio caro così da accogliere in maniera graduale la dura realtà
della morte.

5
Cfr. figg. A, B
6
E. DE MARTINO 2008 p.192 ss.
Possiamo allora analizzare la figura del cadavere – vivente, che identifica la fase intermedia in cui il morto si
trovava, in una dinamica a metà tra un rapporto ancora presente con i vivi e un avvio verso la condizione
definitiva di morto nel regno dei morti. Il periodo di lutto serviva a risolvere le operazioni di separazione e
di rapporto dei vivi con il cadavere – vivente, fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio. Il defunto
doveva essere interiorizzato, risolto nella benefica memoria per poi morire definitivamente: l’uomo, quindi,
aggiungeva quella <<seconda morte>> culturale alla <<prima morte>> naturale.

PLANCTUS E LAMENTO FUNEBRE


Analizziamo ora nello specifico le modalità con cui si piangeva il defunto.
In una prima fase, detta planctus, si osservava una crisi di disperazione, spinta fino alle soglie della follia,
necessaria a risolvere l’impulso suicida con delle stereotipie mimiche, alludenti al simbolico impulso di
annientamento totale. Anche la seconda fase, quella del lamento funebre, richiedeva una mimica
prestabilita.
Nel planctus i gesti del rito, però, non venivano lasciati all’arbitrio individuale: c’erano dei limiti di
esecuzione volti ad evitare il pericolo di suicidio. Possiamo ricordare: incidersi le carni, graffiarsi a sangue
gote e avambracci, percuotersi viso, testa, fronte, petto, fianchi, gambe, strapparsi capelli o barba,
imbrattarsi di polvere come se si fosse inumati, stracciarsi le vesti, lasciarsi cadere a terra come se si fosse
folgorati dalla morte 7. Talvolta i capelli, invece di essere strappati, venivano semplicemente raccolti o ne
veniva tagliata una sola ciocca.
Interessanti sono le valenze apotropaiche di alcuni gesti: il cospargersi il capo di ceneri può simboleggiare
l’autoinumazione per risolvere la tentazione suicida, oppure il tentativo “di rendersi irriconoscibile di fronte
alla sgomentante estraneità del cadavere”8 e al rischio del ritorno del morto tra i vivi, o ancora potrebbe
essere espressione dell’impurità in cui il lutto ha gettato la casa contagiandola; lo strapparsi e tagliarsi i
9
capelli e gettarli sul cadavere indica un’automutilazione, simboleggia il rendersi irriconoscibile per
sfuggire al morto, il cercare di placarlo, pagando di persona, potrebbe anche indicare la volontà di
instaurare un’alleanza eterna; il percuotersi ritmico (κορετός rituale) la testa con entrambe le mani
esprime una forma di autosoppressione al fine di partecipare alla condizione del morto e di placarlo; il
gesto di portare al capo un solo braccio per eseguire il κορετός10, mentre l’altro si distende, simboleggia la
separazione, il saluto ultimo o l’informazione che viene data al morto per indicargli la strada che deve
seguire per raggiungere la sua meta.

7
Il. 22, 466 ss.
8
DE MARTINO 2008 (p.196)
9
I Mirmidoni e Achille sul cadavere di Patroclo [Il. 23, 135 ss.]
10
Cfr. fig. D, G, H, I, J
Ci si orienta spesso verso moduli mimici iterabili secondo un ritmo: da qui deriva un’ampia diffusione della
percussione delle diverse parti del corpo. Questa ritualizzazione serve a dare ordine alla crisi iniziale per
aprire l’orizzonte al lamento.
I gesti venivano accompagnati da un λόγος ritmico fondato su ritornelli emotivi (αἰαῖ, ὀτοτοῖ,οἴμοι).
Il passaggio tra il planctus ed il lamento funebre avviene sempre grazie a un personaggio solista (ἔξαρχος
γόοιο)11 che, con un gesto, coraggiosamente si poneva come guida del pianto; a questa singola guida
rispondevano gli στεναγμοί corali12 composti da una limitata parte della collettività in rapporto al sesso e al
grado sociale dell’ έξαρχος.13
Reiner14 ritiene che il lamento funebre (γόος) dell’epoca omerica non fosse propriamente poesia in quanto
non ubbidiva ad un metro, ma potesse essere assimilato ad una <<prosa ritmica>> con tono strascicato e
dizione alta: un prodotto intermedio tra una prosa parlata e il μέλος cantato; solo in un secondo momento,
sempre secondo Reiner, si svilupparono forme di lamento funebre cantato e con accompagnamento
musicale (canto funebre detto θρῆνος) .
Alexiou15 afferma che γόος e θρῆνος siano due parole di origine indoeuropea che indicavano il pianto
disperato, stridulo e che nella loro forma primitiva alludessero ad inarticolate forme di lamenti nei
confronti del morto.
Nel lamento funebre sappiamo che uno dei temi più ricorrenti è quello del cadavere, unica realtà tangibile
per le lamentatrici e oggetto principale delle loro cure nel rito funebre e nel lamento.

IL CARATTERE MAGICO DEL LAMENTO FUNEBRE


Si può intravvedere nel lamento funebre un carattere magico: per i vivi, che si incantano nel rituale
del pianto, e, contemporaneamente, per il cadavere – vivente, che viene aiutato dalla recitazione di moduli
verbali e mimici a raggiungere definitivamente il mondo dei morti, diventando così anche un alleato dei
vivi.

11
ACHILLE pone sul petto dell’amico la mano esperta nell’uccidere uomini e si fece guida del pianto (Il. 23, 17 ss.)
ECUBA si strappa le chiome, getta via il velo indicando la fine del silenzio e l’inizio del lamento, quindi prorompe in un
lungo gemito (Il. 22, 405-407)
PRIAMO si fa guida del pianto fra i cittadini (Il. 22,408 ss.)
ANDROMACA padroneggia la crisi e, dopo la caduta del velo, inizia il lamento tenendo tra le mani la testa di Ettore (Il.
22, 447 ss.)
12
Le tre donne che hanno la funzione di guida del pianto, vengono seguite dagli στεναγμοί corali dei presenti
13
Ad Andromaca rispondono sole donne
Ad Achille rispondono soli anziani
14
E. REINER 1938
15
M. ALEXIOU 1974 (p.102)
Possiamo concludere questa analisi citando alcune considerazioni di Benedetto Croce (riportate da De
Martino16), che si riferivano al Cristianesimo, ma possono essere estese a tutte le religioni, da cui si evince
che l’unico modo per evitare la perdita di noi stessi è quello di arrivare a dimenticare il morto.

Che cosa dobbiamo fare degli estinti, delle creature che ci furono care e che erano come parte di noi stessi?
<<Dimenticarli>> risponde. […] Quella dimenticanza non è opera del tempo; è opera nostra, che vogliamo
dimenticare e dimentichiamo… Nel suo primo stadio, il dolore è follia o quasi: si è in preda a impeti. Si vuole
revocare l’irrevocabile, chiamare chi non può rispondere, sentire il tocco della mano che ci è sfuggita per
sempre, vedere il lampo di quegli occhi che più non ci sorrideranno e dei quali la morte ha velato di tristezza
tutti i sorrisi che già lampeggiarono. E noi abbiamo rimorso di vivere, ci sembra di rubare qualcosa che è di
proprietà altrui, vorremmo morire con i nostri morti […].
Ma con l’esprimere il dolore, nelle varie forme di celebrazione e culto dei morti, si supera lo strazio
rendendolo oggettivo. Così cercando che i morti non siano morti, cominciamo a farli effettivamente morire
noi.[…]

16
DE MARTINO 2008 (p.8)
ANALISI TERMINI INTERESSANTI 17
Ho notato, in Omero, termini ricorrenti per indicare le manifestazioni del dolore, della sofferenza in
occasione della morte e nei lamenti funebri.

τό στένος = sofferenza, angustia (aggettivo στενός = angusto)


στένω – στενοω = gemere (su qualcuno)
così anche στενάχω, στενάζω, στεναχιζω (= gemere profondamente)
Il sostantivo στοναχή18 si usa per indicare i gemiti

γόος (lamento funebre) = pianto, lamento unito a lacrime


γοάω = emettere gridi di dolore

οιμόζω = levar gridi di dolore, lamentarsi


οιμογή = grido di dolore
distinto da κωκυτός che si dice delle donne19
κωκύω = lamentarsi (legato soprattutto alle donne)

γυίον = membro del corpo, corpo


γυιόω = paralizzare

μείρομαι = avere in sorte (cfr. μέρος , μόρος, μοῖρα)

δυσ-ά-μμορος = molto infelice (che ha il destino estremamente avverso)20


δυσ prefisso peggiorativo che indica stato di disordine
α privativo
Tema μορ

μύρομαι = versare fiotti di lacrime

ολοός = funesto, rovinoso [cfr. όλλυμι = rovinare] si dice del destino, della morte, del fuoco, …

17
Il. 22, 405-515, 23,1-257, 24, 695-804
18
Il. 24, 696
19
Il. 22, 409
20
Il. 22, 428; 24, 727
INSERTI FOTOGRAFICI –arte arcaica-

A B C

D E

A
Cenotafio.
B
Cenotafio.
C
Scena di compianto, pittore di Gela. (prothesis). Pittura vascolare da una pinax di un vaso attico a figure nere,
seconda metà del VI secolo a.C. Walters Art Museum.
D
Lamentazione durante la prothesis in lutroforo attico. Estensione del braccio, cavalcata agonistica.
E
Particolare del precedente: il discorso al morto.
F

I J

F
Compianto Teti – Achille.
G
Prothesis.
H
Prothesis.
I
Lamentazione durante la prothesis in un lecito attico. Estensione del braccio in spiriti raffigurati sul cadavere.
J
Scena di lamentazione in pinax. Estensione del braccio.
K L

K
Dipylon.
L
Particolare del precedente: lamentazione durante la prothesis in anfora attica di stile geometrico. Braccia che si
abbattono sul capo, sincronismo di gruppo.
Bibliografia
A. E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, BOLLATI BORINGHIERI 2008 (1958)
B. P. Gagliardi, II tema del cadavere nei lamenti funebri omerici da rivista Gaia : revue
interdisciplinaire sur la Grèce Archaïque Année 2010 Volume 13 Numéro 1 pp. 107-136
C. F. Lϋbker, Il lessico classico (lessico classico ragionato dell’antichità classica), FORZANI e C. Roma
1898. Ristampa ZANICHELLI, Bologna 1989
D. M. Alexiou, The Ritual Lament in Greek Tradition, OXFORD 1974
E. Le Garzantine, Antichità classica, GARZANTI 2000
F. P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, KLINCKSIECK, Paris 1983
G. P. Devambez, La pittura greca, MONDADORI 1962
H. E. Reiner , Die rituelle Totenklage der Griechen, Tϋbin. Beitr. Altertumswiss, n.30 (Stoccarda-Berlino
1938)
I. R. Calzecchi Onesti, Omero, Iliade, Torino 2014 (1963)

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