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di Antonio D'Alonzo
Nel periodo di maggior sofferenza della vita di Nietzsche – quello che precede il
ritiro definitivo dall'attività didattica a Basilea – il pensatore tedesco, sempre secondo
Klossowski, assimila al dolore l'atto del pensare. Le sofferenze più atroci sono
l'espressione psicosomatica di un linguaggio subcosciente che emerge dal rimosso,
eludendo la sorveglianza del Super-Io. Nietzsche stesso è ben cosciente di questo,
sempre secondo Klossowski, ed è puntuale nell'effettuare un tentativo di trasformare
il dolore in energia, per effettuarne la decifrazione corrispondente. Il corpo, in fondo,
è solo un codice di segni che viene costantemente contraffatto dalla ragione. Il corpo
è un rapporto fortuito di forze, che si scontrano, s'incontrano, si eludono, fino a
costituire l'equilibrio precario della coscienza.
«Gli altri, il prossimo, non sono che proiezioni del Sé attraverso le inversioni dello
spirito [...] Il Sé infine è nel corpo soltanto come un'estremità prolungata del
Caos» [2].
La dissoluzione della coscienza in favore del caos, è però, in Klossowski, volta alla
ricerca di un intelletto alternativo a quello cosciente, piuttosto che ad una totale
apertura al nulla. Apparentemente Klossowski sembra più influenzato dalle teorie
junghiane sul «principio d'individuazione» del Sé, come equilibrio-scontro tra io ed
inconscio, che a quelle lacaniane dell'ascolto dell'Es. Tuttavia per Klossowski non vi
è una reale dicotomia conscio-inconscio, ma soltanto dei flussi d'intensità che
provocano nel soggetto una periodica alternanza tra silenzio e loquacità.
La coscienza – che Klossowski chiama supporto – possiede l'atto del pensare solo in
virtù delle fluttuazioni di resistenza delle compulsioni che attraversano l'io, in
rapporto al codice dei segni. La stato di veglia della coscienza dipende dalle relazioni
di scambio tra compulsioni e segni del codice quotidiano. La pulsione agisce sui
segni del codice, che possiedono, a loro volta, una certa carica d'energia pulsionale.
Quest'ultima è soggetta a delle fluttuazioni quando i segni cercano di articolarsi nel
pensiero: se si esaurisce la pulsione primaria che costituisce lo stimolo iniziale, essa
si annulla totalmente nell'inerzia dei segni. Questo sarebbe, secondo Klossowski, la
coscienza.
Viceversa l'inconscio è prodotto dalle pulsioni che eccedono la fissità dei segni e si
proiettano oltre i loro momenti di stasi, quando questi non sono impegnati a
strutturare il pensiero. Si viene così a determinare, secondo Klossowski, uno stato
paradossale del soggetto che pensa, nel quale, non solo non vi è correlazione tra
pensato e formazione dell'atto del pensare, ma tale atto deve restare necessariamente
occultato a qualsiasi introspezione. Klossowski, quindi, annulla le distinzioni Io-Es,
dentro-fuori: il soggetto è solo il risultato di una progressione di stati discontinui in
relazione al codice dei segni istituzionale. Il linguaggio, ma anche il pensiero, è solo
un tentativo di ipostatizzare il flusso.
«Ora per il supporto, ignorare la lotta da cui ha origine il suo pensiero è una
condizione di esistenza: il “soggetto” non è affatto un'unità vivente, ma “la lotta
impulsionale che vuole conservarsi”»[3].
La nozione di volontà di potenza, che anticipa la scoperta nell'estate del 1881 a Sils-
Maria dell'eterno ritorno, è solo una prima imperfetta “messa a fuoco” dell'idea
capitale di Nietzsche. La sua proiezione energetistica connessa con l'anima del
circolo deve solo assicurare il dispiegamento delle molteplici identità possibili, che
come vedremo, è il risultato dell'inabissamento dell'io all'interno del cerchio eterno.
La volontà di potenza non è quindi un'affermazione solipsistica, ma una dissoluzione
verso la pluralità, verso l'altro, la differenza. La potenza non è potere, ma energia che
conduce, inesorabilmente, all'autodisintegrazione dell'io, all'interno del circolo.
L'esercizio della volontà di potenza, nella versione klossowskiana, è un dissiparsi,
non un concentrarsi. Un decostruire l'io, non un rafforzarlo: è un moto centrifugo ed
eccentrico verso i molteplici doppi che abitano in noi. La volontà di potenza deve
essere connessa con l'eterno ritorno, perché questo è un vortice che – sradicando l'Io
dai suoi vissuti – ne dissolve la memoria nell'oblio dell'identità personale, che appare
ora senza storia.
L'eterno ritorno deve, per Klossowski, rendere possibile tutte le altre identità
possibili, perché il ritorno del vissuto può innestare l'attuarsi delle possibilità che il
soggetto non ha ancora scelto, e quindi condurre ad esiti diversi. Ma nel circolo la
perdita dell'identità personale non è permanente, anzi: il soggetto può riavere il suo io
attuale, solo percorrendo tutta la serie degli altri io possibili. La consapevolezza
dell'eterno ritorno porta alla necessità di ripercorrere tutto il vissuto, e quindi a vivere
altre identità ed altre vite, proprio come condizione necessaria alla restaurazione
dell'io attuale. Secondo Klossowski, il soggetto una volta resosi conto
dell'ineluttabilità del circolo, sa che la sua identità sarà presto sottratta dal vortice del
tempo; ma sa anche che se accetta di liberarsi di essa, dopo che il cerchio sarà chiuso,
la riavrà indietro. Ma secondo Klossowski, vi è una condizione a questo ritorno a sé,
ed è quella dell'oblio. Solo dimenticando l'attimo in cui ha scoperto la legge
dell'eterno ritorno, il soggetto fuoriesce dal suo io e si avvia, nel circolo, all'incontro
con i suoi doppi. Se non dimentico l'eterno ritorno, m'incammino nel viaggio verso
gli altri me stesso ricordandomi sempre che, comunque, a percorso esaurito, riavrò
indietro il mio io, e questo ricordo di com'ero prima d'essere altro, costituisce un
residuo, quasi un prolungamento al di fuori di me, della mia identità.
«Il Circulus vitiosus deus [...] non asserisce [...] che l'essenza vera delle cose è
un'affabulazione dell'essere che si rappresenta le cose, e che senza di essa non
potrebbe rappresentarsi nulla?» [4].
«Questa volontà doveva avere come unico oggetto la potenza, energia priva di
qualsiasi senso e scopo. L'energia non sopporta nessun equilibrio perché il
movimento del Circolo che la designa glielo impedisce» [5].
Sotto questo profilo per Klossowski, l'idea nietzscheana del superuomo è irrilevante,
non è nient'altro che un simulacro di dottrina. Il problema è che per Klossowski,
Nietzsche non sempre è lucido nel mettere a fuoco il pensiero, anzi non lo è quasi
mai. Il filosofo tedesco si muove sotto l'effetto di compulsioni inconsce che gli fanno
elaborare teorie, che rappresentano altrettanti spostamenti, sublimazioni, proiezioni,
delle tensioni originarie. Nietzsche è convinto sul piano conscio di stare attuando la
progettazione di un complotto contro la cultura del tempo, i filistei, il gregge. Ma in
realtà le sue pulsioni lo stanno conducendo non verso il superamento del nichilismo
passivo, ma verso la disintegrazione del suo io, nel delirio del circolo eterno. Ecco
che il superuomo, viene elaborato da Nietzsche solo nel momento della rimozione,
quando è convinto della necessità di uno scopo, di un oltrepassamento della morale
platonico-cristiana, e non si rende conto che se l' übermensch («oltreuomo») è colui
che deve vivere l'eterno ritorno – che è completamente privo di senso, nel girare
perenne del cerchio – diventa egli stesso un fantasma. Il superuomo è quindi per
Klossowski una temporanea digressione nel pensiero di Nietzsche, un camuffamento
artificioso, un simulacro. Se il circolo vizioso del ritorno, annulla completamente il
principio di realtà e quello di identità, figuriamoci se nel pensiero di Nietzsche può
esserci posto per un superuomo, ovvero per uno scopo supremo ed una super-identità
antropocentrica.
Nietzsche raggiunge il culmine del suo pensiero, sempre per Klossowski, nei
«biglietti della pazzia» e nelle sceneggiate fatte nelle piazze di Torino: si può
benissimo dire che questo è il momento di inveramento di tutta la sua esistenza. È
come se qui Nietzsche si liberasse da tutte le sovrastrutture del suo pensiero e
approdasse a quello che ne è l'essenza: il delirio, l'autodisintegrazione del sé nel
circolo. L'apice di Nietzsche, una volta sprofondato nell'abisso luminoso del circolo –
ed avendo dissolto il principio d'identità dell'io ed il suo correlato ontologico, il
principio di realtà – non può non essere la follia, dove la conoscenza è soltanto, per
Klossowski, una potenza non confessata di mostruosità. Nietzsche, nelle strade di
Torino, rinuncia alla ragione per diventare pura emotività, dissolve il suo intelletto
per far posto al ritorno del rimosso, al caos. Forse l'apertura dell'io all'eterno ritorno,
la sua decisione, il suo oblio, non conducono nemmeno al ritorno dell'identità
personale dopo aver percorso tutti i doppi possibili, dove il doppio è in realtà l'altro,
la differenza. Forse la legge del ritorno per essersi impressa profondamente
nell'organismo di Nietzsche, per una misteriosa forma d'espiazione di fronte al
cosmo, richiede, per Klossowski, la disintegrazione dello stesso “veicolo” che per
primo l'ha concepito: la mente di Nietzsche. Forse la legge del circolo per essere
annunciata agli uomini, aveva bisogno del linguaggio insano del folle, del dissennato:
la ragione non è adatta per esprimere la sua ombra, il non-senso, l'assenza.
Nelle ultime lettere di Nietzsche, nei «biglietti della pazzia», il filosofo tedesco si
appropria di altre identità, identificandosi con esse. È l'apice dell'eterno ritorno,
l'inizio del viaggio nel circolo: Nietzsche incomincia ad identificarsi con Cesare, il
crocefisso, Dioniso. Secondo Klossowski è il crocefisso che diventa, per Nietzsche,
l'emblema del complotto: la logica paranoica rovescia sempre la prospettiva della
vittima nel carnefice. Per Klossowski, il crocifisso simboleggia nella fase paranoide
della mente di Nietzsche, il simbolo della persecuzione, di cui egli stesso si è sentito
oggetto quando in Germania i wagneriani, gli antisemiti, i signori dello stato
imperiale, hanno incominciato ad emarginarlo sempre di più. Ecco perché ora
Nietzsche s'identifica con il crocefisso: il perseguitato che complotta per abbattere i
suoi persecutori, anche se con il messaggio dell'amore e non con le armi. Dioniso
rappresenta per Nietzsche, sempre secondo Klossowski, una proiezione difensiva
contro la rappresentazione paranoide, una compensazione inconscia alla prospettiva
del complotto simboleggiata dal crocefisso: Dioniso ne è da sempre il grande
avversario, nelle varie maschere che assume nella storia, ora Satana, ora Lucifero o
Urizen. Quindi per Klossowski, Dioniso rappresenta qui lo sbarramento difensivo
dell'io di Nietzsche, nell'ultimo disperato tentativo di resistere alla sua
disintegrazione. Nell'ultimo Nietzsche è presente anche una fase libidinale molto
accentuata che si esprime nell'ultimo biglietto a Cosima Wagner: «Arianna ti amo.
Dioniso». Cosima rappresenta, nella mente di Nietzsche, l'immagine del prestigio: era
una donna molto colta ed intellettualmente dotata, oltretutto vedova del suo grande
rivale Wagner. Forse, sempre per Klossowski, è un richiamo al passato, al periodo in
cui era docente di filologia a Basilea e frequentava il milieu dei coniugi Wagner.
Note
2. Id. p. 63.
4. Id. p. 105.
5. Id. p.171.