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In copertina

La rivincita
di Freud

Oliver Burkeman, The Guardian, Regno Unito

Foto di Saul Robbins

Negli ultimi decenni la terapia cognitivo-comportamentale ha avuto la meglio sulla


psicoanalisi tradizionale. Ma nuovi studi
mettono in dubbio i suoi risultati

l dottor David Pollens è uno psicoanalista che riceve i suoi pazienti in un modesto
studio al piano terra nell’Upper East Side, un quartiere di Manhattan, a New York,
che per concentrazione di analisti compete forse solo con l’Upper West Side.
Pollens, che ha poco più di sessant’anni e i
capelli radi color argento, siede su una pol—
trona di legno che si trova all’estremità di
un lettino, dove fa distendere i suoi pazienti
con lo sguardo rivolto dall’altra parte per
esplorare meglio le loro paure e fantasie più
imbarazzanti. Molti ci vanno più diuna vol—
ta alla settimana, anche per anni, come nel—
la miglior tradizione della psicoanalisi. Pol-
lens ha ottenuto notevoli successi nella cura
dell’ansia, della depressione e di altri di—
sturbi della psiche di adulti e bambini grazie
a lunghe conversazioni libere da qualsiasi
censura o schema preciso.

Andare a trovare Pollens, come ho fatto


io in un pomeriggio d’inverno alla fine del
2015, significa tuffarsi nell’arcano linguag-
gio freudiano della “resistenza”, della “ne—
vrosi”, del “transfer” e del “controtran—
sfer”. L’analista trasmette una sorta di caldo
distacco ed è facile immaginare di potergli
rivelare i propri segreti più inquietanti. Co—
me altri membri della sua tribù, Pollens si
considera una persona che scava nelle cata—
combe dell’inconscio per far emergere le
pulsioni sessuali che si annidano sotto la
nostra coscienza, l’odio che proviamo per
chi dichiariamo di amare e le altre sgrade—
voli verità che noi stessi non conosciamo e
spesso non vogliamo conoscere.

Ma è opinione diffusa che Pollens e i


suoi colleghi psicoanalisti si sbaglino. Tanto
per cominciare, le tesi di Freud sono state
smentite: da bambini i maschi non deside—
rano la loro madre né temono di essere ca—
strati dal padre; le adolescenti non invidia—
no il pene dei loro fratelli; e nessuna scan—
sione cerebrale ha localizzato l’es, l’io oil
superio. La pratica di far pagare ai pazienti
parcelle salatissime per rimuginare per an—
ni sulla loro infanzia — definendo “resisten—
za” qualsiasi obiezione e sostenendo che
serve ulteriore analisi — è ritenuta da molti
una truffa. “Probabilmente nessun’altra il—
lustre figura della storia si è mai sbagliata
tanto sulle cose importanti che ha detto”
dichiarava nel 2004 il filosofo Todd Dufre—
sne a proposito di Sigmund Freud, sintetiz—
zando l’opinione comune e facendo eco allo
scienziato e premio Nobel Peter Medawar,
che nel 1975 aveva definito la psicoanalisi
“la più eccezionale truffa intellettuale del
ventesimo secolo”. Secondo Medawar la
psicoanalisi era “un prodotto destinato a
sparire, qualcosa di simile a un dinosauro o
a un dirigibile nella storia delle idee”.

Quando gli analisti cercarono di dare


basi empiriche più concrete alla loro im-
presa, nacquero molte altre terapie. Tra
tutte — quella umanistica, interpersonale,
transpersonale, analisi transazionale e co-
sì via — alla fine a trionfare è stata la terapia
cognitivo-comportamentale (ch). Si trat-
ta di una tecnica pragmatica che non si
concentra sul passato ma sul presente, non
su misteriose pulsioni inconsce ma sulla
modificazione degli schemi mentali che
provocano emozioni negative. Una seduta
di ch può consistere nel tracciare un dia-
gramma per individuare i “pensieri auto-
matici” autocritici che facciamo quando
incontriamo un ostacolo, siamo rimprove-
rati sul lavoro o veniamo respinti da una
persona che ci piace.

Emozioni da eliminare

La ch è sempre stata criticata, soprattutto


da sinistra, perché i suoi costi contenuti — e
il suo obiettivo di rendere in breve tempo le
persone di nuovo produttive — la fanno ap-
parire sospettosamente attraente agli occhi
dei politici che vogliono tagliare le spese.
Ma perfino quelli che la contestano per mo-
tivi ideologici non ne hanno quasi mai mes-
so in discussione l’efficacia. Da quando ha
fatto la sua comparsa, negli anni sessanta e
settanta, si sono accumulati così tanti studi
in suo favore che oggi l’espressione medica
“terapia supportata empiricamente” è con-
siderata sinonimo di ch: è l’unica a essere
basata sui fatti.

Ma i borbottii di dissenso della vecchia


guardia sconfitta non si sono mai placati. E
questo per un disaccordo di fondo sulla na-
tura umana, sui motivi per cui soffriamo e
su come, e se, possiamo sperare di trovare
la pace interiore. La ch riflette una visione
molto precisa delle emozioni dolorose, e
cioè che devono essere eliminate o almeno
rese sopportabili. In questa prospettiva un
disturbo come la depressione, quindi, è un
po’ come un tumore: sarebbe utile cono-
scerne la causa, ma è molto più importante
liberarsene. La ch non sostiene che sia fa-
cile essere felici, ma lascia intendere che sia
relativamente semplice: la nostra sofferen-
za è causata da convinzioni irrazionali che
possiamo individuare e modificare.

Secondo la psicoanalisi le cose sono


molto più complicate. Prima di essere eli-
minata, la sofferenza psicologica deve esse-
re compresa. Da questo punto di vista la
depressione non somiglia tanto a un turno-
re quanto a un dolore all’addome: ci sta di-
cendo qualcosa e dobbiamo scoprire cosa.
E la felicità — ammesso che sia raggiungibile
— è qualcosa di molto più ambiguo. Non co-

nosciamo davvero la no stra mente, e spesso


preferiamo lasciare le cose come stanno.
Anche se di solito non ce ne rendiamo con-
to, vediamo la vita attraverso la lente dei
nostri primi rapporti. Desideriamo cose
contraddittorie e qualsiasi cambiamento è
lento e difficile. La nostra mente cosciente
e solo la punta di un iceberg che emerge dal
buio oceano del subconscio, che non può
essere esplorato con le tecniche della ch,
semplici, standardizzate e testate scientifi-
camente.

È una prospettiva molto più romantica e


affascinante. Ma le tesi degli analisti cade-
vano nel vuoto man mano che gli esperi-
menti parevano confermare la superiorità
della ch. Per questo ha suscitato molta sor-
presa uno studio, pubblicato nel maggio del
2015, che sembra dimostrare come la tera-
pia cognitivo-comportamentale sia sempre
meno efiîcace nella cura della depressione.
Esaminando decine di studi precedenti,
due ricercatori norvegesi sono giunti alla
conclusione che nel caso della ch la di-
mensione dell’effetto — una misura della sua
utilità — dal 1977 in poi è andata diminuen-
do. La ch potrebbe aver esercitato una sor-
ta di effetto placebo che ha funzionato fin-
ché le persone hanno creduto che fosse una
cura miracolosa?

Si stava ancora riflettendo su questo in-


terrogativo quando, nell’ottobre del 2015,
un gruppo di ricercatori della clinica Tavi-
stock di Londra ha pubblicato irisultati del
primo studio rigoroso fatto dal servizio sa-
nitario nazionale britannico (Nhs) sulla psi-
coanalisi a lungo termine per curare la de-
pressione cronica. La conclusione dello
studio è che, per le persone gravemente de-
presse, diciotto mesi di psicoanalisi funzio-

nano meglio — e hanno effetti più duraturi —


della “solita cura” offerta dall’Nhs, che
prevede qualche seduta di TCC. Due anni
dopo la fine di diverse terapie, il 44 per cen—
to dei pazienti sottoposti a psicoanalisi non
rientrava più nei criteri della depressione
grave, mentre tra gli altri pazienti la quota
arrivava solo al 10 per cento. Nello stesso
periodo la stampa svedese ha riferito di una
scoperta fatta dagli ispettori del governo:
un progetto in cui era stato investito l’equi—
valente di milioni di euro per riorientare la
cura delle malattie mentali verso la TCC si
era dimostrato inefiîcace.

Scoperte simili non sono isolate. Inco—


raggiati da questo, molti psicoanalisti ora
insistono nel dire che la superiorità della
TCC è costruita sulla sabbia e che insegnare
alla gente “a convincersi di stare bene ” può
peggiorare le cose. “Tutte le persone ragio—
nevoli sanno che la comprensione di sé non
si trova al supermercato”, ha dichiarato Io—
nathan Shedler, psicologo dell’università
del Colorado e tra i più tenaci oppositori
della TCC. “I romanzieri e i poeti lo hanno
capito da millenni. È solo da qualche decen—
nio Che si sente dire: ‘In sedici sedute pos—
siamo cambiare gli schemi mentali di una
vita! ’”. Se Shedler avesse ragione, per i tera—
peuti potrebbe essere l’ora di rivedere molte
delle cose che credono di sapere sul meto—
do: Cosa funziona, cosa no e se la TCC ha
dawero consegnato alla storia il cliché del—
lo psicanalista che si accarezza il mento e
con lui l’intera visione della mente umana
sostenuta da Freud. Le conseguenze di
questa rivalutazione potrebbero essere
enormi e cambiare il modo in cui i problemi
psicologici di milioni di persone sono trat—
tati in tutto il mondo.

“Freud diceva un mucchio di stronza—


te!”, diceva Albert Ellis, considerato da
molti il precursore della TCC. Non si può dire
che avesse tutti i torti. Uno dei problemi
principali della psicoanalisi è sempre stato
il fatto che il suo fondatore fu un po’ un ciar—
latano, incline a distorcere i dati, se non a
fare peggio (negli anni novanta si scoprì che
Freud aveva detto a un paziente, lo psichia—
tra statunitense Horace Frink, che la sua
infelicità nasceva dal rifiuto di ammettere
la propria omosessualità, e gli aveva sugge—
rito che la soluzione sarebbe stata dare un
contributo economico alle sue ricerche).

Ma a infastidire ancora di più quelli che


contestavano la psicoanalisi e proponevano
terapie alternative era la sensazione che an—
che il più onesto degli psicoanalisti si but—
tasse sempre a indovinare, e tendesse a
trovare a ogni costo le “prove” delle sue
ipotesi. La premessa fondamentale della

psicoanalisi è che la nostra vita è governata


da forze inconsce che ci inviano messaggi
indiretti per mezzo di simboli contenuti nei
sogni, di lapsus “accidentali” o di quello
che ci fa infuriare negli altri, indice di ciò
che non sopportiamo in noi stessi. Ma tutto
questo rende l’intera teoria infalsificabile:
se protestate dicendo all’analista che non è
vero che odiate vostro padre state sempli-
cemente dimostrando il disperato bisogno
di non ammetterlo neanche avoi stessi.
Questo problema delle profezie che si
autoavverano è un disastro per chi spera di
trovare una spiegazione scientifica per
quello che succede nella mente. Negli anni
sessanta la psicologia scientifica era progre-
dita a tal punto da non avere più pazienza
nei confronti della psicoanalisi. Comporta-
mentisti come Burrhus Frederic Skinner
avevano già dimostrato che il comporta-
mento umano, come quello dei piccioni e
dei topi, poteva essere manipolato con ri-
sultati prevedibili usando il metodo dei pre-
mie delle punizioni. Anche secondo la co-
siddetta rivoluzione cognitivistica quello
che succedeva nella mente poteva essere
misurato e manipolato. E si sentiva una for-
te necessità di farlo fin dagli anni quaranta,
quando i soldati di ritorno dalla seconda
guerra mondiale avevano mostrato di sof-
frire di disturbi emotivi che richiedevano
un intervento rapido ed economico, non
anni di conversazioni stesi su un lettino.
La scappatoia
Prima di gettare le basi della ch, Albert El-
lis aveva studiato per diventare psicoanali-
sta. Ma dopo aver esercitato per qualche
anno a New York negli anni quaranta, si era
reso conto che isuoi pazienti non migliora-
vano e, con una sicurezza di sé che avrebbe
caratterizzato tutta la sua carriera, era giun-
to alla conclusione che questo non dipen-
deva dalle sue capacità ma dal metodo. ln-
sieme ad altri analisti che la pensavano co-
me lui, si rivolse all’antica filosofia dello
stoicismo e cominciò a dire ai suoi pazienti
che erano le loro convinzioni sul mondo,
non gli eventi in sé, a farli soffrire. Vedere
che qualcun altro aveva avuto una promo-
zione al loro posto poteva renderli infelici,
ma la depressione nasceva dalla tendenza
irrazionale a generalizzare: bastava
quell’unica sconfitta a fargli decidere che
erano dei falliti. “La psicoanalisi offre ai
pazienti una scappatoia. Non devono mo-
dificare i loro comportamenti, possono
continuare aparlare di sé peranni, dando la
colpa di tutto ai genitori e aspettando di
avere una miracolosa illuminazione”, di-
chiarò anni dopo Ellis in un’intervista.

Il tono disinvolto e pragmatico adottato


dai paladini della ch rendeva facile non
accorgersi di quanto fosse rivoluzionaria.
Secondo la psicoanalisi tradizionale — e le
più recenti tecniche “psicodinamiche”, che
in gran parte derivano da quella — ciò che
succede durante laterapia è che sintomi ap-
parentemente irrazionali, come la ripetizio-
ne di schemi di comportamento contropro-
ducenti nei rapporti sentimentali 0 di lavo-
ro, si rivelano almeno in parte razionali. Lo
sono nel contesto delle prime esperienze
del paziente. Se tanti anni fa un genitore ci
ha abbandonato, non è poi così strano vive-
re nel costante terrore che possa farlo anche
il nostro partner, e quindi comportarsi in un
modo che porta il nostro matrimonio al fal-
limento. La ch ribalta la situazione: emo-
zioni che possono sembrare razionali — co-
me essere depressi perché la nostra vita è
un disastro — sono il risultato di un modo di
pensare irrazionale. Certo, abbiamo perso
il lavoro, ma questo non significa che tutto
andrà storto per sempre.

Se prendiamo per buono il metodo della


ch, cambiare le cose è molto più semplice:
basta individuare e correggere qualche er-
rore di ragionamento, invece di cercare i
motivi segreti della nostra sofferenza. Sin-
tomi come la tristezza 0 l’ansia non sono
necessariamente indice di vecchie paure
rimosse, ma intrusi di cui liberarci. Nella
psicoanalisi il rapporto tra analista e pa-
ziente è una sorta di provetta in cui il pa-
ziente riproduce il modo in cui si relaziona
agli altri per capirlo meglio. Con la ch, in-
vece, il paziente cerca solo di liberarsidiun
problema.

Con la sua irriverenza e la sua aggressi-


vità verbale Ellis era destinato a rimanere
un outsider, ma il metodo di cui era stato
pioniere ottenne più considerazione grazie
ad Aaron Beck, un misurato psichiatra
dell’università della Pennsylvania. Oggi
Beck ha 94 anni, e in tutta la vita probabil-
mente non ha mai definito nulla una “stron-
zata”. Nel 1961 ideò un questionario costi-
tuito da 21 domande a risposta multipla,
noto come Inventario della depressione di
Beck, per quantificare la sofferenza dei pa-
zienti, e dimostrò che, in circa metà dei casi,
pochi mesi di ch erano sufficienti a elimi-
nare i sintomi più gravi. Le proteste degli
psicoanalisti furono liquidate come il tenta-
tivo di difendere il loro redditizio orticello.

Seguirono molti altri studi che dimo-


stravano l’efficacia della ch per curare pro-
blemi come la depressione, il disturbo os-
se ssivo-compulsivo e lo stress post—trauma-
tico. “Sono andato ai primi seminari sulla
terapia cognitiva convinto che fosse un al-

tro metodo che non funzionava”, mi ha det-


to nel 2010 David Burns, che ha contribuito
a far conoscere la Tec con il suo best seller
mondiale Feeling good . “Ma ho sperimenta-
to la tecnica, e persone che da anni sembra-
vano bloccate e senza speranza hanno co-
minciato a stare meglio”.

Non c’è dubbio che la Tec abbia aiutato,


almeno in parte, milioni di persone. È suc-
cesso soprattutto nel Regno Unito, dopo
che l’economista Richard Layard, un con-
vinto sostenitore di questo metodo, diventò
lo “zar della felicità” di Tony Blair. Nel 2012
più di un milione di persone era già stato
sottoposto gratuitamente a questa terapia
grazie a un programma approvato dal go-
In fondo tutti ci

.
rend1amo conto che
. . .
la nostra V1ta mtenore

e complessa
verno su proposta di Layard in collaborazio-
ne con lo psicologo di Oxford David Clark.
Anche se la Tec non fosse particolarmente
efficace, non si può negare che l’iniziativa
abbia permesso a molte persone di farsi cu-
rare. Tuttavia resta la sensazione che in
questo modello della sofferenza mentale
manchi qualcosa. In fondo tutti siamo con-
sapevoli del fatto che la nostra vita interiore
e i rapporti con gli altri sono estremamente
complessi. Probabilmente l’intera storia
della religione e della letteratura \
è stata un tentativo di compren- \ f
derne il significato. E le neuro-
scienze ci svelano ogni giorno
nuovi dettagli sul funzionamento
del cervello. È possibile che la ri-
sposta a tutti i nostri problemi sia qualcosa
di cosi superficiale come “individuare i no-
stri pensieri automatici" o “modificare il
modo in cui parliamo anci stessi” o “sfidare
il nostro critico interiore”? Una terapia può
essere davvero così semplice da poter esse-
re somministrata da un libro o da un com-
puter invece che da un essere umano?

Qualche anno fa, quando nel Regno


Unito la Tec cominciava a essere la terapia
più diffusa tra quelle offerte dal sistema sa-
nitario pubblico, una donna dell’0xford-
shire, che chiamerò Rachel, si rivolse
all’Nhs in seguito a una depressione dopo la
nascita del suo primo figlio. Fu mandata ad
assistere prima a una presentazione Power-
Point di gruppo, che prometteva di “miglio-
rare l’umore” in cinque fasi, poi a una serie
di sedute di ch con uno psicoterapeuta,
intervallate da altre al computer.

“Credo di non essermi mai sentita cosi


sola e isolata come quando un software mi
ha chiesto come mi sentivo su una scala da
uno a cinque e, dopo che io ho cliccato sulla
faccina triste, una voce registrata mi ha det-
to che le dispiaceva”, ha ricordato Rachel.
Compilare i moduli della ch sotto la guida
di un essere umano non era molto meglio.
“Nella depressione post partum la vita si
trasforma improvvisamente: prima lavori,
guadagni e fai cose interessanti, poi ti ritro-
vi a casa da sola, coperta di vomito e senza
adulti con cui parlare”, ha spiegato. Aveva
bisogno di un rapporto vero: quel desiderio
diflicile da esprimere che qualcuno si occu-
pi di te, anche solo per poco tempo. “Sarò
anche malata di mente, ma so benissimo
che un computer non può essere dispiaciu-
to per me”, ha concluso.
Interpretazione dei sogni
Jonathan Shedler si ricorda la prima volta in
cui si rese conto che forse lavisione freudia-
na di una mente molto più complessa di
quanto la maggior parte di noi potesse im-
maginare non era poi cosi sbagliata. Era al
college in Massachusetts e un giorno un
professore di psicologia lo lasciò di sasso
interpretando un sogno che gli aveva rac-
contato — in cui si guidava su ponti che attra-
versavano laghi e si provavano cappelli in
un negozio — come espressione della paura
di una gravidanza. Aveva ragione: in quel
momento Shedler e la sua ragazza, che ave-
va fatto il sogno, stavano aspettando di sa-

pere se lei era incinta, e sperava-

no che non lo fosse. Ma il profes-

sore non lo sapeva, a quanto pare

era solo un buon interprete dei

simboli dei sogni. “L’effetto fu

devastante, come una rivelazione


venuta dal cielo”, ha spiegato Shedler. “Se
c’erano persone al mondo che capivano
quelle cose, io dovevo essere una di loro”.
Ma iscriversi alla facoltà di psicologia, co-
me Shedlerfece in seguito, significò perde-
re l’entusiasmo per i misteri della mente, ha
raccontato. I ricercatori si preoccupavano
soprattutto di misurare e quantificare, non
della vita interiore delle persone.

Diventare psicoterapeuta implica anni


di formazione e l’obbligo di sottoporsi a
sedute di analisi; studiare la mente all’uni-
versità, invece, non presuppone un coin-
volgimento personale (oggi Shedler è un
raro esempio di psicoanalista che è al tem-
po stesso un ricercatore). “Dicono che per
diventare esperti in qualsiasi campo ci vo-
gliono diecimila ore di pratica, ma la mag-
gior parte dei ricercatori che pontificano
sul funzionamento delle terapie non ne ha

fatte neanche diecil”, ha affermato.

Gli studi e gli scritti successivi di Shedler


contribuirono a mettere in dubbio la con—
vinzione che non esistano prove concrete
dell’efficacia della psicoanalisi. Ma è inne—
gabile che i primi psicoanalisti disdegnas—
sero la ricerca: tendevano a considerarsi
persone che praticavano un’arte sovversiva
da coltivare in istituzioni specializzate (ri—
stretti circoli privati che raramente intera—
givano con le università). Di conseguenza
le ricerche sui vari approcci cognitivi ebbe—
rola meglio, e solo negli anni novanta ipri—
mi studi empirici sulle tecniche psicoanali—
tiche cominciarono a mettere in dubbio la
superiorità del metodo cognitivo.

Nel 2004 da una meta-analisi emerse


che per molti disturbi una terapia analitica
breve era efficace quanto qualsiasi altro me—
todo, e alla fine quelli che ne seguivano una
stavano meglio del 92 per cento degli altri
pazienti prima della terapia. Nel 2006 an—
che le conclusioni di uno studio condotto su
circa 1.400 persone che soffrivano di de—
pressione, ansia e disturbi correlati si rivela—
rono favorevoli alla terapia psicodinamica
breve. E uno studio del 2008 sul disturbo
borderline giunse alla conclusione che, a
cinque anni dalla fine del trattamento psi—
codinamico, solo il 13 per cento dei pazienti
ne soffriva ancora, rispetto all’87 per cento
di chi non era stato sottoposto alla cura.

Non tutti questi studi confrontano la te—


rapia analitica con quella cognitiva: spesso
la mettono a confronto con “le solite cure”,
espressione che copre qualsiasi tipo di tera—
pia. Ma, come sostiene Shedler, le differen—
ze più evidenti tra i due metodi emergono
un po’ di tempo dopo la fine della terapia. Se
si chiede alle persone come stanno subito
dopo il trattamento, la ch sembra convin—
cente. Ma a distanza di mesi o di anni spes—
so ibenefici sono svaniti, mentre gli effetti
delle terapie psicoanalitiche sono rimasti o
sono addirittura aumentati, il che fa pensa—
re che queste terapie ristrutturino la perso—
nalità in modo duraturo, e non aiutino sem—
plicemente le persone a controllare i loro
stati d’animo. Dai risultati dello studio com—
missionato dall’Nhs britannico e condotto
nella clinica Tavistock è emerso che i pa—
zienti affetti da depressione cronica sotto—
posti a terapia psicoanalitica avevano il 40
per cento di possibilità in più di andare al—
meno parzialmente in remissione, durante
i sei mesi della ricerca, rispetto a quelli sot—
toposti ad altri trattamenti.

Parallelamente all’accumularsi di que—


ste prove, gli esperti hanno cominciato a
mettere in discussione gli studi che aveva—
no favorito la diffusione della ch. In un

provocatorio saggio del 2004 lo psicologo


di Atlanta Drew Westen e i suoi colleghi di—
mostravano che iricercatori, spinti dal de si—
derio di fare esperimenti che dessero risul—
tati chiaramente interpretabili, spesso ave—
vano escluso fino a due terzi dei possibili
partecipanti, di solito perché avevano di—
versi problemi psicologici. Questa scelta è
comprensibile: quando un paziente ha più
di un disturbo e difiîcile separare le cause
dagli effetti. Ma può implicare che i sogget—
ti studiati siano estremamente atipici. Nella
vita reale i problemi psicologici sono pro—
fondamente radicati nella personalità.
Quello che portiamo in terapia (per esem—
pio la depressione) potrebbe non essere
quello che emerge dopo diverse sedute (per
esempio la necessità di prendere coscienza
di un orientamento sessuale che temiamo
non sia accettato in famiglia). Inoltre in al—
cuni studi le carte sembravano essere state
truccate a favore della ch, confrontando i
risultati di questo metodo con quelli della
“terapia psicodinamica” praticata da stu—
denti di dottorato che avevano seguito solo
un corso di pochi giorni tenuto da colleghi.
Difficoltà necessarie

L’accusa più grave rivolta dai paladini della


psicoanalisi all’approccio cognitivo era che
potesse addirittura peggiorare le cose: per
esempio, trovare il modo di controllare l’an—
sia e la depressione può semplicemente ri—
mandare il momento in cui si sente il biso—
gno di comprendere dawero se stessi e di
arrivare a un cambiamento duraturo. La
promessa implicita nella ch è che, in modo
relativamente facile, passo dopo passo pos—
siamo arrivare a dominare la nostra solfe—
renza. Ma non è forse meglio prendere co—
scienza di quanto poco controllo abbiamo
sulla nostra vita, le nostre emozioni e icom—
portamenti degli altri? Questa promessa
del controllo e seducente non solo per i pa—
zienti ma anche per i terapeuti. “I pazienti
sono preoccupati perché sono in terapia, ei
terapeuti inesperti sono preoccupati perché
non hanno idea di quello che devono fare ”,
scrive lo psicologo statunitense Louis Co—
zolino nel suo nuovo libro Why therapy
works. “Quindi è confortante per entrambi
avere un compito su cui concentrarsi”.

I campioni della ch respingono queste


critiche accusandole di superficialità, e so—
stengono che essendo diventata così popo—
lare è normale che la loro terapia stia per—
dendo efiîcacia. I primi studi usavano cam—
pioni ridotti e psicoterapeuti entusiasti ma
inesperti; quelli più recenti usano campioni
più ampi e terapeuti con diversi livelli di
competenza. “Chi dice che la ch è superfi—

ciale non la capisce”, ha dichiarato Trudie


Chalder, che insegna psicoterapia cogniti-
vo-comportamentale al King’s college in-
stitute ofpsychiatry, psychology and neuro-
science di Londra. Chalder insiste che nes-
suna terapia èla migliore per tutte le malat-
tie. “La TCC cerca di smontare alcune con-
vinzioni, che però non è facile far emergere.
Non sono cose del tipo ‘Quel tizio mi ha
guardato in modo strano, probabilmente
non gli piaccio’, ma del tipo ‘Sono una per-
sona che non può essere amata da nessuno’,
che possono derivare da esperienze prece-
denti. Lavoriamo molto sul passato”.

Tuttavia, la disputa non può essere risol-


ta decidendo tra studi contrastanti. La que-

, . . ‘ ‘
L un1ca venta e che
ancora non abbiamo

cap1to bene come


funziona la mente
stione è molto più complicata. I ricercatori
possono raggiungere conclusioni diverse su
quali terapie danno i risultati migliori, ma
cos’è un buon risultato? Gli studi misurano
il sollievo dai sintomi, ma una delle premes-
se cruciali della psicoanalisi è che pervivere
una vita soddisfacente non basta non avere
sintomi. In linea di principio alla fine di una
cura psicoanalitica si può essere ancora più
tristi— pur essendo più equilibrati
e consapevoli delle proprie rea- "
zioni inconsce precedenti e vi- ’
vendo una vita più piena — e co- &
munque considerare l’esperienza
un successo. Freud sosteneva che “‘
il suo obiettivo era trasformare “ l’infelicità
nevrotica in infelicità comune”. E Carl ]ung
diceva che “l’umanità ha bisogno di diffi-
coltà: sono necessarie alla salute”. La vita e
dolorosa. Dovremmo trovare una “cura”
per tutte le emozioni dolorose?

L’idea che l’approccio alla psicoterapia


non dovrebbe essere scientifico — che la vita
di ogni individuo sia troppo unica per esse-
re sottoposta alle inesorabili generalizza-
zioni presupposte dalla scienza — è molto
attraente. Questo fascino potrebbe spiega-
re il successo di The examined life, la raccolta
di racconti dal lettino di Stephen Grosz pub-
blicata nel 2013, che nel Regno Unito e ri-
masta per settimane nella lista dei libri più
venduti ed è stata tradotta in più di trenta
lingue. I suoi capitoli non contengono dati
sperimentali né diagnosi cliniche ma storie,
e in molte il paziente ha un’intuizione im-
prowisa su quello che si nasconde nel suo
io più profondo. C’è l’uomo che mente com-

pulsivamente per avere una segreta com-


plicità con le persone che riesce a coinvol-
gere nel suo inganno, proprio come sua
madre nascondeva le prove del fatto che lui
bagnava il letto. C’è la donna che si rende
conto dell’inutilità dei suoi sforzi per nega-
re l’infedeltà del marito solo quando nota la
precisione con cui qualcuno ha caricato la
lavastoviglie. “Ogni vita è unica e, come
analisti, il nostro ruolo consiste nel trovare
la storia unica del paziente”, mi ha detto
Grosz. “Tante cose saltano fuori solo quan-
do le persone hanno un lapsus, ci confidano
una fantasia o usano una determinata paro-
la”. Il compito dell’analista è essere ricettivo
e attento a tutte queste cose, per poi “aiuta-
re le persone a dare un senso alla loro vita”.
Il verdetto del Dodo
Negli ultimi tempi questa teoria apparente-
mente poco scientifica è stata sostenuta
proprio dal settore che studia la mente nel
modo più empirico: la neuroscienza. Molti
esperimenti hanno indicato che il cervello
elabora le informazioni molto più veloce-
mente di quanto la coscienza possa perce-
pire, perciò innumerevoli operazioni men-
tali avvengono, per usare l’espressione del
neuroscienziato David Eagleman, “dietro
le quinte”, senza che la mente cosciente se
ne renda conto. Per questo motivo, come
scrive Louis Cozolino nel suo libro, “quan-
do ne prendiamo coscienza, un’esperienza
è già stata elaborata molte volte,
ha attivato ricordi e ha dato il via
7° a complessi schemi di comporta-
;\ mento”. A seconda di come si in-
… terpretano le prove, sembra che
possiamo fare innumerevoli cose
complesse — dall’eseguire calcoli aritmetici
a mente a spostare il piede sul freno per evi-
tare uno scontro o a scegliere chi sposare —
prima di renderci conto di averle fatte. Que-
sto non si concilia con il presupposto fonda-
mentale della TCC, secondo cui con il giusto
allenamento possiamo imparare a cogliere
sulfatto tutte le nostre reazioni mentali sba-
gliate. Al contrario sembra confermare l’in-
tuizione della psicoanalisi, cioè che il nostro
inconscio è gigantesco e controlla quasi tut-
to e che inevitabilmente vediamo la vita at-
traverso lenti forgiate dal passato, che pos-
siamo solo sperare di modificare parzial-
mente, con il tempo e con grande sforzo.
Forse l’unica innegabile verità che
emerge dalle dispute tra terapisti è che an-
cora non abbiamo capito bene come fun-
ziona la mente. Quando dobbiamo allevia-
re la sofferenza mentale “è come se avessi-
mo un martello, una sega, una sparachiodi,
uno scopino per il water e una scatola che

non funziona bene, e continuiamo a colpir-


la con ognuno di quegli attrezzi per vedere
qual è quello giusto”, sostiene Jules Evans,
responsabile delle politiche del Centre for
the history of emotions all’università Que-
en Mary di Londra.

Questo può essere il motivo che ha spin-


to molti studiosiverso il cosiddetto “verdet-
to del Dodo”: l’idea, sostenuta da diversi
studi, che il tipo specifico di terapia non fac-
cia molta differenza. Il nome deriva dal giu-
dizio espresso dal Dodo, uno dei personag-
gi di Alice nel paese delle meraviglie: “Tutti
hanno vinto e tutti devono avere un pre-
mio”. Quello che sembra contare di più èla
presenza di una persona comprensiva e at-
tenta e di un paziente che vuole veramente
cambiare. Se una terapia sia migliore di tut-
te le altre per tutti o per la maggior parte dei
problemi ancora non lo sappiamo.

Nel suo studio nell’Upper East Side Da-


vid Pollens mi ha confessato che, nonostan-
tela sua passione per la psicoanalisi, condi-
vide abbastanza questo verdetto. “C’era un
meraviglioso analista britannico, Michael
Balint, che si occupava della formazione
dei medici e faceva a tutti una domanda:
‘Quale pensa che sia la medicina più effica-
ce tra quelle che usa?’. Tutti cercavano di
trovare una risposta, e alla fine lui diceva: ‘Il
rapporto con l’altro”, mi ha raccontato. Ma
perfino questa conclusione - cioè il fatto che
non sappiamo quali terapie funzionano me-
glio - può essere considerata un punto a fa-
vore di Freud e dei suoi successori. Dopo-
tutto la psicoanalisi incarna proprio questa
umiltà su quanto poco potremo mai capire
del funzionamento della mente. Freud era
un arrogante. Ma ci ha lasciato la consape-
volezza che non dobbiamo nece ssariamen-
te aspettarci una vita del tutto felice né pre-
sumere di poter mai sapere cosa succede
dentro di noi. Anzi, spesso preferiamo con-
tinuare a ignorare certe verità inquietanti.

“Quello che succede nella psicoterapia”,


ha detto Pollens, “è che molti vengono a
chiederci aiuto e subito dopo cercano di im-
pedirci di aiutarli”. Il suo sorriso sottolinea-
va l’assurdità della situazione, e forse di
tutta l’impresa terapeutica. “Come fai ad
aiutare una persona quando ti dice, in un
modo o nell’altro, ‘Non aiutarmi’? La psico-
analisi è tutta qui”. . bt
L’AUTORE
Oliver Burkeman è un giornalista del
Guardian. Scrive la rubrica settimanale “This
column will change your life ” pubblicata sul
sito di Internazionale. Il suo libro più recente è
La legge del contrario: stare bene con se stessi senza
preoccuparsi della felicità (Mondadori 2015).

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