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F
R E D D I E M E R C U R Y È S TATO I L P I Ù G R A N D E F R O N TM A N D I TU T TI I TE M P I .
FREDDIE MERCURY
BOB GELDOF
UNA volta i politici erano anche grandi oratori, una capacità che in questo
secolo si è ridotta in maniera drastica. Sorprendentemente, il rock’n’roll è
ancora uno dei pochi ambiti in cui un singolo artista, o un gruppo, può
tenere in pugno un pubblico enorme, catturando migliaia di persone con la
voce. Gli attori non possono farlo. I divi della televisione non si avvicinano
nemmeno. Forse è questo che rende la rockstar l’ultima grande figura
carismatica dei nostri tempi. Il pensiero mi balenò nel backstage del Live
Aid mentre ero dietro il sipario, con il bassista degli Who John Entwistle e la
sua fidanzata Max. Stavamo guardando Freddie esibirsi in una calura
soffocante davanti a quasi ottantamila persone, più chissà quanti spettatori
davanti ai teleschermi (sono state fatte molte stime negli anni successivi, ma
si passa da «quattrocento milioni in quasi cinquanta Paesi via satellite» a
«un miliardo e novecento milioni in tutto il mondo»). Con nonchalance,
arguzia, sfrontatezza e sensualità, Freddie diede tutto se stesso. Restammo
ammaliati. Il ruggito assordante degli spettatori annullava qualsiasi tentativo
di rivolgersi a loro, ma Freddie non ci fece caso. Il magnetismo con il quale
incantò il pubblico fu così potente e tangibile che lo si poteva inspirare.
Dietro il palco, i nomi più leggendari del rock smisero di chiacchierare per
guardare il rivale che rubava loro la scena. Freddie sapeva quel che faceva.
Per diciotto minuti, quell’improbabile re e la sua «regina» dominarono il
mondo.
FREDDIE MERCURY
FORSE Freddie pensava che negli anni Settanta i fan non fossero pronti per
una rockstar di origini africane e indiane. Oggi non sarebbe un problema,
anzi molti lo vedrebbero come un vantaggio: più un artista ha un retaggio
culturale e musicale oscuro e mischiato, meglio è. In quegli anni però, le
cose erano diverse. Non è difficile immaginare che Freddie ritenesse che il
suo passato fosse in contrasto con l’immagine che voleva dare. All’epoca la
rockstar per definizione era preferibilmente americana e veniva da posti
come la California (i Beach Boys), New York (Lou Reed), la Florida (Jim
Morrison), il Mississippi (Elvis Presley) o lo Stato di Washington (Jimi
Hendrix). Anche Liverpool andava bene, grazie ai Beatles, così come
Londra, per via di Mick Jagger e Keith Richards dei Rolling Stones. Bianco e
anglosassone era il pedigree preferito, oppure nero e americano. Per i
musicisti, inoltre, era normale sfumare i dettagli del proprio passato, dato
che questo creava un’aura di mistero e interesse.
Le informazioni sull’infanzia di Freddie erano così contraddittorie che
decisi di condurre una nuova ricerca.
Presi un volo per Dar es Salaam via Nairobi e trovai un passaggio su una
barca diretta a Zanzibar in un porto pieno di sambuchi e semplici canoe da
pesca. Era un luogo esotico sotto ogni aspetto. A me, nata in un posto
anonimo e banale, il rifiuto di Freddie nei confronti di Zanzibar sembrò
enigmatico. Me lo immaginavo intrattenere gli ospiti con racconti
orientaleggianti, storie di Alì Babà, Sinbad e avventurosi principi arabi.
Perché non l’aveva mai fatto? Doveva esserci una ragione. Un «passato da
favola» sarebbe stato la quintessenza di Freddie.
FREDDIE MERCURY
PERVIZ DARUNKHANAWALA,
cugina di primo grado di Freddie
NEL novembre del 1996 fui invitata alla Royal Albert Hall per
l’inaugurazione di una mostra fotografica dedicata a Freddie Mercury: si
commemorava il quinto anniversario della sua morte. Tutti i presenti quella
sera avevano avuto un legame diretto con Freddie e i Queen, da Marje, la
domestica del cantante, a Ken Testi, il primo manager del gruppo, a Denis
O’Regan, il fotografo della band. C’erano anche i genitori di Freddie, gracili
e anziani, e quando mi presentai mi salutarono con affetto.
«È bellissimo vedere tutte queste fotografie e queste persone riunite in
onore del nostro caro figliolo. Siamo molto orgogliosi», disse il padre dopo
avermi stretto la mano.
La mostra avrebbe girato il mondo e sarebbe stata ripresentata in diverse
città, fra cui Parigi, Montreux e Mumbai. Dopo l’inaugurazione londinese,
alcuni giornalisti decisero di smascherare The Great Pretender («Il grande
simulatore») per avere celato le sue origini indiane. Con titoli come
«Bombay Rhapsody» e «Star of India», Freddie fu messo a nudo come la
prima rockstar indiana dell’Inghilterra. Benché gli articoli contenessero
poche verità, la bufala fu ripresa da diversi giornali, che la sormontarono di
titoloni scandalistici. Le origini persiane di Freddie furono messe in
discussione, la comunità parsi di Londra si indignò e ne nacque un’accesa
polemica. Non che ai giornali inglesi importi qualcosa di offendere
qualcuno.
«Il nostro popolo non vive in Persia dal nono secolo, ma non per questo
siamo meno persiani», dichiarò il portavoce dei parsi.
«Anche se siamo spesso definiti ‘zoroastriani indiani’, discendiamo dagli
zoroastriani persiani che si rifugiarono in India durante il settimo e l’ottavo
secolo per sfuggire alle persecuzioni musulmane. Quella migrazione non ci
ha reso indiani. Se sei di fede ebraica, ma la tua famiglia non vive in
Palestina da duemila anni, forse questo ti rende meno ebreo? C’è parecchia
differenza fra razza e nazionalità, fra radici e cittadinanza. Può darsi che i
parsi persiani non abbiano una patria [la loro antica terra d’origine oggi è
parte dell’Iran], nonostante ciò, rimangono parsi nel cuore.»
Tornando a Freddie, basta guardare una sua foto qualsiasi per rendersi
conto delle sue origini iraniche piuttosto che indiane. Ogni sua immagine,
nonostante quella dentatura pronunciata, tradisce la sua discendenza.
Nati nell’India coloniale, i genitori di Freddie erano tutti e due sudditi
britannici, di nazionalità indo-britannica. Era questa la dicitura sui
documenti ufficiali, presente sul loro certificato di nascita e su quello del
figlio. È significativo che come razza si fossero dichiarati entrambi parsi.
Freddie era nato a Zanzibar, perciò era considerato uno zanzibari. Si può
sostenere che fosse più africano che indiano. Definirlo «la prima popstar
indiana d’Inghilterra» era un’esagerazione: l’ennesimo titolo per riproporre
una storia vecchia. Perché la famiglia non ha mai protestato per questo
travisamento del proprio retaggio culturale, per questa negazione delle loro
origini etniche? Spesso il loro comportamento è parso incomprensibile.
Persone calme, semplici e diligenti, per niente materialiste e contente di
ciò che hanno, i Bulsara vivono in modo tranquillo, osservando i rituali, le
regole e le limitazioni della loro religione e cultura. Sono tutti e due minuti,
con una costituzione quasi delicata. Freddie aveva preso più dalla madre,
ereditando in particolare le labbra carnose, l’ampio sorriso e l’insolita
dentatura. Riservati in pubblico, Bomi e Jer sono sempre gentili e gioviali in
privato, seppure un po’ troppo controllati. Anche se era un autentico
capofamiglia con un forte senso della tradizione, Bomi non era mai stato
una figura autoritaria né tanto meno un modello virile per il figlio. Freddie
si era sempre sentito più a suo agio fra le donne della famiglia e non aveva
mai mostrato il desiderio di voler seguire le orme del padre in termini
professionali. La madre avrebbe voluto che studiasse legge, ma l’idea di
lavorare in un ufficio non lo aveva mai entusiasmato.
Essendo così riservati e così poco espansivi, i Bulsara non hanno mai
avuto un rapporto molto fisico con i figli, come Freddie avrebbe rivelato in
seguito ai suoi amanti Barbara Valentin e Jim Hutton. Quando abitavano a
Zanzibar, i bimbi erano seguiti dalla tata, Sabine. Sebbene né Freddie né
Kashmira ricevessero mai punizioni corporali dai genitori, non ebbero mai
nemmeno molte coccole. Secondo Jim, di tanto in tanto Freddie si
domandava se la carenza di affetto provata durante l’infanzia fosse ciò che
l’aveva portato a nutrire «un’ossessione sproporzionata per il contatto fisico
in età adulta […] Un desiderio che troppo spesso si manifestava in sesso
insignificante, perché in genere non era in grado di trovare l’uno senza
l’altro. Il sesso non era mai riuscito a sostituire ciò che desiderava di più,
cioè l’affetto, la prova di essere amato. Era abbastanza infantile in questo
senso. Tutte le carezze e le coccole che riservava ai gatti, per esempio,
rappresentavano ciò che lui avrebbe voluto ricevere.»
Il 14 febbraio 1955, secondo i registri della scuola, Freddie (all’epoca
ancora Farrokh) fu iscritto come «Farookh Bomi Bulsara» (si noti la diversa
ortografia del nome rispetto al certificato di nascita) alla St Peter’s School di
Panchgani, un collegio retto dalla Chiesa anglicana, dove fu ammesso alla
«classe terza». Aveva otto anni. Vi sarebbe restato per quasi un decennio,
rivedendo i genitori solo una volta l’anno, per un mese estivo. Non
sorprenderà, quindi, se la sua relazione con la madre e il padre divenne
sempre più distaccata, come dimostrano le lettere rispettose ma fredde che
scriveva loro. Nonostante gli insegnanti lo esortassero a non lasciar
trasparire le sue emozioni, è impossibile pensare che Freddie non si sia
sentito vulnerabile e solo così lontano da casa, senza nemmeno il lusso di un
telefono per chiamare i genitori quando sentiva la loro mancanza, il che
accadeva spesso.
«Aveva sei anni quando sono nata, per cui ho passato solo un anno con
lui, ma sono sempre stata molto orgogliosa di mio fratello maggiore, che mi
proteggeva», ricordò la sorella in un’intervista per il Mail on Sunday nel
novembre del 2000.
«Non sempre tornava a casa per le vacanze, talvolta restava dalla sorella
di papà a Bombay, oppure con quella della mamma, anzi è stata proprio lei
a fargli muovere i primi passi con il pianoforte e il disegno. Era bravo in
tutte le materie. Ero invidiosa, chiaramente. Mamma e papà hanno tenuto
tutte le sue pagelle.»
Per il piccolo Freddie, il viaggio da Zanzibar alla nuova scuola fu molto
difficile. «Andò via nave con il padre e poi prese il treno fino a Poona [oggi
Pune]», ricorda la cugina Perviz. «Era un viaggio lungo e stancante, anche
se c’erano collegamenti regolari fra Zanzibar e Bombay», che già allora era la
città più caotica, industrializzata e moderna dell’India. «Anche noi ci
andavamo spesso, a trovare i parenti. Durante le vacanze scolastiche,
Freddie stava dalla zia Jer, la sorella di Bomi. Era una signora molto buona
e generosa, che si occupava anche dei bambini di un altro fratello di mio
padre in India.»
Panchgani («Cinque colli») era una tipica località turistica del Raj
Britannico nell’India occidentale, a circa trecento chilometri da Mumbai.
Famosa per i suoi edifici pubblici, le villette pittoresche, le antiche dimore
parsi e i lussureggianti campi di fragole, quella tranquilla cittadina coloniale
fu fondata durante il dominio inglese come sanatorio e luogo di
villeggiatura estiva. Affacciata sulle pianure costiere, su fitte foreste e sul
fiume Krishna, la cittadina è tuttora una destinazione popolare per i turisti,
attratti dalle sue acque sorgive ricche di ferro e i densi fanghi rossi di origine
vulcanica. Molti abitanti di Mumbai si rifugiano lì per scappare dai monsoni
(la capitale dista quattro o cinque ore di macchina). Alcuni ci mandano in
collegio i figli, in istituti impostati sul modello inglese.
La St Peter’s School esiste tutt’oggi. Fondata nel 1904, continua a
promuovere la cultura e i valori tradizionali dell’India e a sostenere la
tolleranza religiosa nei confronti di tutte le fedi, dal cattolicesimo allo
zoroastrismo. Il motto dell’istituto è «Ut Prosim» («che io possa giovare»). Il
suo stemma, «simbolo di speranza di rinascita», rappresenta la fenice che
risorge dalle ceneri, con un ramoscello di ulivo nel becco. Ai tempi di
Freddie era diretta da Oswal D. Bason, entrato in carica nel 1947, l’anno
dell’indipendenza dell’India. Bason sarebbe rimasto al suo posto fino al
1974, proprio mentre i Queen gustavano il loro primo assaggio di notorietà.
Sebbene la scuola non ostenti quel suo allievo famoso, non è nemmeno
riluttante ad aprire le porte ai curiosi. I suoi dipendenti hanno persino
collaborato alle riprese di alcuni documentari su Freddie Mercury. Insieme
con l’amico Victory Rana (in seguito generale dell’esercito nepalese) e Ravi
Punjabi, filantropo e imprenditore, Freddie Mercury è fra gli ex allievi più
famosi dell’istituto.
Quando arrivò nell’ampio e gradevole campus della scuola, Freddie era
stato indottrinato nella fede della famiglia ed era uno zoroastriano
praticante. A otto anni aveva fatto il Navjote, una cerimonia che riguarda sia
i maschi sia le femmine (come la cresima) e che somiglia al bar mitzvah dei
maschi ebrei. Comincia con un bagno rituale, che simboleggia la
purificazione della mente e dell’anima. Poi l’iniziato indossa una tunica
bianca e una cintura di lana, e recita antiche preghiere su una fiamma che
gli zoroastriani ritengono sacra ed eterna. Fuochi come questo sono un
elemento centrale della fede e si dice che in alcuni templi brucino senza
interruzione da migliaia di anni. L’Avesta, la raccolta di sacre scritture dello
zoroastrismo, non prevede alcun comandamento formale, ma solo «tre
buone cose» che i parsi si impegnano a osservare da generazioni: humata,
hukhta, huvarshta, ovvero «buoni pensieri, buone parole, buone opere».
All’epoca di Freddie, il St Peter’s era ritenuto uno dei migliori collegi
privati maschili di Panchgani. Offriva un programma di studi in inglese e
vantava un’ottima percentuale di successo. Attirava allievi dagli Stati Uniti,
dal Canada, dal Golfo Persico, oltre che da tutta l’India. Le lezioni
iniziavano a metà giugno e finivano a metà aprile, per via del clima indiano.
La pausa principale era quindi di otto settimane. A questa si aggiungevano
due settimane di vacanza a Natale. La disciplina era rigida e le condizioni di
vita abbastanza austere. C’era acqua calda solo di mercoledì e di sabato
all’ora di pranzo. I bagni venivano fatti sotto la supervisione della capo
infermiera, la quale gestiva anche l’ospedale dell’istituto con l’aiuto di una
collaboratrice interna e un dottore esterno. Il collegio aveva una sua
cappella e gli allievi dovevano adeguarsi alle abitudini religiose dell’istituto a
prescindere dal loro credo. Sebbene la scuola rispettasse tutte le fedi, la
messa domenicale era obbligatoria per tutti. Nessun allievo poteva uscire dal
perimetro dell’istituto senza essere accompagnato da un membro del
personale. Nonostante ciò, il St Peter’s era rinomato per la premura dei
docenti nei confronti degli allievi e per la sua atmosfera rilassata e cordiale:
aiutava a coltivare le virtù dei ragazzi e a far emergere il loro lato migliore.
In seguito Freddie avrebbe dichiarato di essersi sentito privilegiato per
essere stato mandato in quel collegio: sapeva quanti sacrifici fosse costato ai
genitori.
I Bulsara non solo avevano dovuto lavorare molto per coprire la retta, ma
anche separarsi dal loro primogenito e costringere la figlia a crescere lontana
dall’unico fratello.
Ma il pensiero di essere un privilegiato non era sufficiente a debellare
l’inquietudine legata alla separazione dalla famiglia. Dopo esser vissuto a
stretto contatto con la madre e la sorella, ritrovarsi in un collegio a migliaia
di chilometri di distanza, a soli otto anni, dev’essere stato dolorosissimo per
lui. È impossibile pensare che non si sia sentito solo e impaurito, che non
abbia desiderato un abbraccio o una favola della buonanotte prima di
addormentarsi. Chi gli è stato vicino negli anni, ha dichiarato che Freddie
era risentito nei confronti dei genitori per essere stato «mandato via» da
piccolo, anche se con loro si comportò sempre in modo assolutamente
rispettoso e premuroso. È evidente che faceva del suo meglio per superare il
senso di rifiuto provato allora.
All’epoca Jer e Bomi presero la decisione che ritennero migliore e non c’è
dubbio che sia costata loro moltissimo. Tuttavia mandare un bambino
timido come Freddie così lontano da casa fu probabilmente un grandissimo
errore, forse il più grande della loro vita. Alcuni bambini sopportano meglio
di altri la separazione dalle famiglie, ma per Freddie, un ragazzino sensibile
e per sua stessa ammissione un po’ troppo appiccicoso, lo strappo fu
insopportabile, almeno all’inizio. La notte piangeva fino ad addormentarsi
nella camerata che condivideva con altri diciannove bambini altrettanto soli.
Privato di attenzioni quotidiane e affetto in un momento cruciale della
crescita e in un’età estremamente delicata, inevitabilmente Freddie cambiò,
sviluppando un nuovo carattere e iniziando a vedere la vita in modo
diverso.
Cercò conforto nei compagni. Oltre a Victory Rana, diventò amico di
Derrick Branche, che in seguito si trasferì in Australia e divenne un attore
di successo. Nel 1985, infatti, proprio mentre Freddie si esibiva al Live Aid,
Branche recitava nel film My Beautiful Laundrette, una commedia
drammatica con Daniel Day-Lewis che esplora le relazioni fra la comunità
bianca e quella indiana, e che affronta temi difficili come l’omosessualità e il
razzismo.
Nella cerchia di Freddie c’era anche Farang Irani, che in seguito aprì un
ristorante a Bombay, e Bruce Murray: di lui si sa solo che di recente
lavorava come facchino alla stazione Victoria a Londra. Negli anni successivi
i cinque divennero inseparabili, dormendo in letti vicini e organizzando
scherzi. Ospitato dalla zia paterna Jer o da quella materna Sheroo durante le
pause fra i quadrimestri, di rado Freddie rivide i genitori durante la
permanenza al St Peter’s, persino nel corso delle vacanze scolastiche.
«Dovevi fare quel che ti dicevano, per cui la cosa più ragionevole era
sfruttare la situazione al meglio», disse anni dopo. «Imparai a badare a me
stesso e crebbi molto in fretta.»
Così cominciò a formarsi il carattere del «vero» Freddie, quello che
l’avrebbe accompagnato per il resto della sua vita. Dovendo guardarsi le
spalle da solo e difendersi dai bulli, Freddie imparò in fretta a stare al
mondo. Si rese anche conto di dover cambiare nome: «Farrokh» era difficile
da pronunciare, specialmente alla maniera persiana, «Farroh», piuttosto che
all’africana «Faruk». Fu per lui un sollievo quando insegnanti e amici gli
affibbiarono un nome inglese di tutto rispetto: «Freddie». Per sua fortuna,
tutti lo adottarono. Anche famigliari e genitori non sollevarono obiezioni, e
ancora oggi si riferiscono al figlio chiamandolo «Freddie». Il cambio di
cognome, invece, sarebbe avvenuto solo molto più tardi e per ragioni
diverse.
Verso i dieci anni, Freddie cominciò a mostrare un nuovo tratto
caratteriale: il riserbo, per alcuni versi condiscendente, una caratteristica che
avrebbe mantenuto per il resto della vita. Sebbene in certe occasioni potesse
diventare astioso, non era mai scortese o cattivo.
Non era portato per i giochi di squadra. Eccelleva negli sport individuali
o di coppia, come gli scacchi, la corsa, la boxe e il ping-pong. Divenne
campione di tennis da tavolo dell’istituto prima ancora di avere compiuto
undici anni. Sebbene rugby e calcio non facessero per lui, si dice che amasse
il cricket, anche se in seguitò lo negò. Chissà, magari pensava che una
dichiarazione d’amore per quello sport avrebbe danneggiato la sua
immagine hard rock, ma chi può dirlo? Nel 1958, a quasi dodici anni, vinse
il premio come miglior allievo dell’istituto e l’anno successivo quello per il
miglior rendimento scolastico. Interpretò il ruolo principale in diverse pièce
teatrali e cantò un pezzo solista nella produzione del Canto d’amore
indiano. La sua materia preferita era l’arte e dedicava la maggior parte del
tempo libero a disegnare e a dipingere, in particolare per la zia Sheroo e i
nonni di Bombay. Cominciò anche a dedicarsi con entusiasmo alla musica
come attività extracurricolare.
Già a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, Bombay vantava una
cultura cosmopolita e internazionale, aperta anche all’influenza della musica
leggera occidentale. Freddie amava studiare musica classica, in particolare
l’opera, ma adorava addirittura di più il rock e il pop contemporanei. Prese
lezioni di pianoforte superando gli esami sia di teoria musicale sia di pratica
ed entrò a far parte di un coro. Con gli amici del collegio formò il suo primo
gruppo: gli Hectics, che si affermarono grazie al suo stile pianistico boogie-
woogie. Iniziarono a esibirsi in concerti all’interno dell’istituto e alla festa
annuale del collegio. Le ragazze delle altre scuole si mettevano davanti al
palco e gridavano come matte, perché avevano sentito dire che così ci si
comportava ai concerti rock. Gli idoli dell’epoca erano Elvis Presley, Cliff
Richard, Fats Domino e Little Richard, ed era a questi artisti che Freddie si
ispirava. Studiò molto per imitare il loro stile, ma non era ancora pronto per
diventare il leader di un gruppo, ed era felice di restare in seconda fila e
lasciare il posto principale all’amico Bruce Murray, che cantava e suonava la
chitarra.
«Poi c’era il coro del collegio, con tutto il repertorio tradizionale di opere
corali e inni, che provava regolarmente per guidare i canti durante la
messa», ricordò Branche. «Il coro aveva circa venticinque elementi e spesso
partecipavano anche le ragazze di un altro istituto della città. Non solo
Freddie amava cantare nel coro, ma credo che amasse anche una delle
ragazze: Gita Bharucha, che aveva quindici anni.»
Alcuni sostengono che Freddie ebbe i primi rapporti sessuali in collegio,
all’età di circa quattordici anni, soprattutto con altri ragazzi e persino con un
paio di dipendenti dell’istituto. La sua prima «fidanzatina», però, dubita
parecchio di queste ipotesi.
«Non ho mai pensato che ‘Bucky’ fosse gay», disse Gita. «Assolutamente
no. Mai visto alcun segno che lo indicasse. Forse i suoi insegnanti lo
sapevano ma erano discreti. Noi, i suoi amici, di certo non lo sapevamo. Sul
palco era il più sgargiante, si vedeva che era nel suo elemento, e
puntualmente interpretava parti femminili.»
Dopo Panchgani Gita si sposò, cambiò cognome in Choksi e si trasferì a
Francoforte, dove lavorò per un tour operator indiano. Per questo non fu
facile rintracciarla. Quando ci riuscii, all’inizio fu riluttante a parlare di
Freddie. Alla fine, tuttavia, accettò e ci incontrammo a Londra.
«La prima volta che vidi Freddie fu nel 1955, quando andai alla
Kimmins School di Panchgani», raccontò.
«Era una scuola gestita da missionari protestanti inglesi. Ci rimasi fino al
1963 e per quasi tutti i dieci anni che Freddie trascorse a ‘Panchi’
rimanemmo amici. Io venivo da Bombay, ma vivevo con la mamma e i
nonni a Panchi. Ero un’allieva esterna. Funzionava così: i ragazzi
frequentavano l’asilo della Kimmins, poi proseguivano alla St Peter’s. Con
alcuni sono stata nella stessa classe per anni: con Victory Rana e anche con
Bucky; è così che chiamavo Freddie: leprotto, per via dei denti. C’era anche
Derrick Branche.
«Io e Bucky eravamo molto vicini, ma solo amici. Nient’altro. Ci
tenevamo per mano e basta. Affittavamo biciclette per tre rupie al giorno e
andavamo a farci dei giri. A volte andavamo in barca sul lago
Mahableshwar. La mamma mi lasciava fare delle feste, o invitare amici a
pranzo, dopodiché facevamo una passeggiata o giocavamo. Spesso Bucky
restava da noi durante le vacanze. Era estremamente educato e gentile. A
mia madre e ai miei nonni piaceva tantissimo.»
Janet Smith, un’insegnante di Panchgani che risiedeva al St Peter’s dove
la madre teneva corsi di arte alla classe di Freddie, invece sostiene di non
avere avuto alcun dubbio sull’omosessualità del giovane Freddie.
«Aveva l’abitudine di chiamarti ‘tesoro’, il che mi sembrava un po’
lezioso. Sapevo che era gay, lo sapevo e basta. Era una cosa senza dubbio
insolita in quei tempi, ma quasi accettabile per un ragazzo come Freddie.
Normalmente sarebbe stato orribile, ma nel suo caso non lo era. Era giusto.
E non era una fase, ma un tratto fondamentale del suo essere. Non potevo
fare a meno di provare pena per lui, perché gli altri lo prendevano in giro.
Stranamente, però, non sembrava che questo gli desse fastidio.»
Nonostante Gita e Freddie fossero stati compagni inseparabili durante la
scuola, in seguito lei non ebbe più sue notizie.
«È triste, lo so, ma è andata così. Come se volesse divorziare dall’India e
passare allo stadio successivo della vita.»
Quando Freddie arrivò alla decima classe, il suo rendimento scolastico
peggiorò. Non passò l’esame di fine anno e lasciò la scuola prima
dell’undicesimo anno. Non superò mai il primo livello nell’educazione
superiore britannica. Forse confuso per il suo orientamento sessuale e
distratto da passioni più creative – musica e arte – perse interesse negli studi
e iniziò a seguire obiettivi e attività più stimolanti. Sebbene altri biografi
abbiano scritto che uscì dal St Peter’s con una sfilza di attestati in varie
materie, e ottimi voti in inglese, storia e arte, questo non corrisponde al
vero. Il motivo per cui i primi addetti stampa dei Queen falsarono la realtà
diventa chiaro quando si confrontano i risultati accademici degli altri
membri del gruppo. Brian May studiò fisica e matematica all’Imperial
College di Londra conseguendo una laurea in fisica. Cominciò poi un
dottorato in astrofisica che completò trent’anni dopo. John Deacon si laureò
con i massimi voti in elettronica al Chelsea College (oggi parte del King’s
College) di Londra, mentre Roger Taylor ottenne un posto per studiare
odontoiatria al London Hospital Medical College, ma in seguito abbandonò
gli studi per concentrarsi sulla musica.
«Freddie non voleva passare per un... ignorante, rispetto agli altri
membri dei Queen», commentò Jim Jenkins, amico del gruppo e coautore
di Queen: la biografia ufficiale. «Forse è per questo che raccontava in giro di
avere superato gli esami superiori quando in realtà non era vero. È
comprensibile, date le circostanze.»
La zia materna di Freddie, Sheroo Khory, mi parlò dell’amato nipote in
casa sua, nella colonia parsi di Dadar a Bombay.
«Anche quando Freddie stava da Jer, veniva sempre a trovarmi dopo
colazione e a volte passavamo tutto il giorno insieme. Era molto bravo a
disegnare e io lo incoraggiavo. Quando avevo otto anni fece un bellissimo
disegno di due cavalli in una tempesta, che firmò ‘Farrokh’. Ce l’aveva la
madre appeso in casa. Non so se sia ancora lì.»
Ma quando andò in Inghilterra, «era finita», disse. «Non volle più
tornare in India. Diceva di essere inglese, gli piaceva quella società più
civile, specialmente il sistema legale, rispetto all’enorme corruzione che c’è
qui in India. Ma ha sempre mantenuto i contatti e mi ha persino spedito del
denaro per un’operazione agli occhi di cui avevo molto bisogno. Voleva
anche portarmi a visitare l’Europa. Non si è mai dimenticato della sua
vecchia zia.»
Anni dopo, Sheroo iniziò a corrispondere regolarmente con la ex
fidanzata di Freddie, Mary Austin, scambiando fotografie del nipote da
piccolo con quelle di lui nei panni della famosa rockstar. La nostra
conversazione toccò anche l’argomento dei «nemici» che Freddie aveva in
Inghilterra e lei disse di avere temuto per la sua incolumità. Era dispiaciuta
per le polemiche religiose che c’erano state, specialmente per le voci che
parlavano di una conversione di Freddie Mercury al cristianesimo poco
prima della scomparsa.
«Tutta la famiglia è rimasta turbata da quelle notizie», disse. «È stato un
colpo terribile e crudele. Tutte bugie, in particolare quella che era diventato
cristiano. Sono sicura che non è vero. Di certo non che io sappia, e sono
sicura che me l’avrebbe detto.»
Nonostante a volte sia stato riportato il contrario, Freddie tornò a
Zanzibar nel 1963 e completò gli ultimi due anni di scuola presso la St
Joseph’s Convent School, un istituto cattolico. Bonzo Fernandez, un ex
poliziotto di Zanzibar, poi tassista, conobbe Freddie in quell’occasione.
«Ricordo che aveva un ottimo rapporto con la famiglia e che aveva una
sorella molto brava. Era molto educato. Tutti i Bulsara erano buoni e gentili.
Giocavamo a hockey e a cricket insieme. Lui era particolarmente bravo a
cricket», disse.
«Sapevo che era stato via per studiare in India, ma non parlava mai di
quel periodo. Talvolta dopo la scuola andavamo al mare a farci una nuotata,
cosa che lui adorava. Frequentavamo anche lo Starhe Club in Shangani
Street, che aveva una spiaggia pulitissima. Altre volte andavamo in bici fino
a Fumba, al Sud, a Mungapwani nel Nordovest, dove ci sono le vecchie
caverne degli schiavi o a Chwaka, nella penisola all’estremo Sudest. A volte
in gruppo. Nuotavamo, facevamo uno spuntino, scalavamo le palme da
cocco. Eravamo solo un po’ vivaci, ma non dei ragazzacci. Niente alcol,
droga o sigarette; non ai nostri tempi.
«Se chiudo gli occhi vedo ancora quel ragazzino magro e felice con i
pantaloncini corti blu e la camicia bianca. Era sempre ben vestito,
specialmente per giocare a cricket, quando la sua divisa sembrava la più
immacolata di tutte.
«Dopo la rivoluzione ce ne andammo via tutti dall’isola. Non ho mai
saputo dove fosse Freddie, né che cosa gli fosse capitato. Solo molto più
tardi scoprii che avevamo abitato tutti e due a Londra nello stesso periodo, e
solo dopo la sua scomparsa mi sono reso conto che quel mio vecchio
compagno di classe era diventato famosissimo.»
Gita Choksi riferisce un’esperienza simile: «Anni dopo, quando scoprii
chi era diventato, comprai qualche suo disco. Mi piacquero tantissimo.
«Non l’ho mai visto esibirsi dal vivo, però, e mi è sempre dispiaciuto. Una
volta, un altro dei nostri vecchi compagni di scuola andò a un concerto dei
Queen e provò a parlargli nel backstage, ma quando riuscì ad averlo di
fronte, lui guardò quel poveraccio e gli disse: ‘Mi spiace, ma temo di non
conoscerla affatto’.
«Fu in quel momento che capimmo per certo che Bucky non voleva più
avere nulla a che fare con noi, che era determinato a lasciarsi alle spalle il
passato.»
4
Londra
FREDDIE MERCURY
GLI anni Cinquanta videro una netta impennata del sentimento nazionalista
contro il dominio britannico in tutto il mondo. L’indipendenza di India e
Pakistan nel 1947, della Birmania e di Ceylon (poi Sri Lanka) nel 1948 e la
rivoluzione cinese del 1949 ebbero un impatto notevole sulle lotte
indipendentiste nelle colonie africane dell’impero. Zanzibar non restò
immune da questi sconvolgimenti. I sindacati dell’isola iniziarono a
trasformarsi in partiti per incentivare il cambiamento. Il Partito Nazionalista
di Zanzibar, fondato nel 1956 dalla minoranza araba e shirazi si fuse nel
Partito Afro-Shirazi, con una leadership di origini soprattutto africane. Le
lotte operaie divennero più intense e gli scioperi azzopparono diversi settori
dell’economia. Nonostante l’indipendenza raggiunta nel dicembre 1963, il
perdurare degli squilibri nella rappresentanza parlamentare (a favore della
minoranza araba) e un’annata fallimentare nelle coltivazioni di chiodi di
garofano e cocco fecero infuriare la maggioranza africana e sfociarono in
una rivolta di stampo socialista. Nel 1964 la violenta insurrezione portò alla
caduta del nuovo sultano Jamshid bin Abdulla e il leader del Partito Afro-
Shirazi, Sheikh Abeid Amani Karume, divenne il primo presidente di
Zanzibar. Migliaia di persone persero la vita negli scontri. La famiglia
Bulsara, come molte altre, fuggì dall’isola per mettersi in salvo. Partirono
con poche valigie e andarono in Inghilterra, dove avevano alcuni parenti
che si erano offerti di aiutarli.
«E così finirono i nostri rapporti con gli zii e i cugini», ricordò Perviz, la
cugina di Freddie, con una certa amarezza.
«Quando venni a sapere, molto tempo dopo, che Freddie era diventato
un musicista famoso, ero contentissima di avere avuto un genio in famiglia.
Eravamo molto orgogliosi di lui, ma non ci contattò mai, non ci spedì mai
nemmeno una cassetta.»
Dopo la rivoluzione, Zanzibar si unì spontaneamente al Tanganica
nell’aprile del 1964, diventando un territorio semiautonomo della neonata
Tanzania. Oggi gli zanzibari sono persone tranquille, pacifiche e tolleranti,
tranne per la loro quasi universale avversione nei confronti
dell’omosessualità.
FREDDIE MERCURY
FREDDIE MERCURY
RICK WAKEMAN
Sour Milk Sea era una canzone scritta da George Harrison durante le
session di registrazione del cosiddetto «White Album» dei Beatles.
Registrata poi da Jackie Lomax, un artista della Apple Records e uscita come
singolo nel 1968, era uno dei pochi brani non dei Beatles incisi con la
partecipazione di tre membri del gruppo. Ci suonarono George Harrison ed
Eric Clapton alla chitarra, Paul McCartney al basso, Ringo Starr alla batteria
e Nicky Hopkins al pianoforte: il pezzo aveva colpito Chris Dummet (che in
seguito avrebbe cambiato il cognome in Chesney) e Jeremy Gallop, un paio
di amici e allievi dell’esclusivo college privato di St Edward a Oxford, al
punto che i due avevano cambiato il nome della loro band liceale, i Tomato
City, nel titolo della canzone. La formazione dei Sour Milk Sea
comprendeva anche il batterista Robert Tyrrell, che con Mike Rutherford e
Anthony Phillips aveva suonato negli Anon, il gruppo pre-Genesis, anche
questo formatosi in un collegio privato, la prestigiosa Charterhouse. La band
aveva debuttato nella sala del municipio di Guildford, dove aveva aperto il
concerto per diversi gruppi emergenti, fra cui Deep Purple, Taste, Blodwyn
Pig e Junior’s Eyes, che si erano guadagnati imperitura fama per aver fatto
da spalla a David Bowie nel 1969. Il fondatore e chitarrista dei Junior’s
Eyes, Mick Wayne, aveva partecipato con Rick Wakeman alla produzione
del rivoluzionario album di Bowie «Space Oddity». Nel giugno del 1969, i
Sour Milk Sea erano diventati una band professionista, ma sapevano che
mancava loro un non so che. Arrivò sotto forma di Freddie Bulsara, che si
catapultò nella cripta di una chiesa di Dorking dove si tenevano le audizioni
per il nuovo cantante della band. Con la sua chioma corvina e
l’abbigliamento da dandy, Freddie trasudava stile e nonchalance. Aveva
diversi anni in più degli altri membri dei Sour Milk Sea, e si vedeva. Si
presentò come «Fred Bull».
«Era molto carismatico ed è per questo che lo scegliemmo», ricordò
Jeremy «Rubber» Gallop, divenuto poi insegnante di chitarra e morto nel
gennaio del 2006 per un cancro al pancreas, «sebbene avessimo l’imbarazzo
della scelta. Nelle audizioni di solito ti capitano quattro o cinque candidati
scadenti, ma quel giorno c’erano altri due cantanti molto bravi. Uno era un
nero con una voce divina, ma senza il carisma di Freddie e l’altro, o meglio
l’altra, era la cantante folk Bridget St John, in seguito definita ‘la John
Martyn femmina’».
Freddie entrò nel gruppo e si diede subito da fare. Poco dopo i Sour Milk
Sea furono ingaggiati per un concerto di alto profilo nella sala da ballo del
Randolph Hotel di Oxford, una serata per i rampolli della bella società.
«Il nostro suono non era granché», ammise Gallop. «Ma Freddie riuscì a
tenere in pugno il pubblico, grazie a un’attitudine aggressiva e al suo
bell’aspetto. Si dava un sacco di arie ed era molto effeminato, e anche
abbastanza vanitoso. Ricordo che una volta era a casa mia che si guardava
allo specchio passando le mani tra i capelli e disse: ‘Sono bello oggi, non
credi, Rubber?’ All’epoca avevo solo diciott’anni e non lo trovai molto
divertente.»
L’unico altro concerto rilevante dei Sour Milk Sea con Freddie fu uno
spettacolo di beneficenza per Shelter, un ente che si occupa dei senzatetto,
presso la sala parrocchiale Highfield di Headington (Oxford), nel marzo del
1970. La band rilasciò un’intervista all’Oxford Mail, che pubblicò anche il
testo della canzone di Freddie, Lover: si apriva con l’indimenticabile distico
«You never had it so good / the yoghurt-pushers are here» («Non t’è mai
andata così bene / gli spacciatori di yogurt sono qui»). Dopo quell’inizio
promettente, però, Chesney e Gallop litigarono.
«Freddie voleva cambiarci», spiegò Gallop. «Sul palco si trasformava,
diventava elettrico, proprio come quando sarebbe stato famoso. Altrimenti
era abbastanza calmo. Lo ricorderò sempre come una persona tranquilla ed
educata. A mia mamma piaceva. Mi vergogno un po’ a dirlo, ma fui io a
sciogliere il gruppo.»
Gallop era parente di Jonathan Morrish, futuro dirigente della CBS
Records e della Sony, nonché addetto stampa e confidente di Michael
Jackson per ventotto anni, che ricorda di avere visto quel concerto da
giovane.
«In quel momento, Freddie era per me un Martin Peters», sostenne,
riferendosi al leggendario calciatore che portò l’Inghilterra a vincere il
campionato del mondo nel 1966 e che era «dieci anni avanti rispetto al suo
tempo», secondo il suo manager Sir Alf Ramsey. (Peters era talmente
versatile da poter ricoprire qualsiasi ruolo nella sua squadra, il West Ham
United, incluso quello di portiere.)
«Freddie era appariscente ed estroverso come cantante, in un’epoca in
cui i musicisti salivano sul palco indossando i vestiti di tutti i giorni», spiega
Morrish.
«Persino allora era chiaro che Freddie padroneggiava già l’arte dello
spettacolo. Oggi è difficile capire, per chi non c’era, cosa significasse allora
sviluppare il rock. Le persone volevano essere musicisti: si comportavano
musicisticamente. Facevano quella vita là. A livello intuivo, Freddie seguiva
già la regola d’oro dello spettacolo: fare spettacolo. ‘Mach Schau!’ come
gridavano i promoter tedeschi ai Beatles nello Star Club di Amburgo.
Freddie faceva ciò che Epstein aveva fatto con i Beatles. In altre parole, non
bastava suonare e cantare bene, ma ci volevano anche le giacche senza
bavero, i capelli a caschetto e i sorrisetti timidi. I Beatles passarono gli otto
anni successivi a ribellarsi contro quel look, come se volessero provare che
per loro contava solo la musica. Ma Freddie, persino agli albori, sapeva già
che non era così.»
Morrish fu vicino a Michael Jackson fino alla fine. Le ragioni del legame
fra Freddie e Michael, sostiene, erano ovvie per chi li conosceva entrambi.
«Nessuno dei due era solo un musicista, o solo un cantante. Quel che
Freddie fece con Bohemian Rhapsody, Michael lo ripeté con Thriller. I
grandi artisti vanno dritti al punto. Sanno per istinto come essere
‘multimediali’. Il genio di Freddie era di capire che non conta solo la
canzone – parole, melodia e musica – ma come la trasmetti, perché il
pubblico la comprenda e la assimili; come la registri, come la presenti sul
palco, come confezioni il video, come ti vesti. Posso immaginarmelo durante
le riprese: ‘Ragazzi! Trucco, costumi, azione!’ Chi cazzo si truccava allora?
Gli uomini no. Nel 1970, se ti mettevi la crema idratante venivi bollato
come frocio. Eppure, ad anni di distanza, il mercato dei cosmetici per
uomini ha un giro di miliardi. Come ho detto, Freddie era molto più avanti
dei suoi tempi. Già nel 1970, diceva: ‘Guardate, ragazzi, è così che si fa
spettacolo!’»
Per tutta l’esistenza dei Queen è circolato un errore circa i vari nomi presi
in considerazione dalla band prima di scegliere quello definitivo.
«Brian e Roger da piccoli avevano entrambi letto la trilogia di C.S. Lewis,
Lontano dal pianeta silenzioso, dalla quale proveniva la frase ‘the Grand
Dance’», spiegano Jacky Gunn e Jim Jenkins nella biografia ufficiale dei
Queen (1992). Questa spiegazione è stata ripetuta in numerosi libri dedicati
ai Queen e a Freddie Mercury tanto che è diventata un «dato assodato»,
fino a comparire addirittura sul sito ufficiale della band, dove l’esperto Rhys
Thomas, in A Review (7 marzo 2011), cita «The Grand Dance», «The Rich
Kids» (in seguito adottato dall’ex Sex Pistol Glen Matlock come nome per il
suo nuovo gruppo) e «Build Your Own Boat» come i diversi nomi valutati
dai Queen prima di scegliere quello definitivo. Nel marzo 2011, in
un’intervista per la rivista Q, Brian disse: «Avevamo una rosa di nomi
possibili. ‘Queen’ era stato proposto da Freddie. Un altro era ‘Grand Dance’,
che secondo me non sarebbe stato molto buono…» In realtà, questa
dichiarazione è non è completamente giusta. Lontano dal pianeta silenzioso
è il primo libro della trilogia fantascientifica di Lewis, detta anche «trilogia
spaziale», «trilogia cosmica» o «trilogia di Ransom». Gli altri due volumi
della saga, a sua volta ispirata a A Voyage to Arcturus (1920) di David
Lindsay, sono Perelandra e Quell’orribile forza. Nel secondo romanzo,
Perelandra, Lewis crea un nuovo giardino dell’Eden sul pianeta Venere, con
un Adamo e un’Eva alternativi e un nuovo serpente tentatore. L’autore
esplora la possibilità che in quel tempo Eva resista alla tentazione evitando
così la caduta dell’uomo. È proprio in Perelandra che troviamo il nostro
riferimento a uno dei possibili nomi dei Queen: una descrizione
dell’esperienza mistica legata alla visione diretta della «Great Dance», (e
non «Grand Dance»), ossia la «grande danza» della coscienza
spaziotemporale e multidimensionale che costituisce il cosmo temporale:
«Così è con la Grande Danza: posate gli occhi su un movimento ed esso vi
condurrà attraverso tutti gli schemi, tanto da sembrarvi il movimento
principale. Ma l’apparenza corrisponde al vero. […] Sembra non vi sia alcun
disegno perché tutto è disegno; sembra non vi sia alcun centro perché tutto
è centro; che Egli sia benedetto!»
I nomi singoli funzionano meglio, però, sostenne Freddie: sono più facili
da memorizzare, fanno colpo. La sua proposta, provocatoria, era di
chiamarsi «Queen». Gli altri si opposero con sdegno, infastiditi per i
connotati omosessuali del termine. All’epoca «gay» era una parola che si
udiva di rado e che probabilmente si impose in seguito proprio come
reazione alla diffusione di queer («diverso»), il suo predecessore
denigratorio. Sebbene Freddie non avesse ancora fatto outing (né l’avrebbe
mai fatto ufficialmente), era abituato a essere chiamato «vecchia checca»
(old queen) e non gli dispiaceva. Adorava il riferimento androgino e il
rimando regale del termine. Ancor meglio, il nome era una perfetta scusa
per atteggiarsi da checca a più non posso sul palco. Ben presto Brian e Roger
cedettero: avevano colto l’ironia del nome, dato che nessuno era più macho,
più eterosessuale e più infatuato del genere femminile di loro due. Il nome
«Queen» funzionava.
Chiarita l’identità della band, Freddie decise di cambiare anche il proprio
cognome e abbandonò Bulsara a favore di Mercury, «Mercurio», il
messaggero degli dei secondo gli antichi romani. Come Hermes, la sua
controparte greca, Mercurio è rappresentato con i sandali alati e un bastone
con due serpenti avvinghiati. Mercurio è anche il nome del metallo liquido
già conosciuto in Cina e in India fin dall’antichità, e ritrovato persino nelle
tombe egizie, nonché quello del pianeta senza lune più vicino al Sole.
Negli anni sono state avanzate molte teorie sulla scelta di quel nome
d’arte. Secondo Jenkins: «Me lo disse Freddie in persona nel 1975, che
aveva scelto il nome del messaggero degli dei. Lo ricordo come fosse oggi. Si
è detto che l’avesse preso da Mike Mercury, della serie tv Fireball XL5, ma ti
assicuro che non c’entrava nulla».
Questo è il ricordo di Brian May: «Freddie aveva scritto una canzone
intitolata My Fairy King, dove c’è un verso che dice: ‘Oh Mother Mercury
what have you done to me?’ [‘Oh madre Mercurio, che mi hai fatto?’ Ma in
realtà il testo recita: ‘Mother mercury / look what they’ve done to me / I
cannot run, I cannot hide’ (‘Madre Mercurio, guarda che mi hanno fatto /
non posso fuggire, non posso nascondermi’)].
«Dopodiché disse: ‘Voglio chiamarmi Mercury, perché la “madre” di
quella canzone è mia madre’. E noi: ‘Ma sei matto?’
«Il cambio di nome rispecchiava il suo cambio di pelle. Il giovane Bulsara
era ancora lì, ma per il pubblico voleva diventare una divinità.»
Sebbene molti credano che Freddie cambiò cognome con un atto
ufficiale intorno al 1970, non esiste alcuna prova ad avallare questa teoria.
Non esiste nessun documento in tal senso al Public Records Office (oggi
National Archives), l’archivio nazionale con sede a Kew (Londra), sebbene
ce ne sia uno per Elton John. Un funzionario dell’ente ha dichiarato: «Solo
il dieci percento dei cambi di cognome vengono registrati tramite la Corte
suprema e quindi compaiono nei nostri registri. Anzi, in quegli anni la
percentuale si aggirava intorno al cinque percento. Non esistono obblighi
giuridici: in Inghilterra uno può chiamarsi come meglio crede. È probabile
che il signor Mercury abbia cambiato cognome tramite un legale, con un
atto che dovrebbe avere conservato lui e l’avvocato stesso».
Freddie rivelò il suo interesse per la mitologia e l’astrologia disegnando il
leggendario logo del gruppo, che raffigura una fenice con le ali spiegate, un
simbolo di immortalità ripreso dallo stemma del suo vecchio collegio
indiano, e i segni zodiacali dei quattro membri della band: due leoni per
Roger Taylor e John Deacon, un granchio per Brian May (cancro) e un paio
di fate per Freddie Mercury (vergine), il tutto sistemato intorno a una «Q»
sormontata da un’elaborata corona.
A dispetto di impegni precedenti, la band si accinse a debuttare come
«Queen» in un concerto di beneficenza per la Croce Rossa nella sala
comunale di Truro in Cornovaglia. Lo spettacolo, che ebbe luogo il 27
giugno 1970, era stato congiuntamente organizzato dalla madre di Roger,
Win Hitchens, e la formazione comprendeva anche Mike Grose al basso
(sarebbe rimasto con la band per appena tre concerti). Aprirono con Stone
Cold Crazy, un pezzo energico composto dal gruppo nel suo insieme e
basato su un brano precedente dei Wreckage, che però non fu accolto con
molto calore dalla sala semivuota. I presenti ricordano che la band non era
tanto affiatata e che il cantante in particolare non era ancora molto
coordinato.
«Freddie non era quello che sarebbe poi diventato», afferma la madre di
Roger. «Non aveva ancora perfezionato i suoi movimenti.»
«Freddie aveva grandi ambizioni per quella band», sostiene invece la
sorella Kashmira. «Era assolutamente determinato a sfondare.»
«Io e la mamma di Brian ci chiedevamo: Ce la faranno?» ricordò la
madre di Freddie in seguito.
Seguì un concerto all’Imperial College il 18 luglio, in cui i quattro
suonarono quasi solo cover, da James Brown a Little Richard, da Buddy
Holly a Shirley Bassey, con un paio di brani originali: Stone Cold Crazy, alla
cui stesura aveva partecipato l’intero gruppo, e Liar.
«Facevamo molto rock’n’roll con i Queen per dare alla gente qualcosa cui
aggrapparsi: Sali su, dagli quel che vogliono e vattene», spiegò Brian.
Poi Grose fu sostituito al basso da Barry Mitchell, che suonò con i Queen
fino a Natale, per undici concerti che si tennero in diversi college londinesi,
al famoso Cavern Club di Liverpool e in un paio di sale parrocchiali. I
Queen non avevano ancora trovato il bassista giusto.
Roger nel frattempo si iscrisse al North London Polytechnic per studiare
biologia e vinse anche una borsa di studio con cui integrare il suo scarso
reddito. Freddie rimase quindi l’unico membro dei Queen non impegnato
in studi universitari; non che questo importasse a nessuno. I quattro
continuarono a esibirsi con vigore e quello stesso settembre, Brian organizzò
un concerto-vetrina all’Imperial College cui invitò diversi importanti agenti
londinesi. Si presentarono in molti, ma nessuno rimase così colpito dal
gruppo da offrire loro un tour. Ambiziosi e impazienti, i Queen ci restarono
male.
Il 18 settembre 1970 fu un giorno tragico per Freddie, come per
moltissimi altri fan: Jimi Hendrix morì. Il musicista per eccellenza, che solo
l’anno precedente aveva suonato la sua elettrica versione dell’inno
americano a Woodstock e che aveva appena inaugurato il suo studio di
registrazione personale (il modernissimo Electric Lady, nel Greenwich
Village di New York), e che solo il mese precedente aveva raggiunto il suo
record di pubblico (seicentomila persone al festival sull’isola di Wight), fu
trovato morto in una pozza di vomito rosso nell’appartamento della
fidanzata Monika Dannemann, al Samarkland Hotel di Notting Hill.
Sebbene per anni si siano susseguite voci di un omicidio, la causa più
probabile del decesso è un’overdose di Vesparax, un sedativo, abbinato a un
abuso di alcolici. In seguito la fidanzata si è suicidata.
Freddie era inconsolabile. Troppo sconvolto per lavorare, chiuse il
banchetto di Kensington per lutto. Più tardi quello stesso giorno, mentre i
Queen provavano all’Imperial College, praticamente a due passi dall’albergo
in cui era appena morto Hendrix, Brian, Roger e Freddie offrirono il loro
tributo improvvisando Voodoo Chile, Purple Haze, Foxy Lady e altri brani
immortali del loro idolo.
Il bassista giusto continuò a eluderli finché, nel febbraio del 1971,
incontrarono per caso John Deacon in una discoteca di Londra. Nato a
Leicester, John aveva suonato in diversi gruppi fin da quando aveva
quattordici anni e studiava elettronica al Chelsea College. Taciturno di
carattere, compensava con un forte senso del ritmo e una mente irrequieta.
Era anche esperto di amplificatori e altre apparecchiature elettroniche, e
stava cercando un gruppo.
«Era perfetto. Noi tre eravamo già affiatati e su di giri», aggiunse Roger,
«e siccome lui era un tipo tranquillo pensammo che si sarebbe integrato
senza troppe difficoltà. Era un ottimo bassista – oltretutto – e anche un
mago dell’elettronica, il che fu un fattore decisivo.»
Da quel momento in poi, fino all’ultimo concerto dei Queen il 9 agosto
1986, la formazione della band non sarebbe mai più cambiata.
Seguirono sei mesi di prove intense in cui Brian, Roger e Freddie
insegnarono a John il repertorio. Intanto Brian scriveva la sua tesi, dato che
per lui, come per il nuovo bassista, i Queen erano pur sempre un hobby
extracurriculare. Solo Roger e Freddie potevano dedicare tutto il loro tempo
alla band, ed erano determinati a diventare professionisti e ad avere
successo. L’11 luglio 1971, i Queen iniziarono un piccolo tour di undici date
in Cornovaglia, terminando il 21 agosto al Festival di musica
contemporanea di Tregye. Seguirono altri appuntamenti in autunno, incluso
uno all’Imperial College il 6 ottobre, uno alle Swimming Baths di Epsom il 9
dicembre e un concerto di capodanno al London Rugby Club di
Twickenham.
Roger, nel frattempo, aveva perso ogni interesse nel banchetto. Il fattore
novità si era oramai esaurito, ma, oltretutto, il batterista aveva iniziato a
sentirsi «svilito» da quell’impiego. Abbandonò la «casbah», lasciando
Freddie con un collega, Alan Mair. Freddie invece era più legato che mai al
mercato di Kensington e non solo perché era un protagonista assoluto di
quella scena, si era anche innamorato.
7
Mary
FREDDIE MERCURY
PAUL GAMBACCINI
CON i suoi capelli color albicocca, gli occhi verdi e le ciglia lunghe come
Bambi, Mary Austin era l’incarnazione di un poster di Biba. Quando fondò
il suo emporio di tendenza, la stilista Barbara Hulanicki avrebbe potuto
benissimo sceglierla come musa ispiratrice. Esile e minuta, ciò che Mary non
aveva in termini di altezza e sicurezza lo compensava con un look e uno stile
anni Settanta quasi da manuale.
Mick Rock, nato a Londra, laureato in lingue moderne a Cambridge ed
ex allievo della London Film School, iniziò la carriera di fotografo
professionista quando Syd Barrett (il primo leader dei Pink Floyd, oggi
scomparso) gli chiese un servizio per la copertina del suo album solista «The
Madcap Laughs». Rock (è il suo vero cognome) entrò così nella cultura
psichedelica degli anni Settanta dalla porta principale, diventando poi amico
e fotografo ufficiale di David Bowie. Gli si attribuisce il merito non solo di
avere documentato la scena musicale di quell’epoca («L’uomo che fotografò
gli anni Settanta», è stato detto), ma di avere contribuito a crearla. Scattò le
prime immagini promozionali di Freddie Mercury e dei Queen, e in seguito
creò la grafica per le innovative copertine di «Queen II» e «Sheer Heart
Attack». Dal 1977 abita a New York, dove ha frequentato tutti gli esponenti
di spicco della scena underground della città, fra cui i Ramones e i Talking
Heads.
«Freddie viveva già con Mary quando l’ho conosciuto. Sì, li ho conosciuti
insieme e ho voluto bene a entrambi», racconta Rock. «Andavo sempre a
trovarli nel loro appartamentino per fare quattro chiacchiere verso l’ora del
tè. Freddie adorava il tè. Era l’epoca d’oro del glam rock e Mary era
bellissima: avrebbe conquistato chiunque, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa.
Ma non pensava di essere speciale, non le piaceva mettersi in mostra. Era
schiva, dolce e affascinante. A vederla ti veniva voglia di coccolarla.»
Pallida, timida e con il volto incorniciato da lucenti ciocche ramate, Mary
Austin aveva un contegno che ricordava Mary Hopkin, il prodigio dal volto
angelico lanciato da Paul McCartney e che riscosse un grande successo con
Those Were the Days. Le due Mary condividevano un’apparenza eterea,
intoccabile, casta, che perfezionava lo stile bohémien di quegli anni. Tempo
dopo sarebbe stato chiamato «il look alla Stevie Nicks» (dal nome del
cantante dei Fleetwood Mac) ed era già diffuso per le strade di Kensington:
abiti midi, giacconi, zeppe, foulard, collarini di velluto, rossetti viola e occhi
bordati di nero.
«Proveniva da una situazione difficile», ricorda il giornalista David Wigg.
«I suoi genitori erano entrambi sordomuti e comunicavano a gesti e
leggendo le labbra; ed erano poveri. Il padre faceva l’operaio in una ditta di
carta da parati e la madre le pulizie in una piccola azienda. Ma questo non
era certo un problema per Freddie, perché a lui non interessavano le
riccone, preferiva le persone che erano un gradino sotto il suo nella scala
sociale. Una questione di insicurezza, secondo me. Gli piacevano gli artisti, o
quelli che erano venuti su dal nulla. Artista e simpatico erano le
caratteristiche fondamentali per piacere a Freddie. E poi amava ridere. Mary
era timida, ma sapeva farlo ridere.»
Mary aveva lavorato come apprendista segretaria finché non era entrata
da Biba a diciannove anni, con un impiego che negli anni è stato definito
nei modi più disparati: «pubbliche relazioni», «segretaria», «commessa»,
«responsabile di reparto» e «manager». Qualunque sia stata la sua posizione,
o le sue posizioni, nel famoso emporio, il mondo del commercio pare una
strana scelta professionale per una ragazza timida e che aveva difficoltà
persino a impostare una normale conversazione, essendo cresciuta in una
casa silenziosa. Il grande negozio, profumato d’incenso e adornato di felci,
era una specie di caverna di Aladino affollata e rumorosa, piena di abiti,
scarpe, trucchi, gioielli, borse e bellissime commesse. Era frequentato da
numerose stelle della musica e del cinema che si mescolavano liberamente
con i giovani alla moda, molti dei quali andavano lì proprio per riuscire a
scorgere un Mick Jagger o un Paul McCartney.
Nonostante la sua riservatezza, Mary si ritrovò immersa nella scena rock
della città. Brian May fu il primo a notarla nel 1970 durante un concerto
all’Imperial College e andò a presentarsi.
Mary era la sua ragazza ideale sotto molti aspetti. Brian, alto, bruno e
sexy, non perse tempo e le chiese di uscire. Andarono d’accordo, ma non
scattò la scintilla. Il chitarrista vide che tra loro due ci sarebbe stata solo
amicizia e nient’altro. Freddie, invece, ci vide dell’altro. Dopo avere
tormentato Brian perché gliela presentasse, finalmente conobbe la ragazza
dei suoi (parziali) sogni.
L’attrazione fu immediata e reciproca e non sarebbe mai cessata. È strano
quindi che Mary abbia passato i successivi sei mesi a evitare Freddie, al
punto di uscire con altri, seppur senza iniziare nessuna storia seria. Anni
dopo avrebbe spiegato il motivo di quel suo comportamento: credeva che
Freddie fosse interessato alla sua amica, non a lei. Una sera, dopo un
concerto della band, Mary disse che doveva andare in bagno e invece sparì,
lasciandolo solo con l’amica. Freddie ci rimase di sasso, ma non per questo
rinunciò a corteggiarla. Le chiese di uscire per il suo ventiquattresimo
compleanno, il 5 settembre 1970, ma lei finse di avere già un impegno.
«Cercavo di fare la difficile», spiegò poi a Wigg. «Non avevo davvero un
altro impegno. Ma Freddie non ha lasciato perdere e siamo usciti insieme la
sera dopo. Siamo andati a vedere i Mott the Hoople al Marquee, a Soho.
Non aveva molti soldi allora, per cui quando uscivamo facevamo le cose che
fanno tutti i ragazzi. Niente cene costose: quelle sarebbero venute solo dopo
il successo.»
Presto i due divennero inseparabili e iniziarono una relazione che negli
anni avrebbe sempre avuto la precedenza su qualsiasi altro legame,
eterosessuale o omosessuale, instaurato da Freddie.
Freddie e Mary avevano molte cose in comune. Entrambi si erano
allontanati dai genitori e avevano provato un forte bisogno di indipendenza.
Tutti e due tendevano a mostrare solo la punta dell’iceberg della propria
personalità e a celare il loro sé più autentico; potevano apparire superficiali,
frivoli e materialisti; tendevano a vivere alla giornata, almeno quand’erano
più giovani, anche se spesso questa era solo un’immagine, un modo per
nascondere la loro innata timidezza; erano molto sensibili e riservati, e più
profondi di quel che sembravano. Si videro l’uno riflesso nell’altra e questo
divenne il fondamento di un legame fascinoso ed eterno. Con il passare
degli anni, gli aspetti più contraddittori del loro carattere finirono per
consolidare il loro rapporto. Mary poteva apparire dolce e gentile, il genere
di ragazza che non farebbe male a una mosca, ma quella fragilità esteriore
nascondeva una notevole serenità e una forza interiore, due qualità che
Freddie ammirava molto, forse perché temeva che The Great Pretender in
lui non le avesse. Mary sapeva che Freddie aveva una famiglia a Feltham,
ma sarebbe passato parecchio tempo prima che lui gliela presentasse. Non è
difficile capire il perché: Mary era la nuora ideale per i coniugi Bulsara. Se
l’avessero conosciuta, è probabile che avrebbero iniziato a fare pressioni su
di lui perché la sposasse, e poi desse loro il nipotino che tanto desideravano.
Ma Freddie non era pronto per il matrimonio. D’altronde – anche se
nessuno poteva saperlo allora – non lo sarebbe mai stato.
Negli anni, Mary divenne la roccia su cui Freddie poggiava e da cui
traeva la forza necessaria per vivere. Ogni volta che i suoi eccessi gli
sfuggivano di mano e che non era in grado di sostenere le pressioni legate al
lavoro, Freddie correva a rifugiarsi da lei. Solida e affidabile, clemente e
comprensiva, Mary era per lui una figura materna a cui aggrapparsi nei
momenti difficili.
«In un certo senso Mary Austin era davvero sua madre», riflette
Doherty.
«Per Freddie, lei c’era sempre, in qualsiasi momento; pronta a
sospendere la propria vita per aiutarlo. Lo seguiva ovunque, era sempre al
suo fianco. Colmava il vuoto lasciato dai genitori quando era piccolo.
L’avevano ficcato su una nave e spedito in collegio a migliaia di chilometri
di distanza, un viaggio che allora durava sessanta giorni. Aveva otto anni...
ma ti immagini? Era stato un trauma, che Freddie non avrebbe mai risolto.
Poi però era arrivata Mary. ‘Mother Mary comes to me’ [‘Mamma Mary
viene da me’], cantava McCartney in Let It Be, proprio nel 1970, vero? Che
coincidenza: l’anno in cui Mary e Freddie si sono incontrati.
«Avrebbe potuto benissimo essere la ‘loro’ canzone, con tutti quei
riferimenti matriarcali alla Vergine Maria. Mary era quella della canzone.
Era pura. Alla fine Freddie non ci andava nemmeno più a letto insieme…»
Forse perché aveva oramai scelto di essere gay, trasformando la
compagna in una vergine immacolata?
«Il mito fu preservato», concorda Doherty. «Nella sua testa lei era
perfetta ed esisteva solo per lui.»
«Senza dubbio Mary era una figura materna [per Freddie]», concorda lo
psichiatra Cosmo Hallstrom.
«Più precisamente, una figura materna idealizzata, rappresentava quello
che secondo lui una donna doveva essere. Freddie aveva un appetito
sessuale molto sviluppato e non era selettivo nella scelta dei partner. Era
capace di fare l’amore con lei e poi scappar via e avere una serie di sbrigativi
rapporti clandestini con altre persone. Tutte relazioni fragili ed effimere,
però. Alla fine, infatti, tornava sempre da lei. E lei, chiaramente, era lì ad
aspettarlo: pronta per il suo uomo.»
«Si prendeva cura di lui, lo accudiva, coltivava il suo lato positivo. Era il
suo fondamento, la sua forza. Era proprio quella relazione che gli
permetteva di avere altri flirt. [Mary] divenne quindi la moglie sofferente
oltre che la matriarca, accettando ogni sorta di assurdità. Il suo ruolo era
fondamentale: Freddie soffriva per via dei sensi di colpa e questa era la
chiave della sua creatività. Una persona felice non sente il bisogno di creare.
Chi è felice si accontenta di quel che ha, ama le cose così come sono.
Freddie invece era perennemente tormentato proprio a causa dei suoi
sentimenti per Mary. Ma questo tormento era anche la sua fonte di
ispirazione.»
Alcuni hanno descritto il sentimento di Mary per Freddie come «amore
materno» (mother love). Non c’è da sorprendersi quindi che questo sia
diventato il titolo di un brano malinconico di «Made in Heaven», l’album
uscito quattro anni dopo la morte del cantante nel 1991.
«Passo da un estremo all’altro», disse Freddie una volta. «Ho un lato
tenero e uno duro, senza vie di mezzo. Se la persona giusta riesce a toccarmi
il cuore, divento molto vulnerabile, come un bambino, e puntualmente ci
vado di mezzo. Talvolta però sono forte e quando sono così nessuno riesce a
toccarmi.»
Mary fu una delle poche persone a cui Freddie confessò di soffrire di
mania di persecuzione. In particolare aveva paura che la gente lo sfottesse
alle spalle e di essere effettivamente ridicolo. Erano paure che lo
perseguitavano fin da piccolo e che Freddie non avrebbe mai vinto del tutto.
Forse non erano del tutto infondate. Peter «Ratty» Hince, per molti anni
roadie dei Queen e oggi fotografo, sostiene: «A essere sincero, tutti
pensavano che Freddie fosse un po’ scemotto. Era esagerato anche per un
gruppo glam rock: tutti quei costumi… Secondo me agli inizi non era
nemmeno l’elemento più forte del gruppo. All’epoca erano parecchio
compatti».
Forse la mania di persecuzione era anche la causa dei suoi occasionali
scoppi di rabbia: lo spingevano a comportarsi in modo iniquo e persino
crudele con amici e collaboratori, pronunciando commenti sprezzanti e
denigratori, tanto gratuiti quanto astiosi. Alcuni commentatori hanno
ipotizzato che Mary sviluppò un meccanismo difensivo per proteggere
Freddie e se stessa da media e curiosi. È possibile, però, che in realtà la
donna volesse proteggere loro due dal lato oscuro di Freddie stesso.
La loro unione era un incontro di cuori, menti e anime, non si poteva
tuttavia ignorare l’aspetto carnale. La loro relazione sessuale durò sei anni,
un periodo che per un ventenne è come una vita intera e che testimonia il
loro reciproco impegno. Presto andarono a convivere in un monolocale
piccolo e squallido in Victoria Road, vicino a Kensington High Street: in
quel quartiere Freddie avrebbe poi sempre fatto ritorno. All’epoca pagavano
solo dieci sterline la settimana in quella che oggi è una delle zone più
costose in tutta l’Inghilterra.
Due anni dopo, si trasferirono in un appartamento più grande e
autonomo, ma umidissimo, su Holland Road: costava diciannove sterline la
settimana.
«Siamo cresciuti insieme. Freddie mi piaceva e la nostra relazione è
partita da lì», ricordò una volta Mary. «Mi ci sono voluti circa tre anni per
innamorarmi davvero. Non ho mai provato la stessa cosa per nessun altro,
né prima né dopo… Lo amavo tantissimo.»
«Mi sentivo sicura con lui», confessò a Wigg. «Più lo conoscevo, più lo
amavo per quel che era. Aveva delle qualità che secondo me sono molto
rare oggi. Sapevamo di poterci fidare l’uno dell’altra e che non ci saremmo
mai fatti del male apposta.»
«Una volta, a Natale, mi comprò un anello e lo mise in una scatola
enorme. La aprii e dentro c’era un’altra scatola, e poi un’altra finché arrivai
a una scatola piccolissima. Quando la aprii, vidi un bellissimo anello con
uno scarabeo egizio. Si dice che porti fortuna. Freddie era impacciato e
dolcissimo quando me lo diede.»
«A prescindere da tutto quel che accadeva», spiega Mick Rock, «Freddie
aveva la sua dolce vita domestica con Mary, molto comoda e piacevole.
Ogni volta che andavo da loro lo trovavo in vestaglia e pantofole e stavamo
così a chiacchierare per ore.»
Mary si è sempre rifiutata di discutere della sua vita privata con Freddie,
facendone quasi una questione d’onore ed evitando di parlare persino degli
aspetti più spicci della convivenza. In qualche intervista, tuttavia, sono
trapelati alcuni dettagli. Per esempio, si sa che quando Freddie veniva colto
dall’ispirazione, avvicinava il pianoforte al letto e andava avanti a comporre,
a qualsiasi ora del giorno o della notte. Un’altra donna si sarebbe presto
stufata di un’abitudine così invasiva.
Se aveva dei sospetti sulle preferenze sessuali di Freddie, all’inizio Mary
tentò di ignorarli.
«Una volta le dissi: ‘Qualche volta deve per forza esserti venuto il dubbio
che fosse gay’», riferisce Wigg. «Ma ovunque andavamo, le ragazze
impazzivano per lui», gli aveva risposto Mary. «Quando scendeva dal palco,
gli saltavano addosso.» Una volta, Freddie fu assalito da uno stormo di
ragazze a fine concerto. Mary fece per andarsene, pensando: Freddie non
ha più bisogno di me. Tuttavia lui la vide e le corse dietro. «Dove vai?»
«Non hai bisogno di me, ci sono loro», gli rispose lei. «Eccome se ho bisogno
di te, invece», insisté Freddie. «Non voglio vivere tutto questo senza te.»
«Più avanti iniziò a rientrare sempre più tardi la sera e pensai: Ecco,
basta, è finita», rivelò Mary a Wigg, aggiungendo di avere pensato che
Freddie avesse un’altra. «Credevo che non mi volesse più. Aveva sempre
qualche scusa: ‘Eravamo in studio, tesoro’, oppure ‘Ci siamo lasciati
prendere, scusa se ho fatto così tardi’.» Tutto il resto tra di loro andava
bene, disse Mary, tranne quegli inspiegabili ritardi. Una sera Freddie infine
confessò: «Mary, devo dirti una cosa». Lei era convinta che lui la tradisse
con un’altra donna, per cui si preparò alla notizia. Con enorme sollievo,
invece, lui le disse semplicemente: «Credo di essere bisessuale».
«No Freddie, non credo che tu sia bisessuale», rispose lei. «Secondo me
sei gay.»
«Freddie ci restò male, ma da lei lo accettò», riferisce Wigg. «Freddie
aggiunse: ‘Voglio che tu faccia sempre parte della mia vita’. E infatti quando
si trasferì a Garden Lodge, comprò a Mary un piccolo appartamento dietro
l’angolo; dalla finestra del bagno si vedeva casa sua.»
Per certi versi, Mary divenne la matriarca della nuova «famiglia» di
Freddie, il suo entourage di collaboratori-amici, quasi tutti gay.
«Freddie instaurò con Mary una relazione onesta e aperta, proprio quella
che non poteva avere con la madre naturale, a causa della religione e della
cultura di famiglia», sostiene Wigg.
Rock ricorda che Freddie andava «fuori di sé» se si affrontavano
questioni legate alla sessualità.
«Questo prima che si dichiarasse apertamente. Sapeva di essere gay, ma
non esclusivamente, e questo lo incasinava. Era lacerato, come se volesse
sapere con certezza se era gay o no, invece era intrappolato in mezzo, in una
specie di terra di nessuno. Amava le donne. Amava la compagnia
femminile. Può darsi che più avanti negli anni si sia rivolto soprattutto agli
uomini per il sesso, che sia stato più promiscuo con gli uomini, ma amava
circondarsi di donne. Mary era l’amore della sua vita, il legame affettivo più
forte che avesse mai avuto. L’ironia della sorte è che nel profondo lui era
gay, ma il suo amore più significativo era una donna. Forse ciò era dovuto
più alla donna in questione che alle preferenze sessuali di Freddie. Fra lui e
Mary c’era vero amore. L’aspetto sessuale non era tanto importante quanto
il legame emotivo e spirituale.»
Freddie iniziò ad avere amanti maschi, ma non li portò mai nel
monolocale che divideva con Mary. All’inizio, si comportò con discrezione,
mantenendo una relazione di facciata con la compagna. Sperando che si
trattasse solo di una fase, Mary pazientò e chiuse un occhio. Con il passare
del tempo, tuttavia, capì senza ombra di dubbio che Freddie preferiva
davvero i maschi e alla fine nemmeno lui riuscì più a nascondersi la verità, e
confessò.
«Vedevo che c’era qualcosa che lo turbava», raccontò Mary a Wigg. «Per
cui fu un sollievo quando me lo disse. Apprezzai la sua onestà. Forse
pensava che non avrei appoggiato la cosa, ma non potevo negargli il diritto
di essere se stesso.»
Il fatto che Mary accantonò il proprio dolore per la fine della relazione e
che permise a quest’ultima di trasformarsi in un’amicizia platonica, la dice
lunga sulle sue qualità umane. Da allora in poi, Mary divenne la leale
servitrice di Freddie incontrandolo almeno una volta al giorno. Si descrisse
come il suo «galoppino». Freddie la chiamava «la mia fedelissima».
Era libera di cercarsi un altro, ma sarebbe passato molto tempo prima che
lo facesse sul serio. Non era in grado di lasciarlo andare e si dice che una
volta gli abbia persino chiesto di darle un figlio (pare che Freddie rispose
che avrebbe preferito prendere un gatto). In seguito Mary avrebbe avuto
due figli: Richard, di cui Freddie era il padrino, e Jamie, nato poco dopo la
morte del cantante. Quasi tutte le future relazioni di Mary, però, parevano
condannate al fallimento, forse perché nascevano sempre nell’ombra di
Freddie e di un rapporto che la donna non aveva mai superato davvero.
Persino quella con il padre dei suoi figli, l’arredatore di interni Piers
Cameron, terminò. «Si è sempre sentito eclissato da Freddie», spiegò Mary.
In seguito Freddie ebbe altre relazioni con donne, in mezzo a un flusso
incessante di partner maschili. Dato che aveva scelto di restargli vicino,
Mary dovette accettare anche questo. Quasi tutte le persone che hanno
conosciuto entrambi sostengono che nessuna donna avrebbe mai potuto
prendere il posto di Mary nel cuore di Freddie. Il fatto che lui le abbia
lasciato in eredità la sua grande dimora e buona parte del suo enorme
patrimonio, probabilmente ne è la prova.
«Mary è una santa», spiega Rock. «È favolosa, straordinaria, fedele,
umile, discreta. Davvero una brava persona, una delle migliori che abbia
mai conosciuto. Dopo che i Queen avevano sfondato e io mi ero trasferito a
Manhattan, vedevo spesso Freddie a New York. Uscivamo insieme e
chiacchieravamo. Una volta, anni dopo, mentre ero a Londra incontrai
Mary per un tè e mi disse una cosa molto strana. All’epoca non la capii, ma
oggi forse sì. Mi disse: ‘Prima mio padre, poi Freddie, ora i miei figli. Sembra
proprio che sia venuta su questa terra per badare agli uomini’. Voleva dire
che la missione della sua vita era quella. Una strana vita, se ci pensi. Ma ha
senso.»
Per Rock fu un sollievo vedere che Freddie la trattava bene.
«Freddie era una persona unica al mondo: chiunque avrebbe avuto
difficoltà ad averci a che fare. Inoltre era più interessato al lavoro che a
qualsiasi altra cosa. E, ad aggravare le cose, aveva dei momenti di
inspiegabile follia. Dev’essere stato un incubo lavorare e vivere con lui. E lui
lo sapeva, non era stupido. Mary accettò cose che pochi avrebbero accettato,
e non ha mai smesso di amarlo; fino a oggi. Si può dire che ha dato la vita
per lui. E quel che ha avuto in cambio è niente rispetto a quel che ha dato,
credimi.»
Come spiegò Mary: «[Freddie] ha allargato i miei orizzonti, facendomi
conoscere il balletto, l’opera e l’arte. Ho imparato tantissime cose da lui, e
mi ha dato tantissimo. Non l’avrei mai abbandonato, mai».
Non che questo rendesse più facile la convivenza. Non solo Freddie
faceva di tutto un dramma, ma era molto pignolo: persino i vasi di fiori
andavano sistemati in un posto preciso, per esempio, altrimenti li faceva
volare dalla finestra.
«Era il suo stile», disse una volta Mary. «Voleva le cose fatte a modo suo
e a volte era molto difficile. Litigavamo parecchio. Ma lui amava una bella
baruffa.»
Diversi anni dopo la morte di Freddie, Mary si fece una ragione della
fortuna lasciatale dal cantante e ritrovò la felicità con Nick, l’imprenditore
londinese che sposò nel 1998 a Long Island, lontano dai riflettori e con i
figli come unici testimoni.
«Nick è stato molto coraggioso a sposarmi», disse a Wigg. «Porto con me
un ‘bagaglio’ pesante… Più passano gli anni e più riesco ad apprezzare quel
che ho avuto, e quel che ho ora, e ad andare avanti con la vita.»
Aggiunge Rock: «Alcuni l’hanno criticata per essere rimasta vicino a
Freddie, e molti hanno sospettato che avesse dei secondi fini, ma posso dirti
per certo che non è rimasta per i cazzutissimi soldi. Potrei scommetterci la
vita su questo».
Le persone possono dire quel che vogliono. Chi li conosceva aveva
sentito le ragioni di entrambi (e ci sono sempre almeno tre versioni della
medesima storia). Per ventun anni Mary si è tenuta le sue opinioni per sé e
la sua lealtà nei confronti di Freddie la dice lunga. Perché non aveva
accettato la separazione cominciando una nuova vita, magari in un’altra
città? Forse perché temeva che senza Freddie non sarebbe stata nulla?
«Il fatto che sia rimasta in una situazione che qualsiasi altra donna
avrebbe rifiutato a favore di un ambiente eterosessuale è il risultato di
un’estrema perseveranza e di una – bisogna dirlo – finzione», commenta
David Evans, amico intimo di Freddie.
«Credo onestamente che Mary non fosse a suo agio nell’entourage
omosessuale di Freddie», rivelò nel 1995 nel suo libro di memorie More of
the Real Life. «Percepivo il suo disagio e per quel che potevo mitigavo il mio
comportamento per adattare la sua femminilità così eterosessuale. Mary non
fu mai ‘una di noi’, come altre donne di Freddie. Sembrava mancarle la
sicurezza e l’esuberanza di Barbara Valentin, Anita Dobson o Diana
Moseley. Tutte donne forti e piene di talento, che non si sentivano per
niente minacciate dalla trasgressività di Freddie, anzi ne uscivano rafforzate.
«Mary era sempre remota, distaccata nello spirito e nella carne dalla ‘Vita
reale’ [come l’entourage casalingo di Freddie definiva se stesso].»
Sia Freddie sia i suoi amici furono felicissimi quando Mary iniziò a uscire
con Piers Cameron e poi restò incinta, ma nessuno si sorprese quando la
storia finì. «È innegabile che continuò a far parte della Vita reale», afferma
Evans. Lui sperava che Mary superasse il suo «attaccamento malato a una
situazione che aggravava il dolore della separazione, dal quale
evidentemente non si era mai ripresa».
8
Trident
FREDDIE MERCURY
IL 1971 era quasi finito, ma la carriera dei Queen ancora non era decollata,
nonostante i quattro si fossero esibiti tanto quanto gli impegni accademici di
Brian e John avevano permesso loro, e nonostante i numerosi tentativi di
ottenere un contratto discografico. Come osservò Brian: «Prima di
abbandonare le carriere per le quali avevamo studiato tanto, volevamo avere
un introito fisso dalla musica. Avevamo tutti molto da perdere, sai, e non
era facile. A essere onesto, penso che nessuno di noi credesse che ci
sarebbero voluti tre anni interi per arrivare da qualche parte. Di certo non
fu una passeggiata».
Freddie: «A un certo punto, due o tre anni dopo l’inizio, ci siamo quasi
sciolti. Vedevamo che non funzionava, che c’erano troppi squali in
quell’ambiente e che era troppo per noi… Ma qualcosa ci spinse ad andare
avanti e a imparare dalle nostre esperienze, belle o brutte che fossero».
In un’altra occasione, però, Freddie contraddisse questa precedente
valutazione sugli inizi dei Queen, dichiarando: «Non ho mai avuto dubbi,
tesoro, mai. Sapevo che ce l’avremmo fatta. Lo dicevo a tutti».
Anche Roger ricorda quei primi tempi in una luce positiva: «Per i primi
due anni non accadde nulla di serio. Ci impegnavamo tutti moltissimo, ma
non facevamo progressi. Avevamo molte idee davvero buone, però, e
sentivamo che in un modo o nell’altro ce l’avremmo fatta».
FREDDIE MERCURY
FREDDIE MERCURY
Oramai la EMI non riusciva più a gestire la valanga di lettere dei fan dei
Queen, né le pressanti richieste di fotografie, quindi tentò di demandare la
responsabilità alla Trident, ma anche questa non poteva o non voleva farlo.
C’era un solo modo per risolvere il problema. Alla fine del 1973 nacque un
fan club ufficiale, gestito da due vecchi amici di Roger dai tempi della
Cornovaglia: Sue e Pat Johnstone. Il fan club ha cambiato mano nel corso
degli anni, tuttavia ha sempre potuto vantare un rapporto privilegiato con la
band. Non solo esiste tutt’oggi, ma ogni anno organizza un raduno che
attira ancora un grosso numero di fan.
Dato che le vendite dell’album andavano molto bene, la EMI si
concentrò sulla campagna pubblicitaria internazionale. Nel gennaio del
1974 fu organizzato un tour in Australia. Poco prima di partire, la band
sfiorò il disastro, quando Brian sviluppò una cancrena al braccio a seguito di
una vaccinazione, così grave che si temette l’amputazione. Per fortuna il
chitarrista guarì e il viaggio poté procedere. Poi però toccò a Freddie.
Durante il volo per Sydney, fu assalito per la prima volta dalla paura di
volare ed ebbe quasi una crisi di panico. Il suo nervosismo era acuito da una
dolorosa otite, che l’aveva reso temporaneamente sordo. Freddie avrebbe
odiato gli aerei per il resto della vita. Il viaggio sembrava iellato fin
dall’inizio. Né Freddie né Brian erano in forma e i concerti in Australia non
furono granché.
Almeno in patria le cose andavano meglio. In un sondaggio fra i lettori
del New Musical Express, i Queen si classificarono secondi nella sezione
nuovi arrivi, senza avere mai avuto nemmeno una hit in patria. In America,
l’Elektra distribuì un secondo brano tratto dal primo album, che però cadde
nel vuoto. La EMI non si perse d’animo e mise in programma l’uscita di un
nuovo singolo. Il 21 febbraio 1974, inoltre, si liberò un posto all’ultimo
minuto su Top of the Pops (perché il promo del nuovo singolo di David
Bowie, Rebel Rebel non era pronto) e i Queen furono trasportati di corsa
negli studi della BBC per cantare Seven Seas of Rhye in playback, prima
ancora che il singolo uscisse sul mercato.
«Ricordo Freddie che correva lungo Oxford Street per vedere la sua
apparizione in tv nella vetrina di un negozio di elettrodomestici, perché
all’epoca non aveva ancora la televisione», racconta Brainsby.
Il singolo uscì in fretta e furia la settimana stessa. La fortuna continuò a
girare dalla parte della band. Il secondo album, «Queen II», era oramai
pronto e i quattro si prepararono ad affrontare il primo tour del Regno
Unito da protagonisti. Il giro sarebbe iniziato a Blackpool il 1º marzo per
concludersi quattro settimane dopo al Rainbow Theatre di Londra.
L’edificio, che sorge all’angolo fra Isledon Road e Seven Sisters Road, era
nato negli anni Trenta come cinema ed è oggi un bene protetto usato da
una chiesa pentecostale. Negli anni era stato un importante locale musicale:
lì nel 1967 Jimi Hendrix aveva dato fuoco alla sua prima chitarra, lì i Beach
Boys avevano registrato il loro album «Live in London», lì avevano suonato
fra gli altri Stevie Wonder, Who, Pink Floyd, Van Morrison, Ramones e
David Bowie.
La band cominciò subito le prove per il tour agli Ealing Studios. Secondo
Brainsby, fu Freddie che ebbe l’idea di chiedere alla giovane stilista Zandra
Rhodes di creare dei costumi appositi per la tournée, dopo avere visto gli
abiti che questa aveva disegnato per Marc Bolan. Gli altri membri del
gruppo si dissero subito d’accordo. I dirigenti della EMI non tanto, a causa
dell’esorbitante parcella di cinquemila sterline della creativa, sebbene
dovettero poi ammettere che le eccentriche vesti di seta con «ali di
pipistrello» fossero «molto Queen». Fu solo in quel momento che Freddie si
sentì abbastanza sicuro per dire addio al banchetto di Kensington.
Quattro giorni dopo il concerto di Blackpool, Seven Seas of Rhye andò
dritta al numero quarantacinque della classifica britannica. Tre giorni dopo,
uscì «Queen II», che si piazzò al trentacinquesimo posto, fra recensioni
contrastanti. Il tour, però, fu segnato da una serie di incidenti, inclusa una
violenta rissa fra gli studenti dell’università di Stirling, in Scozia, in cui
furono accoltellati due spettatori. Anche se la band riuscì a salvarsi
chiudendosi a chiave nelle cucine, due roadie furono aggrediti e dovettero
essere ricoverati. Lo spettacolo successivo, a Birmingham, fu cancellato, ma
oramai il danno era fatto: i Queen furono di nuovo attaccati dalla stampa
musicale. L’ostilità dei giornalisti continuò anche dopo la data sull’isola di
Man a fine marzo. Nonostante ciò, il gruppo e il suo entourage celebrarono
il tour con nuovi eccessi, alzando gli standard dei loro afterparty, le feste
tenute alla fine degli spettacoli. In un’altra data, invece, prima che la band
salisse sul palco, gli spettatori intonarono l’inno God Save the Queen, un
brano che sarebbe diventato d’obbligo nei concerti della band da quel
momento in poi.
Con «Queen II» al numero sette nella classifica degli album anche le
vendite del precedente LP ripresero a salire, finché entrò per la prima volta
in graduatoria al quarantasettesimo posto. Più o meno nello stesso tempo,
l’Elektra lo distribuì in Giappone, dove fu accolto da recensioni entusiaste.
Ma né la Trident, né la EMI, e nemmeno gli stessi Queen, potevano sapere
quanto la band sarebbe diventata famosa nella terra del Sol Levante.
Il successo, però, ha un prezzo. Freddie era sempre più irascibile, perdeva
le staffe al minimo contrattempo, e Brian cominciò a perdere la sua
proverbiale pazienza. I loro litigi logoravano tutti e di solito finivano con il
cantante che se ne andava stizzito, mentre i rimanenti tre alzavano le spalle:
secondo loro era inutile perder tempo quando avevano tanto lavoro da fare.
Molto più avanti, però, commemorando il quarantesimo anniversario dei
Queen in un’intervista per la rivista Q, Brian e Roger avrebbero entrambi
ricordato Freddie come un paciere: «Credo che sia sbagliato schiacciare
Freddie nel ruolo di primadonna. In realtà era un gran diplomatico e se
c’erano dei disaccordi tra di noi, in genere sapeva come risolverli».
Il senno di poi... una cosa favolosa. Secondo Freddie, invece, i Queen
avevano sempre «litigato su tutto, persino sull’aria che respiravano».
Con il morale sempre più alto grazie al successo del primo tour, i Queen
furono contenti ma non sorpresi quando i Mott the Hoople li invitarono ad
accompagnarli nella loro tournée americana: sarebbe iniziata a Denver in
Colorado e prevedeva diverse date a New York. Nonostante la paura di
volare, il 12 aprile Freddie fu il primo agli imbarchi. La Elektra sfruttò
l’arrivo della band negli Stati Uniti per fare uscire «Queen II» prima del
previsto. I quattro erano galvanizzati dalla prospettiva della loro prima
tournée americana, un traguardo che inseguivano da anni.
La band aveva attirato l’attenzione degli artisti più stravaganti del Paese.
«E noi che pensavamo di essere diversi…» commentò Brian. «Incontrammo
un sacco di artisti eccentrici, persino per i nostri standard. Molti travestiti: i
New York Dolls, Andy Warhol… persone talmente creative da riuscire a
cestinare tutto quel che era successo prima». Ma non fu una passeggiata. La
band sfiorò di nuovo il disastro, a New York, quando Brian collassò perché
non si è ancora ripreso da un’infezione contratta in Australia. La data di
Boston fu annullata e quando al chitarrista fu diagnosticata l’epatite, i
Queen dovettero rinunciare al resto della tournée. La delusione fu enorme
per tutti e il chitarrista si sentì in colpa per avere compromesso il debutto
della band sulle scene americane.
I quattro tornarono a casa e, nonostante Brian fosse ancora debilitato, si
ritirarono negli studi gallesi di Rockfield per cominciare a lavorare al terzo
album. Negli anni Sessanta i Rockfield erano i primi studi di registrazione
che offrivano la possibilità di risiedere sul posto. Negli ultimi quarant’anni
sono stati usati da diversi artisti rinomati, inclusi Mott the Hoople, Black
Sabbath, Motörhead, Simple Minds, Aztec Camera, Manic Street Preachers,
Nigel Kennedy e Darkness (che erano quasi una tribute band dei Queen). I
Queen amarono molto i Rockfield. Il 15 luglio 1974, la band tornò poi ai
Trident Studios, collaborando di nuovo con Baker, che oramai era diventato
il «quinto membro» del gruppo. Le registrazioni, suddivise tra altri studi
londinesi, in particolare Air, Sarm e Wessex, furono interrotte quando Brian
dovette essere di nuovo ricoverato: questa volta per ulcera duodenale.
Un’altra tournée americana, programmata per settembre, fu abbandonata.
Brian sprofondò nella depressione e temette che i Queen avrebbero dovuto
cercarsi un nuovo chitarrista. Un timore inutile: il resto del gruppo continuò
a lavorare senza di lui con l’intenzione di aggiungere i suoi pezzi di chitarra
in un momento successivo.
In compenso, il secondo album raggiunse il disco d’argento dopo avere
venduto oltre centomila copie. Come suo solito, Brainsby organizzò un’abile
montatura pubblicitaria per celebrare l’evento al Café Royal, sotto forma
dell’attraente attrice Jeannette Charles, un’icona della tv britannica che
sovente impersonava la regina Elisabetta. Fu una scelta azzeccata,
specialmente perché i Queen avevano oramai prodotto una personale e
rispettosa versione dell’inno nazionale inglese, da usare in chiusura dei
concerti.
Nell’ottobre del 1974 uscì il terzo singolo della band, Killer Queen,
estratto dall’imminente terzo album, «Sheer Heart Attack».
«Killer Queen parla di una squillo d’alto bordo», spiegò Freddie. «Con
quel pezzo volevo dire che anche le donne dell’alta società possono essere
delle puttane» aggiunse, quasi come si riferisse a se stesso. «È di questo che
parla, anche se preferisco che ognuno la interpreti a modo suo, che ci legga
quel che preferisce. Le persone erano abituate ai nostri pezzi più duri, hard
rock, quella invece era una canzone adatta a Noël Coward. Era un brano da
bombetta e giarrettiere», aggiunse, in omaggio al suo film preferito, Cabaret
con Liza Minnelli. «Non che Noël Coward avrebbe mai indossato cose del
genere!»
«Fu una svolta», osservò in seguito Brian. «Era un pezzo che riassumeva
benissimo il nostro stile musicale e fu un grande successo. Avevamo un
bisogno disperato di un brano che confermasse la nostra popolarità. Non
avevamo un centesimo in tasca, sai, come tutti. Vivevamo in monolocali
minuscoli, proprio come gli altri musicisti.»
Killer Queen arrivò fino al secondo posto in classifica, ma non riuscì a
conquistare la vetta, che era occupata dall’idolo delle donne David Essex
con la sua hit Gonna Make You a Star («Farò di te una stella»). Per uno
scherzo del destino, il successivo tour inglese dei Queen fu promosso da
Mel Bush, grande impresario musicale, che aveva fatto diventare una stella
proprio David Essex! Il tour si prefigurava come il progetto più ambizioso e
complesso dei Queen fino a quel punto. La stampa musicale fu costretta ad
ammettere che quel gruppo, unico nel suo genere, non poteva più essere
ignorato. Non solo «Sheer Heart Attack» era stato accolto da ottime
recensioni, ma adesso in classifica c’erano tutti e tre gli album dei Queen. La
copertina del nuovo disco, un’altra creazione di Mick Rock, segnò una
frattura dall’immagine precedente, quella di «Queen II».
«Deve sembrare come se fossimo stati abbandonati su un’isola deserta»,
disse Freddie a Rock, che lo prese alla lettera. Prima cosparse i quattro di
vaselina, poi li spruzzò di acqua, li fece stendere a terra e li fotografò
dall’alto. I brani del nuovo album sorpresero tanto quanto l’immagine in
copertina, e incontrarono il favore sia della critica sia dei fan.
«Nel 1974 mio padre comprò ‘Sheer Heart Attack’», ricorda Kim Wilde,
figlia del musicista Marty Wilde e cantante di successo negli Ottanta (il suo
primo singolo Kids in America arrivò al numero due in classifica).
«All’epoca avevo quattordici anni ed ero appassionata di musica leggera;
avevo appena cominciato a comprarmi i dischi che volevo. Adoravo Slade,
Sweet, Mud, Elton John e Marc Bolan. Senza dimenticare i Bay City
Rollers... ero giovane!
«‘Sheer Heart Attack’ è uno degli album più entusiasmanti che abbia mai
ascoltato. È stato il primo che ho scaricato con iTunes dopo l’avvento
dell’era virtuale. Adoravo gli acuti di Freddie, le sue armonie vocali e il suo
senso dell’umorismo. Anche la musica di Brian era piena di energia e
passione, ed ero cotta di Roger Taylor. John Deacon era il collante che li
teneva tutti insieme. Che gruppo…»
Alla fine di ottobre, i Queen intrapresero una nuova tournée nel Regno
Unito, che doveva terminare con un’unica serata londinese al Rainbow
Theatre, alla quale però ne vennero aggiunte altre due il 19 e 20 novembre
perché i biglietti per la prima andarono esauriti nel giro di un paio di giorni.
I due concerti furono filmati e registrati per future produzioni. Durante la
festa conclusiva della tournée, tenutasi all’Holiday Inn di Swiss Cottage e
assolutamente decorosa rispetto a quelle future, il promoter Mel Bush donò
al gruppo una targa commemorativa per avere registrato il tutto esaurito in
ogni data della tournée. Fu quindi organizzato il primo tour europeo per la
fine di novembre, che avrebbe toccato i Paesi scandinavi, il Belgio, la
Germania e la Spagna. Le vendite in Europa andavano benissimo e la
maggior parte dei concerti fecero il tutto esaurito. A Barcellona, una città di
cui Freddie si innamorò all’istante e in cui sarebbe poi tornato più volte, i
seimila biglietti del concerto sparirono nel giro di ventiquattr’ore.
A dicembre i Queen decisero che il contratto con la Trident non era più
sostenibile. Sebbene i loro compensi settimanali fossero saliti da venti
sterline a sessanta dopo il successo di «Sheer Heart Attack», si trattava di
somme assolutamente insufficienti per vivere. Oltretutto, nonostante le
ottime previsioni di vendita, la Trident si rifiutava di concedere qualsiasi
anticipo. John Deacon voleva comprarsi una casetta per lui e la fidanzata
Veronica Tetzlaff, che aspettava un bambino, ma la Trident gli negò le
quattromila sterline di caparra. Freddie voleva un nuovo pianoforte e Roger
un’utilitaria. Tutte le loro richieste, però, venivano rigettate di netto. I
rapporti con l’etichetta si fecero così tesi che i Queen decisero di rivolgersi a
un avvocato dell’ambiente per risolvere le controversie. Cominciò così il loro
rapporto con Henry James Beach, detto «Jim», socio dello studio legale
Harbottle & Lewis. Nel 1978, Beach sarebbe diventato il manager dei
Queen, incarico che mantiene tutt’oggi. Gli ci vollero nove mesi per
negoziare l’uscita della band dalla Trident, la quale comprensibilmente
voleva tenersela stretta. Nel frattempo, dato che sia il singolo Killer Queen
sia l’album «Sheer Heart Attack» erano entrati nella Top Ten delle
classifiche statunitensi, i Queen erano pronti per affrontare la loro prima
grande tournée americana.
Il 18 gennaio 1975 John sposò Veronica, con la quale avrebbe poi avuto
sei figli. Il 5 febbraio, la band partì per l’America. Anche questa volta,
nonostante il sostegno dell’etichetta americana, il tour fu segnato da diversi
contrattempi e da alcune critiche ostili, in cui i Queen furono paragonati
negativamente ai Led Zeppelin. Per la prima volta Freddie ebbe dei
problemi con la voce, a causa di alcuni presunti (o confermati, a seconda
delle diagnosi) noduli benigni alla gola. I medici gli ordinarono di stare zitto
per tre mesi (addirittura!), ma la sera successiva, Freddie cantò a
squarciagola a Washington. A causa della sua salute altalenante, però, la
band fu costretta a cancellare parecchie date. Era evidente che Freddie stava
esagerando e che le sue esibizioni erano troppo stressanti per la sua
costituzione e per le sue corde vocali. Doveva assolutamente prendersi un
periodo di riposo per recuperare le forze, ma sarebbe passato molto tempo
prima che lo facesse.
In America i Queen sfiorarono un’altra potenziale catastrofe. Fra una
data e l’altra accettarono di incontrare il terribile Harry Levy alias Don
Arden (ex cantante e attore inglese di vaudeville, un tempo di stanza a
Brixton) con l’idea di assumerlo come manager se fosse riuscito a tirarli
fuori dal debilitate contratto con la Trident. Probabilmente erano disperati.
Arden, famoso per avere progettato le carriere di Small Faces, ELO e Black
Sabbath, era soprannominato «il padrino inglese» per i suoi metodi illeciti
nel condurre gli affari. Era risaputo che non esitava a ricorrere alla violenza
quando le cose non andavano come voleva lui. Leggenda vuole che abbia
persino fatto penzolare certi artisti fuori della finestra tenendoli per i piedi
pur di convincerli a firmare un contratto. Quando la figlia Sharon sposò il
leader dei Black Sabbath, Arden divenne il suocero di Ozzy Osbourne. Se si
pensa che i Queen rischiarono di finire sotto il controllo dell’«Al Capone del
rock», oggi scomparso, c’è da chiedersi se sarebbero sopravvissuti così a
lungo.
11
Rhapsody
FREDDIE MERCURY
L’agosto del 1975 li vide provare i brani per il quarto album, «A Night at
the Opera», in una dimora in affitto nell’Herefordshire. Il titolo era tratto da
una commedia dei fratelli Marx (Una notte all’Opera) che loro adoravano.
Poi si trasferirono ai Rockfield Studios, che sarebbero quindi diventati
leggendari per avere ospitato la seduta di registrazione della traccia di fondo
di Bohemian Rhapsody. Quando Freddie propose l’idea per il brano agli
altri, ricordò Brian, «sembrava che ce l’avesse già tutto in mente».
Il pezzo era un’impresa epica e comprendeva un’introduzione a cappella,
una sequenza strumentale di pianoforte, chitarra, basso e batteria, un
interludio pseudolirico e un finale rock. Sembrava presentare problemi
tecnici insormontabili.
«Non avevamo idea di come [Freddie] intendesse legare tutti quei pezzi
insieme», raccontò Brian.
La canzone portava in vita una serie di personaggi oscuri: Scaramouche,
una maschera della commedia dell’arte; l’astronomo Galileo; Figaro, il
protagonista del Barbiere di Siviglia e delle Nozze di Figaro di Beaumarchais,
un testo dal quale furono tratte opere di Paisiello, Rossini e Mozart;
Belzebù, che il Nuovo Testamento identifica con Satana, principe dei
demoni, ma che anticamente era definito il «signore delle mosche» oppure
il «signore delle dimore celesti». Dall’arabo c’era il termine «bismillah»,
tratto da un versetto del Corano: «bismi-llahi r-rahmani r-rahiim», che
significa «in nome di Dio clemente, misericordioso».
Nel 1986, durante una festa nella sua suite a Budapest, esposi a Freddie
la mia teoria su questi personaggi di Bohemian Rhapsody. Scaramouche era
Freddie, vero? L’avevo intuito dal suo ritorno al tema del pagliaccio triste
nel brano It’s a Hard Life. Galileo Galilei, astronomo, matematico e fisico
del Cinquecento, nonché padre della scienza moderna, era evidentemente
Brian. Belzebù era altrettanto chiaramente Roger, il festaiolo del gruppo,
con un diavolo in serbo («a devil put aside») per il suo amico. Il mio
ragionamento si faceva un po’ forzato per il riferimento a John, «il timido»,
che vedevo rappresentato da Figaro, ma non tanto il personaggio lirico,
quanto il gattino bianconero della Disney che compare nel Pinocchio del
1940. In fin dei conti, Freddie adorava i gatti. Forse mi sbagliavo, ma come
diceva Freddie, ogni ipotesi era concessa. Lui non aveva mai spiegato a
nessuno il significato di Bohemian Raphsody, e aveva persino dichiarato al
suo amico DJ Kenny Everett che il testo era solo «un insieme casuale e
insensato di riferimenti in rima». Perché mai avrebbe dovuto svelarlo a me?
Non mi aspettavo che lo facesse e infatti si limitò a fissarmi con un sorrisetto
enigmatico.
La registrazione del brano, che pareva non avere mai fine, stancò tutti i
presenti, anche per le ripetute sovraincisioni di cantato sul nastro.
«La gente la ricorda come una registrazione leggendaria», disse Brian,
«ma se mettevi il nastro controluce quasi ci vedevi attraverso! Ogni volta che
Freddie aggiungeva un altro ‘Galileo’, ne perdevamo un pezzo.»
Agli studi Sarm East e Scorpio di Londra, cominciò poi un lungo processo
di sovraincisione, non privo di incidenti, come ricordò Robert Lee, artista e
amico della band.
«Avevo appena cominciato a registrare con Levinsky e Sinclair [un duo
scritturato dalla Charisma di Tony Stratton-Smith e conosciuto grazie al
Kenny Everett Show]», ricordò Lee, che oggi cura il sito ufficiale degli Who.
«Freddie era amico di un mio coinquilino e di solito il venerdì mattina
andavamo in cerca di pezzi di antiquariato al mercato di Portobello. Aveva
un gusto impeccabile: ho ancora due stampe cinesi che mi ha convinto a
comprare mentre cercavo un regalo per mia madre... me le sono riprese
dopo che è morta.
«John Sinclair [che oggi è diventato un rabbino e abita a Gerusalemme]
era il proprietario dei Sarm Studios in fondo a Brick Lane. C’era anche sua
sorella Jill, che Dio la benedica.» (Jill sarebbe poi rimasta vittima di un
tragico incidente.)
«C’erano i Queen che mixavano Bohemian Rhapsody. Roy Thomas Baker
al timone. Freddie & company al mixer. Era un megamix di ventiquattro
piste, con bobine di lavoro [con submix di tracce su cui sovraincidere],
premix e prove di mixaggio. Per cui moltissimi fader dovevano essere
accuratamente regolati in tempo reale, ed era davvero difficile. Passarono
ore e ore cercando di trovare il giusto mixaggio, ma senza riuscirci. Poi,
miracolo, eccolo lì. Tutto che si incastrava alla perfezione. C’erano riusciti,
erano quasi alla fine. Erano tutti tesi per la troppa adrenalina, ma felicissimi.
Poi, all’improvviso, si spengono le luci... ed entra Jill, con un’enorme torta
piena di candeline e cantando ‘Tanti auguri a te, tanti auguri a te, tanti
auguri caro Freddie…’ e dovettero ricominciare tutto da capo!»
«Is this the real life... is this just Battersea» («È questa la vita reale, o è
solo Battersea»), canta Allan James sorridendo. «Bohemian Rhapsody
generò parodie fin dall’inizio: il miglior complimento che potesse ricevere.
Con quel singolo da sei minuti i Queen cambiarono la storia.»
«Quella registrazione è un’autentica opera d’arte», afferma Frank Allen,
bassista dei Searchers, «di gran lunga superiore a quasi tutti i brani prodotti
al tempo. Il modo in cui avevano sovrainciso tutte le parti in un’epoca in cui
c’erano solo apparecchiature analogiche a ventiquattro piste – che erano
tante allora ma che sono pochissime e limitanti oggi – è incredibile.
Bohemian Rhapsody è stato il loro tour de force. Anche ripensandoci adesso
è pazzesco quel che sono riusciti a fare. Ogni nuovo strato di armonie voleva
dire una perdita di qualità del suono. La differenza fra successo e disastro
era minima, ma loro sono riusciti lo stesso a tirar fuori un pezzo geniale.»
Nel 1975, le somiglianze fra Freddie Mercury ed Elton John non erano
subito apparenti. Nessuno poteva certo sapere che sedici anni dopo Elton
sarebbe stato uno degli ultimi a tenere la mano del cantante al suo
capezzale.
I due si erano incontrati di sfuggita verso la fine degli anni Sessanta,
quando Freddie era andato a vedere un concerto del cantante-pianista al
famoso Crawdaddy Club di Richmond, nel Surrey. Il ritrovo era rinomato in
tutto il mondo per avere ospitato i migliori artisti blues americani e per
avere lanciato i Rolling Stones. Fondato dal regista Giorgio Gomelsky verso
la fine del 1962 in un locale all’interno dello Station Hotel, di fronte alla
stazione ferroviaria di Richmond, il club si era poi trasferito nel più ampio
complesso di atletica nella medesima località. Il Crawdaddy aveva ospitato i
primi concerti di Eric Clapton con gli Yardbirds, dei Led Zeppelin e di Rod
Stewart, ed era esattamente il genere di locale in cui Freddie aspirava a
esibirsi. Era forse quello che sognava mentre posava nudo nel corso serale di
disegno dal vero, per dieci sterline la settimana.
Chi li conosceva entrambi, sapeva che Elton e Freddie avevano molti
strani punti in comune. Da piccoli entrambi erano stati molto legati alla
madre; tutti e due erano stati bambini solitari e sensibili, e avevano studiato
il pianoforte fin dalla tenera età. Sia l’uno che l’altro aveva cambiato nome:
Elton da Reginald Kenneth Dwight a Elton Hercules John (e come Freddie,
anche lui aveva scelto il nome di un personaggio mitologico). Anche la
strada di Elton verso il successo era stata lunga e tortuosa, e segnata da
ostacoli. Entrambi avevano avuto difficoltà ad accettare il proprio aspetto e
avevano adottato un look eccentrico (nel caso di Elton, occhiali con
montature bizzarre, scarpe con le zeppe, abiti piumati e sfrangiati) per
nascondere la loro presunta bruttezza. Tutti e due erano confusi, a dir poco,
sulla loro sessualità.
Secondo James Saez, proprio la sessualità era la chiave della creatività di
entrambi.
«Negli anni Settanta cosa poteva esserci di più conflittuale dal punto di
vista psicologico, che l’essere omosessuale e cercare di mettersi a nudo
senza… be’, mettersi a nudo?» domanda.
«Mi sembra abbastanza plausibile che Elton abbia creato il suo
personaggio, con quei costumi stravaganti e i gesti teatrali, proprio per
gestire quel dilemma interiore e al tempo stesso aprirsi al mondo. Presumo
che ‘Farrokh’ avesse un problema simile. La cosa che mi ha sempre colpito
di lui era che, per quanto apparisse forte e carismatico, in un certo qual
modo era anche fragile, quasi sprovveduto.»
Nella vita di Elton, come in quella di Freddie, c’erano state delle
fidanzate e anche quella che al mondo esterno era apparsa come una
relazione convenzionale. Si dice che la fonica tedesca Renate Blauel sia
tuttora addolorata dal fallimento del suo breve matrimonio con Elton nel
1984. Il cantante ha dichiarato di essere gay nel 1988 e nel 2005 ha
contratto un’unione civile con il regista David Furnish; la coppia ha avuto
anche un figlio, Zachary Jackson Levon Furnish-John, nato da una madre
surrogata il giorno di Natale del 2010.
Freddie ed Elton divennero amici e svilupparono le rispettive personalità
in parallelo. Con il passare degli anni divennero sempre più dipendenti
l’uno dall’altro.
«Elton è un tipo tosto, vero?» osservò Freddie. «Lo adoro. Secondo me è
favoloso. Per me è come una di quelle grandi attrici hollywoodiane, quelle
che valevano ancora qualcosa. È stato un pioniere del rock’n’roll. Fin dalla
prima volta che lo conobbi era magnifico, il genere di persona con cui vai
subito d’accordo. Mi disse che gli era piaciuta Killer Queen, e chiunque dica
una cosa del genere finisce subito sul mio ‘libro bianco’. Il mio ‘libro nero’ è
pieno da scoppiare!»
Tuttavia presto sarebbe emersa un’affinità più tragica fra i due cantanti.
Come affermò uno psicoanalista riferendosi a Elton in Tantrums and
Tiaras, il documentario per la televisione diretto dal compagno David
Furnish: «È un tossicodipendente nato; con una personalità ossessivo-
compulsiva. Se non è l’alcol, è la droga, se non la droga il cibo, se non il cibo
le relazioni e se non le relazioni lo shopping. E sai cosa ti dico? Credo che
[Elton] sia dipendente da tutte e cinque le cose». Un terribile verdetto che
Elton non smentì. E il suo coraggio per avere accettato che fosse trasmesso
in televisione fu ricompensato da un’enorme impennata di popolarità. Elton
era lo specchio di ciò che Freddie divenne verso la metà degli anni Ottanta,
quando il peso della fama e degli eccessi a essa legati cominciarono a farsi
sentire sempre di più.
Nel 1975, però, la cosa più importante che i due avevano in comune era
un esuberante giovanotto di origini scozzesi: John Reid.
Originario di Paisley, a soli ventisei anni Reid era diventato un potente
magnate della musica e sedeva al vertice di un’azienda che valeva quaranta
milioni di sterline; un traguardo che aveva raggiunto per vie traverse. La sua
vita professionale, infatti, era iniziata in un negozio di abbigliamento per
uomo, dove aveva lavorato come commesso. Poi era entrato nell’industria
musicale cominciando dal basso, come promotore discografico.
Estremamente ambizioso, aveva fatto rapidamente carriera coltivando
diverse amicizie importanti e a soli ventun anni era diventato il manager di
Elton John, nonché suo amante e convivente per circa cinque anni. Reid era
un altro incerto sulla propria sessualità: nel 1976 infatti, anche se solo per
un breve periodo, e si fidanzò con Sarah Forbes, una giovanissima
pubblicitaria che lavorava negli uffici della sua Rocket Records. Sarah è figlia
del regista Bryan Forbes e dell’attrice Nanette Newman. È sopravissuta alla
separazione e ha poi sposato l’attore John Standing (alias Sir John Ronald
Leon Standing, quarto baronetto di Bletchley Park). Il rapporto
professionale di Reid con Elton durò invece ventotto anni, ma terminò fra
astio e recriminazioni. Nel 2000 il cantante diede inizio a una battaglia
legale multimiliardaria contro il suo ex manager, sostenendo che questi
aveva gestito male i suoi interessi.
Sempre nel 1975, Elton si unì a un altro scozzese che tentava di farsi un
nome: Rod Stewart. I due decisero di coprodurre un album per Long John
Baldry, con cui avevano collaborato in precedenza: volevano ravvivare la sua
carriera oramai in declino. Fu durante le sedute di registrazione per
quell’LP che iniziarono a darsi soprannomi femminili, riprendendo una
vecchia abitudine del teatro. Elton fu ribattezzato «Sharon Cavendish», un
nome che avrebbe poi usato abitualmente in tournée. Rod divenne
«Phyllis», come l’attrice Phyllis Diller. Baldry diventò «Ada» e John Reid
«Beryl», in omaggio all’attrice inglese Beryl Reid. Quando Freddie scoprì la
cosa, volle parteciparvi e divenne «Melina», come l’attrice greca Melina
Mercouri. Cliff Richard era «Silvia Disc», per via di tutti i dischi venduti.
Neil Sedaka, per ragioni simili, era «Golda Disc». Più avanti, Freddie
avrebbe esteso il gioco a tutto il suo entourage. Il suo assistente personale
era chiamato «Phoebe» (Peter Freestone), il suo ex amante e
successivamente cuoco era «Liza» (Joe Fanelli) e il suo manager personale
Paul Prenter era «Trixie». Nemmeno gli amici e gli altri membri della band
sfuggirono: Brian era «Maggie», come il successo di Rod Stewart Maggie
May. Roger era «Liz», come Elizabeth Taylor. David Nutter, fratello del
famoso sarto Tommy Nutter, era «Dawn», e Tony King, assistente di Mick
Jagger e grande amico di Freddie, divenne «Joy». Mary Austin, per ribaltare
le cose, era «Steve», come il Steve Austin della serie televisiva L’uomo da sei
milioni di dollari. Le spiaceva essere chiamata così?
«Nessuno aveva il permesso di spiacersi!» rispose ridendo «Phoebe». «Se
uno aveva un soprannome voleva dire che era stato accettato nel gruppo.
John Deacon non ne ha mai avuto uno, strano. Forse perché era così
timido…»
Dopo il semiritiro dalle scene di Elton e dopo sei anni di duro lavoro in
giro per il mondo, John Reid, che oltre a gestire gli interessi della star
dirigeva anche la sua etichetta personale, la Rocket Records, era in cerca di
nuove direzioni in cui espandere il suo impero. Per questo colse al volo la
possibilità di gestire i Queen. Sebbene vi fossero altri candidati per il posto
(Peter Grant dei Led Zeppelin, Harvey Lisberg dei 10cc e Peter Rudge, tour
manager degli Who, fra gli altri), la band arrivò a scegliere Reid per
eliminazione. Non era proprio una soluzione ideale, anche se Reid, appena
ottenuto l’incarico, lasciò tutti di stucco trovando subito le centomila sterline
necessarie per liquidare la Trident. In realtà lo scozzese non fece altro che
chiedere alla EMI un anticipo sui futuri diritti d’autore della band.
Per tornare a Bohemian Rhapsody, Elton confessò a Reid che a suo avviso
il brano sarebbe stato un fiasco. Anche la EMI e l’industria della musica in
generale espressero riserve. Le radio si domandarono che diavolo dovessero
fare con un singolo che durava ben sei minuti. Persino John Deacon
manifestò qualche timore, seppur in privato, sostenendo che far uscire
Bohemian Rhapsody come singolo fosse il più grande errore strategico della
loro carriera. Tutto sommato, fu un inizio abbastanza incerto per un brano
che sarebbe entrato nella storia della musica, imponendosi come un grande
classico del rock di tutti i tempi. Persino quelli che già all’epoca ne
riconobbero l’importanza esitarono a esprimersi, dato che il pezzo segnava
una frattura radicale dalle regole della canzone rock.
Che cosa ispirò Freddie a comporre un brano del genere? Ascendente e
decadente, pieno di tormento ed estasi, il pezzo è un miscuglio impossibile
di barocco e ballata, di varietà e rock; una serie di spezzoni incongruenti
tenuti insieme da cacofoniche schitarrate, sequenze classiche di pianoforte,
impetuosi arrangiamenti orchestrali e cori ricchi e sfaccettati. Il tutto inciso e
sovrainciso al punto che può talvolta risultare insopportabile, a seconda
dell’umore dell’ascoltatore. Credo che ci siano pochissimi fan del rock sul
pianeta che non lo conoscano a memoria.
«Anche se è un pezzo incredibile e rivoluzionario, oggi mi ha stufato»,
ammette Phil Swern, produttore di Radio 2 e collezionista di dischi.
«Viene trasmesso con allarmante regolarità alla radio. È stato passato e
ripassato fino alla nausea. Eppure nessuno può negare che sia un’opera
eccelsa e intelligente. Dura quasi sei minuti e infrange ogni singola regola
della canzone rock. Che cosa gli si avvicina? Sempre i Beatles con A Day in
the Life [l’ultimo brano dell’album «Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band»
del 1967, che dura 5’03”]. Stairway to Heaven dei Led Zeppelin [8’02”; il
brano più richiesto alla radio negli Stati Uniti, anche se non uscì mai come
singolo in quel Paese] e McArthur Park [7’21”] di Jimmy Webb, registrato
da Richard Harris».
«Se ti allontani abbastanza nel tempo rivedi tutto sotto una nuova
prospettiva», osserva Paul Gambaccini.
«Oggi è difficile entusiasmarsi per un brano rock o pop che dura tre
minuti e mezzo, quando in passato sono usciti capolavori lunghissimi come
Bohemian Rhapsody, McArthur Park, Hey Jude, Light My Fire e American
Pie. Oggi nessuno aspira più a raggiungere quei livelli. Possiamo quindi
guardarci indietro e vedere che si è trattato di autentici traguardi artistici.
Don McLean non scrisse American Pie con l’intenzione di farne un singolo,
non poteva nemmeno immaginarla come un singolo: durava otto minuti e
mezzo! Fu la casa discografica a dividerla in due. Don era un vero artista e
non pensava che American Pie sarebbe diventata una hit. Ovvio che era un
capolavoro, ma la inserì nel suo album come un pezzo qualsiasi. Lo stesso
dicasi per Bohemian Rhapsody, che era l’ultima traccia di «‘A Night at the
Opera’».
«Okay, sì, l’ha scritta Freddie», prosegue Gambaccini, «ma Brian ci ha
messo quell’incredibile assolo di chitarra in mezzo, Roger ci ha messo gli
acuti e anche John ha dato il suo contributo, ovvio. Quando si collabora
così, si lavora benissimo. I Queen l’hanno sempre fatto, anche per le loro
composizioni individuali. Sono sicuro che è questo che li ha tenuti insieme
negli anni. C’è voluta la genialità di Kenny Everett per capire che Bohemian
Rhapsody sarebbe diventata un classico.»
Originario di Liverpool e amico intimo di Freddie, oltre che dei Beatles,
Kenny Everett, conosciuto come «Ev», divenne famoso come DJ radiofonico
e presentatore televisivo, conducendo i programmi Kenny Everett Video
Show e Kenny Everett Television Show. Nel 1989 risultò sieropositivo e nel
1995 morì per una patologia correlata all’AIDS; aveva cinquant’anni. Nel
1966, sposò la cantante pop «Lady Lee» Middleton, ex fidanzata del
cantante Billy Fury (che poi divenne un medium e guaritore spirituale con
lo pseudonimo di Lee Everett Alkin). La coppia si separò nel 1979, quando
Everett rivelò di essere omosessuale. Si ritiene che il DJ fu contagiato da
Nikolai Grishanovitch, un libertino di origine russa, tristemente noto negli
ambienti gay londinesi («Quel coglione egoista di Nikolai!») per avere
contribuito più di chiunque altro a diffondere l’HIV nella città all’inizio
degli anni Ottanta. L’ex soldato dell’Armata Rossa, a sua volta morto per
AIDS nel 1990, talvolta è additato come colui che ha contagiato anche
Freddie, seppure secondo molti sia stato invece lo scomparso Ronnie Fisher,
ex addetto stampa della CBS/Sony.
«Penso che le date della ‘teoria Nikolai’ non combacino», osserva
Gambaccini.
«Non mi pare di averlo conosciuto prima dell’anno in cui partì la
campagna di sensibilizzazione sull’AIDS [1987], perché mi ricordo che lo
incontrai con Freddie quando la pubblicità stava per uscire. Uno o due anni
dopo, Freddie ha poi mostrato i primi sintomi della malattia. Se pensi che di
norma ci vogliono dieci anni fra il momento del contagio e l’insorgere dei
primi sintomi, si capisce che non era passato abbastanza tempo. Inoltre
sapevo che Freddie aveva avuto una vita ‘dissoluta’, per usare un termine
che piacerebbe a mia madre, verso la fine degli anni Settanta, il che
combacerebbe perfettamente con i tempi di incubazione. Certo, non è da
escludere del tutto che sia stato Nikolai, ma è molto improbabile.»
«Non so dove si siano conosciuti», aggiunge, «ma non mi sorprenderebbe
se fosse stato al Coleherne di Earl’s Court. Era uno dei pub preferiti di
Freddie [l’altro era il London Apprentice di Shoreditch] ed era a due passi
da casa sua. È da quel pub che l’HIV è entrato a Londra, portato da un
americano, si dice. Tutti quelli che frequentavano quel giro si sono
ammalati.»
Dato che Ev e Freddie erano esponenti di spicco della medesima scena
gay e che frequentavano lo stesso ambiente musicale, era inevitabile che le
loro strade si incrociassero.
«Non ho mai pensato che Freddie e Kenny fossero amanti», afferma
Gambaccini. «Se lo fossero stati, tutti l’avrebbero saputo nella nostra cerchia.
E non l’ho mai pensato perché a livello sessuale erano troppo simili. Certo,
questo non esclude un’avventura di una notte, ma non è un’idea che mi
convince. Per dirla con franchezza, erano ridicoli insieme.»
Everett giocò un ruolo fondamentale nella diffusione di Bohemian
Rhapsody come singolo. Fu il primo DJ a passare il brano alla radio prima
che uscisse ufficialmente. Aveva ricevuto un demo con il divieto categorico
di trasmetterlo: Freddie voleva solo che lo ascoltasse e gli desse la sua
opinione. Everett invece lo trasmise subito, per ben quattordici volte,
durante il fine settimana, ogni volta dicendo che gli era «scappato il dito».
La sua faccia tosta contribuì a portare il brano all’attenzione degli ascoltatori
londinesi, mentre la cosa non è altrettanto certa su scala nazionale.
«Nel 1975 facevo un programma quotidiano su Radio 1», racconta invece
David «Diddy» Hamilton, riferendosi alla sua seguitissima trasmissione
radiofonica, che arrivò ad avere sedici milioni di ascoltatori al giorno.
«Il palinsesto prevedeva Noel Edmonds a colazione, Tony Blackburn a
metà mattina, Johnnie Walker a pranzo e io dopo pranzo. Avevamo tutti un
nostro ‘disco della settimana’. Ovviamente sarebbe stato molto facile
scegliere gli Abba o i Bee Gees, dato che tutti i loro singoli diventavano
automaticamente dei successi. Ma a volte ti capita di pensare fuori dagli
schemi. Quell’ottobre venne a trovarmi Eric Hall, il famoso promotore
discografico.
«Abitavo in un appartamento in Hallam Street, dietro il palazzo della
BBC, e spesso mi portavano i dischi direttamente a casa», ricorda Diddy.
«Quel giorno Eric arrivò da me con Bohemian Rhapsody, gridando: ‘Un
mostro! Un mostro! Questo sarà un successone!’ Lo ascoltai ed era
totalmente diverso da qualsiasi altro pezzo che avessi mai sentito. Era
innovativo, lirico, saliva in alto e poi scendeva in picchiata e ti entrava sotto
la pelle. Non riuscivo a smettere di canticchiarne dei pezzetti. In ufficio ebbe
un’accoglienza contrastata. Tony Blackburn disse che non lo capiva e nessun
altro sembrò apprezzarlo molto. Rispetto alla disco music che girava
all’epoca, That’s the Way I Like It di K.C. and the Sunshine Band e tutta
quella roba lì, era un pezzo unico, diversissimo. Gli Stones erano una rock
band tradizionale. Anche i Queen erano un gruppo rock, ma non per forza
dei rocker. È diverso.
«Dissi al mio produttore Paul Williams che volevo adottarlo come disco
della settimana. Disse di sì. Poi si sa, la canzone andò al numero uno e ci
restò per nove settimane: un record. Nel gennaio del 1976 aveva venduto
più di un milione di copie qui e diversi milioni in tutto il mondo, e
probabilmente è una delle più grandi canzoni di tutti i tempi. Mi piace
pensare che ho contribuito a diffonderla. Ero molto orgoglioso dei brani che
sceglievo come disco della settimana, e quello non mi deluse. Si dice che sia
stato Kenny Everett a lanciarlo, rubandone una copia prima che uscisse, e
trasmettendola all’infinito su Capital Radio. [Everett] si è preso il merito di
avere fatto conoscere il pezzo al mondo. Di certo l’ha sostenuto, ma non
esageriamo: in quei giorni Capital Radio trasmetteva solo a Londra; nessun
altro in tutto il Regno Unito la prendeva. Radio 1 ha fatto conoscere il brano
a livello nazionale, ma non ha mai ricevuto alcun riconoscimento per
questo»
Dopo la morte di Freddie, il singolo fu ristampato e tornò al numero
uno, restandoci per cinque settimane. È il terzo singolo più venduto di tutto
il Regno Unito ed è arrivato in vetta alle classifiche in molti altri Paesi. Negli
Stati Uniti ha raggiunto il nono posto nel 1976 ed è poi tornato in classifica
nel 1992 grazie all’enorme popolarità del film Fusi di testa, con la famosa
scena in cui i protagonisti lo cantano in macchina.
Il compianto Tommy Vance, uno dei più grandi nomi dell’etere inglese,
presentatore di molte trasmissioni dedicate al rock su Capital Radio, Radio
1, Virgin Radio e VH1, descrisse Bohemian Rhapsody come «l’equivalente
rock dell’assassinio Kennedy».
«[Perché] tutti si ricordano che cosa stavano facendo quando l’hanno
sentita per la prima volta. Io stavo trasmettendo il mio programma rock alla
Capital. Quando l’ho sentita, ho pensato che fosse una canzone da
manicomio. Era così oscura… ma anche magnifica: sarebbe per forza
diventata un successo. Dal punto di vista tecnico, era un casino. Non
seguiva nessuna convenzione o formula commerciale. Era solo una
sequenza di sogni, flashback, flash forward, accenni, idee slegate. Cambia
sequenza, colore, tono, tempo, senza apparente motivo, proprio come
l’opera lirica. Ma il concetto di fondo era geniale: trasudava ottimismo.
Aveva un certo non so che… una magia sorprendente. È stupenda. Ancora
oggi è riverita come un’icona. Esiste una canzone paragonabile?
Assolutamente no. Ma prova ad analizzare il testo di Bohemian Rhapsody e
scoprirai che è senza senso.»
Il paroliere Sir Tim Rice, vincitore di un Oscar e coautore di alcuni dei
più grandi musical della storia, fra cui Joseph and the Amazing Technicolour
Dreamcoat, Jesus Christ Superstar ed Evita, nonché coautore con Freddie
dei brani per lo stravagante LP Barcelona, non è affatto d’accordo con
quest’ultima affermazione.
«Per me è abbastanza ovvio che con quella canzone Freddie dichiarò la
propria omosessualità al mondo», spiega. «Ne ho anche parlato con Roger.
Fin dal primo ascolto ho notato che conteneva un messaggio molto chiaro.
Era Freddie che in pratica diceva: ‘Vengo allo scoperto. Ammetto di essere
gay’.»
«Sì, all’inizio lo ammetteva solo con se stesso, ma poi, per forza di cose
anche con il resto del mondo, perché il brano è diventato un successo.
‘Mama, I just killed a man...’ [‘Mamma, ho appena ucciso un uomo’]: ha
ucciso il vecchio Freddie, la sua vecchia immagine. ‘Put a gun against his
head, pulled my trigger, now he’s dead’ [‘Gli ho puntato una pistola alla
testa, ho premuto il grilletto e ora è morto’]: è morto l’eterosessuale che era
in lui. ‘Mama, life had just begun, but now I’ve gone and thrown it all
away...’ [‘Mamma, la vita era appena cominciata, ma ora ho buttato tutto
all’aria’]. Voglio dire… questa è solo la mia teoria, ma combacia. [Freddie]
ha sparato e distrutto l’uomo che prima cercava di essere, e ora è diventato
se stesso e cerca di convivere con il nuovo Freddie. È un testo molto oscuro,
ovvio, ma pensa al pezzo che fa: ‘I see a little silhouette of a man...’ [‘Vedo
una piccola silhouette di un uomo’] È lui, perseguitato da quel che ha fatto
e da quel che è. Per me è una spiegazione sensata. Anche dopo tutti questi
anni ogni volta che sento la canzone alla radio penso a Freddie che cerca di
abbandonare una personalità per abbracciarne un’altra. Ce l’ha fatta,
secondo me? Credo che ci stesse riuscendo, e anche abbastanza bene.
Freddie era un autore eccezionale e senza dubbio Bohemian Rhapsody è
uno dei brani più belli del ventesimo secolo.»
Dunque Bohemian Rhapsody rifletterebbe la vita del suo autore? Freddie
ha sempre evitato di dare spiegazioni.
«Vuol dire questo, vuol dire quello... Tutti che vogliono sapere la stessa
cosa», disse. «Che se ne vadano affanculo, tesoro. Non dirò una parola in
più di quello che direbbe qualsiasi poeta rispettabile se osassi domandargli
di analizzare una sua opera: se ci leggi una cosa, cara, allora c’è.»
Secondo Brian, era fondamentale che il significato della canzone restasse
oscuro.
«Credo che non lo sapremo mai, e anche se lo sapessi probabilmente non
te lo direi», spiegò. «Di certo non vado a raccontare in giro di che cosa
parlano le mie canzoni. Trovo che questo per certi versi le distrugga, perché
la cosa bella delle grandi canzoni è collegarle alla propria esperienza
personale, alla propria vita. Di sicuro Freddie era afflitto da parecchi
conflitti interiori e può darsi che li abbia riversati in quel pezzo. È
sicuramente vero che voleva cambiare immagine, ma in quel periodo non
era una buona idea, per cui credo che abbia deciso di farlo solo molto più
tardi.»
Forse Brian intendeva dire che Freddie lottava con se stesso perché
temeva le inevitabili conseguenze di quella trasformazione: troncare la
relazione con Mary e cominciare una nuova vita da omosessuale. L’idea lo
terrorizzava, per cui continuava a rimandare. Aveva paura anche della
reazione dei genitori. Dichiararsi omosessuale gli avrebbe semplificato la vita
nel lungo termine, così come accadde a Kenny Everett, il quale non perse né
i fan né la moglie ammettendo con onestà la propria natura sessuale. Come
spiegò Lee Everett, la moglie del DJ: «Era quel che era, ma questo non mi
ha impedito di amarlo ugualmente. Siamo rimasti vicini fino alla fine».
«Se Freddie si fosse dichiarato al mondo non sarebbe andata come per gli
altri», osserva Simon Napier-Bell.
«Non sarebbe stato come per George Michael, che l’ha ammesso solo
quando è stato costretto a farlo e che comunque non era davvero una
rockstar, ma solo un grande cantante pop. Se Freddie si fosse dichiarato gay
avrebbe costretto un sacco di omofobi a guardare in faccia la propria
ipocrisia. Sarebbe stato un passo più semplice di quel che credeva, perché
per molti suoi amici lui era già omosessuale dichiarato e anche molto
trasgressivo.
«Quel che intendeva dire quando sosteneva di essere diverso in privato
rispetto all’artista sul palco, era che doveva nascondersi perché la sua
famiglia temeva che lui si dichiarasse pubblicamente omosessuale. Se
l’avesse fatto fin dall’inizio, però, la sua morte, lunga e lenta, sarebbe stata
accolta con riconoscenza dalla comunità gay. Gli omosessuali l’avrebbero
usata in modo positivo, l’avrebbero trasformata in un evento magnifico, in
una tragedia da show business; avrebbero fatto di lui la nuova Judy
Garland. E probabilmente lui si sarebbe pure divertito!»
Forse Bohemian Rhapsody era davvero un’allegoria in cui il nuovo
Freddie, finalmente libero, uccide la sua incarnazione precedente e
abbraccia il suo autentico sé. Frank Allen, il bassista dei Searchers,
concorda: «Però potrebbe anche parlare di tutt’altro. Non lo so per certo,
non gliel’ho mai chiesto. Quando hanno chiesto a Don McLean di spiegare
il significato di American Pie, lui ha risposto: ‘Significa che non dovrò mai
più lavorare’. Forse in realtà Bohemian Rhapsody contiene una verità più
semplice e immediata, ma non sono abbastanza intelligente per giudicare.
Mi accontento di godermela perché è una canzone costruita alla perfezione:
una suite in tre parti con tempi, chiavi e umori diversi, proprio come i brani
classici. Nel pop era un’assoluta novità».
Ma, come osservò Tommy Vance, ciò che comprovò davvero il valore di
Bohemian Rhapsody non furono né il suo testo innovativo né le sue melodie
impazzite. Non furono le infinite discussioni sul suo significato a
trasformarla in successo, né gli infiniti passaggi alla radio. Fu la televisione.
12
Il successo
FREDDIE MERCURY
JONATHAN MORRISH
FREDDIE MERCURY
ALL’INIZIO del 1976, con tutti e quattro i dischi in classifica fra i primi venti
nel Regno Unito, i Queen affrontarono un nuovo tour in Giappone e
Australia, dove il loro successo cresceva a dismisura. Poi tornarono in studio
per lavorare al quinto album, che avevano intenzione di produrre da soli,
dopo essersi separati amichevolmente da Roy Thomas Baker. Il nuovo LP si
intitolava «A Day at the Races», da un altro grande film dei fratelli Marx
(Un giorno alle corse). A marzo, uscì il loro primo lungometraggio, Live at
The Rainbow. A maggio, Brian si prese una vacanza per sposarsi con Chrissy
Mullen. Il 18 giugno, uscì il primo singolo firmato da John Deacon, You’re
My Best Friend, un brano dolcissimo composto per la moglie Veronica (il
matrimonio dura tutt’oggi, facendo di Deacon l’unico membro della band a
essere rimasto con la prima compagna). Nel brano, oltre al suo strumento
abituale, il bassista suona anche il Wurlitzer. Sebbene fosse molto diverso
dai precedenti, il pezzo entrò subito nella Top Ten. Il video fu girato in una
grande sala da ballo illuminata da migliaia di candele.
Poi i Queen suonarono in Scozia, alla Edinburgh Playhouse, nell’ambito
di un festival sponsorizzato da Reid, e poi all’aperto a Cardiff. Il 18
settembre, per il sesto anniversario della morte di Jimi Hendrix,
organizzarono un grande concerto gratuito a Hyde Park, per ringraziare i
fan per il sostegno: il classico gesto commovente alla Queen. Ne arrivarono
circa duecentomila. L’evento fu coorganizzato da Richard Branson,
l’ambizioso proprietario della Virgin Records che volava alto già all’epoca.
Quando Branson presentò la sua assistente personale Dominique Beyrand
alla band, senza saperlo regalò a Roger Taylor una nuova compagna. Poco
dopo infatti la coppia mise su casa, a Fulham e in una lussuosa magione nel
Surrey circondata da ettari di bosco e dotata di uno studio di registrazione.
Il giorno del concerto splendeva il sole. L’evento ne ricordava altri simili
tenuti nello stesso parco alla fine degli anni Sessanta da Jethro Tull, Pink
Floyd e Rolling Stones. Kiki Dee, anche lei gestita da Reid, doveva cantare il
suo recente successo in duetto con Elton John. Nonostante molti altri singoli
celebri, Don’t Go Breaking My Heart era diventata la prima numero uno di
Elton. Ma il cantante non riuscì a partecipare al concerto e Kiki dovette
accontentarsi di esibirsi a fianco di una grande sagoma di cartone.
«Benvenuti al nostro piccolo picnic in riva alla Serpentine», disse
Freddie, scintillando nella sua tuta elasticizzata bianca.
«Tie Your Mother Down è uno dei pezzi duri di Brian», osservò in
seguito. «Ricordo che la suonammo a Hyde Park prima ancora di inciderla.
Riuscii a cantarla dal vivo prima di registrarla. Dato che va cantata con la
voce rauca, funzionò.»
Denis O’Regan, allora un fotografo alle prime armi, riuscì a imbucarsi nel
backstage e a seguire il concerto da sotto il palco. Da tempo coltivava i
contatti con i collaboratori della Rocket Records per avvicinare i Queen con
la speranza di diventare il loro fotografo ufficiale. Un amico e collaboratore
di Reid, Paul Prenter, lo aveva preso in simpatia e aveva iniziato a lasciarlo
entrare nel backstage.
«Una delle prime volte fu a Parigi», ricorda O’Regan. «Notai che avevano
montato un altro piccolo palco dietro le quinte. Dapprima pensai che i
Queen avrebbero improvvisato uno spettacolino per gli addetti ai lavori,
perché c’erano diverse file di sedie allineate davanti al palco. Invece entrò in
scena una ragazza e fece uno spogliarello. Poi un’altra e un’altra ancora,
finché alla fine c’era una decina di donne sul palco. Poi fecero un gigantesco
spettacolo lesbico, e questo era riservato solo a quelli che lavoravano o si
aggiravano nel backstage. Un po’ squallido, ma il genere di cosa che si
sarebbe vista spesso alle feste dei Queen. Sceglievano sempre culi e tette, e
sesso debosciato. Niente di davvero sordido; solo roba così, tanto per ridere.
I Queen coltivavano un interesse per il sesso e lo usavano apposta per
proiettare un’immagine diversa di sé. Immagino che in parte questo servisse
per mettere a tacere le voci sull’omosessualità di Freddie.»
Anche se all’epoca l’avrebbero negato, non c’è dubbio che Freddie e
Roger fossero la mente dietro quei festini trasgressivi.
«Mi piacciono gli spogliarelli e le spogliarelliste, e le feste selvagge piene
di donne nude», dichiarò una volta Roger con disinvoltura, come a voler
aggiungere: E perché no?
O’Regan fu colpito dal fatto che i Queen restassero insieme anche dopo i
concerti: erano una delle poche grandi band a farlo.
«Cosa che odiavo perché una volta, finito il lavoro, avevo solo voglia di
uscire e divertirmi. Ma c’era sempre la cena insieme dopo il concerto. Le
altre band non facevano così. Sparivano subito: finito di suonare, c’erano già
le limousine che li aspettavano con i motori accesi, pronte a portarli
all’aeroporto o in albergo. Più avanti mi resi conto che in quell’abitudine dei
Queen c’era un vero spirito di cameratismo; capii che gli piaceva davvero
stare insieme. Più avanti si è detto che non andavano d’accordo, che
viaggiavano in limousine separate e così via. Ma tutti lo fanno quando sono
delle star e possono permetterselo. Freddie, su un pullman? Ma stai
scherzando?»
Oltretutto, come dichiarò Roger a Q nel 2011 a proposito delle
«limousine separate»: «Era il modo più semplice per viaggiare. La limousine
è la più stupida delle macchine. C’è spazio solo per due passeggeri comodi e
di solito hai con te la ragazza o la moglie, o la compagna, o l’assistente.
Potevamo permettercene quattro, sai? Non era perché non andavamo
d’accordo».
Il 10 dicembre uscì «A Day at the Races», con prevendite per mezzo
milione di copie. Per promuoverlo in grande stile, la EMI affittò un
padiglione all’ippodromo di Kempton Park e organizzò uno speciale «giorno
alle corse». Portate sontuose, alcol a fiumi e spettacoli dal vivo dei
Tremeloes e dei Marmalade, più un telegramma di Groucho Marx in
persona, resero memorabile l’evento. Per certi versi l’album risultò una
delusione rispetto al precedente, ma il primo singolo, Somebody to Love, un
brano sincero e personale scritto da Freddie, andò dritto al numero quattro
nella classifica inglese e al numero uno in quella di Radio Luxembourg.
«Con quella canzone ho fatto un po’ il matto», disse Freddie. «Volevo
scrivere qualcosa nello stile di Aretha Franklin, ero ispirato dall’approccio
gospel dei suoi primi album. Può sembrare che abbia lo stesso approccio
sulle armonie vocali, ma è molto diverso in studio, perché è un’intonazione
diversa.»
Il Natale del 1976 vide la band festeggiare la prima posizione in classifica
dell’album, con innumerevoli richieste di apparizioni televisive e passaggi in
radio. La BBC trasmise in replica il concerto per Whistle Test
all’Hammersmith Odeon. Freddie si fece un regalo insolito: trovò il coraggio
per confessare onestamente a se stesso e al grande amore della sua vita,
Mary Austin, la sua vera natura, ponendo così fine alla loro lunga relazione.
«Eravamo più vicini di chiunque altro, anche se abbiamo smesso di
vivere insieme dopo circa sette anni», ammise Freddie. «La nostra storia è
finita malamente, ma ne è scaturito un legame che nessuno può portarci via.
È intoccabile.»
Non dev’essere stato facile per lui. Sebbene oramai preferisse i rapporti
occasionali senza alcun coinvolgimento emotivo, Freddie amava anche la
sicurezza e la comodità che solo una relazione stabile poteva dargli.
Dev’essergli costato molto dibattersi fra questi due desideri contrastanti.
Freddie lasciò il nido che condivideva con Mary e si trasferì in un
appartamento al 12 di Stafford Terrace, sempre a Kensington, e comprò
all’ex fidanzata un altro alloggio. Lei sarebbe rimasta al suo fianco come
assistente e «coordinatrice», incontrandolo quasi ogni giorno fino alla sua
scomparsa quindici anni dopo.
Il 1977 portò alla band una sfida imprevista: il punk. I punk erano
ragazzacci pericolosi e arrabbiati, rispetto ai gruppi depravati come i Queen:
rappresentavano proprio tutto ciò che secondo Sex Pistols e compagnia bella
c’era di sbagliato nella scena musicale. Nessuna delle due fazioni poteva
emergere vittoriosa da quella polemica. C’era solo una cosa da fare: un’altra
tournée di tre mesi in Nord America, questa volta con i Thin Lizzy di Phil
Lynott come gruppo spalla. Il tour fu un successo, come il precedente,
tranne due date cancellate per un problema alla gola di Freddie.
«I noduli sono ancora qui», disse. «Ho questi brutti calli che mi crescono
in gola e di tanto in tanto feriscono le mie doti canterine. Al momento,
però, sto vincendo io. Bevo meno vino e il programma sarà riorganizzato
intorno al mio problema.»
Fu durante quella tournée che Freddie iniziò la sua relazione con Joe
Fanelli, un cuoco di ventisette anni. Dopo l’avventura, Fanelli avrebbe
lavorato in una serie di ristoranti (incluso il rinomato September’s in Fulham
Road) prima di diventare un membro a tempo pieno dello staff di Freddie
nella sua grande dimora londinese. Così come il suo padrone di casa, anche
Fanelli sarebbe morto di AIDS.
Poi cominciò il tour europeo, a Stoccolma, che arrivò a toccare la Gran
Bretagna a maggio, al Bristol Hippodrome. I proventi del secondo concerto
londinese, a Earl’s Court, furono donati al fondo per il giubileo della regina
Elisabetta II. Durante quell’evento la band presentò al pubblico la
cosiddetta «corona»: un impianto luci che si sollevava dal palco fra nuvole
di fumo. Finito il tour, la band tornò subito in studio per incidere un nuovo
album. I quattro, inoltre, avevano cominciato tutti a esplorare la strada
solista, oltre che apparire come ospiti nei dischi di altri artisti.
Se fama e ricchezza cominciavano a sembrare un lavoro, almeno la
musica riusciva a entusiasmarli ancora. In studio c’era sempre un insieme di
tensione e sana rivalità a spronarli e anche i concerti sembravano andar
meglio dopo una bella litigata.
«Sebbene Freddie avesse bisogno di una certa stabilità emotiva per
registrare, durante i concerti i litigi erano uno stimolo», osserva Peter
Freestone.
Non c’è dubbio che i contrasti fossero alimentati dal perfezionismo del
cantante.
«Sapeva esattamente quel che voleva e faceva una scenata se qualcosa
non andava come voleva lui. Sapeva benissimo che quegli sfoghi furiosi
erano molto utili e affinché fossero più efficaci li indirizzava ai compagni di
gruppo, o ai soci. Sapeva che in quel modo le altre persone coinvolte
sapevano che lui sapeva di essere indispensabile!»
Il singolo successivo, l’inno We Are the Champions, si sarebbe rivelato
uno dei successi più amati e durevoli della band. Nonostante la tiepida
accoglienza della stampa inglese, impantanata nel gorgo del punk, il 45 giri
si piazzò al secondo posto sia nel Regno Unito sia in America, e al primo
nella classifica della rivista specializzata Record World. Distribuito come un
doppio lato A con We Will Rock You negli USA, We Are the Champions fu
adottata sia dai New York Yankees sia dai Philadelphia 76ers, mentre il
coro di We Will Rock You fu preso in prestito da legioni di tifosi di football
americano. Dolce vendetta... Trentacinque anni dopo il brano è ancora
popolare in tutto il mondo ed è suonato abitualmente nei più grandi eventi
sportivi.
Da luglio a settembre la band registrò il sesto album in studio, «News of
the World», nei Basing Street Studios di Chris Blackwell a Notting Hill, il
fondatore della famosa Island Records (rinominati poi Sarm West, gli studi
sarebbero diventati famosi per la registrazione di Do They Know It’s
Christmas?), e negli oramai scomparsi Wessex Studios a Highbury New
Park, dove una volta Johnny Rotten vomitò nel pianoforte. Per coincidenza,
proprio mentre i Queen erano lì, i Sex Pistols stavano registrando «Never
Mind the Bollocks» in una sala adiacente. A un certo punto, Sid Vicious
ruzzolò nello studio dei Queen e insultò Freddie, perché questi aveva
dichiarato di voler portare il balletto alle masse (in un’intervista con Tony
Stewart per il New Musical Express intitolata: «Questo è uno stupido
secondo voi?»). Freddie rispose con una battuta indimenticabile: «Ah,
mister Ferocious! Facciamo del nostro meglio, caro mio!»
Ottobre portò ai Queen un Britannia Award della British Phonographic
Industry (l’associazione della case discografiche inglesi) per Bohemian
Rhapsody, votato miglior singolo inglese degli ultimi venticinque anni. Lo
stesso mese iniziò la campagna promozionale per «News of the World», un
album esuberante ma anche un po’ lontano dai gusti dei fan (e da quelli
della critica), con una copertina che raffigurava un gigantesco robot
disegnato da Frank Kelly Freas.
Era sempre più evidente che John Reid non aveva il tempo per gestire
adeguatamente i Queen: oramai erano ai livelli di Elton John in termini di
fama e avevano assoluto bisogno di un manager esclusivo. I quattro
convocarono di nuovo l’avvocato Jim Beach per negoziare la cessazione del
contratto con la John Reid Enterprises, una procedura che si rivelò
relativamente indolore seppur costosa. Dato che il contratto veniva rescisso
prima della scadenza, Reid ottenne una cospicua buonuscita più il quindici
percento dei diritti d’autore su tutti gli album precedenti dei Queen, per
sempre. Pete Brown, il dipendente di Reid che aveva effettivamente curato
gli affari dei Queen, se ne andò con loro e fu nominato manager personale.
Anche un altro collaboratore dello scozzese, Paul Prenter, si unì alla
squadra. Da quel momento in poi, Beach gestì tutte le questioni legali per
conto della band e Gerry Stickells si occupò delle tournée. Fu creata la
Queen Productions Ltd, seguita poi dalla Queen Music Ltd e dalla Queen
Films Ltd. Finalmente i Queen erano proprietari delle loro opere e dei loro
diritti.
Fu una svolta sotto molti altri aspetti. Sebbene i problemi imprenditoriali
fossero risolti, a livello creativo i Queen erano a un bivio. Sapevano di dover
cercare nuove sfide se volevano mantenere intatto il loro entusiasmo e
alimentare la loro ispirazione. Così comprarono un jet privato e si
imbarcarono in due ambiziose tournée americane. Durante la prima, che
cominciò a Portland, nell’Oregon, l’11 novembre, Freddie eseguì Love of My
Life dal vivo per la prima volta, invitando il pubblico a cantare con lui,
inaugurando così quella che sarebbe diventata una tappa obbligata di tutti i
successivi concerti dei Queen. A New York, Freddie andò a vedere Liza
Minnelli a teatro, in The Act. Dopo averla citata come sua artista preferita e
sua grande fonte di ispirazione (insieme con Hendrix), con immenso piacere
Freddie scoprì che la stima era reciproca. Anni dopo, nel 1992, la stella di
Cabaret sarebbe stata una delle prime ad accettare di esibirsi al grande
concerto tributo per la morte del cantante.
Al Madison Square Garden, Freddie mandò in visibilio la folla
indossando per i bis la divisa dei New York Yankees. La squadra di baseball
della città aveva appena vinto la World Series, e il pubblico era entusiasta
per quell’omaggio di una band inglese al loro sport più sacro. Nei concerti,
Freddie era solito inserire qualche piccolo omaggio alla nazione in cui si
esibiva: una frase nella lingua del posto, un mantello con la bandiera inglese
da un lato e quella del Paese ospite dall’altro... A volte rifletteva ore per
individuare il gesto migliore da regalare a un determinato luogo. Era il suo
modo per dare qualcosa in cambio ai fan del posto, che immancabilmente lo
adoravano per questo.
Nel gennaio del 1978 durante il MIDEM, la fiera dell’industria
discografica a Cannes, e grazie a We Will Rock You al primo posto nella
classifica francese per più di dodici settimane, i Queen furono premiati nella
categoria Radio come la rock band con maggiori potenzialità. Persino la
Francia («Vous appelez cela de la musique rock!») aveva aperto gli occhi sui
Queen.
Anche il fisco, però. Nel 1978 la band fu costretta a trascorrere la
maggior parte del tempo all’estero per evitare di pagare troppe tasse in
patria. Intraprese un nuovo tour europeo dopodiché tornò in studio per
lavorare a un altro album. Furono scelti i Mountain Studios di Montreux,
perché erano i migliori in Europa a livello tecnico e i Queen avevano sempre
cercato questo tipo di qualità. Il fatto che poi sorgessero in uno dei posti più
incantevoli del pianeta era un bonus aggiuntivo. Lo stupendo lago di
Ginevra e le maestose alpi svizzere innevate lasciarono i quattro a bocca
aperta. All’inizio Brian e Freddie restarono in Inghilterra, il primo per la
nascita del primogenito, Jimmy, e il secondo per produrre l’album
dell’amico Peter Straker, tramite la sua nuova casa di produzione, la Goose.
Straker, un attore di origini giamaicane, aveva conosciuto Freddie nel
1975 da Provan’s, un ristorante di Londra. Il primo era in compagnia del
manager David Evans, mentre il secondo cenava con John Reid. Per uno
scherzo del destino, Evans lavorava anche per Reid.
«Ricordo la pelliccia sciupata e le unghie smaltate di nero, gli zoccoli
bianchi e l’acconciatura», racconta Straker. «E che era anche leggermente
ingobbito. Ma a parte questo, mi colpì la sua estrema timidezza. Teneva gli
occhi bassi, come sempre quando incontrava una persona nuova.»
Quando si incrociarono di nuovo per caso, Straker invitò Freddie alla sua
festa di compleanno, nel suo appartamentino in Hurlingham Road. Era il
novembre del 1975 e si trattava di una festa in maschera: ognuno doveva
vestirsi come il suo personaggio preferito. Freddie rispose che se fosse
andato (cosa che fece), non si sarebbe mascherato, perché era lui il suo
personaggio preferito.
«Freddie arrivò con David Minns [un giovane operaio con cui aveva una
relazione segreta] abbastanza presto e con un jeroboam di champagne:
Moët & Chandon, chiaramente! Se non ricordo male fu quella sera stessa
che di getto gli chiesi di produrre un album per me.»
I due si misero d’accordo per rivedersi a pranzo.
«Da lì in poi diventammo amici. È difficile ricordare luoghi e date precisi,
dato che da quel momento in poi le nostre vite si sono intrecciate in modo
inestricabile. In altri termini: abbiamo ingranato.»
Ben presto Freddie e Straker, che era figlio di una cantante lirica,
iniziarono ad andare a vedere balletti e opere insieme, oltre a bazzicare i
peggiori pub e nightclub della città. Cominciarono persino a giocare a tennis
insieme nell’esclusivo Hurlingham Club. Educato e cortese, dotato di una
voce sopraffina e anche di un’incredibile estensione vocale, che avrebbe
dovuto portargli più successo di quanto ottenne in realtà, Straker voleva
incidere un album di brani post-glam rock e vaudeville. Freddie non solo
accettò, ma investì ventimila sterline nel progetto, intitolato «This One’s On
Me». Uscirono anche due singoli: Jackie e Ragtime Piano Joe. Gli amici li
ricordano come «due monelle» oppure come «due fratelli», mai come
amanti, e infatti il loro rapporto era basato su una sorta di conflitto fraterno.
«Straker lo aiutava ad allentare la tensione», racconta Peter Freestone.
«Era sempre pronto a farlo ridere».
«La profonda amicizia fra Freddie e Peter era fondata sull’amore per
l’opera e per i classici», ricorda Leee John, leader del trio soul-dance
Imagination, famoso negli anni Ottanta e grande amico di entrambi.
«Io venivo dal soul, dall’R&B e dal jazz, e tentavo di capire il blues e tutta
la musica africana, ma Freddie mi suggerì di studiare l’opera, per il bene
della mia carriera. Shéhérazade [di Rimskij-Korsakov, basata sulle Mille e
una notte] era l’unica che conoscevo. Mi disse: ‘Tesoro, è un buon inizio’.
Quindi per un’intera estate andai a vedere un’opera la settimana. Di tutto,
da Don Giovanni a L’anello del Nibelungo. Mi addormentai! Ma mi
emozionai anche, e risi, e imparai tantissimo. Voglio dire, prima ero
appassionato di Motown, pensa un po’… Molta musica classica ha origini
africane, e Freddie lo sapeva. C’è un senso del ritmo unico nel suo genere.
Mi insegnò anche molte tecniche vocali. Tutto quadra, se ci ripensi dopo
anni. Straker, però, era sullo stesso piano di Freddie: imparavano l’uno
dall’altro. Avevano entrambi incontrato un loro pari.»
Poi Brian e Freddie raggiunsero Roger e John a Montreux, dove il lavoro
per il nuovo LP proseguiva spedito. Quell’estate la EMI ricevette il Queen’s
Award to Industry per le esportazioni, uno dei premi regi più ambiti dagli
industriali inglesi. Per commemorare l’evento, l’etichetta stampò Bohemian
Rhapsody in una tiratura limitata di duecento copie su vinile blu, numerate
a mano. All’inizio le cromie prescelte erano oro e viola, per richiamare il
logo del gruppo sulla copertina di «Queen», ma qualcosa andò storto.
«Avevamo deciso di fare una copertina bordeaux e oro, con il vinile
viola», racconta Paul Watts, allora direttore generale della divisione
internazionale della EMI. «Ma quando arrivò dalla fabbrica il disco non era
per niente viola, ma blu. Si erano sbagliati! Dato che volevamo solo
duecento copie [mille o millecinquecento era la tiratura normale], non
valeva la pena cambiarlo.»
Il premio fu consegnato ai dirigenti della EMI nel luglio 1978, nella
Cotswold Suite del Selfridge Hotel. Né Sua maestà né i Queen parteciparono
alla cerimonia. La band era in «esilio» per il fisco e stava festeggiando alla
grande il ventinovesimo compleanno di Roger a Montreux.
Le prime quattro copie dell’edizione limitata furono spedite in Svizzera ai
quattro membri della band. Un gruppo selezionato di dirigenti della EMI
ricevette le altre, insieme con i giornalisti e con alcuni degli invitati; tutti gli
altri si videro consegnare un paio di calici commemorativi o uno speciale
foulard di seta. Pochi fortunati se ne andarono con tutti e tre i regali. Quel
disco è tutt’oggi uno degli oggetti più ricercati dai collezionisti di cimeli, non
solo dei Queen ma del rock in generale.
Le registrazioni proseguirono in un altro studio, il SuperBear di Nizza. Lo
spostamento era stato dettato sempre da motivi fiscali: i Queen non
potevano rischiare di produrre un intero album in un unico Paese per paura
di dovervi poi pagare le tasse.
Il trentaduesimo compleanno di Freddie fu celebrato nell’incantevole
paesino di Saint-Paul-de-Vence dove Bill Wyman dei Rolling Stones aveva
una casa. La festa scatenatissima culminò con un’esibizione di Freddie e
Straker ubriachi che intonarono arie di Gilbert e Sullivan. Due giorni dopo, i
Queen brindarono al ricordo di Keith Moon, il batterista degli Who
scomparso per un’overdose di clometiazolo nell’appartamento di Harry
Nilsson in Curzon Place a Mayfair (lo stesso in cui quattro anni prima era
morta di infarto Cass Elliot, la stella dei Mamas & Papas).
Il nuovo singolo, Fat-Bottomed Girls, uscì come doppio lato A con
Bicycle Race, un brano ispirato al Tour de France, che attraversò Nizza
mentre la band era lì in studio. Per promuovere il singolo, i Queen
affittarono lo stadio di Wimbledon a Londra e ingaggiarono sessantacinque
ragazze per fare una gara in bicicletta completamente nude. L’evento generò
un filmato esilarante ma non solo: le bici erano state affittate dalla catena
Halfords e i suoi dirigenti insistettero perché la band rimborsasse le spese
per sostituire tutti i sellini «usati». Il singolo si piazzò all’undicesimo posto in
classifica, non senza polemiche: il sedere prominente della ciclista che
campeggiava in copertina fu ritenuto offensivo e nelle copie successive
dovette essere ricoperto da un paio di pudiche mutandine.
A ottobre partì una nuova tournée americana. A New Orleans, per
lanciare il nuovo album, «Jazz», i Queen organizzarono quella che può solo
essere definita un’orgia. La sera di Halloween invitarono quattrocento
selezionatissimi rappresentanti della stampa nordamericana, sudamericana,
inglese e giapponese, nella sala da ballo di un albergo cittadino. Il luogo era
stato trasformato in una palude, completa di foschia e vegetazione, in cui si
aggiravano nani, drag queen, mangiatori di fuoco, lottatrici nel fango,
spogliarelliste, serpenti, steel band, danzatori vudù, danzatori zulù,
prostitute, groupie, alcuni di questi intenti a commettere inimmaginabili, e
probabilmente illegali, atti osceni, da soli o in gruppo, davanti agli invitati.
Una modella entrò sdraiata su un vassoio di fegato crudo, altre si
contorcevano dentro gabbie sospese. Quella follia fu ripresa dai giornali di
tutto il mondo e confermò le feste dei Queen come le più corrotte e
smodate nel circo del rock.
Nel bel mezzo di quella baldoria, arrivò Tony Brainsby, il vecchio
addetto stampa dei Queen, che aveva ripreso il suo posto. Giunse da Londra
con un seguito di scribacchini al seguito e si ritrovò subito nel suo elemento.
«Selvaggio», fu il suo laconico commento dell’evento. «Andammo
dall’aeroporto alla festa e dalla festa all’aeroporto, senza nemmeno sfiorare
un letto. Ne avevo viste di feste ai miei tempi ma mai niente del genere.
Alcuni giornalisti avevano gli occhi a penzoloni quando finì. Freddie
autografò il sedere di una spogliarellista, e quella fu la cosa più casta che
vidi. Mi ci volle quasi un mese per riprendermi.»
L’America puritana reagì. «Jazz» comprendeva un poster di cicliste nude,
che fu censurato come «pornografico» e vietato in alcuni stati. L’album
venne quindi distribuito senza poster ma con un modulo che permetteva
all’acquirente di richiederlo tramite posta. I Queen furono sorpresi dalla
reazione americana per quella che a loro avviso era solo un po’ di innocua
ironia, ma questo non impedì loro di portare una frotta di cicliste
scampanellanti sul palco del Madison Square Garden durante Bicycle Race.
In patria «Jazz» arrivò al secondo posto e restò in classifica per ventisette
settimane: un nuovo traguardo. Ora dovevano superarlo. Che cosa si
sarebbero inventati per l’album successivo? E per quello dopo ancora? Forse
i Queen si erano dimenticati come ci si rilassa.
14
Monaco
FREDDIE MERCURY
ROGER, Brian e John si erano sistemati e rigavano dritto come buoni padri
di famiglia, almeno quando non erano in tournée. Brian, per esempio, si era
già innamorato di un’altra a New Orleans, una certa Peaches. John, in
genere attento ai propri obblighi coniugali, aveva iniziato a bere. Roger,
grande protagonista di tutte le feste, di rado era solo fra la mezzanotte e la
colazione. Freddie, però, li batteva tutti, e aveva gettato al vento qualsiasi
precauzione come mai prima di allora. Se nessuno dei quattro era un
angioletto in tour, infatti, Freddie era un diavolo incarnato. All’inizio del
1979, mentre il loro circo strombazzava attraverso l’Europa con una
mastodontica tournée di ventotto date, incluse due nell’allora Jugoslavia, il
cantante si concesse ogni vizio come se dovessero finire. Gennaio vide
l’uscita del dodicesimo singolo della band, Don’t Stop Me Now, accolto da
una serie di recensioni entusiaste. Poi la band tornò a Montreux per
produrre un doppio album dal vivo, «Live Killers». Sentendosi come a casa
loro sulle sponde del lago di Ginevra, i quattro colsero al volo l’occasione di
comprare i Mountain Studios, dietro consiglio del loro commercialista, per
migliorare la loro posizione fiscale. David Richards, fonico di stanza agli
studi e in seguito produttore della band, si unì alla squadra. Poi l’invito del
produttore Dino De Laurentiis (Barbarella, Il giustiziere della notte, King
Kong, Hannibal, Red Dragon) a comporre la colonna sonora del film di
fantascienza Flash Gordon, basato sull’omonimo personaggio dei fumetti,
permise di concretizzare un’altra ambizione che i Queen covavano da lungo
tempo.
Dopo un’altra serie di concerti in Giappone, accompagnati dalle oramai
abituali orde di fan entusiasti, il gruppo si ritirò per l’estate nei Musicland
Studios di Monaco, famosi per avere sfornato i successi della disco music del
produttore Giorgio Moroder. Sempre costretti a registrare all’estero per
evitare il fisco, in Germania i Queen collaborarono con un nuovo
produttore, il famoso Reinhold Mack, che aveva fondato i Musicland
proprio con Moroder. Anche Marc Bolan, i Deep Purple e i Rolling Stones
avevano lavorato in quegli studi. A detta di Mack, i Queen non erano i
musicisti più «facili» con cui aveva collaborato.
«Avevano abitudini rigide, come i pensionati», ricorda. «Il loro mantra
era: ‘Abbiamo sempre fatto così’. Rispetto a loro, avevo il vantaggio di
prendere decisioni in fretta, di fare le cose mentre gli altri si perdevano nei
dettagli.»
In generale, però, il suo rapporto con i Queen fu «abbastanza rilassato».
«La band arrivava da una tournée in Giappone e aveva un po’ di tempo
‘libero’ prima di tornare in Inghilterra. Quando si dice trovarsi al posto
giusto nel momento giusto... All’inizio l’intenzione non era di registrare un
album [anche se in seguito sarebbe diventato ‘The Game’], ma solo di fare
una serie di session di una o due settimane. Il primo brano su cui
lavorammo fu Crazy Little Thing Called Love. Freddie prese la chitarra
acustica e disse: ‘Svelti! Facciamola prima che arrivi Brian’. Sei ore dopo, la
canzone era finita. L’assolo di chitarra lo aggiungemmo dopo. Brian mi odia
ancora perché lo costrinsi a usare una Telecaster per quella parte. Il pezzo
uscì come singolo apripista dell’album e andò dritto al primo posto. Questo
ovviamente aumentò la fiducia del gruppo e migliorò il nostro rapporto
professionale.»
Mack ricordò che la composizione dei brani non era priva di
complicazioni.
«C’erano due scuole: Freddie e Brian. Con Freddie era facile: la
pensavamo più o meno allo stesso modo. In una ventina di minuti era in
grado di produrre un pezzo eccezionale. Brian invece arrivava con un’idea
bellissima, ma dopo quella prima scintilla si perdeva in dettagli
insignificanti.»
All’epoca il motto della città di Monaco era «Weltstadt mit Herz», «Una
città cosmopolita con un cuore» (dal 2006 è stato cambiato in «München
mag Dich», «Monaco ti ama», ma questa è un’altra storia). Il soggiorno
bavarese dei Queen avrebbe avuto un effetto profondo e persino distruttivo
su tutti e quattro i membri della band, in particolare su Freddie, che ben
presto divenne dipendente dalle attrattive più equivoche della città.
Chiunque avesse soggiornato a lungo in uno dei grandi centri culturali
d’Europa, si sarebbe immerso nella sua storia e nella sua architettura. La
città vantava una fiorente cultura che risaliva al Settecento ed era stata un
centro particolarmente dinamico durante la Repubblica di Weimar. Mozart,
Wagner, Mahler, Strauss, lo scrittore Thomas Mann e il pittore Vasilij
Kandinskij (durante il suo periodo espressionista) erano stati tutti attratti da
quella città, tanto ipnotica quanto piovosa.
Ma per Freddie l’attrattiva principale di Monaco era la sua effervescente
scena gay, concentrata in una piccola zona del centro conosciuta come «il
Triangolo delle Bermude». L’enclave era diventata un rifugio per gli
omosessuali di tutta Europa, proprio come il Village a New York e Castro a
San Francisco per gli americani. La scena bavarese era tranquilla e rilassata.
I locali gay abbondavano, pieni di corpi sudati sette giorni su sette. Freddie
si sentì libero di sperimentare senza avere i paparazzi sulla porta di casa a
seguire ogni suo spostamento. Un’altra attrattiva, per la band nel suo
insieme, erano le ottime discoteche della città, che in quel momento
vivevano la loro età dell’oro. La vita notturna era un sordido viaggio a rotta
di collo fra locali tetri e assordanti, come gli Ochsen Gardens, il Sugar Shack,
il New York e il Frisco. Nel «triangolo» pochi davano peso ai comportamenti
gay più offensivi, perché tutti – gay e non – erano troppo occupati a
divertirsi. Come ricordò Mack: «Freddie amava circondarsi di gente diversa.
Non gli era mai piaciuto un mondo esclusivamente gay. Era una persona
riservata e non dava mai scandalo fuori contesto. Non ti sbatteva in faccia la
sua omosessualità. Non faceva mai scenate e teneva sempre un
comportamento impeccabile quand’era in una compagnia mista. ‘Ogni cosa
al suo posto’ era il suo motto».
Come spiega Brian in Queen: la biografia ufficiale: «Monaco influenzò
profondamente le nostre vite. Dato che ci restammo parecchio, divenne
quasi una seconda casa per noi, un luogo in cui vivere una vita diversa. Non
era come in tournée, dove avevamo un contatto molto intenso con una città
per un paio di giorni e poi si passava ad altro. A Monaco rimanemmo
invischiati nella vita della gente del posto. Ci trovammo a frequentare le
stesse discoteche quasi tutte le sere, per tutta la notte. Ci incantò. Il Sugar
Shack in particolare. Era una discoteca rock con un impianto fantastico e il
fatto che alcuni dei nostri dischi non suonassero molto bene là dentro ci
fece vedere la nostra musica e i nostri mix sotto una luce diversa.
Guardando indietro, probabilmente è giusto affermare che non fummo
molto efficienti a Monaco. A causa delle nostre nottate iniziavamo a
lavorare tardi ed eravamo sempre stanchi, e – specialmente per me, ma
forse anche per Freddie – le distrazioni emotive di quella città erano
distruttive».
Nonostante nella capitale bavarese Freddie conducesse un’esistenza
dissoluta e senza pudori, secondo Mack iniziava a essere stufo di quella vita.
«Diverse volte mi disse: ‘Magari uno di questi giorni lascio perdere
questa vita da gay’. Aveva scelto di diventare omosessuale a ventiquattro o
venticinque anni. Prima lo consideravano eterosessuale. Con lui tutto era
possibile. Credo che avrebbe potuto smettere di essere gay, perché amava le
donne. Vedevo come si comportava con loro; non era certo il tipo di gay che
non vuole avere donne nella propria vita, anzi...»
Freddie divenne un ospite abituale in casa di Mack e strinse amicizia con
la moglie Ingrid. La coppia gli domandò persino di fare da padrino a uno
dei figli. Secondo Mack, Freddie non era refrattario alle comodità della vita
famigliare. Un giorno gli avrebbe confessato addirittura che gli sarebbe
piaciuto sposarsi e avere dei figli, nonostante in quel momento non ci fosse
alcun rapporto stabile nella sua vita.
«In fondo Freddie desiderava farsi una famiglia e avere una vita
normale», sostiene Mack.
«Una volta ero nei guai perché dovevo pagare un sacco di tasse arretrate.
Ero molto depresso e ne parlai a Freddie, e lui disse: ‘Che cazzo, sono solo
soldi! Perché ti preoccupi per roba del genere? Hai tutto, tutto ciò che ti
serve: una famiglia e dei figli stupendi. Hai tutto quel che io non potrò mai
avere. Lì mi resi conto che ci osservava quando veniva da noi, che guardava
la nostra vita famigliare e immaginava come avrebbe potuto renderlo felice.»
Kashmira, però, non è d’accordo: «No, non credo [che sarebbe stato un
buon padre di famiglia]. Sarebbe stato bravissimo a viziare, ma non tanto a
far rispettare le regole».
Sempre durante il soggiorno bavarese, Mack scoprì che Freddie si era
sentito terribilmente solo da piccolo.
«Una volta udii per caso una conversazione fra lui e mio figlio Felix»,
racconta. «Freddie gli stava dicendo: ‘Io non ho avuto la fortuna che hai tu.
Quand’ero piccolo ho passato molti anni in collegio, lontano da mamma e
papà’. Con i miei figli parlava molto della sua infanzia. Adorava i bambini:
appena erano in grado di camminare, parlare e rispondere, gli piaceva stare
con loro.»
Per quel che riguarda la musica che i Queen produssero a Monaco, Brian
ammise che il cambio di direzione musicale fu ispirato da Freddie.
«Tentammo un approccio differente», disse. «Con l’idea di sfrondare
brutalmente e produrre un album più compatto, anziché lasciare che la
fantasia ci portasse in tante direzioni diverse. L’impulso lo diede soprattutto
Freddie. Pensava che ci fossimo diversificati troppo, al punto che le persone
non riuscivano più a inquadrarci. Il tema di quell’album – se ce n’è uno – è
ritmo ed essenzialità: mai due note se ne bastava una. Era difficile per noi,
richiedeva molta disciplina, perché avevamo la tendenza ad abbondare. Era
anche una novità, perché per la prima volta entravamo in studio senza una
scadenza, ma solo con l’idea di buttare giù qualche traccia così come veniva.
«Era un modo per rompere lo schema ripetitivo: ‘album, tour inglese,
tour americano eccetera’. Volevamo cambiare e vedere che cosa avremmo
prodotto. Dopo un po’ devi pur inventarti qualcosa di nuovo per tenere
accesa la passione...»
Mack decantò il metodo lavorativo di Freddie in studio: la creatività
spontanea, l’impegno, la passione, la velocità e l’abilità tecnica. L’unico
aspetto negativo era l’incapacità di concentrarsi per lunghi periodi. Soltanto
la limitata capacità di concentrazione pareva limitare il talento di Freddie e
lo stesso valeva per la sua vita privata: se una cosa sembrava troppo lunga o
laboriosa, lui perdeva subito ogni interesse. Non era in grado di concentrarsi
su un unico pezzo per più di un’ora e mezza.
«In Killer Queen si capisce che si è seduto al piano e l’ha fatta di getto. Il
finale è un po’ irrisolto», spiega Mack. «Era tipico di Freddie. Voleva sempre
passare a cose nuove, diverse. Andavamo molto d’accordo. Mi piaceva avere
a che fare con un genio. E lo era davvero a livello musicale: riusciva subito a
individuare il centro intorno a cui doveva girare una canzone.»
Insieme, Mack e Freddie aggiunsero una nuova dimensione al suono
della band, in sintonia con l’umore di quegli anni, e la ispirarono a tagliare
nuovi traguardi creativi.
Dopo qualche apparizione in alcuni festival all’aperto in Germania,
Freddie tornò a Londra per le prove di uno spettacolo di beneficenza
organizzato dal Royal Ballet a favore della City of Westminster Society for
Mentally Handicapped Children, un ente di beneficenza a favore dei
bambini con handicap mentali. Era stato Wayne Eagling, primo ballerino
del Royal Ballet e suo amico personale, a convincerlo a partecipare. Furono
create le coreografie per Bohemian Rhapsody e Crazy Little Thing Called
Love, che Freddie doveva danzare e cantare dal vivo. La sera dello
spettacolo, al London Coliseum, il cantante ballò così bene che fu salutato
da una standing ovation.
«Conoscevo il balletto solo per averlo visto in televisione», confidò
Freddie a John Blake, all’epoca giornalista musicale dell’Evening News. «Ma
mi è sempre piaciuto.»
«Poi sono diventato molto amico di Sir Joseph Lockwood della EMI, che
era anche il presidente del consiglio del Royal Ballet, e ho iniziato a
conoscere un sacco di persone in quel mondo. Mi affascinava sempre più.
Alla fine ho visto Baryšnikov ballare e sono rimasto basito. Più di Nureyev,
più di chiunque altro. Voglio dire, [Baryšnikov] sa davvero volare. Quando
l’ho visto sul palco ero talmente estasiato che mi sono sentito una groupie.»
Riguardo allo spettacolo con il Royal Ballet, commentò: «Mi hanno fatto
fare gli esercizi alla sbarra e tutto il resto: stirare le gambe... In una
settimana dovevo fare quello che loro facevano da anni. Ero morto. Dopo
due giorni avevo male dappertutto. Mi facevano male certi muscoli che non
sapevo nemmeno di avere, caro mio. Poi quando è arrivata la sera del gran
galà, ero sbalordito dalle scene dietro le quinte. Quando toccava a me, ho
dovuto farmi largo fra Merle Park e Anthony Dowell e tutta quella gente e
dire: ‘Scusatemi, devo andare in scena’. Era incredibile».
Freddie ballò e cantò Bohemian Rhapsody.
«Sì caro, ho fatto il salto. Un salto magnifico, che ha fatto partire un
applauso, e poi mi hanno preso e ho continuato a cantare.»
Quando gli domandarono se gli sarebbe piaciuto diventare un ballerino
professionista, rispose: «Sì, ma sono anche molto contento di quel che faccio
adesso. Non puoi svegliarti a trentadue anni e decidere di diventare un
ballerino».
Dopo lo spettacolo, girò voce che Freddie non fosse proprio un «vero
uomo». Quando gli arrivò all’orecchio, scoppiò a ridere. «O Dio… caro mio!
Lascia che dicano quel che vogliono. Vedi, se ti dicessi no o sì, sarebbe
barboso. Nessuno mi chiederebbe più nulla. Preferisco che continuino a
chiedermelo. Oh, è tutto così scontato. Caro mio, la vita personale è una
questione privata. Voglio dire, con uno come Elton, penso: che potrò mai
dire? E lui è un tipo più ‘mediatico’, no? Ma a me non interessa.»
In seguito Freddie, commentò scherzosamente quel suo balletto con
l’amico giornalista David Wigg. «Cantare a testa in giù è bellissimo.
Tremavo dietro le quinte, dal nervoso. È sempre difficilissimo fare qualcosa
fuori dal proprio ambito, ma mi sono sempre piaciute le sfide. Mi
piacerebbe vedere Mick Jagger o Rod Stewart provare qualcosa del genere!»
Aggiunse anche, col suo solito umorismo, che il momento più
memorabile della serata era stato quando la famosa ballerina Merle Park gli
aveva dato un pizzicotto sul sedere: «È indecente, quella donna!»
Quella breve sortita nel mondo delle punte e dei plié, però, è importante
soprattutto perché procurò a Freddie una nuova amicizia destinata a durare
per tutta la vita.
15
Phoebe
FREDDIE MERCURY
NEL backstage della Royal Opera House, durante i preparativi per il suo
debutto nella danza, Freddie conobbe un giovane assistente costumista:
Peter Freestone. Indispensabile da subito. Prontamente ribattezzato
«Phoebe», Peter sarebbe diventato l’assistente personale di Freddie,
rimanendo al suo fianco fino alla fine.
«Freddie venne all’Opera House per provare i costumi per il galà del
Royal Ballet», raccontò.
Fisicamente imponente e affabile di carattere, il tipo di persona per cui
nulla è mai un problema, è facile capire perché Freddie si «innamorò» di
Peter all’istante.
«Era gentilissimo ed educato la prima volta che lo incontrai», ricordò
Peter.
«Più avanti scoprii che era sempre educato, a meno che qualcuno lo
infastidisse, nel qual caso andava su tutte le furie. Era abbastanza in
soggezione quando venne alla Opera House perché era fuori dalla sua sfera
abituale. [Inoltre] quello era un bastione dell’establishment e lui era
l’opposto. Il galà fu stupendo: il modo in cui ballerini portarono Freddie in
giro per il palco... magnifico.
«Cantò Crazy Little Thing Called Love con i suoi costumi in pelle, poi
sparì dietro un muro di ballerini e riapparve con un vestito di paillette per
fare Bohemian Rhapsody.
«Era la prima volta che lo vedevo esibirsi, che vidi il grande showman.
Prima di allora avevo sentito vagamente parlare dei Queen e una volta
l’avevo visto con Mary: prendevano un tè alla Rainbow Room di Biba, nel
1973. Aveva i capelli fino a qui e un giacchettino in pelliccia di volpe. Era
lui, ne sono certo.
«Già quella era una performance», aggiunse in seguito.
Durante la festa dopo lo spettacolo, al Legends, Peter incontrò Freddie in
compagnia del manager Paul Prenter e si fermò a chiacchierare con
entrambi.
«Tre settimane dopo, Paul telefonò al mio capo e gli chiese se conosceva
qualcuno interessato a un contratto di sei settimane per curare il guardaroba
dei Queen durante una tournée. Da quando l’avevo visto sul palco volevo
vivere quella vita. Avevo visto La bella addormentata e Il lago dei cigni
migliaia di volte. Volevo rivedere quella persona così entusiasmante, vedere
più rock. Non sapevo a cosa andavo incontro, pensavo che gestire il
guardaroba per quattro persone non potesse essere peggio che gestirlo per
un’intera compagnia di danza.»
Peter si licenziò, perdendo un ottimo posto fisso in cambio di un
contratto temporaneo con i Queen. Dopo il tour si trovò quindi disoccupato
e fu costretto ad accettare un impiego temporaneo come centralinista alla
British Telecom, «finché i Queen non fossero andati di nuovo in tournée e
mi avessero richiamato. Poi mi tennero anche quando non erano in
tournée, mi davano un fisso e gli facevo diversi lavori in ufficio. Dopo il tour
americano, Paul e Freddie decisero che mi sarei occupato esclusivamente di
Freddie. Nei tour avrei sempre gestito il guardaroba per tutti, ma in ogni
altra occasione dovevo badare solo a lui»
Chiacchierando i due scoprirono di essere stati entrambi in collegio in
India, a migliaia di chilometri di distanza dai rispettivi genitori. Nacque un
legame molto forte e Freddie cominciò ad abbassare le difese. Una delle
prime cose che colpirono Peter era l’avversione di Freddie per i litigi.
«Non era mai maleducato», ricorda. «Se nasceva una disputa si faceva in
disparte e lasciava che se la sbrigassero gli altri. Lui si limitava ad ascoltare,
infilando qualche commento qua e là. È vero che lui e Mary litigavano
spesso, ma solo perché lui si aspettava delle cose dalle persone e se queste lo
deludevano si arrabbiava. Imparai in fretta a lavorare con lui. Se sbagliavi
qualcosa te lo faceva notare e tu facevi molta attenzione a non sbagliare una
seconda volta. Ma questo non funzionava con Mary, perché se lei si era
messa in testa una cosa la faceva e basta, e a modo suo, e se questo
contrastava con le idee di Freddie, scoppiava il Gran Litigio.»
D’istinto Peter imparò a tenere le proprie opinioni per sé. Sapeva anche
quando era giusto superare i confini professionali e quando invece era
meglio mantenerli. Il mondo sregolato dei Queen era per lui un pianeta
sconosciuto, che iniziò a esplorare con attenzione. A volte si sentì oppresso
dai privilegi e dagli eccessi che la band dava per scontati.
«A ogni nuovo tour volevano sempre più luci, più impianti, più
scenografie», ricorda. «Tutto doveva essere una novità, uno spettacolo più
grandioso di quello precedente. Anche solo questo faceva di loro una
grande band. Qualche anno fa, ho visto Michael Jackson a Wembley per
due giorni di fila. Il secondo concerto era esattamente uguale al primo. I
Queen erano sempre diversi. Non sapevi mai cosa aspettarti. Anche le loro
riunioni erano costosissime, perché le facevano in studio, che costava una
fortuna all’ora. Oggi nessuno farebbe una cosa del genere.»
Il nuovo assistente era così discreto e tranquillo che presto gli fu chiesto
di badare alle necessità personali di Freddie.
«Gli preparavo persino la valigia», racconta. «Chiamavo l’auto che venisse
a prenderci, mi assicuravo che [Freddie] avesse preso soldi, carte di credito,
passaporto e biglietti, anzi no, tenevo tutto io. Lo mettevo sull’aereo. Il più
delle volte era come prendersi cura di un bambino. Ero sempre con lui,
letteralmente al suo fianco, anche sull’aereo. Considerando il tempo che
abbiamo passato insieme, è incredibile che siamo andati così d’accordo. A
Los Angeles, dove restammo un po’ di tempo mentre i Queen registravano,
c’era sempre altra gente intorno, per cui ero in parte alleggerito dalle mie
responsabilità. Ma a New York, eravamo solo noi due. Il modo più semplice
per descrivere il nostro rapporto è dire che c’era un confine: da una parte il
datore di lavoro, dall’altra l’amico. Ma non era mai un limite netto e
immutabile. Dopo un po’ ero in grado di capire esattamente dov’era il
confine in quel dato momento: capivo se aveva bisogno del suo dipendente
per fare questo e quello, oppure se invece aveva bisogno dell’amico. Era così
per forza. In quel modo sapeva che poteva sgridarmi, cosa che faceva spesso,
soprattutto per sfogare le sue frustrazioni. Sapevamo tutti e due perché lo
faceva, per cui andava bene così. Dopo non ne parlavamo più. Freddie non
serbava rancore. Si sfogava sul momento e poi era finita lì.»
Era difficile essere sempre a disposizione del suo «padrone»? C’erano
state volte in cui si era sentito come un servitore? La sua risposta era
negativa.
«Soprattutto perché – ed è terribile ammetterlo – Freddie non mi trattava
come io invece avevo trattato i domestici che avevamo in India,
ordinandogli di fare questo e quello... Era sempre gentilissimo con me; quasi
sempre. Anche se avevo uno stipendio, non dovevo pagare mai niente, così
come tutti quelli che lavoravano per lui. Mai una cena, né una birra. Se una
volta gli offrivamo noi da bere era contento, ma non se lo aspettava. Se
andava al bar ed eravamo in dieci, finiva tutto sul suo conto. Ma non aveva
soldi in tasca, quelli glieli tenevamo noi. Era proprio come un aristocratico,
in questo senso. Non mi ha mai fatto sentire a disagio.»
Ora che tutto è finito, Peter riconosce di avere avuto «una vita molto
fortunata» con Freddie e i Queen.
«A tutti gli effetti ho vissuto la sua stessa vita, senza dovermela meritare.
Non dovevo comporre canzoni o parlare ai giornalisti. Ho preso il Concorde
una miriade di volte, sono stato nelle migliori suite dei migliori alberghi del
mondo, ho fatto acquisti per conto suo nelle migliori case d’asta, con i suoi
assegni firmati in bianco. Vivevo e spendevo come lui. Come avrei mai
potuto sentirmi un ‘servitore’?»
La forte amicizia personale che nacque tra i due, negli ultimi anni si
basava sul rispetto e sulla fiducia reciproci.
«Freddie non si fidava delle persone con tanta facilità», racconta Peter.
«O si fidava di te nel giro di poco, o non si fidava per niente. Il fatto che mi
avesse assegnato quel ruolo fu la base della nostra amicizia: iniziò già
durante il primo anno. Litigammo sul serio una volta sola, nel 1989 circa»,
quando Freddie pensò che Peter avesse parlato della sua malattia in giro,
cosa che non era vera.
«Ma durò poco. Gli dissi che ne avevo avuto abbastanza, che volevo
andarmene. ‘Ti prego, non farlo’, mi rispose. ‘Resta qui. Ho bisogno di te.’
Era tutto quel che volevo sentirmi dire. Dimenticai subito le sue accuse
ingiuste, e rimasi con lui fino alla fine.
«La sua cerchia personale era davvero la sua famiglia. Facevamo tutto per
lui. Avrei fatto di tutto per lui. E non solo perché mi pagava, ma per
rispetto. Per me era su un piedistallo… Non lo feci perché lo ammiravo o
perché ero in soggezione, ma perché avevo avuto la fortuna di diventare suo
amico. Non l’avrei fatto per nessun altro.»
Quando Peter divenne il suo assistente personale, Freddie viveva già una
vita di eccessi. Molti si domandano come abbia fatto a tenerla nascosta ai
media. «Semplice», spiega Peter, «era solo una questione di riservatezza.»
«Ci sono certi personaggi nel mondo del rock che andrebbero
all’inaugurazione di uno sgabuzzino pur di farsi fotografare», spiega. «Se
non fanno notizia, ne creano una, solo per restare sotto i riflettori. Freddie
invece faceva di tutto per non finire sui giornali. Certo, partecipava a tutti gli
eventi promozionali dei Queen, ma non alle grandi feste o alle varie
première dello show business. Di rado andava ai concerti degli altri. Era
molto riservato. La musica era il suo mestiere, lo studio il suo ufficio. E
quando non era in ufficio, non voleva certo lavorare.»
Nonostante gli eccessi e le imprudenze del cantante, Peter sostenne di
non avere mai temuto per la sua incolumità.
«Era normale in quegli anni», ricorda con un’alzata di spalle. «Erano i
primi anni Ottanta. Si poteva fare qualsiasi cosa.»
C’era anche un altro motivo per cui Freddie era di buon umore
nell’ottobre del 1979: il quattordicesimo singolo della band, Crazy Little
Thing Called Love, spalleggiato da We Will Rock You di Brian sul lato B, era
stato accolto con euforia dalla stampa musicale, piazzandosi al secondo
posto nella classifica inglese. Oramai abbandonato del tutto il look
bohémien, Freddie aveva abbracciato gli abiti di pelle in versione gay, con
pantaloni neri o rossi, e berrettini da macho. Era quella la sua nuova divisa
sul palco, per dare un’immagine più dura e aggressiva, che però non sarebbe
durata a lungo. Nel giro di qualche anno, il look si sarebbe evoluto,
ammorbidendosi molto, fino a raggiungere l’immagine definitiva: canottiera
bianca e jeans. Freddie era pienamente padrone della sua immagine e
proiettava un atteggiamento di sfida. Il look essenziale era perfetto per il
nuovo decennio alle porte. «Da ora in poi, i costumi sgargianti sono out»,
dichiarò. «Trasmetterò il nostro messaggio musicale vestendomi più casual.
Il mondo è cambiato, la gente vuole qualcosa di più diretto.»
Dopo tutti quegli anni di successi, i Queen cominciavano ad avvertire i
primi segni di stanchezza. Erano stufi e nervosi, e con l’affievolirsi
dell’entusiasmo e dell’energia i loro rapporti si deteriorarono sempre più.
Negli anni ho visto diverse grandi band attraversare periodi simili. Arriva
sempre un momento in cui la carriera non è più tutto, in cui non si è più
coinvolti come agli inizi. Brian, Freddie, Roger e John stavano invecchiando.
Oramai erano tutti adulti, con mogli o compagne, figli, case, dipendenti,
un’immagine pubblica da difendere, impegni solisti e di beneficenza da
onorare. Ognuno di loro era una piccola azienda con infinite responsabilità.
I Queen non erano più la band dei primi tempi, cioè un gruppo di
giovanotti spensierati e pieni di talento, che giravano il mondo a cantare e
ballare, facendo ciò che più gli pareva. Anche le loro rispettive personalità,
maturando, li avevano portati in direzioni diverse. Roger era a suo agio nel
ruolo della grande superstar e riempiva i titoli dei giornali tanto quanto il
leader del gruppo, specialmente per la sua movimentata vita privata. Brian,
invece, non amava molto la notorietà, anche se si era abituato, soprattutto
dopo avere incontrato un’attrice, Anita Dobson (sua seconda moglie), che
conosceva molto bene l’ambiente dello show business. John infine era
totalmente immerso nel mondo domestico e famigliare che Freddie aveva
rifuggito e dal quale si era sentito forse escluso.
Sotto questo aspetto, forse Freddie si sentiva in colpa. John infatti, era
l’uomo ideale per i suoi genitori: i Bulsara avrebbero dato qualsiasi cosa
perché il figlio fosse come Deacon. Il bassista personificava tutte le qualità
che Freddie non aveva.
Dei quattro, stranamente era proprio Freddie quello meno interessato
all’esposizione mediatica. Lui si riteneva prima di tutto un musicista e uno
showman, e solo in seconda analisi una rockstar. A suo avviso, la cosa
importante era cesellare dischi perfetti e fare uno spettacolo più
sorprendente dell’altro; essere sempre il migliore, per i fan come per se
stesso.
«Era un gran perfezionista», concorda Peter. «Passava ore su una
canzone: voleva assicurarsi che non ci fosse un modo migliore per
strutturarla, che non esistesse melodia migliore per esprimere quel che
voleva. Componeva innanzitutto per se stesso; cercava la perfezione per se
stesso, non per gli altri.»
A Freddie non interessava partecipare alle feste «giuste» o alle première
«immancabili». Non gli interessava coltivare amicizie importanti. Non faceva
la corte ad amici famosi: lasciava che fossero gli altri a cercarlo. Se poi la
persona in questione aveva delle cose in comune con lui, allora bene,
altrimenti lasciava perdere. Essere visto? Non gliene poteva fregare di meno.
Laddove le star odierne, molto meno solide, sono ossessionate dalla loro
immagine pubblica e smaniano di leggere il proprio nome sui giornali,
Freddie riteneva questa preoccupazione quanto meno noiosa, per non dire
inutile e di cattivo gusto.
«Servono nervi d’acciaio per sopportare questi ritmi», osservò una volta.
«Quando hai successo diventa tutto molto difficile, perché scopri quel che
c’è dietro questo business. Vedi il marcio, incontri i veri cattivoni. Prima
non ne sapevi nulla, poi però devi per forza essere molto forte e fare una
cernita. Questo business è come un’autopista: devi fare attenzione a tutti
quelli che ti vengono contro ed evitare che ti tamponino troppo. Chiunque
abbia successo rimane scottato prima o poi. Non c’è una scala mobile che ti
porti in cima», aggiunse sibillino.
Per una rock band il successo globale comporta inevitabilmente un
distacco dai fan delle prime ore. Consapevoli di questo, e preoccupati per
l’inevitabile effetto a catena, per il nuovo tour i Queen decisero di evitare gli
stadi a favore di ambienti più intimi, come teatri e sale da ballo: alcuni di
questi palesemente inadatti a ospitare la loro enorme macchina scenica.
Ribattezzato «Crazy Tour», proprio per l’inadeguatezza di alcuni dei locali
scelti, e promosso da Harvey Goldsmith, il nuovo tour li vide esibirsi a
Dublino per la prima volta, e poi a Birmingham, Manchester, Glasgow e
Liverpool, dove Freddie sfoggiò due ginocchiere, una rossa e una blu, per
accontentare sia i tifosi dell’Everton sia quelli del Liverpool, le due squadre
della città. Suonarono anche a Brighton e in una serie di date a Londra, fra
cui una alla Lyceum Ballroom e una al Rainbow Theatre. Attaccarono la
tournée con particolare entusiasmo e alla fine dichiararono di essersi
divertiti moltissimo, cosa che non accadeva da tempo. Il tour gli ricordò
quanto era bello suonare ai vecchi tempi, quando fama e ricchezza erano
poco più che un sogno.
Dopo il concerto di Brighton, Freddie confidò a un amico di non
disprezzare qualche strana orgetta, di tanto in tanto. «Due sere fa eravamo a
Brighton e la squadra dei tecnici aveva organizzato una festa», disse. «Una
cosa alla Queen; siamo bravissimi a far festa. C’erano un sacco di
sporcaccione e tutti si sono fatti sotto. Non ti faccio nomi, ma c’era della
bella gente… C’erano arredi scenici e quant’altro che volavano dappertutto.
Magnifico!»
Freddie però non menzionò la sua notte d’amore fra le braccia di un
giovane corriere della DHL, Tony Bastin. Bastin divenne il primo compagno
fisso del cantante, imbastendo una relazione altalenante di circa due anni,
che però non bastò come antidoto alle sue abitudini licenziose. Nessuno dei
due si illuse mai di avere trovato l’amore della sua vita.
«Tony non era affatto il suo tipo», spiega Peter, riferendosi al fatto che di
norma Freddie non amava i ragazzi biondi e con un aspetto normale come
Bastin.
«A Freddie piacevano i tipi grandi e muscolosi, e relativamente anonimi,
su cui poteva lasciare il segno», spiega. «Desiderava una relazione fissa solo
per avere una base d’appoggio stabile che gli permettesse di continuare a
vivere come prima.»
Tutti gli amanti di Freddie erano persone semplici. «Sebbene in fondo
anche lui fosse un ragazzo di campagna – cosa che odiava ammettere – nel
tempo aveva acquisito gusti raffinati. I suoi amanti imparavano ad adeguarsi
in fretta e finivano per avere aspettative sempre più elevate.»
Bastin si trasferì nell’appartamento di Freddie in Stafford Terrace,
portandosi dietro il gatto, Oscar, e iniziò a seguire il compagno in tournée.
Presto si abituò fin troppo al lusso, ma non si può fargliene una colpa, visto
che Freddie prodigava voli in prima classe e altri regali costosi. Non che il
giovane corriere sembrasse apprezzare tutto ciò. Dopo un po’, infatti,
Freddie si accorse che Bastin lo stava usando e – cosa assai peggiore – gli
giunse voce che fosse stato visto in giro in compagnia di un biondino. Fu il
primo di molti tradimenti simili.
«Spesso le sue relazioni finivano male, con un tradimento, e negli anni
Freddie divenne sempre più cauto prima di lasciarsi coinvolgere a livello
emotivo», rivela Wigg.
«Appena gli regalava un braccialetto di Cartier o una macchina... capisci?
Non erano molto furbi quei suoi ‘amichetti’. Capita spesso con gente del
genere. Le persone che bazzicano intorno a una star hanno un ego
spropositato, a volte più grosso di quello della stessa star. Finiscono per
credere che anche loro possono diventare qualcuno, dimenticandosi che
non hanno una briciola di talento e che sono lì solo perché sono al servizio
di una grande stella.»
Questo potrebbe spiegare perché Freddie preferisse il sesso senza legami,
con partner sempre diversi, e riservasse il suo affetto agli amici più fidati.
Alla fine, il cantante convocò Bastin negli Stati Uniti, troncò la relazione
e lo rispedì indietro con il primo aereo, ordinandogli di sgomberare il suo
appartamento ma di lasciare il gatto.
I Queen salutarono la nuova decade con l’uscita del quindicesimo
singolo, Save Me, che si piazzò undicesimo nella classifica inglese. Nel
frattempo, la elvisiana Crazy Little Thing Called Love sedusse il resto del
mondo, regalando ai Queen la prima numero uno americana e
raggiungendo i vertici delle classifiche anche in Australia, Nuova Zelanda,
Messico, Canada e Olanda. La band si ritirò a Monaco per lavorare a un
nuovo album e alla colonna sonora di Flash Gordon.
A Londra nel frattempo Mary aveva trovato a Freddie la casa dei suoi
sogni. Quando lui ricevette per posta le specifiche di Garden Lodge in
Logan Place, una tranquilla via residenziale nel Royal Borough of
Kensington and Chelsea, poco distante dalla sua beneamata Kensington
High Street, si innamorò all’istante della dimora. Cinta da vecchie e nobili
mura sormontate da una ringhiera coperta di rampicanti, la casa offriva una
privacy quasi totale. Dalla strada si vedeva solo il tetto. L’edificio in stile
edoardiano aveva due piani e otto camere da letto e, al contrario di molte
altre nella zona, un giardino con grandi alberi. L’entrata era un anonimo
portoncino verde scuro; anni dopo sarebbe stato ricoperto di scritte dai fan
di tutto il mondo.
La casa apparteneva a una famiglia di banchieri, gli Hoare, e l’assonanza
fra quel cognome e il termine «puttana» (whore) fu subito notata da
Freddie, che prontamente la ribattezzò «Whore House» (bordello). Il prezzo
trattabile superava il mezzo milione di sterline. Freddie pagò in contanti
senza batter ciglio. Dato che nel tempo era stata suddivisa in due residenze
separate, Freddie iniziò una lunga ristrutturazione per riportare la dimora al
suo antico splendore. Sarebbero passati anni prima che potesse finalmente
chiamarla «casa mia», ma questo non gli impedì di vantarsene fin da subito.
«L’ho vista, mi sono innamorato e dopo mezz’ora era già mia», disse alla
giornalista Nina Myskow.
«Adesso è un cantiere. Voglio cambiare diverse cose. Forse ci entrerò tra
un anno. È una casa di campagna… in città. È molto appartata, con un
parco enorme, ma è nel centro di Londra. Una volta al mese mi viene
l’ispirazione e vado lì con l’architetto. Perché non tiriamo giù questo muro?
gli chiedo. Tutti sbuffano e l’architetto vorrebbe morire. L’altro giorno ero
ubriaco dopo un bel pranzetto e sono andato lì. In alto c’è un posto
bellissimo dove voglio farci una grande camera da letto. Sto buttando giù tre
stanze per fare una splendida suite. In quello stato, ho detto, ispirato:
‘Sarebbe bello mettere una cupola di vetro sopra la camera da letto’.
L’architetto è trasalito, ma poi è corso subito a prendere carta e penna. Non
ho ancora visto i disegni, ma li sta preparando.»
Sky apprese la notizia da un’intervista sul Daily Star. «Mi piace spendere,
spendere e spendere,» aveva confessato un gasatissimo Freddie. «Di recente
ho comprato casa. Adoro comprare pezzi di antiquariato da Sotheby’s e
Christie’s. A volte potrei andare da Cartier e comprarmi tutto il negozio.
Spesso le mie spese folli cominciano in modo semplice, come una donna che
esce solo per comprarsi un cappellino tanto per farsi tornare il buonumore.
A volte sono così stufo di tutto che voglio solo affogare nei soldi. Sono così
agitato che spendo, spendo, spendo. Poi torno a casa penso: Oddio, ma che
cosa ho comprato? Ma niente è sprecato, perché mi piace molto fare regali.»
Poi confessò a Ray Coleman del Daily Mirror: «Non amo la vita facile. Se
spendo tanto, devo continuare a guadagnare tanto. È così che mi
autostimolo. Bevo molto, fumo molto, mi piacciono i vini pregiati e la buona
cucina. Non mangerei mai più hamburger».
L’ossessione per la nuova casa era solo un altro modo per allontanare la
noia.
«È la peggior malattia del mondo», ammise. «Io corro intorno al mondo
come un pazzo, ma a volte penso che la vita non sia tutta lì: per giunta io mi
annoio, perché non riesco a star fermo per tanto tempo, divento nervoso.
«Ti abitui a cose diverse. I tuoi standard e le tue aspettative crescono. Se
sai che hai bisogno di intrattenimento costante, fai in modo di garantirtelo.
Quando racconto alle persone le cose che ho escogitato, restano allibite. Ma
sono fatto così, è il mio modo per divertirmi. Ecco perché non riesco a
starmene seduto a leggere un libro. Leggerò tutti i libri del mondo quando
quest’avventura sarà finita e non potrò più camminare. Può darsi che sia
solo ingordigia, ma sono un intrattenitore. Ce l’ho nel sangue... Sono solo
un attore come tanti, caro mio. Datemi un palcoscenico! Ma in un certo
senso ho creato un mostro, vero? E devo conviverci.»
Il sedicesimo singolo dei Queen, Play the Game, vide la luce il 30 maggio
1980. Le fan si offesero per l’immagine indurita ostentata nel video da un
Freddie con tanto di baffi. Molte bombardarono gli uffici dei Queen con
flaconi di smalto. Nonostante le proteste, il singolo si piazzò al
quattordicesimo posto in classifica.
Nell’estate del 1980 i Queen affrontarono una nuova ed epica tournée
americana di quarantotto date, che registrarono il tutto esaurito dalla prima
all’ultima. Poi il nono album della band, «The Game», uscì nel Regno
Unito. Stroncato dalla critica, scalò la classifica e arrivò in vetta. A
Vancouver i fan della band, che di solito lanciavano mutandine e fiori,
tirarono rasoi e lamette sul palco. Ma i baffi restarono dov’erano. Another
One Bites the Dust, composta e suonata quasi interamente da John Deacon,
che oltre al basso registrò anche le parti di pianoforte e chitarra (nota bene:
niente sintetizzatori; Roger aggiunse la batteria e Brian altri pezzi di chitarra
e armonizzatore) uscì ad agosto e andò dritta al primo posto in America,
restandoci per cinque settimane. Raggiunse il top anche in Argentina,
Guatemala, Messico e Spagna e la settima posizione nel Regno Unito. A oggi
è il singolo più venduto dei Queen: oltre sette milioni di copie. John disse
che quell’inconfondibile giro di basso era stato ispirato da Good Times, il
classico della disco music firmato dagli Chic.
«Freddie cantò fino a farsi venire il mal di gola», commentò Brian sulla
rivista Mojo. «La canzone gli piaceva tantissimo e voleva che fosse speciale.»
«The Game» fu il primo album dei Queen a raggiungere il primo posto
negli USA, superando ogni aspettativa. La mastodontica tournée americana
si concluse con quattro date al Madison Square Garden, mentre tutti erano
ancora sconvolti per l’improvvisa scomparsa del batterista dei Led Zeppelin.
John Bonham, che aveva solo trentadue anni, era morto soffocato dal suo
stesso vomito dopo avere ingollato quaranta bicchierini di vodka. La sua
morte distrusse una delle band preferite dei Queen.
Fu durante quella tournée che Freddie incontrò il suo «vichingo
personale», Thor Arnold. Infermiere di giorno e beniamino della scena gay
di Manhattan di notte, Arnold abitava vicino al Greenwich Village e aveva
abbordato Freddie in uno dei locali del quartiere. Sebbene la storia ebbe
vita breve, i due rimasero amici fino alla fine, soprattutto perché Arnold
non voleva nulla dal suo famoso amico. Se per esempio gli prendeva il
ticchio di salire su un aereo per fargli una sorpresa, si pagava il biglietto da
solo. Freddie apprezzava questi gesti e lo adorava per questo. E poi, tramite
Arnold, Freddie conobbe tre nuovi amici a Manhattan: Joe Scardilli, John
Murphy e Lee Nolan. I quattro furono presto ribattezzati le «figlie
newyorchesi», e ogni volta che era in città Freddie usciva con loro a far
baldoria.
A ottobre i Queen si concessero una breve vacanza, che però non fu
sufficiente a farli rilassare, a patto che ancora sapessero come farlo. Il
decimo album, la colonna sonora di Flash Gordon, non era ancora finito,
ma il singolo Flash era già pronto per il mercato. Mentre i quattro
preparavano un altro tour europeo, con tre date alla Wembley Arena,
furono raggiunti dalla notizia della morte di John Lennon, ucciso sulla
soglia di casa da un fanatico. Questo spinse tutte le persone famose a
prendere atto della propria vulnerabilità. C’erano altri pazzi in giro, come
John Hinckley Junior per esempio, ossessionato dall’attrice Jodie Foster e
che avrebbe tentato di uccidere il presidente Reagan nel 1981. I Queen non
avevano mai fatto particolare attenzione alla propria sicurezza, ma era
giunta l’ora di cambiare.
Come tributo per Lennon, suonarono Imagine alla Wembley Arena.
Anche se Freddie si dimenticò le parole e Brian gli accordi, il coro fu
intonato da una folla di spettatori ancora scioccati e affranti per la perdita.
Arrivò una valanga di premi: due nomination ai Grammy Award, per
«migliore produzione» («The Game»), e «miglior performance rock di un
duo o di un gruppo con cantato» per Another One Bites the Dust (persero;
vinse Bob Seger). Crazy Little Thing Called Love e Another One Bites the
Dust entrarono entrambi nei primi cinque singoli più venduti in America: il
secondo brano superò i tre milioni e mezzo di copie vendute. Verso fine
anno, mentre pianificavano un nuovo tour giapponese, i Queen tiravano le
somme. Avevano venduto oltre quarantacinque milioni di album e
venticinque milioni di singoli in tutto il mondo. Erano entrati nel Guinness
dei primati come gli amministratori d’azienda più remunerati e con se stessi
come principale patrimonio. Erano delle rockstar: che cosa potevano fare di
ancora più grande, migliore e innovativo?
16
Sud America
FREDDIE MERCURY
FRANCIS ROSSI
FREDDIE MERCURY
BARBARA V ALENTIN
FREDDIE MERCURY
Freddie era l’amore della mia vita. Era unico, non c’era
nessuno come lui. Diceva sempre che la vita va avanti. So che
quando morirò, sarà dall’altra parte ad aspettarmi.
JIM HUTTON
Alcuni mesi dopo, Barbara era in casa che si preparava per andare
all’inaugurazione del negozio di un amico, quando sentì suonare il
campanello.
«Maledizione, e adesso chi diavolo è?» disse. Poi pensò che fosse il taxi,
quindi gridò al citofono: «Arrivo! Arrivo!» ma non ci fu risposta. Pensando
che il portone fosse aperto, si precipitò di sotto. «Mi trovai davanti un uomo
e pensai: Oddio, qualcuno mi ha spedito un manichino di Freddie
Mercury.»
Non credeva ai suoi occhi.
«Pensavo: Oh no, oh sì… Credevo di avere un’allucinazione. L’uomo
aveva un mazzo di fiorellini bianchi e disse: ‘No, sono io!’ ‘Lo so, lo so’, ma
non volevo che fosse vero. Feci per spingerlo di lato, dovevo uscire, pensavo
che la mente mi stesse giocando un brutto tiro e quando lo toccai… Non
potevo reggere. Corsi all’inaugurazione, feci qualche foto con il titolare e un
paio di attori per la stampa. Poi tornai a casa e Freddie era ancora lì,
tranquillamente seduto sul sofà che giochicchiava col telecomando. Allora
crollai: lo abbracciai e piansi. Non riuscivamo a smettere di piangere.»
Ci vollero diverse settimane prima che Freddie trovasse le parole per
darle una spiegazione. Voleva troncare prima di partire, le disse. Voleva
cominciare una nuova vita. Aveva vietato a tutto il suo entourage di parlare
di Monaco o nominare Barbara.
«Un centinaio di amici erano morti di AIDS, oramai», racconta Barbara,
«e non potevamo parlarne. Disse che abbandonare la vita di Monaco e me
era stato come disintossicarsi dalla droga. Se sei dipendente e un giorno
decidi di smettere, dici ‘no’, tiri una riga netta e smetti. ‘Barbara, sono quasi
morto’, mi disse. ‘Quante volte ho preso in mano il telefono, ho fatto il tuo
numero e poi ho riattaccato…’
«Più avanti Phoebe mi disse che Freddie aveva fatto sparire tutte le mie
cose, tolto le mie foto dalla casa, vietato agli altri di parlare di me, buttato
via tutto ciò che gli ricordava Monaco. Voleva scappare da quel periodo di
follie, vivere un’esistenza più tranquilla, diversa e infine morire in bellezza.
Ma non riusciva a stare senza di me. Aveva paura della solitudine. Voleva
stare da solo e ci aveva provato, ma non ci era riuscito.»
Barbara e Freddie ripresero a frequentarsi, ma non ridivennero amanti.
Lei andò a trovarlo spesso a Garden Lodge e cominciò di nuovo ad
accompagnarlo in giro per il mondo.
«Jim aveva sostituito Winnie [dopo un rapporto altalenante durato circa
quattro anni ], ma con Barbara la faccenda era più complicata», ricorda
Peter. «Credo che Freddie ne avesse avuto abbastanza di quel periodo. La
stampa tedesca aveva iniziato a scrivere diverse cose su Freddie e Barbara e
lui si era convinto che fosse stata lei a informare i giornalisti. Secondo me
no, ma Freddie era convinto.»
Era possibile che qualcuno lo consigliasse male, qualcuno che voleva
eliminare Barbara dalla sua vita?
«E chi lo sa?» rispose Peter con un sospiro. «Io so solo che da allora in poi
il suo unico compagno è stato Jim. Poco dopo che Freddie si trasferì a
Garden Lodge, Jim fu sfrattato dal suo appartamento, quindi Freddie lo
invitò a stare da lui.»
«Io e Freddie non abbiamo mai parlato di quanto tempo eravamo rimasti
insieme», osserva Jim. «Lo eravamo e lo saremmo stati in futuro. Ogni tanto
mi chiedeva che cosa volessi dalla vita. ‘Amore e appagamento’, rispondevo.
E avevo trovato ambedue le cose in lui.»
Nel 1987, Freddie ricevette una diagnosi ufficiale, ma né lui, né la band
o il suo entourage avrebbero ammesso pubblicamente il fatto fino alla vigilia
della morte nel novembre del 1991. Lo disse a Jim, dandogli la possibilità di
andarsene, ma questi si rifiutò di abbandonarlo al suo destino. Decise di
restare con lui e la parola «AIDS» non fu mai più pronunciata. Più avanti,
nel 1990, Jim risultò sieropositivo, ma lo disse a Freddie solo un anno dopo.
Morì nel 2010 di cancro ai polmoni (e non di AIDS come si vociferò
all’epoca). Brian May confermò il fatto sul proprio sito web, scrivendo che
Jim era morto per una malattia legata al fumo.
Freddie non disse nulla al resto della band fino al maggio del 1989. Un
giorno invitò tutti, compagne comprese, a mangiare da Girardet a Crissier,
vicino a Losanna, all’epoca definito «il miglior ristorante al mondo». Furono
servite le portate migliori e stappate bottiglie pregiate: un conto da migliaia
di sterline, tutto a sue spese. Ma alla fine non disse nulla della malattia.
Forse la magnificenza del locale e la sua vista stupenda gli fecero mancare il
coraggio. Pochi giorni dopo, tuttavia, i presenti si ritrovarono tutti per una
cena più modesta al Bavaria, presso i Mountain Studios e Freddie si fece
forza.
«Qualcuno aveva il raffreddore e la conversazione si spostò sulle
malattie», ricorda Jim «Freddie stava ancora abbastanza bene a quel punto,
ma si arrotolò i pantaloni e appoggiò la gamba sulla sedia, mostrando a tutti
una lunga ferita sul polpaccio. Fu uno choc. ‘E voi pensate di avere un
problema!’ protestò, con quel suo modo tipicamente blasé. Nessuno disse
una parola, credo fossero tutti scioccati. Poi però lasciò perdere e parlammo
di altro.»
Brian raccontò lo stesso episodio in un recente documentario per la tv.
«Ripensandoci ora, sono certo che sapessero che Freddie era gravemente
malato, ma non sapevano che cosa dire», racconta Jim.
«Quando tornammo a Londra Freddie fece un’intervista per Radio 1 con
il DJ Mike Read. Lì dichiarò di non voler più andare in tournée. Disse che
aveva fatto la sua parte e che comunque stava diventando troppo vecchio
per fare ancora il buffone sul palco. In realtà era troppo debole. La stampa
ovviamente capì tutto il contrario e riferì che Freddie si rifiutava di andare
in tour, che il resto della band era contrariata eccetera; insomma, le solite
sciocchezze.»
Nulla di tutto ciò scalfì l’amore di Jim, anzi lo fece crescere ancor di più.
«Freddie era l’amore della mia vita», dice, riecheggiando in modo un po’
inquietante le parole di Barbara. «Non c’era nessun altro al mondo come
lui.»
Anche se visse con lui fino alla morte, Freddie non considerò la loro una
relazione «matrimoniale», almeno secondo Peter.
«Eravamo tutti molto importanti per lui. Certo Jim occupava un posto
speciale nel suo cuore. Persino ora mi sembra strano dirlo: Freddie aveva
avuto una relazione con Mary e con Joe, ma mai con me. Era incapace di
liberarsi dai sensi di colpa, per questo Joe e Mary era ancora lì intorno a lui.
Si sentiva responsabile per loro. Sentiva di aver loro rovinato la vita e che era
suo dovere prendersi cura di loro, come a volerli risarcire. Se ci pensi, è
ridicolo, ma Freddie era fatto così.»
A Garden Lodge convivevano permanentemente Peter, assistente e
cameriere personale; Jim, che si era licenziato dal Savoy per diventare il
giardiniere di Freddie; e Joe Fanelli, alias «Liza», l’ex amante tornato a fare
il cuoco. Lui e Freddie si erano incontrati in America e avevano avuto una
relazione corta ed esplosiva. Joe era vissuto per un po’ a casa di Freddie in
Stafford Terrace, nelle veci di cuoco e tuttofare, e di tanto in tanto si era
affiancato a Peter a Monaco. La sua relazione con Freddie aveva alternato
momenti di passione a lunghi periodi di distacco. Lo staff della casa
comprendeva anche due dipendenti non residenti: Terry Giddings, l’autista
e Mary Austin, tuttofare, che abitava in un appartamento poco distante. Fra
tutti, Mary era l’unica con cui Jim Hutton aveva qualche problema.
«Mary non mollava Freddie un attimo», osserva. Una convinzione a cui
fa eco Peter: «Secondo me non ha accettato mai il fatto che fra lei e Freddie
fosse finita. Per molti versi, lei dava la carica a Freddie. Non gliele dava
tutte vinte, era molto forte. In questo senso era proprio ciò di cui lui aveva
bisogno. Era come una madre per lui. Si fidava di lei e si appoggiava a lei. E
lei gli dirigeva la vita. È per questo che la loro relazione durava. Freddie
diceva sempre che persino quando stavano insieme erano più simili a un
fratello e una sorella. Molto tempo prima di avermi incontrato aveva detto
pubblicamente che avrebbe lasciato la maggior parte del suo patrimonio a
Mary. E se Freddie faceva una promessa, la manteneva. Non si rimangiava
la parola data».
19
Break Free
FREDDIE MERCURY
COSMO HALLSTROM
PAREVA che la vita personale fosse infine diventata una priorità per Freddie.
Ma se la sua ossessione per il lavoro era in declino, lo stesso non si poteva
dire per Brian, Roger e John. Il trio continuava a marciare imperterrito,
convocando il cantante quando necessario e liquidando con una risata le
voci che parlavano di un imminente scioglimento. La stampa ne approfittò
lo stesso, pubblicando articoli sulle loro presunte divisioni per tutto il 1983.
La realtà era che, logorati dalla vita in giro per il mondo, i quattro avevano
deciso di prendersi una pausa e dedicarsi a progetti solisti. «Credo che
ognuno di noi pensi spesso di lasciare i Queen», ammise Brian. «Ma
sappiamo tutti che, sebbene da soli potremmo fare di testa nostra,
perderemmo qualcosa, più di quel che potremmo guadagnare. Stare nel
gruppo è stimolante e non andare sempre d’accordo è un bene. Se ti separi,
perdi il tuo veicolo, che ha un preciso equilibrio di talenti e un nome con
cui le persone si identificano. Fare di testa tua non sempre ti rende felice
alla fine.»
«Pensavo che saremmo durati cinque anni, ma siamo arrivati al punto in
cui siamo troppo vecchi per separarci», disse Freddie. «Ti immagini formare
una nuova band a quarant’anni? Un po’ stupido, no?
«Arriverà un momento in cui ci sarà un consenso unanime o qualcosa
del genere, quando sentiremo istintivamente che i Queen sono arrivati alla
fine della corsa, che non ci resta più nulla da fare dal punto di vista creativo.
«L’ultima cosa che voglio fare è forzare le cose con i Queen. Preferisco
mollare quando siamo a un buon punto e fare qualcosa di completamente
diverso. Sono sicuro che anche gli altri la pensano così.
«Il motivo per cui ho bisogno di riposo è che sono troppo stanco del
business in generale. Ho deciso di prendermi una lunga pausa. Non credo
che ci scioglieremo mai. Sarebbe un atto di codardia. Suppongo che se le
persone non comprassero più i nostri dischi, la faremmo finita. E io me ne
andrei a fare lo spogliarellista o qualcos’altro!»
La decisione di rallentare un po’ i ritmi era arrivata dopo uno degli anni
più impegnativi per i Queen. Nell’aprile del 1982 la band aveva firmato un
altro contratto con la EMI per sei album, e poi si era imbarcata
nell’ennesimo tour europeo, che si era concluso, ovviamente, con un festino
erotico, un party in «mutande e giarrettiere» nella discoteca più rovente di
Londra: l’Embassy. «Hot Space», il loro decimo album in studio, uscì a
maggio. In seguito Brian espresse il proprio disappunto per quell’album
«disco», che fu stroncato negli USA. «Credo che ‘Hot Space’ sia stato un
errore, anche se solo in termini di tempistiche. C’eravamo appassionati
parecchio di funk. Era molto simile a quel che Michael Jackson avrebbe poi
fatto con Thriller. Solo il momento era sbagliato. ‘Disco’ era una parolaccia
allora.»
Ignorando per il momento il crollo della loro reputazione in America, i
Queen rilanciarono con un tour estivo che comprendeva due serate al
Madison Square Garden, uno dei loro posti preferiti per i concerti. A
Boston, il 23 luglio la band ricevette le chiavi della città dalle mani del
sindaco e la data fu dichiarata ufficialmente «Queen Day». Furono ospiti
dei programmi televisivi Saturday Night Live ed Entertainment Tonight. Poi
andarono in Giappone, accolti da un’altra dose di «Queenmania», quindi
Freddie si ritirò a New York. A novembre, la Elektra Records prese atto
delle vendite disastrose di Staying Power, l’ultimo singolo dei Queen per la
casa secondo il contratto in vigore. Rinegoziarne uno nuovo era una
faccenda complicata e costosa. Freddie inoltre era particolarmente scontento
della Elektra, soprattutto per come aveva gestito «Hot Space», e disse agli
altri di non voler fare un altro album per quell’etichetta. Il contratto copriva
anche Australia e Nuova Zelanda, dove i Queen pensavano di poter mietere
più successo. Dopo un’accesa discussione, i quattro si rifiutarono di
rinnovare anche il contratto «australe». Dato che nel frattempo era scaduto
anche l’accordo con la Elektra-Giappone, i Queen erano a un bivio. Sebbene
fossero riusciti a districarsi dagli obblighi americani, la libertà gli era costata
un milione di dollari. Beach negoziò un contratto solista per Freddie, per un
unico disco, con la CBS Records nel Regno Unito e la Columbia negli USA.
Nell’ottobre 1983, la band firmò con l’affiliata americana della EMI, la
Capitol.
Freddie continuò a elaborare le idee per l’album solista a Monaco,
assentandosi di tanto in tanto per andare a New York. Durante uno di quei
viaggi, fece tappa a Los Angeles per unirsi agli altri Queen che lavoravano a
un nuovo album e per far visita a Michael Jackson nella sua bizzarra
residenza in finto stile Tudor su Hayvenhurst Avenue, a Encino (prima di
Neverland). Una torre dominava l’entrata presieduta da guardiani e c’erano
lucine natalizie a ogni singola finestra. «È nostro amico da tempo», spiegò
Freddie. «Una volta veniva sempre a vedere i nostri concerti, ed è così che è
nata la nostra amicizia... Avrei potuto partecipare a Thriller. Pensa a quanti
diritti d’autore mi sono perso!»
Da tempo Michael e Freddie accarezzavano l’idea di collaborare a un
brano. Quella era la prima volta che si trovavano tutti e due nella stessa città
con un po’ di tempo libero a disposizione.
«Mi interessa sempre lavorare con altri musicisti, come Michael Jackson»,
disse in seguito. «Anche se mi preoccupa: tutti quei soldi e non un briciolo
di gusto, cari miei! Che spreco! Avevamo tre pezzi in saccoccia [There Must
Be More To Life Than This, che in seguito sarebbe comparsa sul primo
album solista di Freddie, Victory e State of Shock, che nel 1984 sarebbe stata
inclusa in «Victory», l’album del ritorno dei Jackson 5, cantata in duetto con
Mick Jagger], ma sfortunatamente non li abbiamo mai finiti. Erano delle
ottime canzoni, ma il problema era il tempo, dato che eravamo entrambi
molto occupati in quel periodo. Non ci siamo più trovati nello stesso Paese
abbastanza a lungo per finire il lavoro.
«Michael mi ha persino chiamato per chiedermi se potessi completare
State of Shock, ma non potevo perché avevo degli impegni con i Queen. L’ha
fatto Mick Jagger al posto mio. È un peccato, ma alla fine una canzone è
solo una canzone. È l’amicizia quel che conta.»
«Freddie registrò un paio di demo con Michael nel suo studio privato a
Encino», conferma Peter. «C’ero anch’io. Ho persino giocato ai videogiochi
con Michael. In uno dei pezzi, ci sono io che sbatto la porta del bagno,
perché faceva un suono simile alla grancassa. Gli impegni non hanno loro
mai permesso di coltivare la loro amicizia, ma si rispettavano e
riconoscevano il genio l’uno dell’altro.»
Può darsi che Freddie sia rimasto scoraggiato dall’eccessiva mania di
controllo del clan Jackson (pochi erano in grado di sopportarla), ma è anche
probabile che la collaborazione si sia interrotta per un’altra ragione, più
sinistra, che tempo dopo sarebbe stata svelata dalla stampa.
A Londra, nel maggio del 1983, Freddie appagò la sua passione per
l’opera lirica, andando a vedere Un Ballo in Maschera di Giuseppe Verdi
prodotto dalla Royal Opera House, il teatro lirico di Covent Garden. Le
stelle della serata erano il tenore Luciano Pavarotti e l’affascinante soprano
spagnola Montserrat Caballé, allora cinquantenne.
«Fino a quel momento Freddie aveva sempre amato i tenori», racconta
Peter. «Placido Domingo e Luciano Pavarotti erano i suoi preferiti. Avevo
un’enorme collezione di dischi di musica lirica e voleva imparare il più
possibile sull’opera. Un giorno gli dissi: ‘Okay, dici tanto che ti piace
Pavarotti. Tra poco canta alla Opera House: perché non ci andiamo?’ Disse
che era una splendida idea e mi chiese di prenotare subito i biglietti.
«Nel primo atto Pavarotti cantò un’aria e Freddie disse che era
meravigliosa. Nel secondo salì sul palco la prima donna, Montserrat. Dato
che Freddie era così preso da Pavarotti, non aveva fatto tanto caso agli altri
cantanti. Poi lei cominciò a cantare e patatrac: Freddie restò incantato. Si
dimenticò del tutto di Pavarotti. Da quel momento in poi vide solo lei.»
Freddie fu ipnotizzato in particolare dal famoso duetto d’amore tra il
focoso Riccardo e la splendida Amelia, una donna tormentata dai sensi di
colpa ma incapace di resistere alla passione. Era una condizione con cui si
identificava. Non riuscì a staccare gli occhi, e le orecchie, dalla potente,
seppur delicata, Caballé. Dopo lo spettacolo, non smise un attimo di parlare
di lei in toni estatici, decantando il suo «timbro limpido», la sua «versatilità
vocale» e la sua «tecnica impeccabile». «Ecco una vera cantante», ripeteva di
continuo.
«Se mi chiedessero di descrivere la persona più felice che abbia mai visto,
Freddie che sta per godersi Monserrat sul palco a Covent Garden sarebbe
sicuramente una di queste», disse Gambaccini.
«Ero in platea. Alla mia sinistra, in prima fila, nel posto migliore, c’era
Freddie con gli occhi pieni di meraviglia e di gioia. La mano sinistra protesa
verso il palco, la felicità dipinta in volto… come un bambino. Era una scena
fantastica e una prova del fatto che, a prescindere da quanto successo avesse
avuto, non aveva smesso di rispettare e ammirare i suoi artisti preferiti.
Anche le star hanno le loro star.»
Freddie non poteva sapere che di lì a poco avrebbe registrato un disco e
si sarebbe esibito con Monserrat, dando vita a uno dei duetti più
improbabili del firmamento musicale.
Ma gli altri Queen erano annoiati: non sopportavano tutti quei giorni di
riposo e relax. Scalpitavano per rimettersi al lavoro. Un tentativo di
comporre la colonna sonora per l’adattamento cinematografico del romanzo
di John Irving Hotel New Hampshire, con la regia di Tony Richardson e la
partecipazione di Rob Lowe e Jodie Foster, fallì quando risultò evidente che
il budget della pellicola non bastava per avere musiche composte da
superstar. Il progetto, però, li spinse a tornare in studio. Ritrovatisi alla
Record Plant di Los Angeles, i quattro iniziarono a mettere in cantiere un
nuovo album, «The Works».
Gli studi, famosi per le registrazioni di Jimi Hendrix e dei Velvet
Underground erano stati fondati a New York nel 1968. La succursale di Los
Angeles era diventata molto popolare durante gli anni Settanta, a mano a
mano che il mondo del pop e del rock si era spostato a ovest. Nel 1985, la
Record Plant si sarebbe poi trasferita a Hollywood, al posto dei famosi Radio
Recorders Studios (alias «Annex» Studios) che avevano visto Louis
Armstrong ed Elvis Presley suonare nelle loro sale, e due anni dopo
sarebbero stati acquisiti dalla Chrysalis Records per opera di Sir George
Martin, il produttore dei Beatles.
Eddie DeLena assistette Reinhold Mack durante la lavorazione di «The
Works». «Mack era una persona gentile e di poche parole», ricorda. «Più
avanti scoprii che era un vantaggio. Non si schierava mai e si teneva lontano
dai potenziali conflitti fra musicisti, manager e dirigenti dell’etichetta. Era
neutrale come la Svizzera, ecco perché nessuno litigava mai con lui.»
A parte il garbo e la mitezza di Mack, DeLena scoprì che lavorare con i
Queen era «come incidere quattro diversi album solisti». «Anziché
collaborare fin dall’inizio, ogni membro del gruppo arrivava con le proprie
idee, le elaborava e poi gli altri ci incidevano sopra le loro parti.» Non che
fosse un problema.
«I Queen erano fra i musicisti più dotati e gentili che potessi immaginare.
Quattro gentiluomini, tutti educati e ognuno diverso dall’altro. Roger Taylor
era affascinante e amava la vita mondana in generale, al contrario di Brian o
John. Brian era sveglio, gentilissimo e totalmente appassionato al mestiere,
nel quale eccelleva. Conosceva benissimo la composizione e la teoria
musicale: passava ore a sviluppare le sue parti in studio. John era introverso
e si teneva lontano dai riflettori. Passava meno tempo in studio rispetto agli
altri, ma quando c’era bisogno di lui, era sempre pronto e preciso.
«Freddie era chiaramente trasgressivo ed esagerato. La sua presenza
riempiva la stanza non appena entrava. Quando parlava, usava toni
drammatici e coloriti, con un timbro da attore teatrale. Lo stile operistico dei
Queen era in realtà un’appendice della personalità di Freddie. Era molto
dotato dal punto di vista vocale ed era un ottimo compositore. C’erano volte
in cui registravamo le parti vocali e quasi non facevi in tempo a cambiare
pista sul multitracce che lui già cantava la parte successiva con un complesso
arrangiamento armonico. Aveva già tutto l’arrangiamento in testa e cantava
ogni parte alla perfezione al primo colpo. Era difficile stargli dietro.»
Eddie trovò normale che Freddie girasse con un entourage di
omosessuali.
«In quel caso, amici e conoscenti di ‘Boystown’ [la zona gay di West
Hollywood]. Spesso si vantava delle sue avventure della sera precedente, ma
nessuno degli altri Queen si degnava di prestargli ascolto.»
I club preferiti di Freddie a Boystown erano The Motherlode, The Spike, e
The Eagle sul Santa Monica Boulevard. In una di quelle sortite Freddie finì
fra le braccia di Vince «il barista», che lavorava all’Eagle: un esemplare alto,
scuro, barbuto e grosso, e soprattutto indifferente al fatto che Freddie fosse
una rockstar di fama internazionale. Vince aveva una bella moto e Freddie
non sapeva resistere ai motociclisti. Presto i due divennero inseparabili, ma
quando il cantante gli chiese di seguirlo, Vince rispose di no. Ma non fu
certo il primo rifiuto che Freddie ricevette in questo senso.
«Tutti tranne Freddie avevano una guest list di amici che potevano
passare a trovarli in studio», racconta DeLena. «Erano lì per fare un disco
senza distrazioni. Si può solo presumere che in passato avessero fatto degli
‘studio party’ [DeLena si rifiuta di approfondire; possiamo solo
immaginare…] e che ne avessero avuto abbastanza.»
Una sera, però, lo studio dei Queen si trasformò in un megaevento
rock’n’roll.
«Rod Stewart era in fondo al corridoio, che registrava nello Studio A.
C’era pure Jeff Beck, nello Studio B. Tutti finirono nello Studio C, a
improvvisare insieme. Ci fu una scena eccezionale con Rod Stewart e
Freddie Mercury insieme al pianoforte, che cantavano un duetto
improvvisato sfottendosi a vicenda, in particolare sui loro attributi fisici, con
una comicità tipicamente inglese. Freddie derideva i capelli e il naso di Rod,
Rod rispondeva con qualcosa sui dentoni di Freddie. Esilarante. Piangevo
dal ridere mentre cercavo disperatamente di piazzare amplificatori e
microfoni, perché quel momento andava assolutamente registrato. Jeff Beck
e Brian May che suonavano insieme, Rod e Freddie che cantavano in
duetto, Carmine Appice e Roger Taylor che si alternavano alla batteria. Era
il caos, certo, ma quei nastri esistono da qualche parte. Il management dei
Queen si è subito assicurato che nessuno li sentisse per timore che qualche
copia finisse nelle mani sbagliate. Prelevarono le bobine dallo studio quella
sera stessa. Nemmeno io le ho mai ascoltate.»
Un altro momento memorabile durante la registrazione di «The Works»
fu la festa per il trentasettesimo compleanno di Freddie nell’enorme dimora
che aveva affittato a Stone Canyon Road, già appartenuta a Elizabeth
Taylor. Per l’occasione Freddie fece riempire la casa di gigli orientali dal
profumo inebriante. Decise poi che la sua vecchia fiamma Joe Fanelli si
sarebbe occupato della cucina, e lo fece arrivare da Londra. I due,
rappacificati, decisero il menu per la festa, con i piatti preferiti di Freddie,
fra cui l’insalata di pollo detta «dell’incoronazione» e i gamberoni alla
creola.
Le cameriere lesbiche in camicia bianca e pantaloni neri furono fornite
da una dirigente della Elektra, la cui amante era proprio la donna delle
pulizie della casa.
«Una scena maestosa, in mezzo ai lussureggianti giardini della tenuta»,
ricorda DeLena, che fu invitato alla festa insieme con Elton John, Rod
Stewart, Jeff Beck e John Reid. A parte questi, c’erano pochi volti noti fra il
centinaio di invitati, molti dei quali erano i cari, vecchi ‘anonimi amici’ di
Freddie. Il partner del festeggiato per la serata era Vince il barista.
«C’erano camerieri, baristi, maghi e musicisti classici», ricorda. Uno
spasso. La notte volò via finché mi resi conto che non c’entravo molto con
quelli rimasti»: DeLena era oramai uno dei pochi eterosessuali presenti.
Il primo singolo estratto dal nuovo album fu Radio Ga Ga, scritta da
Roger nel gennaio del 1984. In origine intitolata Radio Caca, pare per un
commento scatologico di Felix, il figlioletto di Roger (la cui madre,
Dominique, è francese), raggiunse la seconda posizione nel Regno Unito e
la prima in diciannove Paesi, rivelandosi una delle composizioni più
intelligenti dei Queen. Fra le righe del testo pop si leggeva una frecciata alle
emittenti radiofoniche, accusate di essersi vendute. La funzione e
l’immagine della radio era oramai diventata l’opposto di tutto ciò che un
tempo essa rappresentava. Quel disco epico aveva bisogno di immagini
altrettanto epiche che lo promuovessero. Prodotto da Scott Millaney e
diretto da David Mallet (che Freddie chiamava «Mallet B. DeMille») il
video comprendeva alcune scene di Metropolis, il capolavoro di fantascienza
di Fritz Lang del 1927, oltre a una panoramica di frammenti di video
precedenti come Bohemian Rhapsody e Flash. Con l’aiuto del fan club,
cinquecento discepoli discesero agli Shepperton Studios londinesi,
indossarono tute argentee e si disposero in fila, dove batterono le mani a
ritmo con il ritornello. La sequenza sarebbe stata poi adottata dai fan nei
concerti in tutto il mondo e sarebbe diventata un’immagine indelebile del
Live Aid. Radio Ga Ga fu il video più costoso dei Queen fino a quel
momento e uno dei loro progetti più ambiziosi.
«David e Freddie passarono ore a discutere idee», ricorda Millaney.
«‘Tesoro, vedi solo di superare Elton’, diceva Freddie. ‘Voglio il meglio’».
«Mandai il budget a Jim Beach e lui disse: ‘No, è troppo’. E io: ‘No, non
hai capito, questo è il budget di Freddie’.»
Millaney e Mallet crearono anche il controverso video per I Want to
Break Free, quello con i quattro Queen travestiti da donne e anche una
sequenza di balletto di quarantacinque secondi, ispirata dal Preludio al
pomeriggio di un fauno di Claude Debussy, in cui Freddie danzava con il
corpo di ballo del Royal Ballet.
«Freddie non stava nella pelle per l’eccitazione quando preparammo quel
video», ricorda Millaney. «‘Bene, tesoro, dobbiamo solo vestirci da donna e
io mi devo tagliare i baffi.’ Ma David gli disse: ‘No! Devi tenerli. È proprio
questo il punto!’ Freddie era il ritratto della felicità quando prenotammo il
Royal Ballet e lui poté danzare con loro per un giorno intero… anzi poté
persino rotolare su di loro!»
La truccatrice Carolyn Cowan, responsabile per il body painting sul corpo
dei ballerini, sviluppò una relazione così stretta con Freddie che fu
prenotata per diversi video successivi.
«Io non ero una normale truccatrice e Freddie non era una normale
rockstar – ammesso che esista una cosa del genere – per cui ci incontrammo
a metà strada», racconta.
«Eravamo tutti e due molto forti e io sapevo disinnescare la sua rabbia in
un attimo. In cambio Freddie si prendeva cura di me. Era una simbiosi, ci
piacevamo, per dirla in parole povere.
«Il camerino del trucco è un luogo sacro. Gli artisti si spogliano e ti
permettono di vederli come sono fatti davvero: ecco perché lì dentro ci
vuole un’enorme dose di fiducia. Ci metto poco a dipingere un corpo. Sono
veloce. Devi esserlo, altrimenti le persone prendono freddo, si annoiano,
perdono la pazienza; si ricordano di essere a disagio. Devi cogliere l’attimo e
andare avanti.
«Arrivai ai Limehouse Studios per I Want to Break Free e andai subito
d’accordo con tutti.
«All’epoca bevevo molto, oltre a tirare di coca e fumare canne, e questo
forse mi fu di aiuto (fu David Bowie a salvarla dalla dipendenza, nel 1991).
«Come Freddie, sono una dipendente per natura. Credo che lui lo capì
subito. Avevo i capelli lunghi, allora; somigliavo a Carlo II. Gonna corta,
stivali alti; ero aperta a qualsiasi esperienza. Ero in sintonia con l’eccentricità
della band.
«Li truccai tutti da donne, in stile Coronation Street, e il risultato fu
incredibile. Freddie aveva già un volto grandioso. Tutto funzionò quel
giorno. Dovetti anche fare le orecchie appuntite in cera dei ballerini. Ma
loro si comportavano così male che rovinavano di continuo il trucco e mi
toccava rifarlo. Nel frattempo Freddie diceva: ‘Preparami un’altra striscia di
coca, tesoro, ti prego!’ Era scandaloso. Facemmo fuori una quantità di droga
incredibile.
«Tieni a mente che stavamo inventando una nuova forma d’arte.
Eravamo sotto pressione per questo. Nonostante ciò andai d’accordo con la
band, nel suo insieme e singolarmente presi. Non si erano ancora stancati,
stufati, rotti le palle. Adoravano ancora la libertà e l’edonismo di
quell’ambiente. Era divertente. Freddie aveva una straordinaria energia
creativa e il miglior senso dell’umorismo che avessi mai visto.»
Tuttavia, come già ricordato, il video si sarebbe rivelato un ulteriore
chiodo sulla bara della reputazione dei Queen negli USA. I travestiti furono
ritenuti troppo estremi per MTV.
Negli anni Ottanta l’emittente esercitava un controllo tale sull’industria
della musica e sulla cultura popolare che la decisione di non trasmettere un
dato video aveva effetti devastanti. Il riferimento ironico alla soap opera
inglese Coronation Street non fu colto dai fan americani, che trovarono il
clip offensivo e incomprensibile. La band restò di sasso.
«Abbiamo fatto dei video strepitosi in passato», disse Roger, «e questa
volta abbiamo pensato che fosse ora di scherzare un po’. Volevamo far
vedere che non ci prendevamo troppo sul serio, che eravamo ancora capaci
di ridere di noi stessi. Credo che ce l’abbiamo fatta.»
«L’americano medio capì che forse Freddie era gay, e l’americano medio
era molto importante», spiega Brian Southall, ex giornalista e dirigente delle
pubbliche relazioni della EMI.
«Potevi sperimentare quanto volevi a New York e a Los Angeles, ma non
in Kansas...»
La band non si scusò e si rifiutò categoricamente di girare un video
alternativo per il mercato americano. L’orgoglio ebbe ancora una volta la
meglio, ma distrusse la loro reputazione in America.
«Break Free fu un problema», concorda Peter Paterno, l’avvocato
americano che nelle veci di presidente della Hollywood Records avrebbe
scritturato i Queen nel 1990.
«Minigonne e trucco offesero molta gente. E anche Radio Ga Ga: molte
emittenti americane se la presero a morte. Dicevano: Non passiamo la loro
musica se ci prendono in giro, perché dovremmo? Dal giorno alla notte i
Queen crollarono qui in America.»
«The Works» sarebbe arrivato a fatica al ventitreesimo posto negli USA e
Radio Ga Ga al sedicesimo.
«Inoltre», aggiunge Paterno, «oramai i Queen erano in contrasto con la
loro stessa immagine. Qui in America, all’epoca, il classico appassionato di
rock era un macho e non somigliava affatto a loro. Secondo me, facevano
ancora una musica stupenda. Ero un loro fan. Prendi Hammer to Fall, il
pezzo contro il nucleare di Brian May, che sarebbe finito sulla colonna
sonora di Highlander. È una canzone stupenda che non ha avuto alcun
successo qui. Niente di niente. Quello fu l’inizio della fine per i Queen in
America.»
La disputa della Capitol Records con i promotori discografici
indipendenti non contribuì a migliorare la situazione, così come lo strano
atteggiamento del manager personale di Freddie, Paul Prenter, che appariva
oramai l’unico responsabile delle trasgressioni sempre più eccessive del
cantante, vale a dire sesso con prostituti e droga. Secondo alcuni, Prenter
spingeva Freddie a raggiungere livelli via via più elevati di pericolo e
depravazione per soddisfare le proprie fantasie perversamente dissolute.
«Esercitava una pessima influenza su Freddie», commentò Roger, «e di
conseguenza su tutta la band.»
Ma né Freddie né i suoi amici potevano sapere fino a che punto il
rapporto con Prenter si sarebbe rivelato disastroso.
A febbraio, mentre la EMI preparava il lancio di «The Works», che,
nonostante la tiepida accoglienza americana, sarebbe diventato l’album di
maggiore successo dei Queen, la band partecipò al Festival di Sanremo in
compagnia dei Culture Club di Boy George, di Paul Young e di Bonnie
Tyler. Partecipare a un evento del genere, per artisti così affermati, era
ritenuto addirittura peggio di un fiasco, ma rappresentava anche
un’occasione per svagarsi un po’ sulla riviera ligure. E poi era anche una
mossa azzeccata dal punto di vista pubblicitario, nonostante Brian e Roger
fossero ai ferri corti.
Durante un’intervista a margine del festival, Freddie alzò il sipario sul
suo rapporto con Michael Jackson: «Io e Michael ci siamo allontanati un po’
da quando ha avuto grande successo con ‘Thriller’», confessò. «Si è ritirato
nel suo mondo. Due anni fa, ci divertivamo a girare insieme per locali, ma
ora se ne sta rintanato nella sua fortezza. È triste. Ha paura di essere
attaccato ed è paranoico su tutto.»
John e Roger affrontarono un tour promozionale con diversi
appuntamenti in Australia ed Estremo Oriente, prima di sparire per una
vacanza. Brian collaborò al nuovo album del rocker americano Billy Squier,
mentre Freddie tornò a Monaco per diverstirsi, fra una puntatina e l’altra in
studio per produrre il suo album solista.
A maggio i Queen si riunirono tutti a Montreux e cantarono in playback
davanti a quattrocento milioni di spettatori televisivi per il Rose d’Or
festival. Annunciarono anche una nuova tournée europea, che avrebbe
preso il via ad agosto. Poi Roger tornò a dedicarsi a un progetto solista, che
avrebbe prodotto un singolo e un album accolti con scherno dalla critica il
mese successivo. Freddie tornò di corsa a Monaco. A giugno, la band si
radunò a Londra e ricevette un premio Silver Clef per il suo «eccezionale
contributo alla musica britannica».
Luglio vide l’uscita del singolo It’s a Hard Life, che arrivò alla sesta
posizione nel Regno Unito; il terzo singolo tratto da «The Works» a entrare
nella Top Ten.
It’s a Hard Life riprendeva il tema metà tragico metà giocoso di Killer
Queen e Play the Game. Il primo verso e la melodia echeggiavano Vesti la
giubba, la famosa aria di Pagliacci di Ruggero Leoncavallo: «Ridi, Pagliaccio,
sul tuo amore infranto!» Forse Freddie pensò anche a Smokey Robinson
quando compose il pezzo. In Tears of a Clown («Lacrime di un pagliaccio»)
dall’album del 1967 «Make It Happen» dei Miracles, Robinson si paragona
ai pagliacci, che nascondono il dolore e la rabbia dietro i loro sorrisi vacui.
Già in precedenza Robinson aveva usato il paragone con i pagliacci tristi in
un pezzo scritto per Carolyn Crawford della Motown, My Smile Is Just a
Frown (Turned Upside Down) («Il mio sorriso è solo una fronte corrugata
(girata al contrario)». Richiamandosi a Play the Game e alla ricerca
infruttuosa del vero amore, in Hard Life Freddie descriveva il suo doloroso
dilemma personale. Aveva accumulato enormi ricchezze materiali, più di
quante avrebbe potuto sognare, ma questo non gli bastava. «Il denaro non
può comprarmi l’amore», (Money can’t buy me love) avevano cantato i
Beatles vent’anni prima sullo stesso tema. Come spiegò Paul McCartney:
«L’idea dietro quel pezzo è che tutte queste comodità vanno benissimo, ma
non possono darmi ciò che desidero davvero». Freddie imparò a sue spese
quanta verità vi fosse in quella frase.
Che il cantante si sentisse afflitto da una carenza affettiva non era un
segreto per gli amici più intimi, che negli anni l’avevano aiutato ad asciugare
le lacrime dopo una lunga serie di relazioni disastrose. Era evidente anche
per i fan, grazie alle numerose canzoni che il loro idolo aveva scritto
sull’argomento.
«I testi dei suoi brani rispecchiano la sua vita», osserva Frank Allen dei
Searchers. «I Want It All [‘Voglio tutto’], Somebody to Love [‘Qualcuno da
amare’], Don’t Stop Me Now [‘Non fermatemi adesso’], Who Wants to Live
Forever [‘Chi vuol vivere per sempre’] illustrano le sue speranze e i suoi
desideri. È normale che un compositore esprima la propria personalità nei
suoi testi, e più Freddie accettava la sua sessualità più si apriva con sincerità.
Credo che le relazioni con le donne lo facessero sentire più sicuro. Tutti
hanno un lato bisessuale, anche se pochi lo accettano. Il senso di colpa e le
conseguenze sono troppo grandi, persino in questi tempi cosiddetti ‘liberi’.»
Milioni di persone amavano Freddie, ma da lontano. Pochi gli erano
vicini. Quelli che lo erano e che erano stati ammessi nella sua cerchia di
amici personali avevano troppo bisogno di lui. La loro adorazione
riguardava più i loro desideri e i loro sogni che quelli di Freddie.
L’esuberanza e l’abbandono omosessuale erano depistaggi per celare al
mondo esterno un crescente sconforto interiore. Nel profondo del cuore
Freddie temeva che non avrebbe mai trovato la persona ideale, il suo
«qualcuno da amare», un altro motivo per cui restò aggrappato a Mary con
tanta tenacia.
Riferendosi proprio a It’s a Hard Life, brano a cui lavorò con Freddie
senza risparmiarsi, Brian dichiarò: «È una delle canzoni più belle che
Freddie abbia mai scritto. Arriva dritta dal cuore».
Il sontuoso videoclip del pezzo fu girato dal regista Tim Pope a Monaco e
lasciò la band delusa e confusa. Vi compaiono diversi amici di discoteca di
Freddie, inclusa Barbara Valentin, ma tutti appaiono evidentemente a
disagio nei panni di trovatori medievali. Il costume aderente e decorato con
decine di occhi di Freddie, un omaggio alla cantante osé francese de fin de
siècle Mistinguett, sollevò non poche perplessità oltreoceano. Così come una
misteriosa ferita alla gamba, abbastanza grave da richiedere un’ingessatura,
che il cantante dichiarò essere dovuta a un non meglio specificato
contrattempo in un bar del Triangolo delle Bermude.
I Queen volevano suonare in posti nuovi. Il Vaticano non gli era
concesso, i russi li avevano definiti «debosciati», mentre cinesi e coreani non
stavano al gioco. Accettando di fare dodici spettacoli al Super Bowl in Sud
Africa, nell’ottobre del 1984, i quattro si trovarono invischiati nella più
compromettente tempesta politica della loro carriera. Sun City era un’isola
nel deserto dedicata al divertimento, tipo Las Vegas, in parte finanziata dal
governo dell’apartheid. Per il mondo esterno era un insulto della minoranza
bianca nei confronti della popolazione nera che viveva nella povertà,
rinchiusa in squallidissimi ghetti. La British Musicians’ Union aveva imposto
ai propri membri il divieto di esibirsi in Sud Africa. L’atmosfera
antiapartheid sarebbe stata catturata dal supergruppo Artists Against
Apartheid, fondato da Steven Van Zandt (già membro della E Street Band
di Bruce Springsteen) con il singolo I Ain’t Gonna Play Sun City («Io non
suonerò a Sun City»), che vide la partecipazione di Miles Davis, Bob Dylan,
Ringo Starr e il figlio Zak Starkey, Lou Reed, Jackson Browne, Pat Benatar,
Peter Gabriel, Keith Richards e Ronnie Wood dei Rolling Stones. Quando
uscì, nel dicembre del 1985, il 45 giri non riscosse particolare successo in
America, ma fu una hit in Australia, in Canada e nel Regno Unito.
I Queen non si pentirono. «I Want to Break Free è diventata l’inno
ufficioso dell’African National Congress e Another One Bites the Dust è uno
dei brani più venduti fra la popolazione nera del Sud Africa», spiegò Roger.
Le polemiche, però, imperversarono lo stesso. Nel frattempo i Queen si
accinsero a partire per la tournée di «The Works», insieme con un quinto
membro alle tastiere, Spike Edney.
Erano quasi due anni che non si esibivano dal vivo, per cui furono
costretti a entrare in sala prove, sebbene quello non fosse certo il loro
passatempo preferito. Si ritrovarono in un hangar di Monaco, attrezzato di
tutto punto, con impianti e luci all’avanguardia.
«La primissima cosa che suonai con loro alle prove fu Tie Your Mother
Down», ricorda Edney. «Che andava bene, perché la suonavano da anni.
Poi Under Pressure. Quindi vollero provarne una delle nuove: I Want to
Break Free. Un pezzo abbastanza facile, diresti tu. Arrivammo alla prima
strofa, ci ingarbugliammo e ci fermammo. Mi resi conto che non l’avevano
mai fatta insieme dal vivo. Io avevo la partitura per cui dissi: Guardate, in
realtà fa così e così. John si mise dietro di me, poi anche Brian. E poi
Freddie: ‘Hai per caso anche le parole scritte lì, buon uomo?’ chiese. Li
avevo tutti intorno e pensai: Su Edney, andrà bene, puoi farcela.»
Durante la data al National Exhibition Centre di Birmingham, il leader
degli Spandau Ballet Tony Hadley incontrò il suo idolo Freddie Mercury
per la prima volta. Hadley aveva una voce così potente e versatile che era
stato paragonato al giovane Frank Sinatra. Non lo sapeva, ma Freddie era
un suo fan.
«La massoneria della Stima Reciproca», ricordò ridendo.
«Ero cresciuto con i dischi dei Queen e Freddie era il migliore frontman
del mondo. Morivo dalla voglia di conoscerlo. All’epoca ero abbastanza
famoso per ottenere accesso a qualsiasi backstage. Incontrammo i ragazzi,
che furono molto gentili e simpatici. Ci invitarono alla festa di fine concerto
in un albergo vicino. Ci andai con Leonie [la sua prima moglie]. C’era un
posto libero a fianco di Freddie e lui mi disse: ‘Vieni tesoro, vieni a sederti
vicino a me, caro’. Leonie andò a sedersi dall’altra parte del tavolo. Stavamo
chiacchierando quando all’improvviso arrivarono un paio di spogliarelliste
per intrattenere la troupe.
«Ho sempre pensato che i Queen si divertissero più degli altri.
Festeggiavano alla grande, facevano dischi meravigliosi, avevano più
personalità di chiunque altro. Persino John Deacon, che era il più
tranquillo.
«Quella sera parlai con Freddie dell’immagine pubblica e mi diede
qualche consiglio gratis: ‘Non scusarti mai per essere sul palco’, disse. ‘Mai
chiedere scusa. Il pubblico è venuto a vederti, quindi non importa se non sei
in forma per una sera. Devi guidare lo spettacolo in ogni caso.’ Avevo
ventitré o ventiquattro anni e cantavo in una band che andava abbastanza
bene. Lui era il re del rock. Avrebbe potuto ignorarmi, invece si dimostrò
entusiasta di trasmettermi la sua esperienza e le sue conoscenze. È stato
l’unico che l’ha fatto in vita mia e lo rispetto tantissimo per questo.»
«‘Tutti gli artisti sono afflitti da un senso di insicurezza’, mi disse. ‘Anche
tu?’ chiesi. ‘Soprattutto io’.»
Il concerto del 5 settembre a Wembley terminò con una festa per
cinquecento invitati nella discoteca Xenon per celebrare il trentottesimo
compleanno di Freddie. La torta era forse la più spettacolare di tutte: un
modellino di Rolls-Royce lungo un metro e mezzo. Quella settimana uscì il
ventiseiesimo singolo del gruppo, Hammer to Fall, in contemporanea con il
primo singolo di Freddie come solista, Love Kills, registrato per la riedizione
di Metropolis. Con nove album fra i primi duecento nel Regno Unito, a
ottobre i Queen e il loro entourage, inclusa Mary Austin e il suo nuovo
convivente Joe Burt (bassista della Tom Robinson Band), partirono per il
Sud Africa e il loro controverso appuntamento a Sun City. Durante il
concerto di apertura, però, Freddie perse la voce dopo un paio di canzoni; la
calura e la polvere del deserto avevano aggravato il suo vecchio problema
alla gola. Lo spettacolo fu cancellato, così come i cinque successivi. La band
riuscì a fare solamente gli altri sei concerti in programma.
Al ritorno a Londra, Brian e Roger andarono a difendere le proprie
posizioni alla Musicians’ Union.
«Non eravamo andati [in Sud Africa] a far baldoria», spiega Edney. «I
Queen avevano fatto un bel po’ di beneficenza laggiù, inclusa una raccolta
fondi per l’istituto Kutlawanong per bimbi sordociechi. Più avanti fecero
uscire uno speciale album dal vivo lì, donando tutti i diritti alla scuola.
Avevamo ricevuto un’accoglienza fantastica, per cui secondo me avevamo
fatto bene ad andarci. Nel giro di un paio di anni, la situazione politica
cambiò e tutti andarono a suonare in Sud Africa.»
Liquidati con una cospicua multa ed espulsi dall’organizzazione, i Queen
riuscirono almeno a ottenere che la sanzione fosse devoluta in beneficenza,
piuttosto che incassata dall’ente. Quel fiasco li avrebbe sbalorditi per anni.
«Siamo completamente contrari all’apartheid e a tutto ciò che
rappresenta», dichiarò Brian. «Ma abbiamo gettato un ponte. Abbiamo
incontrato musicisti di ogni colore, bianchi e neri. Ci hanno tutti accolto a
braccia aperte. Le uniche critiche sono arrivate da fuori del Sud Africa.»
Il tastierista ammette che i Queen avessero la reputazione di essere
incredibilmente arroganti.
«È vero. Erano arroganti. Ma era perché il più delle volte avevano
ragione. Secondo loro erano stati trattati ingiustamente agli inizi della loro
carriera, e questo aveva insegnato loro a fidarsi solo del proprio giudizio.
L’unico lato negativo della loro arroganza era che si trasmetteva anche ai
ranghi più bassi dell’organizzazione. I collaboratori erano arroganti a nome
loro, anche se non ne avevano alcun diritto. A volte diventavano abbastanza
insopportabili.»
Freddie tornò a Monaco e a dicembre la band produsse il suo primo
singolo natalizio: Thank God It’s Christmas. Quella parodia di un genere
trito e scontato era stata registrata a Londra e Freddie aveva aggiunto il
cantato in Germania. Non entrò nemmeno tra i primi venti nel Regno Unito
e non sarebbe comparso in nessun album dei Queen, ma li avrebbe
perseguitati ogni anno da allora in poi, finendo in ogni singola compilation
natalizia. Il grande successo di quella stagione, però, fu Do They Know It’s
Christmas? del Band Aid. Il loro appuntamento con la storia era oramai
all’orizzonte.
20
Live
FREDDIE MERCURY
La musica non è sempre ciò che suoni. È anche ciò che non
suoni. Freddie Mercury era almeno tre persone diverse: sul
palco, giù dal palco e in quella zona del crepuscolo che sta a
metà strada. Incarnava la sua musica. La sua performance
rifletteva ogni brano alla perfezione.
ROCK in Rio, «il più grande festival rock che il mondo abbia mai visto»: un
evento spettacolare in concomitanza con il capodanno del 1985, con la
partecipazione di Rod Stewart, Yes, Iron Maiden, Def Leppard, Ozzy
Osbourne, George Benson, James Taylor e alcuni degli artisti più rinomati
in Brasile. Un progetto vasto e ambizioso, perfetto per le ambizioni dei
Queen. Il fatto che fosse organizzato dal loro fedele tour manager Gerry
Stickells, soprannominato «zio brontolone», e che la band sarebbe stata
l’ospite di punta dell’evento, sigillò l’accordo. Domenica 6 gennaio, i Queen
partirono ancora una volta per il Sud America.
L’entourage personale di Freddie comprendeva Mary Austin, Barbara
Valentin, Peter Freestone, Paul Prenter e una guardia del corpo. Circa
trecentomila fan si misero in viaggio in un caldo opprimente per assistere al
più grande evento rock di tutti i tempi.
Spike Edney aveva già fatto dei concerti di una certa dimensione, ma
nulla come Rio. «Sapevo che il precedente tour dei Queen in Sud America
era stato pionieristico, ma Rio prometteva di essere l’evento più grandioso
nella storia del rock.»
Ma la cosa che il tastierista si ricorda di più di quel periodo, era la pena
che provò nei confronti di Freddie.
«In Sud America era oramai diventato una star colossale. Era una
divinità. In Argentina Love of My Life era rimasta al primo posto per
un’eternità… era la loro Stairway to Heaven. Di conseguenza, laggiù
Freddie era come un prigioniero: non poteva andare da nessuna parte,
nemmeno con una scorta armata. Era penoso. Una volta o due riuscì a
svignarsela, ma non ne valeva la pena.»
Secondo Edney, la popolarità di Freddie in Sud America era dovuta in
parte al suo look.
«Qualcuno mi spiegò che tagliandosi i capelli e facendosi crescere i baffi,
aveva incarnato la quintessenza del maschio sudamericano; era diventato
una sorta di Clark Gable latino. Forse è anche per questo che lo adoravano
così tanto.»
La costruzione del «rockodromo» Barra da Tijuca era durata mesi e il
complesso comprendeva un gigantesco palcoscenico a forma di semicerchio
con due enormi fontane ai lati, che durante l’evento i fan usarono per
lavarsi, dato che una pioggia torrenziale trasformò il campo in un lago di
fango. Furono erette enormi tribune per la stampa, complete di linee
telefoniche internazionali e apparecchiature per trasmettere le fotografie,
destinate alle migliaia di giornalisti e fotografi che documentarono l’evento.
La sera, enormi riflettori fendevano il cielo, come in una première
hollywoodiana. L’eliporto appositamente costruito si rivelò una necessità
logistica piuttosto che un lusso, perché non c’era altro modo per raggiungere
il palcoscenico: tutte le strade che portavano al rockodromo erano intasate.
Freddie dovette accantonare la sua paura di volare.
La prima sera, i Queen dovevano esibirsi dopo gli Iron Maiden, ma
erano due ore in ritardo.
«Non ricordo più perché», rimugina Edney, «forse un normale ritardo
generale.»
Alla fine salirono sul palco alle due del mattino, quando oramai il
pubblico era in sommossa.
«Jim Beach mi fece arrivare vicino a lato-palco quando toccava ai
Queen», ricorda Peter Hillmore, che seguì l’evento per il quotidiano inglese
Observer.
«Guardai fuori e vidi quel pubblico immenso. ‘Come ci si sente là fuori?’
domandai a Brian. ‘Va’ a vedere da te’, rispose.
«Lo feci: decine di migliaia di facce che mi fissavano e che urlavano
perché volevano i Queen. Capii il potere che aveva Freddie Mercury, ebbi
un piccolo assaggio di quel che significava avere davanti trecentomila
persone che non aspettano altro che tu apra bocca e canti. Ebbi paura,
perché io non sapevo fare nulla. Poi i Queen salirono con calma sul palco e
si accinsero a suonare. C’erano roadie che correvano a destra e sinistra,
nessuno fece caso a me. Tornai di lato.
«In quel preciso momento sentii che più di ogni altra cosa al mondo avrei
voluto essere uno dei Queen. Avrei voluto essere Freddie Mercury. Alzava
la mano e il pubblico cantava con lui, la abbassava e tutti stavano zitti, solo
perché l’aveva deciso lui. Un potere incredibile, come un reattore nucleare
che spacca l’atomo.»
Freddie era soprannaturale, pensò Hillmore.
«Ai semafori la gente saltava fuori dalla macchina, sbavava sulla sua
limousine dicendo: ‘Freddie, ti amo, sei Dio!’ Lui e i Queen avevano dietro
di sé un’organizzazione enorme, che costava una fortuna: il suo unico scopo
era permettere ai quattro di essere comodi ovunque andassero, prima
ancora di fare anche solo un giorno di lavoro. Non dovevano nemmeno
disfarsi le valigie da soli. Mai preoccuparsi di bagaglio in eccesso, o di dover
fare la coda al check in o al duty free. Per loro solo salette VIP e voli in
prima classe, con un assistente pronto a soddisfare qualsiasi capriccio. Per
questo Freddie non poteva avere una vita privata. Una vita del genere
minerebbe la stabilità di chiunque, anche della persona più normale del
mondo.»
La storia dei «fischi brasiliani» a Freddie, fu in realtà un’esagerazione
della stampa. Quando salì sul palco vestito da donna, come nel video di
Break Free, il cantante fu sorpreso dalla reazione del pubblico, che bersagliò
il palco lanciando pietre, lattine e altri oggetti. Freddie pensò che fosse una
protesta per il suo abbigliamento. Quando un pezzo di cartone lo colpì in
pieno, Brian indietreggiò e si piazzò a fianco della batteria di Roger.
Freddie, invece, restò dov’era, con aria di sfida e fece l’errore di perdere le
staffe. Fraintendendo la reazione degli spettatori, prese a schernirli. Una
serie di giornalisti riferirono che, siccome in Brasile il brano era diventato
un inno contro la dittatura, il pubblico si era offeso nel vederlo presentato
da un travestito, e si era infuriato.
Dave Hogan, che fotografò l’evento per You, la rivista del Mail on
Sunday, invece descrisse l’intera faccenda come «un equivoco madornale».
«Di solito nei concerti di quelle dimensioni i fan si accalcano per arrivare
sotto il palco, ma in quell’occasione gli organizzatori ne avevano eretto uno
così alto che chi era immediatamente sotto non riusciva a vedere cosa
accadeva sopra. Non si riusciva a vedere niente di quel che succedeva sul
palco. Alcuni allora cercarono di salire sulle transenne, ma gli addetti alla
sicurezza li respinsero indietro picchiandoli sulle mani. A quel punto
Freddie uscì con parrucca e tette finte, proprio mentre i fan si
arrampicavano sulle spalle di quelli davanti a loro per vedere qualcosa. Le
guardie li attaccarono e loro reagirono con una sassaiola. Nessuno voleva
tirare una pietra a Freddie, al contrario, lo adoravano. Ma fu scritto che i
fan fischiarono Freddie e gli tirarono di tutto perché si era travestito.
Chiamiamolo ‘giornalismo creativo’, da parte di reporter in cerca di un facile
scoop. Va bene… Freddie, devo dire, fece la sua solita performance e fece
furore. Non gli tirarono pietre, posso testimoniarlo personalmente: ero
proprio lì di fronte a lui. Ma perché lasciare che la verità rovini un’ottima
storia?»
Installato in grande stile nella suite presidenziale del Copacabana Palace
di Rio, Freddie teneva banco.
«In quella suite erano passati tutti i presidenti americani», ricorda Wigg.
«Freddie mi invitò a bere qualcosa. Quel giorno pioveva molto e c’era fango
ovunque, ma il motto di Freddie era: ‘Lo spettacolo deve continuare’. Poi mi
invitò a cena. C’era anche Mary Austin, seduta alla sua sinistra, come
sempre. Alla destra c’era invece il suo fidanzato del momento. Poi
andammo in discoteca (l’Alaska, all’epoca la discoteca gay più famosa di
Rio). Tirammo fino alle quattro del mattino. Dovevo scrivere il mio articolo
per l’Express, per cui decisi di andare in albergo a dormire un po’. Mi
avvicinai a Freddie per congratularmi e ringraziarlo prima di andarmene.
‘Dove vai?’ mi chiese. ‘Torno in albergo a piedi’, gli dissi. ‘Assolutamente
no!’ rispose. Schioccò le dita: ‘Steve! Accompagna David con la mia
macchina e non lasciarlo fuori dell’albergo: accompagnalo dentro.’ Freddie
era gentile, sensibile e premuroso. Tutta la sua famiglia era così, i genitori, la
sorella, tutti. Era un vero signore inglese vecchio stampo, una cosa insolita
per una rockstar.»
Paul Prenter aveva l’incarico, assai discutibile, di scegliere gli uomini per i
festini di Freddie. Pochi rifiutavano l’invito a «raggiungere Freddie Mercury
nella sua suite personale per una festa privata». La maggior parte dei
testimoni concorda nell’affermare che il compito di Prenter aveva assunto
una dimensione assai squallida. Non solo il manager era responsabile per
trovare nuovi «talenti» – di solito giovani prostituti conosciuti come «taxi
boys» – ma anche per procurare alcolici e cocaina in grandi quantità.
Uno di questi taxi boy era Patricio, un ebreo biondo e con gli occhi
azzurri, che partecipò a quegli incontri privati in diverse occasioni.
Trasferitosi da Buenos Aires a Rio per tentare la carriera drammatica,
Patricio era caduto nel mondo della prostituzione a causa della povertà e
della miseria. Nella sua vita avrebbe poi compiuto un ultimo viaggio
significativo, in Israele, per morire di AIDS. Patricio ammise di avere avuto
diversi rapporti sessuali con Freddie.
«I prescelti raggiungevano Freddie nella sua lussuosissima suite, con vista
sulla piscina», racconta.
«Prima bevevamo qualcosa, poi tiravamo un po’ di coca; c’era un tavolino
basso con le strisce già pronte. Quindi ci toglievamo i vestiti ed entravamo
nella camera di Freddie, dove lui ci accoglieva indossando solo una
vestaglia. Paul [Prenter] invece restava sempre vestito. Freddie faceva sesso
con ognuno di noi a turno, davanti agli altri. Quando era stanco, Prenter ci
pagava e ci diceva di andarcene. Freddie era sempre passivo. Quando
cominci a essere gay di solito sei attivo, ma più diventi popolare e tutti
vogliono andare a letto con te, più ti piace fare il passivo, visto che è il modo
più semplice per divertirsi. Fare l’uomo è faticoso. La maggior parte dei gay
alla fine preferisce fare la donna.»
Freddie era diventato dipendente dal sesso occasionale. Secondo
Patricio, la maggior parte delle volte la star non si eccitava nemmeno. Più
loro si scatenavano, più lui restava impassibile.
«Sembrava che non si divertisse nemmeno, che lo facesse solo così, tanto
per fare.»
A Rio ci furono molti festini del genere, che si conclusero tutti allo stesso
modo. La ricerca di stimoli sempre nuovi aveva portato Freddie a
raggiungere eccessi che nemmeno lui riusciva più a gestire, come se
ricercasse la trasgressione fine a se stessa. Questo provava una sola cosa: era
stufo. Poteva avere tutto ciò che il denaro può comprare, ma il piacere lo
eludeva sempre più. Il sesso senza amore non lo eccitava più. Difficile
credere che non si disprezzasse per quei suoi vizi, che oramai lo
dominavano. Ma non riusciva a smettere. Prima o poi sarebbe successo
qualcosa. «Quando c’erano sia Paul sia Barbara in giro», confessa Peter,
«diventava una gara a chi trasgrediva di più, fino all’esaurimento. Freddie
aveva già perso interesse da tempo, ma era troppo cortese per chiedere ai
due di smettere. Si era divertito tantissimo a fare quelle cose prima, e
ovviamente loro si aspettavano che continuasse.»
Il 12 gennaio ci fu una grande festa al Copacabana Beach Hotel. Fu un
evento molto movimentato che venne trasmesso in televisione in tutto il
Sud America. Persino Brian, di solito più moderato, finì a mollo in piscina.
Il 19 gennaio la band salì di nuovo sul palco per chiudere il festival. I Queen
avevano di nuovo fatto la storia, e non per l’ultima volta.
Il 5 aprile la band andò in Nuova Zelanda per cominciare una tournée
australe. Furono accolti da manifestanti antiapartheid, ancora infuriati per
la loro esibizione a Sun City, che inscenarono proteste all’aeroporto e
all’esterno dell’albergo. Freddie quasi non ci fece caso, preoccupato com’era
per l’uscita nel Regno Unito del suo secondo singolo da solista, estratto dal
suo primo album, che secondo molti commentatori non avrebbe mai visto la
luce. Il brano si piazzò all’undicesimo posto, ma fu un fiasco totale in
America. Tutti e quattro i Queen furono costretti a guardare in faccia la loro
maggiore paura: il loro regno negli Stati Uniti era tramontato.
Il tour neozelandese fu segnato da altri problemi, sotto forma di Tony
Hadley. Poco prima, gli Spandau Ballet avevano completato un tour di due
mesi in Europa e si accingevano a farne un altro in Oceania. A causa di
alcuni problemi con il promoter, però le date neozelandesi erano state
cancellate, causando dissapori con alcuni personaggi del posto per i mancati
introiti. Il manager di Tony Hadley gli aveva ordinato di tenere un profilo
basso. Non era una cosa facile per lui, soprattutto quando in città c’era
anche il suo vecchio compagno di sbronze.
«In pochissime occasioni Freddie salì sul palco ubriaco», racconta Edney.
«La prima data in Nuova Zelanda fu una di queste, dopo un pomeriggio
assurdo passato con Tony Hadley.» Tony aveva pensato di fare
un’improvvisata. «Prenotai una camera nel loro stesso albergo, andai a
trovarli al sound check, li salutai e poi io e Freddie tornammo insieme in
hotel. Ci fermammo al bar per bere qualcosa. Poi Freddie disse:
‘Prendiamoci una Stolichnaya’. Restammo lì a bere e a risolvere i problemi
dell’universo, e a scambiarci aneddoti sul mondo della musica, e finimmo la
bottiglia. Liscia. Allora disse: ‘Su, dai tesoro, in camera mia. Ho una bottiglia
di porto d’annata’.
«A quel punto eravamo già tutti e due ubriachi. E Freddie disse: ‘Devi
salire sul palco con me stasera’. ‘Non voglio intromettermi’, gli risposi, anche
se ero pronto a farlo. ‘No no no’, insistette, ‘faremo furore.’ Prese il telefono
e chiamò Roger e John. ‘Tony viene sul palco con noi stasera, va bene,
tesoro? Bene.’ A loro stava bene. ‘L’unico problema potrebbe essere Brian’,
mi confidò. ‘Fa sempre un po’ il difficile per queste cose.’ Così lo chiamò e,
diventando molto diplomatico, gli disse: ‘Brian, tesoro. Tony viene sul palco
con noi stasera e facciamo Jailhouse Rock, ti va bene?’ Poi a me: ‘Tony,
amore, Brian ci sta, gli va benissimo’. A quel punto mi venne in mente che
non sapevo le parole della canzone. ‘Non la so, amico mio’, gli dissi. ‘Non ti
preoccupare... e che cazzo, nemmeno io la so!’»
I due cantanti ubriachi cercarono di ricordare le parole del brano. Per
metà tirarono a indovinare, e per metà le inventarono di sana pianta. Poi
Tony andò a riposare un po’.
«Quella sera andai al concerto e tutti mi dicevano: ‘Ma che diavolo hai
fatto a Freddie! È ubriaco fradicio’. ‘Be’, risposi, ‘abbiamo bevuto come due
spugne.’ Mi guardarono tutti malissimo. ‘Ma Freddie non beve mai prima
dei concerti!’ disse qualcuno.»
Mai si era faticato così tanto per preparare Freddie a salire sul palco.
«All’epoca erano di moda gli stivaletti da boxe della Adidas con i lacci
lunghissimi, perché erano comodi e perfetti per correre e saltare sul palco»,
racconta Edney. «Quella sera, Freddie era spaparanzato sul sofà nel
backstage. Tony Williams, uno degli assistenti del guardaroba, e Joe Fanelli
lo stavano vestendo, perché lui era troppo ubriaco per farcela da solo. Gli
misero i pantaloni e poi gli stivaletti, ma quando si alzò e fece per
camminare, non ci riuscì. Sentimmo l’annuncio: «Comincia il nastro!» A
quel punto dovresti trovarti di fianco al palco. Freddie disse: «Brutte teste di
cazzo, mi avete messo la calzamaglia al contrario! Un attimo dopo era steso
a terra come uno scarafaggio con le gambe per aria, con Tony e Joe
agitatissimi che cercavano di togliergli gli stivaletti. Alla fine riuscirono a
rivestirlo nel modo giusto e ci precipitammo tutti di sotto. Il nastro di
introduzione era finito e il palco era già pieno di fumo. Arrivammo in
tempo per un soffio.
«Freddie, poveraccio, era così fuori che pensavo crollasse», aggiunge
Edney. «Per la prima mezz’ora improvvisò, inventandosi le parole, cantando
qualsiasi stronzata gli venisse in mente. Roger teneva gli occhi bassi, non
riusciva a guardare nessuno. Brian era furioso e aveva scritto in fronte: ‘Che
cazzo succede?’ A metà concerto circa, Freddie si riprese un po’, dopodiché
tutto filò liscio, alla perfezione – incredibile – almeno finché arrivò Tony
Hadley.»
Con le orecchie che ancora gli bruciavano per la sfuriata del suo manager
(altro che tenere un profilo basso…), Tony non vedeva l’ora di risollevarsi il
morale cantando davanti a un pubblico.
«Ero a lato del palco, che cercavo ancora di ricordarmi le parole di
Jailhouse Rock», racconta ridendo. «Freddie venne verso di me e si spalmò
sul pianoforte di Spike, sibilando: «Hadley, bastardo, sono ubriaco marcio»,
di fronte a quarantacinquemila persone. E poi eccomi lì a biascicare fra me e
me come un idiota, con qualche parola scarabocchiata sulla mano:
‘wardens... county jail... party... jailhouse... rock’. Non riuscivo a ficcarmi le
parole in testa. A un certo punto Freddie disse: ‘Signori e signore, ecco a voi
mister Tony Hadley!’ La folla impazzì, io corsi fuori e attaccai il pezzo «a
bop-bop alum bop» di Tutti Frutti. Avevo sbagliato canzone! Con Freddie
che faceva: ‘Yeah! All right!’ e Brian che mi guardava come a dire: Che
cazzo fai? Tutti gli altri si pisciavano addosso dal ridere. Io e Freddie ce ne
fregammo. Ci andammo giù di brutto, simulando un coito con la chitarra di
Brian mentre lui suonava; facemmo di tutto...»
Le date di Melbourne furono tranquille al confronto. Quattro sere al
Sydney Entertainment Centre verso la fine di aprile (seguite poi da sei
concerti in Giappone) furono rallegrate dalla presenza di Elton John in città.
Freddie, Elton e Roger non persero tempo e uscirono a far baldoria per
festeggiare in anticipo l’album solista di Freddie.
«Solo Freddie Mercury mi superava quando si trattava di far festa, e
questo la dice lunga», commenta Elton John. «Siamo stati svegli notti intere,
ancora su di giri alle undici del mattino. Magari i Queen dovevano prendere
un aereo e Freddie diceva: ‘O che cazzo, ci facciamo un’altra striscia?’ Era
insaziabile.»
Il concerto finale della band a Sydney coincise con l’uscita di «Mr. Bad
Guy». Anche in questo caso Freddie aveva riversato i suoi sentimenti più
intimi nei brani dell’album, che rappresentava una netta frattura dal suono
originale dei Queen. I brani più rivelatori erano Living On My Own
(«Vivere da solo»), There Must Be More To Life Than This («La vita non
può ridursi a questo») e la malinconica ballata Love Me Like There’s No
Tomorrow («Amami come se non ci fosse un domani»), scritta per Barbara.
L’album arrivò al sesto posto nel Regno Unito, ma fu comunque un disastro
in America. Il singolo I Was Born to Love You, non andò tanto male, ma
Made in Heaven non mosse nemmeno i primi passi, nonostante un video
pomposo e accattivante diretto da David Mallet. Presentato come un
balletto su un palcoscenico teatrale, il videoclip mostrava Freddie, con
indosso un abito bondage di pelle rossa e nera e una sottile mantellina
rossa, in cima a un’enorme roccia. I ballerini in abiti succinti si
arrampicavano sul masso e sui propri compagni per raggiungerlo, finché
questo si spaccava rivelando il pianeta Terra.
Terminata la tournée, Brian restò in Australia con la famiglia per una
vacanza, John e Roger ripararono nella nuova casa di quest’ultimo a Ibiza, e
Freddie andò dritto a Monaco, per ulteriori feste e trasgressioni con i suoi
amanti.
Grazie a Dio arrivò il Live Aid.
Voglio andare dove non sono mai stato prima. Per me sono le
persone che contano. La musica dovrebbe viaggiare in tutto il
mondo. Voglio andare in Russia e in Cina e in luoghi che non
ho mai visto, prima che sia troppo tardi, prima che finisca su
una sedia a rotelle e non possa più far nulla. Continuerò a
mettermi la calzamaglia, però! Già mi immagino che mi
spingono sul palco sulla sedia a rotelle fino al pianoforte, dove
attacco Bohemian Rhapsody.
FREDDIE MERCURY
PETER HILLMORE
FREDDIE MERCURY
«Non posso più continuare così come ho fatto finora», dichiarò Freddie
nell’agosto del 1986, dopo quello che si sarebbe rivelato l’ultimo concerto
con i Queen.
«È troppo. Sono troppo grande per fare queste cose. Ho già smesso di far
baldoria non perché sono malato, ma perché sto invecchiando, non sono
più un ragazzino. Preferisco passare le mie serate a casa. Sono cresciuto.»
Continuò a intrattenere il pubblico, ma soprattutto fra le pareti di casa.
Festeggiò i quarant’anni in maniera assai modesta per i suoi standard, con
una festa a tema («Cappello matto») in giardino per duecento ospiti.
La costumista Diana Moseley preparò una serie di eccentrici copricapi
per Freddie. Lui ne scelse uno di pelliccia bianca con le antenne da
marziano.
«Fu una festa molto composta per i suoi standard, ma bella comunque»,
ricorda Tony Hadley, che partecipò, con Tim Rice, Elaine Paige, Dave Clark,
il comico Mel Smith, l’attrice Anita Dobson, Brian, Roger e John.
«Freddie volle portarmi di sopra e mostrarmi la moquette che aveva fatto
fare apposta per la sua camera da letto», ricorda Tony. «Non aveva
giunture, avevano usato un telaio enorme. C’era un simbolo enorme, tipo
una stella di Davide. Era orgogliosissimo di quella moquette, da non
crederci.»
«Freddie era molto rispettabile e molto british nelle faccende
domestiche», rivela Jim.
«Ricordo una domenica che i genitori dovevano venire a pranzo e
Freddie stava praticamente avendo un esaurimento nervoso. Era tutta la
mattina che entrava e usciva dalla cucina, agitandosi per il cibo. Una
chioccia, ti dico. La tavola volle prepararla da solo. Era importante per lui:
coltelli e forchette dovevano essere perfettamente allineati con quelli di
fronte, e le tovagliette dovevano essere assolutamente dritte. Era un
perfezionista assoluto.»
Nonostante il personale fosse ufficialmente lì per servirlo, non c’erano
gerarchie né intrighi a Garden Lodge. Tutti ricevevano lo stesso trattamento
e dovevano rispettare un’unica regola. «Non potevi invitare nessuno»,
spiega Jim. «Niente amici, niente amanti. Era il dominio di Freddie. La
sicurezza era di fondamentale importanza. A parte questo, eravamo più
simili a un gruppo di amici che condividono una casa. Era una situazione
equilibrata, il più delle volte. Joe il cuoco la faceva sempre franca. Era molto
dolce, ma in certi momenti faceva i capricci. Freddie si arrabbiava piuttosto
spesso, ma non era autoritario, non faceva il padrone. Non ti faceva pesare
la sua posizione né ci dava ordini. Era una situazione molto più tranquilla e
alla mano. Spesso mangiavamo tutti insieme, ‘in famiglia’, ma il più delle
volte eravamo solo io e Freddie. Non credo che gli altri covassero del
risentimento nei miei confronti. Ognuno aveva la sua stanza, inclusa
Barbara: lei dormiva in quella che era stata camera mia prima che arrivasse.
Più avanti, quando io e Freddie non dormivamo più insieme, mi ritrasferii
lì. Non c’erano favoritismi. Ogni volta che Freddie invitava qualche amico a
bere qualcosa, eravamo tutti inclusi nell’invito. Per tutti noi Garden Lodge
era ‘casa’.»
Nonostante il divertimento, le feste e i viaggi che i due condivisero (una
vacanza da favola in Giappone, la follia del Live Aid, la tranquillità della
Svizzera), Jim sostenne che la cosa più soddisfacente della sua relazione con
Freddie fosse stata la creatività del suo compagno. «Non stava mai fermo»,
dice. «Aveva sempre qualcosa in ballo, sempre nuovi progetti. Il suo cervello
faceva gli straordinari, da sempre. Prima, bisognava finire la ristrutturazione
di Garden Lodge, poi comprare le vecchie scuderie convertite in casa in
Logan Mews; e poi ancora partiva per andare a comprare una casa in
Svizzera. Non si riposava mai, non aveva mai finito di lavorare. Voleva
sempre fare e fare…»
Freddie non era solito parlare di musica con Jim. «Ma se si trattava dei
testi, sì. Non solo con me, ma con chiunque avesse a tiro. Diceva: ‘Ho
quest’idea’, oppure: ‘Ho queste parole’, o ancora: ‘Mi aiuti con questo
verso?’ Buttava giù idee di continuo, su qualsiasi cosa avesse sottomano.
Non cantava mai ad alta voce in casa, solo a volte nel bagno. Ma non pezzi
dei Queen. Ho un video di lui nella Jacuzzi [affiorato su Internet dopo la
morte di Jim] in cui canta a squarciagola.» Freddie aveva promesso al suo
compagno la vacanza della sua vita in Giappone alla fine del settembre 1986
e manteneva sempre le promesse. Era contento di poter rivedere da turista il
Paese che amava da sempre. Freddie e Jim visitarono tutti i monumenti,
cenarono, fecero acquisti folli (comprarono persino un enorme porta-
kimono; un oggetto che Freddie desiderava da tempo). Fu un’esperienza
indimenticabile per entrambi. Tornati a Londra, ripresero la loro routine
domestica con i gatti, la carpa e gli amici più vicini.
Quel loro mondo intimo e accogliente fu sconvolto da una notizia bomba
del News of the World, domenica 13 ottobre 1986. Una nube opprimente
discese su Garden Lodge, e non se ne sarebbe mai più andata.
La rivelazione era tanto sensazionale quanto nauseante: Freddie,
sosteneva la testata scandalistica, aveva fatto un test per l’AIDS l’anno
prima, di nascosto, proprio durante il Live Aid. Il giornale parlò anche della
morte di due suoi ex amanti: lo steward John Murphy, uno delle quattro
«figlie newyorchesi», e Tony Bastin, il giovane corriere che Freddie aveva
abbordato anni prima a Brighton. Jim Hutton fu identificato come l’amante-
convivente. Furono descritti nei dettagli i festini a base di cocaina del
cantante con David Bowie e Rod Stewart, e fu rivelata la ragione per cui
Michael Jackson e Freddie Mercury avevano litigato. Secondo l’informatore
del giornale Michael era rimasto sconvolto dalla quantità di cocaina che
Freddie tirava: Jacko l’aveva sorpreso a sniffare nel suo salotto. C’era persino
un paginone con diverse fotografie private di Winnie Kirchberger e altri
amanti, sormontate dal titolo: «All the Queen’s Men» («Tutti gli uomini
della regina»). Fu scritto che Freddie aveva litigato con Kenny Everett per
una questione di cocaina.
«Everett pensava che Freddie si approfittasse della sua generosità,
quando in realtà era piuttosto il contrario; non che Freddie l’avrebbe mai
rimproverato per questo», spiega Jim. «Non si riconciliarono e Kenny non
venne mai più a Garden Lodge, non da quando andai lì. Se lo incrociavamo
in giro nelle discoteche gay, loro due non si parlavano. Chi ha scritto che
Kenny era a fianco di Freddie in punto di morte, si è inventato tutto di sana
pianta.»
Freddie rimase senza parole quando scoprì che quella sensazionale
«esclusiva» era opera di Paul Prenter, il suo fidato ex manager personale e
(presunto) amico intimo. Prenter aveva accompagnato Freddie in tournée
per anni. Aveva venduto la dignità e la privacy del suo «amico» per
trentaduemila sterline.
«Freddie non poteva sopportare quel tradimento», racconta Jim. «Non
riusciva a credere che una persona così vicina potesse rivelarsi tanto perfida.
Lo scandalo proseguì per giorni e giorni, ripreso dal Sun, la testata sorella
del News of the World: Freddie e la droga, Freddie e gli uomini… sempre
peggio. A ogni nuova rivelazione, Freddie si infuriava ancor di più. Non
parlò mai più a Paul.»
L’ex manager fu anche escluso da Elton John, John Reid e altri
conoscenti, che serrarono i ranghi per proteggere Freddie.
Perché lo fece? Alcuni sostengono che fosse risentito per la relazione di
Freddie con Jim: il cantante era entrato in un rapporto di convivenza stabile
con un compagno, di fatto quindi non aveva più avuto bisogno di lui. Resosi
conto che la sua influenza era finita, forse Prenter volle vendicarsi. Più
avanti telefonò a Freddie per scusarsi, ma il cantante si rifiutò di rivolgergli
la parola.
«Paul cercò di discolparsi sostenendo che i giornalisti l’avevano assillato
così tanto che alla fine era crollato», dice Jim.
«Provò a dire che le sue dichiarazioni erano state falsate, che l’avevano
travisato. Come no… Solo Paul poteva sapere alcune delle cose che erano
state scritte.
«Dopo quel tradimento Freddie non riuscì più a fidarsi degli altri, con
pochissime eccezioni», lamenta Jim. «Da quel momento in poi non instaurò
più nuove amicizie.»
«Freddie aveva ingaggiato Paul dopo che la band l’aveva scaricato»,
osserva Peter Freestone. «Anche se sapeva che Paul si approfittava di lui, dal
punto di vista finanziario e non. Questo rese il voltafaccia ancora più
difficile da accettare.»
«Prenter si era sempre approfittato del fatto che Freddie tendeva a
perdonare le persone», aggiunge Edney.
«Tutti si chiedevano: Ma come cazzo riesce a cavarsela dopo aver fatto
cose del genere? Eppure Freddie continuava a restargli amico. È stato
fregato da così tanta gente, più di qualsiasi altro che io conosca, anche se era
abbastanza bravo a giudicare le persone… ma è incredibile quante
sanguisughe riuscissero a eludere le sue difese. Freddie non aveva mai
nessuna privacy; mai. Proprio grazie a gente come Prenter.»
Negli Stati Uniti, intanto, si registrava un notevole aumento nelle
falsificazioni dei certificati di morte. Molti personaggi famosi che stavano
morendo di patologie correlate all’AIDS convincevano i propri medici a
dichiarare il falso pur di preservare la loro immagine postuma. Persino
mentre era sul letto di morte, Liberace, la star del varietà, insistette tramite
il suo portavoce di trovarsi a letto «per gli effetti collaterali della dieta
dell’anguria». Rock Hudson, idolo delle donne e divo di Hollywood,
compagno sullo schermo di Doris Day, era stato il primo attore famoso a
morire di AIDS nel 1985. Duecentoquarantasei casi erano stati riportati nel
Regno Unito e la malattia era stata dichiarata la peggior minaccia per la
salute nazionale dal dopoguerra. Furono promulgate leggi apposite per
permettere ai magistrati di procedere al ricovero forzato dei malati di AIDS,
per evitare che contagiassero altre persone, e le aggressioni contro gli
omosessuali aumentarono paurosamente. La disinformazione dilagava.
Burke’s Peerage, dove aveva lavorato il fondatore dell’Embassy Club e
dell’Heaven, annunciò che, per preservare «la purezza della razza umana»
avrebbe depennato dai suoi elenchi le famiglie che avevano un membro
malato di AIDS.
I motivi per mantenere un profilo basso erano quindi concreti. Nel caso
di Freddie, si aggiungeva anche la vergogna di dover confessare ai genitori
di essere gay. Il dolore e l’imbarazzo che questa rivelazione avrebbe
provocato ai Bulsara nell’ambito della comunità parsi erano impensabili per
lui. Infine c’era il contratto discografico: un problema non da poco.
Dovendo produrre altri album per la EMI, qualsiasi notizia che Freddie
potesse non vivere abbastanza per adempiere agli obblighi contrattuali era
l’ultima cosa di cui i Queen e Jim Beach avevano bisogno.
Nel Natale del 1986 uscì l’album dal vivo «Live Magic», che raccoglieva
diverse hit del passato. Poi la band annunciò che si sarebbe presa un anno
di pausa, per riposare, fare il punto della situazione e concentrarsi su
progetti solisti.
Nonostante il suo tormento interiore, Freddie appariva sereno:
finalmente aveva raggiunto il perfetto equilibrio fra lavoro e vita privata.
Sebbene stesse segnando il passo, aveva deciso di farlo in grande stile. Si
alzava tardi, invitava qualche amico a pranzo oppure andava a mangiare in
uno dei tanti locali vicino casa; stava a chiacchierare per ore, si riposava un
po’, poi invitava amici a cena o cenava fuori con il suo entourage. Dopo
cena, si metteva a lavorare nel suo studio fino a tarda ora. Ogni tanto
andava all’ufficio dei Queen in Pembridge Road (Notting Hill) per qualche
riunione; faceva un salto da Christie’s o Sotheby’s per vedere gli oggetti di
antiquariato o orientali in vendita. Era «sempre occupato, ma mai di corsa».
Quella vita tranquilla, però, aveva una data di scadenza, che incombeva
sempre più minacciosa.
23
Barcelona
FREDDIE MERCURY
Alcuni dicono che per certi versi Barcelona è una canzone pop
abbastanza banale; che è un’assurdità come brano lirico. Non è
affatto vero. In altre circostanze, con quella melodia, avrebbe
potuto far parte di una grande opera. Non sarebbe stata
ridicolizzata.
IL suo primo album solista non aveva certo lasciato il segno, ma Freddie era
determinato a riprovarci a tutti i costi.
Per registrare l’LP successivo scelse i Townhouse Studios in Goldhawk
Road, nella zona ovest di Londra, soprattutto perché erano facilmente
raggiungibili da Garden Lodge. Gli studi, creati da Richard Branson nel
1978 erano fra i più famosi della città. Frank Zappa, Bryan Ferry e Tina
Turner, per citare solo qualche nome, avevano sfacchinato lì dentro. Lo
studio 2 compare nello strano film di Bob Dylan Hearts of Fire. Nel 1997
Elton John vi avrebbe registrato il suo tributo per la principessa Diana il
giorno del funerale.
Ai Townhouse, Freddie lavorò a una versione di The Great Pretender, il
grande classico composto da Buck Ram. Il brano era diventato un successo
dei Platters nel 1956 e negli anni successivi era stato interpretato anche da
Pat Boone, Roy Orbison, Sam Cooke, Dolly Parton e dalla Band; inoltre
aveva ispirato il nome del gruppo di Chrissie Hynde, i Pretenders appunto.
Nel 1969 era stato cantato anche da Gene Pitney, e Freddie basò la sua
versione definitiva proprio su quest’ultima interpretazione, sebbene i primi
demo tendano più verso quella dei Platters.
Freddie era così entusiasta del suo lavoro che non vedeva l’ora di fare il
video. Al costo di centomila sterline, il promo fu girato in tre giorni dalla
MGMM, con la produzione di Scott Millaney e la regia di David Mallet.
Freddie si tagliò persino i baffi per entrare in sintonia con il personaggio
impomatato che lui e Mallet avevano immaginato.
Il video alternava una panoramica affettuosa della storia dei Queen (che
incorporava alcune scene di lavori precedenti, come Bohemian Rhapsody,
Crazy Little Thing Called Love, It’s a Hard Life e I Want to Break Free) e
sarebbe diventato uno dei più amati di tutti i tempi. Freddie avrebbe ancora
girato altri video dopo questo, ma dopo la sua morte The Great Pretender fu
considerato una sorta di ultimo addio. Anche questa volta il cantante si
travestì da drag queen, con Roger Taylor e Peter Straker nelle veci di
«coriste», sebbene le loro voci non si sentissero sul singolo. I due
comparivano nei crediti di copertina, ma Freddie aveva registrato tutte le
parti vocali da solo. In molte sequenze Freddie reindossò i costumi originali
dei vecchi video dei Queen, che Diana Moseley aveva tenuto da parte.
Scoprì che gli andavano ancora tutti a pennello. Un mese dopo uscì un
video ancora più trasgressivo, che mostrava la produzione di The Great
Pretender nei dettagli. Il singolo fu lanciato nel febbraio del 1987 e arrivò al
numero quattro nel Regno Unito. Da allora è stato incluso in innumerevoli
compilation. Insieme con Bohemian Rhapsody, è una testimonianza
dell’anima tormentata che si celava dietro la rockstar e ci permette di dare
una sbirciatina nella mente del Freddie più recondito. Nella sua ultima
intervista filmata, nella primavera del 1987, Freddie ammise che quel pezzo,
più di altri, riassumeva la sua carriera. Ancora una volta aveva ripreso il
tema delle «lacrime del pagliaccio»: «Just laughing and gay like a clown»
(«felice e gaio come un clown»). La strofa più rivelatrice: «Oh yes, I’m the
Great Pretender / Pretending that I’m doing well / My need is such / I
pretend too much / I’m lonely but no one can tell» («Oh sì, sono il grande
simulatore / Fingo che vada bene / Il mio bisogno è tale / che fingo troppo /
Sono solo ma non lo do a vedere»), rifletteva benissimo come Freddie si
sentisse a esibirsi davanti a migliaia di fan. Sorge spontanea una domanda:
ne valeva la pena? Non lo sapremo mai. Ma possiamo cogliere una tragica
ironia in questa vicenda: nonostante il suo immenso talento compositivo, la
canzone che Freddie scelse per descrivere se stesso era stata composta da
altri.
Durante il Magic Tour, nell’agosto 1986, un intervistatore radiofonico
chiese a Freddie chi fosse, a suo avviso, la miglior voce del mondo. «Non lo
dico solo perché siamo in Spagna», rispose, «ma secondo me Montserrat
Caballé è la miglior voce esistente al mondo.»
«Montserrat venne a saperlo», racconta Peter Freestone. «Tempo prima
le avevano chiesto di fare un pezzo per le Olimpiadi del 1992, dato che
Barcellona era la sua città.»
Nessuno ricorda di chi fu l’idea, fatto sta che cominciò a prendere forma
il progetto di far duettare Freddie e Montserrat nella canzone ufficiale dei
giochi olimpici.
«Jim Beach parlò con Carlos, fratello e manager di Montserrat», prosegue
Peter. «Poi lo proposero a Freddie, che accettò subito: da tempo desiderava
lavorare con lei. Inoltre fu completamente sedotto all’idea di un’altra
apparizione in mondovisione dopo l’assaggio del Live Aid. Fu organizzato
un incontro a Barcellona nel marzo del 1987. Montserrat mandò a Freddie
alcuni video delle sue performance. In cambio, chiese tutti i lavori dei
Queen.»
Freddie era insolitamente nervoso durante il volo verso la Spagna: lo
accompagnavano Peter, Beach e Mike Moran, il produttore incontrato
durante la lavorazione del musical di Dave Clark Time. Quando arrivarono
al Ritz, aspettarono per ore: la diva era solita arrivare in ritardo.
«Pranzammo in una sala-giardino privata con un pianoforte sistemato in
un angolo per l’occasione», racconta Peter. «Freddie aveva portato un nastro
con una canzone e qualche idea, che io dovevo proteggere a costo della mia
vita. C’era Exercises in Free Love, più quella che sarebbe diventata Ensueño e
alcune idee per altre tracce. Notai che Freddie e Montserrat erano entrambi
in soggezione, ma entusiasti alla prospettiva di lavorare insieme. Andarono
subito d’accordo e il pranzo fu un grande successo.»
Pochi giorni dopo, Montserrat aveva un impegno alla Royal Opera
House, terminato il quale andò a trovare Freddie a casa sua.
«I cantanti lirici di solito vanno a letto presto, per preservare la voce»,
dice Wigg, ma quella sera Montserrat «restò sveglia fino alle cinque del
mattino a cantare le canzoni dei Queen con Freddie e Mike al pianoforte.
Come le conoscesse non lo saprò mai. Freddie aveva un’estensione vocale
incredibile, ma restò ammaliato da quella di Montserrat. Avevano entrambi
trovato pane per i loro denti.»
«C’era Mike Moran e non ci volle molto prima che lui e Freddie si
mettessero al pianoforte», ricorda Peter. «Fu una notte indimenticabile.
Freddie e Montserrat erano completamente a loro agio l’uno con l’altra.
Bevevano champagne e improvvisavano; fu una jam session, se si può usare
questo termine per una cantante lirica. Il loro lavoro in studio non è così
naturale e rilassato come quella sera a Garden Lodge.»
Il mese successivo i Queen ricevettero un altro premio Ivor Novello per il
loro «eccezionale contributo alla musica britannica», dopodiché Freddie si
concentrò su quello che sarebbe diventato il suo ultimo album solista.
«Barcelona» sarebbe stato prodotto da David Richards dei Mountain
Studios, che dovette dividere il lavoro: «la Stupenda» infatti era
richiestissima dai teatri di mezzo mondo e la sua agenda era prenotata con
cinque anni di anticipo. Non aveva molto tempo per sperimentare e provare
i brani in studio come Freddie amava fare. Il grosso della produzione fu
quindi fatto a distanza nei nove mesi successivi. Freddie registrava i brani
cantando lui stesso le parti di Montserrat in falsetto, e poi li faceva
recapitare alla soprano perché lei ci sovrapponesse il suo cantato. Anche se
non era il modo ideale per lavorare, il risultato fu sorprendente: uno dei
migliori traguardi nella vita di Freddie.
Tim Rice collaborò al testo di The Golden Boy e The Fallen Priest in
«Barcelona». All’epoca, la compagna di Rice era Elaine Paige, la stella di
Evita, Cats e Chess, che stava lavorando a un album di cover dei Queen
approvato da Freddie. Freddie e Tim si erano conosciuti tramite Elaine ed
erano diventati ottimi amici. The Golden Boy comprendeva un gospel
cantato da celebrità fra cui Madeline Bell dei Blue Mink, Peter Straker (di
nuovo) e Miriam Stockley, una session woman sudafricana. The Fallen
Priest invece era una specie di capolavoro alla Moran, nel quale il
produttore diresse l’orchestra, scrisse gli arrangiamenti e suonò il pianoforte
e le tastiere.
«Montserrat e Freddie cantarono quei due brani in duetto», racconta
Rice. «Erano entrambe interessanti. Nessuna delle due è una grande
canzone, ma sono entrambe ottimi frammenti musicali. Freddie era un
uomo di cultura e di talento, ed era davvero appassionato di opera lirica.
Era il suo grande amore negli ultimi anni. Quando andavamo a casa sua, ci
faceva vedere i video delle dive pieno di entusiasmo: Maria Callas,
Montserrat Caballé, Joan Sutherland, tutte che cantavano arie magnifiche.
Per certi versi mi fece scuola: infatti io non conoscevo granché l’opera.
«Forse per lui era un modo per esprimere liberamente il suo amore per le
donne. Perché Freddie adorava le donne. Si crogiolava nella loro
femminilità, nel loro modo di vestirsi e apparire, nella loro diversità dagli
uomini, persino nel loro profumo. Era evidente che amava Mary. Quando
andavo a cena con lui ed Elaine, voleva la sua compagnia. Non è vero che
escludeva le donne, anzi desiderava frequentarle. Non sono mai andato ai
suoi festini selvaggi, ma solo ad alcune cene con venti, trenta persone, e la
metà erano donne.»
Verso la fine di maggio, Freddie partì per Ibiza, accompagnato da Jim,
Peter, Joe e Terry, il suo autista. Ora che gli era stato ufficialmente
diagnosticato l’AIDS, voleva fuggire da Londra a tutti i costi. Dietro
consiglio del suo medico curante, il dottor Gordon Atkinson, portò con sé
una valigetta piena di medicinali.
Fu una vacanza trascorsa in un’incantevole fattoria con cinque secoli di
storia convertita in albergo di lusso. Freddie si sentì come a casa. Giocava a
tennis, si rilassava in piscina e ogni tanto faceva delle sortite fuori per
avventurarsi in qualche discoteca o gay bar.
«Si era aperta una brutta ferita sulla pianta del piede destro», racconta
Jim. «Gli rendeva difficile camminare e lo avrebbe perseguitato fino alla
fine.»
Durante il viaggio, Freddie fu portato al famoso Ku Club fuori San
Antonio, dove aveva un appuntamento con la sua nuova amica del cuore. Il
festival Ibiza ’92, organizzato per promuovere le imminenti Olimpiadi di
Barcellona con la partecipazione di Marillion, Duran Duran, Chris Rea e
Spandau Ballet, doveva essere chiuso da Barcelona eseguita da Freddie e
Montserrat. Lo champagne scorse a fiumi al Ku Club, e poi in albergo.
Freddie fece festa fino alle ore piccole. Sapeva di avere i giorni contati. Passò
poi l’estate a lavorare in casa, ristrutturando i cottage che aveva comprato in
Logan Mews e progettando una veranda. Era come se volesse lasciare dietro
di sé un angolino di paradiso, osservò Jim. A settembre tornò a Ibiza per
festeggiare il quarantunesimo compleanno, accompagnato da Peter, Joe,
Terry, Peter Straker e David Wigg. Gli altri membri dei Queen erano già
sull’isola, dove Roger aveva una villa in un luogo appartato. La festa doveva
essere un doppio compleanno, in concomitanza con quello dell’ex manager
dei Queen John Reid, che però si tirò indietro all’ultimo momento. Decine
di invitati di Freddie erano già sull’aereo, per cui il cantante, seppur
imbarazzato, procedette da solo. Si ritrovò con uno spettacolo di fuochi
d’artificio con due nomi e una torta di compleanno ispirata a Gaudì per
due. «Fanculo Reid», fu il suo commento: quella defezione non gli avrebbe
rovinato la festa.
Roger, che lavorava a un album solista con la sua nuova band, i Cross,
invitò Freddie a partecipare a un brano da registrarsi ai Maison Rouge
Studios di Londra. La canzone, Heaven for Everyone, sarebbe poi finita
anche nell’album dei Queen «Made in Heaven».
«Chiaramente la versione di Freddie è fantastica», afferma Edney, che
collaborò al progetto, «ma Freddie non poteva cantare su un album di
Roger, perché glielo impediva il suo contratto solista. Così non compare nei
titoli. Di conseguenza sul primo album dei Cross, ‘Shove It’, c’è Heaven for
Everyone con la voce di Freddie, ma quando uscì il singolo, dovettero usare
la versione di Roger!»
Il singolo «Barcelona» uscì in Spagna il 21 settembre. Diecimila copie
furono vendute in meno di tre ore. Nel Regno Unito uscì il mese successivo
– la prima collaborazione di una grande rockstar con una soprano di fama
internazionale – e sorprese la critica raggiungendo l’ottava posizione. La
canzone sarebbe poi stata usata per le Olimpiadi del 1992, un anno dopo la
morte di Freddie e avrebbe raggiunto la seconda posizione nel Regno Unito,
nei Paesi Bassi e in Nuova Zelanda.
Il Natale del 1987 aveva portato nuovi amici a Garden Lodge: un paio di
micini di nome Goliath e Delilah. Per quest’ultima, una bellissima gattina
tartarugata, Freddie compose un brano omonimo. La gatta dormiva ai piedi
del letto. A mano a mano che la malattia fece il suo decorso, i suoi animali,
che Freddie adorava come figli, furono per lui un’immensa fonte di sollievo.
Oramai Freddie lavorava solo quando ne aveva le forze. Nel gennaio del
1988, i Queen si riunirono in studio per cominciare il loro nuovo album,
«The Miracle». Tutti sapevano che Freddie era molto malato, i sintomi
erano evidenti. La gravità della sua condizione era stata ignorata fino a quel
punto, ma oramai era impossibile continuare a farlo. Un giorno Freddie
prese in disparte Brian, Roger e John e gli diede la brutta notizia.
«Innanzitutto disse: ‘Probabilmente sapete qual è il mio problema: la mia
malattia’», ricordò Brian. «E oramai sì, lo sapevamo, più o meno, anche se
non ne avevamo parlato. Poi aggiunse solo: ‘Questo è quanto. Non voglio
che faccia alcuna differenza, non voglio che si sappia, non voglio parlarne,
voglio solo continuare a lavorare finché potrò farlo’. Credo che nessuno di
noi si dimenticherà mai quel giorno. Ce ne andammo a star male ognuno
per conto suo.»
«Freddie sapeva di avere i giorni contati e voleva lavorare, tirare avanti»,
disse Roger.
«Sentiva che quello era il modo migliore per non perdersi d’animo.
Inoltre voleva lasciare dietro di sé più musica possibile. Eravamo d’accordo
con lui e lo sostenemmo fino in fondo. ‘The Miracle’ fu un album molto
lungo per noi.»
«Credo che [il lavoro] lo rendesse felice», spiega Mary Austin. «Lo faceva
sentire vivo interiormente, gli permetteva di non farsi sopraffare dalla
monotonia e dal dolore. [Grazie al lavoro] la vita non era diventata solo un
viaggio verso la tomba.»
«Freddie si sentiva al sicuro nel gruppo», aggiunse Brian. «Era tutto come
sempre, anche se a volte ci sforzavamo… ma cercammo di far sì che tutto
fosse normale. Sembrò funzionare.» L’8 ottobre, Freddie arrivò a Barcellona
per partecipare alla grande cerimonia con cui la città riceveva la fiamma
olimpica da Seul, e si esibì di fronte al re Juan Carlos, alla regina Sofia e alla
principessa Cristina. Freddie e Montserrat cantarono Barcelona in playback
accompagnati dall’orchestra e dal coro del teatro lirico. L’esibizione fu il
culmine di una strana serata che vide alternarsi sul palco un insieme
eclettico di artisti: José Carreras, Spandau Ballet, Eddy Grant, Jerry Lee
Lewis e Rudolf Nureyev.
I Queen e Freddie trascorsero il resto dell’anno dedicandosi ai loro
progetti personali. Il gruppo si riunì all’inizio del 1989 per finire «The
Miracle». Dopo anni di dispute creative e aspri litigi, i quattro avevano
infine trovato un modo per lavorare in armonia. I Want It All, il loro
trentaduesimo singolo nel Regno Unito, uscì nel maggio del 1989, seguito
dal sedicesimo album. «The Miracle» divenne disco di platino nel giro di
una settimana. Freddie e Jim partirono per Montreux diretti verso «I cigni»,
una bellissima villa in riva al lago, così chiamata per i cigni che la
circondavano e che Freddie correva subito a vedere ogni volta che vi
andava. Freddie la ribattezzò «Duck House», «casa delle anatre». Roger fece
di meglio e la chiamò «Duckingham Palace». Il cantante passava ore in riva
al lago. L’aria di montagna lo rinfrescava. Si sentiva più in pace a Montreux
che in qualsiasi altro posto. In patria le congetture sul suo stato di salute
dominavano i giornali. La band contrattaccò con il singolo Scandal.
Votati «miglior gruppo del decennio» dai lettori della rivista TV Times, i
Queen apparvero in uno speciale televisivo intitolato Goodbye to the Eighties
(«Arrivederci anni Ottanta»), e furono premiati da Cilla Black, la
seguitissima presentatrice inglese (ed ex cantante pop) coadiuvata da un
giovanissimo Jonathan Ross, oggi a sua volta rinomato presentatore
televisivo.
Più creativo che mai e desideroso di incrementare la sua eredità per i
posteri, Freddie si dedicò alla promozione del terzo singolo estratto
dall’album, anche questo intitolato The Miracle. Fu sua l’idea del video:
suggerì di usare dei sosia-bambini per ognuno di loro. La produzione ne
trovò quattro, perfetti, e ne risultò un videoclip ipnotico. All’inizio del 1990,
con il cuore pesante, i Queen si ritrovarono ai Mountain Studios per
registrare «Innuendo», pensando che l’album sarebbe stato il canto del
cigno di Freddie. Non esattamente.
24
Bis
FREDDIE MERCURY
RICK WAKEMAN
PETER FREESTONE
GLI zoroastriani hanno una visione ottimista della morte, che per loro non è
una fine, ma un inizio: l’esistenza terrena è solo un preludio per la vita dopo
la morte, dove ci attendono molte felicità. Siccome per loro il fuoco, la terra
e l’acqua sono elementi sacri, dopo la morte non si fanno né cremare, né
seppellire, né gettare in mare.
Dato che il corpo non è altro che un recipiente vuoto, non viene
preservato ma lasciato a consumarsi nelle cosiddette «torri del silenzio»
fuori delle mura cittadine, esposto agli avvoltoi e alle intemperie. Ma
nemmeno per una grande superstar come Freddie era possibile organizzare
una cosa del genere in Inghilterra.
«Dovemmo cremarlo, e farlo nel più breve tempo possibile», ricorda
Peter, che firmò il certificato di morte, segnando come causa del decesso:
«a. broncopolmonite. b. AIDS», secondo quanto attestato dal dottor
Atkinson.
Poiché Freddie era stato seguito dai medici, non fu necessaria
un’autopsia per determinare le cause del decesso. Di conseguenza Peter
organizzò subito il funerale, dopo essersi consultato con i genitori di
Freddie.
«Dovevamo coinvolgerli. Noi seppellivamo una rockstar, ma loro
seppellivano un figlio. Naturalmente volevano fare le cose secondo la
tradizione parsi e le loro richieste furono prese in considerazione.»
«Freddie mi disse che quando fosse morto voleva che il funerale si
celebrasse subito», conferma Jim. «Il prima possibile, senza tante cerimonie.
Voleva essere cremato il giorno stesso. Fatto, finito, in modo che poi tutti
riprendessero la loro vita... Non voleva gente in coda a strapparsi i capelli.
Continuate a vivere. È a questo che serve la vita.»
Garden Lodge non tornò mai più «come prima». Mentre si preparava a
prendere possesso della sua eredità, Mary fece capire che la voleva vuota.
Jim aveva creduto che sarebbe potuto rimanere nella dimora per sempre,
ma gli fu chiesto di andarsene subito.
«E io. E Joe», ricorda Peter con tristezza. «Non avevamo un altro posto
dove andare e avevamo bisogno di tempo per organizzarci. Ce ne saremmo
andati comunque, ma… Mary si è comportata in modo sconcertante.»
«Ma come ha potuto trattarci così, dopo tutto quello che avevamo
passato con Freddie?» disse Jim. «Non aveva alcun senso. Ho lasciato quella
casa senza niente; nemmeno le mie cose.»
Le controversie legali e finanziarie che seguirono la morte di Freddie
lasciarono i suoi ex «badanti» in un limbo e Barbara Valentin quasi
senzatetto. Con l’aiuto dei suoi amici di Garden Lodge, l’attrice riuscì a
respingere gli attacchi. Tuttavia il testamento di Freddie sollevò
innumerevoli dubbi, alcuni dei quali non furono mai risolti.
Jim spiegò di avere scritto il proprio libro di memorie per rabbia, non per
denaro. Voleva che il mondo sapesse la verità: secondo lui non c’era altro
sistema.
«Credo che Beach si sia arrabbiato perché il mio libro ha rovinato ‘il mito
di Freddie’», disse. «E invece l’ha solo riportato al livello dell’essere umano.
Ho scritto la verità. Beach voleva che i fan credessero che la dolce Mary
Austin fosse stata l’amore della vita di Freddie: una bella favola romantica.
Credo che ai fan non importi un fico secco se Freddie era gay o no. Credo
anche che preferiscano sapere la verità, bella o brutta che sia.»
Peter era d’accordo. Freddie sarebbe stato disgustato se avesse visto le
persone che amava litigare dopo la sua morte. «I diretti interessati devono
fare i conti con se stessi. Mary una volta ha detto di Jim [Hutton] che era
dotato di ‘un’immaginazione vivace’. Conoscevo Jim da tanto tempo e so
che era sempre stato onesto. Aveva la coscienza pulita, sempre; come me.»
Che cosa ne è delle ceneri di Freddie? Sono state sparse nel lago di
Ginevra, il suo «lago dei cigni», a Montreux? Sono conservate in un’urna
nella casa dei genitori? Sono state riportate a Zanzibar e offerte all’oceano o
sono state mandate dalla zia Sheroo in India, o ancora sepolte sotto un
ciliegio a Garden Lodge, come sostenne Jim Hutton? O potrebbero persino
trovarsi in un sepolcro anonimo nel cimitero civile e militare di Brookwood
nel Surrey, che ha una zona dedicata ai parsi? La vecchia compagna di
collegio di Freddie, Gita Choksi, ritiene veritiera quest’ultima ipotesi.
Quando andò al cimitero la prima volta, per trovare il padre, Gita incontrò
un custode che le disse: «Le ceneri di Freddie Mercury, il cantante rock,
sono sepolte laggiù».
«Fu uno choc», racconta. «Ovviamente quell’uomo non sapeva che avevo
conosciuto Freddie da piccola e non aveva alcun motivo per mentire. E così,
dopo avere perso di vista il mio compagno di scuola per così tanti anni, le
sue ceneri erano lì, sepolte a pochi metri da quelle di mio padre. Sono
assolutamente certa che sia vero. Non credo che il custode me l’avrebbe
detto, se non fosse vero. È la cosa più straordinaria che mi sia capitata in vita
mia, e sono contenta che mi sia successa.»
È possibile che il custode si sbagliasse? Sì. Stranamente, però, quando mi
recai sul posto, un custode mi raccontò la stessa storia. Forse era un piano
per depistare i fan.
Quando gli riferii la storia di Gita, Peter si disse sorpreso e non fu in
grado di confermarla. «Non lo so. Sospetto che le ceneri siano state divise,
che magari i genitori ne abbiano una parte e che Mary ne abbia un’altra…
ma chi lo sa per certo? Soltanto loro.»
Non c’è dubbio che Jim abbia deciso di scrivere la sua biografia con
l’intenzione di offrire un tributo personale al suo amato. L’opera fu però
compromessa da un coautore che si concentrò sugli aspetti più
sensazionalistici della loro relazione, oltre che sui dettagli personali degli
ultimi giorni di vita di Freddie.
Di conseguenza Jim fu emarginato dall’entourage dei Queen, una
reazione che lo lasciò sconcertato e confuso: fu dovuta certo al fatto che gli
amici, il management e i famigliari di Freddie erano ancora addolorati per
la scomparsa. Questi non sopportarono che i particolari intimi della morte di
Freddie fossero stati dati in pasto al pubblico.
Durante il tempo trascorso con Jim nel pittoresco County Carlow, nel
sudest dell’Irlanda, dove viveva in un accogliente bungalow costruito con il
lascito di Freddie, cinquecentomila sterline, non ebbi alcun dubbio che il
suo amore fosse genuino. Jim era un uomo caloroso, umile e corretto. Mi
disse che era eternamente grato per avere potuto sperimentare la vita da
superstar tramite Freddie. Nel suo giardino mi mostrò orgoglioso le sue rose
lilla «Blue Moon», che Freddie adorava.
Date le sue origini cattoliche e il fatto che la madre era ancora in vita
quando la pubblicò, Jim fu molto coraggioso a scrivere la sua biografia.
«Ne parlai con la mia famiglia», mi disse. «In un certo senso cercai il loro
assenso, ma mi ero preoccupato per niente. Mi dissero semplicemente che
loro per me ci sarebbero sempre stati e finì lì.»
Jim sapeva che Freddie aveva affrontato un dilemma più grande a causa
della religione dei genitori.
«Ma Freddie non era uno zoroastriano praticante», riflette. «Siccome i
genitori lo fecero cremare, le persone presunsero che fosse praticante. Ma in
tutti gli anni che passai con lui non lo vidi mai praticare. Non sapevo nulla
della religione della sua famiglia, non ne parlavamo mai, ma ricordo che a
volte la notte lo sentivo pregare. In che lingua? In inglese. Chi pregava? Non
lo so. A volte gli chiedevo con chi parlasse e lui mi rispondeva con un
sussurro: ‘Sto solo dicendo le mie preghiere’.»
Chi l’ha conosciuto, oggi prosegue quella che non sarà mai un’esistenza
normale. Oggi John Deacon, dopo avere archiviato gli anni di follie dei
Queen nei recessi della propria mente inquieta, è un tranquillo padre di
famiglia. Brian, nominato «comandante dell’ordine dell’impero britannico»
per i servizi resi all’industria discografica, dedica il tempo alla seconda
moglie Anita, ai tre figli oramai grandi, all’astronomia e alla protezione delle
volpi. Dopo Debbie, Roger si è risposato con la giovane Sarina, sua fidanzata
da sei anni: ha cinque figli in totale. Come per Brian, anche per lui la
musica rimane una priorità.
Potrà sembrare incredibile, ma nel Regno Unito i Queen hanno superato
i Beatles per successi in classifica. Nel 2006 il loro «Greatest Hits» è
diventato l’album più venduto nel Paese, con quasi cinque milioni e mezzo
di copie vendute. «Greatest Hits II» si è piazzato al settimo posto, con oltre
tre milioni e mezzo di copie vendute. I Queen hanno prodotto un totale di
diciotto album andati al numero uno in classifica, diciotto singoli numeri
uno e dieci DVD numeri uno nel mondo, e questo li rende la band che ha
venduto più dischi in assoluto. Si stima che le vendite totali sfiorino i
trecento milioni di sterline, di cui trentadue milioni e mezzo solo negli USA.
I Queen sono anche l’unico gruppo in cui ogni membro ha composto una
numero uno. We Will Rock You è stata adottata come inno sia dai New
York Yankees sia dal Manchester United. We Are the Champions resta il
brano più suonato di tutti i tempi, intonato da milioni di tifosi in tutto il
mondo. Freddie stesso lo descrisse come «il pezzo più egoistico e arrogante
che abbia mai scritto».
«Sento che Freddie è ancora qui, per certi versi, perché la sua musica c’è
ancora», afferma Kashmira. «Era mio fratello, ma anche una megastar. Non
so cosa significhi avere un fratello normale, perché il mio era davvero
straordinario.»
www.lesleyannjones.com
e-mail: laj@lesleyannjones.com
In memoriam:
Rose Allocca, Poly Styrene, Peter Batt, Gerry Sanderson, John Entwistle,
Roger Scott, Kenny Everett, Ginny Comely, Barbara Valentin, Pat Stead,
Giles Gordon,Tony Brainsby,Tommy Vance, Jim Hutton, Liam McCoy,
John Sutton, Lester Middlehurst, Sir Henry Cooper.
5 settembre
Farrokh Bulsara nasce a Zanzibar.
1946
1951 Viene iscritto alla Zanzibar Missionary School.
Farrokh in collegio alla St Peter’s School, Panchgani, India.
1955-1963 Cambia nome in Freddie. Crea la sua prima band, gli
Hectics.
Freddie torna a Zanzibar e completa gli studi alla St Joseph’s
1963
Convent School.
Rivoluzione di Zanzibar, a gennaio. Freddie e famiglia si
1964
rifugiano nel Regno Unito.
1964-1966 Freddie studia arte alla Isleworth Polytechnic School.
Freddie si iscrive all’Ealing College of Art nel corso di
1966 grafica e illustrazione. Va a vivere da solo e incontra Tim
Staffell, che suona in un gruppo con Brian May.
Freddie si diploma all’Ealing College of Art; allestisce un
banchetto al mercato di Kensington con Roger Taylor;
1969
incontra le band Smile e Ibex; lancia il suo secondo gruppo,
i Wreckage; incontra Mary Austin.
Brian, Roger e Freddie si uniscono e formano i Queen.
Aprile 1970
Freddie cambia il cognome in Mercury.
1970 Jimi Hendrix, idolo di Freddie, muore il 18 settembre.
Febbraio 1971 Il bassista John Deacon si unisce ai Queen.
1972 I Queen sono scritturati dalla Trident.
I Queen firmano un contratto discografico con la EMI e
debuttano con il singolo Keep Yourself Alive, e l’album
1973
«Queen» a luglio. Girano il Regno Unito in tournée come
spalla dei Mott the Hoople. Nasce il primo fan club ufficiale.
Escono il singolo Seven Seas of Rhye e l’album «Queen II», a
marzo. La band intraprende la prima tournée nel Regno
Unito e fa da supporto ai Mott the Hoople negli USA, ad
1974
aprile. Escono il singolo Killer Queen e l’album «Sheer Heart
Attack», in ottobre e novembre. Entrambi entrano nella Top
Ten negli USA.
Primo tour negli USA e in Giappone. Freddie vince un
premio Ivor Novello come autore di Killer Queen. I Queen
rescindono il contratto con la Trident. Il manager di Elton
John, John Reid, diventa il manager dei Queen. Bohemian
1975
Rhapsody esce il 31 ottobre. «A Night at the Opera» esce a
novembre. Bohemian Rhapsody è la prima numero uno nel
Regno Unito della band, a novembre, e procura a Freddie
un altro Ivor Novello.
Secondo tour negli USA. Tutti e quattro gli album fra i
primi venti in classifica nel Regno Unito. Tour in Giappone
1976 e in Australia. Grande concerto gratuito a Hyde Park,
Londra, il 18 settembre. Esce «A Day at the Races» in
dicembre.
Tour mondiale. Esce We Are the Champions, ottobre.
Bohemian Rhapsody vince un Britannia Award. Esce «News
of the World». L’avvocato Jim Beach negozia la cessazione
1977
del contratto con John Reid e assume il controllo delle
questioni legali della band. I Queen creano una squadra di
management personale, che comprende Paul Prenter.
Tour europeo. A ottobre la band festeggia l’uscita di «Jazz»
1978 con una festa trasgressiva la notte di Halloween a New
Orleans.
I Queen iniziano a registrare ai Musicland Studios di
Monaco. A giugno esce «Live Killers». Freddie partecipa a
1979 un galà di beneficenza con il Royal Ballet al London
Coliseum. Incontra Peter Freestone, suo futuro assistente
personale.
Crazy Little Thing Called Love al numero uno in diversi
Paesi fra cui per la prima volta gli USA. Freddie acquista
Garden Lodge, sontuosa dimora londinese. I Queen
iniziano un epico tour negli USA. A giugno esce «The
1980 Game» che diventa il primo album numero uno negli USA
per la band. Another One Bites the Dust al primo posto negli
USA e in diversi altri Paesi. Due nomination ai Grammy
Awards. I Queen entrano nel Guinness dei primati. Esce
l’album «Flash Gordon».
Tour in Sud America. Freddie celebra il compleanno con
1981 una festa di cinque giorni a New York. A novembre esce la
raccolta «Greatest Hits».
I Queen firmano un nuovo contratto con la EMI per altri sei
album. A maggio esce «Hot Space». Under Pressure, il
1982 singolo con David Bowie, raggiunge il primo posto. Tour
americano in cui la band riceve le chiavi della città di
Boston.
Freddie incontra Winnie Kirchberger e Barbara Valentin a
1983 Monaco, e Jim Hutton a Londra. Inizia a incidere il suo
primo album solista a Monaco.
A febbraio esce «The Works». I Queen ricevono un Brit
Award per il loro «eccezionale contributo alla musica
britannica». Spike Edney si unisce alla band come tastierista
1984
durante le tournée. Controversa esibizione a Sun City in
Sud Africa che provoca l’espulsione della band dalla
Musicians’ Union.
A gennaio i Queen aprono il festival Rock in Rio, poi
partono per una tournée in Nuova Zelanda, Australia e
1985
Giappone. Rubano la scena al Live Aid, a Wembley. Freddie
lascia Monaco per sempre e torna a Londra.
Magic Tour in Europa. A giugno esce l’album «A Kind of
Magic», colonna sonora del film Highlander. Freddie si ritira
1986
dalle scene per mettere su casa a Garden Lodge con Jim
Hutton, Peter Freestone e Joe Fanelli.
A febbraio Freddie pubblica la cover di The Great Pretender.
Il mese successivo incontra Montserrat Caballé a Barcellona
per discutere di una possibile collaborazione. Il suo ex
1987 manager personale Paul Prenter lo tradisce rivelando la sua
condizione di salute alla stampa. A ottobre Freddie si
esibisce al La Nit Festival, a Barcellona, davanti ai reali di
Spagna. Lo stesso mese esce l’album con Montserrat
Caballé, «Barcelona».
A maggio esce «The Miracle». I Queen sono votati «la band
1989
degli anni Ottanta».
I Queen ricevono un Brit Award per il loro «eccezionale
1990
contributo alla musica britannica».
Il singolo Innuendo diventa la prima numero uno della
1991 band in dieci anni. L’album omonimo esce a febbraio. I
Queen iniziano a incidere «Made in Heaven».
Freddie Mercury muore. Bohemian Rhapsody esce come
singolo di Natale, raccogliendo oltre un milione di sterline
24 novembre per il Terrence Higgins Trust. Esce anche negli Stati Uniti
1991 dove i proventi vengono devoluti a diverse organizzazioni
che si occupano della lotta all’AIDS tramite la Magic
Johnson Foundation.
Mercury Tribute, megaconcerto a Wembley, lunedì di
1992 Pasqua. Viene fondato il Mercury Phoenix Trust per la lotta
all’AIDS.
Jim Hutton pubblica un libro di memorie dove racconta
1994
della sua vita insieme con Freddie.
1995 Esce «Made in Heaven» che debutta al primo posto.
Inaugurata a Montreux la statua di Freddie di Irena
1996
Sedlecka.
Le Presbytère: Ballet for Life in onore di Freddie debutta a
1997 Parigi, con musiche dal vivo dei Queen. John Deacon lascia
la band.
Brian suona God Save the Queen sul tetto di Buckingham
Palace per il giubileo d’oro della regina Elisabetta II. Il
2002
musical We Will Rock You debutta al Dominion Theatre di
Londra e verrà poi replicato in ventisette Paesi.
Brian si esibisce al Fender Strat Pack, dove incontra
2004 nuovamente Paul Rodgers, cantante dei Free e dei Bad
Company.
Nel 2011 è uscita una versione rimasterizzata ed estesa di tutti e quindici gli album in studio dei
Queen. Ulteriori informazioni sul sito www.queenonline.com
CONSIGLIATI
Con Montserrat
10 ottobre 1988 e 10 agosto 1992 (14 luglio 1992)
Caballé: «Barcelona»
23 ottobre
«The Solo Collection Box Set»
2000
Panoramica completa della carriera di Freddie Mercury, fra i cofanetti più
completi della Queen Productions, comprende esclusive bonus track e
remix, pezzi strumentali; le «rarità» ovvero le session «Mr. Bad Guy»,
«Barcelona» e altre, più un’esclusiva intervista con Freddie di David Wigg,
oltre a molte fotografie rare, disegni e scritti di Freddie.
SINGOLI
SINGOLI POSTUMI
BLAKE , MARK , Is This the Real Life? The Untold Story of Queen, Aurum Press Ltd, Londra 2010.
BROOKS , GREG e LUPTON , SIMON (a cura di), Freddie Mercury: parole e pensieri, Mondadori, Milano
2008.
CANN , KEVIN , David Bowie: Gli anni londinesi, Arcana, Roma 2011.
COURAULD , PARI , A Persian Childhood, Rubicon Press, Londra 1990.
DEAN , KEN , Queen: la storia illustrata, Kaos Edizioni, Milano 1992.
E VANS , DAVID e MINNS , DAVID , Freddie Mercury: More of the Real Life, Britannia Press Publishing,
Culver City 1995.
FREESTONE , PETER con E VANS , DAVID , Freddie Mercury: una biografia intima, Arcana, Roma 2009.
GELDOF, BOB , Tutto qui?, Sperling & Kupfer, Milano 1987.
GUNN , JACKY e JENKINS , JIM , Queen: la biografia ufficiale, Arcana, Milano 1993.
HODKINSON , MARK , Queen: the Early Years, Omnibus Press, Londra 1995.
HOGAN , PETER K., The Complete Guide to the Music of Queen, Omnibus Press, Londra 1994.
HUTTON , JIM con WAPSHOTT, TIM , I miei anni con Freddie Mercury, Mondadori, Milano 2000.
KENT, NICK , Apathy for the devil: memorie dagli anni Settanta, Arcana, Roma 2011.
NORMAN , JEREMY , No Make-up: Straight Tales From A Queer Life, Elliot & Thompson Ltd, Londra
2006.
NORMAN , PHILIP , Sir Elton: The Definitive Biography of Elton John, Pan Books, Londra 2002.
O’REGAN , DENIS , Queen: the Full Picture, Bloomsbury, Londra 1995.
PALMER, ROBERT, Dancing In the Street:A Rock and Roll History, BBC Books, Londra 1996.
RIDER, STEPHEN , These Are The Days Of Our Lives, Castle Communications, Londra 1991.
ROCK , MICK , Mick Rock, A Photographic Record 1969-1980, Pinewood Studios, Century 22nd Ltd,
1995.
ST MICHAEL, MICK , Queen: We are the champions, Gammalibri, Milano 1993.
SHERIFF, ABDUL e FERGUSON , E D , Zanzibar Under Colonial Rule, James Currey Ltd, Oxford 1991.
SHILTS , RANDY , And the Band Played On: Politics, People, and the AIDS Epidemic, Penguin Books,
Londra 1987.
SKY , RICK , The Show Must Go On, Fontana Press, Londra 1992.
SMITH, PETE , Live Aid, Penn & Ink Ltd, Vancouver 2012.
SOUTHALL, BRIAN , The Rise and Fall of EMI Records, Omnibus Press, Londra 2009.
Indice analitico
10cc
19 (rivista)
1984 (band)
B. Feldam & Co
Bad
Bad Company
Baez, Joan
BAFTA, premio
Bailey, David
Baker, Ginger
Baker, Roy Thomas
Baldry, Long John «Ada»
Ballet for Life
Bananarama
Band
Band Aid
Barbarella (film)
Barbiere di Siviglia
Barcellona
Barcelona
Barghash, Sayyid
Barišnikov, Mikhail
Barra da Tijuca Rockodromo
Barrett, Syd
Basing Street Studios (poi Sarm West Studios)
Bason, Oswal D.
Bassey, Shirley
Bastin, Tony
Bavaria (ristorante)
Bay City Rollers
BBC
Beach Boys
Beach, Claudia
Beach, Henry James «Jim» «Miami»
Beatles
Beaumarchais, Pierre-Augustin Caron de
Beck, Jeff
Bee Gees
Bejart Ballet
Bejart, Maurice
Bell, Madeleine
Benatar, Pat
Bennett, Tony
Benson, George
Berkshire Place Hotel
Berlino
Bersin, Mike
Burt, Joe
Betancourt, Rómulo
Beyrand, Dominique
Bharucha, Gita (poi Choksi)
Biba
Birmingham
Black Sabbath
Black, Alan
Black, Cilla
Blackburn, Tony
Blackwell, Chris
Blair, Tony
Blake, John
Blake, Sir Peter
Blanc Gigi vedi White Horse
Blauel, Renate
Blitz Club
Blodwyn Pig
Blow Up Club
Blue Mink
Bodnar, George
Bohemian Rapsody
Bolan, Marc
Bolena, Anna
Bombay
Bongiovi, Jon (poi Bon Jovi)
Bongiovi, Tony
Bonham, John
Bono
Boomtown Rats
Boone, Pat
Borat (film)
Boston
Bowie, David
Boy George
Boyfriend
Boystown
Bp
Brainsby, Tony
Branche, Derrick
Branson, Richard
Bread
Brewer Street Studios
Brighton
Bristol Hippodrome
Britannia Award, premio
British Musicians’ Union
British Phonography Industry
British Telecom
Brixton
Brookwood Civil and Military Cemetery
Brown, James
Brown, Les
Brown, Pete
Browne, Jackson
Brüno (film)
Budapest
Buenos Aires
Buerk, Michael
Buggles
Build Your Own Boat
Bulsara, Bomi (padre di FM)
Bulsara, famiglia
Bulsara, Farrokh
Bulsara, Freddie
Bulsara, Frederick
Bulsara, Jer (madre di FM)
Bulsara, Jer (zia di FM)
Bulsara, Kashmira (sorella di FM)
Bulsara, Perviz (cugina di FM) vedi Darunkhanawala, Perviz
Burke’s Peerage (guida)
Bush, Mel
Bycicle Race
Byrds
Byron, Lord George Gordon
Caballé, Carlos
Caballé, Montserrat «la Stupenda»
Cabaret (film)
Cable and Wireless
Cable, Robin
Café Royal
Caine, Michael
Callaghan, Jim
Callas, Maria
Cameron Richard
Cameron, Jamie
Cameron, Piers
Can’t Buy Me Love
Candle in the Wind/Something About the Way You Look Tonight
Canned Heat
Capalbo, Alfredo
Capital, Radio
Capitol Records
Carlo, principe di Galles
«Carmel»
Carreras, José
Cartier
Cash, Angela
Cass, Mama
Cat People (Putting Out the Fire)
Cats
Cavern Clus
CBS Records (poi Sony)
Chandler, Chas,
Changes
Channel
Chaplin, Charlie
Charisma Records
Charles, Jeannette
Charles, Ray
Charterhouse College
Chelsea College
Chess
Chic
Chirac, Bernadette
Choksi, Gita vedi Bharucha, Gita
Christie, Julie
Christie’s
Chrysalis Records
Chrysler Building
City of Westminster Society for Mentally Handicapped Children
Clapton, Eric
Clark, Dave
Clark, Petula
Cocker, Joe
Cockney Rebel
Cohen, Sacha Baron
Cohn, Nik
Coleherne (pub)
Coleman, Ray
Collins, Phill
Columbia Records
Colvin, David
Cooke, Natalie
Cooke, Roger
Cooke, Sam
Cooke, Sam (cantante)
Cooper, Alice
Copacabana (bar)
Copacabana Palace Hotel
Corminboeuf, Danielle
Coronation Street
Cowan, Carolyn
Coward, Noël
Crawdaddy Club
Crawford, Carolyn
Crazy Little Thing Called Love
Cream
Crematorio di Londra ovest
Cristina, principessa
Croce Rossa
Cross, The
Crossroads (serie tv)
Crystal, Billy
Culture Club
E Street Band
Eagle, The (club)
Eagling, Wayne
Ealing College of Art
Ealing Studios
Earl’s Court
Earth
Earth/Step on Me
East, Dolly
East, Ken
Edinburgh Playhouse
Edmonds, Noel
Edney, Spike
Eisner, Michael
Electric Lady
Elektra
Elisabetta I, regina
Elisabetta II, regina
Ellis, Kerry
ELO
Elstree Studios
Elton, Ben
Embassy Club
EMI
Emmanuel, David
Emmanuel, Elizabeth
Encino
Ensueño
Entertainment Tonight
Entwistle, John
Epstein, Brian
Essex, David
Estadio Ignacio Zaragoza
Estadio Universitario
Eurythmics
Evans, David
Evening News
Everett, Kenny «Ev»
Everett, Lee
Everton Football Club
Evita (musical)
Exercises in Free Love
Extreme
Faces,
Fame, Georgie
Family
Fanelli, Joe «Liza»
Fashion Aid for Ethiopia
Fassbinder, Rainer Werner
Fat-Bottomed Girls
Feelin’ Groovy
Feltham
Fernandez, Bonzo
Ferry, Brian
Festival di musica contemporanea di Tregye
Fiorucci
Fireball XL 5 (serie tv)
Firm
Fisher, Ronnie
Flash
Flash Gordon (colonna sonora)
Flash Gordon (film)
Fleetwood Mac
Forbes, Brian
Forbes, Sarah
Forest Hill Hospital
Foster, Jodie
Foster, Nigel
Fox, Samantha
Foxy Lady
Frampton, Peter
Frankie Goes to Hollywood
Franklin, Aretha
Fratelli Marx
Freas, Frank Kelly
Freddie for a Day
Freddie Mercury, concerto tribute
Freddie Mercury, mostra fotografica
«Fredmira»
Free
Freeman, Alan «Fluff»
Freestone, Peter «Phoebe»
Freyer, Fritz
Frisco
Frost/Nixon (film)
Fun in Space
Furnish-John, Zachary Jackson Levon
Furnish, David
Fury, Billy
Fusi di testa
Gable, Clark
Gabriel, Peter
Galilei, Galileo
Gallop, Jeremy «Rubber»
Galtieri, generale Leopoldo
Gambaccini, Paul
Garden Lodge «Whore House»
Garland, Judy
Gates, David
Gaudì, Antoni
Geldof, Bob
Genesis
Get It On
Giddings, Terry
Gilbert e Sullivan
Gillan, Ian
Girardet (ristorante)
Glasgow
Glitter, Gary
Glover, Roger
God Save the Queen
Godfrey, Lexi
Goffin, Gerry
Goin’ Back (Larry Lurex)
Going for the One
Golders Green Hippodrome
Goldsmith, Harvey
Goliath (gatto di FM)
Gomelsky, Giorgio
Gonna Make You a Star
Goodbye to the Eighties
Goose Productions
Gorbaciov, Mikhail
Gowers, Bruce
Graham Bond Organisation
Grammy Award
Grand Dance
Grant, Eddy
Grant, Peter
Grateful Dead
Gray, senatore
Greenwich, Ellie
GRID (poi AIDS)
Griffin, Jeff
Grishanovitch, Nikolai
Grose, Mike
Groucho Club
Gucci
Gunn, Jacky
Guns N’ Roses
Hadley, Tony
Halfords
Hall, Eric «Monster»
Hallstrom, dottor Cosmo
Halston
Hamilton, David «Diddy»
Hammer to Fall
Hammersmith Odeon
Hannibal (film)
Harbottle & Lewis
Hard Rock Cafè
Harley, Steve
Harris, Bob
Harris, Richard
Harrison, George
Harvey, Alex
Hatch, Tony
Hayter, Stephen
Headlong
Headstone
Hearts on Fire (film)
Heaven (club)
Heaven for Everyone
Hectics, The
Helmsley Palace Hotel
Helvin, Marie
Henderson’s (club)
Hendrix, Jimi
Heroes
Hey Big Spender
Hey Joe
Hey Jude
Hibbert, Jerry
Hideaway
Higgins, Geoff
Highlander (film)
Hillmore, Peter
Hilton (hotel)
Hince, Peter «Ratty»
Hinckley, John Junior
Hitchens, Win
HIV vedi anche AIDS
Hoare, famiglia
Hodkinson, Mark
Hogan, Dave «Hogie»
Hokkaido
Holly, Buddy
Hollywood Records
Holzman, Jac
Honsu
Hopkin, Mary
Hopkins, Nicky
Hotel New Hampshire (libro, film)
Hubris Records
Hudson, Rock
Hughes, Glenn
Hughes, Richard
Hulanicki, Barbara
Hulford, Nick
Humpy Bong
Hunter, Ian
Hunters
Hurlingham Club
Hutton, Jim
Hyde Park (concerto)
Hyndie, Chrissie
Jackie
Jackson
Jackson, Michael
Jagger, Bianca
Jagger, Mick
Jailhouse Rock
James, Allan «Jamesie»
Jamshid bin Abdulla
Japan
Jedward
Jenkins, Jim
Jenkinson, Phil
Jensen, David «Kid»
Jesus Christ Superstar
Jethro Tull
Jett, Joan
Jimi Hendrix Experience
JJ Cale
Joel, Billy
John F. Kennedy, stadio
John Reid Enterprises
John, Elton «Sharon Cavendish»
John, Leee,
Johnny Quale and The Reaction
Johnson, Holly
Johnstone, Sue e Pat
Jon Roseman Productions
Jones, Brian
Jones, John Paul
Jones, Quincy
Jones, Tom
Joseph and the Amazing Technicolour Dreamcoat
Journey to the Centre of the Earth
Juan Carlos, re
Junior’s Eyes
Mack, Felix
Mack, Ingrid
Mack, Reinhold
Made in Heaven
Madison Square Garden
Madonna
Maggie May
Magic Johnson Foundation
Magic Years
Mahler, Gustav
Mail on Sunday (rivista)
Mair, Alan
Maison Rouge Studios
Mallet, David «Mallet B. DeMille»
Mamas & Papas
Manchester
Manchester United
Mandela, Nelson
Manero, Tony
Manic Street Preachers
Mann, Manfred
Mann, Thomas
Mansfield, Mike
Maracanã
Maradona, Diego Armando
Margaret, principessa
Marillion
Mark & Spencer
Marmalade,
Marquee Club
Martin Luther King
Martin, Sir George
Marx, Groucho
Matisse, Henri
Matlock, Glen
May, Brian «Maggie»
May, Harold
May, Jimmy
May, Louisa
Mayall, John
McArthur Park
McCartney, Paul
McConnell Helen e Pat
McGowan, Cathy
McLaren, Malcolm,
McLean, Don
Meade, Roxy
Mehta (dottore)
Melbourne
Melody Maker (rivista)
Mercouri, Melina
Mercury Phoenix Trust
Mercury Records
Mercury, Freddie
cambio del nome
certificato di morte
certificato di nascita
diagnosi ufficiale AIDS
formazione scolastica
funerale
malattia
«Melina»
morte
nascita
sepoltura
test AIDS
testamento
the Great Pretender
Mercury, Mike
Metallica
Metropolis (film)
MGMM
Miami
Michael, George
Middleton, Lady Lee
MIDEM
Millaney, Scott
Mille e una notte
Mineshaft
Minnelli, Liza
Minns, David
Miracle
Mistinguett
Mitchell, Barry
Mitchell, Mitch
Miwa, Akihiro
Mojo (rivista)
Monaco di Baviera
Monroe, Marilyn
Montreux
Montreux Jazz Festival
Montreux Palace
Monty Python
Moon, Keith
Moran, Mike
More of the Real Life
Morgan, Peter
Moroder, Giorgio
Morrish, Jonathan
Morrison, Jim
Morrison, Van
Morumbi, stadio
Moseley, Diana
Mother in Love
Motherlode, The (club)
Motörhead
Motown
Mott the Hoople
Mountain Studios
Mozart, Wolfgang Amadeus
MTV
Mud
Mulcahy, Russell
Mullen, Christine
Murphy, Eddie
Murphy, John
Murray, Bruce
Music Hall of Fame
Musicland Studios
My Beautiful Laundrette
My Fairy King
My Name is Jack
My Smile Is Just a Frown (Turned Upside Down)
Myskow, Nina
Nabokov, Vladimir
Napier-Bell, Simon
National Council for the Unmarried Mother and Her Child
National Exhibition Centre
Nazareth,
Neighbours (serie tv)
Nelson, Jack
Nelson, Willie
Népstadion
Never Mind the Bollocks
Neverland
New Musical Express (rivista)
New Orleans
New York (club di Monaco)
New York
New York Dolls
New York Times
New York Yankees
Newman, Nanette
News of the World (rivista)
Nicks, Stevie
Nilsson, Harry
Nippon Budokan Hall
Nisbet, James
No Make-Up: Straight Tales From a Queer Life
Nobs, Claude
Nolan, Lee
Norman, Jeremy
Norman, Steve
North London Polytechnic
Nozze di Figaro
Nureyev, Rudolph
Nutter, David «Dawn»
Nutter, Tommy
O’Regan, Denis
Observer (rivista)
Ochsen Gardens
Old Grey Whistle Test
Oldfield, Bruce
Olivier, Sir Laurence
Omartian, Michael
One Vision
Orbison, Roy
Osbourne, Ozzy
Oscar (gatto di FM)
Oxfam International
Oxford
Oxford Mail (rivista)
Page, Jimmy
Pagliacci
Paige, Elaine
Paisiello, Giovanni
Panchgani
Papa, Giovanni Paolo II
Parfitt, Rick
Parigi
Park, Merle
Partito Afro-Shirazi ASP
Partito Nazionalista di Zanzibar ZPPP
Parton, Dolly
Party at the Palace
Paterno, Peter
Paton, Dave
Patricio
Pavarotti, Luciano
Peaches
Pearson, Rosemary
Peel, John
Pelo (rivista)
Perelandra
Peter, Paul and Mary
Peters, Martin
Petersen, Colin
Petraca, señor
Pheasantry, The
Philadelphia 76ers
Phillips, Antony
PhP
Piaf, Edith
Pilot
Pink Floyd
Pinocchio (film)
Pitney, Gene
Pizza Express
Plant, Robert
Platters
Play the Game
Polar Bear
Poliedro de Caracas
Pope, Tim
Potgieter, Sarina
Power Station Studios (poi Avatar Studios)
Preludio al pomeriggio di un fauno
Prenter, Paul «Trixie»
Presley, Elvis
Pretenders
Price, Katie «Jordan»
Pride (In the Name of Love)
Prince
Provan’s
Public Records Office (oggi National Archives)
Pune (già Poona)
Punjabi, Ravi
Purple Haze
Pye Studios
Q (rivista)
Q + PR
Quale, Johnny
Quant, Mary
Queen
Queen Day
Queen Films Ltd
Queen: la biografia ufficiale (libro)
Queen Music Ltd
Queen Productions Ltd
Queen’s Award to Industry, premio
Radio 1
Radio 2
Radio Caroline Radio Luxembourg
Radio Ga Ga
Radio Recorders Studios «Annex»
Radiohead
Radiolandia
Ragtime Piano Joe
Rainbow Restaurant
Rainbow Room
Rainbow Theatre
Ram, Buck
Ramones
Ramsey, Sir Alf
Rana, Victory
Randolph Hotel
Rea, Chris
Read, Mike
Ready, Steady, Go!
Reagan, Ronald
Rebel Rebel
Record Mirror
Record Plant
Record World
Red Dragon (film)
Red Hot Chili Peppers
Red Special
Redding, Noel
Reed, Lou
Regina Madre, Elizabeth Bowes-Lyon
Regine’s (club)
Reid, Beryl
Reid, Bill
Reid, John «Beryl»
Reiner, Rob
Reizner, Lou
Revolution Club
Rhodes, Zandra
Rice, Sir Tim
Richard, Cliff «Silvia Disc»
Richard, Little
Richards, David
Richards, Keith
Richardson, Tony
Richie, Lionel
Ridgeley, Andrew
Righteous Brothers
Rimsky-Korsakov, Nikolai Andreyevich
Rio de Janeiro
Ritz Hotel
Robinson, Smokey
Rock in Rio
Rock Show
Rock, Mick
Rocket Records
Rockfield Studios
Rodgers, Paul
Roll Away the Stone
Rolling Stone (band)
Rolling Stone (rivista)
Rondo
Ronson, Mick
Roof Gardens Club
Roosevelt, Franklin Delano
Rose, Axl
Rose d’Or, festival
Rose, Graham
Rosko, Emperor
Ross, Diana
Ross, Jonathan
Rossacher, Hannes
Rossi, Francis
Rossini, Gioacchino
Rota, José
Rotten, Jhonny
Roundhouse Club
Royal Albert Hall
Royal Ballet
Royal Opera House
Ruby Tuesday
Rudge, Peter
Rutherford, Mike
T. Rex
Talking Heads
Tantrums and Titans
Tarzan (gatto di FM e Barbara Valentin)
Taste
Tavaszi Szél Vizet Áraszt
Tavener, Roger
Taylor, Elizabeth
Taylor, Felix
Taylor, James
Taylor, John «Tupp»
Taylor, Roger «Liz»
Tears of a Clown
Terrence Higgins Trust
Testi, Ken
Tetzlaff, Veronica
Thank God It’s Christmas
Thank You
That’s the Way I Like It
The Act
The Elephant Man
The Fallen Priest
The Golden Boy
The Grand Dance
The Great Pretender
The Madcap Laughs
The March of the Black Queen
The Miracle
The Night Comes Down
The Queen (film)
The Rich Kids
The Show Must Go On
The Show Must Go On (libro)
The Tube
The Wind Cries Mary
Théâtre de Chaillot
There Must Be More To Life Than This
These Are the Days of Our Lives
Thin Lizzy
This Is Spinal Tap
Thomas, Rhys
Thompson, Richard
Those Were the Days
Thriller (album)
Thriller (canzone)
Tie Your Mother Down
Tim Pan Alley
Time (musical)
Times, The (rivista)
Tokyo
Tom Robinson Band
Tomato City
Tommy (album degli Who)
Top of the Pops
Top Rank Club
Torpedo Twins
Torri Gemelle
Tour de France
Tourelle, la
Townhouse Studios
Townshend, Pete
Trasparent Television
Travolta, John
Tremeloes
Trent, Jackie
Triangolo delle Bermude
TriBeca
Trident Audio Productions
Trident Studios
Trillion
Troggs
Truro
Turner, Tina
Tutti Frutti
TV Times (rivista)
Tyler, Bonnie
Tyrrell, Robert
U2
UAMSHO (Associazione per la mobilitazione e propaganda dell’Islam)
UFO Club
Ultravox
Un ballo in maschera
Un giorno alle corse
Una notte all’opera
Under Pressure
Ure, Midge
USA for Africa
Valentin, Barbara «la Jane Mansfield tedesca» o «la Brigitte Bardot tedesca»
Van der Graaf Generator,
Van Halen, Eddie
Van Zandt, Steven
Vance, Tommy
Vanilla Ice
Vaticano
Vélez Sarsfield (stadio)
Velvet Underground
Vendidad
Verdi, Giuseppe
Vesti la giubba
VH1
Vicious, Sid
Victory
Video Killer the Radio Star
videoclip
Village People
Vince «il barista»
Viola Redondo, generale Roberto Eduardo
Virgin Radio
Virgin Records
Visconti, Tony
Visser, Joop
Voodoo Chile
X Factor
Xenon (club)
Yardbirds
Yates, Paula
Yeardon, Terry
Yellow Submarine
Yes
You (rivista)
You’re My Best Friend
You’ve Got a Friend
Young, Paul
Young, Richard
Zanzibar
Zappa, Frank
Zarathustra
Ziggy Stardust
zoroastrismo
Zsigmond, Vilmos
ZZ Top
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«L’AUTRICE» || FOTO © DAVE HOGAN