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Marxiano Melotti

SOCIOLOGIA DELL’EDUCAZIONE
MODULO 1

Università degli Studi Niccolò Cusano

SOCIOLOGIA DELL’EDUCAZIONE
Marxiano Melotti

Materiale didattico

MODULO 1

Educazione e società. La costruzione dell’identità nazionale nell’Europa dell’800

Argomenti delle lezioni del modulo

Lezione 1. Introduzione ai temi del corso


Lezione 2. La formazione della classe dirigente. Lo Stato e l’Università
Lezione 3. La formazione della classe dirigente. Humboldt e il sistema formativo prussiano
Lezione 4. La riscoperta del mondo antico nei processi formativi
Lezione 5. Il fascino del passato nei nuovi processi formativi: il Pompejanum e il castello di
Neuschwanstein
Lezione 6. I nuovi processi formativi e la reinvenzione della tradizione. L’esempio di Niederwald

Appendice. I concetti di nazione, cittadinanza ed etnia.

Per approfondimenti. Bibliografia consigliata

Banti Alberto Mario, L’età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all’imperialismo,


Laterza, Roma - Bari 2009.
Hobsbawm Eric J., Ranger Terence (a cura di), The Invention of Tradition, Cambridge University
Press, Cambridge 1983; tr. it. L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 1983 (si veda in
particolare Hobsbawm E.J., Tradizioni e genesi dell’identità di massa in Europa, 1870-1914,
pp. 153-295). Per la lezione 1 e 6.
Melotti Marxiano, Turismo archeologico. Dalla piramidi alle veneri di plastica, Bruno Mondadori,
Milano 2008. Per la lezione 5.
Santoni Rugiu Antonio, Storia sociale dell’educazione, Principato, Milano 1987. Per le lezioni 2, 3
e 4.
Wollons, Roberta L., (a cura di), Kindergartens and cultures: the global diffusion of an idea, Yale
University Press, New Haven 2000. Per la lezione 4.

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LEZIONE 1

Introduzione ai temi del corso

Il corso è dedicato a un aspetto importante, ma spesso trascurato, del rapporto tra educazione e
società: la funzione del patrimonio culturale, della storia e dell’archeologia nei processi formativi.
Prenderemo in considerazione principalmente il contesto europeo.
In una prima sezione (moduli 1-3) esamineremo un quadro temporale che orientativamente va
dall’inizio dell’800 ai primi decenni del ‘900 e corrisponde al periodo di consolidamento dei grandi
Stati nazionali europei nel quadro socio-culturale ed economico del colonialismo,
dell’industrializzazione e del nazionalismo.
In tale contesto ci soffermeremo sulle diverse forme di utilizzo da parte degli Stati nazionali e delle
loro istituzioni formative della storia e della tradizione nella definizione delle nuove identità
nazionali. In tale riflessione sarà centrale il concetto di “invenzione della tradizione”. Esamineremo
quindi alcuni casi specifici: la riscoperta e l’uso del mondo antico e, in particolare, del mondo
classico; la definizione di nuovi miti fondativi a scopo educativo ed identitario; la formazione e la
funzione dei grandi musei nazionali che vengono via via fondati o ampliati, come il British
Museum, il Louvre o la cosiddetta “isola dei musei” di Berlino; la nascita e la funzione di alcune
importanti aree archeologiche, come Troia o Pompei; e la funzione di nuovi monumenti, nuove
feste e nuove tradizioni.
In una seconda sezione (moduli 4-5) esamineremo invece il passaggio alla cosiddetta “società post-
moderna”, il contesto socio-culturale ed economico tendenzialmente di tipo post-industriale e post-
nazionale, basato su globalizzazione, realtà sovranazionali, economia finanziaria e di servizi,
informatizzazione e mediatizzazione, che ha preso forma nella seconda metà del ‘900 e in cui, in
parte, stiamo ancora vivendo. Esamineremo il concetto di “società liquida” in relazione
all’educazione e ai processi formativi. Vedremo quindi lo sviluppo di nuove forme educative di tipo
“liquido”, che interconnettono, spesso in modo inaspettato e creativo, cultura, mercato e
divertimento. In tale contesto analizzeremo il cambiamento di funzione di musei, aree
archeologiche, monumenti e tradizioni, così come la nascita e la diffusione di nuovi spazi e nuove
esperienze di tipo formativo che associano educazione e formazione identitaria alle pratiche di
consumo e divertimento e alle connesse forme di mobilità, dallo shopping al turismo: centri
commerciali, aeroporti, alberghi possono diventare luoghi formativi che, nel nuovo quadro liquido
largamente post-nazionale e post-politico, educano il cittadino-consumatore. Vedremo infine il
riadattamento post-moderno di alcune importanti pratiche formative di età moderna, come la living
history e l’historical re-enactment (rievocazione storica) ed esamineremo alcune pratiche, dai
laboratori didattici di archeologia sperimentale ai festival di rievocazione storica. Un concetto
chiave di questa riflessione sarà il cosiddetto “edutainment”.
In una terza parte del corso (moduli 6-7) esamineremo infine la funzione del patrimonio culturale
immateriale nei processi formativi dell’identità individuale e collettiva. Come caso di studio,
prenderemo in esame la festa patronale di Santa Lucia a Siracusa, di cui analizzeremo la storia, in
relazione soprattutto con la cultura pre-cristiana greco-romana e il suo sistema mitico-religioso, e il
suo ruolo nei processi di costruzione dell’identità civica. Vedremo poi come la figura di Lucia
riappaia alla fine dell’800 in Svezia, in un contesto socio-culturale molto differente. Analizzeremo
il significato della festa svedese di Lucia in rapporto alla formazione dell’identità individuale e
collettiva a livello famigliare, civico e nazionale, così come in rapporto alle trasformazioni culturali
della Svezia moderna e post-moderna: industrializzazione, urbanizzazione, costruzione dell’identità
nazionale, nuovi mezzi di comunicazione di massa etc.
La sezione finale del corso (modulo 8) è dedicata a un quadro storico evolutivo della sociologia
dell’educazione e passa in rassegna i concetti chiave della disciplina.

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Introduzione ai temi del modulo

La prima sezione del corso è dedicata al ruolo dei processi formativi nel consolidamento dei grandi
Stati nazionali tra ‘800 e inizio ‘900. Ci soffermeremo sulle diverse forme di utilizzo della storia e
della tradizione nella definizione delle nuove identità nazionali. Avremo così modo di analizzare
come nel corso dell’800, parallelamente al processo di consolidamento dei grandi Stati nazionali
europei, prendano forma, oltre alla scuola e all’università, una serie di istituzioni (come i grandi
musei nazionali) e di altre realtà (come le aree archeologiche), che hanno il compito di educare la
nazione e di formare o, addirittura, inventare un’identità collettiva di tipo nazionale. Tali processi,
come vedremo, non si limitano alla formazione e all’istruzione della classe dirigente e, in senso più
ampio, del personale dell’amministrazione pubblica degli Stati e delle nuove nazioni europee, ma,
sia pur gradualmente, coinvolgono fasce sempre più ampie della popolazione.
Da questo punto di vista il Romanticismo può essere letto come il grande movimento culturale
europeo che, integrando e rinnovando l’impostazione culturale e scientifica dell’Illuminismo
settecentesco, accompagna la nascita, lo sviluppo e il consolidamento delle nuove realtà nazionali.
L’attenzione al passato e alla storia che caratterizza il Romanticismo è coerente con il processo
culturale di formazione delle identità nazionali. Nel corso dell’800 gli Stati europei riscoprono il
proprio passato e guardano con rinnovato interesse alla propria storia nel quadro di un ampio
processo di definizione identitaria: nel passato si cercano le ragioni del presente. Ogni Stato tende
insomma a rileggere il proprio passato in modo funzionale al presente, per trovare delle
giustificazioni storiche alle scelte politiche o all’impostazione culturale del presente.
Da un punto di vista scientifico, scolastico e accademico, questo crescente e generale interesse
verso il passato dà impulso allo studio della storia e alla definizione di nuove discipline scientifiche,
come l’archeologia, la filologia e la glottologia.
Ogni Stato riscopre – e spesso reinventa – il periodo storico che meglio si adatta a giustificare
l’impostazione culturale e politica del presente. L’epoca storica che riscuote il maggiore successo è
il medioevo, che viene riletto come una fase di rinascita politica e culturale di tipo “nazionale”,
dopo un lungo periodo di assoggettamento all’Impero romano, e quindi come un’esperienza storica
che prepara o addirittura anticipa le successive realtà nazionali. Con la stessa logica vengono
riscoperte le culture locali pre-romane o anti-romane. Storiografia e archeologia, assieme alla
pittura, alla poesia e all’opera lirica, concorrono a creare nuovi eroi e nuovi miti. È in questo
contesto, ad esempio, che si definisce il mito di Arminio, che, come vedremo, accompagna l’intero
processo di formazione dell’identità tedesca: dal ’500, con l’affermazione della cultura protestante e
il distacco dalla Chiesa di Roma, sino al nazional-socialismo dell’età hitleriana, passando attraverso
le rivendicazioni romantiche e nazionali del primo ’800 e il nazionalismo e il militarismo che alla
fine dell’800 accompagna il consolidamento dell’Impero tedesco.
La stessa attenzione viene riservata all’antica cultura romana. L’esperienza statuale e imperiale di
Roma, che aveva dato vita a un raffinato e complesso sistema giuridico, aveva raggiunto incredibili
(e per secoli ineguagliati) traguardi ingegneristici nella costruzione di strade, ponti e acquedotti e,
soprattutto, aveva messo a punto un efficiente apparato burocratico e militare, viene studiata con
interesse e spesso individuata come un riferimento da prendere in considerazione nel processo di
consolidamento dei nuovi Stati nazionali. Non a caso è proprio nel corso dell’800 che il diritto
romano prende forma come disciplina scientifica universitaria e, al contempo, conferma il proprio
ruolo storico di utile modello nella definizione dei sistemi giuridici.
L’interesse per la cultura greca classica ha invece radici più antiche: non solo è alla base della
rivoluzione culturale del Rinascimento, ma di fatto è presente, sia pure in misura minore, già nel
corso del Medioevo. L’arte greca costituisce un modello di riferimento fondamentale per l’arte
europea sin dal Rinascimento. Alla fine del ’700 questo interesse prende la forma di un vero e
proprio movimento culturale che in architettura si esprime con il neo-classicismo. I testi di filosofia
e di teoria politica dei grandi pensatori greci, come Platone e soprattutto Aristotele, sono alla base

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dell’Umanesimo e del pensiero moderno. L’Illuminismo francese, nel corso del ’700, individua
nella Grecia antica e nel suo principale istituto, ossia la democrazia (anche se diversa da quella cui
oggi si pensa), uno dei propri modelli culturali. L’800 conferma e rinnova questo interesse per il
mondo ellenico, che viene gradualmente riletto come la prima importante esperienza politica e
culturale di stile europeo. La civiltà greca antica, riconosciuta come il più importante laboratorio di
elaborazione delle idee e delle istituzioni che costituiscono la modernità stessa (democrazia, libertà,
città, dialettica) e come il principale modello di riferimento dei canoni artistici adottati in tutta
Europa, viene quindi “pensata” e presentata come la civiltà da cui trae origine la cultura dell’Europa
moderna.
Questo processo di rivalutazione del passato europeo e delle civiltà classiche accompagna lo
sviluppo dell’esperienza coloniale e imperiale dei principali Stati europei. La conquista del mondo
da parte di Gran Bretagna, Germania, Francia – e più tardi anche Italia – trova una sorta di
giustificazione storica nel glorioso passato degli Stati europei: le straordinarie elaborazioni
intellettuali della filosofia greca e del diritto romano, i traguardi scientifici raggiunti dall’ingegneria
romana e, soprattutto, la capacità di conquista militare dei sovrani ellenistici e degli imperatori
romani e l’organizzazione politica, giuridica e amministrativa dello Stato romano vengono
presentati come una prova della superiorità culturale, scientifica, politica e militare dell’Europa sul
resto del mondo. Non a caso l’attenzione degli storici e degli artisti si concentra su figure di
condottieri e “statisti”, come Alessandro Magno e Giulio Cesare.
Questo uso politico e ideologico dell’antichità è ravvisabile lungo tutto l’800 e la prima fase del
’900, dal primo Romanticismo sino a figure come Guglielmo I, fondatore dell’Impero tedesco,
Hitler, fondatore del Terzo Reich, o Mussolini, fondatore dell’Impero italiano: figure
profondamente diverse, che tuttavia si pongono, a vario titolo, come epigoni e continuatori
dell’antico impero romano.
Da questo punto di vista è estremamente significativo l’uso della storia di Roma fatto da Guglielmo
II, con la ricostruzione della fortezza di Saalburg (modulo 2, lezione 4), e da Mussolini, che sventra
il centro storico di Roma per creare la scenografica Via dei Fori imperiali su cui far marciare
l’esercito in parata (modulo 4, lezione 2), o l’uso della storia greca da parte del primo cancelliere
dell’Impero tedesco, Otto von Bismarck, che promosse importanti campagne di scavo in Grecia e in
Turchia, e da Hitler, che si ispirò all’Altare di Pergamo per edificare un’imponente edificio per le
manifestazioni del partito nazista (modulo 2, lezione 6).
A questo interesse per la storia corrisponde un’attenzione crescente verso l’archeologia. Il
patrimonio archeologico si configura come la componente concreta e visuale di questo astratto
processo ideologico di formazione dell’identità nazionale. Gli scavi offrono materiale di studio agli
archeologi e, una volta aperti al pubblico, un’importante occasione di formazione per tutta la
popolazione. La grandi campagne archeologiche, tanto in patria quanto all’estero, vengono
finanziate dagli Stati. Abbiamo già ricordato l’attenzione riservata da Bismarck agli scavi
archeologici in Grecia (Olimpia) e Turchia (Pergamo).
A ciò si aggiungono le iniziative di privati, avventurieri o appassionati eruditi, che avviano
compagne di scavo che non di rado prendono la forma di veri e propri saccheggi. Possiamo
ricordare due casi emblematici che si riferiscono a due siti archeologici d’importanza fondamentale
per la storia e per l’identità europea: Atene e Troia. Lord Elgin, ambasciatore britannico presso
l’Impero ottomano, riesce a rimuovere dal Partenone di Atene una grande quantità di sculture
(modulo 3, lezione 2). Heinrich Schliemann, ricco commerciante e studioso di Omero, corona il
sogno di una vita avviando una campagna di scavo sul sito dell’antica Troia, da lui individuato
(modulo 2, lezione 6). Elgin riesce a vendere il proprio tesoro (secondo alcuni costituito
illecitamente) al British Museum, mentre Schliemann lascia la propria collezione (in gran parte
trafugata) ai musei di Berlino. Da questo punto di vista lo sviluppo dell’archeologia e la formazione
dei grandi musei archeologici riflette e accompagna il rafforzamento imperiale e coloniale

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dell’Europa e, soprattutto, lo sviluppo di un’etnocentrica mentalità coloniale che giustifica


l’acquisizione – con ogni mezzo – dei grandi capolavori del passato.
I grandi musei nazionali, come vedremo nei moduli 2 e 3, hanno un ruolo di grande importanza in
questa riscoperta del mondo antico e nei processi formativi delle nuove identità nazionali. Lo Stato
infatti educa i suoi cittadini non solo con scuole e università, ma anche con l’allestimento di musei e
di siti archeologici. Reperti e monumenti danno consistenza visuale al passato e alle nozioni
trasmesse dal sistema scolastico. Hanno inoltre un’altra funzione egualmente formativa:
contribuiscono infatti a veicolare l’idea stessa della forza politica, economica, militare e culturale
della nazione. Solo uno Stato solido e ben organizzato è in grado di costituire un museo con una
collezione di rilievo, che comprenda reperti di tutte le epoche e del maggior numero possibile di
culture. I musei diventano la vetrina della forza coloniale e della capacità di penetrazione
commerciale degli Stati. Nel corso dell’800 la competizione politica ed economica tra le grandi
potenze europee – Gran Bretagna, Francia e Germania – diventa anche una sfida culturale per la
costituzioni del museo nazionale più ricco. Dalla fine dell’800, con la graduale affermazione degli
Stati Uniti come nuova potenza industriale, questa competizione cambia scala. Da una contesa
intraeuropea tra le diverse capitali del vecchio continente diventa una contesa tra Europa e Stati
Uniti, che cominciano a costituire un proprio sistema museale in cui si rintraccia la medesima
duplice impostazione, formativa e ideologica, dei grandi musei europei.
Un’altra importante istituzione formativa, che prenderemo in considerazione nelle lezioni, è il
turismo e, in particolare, il turismo culturale.
Tra le prime forme di turismo possiamo ricordare il cosiddetto Grand Tour, vale a dire il viaggio di
formazione, di solito diretto in Italia, dei giovani rampolli della famiglie aristocratiche della Gran
Bretagna e della Germania (modulo 1, lezione 5; modulo 3, lezione 5). Il Grand Tour comincia a
costituire un istituto formativo importante a partire dalla fine del ’700. Già nei primi decenni
dell’800 è un’esperienza formativa pressoché imprescindibile tra le famiglie più abbienti.
Nel corso dell’800, parallelamente alle trasformazioni sociali ed economiche del continente, il
Grand Tour si estende ai giovani di estrazione borghese. Sempre nell’800 si sviluppa il turismo
culturale in musei e aree archeologiche, che a lungo resta un fenomeno essenzialmente borghese,
spesso legato ad altre esperienze, come il turismo terapeutico e termale.
Con la formazione degli Stati nazione i grandi monumenti voluti dallo Stato a scopo celebrativo
cominciano a essere oggetto di un pellegrinaggio da parte di famiglie in gita e di scolaresche, in cui
si ravvisa un tipo di turismo culturale-didattico (modulo 1, lezione 6; modulo 2, lezione 1), spesso
collegato ai processi formativi tradizionali di tipo scolastico. Il monumento di Niederwald, dedicato
alla Germania, e quello di Detmold, dedicato al guerriero Arminio-Hermann, entrambi inaugurati da
Guglielmo I, così come la fortezza romana di Saalburg, ricostruita da Guglielmo II, sono degli
esempi di queste prime forme di turismo culturale e didattico.

Il quadro storico

Il corso prende in esame due secoli di storia, l’800 e il ’900, un periodo nel corso del quale in
Europa avvengono importanti trasformazioni, tra cui il consolidamento del sistema produttivo
basato sull’industria, la graduale affermazione della borghesia come classe sociale compartecipe del
potere e il consolidamento dei grandi Stati nazionali. Le ultime lezioni tratteranno la fase più
recente della storia occidentale e delle trasformazioni economiche e sociali che hanno dato vita alla
cosiddetta “post-modernità” (modulo 4, lezione 1), intesa come fase storica in cui svolge un ruolo
trainante non più la produzione industriale, come accadeva nella “modernità”, ma un insieme,
largamente interdipendente, di nuove realtà economiche, produttive e culturali, come il settore
terziario, la tecnologia avanzata, l’informatica e i media.
Prenderemo in esame una serie di eventi e di fenomeni che prendono forma dopo il Congresso di
Vienna (1815), che dà avvio all’età della Restaurazione, in cui l’Europa “restaura”, o per lo meno

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tenta di restaurare, l’ordine sconvolto dalla Rivoluzione Francese (1789), che in Francia aveva
messo fine alla monarchia, e dalle guerre condotte da Napoleone, che avevano esportato in gran
parte dell’Europa alcune conquiste di quella rivoluzione e avevano modificato l’assetto politico e
costituzionale di molti Stati, nel cui contesto s’inquadra anche la pur transitoria proclamazione di
Napoleone a Imperatore dei Francesi (1804). La sconfitta di Waterloo (1815) mette fine
all’espansione francese e all’Impero napoleonico.
Il Congresso di Vienna riesce a ristabilire l’ordine sconvolto da Napoleone, ma non può cancellare
gli effetti della Rivoluzione Francese e dell’esperienza napoleonica. In molti Stati europei le classi
borghesi hanno compreso che un nuovo ordine è possibile e che gli assetti costituzionali tramandati
dalla tradizione non sono immodificabili. Il potere dell’aristocrazia, che tradizionalmente governava
il territorio e quindi lo Stato, già indebolito dalle guerre napoleoniche e dalle conseguenti
trasformazioni istituzionali, viene quindi messo in discussione. La borghesia è la grande
protagonista dell’800 e assume progressivamente un ruolo sempre più importante, che dalla sfera
economica si estende a quella politica. Il sistema industriale, che in tutta Europa si consolida
rapidamente e appare particolarmente importante in Inghilterra e in Prussia, e le attività
commerciali sono nelle mani della borghesia, che nel corso dell’800 si consolida come classe
sociale e assume gradualmente il controllo politico e amministrativo degli Stati europei.
Tra i diversi processi di formazione degli Stati nazionali ci soffermeremo su quello della Germania.
Anche in questo caso l’esperienza napoleonica è determinante. Nel 1806 Napoleone mette fine alla
storia del Sacro Romano Impero che per secoli aveva riunito, quasi sempre sotto il controllo della
casa reale austriaca, gli Stati tedeschi e dà vita alla Confederazione del Reno, di cui si proclama
protettore. Napoleone libera la Germania – che non esiste ancora come unico Stato – dal controllo
austriaco.
Il Congresso di Vienna restituisce all’Austria il controllo formale sugli Stati tedeschi, che di fatto
però restano autonomi ed entrano gradualmente sotto l’influenza della Prussia, il più ricco di quegli
Stati, che nel corso dell’800 costruisce un imponente apparato industriale e militare. Nel 1866 la
Prussia, alleata all’Italia, sconfigge l’Austria e forma la Confederazione della Germania del Nord,
dalla quale esclude l’Austria. Nel 1867 il re prussiano Guglielmo viene proclamato Presidente di
questa Confederazione. Nel 1870 la Prussia intraprende un’altra decisiva campagna militare, questa
volta contro la Francia, che viene invasa e rapidamente sconfitta. L’efficiente e determinato esercito
prussiano travolge quello francese nel giro di sole sei settimane e giunge con impressionante
rapidità alle porte di Parigi. La battaglia di Sedan conclude questa guerra lampo: l’imperatore
francese Napoleone III viene fatto prigioniero e la Francia sconfitta è costretta a chiedere
l’armistizio.
Sulla base di queste due importanti vittorie militari, che modificano gli equilibri politici europei, la
Prussia nel 1871 può dar vita all’Impero tedesco, federazione di 25 Stati che conservano una certa
autonomia (questo Impero è spesso definito come il Secondo Reich, con riferimento al precedente
Sacro Romano Impero). Il re di Prussia Guglielmo viene proclamato Imperatore con il nome di
Guglielmo I. L’incoronazione avviene simbolicamente nel palazzo di Versailles, la reggia dei
sovrani francesi, nella Francia appena sconfitta. Otto von Bismarck, cancelliere del regno di Prussia
e artefice della politica che porta alla nascita dell’Impero tedesco, diventa cancelliere del nuovo
Impero.
L’Impero tedesco fonda la propria forza sulla solidità dell’apparato industriale e militare e
sull’efficienza del sistema burocratico. L’alleanza strategica tra aristocrazia terriera e militare,
grande borghesia industriale, media e piccola borghesia cittadina e burocrazia statuale garantiscono
la tenuta del sistema.
Nel 1888 diventa imperatore Guglielmo II, che governerà fino alla fine della I guerra mondiale
(1918). La sconfitta militare della Germania nella guerra segna anche la fine dell’Impero e porta
alla nascita della Repubblica di Weimar. I devastanti effetti della guerra mondiale, con il tracollo
economico della Germania e le pesantissime sanzioni, creano tuttavia le premesse per la formazione

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e il radicamento di un movimento nazionalista di stampo populista, che riesce rapidamente a


prendere il controllo del Paese e porta poi l’intera Europa a una nuova disastrosa guerra mondiale.

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LEZIONE 2

La formazione della classe dirigente. Lo Stato e l’Università

Nel processo di formazione e consolidamento dell’Impero tedesco l’istruzione ha una grande


importanza. Uno stato solido ed efficiente ha bisogno di un apparato amministrativo e di una classe
dirigente capace e preparata. Ciò presuppone un buon sistema scolastico e universitario.
La qualità dei processi formativi della borghesia e della classe dirigente tedesca e l’attenzione
dedicata dallo Stato alla formazione sono alcuni degli elementi che hanno consentito la
modernizzazione degli Stati tedeschi e, più tardi, il rafforzamento dell’Impero tedesco.
Non a caso il sistema formativo tedesco ha a lungo costruito il modello di quello di molti Stati
europei: il Liceo italiano, ad esempio, e la stessa Università italiana hanno un’impostazione che
molto risente di quella tedesca. L’Italia infatti si costituisce come Stato nazionale nello stesso
periodo storico della Prussia: nel 1861 viene proclamato il Regno d’Italia; il processo di formazione
prosegue con l’annessione del Veneto (1866) e poi di Roma e dello Stato Pontificio (1970), al quale
resta soltanto il Vaticano (restano però ancora fuori del Regno d’Italia il Trentino e la Venezia
Giulia, che ne entreranno a far parte solo nel 1918, dopo la Grande Guerra).
Nella formazione della classe dirigente l’Università occupa naturalmente un ruolo fondamentale.
Non è un caso che i Paesi tedeschi disponessero di importanti centri universitari. Tra questi
possiamo ricordare l’Università di Göttingen, fondata nel 1737, che per prima ottiene una serie di
riconoscimenti e di privilegi che ne fanno un importante e, soprattutto, autonomo centro di
formazione intellettuale per la borghesia tedesca: l’Università infatti ottiene il riconoscimento della
libertà di insegnamento, l’esenzione dalla censura preventiva sulle opere dei professori, l’esenzione
dall’obbligo di praticare pubblicamente la religione di Stato e di adottare soltanto testi autorizzati.
La città di Göttingen nel 1866 entra a far parte del regno di Prussia e la sua prestigiosa Università
confluisce così nel sistema formativo prussiano.
La libertà intellettuale di Göttingen può essere considerata uno dei pilastri della formazione di una
borghesia colta e tendenzialmente indipendente dal potere costituito. Non a caso è proprio la
borghesia a sostenere lo sviluppo e a difendere la libertà di questi centri universitari. In particolare,
come mostra il testo consigliato di Santoni Rugiu, è la piccola e media borghesia, intellettuale e
dirigenziale, ad avere interesse a difendere l’autonomia culturale e politica delle università come
spazi formativi in grado di fronteggiare la perdita di libertà individuale dovuta alla Restaurazione e
a controbilanciare gli interessi della ricca e sempre più influente borghesia imprenditoriale. È
tuttavia l’Università ad assicurare la formazione della burocrazia locale, che costituisce la base
dell’amministrazione statale.
Da questo punto di vista è estremamente interessante un’osservazione del filosofo Georg Wilhelm
Hegel (1770-1831), una delle personalità più importanti della storia intellettuale tedesca e del
pensiero moderno europeo. Nella Filosofia del diritto, pubblicata nel 1820, Hegel richiama
l’attenzione sull’importanza per lo Stato della formazione di un’efficiente amministrazione che non
può che provenire dalla borghesia. “La classe media dei funzionari statali rappresenta la coscienza e
la cultura più tipiche dello Stato. Quindi essa ne costituisce le colonne portanti per quanto riguarda
il diritto e l’intellettualità. Dove non esiste una classe come questa, lo Stato non ha raggiunto ancora
un livello elevato. Ciò accade in Russia, che ha una moltitudine di servi e una minoranza di
governanti”. “La formazione di questa classe è interesse precipuo dello Stato”.
Hegel stesso rappresenta un esempio di questa media borghesia che si forma in Università e viene a
costituire la nuova classe media dei funzionari statali: figlio del capo della cancelleria del duca di
Stoccarda, studia all’Università di Tübingen, diventa docente a Jena, quindi rettore a Norimberga, e
infine docente e, dal 1829, rettore dell’Università di Berlino. Quando nel 1818 diventa professore a
Berlino nella sua lectio magistralis di prolusione al corso esalta lo Stato prussiano.

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LEZIONE 3

La formazione della classe dirigente. K.W. von Humboldt e il sistema formativo prussiano

Una delle grandi innovazioni del sistema formativo tedesco è l’attenzione riservata alla formazione
tecnica e scientifica della borghesia e quindi della futura classe dirigente e imprenditoriale. A fine
’700 le Università tedesche comprendevano ancora al loro interno l’Artistenfakultät, cioè la facoltà
dedicata alla arti liberali, che, come ricorda Santoni Rugiu, aveva un’impostazione formativa
sostanzialmente immutata dal ‘500 ed era basata sul sistema medievale delle “arti”, intese come
corporazioni di mestieri.
La nuova borghesia imprenditoriale ha esigenze diverse e richiede competenze di carattere tecnico e
scientifico che la mettano in grado di gestire la nuova organizzazione del lavoro, del mercato e
dell’industria e di rispondere alle nuove più complesse esigenze dell’amministrazione pubblica.
Nascono così le Realschulen, primo livello della scuola secondaria, che danno più spazio alla
matematica, alla fisica, alle scienze naturali, alla geografia e alle lingue moderne e assicurano una
formazione di base multidisciplinare e di tipo “moderno”. Queste Realschulen anticipano il modello
degli Istituti tecnici in Italia.
Il rinnovamento delle istituzioni formative tedesche riflette e al tempo stesso accelera il processo di
consolidamento dello Stato prussiano e di costruzione della Prussia come Stato moderno. Questo
rinnovamento del sistema formativo è un processo contraddittorio cui partecipano attori che hanno
obiettivi e priorità differenti: lo Stato ha bisogno di una classe di funzionari competenti, ma al
tempo stesso teme di contribuire alla formazione di una borghesia troppo preparata e quindi
influente. Allo stesso modo la borghesia sostiene lo sviluppo di un sistema formativo moderno e più
adeguato alla proprie esigenze. Con l’istruzione, soprattutto di livello universitario, rafforza una
propria coscienza di classe e mette a fuoco una serie di obiettivi che nel corso dell’800
contribuiscono alla dissoluzione delle monarchie di tipo assoluto e portano alla formazione di
monarchie costituzionali o di Stati, come l’Impero tedesco, in grado di assicurarle benefici
economici e un adeguato spazio dirigenziale.
In questo processo di rinnovamento del sistema formativo è significativo il contributo di Karl
Wilhelm von Humboldt (1767-1835), fondatore e poi rettore dell’Università di Berlino, ministro
dell’istruzione (1809-1810) dello Stato prussiano, membro della delegazione prussiana al
Congresso di Vienna, nonché fratello del celebre naturalista ed esploratore Alexander.
A Wilhelm von Humboldt si deve progetto di riforma del sistema formativo prussiano. Von
Humboldt lamentava che l’età contemporanea avesse rinunciato alla “formazione dell’uomo in
quanto uomo”, come invece avveniva, a suo modo di vedere, nell’antichità greca. La formazione,
secondo von Humboldt, era orientata solo al perseguimento del “benessere, della proprietà e della
capacità di guadagno”. Si tratta evidentemente di un punto di vista che riflette quello
dell’aristocrazia, alla quale von Humboldt apparteneva, e che, in questi termini, non poteva essere
condiviso dalla borghesia. Tuttavia questa impostazione, che tende aristocraticamente a svalutare
alcuni aspetti materiali, come appunto il guadagno, era coerente con l’impostazione culturale di
fondo del Romanticismo che, se pure in gran parte espressione delle nuove borghesie, tendeva a
riconoscersi o per lo meno a condividere alcuni dei modelli culturali dell’aristocrazia. Da questo
punto di vista il richiamo alla cultura greca antica e l’esaltazione di un mondo classico, astratto e
distaccato dalla materialità, in perenne ricerca del Bello, erano comuni all’aristocrazia e alla
borghesia.
Per von Humboldt l’educazione pubblica “non può essere mai valida allorché l’uomo è sacrificato
al cittadino”. In un’affermazione come questa rintracciamo la contrapposizione, tipicamente
romantica, tra ideale e reale e l’ipervalutazione della cultura e dell’istruzione come beni astratti a
cui si accompagna una svalutazione del loro valore utilitaristico. La cultura insomma non deve
essere utile o funzionale a qualcosa, ma costituisce un valore in sé. Si tratta di un’impostazione che

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MODULO 1

ha comportato quella separazione tra formazione umanistica e scientifica che a lungo caratterizzato
la cultura europea e ha influito sull’organizzazione anche dei nostri sistemi formativi:
un’impostazione che, soltanto da pochi decenni, è stata messa in discussione.
Von Humboldt, ritenendo che ci si preoccupasse troppo dell’educazione delle classi sociali inferiori
e si dedicasse troppa attenzione alla formazione tecnica e professionale, invitava a educare il lato
“spirituale e morale” e a tralasciare quello “materiale”. Von Humboldt rimpiangeva i vecchi metodi
e i vecchi contenuti formativi che cercavano di “risvegliare nel cittadino di ogni condizione
sentimenti e pensieri e non di addestrare abilità concrete”. “Anche il mendicante e il bracciante
agricolo”, sostiene von Humboldt, “godono di una loro immaginazione e perciò anche in loro si può
tendere a suscitare qualcosa di elevato”. Si tratta di un’ipostazione aristocratica e romantica, che
tende a ignorare le reali condizioni della società (mendicanti e braccianti naturalmente non
frequentavano le scuole).
Queste idee di von Humboldt, coerenti con il contesto culturale e politico della Restaurazione e,
come si è detto, con alcuni aspetti del Romanticismo, non si adattavano – e, col corso del tempo, si
sarebbero sempre meno adattate – alle reali esigenze degli Stati tedeschi, tra cui la stessa Prussia,
nei quali la borghesia, che richiedeva una formazione di stampo moderno, stava assumendo un
ruolo sempre più importante.
A von Humboldt tuttavia si deve un progetto di riforma dell’ordinamento scolastico che è alla base
del sistema formativo tedesco. La formazione viene suddivisa in tre livelli: primario (o popolare),
secondario (o scolastico) e universitario. L’educazione elementare, che deve essere impartita nella
lingua materna, si occupa dell’istruzione formale (numeri, forma e linguaggio), vale a dire della
capacità generali dell’individuo, di cui deve plasmare la personalità. L’educazione secondaria
comprende invece storia, geografia, matematica e fisica. L’insegnamento delle lingue classiche ha
una grande importanza, coerente con l’impostazione astratta e non funzionalistica sopra ricordata:
greco e latino devono essere insegnati in quanto “lingue morte” ed “estranee al mondo attuale e alla
lingua materna”. Esse non servono tanto alla comprensione dei testi classici e del mondo antico, ma
sono importanti in quanto sistemi linguistici in sé. “La conoscenza delle lingue sollecita la fantasia,
i ragionamenti e rischiara l’intelletto”.
In questa attenzione allo studio del greco e del latino possiamo individuare una delle prime tracce
del processo di reinvenzione e di uso del mondo antico attuato dalla cultura romantica dell’800, che
abbiamo già ricordato e che meglio vedremo nelle successive lezioni.

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LEZIONE 4

La riscoperta del mondo antico nei processi formativi

Una simile attenzione allo studio delle lingue antiche è rintracciabile anche in Hegel, che tuttavia
vedeva nel greco e nel latino degli strumenti utili per acquisire ulteriori conoscenze. La grammatica
greca e latina è utile in sé per la propria difficoltà, che aiuta l’individuo a elaborare un metodo di
studio e ad affrontare e gestire nozioni di tipo astratto: “Pensando cose astratte si apprende a
pensare in forma astratta”. Il greco e il latino sono insomma una sorta di premessa alla
comprensione della filosofia. Anche in questo caso però possiamo rintracciare un’impostazione
culturale di tipo elitistico: solo chi studia greco e latino sarebbe di fatto in grado di comprendere la
filosofia e quindi, secondo Hegel, di acquisire le conoscenze necessarie a far parte della classe
dirigente. Per il filosofo tedesco lo studio delle lingue antiche era indispensabile per “elevare lo
spirito” verso una cultura superiore e, attraverso l’apprezzamento delle civiltà antiche, arrivare ad
amare la “vera bellezza”. Nel sistema filosofico di Hegel la civiltà avrebbe attraversato tre fasi di
capacità di elaborazione intellettuale corrispondenti a tre grandi fasi storiche: l’animismo,
corrispondente al mondo antico, l’età in cui il divino sarebbe stato presente nel mondo e in cui
l’uomo sarebbe stato capace di percepirne la presenza; il medioevo, che avrebbe comportato una
rottura tra l’umano e il divino, con grande sofferenza per l’umanità; e infine l’età presente o
dell’autocoscienza, in cui l’uomo con la Ragione – e quindi con lo studio – sarebbe riuscito
finalmente a recuperare questo rapporto con il divino e a riaffermare sé stesso.
Un contributo interessante a questa rivalutazione dello studio delle lingue classiche – e quindi
anche del mondo antico – nel sistema formativo tedesco è costituito dall’attività di Johan-Friedrich
Herbart (1766-1841). Herbart sostiene la necessità di cominciare l’istruzione infantile con lo studio
dei poemi di Omero. Il mondo fantastico e avventuroso dell’Odissea, popolato di mostri e di maghe
e pieno di descrizioni d’imprese e di viaggi, appariva comprensibile ai più piccoli e adatto alla
formazione dell’immaginazione infantile. Allo stesso modo l’Iliade, con le sue poderose scene di
battaglia, avrebbe potuto educare i giovani ai valori del mondo degli adulti e della vita sociale.
I ragazzi più grandi avrebbero invece potuto avvicinarsi al mondo romano, dal quale avrebbero
potuto apprendere nozioni più complesse e comprendere il significato di istituzioni come lo Stato.
Questa sequenza formativa tra conoscenza del mondo greco e conoscenza del mondo romano è
estremamente significativa e riflette una precisa immagine culturale della Storia e dello sviluppo
individuale che ha avuto un grande successo nel pensiero europeo ed è rintracciabile, anche se in
forme diverse, in molti autori, tra cui Hegel, come abbiamo visto sopra, e Freud. Come la
personalità individuale, dall’infanzia all’età adulta, procede dal semplice al complesso e
gradualmente sostituisce la capacità fantastica e immaginativa con quella razionale, così l’umanità
nel corso della sua storia è passata da una fase primitiva alla modernità, dalla superstizione alla
religione, dal mito alla storia. In un simile contesto il mondo greco sarebbe più primitivo di quello
romano e più vicino alla personalità dei bambini, così come la civiltà romana, più complessa ed
evoluta, sarebbe più vicina all’età adulta.
I metodi formativi di Herbart avevano però anche aspetti più discutibili, se pure giustificabili nel
contesto culturale sopra ricordato. Herbart infatti tentava d’insegnare il greco, senza impartire delle
conoscenze preliminari di grammatica, ma affrontando direttamente un testo complesso come
quello di Omero. È un sistema ardito, che alcune recenti metodologie didattiche, basate sulla pratica
linguistica diretta e immersiva e sullo studio diretto dei testi, hanno di fatto recuperato. Tuttavia
tanto Herbart quanto queste didattiche più recenti presentano un accostamento ingenuo e romantico
che non porta necessariamente a buoni risultati.
L’idea di un’infanzia, ancora estranea alla razionalità del mondo degli adulti, costituiva una
concezione diffusa. La stessa impostazione “evoluzionistica” di Herbart fonda le sue basi sulle
riflessioni di autori illuministici e pre-romantici, come Jean-Jacques Rousseau, che vedevano nella

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storia collettiva dell’umanità e nello sviluppo dell’individuo un processo di progressivo


allontanamento da un’età dell’oro, caratterizzata da libertà e fantasia.
Vale la pena di ricordare a questo proposito il programma formativo di un celebre pedagogo
tedesco, Friedrich Froebel, che dette vita ai “Giardini di Infanzia”. Per Froebel il bambino nasce
pieno di fantasia e di creatività; crescendo e divenendo adulto, perde questa creatività. L’educatore
dovrebbe cercare di conservare la creatività infantile, incanalandola però in un progetto formativo
specifico, che consenta al bambino di divenire adulto senza perdere una caratteristica che il mondo
degli adulti tende a sottovalutare, ma che può essere di grande utilità. Rispetto ai modelli formativi
prevalenti nel corso dell’800, punitivi e coercitivi, che limitavano la sfera del gioco e tendevano
invece a veicolare il prima possibile valori come ubbidienza e rispetto, per Froebel il bambino deve
essere lasciato libero di giocare. Nel suo gioco però deve essere guidato. Nei “Giardini di Infanzia”
ai bambini viene affidato un piccolo giardino da curare: in questo modo restano in contatto con il
mondo primigenio della fantasia, rappresentato dai fiori e dalla natura, ma al tempo stesso imparano
ad avere delle responsabilità. Il bambino, che con la sua fantasia è capace di inventare mondi e
realtà parallele, è per questo “creatore” e “creativo” al tempo stesso. La cura del giardino gli
consente di mantenere questo ruolo di “creatore” anche mentre diventa adulto. A mano a mano che
fa fiorire il proprio giardino, il bambino si responsabilizza e rinvigorisce la propria creatività.
D’altra parte il bambino che sa far fiorire un giardino un giorno saprà far fiorire una famiglia o
un’azienda.
I “Giardini” di Froebel ebbero sin da subito un grande successo e si diffusero rapidamente in tutta
Europa. In Italia il primo “Giardino” fu aperto nel 1869 a Venezia; nel 1885 il ministro Coppino
inserì i “Giardini” nell’ordinamento italiano, annettendoli alle Scuole Normali per il tirocinio delle
insegnanti. È chiaro però che questo modello confliggesse con l’impostazione culturale prevalente
della Prussia, dove i “Giardini” vennero chiusi nel 1851. In uno stato militarista, che vede
nell’esercito un elemento costitutivo dello Stato, la libertà dei “Giardini” era vista con sospetto. I
modelli formativi vincenti erano piuttosto quelli proposti da Hegel, che riconosceva l’importanza
della fantasia, ma al contempo riaffermava l’importanza dell’ordine e dello Stato e auspicava
sistemi formativi basati sulla disciplina e sul rispetto dello Stato, e da von Humboldt, che proponeva
un sistema formativo gerarchizzato e strutturato.

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LEZIONE 5

Il fascino romantico del passato nei nuovi processi formativi. Il Pompejanum e il castello di
Neuschwanstein

Tra gli esempi più significativi dell’attenzione romantica al mondo antico possiamo senz’altro
ricordare il Pompejanum di Aschaffenburg in Germania, un edificio che riproduce, con una certa
attenzione filologica, la Casa dei Dioscuri, una villa dell’antica Pompei, con cortili colonnati, pareti
affrescate e fontane.
Il Pompejanum prese forma tra il 1843 e il 1850, quale piacevole residenza estiva del re della
Baviera Luigi I, che, come tanti altri viaggiatori e granturisti, era rimasto affascinato da una visita
agli scavi di Pompei. La villa, adagiata in posizione panoramica sulle alte sponde del fiume, era
ingentilita da giardini con limoni, mandorli e fichi. Alle origini di questo monumento vi era infatti il
ricordo dell’atmosfera mediterranea e delle romantiche sensazioni suscitate da un’esperienza di
turismo archeologico, nella tradizione del Grand Tour. Lo spirito non era troppo lontano da quello
con cui Maria Antonietta aveva fatto ricostruire un villaggio rurale nel parco di Versailles: la
distanza archeologica tra Luigi I e Pompei equivaleva alla distanza sociale tra la corte francese e il
mondo contadino. Il sovrano, da illuminato mecenate, volle però fare della villa anche un luogo di
conoscenza e di studio per gli amanti dell’antichità che frequentavano la sua corte. La villa fu infatti
arredata con buone riproduzioni di reperti vesuviani. Ma è significativo che il re non abbia voluto
riprodurre i segni del tempo, come le ammaccature e le altre imperfezioni degli oggetti originali
utilizzati come modello. La ricostruzione risultava quindi più vera del vero.
Durante la seconda guerra mondiale Aschaffenburg fu bombardata e il Pompejanum fu in gran parte
distrutto: una triste sorte toccata a gran parte della Germania, comprese le sue grandi istituzioni
museali. Del resto, in Italia fu bombardata la stessa Pompei. Le grandi potenze, che si affannano a
costruire musei per salvare il passato e affermare il proprio prestigio, troppo spesso non esitano a
colpire i segni identitari di un altro popolo.
Il Pompejanum, strana copia moderna di un edificio pompeiano, diventava così ancora più simile a
Pompei, distrutta prima dal Vesuvio e poi bombardata dagli alleati. I segni del tempo e la violenza
della storia lo invecchiavano, facendone un vero sito archeologico.
Proprio come tale a partire dal 1964, in più fasi, il Pompejanum è stato restaurato e, in parte,
ricostruito. Quella che in origine era la riproduzione di una casa ideale antica è diventata così,
grazie a una serie d’interventi essenzialmente basati sui disegni e sulle fotografie della copia, una
riproduzione della riproduzione. In qualche modo il bombardamento ne aveva modificato lo statuto
ontologico, facendone un monumento d’interesse archeologico, meritevole di studio e di restauro.
Anche le ricercate tecniche di recupero impiegate indicano l’avvenuta cristallizzazione archeologica
del monumento, ormai percepito con adeguata distanza storica. Dal 1994, inoltre, il Pompejanum è
diventato un vero museo, che accoglie statue antiche provenienti dalle più importanti collezioni
archeologiche della Baviera, tra cui alcune copie di età romana di statue greche.
Il collezionismo e la musealizzazione erano infatti già presenti in epoca romana, soprattutto tra il
primo secolo a.C. e il secondo secolo d.C., quando la classe dirigente cominciò a ornare le proprie
ville con capolavori della statuaria greca, incrementando il mercato dell’arte e stimolando la
riproduzione sistematica delle sculture più apprezzate. Se i nostri giardini traboccano di statue di
gesso che riproducono la marmorea Venere di Milo, i giardini romani pullulavano di statue di
marmo che riproducevano gli originali greci, spesso in bronzo. Il Pompejanum, copia modernissima
di una copia moderna di una villa romana, ospita copie romane di statue greche e copie delle copie
romane. Non solo. Nella cucina della villa si trovano delle stoviglie che riproducono quelle, perdute
con la guerra, che avevano riprodotto con scrupolo filologico le antiche, per abbellire la falsa cucina
romana.

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MODULO 1

Questa costruzione induce quindi a riflettere sul relativismo del concetto di autenticità nel mondo
contemporaneo e sul significato del segno archeologico e della sua unicità nell’era della
riproducibilità tecnica. Il turismo non può che essere influenzato da questi fatti. Il turista al
Pompejanum fa del turismo archeologico, perché è in uno spazio che, riproducendo una casa
pompeiana, gli offre un’esperienza immersiva nel mondo dell’antica Pompei e visita un museo che
contiene delle opere antiche. Ma vede copie e copie di copie, mentre si muove, come in un parco
tematico, in un’immagine virtuale della realtà che, come il suo modello reale, ha conosciuto la
morte da cui poi è rinata.

Un altro esempio interessante dell’interesse romantico verso il passato è rappresentato dal castello
di Neuschwanstein, voluto da Ludwig II, re di Baviera dal 1864 al 1886 (e nipote di Luigi I,
costruttore del Pompejanum di Aschaffenburg).
Si tratta di un castello famosissimo, la cui immagine è da tempo sedimentata nell’immaginario
collettivo, anche grazie alla Disney che ne fece il modello per i castelli della propria versione
cinematografica di fiabe come “Biancaneve”, “Cenerentola” e “La Bella Addormentata”. Il castello
di Neuschwanstein, anche grazie al cinema, è ormai il castello per antonomasia, l’idea stessa
insomma di castello medievale e fiabesco.
In realtà Neuschwanstein è un castello moderno, costruito in uno stile medievaleggiante nella
seconda metà dell’800 per rispondere alle ossessioni fantastiche del sovrano. Non si tratta di una
ricostruzione filologica, come nel caso del Pompejanum di Aschafenburg o della fortezza romana di
di Saalburg, ma di un’invenzione che potremmo definire “sentimentale”. Ludwig II, che proprio per
questo approccio fantastico possiamo considerare come uno dei massimi esponenti del
romanticismo tedesco, voleva dare consistenza architettonica a un sogno o a un’immagine mentale
della storia e del passato tedesco. Il castello di Neuschwanstein rappresenta un’interessante forma di
“reinvenzione” della storia e intende riprodurre fedelmente qualcosa che in realtà non esiste, ossia
un passato che ha più a che fare con il mito e la fiaba che con la storia. Non deve perciò stupire il
fatto che Ludwig definisse la propria creazione come un castello nello “stile autentico delle antiche
fortezze dei cavalieri tedeschi”. Questa autenticità è lo spirito romantico con cui il castello venne
pensato.
Il castello, con torri di oltre 80 metri, e interni in stile gotico e bizantino, venne non a caso
progettato da un architetto e scenografo teatrale, Christian Jank, che si ispirò – su esplicita richiesta
del sovrano – al mondo epico e incantato delle opere liriche di Richard Wagner. I modelli “storici”
del castello sono quindi costituiti da capolavori del teatro musicale tedesco, come il Lohengrin, il
Tannhäuser e il Parsifal di Wagner. I personaggi di queste opere, che, come le fiabe dei fratelli
Grimm, sono un’espressione del processo romantico di invenzione di un’identità tedesca,
compaiono anche sugli affreschi che adornano il castello.
Ludwig II fu un grande estimatore di Wagner, per il quale fece costruire nel 1872 a Bayreuth anche
un imponente teatro, destinato a metterne in scena le opere. Il rapporto tra i due è di grande
interesse, perché mostra l’importanza della musica in età romantica nei processi formativi
dell’identità nazionale tedesca.
Il castello, il cui nome contiene la parola “cigno” (schwein), è idealmente dedicato a Lohengrin,
eroe delle saghe germaniche e protagonista dell’omonima opera di Wagner, in cui l’eroe appare
trasportato sulle acque da un cigno. Il castello aveva al suo interno anche una grotta artificiale con
stalattiti, stalagmiti e una cascata che doveva suggerire il luogo della magica apparizione dell’eroe.
Con lo stesso spirito Ludwig costruì altri sontuosi palazzi, come il castello di Linderhof, in stile
rococò, che al suo interno aveva una grotta artificiale, dotata d’illuminazione elettrica (un’assoluta
novità per l’epoca), nella quale si esibivano cantanti d’opera. Le enormi spese da Ludwig per dar
forma ai propri sogni portarono lo Stato sull’orlo del collasso economico e costarono il trono al
sovrano, che, giudicato pazzo, venne interdetto e deposto.

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MODULO 1

LEZIONE 6

I nuovi processi formativi e la reinvenzione della tradizione. Il monumento di Niederwald

La costituzione dei grandi Stati nazionali rinnova e porta a compimento quei processi di
reinterpretazione e valorizzazione del passato che abbiamo esaminato nelle precedenti lezioni.
L’interesse del romanticismo verso il passato e la storia non costituisce più un orientamento
culturale della nuova classe dirigente borghese, ma diventa una priorità formativa dello Stato. Le
nuove nazioni devono costruirsi una propria tradizione che, al contempo, marchi una discontinuità
con i sistemi culturali pre-nazionali e indichi una continuità tra la nuova nazione e il passato storico
dello Stato. I nuovi Stati devono insomma definire un sistema di tradizioni che costituisca un nuovo
passato e li presenti come realtà esistenti da sempre.
La Francia post-rivoluzionaria, diventata prima Repubblica e poi, con Napoleone, addirittura un
Impero, deve marcare la propria discontinuità con il Regno di Francia, ma al tempo stesso deve
elaborare dei meccanismi e mettere a punto degli strumenti che giustifichino la nuova
organizzazione del potere e ne assicurino l’esercizio. La monarchia francese, risultato di un
processo storico plurisecolare, poteva contare su un ricco sistema culturale che contribuiva alla sua
legittimazione: l’idea stessa, frutto di un rapporto consolidato tra Stato e Chiesa, che il re
governasse per grazia di Dio e fosse un unto del Signore o che la mano del re potesse magicamente
sanare gli infermi serviva a rendere intoccabile la monarchia. Il nuovo Stato francese, che spezza la
sacralità della monarchia, e l’Impero napoleonico, che restaura di fatto il potere monarchico,
devono trovare degli strumenti che legittimino con uguale efficacia la nuova organizzazione del
potere. Ecco dunque, ad esempio, che la Francia definisce un nuovo sistema simbolico utile a
sacralizzare il nuovo Stato: l’inno nazionale, la bandiera, il giorno anniversario della rivoluzione
diventano gli elementi chiave su cui viene costruita e spesso inventata una nuova tradizione.
Napoleone non solo tende a presentarsi come nuovo Cesare, adottando un’immagine tradizionale
del sistema monarchico europeo, ma veicola addirittura delle letture cristologiche della propria
figura e del proprio avvento.
Il nuovo Stato deve avere un nuovo passato e quindi anche nuovi simboli e nuovi eroi, per i quali
vanno eretti nuovi monumenti, scritti nuovi poemi e composti nuovi inni.
In questo processo di definizione dell’identità nazionale naturalmente la scuola, con la sua attività
di formazione primaria, svolge un ruolo estremamente importante. La scuola tuttavia non è
sufficiente, anche per il fatto che per tutto l’800 la percentuale di popolazione che ne usufruiva era
assai limitata. Lo Stato ha bisogno di simboli, di pratiche e di riti che siano fruibili anche al di fuori
del ristretto mondo della formazione scolastica e di quello, ancora più ristretto, dell’Università.
Monumenti, musei, aree archeologiche costituiscono alcuni di questi strumenti extra-scolastici che
concorrono al processo d’invenzione della tradizione e di formazione dell’identità nazionale. Con la
stessa logica gli Stati europei introducono sistematicamente nuove “feste nazionali” che devono
appunto educare la nazione e contribuire alla definizione di un sentimento di appartenenza
nazionale. Il 4 luglio, anniversario dell’indipendenza dall’Inghilterra, diventa la festa nazionale
degli Stati Uniti d’America. Il 14 di luglio, giorno della presa della Bastiglia, diventa la festa
nazionale del nuovo Stato francese. Questi stessi meccanismi d’invenzione della tradizione operano
anche a un livello diverso da quello dello Stato: ad esempio, gli operai, che nel corso dell’800
scoprono una propria identità di classe, inventano la festa del lavoro che programmano il Primo
Maggio.
Anche la nuova Germania di Guglielmo I, che nasce nel 1870, deve risolvere questo problema
d’identità nazionale. Istituisce così un sistema di processi formativi che contribuisca al tempo stesso
alla definizione di una nuova identità collettiva e al consolidamento del nuovo Stato e del potere
della casa regnante. L’impero tedesco, come abbiamo visto, è il risultato di un lungo processo
storico: la Germania, prima di esistere come Stato, esisteva come entità etnico-culturale. Tuttavia,

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MODULO 1

prima dell’unificazione dei numerosi Stati tedeschi operata da Guglielmo I, non esisteva un unico
Stato. La nuova casa regnante, già sovrana di Prussia, doveva farsi accettare come casa regnante
dell’intera Germania e non di unico Stato tedesco. I cittadini tedeschi dovevano sentirsi parte della
Prussia, ma al tempo stesso la Prussia doveva apparire come Germania. Un’operazione non
semplicissima.
Scuola, università, apparato burocratico ed esercito ebbero un ruolo fondamentale in questa
operazione di costruzione del nuovo Stato e dell’idea di nazione, cui contribuirono però anche altri
strumenti.
Si cercò anche di ritualizzare determinati eventi fondativi del nuovo Stato: la battaglia di Sedan del
1870, con cui la Prussia sconfisse la Francia di Napoleone III e che di fatto creò la premessa per la
fondazione dell’impero, divenne il fulcro di una nuova mitopoiesi e il 2 settembre, giorno della
vittoria, divenne Festa Nazionale del nuovo Impero tedesco.
Guglielmo II cercò di rafforzare il senso d’identità nazionale presentando il nonno Guglielmo I, che
aveva fondato l’impero, come padre della patria. In questo processo di eroicizzazione (che per certi
aspetti può essere confrontato con la divinizzazione dei propri antenati e predecessori da parte dei
primi imperatori romani) si cercò di far coincidere il compleanno di Guglielmo I con l’anniversario
della nazione e d’imporre al sovrano il soprannome “il Grande”, come era già accaduto per Federico
II di Prussia o, nel mondo antico, per Alessandro Magno.
In questo processo di formazione dell’identità nazionale e di costruzione di una nuova tradizione i
monumenti ricoprono un ruolo di grande importanza. Lo Stato e le municipalità si appropriano dello
spazio urbano, che reinventano con i nuovi simboli dello Stato. È in questo contesto storico e
culturale che Garibaldi e Cavour, padri della patria, cominciano ad apparire nelle piazze di ogni
città d’Italia. Con la stessa logica si trasforma la toponomastica: via Roma, piazza Italia, piazza
Cavour, Galleria Vittorio Emanuele, Galleria Umberto, piazza Tricolore, piazza Trento e Trieste,
piazza Quattro Novembre (il giorno della vittoria nella prima guerra mondiale), così come in tempi
più recenti, piazza Venticinque Aprile (il giorno della liberazione dell’Italia dall’esercito nazista e
dai fascisti della Repubblica Sociale), diventano toponimi comuni che ricordano, nell’esperienza
della vita quotidiana e al di fuori del mondo della scuola, i nomi dei fondatori dello Stato e i
momenti salienti della storia nazionale.
È stato calcolato che nella Germania di Guglielmo II fino al 1902 siano stati eretti, grazie a
sovvenzioni statali, 327 monumenti in onore di Guglielmo I. Questa operazione di costruzione di
una tradizione nazionale attraverso l’erezione di nuovi monumenti ebbe ancora maggior fortuna con
Bismarck, cancelliere dello Stato prussiano, divenuto primo cancelliere dell’Impero, di cui può
essere considerato il vero artefice. Nel 1898, a un anno dalla morte, già ben 470 municipalità
avevano deciso di erigere una colonna in suo onore.
È in questo contesto di reinvenzione della tradizione che va inquadrata l’erezione a Detmold, nel
1875, dell’Hermannsdenkmal, una statua colossale in onore dell’antico guerriero germanico
Hermann, reinterpretato come primo combattente della nazione tedesca (modulo 2, lezione 1).
Nel 1881 viene inaugurato a Niederwald un monumento colossale, alto ben 37 metri, per
commemorare l’unificazione tedesca e la fondazione dell’Impero nel 1871. Il monumento, posto
scenograficamente sulla cima di una collina che domina il fiume Reno, è una celebrazione della
Germania, che appare personificata con l’aspetto di una donna, sul modello della dea greca della
Vittoria. La Germania impugna la spada imperiale, simbolo della forza militare dell’Impero e con
l’altra mano innalza la corona dell’imperatore. Per la statua furono necessarie ben 32 tonnellate di
bronzo: un impiego di risorse che contribuiva anche a mostrare la forza economica e industriale
della nazione, fondata sulla produzione dell’acciaio.
Il monumento celebra e legittima l’organizzazione gerarchica, militare e burocratica, di tipo
piramidale, dello Stato: alla base sono raffigurati l’esercito e i principi tedeschi; più in alto compare
il cancelliere Bismarck e, ben al di sopra di ogni altro, l’imperatore Guglielmo. Al di sopra

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MODULO 1

dell’imperatore c’è solo la Germania, personificazione della nazione, che naturalmente non
corrisponde ad alcun personaggio reale e quindi non può minare l’autorità dell’imperatore.
La collocazione stessa del monumento, sulle rive del Reno, ha un preciso significato simbolico che
concorre alla formazione di un’identità e della tradizione nazionale: il Reno infatti costituisce la
parte meridionale del confine tra la Germania e la Francia. È un confine “caldo”, varcato a inizio
secolo dalle armate francesi di Napoleone e nel 1870 da quelle prussiane, dove si misura la forza
militare dei due Stati. Nella nuova Germania di Guglielmo il monumento sul Reno doveva ricordare
la recente vittoria sulla Francia da cui aveva potuto prendere forma l’Impero tedesco.

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MODULO 1

APPENDICE - Scheda di approfondimento

Il concetto di nazione

L’importanza che ha assunto a partire dall’Ottocento il rapporto fra formazione e nazione richiede
un chiarimento in merito al concetto stesso della nazione e alle forme che la nazione ha assunto nei
diversi contesti.
Definire la nazione non è facile. La nazione non può essere infatti definita con riferimento ai soli
elementi tradizionalmente utilizzati a tal fine: natura, storia, razza, lingua, cultura, religione, etc.
Molte nazioni, infatti, non corrispondono, in toto o in parte, a tali categorie. I cosiddetti confini
“naturali”, anche quelli in apparenza più chiari (come quelli dell’Italia, racchiusa fra le Alpi e il
mare), sono infatti pur sempre dei confini “storici”, che mutano nel corso del tempo in relazione ai
processi economici e politici. D’altra parte la storia è a volte comune a nazioni diverse e a volte
diversa per parti differenti della stessa nazione (l’Italia ne costituisce un esempio emblematico: la
storia della Lombardia o del Piemonte non è quella del Lazio o della Campania, così come quella
del Veneto o della Toscana non è quella della Sicilia o della Sardegna). Quanto alla razza (un
fattore del resto sempre meno invocato, se non in qualche accezione fortemente metaforica, come
ad esempio in Messico), basti ricordare l’esistenza di numerose nazioni dal marcato carattere
plurirazziale sin dalle loro origini, come gli Stati Uniti, il Brasile e lo stesso Messico appena citato.
Allo stesso modo esistono nazioni plurilinguistiche (come la Svizzera, il Belgio, il Canada e,
almeno di fatto, gli Stati Uniti, per non citare il caso dell’India, in cui si parlano più di cento lingue
diverse, di cui diciotto “ufficiali”, e un migliaio di dialetti), e nazioni in cui si parla una lingua non
esclusiva, ma comune a una o più altre (come il cinese, l’arabo, l’inglese, lo spagnolo, il francese, il
portoghese, il tedesco e persino l’italiano, parlato, oltre che in Italia, in una parte della Svizzera, il
Canton Ticino, a S. Marino e nello Stato del Vaticano). Anche la cultura e la religione sono a volte
comuni a più nazioni e a volte profondamente diverse nella stessa nazione (un caso emblematico è
l’India, ma la situazione è ben nota anche in Europa).
Per definire la nazione si è così fatto ricorso, da tempo, anche a fattori soggettivi, come la
“coscienza nazionale” (invocata in Italia da Giuseppe Mazzini, prima, e Pasquale Stanislao
Mancini, poi, nel 1851) o il “plebiscito di tutti i giorni” (in Francia: Ernest Renan, 1882),
intendendo con queste espressioni un sentimento, o una volontà, di appartenenza a una determinata
unità politica.
Più recentemente, in una prospettiva simile, ma in modo assai più preciso, si è chiamato in causa il
concetto di ideologia, elaborato da Marx (1844-45) e sviluppato da Karl Mannheim (un importante
sociologo tedesco del Novecento). Per questa via un filosofo politico italiano, Mario Albertini
(1960) è giunto a identificare la nazione con l’ideologia dello Stato moderno, burocratico e
accentrato.
Tale interpretazione potrebbe trovare conforto nel fatto che la nazione, almeno in Europa, si
presenta come un’unità relativamente recente, emersa contestualmente a tale tipo di Stato (benché
non manchino eccezioni anche importanti: i Paesi Bassi sono nati non già in un contesto
centralistico, ma in un contesto caratterizzato da istanze che oggi si direbbero federaliste).
Non ci si può peraltro dimenticare che le prime grandi nazioni della storia non sono affatto emerse
in Europa, nell’età moderna (secondo la convinzione di tutti gli autori sopra citati e di molti altri),
ma in contesti ben diversi, addirittura millenni prima che si affermasse il mercato capitalistico e si
costituisse lo Stato moderno. Fu questo, in particolare, il caso dell’Egitto, della Cina e del Vietnam,
dove le nazioni si formarono sulla base non già del capitalismo, ma del modo asiatico di produzione
e di uno Stato (burocratico e accentrato, sì, ma niente affatto “moderno”) che, come “imprenditore
generale dell’irrigazione delle grandi valli fluviali” (Engels), aveva acquisito – con il controllo della
rete idraulica, indispensabile in tale contesto allo sviluppo della cerealicultura – un pervasivo potere
di vita e di morte sui sudditi.

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SOCIOLOGIA DELL’EDUCAZIONE
MODULO 1

In proposito è opportuno sottolineare che è un gravissimo errore attribuire troppa importanza per la
formazione delle nazioni a determinati fattori esclusivamente moderni, come la scolarizzazione di
massa (enfatizzata da Ernest Gellner, 1983) o la comunicazione istituzionalizzata (su cui ha insistito
Benedict Anderson, 1983). Un ruolo ben più importante ha infatti assolto la socializzazione
informale, trascurata a torto da questi autori. D’altra parte in tale contesto, caratterizzato da
un’organizzazione sociale “dispotica”, si era già realizzata l’altra condizione da alcuni ritenuta
essenziale per la formazione delle nazioni: l’inesistenza fra sudditi e Stato di corpi sociali intermedi
dotati di un autonomo potere politico.
In ogni caso la nazione non è soltanto un’ideologia. La nazione è anche, e prima ancora, un livello
d’integrazione socioculturale, per riprendere la terminologia introdotta negli anni ’50
dall’antropologia neo-evoluzionistica americana. Più esattamente, è una formazione sociale che
implica un livello d’integrazione socioculturale assai più elevato non solo di quello delle unità che
rappresentano i tre diversi gradi delle società semplici (banda, tribù, dominio), ma anche di quello
degli Stati delle prime società complesse (che in Europa sono restate a lungo pre-nazionali).

Il concetto di cittadinanza

La nazionalità, intesa come il sentimento di appartenenza a una società caratterizzata da un tal


livello d’integrazione socioculturale, si distingue chiaramente dalla cittadinanza, che è invece la
condizione giuridica che conferisce un insieme di diritti e di doveri ai membri di una determinata
unità politica (in genere uno Stato “moderno”, ma questo fu anche il caso, in passato, delle poleis
greche, della Roma repubblicana e dei Comuni medievali, così come lo è, ora, di determinate
organizzazioni sovrannazionali, fra cui l’Unione europea, che prevede una propria specifica
cittadinanza, che si aggiunge a quella dei suoi diversi Stati membri). In ogni caso proprio l’esistenza
di una significativa sfera di diritti distingue, in modo più o meno netto nei vari contesti, la
condizione dei cittadini da quella dei sudditi.
Secondo un’analisi ormai classica di un sociologo britannico, T.H. Marshall (1949), che peraltro
non può essere indebitamente generalizzata, essendo stata formulata con riferimento implicito
all’esperienza storica di alcuni Paesi dell’Europa occidentale, e in primo luogo del Regno Unito, i
“diritti di cittadinanza” si sarebbero affermati in una significativa sequenza. Prima, nel diciottesimo
secolo, con l’emergere della borghesia, si sarebbero affermati i diritti civili, cioè i diritti relativi alla
sfera delle libertà individuali (la libertà personale, la libertà di pensiero e di parola e la libertà
religiosa) e il diritto di stipulare validi contratti e di ottenere giustizia. Poi, nel secolo scorso, grazie
anche alle lotte sociali del nascente proletariato, si sarebbero affermati i diritti politici, cioè i diritti
relativi all’esercizio dell’elettorato attivo e passivo. Infine, nel nostro secolo, si sarebbero affermati
i diritti sociali, cioè quei diritti che assicurano un minimo di benessere e di sicurezza, al livello
consentito dalla situazione in presenza, grazie ai servizi sociali ed educativi.
A questi tre tipi di diritti, se ne verrebbe ora ad aggiungere un quarto: quello dei diritti culturali (fra
cui, in particolare, il diritto a preservare la propria identità culturale e a trasmetterla ai propri
discendenti). Proprio il riconoscimento di questi diritti, secondo alcune recenti elaborazioni,
distinguerebbe le cosiddette “società multiculturali”, in via di formazione per il congiunto effetto
dei tre importanti processi: la globalizzazione, l’integrazione economica e politica di grandi aree in
precedenza divise o addirittura contrapposte e le nuove migrazioni internazionali.

Etnie e nazioni

Prima di procedere nell’analisi, gioverà affrontare esplicitamente il rapporto fra etnie e nazioni. Uno
dei principali studiosi che si è occupato dell’argomento, Anthony D. Smith (1986), ha infatti
teorizzato le origini etniche delle nazioni, affermando che di queste ultime le etnie costituirebbero
non soltanto il nucleo storico originario, ma la vera fonte dei valori, dei miti, dei simboli e delle

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memorie che ne definiscono l’identità e ne assicurano la persistenza nel tempo. Il discorso non
manca di un suo fascino, ma è anche assai vago e impreciso e, per di più, non si attaglia a tutte le
esperienze storiche a noi note. Non si applica, ad esempio, al caso della Svizzera, in cui pure
un’originario nucleo storico vi fu (quello dei tre mitici cantoni di Schwyz, Unterwalden e Uri), e
neanche a quello dell’Italia. Diversamente che in Spagna, Francia e Regno Unito, il processo di
unificazione dell’Italia partì infatti da un arretrato Stato periferico, ancora etnicamente e
linguisticamente assai composito, il Piemonte, la cui stessa classe dirigente parlava poco e male la
lingua italiana.
Ma lo Stato non coincide la nazione, benché alcune ideologie nazionaliste lo abbiano preteso e
abbiano pertanto cercato di orientare in tal senso l’azione delle forze politiche. Un caso classico è
quello della Francia degli ultimi secoli, in cui questo obiettivo è stato caparbiamente perseguito
prima dalle monarchie assolute e poi, ancor più, dai governi d’ispirazione repubblicana, laica e
democratica. Un caso ancora più grave è costituito dalla Germania, in cui, durante il regime nazista,
si giunse non solo a teorizzare, ma a praticare lo sterminio in massa degli elementi etnici considerati
estranei alla nazione (oltre che alla cosiddetta “razza ariana”, per il sovrapporsi, in nefasta sinergia,
d’ideologie nazionaliste e razziste), come gli ebrei e gli zingari.

Le esperienza storiche di alcuni Paesi

Se la stessa astratta definizione dei termini non è semplice, la situazione si complica ancora quando
dalla teoria si passa alla storia. All’interno della stessa Europa troviamo in realtà delle concezioni
estremamente diverse, se non addirittura opposte, sia della nazione, sia dei rapporti fra etnicità,
nazionalità e cittadinanza.
Mi limito a richiamare qui, a grandi linee, le quattro principali impostazioni che emergono da
un’analisi del discorso ideologico predominante nei diversi contesti e dalla conseguente pratica
politica nei processi storici di “lunga durata”. A questa tipologia si perviene distinguendo, in prima
istanza, secondo il tipo di fedeltà prevalente, (1) forme tradizionali e (2) forme moderne e, quindi,
all’interno delle prime, (1a) forme repubblicane e (1b) forme monarchiche, secondo l’oggetto di
tale fedeltà, e, all’interno delle seconde, (2a) forme illuministiche e (2b) forme romantiche, secondo
la loro prevalente ispirazione.

Forme nazionali in Europa

repubblicana (modello: Svizzera)


(altri casi: San Marino)
Forme tradizionali
monarchica (modello: Regno Unito)
(altri casi: Spagna, Belgio, Paesi Bassi)

illuministica (modello: Francia)


(altri casi: Stati Uniti d’America)
Forme moderne
romantica (modello: Germania)
(altri casi: Polonia, Paesi dell’Est)

Le due più tipiche forme tradizionali della nazione sono quelle, pur profondamente diverse, della
Svizzera e del Regno Unito.

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La Svizzera ne rappresenta la versione repubblicana. Fondamento della nazione è la fedeltà alla


Costituzione (1848), che, assicurando l’autonomia dei diversi cantoni e le cosiddette “libertà degli
svizzeri”, consente di trascendere, nel momento stesso in cui le riconosce e le legittima, le
particolarità etnico-culturali presenti nella Confederazione e, più in particolare, le pur importanti
differenze linguistiche e religiose, che avevano determinato in precedenza sanguinosi contrasti. Un
“patriottismo costituzionale” ante litteram sublima le diversità, trasformandole, da potenziale
elemento distruttivo, in un’importante risorsa, fonte di forza e di ricchezza spirituale e materiale.
La Svizzera, nata nel medioevo e dal medioevo, si è formata non per unificazione, ma per
aggregazioni successive, a partire dal patto dei tre “cantoni della foresta” già sopra citati (1291), cui
se ne aggiunsero via via molti altri per la necessità di difendersi da vicini potenti e prepotenti e per
il desiderio di salvaguardare a un tempo la propria autonomia (la confederazione è tuttora costituita,
almeno in teoria, di piccole unità sovrane, che hanno accettato volontariamente di rinunciare a una
parte della loro sovranità). La cittadinanza svizzera è pertanto acquisita in virtù dell’appartenenza a
un cantone, anche se è sempre garantito il diritto di cambiare cantone. Per gli stranieri è difficile (e
anche costoso) acquisire tale cittadinanza (che d’altra parte assicura anche consistenti benefici
economici), mentre è più facile acquisire il diritto di residenza permanente. La paura
dell’Überfremdung (l’“inforestieramento”) ha peraltro sollecitato varie iniziative, anche
referendarie, intese a limitare l’immigrazione. Tali iniziative sono state sempre respinte a
maggioranza, compresa l’ultima, che mirava a introdurre un tetto alla percentuale degli stranieri
sulla popolazione (il 20%). Va detto, d’altra parte, che la Svizzera è il Paese europeo con la più alta
percentuale d’immigrati (19%), se si prescinde dai due piccolissimi Stati del Liechtenstein e del
Lussemburgo.
Il Regno Unito rappresenta la versione monarchica della forma tradizionale. Fondamento della
nazione è la fedeltà alla corona, che diventa il riferimento ideale di un’unità che supera i
particolarismi etnico-culturali delle grandi regioni storiche della Gran Bretagna (l’Inghilterra, la
Scozia e il Galles) e delle altre parti del Regno (principalmente l’Irlanda del Nord) e getta un ponte
anche con le ex-colonie, collegate nell’unità virtuale del Commonwealth. Ciò rappresenta per molti
aspetti una continuazione, adattata ai tempi nuovi, della situazione dell’Impero britannico, in cui
tutti coloro che erano nati in uno dei territori sottoposti alla sovranità della corona britannica
(Regno Unito, colonie e dominions) avevano la stessa cittadinanza in quanto “sudditi britannici”. La
prima distinzione formale fra i cittadini del Regno Unito e quelli del resto dell’Impero fu introdotta
solo nel 1948, da una legge che peraltro confermò a tutti i British subjects gli stessi diritti, compreso
quello di entrare liberamente nel Regno Unito. Le successive leggi sull’immigrazione limitarono
però poi in misura crescente tale diritto. Recentemente (2002) la cittadinanza britannica (e quindi,
indirettamente, anche quella dell’Unione europea) è stata nuovamente estesa, senza distinzioni, agli
abitanti di tutti i territori sotto sovranità britannica, dai Caraibi all’Oceania, dall’Atlantico del nord
all’Antartide.
Bisogna ricordare peraltro il ruolo tutt’altro che secondario che ha a lungo avuto in Inghilterra la
particolare versione del protestantesimo ivi dominante (basti dire che il sovrano britannico è anche,
ex officio, capo della Chiesa anglicana). Ciò ha ulteriormente caratterizzato in senso “premoderno”
la fedeltà alla corona, così come ha ispirato una diffusa diffidenza nei confronti delle minoranze
religiose e, in particolare, di quella cattolica, ritenuta incapace di completa fedeltà al sovrano per la
sua soggezione al sommo pontefice (il contrasto emerse con particolare forza durante i conflitti con
le due massime potenze cattoliche del continente, la Spagna e la Francia). Anche l’annosa questione
irlandese trasse alimento da tale situazione, specialmente dopo il fallito tentativo liberale del secolo
scorso di riformare in senso laico le istituzioni del Regno Unito. Peraltro, lo spontaneo processo di
secolarizzazione degli ultimi decenni ha notevolmente ridimensionato la pur radicata componente
protestante dell’identità nazionale. Basti dire che il principe Carlo, destinato a ereditare, in caso di
ascesa al trono, il titolo di “difensore della fede”, si è pubblicamente impegnato a esercitare tale
ruolo in favore non solo della religione dei suoi avi, ma anche di tutte le altre religioni, cristiane e

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non cristiane, presenti nel Paese, conformemente a quel pluralismo culturale, sia pur imperfetto e
ineguale, che lo caratterizza ormai da molto tempo.
Le due più tipiche forme moderne di nazione sono quelle, non meno diverse fra loro, della Francia e
della Germania.
La Francia ne rappresenta la versione di ascendenza illuministica. La concezione della nazione è
etico-politica e soggettiva, prescinde da ogni elemento biologico e culturale ed enfatizza per contro
la componente volontaria. Emblematica, in proposito, è la già citata definizione di Ernest Renan
(1882) – peraltro tutt’altro che “disinteressata”, perché formulata nel contesto della disputa franco-
tedesca per l’Alsazia e la Lorena, coerentemente con gli orientamenti francesi – secondo cui la
nazione altro non sarebbe che un plébiscite de tous les jours (“un plebiscito permanente”). Erede del
cosmopolitismo settecentesco, questa concezione, che aveva già trovato una prima importante
affermazione nel corso della rivoluzione francese, ma era poi stata drasticamente rivista al tempo
della restaurazione, fu ripresa e rilanciata al tempo della Terza repubblica, per cui divenne nota,
anche fuori della Francia, come la “concezione repubblicana” per antonomasia. Il suo
“universalismo” ideologico si coniuga però, nella pratica, con un forte etnocentrismo
assimilazionista, del tutto irrispettoso di ogni diversità culturale interna ed esterna all’esagono e
persino di ogni particolarismo religioso (per il vantato “laicismo” dello Stato, peraltro sin troppo
spesso interpretato in forme tanto “sacrali” da alimentare un’intolleranza ben poco laica, come è
emerso ancor di recente con la questione del cosiddetto foulard islamique, che ha visto l’espulsione
dalle scuole statali francesi di alcune giovani musulmane che avevano indossato tale indumento,
ritenuto dalle autorità francesi un simbolo religioso incompatibile con la laicità delle istituzioni). La
cittadinanza francese viene concessa con una certa facilità agli immigrati (anche per le riconosciute
esigenze di carattere demografico del Paese), purché questi accettino di diventare dei “buoni
francesi”, adottandone i pretesi “codici sociali” (Haut conseil à l’intégration, 1991): la lingua, i
valori, i modelli di comportamento, possibilmente la stessa mentalità. D’altra parte i loro
discendenti nati in Francia divengono quasi automaticamente francesi, perché sin dalla metà del
secolo scorso (1851) per l’attribuzione della cittadinanza prevale lo jus soli, sia pur in forme più o
meno ampie secondo le leggi al momento vigenti.
La Germania rappresenta, per contro, la versione di ascendenza romantica della concezione della
nazione. L’impostazione è etnico-culturale e oggettiva, dato che ne riconosce la base in un fatto di
sangue e di suolo (Blut und Boden), secondo l’icastica espressione di Ratzel, poi spesso ripresa da
altri. L’elemento che più conta è l’appartenenza al popolo (Volk) tedesco, data anche la tardiva
costituzione dello Stato nazionale e le sue complesse vicissitudini storiche (fra cui, dopo la seconda
guerra mondiale, la sua sofferta divisione, sostanzialmente imposta dai vincitori). Ciò ha a lungo
ispirato, e in parte ancora ispira, politiche orientate a preservarne la pretesa omogeneità, anche con
più o meno gravi misure discriminatorie (culminate, al tempo del nazismo, nel già citato tentativo di
“pulizia etnica” perseguito con lo sterminio degli ebrei e degli zingari). Gli immigrati, pur
numerosissimi (la Germania ne conta più di tutti gli altri Paesi dell’Unione europea messi insieme),
non sono neppure riconosciuti come tali, ma sono considerati come dei semplici “lavoratori ospiti”
(Gastarbeiter), solo temporaneamente presenti sul suolo tedesco, giacché, a quasi cinquant’anni
dall’inizio della grande immigrazione di questo dopoguerra, il Paese continua a non volersi
riconoscere come una terra d’immigrazione (secondo il ritornello ritualmente ripetuto da molti
politici e molti giornalisti: Deutschland ist kein Einwanderungsland). A tal fine, per un lungo
periodo, è stata favorita la rotazione degli immigrati, col loro rientro al Paese d’origine dopo
qualche anno di permanenza in Germania, è stata resa estremamente difficile la procedura per la
loro naturalizzazione e anche ai loro figli nati e cresciuti in Germania è stata preclusa la possibilità
di acquisire la cittadinanza tedesca (condannandoli in tal modo a restare stranieri in quella che di
fatto era la loro unica terra), data la netta prevalenza dello jus sanguinis. La situazione è peraltro
cambiata con la pur modesta riforma del 1993 e, più ancora, con l’entrata in vigore, nel 2000, di una
nuova legge sulla cittadinanza (approvata con lancinanti contrasti nel Parlamento e nel Paese), che

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prevede importanti facilitazioni (ulteriormente estese nel 2002) per l’acquisizione della cittadinanza
tedesca da parte di coloro che siano nati in Germania da genitori stranieri.

La concezione italiana della nazione


Un approfondimento specifico merita il concetto italiano di nazione, che presenta una sua
originalità, per quanto possa apparire a tutta prima soltanto una sorta di mediazione eclettica fra il
concetto francese e il concetto tedesco.
Elaborata in età romantica, così come quella di tutte le altre verspätete nationen del continente
europeo (come si sogliono definire le nazioni europee che si sono costituite in Stato con un
significativo ritardo rispetto ai primi grandi Stati nazionali del continente: la Spagna, la Francia e il
Regno Unito), l’idea italiana di nazione ebbe, almeno agli inizi, un’indubbia connotazione etnico-
culturale, com’è documentato, fra l’altro, dai frequenti riferimenti dei testi del primo ’800 ai temi
del sangue e del suolo. Emblematica, in proposito, è l’invocazione del Manzoni (1821) a un’Italia
“una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor”. Peraltro, per influenza anche
delle precedenti elaborazioni dell’Illuminismo, che in Italia conobbe significativi sviluppi
(soprattutto in alcune città, come Milano e Napoli, ove più marcata era stata l’influenza francese),
tale impostazione lasciò ben presto il campo a elaborazioni che giunsero a fare della nazione un
vincolo di solidarietà suscettibile di aprirsi agli altri (sulle orme di chi, come il Verri, aveva già
teorizzato la piena compatibilità di patriottismo e cosmopolitismo).
Fu questa, in particolare, l’impostazione di Giuseppe Mazzini, che anche molti autori stranieri
considerano il vero teorico del “principio di nazionalità” o almeno il suo “apostolo”. Mazzini, pur
enfatizzando la nazione più di ogni altro personaggio del Risorgimento, la configurò infatti come un
momento intermedio fra gli individui e l’umanità, che restò per lui sempre il punto di riferimento
più alto (almeno dopo quello a un Dio peraltro più astrattamente invocato, nel suo noto binomio col
popolo, che non effettivamente assunto a orientamento del pensiero e dell’azione). Ciò gli rese
inconcepibile giustificare in nome dell’interesse nazionale la prevaricazione dei diritti altrui (sia di
singoli individui, sia di altri popoli), secondo la tendenza già allora diffusa in molti teorici della
nazione, sin troppo propensi a coonestare il “sacro egoismo” nazionale e, in genere, il
particolarismo patriottardo (come rivelano, ad esempio, l’ormai quasi proverbiale espressione Right
or wrong, my country, diffusa nei Paesi anglosassoni, o l’affermazione tedesca Deutschland über
alles, poi diventata sinistra nella stessa Germania).
Di quest’apertura universalistica dell’idea di nazione del Mazzini costituisce una prova anche il
fatto che, subito dopo la “Giovine Italia” (la sua associazione per l’indipendenza, l’unificazione e il
rinnovamento repubblicano del Paese), egli abbia fondato la “Giovine Europa” e abbia anche
ispirato l’impegno per la libertà degli altri popoli di tanti patrioti italiani (fra cui Giuseppe
Garibaldi, l’“eroe dei due mondi”, che, dopo di aver partecipato alle lotte di liberazione di alcuni
Paesi dell’America del Sud, si batté anche in difesa della Francia, che pure in precedenza era
intervenuta per stroncare la Repubblica romana a lui così cara). Quest’impegno internazionale, e più
specificamente europeo, conferma che per Mazzini l’idea di nazione (in lui sempre coniugata a
quella della libertà, così come in tutte le altre grandi figure del Risorgimento, dal Cattaneo al
Cavour) si configurava più come tensione verso un avvenire da costruire in spirito di solidarietà con
gli altri popoli che come un ripiegamento su un mitico passato di primordiali purezze da tutelare
contro ogni possibile “contaminazione” (come, ad esempio, nelle elaborazioni non solo a quel
tempo dominanti in Svizzera e Germania). In ogni caso, benché il Mazzini attribuisse a ogni
nazione una sua particolare “missione”, non si ritrova in lui e nei suoi seguaci la rivendicazione di
qualche dubbio “primato” per la propria, del tipo di quelli teorizzati da Schlegel e da Fichte per la
Germania, da De Maistre per la Francia e da Gioberti (anche se con ben scarsa fortuna) per la stessa
Italia.
L’originalità della concezione italiana della nazione emerge anche in autori più attenti alla
dimensione giuridico-istituzionale. Fra questi merita una particolare menzione Pasquale Stanislao

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MODULO 1

Mancini (1851), il maggior teorico italiano dei diritti delle nazionalità, che, cogliendo
l’inadeguatezza di una definizione della nazione nei tradizionali termini oggettivi, sottolineò,
trent’anni prima di Renan, l’importanza fondativa di un elemento soggettivo, la “coscienza della
nazione” (già presente anche nelle elaborazioni di Mazzini), intesa quale sentimento collettivo di
appartenenza a un’unità politica. Il contrasto con le coeve posizioni tedesche non poteva essere più
chiaro e la valenza politica di questa concezione divenne evidente quando, al tempo della guerra
franco-prussiana, Mancini (1870) si levò in Parlamento a controbattere le tesi di quegli studiosi e di
quei politici tedeschi che, come Theodor Mommsen e David Friedrich Strauss, in appoggio alle
rivendicazioni dei nazionalisti del loro Paese su Alsazia e Lorena (soggettivamente francesi, ma
etnicamente tedesche), avevano teorizzato l’esistenza “oggettiva” della nazione indipendentemente
da ogni dato di coscienza.
Una concezione soggettiva della nazione era del resto implicita anche nell’idea, solitamente
attribuita al D’Azeglio, che, fatta l’Italia, si dovessero “fare gli Italiani”. Quel dover essere ne
presupponeva infatti la possibilità. È questa una convinzione che, come le precorritrici aperture
europeistiche di Mazzini, Cattaneo e Cavour, potrebbe applicarsi senza troppe forzature alla
situazione del tempo presente, in cui tanto si parla dell’esigenza di “fare gli Europei”.
Peraltro, in almeno apparente contrasto con tale concezione soggettiva, per ciò che concerne la
cittadinanza la legislazione italiana ha sempre privilegiato lo jus sanguinis. Va detto però che nel
caso italiano quest’impostazione — ispirata altrove, in molti casi, a un orientamento da Herrenvolk,
propenso a difendere i propri privilegi escludendo dagli specifici diritti di cittadinanza i non
appartenenti al preteso “popolo dei signori”, come appare sin troppo chiaramente in certe datate
elaborazioni tedesche — in Italia esprimeva soprattutto una preoccupazione da “grande proletaria”
(per riprendere la pur retorica definizione dell’Italia data dal Pascoli, 1911): quella di mantenere un
legame almeno formale con i suoi emigrati all’estero e i loro figli nati là. Va ricordato in proposito
che nel suo primo secolo di esistenza come Stato nazionale (1861-1961) l’Italia ha conosciuto
un’emigrazione di 26 milioni di persone, pari alla sua intera popolazione del 1861 (l’anno della
proclamazione della sua unità) e a poco meno della metà della sua popolazione attuale.
La contrapposizione fra Italia e Germania non va però esagerata. In effetti anche quest’ultima, che
pur già riceveva una consistente immigrazione dall’Europa dell’Est, prima della Grande Guerra era
un grande Paese di emigrazione (verso le Americhe e l’Europa occidentale) e una preoccupazione
simile a quella dell’Italia non fu estranea alla formalizzazione dello jus sanguinis nella sua legge
sulla cittadinanza del 1913. Per contro, in Italia avevano già allora cominciato a prendere piede
degli orientamenti etnocentrici e razzisti, anche in relazione con gli sviluppi della sua pur tardiva e
miserevole politica coloniale (la stessa già citata definizione del Pascoli fu formulata, non a caso, in
un discorso inteso a celebrare l’inizio dell’“impresa” di Libia).
In effetti la deriva in senso illiberale dell’idea di nazione era cominciata sin dagli ultimi decenni del
secolo scorso, con i governi della sinistra storica. Ben presto però si estese ad altri ambienti,
compresi quelli di orientamento liberale, che, pur prendendo le distanze dai peggiori eccessi del
nazionalismo attivista, troppo concessero, in nome del “realismo politico”, a un’ambigua denuncia
delle “alcinesche seduzioni della dea Giustizia e della dea Umanità” (secondo le parole di Benedetto
Croce, 1917). La degenerazione divenne ancora più evidente nelle varie correnti
dell’“interventismo” prebellico, non escluse quelle di conclamato orientamento democratico. Fu
questa, del resto, solo una particolare espressione di quel più vasto malessere che colpì l’Europa nei
primi decenni del secolo, anche come effetto dei travolgenti processi di “modernizzazione” che vi
ebbero luogo: industrializzazione, urbanizzazione, grandi migrazioni interne e internazionali,
abbandono delle campagne con perdita delle protettive comunità di villaggio, secolarizzazione e
laicizzazione, guerre e reducismo, etc. Il regime fascista aggravò la situazione, sia sul piano pratico
(con un sistematico ricorso alla retorica nazionalista per coonestare le sue iniziative in Italia e
all’estero), sia sul piano teorico (con la pretesa di rappresentare la ricomposta “comunità

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nazionale”, concepita come un aggregato organico di popolo e Stato, provvidenzialmente guidata


dal Duce e inquadrata dal Partito nazionale fascista e dalle sue varie organizzazioni di massa).
Forse anche per questo nel secondo dopoguerra in Italia della nazione si è parlato poco, nonostante
la pretesa rifondazione pratica che a giudizio di alcuni ne sarebbe stata operata dalla Resistenza. Lo
stesso aggettivo “nazionale”, percepito come squalificato epiteto nostalgico, divenne oggetto di
diffidenza, almeno sino al recente rilancio dell’idea di nazione da parte del Presidente Ciampi.

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