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La prima formazione

Nacque a Lucca il 22 dicembre del 1858, sestogenito dei nove figli[1] di Michele Puccini (Lucca, 27
novembre 1813 - ivi, 23 gennaio 1864) e di Albina Magi (Lucca, 2 novembre 1830 - ivi, 17 luglio 1884).
Da quattro generazioni i Puccini erano maestri di cappella del Duomo di Lucca[2] e fino al 1799 i loro
antenati avevano lavorato per la prestigiosa Cappella Palatina della Repubblica di Lucca. Il padre di
Giacomo era, già dai tempi del Duca di Lucca Carlo Lodovico di Borbone, uno stimato professore di
composizione presso l'Istituto Musicale Pacini.[3] La morte del padre, avvenuta quando Giacomo aveva
cinque anni, mise in condizioni di ristrettezze la famiglia. Il giovane musicista fu mandato a studiare
presso lo zio materno, Fortunato Magi, che lo considerava un allievo non particolarmente dotato e
soprattutto poco disciplinato (un «falento», come giunse a definirlo, ossia un fannullone senza talento).
In ogni caso, Magi introdusse Giacomo allo studio della tastiera e al canto corale.[4]
Giacomo inizialmente frequentò il seminario di San Michele e successivamente quello della Cattedrale
dove iniziò lo studio dell'organo. I risultati scolastici non furono certo eccellenti, in particolare dimostra
una profonda insofferenza per lo studio della matematica. Del Puccini studente si è detto: "entra in
classe solo per consumare i pantaloni sulla sedia; non presta la minima attenzione a nessun
argomento, e continua a tamburellare sul suo banco come fosse un pianoforte; non legge
mai".[5][6] Terminati dopo cinque anni, uno in più di quelli necessari, gli studi di base, si iscrisse
all'Istituto Musicale di Lucca dove il padre era stato, come detto, insegnante.[4] Ottenne ottimi risultati
con il professor Carlo Angeloni, già allievo di Michele Puccini, mostrando un talento destinato a pochi.
A quattordici anni Giacomo poté già cominciare a contribuire all'economia familiare suonando
l'organo in varie chiese di Lucca e in particolare alla patriarcale di Mutigliano. Inoltre intrattiene
suonando il pianoforte gli avventori del "Caffè Caselli" situato sul corso principale cittadino.[5]
Nel 1874 si prende in carico un allievo, Carlo della Nina, tuttavia non si dimostrerà mai un buon
insegnante. Dello stesso periodo si ha la prima composizione conosciuta attribuibile a Puccini, una
lirica per mezzosoprano e pianoforte denominata "A te". Nel 1876 assiste al teatro Nuovo di
Pisa l'allestimento di Aida di Giuseppe Verdi, un avvenimento che si dimostrò decisivo per la sua futura
carriera facendo convogliare i suoi interessi verso l'opera.[7]
A questo periodo risalgono le prime composizioni note e datate, tra cui spiccano una cantata (I figli
d'Italia bella, 1877) e un mottetto (Mottetto per San Paolino, 1877). Nel 1879 scrisse un valzer, oggi
perso, per la banda cittadina. L'anno successivo, all'ottenimento del diploma presso l'Istituto Pacini,
compose, come saggio finale, la Messa di gloria a quattro voci con orchestra, che, eseguita al Teatro
Goldoni di Lucca, suscitò l'entusiasmo della critica lucchese.[8]

Il conservatorio e gli esordi operistici

Milano, all'epoca, era la destinazione privilegiata per i musicisti alla ricerca di fortuna e proprio in quegli
anni stava attraversando un'epoca di forte crescita, dopo essersi lasciata alle spalle la recessione che
l'aveva colpita così duramente.[9] Vista la predisposizione musicale del figlio, Albina Puccini tentò con
ogni forza di far ottenere a Giacomo una borsa di studio per frequentare il conservatorio meneghino.
Dapprima tentò ripetutamente con le autorità cittadine, ottenendo tuttavia un diniego probabilmente a
causa delle magre casse pubbliche, anche se taluni sostengono[chi?] che fu a causa della sua già cattiva
reputazione di ragazzo irriverente. Non sconfitta, la preoccupata madre si rivolse alla duchessa Carafa
che le consigliò di rivolgersi alla regina Margherita per ottenere il finanziamento che talvolta i regnanti
concedevano alle famiglie bisognose. Anche grazie all'intercessione della dama di compagnia della
regina, marchesa Pallavicina, la richiesta venne accolta seppur parzialmente. Ci volle, infine,
l'intervento del dottor Cerù, un amico di famiglia, che integrò il sussidio reale affinché Giacomo potesse
finalmente garantirsi il perfezionamento musicale.[10]

Così, nel 1880, Puccini si trasferì a Milano e iniziò a frequentare il Conservatorio. Nei primi due anni il
giovane compositore fu affidato agli insegnamenti di Antonio Bazzini.[11] e, nonostante la sua
applicazione, la sua produzione musicale fu assai scarsa se si fa eccezione di un quartetto di archi in
re, l'unica composizione che si possa assegnare a questo periodo con certezza. Nel novembre del
1881 Bazzini prese il posto del defunto direttore del conservatorio dovendo, quindi, abbandonare
l'insegnamento. Puccini diventò quindi alunno di Amilcare Ponchielli.[12] il cui influsso si ritroverà
costantemente nei futuri lavori del compositore. Grazie, seppur indirettamente, al nuovo maestro,
Giacomo fece conoscenza con Pietro Mascagni con cui porterà avanti una sincera e duratura amicizia,
nonostante i due caratteri opposti (riservato il primo, collerico e irrefrenabile il secondo[13]) ma
accomunati dai gusti musicali ed in particolare per il comune apprezzamento dei lavori di Richard
Wagner.[14]
Di questo ultimo biennio passato al conservatorio il principali lavori che possono essere citati furono
un Preludio sinfonico, eseguito il 15 luglio 1882 in occasione del concerto organizzato dal conservatorio
per presentare i lavori degli studenti ed un Adagetto per orchestra datato l'8 giugno dell'anno
successivo che sarà il primo lavoro pucciniano ad essere pubblicato.[15] Il 13 luglio 1883 avviene la
prima assoluta del Capriccio sinfonico, diretta da Franco Faccio, composta da Puccini come suo
compito d'esame finale.[16] E così terminò la formazione al conservatorio del giovane musicista, che si
diplomò quello stesso anno con un punteggio di 163 su 200, sufficiente a ricevere anche la medaglia di
bronzo.[17] Ponchielli ricorderà il suo celebre studente come uno dei suoi migliori studenti, anche se
ebbe spesso a lamentarsi di una non proprio ferrea assiduità allo studio e alla composizione.[18]
Nell'aprile 1883 partecipò al concorso per opere di soggetto a scelta del concorrente in un atto indetto
dall'editore musicale Sonzogno e pubblicizzato sulla rivista Il Teatro Illustrato.[14] Ponchielli presentò a
Puccini il poeta scapigliato Ferdinando Fontana e tra i due vi fu subito intesa tanto che quest'ultimo si
occuperà di scrivere il libretto di Le Villi.[19] L'esito del concorso fu fortemente negativo, tanto che non
venne nemmeno citato dalla commissione.[20] Nonostante ciò Fontana non si arrese e riuscì ad
organizzare una rappresentazione privata in cui Puccini poté suonare le musiche dell'opera davanti, tra
gli altri, a Arrigo Boito, Alfredo Catalani e Giovannina Lucca riscuotendo questa volta un vivo
apprezzamento. Così il 31 maggio 1884 fu rappresentata al Teatro dal Verme di Milano sotto il
patrocinio dell'editore Giulio Ricordi, concorrente di Sonzogno, dove ricevette un'accoglienza
entusiastica sia dal pubblico che dalla critica.[21]
Il successo consentì a Puccini di stipulare un contratto con l'editore Casa Ricordi dando luogo ad una
collaborazione che sarebbe continuata per tutta la vita del compositore.[22] La felicità per il decollo della
sua carriera durò, tuttavia, ben poco tempo, infatti il 17 luglio dello stesso anno Puccini dovette
piangere la morte della madre Albina: un duro colpo per l'artista.[22]

Rincuorato dal vivo successo de "Le Villi"', Ricordi commissionò, fortemente convito dell'impellenza,
una nuova opera al duo Puccini-Fontana: "se io insisto, è perché bisogna battere il ferro mentre è
caldo... et frappér l'imagination du public", scrisse l'editore.[23] Ci vollero ben quattro anni perché si
completasse il l'Edgar, il cui libretto è basato sull'opera La coupe et les lèvres di Alfred de Musset.
Finalmente il lavoro andò in scena, sotto la direzione di Franco Faccio, il 21 aprile 1889 al Teatro alla
Scala di Milano raccogliendo, suo malgrado, solo un successo di stima mentre la risposta del pubblico
si dimostrò particolarmente fredda. Nei decenni successivi l'opera andò incontro a radicali
rimaneggiamenti senza tuttavia mai entrare in repertorio.[24]
Nel frattempo, nel 1884, Puccini aveva cominciato una convivenza (destinata a durare, tra varie
vicissitudini, tutta la vita) con Elvira Bonturi, moglie del droghiere lucchese Narciso Gemignani. Elvira
portò con sé la figlia Fosca, e tra il 1886 e il 1887 la famiglia visse a Monza, in corso Milano 18, dove
nacque l'unico figlio del compositore, Antonio detto Tonio, e dove Puccini lavorò alla composizione
dell'Edgar. Una lapide, posta sull'abitazione (ancora oggi esistente), ricorda l'illustre inquilino.[25]

Chiatri e Torre del Lago


Puccini però non amava la vita in città, appassionato com'era di caccia e avendo indole essenzialmente
solitaria. Quando, con Manon Lescaut ebbe il primo grande successo e vide aumentare le sue
disponibilità economiche, pensò quindi di tornare verso la terra natale e, acquistato un immobile sulle
colline tra la città di Lucca e la Versilia, ne fece un elegante villino che considerò per qualche tempo
luogo ideale per vivere e lavorare. Purtroppo la compagna Elvira mal sopportava il fatto che per
raggiungere la città si doveva andare a piedi o a dorso d'asino, fu quindi giocoforza per Puccini
spostarsi da Chiatri verso il sottostante Lago di Massaciuccoli.[26]
Nel 1891 Puccini si trasferì dunque a Torre del Lago (ora Torre del Lago Puccini, frazione di Viareggio):
Ne amava il mondo rustico, la solitudine e lo considerava il posto ideale per coltivare la sua passione
per la caccia e per gli incontri, anche goliardici, tra artisti. Di Torre del Lago il maestro fece il suo rifugio,
prima in una vecchia casa affittata, poi facendosi costruire la villa che andò ad abitare nel 1900. Puccini
la descrive così:[27]

«Gaudio supremo, paradiso, eden, empireo, «turris eburnea», «vas spirituale», reggia... abitanti
120, 12 case. Paese tranquillo, con macchie splendide fino al mare, popolate di daini, cignali,
lepri, conigli, fagiani, beccacce, merli, fringuelli e passere. Padule immenso. Tramonti lussuriosi e
straordinari. Aria maccherona d'estate, splendida di primavera e di autunno. Vento dominante, di
estate il maestrale, d'inverno il grecale o il libeccio. Oltre i 120 abitanti sopradetti, i canali
navigabili e le troglodite capanne di falasco, ci sono diverse folaghe, fischioni, tuffetti e mestoloni,
certo più intelligenti degli abitanti, perché difficili ad accostarsi. Dicono che nella Pineta "bagoli"
anche un animale raro, chiamato «Antilisca»[28], per informazioni rivolgersi a...»

Il maestro la amava a tal punto, tanto da non riuscire a distaccarvisi per troppo tempo, e affermare di
essere «affetto da torrelaghìte acuta». Un amore che i suoi familiari rispetteranno anche dopo la sua
morte, seppellendolo nella cappella della villa. Qui furono composte, almeno in parte, tutte le sue opere
di maggior successo, tranne Turandot.

Il successo: le collaborazioni con Illica e Giacosa


Dopo il mezzo passo falso di Edgar, Puccini rischiò l'interruzione della collaborazione con la Ricordi se
non fosse stato per la strenua difesa dello stesso Giulio Ricordi.[29] Su consiglio di Fontana il
compositore lucchese scelse il romanzo Histoire du chevalier Des Grieux et de Manon
Lescaut di Antoine François Prévost per la sua terza opera.[30] Presentata, dopo un lunga e travagliata
composizione, il primo febbraio 1893 alla scala Manon Lescaut si dimostrò un successo straordinario
(la compagnia venne chiamata più di trenta volte alla ribalta), forse il più autentico della carriera di
Puccini.[31] L'opera segnò inoltre l'inizio di una fruttuosa collaborazione con i librettisti Luigi
Illica e Giuseppe Giacosa, il primo subentrato a Domenico Oliva nella fase finale della genesi, il
secondo in un ruolo più defilato.[32]
La collaborazione con Illica e Giacosa fu certamente la più produttiva della carriera artistica di Puccini.
A Luigi Illica, drammaturgo e giornalista, spettava prevalentemente il compito di abbozzare una «tela»
(sorta di sceneggiatura) e definirla poco per volta, discutendola con Puccini, fino ad approdare alla
stesura di un testo completo. A Giuseppe Giacosa, autore di commedie di successo e professore di
letteratura, era riservato il delicatissimo lavoro di mettere in versi il testo, salvaguardando sia le ragioni
letterarie sia quelle musicali, compito che svolgeva con grande pazienza e notevole sensibilità poetica.
L'ultima parola spettava comunque a Puccini, al quale Giulio Ricordi aveva affibbiato il soprannome di
«Doge», a indicare il predominio che esercitava all'interno di questo gruppo di lavoro. Lo stesso editore
contribuiva personalmente alla creazione dei libretti, suggerendo soluzioni, talvolta persino scrivendo
versi e soprattutto mediando tra i letterati e il musicista in occasione delle frequenti controversie dovute
all'abitudine pucciniana di rivoluzionare a più riprese il piano drammaturgico durante la genesi delle
opere.

Illica e Giacosa avrebbero scritto poi i libretti delle successive tre opere, le più famose e rappresentate
di tutto il teatro pucciniano. Non sappiamo con precisione quando iniziò la seconda collaborazione dei
tre, ma di certo nell'aprile del 1893 il compositore era al lavoro. Il nuovo libretto nasce, dunque, dal
soggetto di Scènes de la vie de Bohème, un romanzo a puntate di Henri Murger.[33] La realizzazione
dell'opera richiese più tempo di quello preventivato da Ricordi dovendo, Puccini, intervallare la scrittura
ai suoi numerosi viaggi per le varie messe in scena di Manon Lescaut, che lo portarono tra l'altro a
Trento, Bologna, Napoli, Budapest, Londra... e le battute di caccia a Torre del Lago.[34] Durante questo
tempo, l'opera subì sostanziali rimaneggiamenti, come testimoniano le numerose lettere intercorse tra
Ricordi e gli autori in questi tormentati mesi di scrittura. Il primo quadro venne terminato l'8 giugno
mentre il compositore si trovava a Milano, mentre il 19 del mese successivo portò a termine
l'orchestrazione del "Quartiere Latino", il secondo quadro. Scrisse il 2 ed il 3 atto della Bohème
nell'estate del 1895, durante il suo soggiorno presso la villa del Castellaccio, sita in comune di Uzzano
(PT). L'opera venne conclusa alla fine di novembre mentre Puccini soggiornava a casa del conte
Grottanelli a Torre del Lago, tuttavia i ritocchi conclusivi si protrarrono fino al 10 dicembre.[35] Tra i
capolavori del panorama operistico tardoromantico, La bohème è un esempio di sintesi drammaturgica,
strutturata in 4 quadri (è indicativo l'uso di questo termine in luogo del tradizionale "atti") di fulminea
rapidità. La prima, tenutasi il 1º febbraio 1896, ricevette il favore di un pubblico entusiasta, un giudizio
che però non venne pienamente condiviso dai critici che, seppur dimostrando di apprezzare l'opera,
non si dimostrarono mai troppo soddisfatti.[36]

Ormai celebre e benestante, Puccini tornò a coltivare l'idea di musicare La Tosca un dramma storico a
tinte forti di Victorien Sardou.[37] Tale pensata venne al compositore già prima di Manon Lescaut grazie
al suggerimento di Fontana che aveva avuto la possibilità di assistere alle rappresentazioni di La
Tosca a Milano e a Torino. Puccini fu fin da subito entusiasta dell'idea di musicare il dramma tanto che
scrisse a Ricordi che "in questa Tosca vedo l'opera che ci vuole per me, non di proporzioni eccessive
né come spettacolo decorativo né tale da dar luogo alla solita sovrabbondanza musicale". Nonostante
ciò, allora, il drammaturgo francese si dimostrò riluttante nel consegnare il suo lavoro ad un
compositore senza una solida reputazione.[29] Ma ora, dopo La Bohéme le cose erano decisamente
cambiate e i lavori per quella che sarà Tosca poterono iniziare. Giacosa e Illica si misero subito al
lavoro nonostante accusassero difficoltà nel rendere un tale testo idoneo ad un'opera lirica.[38] Puccini,
invece, iniziò ad entrare nel vivo del lavoro solo agli inizi del 1898. Il primo atto di Tosca fu composto,
nel 1898, nella seicentesca Villa Mansi di Monsagrati, ove Puccini, ospite dell'antica famiglia patrizia,
lavorava essenzialmente durante le fresche notti estive che caratterizzano quella località della Val
Freddana posta a una decina di chilometri da Lucca. Poco dopo, trovandosi a Parigi, su richiesta di
Ricordi, si recò da Sardou per suonargli un'anteprima della musica fino ad allora composta
dell'opera.[39] Il lavorò continuò senza sosta, se si fa eccezione per un viaggio a Roma per assistere alla
prima di Iris dell'amico Mascagni[40] e per la scrittura di Scossa elettrica, una marcetta per pianoforte e
la ninna-nanna E l'uccellino vola, su testo di Renato Fucini.[41] Il riscontro alla prima, messa in scena il
14 gennaio 1900, fu paragonabile a quello di Boheme, ottimo (anche se inferiore alle aspettative)
accoglimento da parte del pubblico ma alcune riserve sollevate dalla critica.[42] Il musicologo Julian
Budden scrisse: "Tosca è un'opera d'azione e in questo stanno sia la sua forza che i sui limiti. Nessuno
la proclamerebbe il capolavoro del compositore, le emozioni che provoca sono per lo più ovvie, ma
come trionfo di puro teatro rimarrà ineguagliato fino alla Fanciulla del West..."[43]
Dopo il debutto di Tosca, Puccini trascorse un periodo di scarsa attività musicale in cui si dedicò al
completamento della sua residenza a Torre del Lago e ad assistere alle riprese della sua ultima opera.
In occasione della prima al Covent Garden di Londra, il maestro si intrattenne nella capitale britannica
ben sei settimane.[44] Alla fine di marzo del 1902 iniziarono i lavori per Madama Butterfly (basata su un
dramma di David Belasco) che sarà la prima opera esotica di Puccini.[26] Il maestro passò tutto il resto
dell'anno a scriverne la musica ed in particolare a ricercare delle melodie originali giapponesi al fine di
ricreare le atmosfere in cui l'opera è ambientata.[45] Frattanto, il 25 febbraio 1903, Puccini ebbe un
incidente stradale; soccorsi gli occupanti del mezzo da un medico che abitava poco vicino, il
compositore riportò una fattura alla tibia e diverse contusioni che lo costrinsero a sopportare una lunga
e penosa convalescenza di oltre quattro mesi.[46] Rimessosi in sesto, a settembre partì con Elvira per
Parigi per assister alle prove di Tosca.[47] Tornato in Italia, proseguì con la musica di Madama
Butterfly che concluse il 27 dicembre. Il 3 gennaio 1904 sposò Elvira, dopo che ella era rimasta vedova
nel marzo dell'anno precedente.[48] Poco più di un mese dopo, il 17 febbraio, finalmente Butterlfy poté
esordire alla Scala dimostrandosi, tuttavia, un solenne fiasco, tanto che il compositore descrisse la
reazione del pubblico come "Un vero linciaggio!".[49] Dopo alcuni rimaneggiamenti, in particolare
l'introduzione del celeberrimo coro a bocca chiusa, l'opera fu presentata il 28 maggio al Teatro
Grande di Brescia, dove raccolse un successo pieno, destinato a durare fino a oggi.[50]

Gli anni più difficili

Nel 1906 la morte di Giacosa, affetto da una grave forma di asma mise fine alla collaborazione a tre
che aveva dato vita ai precedenti capolavori.[51] I tentativi di collaborazione con il solo Illica furono tutti
destinati a naufragare. Delle varie proposte del librettista un Notre Dame di Victor Hugo destò nel
compositore un iniziale interesse di però breve durata,[52] mentre una Maria Antonietta, già sottoposta
all'attenzione di Puccini nel 1901, fu giudicata troppo complessa nonostante i successivi tentativi di
riduzione.[53]
Puccini, per assistere ad una rassegna delle sue opere al Metropolitan Opera House di New York, il 9
gennaio 1907 partì insieme ad Elvira per gli Stati Uniti dove soggiornò per due mesi. Qui, dopo aver
assistito ad una rappresentazione a Broadway ebbe l'ispirazione per un nuovo lavoro che doveva
basarsi sul The Girl of the Golden West, un western ante-litteram, di David Belasco. complice della
scelta, la passione di Puccini per l'esotismo (da cui era nata Butterfly) che lo spingeva sempre più a
confrontarsi con il linguaggio e gli stili musicali legati ad altre tradizioni musicali.[54]
Nel 1909 avvennero una tragedia e uno scandalo che colpirono profondamente il musicista: la
domestica ventunenne Doria Manfredi, si suicidò avvelenandosi. Doria, di povera famiglia, quando morì
il padre aveva 14 anni e Puccini, per aiutare la famiglia prese la ragazza in casa come cameriera.
Crescendo, Doria si fece assai bella e crebbe l’antipatia di Elvira, nei suoi confronti. Le liti tra i due
coniugi erano continue, con Elvira che rimproverava il marito di prestare troppa attenzione alla ragazza.
A causa delle maldicenze, la mattina del 23 gennaio 1909 la ragazza assunse delle pastiglie di
sublimato corrosivo. Nonostante le cure morì il 28 di gennaio. Il dramma aggravò ulteriormente i
rapporti con la moglie ed ebbe pesanti strascichi giudiziari. Puccini fu veramente provato dalla vicenda,
tanto che in una lettere all'amica Sybil Beddington scriverà: "Non posso lavorare più! Sono così
scoraggiato! Le mie notti sono orribili [...] ho sempre davanti agli occhi la visione di quella povera
vittima, non posso levarmela dalla mente - è un tormento continuo."[55] Ma la crisi si manifestò
nell'enorme quantità di progetti abortiti, talvolta abbandonati a uno stadio di lavoro avanzato. Sin dagli
ultimi anni dell'Ottocento Puccini tentò anche, a più riprese, di collaborare con Gabriele d'Annunzio, ma
la distanza spirituale tra i due artisti si rivelò incolmabile.

Dopo quasi un anno, in cambio di 12.000 lire, i legali del compositore convinsero i Manfredi a ritirare la
causa contro Elvira, dopo che la sentenza di primo grado l'aveva condannata ad una pena detentiva.
Messa così la parola fine alla tragedia, i Puccini tornarono a vivere insieme[56] e Giacomo riprese
l'orchestrazione della La fanciulla del West il cui libretto, nel frattempo, era stato affidato a Carlo
Zangarini affiancato da Guelfo Civinini.[57] La prima della nuova opera si ebbe il 10 dicembre 1910 a
New York con Emmy Destinn ed Enrico Caruso nel cast, riscuotendo un chiaro trionfo testimoniato
dalle quarantasette chiamate alla ribalta.[58] Tuttavia, i critici non assecondarono il pubblico e, seppur
non stroncandola, non la giudicarono comunque all'altezza di Puccini. Questa volta la critica ebbe
ragione e infatti l'opera, pur ricevendo ottime accoglienze nelle successive rappresentazioni, ben presto
la sua diffusione andò declinando, tanto che nemmeno in Italia farà mai parte del repertorio
principale.[59]
Nell'ottobre del 1913 mentre Puccini era in viaggio tra Germania e Austria per promuovere La fanciulla,
quando fece conoscenza con gli impresari del Carltheater di Vienna che gli proposero di musicare un
testo di Alfred Willne.[60] Tuttavia, rientrato in Italia e ricevute le prime bozze ne risultò insoddisfatto
dell'impianto drammatico tanto che nell'aprile dell'anno seguente lo stesso Willne gli sottopose un
lavoro diverso, realizzato con l'aiuto di Heinz Reichert, più congeniale con i gusti del musicista toscano.
Convintosi questa volta della nuova stesura decise di trasformare Die Schwalbe (in italiana sarà La
rondine) in una vera e propria opera affidandosi al commediografo Giuseppe Adami.[61] Nel frattempo
era scoppiata la prima guerra mondiale e l'Italia si era schierata nella triplice intesa contro l'Austria, un
fatto che si ripercosse negativamente sul contratto tra Puccini e gli austriaci.[62] Nonostante tutto, l'opera
riuscì ad essere messa al Grand Théâtre de Monte Carlo il 27 marzo 1917 sotto la direzione di Gino
Marinuzzi. L'accoglienza risultò nel complesso festosa. Tuttavia già dall'anno successivo Puccini iniziò
ad apportargli importanti modifiche.[63]

Il Trittico
L'eclettismo pucciniano, e insieme la sua incessante ricerca di soluzioni originali, trovarono piena
attuazione nel cosiddetto Trittico, ossia in tre opere di un atto da rappresentarsi nella stessa serata.
Inizialmente, il compositore, aveva immaginato una rappresentazione con sole due opere fortemente
contrastati per la trama: una comica e una tragica, e solo successivamente gli venne l'idea della
triade.[64]

Dopo aver contattato, ancora una volta inutilmente, Gabriele D'Annunzio dovette cercare altrove gli
autori dei libretti. Per la prima opera gli venne incontro Giuseppe Adami che gli propose Il tabarro, tratto
da La houppelande di Didier Gold.[65] Messosi alla ricerca di un autore per gli altri due pezzi, Puccini lo
trovò in Giovacchino Forzano che mise a disposizione due opere di propria composizione. La prima fu
una tragedia, Suor Angelica, che fin da subito piacque molto al compositore tanto che per trovare
l'ispirazione per la musica, il compositore si recò più volte presso il convento di Vicopelago dove sua
sorella Iginia era madre superiora.[66] La triade si completava quindi del Gianni Schicchi per cui Forzano
attinse da pochi versi del canto XXX dell'Inferno di Dante Alighieri su cui poi costruì un intreccio con
protagonista il falsario Gianni Schicchi de' Cavalcanti. Inizialmente Puccini accolse freddamente questo
soggetto, dichiarando in una lettera: "Ho tema che il fiorentinismo antico non mi vada e che non seduca
tanto il pubblico del mondo", tuttavia appena il testo venne elaborato meglio mutò d'avviso. In ogni
caso, il 14 settembre Suor Angelica era terminata così anche, il 20 aprile dell'anno successivo, Gianni
Schicchi.[66]
Completato il Trittico vi fu la ricerca del teatro ove ospitare la prima, con non poche difficoltà visto che
erano giorni difficili per il morale degli italiani che avevano appena subito la sconfitta di Caporetto ed
erano afflitti dall'epidemia spagnola che uccisi, tra gli altri, Tomaide sorella di Puccini.
Sorprendentemente si ebbe risposta positiva dal Metropolitan di New York[67] e così l'evento ebbe luogo
il 14 dicembre 1918 a cui, tuttavia, il compositore non poté essere presente per i timori nell'affrontare
una traversata atlantica in un periodo in cui vi potevano ancora essere mine inesplose nonostante il
termine delle ostilità. Fu invece presente alla prima italiana dell'11 gennaio 1919 al Teatro dell'Opera di
Roma sotto la direzione di Gino Marinuzzi.[68]
Delle tre opere che compongono il Trittico, Gianni Schicchi divenne subito popolare, mentre Il tabarro,
inizialmente giudicata inferiore, guadagnò col tempo il pieno favore della critica. Suor Angelica fu
invece la preferita dell'autore. Concepite per essere rappresentate in un'unica serata, oggi le singole
opere che compongono il Trittico sono per lo più messe in scena appaiate a opere di altri
compositori.[69]

Turandot, l'incompiuta

Dal 1919 al 1922, lasciata Torre del Lago, perché era disturbato dall'apertura di un impianto per
l'estrazione della torba, Puccini visse nel comune di Orbetello, nella Bassa Maremma, dove acquistò
sulla spiaggia della Tagliata una vecchia torre di avvistamento del tempo della dominazione spagnola,
oggi detta Torre Puccini, in cui abitò stabilmente. Nel febbraio 1919 venne insignito con il titolo di
grande ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia.[10]
Nello stesso anno ricevette dal sindaco di Roma Prospero Colonna la commissione per musicare un
inno alla città di Roma su versi del poeta Fausto Salvatori. Nonostante Puccini non fosse
assolutamente entusiasta di questo lavoro, in proposito scriverà ad Elvira: "Ho finito 'l'Inno a Roma (una
bella porcheria)", la prima esecuzione venne programmata per il 21 aprile 1919, in occasione
dell'anniversario della leggendaria fondazione della città.[10] Tale evento doveva inizialmente tenersi
presso Villa Borghese ma, prima a causa del maltempo poi per via di uno sciopero, il debutto dovette
essere posticipato al primo giugno allo Stadio Nazionale per le gare ginniche nazionali dove ricevette
un'accoglienza entusiastica da parte del pubblico.[71]
A Milano, durante un incontro con Giuseppe Adami, ricevette da Renato Simoni una copia della fiaba
teatrale Turandot scritta dal drammaturgo settecentesco Carlo Gozzi. Il testo colpì subito il compositore
che lo portò con sé nel viaggio seguente a Roma per una ripresa del Trittico.[72] Nonostante avesse fin
da subito trovato difficoltà nel musicarlo Puccini si dedicò con fervore in questa nuova opera su cui,
peraltro, si erano già cimentati due musicisti italiani: Antonio Bazzini, con la sua Turanda di però gran
scarso successo, e Ferruccio Busoni che la mise in scena a Zurigo nel 1917.[73]

Tuttavia, la Turandot di Puccini niente ebbe a che spartire con quelle degli altri due suoi
contemporanei. Essa è l'unica opera pucciniana di ambientazione fantastica, la cui azione – come si
legge in partitura – si svolge «al tempo delle favole». In quest'opera l'esotismo perde ogni carattere
ornamentale o realistico per diventare forma stessa del dramma: la Cina diviene così una sorta di regno
del sogno e dell'eros e l'opera abbonda di rimandi alla dimensione del sonno, nonché di
apparizioni, fantasmi, voci e suoni provenienti dalla dimensione "altra" del fuori scena. Nell'intento di
ricreare originali ambientazioni, gli venne in aiuto il barone Fassini Camossi, ex diplomatico in Cina e
possessore di un carillonche suonava melodie cinesi di cui Puccini si servì intensamente, in particolare
nel musicare l'inno imperiale.[74]
Puccini si entusiasmò subito al nuovo soggetto e al personaggio della principessa Turandot, algida e
sanguinaria, ma fu assalito dai dubbi al momento di mettere in musica il finale, coronato da un
insolito lieto fine, sul quale lavorò un anno intero senza venirne a capo. Nel 1921 la composizione
appare proseguire tra difficoltà, il 21 aprile scrive a Sybil "mi pare di non avere più fiducia in me, non
trovo nulla di buono" e momenti di ottimismo, ad Adami scrive il 30 aprile "Turandot va bene avanti; mi
par d'essere sulla via maestra." Di certo la stesura della partitura non seguì la cronologia della trama
ma saltò da una scena all'altra.[75]
Le difficoltà si fecero sempre più evidenti quando, in autunno, Puccini propose diverse modifiche ai
librettisti, come quella di ridurre l'opera a soli due atti,[76] ma già nei primi mesi del 1922 si tornò ai tre
atti e venne deciso che il secondo sarebbe stato aperto dalle "tre maschere".[77] Alla fine di giugno si
riuscì a completare il libretto definitivo e il 20 agosto Puccini decise di partire per un viaggio in
automobile attraverso Austria, Germania, Olanda, Foresta Nera e Svizzera.[78]

Superate parzialmente le difficoltà, la composizione di Turandot proseguiva, seppur lentamente. Il 1923


fu l'anno di svolta, trasferitosi a Viareggio, Puccini lavorò intensamente all'opera tanto che dopo poco si
iniziò già a pensare a dove ospitare il debutto.[79]
Nel frattempo la salute del compositore andò rapidamente peggiorando lamentando un forte dolore alla
gola. Il successivo consulto con uno specialista fiorentino lasciò poche speranze, la diagnosifu
un tumore giudicato inoperabile. Da un'ulteriore visita presso un altro specialista, Puccini ricevette il
consiglio di recarsi a Bruxelles dal professor Louis Ledoux dell'Institut du Radium di Bruxelles il quale
avrebbe potuto tentare una cura con radio. Il 24 novembre il musicista si sottopose, quindi, ad
un intervento chirurgico di ben tre ore, in anestesia locale, che consistette nell'applicazione,
tramite tracheotomia, di sette aghi di platino irradiato, inseriti direttamente nel tumore e trattenuti da un
collare. Nonostante l'intervento fosse stato giudicato pienamente riuscito e che i bollettini medici si
esprimessero in toni positivi, Puccini morì alla 11.30 del 29 novembre.[80][81]

La messa funebre si tenne nella chiesa di Sainte-Marie a Bruxelles e subito dopo la salma fu portata in
treno a Milano per la cerimonia ufficiale che si tenne nel Duomo di Milano il 3 dicembre. In tale
occasione, Toscanini condusse l'Orchestra del Teatro alla Scala nell'esecuzione del requiem tratto
da Edgar.[80] Inizialmente il corpo di Puccini venne deposto nella cappella privata della famiglia
Toscanini, ma due anni più tardi venne traslata, su suggerimento di Elvira, nella cappella della villa di
Torre del Lago, dove venne sepolta anch'essa.[82]
Le ultime due scene di Turandot, di cui non rimaneva che un abbozzo musicale discontinuo, furono
completate da Franco Alfano sotto la supervisione di Arturo Toscanini; ma la sera della prima
rappresentazione lo stesso Toscanini interruppe l'esecuzione sull'ultima nota della partitura pucciniana,
ossia dopo il corteo funebre che segue la morte di Liù

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