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Proprio così.
Forse lo sconcerto, l’imbarazzo che l’uomo moderno prova davanti al sorriso
dell’Angelo di Saint Nicaise nascono in sostanza da un malinteso, o meglio da un
pregiudizio: dall’idea, grossolana e ingiustificata, che il Medioevo non abbia amato
la bellezza, che abbia disprezzato il mondo, che sia stato dominato esclusivamente
da una cupa atmosfera di peccato e di morte; e che il riso, per dirla con un
personaggio del romanzo anti-medievale e anti-cristiano (e vorremmo dire anti-
storico) «Il nome della rosa», non stia bene sulla bocca di un cristiano, perché esso
appartiene semmai alle smorfie del Diavolo, preludio alla tentazione e alla
ribellione contro Dio.
Forse il sorriso dell’Angelo di Reims, al contrario, non è affatto incongruo, non ha
nulla di anomalo, non dovrebbe in nessun modo turbarci o imbarazzarci. E questo
non perché il Medioevo sia stato una specie di Rinascimento inconsapevole (questo
sarebbe un ingenuo rovesciamento del paradigma culturale oggi imperante e dei
suoi pregiudizi), ma perché la spiritualità medievale era fondata sulla
complementarità e sulla distinzione dei due ordini della realtà, il naturale e il
soprannaturale. Complementarità: dunque nessun manicheismo, nessuna
condanna radicale del mondo, della carne, della bellezza (come spiegare,
altrimenti, la dottrina cristiana della resurrezione dei corpi?); ma, nello stesso
tempo, distinzione dei due ordini: perché il naturale è il riflesso del
soprannaturale, e il soprannaturale è la realtà assoluta che si cela dietro il naturale.
La vita terrena, dunque, per l’uomo medievale, è un valore, è un bene, così come lo
sono la bellezza, l’amore, la gioia; ma è un valore che trae la propria ragione ultima
da qualcosa che sta fuori della vita, e che, senza negarla, senza disprezzarla, senza
maledirla, nondimeno la oltrepassa, la supera, la sublima, in uno sguardo più
ampio, in un respiro più universale. L’uomo medievale apprezza la bellezza e la
gioia terrene, ma non ne rimane invischiato; gode delle cose buone che la
condizione mortale offre, ma non accetta di farsene schiavo e, soprattutto, non
dimentica che in essa vi è un anticipo, una caparra, ancor vaga e confusa, di quella
luce infinita, di quel calore perenne che sgorgano dall’Assoluto e senza i quali ogni
cosa terrena, abbandonata a se stessa, diventa vuota, ingannevole, deludente.
Ma perché, dunque, l’Angelo di Reims sorride a quel modo, in mezzo a sculture e
raffigurazioni che non sorridono, o che, casomai, sorridono in altro modo, più
spirituale, più distaccato dalle cose del mondo? Per la semplice ragione che l’artista
ha voluto mostrare il prodigio dell’infinito nel sensibile, la bellezza del
soprannaturale nel naturale: ha voluto celebrare Dio, non a dispetto, ma proprio in
ragione della condizione umana, che è fatta anche di corpo, di carne, di aspirazione
alla gioia dell’esistenza in tutta la sua completezza, fisica e spirituale. Pertanto
questo ignoto scultore ha voluto alludere alla gioia e alla pace perfette, quelle che
si rivelano nella comunione intima con Dio, non al di fuori, ma al di dentro della
condizione umana; e ha voluto farlo non in contrasto accidentale, ma in
consapevole discontinuità con il grandioso complesso architettonico e scultoreo
della cattedrale: così come nel buio della notte, talvolta, un lampo improvviso
rischiara a giorno il paesaggio e rivela in piena luce, ma solo per un attimo, quel
che era celato alla vista.
Tale è la prospettiva dell’uomo medievale: quella di Francesco, di Tommaso, di
Giotto e di Dante. L’altro mondo non è la negazione di questo: è il suo compimento
gaudioso, pacificato, ineffabile…