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C ONTENTS

EDITORIAL STATEMENT . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
TADEUSZ KOTULA (1923–2007) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7
TOMASZ MIKOCKI (1954–2007) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11
Edward Lipiński, HIRAM DE TYR ET SALOMON D’APRÈS FLAVIUS JOSÈPHE ET SES
SOURCES . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
Łukasz Niesiołowski-Spanò, PASSOVER, THE JEWISH CULTIC CALENDAR AND
THE TORAH . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35
Benedetto Bravo, TESTI INIZIATICI DA OLBIA PONTICA (VI E V SEC. A.C.)
E OSSERVAZIONI SU ORFISMO E RELIGIONE CIVICA . . . . . . . . . . . . . . 55
Hans-Joachim Gehrke, MARATHON: A EUROPEAN CHARTER MYTH? . . . . . 93
Stephanie West, HERODOTUS LYRICORUM STUDIOSUS . . . . . . . . . . . . . 109
Aleksander Wolicki, MOICHEIA: ADULTERY OR SOMETHING MORE? . . . . . . 131
Robert Wiśniewski, DEEP WOODS AND VAIN ORACLES: DRUIDS, POMPONIUS
MELA AND TACITUS . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 143
Krystyna Stebnicka, THE PHYSICAL APPEARANCE OF A PURE GREEK IN LITERATURE
OF THE SECOND SOPHISTIC PERIOD . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 157
Józef Naumowicz, LE CALENDRIER DE 354 ET LA FÊTE DE NOËL . . . . . . . . . 173
Przemysław Nehring, JOVINIAN, JEROME AND AUGUSTINE. THE BIBLE IN THE
SERVICE OF ARGUMENTS . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 189

PALAMEDES 2(2007) 3
Contents

Varia
Jan K. Winnicki, A DEMOTIC VOTIVE INSCRIPTION FROM SAQQARA REVISITED 201
Adam Łajtar, A FRAGMENT OF AN OPISTHOGRAPHIC SLAB FROM TELL FARAMA
(PELUSIUM) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 203

Reviews
Marek Stępień, Ensi at the time of the Ur III Dynasty: The economic and
administrative aspects of the provincial governor’s position in the light of the
provincial archive from Umma (Witold Tyborowski) . . . . . . . . . . 207
Hélène Nutkowicz, L’homme face à la mort au royaume de Juda. Rites, pratiques
et représentations (Bogusława Filipowicz) . . . . . . . . . . . . . . . . 217
Peter Schäfer, Jesus in the Talmud (Maciej Tomal) . . . . . . . . . . . . . . 223
Stanisław Kalita, Die Griechen in Baktrien und Indien. Ausgewählte Probleme
ihrer Geschichte (Marek Jan Olbrycht) . . . . . . . . . . . . . . . . . 237
Susan Weingarten, The Saint’s Saints. Hagiography and Geography in Jerome
(Robert Wiśniewski) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 245
e e
Kamilla Twardowska, Les impératrices byzantines de la 2 moitié du 5 siècle.
Les femmes face au pouvoir (Marek Jankowiak) . . . . . . . . . . . . . 253
ANCIENT STUDIES IN POLAND. RECENT BOOKS OF INTEREST (Elżbieta Szabat) . 259
GUIDELINES TO CONTRIBUTORS . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 277
Benedetto Bravo

T ESTI INIZIATICI DA OLBIA PONTICA


(VI E V SEC. A.C.) E OSSERVAZIONI SU
ORFISMO E RELIGIONE CIVICA

I
n un articolo uscito nel 1998, Jurij Germanovič Vinogradov ha pubblicato
quattro testi scritti su laminette di piombo che erano state trovate in vari luoghi
della costa settentrionale del Mar Nero.1 In tutti e quattro egli ha creduto di poter
riconoscere delle lettere private. Secondo me, nessuno di essi è una lettera. Del n° 3
e del n° 4 tratterò altrove. (Sosterrò che il n° 3 è probabilmente un cartellino
destinato ad accompagnare uno schiavo messo in vendita dal suo proprietario sulla
piazza di Phanagoreia, e che il n° 4 è un kat|desmoV). Qui intendo trattare del
n° 1 e del n° 2, trovati in due luoghi della polis di Olbia Pontica. Essi sono, a mio
parere, testi di carattere religioso, iniziatico. Più precisamente, interpreto il n°
1 come un promemoria destinato a servire, al momento della morte, all’anima di
una donna appartenente a un gruppo orfico – dunque come la più antica laminetta
orfica2 che sia stata trovata finora (è databile infatti alla seconda metà del VI secolo

1
Yu. Vinogradov, “The Greek colonisation of the Black Sea region in the light of private lead
letters”, in G.R. Tsetskhladze (ed.), The Greek Colonisation of the Black Sea Area. Historical
Interpretation of Archaeology (Historia Einzelschriften 121), Stuttgart 1998, 153–178.
2
A lungo gli studiosi sono stati diffidenti verso la nozione di “orfismo”. Tra le numerose
manifestazioni di tale atteggiamento menzionerò due libri importanti: M.I. Linforth, The Arts
of Orpheus, Berkeley–Los Angeles 1941; M.L. West, The Orphic Poems, Oxford 1983. Negli ultimi
decenni, però, si è diffusa la convinzione che l’“orfismo” non sia un’arbitraria costruzione
moderna, ma corrisponda a una realtà, sia pure molto variegata e complessa. Condivido questa
opinione. Tra gli studi recenti, vd. in particolare la raccolta di articoli di autori vari L’orphisme
et ses écritures. Nouvelles recherches, nella Revue de l’Histoire des Religions, 219, fasc. 4, (2002),
379–513 (dove però l’articolo di Cl. Calame mantiene un atteggiamento diffidente),
e l’introduzione di A. Bernabé alla sua raccolta di frammenti orfici tradotti in spagnolo
e commentati, Hieros logos. Poesía órfica sobre los dioses, el alma y el más allá, Madrid 2003, 12–27.
Vedo ora – troppo tardi per poterne fare uso in questo articolo – il libro di Fritz Graf e di Sarah

PALAMEDES 2(2007) 55
Benedetto Bravo

a.C.); e il n° 2 (databile alla fine del VI o ai primi decenni del V secolo), come un
insieme di insegnamenti (Úpoq®kai) religioso-morali, scritti, su un lato della
laminetta, in esametri, sull’altro lato in prosa e riguardanti la condotta da seguire
nella vita presente per evitare, dopo la morte, la reincarnazione dell’anima.
Che almeno un gruppo iniziatico di tipo orfico esistesse a Olbia Pontica nel
V secolo a.C., era noto negli ultimi decenni grazie a tre tavolette d’osso trovate in
questa città, all’interno dell’area sacra attigua al lato nord dell’agora (area che oggi
è detta dagli archeologi “temenos orientale”) e che sono state pubblicate e commentate
da Anna S. Rusjaeva nel 1978.3 Questa studiosa ha interpretato le parole e i simboli
incisi su quelle tavolette tenendo conto di ciò che si legge, intorno alle dottrine
orfiche, in testi molto posteriori, per lo più della tarda antichità4. Se l’inter-
pretazione-ricostruzione che presenterò ora della laminetta n° 1 dell’articolo di
Ju.G. Vinogradov sarà considerata almeno in parte convincente, avremo una

Iles Johnston, Ritual Texts for the Afterlife. Orpheus and the Bacchic Gold Tablets, London – New
York 2007.
3
A.S. Rusjaeva, “Orfizm i kul’t Dioniza v Ol’vii’, VDI 143, fasc. 1 (1978), 87–104. Le tre tavolette
furono trovate nel corso di scavi archeologici (diretti non so da chi) nel 1951, ma per molti anni
rimasero ignorate nel magazzino del Museo Archeologico di Kiev, chiuse in una scatola di
cartone su cui era scritto “oggetti d’osso”. Averne scoperto la natura e il valore è uno dei grandi
meriti di A.S. Rusjaeva. – La stessa studiosa ha trattato di queste tavolette anche nel suo libro
Zemledel’českie kul’ty v Ol’vii dogetskogo vremeni, Kiev 1979, 73–82 e 153–154. Per ciò che riguarda
il luogo della scoperta, le indicazioni fornite nel libro (che è andato in tipografia l’11 gennaio
1979) non sono identiche a quelle fornite nell’articolo del 1978 (che è andato in tipografia il 21
novembre 1977). Nell’articolo è detto (p. 87) che le tre tavolette furono trovate “nell’area del
temenos di Olbia […], in una fossa del V secolo a.C.”. Nel libro è detto ( p. 73) che esse furono
trovate “a Olbia, nel temenos, in prossimità del tempio di Zeus, a una profondità di 1,35 m, in
uno strato del V secolo a.C.”. Non mi è chiaro se queste due indicazioni si completino
reciprocamente, o se la seconda corregga la prima. La cosa non è indifferente. Ju.G. Vinogradov,
nell’articolo che citerò qui sotto, afferma che la seconda indicazione corregge la prima. Non so
però se si è fondato soltanto sul confronto tra i due testi o se aveva ottenuto un chiarimento
da A.S. Rusjaeva. – Si noti che nel 1978 e nel 1979 si conosceva, nella città di Olbia, una sola
area sacra, comprendente vari templi; un’altra area sacra, più antica (il “temenos occidentale”),
fu scoperta solo più tardi – proprio da A.S. Rusjaeva.
4
La pubblicazione suscitò sùbito grande interesse. Molti studiosi hanno scritto su queste tre
tavolette. Qui basterà menzionare: M.L. West, “The Orphics of Olbia”, ZPE 45 (1982), 17–29,
e The Orphic poems, 17–18; Ju.G. Vinogradov, “Zur sachlichen und geschichtlichen Deutung der
Orphiker-Plättchen von Olbia”, in Ph. Bourgeaud (ed.), Orphisme et Orphée. En l’honneur de Jean
Rudhardt, Genève 1991, 77–86, riedito nella raccolta di articoli di Vinogradov stesso, Pontische
Studien, Mainz 1997, 242–249 (l’autore ha esaminato gli originali e ha migliorato la lettura di
essi); L. Dubois, Inscriptions grecques dialectales d’Olbia du Pont, Genève 1996, no 94 (pp. 154–155);
L.Ja. Žmud’, “Orfičeskie grafitti [sic!] iz Ol’vii”, nella raccolta di articoli di autori vari Ėtjudy po
antičnoj istorii i kul’ture Severnogo Pričernomor’ja, Sankt-Peterburg 1992, 94–110 (questo articolo
è stato pubblicato anche in inglese: L. Zhmud’, “Orphism and grafitti [sic!] from Olbia”, Hermes
120 [1992], 159–168); A. Bernabé, Orphicorum et Orphicis similium testimonia et fragmenta, fasc.
1 (= Poetae Epici Graeci. Testimonia et fragmenta, pars II, fasc. 1), Monachii–Lipsiae 2004,
463–465 T.

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Testi iniziatici da Olbia Pontica

testimonianza sulla presenza di orfici a Olbia Pontica già nella seconda metà del VI
secolo; potremo inoltre constatare che lo schema fondamentale delle istruzioni
destinate a essere usate dalle anime degli iniziati al momento della morte – istruzioni
di cui il più antico esemplare finora noto era la celebre laminetta aurea di
Hipponion (fine del V o inizio del IV secolo a.C.) – funzionava già nella seconda
metà del VI secolo (ai tempi di Pitagora di Samo!) in un’area di cultura ionica
(ricordiamo che Olbia Pontica era colonia di Mileto).
Quanto al n° 2, leggermente più tardo, anch’esso è nato all’interno di un
gruppo iniziatico, ma non so se questo si debba considerare orfico o non piuttosto
pitagorico.
Lo studio di queste due laminette di piombo mi ha indotto a studiare
attentamente anche le tavolette d’osso orfiche pubblicate da A.S. Rusjaeva nel
1978. Credo di aver qualcosa di nuovo da dire anche su di esse.
Purtroppo non ho esaminato gli originali né delle due laminette di piombo
pubblicate da Ju.G. Vinogradov nel 1998,5 né delle tavolette d’osso orfiche.6 Spero
che in futuro mi sarà possibile intraprendere dei viaggi per esaminarli, ma intanto
presento agli studiosi quello che ho potuto fare finora fondandomi sulle fotografie
e sui fac-simile pubblicati dai due editori.7
Questa ricerca mi ha dato occasione di riflettere su un celebre passo
dell’opera di Erodoto, riguardante le teleta{ di Dionysos Bakcheios a Olbia Pontica
(IV 78–80), e su un altro passo, altrettanto celebre, della stessa opera, riguardante
“le cose dette orfiche e bacchiche” (II 81,1–2, dove il testo è da molto tempo oggetto
di controversie: interverrò in questa discussione con una nuova proposta). In
questo modo sono stato spinto a pormi delle domande e a fare delle considerazioni
sulla posizione dell’orfismo rispetto alla religione civica.

5
Stranamente, l’editore non dice dove esse siano conservate. Nel 1997, quando lavorai per alcune
ore all’Ermitage di Pietroburgo sulla laminetta di piombo contenente la “lettera di Achillodoros”,
ebbi l’occasione di vedere durante pochi minuti una laminetta di piombo allora inedita – quella
che poco tempo dopo sarebbe stata pubblicata nell’articolo di Ju.G. Vinogradov sotto il no 2.
Naturalmente quei pochi minuti non mi bastarono per leggerla, ma solo per osservarne alcune
caratteristiche. Ricordo che mi colpirono lo spessore molto sottile della laminetta (nettamente
più sottile di quello della “lettera di Achillodoros”) e l’accuratezza della scrittura incisa su
entrambi i lati. Suppongo che la laminetta si trovi ancora oggi nel museo dell’Ermitage, ma non
posso affermarlo. Quanto ai due frammenti di laminetta pubblicati da Vinogradov sotto il no 1,
non li ho visti e non so dove siano conservati.
6
Queste si trovano a Kiev, nell’ Istituto Archeologico dell’Accademia delle Scienze dell’Ucraina.
7
Ringrazio Martin Peters, con cui ho discusso, alcuni anni fa, su questi testi e che mi ha aiutato
non solo con utili osservazioni, ma anche fornendomi indicazioni bibliografiche e fotocopie di
articoli e libri.

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Benedetto Bravo

1. Una laminetta orfica trovata a Berezan’

L’oggetto n° 1 pubblicato nell’articolo di Vinogradov consiste in due


frammenti di una laminetta di piombo, trovati nell’isoletta di Berezan’. Al tempo
in cui la laminetta fu prodotta, questa isoletta era un promontorio. Qui c’era un
insediamento urbano, chiamato probabilmente Borusqen{V e appartenente a una
polis chiamata #Olb{h p"liV o – non ufficialmente – Borusq}nhV, il cui centro
politico-religioso era allora l’insediamento urbano chiamato Borusq}nhV, a ca. 38
km di distanza dal promontorio.8
I due frammenti furono scoperti nel 1984 nel corso di scavi di sondaggio
eseguiti da una équipe dell’Accademia delle Scienze dell’Ucraina sotto la direzione
di S.N. Mazarati. Più precisamente – come Ju.G. Vinogradov ha scritto fondandosi
su informazioni fornite da A.S. Rusjaeva e N.A. Lejpunskaja – essi furono trovati
in una fossa insieme con frammenti di ceramica decorata non posteriori al terzo
quarto del VI secolo a.C.9
Negli anni 1996–1999 un’altra équipe dell’Accademia delle Scienze
dell’Ucraina, sotto la direzione di V.V. Nazarov, eseguì scavi più ampi nello stesso
settore dell’isola dove S.N. Mazarati aveva fatto dei sondaggi. Nel primo fascicolo
del Vestnik Drevnej Istorii del 2001, V.V. Nazarov ha pubblicato notizie sui risultati
dei nuovi scavi.10 Riassumo il suo resoconto. Sono stati messi in luce resti di un
recinto in muratura e, all’interno di esso, di un tempio e di un altare. Questo Äer"n,
secondo V.V. Nazarov, era probabilmente dedicato ad Aphrodite, come risulterebbe
da certe statuette (però egli non sembrava escludere del tutto la possibilità che la
dea a cui era dedicato fosse Demeter). Esso sorse poco dopo la metà del VI secolo
a.C., in un luogo dove precedentemente si trovavano alcune capanne semi-interrate
(poluzemljanki). A un certo momento fu costruito un nuovo muretto di cinta, che
restrinse un po’ il terreno legato al tempio. Il tempio funzionava ancora nel

8
Lo stato attuale della ricerca archeologica su questi due insediamenti per il periodo dal VII al
V secolo a.C. è ottimamente rappresentato da A.V. Bujskikh, “Nekotoroe polemičeskie zametki
po povodu stanovlenija i razvitija Borisfena i Ol’vii v VI v. do n.ė.”, VDI 253, fasc. 2 (2005),
146–165. La mia opinione attuale sulle origini della polis di Olbia e sul ruolo dell’insediamento
di Berezan’ è diversa da quella di A.V. Bujskikh, ma non posso esporla nel presente articolo; mi
propongo di presentarla altrove. Per ora mi limito a segnalare che ritengo errato identificare
Borusq}nhV e Borusqen{V.
9
La scoperta di questa fossa e dei due frammenti di una laminetta di piombo non è stata
menzionata da S.N. Mazarati nel suo brevissimo resoconto “Issledovanija na o. Berezani”,
pubblicato in Arkheologičeskie otkrytija 1984 goda, Moskva 1986, 265. Probabilmente S.N.
Mazarati non attribuiva molta importanza a quei due pezzetti di piombo. Non so se in quel
momento si sapesse che essi portavano un’iscrizione.
10
V.V. Nazarov, “Svjatilišče Afrodity v Borisfene”, VDI 236, fasc. 1 (2001), 154–165. Vd. anche:
S.D. Kryžickij, “Khram Afrodity na Berezani. Rekonstrukcija”, VDI 236, fasc. 1 (2001), 165–175.

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Testi iniziatici da Olbia Pontica

V secolo a.C.11 Secondo V.V. Nazarov, lo Äer"n da lui scoperto faceva probabil-
mente parte di un’area sacra più vasta. Nel resoconto non è detto quali siano
stati gli indizi che hanno suggerito questa ipotesi, ma immagino che uno di essi
sia stato il fatto che uno dei sondaggi eseguiti parecchi anni prima da S.N.
Mazarati aveva messo in luce un altare12 e che il luogo in cui questo era stato
scoperto è vicino allo Äer"n scoperto da V.V. Nazarov, ma fuori del recinto che lo
circonda.13
La datazione proposta da V.V. Nazarov in quell’articolo per la fondazione
del tempio di Aphrodite (o Demeter?) sembra debba essere leggermente abbassata
alla luce di scavi ulteriori, degli anni 2003–2005, i cui risultati sono riferiti in due
brevi contributi che fanno parte di una raccolta pubblicata nel 2005:14 se capisco
bene, l’area sacra sembra essere stata costituita verso la fine del VI secolo.
Della fossa messa in luce da S.N. Mazarati nel 1984, V.V. Nazarov non ha
fatto menzione nel resoconto dei suoi scavi pubblicato nel 2001. Suppongo che
anche quella fossa si trovasse fuori del recinto del tempio in questione, ma
all’interno dell’area sacra più ampia. Se è così, è molto probabile che si tratti di un
deposito destinato ad accogliere oggetti o frammenti di oggetti consacrati
o comunque legati alla sfera sacra.15 Mi sembra lecito supporre che in un momento
imprecisabile del periodo in cui il tempio fu attivo (verso la fine del VI secolo o nei
primi decenni del V secolo a.C.), i frammenti della laminetta di piombo siano stati
deliberatamente messi in questa fossa-deposito, come pezzi di un oggetto carico di
valore religioso.

11
Sappiamo che negli anni Settanta del V secolo a.C. l’insediamento del promontorio fu in parte
abbandonato e da allora in poi andò declinando, fino a diventare un villaggio insignificante.
12
Vd. il resoconto pubblicato da Mazarati (citato qui sopra, n. 9).
13
Vd. la cartina disegnata da S.L. Solov’ev nel suo articolo “Novye aspekty istorii i arkheologii
antičnoj Berezani”, Peterburgskij Arkheologičeskij Vestnik 8 (1994), 86, che localizza gli scavi fatti
dal 1884 al 1991; essa è riprodotta (ma non in modo completo) nel libro dello stesso autore
(cognome translitterato: Solovyov): Ancient Berezan. The Architecture, History and Culture of the
First Greek Colony in the Northern Black Sea, Leiden–Boston–Köln 1994, 16; vd. inoltre,
nell’articolo di Nazarov citato qui sopra (n. 10), la piantina a p. 157. Alcuni anni fa (nel 1997,
se non erro), quando si cominciava a sapere qualcosa della scoperta di un tempio fatta da
V.V. Nazarov, ebbi l’occasione di parlare con A.S. Rusjaeva, che mi disse che questo tempio era
a poca distanza da una fossa in cui S.N. Mazarati aveva trovato una laminetta di piombo.
14
V.V. Nazarov, A.G. Kuz’miščev, “K probleme interpretacii odnoj pozdnearkhaičeskoj polu-
zeml’janki na o. Berezan’”, in Bosporskij fenomen. Problema sootnošenija pis’mennykh i arkheologičes-
kikh istočnikov (Edizioni del Museo dell’Ermitage), Sankt-Peterburg 2005, 178–180; e V.V. Krutilov,
“Osnovnye itogi raskopok na o. Berezan’ (učastok «T») v 2005 g.”, ibid., 180–182.
15
Le fosse di questo genere sono di solito chiamate dagli archeologi favissae (termine latino arcaico,
attestato una sola volta in un testo di carattere antiquario), o b"qroi (termine che in greco
antico significava semplicemente “fossa”). Nella conversazione a cui ho accennato qui sopra,
A.S. Rusjaeva usò, riferendosi alla fossa in questione, proprio il termine b"qroV.

PALAMEDES 2(2007) 59
Benedetto Bravo

Fig. 1. Da: Yu. Vinogradov, “The Greek colonisation of the Black Sea region in the light of
private lead letters”, in G.R. Tsetskhladze (ed.), The Greek Colonisation of the Black Sea Area.
Historical Interpretation of Archaeology (Historia Einzelschriften, 121), Franz Steiner Verlag,
Stuttgart 1998, 172–173. (Per gentile concessione della casa editrice).

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Testi iniziatici da Olbia Pontica

Indipendentemente da queste considerazioni, lo studio di ciò che resta


dell’iscrizione mi ha condotto alla conclusione che l’iscrizione della laminetta
contiene un testo che deve essere stato destinato a servire a una donna appartenente
a un’associazione orfica.
Il testo è scritto boustrojhd"n. Ju.G. Vinogradov caratterizza en passant lo
stile della scrittura come “(pseudo)boustrophedon style”. Non spiega perché lo
chiami “(pseudo)boustrophedon”, e non “boustrophedon”, ma è evidente che egli
deve aver osservato che l’orientazione dell’alpha è dappertutto la stessa, quella della
scrittura destrorsa, e che l’unico sigma che compaia qui (un sigma a tre tratti, si
direbbe a giudicare dalla fotografia, ma forse un quarto tratto è scomparso) si trova
in una riga diretta a sinistra, ma è orientato verso destra. Certo, tutte le altre lettere
che compaiono qui e che sono suscettibili di cambiamento di orientazione (B, G,
E, K, L, N, P, R), sono orientate conformemente alla regola dello stile boustrophedon;
tuttavia il modo in cui sono trattati l’alpha e il sigma è una irregolarità significativa.
Non so se l’editore abbia osservato un altro fatto, che mi sembra altrettanto
significativo: la fine di ciascuna delle sei righe coincide o con fine di sillaba, o con
fine di parola, il che mi sembra strano in un’iscrizione fatta boustrophedon. Penso
che sia lecito dire che l’iscrizione fu eseguita in stile boustrophedon da una persona
abituata a scrivere solo da sinistra a destra. Se questo è vero, abbiamo a che fare
con arcaizzazione deliberata, e questo sarebbe un indizio che rafforzerebbe la mia
opinione che il testo abbia un carattere religioso.16
L’editore afferma che la scrittura rivela una mano abituata a scrivere su
pietra. Non sono sicuro che questa sua impressione sia giusta. È vero che le lettere
sono state incise con grande cura e sono più spazieggiate che in altre iscrizioni
arcaiche su piombo o su coccio o su intonaco, trovate nella polis di Olbia (sia
a Borusq}nhV, sia a Borusqen{V); ma questo si può forse spiegare supponendo che
lo scrivente abbia voluto dare al testo un aspetto solenne.
Le forme delle lettere sono nettamente arcaiche e, fatta eccezione per il sigma
(se questo è veramente un sigma a tre tratti), abbastanza simili a quelle di una
lettera scritta su un coccio, trovata a Berezan’ e che è stata pubblicata da
A.S. Rusjaeva e Ju.G. Vinogradov nel 1991.17 Quest’ultimo testo è stato datato

16
Sulla persistenza dell’uso del sistema boustrophedon in certe iscrizioni milesie di contenuto
religioso verso la fine del VI secolo e all’inizio del V secolo, vd. L.H. Jeffery, The Local Scripts of
Archaic Greece (revised edition with a supplement by A.W. Johnston), Oxford 1990, 48–49,
334–335, e tavola 63 (qui vd. specialmente il no 33).
17
A.S. Rusjaeva, Ju.G. Vinogradov, “Der «Brief des Priesters» aus Hylaia”, in R. Rolle et al. (edd.),
Gold der Steppe. Archäologie der Ukraine, Schleswig 1991, 200–201 (SEG, 42, 710). Una lettura
e una interpretazione in parte diverse sono state proposte da Dubois, Inscriptions grecques
dialectales d’Olbia du Pont, no 24 (pp. 55–63). L. Dubois ha creduto di dover datare il testo a ca.
400 a.C. a causa del fatto che l’o chiusa lunga è resa con ou, e non con o. Ma l’evoluzione delle

PALAMEDES 2(2007) 61
Benedetto Bravo

dagli editori agli anni 550–525 a.C.18 La stessa datazione è stata proposta da
Ju.G. Vinogradov per il testo di cui mi sto occupando. Tale datazione mi sembra
ammissibile, ma penso che sia meglio, per entrambe le iscrizioni, abbassare un po’
il limite inferiore. Propongo: 550–510 a.C.
Due volte compare un doppio punto come segno di divisione. È notevole la
presenza di un sampi (A A, cioè ‰ssa, l. 4). Questa lettera appartiene all’alfabeto
ionico orientale, ma compare molto raramente.19 Nella polis di Olbia Pontica essa
è attestata soltanto da questa iscrizione e, secondo ciò che Ju.G. Vinogradov
afferma, in un graffito inedito del VI secolo a.C.
Ju.G. Vinogradov ha osservato che la laminetta deve essere stata piegata
molteplicemente (secondo linee perpendicolari rispetto alle righe della scrittura),
che i due frammenti appartenevano rispettivamente all’estremità sinistra (fram-
mento A) e all’estremità destra (frammento B), e che in mezzo tra il frammento di
sinistra e quello di destra doveva trovarsi una parte di dimensioni indeterminabili.
La l. 1 comincia all’estremità sinistra del fr. A e termina all’estremità destra del fr.
B, la l. 2 comincia all’estremità destra del fr. B e termina all’estremità sinistra del
fr. A, e così via – come Ju.G. Vinogradov ha visto correttamente.
Il tentativo compiuto da Ju.G. Vinogradov per ricostruire e interpretare il
testo come una lettera privata ha dato un risultato che mi sembra manifestamente
insoddisfacente – così insoddisfacente che è inutile discuterlo.
Per parte mia, ho tentato di ricostruire il testo partendo dall’impressione che
si trattasse di un testo di carattere esoterico, e più precisamente di un testo affine
a quello che compare in alcune delle tavolette d’oro orfiche, trovate in tombe della
Magna Grecia, della Sicilia, di Creta, della Tessaglia.20 Sono state due sequenze di

forme della scrittura a Olbia e in altre città ioniche dell’Est ci è nota abbastanza bene perché si
possa escludere assolutamente questa datazione. Una lettura e un’interpretazione molto diverse
ho proposto io stesso nell’articolo “Luoghi di culto nella chora di Olbia Pontica”, in Atti del XL
Convegno di Studi sulla Magna Grecia. Taranto, 29 settembre – 3 ottobre 2000, Taranto 2001,
254–266 (purtroppo il testo è stato deformato da numerosi errori di stampa, di cui non sono
responsabile; particolarmente spiacevoli e dannosi sono gli errori consistenti nello scambio tra
epsilon e eta, tra omikron e omega).
18
L’iscrizione fu fatta su un frammento di un vaso la cui produzione si può datare agli anni
550–525; però su questo fatto non ci si può fondare per datare l’iscrizione, perché questa fu
eseguita dopo che il vaso si era rotto.
19
Vd. Jeffery, The Local Scripts, 38–39, 325: “Its known period of activity, according to the
inscriptions, ranges from c. 550 to c. 450” (p. 39).
20
Mi sono servito delle seguenti edizioni: G. Zuntz, Persephone. Three Essays on Religion and
Thought in Magna Graecia, Oxford 1971, 277–393; G. Pugliese Carratelli, Le lamine d’oro orfiche.
Istruzioni per il viaggio oltremondano degli iniziati greci, Milano 2001 (questa è una seconda
edizione del libro Le lamine d’oro “orfiche”. Edizione e commento, Libri Scheiwiller, Milano 1993,
edizione fuori commercio; nella seconda edizione la numerazione delle laminette è in parte

62 PALAMEDES 2(2007)
Testi iniziatici da Olbia Pontica

parole facilmente leggibili, eipai qeloimi e poi dote: twn gar enqende a a
[ – – – ] a suggerirmi fin dall’inizio quest’idea. Nel corso del lavoro la mia
impressione si è rafforzata e precisata.
Ecco che cosa vedo sulla fotografia:
para[ – – – – – – ]a . . [. .] . [.]ei o
2 paiqeloimi [ – – – – – – ]cistae p
nai : d[ – – – – – – ]dote : twngar o
4 enqendea ab[ – – – – – – ]ellenu p
panetai[ – – – – – – ]paidathntoiagei o
6 paramelano[ – – – – – – ]donai vacat p
l. 1: subito dopo l’alpha di ]a . . [. .] . [.]ei vedo la parte inferiore di un’asta
verticale, poi la parte inferiore di un tratto molto leggermente inclinato, che scende
altrettanto in giù quanto l’asta verticale che lo precede. La lettura dell’editore AII
è possibile, ma, a mio parere, è più probabile che la seconda asta sia il primo tratto
di un my. Segue una lacuna che doveva comprendere due lettere. Può darsi che
tracce della seconda lettera siano visibili sull’originale; sulla foto mi pare di
intravedere debolissime tracce di un sigma a tre tratti, ma probabilmente questa
è un’illusione. Poi vedo la parte inferiore di un’asta verticale; l’editore ha pensato
a un tau, ma uno iota è altrettanto possibile. Poi, un po’ a sinistra di una
screpolatura, vedo una traccia che mi sembra essere la parte inferiore di un tratto
nettamente inclinato; se non è un’illusione, questa traccia potrebbe essere il resto
di un ny.
l. 4: prima del primo epsilon di ELLENU, l’editore ha creduto di vedere un
resto del tratto superiore di un tau, ma a giudicare dalla fotografia, è almeno
altrettanto possibile che la minuscola incisione che egli ha preso in considerazione
sia puramente casuale, faccia parte dei guasti della superficie sull’orlo della frattura.
l. 5: come l’editore ha osservato, lo scrivente ha scritto dapprima PAIDP, poi
ha corretto il secondo P in A.
È importante osservare che la lacuna in mezzo tra il frammento A e il
frammento B ha un’ampiezza varia a seconda delle righe. L’ampiezza minima si
constata al livello della l. 3 e a quello della l. 5. Rispetto alle ll. 3 e 5, la l. 1 ha
perduto nella lacuna probabilmente tre lettere in più; la l. 2, una lettera in più; la
l. 4, una lettera in più; la l. 6, tre lettere in più.

diversa da quella data nella prima); Chr. Riedweg, “Initiation – Tod – Unterwelt. Beobachtungen
zur Kommunikationssituation und narrativen Technik der orphisch-bakchischen Goldblättchen”,
in F. Graf (ed.), Ansichten griechischer Rituale. Geburtstags-Symposium für Walter Burkert,
Stuttgart–Leipzig 1998, 359–397 (l’edizione delle laminette a pp. 392–397); Bernabé, Orphicorum
et Orphicis similium testimonia et fragmenta, fasc. 2, frr. 474–496 (pp. 9–79).

PALAMEDES 2(2007) 63
Benedetto Bravo

Propongo di leggere così21:


par# a. [Ůt«n t«n teleut«n toČsi k|tw d]a{. m. [os]i. [n] eÍ- o
2 pai· «q}loimi [ – – – – – – ěV t|]cista š̃- p
nai. d["te – – – – – – ] d"te. tín g\r o
4 šnq}nde ‰ a b[ar?nein me – – – – – – žm]ellen Ú- p

panẽta{ [moi. – – – G®V ka[ #Oranõ] paČda tŞn toi 'gei o
6 par\ M}lano[V – – – – – – para]dõnai». vacat p
l. 1: possibile anche par# a. [Ůt«n t«n teleut«n toČsi cqon{oisi d]a{. m. [os]i. [n]
oppure par\. [t«n teleut«n toČsi cqon{oisi d]a{. m. [os]i. [n]. Per par| + accusativo
nel senso di “esattamente al momento di …”, vd. il dizionario Liddell-Scott-Jones,
s.v. par|, C I,10. Per ciò che riguarda la situazione, cf. la laminetta di Hipponion 22
(474 F), l. 1 špe[ Śm m}lle–isi qanẽsqai, e la laminetta di Entella (475 F), col. I, l. 1
špe[ Śm m}l]lhisi qaneČsqai.
ll. 1/2: l’infinito aoristo eÍpai ha qui valore di imperativo.23 L’invito
a pronunciare una formula, rivolto all’anima ed espresso con l’imperativo aoristo
eÍpon o con l’infinito aoristo eĂpeČn (eĂpeČg), si trova – in contesti diversi, ma
sempre con riferimento a ciò che l’anima deve fare nell’aldilà – nella laminetta di
Hipponion (474 F), l. 10; in quella di Petelia (476 F), l. 6; in quella di Pharsalos
(477 F), l. 8; nelle due laminette di Pelinna (485–486 F), l. 2 in entrambe. – Per ciò
che riguarda tín … šnq}nde, penso che questo sia un genitivo partitivo legato
a ‰ a (‰ssa); l’espressione t\ šnq}nde designa ovviamente la realtà dell’esistenza
terrena, contrapposta all’aldilà. Cf. numerosi passi di Platone: Apol. 40 C meto{khsiV
t®i yuc®i toŢ t"pou toŢ šnq}nde eĂV 'llon t"pon. Phd. 70 C palai'V m]n oăn žsti
tiV l"goV oä memnŞmeqa, ěV eĂs[n šnq}nde ‡jik"menai škeČ (= che le anime sono
giunte là, nello Hades, partendo di qua, da questo mondo), ka[ p|lin deŢro ‡jiknoŢntai
ka[ g{gnontai šk tín teqneétwn. 117 C t«n meto{khsin t«n šnq}nde škeČse. 107 E
to/V šnq}nde škeČse poreŢsai. Res publ. VII 619 E t'n šnq|de b{on kindune?ei šk
tín škeČqen ‡paggellom}nwn oŮ m"non šnq|de eŮdaimoneČn 'n, ‡ll\ ka[ t«n
šnq}nde škeČse ka[ deŢro p|lin pore{an oŮk Śn cqon{an ka[ traceČan pore?esqai,
‡ll\ le{an te ka[ oŮran{an. (Cf. anche Res publ. VII 529 A aßth ge (l’astronomia)
‡nagk|zei yuc«n eĂV t' 'nw Ôr~n ka[ ‡p' tín šnq}nde škeČse 'gei).

21
Nel trascrivere questa e altre iscrizioni ioniche userò gli spiriti aspro e dolce come se avessi a che
fare con testi attici, conformemente a una vecchia convenzione ortografica che continua a esser
seguita dalla maggior parte degli editori di testi letterari ionici. So bene che in ionico non c’erano
vocali aspirate, ma ho ceduto alla forza di questa convenzione.
22
Per questa e per le altre laminette d’oro orfiche indicherò il numero nell’edizione di A. Bernabé.
Seguirò questa edizione anche per ciò che riguarda la numerazione delle righe.
23
Questa funzione del verbo all’infinito è ben attestata, da Omero in poi. Due esempi in un testo
non letterario arcaico: nella “lettera di Achillodoros” troviamo gli infiniti l}ge–n, “di’”, e 'ge–n,
“conduci”.

64 PALAMEDES 2(2007)
Testi iniziatici da Olbia Pontica

l. 2: [ – – – ěV t|]cista ed. pr.; possibile anche [ – – – Őti t|]cista.


l. 3: forse d["te pieČn Mnhmos?nhV ßdwr], d"te. Cf. la laminetta di Hipponion
(474 F), ll. 6–15; quella di Entella (475 F), col. I, ll. 4–17; quella di Petelia (476 F),
ll. 4–11; quella di Pharsalos (477 F), ll. 4–9. Cf. inoltre, sebbene non vi sia menzione
di Mnemosyne, le cinque laminette di Eleutherna (478–480 e 482–483 F), quella di
Mylopotamos (481 F), quella proveniente probabilmente dalla Tessaglia (484 F),
quella proveniente da Rethymnon (484a F).
l. 4: per esempio ‰ a b[ar?nein me poll'n cr"non žm]ellen.
ll. 4–5, Úpanẽtai: l’editore dichiara che è stato Albio C. Cassio a segnalargli
che upanetai è il perfetto medio-passivo di Úpan{hmi. A.C. Cassio ha visto
certamente giusto, ma non so quale senso egli abbia attribuito al verbo in questo
testo. Ju.G. Vinogradov traduce con “he relinquished”. Tenendo conto di uno dei
significati di ‡n{hmi (vd. Liddell–Scott–Jones s.v. ‡n{hmi, II. 7. b.: “remit”), penso
che Úpan{hmi possa avere il significato di “condonare (una pena) un po’ alla volta”
e che Úpanẽtai abbia qui valore passivo. Per la funzione che attribuisco al preverbio
Úpo- , cf. l’uso di Úp|peimi in Thuc. III 111,1 Úpap®isan kat# Ól{gouV, “andavano
via un po’ alla volta in piccoli gruppi”, e V 9,6 toŢ Úpapi}nai ... t«n di|noian
žcousin, “hanno intenzione di andar via un po’ alla volta”.

l. 5, [ – – – G®V ka[ #Oranõ] paČda: cf. la laminetta di Hipponion (474 F), l. 10,
secondo la lettura proposta da Giulia Sacco24 e accettata poi da G. Pugliese Carratelli e da
A. Bernabé; quella di Entella (475 F), col. I, l. 12, e col. II, l. 15; la laminetta di Petelia (476
F), ll. 6–7; quella di Pharsalos (477 F), l. 8–9; le cinque laminette di Eleutherna (478–480
e 482–483 F); quella di Mylopotamos (481 F), l. 3; quella proveniente probabilmente
dalla Tessaglia (484 F), ll. 3–4. Poiché paČda è qui femminile, penso che l’anima della
persona iniziata che deve pronunciare il discorso sia l’anima di una donna. – Il toi in tŞn
toi 'gei può intendersi o come particella che serva a enfatizzare l’enunciato, o come
pronome (“a te”, “per te”). Nel primo caso bisognerebbe pensare che l’anima continui
a rivolgersi all’insieme delle divinità infere (come nella l. 3: d"te); prima delle parole G®V

ka[ #Oranõ si potrebbe supplire qualcosa come d}xasqe, “accogliete”. Nel secondo caso
bisognerebbe pensare che l’anima si rivolga qui alla divinità principale, alla regina degli
inferi (Persephone), e si potrebbe supplire s/ d] d}xai, “e tu, accogli”. La seconda ipotesi
mi sembra la migliore. Il soggetto della proposizione relativa che comincia con tŞn toi
'gei si trovava nella lacuna della l. 6 ed era probabilmente o Hermes (Hermes cq"nioV,
yuc"pompoV), o il da{mwn individuale che ha accompagnato questa donna dal
momento della sua nascita alla morte (cf. Plat. Phd. 107 D-E).
l. 6, M}lano[V: il nome proprio di q|natoV personificato? Ricordiamo che
in Omero la morte è nera: vd. m}lanoV qan|toio in Il. II 834; XI 332; XVI 687;

24
G. Sacco, “GHS PAIS EIMI. Sul v. 10 della laminetta di Hipponion”, ZPE 137 (2001), 27–33.

PALAMEDES 2(2007) 65
Benedetto Bravo

Od. XII 92; XVII 326, inoltre la formula k®ra m}lainan (9 volte nell’Iliade, 8 volte
nell’Odissea).
Intendo questo testo ipotetico così: “Al momento stesso [della morte] di’ alle
divinità [infere]: «Vorrei essere il più presto possibile [ – – – – – – ] c[oncedetemi
di bere acqua di Mnemosyne (?)], concedetemi, perché quelle tra le cose di qui (=
di questo mondo) che dovevano [opprimermi per lungo tempo (?), mi] sono state un
po’ alla volta condonate. [E tu, accogli(?)] una figlia [della Terra e del Cielo (?)] che
[Hermes? o il daimon?] conduce per te da parte di Nero (= da parte di Thanatos?)
[ – – – ] per consegnarla [a te]».”

2. Una laminetta trovata a Olbia Pontica: insegnamenti


escatologico-morali

Il n° 2 della pubblicazione di Ju.G. Vinogradov è un frammento di una


laminetta di piombo, scoperto da archeologi dell’Istituto di Archeologia
dell’Accademia delle Scienze dell’Ucraina nel settore sud-ovest dell’agora di Olbia.
Il frammento giaceva nell’argilla in un terreno sconvolto da lavori militari (più
precisamente, in una trincea militare): la scoperta è dunque priva di un contesto
archeologico che serva a datare e caratterizzare l’oggetto. Poiché l’agora di Olbia
cominciò a esistere attorno alla metà del VI secolo, e poiché l’iscrizione è certamente
posteriore a quella data, è da escludere che la laminetta provenga da un’abitazione
o da una tomba o da un fossa-deposito che fossero situati nelle immediate
vicinanze del luogo dove è stata trovata. (Due aree sacre si trovano accanto
all’agora, ma non al settore sud-ovest di questa: una è attigua al lato nord dell’agora,
l’altra si trova a nord-ovest). È possibile che la laminetta sia stata smarrita dal suo
proprietario nell’agora, ma è altrettanto possibile, se non più probabile, che nel
corso dei lavori militari essa sia stata portata sul posto, insieme con altri materiali
di scarico, da fuori dello spazio dell’agora.
Il frammento comprende due pieghe intere e un pezzetto di una terza piega
di una laminetta che, come l’editore suppone giustamente, deve essere stata piegata
parecchie volte su sé stessa (secondo linee perpendicolari alle righe della scrittura).
La laminetta porta un’iscrizione su entrambe le facce, eseguita (come
l’editore ha osservato) indubbiamente da una stessa mano. La mano era molto
esperta, ma come vedremo, non mancano lapsus.
L’iscrizione di una faccia è capovolta (in altre parole: girata di 180°) rispetto
all’iscrizione dell’altra faccia.
Poiché la laminetta è molto sottile, i solchi della scrittura di una faccia si
intravedono qua e là sulla faccia opposta.

66 PALAMEDES 2(2007)
Testi iniziatici da Olbia Pontica

Fig. 2. Da: Yu. Vinogradov, “The Greek colonisation of the Black Sea region in the light of
private lead letters”, in G.R. Tsetskhladze (ed.), The Greek Colonisation of the Black Sea Area.
Historical Interpretation of Archaeology (Historia Einzelschriften, 121), Franz Steiner Verlag,
Stuttgart 1998, pp. 174–175. (Per gentile concessione della casa editrice).

La scrittura è stata datata dall’editore all’ultimo quarto del VI secolo a.C.,


ma nessuna delle lettere dell’alfabeto che vi compaiono ha una forma che debba
necessariamente appartenere al VI secolo. (Non tutte le lettere dell’alfabeto ionico
dell’Est sono rappresentate: mancano B, Z, Q, L, F, C, Y). L’aspetto della scrittura

PALAMEDES 2(2007) 67
Benedetto Bravo

è abbastanza simile a quello della “lettera di Achillodoros”,25 che il primo editore,


Ju.G. Vinogradov ha datato alla seconda metà del VI secolo a.C., ma che a mio
parere è da datare tra l’ultimo decennio del VI e i primi decenni del V secolo (nel
supplemento aggiunto alla seconda edizione del libro di L.H. Jeffery, A.W. Johnston
ha proposto di datarla “intorno al 500 a.C.”26). Il fatto che su una faccia della
laminetta compaia più volte il segno di divisione non mi pare un indizio sufficiente
in favore della datazione agli anni 525–500 a.C. (Esso non compare mai nella
“lettera di Achillodoros”, ma non compare nemmeno nella lettera su coccio trovata
a Olbia e pubblicata da Ju.G. Vinogradov e A.S. Rusjaeva, che è certamente più
antica). Penso che una datazione tra il 510 e il 460 a.C. sia più probabilmente
giusta. Certamente non si può scendere al di sotto della metà del V secolo: si
vedano in particolare l’omega con l’estremità sinistra che scende obliquamente
molto in basso, il sigma col tratto superiore molto alto (e a volte quasi verticale), il
rho la cui “pancia” si attacca al tratto verticale un po’ sotto la metà di questo.
L’editore ha pensato che le due facce della laminetta contenessero originaria-
mente un testo continuo, cioè, in altre parole, che ci fosse continuità da una faccia
all’altra; perciò, avendo osservato che alla fine dell’ultima riga di una delle due facce
c’è uno spazio vuoto, ha concluso che questa faccia contiene la fine del testo, e l’ha
chiamata faccia B. A mio parere, le due facce contengono due testi diversi, sebbene
tematicamente legati tra di loro. Per evitare confusioni, continuerò a chiamarle
come le ha chiamate l’editore, sebbene io sospetti che lo scrivente abbia scritto
prima sulla faccia B, poi sulla faccia A.
Nei resti di testo conservati sulla faccia B credo che si debbano riconoscere
pezzetti di esametri scritti di fila, come se fossero prosa. Questa mia opinione si
fonda su due osservazioni: (a) tutti i pezzetti di testo si possono inserire nella
struttura dell’esametro; (b) la parola uÄeČ (fine della l. 1) non è ionica (in ionico si
direbbe paid{, o eventualmente uÄíi),27 è invece normale nel linguaggio epico.
L’altra faccia, invece, contiene certamente un testo in prosa: qui i pezzetti di testo
non si possono inserire in una struttura metrica.
È significativo che il segno di divisione, che è usato più volte sulla faccia A,
non compaia sulla faccia B se non – forse – alla l. 1, dopo la parola uÄeČ, che molto
probabilmente è la fine del primo esametro ed è seguita, come vedremo, da una

25
La “lettera di Achillodoros” fu scoperta e pubblicata per la prima volta da Ju.G. Vinogradov,
“Drevnejšee grečeskie pis’mo s ostrova Berezani”, VDI 118, fasc. 4 (1971), 74–80; io ne ho dato
tre edizioni diverse; l’ultima di queste, fondata su un esame dell’originale, si trova in B. Bravo,
A.S. Chankowski, “Cités et emporia dans le commerce avec les barbares à la lumière du
document dit à tort «inscription de Pistiros»”, BCH 123 (1999), 293–294.
26
Jeffery, The Local Scripts, 478, no 60c, e tavola 80.
27
Devo questa osservazione a Martin Peters.

68 PALAMEDES 2(2007)
Testi iniziatici da Olbia Pontica

netta pausa. (Non sono però sicuro che ciò che vedo sulla fotografia dopo uÄeČ sia un
segno di divisione, e non un guasto della superficie). Questa differenza tra la faccia
B e la faccia A deve certamente essere legata alla differenza tra testo poetico e testo in
prosa. Essa testimonia che nel tempo e nel luogo in cui la laminetta fu prodotta, la
convenzione ortografica che consisteva nel separare parole o (più spesso) gruppi di
parole con un doppio o triplice punto, non era usata nella trascrizione di testi poetici.
Comincio dalla faccia B. Ecco che cosa vedo sulla fotografia:
[ – – – ]maiuiei : [ – – – ]
2 [ – – – ]routwsa . [ – – – ]
[ – – – ]didwdekesop . o. [
4 [ – – – ]dhroskaissaiw. [
[ – – – ]odwsenmh[– – –]
6 [ – – – ]eontwnm. [– – – ]
[ – – – ]kais[.]surm. [ – – – ]
8 [ – – – ]i vacat
l. 2: l’editore ha visto ]koktwisai. [ , ma ha visto certamente male. La prima
lettera non è conservata perfettamente, ma mi pare chiaro che essa ha la forma del
rho che si vede sulla faccia A, all’inizio della l. 3. Dopo l’omikron io vedo un ypsilon,
e non un kappa. Dopo l’omega c’è un piccolo tratto verticale, ma a mio parere si
tratta di una screpolatura, e non di un piccolo iota. Dopo l’alpha, immediatamente
prima della frattura, mi pare di intravedere un’asta verticale che potrebbe essere
uno iota, e questa impressione (molto incerta) concorda con ciò che l’editore ha
visto sull’originale.
l. 3: l’editore ha visto ]didwdekesqii/[ , ma di nuovo mi pare che abbia visto
male. La lettera circolare che secondo l’editore sarebbe un theta, mi sembra
decisamente un omikron, sia perché è piuttosto piccola, sia perché non vedo alcuna
traccia di un punto o di un trattino orizzontale o di una crocetta all’interno del
cerchio. Dopo l’omikron vedo indistintamente un’asta verticale e poi, un po’
a destra, vedo in modo perfettamente chiaro un tratto verticale che scende fino
a metà altezza: si tratta sicuramente di un pi, e la presenza di questa lettera esclude
che la lettera precedente sia un theta. Dopo il pi vedo un’asta verticale; suppongo
che essa appartenga a un rho, ma dal punto di vista paleografico questa non
è evidentemente l’unica possibilità. Più oltre, immediatamente prima della frattura,
vedo il cerchio completo, sebbene molto eroso, di un omikron. Il tratto inclinato che
l’editore ha visto non appartiene a una lettera di questa riga: osservo anzitutto che
esso non scende abbastanza in basso per poter essere il primo tratto di una lettera;
in secondo luogo osservo che esso coincide esattamente con un tratto di una lettera
della faccia A, più precisamente dell’ultima lettera (delta?) della l. 5: si tratta dunque
di una prominenza della superficie, corrispondente a un’incisione sulla faccia A.

PALAMEDES 2(2007) 69
Benedetto Bravo

l. 4: l’ultima lettera, conservata parzialmente, è stata letta dall’editore come


omikron, ma ciò che vedo sulla fotografia assomiglia più a un omega che a un
omikron. Dopo la lettera che egli legge come omikron, l’editore dà un sigma, ma
è chiaro che egli ha omesso per inavvertenza di indicare che questa lettera non si
legge: sulla fotografia e sul fac-simile la lacuna comincia immediatamente dopo la
lettera che secondo l’editore sarebbe omikron.
Suppongo che ]mai uÄeČ della prima riga (forse seguito da un segno di
divisione) fosse la fine del primo esametro (u – – ) e che in questo verso il locutore
annunciasse qualcosa come: “desidero dare consigli a mio figlio”.
Partendo da questa ipotesi e constatando (a) che un esametro di Omero o di
Esiodo o di Teognide contiene per lo più da 30 a 40 lettere (raramente 29 o 41; la
media è intorno a 34); (b) che ciascuna delle due pieghe della laminetta conservate
per intero o parzialmente contiene per lo più quattro lettere per riga (tre lettere se
una di esse è molto larga, come il my della l. 1) – giungo alla conclusione che
a sinistra della prima piega mancano probabilmente sei pieghe e che dunque
ciascuna delle otto righe ha perduto probabilmente ca. 24 lettere a sinistra. In
questo modo al primo esametro si possono attribuire ca. 24 + 7 = ca. 31 lettere.
Quanto a ciò che manca a destra, non sono riuscito a trovare un numero più
o meno stabile di lettere che renda possibile assegnare a tutti i pezzetti di testo
una posizione precisa nell’esametro. (Ho fatto molti calcoli sia partendo dall’ipotesi
che la l. 1 arrivasse fino al margine, sia partendo dall’ipotesi – poco verosimile
– che essa terminasse con uÄeČ [seguito o no da un segno di divisione], in altre
parole, che dopo uÄeČ ci fosse uno spazio vuoto. Né in un caso, né nell’altro il
tentativo ha avuto successo). Suppongo perciò che l’incisore abbia seguito una
convenzione ortografica che è stata seguita anche dall’autore della “lettera di
Achillodoros” e che era ancora in vigore nella scrittura letteraria verso la fine del
IV e all’inizio del III secolo a.C. (vd. il papiro di Derveni e il P. Berol. 1327028): la
convenzione secondo cui ogni fine di riga doveva coincidere con fine di parola. Se
si ammette questo, ne risulta che il margine destro era molto disuguale e che
dunque il numero delle lettere per riga era molto variabile. Supponiamo che
a destra della seconda piega ci fossero altre quattro pieghe: in questo caso, il
numero massimo di lettere per riga sarebbe stato 12 x 4 = 48, ma alcune righe
potevano essere nettamente più brevi. Se si suppone che il numero di lettere per
riga variasse da 40 a 48, è facile dare a tutti i pezzetti di testo una collocazione
metrica precisa.

28
Pubblicato per la prima volta da W. Schubart e da U. v. Wilamowitz-Moellendorff in Berliner
Klassikertexte V, 2, Berlin 1907, 56–63 e tav. VIII. È opera di due scribi, come ha visto U. Wilcken
in Archiv für Papyrusforschung, 7 (1924), 66. Vd. anche B. Bravo, Pannychis e simposio, Pisa–Roma
1997, 44–53.

70 PALAMEDES 2(2007)
Testi iniziatici da Olbia Pontica

Propongo la ricostruzione seguente:


v. 1 [ – u u – u u – u u – u u – u ]mai uÄeČ
(i primi due terzi
della l. 1)
v. 2 [ – u u – u u – u u – u u – u u – u ] (ll. 1/2)
v. 3 [ žsti g\]r oßtwV aÍ. [sa u – u u – u u – u ] (ll. 2/3)
v. 4 [ – u u – u d{khn te] d{dw d}keso pr. '. [teleut®V] (ll. 3/4)
v. 5 [ – u u – u u – u u – u u – u s{]dhroV (ll. 4/5)
v. 6 ka[ #VV aĂí. [na u – u u – u u – ‡p]odése–n (ll. 5/6)
v. 7 mh[ u u – u u – u u – u u – u ]e"ntwn (ll. 6/7)
v. 8 m. [ – u u – u u – u u – u u – u u ] ka[ s[Ţ]V (ll. 7/8)
v. 9 6s7?rm. [asi – u u – u u – u u – u u – ]i (fine di l. 8 + ca. 25
lettere di l. 9)
v. 1: probabilmente [ – – – bklo]mai uÄeČ. Non escludo [ – – – 'rc]omai uÄeČ,
ma questo mi sembra meno probabile.
v. 3: cf. Corpus Theognideum, 345 aÍsa g\r oßtwV šst{, “così infatti è giusto”.
v. 4: la restituzione che propongo, [d{khn te] d{dw d}keso, mi pare
abbastanza plausibile: cf. Hymn. Hom. IV (Inno a Hermes), 312 d'V d] d{khn ka[
d}xo par\ Zhn[ Kron{wni. Cf. anche Thuc. I 37,5 didoŢsi ka[ decom}noiV t\
d{kaia. L’imperativo atematico d{dw non sembra essere attestato altrove29 (tranne
che, secondo E. Schwyzer,30 da grammatici antichi – non so da quali – e da papiri
del III secolo d.C.). L’imperativo presente d}keso è anomalo (ci saremmo aspettati
d}keo oppure d}keu) e non è attestato altrove, ma – come Martin Peters mi ha
fatto osservare – questa forma si può giustificare supponendo che sia nata sotto
l’influenza dell’imperativo dell’aoristo, d}xo (cf. per esempio Hymn. Hom. IV [Inno
a Hermes], 312 d'V d] d{khn ka[ d}xo; [Hes.] Catal. fr. 76,10 Merkelbach–West; vd.
anche l’imperativo del perfetto, d}dexo, per esempio Il. V 228; XX 377; XXII 340).
Traduco: “Da’ e accetta riparazione dei torti prima della morte”. Si osservi che i due
verbi sono al presente, non all’aoristo: si tratta dunque di “dare e accettare
riparazione dei torti” durante tutta la vita (e non in un singolo momento, come in
Hymn. Hom. IV, 312, dove i due verbi sono all’aoristo). Cf. Plat. Crat. 400 C
dokoŢsi m}ntoi moi m|lista q}sqai oÄ ‡mj[ #Orj}a toŢto t' ×noma (scil. síma)
ěV d{khn dido?shV t®V yuc®V ón d« śneka d{dwsin, toŢton d] per{bolon žcein,
Éna séizhtai, desmwthr{ou eĂk"na· eÍnai oăn t®V yuc®V toŢto, îsper aŮt'
Ónom|zetai, śwV Śn škte{shi t\ Ójeil"mena, síma.

29
P. Chantraine, Morphologie historique du grec, Paris 1947, 318, menziona questa forma come se
fosse omerica, attestata in Od. III 58, ma né l’edizione di A. Ludwich, né quella di H. van Thiel
registra qui alcuna variante rispetto a d{dou; non so su quali dati della tradizione Chantraine si
sia fondato: forse su un papiro dell’Odissea?
30
E. Schwyzer, Griechische Grammatik I2, München 1953, 798.

PALAMEDES 2(2007) 71
Benedetto Bravo

v. 5: qui si parlava probabilmente di qualcosa (la legge divina?) che è più forte
del ferro, o forte come il ferro: [ – – – ¬] s{]dhroV, oppure [ – – – eăte s{]dhroV,
oppure [ – – – îste s{]dhroV.
v. 6: ka[ #VV aĂí. [na, cioè ka[ šV aĂína. Per l’aferesi, cf. la lettera di un
commerciante trovata a Karkinitis,31 ka[ #s|gh. Il doppio sigma può essere un
errore, ma può anche riflettere la pronuncia. La restituzione [ – – – ‡p]odése–n
è stata fatta dall’editore; la accetto, perché non è verosimile che qui ci fosse l’aoristo
Ődwsen. Il senso era probabilmente “e dovrai rendere […] per tutta una vita”, cioè:
dovrai reincarnarti e pagare la pena durante tutta una nuova vita.
vv. 8–9: il senso doveva essere questo: “e affinché tu non rinasca sotto la
forma di un maiale che si nutre di spazzatura (cioè dei resti di cibo buttati sul
pavimento)”.32 La dottrina della metempsicosi faceva sicuramente parte dell’inse-
gnamento di Pitagora: ciò è attestato da un frammento di Senofane che racconta
come Pitagora abbia riconosciuto l’anima di un suo amico in un cagnolino,
Diels–Kranz, FVS 21 B 7. È probabilmente a Orfeo e a Pitagora che Erodoto allude
in II 123,3: dopo aver affermato che sono stati gli Egiziani i primi a dire che l’anima
di ogni essere umano è immortale e che quando l’uomo muore, essa šV 'llo zíion
aĂe[ gin"menon šsd?etai· špe\n d] p|nta peri}lqhi t\ cersaČa ka[ t\ qal|ssia
ka[ t\ petein|, aătiV šV ‡nqrépou síma gin"menon šsd?nein, t«n periŞlusin d]
aŮt®i g{nesqai šn triscil{oisi žtesi, egli aggiunge: to?twi tíi l"gwi eĂs[ oĘ
@EllŞnwn šcrŞsanto, oÄ m]n pr"teron, oÄ d] ßsteron, ěV Ăd{wi ›wutín š"nti· tín
šgę eĂdęV t\ oŮn"mata oŮ gr|jw.
Se la mia ricostruzione è corretta, abbiamo qui resti di nove versi appartenenti
al genere letterario delle Úpoq®kai. Il locutore di queste Úpoq®kai si rivolge a suo
figlio, conformemente a una convenzione letteraria molto simile a quella adottata
da Esiodo negli Erga33 (il Perses degli Erga è infatti una finzione letteraria, come lo

31
Pubblicata da Ė.I. Solomonik, “Dva antičnykh pis’ma iz Kryma”, VDI 182, fasc. 3 (1987),
114–131; vd. L. Dubois, Bull. Épigr., 1989, no 478; inoltre Bull. Épigr., 1990, no 566. Le letture
e interpretazioni che sono state proposte finora non mi sembrano soddisfacenti (mi propongo
di trattare di questo testo altrove), ma la lettura ka[ #s|gh, cioè ka[ šs|g¯, è sicura.
32
Martin Peters mi ha segnalato l’articolo di G. Neumann, “Griechisch molobr"V”, Historische
Sprachforschung (= Zeitschrift für vergleichende Sprachforschung), 105 (1992), 75–80: questo
studioso ha dimostrato che molobr"V significa “Dreckfresser” e probabilmente designava in
origine il maiale. Tra i testi citati da G. Neumann, particolarmente interessante per me è Od.
XVII 219–220, dove Melantheus dice al porcaro Eumaios: p®i d« t"nde molobr'n 'geiV,
‡m}garte subíta, ‰ ptwc'n ‡nihr"n, daitín ‡polumant®ra; Il mendicante che “pulisce
i banchetti” mangiando i resti buttati sul pavimento, è simile a un “mangiatore di sporcizia”,
cioè a un maiale.
33
Vd. M.L. West, Hesiod, Works and Days, Oxford 1978, 3–25; ma per ciò che riguarda Perses, la
posizione di M.L. West a pp. 33–40 è un compromesso che non mi convince. A mio parere, il
padre di Esiodo è una persona reale, ma il fratello è una pura finzione letteraria.

72 PALAMEDES 2(2007)
Testi iniziatici da Olbia Pontica

è l’šrémenoV Kyrnos delle elegie di Theognis). Vale la pena ricordare che secondo
la Suda, s.v. MousaČoV (m 1294), Musaios di Eleusis sarebbe stato discepolo di Orfeo
o, più probabilmente (m~llon), più antico di lui (la sua akmé cadrebbe infatti sotto
il secondo Kekrops), e avrebbe scritto quattro libri di žph (cioè, probabilmente, di
esametri) intitolati @Upoq®kai EŮm"lpwi tíi uÄíi. Naturalmente, Musaios è una
figura immaginaria; ma l’esistenza di una raccolta di Úpoq®kai in versi, attribuita
a Musaios34 e in cui il locutore si rivolgeva a suo figlio Eumolpos, si può considerare
sicura.
Non intendo affatto sostenere che i versi della laminetta qui discussa
facessero parte delle @Upoq®kai EŮm"lpwi tíi uÄíi; voglio soltanto attirare
l’attenzione sul fatto che essi applicano la stessa convenzione letteraria: un padre
dà consigli a suo figlio.
Esaminiamo ora la faccia A della laminetta. Sulla fotografia vedo:
]megask[
2 ]esisatin : . [
]roterond. [
4 ]s : kaikandol. [
]airon : tauta . [
6 ]xihn : ana[
]eanaut[
La parziale ricostruzione degli esametri della faccia B, quale ho proposto,
rende possibile una determinazione approssimativa del numero delle lettere mancanti
sulla faccia A. (Si tenga presente che su questa faccia ciò che resta della terza piega
della laminetta si trova al livello delle ll. 4–6, e non delle ll. 2–4, come sulla faccia
A). Ecco come propongo di leggere:
[ – – ca. 24 lettere – – ] m}gaV ka[ [ – – massimo 16 lettere – – ]
2 [ – – ca. 24 lettere – – ]eV Ësa t{n6e–n7: . [ – – massimo 16 lettere – – ]
[ – – ca. 23 lettere – – p]r"teron d. [ – – massimo 16 lettere – – ]
4 [ – – ca. 24 lettere – – ]V: {kai} kŚn dol[ – – massimo 8 lettere – – ]
[ – – ca. 23 lettere – – k]air"n: taŢta .[ – – massimo 8 lettere – – ]
6 [ – – ca. 20 lettere – – kat# ‡]x{hn: ‡na[ – – massimo 16 lettere – – ]
[ – – ca. 24 lettere – – ] š\n aŮt[ – – – ]
l. 1: forse m}gaV ka[ [smikr'V ?
l. 2: poiché ]esisatin è seguito da un segno di divisione, è evidente che tin
non può essere il pronome tin(a). D’altra parte, vedere qui l’accusativo del

34
A Musaios Erodoto (VII 6,3) attribuisce una raccolta di crhsmo{: certamente una cosa del tutto
diversa dalla raccolta di Úpoq®kai, e altrettanto pseudepigrafa quanto quella.

PALAMEDES 2(2007) 73
Benedetto Bravo

sostantivo Ăs|tiV (o ËsatiV: nome di una pianta da cui si estraeva un colorante),


come ha fatto l’editore, mi sembra un’idea bizzarra: ciò che resta del contesto non
fa pensare a un messaggio riguardante questioni tecniche o commerciali. Mi pare
chiaro che lo scrivente voleva scrivere Ësa t{ne–n e che dopo aver tracciato il primo
ny, ha creduto che questo fosse il secondo ny: lapsus di questo genere sono
frequenti. Propongo: [ – – – šp|nagk]eV Ësa t{n6e–n7, cioè “è necessario pagare una
pena equivalente alla colpa”. Questa mi pare la ricostruzione più plausibile, ma non
escluderei altre, come [ – – – m}llomen p|nt]eV Ësa t{n6e–n7, oppure [ – – – Ój lomen

p|nt]eV Ësa t{n6en7. Per l’espressione Ësa t{nein, cf. Soph. OT 810 oŮ m«n Ëshn
žteisen. Cf. anche un’attestazione molto antica, che mi è stata segnalata da
M. Peters: un’iscrizione graffita su una lekythos trovata in una tomba di Cuma
e databile all’ultimo decennio dell’VIII o al primo decennio del VII secolo, è stata
letta e interpretata da A.C. Cassio35 in questo modo: h{sa m}ne– tinn?na(i), “è fatale
pagare le stesse cose”, cioè “se violerai questa tomba ricòrdati che inevitabilmente
succederà lo stesso alla tua”. È opportuno ricordare infine un’espressione analoga,
Soph. El. 298 te{sous| g# ‡x{an d{khn.
l. 6: [ – – – kat# ‡]x{hn: per l’espressione cf. Plat. Phd. 113 E tín te eŮergesiín
tim\V j}rontai kat\ t«n ‡x{an śkastoV. ‰‰ ‡na. [gk- ? o un verbo con preverbio ‡na- ?
l. 7: š\n: più probabile che il verbo š~n.
Bisogna chiedersi se questo testo in prosa sia un commento al testo poetico
scritto sulla faccia B. Direi di no, ma in ogni modo è ovvio che esso doveva avere
un rapporto con il testo poetico. Trattava indubbiamente del destino delle anime.
Certe espressioni possono suggerire che si parlasse delle pene che l’anima di un
individuo deve subire nell’aldilà per pagare il fio del male commesso durante la vita;
tuttavia mi pare più probabile che si parlasse del ciclo delle reincarnazioni come
pena – ciclo a cui gli iniziati possono sottrarsi. Avremmo dunque a che fare, nel
testo A come nel testo B, con una dottrina iniziatica.

3. Il Dionysos degli orfici alla luce di tavolette d’osso


trovate a Olbia

Ricostruendo-interpretando il n° 1 dell’articolo di Vinogradov, mi è sembrato


lecito supporre che il suo testo fosse costruito sulla base del mito orfico dell’origine
del genere umano – mito di cui l’uccisione e lo smembramento di Dionysos, figlio
di Persephone, per opera dei Titani, e l’annientamento dei Titani per opera di Zeus

35
A.C. Cassio, “La più antica iscrizione greca di Cuma e t{n(n)umai in Omero”, Die Sprache, 35
(1991–1993), 187–207.

74 PALAMEDES 2(2007)
Testi iniziatici da Olbia Pontica

costituiscono elementi essenziali. Ma in ciò che resta del testo non ci sono

riferimenti a quel mito: le parole-chiave G®V ka[ #Oranõ nella laminetta n° 1 sono
una mia congettura. Invece le tre tavolette d’osso orfiche del V secolo a.C.36 trovate
nel cosiddetto “temenos orientale” di Olbia e pubblicate da Anna S. Rusjaeva nel
1978,37 alludono chiaramente ad esso, come l’editrice ha capito.38
Su una di queste tavolette, più precisamente sul n° 1 (fig. 1 dell’edizione
originale), si vedono, tra l’altro, la parola ORFIKOI (#Orjiko{), e a sinistra di essa, le
lettere DIO, certamente abbreviazione del nome Di"nusoV, non sappiamo in quale
caso grammaticale (l’editrice pensa al nominativo o al dativo; io penserei piuttosto al
nominativo o al genitivo). La lettura delle ultime due lettere di ORFIKOI, data
dall’editrice e confermata da Ju.G. Vinogradov (che ha visto l’originale), è stata messa
in dubbio da M.L. West:39 a suo parere, si potrebbe leggere #Orjikíi o #Orjikín. Io
sono convinto che egli abbia visto male.40 La questione è importante e merita di essere
esaminata minutamente, tanto più che, come si vedrà, da un’analisi della fotografia si
possono ricavare dati interessanti che finora sono sfuggiti all’attenzione degli studiosi.
Osservo anzitutto che il primo omikron di ORFIKOI è molto piccolo in
confronto con le altre lettere, e che la sua estremità inferiore si trova all’interno del
grande omikron di DIO. In secondo luogo osservo che il secondo omikron di ORFIKOI
(la lettera in cui M.L. West ha creduto di riconoscere un omega) è straordinariamente
stretto e allungato verso il basso (arriva quasi fino al margine inferiore della
tavoletta). Per chiudere questo omikron in basso, lo scrivente ha inciso un tratto che
ha la forma, approssimativamente, di una U, e le cui estremità si congiungono con
i due tratti diritti che costituiscono la parte sinistra e la parte destra di questo omikron
allungato. Osservo infine la presenza di un segno che assomiglia un po’ a un sigma
voltato a sinistra, ma che probabilmente non lo è (esso non corrisponde alla forma del
sigma nell’iscrizione incisa sulla parte superiore della stessa tavoletta, b{oV q|natoV
b{oV; si confrontino inoltre, nella tavoletta n° 2, i due sigma scritti sopra – o sotto?

36
Questa è la datazione proposta dall’editrice sulla base del contesto archeologico e della scrittura.
Ju.G. Vinogradov ha creduto di poter restringere la datazione: secondo o terzo quarto del
V secolo a.C. Dubito che abbia avuto ragione. Io direi che la scrittura fa pensare piuttosto alla
seconda metà del V secolo.
37
Articolo citato qui sopra, n. 3. Le fotografie da lei pubblicate sono riprodotte anche nella raccolta
di articoli Vinogradov, Pontische Studien, tav. 4.
38
Le tavolette no 4 e no 5 sono state trovate in altri luoghi di Olbia. A.S. Rusjaeva le considerava
orfiche, ma ammetteva che altre interpretazioni sono possibili. Secondo Ju.G. Vinogradov
(Pontische Studien, 242) la loro appartenenza all’orfismo non si può dimostrare; secondo me essa
è da escludere.
39
West, “The Orphics of Olbia” (citato qui sopra, n. 4). Cf., dello stesso, The Orphic poems, 17–18.
40
Anche Žmud’, “Orfičeskie grafitti iz Ol’vii”, 95–96, e I.A. Makarov, “Orfizm i grečeskoe
obščestvo v VI–IV vv. do n.ė.”, VDI 228, fasc. 1 (1999), 8–19 (p. 10 n. 18), hanno respinto questa
lettura.

PALAMEDES 2(2007) 75
Benedetto Bravo

– le due prime lettere della parola ‡lŞqeia). Questo segno parte dall’estremità
superiore dell’ultimo omikron, va orizzontalmente (con una leggerissima inclinazione)
verso destra fino all’estremità superiore dell’ultimo iota, poi scende obliquamente
verso sinistra nello spazio tra l’omikron e lo iota, poi si incurva verso destra, infine
gira decisamente verso sinistra e taglia la parte inferiore (a forma di U) dell’omikron.
Mi pare chiaro che lo scrivente ha scritto dapprima, nell’angolo inferiore
sinistro della tavoletta, il nome abbreviato DIO, e nell’angolo inferiore destro, il
segno simbolico ora analizzato, e poi ha scritto ORFIKOI facendo in modo che la
prima lettera di questa parola si congiungesse con l’ultima lettera dell’abbreviazione
del nome del dio, e che le ultime due lettere di ORFIKOI si congiungessero con il
segno simbolico. In questo modo ha espresso l’idea che gli #Orjiko{ sono dei fedeli
di Dionysos e credono a qualcosa a cui il segno simbolico allude. Che cosa significhi
esattamente questo simbolo, non lo so, ma mi pare ovvio che esso è legato alla
storia di Dionysos quale è raccontata dallo Äer'V l"goV orfico.
Un segno abbastanza simile, ma con l’asse disposto orizzontalmente, compare
sulla tavoletta n° 2 (fig. 2 dell’edizione originale), immediatamente a sinistra delle
lettere DION. (Esso è composto di quattro tratti; l’ultimo tratto tocca il delta).
L’editrice non ne parla.
Il verso della tavoletta n° 2 (di esso l’editrice non ha dato una fotografia, ma
solo un fac-simile: fig. 6,2b) è altrettanto interessante. Nella parte che probabilmente
è la parte superiore, è inciso un rettangolo diviso in sette settori, e all’interno di
ciascuno di questi è incisa una forma ovale. A.S. Rusjaeva ha interpretato questo
disegno come un simbolo di Dionysos smembrato dai Titani in sette parti. Questa
interpretazione mi convince.
A destra41 del disegno simbolico c’è un grande segno composto di almeno
quattro tratti, in cui A.S. Rusjaeva ha creduto di poter riconoscere un sigma voltato
verso sinistra o uno zeta tracciato negligentemente. A mio parere, lo zeta è da
escludere. Non posso escludere che si tratti di un sigma, ma sospetto che si tratti
in realtà di un segno non alfabetico, di un simbolo analogo ai due di cui ho appena
parlato. Il mio sospetto è accresciuto dal fatto che il tratto superiore di questa
presunta lettera è attraversato da un tratto perpendicolare. Secondo l’editrice,
questo sembrerebbe essere “una graffiatura casuale”. Forse lo è, ma può non esserlo.
Sul disegno geometrico inciso sul verso della tavoletta n° 3 (lo conosco solo
dal fac-simile, perché non c’è una fotografia), non so che cosa dire. (Ju.G.
Vinogradov suppone che esso sia conservato imperfettamente e che in origine fosse
un rettangolo diviso dalle due diagonali).

41
L’editrice scrive “a sinistra”, ma si tratta indubbiamente di un lapsus calami o di un errore di
stampa.

76 PALAMEDES 2(2007)
Testi iniziatici da Olbia Pontica

A.S. Rusjaeva segnala la presenza, in tutte e tre le tavolette (n° 1, immediatamen-


te dopo b{oV q|natoV b{oV, inoltre sotto il grande alpha isolato, infine presso il margine
destro; n° 2, verso, presso il margine inferiore; n° 3, dopo l’abbreviazione DIO), di altri
segni, che a suo parere sarebbero degli zeta di forma diversa da quella che questa lettera
ha normalmente nelle iscrizioni del V secolo;42 essi sarebbero da interpretare o come
l’iniziale del nome Zagre?V, o come la notazione alfabetica del numero “sette”, e in
quest’ultimo caso il numero “sette” si riferirebbe alle sette parti in cui Dionysos, figlio di
Persephone, fu smembrato dai Titani, mentre l’alpha , come notazione del numero
“uno”, si riferirebbe all’unità ricostituita in Dionysos, figlio di Semele.43 A me pare
impossibile ammettere che tali segni siano degli zeta. Devono essere dei segni simbolici.44
Non c’è dubbio, invece, che un grande alpha isolato compare in ciascuna
delle tre le tavolette, ed è ovvio che colui (o coloro) che ha (hanno) inciso questa
lettera ha (hanno) voluto metterla in rilievo (nel n° 3, come l’editrice ha osservato,
i tratti di cui questo alpha si compone sono doppi, sono stati tracciati due volte).
Che cosa significa questo alpha? A.S. Rusjaeva pensa che esso sia la notazione
alfabetica del numero “uno”: il “sette” si riferirebbe allo smembramento di Dionysos,
l’“uno” invece si riferirebbe al nuovo Dionysos, al figlio di Semele. L’ipotesi non mi
persuade. A. Bernabé suppone che l’alpha sia un’abbreviazione di aĂén. Nemmeno
questa ipotesi mi pare convincente. Per parte mia, suppongo che esso sia
un’abbreviazione di ‡lŞqeia, parola che compare, scritta per intero, appunto in
tutte e tre le tavolette in questione.
La nozione di “verità” è chiaramente centrale nel pensiero che si esprime nelle
iscrizioni di queste tavolette. Nel n° 1 la parola ‡lŞqeia è scritta sotto l’ultima
parte della riga che contiene la sequenza b{oV q|natoV b{oV: “verità” è la vita
immortale che comincia, per l’anima della persona iniziata, dopo la fine della vita
mortale; quest’ultima non è vera vita. L’opposizione è resa esplicita nell’iscrizione
del n° 2: eĂrŞnh p"lemoV, e sotto queste, altre due parole, ‡lŞqeia yeŢdoV: la vita
immortale di cui godrà l’anima della persona iniziata è pace e verità, la vita mortale
è guerra e menzogna. La stessa opposizione è formulata diversamente nell’iscrizione
del n° 3, secondo la lettura-restituzione proposta da Ju.G. Vinogradov, che
considero sicura:45 [yeŢd]o. V. ‡lŞqeia e, di sotto, síma yucŞ: la vita nel corpo
è menzogna, la vita dell’anima liberata è verità.

42
A.S. Rusjaeva sosteneva che abbiamo a che fare con degli zeta tracciati in modo “corsivo”, cioè
(suppongo) frettoloso e poco preciso. Tuttavia la differenza rispetto alla forma normale dello
zeta è troppo grande.
43
Rusjaeva, “Orfizm i kul’t Dioniza v Ol’vii”, 88–92.
44
Di questo parere sono anche West, “The Orphics of Olbia”, 19, e Bernabé, commento al testo
463 T del suo corpus.
45
Ju.G. Vinogradov (Pontische Studien, 243) scrive [yeŢdoV], ma afferma che di questa parola sono
visibili “minuscoli resti di lettere”. Io vedo sulla fotografia ]o. V. .

PALAMEDES 2(2007) 77
Benedetto Bravo

Commentando l’opposizione eĂrŞnh p"lemoV, vari studiosi hanno ricordato


Eraclito, Diels-Kranz, FVS 22 B 67: Ô qe'V -m}rh eŮjr"nh, ceimęn q}roV,
p"lemoV eĂrŞnh, k"roV lim"V… etc. Mi pare però evidente che il senso che
questa opposizione ha nell’iscrizione della tavoletta è completamente diverso da
quello che essa ha nel pensiero di Eraclito: per quest’ultimo, l’eterno alternarsi
degli opposti è il Logos, il senso razionale dell’universo, Dio (ciò che “vuole e non
vuole esser chiamato Zeus”). Ci si può piuttosto chiedere se Eraclito non abbia
voluto polemicamente trasformare un elemento importante delle dottrine
orfiche.46
Per ciò che riguarda i due sigma scritti sopra o sotto le prime due lettere di
‡lŞqeia della tavoletta n° 2 (segnalati, ma non spiegati dall’editrice), è chiaro che
non abbiamo a che fare con un errore commesso dallo scrivente e poi corretto.
Se ci fosse un sigma sotto una sola lettera della parola ‡lŞqeia, sarebbe non solo
possibile, ma necessario interpretarlo come un lapsus che lo scrivente avrebbe
corretto; ma poiché abbiamo due sigma, uno sopra (o sotto) l’alpha, e uno sopra
(o sotto) il lambda, è necessario pensare che essi siano stati scritti deliberatamente.
Suppongo che essi siano l’abbreviazione della formula síma s®ma, “il corpo è un
sepolcro”.47 Se è così, la posizione dei due sigma fa capire che l’‡lŞqeia riguardante
la vita terrena dell’uomo è questa: il corpo è per l’anima un sepolcro.
A proposito di ‡lŞqeia, un’osservazione importante è stata fatta da
E. Dettori:48 è singolare che su tavolette trovate in una città in cui si parlava ionico,
sia scritto ‡lŞqeia, e non ‡lhqe{h. E. Dettori si chiede se nel dialetto ionico puro
(non ibridato con l’attico) la forma ‡lŞqeia fosse possibile, o se, invece, abbiamo
a che fare con una forma attica. (Le altre parole che compaiono su queste tavolette
d’osso possono essere indifferentemente ioniche o attiche. Per ciò che riguarda la
scrittura, non c’è dubbio che essa è ionica; ricordiamo però che ancor prima che la
polis ateniese introducesse l’uso dell’alfabeto ionico per i documenti pubblici, questo
poteva essere usato ad Atene per altri scopi). Io non ho la competenza necessaria
per affrontare la questione sul piano strettamente linguistico. Posso soltanto
contribuire alla discussione con due constatazioni. Da un lato, constato che nelle
iscrizioni olbiopolite su pietra non compaiono, prima del III secolo a.C., forme
non-ioniche; dall’altro lato, constato che in una lettera su piombo trovata a Olbia,
databile alla prima metà del V secolo a.C. e scritta da un uomo che viaggiava per
commerciare, più precisamente nella lettera di Apatourios indirizzata a Leanax,

46
Questa possibilità mi è stata suggerita da Marek Węcowski.
47
Su questa formula, vd. A. Bernabé, “Una etimología platónica: síma s®ma”, Philologus 139
(1995), 204–237.
48
E. Dettori, “Testi «orfici» dalla Magna Grecia al Mar Nero”, La Parola del Passato 51 (1996),
292–310; ivi, pp. 304–310.

78 PALAMEDES 2(2007)
Testi iniziatici da Olbia Pontica

compaiono – se la mia lettura è giusta49 – due forme che non ci aspetteremmo di trovare
in ionico orientale: p[í]V invece di kíV, e p"[so] invece di k"so. Bisogna tener presente
che l’autore della lettera ora menzionata aveva molto probabilmente spesso a che fare
con ambienti in cui non si parlava ionico orientale – forse anche con ambienti ateniesi.
Può darsi che la presenza della forma ‡lŞqeia sia dovuta all’influenza del
dialetto attico. In questo caso, poiché nulla prova che la parlata comune degli
Olbiopoliti fosse già nel V secolo una mescolanza di ionico orientale e di attico, si
potrebbe forse pensare che gli orfici di Olbia Pontica nella seconda metà del
V secolo fossero persone colte, influenzate dalla grande cultura ateniese di quel
tempo e perciò inclini, quando scrivevano testi riguardanti le loro credenze, a usare
un ionico mescolato a forme attiche.
Con ciò non intendo suggerire che le idee orfiche siano giunte a Olbia fin
dall’inizio da Atene. Se si accetta la mia ricostruzione-interpretazione della laminetta
n° 1 dell’articolo di Vinogradov, bisognerà piuttosto supporre che quelle idee siano
giunte a Olbia da Mileto, perché nella seconda metà del VI secolo Olbia era
culturalmente molto legata alla sua mhtr"poliV.

4. Il Dionysos degli orfici e la religione della polis

J.-P. Vernant ha dato un’interpretazione penetrante e chiara della natura


e delle funzioni del culto di Dionysos e delle rappresentazioni riguardanti questo
dio all’interno dell’universo religioso che si è costituito insieme con la polis, o più
esattamente, che si è costituito come uno degli elementi essenziali di essa.50 Egli ha
inoltre messo fortemente in rilievo la differenza radicale tra il Dionysos dell’universo
religioso della polis e il Dionysos degli orfici. Ha sottolineato che l’aspirazione orfica
alla liberazione dell’anima dal corpo e a una vita immortale e felice nell’aldilà
è totalmente estranea a qualsiasi forma del culto pubblico o privato di Dionysos
nell’àmbito della religione civica – sia alla gioia dei symposia o delle feste pubbliche
in onore di Dionysos, sia all’estasi dionisiaca degli orgia regolati dalla polis.
Penso però che J.-P. Vernant non abbia sufficientemente riconosciuto la
coerenza e l’importanza del mito orfico di Dionysos e dei riti orfici, presenti

49
Questa lettera è stata pubblicata provvisoriamente (sulla base di un fac-simile e di copie eseguiti
da Ju.G. Vinogradov) da M. Dana, “Lettre sur plomb d’Apatorios à Léanax. Un document
archaïque d’Olbia du Pont”, ZPE 148 (2004), 1–14. Fondandomi sui dati pubblicati da M. Dana,
sono arrivato a leggere e interpretare il testo diversamente. Mi propongo di pubblicare la mia
lettura altrove.
50
J.-P. Vernant, Mythe et religion en Grèce ancienne, Paris 1990, 89–113, e Figures, idoles, masques,
Paris 1990, 208–246.

PALAMEDES 2(2007) 79
Benedetto Bravo

all’interno della polis già nell’età arcaica, come una corrente estranea alla religione
civica e all’insieme della cultura civica. È significativo che, trovatosi di fronte alle
tavolette d’osso orfiche pubblicate da A.S. Rusjaeva, egli non abbia cercato di
analizzarle attentamente, ma le abbia sommariamente giudicate come un fenomeno
enigmatico, e comunque isolato, che testimonierebbe del “particularisme de la vie
religieuse dans la colonie d’Olbia avec son environnement scythe”.
È vero che si possono osservare nella polis di Olbia alcune forme religiose
singolari, di cui mi propongo di trattare altrove: il culto di Apollo Medico (#Ihtr"V)
identificato col dio-fiume Borysthenes (#Ap"llwn #Ihtr'V Borusq}nhV)51 e quello
di Apollo Medico identificato con Boreas (#Ap"llwn Bor®V #Ihtr"V)52 – iden-
tificazione che credo di poter accostare alla testimonianza di Pausania (I 22,7) su versi
attribuiti a Musaios, in cui il locutore dichiarava di aver volato “per dono di Boreas”
(analogia, mi sembra, col volo di Aristeas joib"lamptoV, “afferrato da Phoibos”).53
Anche il fatto che il culto di Achille come ŻrwV occupi un posto importantissimo
nella vita religiosa di Olbia, è una peculiarità di questa polis e della polis di Istros

51
Vd. qui sotto, p. 84.
52
Ju.G. Vinogradov †, A.S. Rusjaeva, “Graffiti iz svjatilišča Apollona na zapadnom temenose
Ol’vii”, nella raccolta di articoli di autori vari ANACARSIS (Khersonesskij Sbornik 11), Sevastopol’
2001, 134–142: dediche a #Ap"llwni Bor®i, conservate interamente o in parte, nei seguenti
numeri, tutti dell’età arcaica (fac-simili a p. 135): 8 (fac-simile 16); 9 (fac-simile non numerato,
accanto al fac-simile 6); 10 (fac-simile 6). Il più interessante di questi graffiti è il no 8, che
Ju.G. Vinogradov data al secondo quarto, A.S. Rusjaeva al secondo–terzo quarto del VI secolo
(p. 136: “IV v.” – ma questo è evidentemente un errore di stampa, uno dei tanti che sfigurano
questa pubblicazione); gli editori leggono #Anap}rrhV #Anac?rso– Sk6o7l"th6V7 #Ap6"7llwni
Bor®i m}li patr[éion (?) ‡n}qhken], però osservano che il pi di patr ha una forma diversa da
quella degli altri due pi e che “non è escluso che si tratti di un’altra lettera”. Non solo il pi, ma
anche l’alpha avrebbe una forma strana, se qui fosse scritto veramente patr[éion. Io propongo
di leggere #Anap}rrhV #Anac?rso– Sk6o7l"th6V7 #Ap6"7llwni Bor}h. m}li #I. h. trí. [i]. Come gli
editori hanno visto, Sk6o7l"th6V7 è l’etnico degli Sciti equivalente a Sk?qhV (cf. Hdt. IV 6,2
Skol"touV). Non so se hanno avuto ragione di identificare #An|cursoV con il famoso
#An|carsiV; ma indubbiamente la dedica è, come dicono, sensazionale. (Invece di #Anap}rrhV,
S.R. Tokhtas’ev [“Problema skifskogo jazyka v sovremmenoj nauke”, in Ethnic Contacts and
Cultural Exchanges North and West of the Black Sea from the Greek Colonization to the Ottoman
Conquest, Iaşi 2005, 73] legge AnagerrhV o AnagerdhV, ma il fac-simile mi sembra dare
chiaramente AnaperrhV). Interessante anche un altro graffito trovato nello stesso “temenos
occidentale”, il no 23 (fac-simile a p. 139), dell’età ellenistica; esso forma due cerchi concentrici
e contiene i nomi di cinque dedicanti, caratterizzati come Boreiko[ qiasČtai, e il testo seguente:
#Ap"llwn Żlio[V], ŻlioV k"smoV, k["s]moV jíV, jíV b{oV, b{oV #Ap"llwn; i nomi e il testo
formano due cerchi concentrici. Dubois (Inscriptions grecques dialectales d’Olbia du Pont, no 95),
seguito da Bernabé (Orphicorum et Orphicis similium testimonia et fragmenta, fasc. 2,537 V), ha
interpretato l’iscrizione diversamente, tagliando il cerchio in modo da far finire la serie con la
parola ŻlioV e cominciare con la parola #Ap"llwn; ma questa interpretazione (che anche
A.S. Rusjaeva aveva preso in considerazione in un primo tempo) non mi sembra plausibile.
53
Sul volo di Aristeas vd. S. West, “Herodotus on Aristeas”, in C.J. Tuplin (ed.), Pontus and the
Outside World, Leiden 2002, 43–67.

80 PALAMEDES 2(2007)
Testi iniziatici da Olbia Pontica

(o Istríe).54 Tutti questi culti olbiopoliti sono però puramente greci, sebbene non
sia irragionevole pensare che essi rispondessero al bisogno di addomesticare un
ambiente naturale selvaggio, dove tutto doveva essere sconcertante per i primi
coloni (un’immensa steppa priva di popolazione sedentaria, grandissimi fiumi,
stagioni strane, lontananza dal mondo greco).
Non posso escludere che le idee orfiche abbiano trovato nella polis di Olbia
un terreno particolarmente favorevole per diffondersi; ma in ogni caso è evidente
che esse non possono essere state create sul posto dai coloni: questa teologia
raffinata dev’essere arrivata a Olbia da una o più di una città importante del mondo
greco, probabilmente dall’Egeo.55
L’editrice delle tavolette d’osso orfiche e poi tutti gli altri studiosi che se ne sono
occupati hanno visto un rapporto di stretta affinità tra la testimonianza delle tavolette
e quella data da un racconto di Erodoto, IV 78–80, che tocca Olbia. Secondo Erodoto, un
re degli Sciti, Skyles, era figlio del re Ariapeithes e di una Greca di Istríe (o Istros), aveva
ricevuto dalla madre una educazione greca, aveva l’abitudine di soggiornare ogni tanto
a Olbia (Borusqeneit}wn 'stu), dove aveva una casa e una moglie greca; durante uno
di questi soggiorni volle farsi “iniziare/consacrare a Dionysos Bakcheios” (Dion?swi
Bakce{wi telesq®nai); “quando Skyles fu iniziato/consacrato al Bakcheios” (špe{te d]
štel}sqh tíi Bakce{wi Ô Sk?lhV), i capi dell’esercito scitico accampato fuori della città
furono avvertiti da uno dei cittadini che il loro re “baccheggiava e si comportava come
un pazzo per effetto dell’azione del dio” (bakce?ei te ka[ Úp' toŢ qeoŢ ma{netai),
salirono su una torre e videro che il loro re andava attraverso la città “insieme col
thiasos” (s/n tíi qi|swi) e “baccheggiava” (bakce?onta); la cosa andò a finir male per
Skyles. Gli avvenimenti raccontati devono essere accaduti non molto prima del tempo

54
Del culto di Achille ho trattato in due articoli: “Un frammento della Piccola Iliade (P. Oxy. 2510),
lo stile narrativo tardo-arcaico, i racconti su Achille immortale”, QUCC, n.s., 67 (2001), 51–114,
specialmente pp. 89–114; “Luoghi di culto nella chora di Olbia Pontica” (citato qui sopra, n. 17),
specialmente pp. 225–237. Ne tratterò altrove più estesamente, per ciò che riguarda la polis di
Olbia.
55
Che i Greci delle città del Mar Nero settentrionale non abbiano potuto far proprie le pratiche
sciamaniche degli Sciti, è stato sostenuto convincentemente da Stephanie West (“Herodotus on
Aristeas”, 58–62); questa studiosa è tuttavia incline a supporre che i contatti dei Greci con le
culture del Nord nel VI secolo a.C. abbiano stimolato presso i Greci stessi la rinascita di pratiche
e credenze “of a more primitive form of religious life”, trasmesse da un’antica tradizione poetica
“based on preliterate forms of narrative”. Ammetto che questo può essere vero. Tuttavia, ciò
che Aristeas di Proconneso sembra aver raccontato di sé stesso, ciò che Erodoto riferisce dei
racconti su Aristeas e su Salmoxis, ciò che Porfirio e Giamblico raccontano di Abaris, ciò che
Pausania (I 22,7) ha letto su Musaios in versi attribuiti a Musaios stesso, ma che egli attribuisce
a Onomakritos – tutto questo si fonda sull’idea che un individuo (corpo e anima insieme) possa
volare o scomparire e poi di nuovo comparire a distanza di molti anni. Questo non ha niente
a che fare con l’orfismo, in particolare con le idee espresse dalle iscrizioni e dai simboli delle
tavolette d’osso orfiche di Olbia.

PALAMEDES 2(2007) 81
Benedetto Bravo

in cui Erodoto scriveva: egli dice infatti in IV 76,6 (a proposito di un altro


racconto), di aver parlato con Tymnes, governatore (šp{tropoV) di Ariapeithes, cioè
del padre di Skyles.
Io però non sono affatto convinto che il Dionysos Bakcheios di cui si parla
in questo racconto sia il Dionysos orfico, in altre parole, che la teletŞ ottenuta dal
re Skyles sia una iniziazione ai riti “orfici e bacchici” a cui Erodoto si riferisce
altrove (II 81,2: vd. la discussione qui sotto). A mio parere, in IV 79 abbiamo a che
fare con un culto che, sebbene non sia celebrato da qualsiasi cittadino e/o cittadina,
ma solo dal thiasos degli iniziati, è tuttavia riconosciuto dalla polis, fa parte della
religione civica. La teletŞ è del genere di quelle di cui si parla nelle Baccanti di
Euripide. È importante distinguere nettamente tra iniziazione ai riti orfici – riti
estranei alla cultura civica, alle idee e agli ideali che erano alla base della polis
– e iniziazione a riti dionisiaci riconosciuti dalla polis.
Le tre tavolette d’osso orfiche trovate nell’area sacra detta “temenos orientale” di
Olbia hanno press’a poco la stessa forma e le stesse dimensioni di altre tavolette d’osso
trovate in altri luoghi di questa stessa polis; inoltre, le iscrizioni e i simboli che si vedono
su queste ultime hanno qualcosa (non molto, è vero) in comune con le iscrizioni
e i simboli di quelle. Le somiglianze hanno indotto alcuni studiosi a caratterizzare come
orfiche alcune tavolette che, a mio parere, non lo sono affatto, bensì sono connesse
a thiasoi bene inseriti nella religione civica di Olbia. Presenterò e giustificherò altrove le
mie letture e interpretazioni delle tavolette a cui alludo. Non posso però fare a meno di
accennarvi qui, perché le somiglianze tra quelle orfiche e quelle non orfiche sono
significative e aiutano a capire il carattere delle une e delle altre. Prima di cominciare
una sommaria rassegna, devo ricordare che tavolette d’osso sono state trovate a Olbia
in grande quantità, ma che solo alcune poche portano iscrizioni e/o simboli.
Una delle tavolette che alcuni (N. Ehrhardt, L. Dubois, P. Lévêque,56 ma non
l’editrice, né W. Burkert) hanno considerato orfiche, ma che certamente non lo
sono, è stata trovata nell’isola di Berezan’ (non si sa in quale luogo precisamente57)

56
N. Ehrhardt, Milet und seine Kolonien. Vergleichende Untersuchung der kultischen und politischen
Einrichtungen, I2, Frankfurt a.M.–Bern–New York–Paris 1988, 137–140; Dubois, Inscriptions
grecques dialectales d’Olbia du Pont, pp. 148–149, 152; P. Lévêque, “Apollon et l’orphisme à Olbia
du Pont”, in M. Tortorelli Ghidini, A. Storchi Marino, A. Visconti (edd.), Tra Orfeo e Pitagora.
Origini e incontri di culture nell’antichità, Napoli 2000, 81–90.
57
Essa è stata scoperta per la seconda volta nella casa di V.V. Lapin, dopo la morte di questo,
senza alcuna documentazione. Questo archeologo (morto nel 1980) aveva diretto scavi nell’isola
di Berezan’ durante parecchi anni. Ho sentito dire che altre sei tavolette d’osso, alcune con
iscrizioni simili a quella della tavoletta in questione, altre senza alcuna iscrizione, erano
conservate nella casa di campagna di un archeologo che partecipava agli scavi nell’isola di
Berezan’, ma sono state distrutte da un incendio di quella casa. Di queste tavolette non si può
sapere niente di più, ma è importante sapere che esistevano. Mi pare verosimile che siano state
trovate in uno stesso luogo, insieme con quella di cui sto parlando.

82 PALAMEDES 2(2007)
Testi iniziatici da Olbia Pontica

e pubblicata da A.S. Rusjaeva nel 1986.58 È databile alla seconda metà del VI secolo
a.C. e contiene un testo molto complesso e un insieme di segni simbolici. In alto,
su tre righe è scritto con lettere grandi #Ap"llwnoV ‰ Didum(a{o–) ‰ Milhs({o–)
(le lettere DIDUM hanno tratti doppi), e in basso, presso l’angolo destro, Didum( ).
In mezzo, è scritto con lettere più piccole m}gaV, Ól{ol}boj"roV, ‰ nikhj"roV
Bor}w, “grande, portatore di felicità-prosperità, portatore di vittoria proveniente
dal Nord”. Se si capovolge la tavoletta, si legge, scritta con lettere grandi, la parola
m}mnhmai, “mi ricordo”, e sopra questa, un testo di sei righe, scritto con lettere più
piccole e che sembra essere presentato come un responso del dio – responso che il
proprietario della tavoletta conserverebbe nella sua memoria; esso termina con le
parole eĂrŞnh #Olb{¯ p"li. makar{zw se, “pace a Olbiē polis (alla polis Felice-
-Prospera). Ti considero felice”. Un grande e complicato disegno è stato inciso prima
delle iscrizioni; il suo significato mi sfugge totalmente. Sul verso, in alto, è scritto,
con lettere capovolte, APOL, e poi, con lettere diritte, DID; in basso è scritto
nikhj"roV Bor}w.
Suppongo che questa tavoletta appartenesse a un membro di un thiasos che
venerava Apollo. Sono incerto sul senso da attribuire alle parole #Ap"llwnoV
– –
Didum(a{o) Milhs({o): può darsi che con queste parole il proprietario della tavoletta
intendesse manifestare la sua (del proprietario) appartenenza ad Apollo Didimeo
Milesio; però mi pare più probabile che volesse dire che il responso oracolare scritto
sulla tavoletta era un responso di Apollo Didimeo Milesio.
Nel 1978, insieme con le tre tavolette orfiche sopra esaminate, A.S. Rusjaeva
ha pubblicato altre due tavolette d’osso, presentandole come orfiche, ma ammet-
tendo che tale interpretazione non si impone in modo evidente. Esse provengono
da Olbia; mancano informazioni precise sul luogo o sui luoghi dove sono state
trovate (probabilmente l’editrice non disponeva di tali informazioni).
Per ciò che riguarda la tavoletta n° 4 (munita di un buco per la cordicella con
cui era appesa al collo del suo proprietario), le lettere presso il lato corto sinistro
(parallele ad esso) sono state lette da A.S. Rusjaeva come DION; a me sembra
piuttosto che qui sia scritto AP (con un pi molto inclinato e attaccato alla gamba

58
A.S. Rusjaeva, “Milet–Didimy–Borisfen–Ol’vija. Problemy kolonizacji Nižnego Pobuž’a”, VDI
177, fasc. 2 (1986), 25–64. Sostanzialmente la stessa interpretazione in Ju.G. Vinogradov (che
ha visto l’originale), Političeskaja istorija ol’vijskogo polisa, VII–I vv. do n.ė, Moskva 1989, 78–80.
Un’interpretazione diversa è stata data da W. Burkert, “Olbia and Apollo of Didyma: a new
oracle text”, in J. Solomon (ed.), Apollo. Origins and Influences, Tucson–London 1994, 49–60,
articolo pubblicato anche in traduzione russa, “Apollon, Didim i Ol’vija”, VDI 193, fasc. 2
(1990), 155-160. La mia lettura e la mia interpretazione (che presenterò dettagliatamente
altrove) differiscono notevolmente da quelle date dai miei predecessori. Ho visto l’originale
a Kiev (si trovava allora, provvisoriamente, nel Museo Storico) e ho avuto a mia disposizione
buone fotografie che mi sono state date da Anna S. Rusjaeva.

PALAMEDES 2(2007) 83
Benedetto Bravo

destra dell’alpha), cioè #Ap("llwn) o #Ap("llwnoV). Nel disegno in cui l’editrice ha


visto una nave con la vela spiegata, a me sembra di vedere un piccolo arco, una
freccia e due lettere, più precisamente A (di cui la gamba sinistra è la corda
dell’arco, e la gamba destra è un corno dello stesso), e P (all’estremità della freccia),
inoltre una grande linea arcuata. Delle lettere incise presso il lato corto destro della
tavoletta rimane poco.59
Sulla tavoletta d’osso n° 5, che ha una forma un po’ diversa (a causa di due
profondi tagli a destra e a sinistra), si vede il disegno di un cavallo in corsa. Tra
i peli della criniera A.S. Rusjaeva ha visto la lettera A. Suppongo che questa lettera
sia l’iniziale di #Ap"llwn. Non so che cosa simboleggi il cavallo in corsa: forse il
carro del Sole? In questo caso avremmo qui a che fare con Apollo identificato con
Helios. Il simbolo del Sole è stato riconosciuto da A.S. Rusjaeva in un disegno
graffito su un elemento della decorazione del tempio di Apollo Medico del “temenos
occidentale” di Olbia.60
Vale la pena menzionare infine una tavoletta d’osso che nessuno, che io
sappia, ha considerato orfica, e che certamente non lo è, ma che va insieme con le
ultime tre passate in rassegna. Essa ha una forma diversa da quella delle precedenti,
e cioè la forma di due figure oblunghe (due lobi) che hanno un lato lungo in
comune. È stata trovata nell’isola di Berezan’ e pubblicata da A.S. Rusjaeva nel
1986.61 La scrittura è della seconda metà del VI secolo. Su uno dei due lobi si legge
facilmente Borusq}ne"V mi, e sull’altro lobo io leggo #Ihtrõ B.[oru]sq}neoV.
Accanto a #Ihtrõ vedo un segno a zigzag, in cui l’editrice ha creduto di riconoscere
un sigma (ha letto #Ihtr"V), ma che a me sembra un simbolo, non molto dissimile
da un simbolo che compare più volte sulle tre tavolette orfiche. A.S. Rusjaeva
(seguita da L. Dubois) ha espresso l’opinione che la tavoletta fosse un amuleto, pur
riconoscendo che l’iscrizione non suggerisce questo. Mi sembra impossibile accettare
questa opinione. A mio parere, portando questa tavoletta appesa al collo, un
membro di un thiasos confermava a sé stesso e ai suoi compagni di thiasos la sua

59
Vedo resti di una lettera che mi sembra un rho, poi chiaramente un ypsilon, e sotto di queste,
delle lettere di cui solo la prima, un epsilon, è chiara. Immagino che qui fosse scritto Borusq}nhV
oppure Borusq}ne"V mi, e che il proprietario di questa tavoletta fosse membro di un thiasos che
venerasse #Ap"llwn #Ihtr'V Borusq}nhV. Vd. le considerazioni seguenti.
60
Rusjaeva, “Milet–Didimy–Borisfen–Ol’vija”, 45; foto tav. 3, fig. 6; fac-simile a p. 40, fig. 4, 7.
Ho esaminato l’originale. Dentro ciascuno dei sette settori in cui è divisa la ruota solare, c’è una
lettera. L’editrice legge #Ihtr"on. Io proporrei di leggere #Ihtrõ ×n(oma), “(consacrato ad Apollo)
Medico di nome”.
61
Rusjaeva, “Milet–Didimy–Borisfen–Ol’vija”, 41–42. Dubois, Inscriptions grecques dialectales d’Olbia
du Pont, no 90 (pp. 142–143). Ho esaminato l’originale, ma su questo non ho visto molto di più
che sulle buone fotografie che A.S. Rusjaeva mi ha dato. La lettura e l’interpretazione che
propongo ora sono diverse non solo da quelle di A.S. Rusjaeva, ma anche (almeno in parte) da
quelle che ho proposto in “Luoghi di culto nella chora di Olbia Pontica”, 240.

84 PALAMEDES 2(2007)
Testi iniziatici da Olbia Pontica

appartenenza ad Apollo Medico Borysthenes, cioè il fatto di essere (lui stesso)


consacrato a questa divinità.
Che Apollo, a Olbia, potesse essere concepito come #Ihtr'V Borusq}nhV, mi
sembra risultare da più di una iscrizione. Anzitutto, da una iscrizione su un
frammento della decorazione in terracotta di un tempio del cosiddetto “temenos
occidentale” di Olbia, degli anni ca. 550–525:62 qui si legge chiaramente [#A]p"llwni
#Iht{t}ríi Borusqene; secondo A.S. Rusjaeva, bisognerebbe restituire Borusq}ne[oV
med}onti], ma a mio parere, dopo Borusqene non manca altro che uno iota, o forse
addirittura non manca niente (la grafia e per il dittongo ei [intendo il dittongo
autentico] compare in alcune iscrizioni di Olbia, p.es. nella “lettera di Achillodoros”).
Su un frammento di una kylix della prima metà del VI secolo, trovato nello stesso
“temenos occidentale”,63 si legge – scritta da destra a sinistra, con una scrittura non
anteriore alla metà dello stesso secolo – la dedica #A]p"llwni #Ihtríi, e si vede una
lunga linea serpeggiante che si estende sotto la metà sinistra dell’iscrizione e poi,
passando accanto all’ultima lettera, si alza al livello dell’iscrizione e si prolunga
a sinistra; si vedono inoltre (sull’originale), a sinistra dell’estremità sinistra della
linea sinuosa, due piccole forme irregolari, approssimativamente triangolari.
Suppongo che questa linea sinuosa e le due piccole forme simboleggino il liman del
Borysthenes e i suoi isolotti.
Le tavolette d’osso non-orfiche che ho passato ora in rassegna appartenevano
probabilmente a membri di thiasoi connessi con aspetti particolari del culto di
Apollo. È probabile che i proprietari delle tavolette le portassero su di sé per
manifestare a sé stessi e ad altri la loro qualità di membri di un thiasos.
Tali thiasoi erano ovviamente integrati nella religione civica. Questo è par-
ticolarmente evidente nel caso della tavoletta che contiene, tra l’altro, le parole
eĂrŞnh #Olb{¯ p"li. Ricordiamo del resto che un tempio di Apollo Medico
Borysthenes era situato a pochi passi dall’agora.
Poiché gli orfici, a Olbia, si servivano di tavolette d’osso simili a quelle ora
sommariamente menzionate, è verosimile che anch’essi fossero organizzati in un
thiasos (o in più di uno). Mi pare però difficile capire se per ciò che riguarda l’uso
di tavolette d’osso in quanto segni di appartenenza a un thiasos, gli orfici abbiano
imitato i thiasoi di cultori di Apollo, o viceversa. Non escluderei del resto che ci sia
stata influenza reciproca.

62
Iscrizione pubblicata da Rusjaeva, “Milet–Didimy–Borisfen–Ol’vija”, 42–43; foto tav. 3, fig. 2;
fac-simile p. 40, fig. 6. La lettura e l’interpretazione che propongo ora sono diverse da quelle
dell’editrice; sono diverse anche da quelle che ho proposto io stesso in “Luoghi di culto nella
chora di Olbia Pontica”, 238.
63
Pubblicato da Rusjaeva, “Milet–Didimy–Borisfen–Ol’vija”, 42 e n. 86; fotografia tav. 3, fig. 2;
fac-simile p. 40, fig. 2. Ho esaminato l’originale.

PALAMEDES 2(2007) 85
Benedetto Bravo

Può darsi che la frase eĂrŞnh #Olb{¯ p"li, che si presenta come parte di un
responso dell’oracolo di Didyma ed è sorprendente, perché non si trovano casi
analoghi in testi greci a noi noti,64 sia stata scritta sotto l’influenza del linguaggio
orfico. Questa è però solo una vaga possibilità. Del resto, se si ammettesse
un’influenza orfica, bisognerebbe nello stesso tempo riconoscere che la nozione di
eĂrŞnh è usata qui altrimenti che in una delle tavolette orfiche sopra ricordate. Non
si tratta infatti della pace di cui l’anima di una persona iniziata godrà nell’aldilà,
bensì della pace che la comunità di #Olb{h p"liV avrà in questo mondo.
Non so come gli orfici potessero partecipare alla vita civica, che era
indissolubilmente legata a una concezione religiosa inconciliabile con la loro. È vero
che nelle Rane, 1030–1036, dove Aristofane fa fare a Eschilo una lista di poeti-maestri
degni di lode, Orfeo, presentato come colui che “ci insegnò le teleta{ e l’astenersi
dall’uccidere”, è menzionato accanto a Musaios, a Esiodo, a Omero, come se non
ci fosse incompatibilità tra le pratiche orfiche e la vita civica, in cui i sacrifici cruenti
avevano un ruolo fondamentale; ma ad Aristofane, qui, importava soltanto
menzionare i poeti più antichi, per contrapporli a Euripide. È vero anche che gli
#Orjeotelesta{ che, secondo Teofrasto (Charact. 16,11a), il deisida{mwn frequenta,
non sembrano affatto aspettarsi da lui la fuga dal mondo; ma questi #Orjeotelesta{
rappresentano probabilmente una forma bassa, volgare, superstiziosa di pratiche
religiose, simile o identica a quella degli ‡g?rtai, dei m|nteiV di cui parla Platone,
Res publ. II 364 B–365 A: questi si servono di incantesimi (špwida{, špagwga{) e di
kat|desmoi, dispongono di “una massa di libri di Musaios e di Orfeo” e “fanno
credere non solo a dei privati, ma anche a delle poleis che la liberazione e purificazione
da torti commessi è possibile sia per coloro che sono ancora in vita, sia per i morti,
per mezzo di offerte sacrificali e di giochi, che chiamano teleta{”. Le tre tavolette
d’osso orfiche e la prima delle due laminette di piombo che ho esaminato qui sopra,
così come le laminette d’oro orfiche che sono state trovate in altre parti del mondo
greco, rappresentanto tutt’altra cosa: una concezione religiosa elevata, raffinata
e complessa, che doveva essere difficilmente conciliabile con una adesione totale
alla vita politico-religiosa della comunità civica. Immagino che quest’ultima fosse
diffidente verso cittadini seguaci di tale concezione. Immagino però anche che orfici
di questo tipo non avessero affatto tendenza a organizzarsi per rovesciare o cambiare
l’ordine politico costituito. Non credo che sia lecito applicare a loro ciò che
sappiamo del ruolo dei pitagorei nella vita politica delle poleis della Magna Grecia.65

64
La constatazione della singolarità di questa frase ha indotto W. Burkert a pensare che essa
tradisse un’influenza del linguaggio di m|nteiV vaganti, che avrebbero avuto contatti con centri
di cultura e lingua semitiche: eĂrŞnh sarebbe una traduzione di šalom. Questa ipotesi mi lascia
molto perplesso.
65
Su questo punto sono d’accordo con Bernabé, Orphicorum et Orphicis similium testimonia et
fragmenta, fasc. 2, p. 87: “…Pythagorici, non Orphici ad rempublicam adibant”.

86 PALAMEDES 2(2007)
Testi iniziatici da Olbia Pontica

Probabilmente gli individui (uomini e donne) sensibili a tale tipo di idee


erano una piccolissima minoranza. Molto più numerosi potevano essere coloro che
si facevano iniziare alle teleta{ dionisiache del tipo a cui Erodoto si riferisce in IV
79 e che, come ho detto, erano ben diverse dalle teleta{ orfiche.

5. Erodoto su toČsi #OrjikoČsi kaleom}noisi ka[ BakcikoČsi

L’attestazione del nome #Orjiko{ in una delle tavolette orfiche pubblicate


da A.S. Rusjaeva e appartenenti all’età in cui Erodoto scriveva (o di poco
posteriori), è stata usata da L.Ja. Žmud’ (L. Zhmud’)66 come un argomento che
permetterebbe di dirimere l’annosa controversia67 intorno a un importante passo
di Erodoto, II 81,1–2. Effettivamente, quella tavoletta prova che il termine oÄ
#Orjiko{ (di cui prima non conoscevamo alcuna attestazione che fosse anteriore
alla Biblioteca dello Pseudo-Apollodoro) esisteva già nella seconda metà del V secolo
a.C., e con ciò essa elimina la più forte delle obiezioni che venivano fatte
all’interpretazione secondo cui toČsi #OrjikoČsi kaleom}noisi di quel passo
erodoteo sarebbe il dativo di oÄ #Orjiko[ kale"menoi (“coloro che sono chiamati
orfici”), e non di t\ #Orjik\ kale"mena (“le cose che sono chiamate orfiche”,
cioè le regole o pratiche orfiche). Tuttavia i problemi che quel passo pone sono
molteplici e complessi, e non mi pare che L.Ja. Žmud’ li abbia visti. È opportuno
riprendere la discussione.
In II 81,1 Erodoto dice che gli Egiziani non entrano nei santuari con vesti di
lana, né vengono sepolti con tali vesti, perché questo non è a loro lecito. Subito
dopo, nel § 2, viene un pezzetto di testo che ci è stato trasmesso dai manoscritti68
in due modi: i mss. ABC (la “stirps Florentina”) danno Ômolog}ousi d] taŢta toČsi
#OrjikoČsi kaleom}noisi ka[ Puqagore{oisi, mentre i mss. DRSV (la “stirps
Romana”) danno Ômolog}ei d] taŢta toČsi #OrjikoČsi kaleom}noisi ka[
BakcikoČsi, šoŢsi d] AĂgupt{oisi ka[ Puqagore{oisi; i mss. T e P, che di solito
vanno insieme con la “stirps Florentina”, qui vanno insieme con la “stirps Romana”.

66
Žmud’, “Orfičeskie grafitti iz Ol’vii” (articolo citato qui sopra, n. 4).
67
Su questa controversia vd. specialmente l’ampia trattazione di W. Burkert, Weisheit und
Wissenschaft. Studien zu Pythagoras, Philolaos und Platon, Nürnberg 1962, 103–105. Bibliografia in
Bernabé, Orphicorum et Orphicis similium testimonia et fragmenta, fasc. 2, 650 T.
68
Sulla tradizione manoscritta di Erodoto, vd. specialmente la breve ma importante trattazione di
A. Corcella in Erodoto, Le Storie, vol. VIII: Libro VIII, La vittoria di Temistocle, a cura di D. Asheri,
Commento aggiornato da P. Vannicelli, Testo critico di A. Corcella, Traduzione di A. Fraschetti,
(Fondazione Lorenzo Valla), Milano 2003, 6–15 (queste pagine di A. Corcella si possono leggere
anche nel volume successivo della stessa edizione: Erodoto, Le Storie, vol. IX: Libro IX, La battaglia
di Platea, a cura di D. Asheri, Commento aggiornato da P. Vannicelli, Testo critico di
A. Corcella, Traduzione di A. Fraschetti, Milano 2006, 5–13).

PALAMEDES 2(2007) 87
Benedetto Bravo

Secondo la lezione della “stirps Florentina” (la cosiddetta “lezione breve”), Erodoto
direbbe: “essi (gli Egiziani) si accordano in questo con coloro che sono chiamati
orfici e pitagorei”. Secondo la lezione della “stirps Romana” (la cosiddetta “lezione
lunga”), Erodoto direbbe: “queste cose (= queste regole o usanze) si accordano con le
cose (= con le regole o usanze) che sono chiamate orfiche e bacchiche, ma che sono
(in realtà) egiziane e pitagoriche”. (Nella prima lezione, il ka[ tra #OrjikoČsi
e Puqagore{oisi, e nella seconda lezione, il ka[ tra #OrjikoČsi e BakcikoČsi così
come quello tra AĂgupt{oisi e Puqagore{oisi, deve ovviamente esprimere un
rapporto di quasi-equivalenza, di quasi-sinonimia, come accade non di rado). Segue
un pezzetto di testo che – a parte una divergenza che riguarda il dialetto (qajq®nai
nella “stirps Florentina” e in P, taj®nai nella “stirps Romana” e in T) – ci è stato
trasmesso uniformememente: “infatti nemmeno per uno che partecipi a questi riti
(to?twn tín Órg{wn met}conta, cioè nemmeno per uno che partecipi ai riti orfici
e bacchici) è lecito venir seppellito in vesti di lana; ed esiste un racconto sacro che
viene raccontato intorno a queste cose (= a queste regole o usanze: žsti d] per[
aŮtín Är'V l"goV leg"menoV)”.
Per ciò che riguarda l’uso del verbo Ômolog}w, entrambe le lezioni sono
difendibili: secondo la “lezione breve” (con Ômolog}ousi, plurale, e con taŢta
come accusativo di relazione), il confronto sarebbe fatto tra Egiziani e certi
gruppi religiosi; secondo la “lezione lunga” (con Ômolog}ei, singolare, e con
taŢta come soggetto), il confronto sarebbe fatto tra regole-usanze degli Egiziani
e regole-usanze di certi gruppi religiosi. Prendiamo in considerazione gli altri
passi di Erodoto in cui il verbo Ômolog}w è usato per designare un rapporto
di accordo-somiglianza: I 142,4 aätai d] aÄ p"lieV t®isi pr"teron lecqe{shisi
Ômolog}ousi kat\ glíssan oŮd}n, sj{si d] Ômojwn}ousi. II 18,2 gli abitanti
della regione dell’Egitto confinante con la Libia dichiararono di non aver nulla
in comune con gli Egiziani, oĂk}ein te g\r žxw toŢ D}lta ka[ oŮd]n Ômolog}ein
aŮtoČsi. (Lascio da parte VI 54 to/V d] #Akris{ou ge pat}raV Ômolog}ontaV
kat# oĂkhi"thta Pers}i oŮd}n, perché questa frase fa parte di un pezzo
interpolato, come mostrerò altrove). Aggiungiamo i passi in cui Erodoto usa
per lo stesso scopo il verbo sumj}romai: I 173,4 ťn d] t"de Ëdion nenom{kasi
ka[ oŮdamoČsi 'lloisi sumj}rontai ‡nqrépwn. II 80,1 sumj}rontai d] {ka[}
t"de {'llo} AĂg?ptioi mo?noisi Lakedaimon{oisi ... t"de m}ntoi 'llo @EllŞnwn
oŮdamoČsi sumj}rontai. VI 59 sumj}rontai d] {'llo oätoi} t"de toČsi P}rshisi69

69
La “stirps Romana” dà 'llo oätoi t"de, la “stirps Florentina” dà 'llo t"de. Gli editori di solito
scelgono la seconda lezione (H. Stein invece ha scelto la prima), ma né l’una, né l’altra mi pare
accettabile. Secondo me, oätoi ha senso, ma non è indispensabile, 'llo invece è assurdo, perché
prima Erodoto non aveva parlato di somiglianze tra Lacedemonii ed Egiziani. È probabile che
'llo sia stato aggiunto dallo stesso interpolatore che in Hdt. II 80,1 ha inserito le parole ka[
e 'llo.

88 PALAMEDES 2(2007)
Testi iniziatici da Olbia Pontica

(così propongo di leggere).70 Come si vede, questi sei passi erodotei costituiscono
un argomento in favore di Ômolog}ousi (confronto tra un popolo e certi gruppi
religiosi) e contro Ômolog}ei (confronto tra cose e cose) in II 81,2. Tuttavia
l’argomento non è affatto decisivo. Erodoto può benissimo aver usato quest’unica
volta Ômolog}w per confrontare cose con cose.
Un argomento in favore di Ômolog}ei è fornito da un passo di Plutarco,
Caesar 9,6, dove si tratta della festa della Bona Dea: aŮta[ d] kaq# ›aut\V aÄ
gunaČkeV poll\ toČV #OrjikoČV ÔmologoŢnta dr~n l}gontai per[ t«n Äero-
urg{an. Qui l’espressione non banale toČV #OrjikoČV ÔmologoŢnta è stata
certamente suggerita all’autore da un ricordo del passo erodoteo, quale conosciamo
dalla “stirps Romana”. Plutarco deve aver letto nel suo Erodoto Ômolog}ei d]
taŢta e deve aver inteso toČsi #OrjikoČsi come un neutro, non come un
maschile. Naturalmente non possiamo sapere se per il resto del passo ciò che egli
leggeva fosse identico a ciò che noi leggiamo nei manoscritti della “stirps
Romana”.
Il testo della “stirps Romana” avrebbe un senso perfettamente accettabile se
non ci fossero le ultime due parole, ka[ Puqagore{oisi. Dire che certe regole-
-usanze, che sono comunemente chiamate “orfiche e bacchiche”, sono in realtà
egiziane, sarebbe un discorso comprensibile e conforme all’opinione che Erodoto
esprime più volte, nel libro II, sul rapporto tra idee greche e idee egiziane: si veda
in particolare II 123,2–3, dove Erodoto allude a Orfeo e a Pitagora, che si sarebbero
“serviti di una dottrina egiziana, come se fosse loro propria”. Invece, dire che certe
regole-usanze sono in realtà “egiziane e pitagoriche”, non mi pare un discorso
sensato dal punto di vista erodoteo. O sono in realtà egiziane, o sono in realtà
pitagoriche: aut–aut.
Gli editori moderni hanno per lo più accolto Ômolog}ousi dalla “stirps
Florentina”, ma per il resto hanno seguito la “stirps Romana”. Questa combinazione
(o “contaminazione”) produce un testo che è ancora più strano di quello della
“stirps Romana”. Si può tentare di interpretarlo nell’uno o nell’altro dei due modi
seguenti: o “essi (gli Egiziani) si accordano in questo con le cose (= con le
regole-usanze, o con gli ×rgia, con i riti di cui si parla subito dopo) che sono dette
orfiche e bacchiche, ma che sono egiziane e pitagoriche”; o “essi (gli Egiziani) si
accordano in questo con coloro che sono detti orfici e bacchici, ma che sono
Egiziani e pitagorei”. In entrambi i casi il discorso è assurdo.

70
Non tengo conto di Hdt. VI 60 sumj}rontai d] ka[ t|de AĂgupt{oisi Lakedaim"nioi, inizio di
un capitoletto che mi sembra interpolato (esso esce infatti dal tema, inoltre contiene
un’espressione strana, paraklh{ousi). Lascio inoltre da parte la frase mostruosa Hdt. II 79,2
sumj}retai d] ěut'V eÍnai t'n oÄ $EllhneV L{non Ónom|zonteV ‡e{dousi; essa appartiene a una
digressione che si rivela spuria per più di una ragione.

PALAMEDES 2(2007) 89
Benedetto Bravo

Gli studiosi che accettano o questa combinazione delle due lezioni, o la


lezione della “stirps Romana”, credono che Erodoto abbia avuto in mente l’idea
seguente: le regole o usanze che sono comunemente chiamate “orfiche e bacchiche”
sono di origine egiziana e sono state importate in Grecia da Pitagora. Ma se Erodoto
aveva in mente questo, perché non lo ha detto direttamente e semplicemente?
Perché si è espresso in un modo contorto e goffo, che inevitabilmente suggerisce
un rapporto di quasi-equivalenza, di quasi-sinonimia tra AĂgupt{oisi e Puqagore{-
oisi, analogo al rapporto tra #OrjikoČsi e BakcikoČsi, quale risulta dalla prima
parte della frase?
Da tutto ciò risulta che è impossibile riconoscere come autentica la lezione
della “stirps Romana”. Chiediamoci allora: è possibile riconoscere come autentica
l’altra lezione, quella della “stirps Florentina”? Che questo sia possibile e necessario
è stato sostenuto recentemente da L.Ja. Žmud’. A me sembra impossibile. Se si
accetta questa lezione come autentica, è difficile capire come mai un interpolatore
abbia avuto l’idea di inserire, tra toČsi #OrjikoČsi kaleom}noisi e ka[ Puqagore{oi-
si, le parole ka[ BakcikoČsi, šoŢsi d] AĂgupt{oisi. Un’interpolazione siffatta è del
tutto inverosimile.
Per recuperare il testo autentico di questo passo, e nello stesso tempo
spiegare la genesi di entrambe le lezioni, propongo una costruzione complessa,
composta da quattro ipotesi interdipendenti. Suppongo:
(1) che Erodoto abbia scritto Ômolog}ei d] taŢta toČsi #OrjikoČsi
kaleom}noisi ka[ BakcikoČsi, šoŢsi d] AĂgupt{oisi, cioè “queste regole-usanze si
accordano con quelle che sono chiamate orfiche e (= o) bacchiche, ma che sono
(in realtà) egiziane”;
(2) che un editore antico abbia aggiunto alla fine del passo ka[ Puqagore{oisi;
(3) che nel corso della tradizione manoscritta del testo contenente questa
interpolazione, un copista abbia omesso, a causa di un lapsus banale,71 le parole ka[
BakcikoČsi, šoŢsi d] AĂgupt{oisi: immagino che questa serie di parole, che
è composta da 31 lettere, costituisse una riga intera e fosse preceduta da una riga
composta da altrettante lettere; in questo caso essa finiva come la riga precedente
e cominciava come la riga seguente, sicché il rischio di errore, per un copista, era
molto grande; ecco come immagino quattro righe del testo:
qaptetaisjiougarosionomologeeide
tautatoisiorjikoisikaleomenoisi
kaibakcikoisieousideaiguptioisi
kaipuqagoreioisioudegartoutwntwn

71
L’ipotesi che la “variante breve” sia nata da una “haplographia”, è già stata fatta da vari studiosi;
questi però pensavano che le parole ka[ Puqagore{oisi fossero autentiche.

90 PALAMEDES 2(2007)
Testi iniziatici da Olbia Pontica

(4) che il dotto che preparò la recensione da cui discende la famiglia di


manoscritti che chiamiamo “stirps Florentina”, abbia lavorato su un esemplare che
discendesse dall’edizione contenente le parole spurie ka[ Puqagore{oisi, e che in
quell’esemplare il passo fosse decurtato a causa del lapsus ora descritto; e che,
riflettendo sulla frase Ômolog}ei d] taŢta toČsi #OrjikoČsi kaleom}noisi ka[
Puqagore{oisi, egli abbia trattato Ômolog}ei come un errore della tradizione e lo
abbia sostituito con una sua congettura, Ômolog}ousi.
Questo insieme di ipotesi permette di restaurare il passo erodoteo in modo
da eliminare le difficoltà che rendono inaccettabili entrambe le lezioni. Aggiungo
che l’interpolazione delle parole ka[ Puqagore{oisi è affine per carattere a parecchie
decine di interpolazioni che credo di aver scoperto nel testo dell’opera di Erodoto
e in quello dell’opera di Tucidide e che attribuisco a un ignoto editore-falsario, il
quale avrebbe lavorato verso la metà del I secolo d.C. e le cui edizioni sarebbero
diventate molto rapidamente (già verso la fine del I o all’inizio del II secolo d.C.)
il “textus receptus” di questi due autori: si vedano due studi che ho pubblicato
altrove,72 a cui si aggiungeranno presto altri. Il fatto che le parole ka[ Puqagore{oisi
erano presenti nel testo di Erodoto che Apuleio leggeva (cf. Apol. 56 = Bernabé,
Orphicorum et Orphicis similium testimonia et fragmenta, fasc. 2, 651 T), conferma che
l’interpolazione fa parte di quelle inserite da un editore-falsario intorno alla metà
del I secolo d.C.
Insomma: secondo il testo congetturale che propongo, Erodoto non menziona
i pitagorei né le regole o usanze pitagoriche, sostiene invece che le regole o usanze
dette “orfiche e bacchiche” sono state importate nei paesi greci dall’Egitto.73
È verosimile che sia stato il passo di Erodoto sul l"goV egiziano della
reincarnazione (II 123,2–3) a suggerire all’editore-falsario l’idea di arricchire il testo
di Erodoto in II 81,2 aggiungendo le parole ka[ Puqagore{oisi. Non escludo che
Erodoto stesso, nell’accennare a t\ #Orjik\ kale?mena ka[ Bakcik|, abbia
pensato che queste regole o usanze avessero qualcosa in comune con quelle dei

72
“Pseudo-Herodotus and Pseudo-Thucydides on Scythia, Thrace and the regions «beyond»”,
Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, serie IV, vol. V, 1 (2000), 21–112; “Il Patrios Nomos
di Jacoby, la critica del testo, il cimitero del Kerameikos nell’immaginario civico ateniese”, in
C. Ampolo (ed.), Aspetti dell’opera di Felix Jacoby, Pisa 2006, 109–131. Altre interpolazioni dello
stesso genere nel testo erodoteo sono state scoperte e studiate da A. Wolicki, “Hérodote,
interpolations et la société spartiate”, in T. Derda, J. Urbanik, M. Węcowski (edd.), EUERGESIAS
CARIN. Studies presented to B. Bravo and E. Wipszycka by their disciples (The Journal of Juristic
Papyrology Supplements 1), Warsaw 2002, 381–421. Molte altre sono studiate in due miei lavori
che usciranno probabilmente entro il 2009.
73
Sui rapporti reali tra le idee orfiche e le idee che si esprimevano nel rituale dei funerali egiziani,
vd. R. Merkelbach, “Die goldenen Totenpässe: ägyptisch, orphisch, bakchisch”, ZPE 128 (1999),
1–13.

PALAMEDES 2(2007) 91
Benedetto Bravo

pitagorei, e che lo Äer'V l"goV che giustificava il divieto riguardante le vesti di lana
fosse il l"goV della reincarnazione; ma questa è soltanto una possibilità. Sicuro mi
sembra, invece, che per Erodoto i q{asoi e le teleta{ di Dionysos Bakcheios e la
man{a che questo dio suscitava negli iniziati facendoli “baccheggiare”, non avessero
nulla in comune con t\ #Orjik\ kale?mena ka[ Bakcik|, e che effettivamente si
trattasse di cose diversissime.

Benedetto Bravo
b.bravo@uw.edu.pl

Istituto di Storia
Università di Varsavia
Krakowskie Przedmieście 26/28
00-927 Varsavia, Polonia

92 PALAMEDES 2(2007)

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