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«E ’n guisa d’eco i detti e le parole» Studi in onore di Giorgio Barberi Squarotti volume I Edizioni dell’Orso Alessandria Francesco Bausi «Un centone, un carme a figura, un immenso acrostico» Fenomenologia della citazione ne [1 nome della rosa Le parole poste a titolo del presente esercizio sono quelle con cui, nell’ Ul- timo folio del Nome della rosa, Vormai anziano monaco Adso da Melk defi- nisce la cronaca, da lui stesa, dei terribili eventi cui gli toccd in sorte di assi stere nel 1327; e sono parole che potrebbero con assoluta pertinenza essere tiferite anche al romanzo di Umberto Eco. II nome della rosa é infatti davve- ro «un centone, un carme a figura, un immenso acrostico»: un vertiginoso mosaico di citazioni, allusioni, riprese, calchi, costruito con cura certosina at- tingendo alle fonti pit disparate, antiche come moderne, letterarie come filo- sofiche. Si ripensi alla scena finale del libro, quando, a distanza di molti anni dagli avvenimenti narrati nel romanzo, Adso visita le rovine dell’abbazia: Rovistando tra le macerie trovavo a tratti brandelli di pergamena, precipitati dallo scriptorium e dalla biblioteca e sopravvissuti come tesori sepolti nella terra; ¢ in- cominciai a raccoglierli, come se dovessi ricomporre i fogli di un libro. [...] Lungo un tratto di muro trovai un armadio, ancora miracolosamente ritto lungo la parete, non so come sopravvissuto al fuoco, marcio d’acqua e di insetti, Dentro vi staya ancora qualche foglio. Altri lacerti trovai frugando le rovine da basso. Pove- ra messe fu la mia, ma passai una intera giornata a raccoglierla, come se da quelle disiecta membra della biblioteca dovesse pervenirmi un messaggio. Alcuni bran- delli di pergamena erano scoloriti, altri lasciavano intravvedere l'ombra di una immagine, a tratti il fantasma di una o pitt parole. Talora trovai fogli su cui erano leggibili intere frasi, pitt facilmente rilegature ancora intatte, difese da quelle che erano state borchie di metallo... Larve di libri, apparentemente ancora sane di fuori ma divorate all’intemno: eppure qualche volta si era salvato un mezzo foglio, traspariva un incipit, un titolo... Raccolsi ogni reliquia che potei trovare, ¢ ne empii due sacche da viaggio, abban- donando cose che mi erano utili pur di salvare quel misero tesoro. Lungo il viaggio di ritorno e poi a Melk passai molte e molte ore a tentar di deci- frare quelle vestigia. Spesso riconobbi da una parola o da una immagine residua di quale opera si trattasse. Quando ritrovai nel tempo altre copie di quei libri, li studiai con amore, come se il fato mi avesse lasciato quel legato, come se I’aver- ne individuato la copia distrutta fosse stato un segno chiaro del cielo che diceva tolle et lege. Alla fine della mia paziente ricomposizione mi si disegnd come una biblioteca minore, segno di quella maggiore scomparsa, una biblioteca fatta di brani, citazioni, periodi incompiuti, moncherini di libri. (pp. 501-502)! * Tutte le citazioni dal Nome della rosa sono ricavate dall’ed. Milano, Bompiani, «E 'n guisa d'eco i dettie le parole». Studi in onore di Giorgio Barberi Squarotti, Alessandria 2006, pp. 297-321 298 Francesco Bausi Grandiosa allegoria, questa, su un piano generale, della condizione in cui si trova l’uomo moderno di fronte allo studio del passato (del quale sono a noi giunti disiecta membra, che soltanto con immane sforzo & talora possibile ri- comporre in immagini pid complete; e la «biblioteca minore» faticosamente messa insieme da Adso @ appunto il frammentario patrimonio di libri e di co- noscenze pervenutoci attraverso il naufragio dei secoli); ma anche metafora dell’attivita dello scrittore cosi come Eco la concepisce, e dunque dello stes- so procedimento che sta alla base del Nome della rosa: un libro costruito, an- ch’esso (come, in fondo, qualunque altro libro) cucendo insieme «brani, cita- zioni, periodi incompiuti, moncherini di libri». L’operazione, credo, non pud essere semplicemente etichettata come «po- st-modemay*; ritengo infatti che a Eco interessi evidenziare come, anche sot- to questo aspetto, esista una singolare (benché pitt apparente che reale) ana- logia e «convergenza» tra Medioevo ed et contemporanea. Poche epoche ¢ poche civilt& hanno avuto come il Medioevo cristiano Ia consapevolezza che (giusta Ja nota formula terenziana) «nullum iam dictumst quod non sit dictum prius», che la cultura altro non pud essere se non — per usare le parole del venerabile Jorge — «continua e sublime ricapitolazione». Non solo: il Nome della rosa, esattamente come la Sacra Scrittura (secondo quanto affermano gli esegeti medioevali), pud essere letto, compreso e gustato anche se ci fer- ma alla sua littera, senza impegnarsi nella decrittazione dei suoi innumerevo- li sovrasensi, benché solo arrivando a cogliere questi ultimi sia possibile spri gionare tutta la polimorfa ricchezza e tutta la profondita «significante» del li bro. Cosi anche per le citazioni: chi non le individua riesce ugualmente a se- guire lo svolgimento del romanzo, pur precludendosi la possibilita di orien- tarsi nel labirinto della sua illimitata semiosi. Molte delle citazioni dissemi- 1980 (ad essa si riferiscono i numeri di pagina, direttamente inseriti a testo). Nel passo ora citato, risuona forse un’eco della descrizione dell’ormai abbandonato studio di Faust, cosi come appare a Mefistofele: «Tra quei vecchi barattoli, la, qui, fra annerite pergame. ne, nei cocci impolverati di vecchi recipienti, nell’orbite dei teschi, in tutto quel marcio muffito, di insetti sempre ce ne sara». Sono i wv. 6610-6615 del Faust di Goethe, nella traduzione italiana di Franco Fortini; il passo & citato anche da E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di R. Antonelli, trad. di A. Luzzatto e M. Candela, Firenze, La Nuova Italia, 1992, p. 438 (ed. orig. Bern, A. Francke Verlag, 1948). Per la massiccia presenza di Curtius nel Nome della rosa, vd. oltre. * Come scrive Carlo Ossola (Figurato e rimosso. Icone e interni del testo, Bologna, IL Mulino, 1988, p. 287; il capitolo sul Nome della Rosa, intitolato Conclusione: «Pur- urwort», pp. 283-309, era gia apparso, col titolo «La rosa profunday, in «Lettere Italia- ne», XXXVI, 1984, pp. 461-483), la «biblioteca minore» di Adso «costituisce [...] una “mise en abime” dell’intero romanzo». ? Per questo aspetto mi limito a rinviare a R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, pp. 180-189; e a R. Glynn, Presenting the past: The case of «Il nome della rosa», in «The Italianist», XVI, 1997, pp. 99-116. «Un centone, un carme a figura, un immenso acrostico» ae nate nel Nome della rosa sono state, ovviamente, gia individuate*; in queste pagine mi propongo non tanto di arricchire il dossier, quanto soprattutto di esaminare alcune delle molteplici tipologie di citazioni esperite nel romanzo, sottolineando le diverse finalita che esse si propongono e il diverso ruolo che svolgono nell’economia complessiva del romanzo. I. Citazione post-moderna e citazione dotta: Dante, Orazio, Agostino Le citazioni dantesche sono particolarmente numerose’: né la cosa stupi- sce, in un romanzo che per due volte menziona esplicitamente Dante ¢ la Commedia. Parlando di Ubertino da Casale, Adso scrive: Di lui avevo gia sentito parlare e a lungo, anche prima di venire in Italia, e ancor pit frequentando i francescani della corte imperiale. Qualcuno mi aveva persino detto che il pid grande poeta di quei tempi, Dante Alighieri da Firenze, morto da pochi anni, aveva composto un poema (che io non potei leggere perché era scritto nel volgare toscano) a cui avevano posto mano ¢ cielo ¢ terra, ¢ di cui molti versi altro non erano che una parafrasi di brani scritti da Ubertino nel suo Arbor vitae crucifixae. (p. 56) Pid avanti, ’elogio di Dante 2 messo in bocca — in termini analoghi ~ a Gu- glielmo da Baskerville: Oggi non @ pid cosi, nascono sapienti fuori dai monasteri, € dalle cattedrali, persi- no dalle universita. Vedi per esempio in questo paese, il pid grande filosofo del nostro secolo non stato un monaco, ma uno speziale. Dico di quel fiorentino di cui avrai sentito nominare il poema, che io non ho mai letto perché non capisco il suo volgare, € per quanto ne so mi piacerebbe assai poco perché vi vaneggia di cose molto lontane dalla nostra esperienza. Ma ha scritto, credo, le cose pid sagge che ci sia dato di comprendere sulla natura degli elementi e del cosmo tutto, e sul- la conduzione degli stati. (p. 209) Torneremo su questi elogi di Dante. Per ora osservo che, delle citazioni dan- * Sul Nome della rosa, com’é noto, esiste una sterminata letteratura (italiana e soprat- tutto straniera), comprendente saggi ¢ tesi di aurea, monografie e volumi miscellanei. Qui mi limito a rinviare alle bibliografie incluse nei volumi di M. Ganeri, II «caso» Eco, Palermo, Palumbo, 1991, pp. 179-208, e di R. Capozzi, Lettura, interpretazione e inter- testualita: esercizi di commento a «ll nome della rosa», Perugia, Edizioni Guerra, 2001, pp. 102-105, nonché a quella, pid ricca ma neppur essa completa, reperibile on-line sul sito www.dsc.unibo it/dipartimento/people/eco. Fra i contributi pid ticchi dal punto di vista dello studio intertestuale, segnalo il libro di K. Ickert e U. Schick, I! segreto della rosa decifrato, trad., Firenze, Salani, 1987 (ed. orig. Das Geheimnis der Rose entschltis- selt, Miinchen, Hayne, 1986). 3 Mi @ risultato purtroppo irreperibile il saggio di S. Ekblad, Studi sui sottofondi strutturali del «Nome della rosa» di Umberto Eco. Parte I. «La divina commedia» di Danie, Lund, Lund University Press, 1994. 300 Francesco Bausi tesche disseminate nel romanzo, alcune appartengono al novero di quelle che potremmo propriamente definire citazioni «post-moderne» (almeno nel senso in cui lo stesso Eco, nelle Postille, mostra di intendere Paggettivo): ammic- camenti espliciti ed evidenti (decifrabili da qualunque lettore dotato di una media cultura «liceale»$), e proprio per questo non privi, talora, di una chiara intenzione ironica. B il caso, ad esempio, della descrizione di Jorge da Bur- gos («Un monaco curvo per il peso degli anni, bianco come la neve, non dico solo il pelo, ma pure il viso e le pupille»: p. 86), dove risuona una chiara eco della raffigurazione di Caronte, «un vecchio bianco per antico pelo» (Inf., II, 83): ed anche Jorge appare gridando parole minacciose («Verba vana aut risu apta non loqui»)’, proprio come Caronte (Inf,, III, 84: «Guai a voi, anime prave!»). Ma ancor pitt palese é la citazione letterale che conclude il capitolo (Terzo giorno, dopo compieta) occupato, nella sua parte finale, dalla narra- zione del convegno amoroso tra Adso ¢ la giovane contadina. Dopo che que- st’ultima ha abbandonato l’abbazia, Adso scorge in un angolo della cucina Vinvolto lasciato dalla ragazza, ¢, apertolo, vi trova un cuore di grandi di- mensioni; a questo punto — scrive Adso cronista — «lanciai un urlo e caddi co- me cade un corpo morto» (p. 253). Qui non importa tanto la trasparente cita- Zione (Inf., V, 142: «B caddi come corpo morto cade»), quanto le «idee ac- cessorie» che essa veicola: il verso dantesco, infatti, suggella l’episodio di Paolo ¢ Francesca, cui l’autore avvicina dungue, ironicamente, la ben pit prosaica avventura erotica di Adso e della contadina. Questa, che (come Pao- Io nel canto dantesco, ma per altri motivi!) non parla, si colloca agli antipodi della colta ¢ raffinata Francesca; e la sede degli amori di Adso (la cucina del- Vabbazia) & quanto di pid lontano si possa immaginare dall’aristocratico con- testo signorile che vede sbocciare la passione dei due «cognati». D’altra par- te, se Francesca, nel descrivere i suoi sentimenti, si serve di immagini e di un lessico presi a prestito dagli stilnovisti, Adso narra Ia scena dell’amplesso in cucina a forza di citazioni «dal Cantico dei Cantici sino a san Bernardo e a Jean de Fecamp, o santa Hildegarda di Bingen»®, Esempi, 'una e I’altro, del- © Anche se temo che il livello della «media cultura liceale», negli oltre vent’anni che ci separano dall’uscita del Nome della rosa, si sia non di poco abbassato, tanto da non consentire pit, a molti, l’individuazione di queste citazioni inserite nel romanzo. Di que- ste come di alire: ad esempio quella, manzoniana, di p. 428, dove del bibliotecario Mala- chia il narratore dice: «Ora avevo appreso che forse era un poveretto, oppresso da pas- sioni insoddisfatte, vaso di coccio tra vasi di ferro» (per i rapporti di Eco romanziere col modello dei Promessi sposi cfr. ora A. Corsaro, Le modéle manzonien et Ie roman con- temporain. Quelques remarques sur Eco et Calvino, in Aspects du roman italien awe XIX* et XX* siecles. Etudes réunies et présentées par D. Alexandre, Saint-Etienne, Publi- cations de "Université de Saint-Etienne, 2000, pp. 19-41: 29-41). 7 Si tratta propriamente di parole desunte dal capitolo IV della regola di san Benedet- to; Eco le ha trovate citate da E.R. Curtius, Letteratura europea cit., p. 469. * U. Eco, Postille a «Il nome della rosa», Milano, Bompiani, 1983, p. 27 (e prima in «Alfabeta», 49, giugno 1983, pp. 19-22). te «Un centone, un carme a figura, un immenso acrostico» 301 Patteggiamento (tanto consono a Eco e alla sua idea della letteratura e della vita) di chi non solo «narra», ma «vive» le sue esperienze sempre e soltanto attraverso il filtro della parola scritta. Un’altra di queste citazioni «esplicite» si rinviene nel primo dei due «elo- gi» di Dante sopra riportati: elogi non privi di una sfumatura ironica, se & ve- ro che sono pronunciati da due monaci (Adso e Guglielmo) che, per loro stessa ammissione, non conoscono il volgare toscano, e quindi non possono leggere la Commedia. Ma, nel primo dei due passi, Eco si sovrappone ad Ad- so, giacché quest’ ultimo, per il motivo appena detto, non avrebbe potuto cita- re alla lettera Par., XXV, 1-2: «Se mai continga che ’l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Adso: «Dante Alighieri da Firenze, morto da pochi anni, aveva composto un poema [...] a cui avevano posto mano e cielo e terra»). Viceversa, l’affermazione secondo cui «molti versi [della Comme- dia] altro non erano che una parafrasi di brani scritti da Ubertino nel suo Ar- bor vitae crucifixae» meglio si attaglia a chi del poema poteva avere solo una conoscenza indiretta: echi dell’ Arbor vitae crucifixae, come per primo vide Umberto Bosco, si rintracciano soltanto in pochi versi dell’elogio di san Francesco nell’XI del Paradiso, mentre nel canto XII della medesima cantica Vestremistico rigorismo di Ubertino viene giudicato negativamente (v. 124). Tuttavia, nelle pagine immediatamente seguenti del romanzo, anche la rievo- cazione (condotta da Adso) della nascita del francescanesimo, della sua de- generazione e dello scatenarsi dei conflitti tra conventuali e spirituali, non & priva di qualche risonanza dantesca. Quando si accenna a Gioacchino da Fio- re, «a cui si attribuiva spirito di profezia» (p. 57), il pensiero corre al «cala- yrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato» (Par., XIL, 140-141); € poco pit avanti si esaltano, quali frutti pid alti dei nuovi ordini (il domenica- no e il francescano), Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio, cui sono affidate — nei canti XI e XII del Paradiso — le lodi, rispettivamente, di Francesco e di Domenico. A un livello leggermente diverso si collocano altre presenze dantesche, come quelle che si sorprendono nelle prime pagine del capitolo Sesta del Pri- ‘mo giorno: allusioni, pit che vere e proprie e palesi «citazioni», e come tali meno immediatamente individuabili. In questa pagina del romanzo, Adso de- scrive lo splendido portale della chiesa: le immagini scolpite sono desunte dall’Apocalisse, ma la loro stupefacente perfezione & evocata pensando al- Vammirata reazione di Dante di fronte ai bassorilievi che ornano il cerchio dei superbi nel X del Purgatorio. Adso parla del «muto discorso della pietra istoriata» (p. 48), ed & evidente che il suo ossimoro rovescia quello dantesco: «esto visibile parlare» (Purg., X, 95). Pitt avanti, mentre guarda i ventiquat- tro vegliardi che cantano le lodi di Dio, ad Adso pare di udire il loro canto gioioso, il loro «giubilo allelujatico divenuto prodigiosamente, da suono che era, immagine» (p. 50). Analogamente, a Dante sembra di sentire il canto de- gli ebrei che, divisi in sette schiere, accompagnano la traslazione dell’arca santa da Epata a Gerusalemme: 302 Francesco Bausi Dinanzi parea gente; e tutta quanta, partita in sette cori, a’ due mie’ sensi faceva dir l'un «No», I'altro «Si, canta» (Purg.,X, 58-60) Non a caso, un particolare di questa stessa scena (la danza di Davide davanti all’arca: 2 Reg., 6, 1-16, e Dante, Purg., X, 64-66) viene evocato dallo stesso Adso nella medesima pagina, dove i ventiquattro vegliardi sembrano muo- versi «con movenze di danza estatica — come dovette danzare Davide intorno all’arca» (p. 50). E la serpeggiante presenza della Commedia emerge anche poco pi oltre, quando, facendo appello questa volta al Dante pid ovvio, Ad- so afferma che «l’intera popolazione degli inferi pareva essersi data conve- gno per far da vestibolo, selva oscura, landa disperata dell’esclusione> (p. 52, corsivo mio). Citazioni pid propriamente «dotte» — ma sempre dotate di una loro «rico- noscibilita» — sono invece quelle da Orazio e da Agostino. La pid evidente ci- tazione agostiniana si rintraccia (come da piti parti & stato gia osservato) nel- V Ultimo folio, dove — in un passo sopra citato — Adso, parlando dei frammen- ti di libri da lui trovati fra i resti dell’abbazia, scrive: «Quando ritrovai nel tempo altre copie di quei libri, li studiai con amore, come se il fato mi avesse lasciato quel legato, come se l’averne individuato la copia distrutta fosse sta- to un segno chiaro del cielo che diceva tolle et lege» (p. 502). Tolle et lege: citazione di un celebre Iuogo delle Confessiones (VIII, 12), in cui il santo di Ippona narra di quando, mentre piangeva i suoi peccati sotto un albero di fi- co, udi all’improvviso una voce da una casa vicina: «Tolle lege, tolle lege»; parole che lo spinsero a prendere in mano il volume dell’apostolo Paolo e a leggere il primo versetto che gli cadde sotto gli occhi, dando cos} inizio al suo processo di rigenerazione spirituale. Citazione «facile», certo, ma meno facile di certe citazioni dantesche esaminate in precedenza: ci troviamo — ri- spetto a quelle ~ ad un gradino pid in alto, anche se (come spesso accade nel tomanzo) la citazione appare decontestualizzata e risemantizzata, 0 meglio desemantizzata, cosicché la sua individuazione (e la conoscenza del testo da cui essa proviene) non @ indispensabile per la comprensione del passo in cui 8 inserita. Indispensabile @ soltanto la sua intelligenza letterale, peraltro non ardua e anzi intuitiva, anche perché agevolata dal contesto. Un po’ diverso il caso dell’altra citazione agostiniana su cui vorrei indu- giare un momento. Siamo nel capitolo Vespri del Primo giorno, e Guglielmo, discutendo con Nicola da Morimondo, maestro vetraio dell’abbazia, delle scoperte scientifiche contenute nei «libri degli infedeli», afferma a un certo punto: «E di tutte queste conoscenze una scienza cristiana dovra Teimposses- sarsi, ¢ riprenderla ai pagani e agli infedeli tamquam ab iniustis possessori- bus» (p. 95)°. Guglielmo sta qui citando un luogo del De doctrina Christiana di Agostino II, 40: * Forse il passo contiene un refuso: 1on «tiprenderla», ma «riprenderle» (riferito alle «Un centone, un carme a figura, un immenso acrostico» 303 Philosophi autem qui vocantur, si qua forte vera et fidei nostrae accommodata dixerunt, maxime Platonici, non solum formidanda non sunt, sed ab eis etiam ran- quam iniustis possessoribus in usum nostrum vindicanda, Qui la citazione sembra (e il motivo per cui dico «sembra» apparira chiaro pit avanti) fedele sotto tutti gli aspetti. Guglielmo si limita a trasferire alle scoperte scientifiche quello che Agostino dice delle verita filosofiche, ma identico @ il concetto: i pagani sono «possessori impropri» delle loro stesse scoperte, € di queste il cristiano ha il diritto e il dovere di impossessarsi, qua- le unico legittimo «proprietario», giacché egli é il solo depositario della Ve- rita, cui ogni singola e parziale «verit’» si riferisce e fa capo (ed @ questa la ragione per cui i pagani — prosegue Agostino — non sanno mettere a profitto le loro stesse intuizioni, ossia non le sanno ricomporre in un’organica e uni- taria «sapienza»)"”. Non si tratta, propriamente, di una citazione peregrina (le parole agostiniane sono state infatti riprese da innumerevoli autori — per ri- cordarne solo uno, Giovanni Pico della Mirandola nell’Heptaplus)"; ma la sua individuazione & necessaria per cogliere pienamente il senso dell’affer- mazione di Guglielmo sul rapporto fra scienza pagana e religione cristiana, e per acquisire consapevolezza del secolare dibattito cui quell’affermazione vuole alludere. Quel che pit interessa, perd, é il fatto che — come vedremo tra breve — si tratta di una citazione «indiretta», ossia di seconda mano. Allo stesso livello si situano le citazioni oraziane, di identificazione non certo difficile per chi abbia una qualche familiarita con la letteratura latina (una familiarita che, per Eco e per i lettori della sua generazione, potrebbe dirsi di nuovo «liceale). Con la differenza, perd, che in questo caso siamo di fronte a citazioni puramente esornative: come quando Malachia, per illustra- re Je miniature di Adelmo da Otranto, dice che egli «aveva una immaginazio- ne molto vivace e da cose note sapeva comporre cose ignote e sorprendenti, come chi unisse un corpo umano a una cervice equina» (p. 84), con traduzio- ne quasi letterale dall’esordio dell’Ars poetica (1-2: «Humano capiti cervi- cem pictor equinam / iungere si velit»). O quando Guglielmo, alludendo alla preferenza accordata dai bibliotecari dell’abbazia ai pid duraturi codici in pergamena, commenta: «Immaginiamoci se qui volevano qualcosa che non fosse pitt perenne del bronzo» (da Carm., III, 30, 1: «Exegi monumentum ae- re perennius»). Citazioni, entrambe, dell’ Orazio pit noto e — almeno una vol- ta — pid scolasticamente frequentato. «conoscenze>). Gli errori di stampa, d’altronde, non sono rari nel Nome della rosa: un altro (perd probabile, non certo) lo segnalo nelle pagine seguenti, © Quest'idea ricorre anche in altri luoghi agostiniani: cfr. ad es. Confessiones, V, 6 VIL, 9; Contra litteras Petiliani Donatistae, 11, 30. 1! Cfr. F. Bausi, Giovanni Pico della Mirandola: filosofia, teologia, religione, in «In- terpres», XVIII, 1999, pp. 74-90: 87. 304 Francesco Bausi IL. Accidenti della citazione (di seconda mano): il riso e il mondo alla rovescia Le pagine del romanzo dedicate alle discussioni sul riso e sul rapporto fra magia e scienza possono bene esemplificare uno dei tipi di citazione pid inte- ressanti (e pit frequenti) praticati da Eco: la citazione «di seconda mano». Fra i testi pid utilizzati da Eco & senza dubbio Letteratura europea e Medio Evo latino di Ernst Robert Curtius; in particolare, come da tempo & stato sot- tolineato, quasi tutto cid che si dicono Guglielmo e Jorge discutendo della li- ceit& del riso in due capitoli del romanzo deriva, spesso alla lettera, dal quar- to degli excursus (intitolato I serio e il faceto nella letteratura medievale) che concludono la monumentale opera di Curtius!?. Qui mi preme perd evi- denziare certi «scarti> che il romanzo presenta rispetto alla «fonte», Nella prima delle due pagine in questione, dove la disputa si svolge durante una sontuosa cena alla tavola dell abate, leggiamo fra altro: «Manduca, jam coctum est» sussurrd Guglielmo. «Cosa?» chiese Jorge, che credeva che egli alludesse a qualche cibo che gli veni- va porto. «Sono le parole che secondo Ambrogio furono pronunziate da san Lorenzo sulla graticola, quando invitd i carnefici a girarlo dall’altra parte, come ricorda anche Prudenzio nel Peristephanon,», disse Guglielmo con I’aria di un santo, «San Lo- renzo sapeva dunque ridere e dir cose ridicole, sia pure per umiliare i propri ne- mici». (p. 103) L’aneddoto, celeberrimo, é cosi narrato dal Curtius: Liopera di Prudenzio sui martiri merita, nel quadro del nostro studio, di essere analizzata pid a fondo, in quanto offre un esempio di umorismo grottesco nel- Vambito di una composizione poetica di carattere sacro. Il poeta fa dire a s. L renzo, martirizzato sulla graticola ardente, le seguenti parole rivolte all’aiutante del camefice (Peristeph., Il 401-408]: «Converte parte corporis ? ER. Curtius, Letteratura europea cit., pp. 465-486; e vd., per il rinvio, K. Ickert e U. Schick, I! segreto della rosa cit., pp. 109-111. Per comodita cito il libro del Curtius secondo la traduzione italiana, anche se, questa essendo apparsa solo nel 1992, & ovvio che Eco si sia servito della traduzione inglese (uscita primamente nel 1953) 0 di quella francese (edita per la prima volta nel 1956). Escluderei invece il ricorso diretto all’edi- zione originale tedesca, visto che di questa lingua Eco non sembra avere piena padronan- za (vd. gli errori rilevati da D. McGrady, Poetry by Reinmar von Zweter in Eco’s «Il no- me della rosa»,in «The Italianist», XVI, 1997, pp. 117-122: 122; e qui la nota 17); d’al- tronde, nel saggio su L’epistola XII, Vallegorismo medievale, il simbolismo moderno (1984, in U. Eco, Sugli specchi e altri saggi, Milano, Bompiani, 1985, pp. 215-241: 241 nota 15), il libro di Curtivs & si citato, in nota, dall’edizione tedesca, maa testo (p. 233) il passo in questione risulta tradotto in italiano (¢ la stessa cosa accade per gli aforismi di Goethe, pp. 240 nota 3 e pp. 217-218). «Un centone, un carme a figura, un immenso acrostico> 305 Satis crematam iugiter Et fac periclum, quid tuus Vulcanus ardens egerit». Praefectus inverti iubet. Tunc ille: «coctum est, devora»: Bt experimentum cape, Sit crudum an assum suavius», -] Prudenzio ha solo messo in versi un detto del martire (assum est, versa et manduca), tramandato da Ambrogio [...] Lo Pseudo-Agostino serive: Versate me; rex, manduca, iam coctum est", Eco segue fedelmente Curtius, ma attribuisce ad Ambrogio quelle che sono invece le parole dello Pseudo-Agostino («Manduca, iam coctum est»): errore 0 libero e intenzionale «rimescolamento» delle carte intertestuali? Impossibi- le dirlo. Pit chiara sembra invece l’eziologia del fenomeno in un passo della seconda discussione che Guglielmo e Jorge intrattengono sul riso (pp. 138- 140): Spesso il riso serve anche a confondere i malvagi ¢ far rifulgere la loro stoltezza, Si racconta di san Mauro che i pagani lo posero nell’acqua bollente ed egli si la- mentd che il bagno fosse troppo freddo; il governatore pagano mise stoltamente la mano nell’ acqua per controllare, si ustiond. Bella azione di quel santo martire che ridicolizzd i nemici della fede. (pp. 139-140) Guglielmo narra qui un aneddoto tratto dalla passio di santa Maura, riferito (sulla base di uno studio di Hippolyte Delehaye) dal solito Curtius: Colpisce [a proposito dell’episodio, sopra ricordato, di san Lorenzo] I'analogia offerta dalla passio di S. Maura, analizzata da Delehaye: plongée dans une chau- didre d'eau bouillante, elle plaisante le gouverneur, qui lui fait prendre, dit-elle, un bain malheureusement un peu froid. Le gouverneur veut s’assurer par lui-mé- me de la température de l'eau, et apprend a ses dépens que les ordres ont été bien executes! La trasformazione di santa Maura in san Mauro non é attribuibile a un refuso (vedi infatti lo posero, egli si lamentd), ma, probabilmente, a un errore del- Vautore, imputabile non tanto ~ credo — alla memoria, quanto a una svista nella compilazione della «scheda» qui utilizzata, o alla concitazione della stesura (ed errori di tal genere, come si sa, sfuggono alla correzione delle bozze, a meno che ~ ma come avrebbe potuto farlo Eco? — l’autore non si sobbarchi alla fatica di ricontrollare una per una tutte le citazioni). Qualcosa PBR. Curtius, Letteratura europea cit., pp. 475-476, 14 Ivi, p. 476 (il corsivo & nel testo). 306 Francesco Bausi di analogo potrebbe essere accaduto nell’evocazione, da parte di Adso, del topos del «mondo alla rovescia»: La gioventii non vuole apprendere pid nulla, la scienza é in decadenza, il mondo intero cammina sulla testa, dei ciechi conducono altri ciechi e li fan precipitare negli abissi, gli uccelli si lanciano prima di aver preso il volo, l’asino suona la li- ra, i buoi danzano, Maria non ama pit la vita contemplativa e Marta non ama pitt la vita attiva, Lea @ sterile, Rachele ha l’occhio carnale, Catone frequenta i lupa- nari, Lucrezio diventa femmina. Tutto & sviato dal proprio cammino. (p. 23) Lo spunto deriva, alla lettera, dal VI dei Carmina Burana («Florebat olim studium»)!5, ma fruito, nuovamente, per il tramite di Curtius, che ne fornisce una traduzione-parafrasi su cui Eco, manifestamente, si @ fondato: La poesia incomincia come «lamento contro il tempo presente»: i giovani non vo- gliono pid studiare! La scienza decade! Tutto il mondo — cosi continua il ragiona- mento ~ & capovolto! I ciechi guidano i ciechi, facendoli cadere nell’abisso; gli uccelli volano prima di avere le ali; l’asino suona il liuto; i buoi ballano; i servi della gleba si arruolano soldati. I padri della Chiesa Gregorio, Girolamo, Agosti- no, e Benedetto, il padre dei monaci, possono trovarsi allosteria, 0 sotto giudizio, al mercato delle cari; a Maria non piace pitt la vita contemplativa, né a Marta quella attiva; Lea & diventata sterile, e Rachele cisposa; Catone frequenta le betto- le, ¢ Lucrezia fa la meretrice. Cid che prima si condannava ora viene magnificato. Tutto é uscito dalla carreggiata!®, Anche qui, minimi aggiustamenti e lievi modifiche, che perd lasciano talora perplessi. «Gli uccelli si lanciano prima di aver preso il volo», scrive Eco; ma forse «preso» & errore (di stampa?) per «appreso», visto che Curtius para- frasa «gli uccelli volano prima di avere le ali» (in tedesco: «Végel fliegen, che sie fliigge sind»), e nei Carmina Burana (v. 17) si legge «implumes aves volitant>, «Rachele ha Pocchio carnale»: strano enunciato, giacché qui do- vrebbero essere rovesciate le caratteristiche attribuite nel Genesi alle due so- relle Lia e Rachele, la prima cisposa ma feconda, la seconda bella d’aspetto ma sterile (29, 17: «Sed Lia lippis erat oculis, Rachel decora facie et venusto aspectu»); i Carmina leggono infatti «Rachel lippescit oculis» (v. 32), tradot- to da Curtius con «Rachele [8] cisposa» (in tedesco: «Rahel triefaugig geworden»). Incongruo & dungue «l’occhio carnale» attribuito nel romanzo alla figlia minore di Giacobbe. Ma l’incongruenza pit vistosa si registra poco dopo, quando leggiamo che «Lucrezio diventa femmina», mentre dovrebbe ovviamente trattarsi della castissima matrona romana Lucrezia («Lucrezia fa 'S Carmina Burana {...], kritisch herausgegeben von A. Hilka und O. Schumann, Heidelberg, Carl Winter's Universititsbuchhandlung, 1930-1941, I, pp. 7-8. ‘SE. R. Curtius, Letteratura europea cit., p. 111. «Un centone, un carme a figura, un immenso acrostico» 307 la meretrice», «Lucrezia wird Dirne», scrive Curtius; e nei Carmina, 35-36: «Et castitas Lucretie / turpi servit lascivie»). C’é chi ha parlato, a questo pro- posito, di errore di stampa; & possibile, ma potrebbe trattarsi anche d’altro, tanto pit che in questa pagina si contano, come abbiamo visto, svariate «ano- malie». Lucrezio potrebbe dunque essere un errore d’autore (come il san Mauro di cui sopra), oppure ~ ma meno probabilmente — una voluta altera- zione della fonte da parte di Eco (d’altra parte, anche il Lucrezio che «diven- ta femmina» & un «rovesciamento»)"”, Certo & che I’«errore» (qualunque ne sia Vorigine e la natura) cade per l’appunto in un luogo di particolare ambi- guita, visto che femmina, nella lingua antica (ma i lessici riportano esempi fi- no al Novecento), vale anche — come certamente Eco sa benissimo — ‘mere- trice’; e nella Mandragola di Machiavelli messer Nicia dice, a proposito di sua moglie Lucrezia: «Io non vo’ fare la donna mia femmina e me becco» (at- to II, scena VI)'*. Insomma, come scrive lo stesso Eco nelle Postille (pren- dendo spunto da un involontario «corto-circuito» prodotto nel romanzo da un’aggiunta inserita in bozze), «il testo @ li, e produce i propri effetti», qua- lunque sia ~ ripeto ~ ’origine di quel Lucrezio; e anche in questo caso, I’au- tore potrebbe legittimamente affermare: «Che io lo volessi o no, ora si é di fronte a una domanda, a una provocazione ambigua»"?, Che Eco «saccheggi» Curtius”® (cosi come, & stato dimostrato, attinge a ‘7B invece da escludere che le incongruenze sopra elencate dipendano dalla traduzio- ne del libro di Curtius utilizzata da Eco per il Nome della rosa (vd. sopra, nota 12), giac- ché tanto quella francese, quanto quella inglese (nonché l’originale tedesco) non danno — nei passi in questione ~ adito ad equivoci. Un caso di questo genere si verifica invece. come ha mostrato Carlo Ossola (Figurato e rimosso cit., p. 288), nella citazione tedesca da Angelo Silesio («Gott ist ein lautes Nicht, ihn rihrt kein Nun noch Hier»: ‘Dio @ un puro nulla, non to tocca né I'Ora né il Qui’: 12 nome della rosa cit., p. 503), viziata da un errore di stampa (lautes “sonoro’ per lauter ‘puro’) proveniente dalla versione italiana dell’ Autunno del Medio Evo di Huizinga (Torino, Einaudi, 1966°, p. 309), donde Eco ha ricavato il passo. 8 N. Machiavelli, Teatro (Andria, Mandragola, Clizia), a cura di G. Davico Bonino, Torino, Einaudi, 2001, p. 91. '°U. Eco, Postille cit., p. 10. ® Ma va comunque tenuto presente che Eco affianca a Curtius anche altre fonti. Ad esempio, affermando, in un passo sopra citato, che «il riso [...] @ proprio dell’uomo», Eco ha certo in mente I’ultimo dei versi «ai lettori» che precedono il Gargantua et Pan- tagruel («Rider soprattutto @ cosa umana», nella traduzione di Mario Bonfantini, Torino, Einaudi, 1993, p. 5). E quando fa dire a Jorge che «il riso squassa il corpo, deforma i li- neamenti del viso, rende l’uomo simile alla scimmia», aggunge un dettaglio (sconosciuto al Curtius) per il quale saprei rinviare — pur nella consapevolezza che altra sar& probabil- mente stata la fonte diretta di Eco — solo a G. Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia, acura di G. Padoan, Milano, Mondadori, 1994, p. 205: «fi il riso solamente all’umana spezie conceduto [...] B il vero che questo riso non in una medesima maniera l’usano gli 308 Francesco Bausi piene mani anche a un altro «classico» dei moderni studi medievistici, ’Hui- zinga dell’ Autunno del Medio Evo) potra stupire solo chi ignora come (se~ condo il noto aforisma di Eliot) gli scrittori mediocri « 309 bri» analoga a quella di Guglielmo da Baskerville ~ egli possa alla fine riu- scire a smascherare Eco”, e a riconoscerlo come (per riprendere la semiseria definizione di Dante proposta a Contini dal medesimo Curtius, «indispettito dalle reticenze documentarie» del poeta) «ein grosser Mystificator»?5, IIL. Magia e scienza in Ruggero Bacone (ancora sulla citazione di seconda mano) In due capitoli del romanzo, Guglielmo si sofferma sui rapporti tra magia e scienza, distinguendo fra magia illecita e magia lecita, e accostando que- st’ultima alla scienza sperimentale e alla tecnica, grazie alle quali — egli af- ferma — i dotti potranno in un prossimo futuro realizzare strumenti e macchi- ne capaci di migliorare la vita dell’intera umanita. Leggiamo, in parte, il pri- mo dei due passi: I francescani che avevo conosciuto in Italia e nella mia terra erano uomini sem- plici, sovente illetterati, ¢ mi stupii con Iui della sua sapienza. Ma egli mi disse sorridendo che i francescani delle sue isole erano di stampo diverso: «Ruggiero Bacone, che io venero quale maestro, ci ha insegnato che il piano divino passer’ un giorno per la scienza delle machine, che ¢ magia naturale e santa. E un giorno per forza di natura si potranno fare strumenti di navigazione per cui le navi vada- no unico homine regente, e ben pit rapide di quelle spinte da vela o da remi; e vi saranno carti «ut sine animali moveantur cum impetu inaestimabili, et instrumen- ta volandi et homo sedens in medio instrumenti revolyens aliquod ingenium per quod alae artificialiter compositae aerem verberent, ad modum avis volantis». E strumenti piccolissimi che sollevino pesi infiniti e veicoli che permettano di viag- giare sul fondo del mare». Quando gli chiesi dove fossero queste machine, mi disse che crano gia state fatte nell’ antichita, e alcune persino ai tempi nostri: «Ee- cetto lo strumento per volare, che non vidi, né conobbi chi lo avesse visto, ma co- nosco un sapiente che lo ha pensato. E si possono fare ponti che valichino i fiumi senza colonne 0 altro sostentamento e altre macchine inaudite. (pp. 25-26) Guglielmo cita Ruggero Bacone, e in effetti il suo discorso riproduce, tradu- ce alla lettera o fedelmente parafrasa un brano di una delle pid importanti opere baconiane, l’epistola De secretis operibus artis et naturae (1260 ca.). Ma Eco non si é letto tutto Bacone”; il brano in questione lo ha trovato in 24 Lo osserva anche D. McGrady, Poetry cit., p. 119, secondo il quale Eco «often in Il nome della rosa acts as a pseudo-criminal, deliberately leaving a trail to be followed by the attentive reader who attempts to solve his many mysteries» (¢ p. 118: «il nome della rosa is a detective novel with a thousand different mysteries to be solved by the active reader, most of them relating [...] to texts silently quoted by the author») % Cfr. G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca (1951), in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, pp.169-192: 175. 25 Come sembra invece credere G. Zecchini, I! Medioevo di Umberto Eco, in Saggi su «Il nome della rosa cit., pp. 341-346 (pagine comungue utili per verificare la abile 310 Francesco Bausi una monografia sul filosofo inglese uscita nel 1957, Mito e scienza in Rugge- ro Bacone, di Franco Alessio, donde lo ha ripreso quasi alla lettera (in corsi- vo stampo le poche parti trascurate da Eco): Narrabo igitur nunc primo opera artis et naturae miranda, ut postea causas et modum eorum assignem: in quibus nihil magicum est... Nam instrumenta navi- gandi possunt fieri hominibus remingantibus {sic], ut naves maximae fluviales et marinae ferantur unico homine regente, maiori velocitate quam si plenae essent hominibus navigantibus. Curmus possunt fieri ut sine animali moveantur cum im- petu inaestimabili, ut existimamus currus falcati fuisse quibus antiquitus pugna- batur, Possunt fieri instrumenta volandi, et homo sedens in medio instrumenti re- volvens aliquod ingenium, per quod alae artificialiter compositae aerem verbe- rent, ad modum avis volantis. Item fieri potest instrumentum parvum in quantitate ad elevandum et deprimendum pondera quasi infinita... Potest etiam de facili fie- 11 instrumentum quo unus homo traheret ad se mille homines per violentiam ipsis invitis... Possunt etiam fieri instrumenta ambulandi in mari et in fluviis usque ad fundum absque periculo corporali... Haec autem facta sunt antiquitus et nostris, temporibus. Et certum est praeter instrumentum volandi quod non vidi, nec homi- nem qui vidisset cognovi, sed sapientem qui hoc artificium excogitavit explicite cognosco, Et infinita alia possunt fieri, ut pontes ultra flumina, sine columma vel aliquo sustentaculo, et machinae et ingenia inaudita””. Che Eco abbia letto il saggio di Alessio non stupisce, soprattutto se pensiamo che esso usci — come ho detto — nel 1957, quando Eco era ancora a tutti gli effetti un medievista in servizio attivo (nel 1954 si era laureato discutendo una tesi sull’estetica di san Tommaso d’ Aquino, apparsa poi in volume nel 1956 col titolo II problema estetico in san Tommaso); né stupisce che lo uti- lizzi, visto che il Nome della rosa sfrutta come «fonti» anche altri testi saggi- stici di argomento medioevale, fra cui il quasi coevo libro di Rosario Assunto La critica d’arte nel pensiero medievale (Milano, Il Saggiatore, 1961), utiliz. zato ampiamente per le osservazioni ¢ le digressioni di estetica e di «storia dell’arte» presenti nel romanzo*®. Anzi, si pud dire senza esitazioni che il li- bro di Alessio é uno dei testi-chiave, una delle fonti primarie del Nome della rosa, € in particolare del personaggio di Guglielmo, il quale, se per certi aspetti appare modellato (a cominciare dal nome) su Guglielmo di Occam”, . 31 A questo proposito, Eco mette in bocca ad Adso una definizione e una etimologia delle «arti meccaniche» («Pareva non potesse pensare se non con le mani, cosa che allo- ra mi pareva pill degna di un meccanico — e mi era stato insegnato che il meccanico & moechus, e commette adulterio nei confronti della vita intellettuale a cui dovrebbe essere unito in castissimo sponsale»: p. 25) che deriva direttamente da Ugo di San Vittore, Di- dascalicon, 1, 9: «Scientia vero, quia opera humana prosequitur, congrue mechanica, id est adulterina vocatur»; ¢ II, 21: «Hae [scil. le arti meccaniche} mechanicae appellantur, id est adulterinae, quia de opere artificis agunt quod a natura formam mutuatur» (PL CLXXVI, rispettivamente 747 ¢ 760). Il Didascalicon ~ dall’edizione compresa nella Patrologia Latina del Migne —® citato da Eco sia in Semiotica e filosofia del linguaggio Torino, Einaudi, 1996 = 1984', p. 166), sia nel saggio sul commento all’ Apocalisse di Beato di Ligbana (Palinsesto su Beato, in Beato di Litbana, Miniature del Beato de Fer- nando Iy Sancha, testo e commenti alle tavole di U. Eco, Parma, Ricci, 1973, pp. 21-79: 68). 312 Francesco Bausi E questa & magia santa, a cui i sapienti dovranno sempre pit dedicarsi, non solo per scoprire cose nuove ma per riscoprire tanti segreti di natura che la sapienza divina aveva rivelato agli ebrei, ai greci, ad altri popoli antichi e persino oggi agli infedeli (e non ti dico quante cose meravigliose di ottica e di scienza della visione vi siano nei libri degli infedeli!). E di mtte queste conoscenze una scienza cristia- na dovra reimpossessarsi, ¢ riprenderla ai pagani e agli infedeli tamquam ab iniu- stis possessoribus. (p. 95) Dell’ ultima frase ci siamo gia occupati in precedenza, rintracciandovi una ci- tazione agostiniana («Tamquam ab iniustis possessoribus»), ¢ anticipando che la citazione & in realt& di seconda mano; essa deriva infatti, al pari delle righe che la precedono, dal volume di Alessio, dove si ricorda — a proposito dell’ Opus maius di Bacone — che secondo il filosofo inglese il compito deci- sivo per i dotti del suo tempo era «ricuperare al mondo cristiano, a cui spetta- no come patrimonio di diritto, le conoscenze ed i principi originariamente ri- velati da Dio e, versati in lingue appena schiuse ai latini, ancora trattenuti da ebrei, greci, arabi “tamquam ab iniustis possessoribus”»”. Che la citazione agostiniana derivi a Eco da qui®? @ confermato da quell’ «ab», assente nelle edizioni moderne del De docirina Christiana (dove, nel luogo sopra riporta- to, si legge «ab eis etiam tanquam iniustis possessoribus»). E ancora. Poco pid avanti, dopo una nuova citazione esplicita di Bacone (il cui nome ricorre spesso in bocca a Guglielmo)*, ci imbattiamo in un passo del genere: Vedi, mi & accaduto di conoscere medici abilissimi che avevano distillato medica- ‘menti capaci di guarire immantinenti una malattia. Ma costoro davano il loro un- guento o infuso ai semplici accompagnandolo con parole sacre e salmodiando frasi che parevano preghiere, Non perché queste preghiere avessero potere di gua- rire, ma perché credendo che la guarigione venisse dalle preghiere i semplici in- ghiottissero I’infuso o si cospargessero con l'unguento, e cosi guarissero, senza prestare troppa attenzione alla sua forza effettiva. E poi anche perché l’animo, be- ne eccitato dalla fiducia nella formula devota, si disponesse meglio all’azione corporale del medicamento. (p. 96) 2 Alessio, Mito e scienza cit., p. 46. % E questo nonostante che Eco conosca senza dubbio pitt che bene il De doctrina Christiana (in cui, come abbiamo detto in precedenza, quelle parole si trovano): lo cita infatti, ad altro proposito, sia nel saggio Palinsesto su Beato cit., pp. 47-48, sia ne L'epistola XII cit., pp. 223-225 (dove, a p. 223, si afferma che nel De doctrina Christiana Agostino «elabora quella che oggi chiameremmo una semiotica testuale ¢ certamente una metodologia ermeneutica»). + ¢E infine, avvertiva il grande Ruggiero Bacone, non sempre i segreti della scienza debbono andare nelle mani di tutti, ché alcuni potrebbero usame per cattivi propositi» (p. 95). Cf. F. Alessio, Mito e scienza cit., p. 223: «L’ermetismo garantiva appunto, col con- cedere i risultati ma non i principi tecnico-scientifici, che i popoli della respublica fide- Tium non abusassero dei risultati stessi e della capacita di crearne di nuovi in direzioni che ayrebbero potuto anche nuocere sia alla respublica fidelium come tale, sia alla chiesa. «Un centone, un carme a figura, un immenso acrostico» 313 Passo che altro non @ se non la traduzione-parafrasi di un brano della gia menzionata epistola De secretis operibus artis et naturae, desunto al solito dalla monografia di Alessio: Medicus peritus et alius quicumque qui habet animam excitare, per carmina et characteres licet fictos, utiliter potest adhibere; non quia ipsi characteres et carmi- na aliquis operentur, sed ut devotius et avidius medicina recipiatur et animus pa- tientis excitetur, et confidat uberius et speret et congaudeat; quoniam anima exci- tata potest in corpore proprio multa renovare™. Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi. A un certo punto, Guglielmo da Ba- skerville illustra ad Adso «i portenti dell’orologio, dell’astrolabio e del ma- gnete> (p. 25): tem, soprattutto gli ultimi due, particolarmente cari a Bacone, come Alessio illustra ampiamente, insistendo sulle trattazioni dell’astrolabio e del magnete incluse nell’Opus minus ¢ nell’epistola De secretis*®. Altrove, lo stesso Guglielmo, rimproverando Adso per aver confuso (nel laboratorio di Severino erborista) un libro in greco con uno in arabo, esclama: «Aveva ragione Bacone che il primo dovere del sapiente @ studiare le lingue!» (p. 366; e gid a p. 170: «Bacone aveva ragione a dire che la conquista del sapere passa attraverso la conoscenza delle lingue»); con una nuova citazione espli- cita di Bacone, che ci respinge a quel passo dell’Opus minus — riportato, ov- viamente, dall’ Alessio — in cui il filosofo inglese critica Alberto Magno per la sua ignoranza delle lingue: «Cum ignorat linguas non est possibile quod aliquid sciat magnificum, propter rationes quas scribo, de linguarum cogni- tione»*”. Anzi, Alessio ricorda un curioso episodio (errore commesso da Bacone durante una sua lezione sullo pseudo aristotelico De plantis, quando, prendendo per arabo un termine spagnolo, dovette sopportare i lazzi degli % Jvi, p. 221, dove la citazione baconiana @ preceduta dalle seguenti parole: «ll sa- piente stesso, per particolari necessita derivanti dalla situazione delicata in cui é storica- mente immerso ~ fra teologia da una parte ¢ simplices indotti d’altra parte ~ pud ¢ talora deve velare di un alone mitico e magico i suoi ritrovati. Pud, come il medico i suoi far- maci, cosi egli stesso fornire i mezzi pratici ricavati da rigorosi propter quid, sotto il ve- lame di strani versi magici». % Ivi, pp. 207-210 e 239-245. Lo stesso pud dirsi per la bussola, riguardo alla quale Guglielmo cita ancora Bacone ¢ Pietro di Maricourt (p. 217: «li stata studiata da Bacone e da un mago piccardo, Pietro da Maricourt, che ne ha descritto i molteplici usi»), in una pagina nuovamente fondata sulla monografia dell’ Alessio (p. 240, donde anche la cita- zione dal De magnere di Pietro da Maricourt, a p. 218 del romanzo: «Hic lapis gerit in se similitudinem coeli», con una piccola imprecisione di Eco, giacché il passo di Pietro re- cita propriamente «in se gerit»). » Ivi, p. 49. Poco sopra (p. 44), "Alessio sottolinea come Bacone considerasse quali teri distintivi dell'intera filosofia «parigina» I’ «ignoranza delle lingue» e I’«insensi- per la rilevanza che il loro studio riveste per lo sviluppo della cultura cristiana». 314 Francesco Bausi studenti) che potrebbe essere la «fonte» dell’analogo errore di Adso (che, ignorando I’uno e I’altro, confonde il greco con l’arabo, e si guadagna per questo il rimbrotto del suo maestro). Ma @, ripeto, la complessiva concezione del ruolo e del valore della cultura scientifica che fa di Guglielmo un autenti- co discepolo di Bacone. Come scrive Alessio, infatti, «l’idea a cui Ruggero Bacone dedicé l’esistenza [...] consisteva [...] anzitutto nel credere che le verita ¢ le conoscenze effettive potessero e dovessero costituire veramente qualcosa di vivo, lo strumento d’una profonda trasformazione dell’uomo e della natura e dei loro rapporti»?*; parole cui fanno eco quelle di Guglielmo nel Nome della rosa (p. 95): «La scienza di Dio si manifesta attraverso la scienza dell’uomo, che serve a trasformare la natura, e uno dei cui fini é pro- lungare la vita stessa dell’ uomo»”?. IV. Fonti nascoste (ma non troppo) 1. L'iniziazione dei bibliotecari. Cosi viene descritto — attraverso le parole dell’abate Abbone — il sistema adottato nell’abbazia per trasmettere da un bi- bliotecario all’ altro i segreti della biblioteca: La biblioteca @ nata secondo un disegno che & rimasto oscuro a tutti nei secoli € che nessuno dei monaci & chiamato a conoscere. Solo’il bibliotecario ne ha rice~ veuto i segreto dal bibliotecario che lo precedette, ¢ lo comunica, ancora in vita, all’aiuto bibliotecario, in modo che la morte non lo sorprenda privando la comu- nit di quel sapere. E le labbra di entrambi sono suggellate dal segreto. (p. 45) Questo metodo di trasmissione orale di un sapere arcano ed esclusivo (che deve restare patrimonio di pochissimi, e che deve dunque essere tenuto lonta- no da tutti gli altri) corrisponde esattamente a quello che, secondo la tradizio- ne, era proprio della gabbalah, la segreta interpretazione della legge mosaica nota solo ai sommi sacerdoti da essi tramandata verbalmente ai loro succes- sori (la gabbalah, vedi caso, @ esplicitamente menzionata dall’abate stesso poche righe pit avanti: «Cosi esistono per disegno divino anche i libri dei maghi, le kabbale dei giudei, le favole dei poeti pagani, le menzogne degli %8 F Alessio, Mito e scienza cit. p. 15. » In un altro luogo del romanzo, Guglielmo cita nuovamente Bacone a questo propo- sito: «Questo era il problema di Bacone: “Quod enim laicali ruditate turgescit non habet effectum nisi fortuito”, diceva. L’esperienza dei semplici ha esiti selvaggi e incontrollabi- li, “Sed opera sapientiae certa lege vallantur et in finem debitum efficaciter diriguntur.”» (p. 208). La citazione latina (dal Compendium studi philosophiae) e l’insieme dell’argo- mentazione provengono ovviamente dall’Alessio: «La funzione universalizzante ed in- sieme la natura non evasiva di fronte ai bisogni determinati e concreti del “popolo” cri- stiano sono chiaramente individuate da Ruggiero. Si cfr. fra altro il noto passo: “Quod laicali ruditate turgescit non habet effectum nisi fortuito... sed opera sapientiae certa lege vallantur, et in finem debitum efficaciter diriguntur”» (Mito e scienza cit., p. 96 nota 46). «Un centone, un carme a figura, un immenso acrostico» 315 infedeli» [p. 46]). Leggiamo quello che scrive al riguardo Giovanni Pico del- la Mirandola nell’ Oratio de hominis dignitate (235-238 e 245): Scribunt non modo celebres Hebreorum doctores, sed ex nostris quoque Hesdras, Hilarius et Origenes, Mosen non legem modo, quam quinque exaratam libris po- steris reliquit, sed secretiorem quoque et veram legis enarrationem in monte divi- nitus accepisse; preceptum autem ei a Deo ut legem quidem populo publicaret, le- gis interpretationem nec traderet litteris, nec invulgaret, sed ipse Iesu Nave tan- tum, tum ille aliis deinceps succedentibus sacerdotum primoribus, magna silentii religione revelaret. Satis erat per simplicem historiam nunc Dei potentiam, nunc in improbos iram, in bonos clementiam, in omnes iustitiam agnoscere, et per divi na salutariaque precepta ad bene beateque vivendum et cultum verae religionis institui. At mysteria secretiora et sub cortice legis rudique verborum pretextu lati- tantia, altissimae divinitatis archana, plebi palam facere, quid erat aliud quam da- re sanctum canibus et inter porcos spargere margaritas? Ergo haec clam vulgo ha- bere, perfectis communicanda (inter quos tantum sapientiam loqui se ait Paulus), non humani consilii, sed divini precepti fuit; quem morem antiqui philosophi sanctissime observarunt. [...] Hoc eodem penitus modo cum ex Dei praecepto ve- ra illa legis interpretatio Moisi deitus tradita revelaretur, dicta est Cabala, quod idem est apud Hebreos quod apud nos «reception; ob id scilicet, quod illam doc- trinam non per litterarum monumenta, sed ordinariis revelationum successionibus alter ab altero quasi hereditario iure reciperet™. Le fonti cui Pico si appoggia (qui e negli altri scritti in cui si sofferma su que- sto argomento, come I’ Apologia e il Commento sopra una canzona d’amore di Gerolamo Benivieni)" sono numerose, e vanno dall’apocrifo libro quarto di Esdra a Origene e a sant’Lario; tutti testi che Eco poteva certamente co- noscere, viste le competenze in materia cabalistica esibite dal suo secondo romanzo, Il pendolo di Foucault, del 1988*°. Ma credo che Eco attinga diret- tamente a Pico: nel Pendolo il Mirandolano é d’altronde menzionato pid vol- te, il romanzo contiene due citazioni dalle pichiane Conclusiones**. * Cito dall’edizione da me curata: G. Pico della Mirandola, Discorso sulla dignitt dell’uomo, a cura di F. Bausi, Milano, Fondazione Pietro Bembo, 2003, pp. 118-124 41 G. Pico della Mirandola, Apologia, V (in Id., Commentationes, Bologna, Benedetto Faelli, 1495, f. BE ii v - iiii r); Commento sopra una canzona d'amore di Gerolamo Be- nivieni, I, 11 (in Id., De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno e scritti vari, a cura di E. Garin, Firenze, Vallecchi, 1942, pp. 580-81). # Vd. i relativi rinvii nelle note di commento della mia cit. edizione, pp. 118-119. Cfr, al riguardo M. Idel, Umberto Eco und die Kabbala, in Welt alt Raitsel und Geheimnis? Studien und Materialien zu Umberto Eco Foucaultschem Pendel, a cura di M. Kemer e B. Wunsch, Frankfurt-Berlin, Peter Lang, 1996, pp. 75-81. “ L’epigrafe del capitolo 95 (ed. Bompiani, Milano, 1990”, p. 405) & costituita da una citazione («Qui operatur in cabala... si errabit in opere aut non purificatus accesserit, de- yorabitur ab Azazale») tratta dalla XIII delle Conclusiones cabalisticae secundum opi- nionem propriam (cfr. Giovanni Pico della Mirandola, Conclusiones nongentae. Le no- 316 Francesco Bausi 2. L’inferno di Guglielmo. Si legga questo passo del colloquio fra Gugliel- mo di Baskerville ¢ Ubertino da Casale nel capitolo Sesta del Primo giorno: [Guglielmo] «Ma Bonagrazia da Bergamo & con noi!» [Ubertino] «Ora, dopo che io gli ebbi parlato a lungo. Solo a quel punto si con- vinse € protest contro la Ad conditorem canorum. E il papa lo ha imprigionato per un anno.» «Ho sentito che ora é vicino a un mio amico che @ alla curia, Guglielmo di Oc- cam» «L’ho conosciuto poco. Non mi piace. Un uomo senza fervore, tutta testa, niente cuore» «Ma é una bella testa» «Pué darsi, e lo portera all’inferno.» «Allora lo rivedrd laggiti, e discuteremo di logica». (p. 63) Non so se Eco conosca il cosiddetto «sogno» di Machiavelli; certo che & que- sto si rivela singolarmente vicino al passo appena riportato. Di un «celebrato sogno» (blasfemo e antireligioso) raccontato da Machiavelli in punto di mor- te parld per primo ~ senza perd raccontarlo ~ Giovan Battista Busini in una lettera a Benedetto Varchi del 23 gennaio 1549; il primo a narrare il sogno fu perd, ottant’anni dopo, il gesuita francese Estienne Binet’, Eco potrebbe aver conosciuto il «sogno» del Segretario fiorentino attraverso la notissima biografia machiavelliana di Roberto Ridolfi: Raccontava di aver veduto una rada turba di poveri, cenciosi, macilenti, sparuti; domandato chi fossero, gli era stato risposto ch’erano i beati del Paradiso, dei quali si legge nella Scrittura: Beati pauperes quoniam ipsorum est regnum caelo- rum. Spariti costoro, gli era apparsa una moltitudine di personaggi di nobile aspetto, in vesti reali e curiali, che gravemente disputavano di stato; fra i quali ri. conobbe Platone, Plutarco, Tacito ed altri uomini famosi delle antiche et’. Aven- do richiesto chi fossero i nuovi venuti, gli fu detto quelli essere i dannati dell'In- vecento Tesi dell’anno 1486, a cura di A. Biondi, Firenze, Olschki, 1995, p. 128). Poco dopo, nel cap. 102 (ed. cit., p. 409) & inserita una citazione («nulla nomina, ut significati- Ya et in quantum nomina sunt, in magico opere virtutem habere non possunt, nisi sint Hebraica») desunta dalla XXII delle Conclusiones magicae (ed. Biondi, p. 120); ma nel- lo scorciare il testo (che nella sua interezza recita: «Nulla nomina, ut significativa et in quantum nomina sunt, singula et per se sumpta, in magico opere virtuter habere pos- sunt, nisi sint Hebraica vel inde proxime derivata»), Eco ha aggiunto per errore un non che ne compromette il senso (e che manca in tutte le edizioni: vd. Giovanni Pico della Mirandola, Opera, Basileae, Henricus Petri, 1572, p. 105; Conclusiones, a cura di B. Kieszkowski, Genéve, Droz, 1973, p. 80). * Cf. G. Sasso, Il «celebrato sogno» di Machiavelli, in Id., Machiavelli e gli antichi ¢ altri saggi, Milano-Napoli, Ricciardi, I, 1988, pp. 211-294 (la testimonianza del Binet & a p. 235); e anche, dello stesso Sasso, Paralipomeni al «sogno» di Machiavelli, in Id., Machiavelli e gli antichi cit.,1V, 1997, pp. 325-364. «Wn centone, un carme a figura, un immenso acrostico» 317 feo; perché sta scritto: Sapientia huius saeculi inimica est Dei. Spariti anche co- storo, gli fu domandato con chi volesse stare. Rispose che preferiva andarsene al- "Inferno coi nobili spiriti a ragionare di stato piuttosto che in Paradiso con quei cenciosi di prima‘®. Certo, quella battuta di Guglielmo («Allora lo rivedrd laggit, e discuteremo di logica») potrebbe essere stata suggerita ad Eco anche da uno degli innu- merevoli testi, medioevali e moderni, che si muovono nello stesso solco del «sogno» di Machiavelli e che costituiscono i suoi «precedenti>. Resta perd ill fatto che nessuno di questi testi (fra quelli che possono essere pid familiari a un medievista come Eco, ricordo la leggenda del re frisone Rathbod narrata nella Vita Wulframmi, e la «cantafavola» francese Aucassin et Nicolette)" presenta, col nostro brano del Nome della rosa, analogie tanto stringenti quanto quelle che avvicinano quest’ultimo al . Non é necessario — credo — insistere sull’attinenza di una pagina come questa con l’idea, che percorre I’intero romanzo di Eco, del riso come manifestazio- Eco, Palinsesto su Beato cit., pp.51 € 77. vd. anche pp. 78-79: «L’Apocalisse & il modello permanente dell’attesa di catastrofe; ¢ il modello permanente di una speranza di trasformazione; 2 il modello permanente di una conflittualitt che attraversa tutta la sto- ria umana». 5 T. Mann, Doctor Faustus, trad. di E. Pocar, Milano, Mondadori, 2000, pp. 447- 448. «Un centone, un carme a figura, un immenso acrostico» 321 ne diabolica, come apocalittica e anarchica espressione di ateismo e nichili- smo cosmico; se non per osservare come, da Mann, il nesso profondo apoca- lisse-riso sembri giungere direttamente al Nome della rosa. Vorrei poi, in conclusione, evidenziare un probabile contatto puntuale fra i due romanzi, circolarmente ritornando all’ Ultimo folio del romanzo di Eco, nel quale il vecchio Adso, visitando a distanza di molti anni i ruderi dell’abbazia, ne de- scrive le finestre come «occhiaie vuote le cui lacrime vischiose eran rampi- canti putridi» (p. 501). B, questa, una delle rare accensioni metaforiche nello stile altrimenti «neutro» del Nome della rosa; e sospetto che in essa agisca la memoria di un altro passo del Doctor Faustus, nel quale, parlando della citt di Monaco devastata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, Mann accenna alle «case dalle occhiaie vuote che nascondono il nulla vaneg- giante dietro a loro»®*, Dietro ’apocalisse dell’abbazia trapela, in filigrana, una delle tante apocalissi dei nostri giorni. % Ivi, p. 530. Nel Grande Dizionario della Lingua Italiana, s.v. occhiaia, ® riportato un esempio di quest'uso metaforico del termine, tratto da Oriana e il saggio (1909) di Térésah (Teresa Corinna Ubertis Gray), che perd difficilmente Eco — benché conterraneo dell’autrice ~ poteva avere presente («Le finestre in rovina aprono occhiaie cave piene @ombra»),

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