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L’Italia nella grande guerra, G. Procacci.

Capitolo 1. La dichiarazione di neutralità.


Lo scoppio del conflitto mondiale colse l’Italia in un momento molto critico della propria storia unitaria. Mentre l’economia stava
attraversando una difficile e complessa fase, nel 1914 era emerso con violenza il disagio sociale del paese e si era aggravata la divisione
interna alla classe dirigente.
La congiuntura internazionale del 1913 aveva messo in evidenza gli squilibri e i limiti dello sviluppo economico e quelli del processo
di modernizzazione sociale del paese: il prodotto interno lordo non raggiungeva la metà di quello inglese, la condizione di vita dei
contadini era alquanto miserabile e i livelli medi dei salari operai erano i più bassi tra i paesi europei industrializzata; per quanto
riguarda le riforme sociali, l’Italia era indietro anni luce rispetto agli altri paesi.
La condizione di malessere sociale si traduceva in una diffusa ostilità verso lo Stato, che veniva accusato di aver fatto ricadere sui ceti
più poveri i costi dell’unità nazionale e della modernizzazione; il malessere era così diffuso che spesso si concretizzava in scoppi di
violenza popolare. Questi fenomeni erano ormai sconosciuti nei paesi occidentali, nei quali il processo di nazionalizzazione delle
campagne era avvenuto da tempo, e rari anche nei paesi continentali.
Insomma, alla vigilia dello scoppio della guerra la tensione sociale era ancora altissima. Le manifestazioni del malcontento popolare
avevano assunta in Italia una specifico carattere globale, come avevano messo in evidenza gli obiettivi rivoluzionari del più vasto
movimento popolare di rivolta spontanea del secolo, la settimana rossa.
Sul piano politico la crisi aveva compromesso il sistema di equilibri costruito da Giolitti. Salandra aveva dimostrato di voler realizzare
una effettiva un'effettiva alternativa al sistema politico che l'aveva preceduto: era convinto di essere investito del compito di portare a
compimento l'opera che la destra storica aveva interrotto negli anni 70, aggiornata alle nuove dinamiche il processo industriale da poco
iniziato. I suoi obiettivi erano quelli di costruire un argine al processo inserimento delle forze popolari dello Stato, di dotare il paese di
una dirigenza forte e di restringere la possibilità di azione autonoma delle opposizioni mediante il rigido controllo del Parlamento da
parte dell'esecutivo.
Il modello statuale della nuova formazione era costituito dall'impero guglielmino: sulla sua tipologia di sviluppo economico si era
modellata l'Italia.
Soprattutto, della Germania, la destra ammirava la struttura sociale rimasta intatta e, sul piano politico, la forte e centralizzata
organizzazione statale esecutivo potente, direttamente dipendente dalla monarchia e strettamente legato al potere militare.
Intorno alla persona di Salandra venne così a convergere il consenso sia della destra tradizionale sia della destra moderna e dinamica,
espressione delle forze del capitalismo chi è intraprendente e desiderose di espansione verso l'estero.
Questa, a grandi linee, era la situazione sociale politica in Italia quando giunse la notizia dell'attentato di Sarajevo. Le giornate del
luglio-agosto 1914 furono vissute dal paese in un clima di trepidazione mista a spavento.
L'Italia faceva parte della triplice e, nonostante che il patto non prevedesse l'obbligo di intervenire a fianco degli alleati se questi non
avevano subito un'aggressione, non poteva disconnettersi la possibilità il governo decidesse di entrare in guerra a fianco degli imperi
centrali.
Tale eventualità non era malvista dalla destra, dai nazionalisti romani, dagli ambienti clericali filo austriaci e da un esponente di rilievo
del conservatorismo come Sonnino, ma non era accettata dal grosso dello schieramento liberale moderato E dall'intera sinistra, di cui
alcune componenti con i socialisti e repubblicani non avevano esitato a dichiarare in numerosi comizi che, in caso di guerra, avrebbero
spinto paese alla rivolta, con la possibilità di giungere anche a uno sbocco rivoluzionario.
A favore della neutralità intervenivano fattore di opportunità internazionale: da tempo erano sorti contrasti tra l'Italia e l'Austria a
proposito della questione balcanica E dell'Albania mentre erano state riallacciate buone relazioni riguarda i problemi dell'Africa
settentrionale con la Francia e si erano rinsaldati I tradizionali rapporti con Inghilterra.
Non può essere trascurato, Infine, il fatto che, nonostante l'ingente peso delle spese militari all'interno del bilancio dello Stato, esercito
Italiano non è all'altezza di una prova impegnativa, avendo perduto nella campagna libica buona parte dei materiali bellici di riserva e
avendo ancora dislocate in Africa le truppe migliori.
La scelta della neutralità si sarebbe comunque dimostrata sono un artificio dilatorio, tale da permettere all'Italia di valutare le diverse
opportunità che i contatti diplomatici con gli opposti schieramenti venivano progressivamente proponendo.
Già in agosto il ministro degli esteri San Giuliano aveva proposto a Salandra l'ipotesi dell'intervento dell'Italia a fianco dell'intesa. Alla
fine di ottobre era succeduto a San Giuliano Sidney Sonnino, non alieno nel tentativo di trovare un accordo con gli antichi alleati, tanto
che erano proseguite per tutto l’inverno le trattative incrociate con entrambi gli schieramenti.
Intanto, dall’estate, la situazione politica era completamente cambiata. In autunno lo scenario italiano appariva profondamente diviso
nelle opposte correnti dei fautori dell’intervento, ora da tutti ipotizzato a fianco dell’Intesa e dei fautori della neutralità.
La principale peculiarità della situazione italiana era costituita dalla spaccatura che la decisione di partecipare alla guerra aveva
determinato all’interno della stessa classe dirigente: consapevole dell’impreparazione militare, Giolitti era convinto che la guerra
avrebbe prodotto lacerazioni non rimarginatili all’interno del tessuto sociale di una democrazia troppo recente ed esposto il paese al
pericolo di una sconfitta, di un’invasione nemica, di una rivoluzione.
Altra peculiarità consisteva nell’opposizione alla guerra del partito socialista, rimasto fedele alle posizioni pacifiste ribadite dalla
Seconda internazionale ( 1912 ), ed e si espresse quindi immediatamente a favore della neutralità assoluta.
Nonostante i mesi successivi furono caratterizzati da incertezze, il partito rimase comunque unito e fallì il tentativo di Mussolini di
coinvolgerlo nell’avventura interventista.
Sulla rapida conversione di Mussolini agirono probabilmente sia la convinzione che la guerra avrebbe comunque portato a uno
sconvolgimento foriero di possibilità future sia la prospettiva di aprire a se stessi la possibilità di protagonismo che la permanenza nel
Partito Socialista sembrava non potergli più offrire.
Su posizioni neutraliste erano infine i cattolici, non estranei dalla prospettiva di abbandonare il pacifismo di principio a favore
dell’obbedienza all’autorità di governo; molti vescovi, nonostante l’enciclica del novembre 1914, erano apertamente filo interventisti.
La maggioranza delle forze politiche si manteneva su una posizione neutralista ma, a partire dall’agosto 1914, si erano spostate a favore
della partecipazione al conflitto alcune componenti della sinistra.
Fin dalle prime settimane di agosto, invasione del Belgio e la propaganda anti-austriaca degli irredentisti trentini avevano provocato
un’ondata di ostilità contro gli imperi centrali e il passaggio al fronte interventista di repubblicani, radicali, socialriformisti e infine dei
sindacati rivoluzionari.

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i motivi della conversione di queste forze erano diversi: si andava dal tema risorgimentale della guerra per la liberazione di Trento e
Trieste da parte degli irredentisti, a quello della lotta contro l’autoritarismo austriaco e per il trionfo della democrazia fomentato dagli
interventisti democratici e repubblicani, a quello della guerra rivoluzionaria dei sindacalisti rivoluzionari e di una minoranza anarchica.
MA le diverse forze erano anche unite da alcuni elementi comuni che permettevano loro di presentarsi unite a Roma il 20 settembre,
in occasione della ricorrenza risorgimentale.
Il cemento ideologico era costituito dall’avversione contro tutto ciò che riguardava l’età giolittiana: al riformismo empirico di Giolitti
veniva attribuita la causa della prolungata durata della condizione di inferiorità di cui soffriva da tempo il paese. Solo una guerra
vittoriosa a fianco delle grandi potenze democratiche, ma che, al contempo, tutelasse i diritti della nazione, favorisse il sorgere di
un’identità nazionale attraverso il sacrificio dei singoli e la loro sottomissione a un’unica disciplina, poteva trasformare l’Italia in una
grande nazione.
I primi mesi neutralità avevano portato in piena luce la frammentazione politica e culturale del paese. Al loro interno, I due schieramenti
contrapposti favorevoli e dei contrari all'intervento apparivano tutt'altro che compatti; mentre ricorrenti neutraliste percorrevano classi
sociali diverse, interventismo mostrava una maggiore omogeneità.

2. problemi economici e sociali e opinione pubblica.


Evitato, grazie alla dichiarazione di neutralità, lo scontro politico, il governo si trova lo stesso a dover affrontare serie difficoltà di
ordine economico sociale.
L'illusione di potersi avvantaggiare, grazie la non partecipazione confitto, Di nuovi rapporti commerciali con le varie nazioni
belligeranti si dissolse presto.
Mentre aggravarsi della situazione internazionale produceva oscillazioni violente e la chiusura della Borsa, la mancanza di materie
prime industriali e le difficoltà dei rapporti commerciali e finanziari provocavano la crisi di numerose imprese.
L'insufficienza delle materie prime E la scarsità di capitali erano fattori che spingevano a favore dell'intervento. Anche se le previsioni
erano i di una guerra di breve durata, Rimanere fuori avrebbe significato subire un'interruzione del processo di sviluppo; una
partecipazione conflitto avrebbe invece risolto i problemi di sovrapproduzione di alcuni settori e permesso l'espansione di molti altri.
Premevano quindi per l’intervento i gruppi tradizionalmente favorevoli a una politica bellica, quali l’industria pesante e la finanza ad
essa connessa. Ma anche ambienti economici inizialmente favorevoli alla neutralità perché legati all’esportazione avevano cominciato,
a partire dall’autunno/inverno 1914, a considerare come favorevole l’ipotesi di una partecipazione al conflitto, nella speranza di una
ripresa produttiva del mercato interno.
Per spingere la classe dirigente alla guerra, l’ala interventista della grande industria non lesinò il finanziamento ai principali organi di
stampa che, erano alla base della formazione dell’opinione pubblica.
si veniva così a configurare quello stretto intreccio tra economia e politica che caratterizzerà il periodo bellico e che sarà contraddistinto
da una serie di operazioni volte ad influire sull’economia dellecentrale scelte governative, delle quali furono centro propulsore
siderurgici.
Nel frattempo la situazione sociale is era notevolmente aggravata. La politica monetaria di <salandra aveva favorito un rapido procedere
dell’inflazione.
Fin dalle prime settimane successivo allo scoppio della guerra i prezzi dei generi di prima necessità avevano subito un brusco e
repentino rialzo e, la contemporanea chiusura di numerose aziende aveva portato alla formazione di un esercito di disoccupati che si
aggiungevano a coloro che l’avevano perso in seguito alla crisi economica.
Il numero dei disoccupati veniva aumentando a causa del ritorno in patria degli emigrati provenienti dai paesi dell’Europa centrale,e
mentre lo scoppio della guerra aveva prodotto un forte flusso migratorio verso le Americhe.
L’aumento del costo della vita, la mancanza di generi di prima a necessità, la disoccupazione fecero esplodere nuovamente l’ostilità
popolare.
Da novembre ad aprile tutte le regioni dell’Italia furono teatri di moti popolari di grande violenza: erano le tradizionali rivolte per la
fame, che però nel contesto prebellico assumevano una diversa connotazione.
Le dimostrazioni annonarie vennero spesso a congiungersi con le manifestazioni contro la disoccupazione, con scontri violenti e
sanguinosi con le forze dell’ordine. Contemporaneamente, in varie città, si erano verificati anche incidenti di una certa gravità tra
interventisti e pacifisti: il dissenso politico si era spostato dal piano ideologico a quello dell’azione, nell’autunno del 1914, e a settembre
avevano avuto luogo le prime manifestazioni pubbliche a favore dell’intervento.
Le manifestazioni pro e contro la guerra coinvolgevano comunque solo una parte molto limitata della popolazione. Per conoscere quali
fossero le effettive condizioni di spirito delle varie regioni italiane e dei vari ceti sociali nei confronti della guerra possiamo usufruire
di alcuni resoconti, inviati dai prefetti al ministero dell’Interno, a metà aprile 1915.
Da questi documenti si deduce che le correnti interventiste erano presenti nei centri principali, e risultava concordemente contraria alla
guerra la classe operaia; quanto ai contadini, tutti giudicavano la guerra una catastrofe, alla pari di un flagello naturale.
I resoconti riferivano che quasi nessun ceto o classe sociale voleva la guerra: solo la borghesia colta, composta da professori,
professionisti, studenti, risultava in alcuni centri favorevole all’intervento.
A determinare questa condizione di scetticismo contribuivano vari fattori.
Nell’aprile del 1915 l’opinione pubblica aveva compreso quali sacrifici comportasse la partecipazione a una guerra la cui durata non
appariva così limitata.
Inoltre, la grave crisi economica che aveva colpito il paese aveva reso ciascuno più preoccupato delle proprie necessità quotidiane che
del destino della patria. Ma, soprattutto, l’Italia si distingueva dagli altri paesi europei per un rapporto cittadino-stato che non facilitava
il sorgere sei sentimento che coinvolgessero tutta la comunità nazionale: era proprio questo senso di comunità che le mancava.
Anche tra i ceti borghesi e piccolo-borghesi il senso di appartenenza nazionale appariva sfumato; l’attitudine dello stesso regime
giolittiano non aveva facilitato un processo di integrazione.
A distanza di oltre cinquant’anni dall’unità, l’Italia appariva ancora fortemente frammentata: i problemi locali risultavano preminenti
rispetto a quelli nazionali.
Quest’assenza di senso della collettività non poteva non emergere al momento della decisione di partecipare come nazione al conflitto
mondiale.
Mancavano, in Italia, quei motivi di autodifesa che avevano contribuito negli altri paesi a creare una coesione patriottica né, durante,
la neutralità, il governo si era preoccupato di fornire una giustificazione ideale alla decisione di intervenire nel conflitto: l’unica

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motivazione ufficiale, riportata da Salandra, era quella di un sacro egoismo in vista di spartizioni future dei territori appartenenti ai pesi
vinti.
In previsione di una guerra breve, si era considerato superfluo trovare una giustificazione; la propaganda a favore della guerra era stata
delegata dal governo delle avanguardie politiche interventiste e facendo soprattutto perno su quella irredentista, capace di coinvolgere
però solo alcune minoranze.

3. Sindrome di Crimea e maggio radioso.


Pur accentuandosi la propensione a partecipare al conflitto a fianco dell’Intesa, l’ondeggiamento del governo italiano nei confronti
degli opposti schieramenti proseguì per tutto l’inverno.
Dopo l’attacco ai Dardanelli in febbraio, Sonnino e Salandra furono presi dal timore che l’Italia potesse giungere troppo tardi a
intervenire, a guerra ormai quasi conclusa.
Così, senza consultare il governo, il 25 aprile si impegnarono segretamente a Londra a scendere in campo entro un mese, in cambio
dell’annessione del Trentino, del Tirolo meridionale, di Trieste, dell’Istria, ad eccezione di Fiume e una parte della Dalmazia.
I motivi che condussero a questa scelta erano complessi. Influirono certamente spinte di carattere internazionale: la partecipazione al
conflitto a fianco delle grandi potenze inglesi e francesi sembrava aprire all’Italia prospettive di espansione mediterranea e permetterle
di conquistare una posizione di rilievo nello schieramento internazionale.
Forti erano anche gli stimoli di ordine interno: oltre a rilanciare l’espansione industriale e a riassorbire la disoccupazione, l’intervento
avrebbe consentito alla destra di condurre in porto il suo progetto di restaurazione autoritaria, impedendo il possibile ritorno di Giolitti
e isolando il Psi che, mostrava ancora tutta la propria forza sia in parlamento che nelle amministrazioni locali. Ciò che muoveva
Salandra e Sonnino era l’ambizione di riuscire a realizzare in tempo breve ciò che il riformismo giolittiano non era riuscito a compiere
in un decennio o poco più: la ricomposizione nazionale intorno a un centro politico forte, che attuasse un controllo potente delle masse
popolari e ritrovasse il consenso dei ceti medi.
Questi progetti avevano come fondamento un’idea che aveva segnato tutta la storia del paese a partire ancora prima dell’unità: la
convinzione che, grazie all’inventiva e all’impeto garibaldino, si potessero raggiungere agognati obiettivi senza dover percorrere strade
lunghe e faticose, seguite dagli altri paesi industrializzati.
La classe politica italiana era animata da quella che possiamo chiamare Sindrome di Crimea, cioè dalla fiducia di poter emulare la
mossa di Cavour nel 1855 e approfittare di una partecipazione limitata al conflitto per ottenere riconoscimenti morali e materiali da
una grande potenza.
il progetto del governo si basava su due presupposti, entrambi destinati a dimostrarsi rapidamente fallaci.: che la guerra dovesse essere
breve e che dovesse essere vinta on facilità.
Quale fosse il significato di una guerra tecnologica e di logoramento, quali energie messa dovesse riuscire a convogliare al fronte e
suscitare all’interno, non furono aspetti presi in considerazione da una classe dirigente politica e militare, troppo preoccupata di trovare
soluzioni agli immediati problemi interni di equilibrio politico e di tenuta sociale e troppo animata da orgoglio revanscista per valutare
con obiettività il nuovo carattere della guerra e la forza dell’avversario.
La notizia che l’Italia si preparava a entrare in guerra, comunicata il 7 maggio al Parlamento, produsse una sezione delle forze neutraliste
a tal punto da indurre il presidente del Consiglio a rassegnare le dimissioni.
Si apriva quindi un breve e tumultuoso periodo di incertezza politica, nel quale la scelta interventista di Calandra e Sonnino e la
possibilità che il loro progetto risultasse vincente furono seriamente poste in dubbio.
La iris si risolse a favore di Salandra, sia perché il re si era già impegnato a mantenere il patto di Londra, sia perché a favore del governo
si mobilitarono le forze interventiste.
Le giornate del maggio radioso, inaugurate il 5 dall’incendiaria orazione di D’Annunzio a Quarto nell’anniversario della spedizione
dei Mille, si svolsero in una clima di violenza e intimidazione. Le principali manifestazioni si ebbero a Roma, sotto l’egida dei
nazionalisti e di d’Annunzio, e a Milano, sotto la guida di Mussolini e i suoi, mentre nelle altre città furono organizzati più che altro
cortei studenteschi.
Poiché I perfetti avevano avuto l'ordine di lasciare svolgere i cortei interventisti, di ostacolare con i neutralisti e di attuare gli arresti
che avessero reputato necessario, le manifestazioni contro l'intervento furono comunque bloccata sul nascere; sono a Torino il 16
maggio esplosa la protesta popolare, con scontri tra l'esercito E i dimostranti, formazione di barricate, vari feriti, un morto e più di 100
arresti.
Sotto la pressione del clima che si era instaurato nel paese e nella capitale, la maggioranza parlamentare ti prego: eventi mangia la
camera approva scrutinio segreto la legge che concedeva i pieni poteri al governo, accettando così la propria e esautorazione.
La scelta di intervenire nel conflitto era stata dunque presa a casa di una pressione intimidatorio su Parlamento, nella piena
consapevolezza governativa del disaccordo della maggioranza dell'opinione pubblica conta
Esso sono pertanto assumere, agli occhi di molti contemporanei, il carattere di un colpo di stato.
A causa della spaccatura di classe e ideologica vissuta dal paese delle giornate di metà maggio, intervento dell'Italia avvenire in un
clima sai diverso da quello che aveva contraddistinto quasi un anno prima dell'entrata in guerra di vari paesi europei.
Se in Italia forti furono le motivazioni ideali che spinsero molti giovani delle classi borghesi a partire per il fronte, spesso come
volontari, l'atmosfera che caratterizzò alle giornate di maggio non fu certamente quella della celebrazione solidale..
La battaglia delle correnti interventiste avvenne in clima di guerra civile, a cui aveva contribuito mussolini con con i suoi articoli E la
capacità di trascinamento della rete dell'oratorio dannunziana, tutta impostata sull'accusa di tradimento rivolto all'interno, indicato come
il più pericoloso di quello esterno: il Fatto che da una parte catturava il desiderio di riscossa morale dei giovani, A cui venivano indicati
colpevoli della mediocrità nazionale, dall'altra minimizzava il pericolo del fronte.
Si stava così cinque giorni delineando un nuovo modo di affrontare rapporto con le masse, Basato sul confronto diretto con la figura
di un demiurgo capace di infiammare e spingere all'azione convenuti, il nuovo modo di fare politica, Impostato sul discredito nei
confronti degli avversari ideologici E sulla violenza materiale come risolutrice delle controversie politiche.
Calma al contrario un'atmosfera al momento dell'effettiva entrata in guerra. Confermato salandra al suo posto, Il 23 maggio il governo
aveva provato la mobilitazione, Affidato il comando dell'esercito Cadorna E dichiarato guerra all'Austria, Mentre con la Germania
venivano al momento solo interrotte le relazioni diplomatiche.
Facilitate dall'autorità locali e dal clima di emozione che determinava la partenza dei giovani per il fronte, Le manifestazioni
patriottiche si svolsero in piena libertà.

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Da parte loro, È forte politica di opposizione siano assegnate la sconfitta, nella convinzione degli eventi avrebbero alla fine giocato a
loro favore.
La previsione di una guerra breve cosa sicuramente sulle decisioni del PSI, è già in una riunione del 16 maggio aveva abbracciato una
posizione di estraneità e di attesa basata su una formula, tale da permettere l'unità tra le diverse correnti interne: Ne aderirono né
sabotare.
La dura legislazione repressiva messa in atto in quei giorni rendeva d'altra parte impraticabile ogni forma più vistosa di opposizione.
Il 22.23 maggio una serie di decreti avevano ridotto drasticamente le libertà civili dei cittadini, mediante la concessione ai prefetti di
proibire riunioni anche private, di perquisire e chiudere associazioni, di rimpatriare con foglio di via inviare al domicilio quattro persone
indesiderate, E di trasferire militari tutte le competenze in materia di pubblica sicurezza.
In generale e la state enormemente ampliata la sera di autorità del potere militare, così da configurare una vera e propria militarizzazione
dello Stato.
Erano state infatti sottoposti al controllo totale militare le cosiddette zone di guerra, che furono poi progressivamente estese ai centri
dove si tenevano agitazioni operaie: In esse le libertà statuarie erano soppresse ed era concesso alle autorità militari di legiferare,
mediante bandi, in deroga alle leggi dello stato.
Le norme eccezionali provvedevano inoltre l'ampliamento dell'ambito della giustizia militare, venendo sottoposti ai tribunali militari e
al codice penale militare numerosi reati commessi da civili.
In seguito fu assegnata ai militari anche la censura dalla corrispondenza privata con il fronte, con i campi di prigionia in territorio
nemico e con le zone di guerra.
Nei mesi successivi sarebbe poi stata elaborata la normativa riguardante il controllo del lavoro, attraverso la quale si sarebbe attuata la
militarizzazione delle masse operaie.
Irene torno, giustificato dallo stato di guerra, ha una legislazione dal regime assoluto, con l'aggiunta di nuove forme moderne di reato,
Come quelle attinenti alla sfera dell'opinione e del lavoro.

4. La strategia del Comando supremo e il dualismo dei poteri.


Sappiamo come la previsione di una guerra breve questa è stata determinante nel decidere sono Sandra Sonnino all'intervento.
La stessa convinzione aveva maturato i capo di Stato maggiore Cadorna, in carica dal luglio 1914: il suo ottimismo non aveva subito
incrinature nemmeno dopo che erano giunte, nell'autunno del 14, le preoccupate relazioni degli addetti militari in Francia e in Germania
circa la durata e il carattere del conflitto, nato il suo orientamento sia modificato in seguito alle drammatiche notizie sull'esperienza
Casiraghi si stavano seguendo sui diversi fronti di guerra.
Nella certezza che una battaglia campale risolutiva avrebbe rapidamente deciso le sorti del conflitto, il pianeta Cadorna prevedeva,
dopo un facile sfondamento delle linee nemiche, la conquista di Trieste, il collegamento con i serbi, l'attraversamento dell'Ungheria E
il successivo ricongiungimento con le truppe russe.
Il principale punto di attacco fu individuato sul fronte del Carso e dell'Isonzo, mentre un secondo fronte difensivo fu aperto nel Trentino,
E altre minori azioni sono progettate nel Cadore E nella Carnia. Questo piano rimase invariato dall'entrata in guerra fino a Caporetto.
Dal convincimento che il compito sarebbe stato di guerra di breve durata derivavano le principali conseguenze: In primo luogo, che
non fa sempre opportuno modificare l'impostazione strategica di tipo offensivo, nonostante la sua efficacia fosse messa fosse stata
messa a dura prova sui vari fronti; in secondo luogo, che non fosse necessario disporre di armi tecnologicamente avanzate.
Riguarda la strategia offensiva, Cadorna era fermamente convinto che se rispondessi in pieno alle condizioni del fronte italiano. Data
la configurazione del terreno sul Carso, egli si era illuso che potesse essere risparmiata all’Italia la guerra di trincea e che l’attacco
frontale risultasse quello vincente.
La circolare Cadorna non lasciava dubbi: essa imponeva a tutti i comandanti di attaccare sempre, in qualunque situazione, non
abbandonando mai il territorio conquistato, senza porsi problemi ci costi umani.
Giudicata non attuabile qualunque manovra aggirano l’assalto si dimostrò però del tutto inefficace a spianare la via, mettendo in allarme
gli austriaci.
In esecuzione al proprio piano strategico, il comando supremo dislocò uomini e mezzi su diversi obiettivi, senza riuscire a colpire i
punti deboli dello schieramento avversario.
Fallito il primo balzo offensivo, lo sforzo si esaurì in ripetuti e inutili attacchi frontali ad oltranza negli stessi punti, che si risolsero
sempre in carneficine e con guadagni territoriali di scarsa rilevanza.
L’impostazione offensiva era stat condivisa dagli stati maggiori di tutti i paesi belligeranti, ma il mantenimento ad oltranza di questa
strategia era una scelta più politica che tecnica. Essa era legata agli obiettivi che si proponevano sia la classe politica che aveva voluto
l’intervento sia le sfere militari che si riconoscevano in quell’impostazione: una guerra di conquista che, da una parte, rendere possibile
la realizzazione delle ambizioni espansionistiche e le aspirazioni egemoniche di una minoranza politica e, dall’altra, riscattasse la non
lusinghiera opinione che in ambito internazionale si aveva delle capacità militari dell’esercito italiano.
Le prime operazioni misero in luce sia la mancanza di conoscenza dei luoghi e delle loro difficoltà sia la drammatica inferiore die
mezzi con cui l’Italia si accingeva a sostenere lo scontro.
All’inizio gli ufficiali andavano alle armi con l’uniforme da passeggio, le stellette del grado sulle maniche e la sciabola sguainata, ma
solo più tardi venne ordinato di nascondere la lama per non essere avvistati immediatamente dal nemico e venne introdotta l’uniforme
grigio-verde.
Negli iniziali assalti a campo aperto, gli ufficiali costituivano il primo facile bersaglio; le mitragliatrici falciavano poi le truppe, che
spesso non riuscivano ad arrivare nemmeno ai reticolati austriaci.
quanto all’equipaggiamento militare, l’Italia era entrata in guerra con un quantitativo di armi inferiore a quello dell’avversario e senza
aver apprestato tutte le strutture necessarie per una guerra di logoramento. Al contrario gli austriaci avevano avuto il tempo, durante la
neutralità italiana, di organizzare una fitta rete di difese e di elaborare una strategia che permetteva loro di retrocedere al momento
dell’assalto nemico ed evitare così grandi perdite.
L’inferiorità sul campo era legata alle perdite libiche ma anche alla scelta prebellica di fare dell’esercito uno strumento prioritario di
difesa interna piuttosto che un moderno mezzo di azione bellica.
Cadorna non ignorava l’entità delle deficienze italiane, ma era convinto che l’inferiorità non fosse tale da impedire un rapido successo
nei confronti di un paese, l’Austria, impegnato su altri fronti e il cui esercito versava in condizioni a suo dire gravi.
Nel 1915 l’Italia possedeva meno mitragliatrici, meno cannoni e munizioni degli altri principali eserciti, anche se in seguito il divario
fu ampiamente colmato. Tuttavia, le difficoltà di spostamento delle armi pesanti annullarono gran parte dell’efficacia di nuovi mezzi.

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Il comando supremo aveva creduto di poter ovviare all’assenza di mezzi attraverso un’estesa mobilitazione di uomini ( la carne da
cannone ): al cospicui numero di richiamati, però, non corrispondeva un’idonea preparazione delle truppe.
Mancavano infatti i corpi speciali, dal momento che la stessa concezione di una guerra basata sullo scontro frontale di massa ne aveva
fatto considerare superflua la costituzione.
Inoltre, inadeguato era il grado di preparazione degli ufficiali, peraltro numerosi, mentre la consistenza dei quadri medio-bassi era,
all’inizio del conflitto, assolutamente insufficiente riguardo alle necessità di una guerra di massa. Carente era anche il numero dei
sottufficiali.
Infine il comando supremo, sempre convinto che la guerra sarebbe durata pochi mesi, aveva sottovalutato il problema degli
approvvigionamenti alimentari, nonché delle necessarie attrezzature di vestiario e di ricovero per l’inverno.
La distribuzione degli indumenti invernali fu a lungo deficiente, tanto che ancora nel novembre del 1916 divennero denunciati
moltissimi casi di amputazioni in seguito al congelamento degli arti inferiori. Successivamente al situazione si modificò, ma non
migliorò l’organizzazione dei rifornimenti alimentari: in rapporto alle difficoltà di approvvigionamento, le razioni si ridussero
notevolmente a partire dalla fine del 1916.
A determinare queste gravi carenze contribuì notevolmente l’anomalia che caratterizzò in Italia il rapporto tra il potere politico e il
potere militare, costituita dalla mancanza di contatti tra il governo e il comando supremo e dalla conseguenze assenza di un piano di
azione concordato.
La separazione tra i due poteri faceva parte della tradizione dello stato Italiano ed era fortemente sostenuta dalla destra perché sottraeva
le forze armate al controllo del Parlamento; tuttavia, era paradossale in una situazione in cui ambedue le sfere mostravano la volontà
di avviarsi verso l’intervento e partecipare a una guerra che richiedeva la mobilitazione di tutte le risorse, materiali e morali, del paese.
Il dualismo era apparto palese fin dai primi giorni successivi allo scoppio del conflitto. Al momento di dichiarare la neutralità, il
governo non si era curato di contattare Cadorna, né aveva accolto la sua proposta di un’immediata mobilitazione contro l’Austria.
La non collaborazione rea proseguita nei mesi seguenti: Cadorna, cui spettava l’elaborazione dei piani di guerra e le responsabilità
della preparazione militare e che doveva rispondere del suo operato solo al re, si era guardato bene dal comunicare il proprio piano di
operazioni al governo e dal concordare un progetto di mobilitazione. Allo stesso tempo, egli era stato tenuto all’oscuro delle scelte di
Salandra: anche la decisione di sottoscrivere il patto di Londra era stata presa senza aver consultato i vertici delle forze armate.
L’unica figura che poteva costituire un trait d’union tra i due poteri era il ministro della Guerra, ma fin da subito incontrò ostilità con
il Comando supremo, che riuscì a far sostituire il ministro Grandi con Zupelli; tuttavia, quando quest’ultimo levò critiche all’azione
militare, Cadorna ottenne di far dimettere pure Zupelli e far salire al ministero un uomo di grande fiducia, il generale Morrone, sostituito
poi da un portavoce ancora più fedele, il generale Giardino.
Le critiche alla strategia del Comando supremo non provenivano solo dagli ambienti governativi e parlamentari. L’impostazione data
alla guerra aveva suscitato dubbi e giudizi negativi fin dai primi giorni successivi all’intervento nello stesso ambiente militare.
I giudizi negativi si infittirono durante l’inverno, dopo che le cruente prime quattro battaglie dell’Isonzo si erano concluse agli inizi di
dicembre senza risultati territoriali apprezzabili, ma con enormi perdite umane. Ancora più serrate lo divennero dopo la spedizione
punitiva austriaca nel Trentino del maggio-giugno 1916, che aveva messo a nudo i difetti di previsione e di schieramento del Comando
Supremo.
Sebbene l’attacco austriaco avesse posto fine alla speranza in una guerra breve, basata sull’offensiva risolutiva, l'esperienza non servì
a modificare la linea strategica del cComando supremo. Nonostante le critiche, Cadorna proseguì nella strategia offensiva. Né la
disastrosa esperienza militare servì a creare una maggiore collaborazione con il potere politico, del quale fu invece sottolineata la
subordinazione, come dimostrarono le dimissioni a cui fu Costretto Calandra dopo la Strafenexpedition.
Le successive offensive non fecero altro che accrescere il clima di ostilità nei confronti di Cadorna. All’infuori della conquista di
Gorizia nell’agosto del 1916, le varie battaglie dell’Isonzo del 1916 e 1917 non portarono a conquiste di territorio, mentre spaventose
risultarono le perdite.

5. Il fronte. Vita in trincea, metodi disciplinari, << fughe >>.


Furono terribili le condizioni cui i soldati si trovarono esposti al fronte. La vita si svolgeva tra un succedersi di assalti e di attese di
trincee, secondo una situazione comune a tutte le truppe belligeranti, ma i livelli di sofferenza raggiunti sul Carso e sull’Isonzo furono
inequiparabili.
La caratteristica di questo fronte fu quella di unire, alle difficoltà della guerra di montagna, i disagi di lunghi periodi di immobilità in
trincea. Dato che la natura del terreno rendeva impossibile effettuare scavi di ricoveri profondi, in prima linea le trincee erano costituite
da buche profonde poco più di un metro, dove i soldati dovevano stare immobili, in mezzo al fango e ai rifiuti, al solo riparo di semplici
muretti di sassi e sacchi di terra.
La presenza del nemico, a volte a pochi metri, poneva le trincee a portata di tiro delle armi leggere: le truppe vivevano in uno stato di
combattimento continuato, sottoposte al pericolo delle artiglierie anche nelle fasi di sosta.
L’assalto costituiva il momento più tragico. Le truppe si trovavano ad affrontare una realtà alla quale non erano minimamente
predisposti, un’apocalisse in terra. Terrore e sbigottimento si impadronivano degli attaccanti, che avanzavano come automi, cadendo
l’uno sull’altro.
Ma anche le soste in trincea, dentro le buche improvvisate, producevano indescrivibili sofferenze. All’inizio era possibile seppellire i
morti e raccogliere i feriti, poi gli agonizzanti non furono più soccorsi e i cadaveri restarono a terra o sui reticolati per mesi.
La vita di trincea comportava anche altri patimenti, legati soprattutto al freddo, alla fame e alla sete, ma anche alla sporcizia e all’enorme
quantità di parassiti che infestavano la paglia e le vesti e che rendevano insopportabili gli stessi momenti di tregua.
Le sofferenze materiali si sommavano a quelle legate al frequente disconoscimento da parte dei superiori delle norme di equità e rispetto
della dignità personale-
Superata la fase del terrore e della disperazione, in chi sopravviveva ai primi assalti e sperimentava la vita in trincea subentrava spesso
un sentimento di rabbia per l’incomprensione che le gerarchie dimostravano verso le condizioni dei soldati.
Suscitavano malumore e ribellioni le palesi disparità di trattamento tra i vari corpi, specie le parzialità riguardo ai turni in prima linea;
la frequente sospensione delle licenze, che i comandi italiano erano sempre restii a concedere temendo il confronto dei soldati con
l’ambiente familiare.
Altri motivi di rancore erano legato agli esoneri concessi a coloro che appartenevano a famiglie benestanti, la mancanza di sussidi alle
proprie famiglie indigenti.

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Al fronte era considerato inevitabile erano i metodi disciplinari, l’arroganza di alcuni ufficiali e la loro incompetenza, ed erano questi
elementi che producevano le principali reazioni negative.
Cadorna era convinto che fosse necessario promuovere nell’esercito una politica di spietata repressione disciplinare. Il controllo nei
confronti dei quadri superiori veniva attuato tramite siluramenti e promozioni, che provocarono fino a Caporetto la sostituzione di ben
807 ufficiali superiori.
Il pericolo della destituzione portava però gli ufficiali a non risparmiare le proprie truppe, anche in presenza di azioni destinate a
decimare i reparti, e li spingeva allo stesso tempo a fare un uso esteso e capillare dei sistemi disciplinari più duri. Ad essi aveva sospinto
fin dal primo giorno Cadorna, rendendo così subito chiaro quale fosse il criterio che intendeva seguire, indipendentemente
dall’andamento delle operazioni.
La sanzione disciplinare attraverso formali procedimenti legali costituì solo un aspetto del sistema repressivo: data la scarsa fiducia
nella disposizione dei giudici a superare i limiti della legge per comminare le pene di morte, Cadorna incitò apertamente i comandanti
a eseguire subito sul campo le esecuzioni e a ricorrere con frequenza alle decimazioni.
Non si possiedono dati attendibili sulle esecuzioni sommarie senza processo e sulle decimazioni, di cui la memorialista e le fonti di
archivio ci indicano numerosi episodi, ma si può supporre che assommassero ad alcune centinaia.
Dalle denunce dei contemporanei sembra che si possa dedurre che il metodo fosse applicato con notevole frequenza, sia nei casi di
riottosità all’assalto, sia come punizione esemplare in episodi di disobbedienza.
La repressione era uno strumento usato in tutti gli eserciti, ma nel caso italiano superò di gran lunga i livelli applicati negli altri paesi
occidentali e fu, fino a Caporetto, l’unico metodo preso in considerazione a fronte del malcontento delle truppe. Questa era una
concezione borbonica del rapporto gerarchico, che da una parte ignorava i nuovi termini di una guerra di massa, e dall’altra considerava
i problemi dell’obbedienza di maggiore rilevanza rispetto a quelli dell’efficienza.
Agli ufficiali veniva pertanto richiesta più solidarietà di classe che capacità professionale. Riguardo ai soldati, , dato che venivano
considerati solo dei potenziali avversari da controllare, si riteneva inutile cercare di migliorarne lo spirito.
Questa concezione dei modi di gestire il potere non era prerogativa delle sole autorità militari. Cadorna era l’interprete al fronte di una
linea comune a tutta la classe dirigente italiana: la sua ostinazione per una guerra offensiva, la non curanza per il sacrificio di vite
umane, la propensione verso una disciplina di repressione terroristica, questi elementi erano il corrispondente in ambito militare delle
scelte politiche dei governi di guerra, volte a privilegiare le misure rivolte all’abolizione coercitiva del dissenso in luogo di una politica
di assistenza e di coesione sociale.
Fu necessaria ed utile l’applicazione al fronte di criteri disciplinari tanto rigidi? Non può essere trascurato il fatto che il rigore
disciplinare era a volte ingiustificato e irragionevole.
L’obbedienza che veniva richiesta prescindeva spesso dalle necessità del momento e dalla stessa logica della guerra- Gli ordini impartiti
dagli ufficiali erano spesso in palese contraddizione con la funzionalità dell’azione, come accertò anche la Commissione d’inchiesta
su Caporetto.
Riguardo all’utilità dei mezzi repressivi, è indubbio che essi servirono ad evirare fenomeni di insubordinazione di massa. Nonostante
i racconti sul malcontento, gli episodi di effettiva insubordinazione di gruppo furono abbastanza limitati: agiva da deterrente il timore
delle conseguenze; il numero dei fucilati fu assai elevato ogni volta che si verificò un’insubordinazione di massa.
Altrettanto indubbio è che esso originò profonda avversione e sotterranea ribellione contro le gerarchie, mentre è accertato che il miglior
trattamento morale e materiale del soldato, attuato dopo Caporetto, produsse risultati positivi sulle capacità di resistenza delle truppe.
I sentimenti di rivolta si svilupparono anche tra coloro che si erano arruolati animati da spirito patriottico. Questo stato d’animo non
era diffuso tra le truppe: il numero dei volontari fu bassissimo, mentre quello dei renitenti fu altissimo. Un senso di orgoglio nazionale
aveva però animato i numerosi soldati italiani emigrati in America, tornati in Italia per combattere, non di rado volontari: furono proprio
costoro che si trasformarono nei più violenti critici del sistema di guerra.
Gli effetti della gestione militare dei primi due anni e mezzo di guerra furono quindi contraddittori. Il timore della repressione evitò
infatti che si verificassero episodi macroscopici di insubordinazione. Tuttavia, le condizioni cui fu costretto il soldato produssero uno
stato di avversione e rifiuto a tal punto che, quando non provocò vere e proprie forme di patologia psichiatrica, si tradusse in varie
forme di fuga e si manifestò sia in modo indiretto, ad esempio mediante la simulazione di ferite o malattie, sia in modo diretto, tramite
la resa al nemico e la diserzione.
Le simulazioni venivano facilmente individuate, sia a causa dell’ingenuità di molti tentativi, sia per l’intransigente resistenza dei medici
ad individuare tipologie patologiche. In aumento fu il fenomeno della diserzione.
Non fu molto diffusa la fuga dal fronte verso le linee nemiche o verso le retrovie, per il pericolo che comportava, anche se questo
ossessionava i comandi. Per tale motivo il Comando supremo fece forti pressioni sul governo affinché non fossero inviati aiuti pubblici
ai soldati italiani fatti prigionieri: così facendo, le autorità contribuirono alla morte per fame di più di 100.000 militari di truppa.
Assai estesa fu la diserzione verso l’interno del paese, talora tentata con successo dal fronte da gruppi di soldati che conoscevano la
zona, e attuata più spesso in collegamento con le licenze.
Se altissimo fu il livello del rifiuto o della ribellione individuale, e se una larga parte delle truppe reagì alla situazione attraverso varie
forme di fuga, la maggioranza rimase sul campo. Bisogna dunque chiedersi perché i soldati continuassero a combattere.
I soldati probabilmente combattevano non tanto per rassegnazione cattolica e per connaturata passività contadina o perché non sapevano
immaginare niente di diverso ( questa era la concezione di Gemelli ), ma perché non c’erano vie d’uscita, se non si voleva essere fucilati
sul campo o essere ammazzati dagli austriaci.
Vi erano anche altri motivi che spingevano i soldati a non abbandonare il campo: il senso di responsabilità verso i compagni, il desiderio
di proteggere la vita di quanti stavano al loro fianco e di non lasciarli soli, la volontà di condividere un destino comune. I soldati
mostrano un assoluto altruismo di fronte al pericolo e alla morte.
Data l’estraneità della maggior parte delle truppe verso un sentimento di appartenenza nazionale, la tendenza era quella di ricercare
un’identità nella solidarietà che caratterizzava il gruppo, all’interno del quale era possibile riconoscersi e recuperare quel senso di
normalità che la vita al fronte e la funzione spersonalizzante della disciplina avevano tolto al soldato.
La mancanza di attenzione verso la condizione materiale e morale delle truppe condusse a un rapporto sempre meno coeso tra soldati
e gerarchie militari. L’esercito italiano tenne e riuscì a superare la Batosta di Caporetto, ma i prezzi furono enormi. Se è errato separare
la sfera militare da quella politica riguardo le responsabilità delle gerarchie, è altrettanto errato separare i due settori riguardo gli effetti
dell’azione militare, ossia ai riflessi che la condizione vissuta al fronte produsse sulla mentalità e sull’atteggiamento verso lo Stato di
quanti, finita la guerra, tornano alla vita civile.

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Il comportamento dei comandi nei confronti delle truppe provocò un insieme di rivalse, attese, desideri di rivincita o di vendetta che
sarebbero poi emersi nel dopoguerra.

6. Le nuove funzioni dello Stato. Scelte autoritarie e interventi in economia.


Parallelamente alla gestione autoritaria e repressiva al fronte, anche in ambito civile fu privilegiata una politica coercitiva e di
limitazione delle libertà politiche.
L’iniziale condizione della breve durata della guerra, la consapevolezza della mancata adesione della maggioranza e delle forze
politiche alla scelta interventista e la stessa concezione conservatrice di Salandra e nonnino cooperarono a far considerare il consenso
pubblico non essenziale all’azione di governo.
Fino a Caporetto furono quindi quasi inesistenti gli interventi a carattere assistenziale e di propaganda, mentre andò sempre più
estendendosi e perfezionandosi il meccanismo di controllo preventivo e repressivo.
L’Italia seguì così un processo opposto a quello degli altri paesi occidentali, nei quali il controllo dell’opinione pubblica imposte il
ripristino di alcune libertà soppresse al momento dell’entrata in guerra.
Questo percorso autoritario fu segnato dalla progressiva esautorazione del legislativo a favore dell’esecutivo e dall’enorme espansione
del potere militare in ambito civile.
Il Parlamento fu escluso da qualsiasi decisione di rilievo e fu convocato solo quando non era possibile evitarlo, mentre tuta la normativa
fu emanata per decreto dal governo, le cui funzioni erano state fortemente dilatate dalla legge dei pieni poteri, votata al momento
dell’intervento.
La limitazione dei poteri del Parlamento fu accompagnata dal proseguimento della campagna di denigrazione dell'istituto legislativo
iniziato durante il periodo della neutralità dagli interventisti, visto che solo attraverso la svalutazione della rappresentanza parlamentare
era possibile rivendicare la legittimità costituzionale alla minoranza che aveva sempre sostenuto l’entrata in guerra.
Un aumento del potere dell’esecutivo e una certa sospensione delle libertà costituzionali rientravano ovviamente nelle necessità imposte
dalla situazione bellica e furono presenti in tutti i paesi belligeranti. In queste nazioni il parlamento svolse con regolarità le proprie
funzioni, controllando assiduamente l’operato dell’esecutivo.Inoltre, la sfera del potere militare all’interno dei singoli paesi fu limitata.
Al Comando supremo fecero capo anche funzioni prettamente politiche, come quelle svolte attraverso un attivo servizio informazioni,
che si serviva di una fitta rete di spie e infiltrati e che svolgeva una propria attività indipendente e parallela a quella governativa.
Alle autorità militare fu affidata la gestione dell’intero settore economico bellico, dagli approvvigionamenti all’organizzazione della
produzione e delle relazioni industriali. La necessità di fronteggiare una guerra di resistenza impose infatti un intervento massiccio
dello Stato in ambito economico e sociale, e per attuare tali compiti fu necessario dare vita a organismi e a strumenti operativi del tutto
originali.
L’interventismo in campo economico attraversò un primo periodo durante il quale i problemi vennero affrontati senza un piano
programmato. Solo in un periodo successivo, quando si comprese che la guerra sarebbe durata molto, dalla seconda metà del 1916 il
governo decise di intraprendere un’azione massiccia riguardo all’organizzazione della produzione industriale e del lavoro e
contemporaneamente di prendere in considerazione, almeno in parte, i problemi degli approvvigionamenti e della distribuzione.
Le prime difficoltà che il governo dovette fronteggiare furono quelle del reperimento di materie prime industriali e alimentari e dei
capitali necessari per l’acquisto. La questioni fu risolta grazie alle importazioni di cereali dall’Argentina, materie prime e capitali dalla
Gran Bretagna e dagli Stati Uniti, ma con costi enormi e un conseguente squilibrio della bilancia dei pagamenti.
Le ingentissime spese per il finanziamento della guerra, oltre che tramite l’indebitamento con l’estero, furono affrontato con l’emissione
di cinque prestiti interni, con l’inasprimento del carico tributario e con l’aumento della circolazione.
Proseguendo nella politica del periodo della neutralità, l’Italia decise di non ricorrere a un aumento del prelievo fiscale attraverso una
tassazione sul capitale ma solo tramite un incremento delle imposte indirette.
La crescita dei prezzi al consumo, insieme all’accentuazione della tassazione indiretta, dece sì che i costi della guerra venissero a
gravare sull’intera popolazione e colpissero soprattutto i ceti più poveri. Viceversa, la scelta inflativa provocò una redistribuzione del
reddito a favore del mondo industriale: grazie alla lievitazione dei prezzi, furono favorite le imprese dichiarate ausiliarie, ossia quelle
che producevano in settori di interesse eolico e godevano delle commesse statali.
L’espansione industriale fu promossa soprattutto mediante interventi diretti dello stato, che assunse in prima personal a guida dello
sforzo distributivo e produttivo. Attraverso il sottosegretariato, poi ministero, per le Armi e le Munizioni, creato nel luglio 1915 e posto
sotto il controllo delle autorità militari, lo Stato decideva di quali settori industriali determinare l’espansione, procurando alle imprese
prescelte materie prime a prezzi politici e fissando in precedenza le quantità dei prodotti che lo Stato avrebbe acquistato.
Per favorire ulteriormente la produzione, il governo italiano evita di attuare verifiche, acquistando i prodotti senza effettuare controlli
circa i prezzi richiesti e gli effettivi costi. Un decreto del 1914 aveva autorizzato i ministeri militari a derogare alle norme della
contabilità nella stipulazione dei contratti e dei pagamenti.
Analogamente, il governo escluse ogni intromissione nell’organizzazione interna alla fabbrica, che fu lasciata internamente nelle mani
degli industriali-
L’industria di guerra, grazie agli enormi vantaggi id cui godette, realizzò una grandissima espansione. Sotto lo stimolo dei prezzi
garantiti dallo Stato, le imprese si lanciarono in una moltiplicazione senza precedenti delle proprie strutture.
Un simile processo di crescita non poteva non determinare una profonda trasformazione del paesaggio industriale, con la nascita di
moltissime nuove aziende e con il mutamento della struttura delle principali imprese già esistenti.
La guerra dette il via al sorgere delle grandi concentrazioni e a un processo di acquisizioni e diversificazioni in settori connessi. Si
consolidarono in questo periodo i trust verticali e orizzontali e sorsero consorzi che , facendo capo a singoli capi gruppo privati,
controllavano numerose aziende concorrenti del proprio ramo.
la grande espansione del potere industriale sfociò nell’estensione della già cospicua influenza del mondo economico sul potere politico.
Essa si realizzò sia attraverso un intreccio di rapporti nuovi sia mediante una fitta tela di relazioni sotterranee, instate dal mondo
imprenditoriale con la burocrazia civile e con gli ambienti militari.
Questo progressivo offuscamento dei confini tra pubblico e privato, se d auto parte rispondeva all’urgenza di fronteggiare le necessità
produttive di guerra , dall’altra facilitò numerosi episodi illeciti, di collusione e di frode a danno dello Stato.
Tutto ciò poté avvenire anche perché mancò in Italia la possibilità di controlli da parte del Parlamento, cui era stato sottratto ogni potere
riguardo alle decisioni dell’esecutivo in campo economico.

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La crescita delle centrali imprenditoriali si accompagnò anche all’indebolimento dell’esecutivo stesso. L’assenza di coesione politica
della classe dirigente portò il governo ad essere più l’esecutorie di singoli e a volte contrastanti desideri privati che l’agente capace di
imporre un proprio programma di interesse generale.

7. L’interventismo sociale. Mobilitazione industriale e controllo del lavoro.


Del tutto innovativo rispetto alla tradizione liberale fu l’intervento statale nel campo delle relazioni industriali, attuato attraverso la
Mobilitazione industriale ( MI ), istituito creato per realizzare un pieno controllo del lavoro nelle fabbriche dichiarate ausiliarie ( agosto
1915 )
L’organizzazione della MI prevedeva la stretta collaborazione tra militari e civili e tra pubblico e privato: nei sette e poi undici comitati
regionali, erano previsti rappresentanti militari dello Stato, degli industriai e degli operai, mentre non furono ammessi fino all’estate
del 1917 i rappresentanti sindacali.
La MI si sviluppò negli ultimi due anni di guerra.
Il nuovo regime si basava su due principi_ la manodopera veniva fissata in modo coatto al luogo di lavoro, in virtù della proibizione
pro l’operaio non solo di scioperare, ma anche di dare le dimissioni.
Le vertenze venivano decise attraverso un sistema arbitrale, in base al quale venivano sottoposte a commissioni ile controversie tra
imprenditori e lavoratori che non trovavano una diretta composizione, purché attenessero alla sfera economica: quelle disciplinari
rimasero escluse dall’interferenza delle commissioni.
Dato il numero di lavoratori inferiore alle necessità, lo Stato decideva anche le quote di operai che ciascuna imprese poteva avere nel
proprio organico, in base alla concessione di un certo numero di esoneri e allo spostamento da un luogo all’altro di militari, messi a
disposizione delle varie imprese. Queste potevano assumere invece più liberamente manodopera femminile e minorile, nei confronti
della quale furono sospese le leggi di tutela riguardanti l’orario e il lavoro notturno.
Il secondo principio riguardava il regime disciplinare. La coalizione al posto di lavoro era realizzata attraverso la militarizzazione della
classe operaia, comprese donne e fanciulli. L’allontanamento non autorizzato dal luogo di lavoro veniva equiparato alla diserzione e
punito con la detenzione.
Tutta la vita della fabbrica seguiva delle regole militari: la disciplina veniva imposta da sorveglia nei militari, che controllavano orari
di entrata, ritmi, produzione e comportamento. In base alla motivazione patriottica,la vita in fabbrica veniva regolata come quella nelle
caserme e gli operai e le operaie erano soggetti, per le loro mancanze disciplinari, al codice penale militare.
Nonostante gli incrementi salariali nel periodo della guerra,le condizioni della classe operaia furono terribili. L’applicazione massiccia
del cottimo, obbligatorio in ogni tipo di contratto, le condizioni igieniche e di sicurezza spesso quasi inesistenti, il prolungamento degli
orari, giornalieri e notturni, determinarono livelli di sfruttamento e coercizioni analoghi a quelli della prima fase di industrializzazione,
giustificati di fronte all’opinione pubblica con le necessità della guerra.
La Mi costituì anche un esempio di intervento modernizzatore. Se la mediazione dei conflitti risultò in predominante misura favorevole
all’intervento, il sistema arbitrale introdusse il principio che il potere industriale privato poteva incontrare dei limiti, imposti allo Stato,
per motivi che riguardavano il superiore vantaggio della collettività nazionale, specie il mantenimento della pace sociale, necessaria al
paese in guerra.
Vennero così parzialmente sottratte dall’arbitrio padronale, e per la prima volta sottoposte a una contrattazione controllata dallo Stato,,
le definizioni dei livelli salariali, dei cottimi, degli orari: venne istituzionalizzato il ruolo dei sindacati a partire dal 1917, sebbene fosse
ad essi riservata una funzione subalterna, e venne così introdotto quel tipo di consultazione triangolare che solo nel secondo dopoguerra
avrebbe trovato una nuova applicazione in Italia.
Infine, a partire dal 1917, lo Stato intervenne anche per effettuare un controllo sulle condizioni di lavoro in fabbrica, realizzando la
cosiddetta sorveglianza igienico-sanitaria, che mise in luce le allucinanti condizioni nelle quali spesso lavoravano le maestranze.
Contemporaneamente, fu avviato un progetto di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni.
Queste interferenze governative furono accolte con ostilità dagli imprenditori,che avevano accettato di accedere agli aumenti salariali
purché non fosse in alcun modo intaccato il loro potere all’interno della fabbrica.
Dalla seconda metà del 1917 gli industriali iniziarono a prendere le distanza da Dallolio e nel 1918, in seguito a una serie di scandali
sulle forniture militari venute alla luce negli ultimi mesi di guerra, Dallolio fu costretto alle dimissioni.
Le sorti della MI era segnata: alla fine del conflitto l’istituto venne rapidamente smantellato.

8. Approvvigionamenti, assistenza e propaganda.


L’agricoltura risentì pesantemente della condizione di guerra a causa della caduta degli investimenti, della mancanza di braccia, dee
difficoltà di importare fertilizzanti e macchinari.
Il principale incentivo alla produzione fu determinato dall’ascesa dei prezzi, che rese molto più remunerativo il lavoro di quanti
possedevano una proprietà di qualche estensione o usufruivano di un affitto, il cui canone era stato bloccato all’inizio della guerra.
Contribuirono invece a peggiorare la situazione produttiva alcuni interventi dello Stato per risollevare i problemi annonari, come la
fissazione di prezzi d'imperio per i soli prodotti granari, che indusse all’abbandono di tali colture a favore di altre.
Risultando la produzione interna insufficiente alle necessità, il ricorso alle importazioni era obbligato. Il governo Salandra
, convinto della brevi della guerra e fermo su un’impostazione liberista, evitò per vari mesi di elaborare un piano di rifornimenti, con
gravi ripercussioni sia sulla possibilità di ottenere le quantità necessarie, sia sulla spesa e quindi sui prezzi al consumo.
Solo nell’inverno del 1915-16 lo Stato decise un primo intervento, affidando la gestione centralizzata della politica annonaria alle
autorità militari.
Successivamente, con la la formazione del ministero Boselli, il governo istituì una fo commissione centrale per gli approvvigionamenti
presso il ministero dell’Agricoltura, la quale, alcuni mesi più tardi, si fuse con un Commissariato per i consumi, alla cui direzione sa
stato preposto il socialista Canepa.
Un vero e proprio intervento pubblico si realizzò solo dopo Caporetto, quando il governo decise di dare vita a un Commissariato
generale per gli approvvigionamenti e i consumi alimentari, affidato a Crispi.
Con la gestione di Crespi tutta l’organizzazione dell’approvvigionamento e della distribuzione passò sotto il controllo dello Stato e
delle autorità civili.
A partire dal 1916 erano stati decisi alcuni interventi parziali riguardo ai consumi: furono introdotti i calmieri, e venne applicato, nel
1917, il tesseramento, per il pane e per tutti i principali beni di necessità.

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Questi provvedimenti miravano, oltre che a realizzare un controllo dei consumi, anche a fornire un’immagine di equità distributiva:
essi furono quindi accompagnati da una campagna di propaganda per la limitazione dei consumi, svolta dal volontariato privato, specie
quello femminile.
Gli effetti del tesseramento furono relativi. Esso si rivelò di scarsa efficacia sul piano del razionamento e non assolse al compito
propagandistico. Quanto ai calmieri, ebbero l’esito di rendere irreperibili alcuni prodotti, dando origine all fenomeno delle code e
facendo espandere il mercato nero.
Se dunque, nel complesso, lo Stato riuscì a fronteggiare il problema degli approvvigionamenti e della distribuzione, l’azione svolta in
campo agricolo e annonario fu meno efficiente di quella in ambito industriale.
L’assenza di un’azione unitaria e centralizzata rese l’intervento pubblico spesso inadeguato. Ordini contrastanti da parte delle autorità
civili e militari riguardo al razionamento e alle requisizioni e incompetenze dei singoli funzionari contribuirono a determinare situazioni
di emergenza che avrebbero fortemente inciso sullo spirito pubblico.
Riguardo all’assistenza e alla propaganda, l’intervento dello Stato nei primi anni di guerra fu estremamente limitata. Solo dopo
Caporetto l’intervento assunse nuove dimensioni: furono allora previste una serie di iniziative di assistenza nei confronti dei militari e
delle loro famiglie e fu finalmente curata la propaganda attraverso l’istituzione, nel 1918, di un commissariato generale per l’assistenza
civile e la propaganda interna.
La convinzione della brevità della guerra aveva portato il governo Salandra ad attuare solo limitati interventi di previdenza a favore
della popolazione lavoratrice.
Nelle città un certo beneficio per le classi indigenti era stato prodotto dal blocco dei fitti, decretato all’inizio del conflitto, ma le
condizioni di vita erano rese difficili dalla continua crescita dei prezzi.
In ambito industriale, la guerra aveva determinato un regresso della condizione previdenziale, visto che erano state sospese le norme a
tutela del lavoro femminile e minorile e del lavoro notturno. Parziale compensazione venne dalla norma assicurativa contro gli infortuni
industriali.
Tuttavia, le innovazioni normative ebbero un’attuazione assai ridotta, poiché le disposizioni legislative vennero ampiamente eluse, sia
in ambito industriale che agricolo, a causa degli scarsi controlli governativi e delle complicità degli organi burocratici periferici con i
proprietari locali.
Un’innovazione radicale, nel campo dell’assistenza, fu la concessione di un sussidio statale alle famiglie povere di soldati richiamati
al fronte.
Numerose categorie, tuttavia, furono escluse dalla possibilità di ricevere l’aiuto statale. Inoltre, il livello di sussidi ottenne un unico
lieve adeguamento al costo della vita. Soprattutto mancò un controllo centralizzato riguardo alla concessione: l’entità dei contributi
veniva decisa dalle autorità locali, che spesso non conoscevano le situazioni periferiche e non di rado usavano il loro potere per
procurarsi o rafforzare clientele.
Alla carenza di intervento da parte dello Stato supplirono in qualche modo le organizzazioni private, cui si erano rivolti i comuni, ai
quali il governo aveva domandato l’onere dell’assistenza civile.
Sorte fin da alcuni mesi precedenti al conflitto, le associazioni svolsero per tutta la guerra un’opera sostituiva fondamentale, costruendo
asili e cucine popolari, distribuendo lavoro a domicilio su delega dell’autorità militare, promuovendo feste di beneficenza, concedendo
sussidi aggiuntivi a quelli statali, aiuti ad orfani, vedove, profughi e famiglie di prigionieri, appoggio legale e morale.
L’azione di assistenza privata delle organizzazioni patriottiche si svolse in parallelo con quella di propaganda, della quale lo Stato
italiano si disinteressò quasi del tutto fino al 1918.
Per convincere la popolazione al avere patriottico, si mossero moltissime associazioni private, tramite attività individuali e collettive:
lo scopo dichiarato era quello di educare le classi popolari ai valori nazionali e di diffondere tra esse il principio della disciplina e il
modello dell’obbedienza militare anche nella vita civile.
Presto i comitati si estesero su tutto il territorio nazionali, con ramificazioni e collegamenti interni, fino a coordinarsi, nell’estate del
1917, in un unico organismo privato, le Opere federate di assistenza e propaganda nazionale. Per realizzare la mobilitazione patriottica
furono assorbite quasi per intero le entrate del Commissariato per l’assistenza civile e la propaganda interna, di modo che ne fu privata
l’assistenza, il cui onere finanziario rimase ancora a carico dei privati,
Il mancato coinvolgimento del governo nell’opera di sostegno materiale del paese produsse due conseguenze: che la popolazione non
si sentì supportata nei suoi bisogni essenziali dallo Stato e percepì la propaganda come estranea. L’altra conseguenza fu che le
associazioni patriottiche assunsero un’importanza crescente, con il risultato che interno ai Commissariato proliferò un substrato
clientelare e gli istituti privati acquisirono un ruolo di vero e proprio gruppo di pressione politica.

9. Condizioni di vita e agitazioni popolari.


A partire dalla seconda metà del 1916 le condizioni di vita della popolazione peggiorarono progressivamente. Le condizioni materiali
differivano, tuttavia, notevolmente, a seconda che la popolazione vivesse nelle campagne o nelle città.
Nelle campagne fu soprattutto difficile la condizione dei braccianti e drammatica quella dei loro familiari, perché, in l’autoconsumocaso
di richiamo del capofamiglia, non potevano contare sui prodotti per l’autoconsumo.
In generale, a prezzo di una fatica aggiuntiva, i membri delle famiglie contadine riuscirono a fronteggiare i vapiti lasciati da coloro che
erano partiti per il fronte e a non far diminuire di molto il tenore di vita, anche se i calmieri e le requisizioni a prezzi non remunerativi
produssero ingenti danni materiali. La situazione era comunque diversa da regione a regione,
Mentre al Sud le condizioni peggiorarono nettamente, in alcune zone al Centro e al Nord la guerra produsse possibilità di lavoro, grazie
alla nascita di numerose piccole e piccolissime imprese, che assorbirono una nuova manodopera proveniente dalla campagna,
specialmente femminile e giovanile, fornendo quindi possibilità di reddito aggiuntivo.
Nelle città il livello di vita era molto più basso: a causa della carenza di prodotti e dell’aumento dei prezzi, i consumi calarono
drasticamente. L’aumento della mortalità infantile, la crescita delle malattie polmonari e la forte diminuzione della natalità sono tutti
indici del grado di estrema privazione materiale che colpì le classi più povere.
Delle difficile condizioni di vita nelle città risentirono fortemente anche le classi medie. Nonostante che le risorse di norma in loro
possesso permettessero un certo margine, il tenore di vita di queste fasce cittadine tese a livellarsi sul basso, per avvicinarsi sempre di
più a quello di alcuni settori specializzati della classe operaia.
Peggiorarono anche le condizioni dei professionisti, molti dei quali videro fortemente ridotta la propria attività e le cui famiglie, in
caso di richiamo al fronte, dovevano accontentare di una retribuzione il cui livello rimase sempre assai basso.

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Fu invece favorito dall’economia di guerra il commercio, se capace di adeguarsi alle nuove richieste di mercato: esso poté infatti godere
del repentino aumento dei prezzi dei prodotti e della possibilità di esaurire tutte le scorte.
Riguardo alla condizione della classe operaia, sebbene la richiesta di lavoro assicurasse loro un salario certo, le retribuzioni rimasero
sempre molto basse, poiché gli aumenti erano di norma inferiori alla perdita del potere d’acquisto.
All’interno del Mi gli industriali riuscirono a far calcolare gli aumenti salariali sul lavoro svolto a cottimo, giocando anche su un
vastissimo ventaglio retributivo: in tal modo, a maggior salario corrispose comunque un aumento della fatica e solo alcune limitate
fasce di specializzati poterono godere di aumenti del reddito reale.
La necessità di un’ingente quantità di manodopera portò al formarsi, nelle fabbriche, di un nuovo e massiccio esercito di operai non
specializzati. Questo prevalere nuovo di operai, spesso alla prima esperienza di lavoro, produsse un notevole mutamento della
composizione operaia all’interno della fabbrica, con ripercussioni sia sull’organizzazione del lavoro, sia sui rapporti interni alla classe
operaia, che, specie nei primi anni di guerra, risentirono della mutata struttura interna, con difficoltà di relazioni tra le vecchie e nuove
maestranze. Superati i primi periodi di disorientamento, le dure condizioni disciplinari imposte dalla MI produssero il risultato non di
antagonismo tra le parti, ma di far sorgere un fronte operaio quasi sempre solidale e compatto.
Le donne occupate nell’industria di guerra furono numerose, anche se non raggiunsero mai i livelli degli altri paesi industrializzati,
Adibite spesso a lavori duri e pericolosi, non più protette dalle leggi di tutela e pagate con salari di molto inferiori sia dei compagni
non qualificati che dei ragazzi, risentirono pesantemente delle condizioni ddi lavoro, come di mostra l’aumento, durante la guerra, della
mortalità femminile e degli aborti.
Anche nelle campagne furono le donne a fare fronte all’assenza del maschio della famiglia, lavorando sulla propria terra o venendo
occupate stagionalmente come braccianti, in lavori come ‘aratura e la zappatura.
Al lavoro operaio e agricolo, si deve aggiungere quello delle donne svolto nei servizi e, soprattutto, l’opera di assistenza attuata nelle
città dai comitati femminili.
Le nuove esperienze di lavoro o di attività pubblica non riuscirono comunque a determinare un reale mutamento dei rapporti di genere:
nella mentalità collettiva, il lavoro del periodo bellico e le nuove responsabilità familiari e pubbliche costituivano un’eccezione,
determinata da eventi straordinari e concepita come transitoria. Nel dopo guerra in tutti i paesi si ritornò con rapidità ai consueti canoni
di separazione di ruoli.
Riguardo all’atteggiamento popolare verso la guerra, nei primi mesi il paese si mantenne tranquillo. Alcune delle cause di malcontento
del periodo prebellico erano state eliminate grazie al riassorbimento totale della disoccupazione, all’emanazione di provvedimenti per
l’agricoltura e alla distribuzione dei sussidi, che, per quanto scarsi, per molte famiglie avevano costituito una novità assoluta. La
legislazione eccezionale e la militarizzazione impedivano d’altronde che potesse trapelare qualsiasi protesta di base.
Il paese era inoltre all’oscuro di quanto avveniva al fronte: mentre la censura impediva ai soldati di comunicare con le famiglie e
imbiancava la maggior pare dei commenti dei giornali di opposizione, la stampa interventista enfatizzava la guerra, evidenziando ogni
notizia non consona alla versione governativa.
Militarizzati i governi dal fronte, l’informazione non assunse mai un carattere diverso da quello dei bollettini ufficiali, se non in quanto
la sua forma du meno scarna e spesso ancor più corriva verso la retorica patriottica.
Con l’approssimarsi dell’inverno 1916 tutta la penisola fu interessata da una serie di manifestazioni popolari spontanee.
Le agitazioni iniziarono nelle campagne ed ebbero come principali protagonisti le donne, seguite poi da folle di vecchi e ragazzi.
La protesta sorgeva per motivi immediati, ma si trasformava quasi sempre in manifestazione contro gli effetti della guerra, con scontri
con le forze dell’ordine, saccheggio dei forni, o altre forme di ostilità nei confronti delle autorità costituite, come le aggressioni alle
scuole.
Queste manifestazioni mantenevano i caratteri delle tradizionali rivolte contadine, ma ad esse conferivano carattere di contestazione
più radicale la condizione della guerra e, dalla primavera del 1917, le notizie degli avvenimenti russi. <<Fare come in Russia>> divenne
una minaccia, tramite la quale si esprimeva il desiderio di porre fine alla guerra e anche un progetto di ribaltamento delle gerarchie
sociali.
Nelle campagne del Centro-Nord spesso le dimostrazioni contadine si congiunsero con quelle di fabbrica, che, a loro volta, sfociarono
in manifestazioni contro il carovita e la mancanza di generi alimentari.
Si stava così configurando modello dello sciopero organizzato e della dimostrazione politica, una nuova forma di protesta quasi
quotidiana, spontanea, improvvisa, con il proprio fulcro nelle campagne, altre volte in città o nelle fabbriche, ma sempre tendente a
coinvolgere gruppi sociali non omogenei.
La mancanza di cibo era un elemento catalizzatore di tutti i sentimenti di rivolta, anche perché le privazioni si accompagnavano alla
provocazione prodotta dalla vita esente da sacrifici che conduceva una parte della popolazione, senza che lo Stato intervenisse a creare
una situazione di parità.
All’origine della protesta c’era dunque la convinzione di subire un’ingiustizia, un’offesa morale, determinata dalla non equità nella
distribuzione dei pesi della guerra, o da imposizioni ritenute illegittime. Ogni sopruso ( o atto ritenuto tale ) provocava una reazione
spontanea a catena, che finiva per coinvolgere lo Stato il significato stesso della guerra.
La principale caratteristica della protesta popolare fu che essa fu rivolta anche contro il modo in cui le autorità statali gestivano il loro
potere, venendo meno ai propri obblighi e violando diritti considerati come acquisiti. Attraverso la rivolta, la comunità difendeva i
propri valori contro l’imposizione dei nuovi codici morali imposti dalla guerra.
Questo tipo di “rivolta morale”, antiautoritaria e antigovernativa, assimilò l’Italia soprattutto ai paesi nemici contingenti, dove la
militarizzazione e l’impatto della fame produssero effetti politici e sociali simili.
Motivazioni analoghe contraddistinsero anche le agitazioni operaie. Gli scioperi si verificarono soprattutto nelle fabbriche non
sottoposte alla MI. Le agitazioni, oltre che a motivi economici, furono spesso legate anche all’inasprimento coercitivo, altre volte fu
legata a fattori esterni alla fabbrica ( disagi prodotti dalla scarsità di cibo, di alloggi, di combustibile, ecc., ), che si sommavano alla
disciplina inflessibile, ai rigori della fabbrica e ai ritmi spossanti di lavoro. Questo creava uno stato d’animo tale che, laminino fattore
di turbamento, poteva scatenarsi un’insurrezione. L’episodio di Torino, nell’agosto 1917, costituì l’episodio culminante della rivolta
popolare del periodo bellico.
Nella primavera e nell’estate del 1917 la tensione sociale era altissima. Le agitazioni delle campagne e delle città contro il carovita si
erano susseguite senza soluzioni di continuità ed avevano assunto, talora, il carattere di una vera e propria sommossa regionale.
E quando le agitazioni contadine si erano interrotte per l’inizio dei lavori agricoli, era cominciata la calda estate operaia. Questo stato
di cose aveva prodotto una grave apprensioni nella classe dirigente, nella quale si stava facendo strada il timore che l’Italia potesse
seguire l’esempio russo: secondo i resoconti delle autorità Salandra Salandra governo, i contadini parlavano della rivoluzione come un

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fatto ormai scontato e le agitazioni politiche scoppiate, quasi allo stesso tempo, nei maggiori stabilimenti facevano pensare ad un piano
rivoluzionario.
Cosa c’era di vero in tutto questo? Sicuramente, gli eventi russi avevano fortemente influenzato gli operai e militanti socialisti.
Altrettanto certo è che nessun piano nazionale stava dietro le agitazioni operaie e cittadine di quell’estate, né il Psi era intervenuto
direttamente in quelle rivolte.
Tuttavia, l’aver condannato la guerra e sostenuto i diritti dei cittadini fece apparire il partito agli occhi dell’opinione pubblica come il
principale artefice dei movimenti per la pace e la libertà.

10. Lotta politica e processi di radicalizzazione.


Fin dai primi mesi di guerra, un crescente nervosismo si era impadronito dei gruppi che più tenacemente avevano lottato per l’entrata
in guerra. Sulla stampa e alla Camera vari esponenti interventisti avevano espresso critiche, spesso violente, nei confronti del governo,
accusato di inefficienza e di atteggiamento troppo morbido nei conforti dell’opposizione neutralista, alla cui propaganda venivano
attribuiti gli insuccessi al fronte e le titubanze della politica interna.
L’opposizione, in realtà, non aveva creato grossi problemi a Salandra: il suo gruppo aveva evitato di intraprendere delle battaglie, e un
atteggiamento altrettanto cauto avevano tenuto le gerarchie cattoliche. Per quanto riguarda i socialisti, invece, avevano fortemente
risentito della loro sconfitta.
Il partito aveva visto fortemente diminuire il numero degli iscritti e paralizzate molte delle attività collettive. Contribuiva al turbamento
interno anche il contrasto evidente tra le correnti: l’intransigente, che rifiutava ogni forma di compromissione, e la riformista, pronta
alla critica allo Stato ma anche a una cooperazione informale con il governo. Una collaborazione, di fatto, veniva attuata dal Psi a
livello Salandra,le, dove le organizzazioni socialiste affrontarono da sole ( o insieme ad altre forze di maggioranza consiliare ) i
problemi di consumi, prezzi, lavoro e assistenza.
L’ostilità degli interventisti nei confronti del governo nasceva dal fatto che Calandra Salandra le distanze da loro, in quanto estranei al
suo progetto di restaurazione conservatrice.
I gruppi della destra e della sinistra interventista si erano trovati, quindi, uniti nel richieder era formazione di un nuovo ministero che
li vedesse adeguatamente rappresentati, e che perseguisse una politica di guerra più convinta e più intransigente nei confronti
dell’opposizione politica.
La difesa della scelta interventista li conduceva ad ignorare le differenze di impostazione, a favore della formazione di un unico blocco
di pressione compatto e intransigente.
E a questo blocco si dovrà, per tutto il periodo della guerra, un’opera costante di pressione sul governo, a favore di posizioni sempre
più oltranziste.
Nel giugno del 1916 la sorte del gabinetto apparve segna. L’esito della Strafenexpedition aveva infatti fortemente indebolito Salandra
e giustificato la proposta di costruire un governo di unità nazionale, sull’esempio francese.
Nacque così il gabinetto presieduto da Boselli, con la presenza di interventisti di Sinistra ( Bonomi, Comandino, Canepa e Bissolati ),
nonché del cattolico Meda.
La nuova formazione risentiva però del fatto di essere costituita da un insieme di forze politiche non omogenee e non concordi: il
ministero dell’Interno fu affidato ad Orlando, favorevole alla conciliazione con le opposizioni, agli Esteri rimase Sonnino, simbolo di
continuità con l’originario progetto della destra.
Le contraddizioni interne al nuovo gabinetto erano legate anche alla presenza dei nuovi ministri interventisti, specie della personalità
di Bissolati. In politica interna, Bissolati costituì una palese dimostrazione dell’involuzione subita dall’interventismo democratico e si
scontrò quindi con Orlando; mentre in politica estera fu il principale sostenitore della linea ispirata ai principi di Wilson, di
autodecisione dei popoli, in contrasto con Sonnino, rigido sostenitore del patto di Londra.
L’indirizzo del governo risentì fortemente di questa eterogeneità di posizioni, dalla quale sarebbero scaturiti forti contrasti, nel 1917
riguardo alla politica interna e nel 1918 riguardo a quella estera.
Nel frattempo la crisi politica si aggravava e ad essa veniva a congiungersi una profonda crisi morale. Cadute le speranze di una
conclusione rapida e gloriosa del conflitto, la guerra appariva appariva nella sua reale dimensione tragica, nel suo carattere di evento
sfuggito al controllo di chi l’aveva prodotto, del quale era impossible valutare gli esiti finali.
La definizione della guerra data dal Papa nel 1917 - inutile strage - aveva espresso con drammaticità il significato che ormai molti
attribuivano al conflitto.
La nota non aveva sortito alcun effetto sul piano diplomatico, ma aveva influenzato notevolmente l’opinione pubblica, rendendo più
acuti i motivi di contrasto politico e culturale.
Mentre tale procedere degli eventi si traduceva, per coloro che avevano osteggiato l’entrata in guerra, in un fattore di conferma delle
proprie posizioni, in ambito interventista cresceva l’inquietudine e si radicava la tendenza ad attribuire a fattori ben individuabili la
responsabilità della situazione che il paese stava vivendo all’intero e al fronte.
Si rafforzava, pertanto, la nozione di “nemico interno”, uno dei topi dei movimenti interventisti più accesi e impersonato da coloro che
avevano osteggiato la guerra.
Gli avvenimenti russi, da un lato, e le agitazioni interne, dall’altra, sembravano fornire la conferma che la saldezza patriottica nazionale
veniva insidiata da segrete e pericolose congiure, ordite e organizzate da alle forze politiche, rappresentanti le classi pericolose.
Nel clima di tensione emotiva che si stava creando nel paese, il rapporto amico-nemico subita una forte accentuazione, determinando
una polarizzazione delle concezioni contrapposte e facendo sempre più emergere l’elemento etico, tipico di una guerra di religione.
Esclusa ogni possibilità di mediazione, la dinamica politica scadeva in lotta senza quartiere, all’interno della quale le forze che
detenevano il potere ricorrevano all’uso di sistemi leciti e no per sconfiggere l’avversario.
Di questo infuocato clima risentì il governo Boselli, che veniva sottoposto oltre alle critiche dei neutralisti, a nuovi attacchi da parte
degli esponenti interventisti, concordi nell’appoggiare la linea dura e repressiva impersonata da Cadorna e nel combattere Orlando.
La forza degli interventisti era rappresentato dal fatto che Cadorna era il più convinto assertore della necessità di mutare politica
all’interno del paese: egli continuava ad attribuire l’assenza di entusiasmo partitico dell’esercito alla nefasta influenza delle forze
pacifiste, che a suo parere riuscivano a condizionare dall’interno l’animo dei soldati.
Cadorna riteneva quindi colpevole la politica di tolleranza di Orlando e ne aveva fatto espressa denuncia a Boselli.
Alla fine di giugno avvenne lo scontro aperto tra le due tendenze politiche governative: si giunse a sospettare che Cadorna, insieme a
tutti i movimenti interventisti uniti, avesse complottato per attuare un colpo di Stato, instaurando un governo guidato direttamente da
un militare ( forse Cadorna stesso ).

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Il progetto, mai confermato ufficialmente, andò comunque in fumo per il mancato assenso , sembra, dello stesso interventismo
democratico e per la netta avversione a qualsiasi avventura neogiacobina da parte dei conservatori nazionali.
Le critiche alla conduzione della guerra da parte di Cadorna erano state durissime ed erano provenute anche da militari: ne derivava un
indebolimento della sua figura sia al fronte che nel paese.
Si era contemporaneamente palesata una spaccatura interna alle gerarchie militari: mentre il Comando supremo aveva intensificato il
suo attacco contro i socialisti e la classe operaia da essi rappresentata, Dallolio aveva difeso in Senato i salari operai e introdotto una
modifica importante nel meccanismo di mediazione della MI, attraverso l’ammissione dei sindacati alle discussioni del Comitato
centrale. Si veniva quindi configurando una divisione che tagliava in due settori sia il mondo politico che quello militare.
A una forte sterzata a destra fu costretto il governo dopo l’insurrezione di Torino, per parare gli attacchi interventisti: non solo furono
estere le zone di guerra e licenziati due fidi collaboratori di Orlando, ma il 4 ottobre fu anche emanato un decreto con cui si instaurava
il reato di opinione.
Tutte le vicende interne e internazionali avevano convinto i più a dare vita a un governo che perseguisse una politica di moderazione.
In ottobre erano proseguite le critiche a Cadorna e in Parlamento alcuni interventisti si erano dissociati con forza dalle posizioni estreme
del movimento.

11. Da Caporetto al Piave. Cause ed effetti della rotta militare.


“Caporetto perché?” è il titolo di una famosa memoria difensiva del generale Capello, comandante della II armata, uno dei principali
responsabili della rotta dell’esercito italiano alla fine di ottobre del 1917.
Furono in molti, in quei giorni, a porsi quella domanda, non soddisfatti dalla versione ufficiale fornita dal Comando supremo, che
attribuì unicamente la responsabilità alla mancata resistenza di reparti della II Armata. Secondo Cadorna, le truppe, in preda alla
propaganda disfattista, avrebbero messo in atto quello che poteva essere considerato un vero e proprio “sciopero militare”.
In realtà i motivi del disastro erano esclusivamente da addebitare ai gravi errori militari:
- sottovalutazione delle forze avversarie;
- assenza di coordinamento tra i comandi;
- errati schieramenti delle truppe e dell’artiglieria;
- colpevole incredulità nei confronti delle notizie che segnalavano il probabile attacco austro-ungarico.
Dopo il crollo del fronte russo, i tedeschi si erano convinti dell’opportunità di unire le proprie forze a quelle austriache e avevano messo
in atto la tecnica dell’infiltrazione e della sorpresa, riuscendo a travolgere la II Armata italiana, priva delle difese necessarie, e a cogliere
totalmente alla sprovvista i comandi. Gli austro-tedeschi, grazie anche alla stanchezza dell’esercito italiano, sfondò le linee fino a
Udine, poi fino al Tagliamento, e poi, il 9 novembre, al Piave.
Per individuare le cause reali della rotta fu installata una commissione d’inchiesta che, dopo otto mesi dalla fine della guerra, emise un
durissimo giudizio sulle responsabilità del Comando supremo riguardo a tutta la condotta della guerra, di cui la disfatta di Caporetto
fu indicata come l’epilogo.
L’improvvido bollettino, che scaricava tutte le colpe sui combattenti, inviato da Cadorna agli alleati senza aver avvertito il governo fu,
insieme alle oggettive responsabilità della disfatta, uno dei motivi che portarono alla rimozione del comandante in capo, ormai mal
visto dagli alleati e da tempo mal tollerato dal governo.
Nonostante il fatto che la verità iniziasse a trapelare, la tesi che la rotta dovesse essere addebitata essenzialmente a una resa volontaria
di gran parte delle truppe rimase fortemente radicata nell’opinione pubblica, civile e militare.
In verità, il motivo per cui le truppe si dispersero in disordine e alla rinfusa dipese dal fatto che rimasero senza ordini o in balia di
comandi contraddittori.
Gran parte di coloro che fronteggiarono il nemico furono fatti prigionieri, e quanti riuscirono a sfuggire si aggirarono per giorni nelle
retrovie, convinti che tutto questo portasse alla fine della guerra.
Le conseguenze dell’invasione apparvero subito drammatiche: non solo naufragava il programma di espansione e la speranza che la
guerra potesse elevare l’Italia a livello delle grandi potenze europee, ma si profilava anche la possibilità della perdita di molti territori
conquistati durante il Risorgimento.
Il paese si trovava dunque a dover affrontare nell’immediato compiti colossali, al fronte e all’interno. <era necessario organizzare la
resistenza militare e allontanare la possibilità di dover accedere a una pace separata: si trattava di reinquadrare gli sbandati, di
rintracciare i disertori e di ricostruire il bagaglio di munizioni e vettovaglie.
Contemporaneamente, era necessario fronteggiare la possibilità che il regime venisse travolto da un rivolgimento interno.
L’ipotesi di un imminente pericolo rivoluzionario guadagnò rapidamente terreno tra le forze politiche. Lo stato animo della popolazione
spingeva alle previsioni più cupe: dopo la disfatta e l’invasione nemica, in molte campagne italiane si era festeggiata l’auspicata
conquista austriaca del territorio italiano.
Riguardo alla classe operaia, da alcuni mesi si erano susseguiti dispacci di vari prefetti del regno che sospettavano un piano
insurrezionale legato a un imminente sciopero generale simultaneo contro la guerra.
Paradossalmente, Caporetto, la grande tragedia e onta nazionale, fu l’elemento che permise all’Italia di salvare le sue disastrate strutture
militari e politiche.
Da un punto di vista militare, la riduzione dell’ampiezza del fronte, la collaborazione interalleata e la sostituzione di Cadorna con Diaz
produssero una svolta nella condotta della guerra.
Il fronte era:
- meno esteso di 250 km, e questo rendeva più semplice la difesa;
- era facilmente raggiungibile dalle retrovie, e quindi meglio collegato con i rifornimenti.
Riguardo al rapporto con gli alleati, questi si convinsero:
- dell’opportunità di instaurare un comando unico, sotto la guida di un Consiglio superiore di guerra interalleato;
- di inviare immediatamente truppe sul fronte italiano.
Fondamentali per la sopravvivenza del paese, in seguito, furono i massicci rifornimento di armi, carbone e generi alimentari e gli aiuti
finanziari giunti dall’Inghilterra e poi dall’America.
Caporetto determinò un mutamento decisivo nella strategia di guerra.

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Diaz ( che aveva instaurato da subito un rapporto di cooperazione con il potere politico ), era fermamente convinto di dover mantenere
una tattica unicamente difensiva. Questo permise che si venisse a determinare nell’esercito una diversa concezione della guerra:
l’assenza di una strategia basata su assalti insensati servì a ricreare nei soldati una certa fiducia nei confronti dei superiori. Inoltre la
disciplina, per certi versi più rigida di prima, fu meno causale e gratuita che nel passato.
Diverso fu anche l’atteggiamento verso il morale del soldato adottato dai comandi:
- maggiore attenzione alle condizioni fisiche delle truppe;
- diffusa propaganda, con organismi specifici e mobilitazione di comitati civili e militari per svolgere conferenze,
- comprensione della rilevanza dell’aspetto materiale e quindi conseguenti provvedimenti a favore del combattente o della sua
famiglia;
- maggiore cura nel cambio dei turni in prima linea;
- concessioni più frequenti di licenze;
- polizze di assicurazione gratuita sulla vita;
- istituto di assistenza per il dopoguerra ( l’Opera nazionale combattenti );
- alcuni provvedimenti per vedove, orfani, invalidi e mutilati;
- possibilità di una concessione di terre al loro ritorno.
Se la tenuta delle truppe migliorò, ciò si dovette soprattutto a questa opera di assistenza. L’esperienza del disastroricostruire militare
non aveva suscitato una ripresa di spirito patriottico delle truppe.
Ancora per molto tempo dopo Caporetto, i resoconti sullo stato d’animo dei soldati avevano segnalato che i sentimenti prevalenti erano
quelli della cupa accettazione e/o della malcelata rabbia.
Tuttavia, grazie a un coordinamento più efficiente delle operazioni e a un maggiore rispetto del combattente, nell’ultimo anno di guerra
l’esercito italiano riuscì a mantenere salde le sue posizioni e a, abbandonata la tecnica dell’attacco frontale, a far diminuire
drasticamente il numero dei morti e dei feriti.
La strategia difensiva e l’arrivo di un contingente di artiglierie e truppe alleate permisero a Diaz di non cedere.

12. Riorganizzazione amministrativa, impulso all’economia e processi di burocratizzazione.


Parallelamente alla ristrutturazione militare, si procedette a un riordinamento dell’organizzazione civile e a un’ulteriore espansione dei
poteri dell’esecutivo.
Già negli anni precedenti le nuove funzioni governative avevano reso necessaria una notevole estensione delle strutture burocratiche
centrali e periferiche: la presidenza del consiglio aveva assunto compiti nuovi e più rilevanti, era cresciuto il numero dei ministeri e dei
sottosegretariati, si erano creati comitati di coordinamento e nuovi commissariati e si erano moltiplicati gli uffici locali.
Nel 1918 vennero costituiti nuovi uffici amministrativi e fu posta una maggiore attenzione a un’opera di coordinamento tra i vari
ministeri.
A livello periferico, fu esteso il campo di azione dei prefetti e furono ampliati i loro poteri in ambito di pubblica sicurezza.
Furono inoltre potenziati gli organi di polizia, specialmente furono precisate le funzioni dell’Ufficio centrale di investigazione, che
veniva ad affiancarsi al Servizio informazioni del Comando supremo.
Aumentarono così dopo Caporetto i controlli nei confronti del potere militare, il cui campo di azione si ampliò comunque perché tutta
l’Italia settentrionale venne dichiarata zona di guerra e fu estesa a nuovi tribunali militari.
Dal rafforzamento del potere centrale conseguì un’ulteriore diminuzione della sfera di autonomia del Parlamento e una subordinazioni
ancora più accentuata del giudiziario all’esecutivo.
Dopo Caporetto, si accentuò l’attitudine dello Stato a farsi propulsore e controllore dell’intera vita industriale e finanziaria.
L’azione dei poteri pubblici si mosse in due direzioni: venne chiesto e ottenuto l’appoggio alleato, senza il quale l’Italia non avrebbe
potuto superare la crisi, e si cercò di incentivare al massimo lo sforzo produttivo.
Grazie all’impulso statale, l’industria di guerra riuscì, nel giro di pochi mesi, a ricostruire l’intero materiale di artiglieria perduto a
Caporetto.
Lo sforzo industriale fu ingentissimo: i trust fecero fronte alle richieste governative, nonostante le difficoltà nel reperire le materie
prime e la carenza di energia elettrica, e, nel tentativo di acquisire il predominio economico, essi iniziarono a battersi cercando di
acquisire le maggioranze azionarie delle imprese concorrenti e mirano a impossessarsi dei pacchetti delle maggiori banche private.
L’operazione non riuscì del tutto perché, per intervento del ministro del Tesoro Nitti, nel giugno del 1918 fu firmato un accordo che
regolava e limitava le possibilità di attuare la scalata agli istituti di credito.
Fu in questa ultima fase della guerra che il potere pubblico mise a nudo la propria debolezza nei confronti della sfera privata: di fronte
alle necessità della produzione, si fecero più stretti i rapporti tra gruppi industriali e settori dell’amministrazione, e i controlli centrai
divennero più casuali, con il conseguenze dilagare di corruzioni e scandali-
In realtà, l’interconnessione tra pubblico e privato trovava la sua giustificazione nella necessità di creare un esecutivo in grado di
affrontare i nuovi compiti economici dello Stato.
Il processo di modernizzazione innestato dalla guerra aveva sviluppato l’esigenza di meccanismi di gestione più efficienti ed dinamici.
L a nuova concezione di interventismo statale si era concretizzata tramite la formazione di una nuova burocrazia, formata da tecnici
provenienti dallo stesso ambiente industriale.
Il progetto di snellimento burocratico cozzava, però, da un lato, con le difficoltà di cooperazione con un mondo economico sempre più
deciso a volgere a proprio esclusivo vantaggio la situazione eccezionale determinata dalla guerra; dall’altro lato, con le stesse
dimensioni gigantesche assunte dalla macchina statale, che rendevano assai arduo il compito d semplificare le procedure senza cadere
in una gestione tanto poco limpida quanto poco efficiente
La creazione continua di nuovi istituti finì infatti per produrre una confusione burocratica incredibile e per dare il via a una
segmentazione del potere che pesò non poco sulla capacità dello Stato di mediare tra le diverse e contrastanti realtà che facevano capo
a tali centri di potere.
La riorganizzazione dell’amministrazione non evitò che proseguisse il fenomeno della proliferazione burocratica, con conseguente
frequente inceppo della macchina organizzativa.

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Lo stesso decentramento amministrativo, pur favorendo un intervento più pronto e adeguato a realtà socialista tanto diverse tra loro,
facilitò soluzioni le une in contrasto con le altre, poiché ogni ministero tendeva ad avere propri uffici decentrati, svincolati dal controllo
dell’istituito di coordinamento provinciale prefettizio, con il risultato di un notevole grado di inefficienza e corruzione a livello locale
e di un indebolimento del potere centrale.
Forti disfunzioni derivarono anche dalla duplicità di poteri civili e militari che si venne a creare nelle amministrazioni centrali e
periferiche.
Mentre l’espansione burocratica portava a una frantumazione del potere pubblico, l’iniziale decisione del governo centrale di non
intervenire in alcuni settori chiave e la deficiente vigilanza su quelli controllati condussero, per altri versi, al trasferimento di autorità
in centri autonomi, che si sostituivano allo Stato o riuscivano comunque a influenzarlo-
Si verificava quindi un processo di frantumazione interna alle istituzioni e di moltiplicazione di nuovi centri di irradiazione di autorità
al di fuori di esse.
Sintomo di questa segmentazione del paese fu la ripresa di progetti, già formulati nell’anteguerra, di una nuova forma di rappresentanza,
basata sulla diretta partecipazione al potere degli esponenti dei vari interessi e delle diverse professioni. Era un mezzo per ottenere la
legittimazione di tutti quei gruppi e associazioni che durante la guerra avevano ottenuto dallo Stato privilegi e deleghe di potere.

13. Svolta politica e reazione del paese.


Caporetto aveva segnato una svolta decisiva anche in politica interna. Quando erano pervenute le notizie del disastro, la Camera era
riunita per decidere le dimissioni di Boselli e la formazione del governo Orlando.
Lo spirito unitario e patriottico che coinvolse tutte le parti politiche fece concepire, per un momento, la possibilità della costituzione di
un governo a larga maggioranza parlamentare, al quale partecipassero, oltre ai cattolici, sia i giolittiani che i socialisti.
Di fronte a una simile ipotesi, però, le forze che facevano capo allo schieramento interventista e ai conservatori nazionali salandrini
superarono i dissidi che li avevano divisi e si presentarono alla Camera in blocco compatto, dando vita a una nuova formazione, il
Fascio parlamentare di difesa nazionale ( difesa contro il nemico esterno ma anche interno ).
La svolta ebbe immediate ripercussioni sulla politica di controllo sociale. Dopo Caporetto una repressione più capillare colpì ogni
opinione contraria a quella considerata consona alla coesione patriottica. I primi a pagare furono i socialisti, non più protetti da Orlando:
vennero processati e condannati i principali leader, sulla base di un’interpretazione delle norme ( “tradimento indiretto” ) che
permetteva di infliggere pene pesanti anche se non si ravvisava la volontà degli accusati di commettere i reati imputati.
In questa atmosfera, la reazione del Psi fu quella di difendere la propria unità interna e di accentuare il proprio legame ideale con quei
gruppi che all’estero stavano soffrendo le tessere persecuzioni o che in russia avevano giù raggiunto il potere.
Le conseguenze sarebbero state gravi. il mantenimento dell’unità ad ogni costo avrebbe ostacolato un chiarimento tra le due correnti
del partito ( riformismo di Turati vs massimalismo di Serrati ), mentre il richiamo all’esempi rivoluzionario russo avrebbe impedito
una reale valutazione della situazione del paese-
La persecuzione si allargò a tutta la popolazione, alla ricerca di quanti in qualche modo si distinguessero da quello che l’ideologia
predominante aveva imposto come regola: un patriottismo senza incertezze né dubbi. A tale azione furono di supporto i gruppi
interventisti, che denunciarono cittadini sospettati di scarso patriottismo o personaggi noti per il loro pacifismo.
Vennero condannati come reati le manifestazioni di disappunto per la mancanza di viveri, espressioni di pessimismo sulle operazioni
militari, dichiarazioni militari, di speranza nella pace o atti di solidarietà umana. Le denunce colpirono soprattutto le classi popolari.
All’ideologia mirante al consenso totale contribuì in modo determinante anche la propagande che, a partire soprattutto dalla primavera,
investì le trincee, le retrovie e il resto del paese.
Dopo Caporetto, venne attuato un preciso piano di reintegrazione e ricomposizione sociale e nazionaleanzionale, realizzato tramite un
controllo centralizzato della stampa e della propaganda.
L’immagine tipo che veniva proposta era quella della subordinazione contadina, inserita in un contesto di ordine gerarchico, basato sui
valori stabili della nazione e dell’esercito.
Il richiamo era ad un passato che prescindeva dai mutamenti imposti dalle due grandi rivoluzioni ( industriali e francese ) sia dagli
sconvolgimenti indotti dall’economia di guerra, che avevano posto al centro della society la figura, eversiva, del proletariato di fabbrica.
Queste rappresentazioni, oltre a voler fare presa sui combattenti contadini, avevano anche la funzione di sedare il terrore insinuatosi in
larghi settori in seguito agli eventi russi, che avevano rese concerto le paure che tutte le classi dirigenti avevano interiorizzato dopo il
1789.
Difficile dire quale fu l’effettivo risultato della propaganda: non di rado molti furono accolti da fischi. La campagna propagandistica
nelle classi popolari ottenne effetti mediocri, nelle campagne gli oratori vennero presi a sassate, negli ambiti operai furono perlopiù
azioni forzate e riuscì nel suo intento solo nei ceti medi.
La rotta aveva alimentato il senso di appartenenza nazionale dei ceti medi. Dal punto di vista ideologico, per la prima volta la guerra
aveva assunto un volto difensivo e aveva dissipato i dubbi circa l’opportunità dell’intervento.
Il disastro aveva provocato una reazione emotiva tale che si era tradotta in una forte spinta solidaristica e nella conseguente tendenza a
partecipare alla resistenza interna al potere tramite l’azione di assistenza e propaganda.
La disfatta militare era riuscita a creare quel clima di fervore e sacralità patriottica che in Italia era mancata al momento dell’intervento.
Questo stato d’animo partecipativo segnò in modo decisivo la mentalità dei ceti medi: essi si convinsero che la loro azione solidaristica
era essenziale per la resistenza interna.
Questo portò a un’altra valutazione del proprio ruolo: da una parte, pretesa del riconoscimento economico., sociale e poetico da parte
dello Stato; dall’altra a ergersi come protagonisti della saldezza patriottica.
Il clima di solidarietà patriottica era destinato ad esaurirsi abbastanza rapidamente. dopo Caporetto, le condizioni di vita della
popolazione stavano attraversando la fase più drammatica di tutto il periodo bellico.
Alla mancanza di alimenti si era aggiunto l’aumento vertiginoso dei prezzi e le difficoltà non erano mai equamente distribuite tra i ceti
sociali: la guerra aveva l’effetto di mettere ancora più in evidenza le differenze tra i ricchi e i poveri.
Alle disparità di sacrificio sui consumi si univano quelle legate al diverso diritto di vita.
I disagi e le parzialità avevano riacutizzato il sentimento antistatale delle classi più povere.
Le difficoltà economiche e le palesi disparità ebbero anche l’effetto di far talora convergere la protesta delle categorie più colpite della
piccola borghesia con quella dei ceti popolari: i nemici erano comune e tale era l’indignazione per il cattivo funzionamento dei servizi.

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Mentre le classi popolari non avevano visto colpita dalla guerra la propria posizione sociale, per i ceti medi le ristrettezze economiche
avevano significato un netto declassamento sociale: cosa che li portava ad accentuare la loro tradizionale avversione verso nuove
emergenti figure operaie.

14. La vittoria e i costi della guerra.


Quando il 24 ottobre 1918, esattamente un anno dopo la disfatta di Caporetto, gli italiani decisero di abbandonare la strategia difensiva
e di dare inizio a un’offensiva sul Grappa e sul Piave, l’impero austro-ungarico era già in piena dissoluzione.
Dopo alcuni giorni di combattimento, le difese austriache crollarono di colpo, logorate dalla fame e dall’insubordinazione interna.
Il 3 novembre, a Villa Giusti, presso Padova, fu firmato l’armistizio tra Italia e Austria: le ostilità cessarono alle 15 del giorno
successivo. Il conflitto terminava con costi enormi per il paese, sia dal punto di vista economico che sociale.
Era accresciuta enormemente la dipendenza dall’esterno, aggravando i debiti dello Stato italiano con gli i Usa e la Gran Bretagna, che
erano in continua crescita a causa della svalutazione della lira. Gravi danni aveva subito anche l’agricoltura, settore nel quale la
produzione era diminuita e l’assenza di investimenti e miglioramenti tecnici ne aveva fortemente ridotto le potenzialità produttive.
La situazione dell’industria appariva contraddittoria. Se essa aveva realizzato un balzo enorme paradossale grazie alla guerra, si erano
aggravati molti dei difetti di crescita dell’anteguerra, come l’eccessivo rigonfiamento dei settori protetti, la tendenza speculativa che
limitava gli investimenti produttivi e la vitale dipendenza dallo Stato delle industrie di base.
La guerra aveva notevolmente impoverito il paese, ma il suo peso economico non era stato distribuite equamente.
Da un punto di vista sociale, il sentimento antistatale si era progressivamente diffuso, tanto che quasi nessun ceto o gruppo ne era
rimasto immune.
Il governo aveva affrontato e risolto molti dei giganteschi problemi nei quali si era trovato coinvolto, ma gli interventi non erano stati
sufficienti a sanare le difficoltà, talvolta aveva peggiorato le situazioni preesistenti.
La sfiducia e l’ostilità verso lo Stato non si accompagnavano a una semplice condanna del suo operato e al desiderio di ripristino della
situazione di non intervento prebellica: in modo paradossale l’aumento delle funzioni statali aveva generato in ogni ceto l’attesa di
interventi che compensassero i sacrifici sofferti o i compiti svolti. Esempio: le classi medie si aspettavano un riconoscimento sociale,
economico e politico.
L’esperienza bellica aveva dunque prodotto una specie di segmentazione corporativa dei vari gruppi sociali, tutti ugualmente convinti
che dovessero essere attuati a loro favore interventi, che però quasi ai erano conciliabili gli uni con gli altri.
Prolungatosi per più di tre anni, il conflitto aveva agito in una direzione opposta rispetto a quella sperata dai governanti.
Non si era determinata una ricomposizione patriottica: al contrario, l’individuo chiedeva che lo Stato riconoscesse i diritti dei singoli e
del gruppo, con il risultato di un’accresciuta frammentazione sociale e accentuazione delle tendenze antistatali.
La guerra aveva prodotto un riaccendersi delle antiche rivalità regionali e comunali e una ripresa dell’ostilità tra città e campagna.
Le oggettive difficoltà economiche, le carenze organizzative, la mancata applicazione di norme assistenziali avevano privato il governo
di quell’appoggio e quella legittimazione che altri paesi avevano raggiunto con le reazioni dell’opinione pubblica.
In Italia, le difficoltà connesse a un processo di modernizzazione accelerato e a un fragile rapporto governati-governanti avevano resto
in parte inevitabile un maggiore ricorso a criteri autoritari ella gestione del potere. Tuttavia, lo Stato si era affidato a questi anche per
supplire alle proprie inefficienze e intrinseche debolezze, con un’accentuazione gratuita dei metodi repressivi.
Da un punto di vista politico, il primo coinvolgimento collettivo della popolazione era avvenuto sulla base del contrasto tra
interventismo oltranzista e pacifismo “disfattista”, in un clima che aveva sfiorato la guerra civile e che aveva alimentato revanscismi
nazionalisti e utopiche trasformazioni rivoluzionarie.
Se si era realizzata una “nazionalizzazione delle masse”, era stata per sempre segnata dalla militarizzazione e dalla dicotomia
ideologica, in base a un modello costruito sul rapporto dominio-subordinazione e sulla contrapposizione “amici-nemici”.

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