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i motivi della conversione di queste forze erano diversi: si andava dal tema risorgimentale della guerra per la liberazione di Trento e
Trieste da parte degli irredentisti, a quello della lotta contro l’autoritarismo austriaco e per il trionfo della democrazia fomentato dagli
interventisti democratici e repubblicani, a quello della guerra rivoluzionaria dei sindacalisti rivoluzionari e di una minoranza anarchica.
MA le diverse forze erano anche unite da alcuni elementi comuni che permettevano loro di presentarsi unite a Roma il 20 settembre,
in occasione della ricorrenza risorgimentale.
Il cemento ideologico era costituito dall’avversione contro tutto ciò che riguardava l’età giolittiana: al riformismo empirico di Giolitti
veniva attribuita la causa della prolungata durata della condizione di inferiorità di cui soffriva da tempo il paese. Solo una guerra
vittoriosa a fianco delle grandi potenze democratiche, ma che, al contempo, tutelasse i diritti della nazione, favorisse il sorgere di
un’identità nazionale attraverso il sacrificio dei singoli e la loro sottomissione a un’unica disciplina, poteva trasformare l’Italia in una
grande nazione.
I primi mesi neutralità avevano portato in piena luce la frammentazione politica e culturale del paese. Al loro interno, I due schieramenti
contrapposti favorevoli e dei contrari all'intervento apparivano tutt'altro che compatti; mentre ricorrenti neutraliste percorrevano classi
sociali diverse, interventismo mostrava una maggiore omogeneità.
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motivazione ufficiale, riportata da Salandra, era quella di un sacro egoismo in vista di spartizioni future dei territori appartenenti ai pesi
vinti.
In previsione di una guerra breve, si era considerato superfluo trovare una giustificazione; la propaganda a favore della guerra era stata
delegata dal governo delle avanguardie politiche interventiste e facendo soprattutto perno su quella irredentista, capace di coinvolgere
però solo alcune minoranze.
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Da parte loro, È forte politica di opposizione siano assegnate la sconfitta, nella convinzione degli eventi avrebbero alla fine giocato a
loro favore.
La previsione di una guerra breve cosa sicuramente sulle decisioni del PSI, è già in una riunione del 16 maggio aveva abbracciato una
posizione di estraneità e di attesa basata su una formula, tale da permettere l'unità tra le diverse correnti interne: Ne aderirono né
sabotare.
La dura legislazione repressiva messa in atto in quei giorni rendeva d'altra parte impraticabile ogni forma più vistosa di opposizione.
Il 22.23 maggio una serie di decreti avevano ridotto drasticamente le libertà civili dei cittadini, mediante la concessione ai prefetti di
proibire riunioni anche private, di perquisire e chiudere associazioni, di rimpatriare con foglio di via inviare al domicilio quattro persone
indesiderate, E di trasferire militari tutte le competenze in materia di pubblica sicurezza.
In generale e la state enormemente ampliata la sera di autorità del potere militare, così da configurare una vera e propria militarizzazione
dello Stato.
Erano state infatti sottoposti al controllo totale militare le cosiddette zone di guerra, che furono poi progressivamente estese ai centri
dove si tenevano agitazioni operaie: In esse le libertà statuarie erano soppresse ed era concesso alle autorità militari di legiferare,
mediante bandi, in deroga alle leggi dello stato.
Le norme eccezionali provvedevano inoltre l'ampliamento dell'ambito della giustizia militare, venendo sottoposti ai tribunali militari e
al codice penale militare numerosi reati commessi da civili.
In seguito fu assegnata ai militari anche la censura dalla corrispondenza privata con il fronte, con i campi di prigionia in territorio
nemico e con le zone di guerra.
Nei mesi successivi sarebbe poi stata elaborata la normativa riguardante il controllo del lavoro, attraverso la quale si sarebbe attuata la
militarizzazione delle masse operaie.
Irene torno, giustificato dallo stato di guerra, ha una legislazione dal regime assoluto, con l'aggiunta di nuove forme moderne di reato,
Come quelle attinenti alla sfera dell'opinione e del lavoro.
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Il comando supremo aveva creduto di poter ovviare all’assenza di mezzi attraverso un’estesa mobilitazione di uomini ( la carne da
cannone ): al cospicui numero di richiamati, però, non corrispondeva un’idonea preparazione delle truppe.
Mancavano infatti i corpi speciali, dal momento che la stessa concezione di una guerra basata sullo scontro frontale di massa ne aveva
fatto considerare superflua la costituzione.
Inoltre, inadeguato era il grado di preparazione degli ufficiali, peraltro numerosi, mentre la consistenza dei quadri medio-bassi era,
all’inizio del conflitto, assolutamente insufficiente riguardo alle necessità di una guerra di massa. Carente era anche il numero dei
sottufficiali.
Infine il comando supremo, sempre convinto che la guerra sarebbe durata pochi mesi, aveva sottovalutato il problema degli
approvvigionamenti alimentari, nonché delle necessarie attrezzature di vestiario e di ricovero per l’inverno.
La distribuzione degli indumenti invernali fu a lungo deficiente, tanto che ancora nel novembre del 1916 divennero denunciati
moltissimi casi di amputazioni in seguito al congelamento degli arti inferiori. Successivamente al situazione si modificò, ma non
migliorò l’organizzazione dei rifornimenti alimentari: in rapporto alle difficoltà di approvvigionamento, le razioni si ridussero
notevolmente a partire dalla fine del 1916.
A determinare queste gravi carenze contribuì notevolmente l’anomalia che caratterizzò in Italia il rapporto tra il potere politico e il
potere militare, costituita dalla mancanza di contatti tra il governo e il comando supremo e dalla conseguenze assenza di un piano di
azione concordato.
La separazione tra i due poteri faceva parte della tradizione dello stato Italiano ed era fortemente sostenuta dalla destra perché sottraeva
le forze armate al controllo del Parlamento; tuttavia, era paradossale in una situazione in cui ambedue le sfere mostravano la volontà
di avviarsi verso l’intervento e partecipare a una guerra che richiedeva la mobilitazione di tutte le risorse, materiali e morali, del paese.
Il dualismo era apparto palese fin dai primi giorni successivi allo scoppio del conflitto. Al momento di dichiarare la neutralità, il
governo non si era curato di contattare Cadorna, né aveva accolto la sua proposta di un’immediata mobilitazione contro l’Austria.
La non collaborazione rea proseguita nei mesi seguenti: Cadorna, cui spettava l’elaborazione dei piani di guerra e le responsabilità
della preparazione militare e che doveva rispondere del suo operato solo al re, si era guardato bene dal comunicare il proprio piano di
operazioni al governo e dal concordare un progetto di mobilitazione. Allo stesso tempo, egli era stato tenuto all’oscuro delle scelte di
Salandra: anche la decisione di sottoscrivere il patto di Londra era stata presa senza aver consultato i vertici delle forze armate.
L’unica figura che poteva costituire un trait d’union tra i due poteri era il ministro della Guerra, ma fin da subito incontrò ostilità con
il Comando supremo, che riuscì a far sostituire il ministro Grandi con Zupelli; tuttavia, quando quest’ultimo levò critiche all’azione
militare, Cadorna ottenne di far dimettere pure Zupelli e far salire al ministero un uomo di grande fiducia, il generale Morrone, sostituito
poi da un portavoce ancora più fedele, il generale Giardino.
Le critiche alla strategia del Comando supremo non provenivano solo dagli ambienti governativi e parlamentari. L’impostazione data
alla guerra aveva suscitato dubbi e giudizi negativi fin dai primi giorni successivi all’intervento nello stesso ambiente militare.
I giudizi negativi si infittirono durante l’inverno, dopo che le cruente prime quattro battaglie dell’Isonzo si erano concluse agli inizi di
dicembre senza risultati territoriali apprezzabili, ma con enormi perdite umane. Ancora più serrate lo divennero dopo la spedizione
punitiva austriaca nel Trentino del maggio-giugno 1916, che aveva messo a nudo i difetti di previsione e di schieramento del Comando
Supremo.
Sebbene l’attacco austriaco avesse posto fine alla speranza in una guerra breve, basata sull’offensiva risolutiva, l'esperienza non servì
a modificare la linea strategica del cComando supremo. Nonostante le critiche, Cadorna proseguì nella strategia offensiva. Né la
disastrosa esperienza militare servì a creare una maggiore collaborazione con il potere politico, del quale fu invece sottolineata la
subordinazione, come dimostrarono le dimissioni a cui fu Costretto Calandra dopo la Strafenexpedition.
Le successive offensive non fecero altro che accrescere il clima di ostilità nei confronti di Cadorna. All’infuori della conquista di
Gorizia nell’agosto del 1916, le varie battaglie dell’Isonzo del 1916 e 1917 non portarono a conquiste di territorio, mentre spaventose
risultarono le perdite.
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Al fronte era considerato inevitabile erano i metodi disciplinari, l’arroganza di alcuni ufficiali e la loro incompetenza, ed erano questi
elementi che producevano le principali reazioni negative.
Cadorna era convinto che fosse necessario promuovere nell’esercito una politica di spietata repressione disciplinare. Il controllo nei
confronti dei quadri superiori veniva attuato tramite siluramenti e promozioni, che provocarono fino a Caporetto la sostituzione di ben
807 ufficiali superiori.
Il pericolo della destituzione portava però gli ufficiali a non risparmiare le proprie truppe, anche in presenza di azioni destinate a
decimare i reparti, e li spingeva allo stesso tempo a fare un uso esteso e capillare dei sistemi disciplinari più duri. Ad essi aveva sospinto
fin dal primo giorno Cadorna, rendendo così subito chiaro quale fosse il criterio che intendeva seguire, indipendentemente
dall’andamento delle operazioni.
La sanzione disciplinare attraverso formali procedimenti legali costituì solo un aspetto del sistema repressivo: data la scarsa fiducia
nella disposizione dei giudici a superare i limiti della legge per comminare le pene di morte, Cadorna incitò apertamente i comandanti
a eseguire subito sul campo le esecuzioni e a ricorrere con frequenza alle decimazioni.
Non si possiedono dati attendibili sulle esecuzioni sommarie senza processo e sulle decimazioni, di cui la memorialista e le fonti di
archivio ci indicano numerosi episodi, ma si può supporre che assommassero ad alcune centinaia.
Dalle denunce dei contemporanei sembra che si possa dedurre che il metodo fosse applicato con notevole frequenza, sia nei casi di
riottosità all’assalto, sia come punizione esemplare in episodi di disobbedienza.
La repressione era uno strumento usato in tutti gli eserciti, ma nel caso italiano superò di gran lunga i livelli applicati negli altri paesi
occidentali e fu, fino a Caporetto, l’unico metodo preso in considerazione a fronte del malcontento delle truppe. Questa era una
concezione borbonica del rapporto gerarchico, che da una parte ignorava i nuovi termini di una guerra di massa, e dall’altra considerava
i problemi dell’obbedienza di maggiore rilevanza rispetto a quelli dell’efficienza.
Agli ufficiali veniva pertanto richiesta più solidarietà di classe che capacità professionale. Riguardo ai soldati, , dato che venivano
considerati solo dei potenziali avversari da controllare, si riteneva inutile cercare di migliorarne lo spirito.
Questa concezione dei modi di gestire il potere non era prerogativa delle sole autorità militari. Cadorna era l’interprete al fronte di una
linea comune a tutta la classe dirigente italiana: la sua ostinazione per una guerra offensiva, la non curanza per il sacrificio di vite
umane, la propensione verso una disciplina di repressione terroristica, questi elementi erano il corrispondente in ambito militare delle
scelte politiche dei governi di guerra, volte a privilegiare le misure rivolte all’abolizione coercitiva del dissenso in luogo di una politica
di assistenza e di coesione sociale.
Fu necessaria ed utile l’applicazione al fronte di criteri disciplinari tanto rigidi? Non può essere trascurato il fatto che il rigore
disciplinare era a volte ingiustificato e irragionevole.
L’obbedienza che veniva richiesta prescindeva spesso dalle necessità del momento e dalla stessa logica della guerra- Gli ordini impartiti
dagli ufficiali erano spesso in palese contraddizione con la funzionalità dell’azione, come accertò anche la Commissione d’inchiesta
su Caporetto.
Riguardo all’utilità dei mezzi repressivi, è indubbio che essi servirono ad evirare fenomeni di insubordinazione di massa. Nonostante
i racconti sul malcontento, gli episodi di effettiva insubordinazione di gruppo furono abbastanza limitati: agiva da deterrente il timore
delle conseguenze; il numero dei fucilati fu assai elevato ogni volta che si verificò un’insubordinazione di massa.
Altrettanto indubbio è che esso originò profonda avversione e sotterranea ribellione contro le gerarchie, mentre è accertato che il miglior
trattamento morale e materiale del soldato, attuato dopo Caporetto, produsse risultati positivi sulle capacità di resistenza delle truppe.
I sentimenti di rivolta si svilupparono anche tra coloro che si erano arruolati animati da spirito patriottico. Questo stato d’animo non
era diffuso tra le truppe: il numero dei volontari fu bassissimo, mentre quello dei renitenti fu altissimo. Un senso di orgoglio nazionale
aveva però animato i numerosi soldati italiani emigrati in America, tornati in Italia per combattere, non di rado volontari: furono proprio
costoro che si trasformarono nei più violenti critici del sistema di guerra.
Gli effetti della gestione militare dei primi due anni e mezzo di guerra furono quindi contraddittori. Il timore della repressione evitò
infatti che si verificassero episodi macroscopici di insubordinazione. Tuttavia, le condizioni cui fu costretto il soldato produssero uno
stato di avversione e rifiuto a tal punto che, quando non provocò vere e proprie forme di patologia psichiatrica, si tradusse in varie
forme di fuga e si manifestò sia in modo indiretto, ad esempio mediante la simulazione di ferite o malattie, sia in modo diretto, tramite
la resa al nemico e la diserzione.
Le simulazioni venivano facilmente individuate, sia a causa dell’ingenuità di molti tentativi, sia per l’intransigente resistenza dei medici
ad individuare tipologie patologiche. In aumento fu il fenomeno della diserzione.
Non fu molto diffusa la fuga dal fronte verso le linee nemiche o verso le retrovie, per il pericolo che comportava, anche se questo
ossessionava i comandi. Per tale motivo il Comando supremo fece forti pressioni sul governo affinché non fossero inviati aiuti pubblici
ai soldati italiani fatti prigionieri: così facendo, le autorità contribuirono alla morte per fame di più di 100.000 militari di truppa.
Assai estesa fu la diserzione verso l’interno del paese, talora tentata con successo dal fronte da gruppi di soldati che conoscevano la
zona, e attuata più spesso in collegamento con le licenze.
Se altissimo fu il livello del rifiuto o della ribellione individuale, e se una larga parte delle truppe reagì alla situazione attraverso varie
forme di fuga, la maggioranza rimase sul campo. Bisogna dunque chiedersi perché i soldati continuassero a combattere.
I soldati probabilmente combattevano non tanto per rassegnazione cattolica e per connaturata passività contadina o perché non sapevano
immaginare niente di diverso ( questa era la concezione di Gemelli ), ma perché non c’erano vie d’uscita, se non si voleva essere fucilati
sul campo o essere ammazzati dagli austriaci.
Vi erano anche altri motivi che spingevano i soldati a non abbandonare il campo: il senso di responsabilità verso i compagni, il desiderio
di proteggere la vita di quanti stavano al loro fianco e di non lasciarli soli, la volontà di condividere un destino comune. I soldati
mostrano un assoluto altruismo di fronte al pericolo e alla morte.
Data l’estraneità della maggior parte delle truppe verso un sentimento di appartenenza nazionale, la tendenza era quella di ricercare
un’identità nella solidarietà che caratterizzava il gruppo, all’interno del quale era possibile riconoscersi e recuperare quel senso di
normalità che la vita al fronte e la funzione spersonalizzante della disciplina avevano tolto al soldato.
La mancanza di attenzione verso la condizione materiale e morale delle truppe condusse a un rapporto sempre meno coeso tra soldati
e gerarchie militari. L’esercito italiano tenne e riuscì a superare la Batosta di Caporetto, ma i prezzi furono enormi. Se è errato separare
la sfera militare da quella politica riguardo le responsabilità delle gerarchie, è altrettanto errato separare i due settori riguardo gli effetti
dell’azione militare, ossia ai riflessi che la condizione vissuta al fronte produsse sulla mentalità e sull’atteggiamento verso lo Stato di
quanti, finita la guerra, tornano alla vita civile.
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Il comportamento dei comandi nei confronti delle truppe provocò un insieme di rivalse, attese, desideri di rivincita o di vendetta che
sarebbero poi emersi nel dopoguerra.
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La crescita delle centrali imprenditoriali si accompagnò anche all’indebolimento dell’esecutivo stesso. L’assenza di coesione politica
della classe dirigente portò il governo ad essere più l’esecutorie di singoli e a volte contrastanti desideri privati che l’agente capace di
imporre un proprio programma di interesse generale.
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Questi provvedimenti miravano, oltre che a realizzare un controllo dei consumi, anche a fornire un’immagine di equità distributiva:
essi furono quindi accompagnati da una campagna di propaganda per la limitazione dei consumi, svolta dal volontariato privato, specie
quello femminile.
Gli effetti del tesseramento furono relativi. Esso si rivelò di scarsa efficacia sul piano del razionamento e non assolse al compito
propagandistico. Quanto ai calmieri, ebbero l’esito di rendere irreperibili alcuni prodotti, dando origine all fenomeno delle code e
facendo espandere il mercato nero.
Se dunque, nel complesso, lo Stato riuscì a fronteggiare il problema degli approvvigionamenti e della distribuzione, l’azione svolta in
campo agricolo e annonario fu meno efficiente di quella in ambito industriale.
L’assenza di un’azione unitaria e centralizzata rese l’intervento pubblico spesso inadeguato. Ordini contrastanti da parte delle autorità
civili e militari riguardo al razionamento e alle requisizioni e incompetenze dei singoli funzionari contribuirono a determinare situazioni
di emergenza che avrebbero fortemente inciso sullo spirito pubblico.
Riguardo all’assistenza e alla propaganda, l’intervento dello Stato nei primi anni di guerra fu estremamente limitata. Solo dopo
Caporetto l’intervento assunse nuove dimensioni: furono allora previste una serie di iniziative di assistenza nei confronti dei militari e
delle loro famiglie e fu finalmente curata la propaganda attraverso l’istituzione, nel 1918, di un commissariato generale per l’assistenza
civile e la propaganda interna.
La convinzione della brevità della guerra aveva portato il governo Salandra ad attuare solo limitati interventi di previdenza a favore
della popolazione lavoratrice.
Nelle città un certo beneficio per le classi indigenti era stato prodotto dal blocco dei fitti, decretato all’inizio del conflitto, ma le
condizioni di vita erano rese difficili dalla continua crescita dei prezzi.
In ambito industriale, la guerra aveva determinato un regresso della condizione previdenziale, visto che erano state sospese le norme a
tutela del lavoro femminile e minorile e del lavoro notturno. Parziale compensazione venne dalla norma assicurativa contro gli infortuni
industriali.
Tuttavia, le innovazioni normative ebbero un’attuazione assai ridotta, poiché le disposizioni legislative vennero ampiamente eluse, sia
in ambito industriale che agricolo, a causa degli scarsi controlli governativi e delle complicità degli organi burocratici periferici con i
proprietari locali.
Un’innovazione radicale, nel campo dell’assistenza, fu la concessione di un sussidio statale alle famiglie povere di soldati richiamati
al fronte.
Numerose categorie, tuttavia, furono escluse dalla possibilità di ricevere l’aiuto statale. Inoltre, il livello di sussidi ottenne un unico
lieve adeguamento al costo della vita. Soprattutto mancò un controllo centralizzato riguardo alla concessione: l’entità dei contributi
veniva decisa dalle autorità locali, che spesso non conoscevano le situazioni periferiche e non di rado usavano il loro potere per
procurarsi o rafforzare clientele.
Alla carenza di intervento da parte dello Stato supplirono in qualche modo le organizzazioni private, cui si erano rivolti i comuni, ai
quali il governo aveva domandato l’onere dell’assistenza civile.
Sorte fin da alcuni mesi precedenti al conflitto, le associazioni svolsero per tutta la guerra un’opera sostituiva fondamentale, costruendo
asili e cucine popolari, distribuendo lavoro a domicilio su delega dell’autorità militare, promuovendo feste di beneficenza, concedendo
sussidi aggiuntivi a quelli statali, aiuti ad orfani, vedove, profughi e famiglie di prigionieri, appoggio legale e morale.
L’azione di assistenza privata delle organizzazioni patriottiche si svolse in parallelo con quella di propaganda, della quale lo Stato
italiano si disinteressò quasi del tutto fino al 1918.
Per convincere la popolazione al avere patriottico, si mossero moltissime associazioni private, tramite attività individuali e collettive:
lo scopo dichiarato era quello di educare le classi popolari ai valori nazionali e di diffondere tra esse il principio della disciplina e il
modello dell’obbedienza militare anche nella vita civile.
Presto i comitati si estesero su tutto il territorio nazionali, con ramificazioni e collegamenti interni, fino a coordinarsi, nell’estate del
1917, in un unico organismo privato, le Opere federate di assistenza e propaganda nazionale. Per realizzare la mobilitazione patriottica
furono assorbite quasi per intero le entrate del Commissariato per l’assistenza civile e la propaganda interna, di modo che ne fu privata
l’assistenza, il cui onere finanziario rimase ancora a carico dei privati,
Il mancato coinvolgimento del governo nell’opera di sostegno materiale del paese produsse due conseguenze: che la popolazione non
si sentì supportata nei suoi bisogni essenziali dallo Stato e percepì la propaganda come estranea. L’altra conseguenza fu che le
associazioni patriottiche assunsero un’importanza crescente, con il risultato che interno ai Commissariato proliferò un substrato
clientelare e gli istituti privati acquisirono un ruolo di vero e proprio gruppo di pressione politica.
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Fu invece favorito dall’economia di guerra il commercio, se capace di adeguarsi alle nuove richieste di mercato: esso poté infatti godere
del repentino aumento dei prezzi dei prodotti e della possibilità di esaurire tutte le scorte.
Riguardo alla condizione della classe operaia, sebbene la richiesta di lavoro assicurasse loro un salario certo, le retribuzioni rimasero
sempre molto basse, poiché gli aumenti erano di norma inferiori alla perdita del potere d’acquisto.
All’interno del Mi gli industriali riuscirono a far calcolare gli aumenti salariali sul lavoro svolto a cottimo, giocando anche su un
vastissimo ventaglio retributivo: in tal modo, a maggior salario corrispose comunque un aumento della fatica e solo alcune limitate
fasce di specializzati poterono godere di aumenti del reddito reale.
La necessità di un’ingente quantità di manodopera portò al formarsi, nelle fabbriche, di un nuovo e massiccio esercito di operai non
specializzati. Questo prevalere nuovo di operai, spesso alla prima esperienza di lavoro, produsse un notevole mutamento della
composizione operaia all’interno della fabbrica, con ripercussioni sia sull’organizzazione del lavoro, sia sui rapporti interni alla classe
operaia, che, specie nei primi anni di guerra, risentirono della mutata struttura interna, con difficoltà di relazioni tra le vecchie e nuove
maestranze. Superati i primi periodi di disorientamento, le dure condizioni disciplinari imposte dalla MI produssero il risultato non di
antagonismo tra le parti, ma di far sorgere un fronte operaio quasi sempre solidale e compatto.
Le donne occupate nell’industria di guerra furono numerose, anche se non raggiunsero mai i livelli degli altri paesi industrializzati,
Adibite spesso a lavori duri e pericolosi, non più protette dalle leggi di tutela e pagate con salari di molto inferiori sia dei compagni
non qualificati che dei ragazzi, risentirono pesantemente delle condizioni ddi lavoro, come di mostra l’aumento, durante la guerra, della
mortalità femminile e degli aborti.
Anche nelle campagne furono le donne a fare fronte all’assenza del maschio della famiglia, lavorando sulla propria terra o venendo
occupate stagionalmente come braccianti, in lavori come ‘aratura e la zappatura.
Al lavoro operaio e agricolo, si deve aggiungere quello delle donne svolto nei servizi e, soprattutto, l’opera di assistenza attuata nelle
città dai comitati femminili.
Le nuove esperienze di lavoro o di attività pubblica non riuscirono comunque a determinare un reale mutamento dei rapporti di genere:
nella mentalità collettiva, il lavoro del periodo bellico e le nuove responsabilità familiari e pubbliche costituivano un’eccezione,
determinata da eventi straordinari e concepita come transitoria. Nel dopo guerra in tutti i paesi si ritornò con rapidità ai consueti canoni
di separazione di ruoli.
Riguardo all’atteggiamento popolare verso la guerra, nei primi mesi il paese si mantenne tranquillo. Alcune delle cause di malcontento
del periodo prebellico erano state eliminate grazie al riassorbimento totale della disoccupazione, all’emanazione di provvedimenti per
l’agricoltura e alla distribuzione dei sussidi, che, per quanto scarsi, per molte famiglie avevano costituito una novità assoluta. La
legislazione eccezionale e la militarizzazione impedivano d’altronde che potesse trapelare qualsiasi protesta di base.
Il paese era inoltre all’oscuro di quanto avveniva al fronte: mentre la censura impediva ai soldati di comunicare con le famiglie e
imbiancava la maggior pare dei commenti dei giornali di opposizione, la stampa interventista enfatizzava la guerra, evidenziando ogni
notizia non consona alla versione governativa.
Militarizzati i governi dal fronte, l’informazione non assunse mai un carattere diverso da quello dei bollettini ufficiali, se non in quanto
la sua forma du meno scarna e spesso ancor più corriva verso la retorica patriottica.
Con l’approssimarsi dell’inverno 1916 tutta la penisola fu interessata da una serie di manifestazioni popolari spontanee.
Le agitazioni iniziarono nelle campagne ed ebbero come principali protagonisti le donne, seguite poi da folle di vecchi e ragazzi.
La protesta sorgeva per motivi immediati, ma si trasformava quasi sempre in manifestazione contro gli effetti della guerra, con scontri
con le forze dell’ordine, saccheggio dei forni, o altre forme di ostilità nei confronti delle autorità costituite, come le aggressioni alle
scuole.
Queste manifestazioni mantenevano i caratteri delle tradizionali rivolte contadine, ma ad esse conferivano carattere di contestazione
più radicale la condizione della guerra e, dalla primavera del 1917, le notizie degli avvenimenti russi. <<Fare come in Russia>> divenne
una minaccia, tramite la quale si esprimeva il desiderio di porre fine alla guerra e anche un progetto di ribaltamento delle gerarchie
sociali.
Nelle campagne del Centro-Nord spesso le dimostrazioni contadine si congiunsero con quelle di fabbrica, che, a loro volta, sfociarono
in manifestazioni contro il carovita e la mancanza di generi alimentari.
Si stava così configurando modello dello sciopero organizzato e della dimostrazione politica, una nuova forma di protesta quasi
quotidiana, spontanea, improvvisa, con il proprio fulcro nelle campagne, altre volte in città o nelle fabbriche, ma sempre tendente a
coinvolgere gruppi sociali non omogenei.
La mancanza di cibo era un elemento catalizzatore di tutti i sentimenti di rivolta, anche perché le privazioni si accompagnavano alla
provocazione prodotta dalla vita esente da sacrifici che conduceva una parte della popolazione, senza che lo Stato intervenisse a creare
una situazione di parità.
All’origine della protesta c’era dunque la convinzione di subire un’ingiustizia, un’offesa morale, determinata dalla non equità nella
distribuzione dei pesi della guerra, o da imposizioni ritenute illegittime. Ogni sopruso ( o atto ritenuto tale ) provocava una reazione
spontanea a catena, che finiva per coinvolgere lo Stato il significato stesso della guerra.
La principale caratteristica della protesta popolare fu che essa fu rivolta anche contro il modo in cui le autorità statali gestivano il loro
potere, venendo meno ai propri obblighi e violando diritti considerati come acquisiti. Attraverso la rivolta, la comunità difendeva i
propri valori contro l’imposizione dei nuovi codici morali imposti dalla guerra.
Questo tipo di “rivolta morale”, antiautoritaria e antigovernativa, assimilò l’Italia soprattutto ai paesi nemici contingenti, dove la
militarizzazione e l’impatto della fame produssero effetti politici e sociali simili.
Motivazioni analoghe contraddistinsero anche le agitazioni operaie. Gli scioperi si verificarono soprattutto nelle fabbriche non
sottoposte alla MI. Le agitazioni, oltre che a motivi economici, furono spesso legate anche all’inasprimento coercitivo, altre volte fu
legata a fattori esterni alla fabbrica ( disagi prodotti dalla scarsità di cibo, di alloggi, di combustibile, ecc., ), che si sommavano alla
disciplina inflessibile, ai rigori della fabbrica e ai ritmi spossanti di lavoro. Questo creava uno stato d’animo tale che, laminino fattore
di turbamento, poteva scatenarsi un’insurrezione. L’episodio di Torino, nell’agosto 1917, costituì l’episodio culminante della rivolta
popolare del periodo bellico.
Nella primavera e nell’estate del 1917 la tensione sociale era altissima. Le agitazioni delle campagne e delle città contro il carovita si
erano susseguite senza soluzioni di continuità ed avevano assunto, talora, il carattere di una vera e propria sommossa regionale.
E quando le agitazioni contadine si erano interrotte per l’inizio dei lavori agricoli, era cominciata la calda estate operaia. Questo stato
di cose aveva prodotto una grave apprensioni nella classe dirigente, nella quale si stava facendo strada il timore che l’Italia potesse
seguire l’esempio russo: secondo i resoconti delle autorità Salandra Salandra governo, i contadini parlavano della rivoluzione come un
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fatto ormai scontato e le agitazioni politiche scoppiate, quasi allo stesso tempo, nei maggiori stabilimenti facevano pensare ad un piano
rivoluzionario.
Cosa c’era di vero in tutto questo? Sicuramente, gli eventi russi avevano fortemente influenzato gli operai e militanti socialisti.
Altrettanto certo è che nessun piano nazionale stava dietro le agitazioni operaie e cittadine di quell’estate, né il Psi era intervenuto
direttamente in quelle rivolte.
Tuttavia, l’aver condannato la guerra e sostenuto i diritti dei cittadini fece apparire il partito agli occhi dell’opinione pubblica come il
principale artefice dei movimenti per la pace e la libertà.
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Il progetto, mai confermato ufficialmente, andò comunque in fumo per il mancato assenso , sembra, dello stesso interventismo
democratico e per la netta avversione a qualsiasi avventura neogiacobina da parte dei conservatori nazionali.
Le critiche alla conduzione della guerra da parte di Cadorna erano state durissime ed erano provenute anche da militari: ne derivava un
indebolimento della sua figura sia al fronte che nel paese.
Si era contemporaneamente palesata una spaccatura interna alle gerarchie militari: mentre il Comando supremo aveva intensificato il
suo attacco contro i socialisti e la classe operaia da essi rappresentata, Dallolio aveva difeso in Senato i salari operai e introdotto una
modifica importante nel meccanismo di mediazione della MI, attraverso l’ammissione dei sindacati alle discussioni del Comitato
centrale. Si veniva quindi configurando una divisione che tagliava in due settori sia il mondo politico che quello militare.
A una forte sterzata a destra fu costretto il governo dopo l’insurrezione di Torino, per parare gli attacchi interventisti: non solo furono
estere le zone di guerra e licenziati due fidi collaboratori di Orlando, ma il 4 ottobre fu anche emanato un decreto con cui si instaurava
il reato di opinione.
Tutte le vicende interne e internazionali avevano convinto i più a dare vita a un governo che perseguisse una politica di moderazione.
In ottobre erano proseguite le critiche a Cadorna e in Parlamento alcuni interventisti si erano dissociati con forza dalle posizioni estreme
del movimento.
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Diaz ( che aveva instaurato da subito un rapporto di cooperazione con il potere politico ), era fermamente convinto di dover mantenere
una tattica unicamente difensiva. Questo permise che si venisse a determinare nell’esercito una diversa concezione della guerra:
l’assenza di una strategia basata su assalti insensati servì a ricreare nei soldati una certa fiducia nei confronti dei superiori. Inoltre la
disciplina, per certi versi più rigida di prima, fu meno causale e gratuita che nel passato.
Diverso fu anche l’atteggiamento verso il morale del soldato adottato dai comandi:
- maggiore attenzione alle condizioni fisiche delle truppe;
- diffusa propaganda, con organismi specifici e mobilitazione di comitati civili e militari per svolgere conferenze,
- comprensione della rilevanza dell’aspetto materiale e quindi conseguenti provvedimenti a favore del combattente o della sua
famiglia;
- maggiore cura nel cambio dei turni in prima linea;
- concessioni più frequenti di licenze;
- polizze di assicurazione gratuita sulla vita;
- istituto di assistenza per il dopoguerra ( l’Opera nazionale combattenti );
- alcuni provvedimenti per vedove, orfani, invalidi e mutilati;
- possibilità di una concessione di terre al loro ritorno.
Se la tenuta delle truppe migliorò, ciò si dovette soprattutto a questa opera di assistenza. L’esperienza del disastroricostruire militare
non aveva suscitato una ripresa di spirito patriottico delle truppe.
Ancora per molto tempo dopo Caporetto, i resoconti sullo stato d’animo dei soldati avevano segnalato che i sentimenti prevalenti erano
quelli della cupa accettazione e/o della malcelata rabbia.
Tuttavia, grazie a un coordinamento più efficiente delle operazioni e a un maggiore rispetto del combattente, nell’ultimo anno di guerra
l’esercito italiano riuscì a mantenere salde le sue posizioni e a, abbandonata la tecnica dell’attacco frontale, a far diminuire
drasticamente il numero dei morti e dei feriti.
La strategia difensiva e l’arrivo di un contingente di artiglierie e truppe alleate permisero a Diaz di non cedere.
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Lo stesso decentramento amministrativo, pur favorendo un intervento più pronto e adeguato a realtà socialista tanto diverse tra loro,
facilitò soluzioni le une in contrasto con le altre, poiché ogni ministero tendeva ad avere propri uffici decentrati, svincolati dal controllo
dell’istituito di coordinamento provinciale prefettizio, con il risultato di un notevole grado di inefficienza e corruzione a livello locale
e di un indebolimento del potere centrale.
Forti disfunzioni derivarono anche dalla duplicità di poteri civili e militari che si venne a creare nelle amministrazioni centrali e
periferiche.
Mentre l’espansione burocratica portava a una frantumazione del potere pubblico, l’iniziale decisione del governo centrale di non
intervenire in alcuni settori chiave e la deficiente vigilanza su quelli controllati condussero, per altri versi, al trasferimento di autorità
in centri autonomi, che si sostituivano allo Stato o riuscivano comunque a influenzarlo-
Si verificava quindi un processo di frantumazione interna alle istituzioni e di moltiplicazione di nuovi centri di irradiazione di autorità
al di fuori di esse.
Sintomo di questa segmentazione del paese fu la ripresa di progetti, già formulati nell’anteguerra, di una nuova forma di rappresentanza,
basata sulla diretta partecipazione al potere degli esponenti dei vari interessi e delle diverse professioni. Era un mezzo per ottenere la
legittimazione di tutti quei gruppi e associazioni che durante la guerra avevano ottenuto dallo Stato privilegi e deleghe di potere.
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Mentre le classi popolari non avevano visto colpita dalla guerra la propria posizione sociale, per i ceti medi le ristrettezze economiche
avevano significato un netto declassamento sociale: cosa che li portava ad accentuare la loro tradizionale avversione verso nuove
emergenti figure operaie.
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