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Grecia: 1944-1967.

La Grecia fu il paese che attraversò la transizione più lunga e dolorosa: infatti, non solo dovette subire
un lungo regime autoritario, ma fu anche devastata dalla seconda guerra mondiale ( cosa che non
avvenne per Portogallo e Spagna ).
All’inizio del conflitto, nel settembre 1939, la Grecia aveva cercato di assumere un atteggiamento
“neutro”, decidendo di non schierarsi al fianco di uno o dell’altro contendente. Tuttavia, nel 1940,
l’invasione da parte delle truppe fasciste aveva coinvolto lo stato ellenico nella guerra, ponendolo nel
campo alleato.
La Grecia aveva respinto l’attacco di Mussolini ma l’umiliazione subita dal duce fece sì che il paese
venisse attaccato dalle truppe tedesche, nell’aprile 1941.
Fu questo avvenimento ad avvicinare le sorti del paese ellenico a quelle della Gran Bretagna: le truppe
britanniche vennero immediatamente inviate da Londra al fine di contrastare la minaccia tedesca.
Nonostante l’intervento inglese, Germania e Italia riuscirono a sconfiggere le unità elleniche e
britanniche e occuparono tutto il paese: operazione che si concluse nel maggio 1941, con la conquista
dell’isola di Creta.
Nel frattempo si formò un movimento di resistenza, il Fronte di liberazione nazionale ( EAM ), al cui
interno svolse un ruolo di primo piano il Partito comunista ( KKE ). L’EAM avrebbe dato origine
anche a un’organizzazione militare, l’ELAS. Tra il 1941 e il 1942, invece, si costituirono due
movimenti di resistenza di ispirazione non comunista, l’EDES e l’EKKA, vicini al governo in esilio
( il re Giorgio II si era rifugiato prima a Creta e in seguito al Cairo ), che nel frattempo finì sotto
l’influenza delle forze britanniche.
A Londra si stavano delineando gli obiettivi che la Gran Bretagna avrebbe inteso conseguire per ciò
che riguardava gli equilibri postbellici nel Mediterraneo. Gli inglesi puntavano a rafforzare la propria
posizione imperiale in quest’area geografico contando sulla sconfitta dell’Italia e sull’indebolimento
delle posizioni francesi. L’uscita di scena dell’Italia avrebbe permesso a Londra di estendere la
propria influenza in Libia e nell’Egeo mentre, grazie al conflitto, sia la Jugoslavia che la Grecia
sarebbero diventate gli stati clienti della Gran Bretagna.
Questi obiettivi spiegano la volontà di Churchill di di imporre la propria visione di una strategia
periferica che puntasse all’invasione dell’Italia e, possibilmente, a un’ulteriore espansione
dell’iniziativa alleata nei Balcani.
Tale politica ebbe successo solo fino alla metà del 1943. A partire dall’autunno dello stesso anno,
però, Washington dichiarò di non volersi più piegare alle richieste inglesi e gli Usa si rifiutarono di
aiutare i britannici nei tentativi di liberazione delle isole italiche del Dodecaneso, prontamente
rioccupare dalle forze tedesche.
Il Mediterraneo divenne così un teatro di operazione secondario, in cui l’Inghilterra avrebbe
continuato ad esercitare una posizione quasi egemone.
Nell’estate del 1944 Churchill cominciò a temere che aeree sottoposte all’influenza inglese potessero
passare, alla fine del conflitto, sotto il controllo di Mosca. Nell’ottobre egli si recò dunque nella
capitale sovietica per una serie di incontri con Stalin.
I due politici raggiunsero il cosiddetto accordo delle percentuali, in base al quale la Gran Bretagna e
l’Unione sovietica riconoscevano le rispettive sfere di influenza in una serie di paesi europei. Per
quanto riguardava la Grecia, il leader comunista accettava che essa rientrasse pienamente nell’ambito
degli interessi britannici.
Quasi contemporaneamente, le truppe tedesche abbandonarono il territorio e le unità britanniche
raggiunsero Atene. Nel febbraio del 1945 venne raggiunto un compromesso, noto come accordo di
Varkiza, che sanciva la fine delle ostilità.
Nell’inverno del 1946-47 il governo laburista inglese, di fronte a crescenti difficoltà economiche,
informò l’amministrazione americana di non essere più in grado di sostenere il governo greco nella
lotta contro la guerriglia comunista , nel 1947, gli Usa elargirono un forte aiuto economico e militare
al governo di Atene e, sebbene l’influenza inglese non scomparisse rapidamente, la Grecia entrò a far
parte rapidamente di un sistema occidentale guidato dagli Stati Uniti.

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Il sostegno militare ed economico americano e, dopo il 1848, lo scisma di Tito favorirono la vittoria
delle truppe regolari sulle forze comuniste.
La vittoria sulla guerriglia non portò però stabilità sul piano politico interno, nel cui ambito tra la fine
degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta si alternarono vari governi.
In questo periodo forte fu l’influsso statunitense nella politica interna del paese: nel 1952
l’ambasciatore americano Puerifoy giunse al punto di spingere il governo greco a modificare il
sistema elettorale in senso maggioritario, consentendo così l’affermazione della formazione di destra.
Nel corso degli anni Cinquanta la Grecia confermò la sua presenza <all’interno del blocco
occidentale, anche se in posizione periferica. Nel 1949 entrò a far parte del consiglio d’Europa e,nel
1952, fu ammessa nel Patto atlantico: tutto ciò avveniva contemporaneamente all’ingresso nel
consiglio d’europa e nell’alleanza della Turchia.
Le relazioni greco-turche, nel secondo dopoguerra, migliorarono a causa della comuna scelta
occidentale e alla volontà espressa tanto da Washington quando da Londra, affinché i due paesi
collaborassero.
Ma nel corso degli anni Cinquanta i rapporti greco-turchi fecero progressivamente ritorno a uno stato
di tensione a causa del prepotente emergere della questione cipriota: gli abitanti dell’isola chiesero
l’indipendenza dalla Gran Bretagna, facendo comprendere la loro volontà di unirsi alla madrepatria
greca ( Enosis ). A partire dal 1955 l’aspirazione all’indipendenza si sarebbe tradotta in lotta armata
da parte delle forze dell’organizzazione di resistenza clandestina, Eoka, guidate dal col. Grivas. Le
autorità di Atene sostenne le tesi indipendentiste, mentre il governo di Ankara difese con decisione
le ragioni della comunità turco-cipriota.
La posizione assunta da Atene pose la Grecia in rotta di collisione con la Gran Bretagna e con la
Turchia. Ne fece le spese la comunità greca ancora presente a Istanbul, sottoposta a pogrom e molti
suoi membri furono costretti a lasciare il paese.
La questione cipriota divenne presto un nodo centrale tanto per la politica estera quanto per quella
interna greca, rafforzò i sentimenti nazionalisti e causò preoccupanti divisori all’interno della Nato.
Per il momento, gli Stati Uniti parvero assumere una posizione conciliatrice mirante a individuare
una soluzione di compromesso che non ponesse in difficoltà il fianco sud dell’Alleanza atlantica,
lasciando a Londra un ruolo di primo piano.
Allo scopo di mantenere quanto mento il controllo sulle installazioni militari presenti a Cipro, le
autorità inglesi favorirono il pieno coinvolgimento della Turchia nella questione.
Alla fine, con gli accordi di Zurigo e di Londra nel 1960 Cipro, sotto la guida dell’arcivescovo
Makarios, acquisiva la piena indipendenza, in teoria garantita da Londra, Atene e Ankara; in molti
ciprioti e in vari settori del mondo politico greco restava però viva la speranza di realizzare in un
prossimo futuro l’Enosis.

Grecia: 1967-1968
La prospettiva delle elezioni aprì una fase politica confusa e di forte tensione che avrebbe favorito il
colpo di Stato.
Kostantinos II temeva che una vittoria elettorale dei progressisti e della sinistra avrebbe messo in
discussione l’istituto monarchico e parve valutare l’ipotesi di un ricorso a una legislazione
d’emergenza nel casi di risultati elettorali sfavorevoli, convinto di poter contare sull’appoggio delle
forze armate e degli Usa.
Agli americani giungono notizie di riunioni segrete tra ufficiali greci che avevano dato vita a
un’organizzazione clandestina chiamata “Consiglio Rivoluzionario”: la loro reazione è negativa e
contraria a qualsiasi iniziativa che comporti misure anticostituzionali, men che meno ad una dittatura
militare.
L’ambasciatore americano ad Atene, Talbot, suggeriva a Washington di prendere misure che
concorressero a rafforzare le posizioni della destra moderata.
L’ambasciatore francese ad Atene, Bayens, offriva un’immagine più sfumata della situazione politica
greca, sebbene anch’egli individuasse nell’intromissione della casa regnante nelle vicende politiche
e nelle posizioni estremiste prese da Papandreou le principali ragioni della crisi in corso.

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Tra i vertici delle forze armate proseguivano i contatti segreti per prevenire un’eventuale
affermazione del giovane leader radicale. In particolare erano stati messi in allerta alcuni ufficiali,
come pregni caso di attuazione del Piano Ierax Due: talentano prevedeva l’intervento dell’esercito
nel caso della presa di potere da parte dei comunisti.
L’acuirsi della tensione spinse , in marzo, i vertici statunitensi a vagliare la situazione venutasi a
creare in Grecia. Il 13 si riuniva il Comitato 303, al cui incontro prendevano parte Rostov, Koehler e
Taylor: essi prendevano in considerazione un’operazione coperta, che sembrava doversi tradurre in
finanziamenti alle forze conservatrici. La discussione si concluse senza alcuna decisione e il giorno
dopo il segretario di Stato si dichiarò contrario a qualsiasi iniziativa americana
Lo stesso ambasciatore ad Talbot, alla fine di marzo, si mostrava convinto che, a dispetto di tutte le
voci di complotto, esisteva una piano che prevede certe iniziative da parte dei militari nel caso di una
dittatura, ma non vi è alcuna prova i vertici militari stiano attualmente tramando al fine di creare le
condizioni che possano condurre a una deviazione della Costituzione.
Alla fine di marzo Talbot ebbe una conversazione con Kostantinos II, nel corso della qual fil sovrano
parve indicare la necessità di prendere decisioni di carattere straordinario. L’ambasciatore
interpretava le parole del Re come una richiesta di informazioni circa la posizione americana di fronte
a un eventuale colpo di Stato guidato dal Sovrano. Talbot confermava la sua ostilità a una tale
evenienza, sottolineando come questa fosse anche posizione dell’amministrazione. Al contempo,
ribadiva la sua crescente preoccupazione per le posizioni anti occidentali di Papandreou.
In quegli stessi giorni la situazione divenne ancora più complessa:alcuni ufficiali coinvolti nella
supposta cospirazione da parte dell’Aspida venivano condannati e si richiedeva , inoltre,
l’autorizzazione a procedere contro Papandreou e la conseguente sospensione dell’immunità
parlamentare di cui egli godeva.
Tuttavia, anche se tale richiesta fosse stata sospesa, l’immunità sarebbe venuta meno con lo
scioglimento del Parlamento in vista di nuove elezioni, l’Ek e chiese quindi che questo privilegio
venisse esteso per la campagna elettorale.
Di fronte a tale richiesta e all’impotenza del governo guidato da Paraskevpoulos, l’ERE faceva cadere
l’esecutivo.
Il sovrano accettava le dimissioni del primo ministro e affidava al leader dell’Ere Kannellopoulos la
formazione di un nuovo gabinetto con l’obiettivo di sciogliere il Parlamento e di indire nuove
elezioni, non prima di aver fatto approvare una legge proporzionale che, nelle speranze del re, avrebbe
favorito le destre e creato seri problemi all’Unione di Centro.
La mossa delle, però, si rivelò controproducente perché la nomina di un esponente dell’Ere venne
vista come un tentativo di influenzare lo svolgimento della consultazione elettorale e ciò coalizzò
contro il nuovo esecutivo tutte le opposizioni.
La scelta di Kostantinos II, inoltre, venne percepita come un’ulteriore, pesante interferenza della
monarchia nella vita politica del paese e ciò sembrò giocare a favore dell’Eda e di Papandreou.
Talbot dava una valutazione negativa e preoccupata della decisione presa del re.
Convinto della gravità della situazione e del fatto che Papandreou e i suoi sostenitori da una parte, il
sovrano e le forze conservatrici dall’altro, fossero ormai entrati in conflitto e, preoccupato delle
possibilità di un colpo di Stato, Talbot scrisse con urgenza al Dipartimento di Stato per ottenere chiare
istruzioni.
Russo suggeriva che Talbot si appellasse al padre di Papandreou affinché venisse raggiunto un
compromesso fra il figlio e l’Ere per la conduzione di una campagna elettorale corretta, facendo
presente le posizioni e le preoccupazioni americane e cercando di ottenere l’assicurazione che, nel
caso della vittoria di Andreas Papandreou, la Grecia avrebbe mantenuto fede ai suoi impegni nei
confronti dell’alleanza occidentale.
Nella notte tra il 20 e il 21 aprile, ricorrendo al cosiddetto piano Prometeo, elaborato in caso di
tentativo di presa del potere da parte dei comunisti, sotto la guida dei i tenenti colonnelli
Papadopoulos, Pattakos e Makarezos, alcune unità dell’esercito prendevano il controllo del paese.
In ambito internazionale la prima a dover fronteggiare la nuova situazione fu l’ambasciata americana.
Nel cuore della notte Talbot fu svegliato da una telefonata di re Kostantinos, che, evidentemente

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agitato, si scagliò contro gli autori del colpo di stato; egli giunse a chiede se vi fosse la possibilità di
un intervento militare americano in sua difesa.
La prima reazione dell’ambasciatore americano fu quella di contare su un contatto diretto con il
sovrano. Nella sera del 21 l’ambasciatore aveva un colloquio con Kollias e Spantidakis. L’alto
ufficiale spiegava come il colpo di Stato fosse stato portato a termine per evitare la presa di potere da
parte dei comunisti e Talbot, dall’altro lato, si limitò a recriminare sull’uso di materiale militare
americano, a sottolineare la necessità che il nuovo governo fosse leale al re e a chiedere anche quando
il Parlamento si sarebbe riunito.
Spantidakis sostenne la piena fedeltà della Grecia alla Nato e quella del nuovo governo al sovrano e
chiarì che il Parlamento non si sarebbe riunito sino a nuove elezioni.
Per il momento Talbot decise di adottare un atteggiamento di basso profilo, puntando sul
mantenimento di stretti contatti con il sovrano, che veniva considerato dall’ambasciata l’unico utile
e legittimo interlocutore. Quanto a Washington, , per il momento deciso e di non esprimersi
pubblicamente su quanto avvenuto.
Talbot suggeriva che l’amministrazione americana, pur non sostenendo il nuovo governo greco,
cercasse di favorire una serie di misure transitorie che consentissero il ritorno alla democrazia. La
Da parte americana emergeva il desiderio di muoversi con prudenza nonché l’implicita speranza che
il colpo di stato, apparentemente eseguito senza colpo ferire, rappresentasse una sorta di breve
parentesi. Su questa apparente fiducia sembrava influire il possibile ruolo esercitato dal Re.
Nelle settimane successive il colpo di Stato l’amministrazione americana continuò a considerare il
Re come il principale interlocutore, confidando nelle sue capacità di ricondurre la vita politica greca
lungo i binari costituzionali attraverso un processo graduale fondato su una sorta di negoziazione con
gli autori del golpe.
Fra le misure previste delle autorità statunitensi vi era la possibilità di interrompere le forniture di
equipaggiamento militare, previste dal Map ( Military Assistance Program ), alle Forze Armate
greche: la cosa venne parzialmente attuata nelle settimane successive.
Con il trascorrere del tempo, l’Ambasciata statunitense ad Atene era costretta a registrare la mancanza
di qualsiasi resistenza organizzata contro il regime e una sorta di accettazione di gran parte della
popolazione della nuova situazione, mentre la giunta cercava di convincere Washington che i colpo
di Stato era stato compiuto anche negli interessi dell’Occidente e come i nuovi leader godessero
dell’appoggio della maggioranza del popolo ellenico. Da parte sua il re faceva sapere a Talbot come
egli stesse cominciando a progettare un’azione aperta nei confronti dei colonnelli, sperando di contare
sul sostegno di una parte delle Forze Armate e sull’appoggio politico di Washington. In realtà, nel
corso dell’estate la situazione greca parve stabilizzarsi e il nuovo governo fu in grado di guadagnare
tempo con vaghe di una rapida liberalizzazione.
Alla fine dell’estate re Kostantinos decise di intraprendere un viaggio in Europa e negli Stati Uniti.
Nel corso di tale missione l’11 settembre egli aveva Washington un colloqui riservato con il
presidente Johnson, nel corso del quale il sovrano fece chiaramente presente la possibilità di giungere
a un confronto aperto con la giunta militare. Egli chiese se in tal caso le autorità americane sarebbero
state disposte a fornirgli un aiuto concreto attraverso uno sbarco di Marines in territorio greco,
un’azione dimostrativa della VI flotta americana e un’aperta presa di posizione sul piano politico.
Russo aveva suggerito che il presidente non prendesse alcun impegno, pur ribadendo l’appoggio
americano al sovrano. Tale posizione veniva giustificata con l’opportunità di non favorire uno scontro
aperto nel paese ellenico. Washington contava sulla possibilità che in Grecia si manifestasse un
ritorno alla democrazia attraverso una politica graduale dei piccoli passi, comunque imperniata sulla
figura del sovrano.
Diverso errata stato l’atteggiamento in Europa occidentale, dove la reazione dell’opinione pubblica
al colpo di Stato si era rivelata fin da subito profondamente negativa e i partiti della sinistra avevano
organizzato manifestazione.
Di particolare rilievo era stata la politica sviluppata dalla Comunità Europea che, fino ad alcuni anni
prima aveva firmato un accordo di associazione con la Grecia. La prima reazione di condanna era

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stata espressa dal Parlamento europeo, il quale avanzò la richiesta che quanto previsto nell’accordo
di associazione venisse immediatamente congelato.
Il problema concreto si presentò in tempi brevi con una richiesta pervenuta alla commissione dalla
Bei.
Grazie all’accordo di associazione, la Grecia godeva di prestiti di una certa entità per il miglioramento
delle infrastrutture del paese e la Bei chiese il parere della Commissione. La decisione finale spettava
al consiglio dei ministri, che si riunì in ottobre: in questa occasione prevalse la posizione sostenuta
dalla Commissione.
Nel dicembre 1967 Kostantinos II scioglieva ogni indugio e decideva di prendere un’iniziativa contro
la giunta militare.
Nell’assumere tale decisione, egli informava immediatamente Talbot chiedendogli il sostegno degli
Stati Uniti. Da parte sua l’ambasciatore americano scriveva a Washington, suggerendo che
l’amministrazione invitasse sia il Re, sia la giunta a evitare un incontro diretto, dal quale solo i
comunisti avrebbero tratto vantaggio.
La reazione della giunta, per., era rapida ed efficace: in una presa di posizione pubblica si dichiarava
deposto il Re, nominato a primo ministro il col. Papadopoulos e reggente il gen. Zoitakis.
Il re fu incapace di riunire attorno a sé le forze armate che avrebbero potuto essergli fedeli e, compreso
il fallimento della sua manovra, decise di trasferirsi in aereo in Italia, dove si sarebbe stabilito in
esilio.
l’evoluzione della situazione interna della Grecia e l’uscita di scena del sovrano posero le maggiori
nazioni occidentali di fronte all’esigenza di assumere una posizione nei confronti di un regime
autoritario.
ancora una volta furono gli Usa a ritrovarsi maggiormente coinvolti nelle vicende greche.
L’amministrazione Johnson decise di proseguire in una politica di basso profilo che, se da un lato non
implicava relazioni particolarmente cordiali con il nuovo governo di Atene, dall’altro non riteneva
utile rompere con i golpisti greci.
Tale atteggiamento trovava giustificazione sia nell’apparente acquiescenza della popolazione greca
verso il nuovo regime, sia nella vaga speranza che i militari alla guida del paese potessero essere
convinti a procedere verso una qualche forma di liberalizzazione. Quanto al governo greco,
àPapadopoulos cercò di mantenere buone relazioni con Washington.
Per gli Stati Uniti la posizione da assumere nei confronti della Grecia si legava strettamente alla
sempre più tesa situazione a Cipro: era dunque necessario non rompere con Atene per mantenere
aperta la speranza di dialogo sia tra le due opposte comunità presenti nell’isola sia tra il governo greco
e quello turco.
La posizione dell’amministrazione americana non era destinata a mutare nel corso del 1868, anzi si
prese in considerazione la possibilità di attenuare il bando alla fornitura di alcuni tipi di
equipaggiamenti militari deciso sin dal periodo immediatamente successivo al colpo di Stato.
L’apparente immobilità dell’amministrazione americana era d’altronde la conseguenza delle gravi
difficoltà incontrate dal presidente Johnson nel corso del 1968 sia sul piano politico interno, sia su
quello internazionale, a causa dell’acutizzarsi della guerra in Vietnam.
La condizione che il regime fosse destinato a durare aveva cominciato d’altronde a diffondersi anche
negli ambienti diplomatici dei maggiori paesi dell’Europa occidentale, più interessati alla situazione
greca.

Grecia: 1868-1872.
La progressiva acquiescenza occidentale nei riguardi del regime dei colonnelli sembrava trovare
parziale giustificazione nella sostanziale mancanza di opposizione interna al governo: il golpe era
stato realizzato senza colpo ferire, né nel periodo successivo vi erano state aperte manifestazioni di
ostilità; infine, il tentativo del re di restaurare la democrazia non aveva avuto alcun seguito presso la
popolazione
A partire dal 1968, l’opposizione al governo militare sembrò manifestare prevalentemente all’estero.

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Su questo fenomeno influirono una serie di fattori: in primo luogo, l’azione di vari intellettuali greci
operanti in esilio e noti presso l’opinione pubblica occidentale: tra i principali, va ricordato il
compositore Wikis Theodorakis.
Il clima generato dal maggio del 1968 aveva creato in numerosi paesi dell’Europa occidentale una
crescente sensibilità nei confronti di quelle situazioni che in ambito internazionale sottolineavano la
presenza di regimi dittatoriali e nelle manifestazioni accanto agli slogan a favore della lotta di
liberazione del Vietnam frequenti erano quelli ostili ai colonnelli greci e alla dittatura franchista.
Inoltre, comune era l’accostamento al presunto ruolo giocato dagli Usa nel sostegno a tali governi e
tra le forze di sinistra europee, come in ampi settori dell’opinione pubblica, era convinzione diffusa
che il colpo di Stato del 1967 fosse stato ispirato da Washington e dall’alleanza politica. Non c’è da
stupirsi, dunque, se l’ostilità al governo di Atene sembrasse dune manifestarsi più al di fuori della
Grecia che all’interno del paese e che questo atteggiamento trovasse riflesso nelle posizioni di alcuni
governi, in particolare quelli delle nazioni scandinave, tradizionalmente attente ai temi della difesa
della democrazia, e delle associazioni per la salvaguardia dei diritti umani, quali ad esempio Amnesty
International.
La mobilitazione e l’attenzione nei confronti delle vicende greche era forte soprattutto nei ambienti
della sinistra europea occidentale.
Ben più prudente, invece, era l’atteggiamento assunto dai responsabili delle maggiori potenze
occidentali, in particolare Gran Bretagna, Francia e Germania occidentale.
Nel volgere di breve tempo la posizione di Atene avrebbe subito un improvviso debolmente proprio
nell’ambito europeo.
Fin dal 1967 il problema del mancato rispetto dei diritti umani era stato sollevato dai tre paesi
scandinavi ( Svezia, Norvegia, Danimarca ) e dall’Olanda all’interno del consiglio d’Europa.
La questione era stata affidata al vaglio dell’apposita Commissione sui diritti umani, ma essa
cominciò a diventare oggetto di discussione anche nell’Assemblea consultiva.
Il dibattito interno all’atteggiamento che questo organismo europeo avrebbe dovuto assumere nei
riguardi della Grecia suscitò l’interesse delle maggiori nazioni europee occidentali, in particolare
della Gran Bretagna che, oltre ad essere stata una delle artefici del Consiglio d’Europa, era cosciente
del fatto che questo fosse al momento uno dei pochi organismi europei di cui faceva parte a pieno
titolo, essendo stata respinta la candidatura di Londra alla CE a causa dei veti gallasti.
Nell’estate del 1969 il regime dei colonnelli risarebbe trovato sul banco degli accusati. Le autorità
greche ritennero possibile evitare le conseguenze di una tale decisione attraverso il raggiungimento
di un accordo amichevole, che si sarebbe basato sulla parziale attuazione di una nuova costituzione,
la quale, nelle intenzioni del regime, avrebbe dovuto dimostrare la buona volontà della Grecia-
Il governo dei colonnelli era convinto di poter contare sull’aiuto dei maggiori paesi europei
occidentali, in particolare Gran Bretagna, Francia e RFT, affinché questi svolgessero un’opera di
mediazione nei confronti delle nazioni che avevano sollevatola questione.
I rappresentanti dei paesi nordici, però, valutarono in maniera negativa la posizione assunta dal
regime dei colonnelli.
Londra, Bonn e Parigi confermavano comunque la loro intenzione di evitare una condanna parta del
regime del ci colonnelli. Nonostante le ‘atteggiamento cauto di alcuni importanti paesi occidentali, le
autorità svedesi facevano sapere la loro propensione a ottenere l’espulsione della Grecia dal Consiglio
d’Europa o, quanto meno, a conseguire il ritiro volontario di Atene: quest’ultima soluzione veniva
ventilata anche ambienti diplomatici olandesi.
Il governo dei colonnelli sembrava però riporre ora le speranze nella possibilità che, in sede di
votazione, non si raggiungessero i “/£ necessari per l’espulsione, condizione necessaria in base alle
interpretazioni date da Atene nel regolamento dell’organismo internazionale. Ma il governo
britannico nutriva scarsa fiducia nelle valutazioni greche; in ogni caso Londra cominciò a ritenere
che la soluzione destinata a danneggiare in misura minore il fronte occidentale,e il consiglio d’Europa
e la Stessa Grecia consistesse nell’evitare una votazione, il cui esito sarebbe stato in ogni caso
lacerante, e favorire un ritiro unilaterale da parte di Atene dall’organizzazione europea.ùLe autorità
greche sembrarono voler ancora tergiversare, da un lato sottolinenando come la politica di pressioni

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non avrebbe condotto a una maggiore democratizzazione, dall’altro continuando a sperare nel
mancato conseguimento dei due terzi dei voti a favore dell’espulsione.
Tuttavia, il trascorrere del tempo non era a favore dei colonnelli: la commissione d’inchiesta
confermava infatti le accuse circa la violazione dei diritti umani, in particolare il ricorso alla tortura
nei confronti degli oppositori politici da parte del regime greco.
Inoltre, i governi dei tre paesi scandinavi confermavano la loro intenzione di sottoporre al Consiglio
d’Europa la richiesta di sospensione del governo greco.,Alla fine di novembre parti del rapporto della
Commissione d’inchiesta relative ai casi di tortura giungevano a vari organi di stampa inglesi, che ne
pubblicavano ampi stralci suscitando le ovvie reazioni negative in numerosi paesi occidentali. Questo
sviluppo parve influenzare la posizione di alcuni governi: sia da parte di Bonn che da parte di Roma
si fece presente a Londra come entrambi si sarebbero a questo punto espressi a favore della
sospensione della Grecia. Nella sera dell’11 settembre Stewart aveva un colloqui con il ministro degli
esteri greco., Pipinelis, al quale ribadiva l’opportunità di un ritiro unilaterale della Grecia.
Il rappresentante di Atene sembra ancora rifiutare tale prospettiva, ma il giorno dopo,
contemporaneamente all’avvio della discussione in sede di Consiglio, giungeva un documento del
governo greco, nel quale, pur denunciando quanto accaduto nell’ambito dell’organismo europeo, si
annunciava la decisione di Atene di ritirarsi dal Consiglio d’Europa.
Se l’Europa occidentale poteva rappresentare un importante partner economico e un significativo
punto di riferimento politico per la Grecia, gli Stati Uniti mantenevano nell’opinione del regime di
Atene un ruolo centrale per definire la posizione internazionale dello Stato ellenico.
Con l’elezione di Nixon e l’ingresso in scena di Kissinger, la politica estera americana subì una
radicale evoluzione.
Alla vigilia dell’insediamento del nuovo Presidente, il vice responsabile della missione americana ad
Atene, McLelland, inviava al Dipartimento di Stato un lungo documento in cui esaminava in dettaglio
la situazione greca greca: questa analisi non si discostava da quella di altri diplomatici.
Una volta insediata, la nuova amministrazione cominciò a ricevere pressioni affinché Washington
mutasse la propria politica nei conforti di Atene.
Il 31 marzo Nixon, Kissinger e altri collaboratori incontravano brevemente il vice primo ministro
greco Pattakos, in visita in America, il quale perorava la causa del suo paese, tra l’altro sottolineando
perdurante minaccia rappresentata dal comunismo in Europa.
In aprile, tramite Kissinger, Nixon chiese al dipartimento di Stato, a quello della Difesa e alla CIA
una valutazione circa la possibilità di ripristinare la fornitura di materiale militare al governo di Atene.
Kissinger avanzò a Nixon l’ipotesi di sbloccare al meno parzialmente l’invio di forniture militari alla
Grecia, in prevalenza parti di ricambio.
Alla finIn autunno l’amministrazione indicava in Tasca il nuovo rappresentante diplomatico degli
Stati Uniti in Grecia. Il tema della politica americana verso la Grecia giungeva solo in ottobre
all’attenzione del National Security Council, che elaborava un progetto di memorandum. In tale
documento si sottolineava come la Grecia non rappresentasse un importante elemento per gli interessi
degli Usa dal punto di vista economico e politico: la nazione ellenica giocava però un ruolo importante
nella strategia americana, sia nel quadro dell’Alleanza atlantica, sia come utile testa di ponte verso
l’Area del Medio oriente.
In concreto, si suggeriva che la posizione di Washington non mutasse radicalmente e mirasse a
ammettere buoni rapporti di collaborazione con la giunta militare, pur continuando ad auspicare un
graduale processo di democratizzazione.
Alla metà di novembre l’amministrazione istruiva Tasca affinché riferisse a Papadopoulos
l’intenzione di Washington di riprendere le forniture di armamenti, gli Usa auspicavano che in cambio
la Grecia facesse ritorno a un regime pienamente costituzionale, per quanto le implicazioni e i tempi
di un simile auspicio restassero vaghi.
sin dai suoi primi contatti con i vertici del regime militare, il nuovo ambasciatore parve dare una
valutazione non negativa del governo greco e sottolineò come questo fosse saldamente al potere e
contasse in particolare nelle campagne su un ampio consenso.

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L’ambasciatore esercitava pressioni affinché Washington riprendesse a fornire equipaggiamenti
militari ad Atene, pur continuando a sottolineare la necessità di un ritorno a un pieno sistema
costituzionale. L’atteggiamento di Tasca era rafforzato da una
Da parte sua, l’amministrazione cominciò a ritenere i legami di carattere strategico esistenti con la
Grecia di rilievo ancor maggiore per gli equilibri del Mediterraneo orientale, dopo che il nuovo
governo libico guidato dal colonnello Gheddafi aveva imposto l’evacuazione dal paese nord africano
delle basi militari stranieri.
Qualsiasi mossa americana che potesse apparire un sostegno al governo di papadopoulos avrebbe
potuto creare serie difficoltà all’interno dell’Alleanza Atlantica.
questi elementi e l’atteggiamento di alcuni membri del congresso di tendenze liberal spinsero
l’amministrazione a rallentare le procedure destinate a ripristinato pieni rapporti di collaborazioni
militari con Atene. Tale posizione condusse a nuove pressioni sia da parte di Tasca che di
Papaodopoulos. Nel giugno 1970 Tasca riferiva circa la possibilità che il governo greco si rivolgesse
a Parigi per l’acquisto di armamenti, prospettiva considerata con particolare sfavore da tasca viste le
posizioni antitetiche rispetto a quelle americane, assunto dai francesi nei riguardi del grave contrasto
araboisraeliano.
Nel corso del 1972 le relazioni fra gli Stati Uniti e la Grecia finirono con lo stabilizzarsi: le perduranti
difficoltà nella situazione mediorientale e i vantaggi derivanti per gli interessi strategici americani nel
Mediterraneo orientale dalla presenza greca nella Nato giustificavano ampiamente agli occhi
dell’amministrazione Nixon il mantenimento di buoni rapporti con il regime dei colonnelli. La
posizione americana appariva giustificata dall’apparente consenso goduto dal regime sul piano
interno e dall’assenza di una chiara leadership in esilio che fosse in grado di guidare una transizione
ordinata verso la democrazia in maniera coerente con gli interessi statunitensi. La posizione
statunitense non era destinata a murate nei mesi successivi.
Se la posizione americana verso il regime dei colonnelli si era ispirata durante la prima
amministrazione Nixon a un criterio di realpolitik si era tradotta un una sostanziale accettazione, se
non in un sostegno, a Papadopoulos e ai militari, nel corso dei primi anni Settanta anche le maggiori
potenze europee occidentali avevano finito con l’accettare la presenza della dittatura greca come un
dato di fatto, che difficilmente avrebbe subito cambiamenti, almeno in una prospettiva di breve
periodo.
Le relazioni commerciali tra la Grecia e i maggiori paesi della Comunità sul piano bilaterale restavano
positive, soprattutto per gli interessi di nazioni quali Francia, Germania Federale e Gran Bretagna, e
non mancava chi all’interno di qualche diplomazia europea occidentale fosse pronto a sostenere,
anche se con cautela, che un approfondimento dei rapporti tra la CEE e la Grecia potesse
indirettamente favorire il processo di democratizzazione.

Grecia: 1973-74.
La svolta in senso liberale di Papadopoulos suscitò qualche speranza nel mondo occidentale. In
particolare il governo inglese mostro attenzione nei riguardi del gabinetto Markezinis e delle sue
apparenti intenzioni di avviare un processo di democratizzazione. Posizioni moderate nei confronti
della scelta di Papadopoulos a proposito dell’abolizione della monarchia erano state espresse in
giungo dall’ambasciatore inglese ad Atene e, sebbene non si irpontessssero da parte sua articolari
speranza e dei leeasder militari greci, risosteneva l’opportunità di mriproponesseroantenere buoni
rapporti con Atene e di potere alla prova il regime circa la sua capacità di dare contenuto alle promesse
di democratizzazione.
Lea autorità inglesi erano da un lato occupate dalla perdurante opposizione resistente in Gb da parte
dell’opinione pubblica e di influenti ambienti parlamentari nei riguardi della dittatura greca, dall’altro
apparivano desiderose di giungere a un miglioramento nelle relazioni con il governo ellenico, anche
nella prospettiva del forte convincimento britannico nella questione di Cipro, che appariva
attraversare na date di forti difficoltà.

8
Le speranze occidentali in un graduale processo di democratizzazione vennero però rapidamente
deluse. Le caute aperture di Markezenis furono interpretate dall’opposizione come un segno di
debolezza del regime. Il governo aveva accolto
Il 14 novembre ci fu l’occupazione del Politecnico di Atene: in questo caso gli studenti vennero
brutalmente assassinati e feriti di militari.
Le immagini di quanto avvenuto ad Atene ebbero una vasta diffusione in ambito internazionale e il
regime si trovò nuovamente al centro delle condanne e delle critiche dell’opinione pubblica e dei
media del mondo occidentale. Il giorno dopo gli incidenti del politecnico Tasca aveva un colloquio
con Markezenis. Quest’ultimo sembrava voler minimizzare quanto accaduto e sottolineò la volontà
del suo governo di procedere nel processo di liberalizzazione, in particolare con l’indizione di
elezioni.
Comunque è improbabile che in questi mesi l'amministrazione Nixon e i maggiori governi occidentali
prestassero particolare attenzione agli avvenimenti greci, visto che il contemporaneo riesplodere della
crisi mediorientale con la guerra dello Yom Kippur e l’embargo petrolifero deciso dai paesi arabi
produttori.
Nel 1967 venne nominato Adrutsopoulos e indicato come il maggiore responsabile delle attività
repressive del regime: persino Tasca ora appariva seriamente preoccupato. inc un messaggio dal
Dipartimento di Stato, egli indicava come, con tutta probabilità, i novi leader greci sarebbero stati
tendenzialmente filoamericani,.
Egli inoltre prevedeva un acuirsi dello scontro politico con il probabile formarsi si una coalizione di
tutte le forze ostili al regime. Da tale situazione gli Usa non avrebbero avuto alcun vantaggio.
Sul piano politico le ambizioni di democratizzazione di papadopoulos e di Markezenis si erano
scontrate, a suo giudizio, con l’opposizione da parte della classe politica moderata, con gli obiettivi
rivoluzionari della sinistra e con il timore dei falchi all’interno delle forze armate: ciò aver favorito
gli eventi di novembre e l’ennesimo colpo di Stato. I giudizi dell’ambasciatore sulla nuova leadership
erano fortemente negativi.
è singolare, inoltre, che Tasca sembrasse nIn questo periodo l’ambasciatore americano considerò
come opportuno il ritorno al potere di Karamanlis. Con tutta probabilità, furono le sollecitazioni di
Tasca a spingere di dipartimento di Stato a un’attenta analisi della situazione greca e delle possibili
conseguenze per le relazioni fra Washington e Atene.
LA questione veniva presa in considerazione in un lungo e dettagliato memorandum: in questo
documento Tasca indicava la difficile situazione in cui gli Usa si trovavano; qualsiasi posizione
l’amministrazione avrebbe assunto, si sarebbero presentati forti rischi per gli interessi americani. Se
Washington avesse imboccato la strada di un atteggiamento di non interferenza nelle vicende greche,
questa posizione sarebbe stata interpretata come un sostegno indiretto all’impopolare e debole regime
dei militari; se, al contrario, l’amministrazione avesse condannato la giunta greca, questa avrebbe
potuto compiere scelte ostili agli Usa e Washington NON AVREBBE OTTENUTO IN OGNI CADO
PARTICOLARE CREDITO PRESSO. GLI OPPOSITORI DEL REGIME.
VI ERANO INOLTRE DUE ASPETTI LEGATI ALLA politica AMERICANA VERSO ATENE
CHE LORD METTEVA IN LUCE.
IN PRIMO LUOGO, EGLI RICORDAVA COME FOSSERO IN CORSO IMPORTANTI
NEGOZIATI DI CARATTERE MILITARE CON IL GOVERNO GRECO, I QUALI AVREBBERO
DOVUTO CONDURRE A UN RAFFORZAMENTO DELLE AGEVOLAZIONI PER LA
MARINA AMERICANA NEL PORTO DEL PIERO E NELLA BAIA DI SUDA A CRETA.
IN SECONDO LUOGO, NON POTEVANO ESSERE TRASCURATI I RIFLESSI INTERNI
DELLA QUESTIONE GRECA: NEL VOLGERE DI BREVE TEMPO TACA AVREBBE
DOVUTO PRESENTARSI A testimoniare A WASHINGTON DI FRONTE ALLA
COMMISSIONE AFFARI ESTERNI DELLA CMAERA DEI RAPPRESENTANTI, CHE LO
AVREBBE SOTTOPOSTO A UNA SERIE DI impegnativi QUESITI CIRCA LA POSIZIONE
AMERICANA VERSO LA GRECIA.
LE CONCLUSIONI DEL DOCUMENTO ERANO ISPIRATE A UNA GRANDE prudenza E SI
SUGGERIVA IN UNA prospettiva FI BREVE PERIODO UNA HANDS-OFF POSITION, CHE SI

9
SAREBBE RIVELATA UTILE PER IL REGIME, MA AVREBBE COMUNQUE FAVORITO IL
PROGRESSO NEI NEGOZIATI SULLE QUESTIONI DI CARATTERE MILITARE. PER Ciò
CHE RIGUARDAVA GLI OBIETTIVI DI LUNGO PERIODO, LORD SI APPELLAVA A UNA
DECISIONE DA PARTE DI Kissinger.
LA PRUDENZA ESPRESSA IN QUESTO DOCUMENTO NON CORRISPONDEVA ALLE
VALUTAZIONI DI QTASCA, CHE ERA SEMPRE Più PREOCCUPATO DPER LA DERVIA
NAZIONALISTA E SIONISTA DEL GOVERNO miliare GRECO, E AGLI INIZI DI MARZO
EGLI ESPRIMEVA APERTAMENTE IL TIMORE CHE TALE EVOLUZIONE DELLA
DITTATURA IN MATERI ADI politica ESTERA POTESSE TRADURSI IN SCELTE contrarie
AGLI INTERESSI DELGI USA.
Alcuni giorni dopo Tasca rientrava a Washington e il 20 marzo si teneva un’importante riunione che,
presieduta da Kissinger, vedeva presenti i più stretti collaboratori del segretario di Stato, nonché
l’ambasciatore ad Atene.
Al centro del dibattito vi erano la situazione greca e la politica americana verso il governo ellenico.
Alcuni partecipanti ponevano in luce i problemi derivanti dall’evoluzione delle vicende greche e i
rischi che da ciò sarebbero derivati per gli interessi statunitensi.
I loro appelli venivano accolti da Kissinger con un atteggiamento che, a prima vista, poterebbe
sorprendere: il segretario di Stati sembrava in alcuni momenti concentrare l’attenzione su dettagli di
scarso rilievo, in altri sottolineare le contraddizioni nelle argomentazioni dei propri interlocutori.
Era significativo inoltre come Kissinger non sembrasse comprendere o considerare come
particolarmente seria la situazione esistente in Grecia al punto di interrompere Tasca per fasi spiegare
come fosse possibile che il maggior generale Ghizikis pr, presidente della Repubblica, potessero
riceve ordini dal brigadiere generale IOannidis, uomo forte del regime da di inferiore grado.
D’altro canto, Kissinger non nascondeva nel corso dell’intorno di essere più interessato ad altri temi
internazionali e poi preoccupato delle relazioni tra l’esecutivo e il Congresso, sentimenti in parte
comprensibili visti i contemporanei sviluppi dello scandalo Watergate. La riunione si consulte senza
una netta presa di posizione anche se, all’interno dei vari dipartimenti americani, esisteva una visione
sufficientemente chiara del problema greco e dei suoi possibili sviluppi, sia sul piano interno che qu
quello internazionale. Nelle settimane successive l’attenzione delle autorità americane si concentrò
sull’improvviso aggravarsi del contrasto greco-turco. Nell’opinione americana, però, non era Cipro
il nodo da contendere, quanto piuttosto il conflitto scoppiato interno alle ambizioni di Atene ricerca
il possibile sfruttamento della supporta presenza di giacimenti petroliferi nell’Egeo nei pressi
dell’isola di Thasos. La nAto si stava impegnato in un’operazione di mediazione tra il governo di
Ankara e quello di Atene.
Ciò che alla fine di giugno a Washington sembrava improbabile, si sarebbe tradotto in realtà nel
volgere di pochi giorni, mutando radicalmente sia la realtà politica greca che la posizione occidentale
nei confronti del paese ellenico.

Grecia: 1974
La sorte della Greci, sia dal punto di vista interno che da quello internazionale, si veniva a situare in
un contesto internazionale complesso e rappresentava una sfida per le capacità dei maggiori paesi
occidentali di delineare una efficace strategia che, da un lato, favorisse il ritorno a una stabile
democrazia di stampo liberale, dall’altro contribuisse a mantenere la nazione ellenica all’interno del
campo occidentale.
In effetti era l’intera europa meridionale a mostrare segni di grave crisi per gli interessi occidentali
perché, ai rivolgimenti in Portogallo e in Grecia e ai segnali di difficoltà del franchismo si aggiungeva
le vicende connesse all’invasione di Cipro e la crisi vissuta ormai da alcuni anni dall’Italia.
Il rientro di Karamanlis ad Atene e il rapido ritorno alla democrazia vennero salutati con favore, se
non con entusiasmo, da ampi settori dell’opinione pubblica sia in Europa occidentale che negli Stati
uniti: la presenza di Karamanlis alla guida del paese era inoltra appara come una garanzia di
moderazione.

10
La decisione del governo greco di far uscire il paese dalla Nato, il diffondersi di sentimenti americani
e l’azione delle forze di sinistra, nel cui ambito esercitava una forte influenza Papandreou, erano però
elementi destinati a suscitare forti preoccupazioni sia all’interno dell’amministrazione americana, sia
nei responsabili delle maggiori nazioni dell’Europa occidentale.
In un memorandum redatto dalla CIA alla fine di afoso, l’Agenzia tracciava un'acuta analisi della
situazione greca. Si sottolineavano i sentimenti popolari di forte ostilità nei confronti degli Stati Uniti
e si giustificavano le mosse di Karamanlis a proposito della Nato come una sorta di necessità al fine
di evitare critiche da parte dell’opinione pubblica greca e delle forze di sinistra.non si escludeva
neanche la possibilità, specialmente nel caso di una composizione della crisi di Cipro sfavorevole agli
interessi di Atene e dei greco-ciprioti, che Karamanlis fosse costretto a scelte più ostili nei confronti
di Washington.
Nell’analisi della CIA si notava comunque come il nuovo leader greco puntasse a sviluppare stretti
rapporti con i partner europei nella speranza di ottenere sostegno economico e poltiico da parte della
comunità: egli era anche alla ricerca di un fornitore di equipaggiamenti militari in alternativa agli
Stati Uniti.
Da questo momento in avanti l’iniziativa circa la transizione della Grecia verso la democrazia e la
sua collocazione nel contesto internazionale passò decisamente delle mani di alcuni attori europei, in
particolare la Francia e la Comunità.
Karamanlis era rientrato in patria con l’aereo presidenziale di Giscard d’Estaing e il presidente
francese si era immediatamente e calorosamente congratulato per la nomina dell’esponente greco alla
guida del nuovo governo ellenico.
Insomma, è evidente come la Francia si preoccupasse fortemente di quanto stava accadendo in Grecia
e stesse elaborando una precisa politica nei riguardi di Atene. Il governo di Parigi condivideva le
preoccupazioni di Washington circa la futura collocazione internazionale del paese.
Fin dai primi giorni dopo il rientro di Karamanlis ad Atene la Francia aveva agito a sostegno della
Grecia nell’ambito dell’Onu riguardo alla crisi di Cipro, facendo approvare una risoluzione che
criticava l'intervento militare turco. Parigi quindi si era mossa nel contesto del Consiglio d’europa
affinché si prendesse in considerazione la riammissione della Grecia in questo organismo europeo;
quanto alla CEE, il governo francese aveva premuto affinché la riattivazione del trattato di
associazione fosse esaminato in tempi rapidi, dapprima dal Comitato dei rappresentanti permanenti (
COREPER ), quindi dal Consiglio dei ministri.
Tra le ragioni che spingevano la Francia ad agire con determinazione vi erano il timore per un
mutamento degli equilibri a favore delle forze di sinistra e la speranza di riempire il vuoto d’influenza
esercitato siano a quel momento dagli Usa; non mancavano inoltre le ambizioni a rafforzare
ulteriormente la porrai posizione dal punto di vista economico.
Le scelte francesi per un rapido reinserimento della Grecia nel sistema europeo occidentale
sembravano favorite, da un lato, dai sentimenti dell’opinione pubblica e di vari gruppi di pressione
particolarmente favorevoli nei riguardi del nuovo governo di Karamanlis e, dall’altro, dalla stessa
abile azione del leader greco.
Va sottolineato come, fin dalle prime fasi ella sua azione, il nuovo governo greco avesse deciso di
puntare con determinazione per il futuro del paese nei confronti della carta europea.
Uno dei primi ambiti in cui le autorità greche si mossero fu il Consiglio d’Europa, l’organismo che
più di altri aveva espresso una ferma condanna della dittatura.
Fin dall’agosto Karamanlsi aveva istruito l’ambasciatore Kambalouris, rappresentante di Atene
presso il consiglio d’Europa, di rivolgersi al segretariato dell’organismo europeo affinché venisse
posta la questione del rientro della Grecia nell’organizzazione di Strasburgo. A distanza di qualche
giorno il nuovo ministro degli Affari esteri, Mavros, aveva comunicato il desiderio di recarsi nella
città alsaziana per prendere la parola e, il 31 agosto, aveva espresso la volontà del governo Karamanlis
di vedere la Grecia rientrare a far parte a pieno titolo dell’organizzazione europea.
Da parte sua il segretariato del Consiglio d’Europa, in particolare il servizio giuridico, sembrava in
parte raffreddare gli entusiasmi di Atene, indicando come per una decisione definitiva sarebb stato
opportuno quanto meno attendere lo svolgimento delle elezioni in Grecia , previste per novembre.

11
Anche in questo caso le aspirazioni di Atene trovavano un immediato appoggio da parte del governo
francese.
alla fine di settembre il viceministro degli esteri greco Averoff interveniva in una seduta
dell’Assemblea Consultiva esponendo le tesi della Grecia.
Il Consiglio d’Europa, a questo punto, decideva per una rapida procedura di riammissione,
considerando comunque necessario attendere gli esiti delle elezioni politiche greche, le quali si
sarebbero tenute nel volgere di due mesi.
Alla fine di novembre del 1974, all’indomani della consultazione, la Grecia rientrava a pieno titolo a
far parte dell’organismo europeo. Le autorità greche be sapevano come l’organizzazione europea più
importante e quella che avrebbe potuto maggiormente influire sul futuro del paese fosse la Comunità
europea. Primo obiettivo di Karamanlis in tale ambito fu la riattivazione del trattato di associazione.
Le intenzioni del nuovo governo erano state chiarite pochi giorni dopo il rimpatrio di Karamanlis.
Atene intendeva quindi attribuire ai propri futuri rapporti con la Comunità un prevalente significato
politico, ben sapendo che, dal punto di vista economico, data la situazione non facile del paese, non
sarebbe stato agevole dare piena e rapida attuazione all’accordo di associazione.
Sebbene la Commissione mostrasse un atteggiamento positivo verso il nuovo governo greco, sembrò
preclare un certo gradi di cautela, condivisa sia dal COREPER che dal Consiglio dei ministri: tale
posizione trovava giustificazione in considerazioni di carattere economico. In una prospettiva di breve
periodo si ritenne opportuno mostrare qualche segnale di buona volontà, soprattutto tenendo conto
della difficile situazione economica in cui versava il paese ellenico; si decideva così di sbloccare i
crediti alla Grecia che la Banca Europea degli Investimenti aveva congelato subito dopo il colpo di
StTO E VENNE CORRISPOSTO IN TEMPI RAPIDI AD ATENE UN FINANZIAMENTO DI 55
MILIONI DI DOLLARI.
Ala di là degli aspetti economici, anche la Comunità sembrava attendere una chiarificazione della
situazione interna greca, fra cui elemento importante era considerato l’esito della consultazione
elettorale. Significative dell’atteggiamento assunto in questo periodo dalla Comunità erano le
valutazioni espresse alla fine di agosto dai rappresentanti diplomatici dei Nove accreditati ad Atene.
L’importanza dell’appuntamento elettorale era colto da tutti gli osservatori occidentali. si trattava di
un test che avrebbe fatto comprendere i reali rapporti di forza esistenti tra le varie formazioni
presentatesi sulla scena politica dopo il crollo del regime militare, ma avrebbe anche determinato le
future scelte di Atene in campo internazionale.
La crescente importanza dell’avvicinamento alla comunità era d’altronde riconosciuto anche dai
rappresentanti diplomatici dei Nove ad Atene, i quali, in un loro rapporto, affermavano che, sebbene
il tempo europeo non fosse stato al centro della campagna elettorale, l’appartenenza all’Europa è
sinonimo di progresso e di indipendenza.
Il nuovo ambasciatore americano ad Atene, Kubisch, in un messaggio inviato al Dipartimento di Stato
due giorni prima delle elezioni, concentrava la sua attenzione sui cambiamenti economici e sociali
vissuti dalla Grecia nel corso dell’ultimo decennio.
L’esito delle elezioni del 17 novembre fu rassicurante per l’Occidente: Nuova democrazia, con il
54,37% dei suffragi, otteneva la maggioranza assoluta.
L’affermazione elettorale di Karamanlis era confermata alcune settimane dopo dal risultato di un
referendum che conduceva alla fine della monarchia e alla nascita della repubblica.
Se, almeno in breve periodo, restava aperta la questione di come forzare il processo di
democratizzazione e favorire il pieno e stabile inserimento della nazione ellenica nel mondo
occidentale.
In questo ambito la Grecia avrebbe ricoperto il ruolo di battistrada rispetto agli altri due paesi
dell’Europa meridionale, che in questo stesso periodo stavano uscendo da esperienze di natura
autoritaria.

Grecia: 1975-76.
Agli inizi di dicembre il primo ministro francese Chirac compiva una visita ufficiale ad Atene, dove
incontrava il leader greco. Tra le varie affermazioni Karamanlis ribaldi sua ammirazione per il sistema

12
poltiico francese e sostenne che la futura costituzione greca si sarebbe ispirata a quella della V
repubblica; ciò che però stava a cuore al leader ellenico era la posizione della Grecia nei riguardi della
Comunità Europea.
A questo proposito egli, con abilità, affermò che la Grecia appartenenza naturalmente all’Europa e
che a questa si rivolgeva il popolo greco anche quale conseguenza della disillusione provata nei
confronti degli usa e della Nato.
Karamanlis sostenne che, se non vi fosse stata la parentesi rappresentata dalla dittatura dei colonnelli,
vista l’esistenza del trattato di associazione, la candidatura di Atene a membro a pieno titolo della
CEE si sarebbe posta contemporaneamente al primo allargamento.
Secondo il primo ministro ora la questione si riproponeva il maniera urgente ed egli aveva promesso
al suo popolo di condurre il paese all’interno della comunità.
La determinazione di Karamanlis a conseguire l’obiettivo del pieno inserimento del suo paese nella
Comunità europea nasceva da una serie di motivi precisi.
In primo luogo, egli ben sapeva come questo fosse stato determinato dal ruolo centrale da lui giocato
nel ripristino delle istituzioni democratiche e come questo elemento sarebbe rapidamente venuto
meno nella considerazione di elettori se non fossero intervenuti altri risultati sia in campo interno che
in quello internazionale.
Quanto gli aspetti internazionali, la posizione di Atene nell’alleanza atlantica restava incerta: in
febbraio avevano inizio le trattative tra il governo greco e quello americano per la ridefinizione della
presenza delle basi statunitensi in territorio americano per la ridefinizione della presenza delle basi
statunitensi in territorio ellenico, e il negoziato si presentava lungo e irto di difficoltà.
I rapporti con gli Usa restavano difficili, soprattutto per la perdurante ostilità della popolazione greca
verso Washington, che covava espressione in frequenti manifestazioni popolari.
In questa nono facile situazione per il capo del governo greco, il semplice ristabilimento del trattato
di associazione non era sufficiente e solo l’ingresso a pieno titolo nella CEE o, quanto meno, l’avvio
ufficiale di negoziati in tal senso avrebbe offerto alla Grecia l’ancoraggio necessario al sistema
occidentale tale da assicurare stabilità al paese e la costruzione di quella salda democrazia che la
nazione non aveva mai conosciuto: tale prospettiva doveva, al momento, dell’ampio consenso
dell’opinione pubblica interna, che era pronta a sottolineare una differenza sostanziale, anche se in
ampia misura immaginaria, tra le posizioni dell’Europa comunitaria e gli Stati Uniti, sia per ciò che
riguardava gli anni della dittatura, sia per quanto concerneva il periodo apertosi con la fine del regime
militare.
A pParigi non mancava di affiorare qualche dubbio su una rapido inserimento della Comunità: agli
inizi di aprile la Direzione degli Affari economici e Finanziari del Quai d’Orsay esaminava questo
argomento.
La Direzione degli Affari Politici del Quai d’Orsay appariva più preoccupata degli equilibri interni
alla Grecia e dei riflessi che su questi avrebbe avuto la collocazione internazionale del paese.
Si ha l’impressione che il governo di Parigi, fortemente tentato dall’opportunità di estendere sulla
Grecia la propria influenza, fosse pronto ad esprimere una posizione positiva nei confronti di una
richiesta di adesione alla Comunità da parte di Atene, al contempo si riteneva possibile lasciare nel
vago i tempi in cui la nazione ellenica sarebbe divenuta membri a pieno titolo della CEE,
accantonando per il momento i problemi di carattere economico. La posizione di Parigi non era
condivisa da altri membri della comunità.
Anche all’interno della comunità ci si poneva la questione della posizione che la Grecia avrebbe
assunto: negli ambienti della commissione, che aveva mostrato un atteggiamento prudente verso la
prospettiva dell’adesione di Atene, si comprendeva come le aspirazioni della Grecia trovassero
giustificazione in prevalenti ragioni di carattere politico.
La posizione della Grecia venne esaminata in un incontro avvenuto a Bruxelles fra Ortoli e i
rappresentanti del Consiglio.
Il Presidente della Commissione era alla vigilia di una missione ad Atene e desiderava conoscere le
opinioni dei governi dei Nove; da parte sua, egli indicò sia la rilevanza politica della questione, sia

13
gli ostacoli di carattere economico che si frapponevano all’accettazione della probabile richiesta della
Grecia.
Ma il governo greco aveva deciso di accelerare i tempi. Giunto ad Atene Ortoli aveva incontri con le
massime autorità greche, le quali ribadivano la ferma intenzione di presentare nel volgere di breve
tempo una richiesta ufficiale di adesione.
Il presidente della Commissione, per quanto non assumesse alcuna posizione, traeva dai colloqui
un'impressione positiva: anche gli esponenti ellenici apparivano consci delle implicazioni enologiche
che sarebbero derivate dalla partecipazione della Grecia alla CEE.
L’incontro del Presidente della Commissione con Karamanlis si era rivelato importante ed egli aveva
inoltre ribattuto con sga di fronte all’osservazione del Presidente della Commissione circa la
possibilità che alla richiesta greca facesse seguito una analoga domanda da parte turca, criticando le
posizioni assunte da Ankara nel negoziato su Cipro.
Alcuni giorni dopo la visita del Presidente della Commissione, Karamanlis e il ministro degli esteri
Bitsios compivano un importante viaggio europeo con tappe a Parigi, Bonn e Roma. Al centro della
sua missione vi era, da un lato, la questione cipriota,, dall’altro l’aspirazione greca a entrare nella
Comunità.
A Parigi i leader greci trovarono un’atmosfera favorevole e le autorità francesi confermarono in
maniera decisa il loro sostegno alla candidatura greca.
Più impegnative erano le soste in Italia e nella RFT. Per ciò che riguardava il governo italiano, si
poteva ritenere che esso fosse preoccupato per le ricadute economiche dell’eventuale presenza della
Grecia nella Comunità, tra cui la possibile concorrenza nel quadro della PAC da parte di alcuni
prodotti greci nei confronti di quelli dell’agricoltura del mezzogiorno. In realtà, l’atteggiamento di
Roma si rivelò più disponibile del previsto.
Quanto alla visita a Bonn, Karamanlis ben sapeva come il governo federale si fosse mostrato irritato
e preoccupato per la decisione greca di uscire dalla Nato e come, in precedenti occasioni, le autorità
tedesche avessero mostrato di voler legare l’ingresso della Grecia nella CEE ad un rientro di aAtene
nelle strutture integrate dell’alleanza atlantica.
Tuttavia, Karamanlis aveva sottolineato come la scelta di Atene non implicasse il venir meno della
fedeltà greca all’Alleanza atlantica: al contrario, il Primo ministro greco sembrava essersi spinto a
dichiarare che, se la Turchia avesse mostrato un atteggiamento più disponibile nei confronti del
problema di Cipro, la Grecia sarebbe rientrata nella Nato.
Il Cancelliere Schmidt era parso colpito dalle affermazioni del suo interlocutore e a questo punto
aveva dichiarato che il governo di Bonn avrebbe sostenuto la candidatura della Grecia nella CEE.
La posizione di Atene nei confronti della Nato era condizionata dalle autorità greche, oltre che dalla
politica di Ankara, all’andamento di negoziati bilaterali in corso con le autorità americane circa le
facilitazioni e le basi concesse alle forze armate statunitensi in Grecia.
In tale ambito l’atteggiamento del governo Karamanlis era meno ostile di quanto si potesse temere.
Le iniziative di Karamanlis parvero provocare una parziale evoluzione anche nella posizione della
Gran Bretagna che, fino a quel momento, aveva assunto un atteggiamento prudente, se non riservato,
nei confronti delle aspirazioni di Atene. alla fine di maggio Karamanlis aveva a Bruxelles un incontro
con il primo ministro inglese Wilson e con il segretario di Stato Callaghan.
Parte della conversazione era dedicata a Cipro, ma venne affrontato anche il tema della posizione di
Atene verso la CEE.
A questo proposito, sia il premier britannico che il segretario di Stato si mostrarono molto cauti: pur
indicando il favore di Londra alle aspirazioni greche, essi sottolinearono come l’adesione alla
Comunità sarebbe stato un processo lungo e difficile e che sarebbe stato sufficiente l’opposizione di
un solo membro della CEE per avere un veto all’ingresso della Grecia. Era evidente come gli inglesi
intendessero nascondere i loro dubbi dietro le posizioni di altri. Fu agevole, per Karamanlis, replicare
che i responsabili di tutti gli Stati membri contattati si erano espressi in maniera positiva.
Alla fine della conversazione, posto di fronte a una domanda diretta di Karamanlis circa la posizione
inglese, il primo ministro britannico fu quasi costretto a dichiarare che il governo inglese si sarebbe

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mantenuto in contatto con il partner della CEE favorevoli all’ingresso della Grecia con il desiderio di
aiutare Atene..
In realtà, da parte di Londra, vi era questo punto l’intenzione di dichiarare sì il proprio favore dal
punto di vista politico all’ingresso della Grecia, ma di sfruttare il negoziatore ritardare la piena
adesione della nazione ellenica alla Comunità.
Da parte inglese vi era inoltre la sotterranea speranza che una domanda ufficiale della Grecia avrebbe
implicato una analoga mossa della Turchia e ciò avrebbe favorito l’emergere di dubbi e ostacoli.
In quegli stessi giorni Karamanlis incontrava nella capitale belga Kissinger e il nuovo presidente degli
stati Uniti Ford. Sia quest’ultimo che il segretario di stato, fin dall’inizio del colloqui, si mostrarono
prodighi di lodi nei confronti del Primo ministro greco per i suoi sforzi miranti a riportare il paese
sulla strada della piena democrazia.
Karamanlis, da parte sua, affrontò in maniera precisa e con forza la questione di Cipro e quella
riguardo al contrasto che stava opponendo Atene e Ankara a proposito del mare Egeo, facendo
comprendere come la soluzione di tali problemi fosse elemento che avrebbe rafforzato il processo di
democratizzazione della Grecia.
Se Ford parve assumere un atteggiamento conciliante, Kissinger non mancò di sottolineare le
difficoltà intervenute nelle relazioni tra Usa e Turchia, sostenendo implicitamente l’interesse
americano per la posizione di Ankara. La delegazione americana promise che, se la Turchia avesse
tentato un’azione militare nell’Egeo, gli Stati Uniti avrebbero fatto il possibile per impedirlo.
Non vi è da stupirsi se, a questo punto, Karamanlis decise di accelerare i tempi sulla questione
dell’adesione alla Comunità, vista come una salvaguardia fondamentale degli interessi del paese.
Il 12 giugno il governo di Atene presentava una formale richiesta di adesione alla CEE, nel frattempo
la Grecia aveva ottenuto che il mese successivo si tenesse ad Atene la riunione del Consiglio di
Associazione e che esso prendessero parte i leader dei Nove, anche per sottolineare l’avvenuto ritorno
del paese alla democrazia.
Anche in questa occasione Karamanlis ebbe modo di ribadire la ferma volontà del suo governo di
dare pieno contenuto in tempi rapidi alla propria scelta europea.
La richiesta ufficiale avanzata dalla Grecia provocò, come era stato previsto, una serie di reazioni
preoccupate da parte del governo di Ankara, che tra l’altro fece giungere agli Stati membri della
Comunità un documento in cui tali timori venivano espressi in maniera aperta, sostenendo ad esempio
che la domanda greca nasceva da esclusive ragioni politiche al fine di destabilizzare l’equilibrio
militare e politico esistente tra i due paesi, di isolare la Turchia ed escluderla dal?Europa. La presa di
posizione di Ankara non sembrò andare oltre.
Nell’estate del 1075 la questione dell’adesione greca alla CEE parve attraversare una fase di relativa
stasi: i Nove, prima di procedere, avevano deciso di chiedere alla Commissione un parere sulla
domanda avanzata da Atene. restava nel frattempo aperto il contenzioso tra Atene e Ankara, che anzi
era parso aggravarsi.
alla fine di luglio, a Helsinki, ai margini della conferenza conclusiva sulla CSCE, vi era un nuovo
incontro tra Karamanlis e Bitsios, da una parte, Ford e Kissinger dall’altra. I toni dell’intorno erano
leggermente più distesi rispetto a quelli del colloqui svoltosi due mesi prima a Bruxelles, per quanto
Karamanlis si mostrasse sostanzialmente non disposto a fare eccessive concessioni alle autorità
americane: egli anzi esisteva sia nell’accusare la Turchia per la tensione esistente, sia nell’esercitare
pressioni sugli Stati Uniti affinché agissero sul governo di Ankara. Interessanti erano i cenni alle
situazioni esistenti in altri paesi dell’Europa meridionale.
Alla metà di settembre D’Estaing comitiva una missione ufficiale in Grecia, visitando dapprima
Atene quindi Salonicco.
L’accoglienza della popolazione era particolarmente caloroso, soprattutto nella città macedone.
Quanto alla stampa, i settori favorevoli al governo esprimevano valutazioni particolarmente positive,
quasi trionfalistiche, sui rapporti franco-ellenici, sostenendo che la Francia era venuta a colmare il
vuoto lasciato dagli Stati Uniti.

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Karamanlis si era comunque mostrato ben più moderato e si era spinto ad affermare di ritenere
inevitabile la fine dell’embargo di armi da parte americana al governo di Ankara, che era stato deciso
dopo la seconda operazione Attila.
Quanto al tema dell’adesione alla CEE, IL PRIMO MINISTRO GRECO AVEVA RIBADITO LE
SUE BEN NOTE POSIZIONI, MENTRE Giscard AVEVA CONFERMATO IL FAVORE francese
ALL’INGRESSO DI ATENE NELLA COMUNITà.
In realtà, all’interno della Commissione cominciavano ad affiorare dubbi circa tale ipotesi,
determinati sia delle conseguenze derivanti da un ulteriore allargamento sulla stabilità e l’efficacia
delle istituzioni, sia della difficoltà di carattere economico.
Venne affrontato anche il tema della candidatura greca alla CEE. Sia Wilson che Callaghan si
espressero in maniera favorevole all’inserimento della Grecia nella Comunità, almeno in linea di
principio, non mancando di solleticare l’amor proprio dei greci con gli ovvi riferimenti al debito
culturale che tutta l’Europa aveva con la Grecia.
Il primo ministro e il segretario di Stato interrogarono comunque Karamanlis circa la possibile
reazione di Atene a una richiesta turca di adesione alla CEE.
Il leader greco non cadde però nella provocazione e replicò che da parte ellenica non vi sarebbe stata
alcuna opposizione preconcetta, ribattendo che sarebbe toccato ai Nove prendere una decisione e
ricordando come il PIL procapite turco fosse quattro volte inferiore a quello greco.
nonostante questi contatti, i dubbi di Londra parvero rafforzarsi nelle settimane successive, tanto che
l’ambasciatore inglese ad Atene poté sostenere che l’opinione pubblica greca non si faceva illusioni
circa i vantaggi economici che sarebbero derivati al paese dall’ingresso nella Comunità.
Altro canto, era evidente che il governo britannico non intendeva assumersi la responsabilità di essere
individuato come l’ostacolo all’adesione greca perché ciò avrebbe avuto conseguenze negative sia
sulla questione di Cipro che sul non facile rapporto tra Atene e la Nato.
Che qualcosa a Bruxelles non procedesse secondo le speranze greche cominciò a trapelare e tali voci
giunsero ai responsabili di Atene. Agli inizi di dicembre Ortoli si recava nella capitale greca per
contatti con le autorità elleniche; Karamanlis prendeva spunto dai colloqui con il Presidente della
Commissione per confermare il carattere essenzialmente politico della scelta compiuta dal suo
governo nei confronti della CAEE.
Nel complesso positivi erano apparsi gli esiti di una visita compiuta dal Cancelliere Schmidt in Grecia
agli inizi del nuovo anno.
Alla fine di gennaio del 1976 la Commissione concludeva i suoi lavori e rendeva noto il suo parere
sulla domanda di adesione greca.
Il lungo documento era però aperto da un preambolo di carattere generale: in questa parte iniziale si
sottolineava come l’accordo di associazione non avesse trovato ancora piena attuazione, si indicavano
gli ostacoli esistenti a una piena integrazione nella Comunità, si avanzavano varie perplessità circa i
tempi di realizzazione dell’ingresso di Atene fino al punto di prevedere in ogni caso una fase di
preadesione.
Seria era la contestazione che non fossero ancora chiare tutte le conseguenze del primo allargamento
sulle strutture e sull’azione della Comunità: tale osservazione sembrava implicare come al richiesta
greca fosse prematura.
Infine si auspicava che la Grecia e la Turchia trovassero una soluzione ai loro contrasti e si specificava
come la domanda di Atene non ponesse in discussione i diritti della Turchia e dei suoi rapporti con la
CEE.
Il 29 gennaio il testo del parere veniva consegnato da Soames all’ambasciatore greco presso la
Comunità, Stathatos. Com’era ovvio,la reazione del diplomatico ellenico fu negativa, sia per ciò che
riguardava gli aspetti tecnici che quelli riguardanti i rapporti greco.turchi.
La presa di posizione della Commissione si veniva a situare in un momento non facile per il governo
Karamanlis. Nonostante l’atteggiamento americano verso il leader ellenico fosse ora sostanzialmente
positivo e l’amministrazione Ford fosse disposta a fornire aiuto economico alla Grecia, la questione
dei rapporti tra Atene e la Nato restava aperta.

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Era significativo come nella visione delle autorità di Washington la questione greca non potesse
essere isolata dagli altri elementi di crisi presenti nel Mediterraneo e in Europa meridionale.
Tali elementi erano esaminati nel loro complesso in un lungo documento del National Security
Council. Centrale nelle preoccupazioni americane era la preservazione degli interessi militari
statunitensi in questa parte del mondo. Ampio spazio era dedicato alla posizione della Grecia, sia per
ciò che riguardava le vicende interne che il contrasto con la Turchia a proposito di Cipro e del
contenzioso sulle isole dell’Egeo. ancora una volta le considerazioni conclusive apparivano ispirate
a un certo grado di pessimismo.
Si auspicava così una cooperazione fra gli Stati Uniti e l’europa occidentale in questo ambito.
Washington dunque sembrava pronta ad accettare un parziale trasferimento di responsabilità nel
processo di stabilizzazione dell’Europa meridionale ai maggiori partner europei e alla Comunità,
almeno per ciò che riguardava la dimensione politica e quella economica: la Grecia sarebbe rientrata
pienamente in tale forma di collaborazione euro-americana.
In un clima di persistente tensione e di incertezza la presa di posizione della Commissione europea
venne interpretata come elemento grave e destabilizzante da parte del governo Karamanlis.
Alla vigilia della pubblicazione del parere dell’organismo comunitario il primo ministro greco aveva
un colloqui con il rappresentante francese con il quale si esprimeva in modo aperto e con termini duri.
Karamanlis si scagliava contro la burocrazia di Bruxelles, a suo dire incapace di comprendere il valore
politico della richiesta greca, nonché contro la Gran Bretagna. Egli riteneva controproducente il voler
citare esplicitamente il conflitto greco-turco e sosteneva che persino i dirigenti di Ankara non erano
ostili all’adesione di Atene, sperando che tale eventualità avrebbe potuto rappresentare un precedente
per la Turchia.
Il primo ministro greco faceva anche un paragone con l’apparente disponibilità mostrata dalla
Comunità nei confronti del Portogallo e con ironia parlava della situazione privilegiata
apparentemente goduta da un paese guidato dalla sinistra. Karamanlis ritornava, per l’ennesima volta,
sulle ragioni profonde dell’aspirazione greca ad entrare nella Comunità.
Il governo di Parigi si metteva subito in modo al fine di porre rimedio al passo falso della
Commissione.
l parere della Commissione era considerato un serio errore destinato a mettere in seria difficoltà il
processo di democratizzazione, sia la permanenza della Grecia nel sistema occidentale.
Karamanlis indicava la speranza che il Consiglio dei ministri della CEE non si adeguasse al parere
della Commissione.
Parigi condivideva pienamente la visione di Karamanlis circa il valore essenzialmente politico della
candidatura di Atene; le questioni economiche sarebbero state esaminate in seguito nel corso dei
negoziati, e rimaneva comunque valida l’ipotesi del “periodo transitorio di pre-adesione”. Ciò che
risultava essenziale era dare ad Atene una risposta positiva perché nel breve periodo tale scelta
avrebbe rafforzato Karamanlis, favorito la piena democratizzazione ed evitato una deriva neutralista
del paese: i problemi economici, che pure la stessa Francia avrebbe in seguito sollevato, rimanevano
in secondo piano rispetto a questi obiettivi. L’atteggiamento francese era nel complesso condiviso
anche dal governo tedesco.
Il 9 febbraio si riuniva a Bruxelles il Consiglio dei ministri dei Nove. Inn tale occasione Ortoli
presentava il parere della Commissione sulla richiesta greca di adesione alla comunità.
La posizione dell’organismo europeo veniva critica ta apertamente dai rappresentanti di alcuni paesi,
specie la Germania. Solo i rappresentanti della Danimarca, dell’Irlanda e del Belgio avevano tentato,
ma in maniera debole e confusa, di esprimere qualche riserva.
Alla fine venne approvato un testo proposto dal lussemburghese Thorn sulla base della proposta
francese.
Non vi è da stupirsi se, dopo le preoccupazioni e l’irritazione dimostrati solo due settimane prima ad
Atene, la decisione del Consiglio dei ministri della Comunità venisse salutata con entusiasmo e fosse
considerata un precedente per Spagna e Portogallo che, negli anni Settanta, avevano visto chiudersi
l’esperienza autoritaria e aprirsi una complessa fase di transizione verso la democrazia nel cui ambito,

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come nella nazione ellenica, la dimensione internazionale avrebbe svolto un ruolo di fondamentale
importanza.

Il Portogallo
L’inclusione del Portogallo nel blocco occidentale e nella rete di interdipendenze atlantiche, formatesi
e istituzionalizzatesi dopo la seconda guerra mondiale, non fu scontata o semplice. vari fattori la
osteggiavano, sia fuori che dentro il paese.
Il primo di questi fattori era il nazionalismo, autarchico e antimoderno, del regime di Salazar, il
presidente e teorico dell’autoritario Estrado Novo portoghese.
Salazar guardava con diffidenza al modello di produttività, alti salari e consumi di massa che gli Usa
sognavano di proiettare anche in Europa: faceva propri gli stereotipi ari a una certa destra
conservatrice europea; temeva, inoltre, un’integrazione economica e commerciale del Portogallo che
ne avrebbe trasfigurato la cultura ed eroso la sovranità.
A sostegno di questo fattore, alla Conferenza di Parigi dell’estate 1947, quando si trattò di definire la
gestione degli aiuti americani all’Europa annunciati dal segretario di Stato, Marshall, a dispetto della
sua profonda arretratezza economica, il Portogallo si offrì addirittura come donatore e non
beneficiario degli aiuti.
Il colonialismo portoghese rappresentava il secondo fattore che rendeva più difficile la sua inclusione
nella costituenda comunità atlantica.
Il discorso antimperiale statunitense rimaneva fotte e, in una certa misura, egemone nel dibattito
pubblico americano.
La rigidità di Salazar, che considerava i territori africani ( Guinea-Bissau, Angola e Mozambico )
come parte integrante e inseparabile del paese, rendeva più difficile immaginare soluzioni parziali e
forme limitate di autogoverno.
Pesava infine molto la natura politica, autoritaria e, secondo alcuni, quasi fascista del regime
salazarista.
Per molti liberal l’alleanza occidentale e anticomunista che si andava allora fumando doveva avere
come comune denominatore proprio quella democrazia pluralista di cui Salazar era feroce oppositore.
Alla fine però il Portogallo entrò a far parte di quel blocco occidentale e di quella comunità atlantica
immaginati, creati e strutturati per far fronte alla sfida dell’Unione sovietica e per permettere agli
Stati Uniti di preservare e, possibilmente, estendere la propria egemonia.
Il paese vi entrò a far parte in virtù della sua debolezza e del timore statunitense che una sua esclusione
avrebbe isolato e reso ancora più vulnerabile il regime, oltre che in conseguenze di alcuni cedimenti
di Salazar, percepiti e presentati dal dittatore come vere e proprie concessioni agli Usa.
Pesarono molto anche altri fattori esogeni, specialmente l’evoluzione delle dinamiche internazionali
e il parziale cambiamento di rotta della politica estera statunitense.
Salazar aveva estimatori molto importanti in America, ma questo non sarebbe bastato se non vi fosse
stata la rapida intensificazione dell’antagonismo, geopolitico e ideologico, tra gli Stati Uniti e
l’Unione Sovietica e se non fosse quindi scoppiata la Guerra fredda.
Tale evento indusse una parte del governo del mondo politico e anche dell’opinione pubblica degli
Usa ad abbandonare le remore esistenti rispetto a una possibile alleanza con regimi autoritari e
cattolici come quello portoghese e spagnolo.
Il Portogallo partecipò quindi, sia pur riottosamente, ai primi fondamentali passaggi attraverso cui si
andò definendo il blocco atlantico eurostatunitense, cementato in primo luogo dall’anticomunismo e
dalla volontà di fronteggiare quelle che si ritenevano essere le intrinseche tendenze espansionistiche
dell’Unione Sovietica.
Un rilevante cambiamenti lo si ebbe solo a cavallo tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, quando
le prime difficoltà del Portogallo nelle colonie africane s’intrecciarono con un mutamento importante
del contesto internazionale e un parziale cambio di rotta nell’azione internazionale degli Stati Uniti.
Alla stabilizzazione del contesto europeo e della sua visione in due blocchi contrapposti corrispose
una nuova fase del processo di decolonizzazione, che portò alla nascita di nuovi stati e al progressivo
spostamento fuori dall’Europa della competizione USA-URSS.

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Per necessità e convinzione, il nuovo presidente statunitense Kennedy assunse una posizione già
attenta agli Stati di recente indipendenza, meno intransigente verso chi, nel bipolarismo della Guerra
fredda, optava per opzioni di neutralità e, soprattutto, più critica nei confronti delle residue potenze
coloniali e quella portoghese su tutte.
L’avversione di Kennedy nei confronti del Portogallo di Salazar si manifestò in due modi: con
l’appoggio a forze indipendentiste, in particolare in Angola, e attraverso un diverso atteggiamento
alle Nazioni Unite, dove il rappresentante statunitense Stevenson assunse spesso posizioni critiche
nei confronti del Portogallo.
Si trattava di una linea che Kennedy aveva già fatto propria prima della sua elezione quando, da
senatore, aveva sottolineato la necessità di modificare la posizione di cautela e inazione di
Eisenhower.
Nei mesi successivi al suo insediamento, Kennedy adottò un atteggiamento assai fermo nei confronti
del Portogallo.
Il segretario di Stato Rusk invitò l’ambasciata statunitense a Lisbona per informare Salazar che era
sempre più difficile per gli Stati uniti e per il blocco occidentale appoggiare le politiche portoghesi in
Africa o rimanere indifferenti. Poche settimane più tardi, Stevenson sostenne alle Nazioni Unite una
risoluzione, presentata dalla Liberia e appoggiata anche dall’Urss, che invitava il Portogallo ad
applicare il principio dell’autodeterminazione nelle sue colonie africane.
Considerata con favore anche agli africanisiti del Dipartimento di Stato, questa linea fu confermata
nel corso del 1961 e culminò nella decisione di finanziare, attraverso la CIA, il movimento
indipendentista angolano guidato da Holden Roberto e di adottare una politica assai più restrittiva nel
trasferimento al Portogallo di armi che sarebbero state usate nei conflitti coloniali. Si trattava, di fatto,
di una sorta di embargo nei confronti di quello che rimaneva pur sempre un alleato nella Nato.
Questa linea non fu però mantenuta. Dentro l’amministrazione vi era chi era risolutamente ostile a
scelte che rischiavano di far precipitare la relazione con Lisbona e di perdere la fondamentale base
delle Azzorre.
L’apertura di altri fronti di tensione distolse in parte l’attenzione dell’amministrazione statunitense
dal teatro africano. La ferma posizione di Salazar, che aveva respinto un tentato colpo di Stato, impero
di giungere a qualunque compromesso.
Il Portogallo cercò di sottrarsi all’isolamento, consolidando i suoi rapporti con alcuni paesi europei,
Francia e Germania in particolare. Il cambiamento portato inizialmente dall’amministrazione
Kennedy non determinò i risultati auspicati dal presidente: il suo successore, Johnson, prestò ancor
meno attenzione alle questioni delle colonie portoghesi, anche se all’interno del Dipartimento di Stato
si continuò ad elaborare piani per promuovere una decolonizzazione destinata però a farsi tanto
graduale nelle intenzioni quanto improbabile nei risultati.

La svolta di fine anni Sessanta


Una svolta significativa la si ebbe solamente alla fine degli anni Sessanta: ad essa contribuirono fattori
interni e internazionali.
Nel 1970 fu nominato come primo ministro Caetano: egli ambiva a promuovere un processo di
modernizzazione e liberalizzazione economica, reso necessario anche dalla crescente integrazione del
Portogallo in una rete europea, e in parte globale, di scambi e investimenti finanziari. Nel corso degli
anni Sessanta, l’economia portoghese era infatti cresciuta a tassassi sostenuti, aiutata da un’apertura
commerciale promossa da alcuni tecnocrati europeisti del regime.
Il processo in atto europeizzava e internazionalizzata il Portogallo, allontanandone il sistema
economico dal legame imperiale con le colonie africane e, allo stesso tempo, esasperava
contraddizioni irresolubili, su tutte il contrasto tra liberalizzazione/modernizzazione economica e
autoritario immobilismo politico.
Il Portogallo che s’integrava nell’Europa e nel mondo era anche un Portogallo che mostrava ai suoi
cittadini, e soprattutto ai suoi giovani, proprio quell’Europa e quel mondo di rispetto ai quali il regime
rivendicava un’ostentata e claustrofobica diversità.

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Tre dinamiche internazionali interagivano in modo contraddittorio e conflittuale nel condizionare
l’evoluzione politica ed economica del Portogallo. la situazione nelle colonie africane, l’evoluzione
del contesto europeo e la dimensione atlantica e il rapporto con gli Stati Uniti.
Nelle colonie continuò e s’intensificò l’azione delle forze indipendentiste, capaci ora di trovare
appoggi esterni anche presso alcuni importanti paesi europei su tutti la Svezia e la Norvegia.
A fronte di un Portogallo che si europeizzava economicamente, e anche culturalmente, vi era un
Portogallo imperiale e autoritario che una gran parte d’Europa denunciava con forza crescente e
rigettava come possibile partner politico e membro futuro della comunità europea.
Questa era un’Europa che sempre più trovava nella democrazia un proprio comune denominatore
indennitario; un’Europa che, per principio, convenienza e talora opportunismo, cercava di aprire un
dialogo più intenso con il Terzo Mondo africano e asiatico, di fatto soggetti statuali nati sulle ceneri
dei grandi imperi e mobilitato a denunciare l’ultimo impero europeo rimasto in Africa, quello
portoghese.
Il contrasto stridente tra colonialismo ed europeismo si acutizzava quando un terzo elemento,
l’atlantismo, era inserito nel completare l’equazione.
Nel corso degli anni Sessanta, gli Stati Uniti avevano progressivamente abbandonato l’intransigenza
degli anni di Kennedy, optando per una linea di progressivo disimpegno e auspicando che alla
graduale liberalizzazione economica corrispondesse un allentamento dell’oppressivo autoritarismo
del regime di Salazar.
Con l’elezione di Nixon nel 1968 il quadro cambiò totalmente, in senso ancor più favorevole a
Lisbona.
Nixon e il suo braccio destro per le questioni internazionali, Kissinger, assunsero un atteggiamento
più benevolo nei confronti del regime portoghese, adoperandosi fattivamente per superare i dissapori
e le incomprensioni degli anni precedenti e cercando di costruire un’asse speciale tra Portogallo e
Stati Uniti quale non era mai esistita furante la Guerra fredda.
Vari fattori spiegano la posizione molto più conciliante nei confronti del Portogallo assunta da Nixon
e Kissinger.
In primo luogo, la scomparsa di Salazar alimentò la speranza che il regime riuscisse a rinnovare se
stesso e a promuovere quella graduale liberalizzazione che gli Usa auspicavano da tempo. Da questo
punto di vista la nomina di Caetano e alcune sue prime timide aperture, quali l’elezione per
l’assemblea nazionale di fine 1969, furono considerate segnali di buon auspicio.
Il diverso atteggiamento statunitense, però, originava anche dalla scarsa attenzione di Nixon e
Kissinger verso un tema, il rispetto dei diritti umani e delle libertà politiche, che negli anni successivi
avrebbe finito per dominare il dibattito pubblico negli Stati Uniti, condizionando in modo rilevante
la politica estera di Washington.
La natura autoritaria e illiberale del regime portoghese non suscitava infatti particolari imbarazzi in
un’amministrazione all’interno della quale si rimarcava con forza la necessità di promuovere una
politica estera più realista e, se necessario spregiudicata.
A maggior ragione se il nuovo contesto internazionale e le tensioni con i tradizionali partner europei
accentuavano sia l’importanza strategica della partnership con il regime portoghese sia l’affidabilità
relativa di quest’ultimo.
All’interno dell’amministrazione dominava infatti il convincimento che le difficoltà interne e
internazionale degli Usa e le tensioni interne al blocco atletico stessero rendendo l’Unione Sovietica
più assertiva e spregiudicata.
La distensione con mosca promossa da Nixon e Kissinger serviva per disciplinare il contesto
internazionale e preservare uno status quo che ora gli Stati Uniti trovavano tutto sommato
vantaggioso.
Per essere efficace la distensione doveva però essere integrata dalla possibilità di esercitare pressioni
di vario tipo su Mosca, bloccando sul nascere le velleità interventiste del nuovo internazionalismo
sovietico.
Per questo il Portogallo tornava ad occupare una rilevanza strategica non marginale nelle riflessioni
statunitensi. Esso infatti:

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- offriva una base, quella di Lajes, la cui importanza aumentava in conseguenza dello spostamento
verso sud della competizione bipolare;
garantiva una fermezza anticomunista che sembrava ormai mancare a molti altri alleati europei degli
Stati Uniti;
- poteva svolgere una funzione supplente nel contenere L’Unione Sovietica in Africa, laddove la
vicenda vietnamita stava limitando di molto la capacità degli Usa di promuovere un’azione globale
di lotta al comunismo e contenimento dell’URSS;
- non aveva alternative credibili a quelle di continuare a far parte dell’alleanza atlantica e il suo
schieramento internazionale non era messo in discussione, sul piano interno, da forze neutraliste,
terzo-forziate o filosovietiche.
Il mutato atteggiamento dell’amministrazione Nixon verso il Portogallo e, più in generale, verso il
colonialismo portoghese e il dominio bianco nell’africa del sud si manifestò in modi diversi.
Da parte portoghese si continuava a giustificare la presenza in Africa attraverso categorie e concetti
classici, e assai datati, dell’imperialismo occidentale; come parte di una missione civilizzatrice a cui
l’occidente cristiano non poteva sottrarsi: un’eventuale indipendenza dell’Angola e del Mozambico
quale quella richiesta in varie risoluzioni delle Nazioni Unite, sostenne ad esempio Caetano, avrebbe
costituito un pericolo per la civiltà.
Si trattava di letture raccolte con scetticismo o aperto scorno a Washington, dove però si riceveva con
maggiore attenzione l’altra motivazione addotta, ossia l’idea che la competizione della Guerra fredda
si fosse spostata nel continente africano e che le colonie portoghesi costituissero ormai la frontiera
meridionale dell’Alleanza atlantica.
Se in Africa il Portogallo stava combattendo per l’Occidente e contro il comunismo, cadevano ipso
facto tutte le motivazioni che avevano indotto gli Usa ad assumere negli anni precedenti un
atteggiamento ostile nei confronti dell’imperialismo portoghese e venivano meno molti degli
impedimenti a fornire aiuti maggiori al regime di Caetano.
L’amministrazione Nixon cercò quindi di alleggerire il divieto di vendere al Portogallo materiali che
esso avrebbe potuto usare nelle guerre coloniali.
L’alleggerimento dell’embargo si combinò con una maggiore disponibilità a sostenere il Portogallo
nei fora internazionali, su tutti le Nazioni Unite, dove il colonialismo portoghese era ora regolarmente
attaccato e denunciato.
Kissinger obbligò anche quei settori del Dipartimento di Stato particolarmente critici nei confronti
del Portogallo, come l’ufficio responsabile per le questioni africane ( l’African Desk ), a modificare
le proprie posizioni.
Già nel 1969 il braccio destro di Kissinger, Sonnenfedlt, intercedette affinché la missione statunitense
dell’ONU non votasse a favore di una risoluzione di condanna e del Portogallo e del Sudafrica in
quanto mantenevano rapporti diplomatici con la Rodesia di Smith, Tale indirizzo sarebbe stato
coerentemente seguito negli anni successivi, in una serie di posizioni adottate dagli Stati Uniti
all’ONU.
Sostegno verso le politiche copiali del Portogallo, riconoscimento dell’importanza strategica e
diplomatica dell’alleato portoghese e, infine, disponibilità a fornire gli aiuti materiali da usarsi nelle
guerre africane s’intrecciavano strettamente con la questione della base di Lajes nelle Azzorre.
Kennedy aveva lasciato scadere l’accordo che regolamentava l’uso della base; nel decennio
successivo la base era stata utilizzata, di fatto, dagli Stati Uniti, in assenza di uno specifico accordo
tra le due parti. Lajes rappresentava ovviamente la risorsa negoziale più importante di cui il Portogallo
disponesse.
Nel settembre del 1951 i governi di Stati Uniti e Portogallo avevano infatti firmato un accordo
bilaterale che disciplinava l’uso della base statunitense, trasferita dall’isola di santa Maria a Lajes.
L’accordo prevedeva la possibilità per Washington di usare tale struttura in qualsiasi conflitto che
avesse coinvolto i due paesi in quanto membri della Nato.
L’uso della base in tempo di pace era però concesso solo per un periodo di cinque anni, rinegoziabile
alla scadenza. Una clausola segreta obbligava inoltre gli Stati Uniti a fornire aiuti militari straordinari
in cado il Portogallo si fosse trovato in una situazione d’Emergenza di Africa.

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Nel 1962 il governo portoghese rifiutò un’ulteriore estensione degli accordi, anche se gli Stati Uniti
poterono continuare ad usare la base fintanto che nuovi accordi non fossero stati negoziati.
Trovare un accordo su Lajes costituì un obiettivo prioritario per entrambi i paesi.
Per gli Usa il valore strategico era aumentato in conseguenza sia della crescente importanza strategica
del Medio Oriente e dell’Europa meridionale dia delle tensioni con i tradizionali partner atlantici,
sempre più restii ad appoggiare automaticamente le richieste statunitensi.
Il Portogallo era più affidabile ideologicamente e meno capace di opporsi alle eventuali pressioni
americane. Lajes era sempre stata ritenuta importante, per le sue dimensioni e per la sua collocazione
geografica, e lo diventava ancor di più di fronte alla prospettiva che in altri paesi alleati si assumessero
posizioni più rigide in merito all’utilizzo delle basi statunitensi presenti sul loro territorio.
Lo stesso regime portoghese cercava l’accordo:
- per il successo d’immagine che ne sarebbe conseguito, dentro e fuori il Portogallo;
perché avrebbe confermato lo Status di partner quasi privilegiato dell’amministrazione Nixon;
perché, infine, avrebbe potuto barattare la nuova concessione con una indispensabile contropartita in
termini di aiuti economici e tecnologici.
A dispetto dell’immenso squilibrio di forze, il Portogallo poteva spendere politicamente questa
rinnovata e accresciuta importanza di Lajes.
Dopo un lungo negoziato l’accordo fu raggiunto alla fine del 1971, attraverso uno scambio di note
tra il segretario si Stato Rogers e il ministro degli Esteri Patricio. esso fu preceduto dalla decisione di
Caetano di schierarsi assieme agli Usa contro l’ammissione all’Onu della repubblica Popolare Cinese.
Scelta molto apprezzata da Kissinger, che invitò Nixon a offrire la maggior visibilità al premier
portoghese.
Anche per questo, in occasione dell’accordo su Lajes, Nixon incontrò Caetano nelle Azzorre Un solo
presidente statunitense prima di allora, Eisenhower, si era recato in visita ufficiale in Portogallo.
Durante l’incontro Caetano espresse alcune perplessità per i termini, a suo dire insoddisfacenti,
dell’accordo.
La sostanza dell’accordo poteva apparire modesta: il diritto statunitense ad usare le basi era esteso
sino al febbraio 1974 e in cambio il Portogallo otteneva una serie di contropartite abbastanza limitate.
La rilevanza simbolica dell’accordo era evidente: Caetano ne usciva assai rafforzato, mentre il
Portogallo, dalla condizione di paria della communitas atlantica in cui versava da alcuni anni, si
ritrovava improvvisamente ad essere un interlocutore rispettato, se non addirittura privilegiato, di
Washington. Soprattutto, Nixon e Kissinger si assumevano la responsabilità di sostenere e puntellare
il regime portoghese, del quale misconoscevano però l’intrinseca fragilità.
Crisi e transizione ( 1972 - 1974 ).
La svolta filo-portoghese in Nixon fu accolta con irritazione in molte capitali europeo-occidentali e
apertamente osteggiata da settori importanti delle opinioni pubbliche europee. Pesavano, in queste
reazioni, le trasformazioni politiche e culturali dell’epoca:
- l’influenza di un terzomondismo variamente declinato, ma capace di trovare consensi e appoggi
anche nella sinistra europea più moderata;
- la forte ostilità nei confronti degli Stati Uniti provocata dalla guerra in Vietnam, dai suoi immensi
costi umani e materiali e dall’incapacità di dell’amministrazione di mantenere la promessa di porvi
termine;
- una parziale ma rilevante trasformazione delle dinamiche europee della Guerra fredda.
Queste Europe avevano ora un rapporto ambiguo ma spesso pubblicamente critico nei confronti del
regime portoghese, di cui denunciavano con forza le politiche coloniali e ‘autoritarismo fuori tempo
e credevano che la soluzione migliore fosse quella di osteggiare politicamente e diplomaticamente il
Portogallo, proseguendo però sulla strada della sua integrazione nella rete d’interdipendenze
economiche e commerciali europee. Un’integrazione, nelle intenzioni, emancipatrice, in quanto
avrebbe accelerato il processo di modernizzazione e trasformazione economica e culturale del
Portogallo, facilitando così una transizione graduale verso la democrazia e non un’implosione brusca
e destabilizzante del regime. Lo strumento di cui disponevano i paesi della Comunità era ovviamente
rappresentato dalla possibilità di ridefinire le loro relazioni con il Portogallo, ossia di offrire a Lisbona

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accordi speciali capaci sia di soddisfare sia di consolidare e intensificare la vocazione ormai
pienamente europea dell’economia portoghese.
nelle relazioni con la Comunità europea il Portogallo era andato a lungo al traino del suo storico
referente Europe, il regno Unito.
Problemi coloniali, atlantismo e nuovo rapporto privilegiato con gli Stati Uniti e europeismo e
crescente integrazione commerciale con l’Europa comunitaria costituivano dinamiche che
interagivano, spesso in modo tra loro conflittuale, condizionando il difficile tentativo del regime di
sopravvivere e preservare il proprio impero in un clima interno e internazionale difficile e
contraddittorio Però i processi attivati all’inizio degli anni Sessanta aprivano dilemmi e alimentavano
ostilità tanto negli Stati Uniti quanto in Europa.
La politica coloniale portoghese e l’eccessiva indulgenza dell’amministrazione Nixon nei suoi
confronti indussero molti, negli usa, a chiedere un cambio di direzione, ovvero ad osteggiare
apertamente le politiche di Nixon e Kissinger.
Gli africanisti del Dipartimento di Stato espressero perplessità nei confronti di scelte che non solo
rischiavano di isolare politicamente gli Usa nel continente africano, ma che apparivano anche poco
lungimiranti alla luce delle difficoltà che stavano incontrando sia il Portogallo che la Rodesia.
Al Congresso, il gruppo dei parlamentari afroamericani, il neonato Black Baucus si mobilitò contro
la politica africana dell’amministrazione Nixon. Negli anni Settanta questo gruppo fece della
campagna contro il Sudafrica, la Rodesia e il Portogallo uno dei suoi primi, importanti cavalli di
battaglia.
Non a caso lo storico portoghese Alvaro de Vasconcelos ha descritto i primi anni Settanta come una
fase di intensa critica congressuale del Portogallo. Una critica, questa, che si accompagnò a quella
sempre più intensa che nei primi anni Settanta tornano a denunciare con veemenza le politiche
coloniali del regime portoghese e la sua azione repressiva sul piano interno.
Il Congresso recepii queste sollecitazioni. A mobilitarsi furono soprattutto i liberal democratici,
particolarmente sensibili al tema della colonizzazione e critici nei confronti della politica troppo
tollerante di Nixon verso i regimi dittatoriali come quello portoghese.
Al senato fu presentata nel 1973 una proposta di emendamento al Fereign Assistance Act per il 1974,
che prevedeva di trasformare in legge l’ordine esecutivo del 1961, che definiva i termini dell’embargo
nei confronti del Portogallo.
Nel giugno del 1973, in occasione di una discussione relativa al bilancio del Dipartimento di Stato, il
Senato aveva inoltre approvato un emendamento, presentato dal senatore repubblicano Cae, in cui si
proibiva lo stanziamento dei fondi necessari per adempiere all’accordo con il Portogallo del 1971, se
questo non fosse stato trasformato in trattato e ratificato, con la necessaria maggioranza dei 2/3 dei
senatori presenti in aula, entro 30 giorni dal Senato medesimo.
All’approvazione di questo emendamento concorsero diversi fattori:
- la volontà del Senato di riappropriarsi delle proprie prerogative costituzionali, ponendo termine ad
almeno parte dei privilegi esecutivi maturati durante la Guerra Fredda e portati all’estremo dalla
tendenza dell’amministrazione Nixon ad accentrare ulteriormente il processo decisionale;
- l’attenzione, elettoralmente vantaggiosa, verso il tema dei diritti umani e della decolonizzazione;
- il peso della difficile congiuntura economica.
La difficile situazione economica contribuiva in altri modi a mettere a rischio il rispetto da parte di
Washington dei temi dell’accordo su Lajes. Una parte dei fondi destinati al Portogallo, in cambio
della concessione della base, veniva dal programma PL 480, attraverso il quale il governo degli Stati
Uniti poteva utilizzare porzioni del surplus agricolo del paese come strumento della propria politica
di aiuti.
L’amministrazione Nixon stava però optando per una politica di controlli delle esportazioni di una
serie di beni scarsi che includeva anche i prodotti destinati al Portogallo.
Nel corso del 1972-73 il riavvicinamento tra Stati Uniti e Portogallo, promosso dai due governi e
simboleggiato dall’accordo su Lajes, fu quindi osteggiato con forza da settori importanti dell’opinione
pubblica e del mondo politico statunitense. Alcuni di questi si adoperarono fattivamente per
ostacolare il disegno dell’amministrazione e per bloccare il rapprochement tra Portogallo e Usa; taluni

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democratici liberal, come T. Kennedy, si spinsero anche oltre, stabilendo contatti con l’opposizione
portoghese, in particolare il leader socialista Soares. Ancora più intensi furono i legami che
quest’ultimo e altri socialisti cominciarono a costruire con forze socialiste e socialdemocratiche
dell’Europa occidentale, in particolare l’SPD tedesca, alla cui guida vi era Brandt: egli aveva
promosso, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, una politica a ovest ( Westpolitike ),
subordinata ma complementare a quella dell’apertura a est ( Ostpolitik ).
Gli elementi basilari della Westpolitk brandtiana erano:
- sostegno al processo di allargamento della Comunità europea;
- disponibilità di consultarsi con gli alleati;
- volontà di far svolgere alla RFT un ruolo di primo piano nei processi di transizione alla democrazia
che si ritenevano prossimi sia in Portogallo che in Spagna.
Questa strana commistione tra sostegno alle forze democratiche portoghesi e preservazione, o
addirittura intensificazione, dei rapporti con il regime divenne però difficile da mantenere.
I comportamenti portoghesi in Africa e la rinnovata repressione politica interna alimentarono
polemiche crescenti nelle opinioni pubbliche europeo-occidentali. I partiti socialisti e
socialdemocratici europei non poterono non tenere conto di queste pressioni.
La fragilità del Portogallo era quindi acuita dall’operare, contraddittorio, di dinamiche internazionali
che Lisbona non controllava e delle quali risultava spesso in balia. E fu proprio un inatteso evento
esterno, la guerra arabo-israeliana, a rivelare la rinnovata importanza strategica che l’alleato
portoghese rivestiva per gli Stati Uniti, ma anche la condizione di estrema difficoltà e crescente
isolamento diplomatico nel quale il regime di Caetano si trovava ad operare.
Gli Usa scoprirono però di dover fronteggiare una situazione inaspettata: timorosi per la possibile
rappresaglia araba e critici nei confronti di Israele e della sua politica espansionistica, molti alleati
europei di Washington rifiutarono di concedere l’uso delle basi presenti sul proprio territorio agli
aerei impegnati nel ponte aereo.
a quel punto gli Stati Uniti si rivolsero al Portogallo: la rinnovata rilevanza strategica di Lajes, che
Kissinger aveva sottolineato con forza fin dal 1969, trovava finalmente conferma.
Lisbona cercò di approfittare dell’occasione per trarre il massimo vantaggio possibile. Paventando la
prospettiva, destinata a rivelarsi assai realistica, di una possibile rappresaglia araba, Lisbona cercò di
barattare la concessione della base con una serie di controparte, specie la fornitura dei missili terra-
aria ( red-eye ( da utilizzarsi nella guerra coloniale e il ritiro dell’emendamento Tunney al Foreign
assistance act.
La seconda richiesta fu accolta senza particolari difficoltà. La richiesta di trasferire i missili red-eye
al Portogallo, in paese bisezione dell’embargo del 1961, era molto più complessa.
Il tentativo portoghese di ottenere una contropartita immediata e significativa per la concessione
dell’uso di Lajes irritò moltissimo Nixon.
La situazione per Israele rimaneva assai difficile ed era diventato vitale organizzare in tempi brevi e
rapidi il ponte aereo per inviare i rifornimenti richiesti da Tel Aviv.
Per questo fu deciso che Nixon mandasse un durissimo messaggio personale a Caetano, nel quale si
affermava che gli stati Uniti non erano disposti, in quel momento, a negoziare con il Portogallo su
conseguenze ipotetiche s sarebbero potute derivare dalla sua collaborazione.
Il messaggio indispose Patricio e Caetano. Il regime portoghese, che molto aveva investito nel
consolidamento della relazione con gli Stati Unii, si trovava però a dover scegliere tra la rottura con
gli Stati Uniti e la possibilità di ottenere comunque una qualche ricompensa.
Caetano decise infine di concedere l’uso di Lajes. troppo forte era il pericolo che gli usa, come
affermava Kissinger, potessero decidere di lasciare il Portogallo al suo destino in un mondo ostile.
A preoccupare i diplomatici statunitensi era in particolare la prossima riapertura di un ennesimo round
di negoziati per il rinnovo dell’accordo sulla base delle Azzorre.
Nelle settimane successive Kissinger e il dipartimento di Stato cercarono di trovare una soluzione per
soddisfare almeno in parte le richieste portoghesi.
Le possibili modalità con cui saldare questo debito erano quelle tradizionali: gli aiuti PL 480, in
rispetto degli accordi del 1971 ma attraverso una mobilitazione straordinaria di risorse prima

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giudicate non disponibili; il sostegno al Portogallo nelle organizzazioni internazionali e la rinnovata
disponibilità di esercitare il veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, pur di bloccare il
riconoscimento della Guinea Bissau e la sua ammissione all’Onu; la ricerca di un modo per far
giungere al Portogallo gli agognati missili terra-aria.
Gli Stati Uniti erano pienamente consapevoli di avere un obbligo nei confronti del Portogallo e non
avrebbero dimenticato la sua collaborazione.
Lisbona cominciò però a far notare che il soddisfacimento delle richieste portoghesi non avrebbe
costituito solo una ricompensa per l’appoggio fornito durante la guerra dell’ottobre 1973, ma anche
una giusta retribuzione per l’utilizzo, ormai ventennale e sempre poco oneroso, da parte degli stati
uniti della base di Lajes.
I mesi successivi al conflitto e al ponte aereo furono spesi alla ricerca di una soluzione che potesse
soddisfare le rischierete portoghesi, evitando al contempo un nuovo intervento del Congresso nella
questione.
C’erano anche motivi aggiuntivi e ben più tangibili della semplice gratitudine che inducevano
Kissinger ad impegnarsi per soddisfare le richieste portoghesi.
Nelle colonie africane del Portogallo si assisteva a una intensificazione dei conflitti che Washington
attribuiva almeno in parte all’appoggio fornito dall’UNione Sovietica ai movimenti coloniali.
era fondamentale appoggiare militarmente il Portogallo per contrastare l’attivismo sovietico in
Africa, evitare una crescita dell’influenza dell’Urss e nel continente e prevenire un contagio che
avrebbe determinato l’estensione regionale dei conflitti in Angola e Mozambico.
La discussione che si tenne a cavallo tra il 1973 e il 1974 evidenziava la condizione di mutua
dipendenza in cui entrambe le parti si erano venute a trovare.
Per questo, e di fronte all’ostilità degli alleati europei, di gran parte del Congresso e della propria
opinione pubblica, il Dipartimento di Stato giunse alla conclusone che l’unica strada percorribile
fosse quella di trovare un paese terzo, disposto a fungere da intermediario e a vendere al Portogallo
il materiale militare richiesto.
L’acquisto sarebbe stato finanziato attraverso uno stanziamento straordinario statunitense, anche se
permeavano dubbi sulla praticabilità, legale e politica, dell’operazione. questo intermediario fu
individuato in Israele, il cui commercio di materiale militare con il Portogallo era di molto cresciuto
negli anni precedenti.
La prospettiva di ottenere un aiuto indiretto tramite Israele non piaceva al governo portoghese. I
missili richiesti a Washington avevano una precisa funzione militare e una volta convertiti in funzione
terra-terra, potevano essere usati contro la guerriglia stessa e non solo contro l’appoggio che le fosse
eventualmente stato garantito da soggetti terzi.
Nel negoziato, però, l’elemento militare era almeno in parte subordinato a quello politico e veniva
agitato con una certa strumentalità dal governo portoghese.
Per Caetano la disponibilità statunitense a trasferire al Portogallo materiali militari che questo avrebbe
usato in Africa aveva una valenza simbolica anche superiore a quella strettamente militare: serviva
per ribadire la natura speciale e strettissima del rapporto tra Stati Uniti e Portogallo. Per questo si
cominciarono a valutare se non fosse il caso di cercare delle possibili alternative alla base di Lajes,
sottraendo a Lisbona il principale strumento negoziale di cui essa aveva disposto fino ad allora.

Rivoluzione: aprile-estate 1974


La discussione su come fornire aiuti militari al Portogallo poggiava su una premessa sostanzialmente
condivisa dal segretario di Stato e dai suoi consiglieri: che il regime portoghese godesse di nuova
salute e fosse destinato a sopravvivere a lungo.
Tale assunto era emblematico della miopia e del dogmatismo di Nixon e di Kissinger, oltre che delle
carenze di analisi di tutte le cancellerie occidentali nei confronti di quanto stava avvenendo nella
società portoghese.

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Le divisioni interne ad essa erano riconoscibili, o quantomeno intuibili, per chiunque le avesse volute
vedere. queste divisioni cominciarono a manifestarsi nel febbraio e nel marzo del 1974, quando al
dipartimento di Stato ancora si discuteva su come far giungere i missili terra-aria al Portogallo.
Iniziò a farsi sentire impatto dell’embargo petrolifero in cui il Portogallo fu soggetto a causa del suo
ruolo nella guerra d’ottobre. Ma pesarono ancora di più le difficoltà di cui il Portogallo soffriva in
Africa e la crescente disaffezione popolare verso il regime. Cominciò a manifestarsi quella
incompatibilità tra europeismo, atlantismo e colonialismo che il regime aveva cercato in qualche
modo di gestire e mitigare negli anni precedenti.
L’allontanamento di spinola e Costa Gomes acuì le tensioni e le divisioni, a cui contribuivano ora
anche la difficile situazione economica in cui versa il paese e la rinnovata azione repressiva interna.
Si tratttava, però, del colpo di coda di un regime ormai allo stadio terminale. nondimeno,
l’amministrazione statunitense evitò accuratamente di mandare alcun segnale di incoraggiamento a
Spinola e Costa Gomes. Il continuo appoggio a Caetano suscitò anzi le rimostranze di alcuni
diplomatici statunitensi.
L’ambasciatore in guinea, Todman, si assunse il compito di dare voce a questi malumori. in un
telegramma al Dipartimento di Stato, todina evidenziò come le proposte assai caute e moderate
contenute in Portugal e o Futuro riflettessero in larga misura posizioni che gli usa avevano sostenuto
negli anni precedenti.
Le sollecitazioni di Todman ricevettero un’accoglienza assai fredda a Washington. l’amministrazione
Nixon aveva deciso d’investire su Caetano e di ricostruire un rapporto privilegiato con l’alleato
portoghese. soprattutto, a Washington non vie era alcuna consapevolezza dell’intrinseca fragilità del
regime. Lo si vide bene in occasione della rivolta che, il 25 aprile del 1974, portò all’improvviso
caduta di Caetano e aprì una fase, caotica e confusa, di transizione politica ( la pacifica rivoluzione
dei garofani per i fiori che furono messi nelle canne dei fucili dei rivoluzionari ).
Europa occidentale e Stati Uniti reagirono con sorpresa agli eventi portoghesi: nessuno immaginava
un’implosione così repentina del time, né si era a conoscenza del peso maturato dei giovani ufficiali
dell’MFA.
La rivoluzione colse impreparati soprattutto gli Usa, che pure avevano rafforzato il legame con il
regime negli anni precedenti.
Lo smarrimento di fronte all’incedere di eventi imprevedibili nelle loro dinamiche e sorprendenti nei
loro sviluppi generò però reazioni molto diverse sulle due sponde dell’Atlantico.
Per quanto anch’essi assai sorpresi, i principali membri europei della Nato, RFT e HB su tutti,
salutarono con entusiasmo la rivoluzione, che apriva la possibilità di procedere rapidamente solo
smantellamento dell’impero portoghese, rimuoveva una fonte d’imbarazzo forte per i membri europei
dell’alleanza e sembrava preludere a in ulteriore allargamento dell’area della democrazia in Europa
occidentale. La presenza del CPC nel primo governo postrivoluzionario non preoccupava
particolarmente gli europei, che anzi lo ritenevano un dazio necessario da pagare per procedere alla
riconciliazione nazionale e avviare così il processo di transizione democratica.
I partiti e i governi socialisti dell’Europa occidentale cercarono di conferire legittimità politica non
solo, e non tanto, al nuovo governo ma a quelle figure con i quali avevano stabilito solidi legami e
con cui condividevano progetti politici e filosofia.
Non mancavano condiscendenza e paternalismo nell’atteggiamento di alcuni verso il Portogallo.
Nondimeno, la differenza tra l’atteggiamento europeo e la diffidente freddezza dell’amministrazione
Nixon era particolarmente stridente. Washington temeva che un’accelerazione del processo di
decolonizzazione potesse favorire quelle forze più radicali, come l’MéLA, in Angola, ritenute vicine
all’Urss. anche i piani moderati e assai gradualisti di spinola erano osteggiati da Kissinger.
Non era solo però la questione africana a rendere l’amministrazione Nixon scettica e, anche,
precocemente ostile nei confronti del nuovo corso in Portogallo.
La composizione del nuovo governo contribuì infatti ad alimentare la diffidenza statunitense.
Kissinger aveva una pro di soares, che riteneva debole, ingenuo e incapace di bilanciare il peso dei
comunisti all’interno del governo. Proprio la partecipazione del PCP al primo governo
postrivoluzionario irritò e preoccupò gli usa. La partecipazione di un partito comunista a un governo

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di un paese membro dell’Alleanza atlantica costituiva un precedente pericoloso e, per Kissinger,
inaccettabile. La valenza simbolica non poteva essere sottostimata.
Mentre i paesi europeo-occidentali, la Comunità europea e l’EFTA esprimevano appoggio e
apprezzamento per la svolta portoghese, gli Stati Uniti optarono per una posizione di freddo distacco,
caratterizzata da frequenti espressioni di preoccupazione per la presenza del PCP al governo da un
cauto appoggio a Spinola.
entrambi, statunitensi ed europei, attenere però l’evoluzione degli eventi in Portogallo prima di
assumere impegni, soprattutto economici, precisi e vincolanti.
La fluida situazione portoghese risultava infatti difficile da comprendere e decifrare. soares e i
socialisti cercarono da subito di giovare su due tavoli. All’esterno si presentarono non solo come la
forza politica più europeista, ma anche come quella che avrebbe potuto meglio contenere sul piano
interno il rafforzamento politico ed elettorale del PCP. Incontrando il premier britannico Wilson,
Soares giustificò la richiesta di aiuti economici motivandola con categorie e logiche tipiche della
Guerra fredda.
Come detto, Kissinger espresse da subito una forte diffidenza, personale e politica, nei confronti di
Soares, che nei primi mesi costituì invece l’interlocutore politico e, ovviamente, istituzionale dei
governi europeo-occidentali.
L’ambasciatore Scotto, il governo britannico e quello tedesco-occidentale invitarono alla
moderazione e alla cautela, per evitare di dare credito alle voci secondo cui l’occidente stava
premendo su Spinola per escludere i comunisti dal governo provvisorio.
Il governo tedesco-occidentale sostenne la necessità di evitare un’azione troppo esplicita di sostegno
alle forze europeiste e filoatlantiche, delegando tale ruolo a delle autorità non ufficiali.
Kissinger, al contrario, sollecitò da subito l’attivazione di meccanismi all’interno della Nato che
limitassero l’accesso dei delegati portoghesi a materiali e informazioni sensibili.
Per il Segretario di Stato era vitale che i portoghesi non potessero vedere alcun documento.
Di nuovo, le considerazioni simboliche e politiche prevalevano su quelle strettamente legate alla
sicurezza.
La Nato non era istituzione propriamente impermeabile e fughe di notizie risultavano frequenti: era
pertanto diffide immaginare che qualcosa sarebbe cambiato con la nascita in Portogallo di un governo
che includeva anche i comunisti..
Discriminare i portoghesi nell’Alleanza atlantica serviva però per dare un chiaro messaggio agli altri
membri, a partire appunto dall’Italia.

La posizione statunitense fu illustrata da Nixon a Spinola in occasione di un breve incontro tenutosi


alle Azzorre nel giugno del 1974.
Nell’occasione, il Presidente statunitense tornò a rimarcare le sue perplessità per la presenza dei
comunisti nel governo portoghese, anche se diede un appoggio esplicito alla nuova linea del
Portogallo rispetto alla questione coloniale. Gli Stati uniti stavano cominciando a schierarsi dalla
parte del generale in quello che si prefigurava essere uno scontro di potere nel Portogallo
postrivoluzionario.
Tutto ciò presupponeva però una forza politica di cui in realtà Spinola non disponeva. Lo si vide bene
nel primo, rilevante scontro politico tra il generale e l’MFA, avvenuto nel 1974, quando Spinola si
trovò chiaramente in minoranza e si venne a formare un secondo governo, all’interno del quale la
sinistra radicale era sassi più forte e rappresentata.
Il nuovo primo ministro, Gonzaves, era infatti assai più vicino al PCP di quanto non fosse il suo
predecessore, mentre i peso dei comunisti all’interno del governo non era ridimensionato e Soares
rimaneva agli esteri. Si trattava di una prima, importante svolta a sinistra dell’asse poltiico del paese
e, sopratutto, della dimostrazione che Spinola non era in grado di manipolare, o anche solo
controllare, le forze liberate dalla rivoluzione.

Spostamenti a sinistra e ingerenze esterne: estate 1974-primavera 1975 ).

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La svolta a sinistra di luglio coincise con un primo, significativo deterioramento delle condizioni
economiche del paese. Industriali e banchieri portoghesi invitarono gli Stati Uniti a intervenire per
bloccare quella che essi consideravano una deriva radicale del Portogallo, che avrebbe finito per
isolarlo politicamente e diplomaticamente.
Da parte europea s’invitò alla calma. trench riaffermò la fiducia del governo inglese in soares e nei
socialisti.
Bisognava invece attendere con calma lo sviluppo della situazione ed evitare inutili, e precoci,
pessimismi, che però informavano sempre più la posizione degli Stati Uniti e di Kissinger in
particolare.
Il vicedirettore della CIA, Walters, si recò in Portogallo ed elaborò un rapporto assai allarmato sulla
situazione portoghese.
Washington chiese esplicitamente al segretario generale della Nato di bloccare la distribuzione al
Portogallo di documenti top secret. Inoltre, gli Usa invitarono a formalizzare questo stato di cose,
escludendo l Portogallo dal Nuclear Planning Group della Nato. Molti membri europei dell’alleanza
si opposero. La Gran Bretagna, la Danimarca, i Paesi Bassi e la RFT espressero parere critico,
denunciando l’assenza di consultazioni su una materia così delicata.
Nel 1974 si assistette a una nuova prova di forza tra Spinola, l’MFA e i partiti della coalizione di
governo. Nel tentativo di riaffermare la sua leadership politica, Spinola indisse una manifestazione
della maggioranza silenziosa che avrebbe dovuto sostenere il generale nei confronti di un MFA
confuso e diviso, e ancor più di partiti litigiosi e inconcludenti che si mobilitarono per bloccare
l’iniziativa. Spinola si dimise e fu sostituito da Gomes.
Per Kissinger gli eventi di fine settembre confermavano tutte le sue paure e preoccupazioni. Il
segretario di Stato criticò sempre più aspramente sia gli alleati europei, a suo dire passivi di fronte
agli eventi, sia l’ambasciata americana a Lisbona, le cui analisi sottovalutano la portata del pericolo
e offrivano un tipo di valutazioni che si sarebbero potute trovare sul New York Times.
queste posizioni, pessimistiche ed estreme, non erano condivise da gran parte degli alleati europei di
Washington. Tra i governi dell’Europa occidentale prevaleva l’idea,, espressa dal ministero degli
esteri Tedesco, che il PCP e i settori radicali del MFA non avessero alcun interesse a portare lo scontro
all’estremo. Soprattutto, prevaleva l’idea che la complessa transizione in atto in Portogallo potesse
essere guidata e pilotato dalle forze del socialismo europeo, evitando una sua radicalizzazione che
avrebbe potuto portare a un regime di fronte popolare e, per reazione, al ritorno a un regime autoritario
di destra.

il nuovo attivismo statunitense si concretizzò in un deciso aumento delle pressioni nei conforti del
governo portoghese e nella decisione di abbandonare la linea stand-offish dei mesi precedenti.
L’azione statunitense si indirizzò in tre direzioni:
- la definizione di un piano di aiuti economici al Portogallo, il cui stanziamento era però vincolato
all’evoluzione del quadro politico interno;
- l’azione diplomatica, in particolare all’interno della Nato;
l'attivazione di misure straordinarie, incluse operazioni clandestine da promuoversi assieme al regime
spagnolo.
Il rapporto del team di Lukens, così come le indicazioni che provenivano dall’ambasciata statunitense
a Lisbona, invitavano a fornire al Portogallo crediti e aiuti economici, per rafforzare le forze moderate
e filoccidentali sia nel MFA che nel governo.
Al congresso, i liberal democratici abbracciarono questa linea nella condizione che il processo in atto
in Portogallo fosse condizionabile e che il precipitare di una crisi economica avrebbe potuto favorire
le forze più radicali, di sinistra come di destra.
Kennedy introdusse un emendamento alla legge sugli aiuti destinati all’estero che prevedeva uno
stanziamento straordinario di prestiti e assistenza tecnica destinato al Portogallo e ai suoi territori
africani.
La cifra complessiva fu drasticamente ridotta nel passaggio della legge alla Camera. L’impegno di
un senatore influente come Kennedy evidenziava nondimeno l’attenzione con cui anche l’organo

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legislativo stava seguendo la stipulazione portoghese. soprattutto, costituiva un pungolo per
l’amministrazione che attivò a sua volta un suo programma di aiuti economici per il Portogallo e
sollecitò la Export-Import Bank a offrire crediti agevolati per finanziare esportazioni statunitensi
verso lo Stato lusitano.
questo atteggiamento fu elogiato da chi aveva in precedenza criticato sia la passività di Kissinger e
dell’amministrazione sia il loro pessimismo nei confronti della transizione portoghese.
In realtà, le misure attivate nell’autunno del 1974 costituivano il naturale complemento dell'altra parte
della nuova politica statunitense in Portogallo, fatta di pressioni diplomatiche e azioni clandestine.
Ai primi di ottobre, Kissinger aveva incontrato il ministro degli Esteri Marui, cui aveva proposto
un’operazione congiunta nel nord del Portogallo, dove l’ostilità al PCP e alla sinistra in generale era
maggiore.
La documentazione su questa operazione è ancora incompleta e parzialmente coperta da segreto: ciò
impone molta cautela nella valutazione delle effettive conseguenze del la proposta di Kissinger.
Sul piano diplomatico, infine, gli Stati Uniti tornarono a sollecitare una posizione più ferma nei
confronti del Portogallo all’interno della Nato e assunsero un atteggiamento più intransigente nei
rapporti bilaterali con l’alleato portoghese.
nell’ottobre del 1974 Gomes e Soares incontrarono Kissinger e Ford in occasione dell’apertura
dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. L’incontro fu particolarmente teso, Gomes
riaffermò la fedeltà atlantica del Portogallo e la sua intenzione di rispettare i propri impegni
internazionali, chiedendo però un aumento della cifra pagata da Washington per utilizzare la base di
Lajes, che continuava a costituire il principale strumento negoziale di cui Lisbona disponeva.
Kissinger replicò sostenendo che un governo del quale faceva parte un partito comunista
scopertamente filosovietico non poteva essere il beneficiario degli aiuti americani. Gli Stati Uniti non
potevano fare alcuna premessa, fintantoché non fosse stata più chiara l’evoluzione del quadro politico
portoghese.
Il disprezzo di Kissinger per Soares e i socialisti divenne ben presto noto anche in europa occidentale
e proprio sulla posizione da tenere in seno alla nato le differenze tra americani ed europeo-occidentali
si rivelavano assai marcate.
Per evitare tensioni ulteriori, Gomes accettò l’esclusione del Portogallo dagli incontri del Nuclear
Planning Group. di nuovo, Kissinger motivò la decisione facendo riferimento alla situazione italiana.
qQuesta linea, però, fu criticata sia dentro l’amministrazione sia all’interno della Nato.
Alla fine del 1974 si delineavano diverse posizioni, dentro e fuori il Portogallo, mentre il fluido
quadro politico e la difficile situazione economica sembravano lasciare aperte varie strade alla
transizione portoghese. All’interno del governo l’ampia coalizione formatasi dopo la risoluzione
cominciava a manifestare le prime crepe. I rapporti tra PS e PCP stavano facendo decisamente più
tesi anche se tutte le forze politiche continuavano a esprimere la volontà di rispettare gli impegni
internazionali assunti dal paese e quindi la sua permanenza nell’alleanza atlantica.
Il quadro esterno era ugualmente sfaccettato e complesso. Kissinger aveva assunto una linea
inflessibile: contraria alla partecipazione del PCP al governo, ostile a Soares e ai socialisti,
pessimistica sul corso degli eventi e incline anche a privilegiare una eventuale soluzione
neoautoritaria. questa posizione era però in parte contestata all’interno della stessa amministrazione,
al Dipartimento di Stato così come all’ambasciata, dove Scotto fu sostituito alla fine del 1974 da
Carlucci, sottosegretario al Welfare e alla Sanità, che aveva lavorato all’ambasciata di Brasilia e
godeva di una fama d’intransigente anticomunista.
Soprattutto, la linea kissingeriana era apertamente rigettata dai governi europeo-occidentali e, ancor
più, dalle forze socialiste e socialdemocratiche del Vecchio Continente. Queste ultime appoggiavano
Soares e i socialisti, guardavano con preoccupazione il rafforzamento della sinistra comunista, ma
credevano che fosse possibile condizionare la transizione portoghese senza irrigidimenti e
interferenze esplicite.
Sullo sfondo operava, potentemente, un’ombra minacciosa: quella rappresentata dal precedente del
Cile e dalla possibilità, esplicitamente menzionata da Kissinger, di una sua replica in Portogallo.
L’attiviamo degli europei era dettato anche dal timore che l’ondata di democratizzazione apertasi in

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Portogallo non solo potesse interrompersi, ma fosse rovesciata già sul nascere, bloccando un processo
che nelle intenzioni avrebbe dovuto produrre un parallelo allargamento dell’europa comunitaria e
dell’area della socialdemocrazia.
Le prime settimane del 1975 furono caratterizzate da una intensificazione delle tensioni all’interno
del governo, dove PS e PCP si scontrarono in più di un’occasione.
il casus belli più rilevante fu rappresentato da una nuova legge sul lavoro. La legge prevedeva che
qualora il 50% delle diverse federazioni sindacali avesse votato a favore di una singola
confederazione nazionale, nessun’altra confederazione sarebbe potuta sorgere.
L’obiettivo era evidentemente quello di creare un’unica confederazione sindacale, dominata dal PCP,
ferocemente osteggiata dal PS e dagli altri partiti di governo
Il deterioramento della situazione economica e le crescenti tensioni sociali sembravano però spingere
il paese ulteriormente verso sinistra, come molti commentatori statunitensi ed europei non si
stancavano di sottolineare. Kissinger tendeva anzi a credere che esso non lo fossero e a lungo
minimizzò il ruolo dell’URSS nella crisi.
Da più parti si diede per imminente un golpe comunista. il PCP e illusi alleati nel MFA stavano
consolidando le parie posizioni per dare un ultimo, definitivo salto al potere.
Sullo sfondo rimaneva il comportamento, assai enigmatico, dell’Unione Sovietica. La scarsità di
documenti impedisce di dare un giudizio certo su quali fossero le intenzioni di Mosca, anche se è
assai più probabile che la leadership sovietica fosse divisa sulla linea di seguire, tentata dalla
possibilità di avere un alleato affacciato sull’Atlantica e preoccupata per i possibili effetti sui suoi
rapporti con gli Usa e, più in generale, sul processo di distensione.
Negli Usa la possibilità che il Portogallo potesse essere sovietizzato fu presentata in toni sempre più
drammatici da commentatori e politici conservatori.
Il tentato golpe arrivò alla fine l’11 marzo. a promuoverlo furono Spinola e i suoi uomini: si trattò di
un golpe da operetta, come lo definì lo storico Maxwell. Mal pianificato e fondato sull’illusoria
convinzione che il mFA rappresentasse solo una fazione minoritaria dei militare, il golpe abolì
rapidamente. Il PCP indossi una gigantesca manifestazione di massa nelle strade di Lisbona:
l’intentano, come fu ironicamente ribattezzato il golpe, offrì alle forze della sinistra radicale
l’opportunità di consolidare la loro presa sul potere e di attaccare gli Usa, accusati da più parti di
avere appoggiato l’azione.
Varie decisioni concretizzarono l’ulteriore svolta di sinistra catalizzata dal fallito golpe dell’11
settembre. IlMFA consolò e istituzionalizzò la sua presa sul potere, creando una sorta di governo
parallelo, il Consiglio della Rivoluzione.. a questa radicalizzazione politica corrispose
un’intensificazione sia della propaganda antiamericana in Portogallo sia della denuncia, statunitense
ed europea, della deriva autoritaria e di sinistra in atto in Portogallo.
L’ombra cilena tornò ad essere onnipresente, paventata e non solo dalla sinistra portoghese o dai
socialisti europei, ma anche dal mondo politico conservatore statunitense che chiedeva un deciso
cambio di rotta in Portogallo.
anche chi, come il liberal statunitensi e i socialisti europeo-occidentali, aveva assunto una posizione
fiduciosa su quanto stava avvenendo in Portogallo parve sul punto di ricredersi.
Il segretario generale della Nato, Luns, convocò un incontro dei rappresentanti di Belgio, Italia,
Francia e Germania, Stati Uniti e Regno Unito per discutere esplicitamente della questione portoghese
e delle possibilità, menzionata dal rappresentante tedesco, che il Portogallo potesse essere conquistato
al termine della guerra..
Diversi membri dell'alleanza decisero di esprimere la propria preoccupazione sia a Gomes che
all’Unione Sovietica, sollecitando quest’ultima a non interferire nelle questioni portoghesi.
Particolarmente attivo fu il nuovo cancelliere tedesco, Schmidt, che cercò di coordinare senza
successo un’azione congiunta dei nove paesi della Comunità europea, intraprese una demarchi con
l’unione Sovietica e attivò un canale di comunicazione diretta sulla questione portoghese con
Kissinger. Proprio in una comunicazione con Kissinger, il ministro degli esteri tedesco Genscher
tornò però a sottolineare la necessità di evitare ingerenze negli affari portoghesi e di sollecitare il

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MFA e il governo di Lisbona a garantire la trasparenza delle lezioni per l’assemblea costituente, che
si sarebbero tenute il 25 aprile, nel primo anniversario della rivoluzione dei garofani.
dA più parti si è sostenuto che gli eventi del marzo 1975 produssero una rinnovata coesione atlantica.
che la necessità di affrontare l’emergenza venutasi determinare in Portogallo avesse finalmente
indotto Stati Uniti e partner europei a mettere da parte dissapori e differenze di vedute. In realtà, i
mesi successivi furono contraddistinti da un’accentuazione di queste divisioni, nell’analisi della
situazione portoghese quanto nelle definizione del tipo di risposta da offrirvi. Pochi ritenevano che
l’Unione Sovietica fosse impegnata nell’azzardo di sottrarre alla controparte un alleato così
importante; Kissinger non lo credeva. l’URSS aveva fino ad allora rispettato le regole della
distensione e non poteva certo rischiare di mettere in discussione i prossimi accordi di Helsinki, che
avrebbero sancito l’intangibilità degli equilibri geopolitici europei. un obiettivo a lungo perseguito
dal gigante comunista..
Se vi era una comunanza di vedute, quantomeno temporanea, sul ruolo di Mosca, europei e americani
avevano però una diversa visione di come rispondere al deterioramento della Situazione in Portogallo.
Da parte europea di riteneva acero più necessario sostenere Soares e i socialisti, nella convinzione
che la transizione a un modello di democrazia europeo-occidentale non fosse solo possibile, ma
indispensabile.
Kissinger non aveva invece alcuna fiducia in Soares e nei socialisti, né riteneva che le imminenti
elezioni fossero politicamente significative; soprattutto, egli era convinto che un Portogallo governato
anche da forze comuniste e terzomondiste fosse contrario agli interessi statunitensi e occidentali, a
prescindere dal ruolo e dall’influenza esercitati dall’urss.
Per Kissinger gli eventi di marzo dimostravano che non vi erano soluzioni intermedie tra il perdere il
Portogallo o rarloancor più saldamente all’Alleanza atlantica, se necessario con il ritorno di un regime
autoritario di destra.
Fu a questo punto che il segretario di Stato espose anche pubblicamente una lettura, paradossale, ma
emblematica della sua visione delle relazioni internazionali: la cosiddetta teoria dell’inoculazione.
Inoculare il virus comunista nell’Alleanza avrebbe aiutato a renderla più forte e a evitare una
diffusione del morbo fuori dal Portogallo. Secondo Kissinger, tra una situazione ambigua come quella
esistente e una esplicita svolta filosovietica del Portogallo era di gran lunga preferibile la seconda
soluzione.
I risultati delle elezioni di aprile sorpresero però tutti. a dispetto dei moniti e dello scetticismo, le
elezioni si svolsero regolarmente, come promesso dal presidente Gomes.
Il risultato elettorale fu accolto con grand e entusiasmo negli Usa e in Europa occidentale.
Ancora una volta Kissinger si trovò in disaccordo offrendo un’interpretazione, delle elezioni della
situazione portoghese, che il Foreign Office britannico avrebbe definito addirittura apocalittica.
L’ombra cilena tornò a far visita alla turbolenta transizione portoghese. Subito dopo le elezioni Soares
si sentì in obbligo di condannare la politica intransigente adottata dagli Usa in Portogallo.
In tal senso, sembrava inavvertitamente spingere anche il PCP, che da subito assunse un
atteggiamento sprezzante nei confronti del risultato elettorale,
Cunhal espresse il suo disdegno per il modello di democrazia affermatosi in Europe occidentale sia
durante un vertice del Consiglio della Rivoluzione cui aveva partecipato anche soares sia in occasione
di una famosa intervista rilasciata a Oriana Fallaci.
Gli Stati Uniti e i paesi soro-occidentali continuavano a osservare preoccupati il catartico sviluppo
della transizione portoghese. e continuavano d avere posizioni assai diverse, mentre permanevano
differenza di vedute tra Kissinger e Carlucci che sarebbe ulteriormente aumentata nei mesi a venire.
dall’ambasciata statunitense a Lisbona si sottolineava infatti la necessità di agire con cautela, laddove
il segretario di stato chiedeva d’intensificare le pressioni anche a costo di esasperare lo scontro
politico.L’azione statunitense si sviluppò secondo due direttrici: le pressioni diplomatiche e
l’attivazione di strumenti non ortodossi e clandestini. Washington chiese aiuto a regimi amici, come
quelli brasiliano e spagnolo, e tornò a ribadire agli interlocutori portoghesi l’assoluta inaccettabilità
della direzione assunta dal processo postrivoluzionario.

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Il vertice dei capi di Stato della Nato, tenutosi a Bruxelles alla fine di maggio, offrì l’occasione per
una serie di incontri bilaterali tra i rappresentanti portoghesi e quelli statunitensi. Prima del summit,
Kissinger incontrò Antunes, a cui riservò un trattamento non dissimile da quello subito pochi mesi
prima dal predecessore Soames. Antunes ribadì infatti una posizione che lo accomunava sempre più
ai socialisti europei: l’idea che la brusca sterzata a sinistra seguita dai fatti di marzo potesse portare a
una relazione autoritaria e quest’eventualità non sembrava preoccupare molto Kissinger.
A Bruxelles, l’incontro più teso fu quello tra la delegazione statunitense e quella portoghese.
Nell’occasione il primo ministro Goncalves ribadì la volontà portoghese di rispettare i primi impegni
e obblighi nella Nato, senza modifiche all’equilibrio di potenza in europa.
Per quanto riguardava gli strumenti non ortodossi, la possibilità di sostenere un nuovo golpe
controrivoluzionario non era ancora stat abbandonata, nonostante la ferma contrarietà di Carlucci.
spinola e i suoi uomini continuavano a mantenere contatti con settori dell’amministrazione, al
Pentagono, al Dipartimento di Stato e all’interno della stessa ambasciata statunitense.
Nel Nord del paese si era prossimi a lanciare un’azione contro le sedi e l’organizzazione del PCP e si
discuteva dell’eventualità di creare un’area non controllata dal governo da cui lanciare una eventuale
controffensiva.
Nella primavera del 1975 si cominci a valutare seriamente la possibilità di sostenere una successione
delle Azzorre che avrebbe quanto meno permesso di mantenere il controllo della base di Lajes. Gli
analisti della CIA e Carlucci presero decisamente posizione contro questi piani, secondo
l’ambasciatore si trattava di progetti irrealistici.
La posizione dei membri europei della Nato rimaneva molto diversa e non solo sulla questione delle
Azzorre. Le cancellerie eruopeo-occidentali esprimevano anch’esse crescente preoccupazione verso
quanto stava avvenendo in Portogallo. Per questo una comune strategia atlantica dava definita.
Gli europei però continuavano a dissentire radicalmente con l’approccio kissingeriano e la sua teoria
dell’inoculazione:
- perché la soluzione migliore rimaneva quella di appoggiare le forze politiche me militari che
avrebbero promosso un’integrazione del Portogallo in Europa E NELLA RETE DI DEMOCRAZIE
OCCIDENTALI;
- PERCHè LE ELEZIONI AVEVANO DIMOSTRATO LA SOLIDITà DI QUESTE FORZE E
L’AMPIO consenso DI CUI ESSE GODEVANO NEL PAESE;
- PERCHè NON SI POTEVA condividere L’IDEA CHE L’UNICA SOLUZIONE FOSSE IL
VICOLO CIECO DI Kissinger, ANCHE IN CONSIDERAZIONE DELL’AMPIO SPETTRO DI
POSIZIONI politiche ESPRESSA ALL’INTERNO DELL’MFA.

La calda estate del 1975


Le tensioni nelle Azzorre continuarono durante l’estate, mentre lo scontro politico si sarebbe a sua
volta intensificato fino a raggiungere un punto di non ritorno.
Queste posizioni estreme contribuirono a minare le credibilità di Soares con i suoi tradizionali partner
europei.
L’idea di legare il summit di Helsinki a quanto accadeva in Portogallo non fu mai seriamente presa
in considerazione. Da parte europea, però, si ritenne doveroso sollecitare nuovamente l’URSS a
mantenere un atteggiamento di non interferenza nelle questioni portoghesi.
Soprattutto, i socialisti europei decisero sia di aumentare il proprio impegno in Portogallo sia di
coordinarlo attraverso la creazione di un’a commissione per l'amicizia e la solidarietà con la
democrazia e il socialismi Portogallo e fu guidata dallo Stesso Brandt, e al suo interno includeva
alcuni dei più importanti esponenti del socialismo democratico europeo.
La commissione s’incontrò due volte durante l’Este, concordando l’invio di ulteriori aiuti al PS e alle
organizzazioni sindacali non comuniste.
Soprattutto, i leader socialisti fecero chiaro che un programma di cooperazione economica con il
Portogallo poteva essere approvato solo laddove il Portogallo si fosse dotato di un governo
democratico. Questa posizione fu ribadita anche dalla Comunità europea che pose o sviluppo di una

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democrazia pluralista in Portogallo come condizione per la concessione di un prestito richiesto dal
governo portoghese.
Il rapido deterioramento della situazione economica e offriva una leva di pressione aggiuntiva agli
Stati Uniti e ai loro alleati europei. Il rientro di molti espatriati dalle colonie non solo faceva venir
meno una fonte d’introiti storicamente importante, le rimesse dall’estero, ma aggiungeva anche un
elemento di tensione ulteriore su un’economia già in difficoltà sia per le dinamiche interne sia per la
difficile congiuntura internazionale.
Le difficoltà economiche, le forti pressioni politiche esercitate sia fagli Stati Uniti che dai paesi
europeo-occidentali, la consapevolezza delle potenziali profonde implicazioni geopolitiche di quanto
stava avvenendo in Portogallo indussero infine Antunes e il gruppo dei nove a prendere in mano la
situazione.
Poco prima della formazione di un nuovo governo Conglaves, il gruppo dei nove invitò una lettera a
Gomes nella quale si denunciava il tentativo in atto di trasformazione il Portogallo nella Bulgaria
d’Occidente e si invitava a rispettare gli impegni atlantici del paese. La vittoria di Antunes e del
Gruppo dei nove condizionò in modo decisivo la formazione del nuovo governo, il sesto dopo ia
rivoluzione, presieduto da Acevedo.

Sulla necessità di sostenere Antunes e il gruppo dei nove si era determinata una fragile convergenza
transatlantica, favorita dalla mediazione di Carlucci. Kissinger continuava a credere che una maggior
intransigenza potesse pagare e che una svolta neoautoritaria di destra fosse tanto possibile quanto, in
fondo, auspicabile. Anche una sconfitta di Gonclaves avrebbe comunque mantenuto il PCP in una
posizione influente e, se possibile, permesso la prosecuzione della sua permanenza al governo. la
ragione fondamentale che aveva determinato le scelte di Kissinger durante la crisi rimaneva ancora
valida.
La stessa ombra cilena non era del tutto scomparsa. Nel mezzo della crisi, l’attaché militare
statunitense a Lisbona, Schuyler, chiese alla sua controparte britannica se la posizione di Londra
rispetto a un eventuale tentativo di Spinola di riprendere il potere fosse mutata. Schuyler aveva
contatti con il colonnello Ricardo Durao, che aveva richiesto un appoggio americano per promuovere
un’azione nel nord del paese.
Nei mesi successivi, europeo-occidentali e americani cominciarono a coordinare maggiormente la
propria azione e a fornire quegli aiuti di cui il Portogallo aveva disperato bisogno, ma che l’incertezza
politica aveva indotto a congelare.
Sia nel caso degli Stati Uniti che in quello della Comunità si trattava dell’inizio di un processo che si
sarebbe solo intensificato negli anni successivi.

Spagna
Il punto di partenza di questo lavoro è il 1969 a causa di due avvenimenti importantissimo: in primo
luogo, il 22 luglio Don Juan Carlos di Borbone fu proclamato principe di Spagna e successore alla
guida dello Stato spagnolo in quanto sovrano.
Il secondo avvenimento riguarda la ridefinizione dei principali rapporti interazioni della Spagna. Nel
1969 arrivarono al culmine i negoziati per l’accordo commerciale fra Spagna e la Comunità
economica europea, che fu firmato ufficialmente il 29 giugno del 1970. Quest’accordo, che costituì
il principale vincolo istituzionali fra le due parti fino all’ingresso come membro pieno titolo del regno
di Spagna nelle Comunità europee il primo gennaio 1986, arrivò ad essere percepito come la leva che
sarebbe riuscita a forzare la trasformazione democratica del regime franchista, nella misura in cui
questo avrebbe così potuto ottenere tutti i frutti che sembravano essere promessi dall’ambiguo testo
della sua clausola principale.
Contemporaneamente, ebbero luogo i negoziati per il rinnovo degli accordi grazie ai quali il governo
degli Stati Uniti poteva disporre di installazioni militari in territorio spagnolo. Davanti alle richieste
spagnolo di innalzare il livello dell’accordo di incorporare una clausola di sicurezza simile a quella
applicata con altri stati europei membri dell’Alleanza atlantica e di un aumento significativo degli

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aiuti militari, il governo di Washington dovette interrogarsi su che tipo di relazioni mantenere con
Madrid e quali conseguenze ne potevano derivare.
Molte pubblicazioni sulle relazioni fra la Spagna e la Comunità europea durante il franchismo hanno
dato per scontato che la Comunità abbia attivamente esercitato pressioni sul regime autoritario in
favore di un’effettiva democratizzazione, seppur progressiva, delle sue strutture politiche: questa
pressione sarebbe cresciuta dopo la conclusione dell’accordo commerciale tra la Spagna e la
Comunità nel giugno 1970.
La linea politica ufficiale della comunità europea nei confronti della Spagna franchista era stata
stabilita con l’accordo commerciale degli giugno 1970.
La maggioranza dei membri del PE approvò l’accordo con la Spagna, date queste premesse, e buona
parte del dibattito pubblico dell’epoca si incentra su esse. a commissione europea e tutti i governi
degli Stati membri della Comunità alimentarono la tesi evoluzionista, che a sua volta era stata
elaborata nel seno del regime franchista e divulgata dal suo corpo diplomatico. Questa tesi attribuiva
al regime franchista la capacità di trasformarsi, in modo progressivo, a partire dalle sue caratteristiche
fasciste iniziali fino a una formula di rappresentanza pluralista che avrebbe potuto, al momento
opportuno e con condizioni adeguate, trasformarsi in pienamente rappresentativa.
Immobilisti, riformisti e rotturisti furono i principali protagonisti del gioco politico della transizione
spagnola.
Parte dell’azione politica interna aveva l’obiettivo di favorire determinati atteggiamenti dei governi
amici che, in presenza di comportamenti diversi, sarebbero stati ddiccili da sostenere pubblicamente.
Quando da Madrid l’ambasciatore tedesco Lindeberg confermò la disponibilità governativa ad
adottare le necessarie misure di politica interna disegnate per assicurare al paese una facciata
democratica, non fece altro che ratificare l'argomento giustificativo principale di tutta la politica
favorevole alla progressiva istituzionalizzazione della Spagna franchista.
I negoziati che portarono all’accordo del giugno 1970 non fecero mai esplicito riferimento all’ambito
politico interno. Il fatto che la Spagna franchista non potesse aspirare a essere membro a pieno diritto
delle comunità era un elemento ovvio, datore scontato da entrambe le parti, fatto che sembrò rendere
obbligatorio che tutti gli aspetti politici del testo restassero nella più totale ambiguità, lasciando aperte
tutte le opzioni.
La redazione dell’articolo I dell’accordo bilaterale ispano-comunitario era identica a quella del
mandato originale del Consiglio dei ministri alla Commissione nel giugno 1967, che era servito per
iniziare i negoziati con Madrid.
Tale questione aveva forti implicazioni internazionali che oltrepassavano di molto lo stretto ambito
bilaterale. Washington era favorevole a che la Comunità stringesse i propri legami commerciali con
la Spagna, però soltanto all’interno del rispetto del principio di non discriminazione del GATT.
L’accordo ispano-comunitario era, chiaramente, un accordo preferenziale e, pertanto, in accordo con
le regole del GATT avrebbe potuto essere giustificato soltanto se avesse portato a un’area di libero
commercio o a un’unione doganale. Per questo, le difficoltà di fronte al GATT si sarebbero potute
evitare solamente con una dichiarazione precisa degli obiettivi finali dell’accordo e dei requisiti per
il passaggio alla seconda tappa del processo.
Allo stesso tempo, però, rendere esplicita una qualunque di queste mete avrebbe costituito un
vantaggio propagandistico inestimabile nelle mani del franchismo. Le regole del GATT trasformano
un problema di regolazione economia in una questione politica di primo libello.
Il governo spagnolo usò l’articolo uno per convincere l’opinione pubblica che l’accordo andava molto
oltre il trattato commerciale e costituiva un primo passo nella direzione dell’integrazione in Europa.
Il discorso governativo secondo cui, in principio, l'accordo non chiudeva le porte d’ingresso alla
comunità contrastava con quello di coloro per cui la linea integrazione in Europa sarebbe stata
possibile solo grazie a un cambiamento politico e istituzionale radicale. La riforma politica prevista
dal governo rimaneva distante anni--luce dalle esigenze minime in termini di diritti individuali e
collettivi, suffragio universale, riconoscimento dei partiti politici e libertà di associazione che gli stesi
riformisti ritenevano essenziali per il cambiamento politico-.

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Il governo instaurato alla fine dell’ottobre del 1969 fu percepito unanimemente come aperturista ma
non si mostrò, sin dall’inizio, disposto a modificare la politica repressiva, neppure al fine di ottenere
presunti benefici futuri da parte della CEE. Ciò che risultò più preoccupante fu verificare che né la
Commissione né il Consiglio dei ministri della Comunità erano a loro volta in alcun modo disposti a
condizionare la propria politica verso la Spagna all’ottenimento di un minimo di garanzie di difesa
dei diritti fondamentali degli spagnoli.
Così, quando fu decretato il primo stato di emergenza dalla fama dell’accordo bilaterale, che
comportava la sospensione delle minime garanzie processuali, la Commissione reagì
immediatamente ma con somma discrezione, richiamando in privato l’attenzione delle autorità
spagnola.
Tutto ciò dal assolutamente ragione alle critiche espresse in seno al Pe sul fatto che la mancanza di
chiarezza rispetto alla condizionalità politica di ogni futura relazione con la Spagna dittatoriale non
aiutasse a migliorare il panorama della libertà in quel paese, ma anzi creasse l’illusine che tutto fosse
possibile fra il regime e le Comunità europee..
il Consiglio dei ministri delle Comunità diede rapidamente prova di voler migliorare il quadro
istituzionale delle relazioni con la Spagna senza aver intercesso in alcun modo a favore di
miglioramenti nel comportamento repressivo del regime, né aver ottenuto alcun avanzamento nella
formulazione di una maggiore partecipazione politica.
Durante la primavera del 1972 il governo francese diede inizio a una campagna perché l’accordo con
la Spagna venisse trasformato in un accordo di libero commercio.ùLe implicazioni politiche della
proposte francese erano evidenti, poiché essa modificava il compromesso politico sulla spalla base
del quale era stato negoziato l’accordo originale con la Spagna.
Il fatto che la rinegoziazione dell’accordo del 1970 avesse com obiettivo un accordo di libero scambio
e fosse nell’agenda comunitaria offriva, senza dubbio, un chiaro e diretto elemento di pressione che
il Consiglio dei ministri o la Commissione europea avrebbero potuto esercitare sul governo di Madrid.
Nel corso dell’estate del 1972 nuovi corti marziali esercitarono un’azione repressivo contro il
movimento operaio e l’opposizione politica in generale.
La Commissione, dopo aver dibattuto la delicata questione, all’inizio di ottobre 1972 decise di seguire
una linea di basso profilo: nessuna protesta formale, nessuna minaccia, Maanscholt si sarebbe limitato
a riportare all’ambasciatore spagnolo l’opinione della Commissione. La conversazione fu tanto
garbata, tanto diplomatica che l’ambasciatore spagnolo giunse a usare il termine collaborazionista per
riferirsi al presidente della Commissione.
L’olandese aveva suggerito al governo spagnolo di evitar di generare cattiva pubblicità politica che
avrebbe potuto impedire,attraverso la pressione esercitata dall’opinione pubblica, il concretizzarsi di
relazioni commerciali più strette. Lo stesso ambasciatore spagnolo suggerì al governo di Madrid di
evitare, per quanto possibile, le forme più eclatanti di repressione ricorrendo alla giustizia ordinario.
Il peso dell’opinione pubblica internazionale e la sua capacità di limitare la libertà di manovra dei
governi nelle relazioni con paesi terzi pareva cominciare a farsi sentire.
Madrid si allarmò quando il Consiglio europeo annunci che ogni futuro sviluppo della Comunità
avrebbe dovuto basarsi sui principi di democrazia, libertà di opinione, libertà di movimenti persone
e idee e la libera elezione dei rappresentanti politici.
Era la prima dichiarazione esplicita che la democrazia fosse il principio fondamentale di ogni azione
comunitaria. La presunta ambiguità del trattato fondamentale a questo riguardo sembrava essere stata
definitivamente seppellita.
In parallelo e di speciale rilevanza furono anche le conclusioni che il governo di Bonn raggiunse con
la visita del principe Juan Carlos in Germania occidentale nell’ottobre del 1972. Il governo tedesco
ritenne che l’erede di Franco avesse una propria agenda rispetto alla progressiva democratizzazione
del paese, tanto rapida quanto le condizioni lo avrebbero permesso ,e che il principale pericolo di
fallimento del suo programma fosse costituito da color che, all’interno del regime, preferivano un
immobilismo radicale. Ciò contribuì alla convinzione che l’arrivo della democrazia, sarebbe stato
causato dalla mano degli eredi riconosciuti dell’autorità e della legittimità istituzionale del
franchismo, seguendo la linea segnata dai cambiamenti istituzionali del 1969 e il governo di Brandt

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mise tutto il suo impegno nel rendere chiaro che era il regime franchista e non l’opposizione
democratica ad avere il deciso appoggio del suo governo.
Lo standard di richieste da parte del governo di Bonn si sarebbe mantenuto molto basso. I rapporti tra
la Spagna e la comunità continuarono inalterati durante il biennio 1973-1974 nonostante i numerosi
atti di repressione. Dopo il cataclisma avviato dall’assassinio, il 20 dicembre 1973, dell’ammiraglio
Blanco la repressione si intensificò.
La nuova ondata repressiva coincise con la proposta del nuovo governo spagnolo, guidato da arias,
all’inizio del 1974, di ampliare la partecipazione politica tramite le associazioni come formule di
pluralismo all’interno del Movimento stesso, il che rinnova le aspettative di cambiamento politico a
partire dal Consiglio dei ministri delle Comunità europee sei desse voce a posizioni critiche contro il
suo governo.
La maggioranza dei governi occidentali apprezzava fortemente, da un lato, la lealtà del governo Arias
al blocco occidentale e, dall’altra, un progetto di possibile evoluzione democratica ordinata e condotta
a partire dal potere, con tutta la mano ferma necessaria, che avrebbe mandato in cortocircuito le
opzioni estremiste.
Così non risulta difficile capire che la forte repressione esercitata senza dissimulazione dagli apparati
di polizia, militari e giudiziari della dittatura non condizionò nemmeno di una virgola la politica della
Comunità europea sulla Spagna.
A tutti coloro che con la propria attività di opposizione e in difesa dei principi fondamentali della
democrazia rischiavano no meno di dicidic anni di carcere sembrava incomprensibile che la Comunità
europea, che nelle loro menti era intimamente identificata come la meta per eccellenza di una futura
Spagna democratica, potesse negoziare con la dittatura accordi di tale portata.
Sembrava incredibile che il regime di franco non soffrisse di nessuna penalizzazione specifica per le
sue scelte di repressione politica e sindacale da parte della Comunità europea, né dalla Commissione,
né dal Consiglio dei ministri.
Inoltre, le intere forze del cambiamento democratico in Spagna semplicemente non trovarono
riscontro di quanto i governi dei paesi democratici, senza eccezione, erano persuasi che il regime di
Franco si muoveva con una lentezza esasperante ma, nonostante tutto, nella direzione corretta.
Quando il Consiglio rifiutò le controproposte spagnole nel dicembre 1974 i rappresentanti tedeschi
protestarono: Bonn era disposta ad accettare le richieste materiali degli spagnoli, convinta che il
nuovo accordo di libero scambio avrebbe portato stabilità al nuovo governo di Madrid in tempi di
incertezza generalizzata.
Alla fine del luglio 1974 diverse famiglie dell’opposizione costituirono una piattaforma di azione
unitaria, la Junta Democratica Espagnola. Il regime avviò la repressione dei leader più significativi
che si arrischiarono a tornare in patria. Il fatto che le persone arrestate lo furono per aver partecipato
ad atti cui presero parte anche membri delle istituzioni europee facilitò la mobilitazione
internazionale.
Interessante notare come, ciononostante, il governo di Madrid scoprì che, con poca pubblicità,
continuavano ad appoggiasse il programma di riforme del governo arias come univa civd per evitare
uno scenario portoghese n Spagna.
Le vive proteste spagnole di fronte al fatto che i rappresentanti della Junta fossero stati ricevuti da
membri della Commissione e del PE furono ricevute con piena comprensione da buona parte del
governo dei Nove, che ritennero irresponsabile tale comportamento verso un organo di opposizione
dominato dai comunisti spagnoli quando si teme, precisamente, che i comunisti portoghesi stessero
pianificando un processo di conquista del potere alla cecoslovacca.
Madrid volle mettere in chiaro che non avrebbe tollerato alcuna tutela politica da parte di chiunque
nell’evoluzione politica alle porte e lanciò un attacco frontale contro la Commissione per interferenza
negli affari politici interni della Spagna, sfruttando i timori dei governi dei Nove rispetto alla
situazione portoghese e le differenze istituzionali interne alla comunità.
Sebbene da parte della Commissione sia il presidente, Ortoli, che il vicepresidente, Soames, si fossero
scusati tramite i canali diplomatici e avessero dato conferma alle autorità spagnole del fatto che i
commissari avevano agito a titolo personale e che il collegio non approvava tali azioni. Madrid

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insistette per una rettifica pubblica equivalente all’offesa subita. Il finale di questa storia fu che una
rettifica in piena regola, negoziata parola per parola con il governo di Madrid, fu pubblicata su Europe
il 10 aprile 1975.
Quest’episodio aveva lasciato Madrid con la chiara convinzione che tanto la Commissione quanto i
Nove avrebbero resistito a ogni tentativo futuro di interferenza negli affari interni del paese. I governi
dei Nove non avrebbero tardato di molto a ribadire la propria comprensione per la strategia di Arias
a favore di una evoluzione politica cauta ma continua, in contrasto con una brusca apertura.
Date le ovvie difficoltà esistenti perché questo si concretizzasse, il governo federale propose di
stabilire relazioni speciali che, senza arrivare a conferire lo status di membro di pieno diritto, ne
avrebbero garantito buna parte dei benefici materiali.
Così, durante il primo incontro con i suoi colleghi, il 14 aprile 1975, Genscher li invitò a considerare
la questione spagnola sotto una nuova luce, che consisteva nel rinnovare il voto di fiducia al Primo
ministro spagnolo, ritenuto da Genscher favorevole e in gradi di pilotare il cambiamento verso la
democrazia.
É interessante sottolineare come il governo federale, che aveva assunto il ruolo di comando europeo
rispetto alla politica da seguire con le dittature del sud e dell’est del continente, condividesse la
sostanza della proposta del governo di Washington: un fermo ancoraggio della Spagna franchista al
sistema occidentale, con formule immaginifiche di associazione alla Comunità europea e alla Nato
che, da un lato, le avrebbero portato benefici tangibili ma che, al contempo, avrebbero anche stabilito
il quadro istituzionale essenziale per un futuro democratico.
Per i responsabili franchisti il caso era che sia la Commissione che i Nove avevano alla fine capito
che un processo di democratizzazione politica in Spagna doveva essere portato a termine con cautela.
La radicalizzazione politica del processo rivoluzionario scatenatosi in Portogallo dopo il tentativo di
colpo di Stato di Spinola, l’11 marzo 1975, e la nascita del Consiglio rivoluzionario sotto stretto
controllo militare e la paura del contagio rivoluzionario iberico potrebbero spiegare, in gran parte,
l’esplicito appoggio occidentale al discorso politico ufficiale di quello che sarebbe stato l’ultimo
governo della dittatura.
Il timore generale che un brusco collasso del regime franchista avrebbe potuto portare, come in
Portogallo, a instabilità politica e caos sociale avrebbe spinto la maggior parte dei governi occidentali
ad accettare l’eventualità di una democratizzazione alla spagnola.
É interessante sottolineare come, durante il primo semestre del 1975, furono negoziate le condizioni
per la nascita di una zona di libero scambio fra la Spagna e la CE. Alla fine del luglio 1975 il Comitato
dei rappresentanti permanenti delle Comunità europee ( Coreper ) approvò i termini finali
dell’accordo e convocò quella che avrebbe dovuto essere l’ultima tornata di negoziati bilaterali per la
prima metà del 1975, di modo che il nuovo accordo potesse entrare in vigore il primo gennaio 1976.
La decisione finale sarebbe spettata al Consiglio dei ministri della Comunità dopo essere stata, a sua
volta, approvata ufficialmente dal Consiglio dei ministri in Spagna. La segretezza più assoluta si
impose come conditio sine qua non di questo processo.
Il 22 agosto 1975 il Consiglio dei ministri decise di sospendere le libertà civili nelle province basche,
dichiarò lo stato di emergenza e ristabilì la giurisdizione eccezionale. Il 25 settembre il PE invitò la
Commissione e il Consiglio a congelare tutti i rapporti con la Spagna fino all’arrivo della libertà e
della democrazia.
Il Capo di Stato commutò sei delle pene capitano e confermò le altre cinque: questo fece scatenare
atti di protesta violenta contro la Spagna in tutto il continente, da Lisbona a Stoccolma.
I principali sindacati europei indissero immediatamente manifestazioni contro la Spagna e con
l’obiettivo di mettere sotto assedio l’ultimo bastione del fascismo in europa occidentale..
Il primo ottobre la Commissione diramò un comunicato in cui dichiarava l’impossibilità di continuare
i negoziati commerciali con la Spagna ed esprimeva il desiderio che il Consiglio li sospendesse.
Il 6 ottobre il Consiglio dei ministri sospese i negoziati con la Spagna e molti dei governi dell’europa
occidentale ritirarono il proprio ambasciatore da Madrid. Inoltre, il Portogallo chiuse le frontiere con
la Spagna e il governo del Messico chiese che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU sospendesse la

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Spagna come membro di pieno diritto dell’organizzazione e dispiegasse un’azione di forza contro un
regime che si poneva come una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali.
La Comunità europea, fatta eccezione per alcuni parlamentari europei, non si pose mai, all’epoca di
franco, come obiettivo essenziale della propria politica spagnola la difesa dei diritti fondamentali o
la promozione dei valori democratici, ma piuttosto lo sviluppo economico del paese in principio e,
più tardi,l’accesso al suo ampio mercato industriale, il che la portò più ad appoggiare il regime
franchista che a indebolirlo.
I governi di Madrid non trovarono nelle azioni della Commissione europea o del consiglio dei ministri
alcun reale incentivo neppure per cominciare a prendere in considerazione l’idea di portare a termine
un programma di riforma politica.
I rapporti tra la Spagna e gli Stati Uniti potrebbero essere definiti come peculiari, almeno, a partire
dal 1953. Da allora e tramite un accordo esecutivo, che non prevedeva ciò l’approvazione del Senato,
statunitense, il governo di Washington giungeva ad avere a disposizione basi militari in territorio
spagnolo.
La Spagna non faceva parte della Nato: per questo l’accordo del 1953 costituiva una risposta
alternativa all’interesse strategico di includere la Spagna nel meccanismo di difesa dell’Occidente di
fronte a una ipotetica minaccia sovietica.
L’accordo implicò un riconoscimento del regime franchista da parte della prima potenza occidentale
e un impegno di questa per la stabilità del dittatore e del suo regime, una stabilità che risultava
imprescindibile per l’utilizzo delle basi militari.
Questo avrebbe dato luogo a un tipo di rapporto tra Washington e Madrid molto diverso d quello
esistente fra Madrid e i governi e le opinioni pubbliche.
La Spagna rappresentava per gli Stati Uniti fondamentalmente una risorsa strategica importante, data
la sua posizione geografica: lo era nel 1953 e continuava ad esserlo durante gli ultimi anni di vita del
dittatore. Questa considerazione spiega il fatto che gli studi e le analisi sulla Spagna portati a termine
dell’altro lato dell’Atlantico si centravano sul mantenimento della stabilità e la salvaguardia degli
interessi militari statunitensi sul territorio.
La maggioranza dei governi dell’europa occidentale, seppure non avesse alcuna obiezione a
mantenere relazioni commerciali con l a Spagna e mostrasse privatamente la propria preoccupazione
per la stabilità futura del paese, non diede mai pubblicamente alcun segno di apprezzamento per il
capo di Stato spagnolo e per il sistema politico da lui fondato. Al contrario, is servizio prestato dalla
Spagna furono valutati sempre con grande positività a Washington.
Ad un primo livello di analisi, sembrerebbe logico concludere che il governo degli Stati Uniti avesse
meno scrupoli democratici dei suoi omologhi negli Stati europei e degli organi della Comunità. Certo
è che la differenza di valutazione del caso spagnolo si basava essenzialmente sugli interessi strategici
generali che gli Stati Uniti avevano assunto in nome della Nato e sugli interessi concreti in territorio
spagnolo.
Washington si era assunta la responsabilità di articolare a livello bilaterale l’inclusione della Spagna
nella difesa occidentale, poiché era politicamente impossibile che essa fosse ammessa nell’alleanza
atlantica. Da questo traeva beneficio tutta l’Organizzazione, ma solo Washington si assumeva il costo
politico derivante dal dover negoziare e stringere patti con il dittatore, che era il garante del sistema
che permetteva l’uso delle basi.
Il governo di Washington non si aspettava cambiamenti a breve termine nei suoi rapporti con la
Spagna e questo nonostante Madrid, seguendo la tendenza degli episodi precedenti, sollecitasse
l’innalzamento delegano dell’accordo a trattato, una garanzia di sicurezza reciproca equivalente
all’articolo 5 del Trattato della NATO e un sostanziale aumento degli aiuti militari.
Il rinnovo, nell’agosto 1970, per cinque anni non rispose a nessuna delle ripetute richieste di Madrid
fa. A partire dal 1969 Washington avrebbe dovuto ottenere l’accordo previo delle autorità spagnole
prima di riutilizzare le basi in caso di conflitto.
La stabilità futura del paese era l’asse principale introno al quale girava la politica spagnola degli
Stati Uniti. Due avvenimenti illustrano bene questo punto.

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Il primo è il Consiglio che Nixon forni all’allora principe di Spagna, Don Juan Carlos: la sua
principale preoccupazione , se l’eventualità avesse dovuto materializzarsi, doveva essere quella di
mantenere l’ordine pubblico prima di intraprendere grandi riforme.
Il secondo fu l’incarico presidenziale a Vernon Walters, attaché militare, perché domandasse a Franco
cosa avesse previsto dopo la propria morte. In realtà, l’obiettivo della visita era indagare la possibilità
che Franco, in vita, lasciasse la carica di capo dello Stato nelle mani di Don Juan Carlos per poter
così sovrintendere alla transizione ed evitare che il paese cadesse in una situazione caotica o
anarchica. Franco lo rassicurò sul fatto che la propria successione sarebbe stata ordinata, che non
c’era alternativa al principe, che la Spagna avrebbe conosciuto un’evoluzione ma che non si sarebbe
trasformata nell’America né nella Francia né nel Regno Unito e che le Forze Armate non avrebbero
mai permesso che il caos e l'anarchia si impossessassero del paese.
La forza delle affermazioni dello Stesso Franco non eliminava i dubbi: essi si cristallizzarono nella
convinzione che, per quanto franco e il suo regime fossero stati garanti efficienti della stabilità
spagnola, non sarebbe stato possibile ottenere lo stesso dopo la scomparsa del dittatore.
La stabilità della Spagna dopo la morte di Franco pareva possibile solo se il paese fosse stato ancorato
fermamente nell’area euroatlantica, il che, a sua volta, era concepibile solo con l’ingresso della
Spagna nella Nato. Ciò avrebbe richiesto l’omologazione del sistema spagnolo a quelli dei suoi vicini
europei.L’incognita era come ottenere questo risultato e non chi. Dal punto di vista statunitense,
l’unico punto non negoziabile era che la Spagna doveva permanere stabile e fermamente ancorata al
blocco occidentale.
Il rapporto precedentemente citato fu richiesto in vista del rinnovo dell’accordo che sarebbe scaduto
nel settembre 1975.

1975-1982: la monarchia
La morte di Franco non portò alla scomparsa dell’apparato istituzionale della dittatura. al contrario,
esso continuava a esistere con asola sostituzione di Franco da parte di Juan Carlos: è per questo che
il tema del che fare a partire a quel momento tra le forze favorevoli alla democratizzazione spagnola
ruotava intorno alla questione se fosse più consigliabile un’evoluzione del regime franchista verso la
democrazia o piuttosto una rottura immediata con quello, per dare vita, senza ulteriori dilazioni, a una
Spagna democratica. Il re aveva ereditato tutto il potere detenuto da Franco e ciò lo avrebbe
trasformato nella figura chiave per decidere quale cammino intraprendere.
Il Re doveva agire con il massimo tatto per poter percorrere un cammino tra i più tortuosi, perciò
aveva bisogno di tutti gli appoggi possibili tanto all’interno che all’esterno, sebbene a entrambi i
livelli la sua figura ispirasse più dubbi che fiducia.
Questo lo obbligava, all'estero, a spiegare a molti dei propri interlocutori il motivo di questa continuità
in un momento in cui li implorava di mantenere in vigore il credito aperto.
Durante gli ultimi mesi di vita del Generalissimo, Don Juan Carlos era stato esplicito nell’esprimere
il proprio favore rispetto alla democratizzazione del paese, il che implicava , a suo parere, le
dimissioni di Arias e la nomina di un nuovo primo ministro che potesse dare credibilità al processo
di riforma.
Di che credito disponeva la nuova Spagna? Don Juan Carlos aveva suscitato simpatie in modo
generalizzato e buona parte dei governi occidentali era disposta a concedergli un periodo di grazia,
cosa di cui l’amministrazione franchista non esitò ad approfittare immediatamente. Così i responsabili
della politica comunitaria nell’amministrazione spagnola ingorgarono le delegazioni della Comunità
europea alla cerimonia funebre e di incoronazione.
Era evidente da oggi punto di vista che la nuova prospettiva era l’adesione. Un mese dopo la morte
di Franco era già stato deciso che l’adesione alla Comunità europee era l’una obiettivo di ogni futuro
negoziato con Bruxelles, visto che tanto la Corona come il suo primo governo, operativo dal 12
dicembre, si erano impegnati a portare a termine un processo di convergenza istituzionale in direzione
dei sistemi democratici esistenti in Europa occidentale.

39
Il Re e il suo governo speravano che la mera manifestazioni di un desiderio di cambiamento in senso
democratico potesse servire come merce di scambio. All’inizio del 197, in un tour per le capitali degli
Stati membri della Comunità e la Commissione, Areliza annunciò che Madrid aveva intenzione di
richiedere il proprio ingresso nella Comunità una volta che il programma di riforma politica fosse
riuscito a portare il paese alla democrazia. si dava per scontatoli successo della riforma politica e si
reclamava un appoggio esplicito e immediato al governo spagnolo, sebbene l’unica prova che si
portava dietro in termini di democratizzazione era la credibilità personale del Ministro e del re.
La prima cosa che Areilza scoprì era che il credito cui si alludeva prima non era illimitato, nel senso
che i suoi interlocutori europei fossero disposti ad avvallare qualunque cosa l Spgna volesse far
passare per democrazia: tuttavia, il credito esisteva.
Nonostante quello che veniva annunciato da Bruxelles, la situazione in Spagna non presentava ancora
alcun segno di evoluzione democratica. Rispetto ai diritti politici e sindacali, ad esempio, nulla era
cambiato con l’arrivo della monarchia dSecondo la Confederazione europea dei sindacati, la
democratizzazione annunciata dal governo spagnolo non aveva eliminato nessuna delle eredità del
franchismo, né la legislazione né le pratiche repressive. E nemmeno era stata modificata di una virgola
l’avversione che gli elementi più recalcitranti e reazionari del regime provavano le le democrazie
europee.
Risulta interessante che né il Consiglio dei ministri della comunità, né la Commisione ritenessero
necessario aspettare almeno la presentazione del programma di del governo del primo ministro Arias,
annunciata per il 28 gennaio, prima ridare un appoggio gratuito al primo ministro della monarchia.
Tale comportamento non offriva alcun incentivo per una rapida democratizzazione. di fatto, le
principali forze spagnole favorevoli alla democrazia, la maggioranza delle quali era ancora illegale,
avevano chiesto alla Comunità, precisamente, che non venissero ripresi i colloqui con i rappresentanti
ufficiali del governo della Monarchia.
I governi dei nove, guidati da membri dell’Internazionale Socialists, non rispettarono gli accordi della
stessa del novembre 1975, secondo i quali la posizione della comunità nei confronti della Spagna
avrebbe dovuto cambiare solo se il governo della monarchia si fosse diretto con passo fermo verso la
democratizzazione.
Nonostante l’iniziale posizione favorevole della Comunità, il governo spagnolo dovette affrontare le
critiche dei propri interlocutori europei a mano a mano che lo stato di grazia del re del suo governo
si andava sgretolando. Nel giugno 1976 Areilza aveva già perso la pazienza di fronte alle insistenze
critiche di alcuni europei che pretendevano prove di democratizzazione.
Il ministro spagnolo aveva sbagliato mira. I suoi interlocutori europei, sebbene estesero prova di un
programma di riforma che veniva menzionato a sazietà ma di cui non esistevano riscontri da nessuna
parte, non erano disposti a stabilire le condizioni necessarie e sufficienti per rilasciare alcun cercato
di democratizzazione.
L’atteggiamento occidentale in generale sarebbe stato quello di aspettare e vedere, invece che
intervenire direttamente degli affari interni spagnoli. Non sembrava invece esserci alcuna necessità
di farlo, dato che i temi chiave della politica statunitense e occidentale rispetto alla Spagna dalla morte
di Franco, cioè evoluzione democratica e stabilità politico-sociale, erano patrimonio anche del re e
delle principali forze politiche del momento.
I principali governi occidentali ritenevano che sarebbe stata più efficace una influenza indiretta,
quella che sarebbe derivata dall’orientare la Spagna a non restare esclusa dai meccanismi di stabilità
che l’appartenenza alla Nato e alla Comunità poteva rappresentare.
Consapevole che gli ostacoli al conseguimento di queste mete stavano, quasi esclusivamente, nella
mancanza di collaborazione di molti dei governi europei avevano riposto della monarchia, e la
differenze tra le posizioni degli Stati Uniti rispetto a quelle degli Stato dell’europa occidentale
cominciarono a farsi più evidenti.
Gli europei, pensava Kissinger, erano immersi in litigi e rivalità paralizzanti e i loro sistemi
parlamentari, sottomessi alla dittatura dei principi democratici a oltranza, erano poco efficaci. Le
parole del segretario rispondevano meglio al programma che Areilza andava predicando nelle
cancellerie europee, cioè che le riforme interne in Spagna e la sua normalizzazione internazionale

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dovessero vare un’evoluzione parallela e non, come desideravano gli europei, che la seconda fosse
condizionata dal successo delle prime.
La posizione da adottare di fronte a quello che gli Stati Uniti rappresentavano divise la classe politica
come fecero pochi altri temi. Se i riformisti facevano resistenza ad alterare lo status quo fino a che la
democrazia non si fosse consolidata, i rotturisti invocavano l’immediato ritiro delle truppe statunitensi
dalle basi in territorio spagnolo e la trasformazione della Spagna in paese neutrale.
Riguardo al primo punto, Kissinger osservò che, con l’arrivo del re la possibile evoluzione della
Spegnale in un regime democratico, c’era la possibilità che il Senato del suo paese facesse cadere le
obiezioni che aveva avuto fino a quel momento. Kissinger avrebbe anche potuto aggiungere che la
promozione del rango dei rapporti tra i due paesi non avrebbe incontrato maggiori difficoltà, perché
l’amministrazione Ford non aveva la minima intenzione di far sì che questo implicasse, in pratica,
nessun compimento sostanziale nei rapporti ispano-statunitensi. Nemmeno il ritiro dei Polaris poneva
il minimo problema poiché, di fatto, era già stato previsto.
Il nuovo raccordo, sotto forma di trattato di milizia e cooperazione, fu firmato il 24 gennaio 1976 a
Madrid. Mancava solo la ratifica del Senato statunitense. Non è possibile precisare con esattezza il
ruolo giocato dalla nuova impressione suscitata dal re Juan Carlos nella sua vita negli Stati Uniti
durante il giugno dello stesso anno.
All’effetto causato dalla visita reale bisogna aggiungere, senza dubbio, i rapporti positivi inviati
dall’ambasciatore Stabler. Il momento più importante di questa visita fu il discorso, redatto con la
collaborazione dell’ambasciatore, pronunciate dal re di fronte al Congresso il due giugno, col quale
mostrò l’impegno inequivocabile della monarchia per il futuro democratico della Spagna. Il fatto in
sé costituiva una prova di fiducia più che considerevole, poiché si trattava di un re precostituzionale,
erede di un dittatore, si rivolgeva alla sessione congiunta di entrambe le camere del Congresso degli
Stati Uniti. Il risultato finale era che il governo degli Stati Uniti mantenne lo status quo senza alcuna
difficoltà e che i rapporti bilaterali continuarono a essere sbilanciate come durante il periodo
franchista.
La nota dominante era la mancanza di un vero cambiamento nella direzione di un autentico
consolidamento democratico, da un lato, e dall’altro di un vero ancoraggio del regno nella comunità
dei paesi più affini. Buona parte della mancanza di cambiamento si localizzò nella figura del primo
ministro.
La verità è che la monarchia poteva sopportare molte cose, ma non la mancanza di iniziativa nel senso
del cambiamento che il re pretendeva che il governo pilotasse.
All’inizio del luglio 1976, il re pretese le dimissioni di Arias e lo sostituì con Suarez, un uomo che,
avendo fatto carriera all’interno del movimento Nacional, riceveva un mandato reale per guidare
l'evoluzione della Spagna fino alla normalizzazione democratica, tanto all’interno quanto all’esterno.
La nomina suscitò un insieme di sorpresa e curiosità nelle cancellerie straniere a Madrid, però si
dimostrò subito efficace nell’evidenziare l’arrivo di tempi nuovi.
Risulta imprescindibile sottolineare che, nonostante l’importanza delle riforme interne nell’agenda
del nuovo governo, durante la seconda riunione del nuovo governo fu già discussa la questione delle
future relazioni con la Comunità. Durante i primi mesi del governo Suarez la priorità in politica estera
si orientò di nuovo, in maniera decisa, sul fronte europeo, per una ragione fondamentale: il governo
Suarez era stato ricevuto dalla Comunità il 6 luglio, con un nuovo mandato negoziale del Consiglio
alla Commissione nel quale si manteneva, punto per punto, la stessa posizione dei due mandati
precedenti. Desiderando offrire le garanzie di una trasformazione democratica che gli avrebbero
garantito una appoggio effettivo da parte della Comunità, Suarez si recò a Parigi, il 13 luglio 1976,
dopo aver ricevuto le opportune istruzioni dal re, per consultare il presiedere d’Estaing e il suo primo
ministro Chirac.
Per Suarez, l’incontro con il Presidente francese che aveva dichiarato la sua volontà di fare da padrino
al nuovo re e alla nuova Spagna, fu freddo, con poco feeling personale fra i due, come raccontarono
i cronisti dell’epoca.
Né per la Francia né per il Consiglio dei ministri della Comunità europea né per la Commissione
europea il governo Suarez meritava un trattamento migliore rispetto all’ultimo governo della dittatura

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o al primo della monarchia. Non c’era quindi tempo da perdere rispetto al fronte europeo se si
desiderava dare rilievo alle differenze politiche con i suoi predecessori.
C’era molto in gioco per il governo, la monarchia e forse anche il paese. Dato che la trasformazione
politica si stava attuando a partire dalla continuità istituzionale e legale con l’ancien regime sembrava
necessario che l’Europa, cui gli spagnoli dopo anni di propaganda da parte del governo e praticamente
di tutte le forze di opposizione attribuivano uno strano potere di legittimazione e avallo, desse
sostegno al progetto politico in forma embrionale perché ogni aiuto risultava insufficiente rispetto
alle enormi resistenze.
Le condizioni offerte dal mandato negoziale comunitario erano inammissibili da qualsiasi punto di
vista. Le esigenze di liberalizzazione commerciale venivano accompagnate da concessioni di valore
inferiore a quelle accordate al franchismo con l’accordo del 1970.
Il motivo di questa scelta era semplice: i Nove volevano ottenere le massime concessioni possibili
prima che un governo spagnolo pienamente democratico potesse avanzare una richiesta di adesione.
L’unica alternativa possibile fu quella di posporre i negoziati bilaterali fino all’inizio dell’estate del
1977, quando era previsto il culmine della prima tranche di riforme politiche che avrebbero portato
alla nascita di un sistema genuinamente democratico che avrebbe permesso al regno di Spagna di
richiedere apertamente l’adesione. Pertanto il governo Suarez si vide forzato a seguire le stesse
tattiche dilatorie delle precedenti amministrazioni spagnole, ma con una differenza essenziale: per la
prima volta si trattava di una strategia negoziale con una data di scandenza.
Il rifiuto ufficiale della Spagna di negoziare sulla base del nuovo mandato fu interpretato a Bruxelles
e a Bonn come un raffreddamento dell’europeismo di cui facevano mostra i nuovi membri del
governo di Madrid. Rappresentanti della Commissione e del governo tedesco credevano di percepire
che la Spagna fosse meno ansiosa di appartenere alla Comunità rispetto a prima e spiegavano
l’indecisione con la presa di coscienza, da parte dell’amministrazione spagnola, della completa
mancanza di preparazione del paese rispetto alle sfide che l’adesione avrebbe comportato.
La logica spagnola era completamente diversa: l’imminenza della richiesta di adesione era quello che,
di fatto, garantiva che il paese si preparasse a tappe forzate per adempiere tutti i criteri necessari per
diventare membro a pieno titolo, in un futuro non molto lontano. Fino a quel momento, la Comunità
non avrebbe dovuto fare pressioni perché la Spagna adottasse alcuna misura estrema.
Una delle differenze fondamentali tra le coppie Arias/Areilza e Suarez/Oreja era che la seconda
capiva perfettamente che l’anelata normalizzazione internazionale avrebbe richiesto alcune riforme
preliminari che affermassero in modo fermo e inequivocabile un futuro democratico per la Spagna.
La priorità del governo spagnolo in politica estera, dall’estate 1976, era che gli alleati occidentali non
rendessero più difficile il processo di riforme politiche che venivano realizzate all’interno del paese.
Scelta l’evoluzione come percorso per trasformare la Spagna in una democrazia, la questione era
come portarla a termine in un tempo ragionevolmente rapido.
La via prescelta fu quella della riforma legale a partire dal quadro istituzionale del franchismo, ossia
far sì che i rappresentanti nelle istituzioni della dittatura accettassero di portare a termine una riforma
istituzionale sulla base della propria legalità franchista per dare vita a una democrazia sotto la quale
molti di essi avrebbero dovuto considerare conclusa la propria carriera politica e nulli i privilegi da
essa derivati.
Di fronte alla prova del fatto che il governo suarez si era incamminato su un percorso costituente, il
Consiglio dei ministri della Comunità, che avrebbe dovuto aver approvato i termini del nuovo
mandato negoziale durante la sua riunione del 20 settembre, decise che i rappresentanti permanenti
avrebbero dovuto continuare a cercare un’ipotesi maggiormente conciliante rispetto agli interessi
espressi dal governo spagnolo. L’azione governativa a favore della democrazia stava risultando più
efficace.
Tuttavia, il conciliante atteggiamento iniziale non durò a lungo e presto il governo spagnolo non
ricevette il sostegno sperato al di fuori delle frontiere del Regno, né in Europa né negli Stati Uniti.
I Nove si dimostrarono incapaci di adottare una posizione comune di fronte alle prospettive
democratiche che parevano aprirsi in Spagna.

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L’inizio dei negoziati di adesione con la Grecia alla fine di luglio 1976 aveva mobilitato tutti quei
settori che si contrapponevano a un nuovo ampliamento della comunità ai paesi del fianco sud e
povero dell’europa. Il governo danese giunse a minacciare di denunciare l’accordo del 1970 se
l’aggiornamento dell’accordo bilaterale con la Spagna non si fosse adattato, alla fine, alla Comunità
allargata. Il governo spagnolo propose un protocollo.
I Nove non accettarono di appoggiare lo sforzo politico che il governo Suarez stava dispiegando, il
che deluse enormemente Madrid. Per gli spagnoli questo gesto avrebbe apportato un aiuto politico
esterno e credibilità internazionale a un governo che, nonostante l’oceano di difficoltà in tutti campi
che doveva affrontare, stava pilotando con mano ferma la transizione dall’autocrazia alla democrazia.
La sostituzione di Ulastres con Bassols nel dicembre 1976 e l’inizio dell’incarico di una nuova
Commissione nel gennaio 1977 segnalarono la possibilità di di avviare una nuova tappa sgombra dei
pregiudizi di epoche passate.
Rompere i ponti con il passato era possibile solo se la Spagna e la Comunità avessero intrapreso i
negoziati per l’adesione. in tal caso, tutti i conti in sospeso avrebbero potuti essere pagati, in cambio
del guadagno fondamentale rappresentato dall’adesione.
Per questo, ai primi di gennaio 1977 il governo prese la cruciale decisione di dare il via ai preparativi
per l’adesione. L’ipotesi di lavoro dell’amministrazione spagnola era che il governo uscito dalle
prime elezioni democratiche, che sarebbero state convocate prima dell’estate in una data ancora da
definire, avrebbe fatto domanda di adesione alle comunità europee e che questo sarebbe avvenuto a
prescindere dal colore politico del governo.
Ciò che importava, a quel punto, era che i rappresentanti di tutti i ministeri interessati trovassero un
modo per escogitare una soluzione al polemico dossier dell’aggiornamento dell’accordo del giugno
1970 alla realtà di una Comunità economica europea allargata dal primo gennaio 1973, cioè al
principale conflitto aperto con i Nove.
Nessuno pareva disposto ad accettare le conseguenze liberalizzartici che l’estensione della comunità
avrebbe comportato.
Di fronte all’impossibilità di trovare un accordo sui termini di questo aggiornamento, il Consiglio dei
ministri della Comunità, il 5 aprile 1977, decise di dare istruzioni alla Commissione perché elaborasse
un protocollo addizionale all’accordo con la Spagna. Nello stesso atto il Consiglio diede avviso di
aver ricevuto la richiesta portoghese di adesione datata 28 marzo. Il contrasto non poteva essere più
brutale: mentre Portogallo e Grecia erano già davanti alla porta principale della Comunità, la Spagna
continuava a lottare nel vicolo sul retro.
La possibilità che la comunità denunciasse l’accordo del 1970 era, per la prima volta, reale se il
governo spagnolo non avesse accettato, prima del 30 giugno, i termini del protocollo di estensione
dell’accordo a Danimarca, Gran Bretagna e Irlanda. La denuncia dell’accordo del 1970 sembrava una
minaccia resa e e tangibile per l’unico governo spagnolo che stava facendo passi da gigante rispetto
alla democratizzazione in Spagna.
La Comunità europea era completamente sfuggita a questa logica. Ciononostante si contava sul fatto
che, dopo le elezioni del giugno 1977, il governo avrebbe potuto obbligare la Comunità a disegnare
una politica nei confronti della Spagna più rispondente alle condizioni politiche del paese. I principali
governi dei Nove presero posizione rispetto a una possibilità sempre più vicina.
Il dibattito sulla Spagna si concentrò su due posizioni estreme:
1) Quella guidata dall’Inghilterra, in cui l’allargamento della Comunità a Spagna, Portogallo e Grecia
aveva un significato politico chiaro, data la sua capacità di consolidare le transizioni ed evitare
involuzioni del fianco sud del continente;
2) Quella sponsorizzata dalla Francia, in cui prima di procedere a qualsiasi allargamento della
Comunità era necessario portare a termine tutto un insieme di riforme istituzionali e di altra natura.
É interessante notare che, per il resto dei principali dossier in politica estera, l’azione del governo fu
decisiva nel far sì che il panorama internazionale aiutasse a rafforzare le politiche di consolidamento
del consenso che l’eccezionale situazione spagnola allora richiedeva.
A partire dalla celebrazione delle prime elezioni democratiche nel giugno 1977, la sensazione che la
fase più critica della transizione fosse passata, anche se il passe non avrebbe avuto una costituzione

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democratica fino al dicembre dell’anno successivo, aiutò a diminuire ulteriormente l’interesse da
parte della Casa Bianca verso la questione spagnola.
A partire da quel momento i due grandi tempi internazionali sarebbero stato il doppio ingresso nella
Comunità europea e nella Nato.
Se il primo era una questione che sfuggiva completamente agli Stati Uniti, anche il secondo, che
interessava Washington per motivi strategici, si scontrava con un doppio fattore di resistenza.
Il principale ostacolo risedeva in una combinazione tra l’opposizione dei membri europei all’Alleanza
e della stessa opinione pubblica spagnola.
L’antiamericanismo che caratterizzava buona parte della classe politica e della popolazione spagnola
continuava a manifestarsi con forza.
L’unica conseguenza rilevante ottenuta da Suarez nella sua visita a Washington fu il rinnovato
appoggio dell’amministrazione Carter all’ingresso della Spagna nella Nato.
La sconfitta repubblicana del novembre 1976 aveva portato all’uscita di scena dalla Casa Bianca di
Ford e Kissinger e questo provocò un notevole cambio di atteggiamento a Washington rispetto ai
partiti comunisti dell’Europa occidentale.
L’anticomunismo dell’europa occidentale, fatta eccezione per le dittature iberiche, non raggiunse mai
i libelli di veemenza statunitense, né alcuno Stato europeo prese mai le armi per combattere il
comunismo al di fuori delle morire frontiere come fecero gli Stati Uniti in America Latina e nel sud-
est asiatico.
All’inizio del decennio degli anni Settanta l’eurocomunismo, guidato da Berlinguer, sembrava aver
preso le distanze dal comunismo sovietico, aveva espresso la propria volontà di accettare il
pluripartitismo proprio delle democrazie occidentali e tutto questo pareva essere accolto con estremo
interesse dai governi dell’area, ma non da Washington e da colui che allora ricopriva la carica di
segretario di Stato. Kissinger non condivise mai l’idea che l’opzione eurocomunista ponesse più
problemi all’Unione Sovietica, creando così una crepa nel blocco ideologico che essa voleva guidare
con mano ferrea durante il periodo della Guerra fredda, che all’Occidente. La legalizzazione del PCE
avvenne per una forte pressione interna. L’aiuto fondamentale all’opposizione fu quello della
socialdemocrazia tedesca di Brandt e Schmidt e questo non arrivò al PSOE di Gonzales se non dopo
una radicale presa di stanza dalla linea di azione tradizionale.
La Ostpolitik di Brandt, basata sull’idea di promuovere il cambiamento nei sistemi non democratici
tramite rapporti più stretti, aveva una sua versione alla spagnola: solo una progressiva
europeizzazione della Spagna franchista sarebbe sfociata in modo naturale, cioè senza costumi, nella
normalizzazione democratica del paese.
A partire da questo momento la Spagna si incamminava inequivocabilmente sulla strada della
democrazia, tanto nella sua dimensione interna quanto in quella internazionale.
Non ci fu mai unanimità riguardo al momento esatto in cui la Spagna avrebbe potuto essere
considerata una democrazia, né sul momento più adatto per richiedere l’adesione alle Comunità con
una piena garanzia di accettazione. Il responsabile dell’area del Mediterraneo nella direzione generale
per le relazioni esterne della Commissione europea, Duchateau, era dell’idea che il mero fatto di
celebrare libere elezioni non fosse sufficiente per rilasciare il certificato di democrazia a un sistema
politico e suggerì a Madrid di fare domanda di adesione cinque mesi dopo le elezioni del giugno
1977. A Madrid Duchateaun anticipò che tale domanda sarebbe stata avanzata nell’autunno del 1978.
Il governo Suarez improvvisò e corse il rischio perché non aveva altro soluzioni. Quattro circostanze
spiegano la sua fretta:
1) la strategia di ottenere benefici commerciali di uno status prossimo all’associazione senza pagare,
per questo, alcun pedaggio non era possibile dopo il 31 luglio 1977;
2) l’imminente entrata in vigore, il primo luglio 1977, dell’allargamento a 200 miglia nautiche delle
acque territoriali di pesca esclusiva della CEE obbligava a espellere, quasi completamente e
immediatamente, la flotta peschereccia spagnola, il che avrebbe avuto un impatto su specifiche
regioni della Spagna coinvolte in processi di riconversione industriale di enorme portata o in regioni
a forte instabilità politica e sociale;

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3) la necessità, quasi imperiosa, di raggiungere la Grecia e il Portogallo per legare il destino dei tre
paesi rispetto alla Comunità. Si voleva così sottolineare la dimensione politica di consolidamento
democratico che un allargamento a Sud avrebbe portato per i tre paesi recentemente usciti
dall’autoritarismo;
4) tutto ciò avrebbe ridotto in proporzione il coro di voci contrarie che erano già emerse da ogni lato
per i problemi che avrebbe comportato l’incorporazione di paesi tanto poveri rispetto alla media
comunitaria.
Tutto ciò aveva una sola via d’uscita: riunire tutti i dossier aperti in uno solo, che avrebbe permesso
che ogni concessione da parte del governo spagnolo ottenesse in cambio il maggior guadagno che si
potesse allora immaginare, l’incorporazione del regno di Spagna alle Comunità europee, riflesso della
democratizzazione interna e della normalizzazione internazionale.
La risposta della Comunità non fu immediata, né giunse redatta con una formula che potesse essere
di molto aiuto per il consolidamento democratico spagnolo.
L’ingresso della Spagna nel Consiglio d’Europa, formalizzato il 24 novembre 1977, fu un’altra storia,
che generò due principali illusioni.
La prima era la relativa facilità con la quale si sarebbe ottenuta la normalizzazione internazionale,
dato che l’adesione al Consiglio d’Europa fu ottenuta nonostante il fatto che il paese fosse privo di
una costituzione democratica, condizione imposta al Portogallo quattordici mesi prima.
La seconda illusione era che le principali forze politiche spagnole avrebbero mantenuto un accordo
di base in materia di politica estera e di sicurezza.
La transizione democratica spagnola conobbe un punto di svolta determinante con la Costituzione.
Nel loro lavoro, i redattori della Costituzione ricorsero sistematicamente all’insieme dei testi
costituzionali offerto dai paesi democratici, fra i quali ebbero un ruolo preminente le costituzioni
europee, che servirono come modelli da seguire.
Per ogni quesitone sottoposta a dibattito, i membri della costituente dovettero raggiungere il consenso
fra le posizioni, spesso opposte, dei principali partiti politici spagnoli che erano emersi dalla dittatura
divisi e su questioni tanto basilari come la forma che avrebbe dovuto adottare il sistema politico in
democrazia o i fondamenti sociali ed economici della nuova nazione.
L’influenza dei modelli europei sulla Costituzione del 19798 fu facilitata da due fattori:
1) il mero appello all’Europa presupponeva, già di per sé, un elemento che facilitava il consenso;
2) fu ai diversi modelli europei in vigore che si pensò quando giunse il momento di trovare soluzioni
ai problemi per i quali il costituzionalismo storico spagnolo non era stato in grado di escogitare ricette
di successo. Fra questi problemi ebbe un’importanza decisiva quello della stabilità di governo, che
per molti dei costituenti andava garantita come requisito imprescindibile per assicurare la stabilità del
sistema poltiico nel suo insieme.
Il programma con cui Suarez si era presentato alle elezioni (e le aveva vinte) comprendeva anche una
posizione favorevole all’adesione della Spagna all’Alleanza atlantica. Questa opzione acquistò
rilevanza quando nell’80 il presidente francese d’Estaing, per ragioni strettamente elettorali, decise
di imporre il blocco ai negoziati per l’adesione della Spagna alla CE, e rimandando sine die i vantaggi
elettorali che questa avrebbe procurato al terzo governo Suarez, assediato dalla crisi economica e
sociale, e dai partiti d’opposizione che riuscirono a sfiduciarlo. Il suo successore, Calvo-Sotelo,
continuò però sulla linea di Suarez, scatenando la reazione di Gonzàlez e del PSOE.
Di fronte a questo atteggiamento cercò l’appoggio esterno che, rispetto all’intransigenza socialista,
sembrava poter giungere soltanto dalla Germania federale, da sempre favorevole all’ingresso della
Spagna nella NATO. Contribuì ad accelerare la vicenda della veloce incorporazione all’Alleanza
atlantica l’insoddisfazione dell’atteggiamento degli USA rispetto alle necessità strategiche del paese
e del suo governo. In primo luogo l’atteggiamento degli USA era quanto meno ambiguo e la sicurezza
del paese non poteva essere riposta in un piano bilaterale con Washington. In secondo luogo, la
stabilità ad ampio raggio della democrazia richiedeva di modernizzare e occidentalizzare le forze
armate per poter così porre fine alla catena di cospirazioni da parte degli elementi più recalcitranti
dell’esercito, tese ad identificare un’evoluzione politica con la quale non si erano mai identificati.
L’incorporazione della Spagna nella NATO si era trasformata in una questione di sicurezza nazionale:

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questo fu il messaggio con cui Calvo-Sotelo difese la sua richiesta di autorizzazione parlamentare per
procedere all’Adesione della Spagna alla NATO. La resistenza di alcuni settori delle forze armate
divenne palese quando un gruppo di ufficiali e di militari tentò il colpo di stato, assaltando il
parlamento nell’81. La risoluzione passò con una discreta maggioranza ma il PSOE diede vita ad una
forte campagna contro l’ingresso nella NATO. Il 28 ottobre 82 il partito di Gonzàlez vinceva le
elezioni generali, e poco tempo dopo annunciò la paralisi del processo di incorporazione della Spagna
nelle strutture dell’Alleanza fino a che il governo non avesse potuto valutare la situazione. Il governo
di Gonzàlez non avrebbe però tardato a comprendere come l’adesione alla NATO e quella alla CEE,
fossero due questioni interconnesse.
La transizione esterna della Spagna si completò solo nel 1986, quando con il suo ingresso nella
Comunità vennero anche ridefiniti i rapporti tra la Spagna e l’Alleanza (forze militari inquadrate nella
NATO ma sotto il controllo diretto del governo spagnolo

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