Sei sulla pagina 1di 267

Il libro

Foreste maledette, esseri con la testa di lupo, serpenti che


appaiono nei sogni e la Cosa che salì dal profondo... Ma anche
uomini che combattono il male con la spada, perché quando i
demoni prendono forma terrena e sciamano nel mondo,
possono essere fermati con la forza dei migliori. In questo ricco
volume, il primo di due, i racconti horror di Robert E. Howard
sono accompagnati dalle leggende dei tempi più remoti, gli
stessi in cui affondano le radici del folklore. Solomon Kane,
Bran Mak Morn e altri personaggi dell’universo nero di
Howard si battono contro il soprannaturale, mentre negli ottimi
racconti “regionali” la scena è oggi, nel Southwest dei deserti o
tra le acque delle paludi, dove i discendenti degli schiavi
praticano ancora il voodoo. Una galleria sanguigna e
sanguinosa come il suo autore, il bardo di Cross Plains.
L’autore

Robert E. Howard Nato nel 1906 e suicidatosi nel 1936, visse in


un villaggio al centro dello Stato del Texas. Suo padre era un
medico che non aveva mai conseguito la laurea, sua madre una
casalinga fortemente attaccata all’unico figlio. I racconti di
Howard, che riflettono una personale concezione della vita “in
nero”, sono considerati tra i capolavori del fantastico nel XX
secolo. Persino le avventure del suo personaggio più famoso,
Conan il barbaro, si tingono molto spesso di magia e orrore.
I FIGLI DELLA NOTTE
RACCONTI DELL’ORRORE VOLUME 1

A Karen e Greg Staples


L’ORA DEL LUPO
di Giuseppe Lippi

I racconti dell’orrore di Robert E. Howard – famoso creatore del barbaro


sperduto tra gli orrori della civiltà, Conan il cimmero – si dividono in tre
gruppi: quelli ispirati alla tradizione europea o orientale; quelli che
sviluppano la mitologia lovecraftiana di Cthulhu e, infine, le storie
ambientate nel mondo semimoderno del Sudovest americano, dai deserti del
Texas-Nuovo Messico alle case infestate della Louisiana. C’è poi un gruppo
di avventure, che a rigore non rientrerebbero nell’orrore puro, in cui eroi
contemporanei o presi a prestito da altre saghe howardiane (Steve Costigan,
Bran Mak Morn, Kull, Solomon Kane) si battono contro i figli della notte, le
forze del male scaturite dall’abisso dei tempi. Nella raccolta completa delle
Horror Stories of Robert E. Howard (Del Rey, 2008), da noi suddivisa in
due parti, il materiale è presentato cronologicamente, mentre reperti poetici o
frammenti venuti alla luce dopo la morte dell’autore sono alternati seguendo
una logica interna.
Howard scrive horror istintivamente come ogni altro genere avventuroso,
e altrettanto consapevolmente ne fa lo specchio magico in cui proietta le sue
paure, i terrori che cova da sempre. Questo figlio di pionieri, di gente nata
quando ancora esisteva la frontiera, è un uomo grande e grosso nel corpo
ma fragile nello spirito, che è quello di un novelliere insicuro e di un poeta. I
suoi versi, ricchi di immagini risonanti e a volte splendide, sono intarsi
fantastici che rispecchiano stati d’animo turbolenti e trasportano la sua
profonda malinconia su un piano epico. Anche nei racconti d’azione la vita
è una bolgia cremisi di delusioni e combattimenti inutili, di spauracchi e lotte
all’ultimo sangue contro forze ostili soverchianti. Il mondo howardiano, che
L. Sprague De Camp definiva “un universo di distruzione totale”, è costruito
intorno all’idea amara ma in fin dei conti realistica che nulla può durare, gli
avventurieri conquistano tesori che poi vengono perduti, gli imperi si
dissolvono “come spuma nel mare”. Niente è stabile perché su tutto governa
la morte, ed è vero che anche gli eroi più forti hanno dentro di sé something
to do with death, come diceva Jason Robards alla fine di C’era una volta il
West. Per Howard questo tratto psicologico non è limitato a una sola
categoria di persone ma è il destino palese di tutta l’umanità: vivere con la
morte addosso, non potersene liberare nemmeno al momento del trionfo.
Questa durezza, insolita per un autore moderno – ma non per un cantore
epico della forza –, è uno dei caratteri più notevoli del Robert E. Howard
autore di fantasy, racconti storici e d’avventura, e ne fa una sorta di bardo
americano. I suoi violenti racconti di battaglia dicono che vale sempre la
pena battersi per affermare la dignità umana e l’istinto di sopravvivenza:
come nei poemi omerici o nelle saghe nordiche, quanto più crudele è il
destino, tanto più valoroso è chi lo affronta.
Nella produzione dell’orrore il dramma sta nel rapporto stesso con la
realtà: scenari dell’incertezza suprema racchiudono un mondo che si
trasforma ingannevolmente sotto i nostri occhi, come un miraggio. Il baratro
che si spalanca è definitivo, non c’è risalita, e la morte si serve di agenti
subdoli come le pratiche occulte. Di magia indiana, fatture messicane,
tradizioni popolari di frontiera il giovane Howard aveva sentito spesso
parlare: ora da una domestica nera, ora dai contadini e fattori della zona. Nei
loro resoconti, assorbiti fin dall’infanzia come fiabe del focolare, non c’è
l’umorismo dei racconti western con Breckinridge Elkins che Howard
scriverà a lato di quelli orrifici, né l’appetitosità dei fantasy; tutto si svolge
secondo un copione che non risparmia nessuno, dall’alba dell’umanità.
Ma è esistita un’alba dell’uomo oppure, come il nostro sembra dirci, è
stato sempre buio, una lunghissima ora del lupo da cui ci stiamo appena
svegliando per prenderne consapevolezza? Le ombre si agitano in ambienti
americani riconoscibili e ben tratteggiati, lande deserte o ai confini della
civiltà, epoche remote la cui barbarie non è inferiore alla violenza del mondo
contemporaneo. Una volta letti di seguito tutti gli horror howardiani (come
qui sarà possibile fare), ci troveremo di fronte a una demonologia
comparata, a un’antropologia della paura in cui anime primitive danzano al
ritmo barbarico di un gong. Questa visione sanguigna e rutilante, terrificante
ma a tutto tondo, è la canzone che Howard ci ha lasciato in eredità, ricca di
furore creativo e genuina nostalgia per uno scenario spazio-temporale più
vasto di quello reale.
In definitiva, l’uomo che sa di morte è Howard stesso. Nato a Peaster,
Texas, nel gennaio 1906, è figlio di un medico di campagna, Isaac Mordecai
Howard, e di una donna pioniera, Esther Jane Ervin. La famiglia, sempre
unita, vivrà in molte comunità dello Stato prima di stabilirsi a Cross Plains
nel 1919, cittadina dove Howard trascorrerà il resto della vita. Frequentate le
scuole a Brownwood, dopo qualche tentativo di prendere un diploma
commerciale rinuncia all’università e si dedica a svariate attività pratiche, da
barista a corrispondente di un giornale petrolifero. Comincia a scrivere
giovanissimo e pubblica il primo racconto, Spear and Fang, a diciott’anni.
Dal 1924 al 1936 la scrittura per i pulp magazine diventa la sua principale
attività professionale. Dopo un lungo flirt con l’insegnante Novalyne Price,
che in seguito gli dedicherà un libro di memorie, Robert si consacra alla cura
della madre invalida; ma all’annuncio che la donna è entrata in coma
irreversibile, la mattina dell’11 giugno 1936 il giovane scrittore si spara un
colpo alla tempia, mettendo fine a un’avviata carriera letteraria.
Dalle sue opere sono stati tratti cinque film (Conan il barbaro, Conan il
distruttore, Kull, Red Sonja alias Yado e il remake del primo Conan),
mentre un sesto, biografico, è stato ricavato dalle memorie di Novalyne
Price con il titolo Il mondo intero. Howard deve la sua fortuna a riviste
come “Weird Tales”, “Strange Tales” e alle successive ristampe, ma solo
oggi gode di una certa notorietà fuori della cerchia degli specialisti di
letteratura fantastica.
NELLA FORESTA DI VILLEFÈRE

Il sole era tramontato e le ombre si allungavano vaste sulla foresta. Nel


magico crepuscolo della giornata estiva, il sentiero mi si stendeva davanti tra
i maestosi alberi, per poi scomparire. Guardai indietro con un brivido di
paura. Miglia e miglia distava il villaggio più vicino alle mie spalle, miglia e
miglia il primo di fronte a me.
Mentre procedevo, mi gettavo occhiate intorno, e presto mi voltai di
nuovo. D’un tratto, sentendo un ramoscello spezzarsi, mi fermai e afferrai la
spada. Doveva essere stato un piccolo animale; e se fosse stata invece una
belva?
Il sentiero, però, proseguiva, e continuai a camminare, anche perché non
potevo fare altro.
“I miei stessi pensieri finiranno per sopraffarmi, se non sto in guardia”
riflettei. “Che cosa ci sarà mai in questa foresta, se non le creature che sono
solite vagarvi, come cervi e altre bestie? Al diavolo le sciocche leggende di
quei paesani.”
Così procedetti mentre il crepuscolo si faceva tenebra. In cielo
occhieggiavano le stelle, e le foglie degli alberi mormoravano nel vento
lieve. Mi fermai di colpo impugnando la spada quando, dietro a una curva
del sentiero, udii qualcuno cantare. Non riuscivo a distinguere le parole, ma
l’accento era strano, quasi barbaro.
Con la fronte imperlata di sudore freddo, mi nascosi dietro a un grande
albero. Allora comparve l’uomo che cantava, alto, magro e indistinto tra le
ombre del crepuscolo. Scrollai le spalle. Non temevo un uomo. Balzai fuori
dal nascondiglio con lo stocco sollevato.
— Fermo là! — intimai.
Non parve sorpreso. — Di grazia, attento con quella lama, amico —
disse.
Abbassai l’arma con una certa vergogna.
— È la prima volta che attraverso questa foresta — mi giustificai. —
Domando scusa, ma ho sentito parlare di briganti. Dov’è la strada per
Villefère?
— Corbleu, le è sfuggita — rispose. — Avrebbe dovuto svoltare a destra
già da un pezzo. Anch’io sto andando in quella direzione. Se non le spiace
la mia compagnia, le farò da guida.
Esitai. D’altronde, perché rifiutare?
— Volentieri. Mi chiamo de Montour e sono normanno.
— Io sono Carolus le Loup.
— No! — esclamai, facendo un salto indietro.
Mi guardò sbalordito.
— Mi scusi, ma il suo nome è strano — dissi. — Loup non vuol dire
lupo?
— La mia è sempre stata una famiglia di grandi cacciatori — rispose
senza tendere la mano.
— Mi perdoni se la fisso, ma distinguo a malapena il suo viso nella
penombra — dissi, mentre ci incamminavamo lungo il sentiero.
Intuii che rideva, anche se non gli uscì di bocca alcun suono.
— Il mio viso non è granché — replicò.
Mi avvicinai e poi arretrai con i capelli ritti in testa.
— Una maschera! Perché porta una maschera, monsieur?
— Si tratta di un voto — rispose. — Mentre cercavo di sfuggire a un
branco di cani promisi che, se fossi riuscito a scamparla, avrei portato per un
certo tempo una maschera.
— Cani, monsieur?
— Lupi — si corresse prontamente. — Volevo dire lupi.
Camminammo per un poco in silenzio, poi il mio compagno di viaggio
disse: — Mi stupisce che attraversi la foresta di notte. Di solito la gente non
viene da queste parti nemmeno in pieno giorno.
— Ho fretta di raggiungere il confine — spiegai. — È stato firmato un
trattato con gli inglesi e occorre informarne il duca di Borgogna. Gli abitanti
del villaggio hanno cercato di dissuadermi. Mi hanno parlato di un... lupo
che vagherebbe per il bosco.
— Ecco, qui il sentiero si biforca e da quella parte porta a Villefère —
disse.
Scorgendo un viottolo stretto e tortuoso che non avevo notato all’andata
e che conduceva in mezzo al tenebroso folto degli alberi, rabbrividii.
— Vuole tornare al villaggio?
— No — dissi. — No, no, mi faccia strada.
Il sentiero era così stretto che dovevamo camminare in fila indiana. Io,
che seguivo le Loup, lo guardai bene da dietro. Molto più alto di me, era
magro e muscoloso. Indossava un abito di foggia spagnola e al fianco gli
dondolava una lunga spada. Procedeva con falcate agili e silenziose.
Si mise a parlare di viaggi e avventure. Raccontò delle molte terre e dei
molti mari che aveva visto, e di tante cose singolari. Conversando e
camminando, ci addentrammo sempre più nella foresta.
Immaginavo fosse francese, ma aveva un accento stranissimo, che non
era né francese né spagnolo e nemmeno inglese, e non somigliava a nessuna
delle lingue che conoscevo. Farfugliava certe parole in modo curioso,
mentre altre non riusciva proprio a pronunciarle.
— Non è un sentiero molto battuto, vero? — dissi.
— No, in effetti — convenne con una muta risata.
Rabbrividii. Era buio pesto e le foglie mormoravano in coro tra i rami.
— Un demone infesta questo bosco — osservai.
— Così affermano i contadini, ma io l’ho percorso in lungo e in largo e
non l’ho mai visto in faccia.
Mentre discorreva di strane creature delle tenebre, la luna sorse e ombre
guizzarono tra gli alberi. Alzò gli occhi al cielo.
— Presto, dobbiamo arrivare a destinazione prima che la luna sia allo
zenit — disse.
Ci affrettammo lungo il sentiero.
— Pare che in questa foresta si aggiri un lupo mannaro — dissi.
— È possibile — convenne, e discutemmo a lungo dell’argomento.
— Sostengono le vecchie comari che se un lupo mannaro viene ucciso
mentre ha sembianze di lupo, muore, ma se viene ucciso mentre ha
sembianze umane, la sua mezza anima perseguita il suo assassino per
sempre — concluse. — Ma si affretti, la luna è vicina allo zenit.

Appena raggiungemmo una radura illuminata dal chiarore lunare, si


fermò.
— Facciamo una sosta — disse.
— No, proseguiamo — lo incalzai. — Non mi piace questo posto.
Fece quella sua risata muta. — Perché mai? È una bella radura. È perfetta
come una sala da banchetto e spesso ho banchettato qui. Ah, ah, ah! Guardi,
guardi la mia danza. — Saltellò qui e là, gettando ogni tanto la testa indietro
e ridendo di nuovo senza emettere alcun suono. Pensai fosse pazzo.
Mentre compiva quella danza folle mi guardai intorno. Il sentiero non
proseguiva, ma finiva nella radura.
— Venga, riprendiamo il cammino — dissi. — Non sente il disgustoso
fetore di pelo animale che ristagna qui intorno? Ci sono tane di lupo, da
queste parti. Forse le belve ci stanno puntando e si preparano ad aggredirci.
Si mise carponi, spiccò un balzo più alto di me, poi mi venne incontro
con strani movimenti furtivi.
— Questa è chiamata “la danza del lupo” — disse, facendomi rizzare i
capelli in testa.
— Indietro! — gridai arretrando, mentre, con un urlo che echeggiò per
tutta la foresta, si avventava contro di me senza snudare lo stocco spada.
Avevo estratto per metà la spada, quando mi afferrò per un braccio e mi
scagliò a terra. Lo trascinai con me e cademmo insieme. Liberandomi la
mano, gli strappai la maschera e proruppi in un grido di orrore: occhi di
belva scintillavano dietro il finto volto e zanne bianche scintillavano alla luce
della luna. Aveva un muso di lupo.
In un attimo le zanne mi balzarono al collo e le mani ad artiglio mi
strapparono la spada. Colpii quel muso orribile con i pugni, ma mi aveva
azzannato una spalla, mentre con gli artigli mi lacerava la gola. In terra
supino, vidi il mondo svanire. Mi dimenai alla cieca. Lasciai ricadere la
destra, poi la richiusi meccanicamente intorno al manico della spada che non
ero riuscito a snudare, estrassi la lama e colpii. Udii un urlo terribile, metà
umano metà belluino, quindi mi rialzai barcollando, libero dalla stretta. Ai
miei piedi giaceva il lupo mannaro.
Mi chinai, estrassi la lama dal corpo, poi alzai gli occhi al cielo. La luna
era vicina allo zenit. Se avessi ucciso il mostro mentre aveva sembianze
d’uomo, il suo orribile spirito mi avrebbe perseguitato per sempre. Sedetti
ad aspettare. L’essere mi fissava con occhi fiammeggianti di lupo. Le lunghe
membra muscolose si rattrappirono e piegarono, e sopra vi crebbero peli.
Temendo la follia, afferrai la spada del mostro e lo feci a pezzi; poi la lanciai
lontano e fuggii.
CANTO DEI LUPI MANNARI

Azzanna pure alla gola la vita


e bevi il sangue che fluisce
su fredda, cupa pietra svilita
nella forra ove il vento stormisce.

Avanza verso le rupi colossali


e gli abissi spalancati sotto,
sulle fosche montagne glaciali
in denti di tuono ininterrotto.

Perché anelare a campi beati,


a valli e fonti trasparenti?
A eterna fame noi siam condannati,
lupo e monte in tempeste furenti.

Ci fan la posta gli dei mugghianti


lassù al confine tra vespro e sera;
zoccoli fessi di ferro tonanti
ci schiaccian il cranio d’era in era.

Mercede, speranza, pietà, tutto quanto


i neri dirupi in bolle han ridotto;
ciò che gli dei han lasciato è soltanto
fame e morte in agguato là sotto.

Immergi nel sangue vital zanne folli


per dissetarti ora che sei saziato,
prima che i vermi di te sian satolli
e il vulture le sue strida abbia lanciato.
TESTA DI LUPO

Paura? Scusatemi, messieurs, ma voi non conoscete il significato della


parola “paura”. Dico sul serio. Voi siete soldati, avventurieri. Avete
partecipato alla carica di reggimenti di dragoni, vi siete trovati su mari
sferzati da venti furiosi. Ma la paura, quella che fa accapponare la pelle e
rizzare i capelli in testa, non sapete cos’è. Io l’ho provata, e finché le legioni
delle tenebre non sfonderanno le porte dell’inferno e il mondo non rovinerà
tra le fiamme, nessuno ne conoscerà più una così.
Ascoltate, vi racconterò un fatto che avvenne molti anni fa all’altro capo
della terra, tant’è che nessuno di voi vedrà mai chi ne fu il protagonista o,
anche vedendolo, lo riconoscerà.
Torniamo dunque al giorno lontano in cui io, giovane e incauto cavaliere,
scesi dalla scialuppa che mi aveva condotto a terra dalla nave ormeggiata in
porto e, maledicendo il fango sparso sul grezzo pontile, mi diressi lungo il
molo al castello dove dovevo incontrare il vecchio amico che mi aveva
invitato, dom Vincente da Lusto.
Dom Vincente era un personaggio singolare e lungimirante, un uomo
forte che aveva idee in anticipo sui tempi. Nelle sue vene scorreva forse il
sangue degli antichi fenici che, a detta dei preti, dominarono i mari e, in
epoche oscure, costruirono città in terre lontane. Per fare fortuna aveva
concepito un piano singolare, ma efficace, che pochissimi uomini avrebbero
potuto ideare e ancor meno realizzare. La sua proprietà si trovava infatti
sulla costa occidentale di quel continente misterioso e mistico che sconcerta
gli esploratori: l’Africa.
A ridosso di una piccola baia, dom Vincente aveva spianato la maligna
giungla, eretto un castello e vari magazzini, e strappato con mano spietata la
ricchezza alla terra. Possedeva tre piccole navi e un grande galeone che
facevano la spola tra i suoi possedimenti e le città di Spagna, Portogallo,
Francia e perfino Inghilterra, trasportando legname pregiato, avorio e
schiavi, le innumerevoli, singolari ricchezze che aveva accumulato con la
guerra e l’attività mercantile.
Imprese spregiudicate e un ancor più spregiudicato commercio; e forse
avrebbe potuto fondare addirittura un impero in quella terra oscura se non
fosse stato per suo nipote, l’infido Carlos: ma di questo parleremo più
avanti.
Guardate, messieurs, disegno una mappa sulla tavola intingendo il dito
nel vino. Qui, in acque basse, sorgeva il piccolo porto, e quaggiù si
allungavano i grandi moli. L’imbarcadero era in questo punto: si saliva sul
lieve pendio dov’erano disseminati capanni adibiti a magazzini e si arrivava
a un ampio fossato con poca acqua, attraversato da un ponte levatoio. Ci si
imbatteva quindi in un’alta palizzata di tronchi conficcati nel suolo, che
circondava l’intero castello, costruito alla maniera di quelli antichi, giacché
dom Vincente non voleva tanto farsi ammirare, quanto difendersi bene. Il
maniero era stato eretto con pietre trasportate da paesi lontani ed era costato
anni di lavoro. Un migliaio di negri avevano sgobbato sotto la frusta per
erigerne le mura e adesso che era stato completato appariva pressoché
inespugnabile. Così intendevano fosse i suoi costruttori, perché da un lato i
pirati berberi imperversavano per tutta la costa, dall’altro non si poteva
escludere che tra gli indigeni scoppiasse una rivolta.
Su ciascun lato del castello era stata lasciata libera da costruzioni un’area
di mezzo miglio, e nuove strade attraversavano adesso le zone paludose. Per
realizzare una simile impresa era occorsa un’immensa quantità di lavoro, ma
c’era abbondanza di manodopera. Bastava fare un regalo al capo indigeno
perché fornisse immediatamente tutti gli operai necessari. E i portoghesi
sapevano far lavorare gli uomini!
A meno di trecento metri dal castello scorreva, a est, un fiume ampio e
poco profondo, che sfociava nella baia. Non ne ricordo il nome, che era
barbaro e non ero mai riuscito a pronunciare bene.
Scoprii di non essere l’unico amico di Vincente invitato al castello. Ogni
anno egli radunava nella sua tenuta isolata un gruppo di amici gioviali, e per
alcune settimane si dedicava a gozzoviglie che lo ripagavano di tutto il
lavoro e la fatica del resto dell’anno.
Era ormai quasi sera e si stava tenendo un gran banchetto quando arrivai.
Gli amici mi accolsero calorosamente e fui presentato alle persone che non
conoscevo.
Troppo stanco per partecipare alla festa, mangiai e bevvi in silenzio,
ascoltando brindisi e canti e studiando le facce.
Conoscevo naturalmente dom Vincente, di cui ero amico intimo da anni,
e la sua bella nipote Ysabel, che era uno dei motivi per i quali avevo
accettato l’invito a recarmi in quella squallida landa sperduta. Conoscevo e
detestavo lo scaltro, ipocrita e infido Carlos, secondo cugino di Ysabel.
Ritrovai un vecchio amico, l’italiano Luigi Verenza, accompagnato dalla
sorella Marcita, una civetta che come sempre faceva gli occhi dolci agli
uomini. Della compagnia facevano parte anche il barone von Schiller, un
tedesco basso e tarchiato, Jean Desmarte, un nobile guascone male in arnese,
e don Florenzo de Seville, un uomo bruno, magro e silenzioso che
affermava di essere spagnolo e portava una spada quasi più lunga di lui.
Erano presenti altri uomini e donne, ma è passato molto tempo e ho
dimenticato i loro nomi e i loro visi.
Tuttavia un volto attirò il mio sguardo come la calamita di un alchimista
attira il ferro. Era un tipo smilzo, alto poco più della media, che indossava
abiti comuni e piuttosto austeri e portava una spada lunga quasi quanto
quella dello spagnolo.
Non furono però né l’abito né la spada ad attrarre la mia attenzione, bensì
il viso fine, da nobile, solcato da rughe profonde che gli conferivano
un’espressione stanca e angosciata. La fronte e le mascelle erano segnate da
piccole cicatrici che parevano provocate dagli artigli di una belva, e avevo la
netta impressione di leggere a tratti in quei piccoli occhi grigi un’ombra di
tormento e paura.
Mi sporsi verso Marcita, la civetta, e le chiesi il nome dell’uomo, cui non
mi pareva di essere stato presentato.
— È de Montour, un normanno — rispose. — Un uomo strano, che non
mi piace molto.
— Non ti piace perché resiste alle tue grazie, mia piccola incantatrice? —
mormorai, dato che la lunga amicizia mi rendeva immune dalla sua ira come
dalle sue astuzie. Ma non si arrabbiò e rispose assumendo un’aria quasi
schiva, guardandomi da sotto le ciglia abbassate in atteggiamento di finta
pudicizia.
Osservai a lungo de Montour, provando, chissà perché, una strana
attrazione. Mangiava allegramente, beveva molto, parlava pochissimo e
quando lo faceva era solo per rispondere alle domande.
Poco dopo, quando cominciò la serie di brindisi, notai che i suoi
compagni lo esortavano a farne uno. All’inizio rifiutò, poi, dietro loro
insistenza, si alzò e rimase un attimo in silenzio con il calice in mano. Pareva
dominare l’allegra compagnia che lo circondava e addirittura incuterle
soggezione. Alla fine, con una gran risata beffarda, sollevò il bicchiere
sopra la testa.
— A Salomone, che schiavizzò tutti i diavoli! — esclamò. — E sia
maledetto tre volte per averne fatto scappare qualcuno!
Un augurio e, insieme, una maledizione. Tutti bevvero in silenzio, molti
lanciandosi furtive occhiate di dubbio.

Quella sera mi ritirai presto, stanco del lungo viaggio per mare e stordito
dal vino gagliardo di cui dom Vincente teneva grandi riserve.
La mia stanza, subito sotto il tetto, dava sulle foreste a sud e sul fiume.
Come il resto del castello, era arredata con lusso rude e grossolano.
Guardai dalla finestra. L’archibugiere camminava avanti e indietro
all’interno della palizzata, l’area deserta ai lati del castello appariva squallida
e desolata sotto la luce della luna, e più in là si stendevano la foresta e il
fiume quieto.
Dagli alloggi degli indigeni presso l’argine giungevano le note bizzarre di
un rudimentale liuto che suonava una melodia barbara.
Tra le ombre scure del bosco uno strano uccello notturno levò il suo
canto beffardo. Risuonava un intero coro di mille piccole note: uccelli,
bestie e chissà cos’altro. Un grande felino della giungla innalzò al cielo un
miagolio inquietante. Scrollando le spalle, mi allontanai dalla finestra. Senza
dubbio tra quelle fosche tenebre stava in agguato qualche demone.
Bussarono alla porta e aprii: era de Montour.
Andò alla finestra e guardò la luna, che splendeva in tutta la sua fulgida
gloria.
— La luna è quasi piena, vero, monsieur? — disse, voltandosi verso di
me.
Annuii, e mi parve fosse scosso da un tremito.
— Mi scusi, monsieur, non la disturberò oltre. — Si diresse alla porta, ma
sulla soglia si girò e tornò indietro.
— Qualunque cosa intenda fare, badi di chiudere la porta con il
catenaccio, stasera — sussurrò con fiera intensità.
Sconcertato, lo guardai allontanarsi e scomparire.
Mi assopii con nelle orecchie le grida lontane di chi ancora banchettava, e
benché fossi stanco, o forse proprio perché lo ero, dormii di un sonno
leggero. Anche se non mi svegliai fino alla mattina, suoni e rumori mi
giunsero come attraverso il velo del sonno, e una volta ebbi l’impressione
che qualcosa premesse contro la porta tentando di aprirla.

Com’era prevedibile, il giorno dopo quasi tutti gli ospiti erano storditi dal
vino e rimasero nelle loro stanze per gran parte della mattina, scendendo
tardi al piano di sotto. Oltre a dom Vincente, erano solo tre gli uomini sobri:
de Montour, lo spagnolo de Seville (come si faceva chiamare) e io. Lo
spagnolo non aveva toccato vino, mentre de Montour, pur avendone
trincato in abbondanza, non accusava alcun postumo.
Le signore ci salutarono con tutta la loro grazia.
— In verità, signore 1 — disse quella civetta di Marcita prendendomi per
mano con un’aria accattivante che mi fece sorridere — sono lieta di
constatare che tra noi vi sono gentiluomini i quali preferiscono la nostra
compagnia a quella di un bicchiere di vino; perché la maggior parte è
completamente intontita, stamattina.
Roteando indignata i begli occhi, aggiunse: — Ho l’impressione che
stanotte qualcuno fosse troppo... o troppo poco ubriaco per mantenere la
naturale discrezione, perché, se i miei miseri sensi non mi hanno ingannato,
qualcuno è venuto ad armeggiare alla mia porta a tarda notte.
— Ah! — esclamai con improvvisa collera — qualche...
— No, taci — mi zittì. Si guardò intorno come per assicurarsi che
fossimo soli, e aggiunse: — Non è strano che il signor de Montour, prima di
ritirarsi ieri sera, mi abbia invitato a chiudere la porta con il catenaccio?
— Sì, è strano — mormorai, senza confidarle che il francese aveva detto
la stessa cosa a me.
— E non è singolare, Pierre, che il signor de Montour, pur essendosi
ritirato prima di te, abbia l’aria di uno che è rimasto sveglio tutta la notte?
Alzai le spalle. Le donne hanno spesso fantasie strane.
— Stasera non sprangherò la porta e vedrò chi ha cercato di entrare —
dichiarò con aria maliziosa.
— Guardati bene dal farlo!
Scoprì i dentini in un sorriso sprezzante e mi mostrò un piccolo, micidiale
pugnale.
— Senti, monella — dissi — de Montour mi ha dato lo stesso
avvertimento che ha dato a te. Qualsiasi cosa sappia, credo che chiunque
abbia vagato per le sale del castello, stanotte, non mirasse tanto ad avere
un’avventura galante, quanto ad ammazzare qualcuno. Chiudi la porta con il
catenaccio. Dividi la stanza con la signorina Ysabel, vero?
— No, e mando la mia cameriera negli alloggi degli schiavi, la notte —
mormorò guardandomi maliziosamente da sotto le palpebre abbassate.
— Da come parli sembreresti una ragazza priva di moralità — dissi con la
franchezza consentitami dalla gioventù e dalla nostra lunga amicizia. — Sii
prudente, mia cara, altrimenti dirò a tuo fratello di sculacciarti.
Mi allontanai per porgere i miei omaggi a Ysabel. La portoghese era
l’esatto opposto di Marcita: una giovane timida e modesta, meno bella
dell’italiana, ma con una grazia quasi infantile che la rendeva assai attraente.
Allora avevo delle mire su di lei. Ah, essere giovani e sciocchi!
Scusate, messieurs, le divagazioni di un vecchio. Era di de Montour che
volevo parlarvi; di de Montour e del cugino infido di dom Vincente.
Un gruppo di indigeni armati era radunato davanti alla porta del castello
ed era tenuto a distanza dai soldati portoghesi. Tra loro vi erano diversi
giovani uomini e donne integralmente nudi, incatenati collo a collo: schiavi
catturati da qualche tribù guerriera e condotti lì per essere venduti. Dom
Vincente li stava esaminando di persona.
Seguì un lungo contrattare, di cui mi stancai subito. Mi allontanai
chiedendomi come potesse un uomo della levatura di dom Vincente
abbassarsi al punto di mercanteggiare così.
Ma tornai indietro quando comparve un indigeno del villaggio vicino che
intavolò un lungo discorso con dom Vincente, interrompendo la vendita.
Mentre i due parlavano, arrivò de Montour e d’un tratto dom Vincente si
girò verso di noi e disse: — Stanotte uno dei taglialegna del villaggio è stato
sbranato da un leopardo o qualche altra belva. Era uno scapolo giovane e
forte.
— Un leopardo? Lo hanno visto? — chiese di punto in bianco de
Montour, e quando dom Vincente rispose di no, che la belva aveva
aggredito l’uomo per poi dileguarsi, de Montour alzò una mano tremante e
se la passò sulla fronte come per asciugarsi il sudore freddo.
— Senti, Pierre — disse dom Vincente — ho qui un indigeno che,
meraviglia delle meraviglie, desidera essere tuo schiavo, anche se non so
perché diavolo si sia messo in testa una cosa del genere.
Condusse da me un giovane e smilzo jakri, un adolescente la cui
principale qualità pareva essere il sorriso gioviale.
— È tuo — disse. — Ha ricevuto un addestramento adeguato e sarà un
ottimo schiavo. Bada che è meglio uno schiavo di un servo, perché devi
dargli solo un po’ di cibo e un perizoma, e basta qualche colpo di frusta per
farlo stare al suo posto.
Non molto tempo dopo seppi perché Gola aveva voluto essere mio
schiavo, scegliendomi come padrone tra tutti gli altri. Era per via dei capelli.
Come molti dandy dell’epoca, li portavo lunghi e ricci, e i boccoli mi
ricadevano sulle spalle. Si dà il caso che fossi l’unico uomo della compagnia
ad avere quella pettinatura, e Gola rimaneva a guardarla in quieta
ammirazione per ore, finché, innervosito dalla contemplazione indefessa,
non lo cacciavo a pedate.

Quella sera un rancore che covava sotto la cenere tra il barone von
Schiller e Jean Desmarte, e di cui nessuno si era accorto, divampò come un
incendio.
Come sempre, la causa fu una donna. Marcita si mise a flirtare
scandalosamente con entrambi.
Non fu saggio da parte sua. Desmarte era un giovane sciocco e irruente,
von Schiller una bestia libidinosa. Ma quando mai, messieurs, le donne si
dimostrano sagge?
L’odio tra i due scoppiò con furia omicida quando il tedesco tentò di
baciare Marcita.
I contendenti misero subito mano alla spada. Ma ancor prima che dom
Vincente li invitasse a fermarsi, Luigi si interpose e gettò loro le spade in
terra, respingendoli con furia.
— Signori — disse a voce bassa ma carica di una fiera intensità — è
degno di due gentiluomini combattere tra loro per mia sorella? Ah, per le
unghie dei piedi di Satana, fremo dalla voglia di sfidare a duello entrambi!
Tu, Marcita, vai subito in camera tua e non uscirne finché non te ne darò il
permesso.
Marcita obbedì, perché, per quanto fosse indipendente, né lei né altri
osavano affrontare quel giovane magro e piuttosto effeminato quando aveva
le labbra increspate in un ringhio di tigre e un lampo di luce omicida negli
occhi neri.
I due rivali si porsero reciproche scuse, ma dagli sguardi che si
lanciarono capimmo che la lite non era composta e che al minimo pretesto
sarebbe riesplosa.
A tarda sera mi svegliai all’improvviso con una strana, inquietante
sensazione di paura. Non sapevo spiegarmi da cosa traesse origine. Mi alzai,
constatai che la porta era saldamente sprangata e, vedendo Gola dormire in
terra, mi irritai e gli diedi un calcio per svegliarlo.
Mentre lui si alzava in fretta stropicciandosi gli occhi, il silenzio fu rotto
da un urlo selvaggio, l’urlo di una donna agghiacciata dal terrore che
risuonò per tutto il castello e strappò un’esclamazione di spavento
all’archibugiere posto di sentinella davanti alla palizzata.
Con un verso rauco, Gola andò a nascondersi dietro il divano. Io corsi
alla porta, la aprii e mi affrettai per il corridoio buio. Scendendo a precipizio
una scala a chiocciola, in fondo andai a sbattere contro qualcuno e finimmo
entrambi in terra.
L’uomo disse qualcosa e riconobbi la voce di Jean Desmarte. Lo aiutai a
rialzarsi e ripresi a correre, seguito da lui; le grida erano cessate, ma l’intero
castello era in subbuglio ed echeggiava di voci e clangore di armi. Le luci
vennero accese. Dom Vincente chiamò a squarciagola i soldati, che
attraversarono le sale di corsa, sbattendo gli uni contro gli altri. In mezzo a
tutta quella confusione, Desmarte, lo spagnolo e io raggiungemmo la camera
di Marcita proprio nel momento in cui Luigi vi irrompeva e prendeva la
sorella tra le braccia.
Anche altri entrarono con lanterne e armi, chiedendo a gran voce che
cosa fosse successo.
La ragazza giaceva svenuta tra le braccia del fratello, con i boccoli bruni
sciolti sulle spalle e l’elegante camicia da notte così lacera da rivelare il bel
corpo. Era tutta graffiata sulle braccia, il seno e le spalle.
D’un tratto aprì gli occhi, rabbrividì e cacciò un urlo tremendo,
avvinghiandosi con furia a Luigi e supplicandolo di non permettere al
mostro di ghermirla di nuovo.
— La porta — gemette. — Non ho messo il catenaccio e nel buio
qualcuno o qualcosa è strisciato nella mia stanza. L’ho colpito con il pugnale
e mi ha scaraventato a terra, strappandomi i vestiti di dosso. Poi sono
svenuta.
— Dov’è von Schiller? — chiese lo spagnolo con un lampo di ferocia
negli occhi neri.
Ognuno guardò il suo vicino. Erano presenti tutti gli ospiti, tranne il
tedesco. Notai che de Montour, guardando la ragazza terrorizzata, aveva
l’aria più spaurita che mai, e giudicai strano che non portasse armi.
— Sì, von Schiller! — esclamò con veemenza Desmarte, e metà dei
presenti, me compreso, seguirono dom Vincente nel corridoio.
Cominciammo a frugare come furie il castello e, in un corridoio stretto e
buio, trovammo von Schiller. Aveva sul viso una macchia cremisi che
andava facendosi sempre più grande.
— Questa è opera di un indigeno! — esclamò turbato Desmarte.
— Sciocchezze — ruggì dom Vincente. — Nessun indigeno proveniente
dall’esterno potrebbe mai superare la barriera dei soldati. Tutti gli schiavi,
tra cui quelli di von Schiller, sono chiusi ermeticamente nei loro alloggi,
tranne la cameriera di Ysabel e Gola, che dorme nella stanza di Pierre.
— Ma chi altri avrebbe potuto compiere un simile crimine? — fece con
sdegno Desmarte.
— Lei! — proruppi io. — Perché, se no, sarebbe corso via
precipitosamente dalla stanza di Marcita?
— La peste la colga, bugiardo! — gridò, snudando rapido la spada e
puntandomela contro il petto; ma, per quanto fosse stato veloce, lo spagnolo
lo fu ancora di più e gli deviò la stoccata, che andò a colpire il muro.
Desmarte rimase come una statua mentre la punta della spada dell’altro gli
toccava la gola e non si spostava di lì.
— Legatelo — disse gelido de Seville.
— Riponga la spada, don Florenzo — ordinò dom Vincente, facendo un
passo avanti e ponendosi al centro della scena. — Desmarte, tu sei uno dei
miei migliori amici, ma qui comando io e dobbiamo compiere il nostro
dovere. Dammi la tua parola che non tenterai di scappare.
— Te la do — rispose calmo il guascone. — Ho agito d’impulso e me ne
scuso. Non intendevo fuggire, ma le sale e i corridoi di questo maledetto
castello mi hanno disorientato.
Quasi nessuno di noi gli credette.
— Messieurs — disse de Montour facendo un passo avanti — questo
giovane non ha nessuna colpa. Girate il corpo del tedesco.
Due soldati obbedirono. De Montour rabbrividì e indicò col dito. Tutti
guardammo una sola volta e frememmo di orrore.
— Quale uomo avrebbe mai potuto fare una cosa del genere?
— Con un pugnale... — azzardò qualcuno.
— Nessun pugnale produce ferite simili — replicò lo spagnolo. — Il
tedesco è stato fatto a pezzi dagli artigli di un’orribile bestia.
Ci guardammo intorno, quasi aspettandoci che un mostro orripilante ci
balzasse addosso dall’ombra.

Frugammo ogni metro, ogni centimetro del castello senza trovare traccia
di belve.
Stava albeggiando quando tornai nella mia stanza e scoprii che Gola vi si
era barricato dentro; mi ci volle quasi mezz’ora per convincerlo a lasciarmi
entrare.
Dopo avergli dato una bella bastonata rampognandolo per la sua viltà, gli
raccontai che cos’era successo, dato che capiva il francese e, affermava con
orgoglio, lo parlava, benché il suo fosse in realtà uno strano gergo bastardo.
Mi ascoltò a bocca aperta e, quando il racconto giunse al culmine,
strabuzzò gli occhi.
— Magia nera — sussurrò impaurito. — Lo stregone!
D’un tratto mi venne in mente una cosa. Avevo sentito parlare
confusamente di lontane leggende in cui si farneticava di un culto diabolico
del leopardo che sarebbe esistito sulla costa occidentale. Nessun bianco
aveva mai visto uno degli adepti, ma dom Vincente ci aveva raccontato
storie di uomini-belva che, coperti di pelli di leopardo, si aggiravano per la
giungla a mezzanotte, massacrando e divorando vittime. Sentii un brivido di
terrore corrermi lungo la schiena e strinsi Gola con tanta forza da farlo
urlare.
— È stato forse l’uomo leopardo? — sibilai, scuotendolo con furia.
— Buana, io buono, io fatto niente, buana. Magia nera si vendica!
Meglio non dire altro!
— Parla! — ringhiai, strapazzandolo di nuovo finché agitò le mani in
segno di debole protesta e promise di dire ciò che sapeva.
— Non è uomo leopardo — sussurrò, strabuzzando gli occhi per la paura
arcana. — Con luna piena, taglialegna trovato tutto straziato. Poi trovato
altro taglialegna. Gran buana (dom Vincente) dice “leopardo”. No leopardo
vero, ma uomo leopardo sì, quello viene e uccide. Uomo leopardo uccide!
Dilaniato da artigli. Ahi, ahi. Luna di nuovo piena. Qualcosa arriva in
capanna solitaria, fa a pezzi donna, fa a pezzi bambino. Uomo trova loro
sbranati. Gran buana dice “leopardo”. Di nuovo luna piena, e taglialegna
trovato sbranato. Adesso arriva in castello. No leopardo, sempre orme di
uomo.
Proruppi in un’esclamazione di stupore e incredulità.
Gola giurò di avere detto la verità. Sulla scena del delitto erano sempre
visibili orme umane. Dunque perché gli indigeni non dicevano al gran
buana di dare la caccia a quel demonio?
Gola assunse un’espressione scaltra e mi bisbigliò all’orecchio: — Orme
sempre di uomo con scarpe.
Benché avessi qualche dubbio sulla sua sincerità, fui scosso da un brivido
di inesplicabile orrore. Allora chi era, secondo gli indigeni, a commettere gli
orrendi delitti?
Dom Vincente, rispose Gola.
A quel punto, messieurs, mi sentii del tutto disorientato.
Che senso aveva una simile storia? Chi aveva assassinato il tedesco e
tentato di violentare Marcita? Mentre riflettevo sul delitto, mi dissi che con
tutta probabilità il misterioso demonio non intendeva stuprare, bensì
ammazzare la donna.
Come mai de Montour ci aveva avvertiti, poi era sembrato a conoscenza
del crimine e ci aveva detto, nonché dimostrato, che Desmarte era
innocente?
Non riuscivo assolutamente a capire.
Benché noi non parlassimo, gli indigeni vennero a sapere dell’omicidio e
parvero inquieti e nervosi. Per tre volte dom Vincente fece frustare un negro
accusandolo di insolenza. In tutto il castello si era diffusa un’atmosfera
fosca.
Mi chiesi se non fosse il caso di raccontare a dom Vincente la storia di
Gola, ma decisi di aspettare.

Quel giorno le donne rimasero in camera, mentre gli uomini apparivano


inquieti e imbronciati. Dom Vincente annunciò che avrebbe raddoppiato le
sentinelle e che alcune guardie avrebbero sorvegliato i corridoi del castello.
Riflettei cinicamente che, se i sospetti di Gola erano fondati, le sentinelle non
sarebbero state di alcuna utilità.
Non sono tipo da sopportare pazientemente situazioni del genere,
messieurs, e all’epoca ero giovane. Così, mentre bevevamo un goccio prima
di ritirarci, sbattei il calice sul tavolo e annunciai con rabbia che quella notte,
ci minacciasse un uomo, una belva o un demonio, avrei dormito con la porta
spalancata. Così dicendo, salii furibondo nella mia stanza.
Come la prima sera, de Montour venne a trovarmi. Aveva la faccia di chi
contemplasse le porte spalancate dell’inferno.
— Sono venuto a chiederle, anzi a supplicarla di tornare sulla sua
sconsiderata decisione, monsieur — disse.
Scossi la testa spazientito.
— È proprio deciso? — soggiunse. — Allora le domando un favore. La
prego di sprangare la mia porta dall’esterno dopo che sarò entrato nella mia
stanza.
Feci come mi aveva chiesto e tornai in camera con una ridda di pensieri
in testa. Avevo mandato Gola negli alloggi degli schiavi e tenevo spada e
pugnale a portata di mano. Non andai a letto, ma mi rannicchiai al buio in
una grande poltrona. Dovetti lottare duramente con il sonno. Per restare
sveglio mi misi a riflettere sulle strane parole di de Montour, il quale era
parso in preda a una grande ansia, quasi riflettesse su terribili misteri noti a
lui solo. Eppure non aveva il viso di un uomo malvagio.
D’un tratto ebbi l’impulso di andare nella sua camera a parlargli.
Percorrere i corridoi bui fu un’impresa inquietante, ma alla fine arrivai
davanti alla sua porta e lo chiamai sommessamente. Silenzio. Allungai una
mano e sentii frammenti di legno scheggiato. Mi affrettai a battere
l’acciarino sulla pietra focaia che portavo sempre con me e alla luce della
fiamma vidi la grande porta di rovere dondolare sui possenti cardini,
sfondata e sventrata dall’interno. Dentro, la stanza era vuota.
L’istinto mi suggerì di tornare nella mia camera di corsa ma in silenzio,
scalzo, per non far rumore. Quando arrivai alla porta, mi resi conto che
avevo davanti a me, nelle tenebre, qualcosa: qualcosa che, sopraggiunto da
un corridoio laterale, si avvicinava quieto e furtivo.
Colto dal panico, mi lanciai avanti colpendo lo sconosciuto alla cieca e
con violenza. Il mio pugno chiuso incontrò una testa umana e sentii un
corpo crollare al suolo. Accesi una candela e vidi, svenuto in terra, de
Montour.
Infilai la candela nel reggilume di una nicchia nel muro. Proprio in quel
momento de Montour aprì gli occhi e si rialzò con aria incerta.
— Lei! — esclamai, senza rendermi conto di ciò che dicevo. — Di tutti,
proprio lei!
Si limitò ad annuire.
— Ha ucciso lei von Schiller?
— Sì.
Indietreggiai con un gemito soffocato di orrore.
— Senta, prenda la spada e mi trafigga — disse, alzando la mano. —
Nessuno la punirà.
— No, non posso — replicai.
— Allora corra subito nella sua stanza e si chiuda dentro a chiave, prima
che torni — si raccomandò.
— Chi tornerà? — chiesi, con un brivido di terrore. — Se farà del male a
me, farà del male anche a lei. Venga nella mia stanza.
— No, no! — urlò, sottraendosi al braccio teso con cui lo invitavo a
seguirmi. — Presto, presto, mi ha abbandonato un attimo, ma tornerà. —
Quindi, con una voce cavernosa da cui trapelava un orrore indicibile,
aggiunse: — Sta tornando. È qui!
Sentii qualcosa, una presenza ignota e informe accanto a me; qualcosa di
spaventevole.
In piedi con le gambe divaricate e le braccia indietro, de Montour strinse i
pugni. I muscoli gli si gonfiarono sotto la pelle, gli occhi divennero più
lunghi e stretti, le vene gli si gonfiarono sulla fronte come per un grande
sforzo fisico. Mentre lo guardavo inorridito, all’improvviso una creatura
ignota e informe assunse contorni vaghi e un’ombra lo sovrastò.
Gli era proprio sopra, Dio mio, e stava fondendosi con lui, unendosi a
lui!
De Montour barcollò, lasciandosi sfuggire un gran sospiro. La cosa
informe scomparve. Il francese vacillò, poi si girò verso di me e vidi un
volto che prego Dio di non farmi mai più vedere nella vita.
Era una faccia orripilante e bestiale. Gli occhi scintillavano di terribile
ferocia, le labbra, ritratte e ringhianti, lasciavano scoperti denti bianchi che al
mio sguardo sgomento parvero più zanne ferine che una normale chiostra
umana.
In silenzio, l’essere (non posso definirlo un uomo) mi si fece incontro.
Inorridito, scappai e varcai la soglia della mia stanza proprio nel momento in
cui il mostro balzava all’attacco con l’agilità animale di un lupo. Sbattei la
porta, premendogliela addosso, ed esso vi si lanciò contro più volte.
Alla fine desistette e lo sentii allontanarsi furtivo lungo il corridoio.
Stremato ed esausto, mi sedetti ad aspettare in ascolto. Dalla finestra entrava
la brezza, recando tutti gli odori dell’Africa, i buoni come i cattivi. Dal
villaggio indigeno giungeva il rullo dei tamburi. Altri tamburi rispondevano
da una zona più lontana del fiume e dal folto della boscaglia. Poi, da qualche
punto della giungla, arrivò, orribilmente incongruo, il richiamo acuto e
prolungato del licaone. La mia anima sussultò per il ribrezzo.

All’alba seppi che gli indigeni del villaggio erano terrorizzati: una nera
era stata ghermita da un demone notturno e a stento era riuscita a sfuggirgli.
Mi recai da de Montour.
Mentre andavo incontrai dom Vincente, perplesso e adirato. — Un agente
dell’inferno imperversa nel castello — disse. — Non l’ho ancora detto a
nessuno, ma stanotte qualcuno ha aggredito alle spalle un archibugiere, gli
ha strappato di dosso il farsetto di pelle e lo ha inseguito fino al barbacane.
Per giunta, de Montour si è ritrovato chiuso a chiave dall’esterno nella sua
stanza e ha dovuto abbattere la porta per uscire.
Proseguì per la sua strada, borbottando fra sé, mentre io scesi le scale più
sconcertato che mai.
Seduto su uno sgabello, de Montour guardava fuori dalla finestra con
un’aria di totale sfinimento.
Aveva i lunghi capelli spettinati e aggrovigliati, e gli abiti stracciati.
Rabbrividii vedendogli le mani leggermente macchiate di rosso e notando
che aveva le unghie rotte e spezzate.
Quando entrai alzò gli occhi e mi invitò con un cenno a sedermi. Aveva
un’espressione stanca e smarrita, ma umana.
Dopo un attimo di silenzio, iniziò a parlare.
— Le racconterò la mia strana vicenda. Non l’ho mai confidata a nessuno
prima d’ora e non so dirmi perché la confido a lei pur sapendo che non mi
crederà.
Ascoltai così la storia più folle, fantastica e arcana che mi sia mai capitato
di sentire da labbra umane.
— Anni fa, mentre ero in missione militare nella Francia settentrionale —
disse — dovetti per forza attraversare da solo i boschi di Villefère, infestati
dai demoni. In quella spaventosa foresta fui assalito da un essere disumano
e tremendo, un lupo mannaro. Lottammo sotto la luna di mezzanotte e lo
uccisi. Ma vede, se un lupo mannaro viene ucciso mentre ha sembianze
parzialmente umane, il suo spettro perseguita il proprio assassino per
l’eternità; se invece è ucciso mentre ha sembianze di lupo, precipita
nell’inferno. Il vero lupo mannaro non è, come molti pensano, un uomo che
assume a volte l’aspetto di un lupo, ma un lupo che assume l’aspetto di un
uomo.
“Ora mi ascolti, amico mio: le confiderò tutte le cose che so, il sapere
infernale che ho appreso con le mie tante imprese terrificanti e che mi è stato
trasmesso tra le ombre terribili delle foreste notturne dove si aggirano
demoni ed esseri mezzo umani e mezzo bestiali.
“In principio la terra era strana e deforme. Belve grottesche vagavano per
le sue giungle. Cacciati da un altro mondo, antichi demoni e diavoli
giunsero a frotte e si stabilirono in questo mondo più nuovo e più giovane.
A lungo le forze del bene e del male combatterono tra loro.
“Uno strano animale, chiamato uomo, errava tra gli altri, e poiché il bene
e il male devono assumere forma concreta per poter realizzare il proprio
fine, gli spiriti del bene entrarono in lui. I demoni si introdussero in altre
bestie, come rettili e uccelli, e l’antica guerra imperversò, lunga e feroce. Ma
l’uomo vinse. I grandi draghi e serpenti furono uccisi, con i loro demoni.
Alla fine Salomone, assai più saggio di quanto non fossero di solito gli
uomini, mosse loro una guerra tremenda e, grazie alla sua sapienza, li
soppresse, li catturò, li incatenò. Ma alcuni erano più feroci e audaci degli
altri e Salomone, pur avendoli scacciati, non riuscì ad aver ragione di loro.
Questi avevano assunto l’aspetto di lupi. Con il passare dei secoli, l’unione
tra lupi e demoni diventò indissolubile. Il demone non poteva più
abbandonare il corpo del lupo a piacimento. Spesso il lupo, con la sua furia,
vinceva la scaltrezza del demone e lo schiavizzava, sicché tornava a essere
solo una bestia astuta e feroce, ma pur sempre bestia. Tuttavia di lupi
mannari ve ne sono ancora molti.
“A volte, durante il plenilunio, il lupo assume forma interamente o
parzialmente umana, ma quando la luna sale allo zenit, lo spirito del lupo
riprende il sopravvento e il lupo mannaro torna a essere un vero lupo. Se
però la creatura viene uccisa mentre ha forma umana, lo spirito è libero di
perseguitare il suo assassino per l’eternità.
“Ora mi ascolti. Credevo di avere ucciso il mostro dopo che aveva
assunto la sua vera forma, invece l’ho ucciso con qualche istante di anticipo.
Benché fosse alta nel cielo, la luna non era allo zenit e l’essere non aveva
ancora ripreso in pieno la forma di lupo.
“Allora non sapevo nulla di queste cose e proseguii per la mia strada. Ma
al plenilunio successivo cominciai ad avvertire un’influenza arcana e
maligna. Sentivo l’orrore aleggiare nell’aria ed ero preda di strani impulsi
inesplicabili.
“Una sera, in un piccolo villaggio al centro di una grande foresta,
l’influsso mi investì con tutta la sua violenza. La luna quasi piena era alta nel
cielo notturno sopra la foresta e tra il suo disco e me vidi fluttuare a
mezz’aria, spettrale e traslucido, il profilo di una testa di lupo.
“Non rammento quasi niente di quanto accadde dopo. Ricordo
vagamente di avere annaspato sulla strada silenziosa nel vano tentativo di
lottare e resistere, poi mi ricordo solo di un labirinto purpureo e di essermi
svegliato, la mattina dopo, con mani e abiti tutti macchiati e incrostati di
sangue. Seppi poi dai paesani terrorizzati che, poco fuori dal villaggio, due
amanti clandestini erano stati brutalmente uccisi, addirittura dilaniati come
da fiere o lupi.
“Fuggii inorridito dal paese, ma non fuggii da solo. Durante il giorno
non sentivo l’influsso del mio atroce padrone, ma quando scendeva la sera e
sorgeva la luna, percorrevo la quieta foresta come l’orrendo mostro
massacratore d’uomini che ero divenuto, vero e proprio demone chiuso in
un corpo umano.
“Dio, quante guerre gli ho mosso! Ma mi ha sempre vinto e mi ha sempre
spinto sull’usta di nuove prede. Quando però la luna cominciava a calare
dopo il plenilunio, la forza dell’influsso che mi attanagliava cessava di colpo
e tornava soltanto tre notti prima del plenilunio successivo.
“Da allora ho vagato per il mondo in continua fuga, cercando una via di
scampo. Il mostro mi segue sempre, impossessandosi del mio corpo quando
la luna è piena. Per gli dei, quali orribili gesta ho compiuto!
“Mi sarei ucciso già molto tempo fa, ma non ho mai osato, perché
l’anima del suicida è maledetta, e sarei stato tormentato per sempre nelle
fiamme dell’inferno. Mi creda, il pensiero più tremendo è che il mio corpo
vaghi in eterno per la terra, abitato e comandato dallo spirito di un lupo
mannaro. Esiste destino più agghiacciante?
“Sembro anche immune dalle armi umane. Sono stato ferito da spade e
sfregiato da pugnali, e sono coperto di cicatrici; eppure non sono mai riusciti
ad abbattermi. In Germania mi incatenarono e condussero al patibolo. Avrei
posato volentieri la testa sul ceppo, ma l’essere si impossessò di me,
inducendomi a spezzare le catene, uccidere i miei catturatori e fuggire. Ho
errato per il mondo, lasciandomi dietro una scia di orrori e massacri. Né
catene né celle possono trattenermi. L’essere è vincolato a me per l’eternità.
“Per la disperazione ho accettato l’invito di dom Vincente, perché
nessuno sa della mia seconda, orripilante vita, nessuno mi riconoscerebbe
mentre sono tra le grinfie del demone, e se anche qualcuno mi riconoscesse,
non vivrebbe abbastanza da dirlo in giro.
“Ho le mani rosse di sangue, l’anima condannata al fuoco eterno, la
mente straziata dal rimorso per i miei crimini. Tuttavia non posso fare niente
per aiutare me stesso. Stia pur certo che nessun uomo ha mai vissuto un
inferno come il mio, Pierre.
“Sì, ho ucciso von Schiller e cercato di ammazzare quella ragazza,
Marcita. Perché non l’abbia fatto non so dire, in quanto ho soppresso sia
uomini sia donne.
“Ora, per favore, prenda la spada e mi uccida. Quando esalerò l’ultimo
respiro, ringrazierò il buon Dio pregandolo di benedirla. Lo farà?
“Adesso conosce la mia storia e sa di avere davanti un uomo perseguitato
in eterno da un demone.”

Lasciai la stanza di de Montour attonito. Non sapevo che cosa fare. Mi


pareva probabile che ci trucidasse tutti, eppure non trovavo la forza di
raccontare la sua storia a dom Vincente. In fondo al cuore provavo pietà per
de Montour.
Così non feci parola con nessuno delle sue confidenze e i giorni seguenti
lo cercai per conversare con lui. Tra noi nacque una sincera amicizia.
Nel medesimo periodo intuii che Gola, il mio schiavo negro, era in
sotterraneo fermento, come se sapesse qualcosa che desiderava
disperatamente dirmi, ma su cui non voleva o non osava fiatare.
Passammo giorni a bere, banchettare e cacciare, finché una sera de
Montour venne nella mia camera e indicò in silenzio la luna che stava
sorgendo.
— Senta, ho un piano — dichiarò. — Diffonderò la voce che vado nella
giungla a cacciare per parecchi giorni e farò mostra di andarci davvero, ma
stanotte tornerò al castello e lei mi rinchiuderà nel sotterraneo che viene
usato come dispensa.
Così facemmo, e con un pretesto scesi due volte al giorno nel sotterraneo
per portargli da mangiare e da bere. Volle per forza restare nella prigione
anche di giorno, perché, sebbene non fosse mai stato tormentato dal demone
nelle ore diurne, durante le quali lo giudicava inoffensivo, preferiva non
correre rischi.
In quel periodo notai che Carlos, il nipote dal viso infido di dom
Vincente, aveva messo gli occhi sulla sua seconda cugina Ysabel, che
pareva offesa dalle sue attenzioni.
Quanto a me, siccome lo disprezzavo fremevo dalla voglia di sfidarlo a
duello, ma non erano affari miei. Tuttavia avevo l’impressione che Ysabel lo
temesse.
Tra l’altro il mio amico Luigi si era innamorato della bella fanciulla
portoghese e le faceva ogni giorno una corte serrata.
De Montour rimase in cella a riflettere sui suoi orribili crimini finché
quasi non consumò le sbarre a furia di stringerle con le mani nude.
Don Florenzo vagava per la tenuta come un arcigno Mefistofele.
Gli altri ospiti andavano a cavallo, litigavano e gozzovigliavano.
Gola si aggirava furtivo, guardandomi come fosse sempre sul punto di
confidarmi qualcosa di molto importante. C’era da stupirsi se avevo i nervi a
fior di pelle?
Gli indigeni erano ogni giorno più scontrosi, accigliati e intrattabili.

Una sera, non molto prima della luna piena, entrai nel sotterraneo dov’era
rinchiuso de Montour.
Alzò subito gli occhi a guardarmi e disse: — Ha un bel coraggio, a venire
a trovarmi di notte.
Scrollai le spalle e mi sedetti.
Da una finestrella protetta da sbarre arrivavano suoni e profumi della
notte africana.
— Ascolti i tamburi — dissi. — È da una settimana che gli indigeni li
suonano senza posa.
De Montour annuì. — Gli indigeni sono inquieti. Credo stiano
architettando qualche diabolico piano. Ha notato che Carlos si reca spesso
da loro?
— No — risposi — ma siccome sta corteggiando Ysabel, penso che
prima o poi lui e Luigi romperanno i rapporti.
Mentre conversavamo, all’improvviso de Montour tacque, si fece
pensieroso e rispose solo a monosillabi.
La luna sorse e la sua luce, filtrando dalle sbarre della finestra, gli
illuminò il viso.
All’improvviso mi sentii stringere nella morsa dell’orrore. Sulla parete
dietro di lui vidi comparire un’ombra con i chiari contorni di una testa di
lupo.
Nello stesso istante egli avvertì il suo influsso e scattò in piedi urlando.
Indicò con furia la porta, e quando, con mani tremanti, me la richiusi alle
spalle tirando il catenaccio, vi si scagliò violentemente contro. Mentre salivo
di corsa la scala, lo udii picchiare rabbioso contro la porta cerchiata di ferro.
Ma nonostante la forza del lupo mannaro il battente resistette.
Quando entrai nella mia stanza, Gola corse da me a raccontarmi la storia
che aveva taciuto per giorni.
Lo ascoltai incredulo, poi corsi a cercare dom Vincente.
Seppi che Carlos lo aveva pregato di accompagnarlo al villaggio per
organizzare una vendita di schiavi.
A dirmelo era stato don Florenzo de Seville, e quando gli raccontai in
due parole quanto mi aveva confidato Gola, mi accompagnò.
Ci precipitammo insieme fuori dal castello, fornendo una breve
spiegazione alle sentinelle, e attraversammo il tratto di molo che ci separava
dal villaggio.
“Dom Vincente, dom Vincente, sii cauto, tieni la spada pronta nel fodero!
Quanto sei stato stolto ad avventurarti fuori di notte con Carlos, il traditore!”

Erano vicini al villaggio quando li raggiungemmo. — Dom Vincente,


torna subito al castello! — gridai. — Carlos ha venduto la tua pelle agli
indigeni, perché, come mi ha detto Gola, brama le tue ricchezze e Ysabel.
Un indigeno terrorizzato gli ha detto che c’erano impronte di scarpe nei
punti in cui erano stati assassinati i taglialegna, e Carlos ha fatto credere ai
negri che l’assassino sei tu. Stasera gli indigeni si accingono a massacrare
tutti gli uomini del castello eccetto Carlos. Non mi credi, Vincente?
— È così, Carlos? — chiese sbalordito il mio amico.
Carlos scoppiò in una risata beffarda.
— Questo idiota dice la verità, ma non ti servirà a niente — rispose.
Con un grido si avventò contro lo zio. L’acciaio luccicò al chiaro di luna
e la spada di de Seville trafisse Carlos prima che questi potesse fare un
gesto.
Le ombre si animarono intorno a noi e, spalla a spalla, con spade e
pugnali combattemmo in tre contro cento. Le lance scintillavano e urla
diaboliche uscivano da gole selvagge. Infilzai tre indigeni con altrettante
stoccate, poi crollai sotto una terribile mazzata; un istante dopo dom
Vincente mi rovinò addosso con un braccio trafitto da una lancia e una
gamba ferita da un’altra. Don Florenzo, ancora in piedi, stava brandendo la
spada come fosse una creatura vivente quando gli archibugieri partirono alla
carica, facendo piazza pulita sulla riva e riportandoci al castello.
Le orde nere ci inseguirono furiose con le lance che scintillavano come
onde d’acciaio, e l’aria risuonava delle loro grida selvagge.
Più volte mossero all’assalto, salendo il pendio, saltando il fossato e
cercando di superare la palizzata, ma altrettante il fuoco dei circa cento
difensori li respinse.
Avevano saccheggiato e incendiato i magazzini, e la luce delle fiamme
gareggiava con quella della luna. Sull’altra sponda del fiume sorgeva un
deposito più grande che le orde indigene accerchiarono e distrussero per
fare razzia.
— Spero gli appicchino il fuoco, perché non contiene altro che qualche
tonnellata di polvere da sparo — disse dom Vincente. — Essendo merce
pericolosa non ho osato depositarla su questo argine. Tutte le tribù del fiume
e della costa si sono alleate per massacrarci e io ho le mie navi in mare.
Potremo anche resistere per un po’, ma alla fine supereranno la palizzata e ci
trucideranno tutti.
Corsi nel sotterraneo dove era rinchiuso de Montour e davanti alla porta
lo chiamai. Mi disse di entrare con una voce da cui capii che il demone lo
aveva momentaneamente abbandonato.
— I negri sono in rivolta — lo informai.
— Lo avevo immaginato. Come va la battaglia?
Lo ragguagliai sul tradimento di Carlos e lo scontro, e menzionai la
polveriera dall’altra parte del fiume. Balzò in piedi.
— Per la mia anima stregata! — esclamò. — Giocherò ancora una volta a
dadi con l’inferno. Presto, mi faccia uscire dal castello. Proverò ad
attraversare a nuoto il fiume e a dar fuoco alle polveri.
— Ma è una follia — esclamai. — Tra la palizzata e la riva sono in
agguato un migliaio di indigeni e sull’altra sponda ve ne saranno altri
tremila. Il fiume, poi, è infestato da coccodrilli.
— Ci proverò — replicò, illuminandosi di gioia. — Se riuscirò ad
arrivare alla polveriera, qualche migliaio di indigeni in meno assedieranno il
castello; se verrò ucciso, la mia anima sarà libera e forse, avendo dato la vita
per espiare i miei crimini, potrò essere almeno in parte perdonato. — Si
interruppe un attimo, poi aggiunse: — Presto, si affretti, perché sento il
demone tornare e avverto già il suo influsso. Si sbrighi!
Corremmo alle porte del castello. De Montour ansimava come in preda a
un conflitto terribile.
Sulla soglia crollò in terra, ma si rialzò e uscì dal portone. Gli indigeni lo
accolsero con urla selvagge.
Gli archibugieri ci gridarono contro. Guardandolo dall’alto della
palizzata, lo vidi lanciarsi un’occhiata incerta intorno. Una ventina di
indigeni gli si avventò rabbiosamente contro, con le lance in resta.
Levando al cielo un agghiacciante ululato di lupo, de Montour scattò
avanti. Sbigottiti, gli indigeni si arrestarono, e prima che uno solo di loro
potesse fare un gesto, de Montour attaccò, provocando veementi urla non
più di rabbia, ma di terrore.
Sbalorditi, gli archibugieri si trattennero dallo sparare.
De Montour caricò l’orda di negri, e quando questa si disperse, tre di loro
erano morti.
Rincorse i fuggitivi per una dozzina di passi, poi si fermò di colpo.
Rimase un attimo paralizzato, con le lance che gli volavano intorno, quindi
si girò e si precipitò al fiume.
A pochi metri dalla riva altri indigeni gli sbarrarono il passo. Alla luce
rossastra degli edifici in fiamme, la scena era ben visibile. De Montour fu
colpito a una spalla da una lancia, ma, senza smettere di correre, se la
strappò di dosso, trafisse con quella un nero, ne scavalcò il cadavere e si
avventò contro gli altri.
Atterriti da quel bianco indemoniato, gli indigeni si diedero alla fuga
urlando. De Montour ne aggredì uno alle spalle e lo atterrò.
Si rialzò barcollando e corse al fiume, dove si fermò un istante, prima di
sparire nell’ombra.
— In nome del diavolo, chi è quella furia? — fece dom Vincente accanto
a me. — Non sarà mica de Montour?
Annuii. Gli indigeni, tutti ammassati intorno alla grande polveriera di là
dal fiume, lanciavano grida più forti del crepitio degli archibugi.
— Stanno meditando un grande assalto — disse dom Vincente. —
Ahimè, temo che supereranno la palizzata.
Un boato squarciò il cielo e una gigantesca fiammata si proiettò verso le
stelle. Il castello tremò per l’esplosione. Nel silenzio che seguì, il fumo si
dissipò e contemplammo un grande cratere al posto della polveriera.
Potrei raccontare di come dom Vincente, pur zoppicando, guidò la carica
giù per il pendio, attaccando i negri terrorizzati che erano riusciti a salvarsi
dall’esplosione. Potrei raccontare del massacro, della vittoria e
dell’inseguimento dei fuggitivi.
Potrei raccontare, messieurs, di come, allontanatomi dal gruppo, mi
smarrii nella giungla, incapace di ritrovare la strada della costa.
Potrei raccontare di come fui catturato da un manipolo di negrieri e come
riuscii a fuggire. Non è però questa la mia intenzione. Sarebbe una lunga
storia, ma è di de Montour che voglio parlarvi.

Riflettei molto su quanto era accaduto, e mi chiesi se il francese avesse


davvero raggiunto la polveriera, facendola saltare in aria, o se l’esplosione
fosse dovuta al caso.
Pareva impossibile che un uomo, per quanto posseduto da un demone,
fosse riuscito a nuotare in un fiume infestato da coccodrilli. E se aveva fatto
esplodere il deposito, doveva essere morto anche lui.
Ebbene, una notte, mentre camminavo stancamente per la giungla, notai
sulla costa, vicino alla spiaggia, una piccola, fatiscente capanna di paglia. La
raggiunsi pensando di dormire lì, insetti e rettili permettendo.
Appena entrato, mi fermai di botto. Su un rozzo sgabello sedeva un
uomo che al mio arrivo alzò gli occhi. I raggi della luna gli illuminarono la
faccia.
Feci un balzo indietro, inorridito. Era de Montour, e la luna era piena!
Mentre me ne stavo lì atterrito, incapace di fuggire, si alzò e mi si
avvicinò. Benché avesse un’aria provata, come di chi avesse visto l’inferno,
il volto era quello di un uomo sano di mente.
— Entri, amico mio — disse con grande pacatezza. — Venga pure senza
timore. Il demone se n’è andato per sempre.
— Ma mi dica, come ha fatto a sconfiggerlo? — domandai, stringendogli
la mano.
— Mentre correvo verso il fiume ho combattuto una battaglia terribile,
perché il demone, che mi aveva in suo potere, mi spingeva ad attaccare gli
indigeni. Tuttavia, per la prima volta, la mia anima e la mia mente hanno
preso il sopravvento per un istante abbastanza lungo da permettermi di
mantenere il proposito originario. Credo che mi siano venuti in aiuto i santi,
perché stavo offrendo la mia vita per salvare quella di altri uomini.
“Mi sono tuffato nel fiume e ho cominciato a nuotare, subito circondato
dai coccodrilli. Di nuovo in preda all’influsso del demone, li ho combattuti,
ma all’improvviso esso mi ha abbandonato.
“Sono risalito a riva e ho appiccato il fuoco alla polveriera. L’esplosione
mi ha scagliato a un centinaio di metri di distanza, e per giorni ho vagato
stordito nella giungla. Poi è arrivato il plenilunio, e a quello ne è succeduto
un altro, senza che avvertissi l’influsso. Sono libero, libero!”
Colsi una mirabile nota di entusiasmo, anzi di esaltazione, nella sua voce.
— La mia anima è libera. Per quanto sembri incredibile, il demone è
annegato nel letto del fiume o abita adesso il corpo di uno dei rettili
primordiali che nuotano nel Niger.

1. In italiano nel testo. (NdT)


VIENI, JOHN KANE

Vieni, John Kane, scende la notte tetra


nel rosso tramonto la nebbia va a salire,
di colle in colle il grigio lupo impetra:
Vieni, John Kane, perché indugi a venire?

Tu promettesti del fiume sulla riva


ove covan le ombre, il sole mai arriva
e una Forma nel buio s’agita aggressiva.

Giurasti pel sangue di cui lorda hai la daga


per i boschi stregati ove zoccolo vaga
e sotto atra soma neri mostri hanno saga.

Vieni, John Kane, non devi più tremare,


stringesti un patto che or non puoi spezzare,
i tuoi fratelli la lor sete braman placare.

Vieni, John Kane, a che tu ti rimpiatti?


Con scuro fior di sangue noi suggellammo i patti,
saziati quanto vuoi del mannaro negli atti.

Non temer né la notte né le ombre vaganti,


quieti e sicuri son i nudi piedi danzanti
e forti i denti, per tranciare i viandanti.

Vieni, John Kane, scende cupa la notte,


dalle valli bianca nebbia va a salire,
i fratelli tuoi lupi ti chiamano a frotte,
Vieni, John Kane, perché indugi a venire?
RICORDO

Ottomila anni fa tolsi a un uomo la vita;


lo attesi presso un ruscello spumeggiante
in quieta valle verde tra monti sita;
bianca acqua tra giunchi gorgogliante,
velati i colli di sognante bruma blu.
Dal sentier giunse, e con furente mossa
la mia lancia saettò e lo gettò giù,
come serpe scattò e schiantò l’ossa.

Ancor oggi, se la bruma si leva sognante


e i venti portan il respiro dell’onde,
un sussurro mi scuote ove giaccio raggiante
di un albero montano sotto le fronde,
e nella nebbia lo spettro mai sparito
mi indica accusandomi col dito.
IL SERPENTE DEL SOGNO

La sera era stranamente quieta. Mentre, seduti sull’ampia veranda,


contemplavamo i vasti prati in ombra, il silenzio dell’ora calò sul nostro
spirito e per un pezzo nessuno parlò.
Sulle montagne che ornavano, confuse, il profilo dell’orizzonte a levante,
brillò una lieve bruma e presto una grande luna dorata sorse a irradiare di
luce spettrale la terra, esaltando i contorni scuri di quelle ombre che erano
gli alberi. Da est prese a soffiare un vento leggero, e lunghe onde sinuose,
appena distinguibili nel chiarore lunare, agitarono l’erba incolta. Qualcuno
di noi, sulla veranda, si lasciò sfuggire un piccolo ansito, come se gli
mancasse il respiro, e tutti ci girammo a guardarlo.
Faming, tutto proteso in avanti, stringeva i braccioli della sedia con il viso
pallido e spiritato nella luce spettrale, e un rivolo di sangue gli sgorgava dal
labbro che si era morso. Lo fissammo stupiti. Un attimo dopo si girò verso
di noi e scoppiò in una breve risata secca.
— Perché mi guardate a bocca aperta come un branco di pecore? — fece
irritato, per poi azzittirsi.
Sbalorditi, ci chiedevamo che cosa rispondere, quando riprese a parlare.
— D’accordo, sarà meglio che vi racconti tutta la storia, se non voglio che
cominciate a darmi del pazzo. Che nessuno mi interrompa. Voglio togliermi
dalla testa questo chiodo. Sapete tutti che non ho una gran fantasia, ma c’è
una cosa, un mero parto dell’immaginazione, che mi perseguita fin
dall’infanzia: un sogno. — Si rannicchiò sulla sedia e mormorò: — Un
sogno, sì, e che sogno, Dio mio. La prima volta... No, non ricordo la prima
volta che l’ho fatto, quel dannato sogno che mi ossessiona da tempo
immemorabile. Ve lo descrivo. C’è una sorta di bungalow su una collina in
mezzo a una vasta prateria non troppo diversa da questa, ma la scena si
svolge in Africa, dove vivo con una specie di servo, un indù. Quando mi
sveglio non mi è chiaro perché mi trovi lì, ma nel sogno lo so sempre molto
bene. Nel sogno ricordo la mia vita passata (che non corrisponde in alcun
modo a quella della veglia), anche se al risveglio l’inconscio non mi
trasmette queste nozioni. In ogni caso, nel sogno sono uno che cerca di
sfuggire alla giustizia, e anche l’indù pare sia un fuggiasco. La mia mente
conscia non ricorda né perché ci sia quel bungalow né in quale parte
dell’Africa si trovi, ma il mio io onirico lo sa benissimo. Comunque, il
bungalow è piccolo, composto da pochissime stanze e, come ho detto, è in
cima alla collina. Non vi sono altre alture e fino all’orizzonte si vede solo
prateria. In alcuni punti l’erba arriva alle ginocchia, in altri alla vita.
“Il sogno inizia sempre con me che salgo sul colle al tramonto. Sono
reduce dalla caccia e ho il fucile inceppato; come si sia inceppato e che cosa
sia accaduto durante la partita di caccia lo so benissimo nel sogno, ma al
risveglio mai. È come se si alzasse all’improvviso un sipario e iniziasse un
dramma, o come se di punto in bianco fossi trasferito nel corpo e nella vita
di un altro uomo, ricordassi il suo passato e non sapessi di altre esistenze. È
il lato più diabolico della faccenda. Non vi sfuggirà che in genere, quando si
sogna, nel profondo della coscienza si sa di stare sognando. Per quanto un
sogno possa diventare orribile, ci rendiamo conto che è un sogno e quindi
evitiamo la follia e magari la morte. Ma nel mio caso non c’è questa
consapevolezza. Il sogno, vi assicuro, è così vivido, così ricco di minuti
particolari, che a volte mi chiedo se quella non sia la mia vera esistenza e
questa solo un sogno... Ma non può essere, perché altrimenti sarei morto da
anni.
“Come dicevo, salgo sulla collina e la prima cosa strana che noto è una
sorta di pista che si inerpica sul pendio in maniera irregolare, nel senso che
l’erba è calpestata come se vi fosse stato trascinato sopra qualcosa di
pesante. Non bado molto al particolare, perché sono intento a pensare
piuttosto irritato che il fucile inceppato è la mia unica arma e che mi toccherà
rinunciare alla caccia finché non me ne sarò procurato un altro.
“Come vedete, rammento i pensieri e le impressioni del sogno, nonché gli
eventi che vi accadono, mentre non rammento mai i ricordi del mio io
onirico, la storia della sua esistenza. Salgo dunque sul colle ed entro nel
bungalow. La porta è aperta e l’indù non c’è; ma la stanza principale è in
disordine, le sedie sono rotte, un tavolo è rovesciato. Il pugnale dell’indù
giace in terra, però non vi sono macchie di sangue da nessuna parte.
“Dunque nel sogno, diversamente da quanto capita a volte, non ho mai la
consapevolezza di avere già fatto lo stesso sogno. È sempre come se fosse la
prima volta, come se fosse il primo sogno di quel tipo. Ho sempre le stesse
sensazioni molto intense, ma come se non le avessi mai provate. Già,
proprio così. Non riesco a capire. L’indù, dicevo, è scomparso, ma (mi dico
in mezzo alla stanza in subbuglio) chi lo ha tolto di mezzo? Se fosse stata
una banda di razziatori negri, avrebbe saccheggiato e magari incendiato la
capanna. Se fosse stato un leone, ci sarebbero macchie di sangue. Poi di
colpo mi ricordo della pista che ho visto salendo sulla collina e sento un
brivido gelido corrermi lungo la schiena, perché all’improvviso capisco: la
creatura che è strisciata sull’erba fin quassù, provocando tanto scompiglio
nel piccolo bungalow, non può essere altro che un serpente gigante. E
mentre penso alle dimensioni delle tracce sull’erba, la fronte mi si imperla di
sudore freddo e il fucile inceppato mi trema nelle mani.
“Mi precipito alla porta terrorizzato, con un’unica idea in testa: correre
verso la costa. Ma il sole è tramontato e le ombre sono calate sulla prateria.
Là fuori, in agguato nell’erba alta, c’è il mostro, l’obbrobrio. Dio mio!”
Quell’esclamazione proruppe dalle sue labbra con tale veemenza che tutti
sussultammo, senza renderci conto di quanta tensione si fosse accumulata in
noi. Dopo un attimo di silenzio, Faming riprese.
— Sprango porte e finestre, accendo la lampada e mi piazzo al centro
della stanza, dove mi metto in ascolto, immobile come una statua. Dopo un
poco si alza la luna e la sua luce spettrale filtra dalle finestre. Resto fermo in
mezzo alla camera. La notte è assai quieta, come questa; solo, a tratti, un
leggero vento mormora tra l’erba e ogni volta trasalisco e stringo le mani
così forte che le unghie si conficcano nella carne e il sangue mi cola lungo i
polsi. Rimango in ascolto e in attesa, ma non arriva niente, non quella notte!
— L’ultima frase gli uscì di bocca come un’esplosione improvvisa e noi,
d’istinto, ci lasciammo sfuggire un sospiro; la tensione si era per un attimo
allentata.
— Decido che, se riuscirò a sopravvivere alla notte, all’alba mi dirigerò
verso la costa, correndo i miei rischi nella prateria insidiosa. Ma la mattina
non oso farlo. Non so in quale direzione sia andato il mostro e, disarmato
come sono, non ho il coraggio di affrontarlo all’aperto. Confuso, resto
quindi nel bungalow guardando sempre il sole, che segue la sua implacabile
traiettoria verso l’orizzonte. Dio mio, se solo potessi fermarlo nel cielo!
Faming era straziato da un’emozione terribile e le sue parole ci colpirono
con forza.
— Poi il sole cala e le lunghe ombre grigie invadono la prateria. Stordito
dalla paura, sprango porte e finestre e accendo la lampada molto prima che
si spenga l’ultimo bagliore del crepuscolo. La luce che esce dalle finestre
potrebbe attrarre il mostro, ma non oso rimanere al buio. Ancora una volta
mi metto in attesa al centro della stanza.
D’un tratto si interruppe, quindi, umettandosi le labbra, riprese a parlare
in un sussurro. — Impossibile sapere quanto tempo rimanga lì immobile. Il
tempo è cessato e ogni secondo è un eone, ciascun minuto un’eternità che si
estende per incommensurabili eternità. Dio mio, ma che cos’è quello? — Si
protese in avanti, mentre il chiaro di luna gli disegnava sul volto una tal
maschera di terrore che noi tutti rabbrividimmo e ci lanciammo una breve
occhiata alle spalle.
— Stavolta non è il vento notturno — mormorò. — Qualcosa fa frusciare
l’erba. È come se una lunga massa sinuosa si trascinasse sulla prateria. La
cosa striscia fin su, fino al bungalow; poi tace. È davanti alla porta e i
cardini cigolano, cigolano... La porta si incurva verso l’interno un poco, poi
sempre di più. — Faming tese le braccia come per puntellarsi contro un
muro e cominciò a respirare affannosamente. — Ora so che dovrei cercare
di tener chiusa la porta premendovi contro con tutto il peso, ma non lo
faccio: non posso muovermi. Rimango lì fermo come una pecora al macello,
ma la porta tiene. — Emise un altro di quei sospiri che esprimevano tutta la
sua emozione repressa.
Si passò una mano tremante sulla fronte. — Tutta la notte resto in mezzo
alla stanza, immobile come una statua, tranne quando mi volto lentamente
per seguire il fruscio che il mostro produce strisciando sull’erba intorno alla
casa. Ho sempre gli occhi puntati verso quel lieve suono sinistro. A volte
cessa per un istante o per alcuni minuti, e allora quasi non respiro, perché
sono ossessionato dall’idea terribile che il serpente sia riuscito in qualche
modo a entrare nel bungalow, e mi volto di qua e di là con la tremenda
paura irrazionale di fare rumore, ma sempre con la sensazione che la
creatura sia alle mie spalle. Poi il fruscio ricomincia e torno immobile come
una statua.
“In un unico caso la coscienza, che governa le mie ore di veglia, squarcia
in qualche modo il velo dei sogni. Nel sogno non sono assolutamente
consapevole di sognare, ma l’altra mia mente riconosce in maniera vaga
certi fatti e ne informa il mio... posso chiamarlo ‘io dormiente’? In altre
parole, per un istante la mia personalità è davvero doppia e in certa misura
scissa come sono scissi il braccio destro e il braccio sinistro pur facendo
parte della stessa entità. La mia mente onirica non ha cognizione della mia
mente razionale; per il momento la seconda è subordinata alla prima, la
quale detiene a tal punto il controllo da non riconoscere neppure l’esistenza
dell’altra. Ma la mente conscia, immersa nel sonno, capta le vaghe onde del
pensiero emanate dalla mente onirica. So di non essermi spiegato bene, ma è
indubbio che la mia mente, quella conscia come quella inconscia, sta per
collassare. Mentre sono fermo nel bungalow del sogno, la mia paura
ossessiva è che il serpente si sollevi e mi guardi dalla finestra. Nel sogno so
che se questo accadrà, impazzirò. L’impressione trasmessa alla mente
conscia dormiente è così vivida che le onde del pensiero increspano gli
oscuri mari del sonno e in qualche modo sento l’equilibrio psichico vacillare
come vacilla nel sogno. Esso ondeggia, barcolla, finché il dondolio assume
una dimensione fisica e nel sogno oscillo come un pendolo. La sensazione
non è sempre la stessa, ma vi assicuro che se il mostro alzerà la sua orrida
testa per guardarmi, se un giorno vedrò l’atroce serpente del mio sogno,
uscirò completamente di senno.”
A queste parole, noialtri ci agitammo inquieti.
— Dio mio, che prospettiva — mormorò. — Essere pazzi e sognare per
sempre lo stesso sogno, notte e giorno! Ma sono fermo nel bungalow e
passano i secoli, finché una vaga luce grigia filtra dalla finestra, il fruscio
svanisce in lontananza e presto un timido sole rosso sale nel cielo di levante.
Mi volto, mi guardo allo specchio e vedo che ho i capelli tutti bianchi. Vado
barcollando alla porta e la spalanco. Davanti a me vedo solo un’ampia pista
che scende tra l’erba del pendio nella direzione opposta a quella della costa.
Con una risata stridula, da folle, mi precipito giù per la collina, in mezzo
all’erba. Corro a perdifiato, poi crollo a terra esausto e rimango steso finché
non trovo la forza di rialzarmi e proseguire.
“Cammino tutto il giorno, con uno sforzo sovrumano, spronato
dall’orrore che mi sono lasciato alle spalle. E mentre mi spingo avanti sulle
gambe molli, mentre mi butto in terra per riprendere fiato, guardo il sole con
terribile ansia. Com’è breve il suo percorso nel cielo quando corri per
salvarti la vita! È una gara senza speranza; lo capisco quando il sole cala
all’orizzonte e le colline che avevo sperato di raggiungere prima del
tramonto sono più lontane che mai.”
Aveva abbassato la voce e, d’istinto, ci protendemmo verso di lui, che
stringeva forte i braccioli mentre il sangue gli colava dalla ferita alle labbra.
— Il sole tramonta, scendono le tenebre, io continuo ad avanzare
barcollando, cado, mi rialzo e procedo sulle gambe malferme. E rido, rido,
rido. Poi smetto, perché la luna sorge e illumina la prateria della sua spettrale
luce argentea. La luce è bianca sulla terra, ma la luna è come sangue. Mi
guardo alle spalle e laggiù, da dove sono venuto, vedo... — qui tutti noi,
con i capelli ritti in testa, ci protendemmo ancor più verso di lui, che ormai
parlava con un filo di voce — ... laggiù vedo... l’erba muoversi. Non c’è
vento, ma l’erba alta si divide e ondeggia alla luce della luna, delineando un
tracciato stretto e sinuoso, una pista lontana, ma che si avvicina ogni istante
di più.
Faming tacque.
Qualcuno ruppe il silenzio. — E allora...?
— Allora mi sveglio. Non ho ancora visto l’orrido mostro. Ma questo è il
sogno che mi ossessiona, e dal quale da piccolo mi svegliavo urlando e da
adulto mi sveglio in un bagno di sudore. Mi tormenta a intervalli irregolari e
negli ultimi tempi, quando lo faccio... — esitò, poi concluse: — ... quando
lo faccio, il mostro ha guadagnato qualche passo, l’erba ondeggiante segna
il suo progresso e ogni volta è sempre più vicino. Quando mi raggiungerà...
Si interruppe; quindi, senza dire una parola, si alzò di scatto ed entrò in
casa. Noialtri rimanemmo qualche minuto in silenzio e infine lo seguimmo,
perché era tardi.

Non so quante ore dormii, ma mi svegliai all’improvviso con


l’impressione che da qualche parte nella casa qualcuno fosse esploso in una
lunga, fragorosa, orribile risata: la risata di un pazzo. Chiedendomi se non
avessi sognato, mi alzai e mi precipitai fuori dalla stanza, mentre per la casa
echeggiava un urlo terrificante. Vidi che anche gli altri si erano svegliati e
corremmo tutti nella camera di Faming, da dove giungevano quei suoni.
Faming giaceva morto in terra, dove sembrava essere crollato dopo una
lotta spaventosa. Non presentava alcuna ferita, ma il viso, orribilmente
deformato, era quello di un uomo che fosse stato schiacciato dalla forza
sovrumana di un gigantesco serpente.
LA MALEDIZIONE DEL MARE

Alcuni tornan con le luci declinanti


altri nei sogni a occhi aperti,
ché lei ode passi di spettri gocciolanti
sopra il legno delle ruvide travi.
RUDYARD KIPLING

John Kulrek e il suo compare Boccabugiarda Canool erano gli


attaccabrighe, gli sbruffoni, gli ubriaconi e i chiassosi millantatori del
villaggio di Faring. Più volte io, un ragazzo dai capelli arruffati, mi ero
avvicinato quatto quatto alla porta della taverna per ascoltare le loro
imprecazioni, i loro discorsi blasfemi, le loro licenziose canzoni di mare, in
parte temendo in parte ammirando quei selvaggi pirati. Come me, tutti gli
abitanti di Faring nutrivano insieme paura e ammirazione per loro, perché
Kulrek e Canool non erano come gli altri uomini del paese: non si
accontentavano di esercitare il loro mestiere lungo la costa e vicino alle
secche. Non pescavano su piccole imbarcazioni a remi, loro. Andavano
lontano, molto più lontano di quanto fossero mai andati gli altri uomini del
villaggio: salivano sui grandi velieri che salpavano sulle onde bianche e
solcavano l’inquieto oceano grigio toccando i porti di esotiche terre.
Ah, come si animava il piccolo villaggio costiero di Faring quando John
Kulrek tornava a casa e, in compagnia del subdolo Boccabugiarda, si
pavoneggiava sulla passerella, sfoggiando gli abiti incatramati da marinaio e
l’alta cintura di pelle in cui teneva sempre infilato, per ogni evenienza, il
pugnale. A qualche conoscente di suo gradimento si degnava di lanciare un
sonoro saluto, se per caso da quelle parti vedeva una ragazza la baciava, poi
si incamminava lungo la strada cantando a squarciagola qualche scurrile
canzone di mare. Intorno ai due eroi disperati si affollavano oziosi lacchè e
tirapiedi che li adulavano, ghignando e ridendo sguaiatamente a ogni battuta
volgare. Ai fannulloni da taverna e ad alcuni dei paesani seri ma di carattere
debole, quei due, con le loro chiacchiere insolenti, le loro imprese brutali, le
loro storie dei sette mari e di contrade remote, apparivano prodi cavalieri,
animi nobili che osavano essere uomini fino in fondo, tutti sangue e
muscoli.
Erano universalmente temuti, sicché quando un uomo veniva bastonato o
una donna insultata, la gente mormorava, ma non reagiva. Così, quando la
nipote di Moll Farrell fu disonorata da John Kulrek, nessuno osò dire ciò
che tutti pensavano. Moll non si era mai sposata e viveva da sola con la
ragazza in una capanna talmente vicina all’oceano che quando c’era l’alta
marea le onde arrivavano quasi alla porta.
La gente del villaggio considerava Moll una sorta di strega, una vecchia
arcigna e macilenta che non aveva niente da dire a nessuno. Ma Moll badava
ai fatti suoi e sbarcava il misero lunario raccogliendo molluschi e
recuperando pezzi di legno sulla spiaggia.
La ragazza era graziosa e sciocca, vanitosa e ingenua, altrimenti non
avrebbe mai ceduto alle lusinghe da squalo di John Kulrek.
Rammento che era un freddo giorno d’inverno sferzato dal gelido vento
dell’Est quando la vecchia signora arrivò sulla strada principale del villaggio
strillando che la ragazza era scomparsa. Tutti corsero a cercarla in spiaggia e
tra le fosche colline dell’entroterra; tutti tranne John Kulrek e i suoi compari,
che stavano nella taverna a giocare a dadi e sbevazzare. Intanto, oltre le
secche, sentivamo il continuo sciabordio dell’inquieto, palpitante mostro
grigio, e nella luce vaga dell’alba spettrale la nipote di Moll Farrell tornò a
casa.
La marea la depose delicatamente oltre la battigia, quasi davanti all’uscio
di casa. Di un candore virginale, aveva le braccia incrociate sul petto
immobile e il viso quieto, mentre le onde grigie sospiravano intorno alle sue
membra esili. Moll Farrell aveva gli occhi come pietre, ma fissò la nipote
morta senza dire una parola, finché John Kulrek e il suo compare non
uscirono dalla taverna e non si avvicinarono barcollanti, con il bicchiere
ancora in mano. Era ubriaco, John Kulrek, e la gente avrebbe voluto
rendergli pan per focaccia ammazzandolo. Ma lui si avvicinò e rise in faccia
a Moll davanti al cadavere della nipote.
— Per la miseria, la ragazza si è annegata, Boccabugiarda! — esclamò.
Boccabugiarda rise, storcendo le labbra sottili. Aveva sempre odiato Moll
Farrell, perché era stata lei a dargli quel soprannome.
Poi Kulrek sollevò il boccale dondolandosi sulle gambe malferme. —
Brindo allo spettro della ragazza! — ruggì, mentre tutti lo fissavano attoniti.
Allora Moll Farrell parlò, e le parole le uscirono di bocca con urla che
fecero accapponare la pelle agli astanti.
— La maledizione del Maligno cada sulla tua testa, John Kulrek — gridò.
— Dio maledica per l’eternità la tua anima vile! Possa tu guardare cose che
ti secchino gli occhi e brucino l’anima. Possa tu morire di una morte orrenda
e torcerti nelle fiamme dell’inferno per milioni, milioni e milioni di anni. Io
ti maledico per il mare e per la terra, per il suolo e per l’aria, per i demoni
degli oceani e i demoni delle paludi, per i demoni delle foreste e i folletti
delle colline. — Puntò l’indice ossuto contro Boccabugiarda Canool (il
quale indietreggiò impallidendo) e aggiunse: — E tu sarai la sua morte e lui
sarà la tua. Tu condurrai John Kulrek sulla porta dell’inferno e John Kulrek
ti condurrà alla forca. Pongo il sigillo della morte sulla tua fronte, John
Kulrek. Vivrai nel terrore e morirai nell’orrore sul freddo mare grigio. Ma il
mare che ha preso nel suo seno l’anima innocente di mia nipote non
prenderà la tua, e scaraventerà la tua vile carcassa sulla sabbia. — Mentre,
davanti a quell’atroce intensità, l’aria beffarda da ubriaco di Kulrek lasciava
il posto a un’ottusità porcina, la vecchia concluse: — Sì, John Kulrek, il
mare mugghia per la vittima che non ha voluto tenersi. C’è neve sulle
colline: prima che si sciolga il tuo cadavere giacerà ai miei piedi, io vi
sputerò sopra e sarò contenta.

Kulrek e il suo compare salparono all’alba per un lungo viaggio, e Moll


tornò alla sua capanna e alla raccolta di molluschi. Diventò ancor più magra
e arcigna e negli occhi cominciò a covarle una luce folle. Più il tempo
passava, più la gente mormorava che aveva i giorni contati, perché era ormai
ridotta al lumicino; ma lei procedeva per la sua strada senza chiedere aiuto a
nessuno.
Fu un’estate breve e fredda e la neve sulle colline brulle dell’entroterra
non si sciolse, un fatto alquanto insolito che suscitò molti commenti tra i
paesani. Al crepuscolo e all’alba Moll scendeva in spiaggia e, con sguardo
ferocemente intenso, contemplava prima la neve che scintillava sulle cime,
poi il mare.
Le giornate si fecero più corte e le notti più lunghe e buie; le fredde onde
grigie invasero le tristi spiagge, portando la pioggia e il nevischio del gelido
vento dell’Est.
Un fosco giorno un mercantile entrò nella baia e gettò l’ancora. Tutti i
fannulloni e i perdigiorno si affollarono sui pontili, perché era la nave su cui
si erano imbarcati John Kulrek e Boccabugiarda Canool. Sulla passerella
comparve Boccabugiarda, più subdolo che mai, ma il suo compare non
c’era. Quando lo interrogarono, Canool scosse la testa. — Kulrek ha
abbandonato la nave nel porto di Sumatra — rispose. — Ha litigato con il
comandante, sapete. Ha cercato di indurre anche me a restare a terra, ma mi
sono rifiutato. Pensate un po’, volevo rivedere le vostre belle facce!
Quasi si schermiva, Boccabugiarda Canool, e d’un tratto, quando vide
comparire tra la folla Moll Farrell, indietreggiò. Per un attimo si fissarono,
poi Moll storse la bocca arcigna in un sorriso terribile.
— Hai le mani sporche di sangue, Canool! — gridò con violenza tanto
improvvisa che Boccabugiarda trasalì e si pulì la mano destra nella manica
sinistra.
— Scansati, strega! — ringhiò lui con subitanea rabbia, camminando in
mezzo alla folla che gli fece ala intorno. I suoi ammiratori lo seguirono nella
taverna.

Ricordo che il giorno dopo era ancora più freddo; una nebbia grigia
giunse da est e avvolse nelle sue spire il mare e la spiaggia. Poiché la nave
non sarebbe ripartita in giornata, tutti gli abitanti di Faring si chiusero nelle
loro case confortevoli o andarono a scambiare qualche chiacchiera alla
taverna. Accadde così che io e il mio amico Joe, un ragazzo della mia età,
fummo testimoni di strani avvenimenti.
Da quegli adolescenti avventati e privi di giudizio che eravamo, ci
sedemmo su una barchetta a remi ormeggiata in fondo a un molo. Ognuno
dei due avrebbe voluto che l’altro dicesse: “Su, torniamo a casa”, perché
non avevamo alcun motivo di stare sulla barca, se non forse quello di fare
indisturbati i nostri castelli in aria.
D’un tratto Joe alzò una mano e disse: — Ehi, non senti? Chi può avere
preso il mare in un giorno come questo?
— Nessuno. Perché, cos’hai udito?
— Se non sono un marinaio d’acqua dolce, questo è rumor di remi.
Ascolta.
Non c’era modo di vedere nulla nella nebbia, e io non udii alcun suono.
Eppure Joe giurava di sentire dei rumori e di colpo assunse una strana
espressione.
— Qualcuno sta remando qua in mare, t’assicuro. A giudicare dalle mie
orecchie, direi che la baia brulica di remi. Ci sono almeno una ventina di
barche, idiota, non senti?
Mentre scuotevo la testa, si alzò e cominciò a sciogliere la cima.
— Vado a vedere chi sono. Se la baia non risulterà piena di barche
affiancate come una fitta flotta, dammi pure del bugiardo. Vieni con me?
Sì, dissi, sarei andato con lui anche se non avevo udito nulla.
Allora ci tuffammo nella bruma grigia. La nebbia si richiuse davanti e
dietro a noi, sicché prendemmo a navigare in un vago mondo di fumo dove
non si vedeva né udiva niente. Presto ci smarrimmo, e maledissi Joe per
avermi trascinato in un’avventura assurda nella quale entrambi saremmo
finiti probabilmente annegati. Pensai alla nipote di Moll Farrell e rabbrividii.
Non so per quanto tempo andammo alla deriva. I minuti si stemperarono
in ore, le ore in secoli. Joe continuava a udire il suono dei remi, a volte
vicino, altre lontano, e per ore lo seguimmo, regolando la rotta in base alla
sua intensità. Su questo particolare avrei poi riflettuto successivamente,
senza capire.
Quando avevo ormai le mani così intirizzite da non riuscire a reggere il
remo e stavo cedendo alla morsa della sonnolenza causata dal freddo e dalla
stanchezza, lugubri stelle bianche squarciarono la nebbia, che d’un tratto si
alzò dissipandosi come un fantasma di fumo. Eravamo appena fuori
dall’imboccatura della baia: il mare, scuro e argenteo alla luce delle stelle,
era liscio come l’olio e il freddo più pungente che mai. Stavo girando la
barca per riportarla nella baia, quando Joe lanciò un grido e per la prima
volta udii anch’io lo schiocco degli scalmi. Mi guardai alle spalle e mi si
gelò il sangue.
Stagliandosi contro le stelle, una grande prua rostrata di forma strana e
sinistra ci veniva incontro. All’ultimo momento, mentre trattenevo il fiato,
virò bruscamente per non investirci, con un fruscio che non avevo mai udito
fare a nessun’altra imbarcazione. Urlando, Joe remò freneticamente indietro
e solo per un soffio non fummo investiti; sebbene la prua ci avesse mancato,
infatti, saremmo stati colpiti lo stesso, in quanto dai fianchi
dell’imbarcazione sporgevano i lunghi remi che, fila dopo fila, la
sospingevano. Anche se non avevo mai visto una nave così, sapevo che era
una galea; ma che cosa ci faceva lungo le nostre coste? Chi era stato in terre
lontane diceva che navi del genere erano ancora in uso presso gli infedeli
berberi; ma la Barberia distava molte, molte miglia marine e poi quella galea
non somigliava alle imbarcazioni descritte da chi era arrivato in quelle terre
lontane.
Ci lanciammo all’inseguimento e accadde un fatto strano: benché le acque
si aprissero davanti alla sua prora e la galea paresse quasi volare sulle onde,
non procedeva veloce, e in poco tempo la raggiungemmo. Legando la
nostra cima a una catena che si trovava a distanza di sicurezza dai remi della
galea, chiamammo i marinai sul ponte, ma non ricevemmo risposta. Alla
fine, vincendo la paura, ci arrampicammo sulla catena e mettemmo piede sul
ponte più singolare che si fosse mai visto in molti, ruggenti secoli.
— Non è una nave di pirati berberi — mormorò impaurito Joe. —
Guarda, sembra antichissima, quasi sul punto di cadere a pezzi. È quasi tutta
marcia, non vedi?
Non c’era nessuno né sul ponte né alla lunga barra del timone. Ci
dirigemmo alla scala che portava ai banchi di voga e lì, se mai qualcuno fu
sul punto di perder la ragione, fummo noi. Perché i vogatori c’erano, certo,
e sedevano ai banchi fendendo l’acqua grigia con i remi scricchiolanti, ma
erano tutti scheletri.
Con un urlo, attraversammo d’un balzo il ponte per tuffarci in mare, ma
all’altezza del parapetto inciampai e, cadendo lungo disteso, vidi qualcosa
che mi fece dimenticare l’orrore provato davanti agli spettrali vogatori. Ciò
in cui ero inciampato era un corpo umano, e alla fioca luce grigia che
cominciava a illuminare l’orizzonte a levante notai che dalla schiena gli
spuntava un manico di pugnale. Joe, sul parapetto, mi incitò a sbrigarmi e
insieme scendemmo dalla catena da cui eravamo saliti e tagliammo la cima.
Ci mantenemmo al largo, nella baia. La sinistra galea continuò a
procedere e noi la seguimmo lentamente, chiedendoci dove fosse diretta.
Pareva puntare proprio contro la spiaggia e i moli, e quando ci avvicinammo
scorgemmo le banchine affollate di persone che, chiaramente, non ci
avevano visto. Tutti, alle prime luci dell’alba, contemplavano increduli quel
fantasma emerso dalla notte e dal terribile oceano.
La galea continuò a navigare con i remi che frusciavano sull’acqua; poi,
prima di arrivare alla secca, un terribile schianto fece tremare la baia.
Davanti ai nostri occhi, la tetra imbarcazione si dissipò e scomparve. Le
acque verdi ribollirono nel punto in cui erano state da questa solcate, ma
non si vedeva alcun relitto, né lo si vide in seguito a riva. O meglio,
qualcosa fu sbattuto sulla battigia, ma era un reperto assai inquietante.

Approdammo in mezzo a una folla che vociava concitata, ma che d’un


tratto si zittì. Ritta accanto alla propria capanna, Moll Farrell si stagliava
magra contro l’alba spettrale e indicava con la mano ossuta il mare. Tra lo
spumeggiante sciabordio delle acque sulla sabbia, spinto dalle onde grigie,
era giunto a riva qualcosa che rotolò ai piedi di Moll. Quando ci radunammo
lì intorno, due occhi vitrei incastonati in un immoto volto terreo ci fissarono.
John Kulrek era tornato a casa.
Giaceva inerte e orripilante, cullato dalla risacca, e quando questa lo
rovesciò sul dorso, tutti ci accorgemmo che aveva conficcato nella schiena
un pugnale, lo stesso che avevamo visto innumerevoli volte infilato nella
cintura di Boccabugiarda Canool.
— Sì, l’ho ucciso io! — strillò Canool, strisciando come un verme sotto i
nostri sguardi. — In mare, durante una notte di bonaccia in cui ci siamo
ubriacati e abbiamo litigato, l’ho ammazzato e gettato fuoribordo. Da oceani
lontani mi ha seguito perché — la sua voce si ridusse a un sinistro sussurro
— a causa della maledizione il mare non ha voluto tenerselo.
Lo sciagurato s’afflosciò tremante, già con lo spettro della forca nello
sguardo.
— Sì! — gridò Moll Farrell con voce profonda e tono esultante. —
Dall’inferno delle navi perdute, Satana ha mandato una galea dei secoli
lontani, una barca rossa di sangue e lorda della memoria di orrendi crimini.
Nessun’altra imbarcazione avrebbe potuto trasportare una carcassa così vile.
Il mare si è preso la sua vendetta e ha permesso a me di ottenere la mia.
Guardate ora come sputo in faccia a John Kulrek.
Con un’orrenda risata, Moll Farrell crollò in avanti sputando sangue. E il
sole sorse sul mare inquieto.
IL FANTASMA DELLA BRUGHIERA

Lo trascinarono al crocevia
alla fine del giorno funesto;
lo appesero al patibolo
lasciando ai corvi il resto.

Lorda di sangue la sua mano era


e il suo spettro non avrà mai pace;
vaga per la spoglia brughiera
intorno alla forca rapace.

Spesso un solitario viandante


rinvengono negli acquitrini,
vitreo l’occhio allucinante
per orrori clandestini.

Nel villaggio si dà fiato


a cupi accenti di bufera:
“Quest’uomo di notte ha incontrato
il fantasma della brughiera.”
LA LUNA IRRIDENTE

Nel bosco di Tara un’estiva sera,


nella muta volta da stelle infestata,
salì falce di luna tra nebbia argentata,
incombente sul colle impaurita com’era.
Le presi il velo e la tenni stretta:
il suo bagliore trafisse il mio sguardo,
poi sparì rapida come uccello beffardo,
e nella luce opalina discesi in fretta.

Presto notai, verso il piano andando,


di avere uno strano, nuovo contorno;
ignota gente s’affannava a me intorno
e se dicevo il mio nome tremando,
guardava altrove, finché mosso a pietà
uno disse: “Morì a Tara un secolo fa”.
IL PICCOLO POPOLO

Mia sorella depose il libro che stava leggendo, anzi, per l’esattezza me lo
tirò.
— Che sciocchezze! — disse. — Favole! Dammi quel libro di Michael
Arlen.
Obbedii meccanicamente, guardando il volume che aveva suscitato il suo
disgusto di adolescente. Era il racconto La piramide di fuoco, di Arthur
Machen.
— Ma è un capolavoro della letteratura outré, mia cara — replicai.
— Sì, ma l’idea... — Sbuffò. — È da quando avevo dieci anni che non
credo più alle favole.
— Questa particolare favola non intende porsi come esempio di realismo
— spiegai pazientemente.
— È troppo astrusa — sentenziò, categorica come tutte le diciassettenni.
— Voglio leggere di cose che potrebbero succedere. Chi è il “Piccolo
Popolo” di cui parla, i soliti barbosi elfi e troll?
— Tutte le leggende affondano le radici in eventi reali — dissi. — C’è un
motivo...
— Non vorrai mica dirmi che queste cose sono esistite sul serio? — mi
interruppe — Ma va’ al diavolo!
— Non così in fretta, signorina — la ammonii, piuttosto irritato. —
Volevo dire che tutti i miti hanno tratto origine da realtà concrete che in
seguito sono state modificate e distorte al punto da assumere un significato
soprannaturale. I giovani — continuai guardando con fraterno cipiglio il suo
visino imbronciato — tendono ad accettare acriticamente o a respingere
integralmente le cose che non capiscono. Forse il Piccolo Popolo di cui parla
Machen è costituito dai discendenti degli uomini preistorici vissuti in Europa
prima che i celti calassero dal Nord.
“Sono chiamati con vari nomi: turaniani, pitti, mediterranei o mangiatori
d’aglio. Erano uomini bassi e scuri, tracce dei quali si rinvengono oggi in
regioni primitive dell’Europa e dell’Asia, per esempio tra i baschi di
Spagna, gli scozzesi di Galloway e i lapponi.
“Siccome lavoravano la selce, gli antropologi li definiscono uomini del
neolitico o dell’Età della Pietra levigata. I reperti neolitici dimostrano
chiaramente che quegli uomini, sia pur primitivi, avevano raggiunto un
grado relativamente alto di civiltà all’inizio dell’Età del Bronzo, la quale,
cara la mia ragazza, fu inaugurata dagli antenati dei celti, i nostri progenitori
preistorici.
“Questi sgominarono o ridussero in schiavitù i popoli mediterranei e
furono a loro volta soppiantati dalle tribù teutoniche. Secondo la leggenda,
in tutta Europa e soprattutto in Britannia, i pitti, che i celti consideravano a
stento umani, si rifugiarono in caverne sotterranee e lì vissero, uscendo solo
la notte per uccidere, incendiare case e rapire bambini da usare nei loro
cruenti riti religiosi. Vi è senza dubbio molta verità in questa leggenda. Mi
pare logico che, essendo discendenti di cavernicoli, i nani sgominati dagli
invasori abbiano cercato rifugio in grotte, e senza dubbio riuscirono a vivere
in clandestinità per svariate generazioni.”
— Tutto questo accadde molto tempo fa — disse mia sorella minore con
scarso interesse. — Se mai sono esistiti esseri del genere, sono morti da
secoli. Insomma, ci troviamo proprio nel paese in cui si sarebbero dovuti
rivelare e non ne abbiamo mai visto traccia.
Annuii. Diversamente da me, Joan non era affascinata dalle misteriose
regioni occidentali. In me gli immensi menhir e cromlech che si levavano
desolati in mezzo alla brughiera suscitavano vaghi ricordi di razze lontane e
stimolavano la fantasia celtica.
— Forse hai ragione — dissi, e aggiunsi incautamente: — Hai sentito
però che quel vecchio paesano ci ha diffidato dal camminare nella palude di
notte. Nessuno si azzarda a farlo. Tu sei molto evoluta, mia cara, ma
scommetto che non passeresti mai la notte da sola tra le rovine di pietra che
vediamo dalla mia finestra.
Depose il libro e mi guardò con gli occhi che brillavano di interesse e
senso di sfida.
— Lo farò! — esclamò. — Ti farò vedere. Il vecchio ha detto che
nessuno si avvicina mai a quelle antiche pietre di sera, vero? Be’, io mi ci
avvicinerò e ci resterò per tutta la notte!
Si alzò all’istante, e compresi di aver commesso un errore.
— No, non ci andrai nemmeno tu — dissi. — Che cosa penserebbe la
gente?
— Che me ne importa? — ribatté lei con lo spirito ribelle delle nuove
generazioni.
— È assurdo andare nella brughiera di notte — replicai. — Le antiche
leggende saranno anche tutte sciocchezze, d’accordo, ma nottetempo ci sono
molti loschi individui che non esiterebbero a far del male a una ragazzina
inerme. Non è consigliabile che un’adolescente come te se ne vada in giro
senza nessuno che la protegga.
— Vuoi dire che sono troppo carina?
— Voglio dire che sei troppo sciocca — ribattei con la maggiore
autorevolezza fraterna che mi riuscì di trovare.
Mi fece una smorfia e rimase zitta un istante, mentre io, che leggevo con
incredibile facilità nella sua agile mente, capivo dalla sua aria meditabonda e
dagli occhi scintillanti che cosa pensava. Stava immaginando il suo ritorno a
casa, quando una folla di amici l’avrebbe circondata e lei avrebbe detto, con
parole che già adesso stava rimuginando: “Sapete, ho passato un’intera notte
tra le rovine più antiche e romantiche dell’Inghilterra occidentale, che
dicevano essere infestate da spettri...”.
Mi stavo maledicendo per aver tirato fuori l’argomento, quando disse di
punto in bianco: — Ci andrò lo stesso. Nessuno mi farà del male e non
intendo assolutamente lasciarmi sfuggire l’occasione di una simile
avventura.
— Joan — dissi — ti proibisco di uscire da sola stasera o qualsiasi altra
sera.
Mandò lampi dagli occhi e subito mi pentii di non avere formulato il mio
divieto in maniera più diplomatica. Mia sorella era testarda e coraggiosa,
abituata a fare quello che voleva e insofferente di ogni restrizione.
— Non puoi darmi degli ordini — proclamò sdegnata. — Da quando
abbiamo lasciato l’America, non hai fatto altro che comportarti da
prepotente con me.
— Ci sono stato costretto — sospirai. — Credimi, conosco un sacco di
passatempi più belli che girare per l’Europa con una maschietta come te.
Aprì la bocca come per darmi una rispostaccia, poi scrollò le esili spalle,
si appoggiò allo schienale della sedia e riprese in mano il libro.
— E va bene, tanto non mi andava molto di uscire — disse quasi con
indifferenza.
La scrutai con sospetto: di solito non si lasciava ammansire così
facilmente, e anzi, alcuni dei momenti più atroci della mia vita erano stati
quelli in cui avevo dovuto convincerla con le blandizie a desistere dal suo
atteggiamento ribelle.
I miei sospetti non svanirono del tutto nemmeno quando, pochi minuti
dopo, annunciò di volersi ritirare nella sua stanza dall’altra parte del
corridoio.
Spensi la luce e andai alla finestra, da cui si godeva un’ampia vista della
grande, desolata brughiera disseminata di dossi. La luna stava sorgendo e la
terra splendeva squallida e brulla sotto i suoi raggi freddi. L’aria della tarda
estate era tiepida, ma il paesaggio appariva freddo, tetro e ostile. In mezzo
alla landa si levavano, scure e spoglie, le guglie alte e scabre delle rovine.
Sinistre e terribili si stagliavano contro il cielo notturno, muti spettri di...

[In questo punto nel dattiloscritto di Robert E. Howard manca una pagina.]

Joan assentì senza entusiasmo e mi restituì il bacio in maniera piuttosto


meccanica. L’obbedienza forzata è disgustosa.
Tornato nella mia stanza, andai a letto. Non riuscii però ad
addormentarmi subito; ero infatti ferito dall’evidente risentimento di mia
sorella e giacqui a lungo sveglio, rimuginando e guardando la finestra, che
adesso incorniciava la luce argentea della luna. Alla fine caddi in un sonno
inquieto, funestato da vaghi sogni in cui si agitavano forme spettrali tanto
confuse quanto maligne.
Svegliatomi di soprassalto, mi tirai su a sedere e mi guardai intorno
attonito, cercando di orientarmi con i miei sensi intorpiditi. Provavo la
sensazione opprimente che il male incombesse su di me. Quando ripresi
piena coscienza l’impressione svanì subito, ma permase in me l’inquietante
ricordo di uno strano sogno in cui una nebbia bianca entrava dalla finestra e
assumeva l’aspetto di un vecchio alto, dalla barba bianca, che mi scrollava le
spalle come per destarmi. Tutti noi conosciamo la curiosa impressione che si
prova quando ci si sveglia da un incubo e il ricordo confuso di pensieri e
sensazioni sfuma sempre di più. Ma più desto ero, più forte si faceva l’idea
di un male incombente.
Balzai in piedi, afferrai i vestiti e corsi nella stanza di mia sorella,
spalancandone la porta. La camera era vuota.
Scesi a precipizio le scale e interrogai il portiere di notte, che per qualche
oscura ragione il piccolo albergo continuava a tenere.
— La signorina Costigan, signore? È scesa vestita di tutto punto poco
dopo mezzanotte, circa mezz’ora fa. Ha detto che andava a fare una
passeggiata nella brughiera e di non preoccuparmi se non tornava subito.
Corsi fuori dall’albergo con il cuore in tumulto. In lontananza, nella
brughiera, scorsi le rovine alte e sinistre illuminate dalla luce della luna e mi
affrettai in quella direzione. Alla fine, dopo quelle che mi parvero ore,
distinsi una figura esile a una certa distanza. Joan procedeva lenta e, benché
avesse un vantaggio su di me, guadagnai terreno in fretta e presto fui così
vicino da poterla chiamare. Avevo il respiro affannoso per lo sforzo, ma
accelerai il passo.
C’era un clima quasi tangibile di oppressione: qualcosa mi gravava
addosso, appesantendomi le membra, e la sensazione del male incombente
aumentava sempre più.
Notai che davanti a me, in lontananza, mia sorella si fermava di colpo e si
guardava intorno confusa. Il chiaro di luna gettava un velo di illusione sulle
cose: vedevo Joan, ma non riuscivo a capire che cosa l’avesse d’un tratto
spaventata. Mi misi a correre; il sangue mi ribolliva nelle vene, ma si gelò
all’improvviso quando udii un grido selvaggio e disperato che echeggiò per
tutta la brughiera.
Joan si voltò prima a destra, poi a sinistra; le urlai di venire dalla mia
parte, e lei mi udì e obbedì, correndo come un’antilope terrorizzata. Allora li
vidi. Ombre vaghe le guizzavano intorno: esseri bassi come nani, che
formarono un solido muro davanti a me, impedendole di raggiungermi.
D’un tratto, credo d’istinto, Joan girò le spalle e si precipitò verso le colonne
di pietra, inseguita da tutti i nani, tranne quelli che rimasero a sbarrarmi il
passo.
Non avevo armi né ne sentivo il bisogno; oltre a essere un giovane forte e
atletico, ero un abile pugile dilettante, micidiale sia di destro sia di sinistro.
Sentivo ribollirmi dentro istinti primordiali, come fossi un cavernicolo
deciso a vendicarsi di una tribù che aveva cercato di rapire una donna della
sua famiglia. Non avevo paura: desideravo solo dare battaglia. Sì, sapevo
chi erano, li conoscevo da tempo immemorabile e tutte le antiche guerre
sorsero ruggendo dalle nebbiose caverne della mia anima. L’odio mi batteva
in petto come ai vecchi tempi in cui gli uomini della mia razza erano scesi
dal Nord. Sì, avrei combattuto anche se l’intera stirpe dell’inferno fosse
uscita dalle caverne di cui era disseminata la brughiera.
Adesso avevo quasi raggiunto gli esseri che mi sbarravano la strada e
vidi bene i loro corpi rachitici, gli arti nodosi, gli occhi tondi da serpente che
mi fissavano senza battere le palpebre, le facce squadrate e grottesche dai
lineamenti inumani, lo scintillio dei pugnali di selce nelle mani ricurve. Con
un balzo felino piombai tra loro come un leopardo tra gli sciacalli, e i
particolari si confusero in un unico vortice di sangue. Chiunque fossero,
erano di sostanza vivente, perché le facce si schiacciarono e le ossa si
sbriciolarono sotto la mia gragnuola di pugni, e il sangue annerì le pietre
inargentate dalla luna. Un pugnale di selce mi si conficcò fino al manico
nella coscia. Poi gli orrendi nani ruppero le righe e fuggirono da me come i
loro antenati erano fuggiti dai miei, lasciando quattro piccole figure senza
vita distese in terra.
Incurante della ferita alla gamba, ripresi a correre a perdifiato. Joan aveva
ormai raggiunto le rovine druidiche e, quasi obbedendo a un istinto vago,
come avevano fatto le donne della sua razza in epoche lontane aveva cercato
alla cieca protezione dietro una colonna di pietra, alla quale si era appoggiata
esausta.
Gli esseri orrendi che la inseguivano la stavano accerchiando e
l’avrebbero raggiunta prima di me. Dio, in che tremenda situazione era! Ma
nei recessi della mia mente orrori più biechi sussurravano, frammenti di
sogni in cui creature deformi inseguivano donne dalle membra bianche in
mezzo a brughiere come quella. Misteriosi ricordi delle epoche in cui l’alba
era giovane e gli uomini lottavano con forze non umane.
Mia sorella svenne e crollò pietosamente, con la sua veste bianca, ai piedi
dell’altissima colonna. I nani si avvicinarono sempre di più,
inesorabilmente. Quali fossero le loro intenzioni non sapevo, ma gli spettri
degli antichi ricordi mormoravano che avrebbero fatto qualcosa di sinistro,
malvagio, orrendo.
Dalle mie labbra uscì un urlo selvaggio, un verso inarticolato di orrore e
disperazione primordiali. Non avrei mai raggiunto mia sorella prima che
quei mostri perpetrassero l’atroce atto che intendevano compiere su di lei.
Secoli ed ere sparirono di colpo e mi sentii tornare ai primordi. Non so
spiegare quello che seguì, ma credo che il mio urlo lacerante sia echeggiato
nelle lunghe latebre del tempo fino agli esseri che i miei antenati adoravano,
e che il sangue abbia risposto al sangue. Sì, un urlo risuonò per i polverosi
corridoi delle ere perdute e ripescò dall’abisso gorgogliante dell’eternità lo
spettro dell’unico uomo che poteva salvare una ragazza di sangue celtico.
Il nano più vicino era a pochi passi da Joan e le mani di quei mostri
deformi stavano per afferrarla, quando comparve accanto a lei una figura.
Non si materializzò gradualmente, ma all’improvviso, stagliandosi netta e
distinta contro la luce della luna. Era un uomo alto, dalla barba bianca,
avvolto in una lunga tunica: l’uomo che avevo visto in sogno. Un druido
che aveva risposto ancora una volta al disperato richiamo della sua razza.
Pur correndo vidi che aveva una fronte alta e aristocratica e uno sguardo
carico di mistica saggezza. Levò la mano in un gesto imperioso e i
nanerottoli si arrestarono, si ritrassero sempre di più, per poi fuggire,
disperdendosi e scomparendo alla vista. Caddi in ginocchio accanto alla mia
sorellina e la presi tra le braccia. Sollevai un istante gli occhi a guardare
l’uomo che, levando spada e scudo contro le potenze delle tenebre, aveva
protetto tribù inermi come agli albori del mondo, ed egli alzò la mano su di
noi come benedicendoci, prima di svanire a sua volta lasciandosi dietro la
brughiera spoglia e silenziosa.
L’ODIO DI UN MORTO

All’alba John Farrel nella piazza del mercato penzolò,


al tramonto Adam Brand giunse e in faccia gli sputò.
“Olà, compari” disse “questa fu la sua sorte
ché dell’odio d’un uomo la forca è più forte.

“Avete sentito Farrell giurarmi vendetta


vivo o morto, ma mirate del nodo la stretta!”
Tutti ammutolirono per spavento e stupore,
ché John alzò il capo, lo fissò nel suo orrore

e indicando col dito lento, rigido, strano


scese dal patibolo con il cappio in mano.
Restò Brand come statua e spalancò la bocca,
il morto lo toccò con la viscida nocca.

Con urlo di dannato, Adam terreo in viso


corse terrorizzato inseguito dall’ucciso,
che col volto di mummia e la morta giuntura
avanzava scrocchiando nell’insolita ventura.

Tutti, davanti ai due, inorriditi scappavan,


sul viso di Adam il sigillo della morte notavan.
Egli vacillò sulle gambe ma continuò a fuggire;
tremendo veder il morto un morente inseguire.

Sulla riva cadde con urlo che il ciel squarciò;


poc’oltre crollò Farrel, né alcun più si rialzò.
Non aveva ferite, Brand, ma pelle di galaverna:
paura l’avea spento come strega spegne lucerna.

La bocca era atra, storta, di demon su braci d’inferno;


la gente che lo vide da allora ha un incubo eterno.
Questo di Adam Brand il fato strano e contorto:
più forte della forca è l’odio folle d’un morto.
LA TAVERNA

Sorge in foresta oscura da lupi infestata


una taverna simile a un mostro, trista pianta
tra i cui foschi abbaini nessun uccello canta.
Il viandante ramingo, quando la luna è arrossata,
bussa nella speranza di placar fame e sete,
ma i suoi passi all’interno si spengono tosto,
egli non torna indietro, ma da un uscio nascosto
recando orrendo fardello escon ombre segrete.

Di giorno, sotto le verdi, lucide fronde silenti,


la taverna s’acquatta odiando la luce del sole,
vampiro in agguato, squallida orribile mole.
Si intravede qualcosa dietro i suoi battenti,
facce lebbrose spaurite, come di fungo il biancore,
che sbirciano, sussultano, origliano a tutte l’ore.
UNO SCRICCHIOLIO D’OSSA

— Ehi, c’è nessuno? — Il grido ruppe il triste silenzio ed echeggiò


inquietante per la Foresta Nera.
— Che aspetto deprimente ha questo posto.
Due uomini erano arrivati all’ostello nel bosco, un edificio basso, lungo e
irregolare, fatto di massicci tronchi. Le finestrelle erano protette da grosse
sbarre e sopra la porta chiusa penzolava una sinistra insegna con l’immagine
sbiadita di un cranio spaccato.
La porta si aprì lentamente e ne fece capolino un viso barbuto. Il
proprietario del viso arretrò e invitò quasi di malavoglia i due ospiti a
entrare. Una candela ardeva su un tavolo e nel caminetto il fuoco covava
sotto la cenere.
— Come vi chiamate?
— Solomon Kane — rispose secco l’uomo più alto.
— Gaston l’Armon — fece brusco l’altro. — Ma perché ce lo domanda?
— Nella Foresta Nera gli sconosciuti sono molto pochi, mentre i banditi
tanti — grugnì il locandiere. — Sedete pure al tavolo, vi porterò da
mangiare.
I due si sedettero con i movimenti stanchi di chi aveva viaggiato molto.
Kane, alto e magro, portava un cappello senza piume e un austero abito nero
che metteva in risalto il tetro pallore del viso arcigno. L’altro era un tipo
assai diverso, tutto pizzi e piume, benché la sua eleganza fosse stata in
qualche modo intaccata dal viaggio. Aveva una bellezza in certo modo
sfacciata e girava gli occhi inquieti continuamente intorno, senza fermarsi un
istante.
L’oste portò vino e vivande al rozzo tavolo e si ritirò nell’ombra come
un’immagine tenebrosa. Il suo viso, che ora si confondeva con lo sfondo
vago della parete, ora si stagliava cupo contro la luce delle fiamme guizzanti,
era incorniciato da una barba così folta da parere quasi pelo animale.
Campeggiava in quel volto barbuto un grande naso aquilino, sopra il quale
due occhietti rossi fissavano imperturbabili gli ospiti.
— Lei chi è? — chiese di punto in bianco il viandante più giovane.
— Sono l’oste della taverna del Cranio spaccato — rispose burbero
l’altro, con un tono che scoraggiava dal fare altre domande.
— Ha molti ospiti? — continuò l’Armon.
— Ben pochi tornano la seconda volta — bofonchiò il locandiere.
Trasalendo, Kane lo guardò dritto negli occhi rossi, come se cercasse un
significato nascosto in quelle parole. L’uomo parve dilatare gli occhi
ardenti, per poi abbassarli cupamente davanti allo sguardo freddo
dell’inglese.
— Vado a letto — disse d’un tratto Kane, finendo di mangiare. — Devo
riprendere il viaggio all’alba.
— Anch’io — disse il francese. — Oste, ci accompagni nelle nostre
stanze.
Ombre nere si disegnarono sulle pareti quando i due seguirono il
silenzioso locandiere per un lungo corridoio buio. L’uomo, già grasso e
tozzo, parve diventare ancor più corpulento alla luce della piccola candela
che teneva in mano, proiettando alle sue spalle una lunga ombra sinistra.
Si fermò davanti a una porta e indicò con un cenno che quella era la loro
stanza. Dopo che i due furono entrati, accese la candela con quella che
reggeva in mano, poi se ne andò.
Nella camera i viandanti si scambiarono un’occhiata. Il mobilio era
costituito solo da due brande, un paio di sedie e un tavolo massiccio.
— Vediamo se c’è modo di sprangare la porta — disse Kane. — Non mi
piace la faccia di quell’oste.
— Ci sono lo stipite e gli anelli per far scorrere il catenaccio, ma il
catenaccio manca — osservò Gaston.
— Potremmo spaccare il tavolo e usarne i pezzi a mo’ di sbarra — rifletté
Kane.
— Mon Dieu, ha una bella paura, monsieur — disse l’Armon.
Kane aggrottò la fronte e replicò brusco: — Non mi piace farmi
assassinare nel sonno.
— Perbacco — rise il francese — e noi? Ci siamo incontrati per caso:
fino a quando, un’ora prima del tramonto, non l’ho raggiunta sulla strada
della foresta, non ci eravamo mai visti.
— L’ho già vista da qualche parte, anche se non ricordo dove — replicò
Kane. — Quanto all’altro, parto dal presupposto che ogni uomo sia onesto
finché non mi si rivela un mascalzone; e poi ho il sonno leggero e dormo
con la pistola a portata di mano.
Il francese rise di nuovo.
— Ah, ah, mi chiedo come monsieur trovi il coraggio di dormire nella
stessa stanza con uno sconosciuto! Va bene, m o n sieu r l’inglese,
spranghiamo la porta prendendo il catenaccio da una delle altre.
Portandosi dietro la candela, uscirono nel corridoio. Regnava un silenzio
di tomba e la piccola fiamma tremolò rossa e maligna nel buio pesto.
— L’oste non ha né ospiti né servi — mormorò Solomon Kane. — Una
ben strana taverna. Com’è il nome? Faccio fatica a tenere a mente quelle
parole tedesche... Cranio spaccato, vero? Dio mio, che nome orrendo.
Guardarono nelle stanze vicine, ma non trovarono nessun catenaccio.
Finalmente giunsero all’ultima in fondo al corridoio. Era ammobiliata come
le altre, solo che la porta era fornita di una finestrella protetta da sbarre ed
era chiusa dall’esterno da un pesante catenaccio fissato a un’estremità dello
stipite. Tolsero il catenaccio e guardarono dentro.
— Dovrebbe esserci una finestra che dà sull’esterno, ma non c’è —
mormorò Kane. — Guardi!
Il pavimento era macchiato di nero. Le pareti e l’unica branda erano
spaccate in alcuni punti, ed erano state divelte grandi schegge.
— Qui sono morti degli uomini — disse cupo Kane. — Non è una
sbarra, quella lì attaccata al muro?
— Sì, ma è fissata bene — osservò il francese, provando a tirarla. — Il...
Una sezione di parete si aprì verso l’interno come una porta e Gaston
proruppe in un’esclamazione di stupore vedendo comparire un camerino
segreto. Assieme a Kane, si chinò sul macabro reperto che giaceva sul
pavimento.
— Lo scheletro di un uomo — disse. — E guardi, una gamba è
incatenata al pavimento. È morto prigioniero qui.
— No, il cranio è spaccato — disse Kane. — Credo che il nostro
locandiere abbia avuto un truce motivo per dare alla sua taverna quel nome
infernale. Come noi, quest’uomo era senza dubbio un viaggiatore che è
caduto nelle mani del mostro.
— Può darsi — disse distratto Gaston, tutto preso dal vano tentativo di
sfilare il grande anello di ferro dalla tibia dello scheletro. Non riuscendoci,
snudò la spada e, esibendo una forza notevole, tranciò la catena che univa
l’anello in cui era infilata la gamba alla boccola infissa nel pavimento di
tronchi.
— Perché tenere incatenato uno scheletro al pavimento? — si chiese. —
Monbleu! Significa sprecare una buona catena. Ora, monsieur — si rivolse
ironicamente al bianco mucchio d’ossa — l’ho liberata e può andare dove
vuole.
— Non dica così — fece rauco Kane. — Non va bene irridere i morti.
— I morti dovrebbero potersi difendere — rise l’Armon. — Io
ammazzerei il mio assassino anche se per farlo il mio cadavere dovesse
riaffiorare da quaranta braccia di oceano.
Kane si girò verso la porta esterna e chiuse alle sue spalle quella della
stanza segreta. Non gli piacevano quei discorsi che sapevano di magia nera e
stregoneria, e aveva fretta di affrontare l’oste accusandolo del suo delitto.
Quando si voltò, dando le spalle al francese, sentì il tocco dell’acciaio
freddo contro il collo e comprese di avere la canna di una pistola puntata
contro la nuca.
— Non si muova, monsieur — disse l’Armon con voce bassa e melliflua.
— Non si muova o le faccio schizzare quel suo cervello di gallina per tutta
la stanza.
Furibondo in cuor suo, il puritano alzò le mani mentre l’altro gli toglieva
pistola e spada dai foderi.
— Ora può voltarsi — disse Gaston facendo un passo indietro.
Kane squadrò con occhio torvo il damerino, che adesso teneva il cappello
in una mano e la pistola a canna lunga nell’altra.
— Gaston il Macellaio! — esclamò cupo. — Che stupido sono stato a
fidarmi di un francese. Ne ha fatta di strada, assassino. Adesso che si è tolto
quel grande cappello, mi ricordo di lei. L’ho vista a Calais qualche anno fa.
— Sì, e adesso non mi rivedrà mai più. Che cos’è questo rumore?
— Ratti che frugano tra le ossa dello scheletro — disse Kane, tenendo
d’occhio il bandito come un falco nella speranza di veder vacillare anche
solo per un istante la canna nera della pistola. — Il rumore è uno
scricchiolio d’ossa.
— Può darsi — disse l’altro. — Bene, monsieur Kane, so che ha addosso
molto denaro. Pensavo di aspettare che si fosse addormentato per ucciderla,
ma si è presentata questa occasione e l’ho colta. È facile trarla in inganno.
— Non pensavo di dover temere un uomo con cui ho diviso il pane —
replicò Kane con una cavernosa nota di furore nella voce.
Il bandito scoppiò in una risata cinica. Poi, stringendo gli occhi,
indietreggiò piano verso la porta. Kane tese d’istinto nervi e muscoli,
raccogliendo tutte le forze come un lupo gigantesco sul punto di scattare; ma
la mano di Gaston era ferma come una roccia e la pistola non gli tremò mai
tra le dita.
— Non ci saranno balzi disperati dopo lo sparo — disse Gaston. —
Fermo, monsieur. Ho visto uomini uccisi da moribondi e voglio porre tra
noi due una distanza sufficiente a precluderle questa possibilità. Le assicuro
che sparerò, e che lei con un ruggito proverà a caricare, ma morirà prima di
raggiungermi con le mani nude. E il nostro locandiere avrà un altro
scheletro nella sua nicchia segreta; sempre che io non lo uccida,
naturalmente. Quell’idiota non mi conosce né io conosco lui, e poi...
Il francese era ormai sulla soglia e prese la mira. La candela che avevano
infilato in una nicchia del muro mandava una luce sinistra e tremolante che
non arrivava oltre la soglia. Con la fulmineità della morte, dalle tenebre alle
spalle di Gaston emerse una grande ombra confusa che lo colpì con una
lama scintillante. L’Armon cadde in ginocchio come un bue al macello e il
cervello gli uscì dal cranio spaccato. Sopra di lui, atroce e terribile,
torreggiava l’oste, che stringeva ancora in mano l’arma con cui lo aveva
ucciso.
— Ehi, ehi, indietro! — ruggì.
Kane si era lanciato avanti appena aveva visto Gaston cadere, ma l’oste
gli puntò in pieno viso la pistola a canna lunga che teneva nella sinistra.
— Indietro! — ripeté l’uomo con un ruggito da tigre, e Kane si ritrasse
dall’arma minacciosa e da quei due occhi fiammeggianti.
L’inglese rimase in silenzio. Aveva la pelle accapponata e l’impressione
che l’oste rappresentasse una minaccia ancor più grave e tremenda del
francese. C’era qualcosa di inumano in quell’individuo che adesso
caracollava come una grande belva della foresta mentre riempiva la stanza
della sua risata fosca.
— Gaston il Macellaio! — urlò, dando un calcio al cadavere ai suoi piedi.
— Olà, il mio bel brigante non andrà più a caccia di vittime. Avevo sentito
dire che questo idiota si aggirava per la Foresta Nera. Cercava l’oro e ha
trovato la morte. Adesso il suo oro, signor Kane, diventerà mio, e avrò
anche qualcosa di più dell’oro: la vendetta!
— Io non sono suo nemico — ribatté calmo Kane.
— Tutti gli uomini sono miei nemici. Vede i segni che ho sui polsi e le
caviglie? Sulla schiena reco il bacio lasciatomi dalla frusta e in fondo
all’anima le ferite di tutti gli anni in cui ho giaciuto in celle gelide e
silenziose per punizione di un delitto che non ho mai commesso. — L’oste
proruppe in un orribile, grottesco singhiozzo.
Kane non replicò. Già in passato aveva visto uomini impazziti per gli
orrori delle terribili prigioni dell’Europa continentale.
— Ma sono scappato e qui faccio la guerra a tutti gli uomini — urlò
trionfante l’altro. — Che cos’è stato?
Pareva a Kane, o un lampo di paura gli era balenato negli occhi spiritati?
— Oh, sono le ossa del mio stregone che scricchiolano! — sussurrò il
locandiere scoppiando in una selvaggia risata. — Morendo, promise che le
sue ossa mi avrebbero tessuto intorno una ragnatela mortale. Incatenai il suo
cadavere al pavimento e adesso, nel cuore della notte, mi capita di sentire le
ossa senza più carne scricchiolare mentre tentano di liberarsi. Ah, ah, come
rido, allora, rido di gusto! Vorrebbe alzarsi, lo stregone, e mentre dormo
percorrere i corridoi bui come la Signora con la falce per assassinarmi nel
letto.
D’un tratto nei suoi occhi folli brillò una luce terribile. — Quando è stato
nella stanza segreta assieme a questo idiota morto, le ha forse parlato?
Kane involontariamente rabbrividì. Era follia o udiva davvero un lieve
scricchiolio di ossa, come se lo scheletro si fosse mosso? Alzò le spalle: i
topi erano capaci di frugare dappertutto, anche tra ossa sbriciolate.
L’oste rise ancora. Passò di fianco a Kane, sempre tenendolo sotto tiro, e
con la mano libera aprì la porta della camera segreta. Era buio, lì dentro, così
buio che Kane non riuscì nemmeno a vedere le bianche ossa sul pavimento.
— Tutti gli uomini sono miei nemici — mormorò il locandiere con la
logica assurda dei pazzi. — Perché dovrei risparmiarne qualcuno? Chi mi
diede una mano quando marcii per anni nelle orride segrete di Karlsruhe per
un delitto mai commesso? Qualcosa si spezzò nella mia mente, allora.
Diventai come un lupo, fratello di quelli che vivono nella Foresta Nera dove
mi rifugiai quando evasi.
“Si sono cibati, i miei fratelli lupi, di tutti i viandanti che hanno dormito
nella mia taverna; tutti eccetto questo che fa scricchiolare le ossa, un mago
proveniente dalla Russia. Affinché non tornasse dalle nere tenebre al calar
della notte e mi uccidesse... perché chi può uccidere i morti?... gli scarnificai
le ossa e lo incatenai. La sua stregoneria non fu abbastanza potente da
salvarlo, ma tutti sanno che un mago morto è più malvagio di un mago vivo.
Fermo, inglese! Lascerò le tue ossa nella stanza segreta accanto a queste,
per...
Sempre tenendo la pistola puntata contro Kane, l’oste pazzo stava adesso
con una parte del corpo sulla soglia della piccola prigione. D’un tratto
barcollò indietro e scomparve nel buio della camera segreta; nello stesso
istante un’improvvisa folata di vento investì il corridoio e la porta gli si
richiuse alle spalle. La candela infilata nel reggilume sul muro tremolò e si
spense. Cercando a tentoni nell’oscurità, Kane raccolse una pistola da terra,
poi si rialzò e guardò la porta dietro cui era sparito il pazzo. Rimase fermo
nelle tenebre fitte e il sangue gli si raggelò al sentir arrivare dalla stanza
orrende urla soffocate frammiste a un secco, orripilante scricchiolio d’ossa.
Alla fine calò il silenzio.
Kane trovò pietra focaia e acciarino e riaccese la fiamma. Poi, tenendo la
candela in una mano e la pistola nell’altra, aprì la porta segreta.
— Dio mio — mormorò imperlandosi di sudore. — È completamente
assurdo, eppure lo vedo con i miei occhi. Sono state mantenute due
promesse, perché Gaston il Macellaio ha giurato che anche nella morte si
sarebbe vendicato del suo assassino, ed è stata la sua mano a liberarti,
povero mostro scarnificato. Quanto a lui...
L’oste del Cranio spaccato giaceva esanime sul pavimento della stanza
segreta, con la bestiale faccia stravolta dal terrore e il collo spezzato dalle
dita scarnificate dello scheletro del mago.
LA PAURA CHE INSEGUE

Mi offrì un sorriso di bimba, segnando il fatale verdetto;


la mia mano si levò e il pugnale le spaccò il petto.
Giacque in silenzio assordante, l’abito rosso sul seno,
paura mortale mi colse, fuggii da quel volto alieno.
Tende sui muri frusciavan, velluto nero volante
ombre guizzavan nel buio di ogni nicchia distante
arazzi alle tetre pareti parevan sospinti dal vento
eppur niuna brezza soffiava, lasciandomi sgomento.

L’erba era bianca di luna, scesi dal davanzale,


non mi volsi alla casa, fosca, immota, tombale;
rami come mani spettrali protesi a sfiorarmi i capelli,
passi frusciavan tra l’erba, ma non erano uomini, quelli.
Ombre incombevan nel bosco, nere come spettro di morte;
tra brusii di forme non viste avanzai con forze corte
e giunsi a un lago sinistro cinto di sabbie argentate
nebbia dal suo seno corrusco cinse le mie mani lavate.

Specchiai il volto spaurito e ancor mi chinai non pago:


Dio, un teschio guatava, mi rivolse un ghigno dal lago!
Urlando fuggii sul picco di una montagna oscura,
che nella luna scarlatta di forca avea la figura.
Da stelle rosse nel cielo, simili a piume nebbiose,
piovvero gocce di sangue che seppi perniciose.
Lento imboccai l’unica via rimastami nel mondo,
quella che porta alla forca e del boia all’affondo.
LO SPIRITO DI TOM MOLYNEAUX

Molti sono gli scontri che vincono o perdono i vivi, ma questa è la storia di
uno scontro che vinse un uomo morto da oltre un secolo. Mentre, un freddo
giorno d’inverno, sedeva nel vecchio East Side Athletic Club, l’allenatore di
campioni John Taverel mi raccontò la storia del fantasma che si aggiudicò il
combattimento di boxe e dell’uomo che per quel fantasma aveva una vera
adorazione. Lasciamo che sia Taverel stesso a narrare la vicenda con le
esatte parole che disse a me.

Ti ricordi Ace Jessel, il grande pugile negro di cui ero allenatore? Un


gigante color ebano era, alto un metro e novantatré, peso forma centoquattro
chili. Si muoveva con la tranquilla agilità di un enorme leopardo e i suoi
flessuosi muscoli d’acciaio si tendevano sotto la pelle lucida. Era un bravo
boxeur per essere così massiccio, e in ciascun grande pugno nero aveva la
forza micidiale di un maglio.
Nonostante questo, la strada verso la quale io, come allenatore, lo
indirizzai era tutt’altro che piana e a volte mi lasciavo prendere dalla
disperazione, perché Ace pareva non avere l’animo del pugile. Aveva
coraggio da vendere: il coraggio di resistere a una gragnuola di colpi
tremendi e di continuare a lottare dopo che gli avevano ridotto la faccia a un
grumo di carne pesta e sanguinante, come dimostrò nel terribile incontro
con Maul Finnegan, divenuto quasi leggendario negli annali della boxe.
Aveva coraggio, sì, ma non l’aggressività che induce il vero pugile ad
attaccare, non l’istinto omicida che lo spinge a caricare l’avversario stordito,
suonato e sanguinante. E un pugile privo di queste qualità di solito fallisce
quando deve affrontare la prova suprema.
Ace si accontentava in genere di battersi, vincendo gli avversari ai punti e
accumulando abbastanza vantaggio da non perdere. Il pubblico, che non
aveva mai amato quel tipo di tattica, ogni tanto lo fischiava e scherniva, ma
se i lazzi facevano infuriare me, al buon Ace strappavano solo un sorriso
ancor più grande. I suoi match continuavano ad attirare una nutrita folla,
perché le rare volte in cui veniva indotto ad abbandonare l’atteggiamento
difensivo o aveva di fronte un avversario abile che poteva vincere solo
mandandolo al tappeto, i fan assistevano a una vera battaglia e si
elettrizzavano. Ma spesso anche in quei casi Ace si rifiutava di finire
l’avversario: quando lo vedeva suonato e in procinto di crollare si
allontanava da lui, dandogli il tempo di riprendersi e tornare all’attacco, e
allora la folla insorgeva e io mi strappavo i capelli.
Ebbene, Ace Jessel, per quanto sembrasse un vagabondo indifferente e
un fannullone spensierato, aveva un’emozione profonda e tenace:
un’adorazione fanatica per Tom Molyneaux, primo campione d’America e
gagliardo pugile di colore, secondo fonti autorevoli il più grande pugile
nero della storia.
Tom Molyneaux morì in Irlanda un secolo fa, ma il ricordo delle sue
valorose gesta in America ed Europa era stato per Ace Jessel un diretto
incentivo all’azione. Solo perché aveva letto la storia della vita e degli
incontri di Tom, Ace aveva imboccato la strada della boxe, che lo aveva
condotto dai moli dove da ragazzino aveva sudato sette camicie a... Ma
continuiamo con la nostra storia.
L’oggetto che Ace aveva più caro era un ritratto a olio del vecchio pugile.
Lo aveva trovato di persona (ed era stata in effetti una scoperta straordinaria,
poiché anche solo le xilografie di Jessel erano rare) tra gli oggetti
collezionati da uno sportivo londinese, ed era riuscito a convincerlo a
venderglielo. Aveva sborsato l’equivalente dei guadagni di quattro match,
ma lo aveva giudicato un buon prezzo. Aveva tolto la cornice originale e
l’aveva sostituita con una di argento massiccio, una vera opera d’arte, fine
ed elegante, che doveva essere costata moltissimo dato che il ritratto era a
grandezza naturale. Ma nessun prezzo era troppo esoso quando si trattava di
onorare “misto Tom”, e Ace aveva triplicato il numero degli incontri per
sostenere le spese.
Così alla fine il mio ingegno e i ganci micidiali di Ace spianarono la
strada all’incontro degli incontri. Ace si stava profilando come lo sfidante
del campione dei massimi, l’allenatore del quale era in procinto di firmare
con noi, quando lo scenario all’improvviso cambiò.
Sull’orizzonte pugilistico comparve una figura che offuscò ed eclissò tutti
gli altri contendenti, compreso il mio uomo. Era Mankiller Gómez, ed era
davvero, come prometteva il nome, un massacratore d’uomini. Gómez era il
suo nome d’arte, datogli dallo spagnolo che lo aveva scoperto e portato in
America: in realtà si chiamava Balanga Guma ed era un autentico senegalese
proveniente dall’Africa occidentale.
Solo una volta ogni secolo i tifosi di boxe vedono uomini come Gómez
in azione. Solo una volta ogni cento anni compare un pugile come lui, un
assassino nato che entra in mezzo alla massa anonima dei boxeur come un
bufalo in un boschetto di arbusti secchi. Era un selvaggio, una tigre.
Compensava quello che gli mancava sotto il profilo tecnico con la ferocia
dell’attacco, la gagliardia del corpo e la forza micidiale delle braccia. Dal
momento in cui sbarcò a New York con una lunga sfilza di vittorie europee
all’attivo, fu inevitabile che sbaragliasse tutti gli avversari. Alla fine il
campione bianco dei massimi alzò gli occhi, vide il selvaggio negro
giganteggiare sopra le sagome malconce delle sue vittime e comprese che
era un presagio infausto; ma il pubblico reclamava a gran voce un incontro
e, quali che fossero i suoi difetti, il campione in carica non era tipo da tirarsi
indietro.
Jessel, il solo dei maggiori sfidanti che non avesse incontrato Gómez, finì
nel dimenticatoio e all’inizio dell’estate, a New York, qualcuno perse il
titolo e un altro lo vinse. Mankiller Gómez, figlio della giungla nera, diventò
re di tutti i pugili.
Il mondo sportivo e il pubblico nel suo complesso odiavano e temevano
il nuovo campione. I tifosi di boxe amano la ferocia sul ring, ma Gómez
non si limitava a essere selvaggio: aveva un’anima crudele. Scimmiesco e
primordiale, incarnava lo spirito della palude di barbarie da cui gli uomini
sono faticosamente emersi e alla quale continuano a guardare con molto
sospetto.
Iniziò la ricerca dello sfidante ideale, ma i risultati erano sempre gli stessi.
Uno dopo l’altro, i pugili crollavano sotto il tremendo assalto di Mankiller e
alla fine ne restò solo uno che non avesse incrociato i guanti con lui: Ace
Jessel.
Esitavo a dare il mio uomo in pasto a un combattente come Gómez,
perché provavo per quel gigante buono dalla pelle scura qualcosa di più
dell’amicizia dell’allenatore per il suo pugile. Per me Ace era più di uno
strumento di guadagno: sapevo quale animo nobile ci fosse sotto la sua pelle
nera e non sopportavo di vedere un uomo che in cuor mio sapevo essergli
troppo superiore farne polpette. Avrei voluto aspettare un poco, lasciare che
Gómez si logorasse con i suoi tremendi match e i bagordi che sarebbero
sicuramente seguiti alle grandi vittorie. I forti picchiatori come lui non
durano mai a lungo, non più a lungo di quanto un uomo della giungla possa
resistere alle tentazioni della civiltà.
Ma tirava l’aria di crisi che segue alla conquista del titolo da parte di un
campione eccezionale e i match scarseggiavano. Il pubblico reclamava a
gran voce uno sfidante, i cronisti sportivi facevano un pandemonio
accusando Ace di codardia, i promotori offrivano somme allettanti, e alla
fine firmai per un match di quindici round tra Mankiller Gómez e Ace
Jessel.
In palestra mi rivolsi ad Ace e dissi: — Ace, pensi di poterlo battere?
— Misto John — rispose guardandomi dritto negli occhi — farò del mio
meglio, ma ho una gran paura di non farcela. Quell’uomo non è umano. —
Era un guaio che la pensasse così, perché un pugile è già mezzo battuto
quando sale sul ring con quell’idea.
Più tardi entrai nella sua stanza per dirgli qualcosa e mi fermai sbalordito
sulla soglia. Avvicinandomi alla camera lo avevo sentito bisbigliare, ma
avevo creduto che parlasse con un allenatore o uno sparring partner. Vidi
invece che era solo, in piedi davanti al suo idolo: il ritratto di Tom
Molyneaux.
— Misto Tom — disse umilmente — finora non ho mai incontrato
nessuno capace di mandarmi al tappeto, ma ho idea che quel negro sia abile.
Ho un tremendo bisogno di aiuto, misto Tom.
Mi parve quasi di avere interrotto una cerimonia religiosa. Era un rito
davvero insolito; non fosse stato per l’evidente, totale candore di Ace, mi
sarebbe parso addirittura blasfemo. Ma per Ace, Tom Molyneaux era più di
un santo. Rimasi in silenzio sulla soglia a guardare la strana scena. Il pittore
che aveva dipinto il quadro tanto tempo prima era stato molto bravo. La
figura nera tarchiata pareva quasi balzar fuori dalla tela sbiadita. L’immagine
rievocava l’atmosfera di un’epoca passata: il pugile con i lunghi mutandoni
di allora, le possenti gambe divaricate, le braccia nodose tenute rigide e alte,
nella stessa posizione che Molyneaux aveva assunto durante l’incontro con
l’inglese Tom Cribb, tanto tempo prima.
Jessel se ne stava di fronte al dipinto con la testa reclinata sull’ampio
petto, come ascoltasse un vago bisbiglio proveniente dalla propria anima.
Mentre guardavo, mi venne un’idea strana e bizzarra, perché mi tornò in
mente un’antica credenza. Si sa che secondo gli occultisti scolpire statue o
dipingere quadri consente di richiamare dal vuoto dell’eternità anime da
lungo involatesi e di ricrearle in sembianze illusorie. Mi chiesi se Ace non
avesse sentito parlare di quella superstizione e non pensasse, rendendo
omaggio al ritratto di Molyneaux, di evocare lo spirito del defunto pugile
dal regno dei morti per riceverne consiglio e aiuto. Scrollai le spalle,
giudicandola un’idea assurda, e mi voltai. Mentre lo facevo, lanciai un’altra
occhiata al quadro davanti al quale Ace stava immobile come una grande
scultura di basalto nero, e notai uno strano effetto illusorio: la tela parve
incresparsi leggermente, come la superficie di un lago toccata da una lieve
brezza.
Tuttavia, mi ero dimenticato completamente di quel dettaglio quando si
avvicinò il giorno dell’incontro.
Una vasta folla accolse con grande calore Ace quando questi salì sul ring,
mentre riservò un’accoglienza molto meno cordiale a Gómez. Che contrasto
tra quei due negri, simili nel colore ma così diversi sotto tutti gli altri aspetti!
Ace era alto, slanciato e ben proporzionato, con muscoli lunghi e levigati,
uno sguardo limpido e un’ampia fronte.
Gómez in confronto appariva tozzo, benché fosse un metro e ottantotto.
Mentre i muscoli di Jessel erano lisci come grossi cavi, i suoi erano nodosi e
sporgenti. Polpacci, cosce, braccia e spalle erano un groviglio di muscoli. La
testa, troppo piccola rispetto al corpo, stava saldamente piantata tra spalle
gigantesche, e la fronte era così bassa che i capelli crespi, simili a lana,
arrivavano quasi a toccare i piccoli occhi ferini iniettati di sangue. Il torace
era ornato da un fitto boschetto di peli neri arruffati.
Gómez sorrise truce, si batté i pugni sul petto e fletté le possenti braccia
con l’insolente sicurezza del selvaggio. Nel suo angolo, Ace sorrise alla
folla, ma aveva un pallore cinereo sul viso scuro e si sentiva le ginocchia
molli.
Vi furono i soliti preamboli, l’arbitro diede le istruzioni e fu annunciato il
peso dei contendenti (centoquattro chili Ace, centododici Gómez); poi nel
grande stadio si spensero tutte le luci tranne quelle del ring, dove i due
giganti neri si affrontarono come uomini soli in cima alla vetta del mondo.
Al gong, Gómez si girò di scatto e uscì dal suo angolo con un terrificante
ruggito di pura ferocia. Per quanto sicuramente spaventato, Ace gli si lanciò
contro con il coraggio di un cavernicolo che caricasse un gorilla, e si
affrontarono a testa avanti in mezzo al ring.
Mankiller attaccò per primo con un gancio sinistro che colpì Ace nelle
costole. Jessel rispose con un lungo gancio sinistro alla faccia e un
durissimo diretto destro al corpo. Gómez lo incalzò con entrambe le braccia
e Ace, dopo un vano tentativo di resistergli, arretrò. Il campione lo fece
indietreggiare per tutto lo spazio del ring, e al clinch di Ace rispose
assestandogli un furioso sinistro al torso. Appena si separarono, Gómez
sferrò all’avversario un tremendo destro al mento e Ace vacillò, sbattendo la
schiena contro le corde. La folla esplose in un “Ohhh!” quando il campione
in carica si lanciò contro lo sfidante come un lupo famelico, ma Jessel riuscì
a tuffarsi tra le sue braccia sferzanti e a legarlo, mentre scuoteva la testa per
liberarsi dallo stordimento. Gómez gli assestò un sinistro che Ace attutì in
gran parte accorciando la distanza, e l’arbitro ammonì il senegalese.
Al break Ace arretrò di un passo, colpendo rapido e abile di sinistro, e il
round terminò con il campione che, bramendo come un bufalo, cercava di
eludere quel braccio micidiale come una spada.
Tra un round e l’altro consigliai ad Ace di sottrarsi più che poteva al
corpo a corpo, dove Gómez con la sua forza superiore avrebbe preso il
sopravvento, e di usare il gioco di gambe per evitare il più possibile le
punizioni.
Il secondo round iniziò quasi come il primo, con Gómez che attaccava
furioso e Ace che dava fondo alla propria abilità per respingerlo e schivare i
suoi colpi tremendi. Era difficile mettere alle corde un pugile dotato come
Ace quando era fresco e in forze; per giunta, nel combattimento a distanza
aveva il vantaggio della superiorità tecnica rispetto a Gómez, la cui unica
strategia era avventarsi sull’avversario e massacrarlo con la mera ferocia e
possanza fisica. Tuttavia, nonostante la velocità e la capacità di Ace, un
istante prima che suonasse il gong Gómez riuscì a inchiodarlo e gli sferrò un
micidiale sinistro alla cintola, sicché il colosso nero si avviò al suo angolo
barcollando leggermente. Intuii che era l’inizio della fine. La vitalità e la
potenza del campione in carica parevano inesauribili; non c’era modo di
stancarlo e non sarebbero occorsi molti colpi andati a segno per strappare ad
Ace l’agilità di gambe e l’acutezza d’occhio. Appena fosse stato costretto a
starsene fermo a scambiare pugni, non avrebbe avuto scampo.
Vedendo che gli aveva fatto male, al terzo round Gómez gli si avventò
contro con sguardo assassino. Scansò un diretto sinistro, incassò un duro
uppercut destro in pieno viso, poi uscì dalla posizione di guardia per
sferrare un destro tremendo al mento dell’avversario, il quale tolse al colpo
quasi tutta la sua potenza inclinandosi nella stessa direzione. Mentre il
campione era ancora sbilanciato in avanti, Ace lo misurò freddamente e gli
assestò un micidiale gancio sinistro al mento. La testa di Gómez si rovesciò
indietro come se fosse stata attaccata alle spalle con dei cardini. Il campione
si fermò di botto, ma mentre il pubblico scattava in piedi con la bocca aperta
e i pugni alzati nella speranza di vederlo cadere, scosse la piccola testa e
tornò ruggendo alla carica. Il round terminò con i due avversari stretti in un
clinch al centro del ring.
All’inizio del quarto round Gómez attaccò, spingendo Ace in giro per il
quadrato con una raffica di colpi cui l’altro non riuscì a sottrarsi del tutto.
Dolorante e disperato, Jessel riuscì a riprendersi in un angolo neutro del ring
e a respingere Gómez con un sinistro e un destro al torso, ma incassò in
cambio un micidiale sinistro al viso. D’un tratto il campione portò a segno
un tremendo sinistro al plesso solare e, mentre Ace barcollava, vi aggiunse
un formidabile destro al mento. Sbattuto contro le corde, Ace istintivamente
alzò le mani e reclinò il mento sul petto, rintuzzando parzialmente con i
guantoni la gragnuola di potenti colpi brevi; poi, inchiodato com’era alle
corde e ancora stordito dall’attacco, reagì con improvvisa, fantastica energia
e rispose con una tempesta di pugni a quella da cui era stato travolto,
sospingendo Mankiller dall’altra parte del ring.
La folla impazzì, ma io, rannicchiato dietro l’angolo di Ace, ebbi un
brutto presentimento. Ace combatteva come non aveva mai combattuto
prima, ma nessun uomo al mondo poteva resistere al ritmo del campione in
carica.
Lottando lungo le corde, Ace rifilò all’avversario un micidiale sinistro al
torso e un destro e un sinistro al viso, ma incassò in cambio un tremendo
destro alle costole che lo fece, suo malgrado, sussultare; poi, proprio
nell’attimo in cui suonava il gong, Gómez gli sferrò un altro dei suoi
formidabili sinistri al torso.
I secondi di Ace si diedero da fare più che poterono, perché il colosso
nero si stava indebolendo. Ancora qualche round come quello e per lui
sarebbe stata la fine.
— Ace, non puoi cercare di schivare quei colpi terribili al torso? — dissi.
— Ci provo, misto John — rispose.
Il gong! Ace si lanciò all’attacco con il magnifico corpo che vibrava di
rinnovata energia. Mankiller gli si fece incontro con i ferrei, compatti
muscoli disposti a formare una macchina da guerra. Botte, botte e ancora
botte, seguite da un clinch. Quando si separarono, Gómez ritrasse il
poderoso braccio destro e diede ad Ace un potentissimo pugno alla bocca. Il
gigante barcollò... e andò al tappeto. Senza fermarsi ad aspettare il conteggio
dell’arbitro, come gli urlavo di fare, Jessel raccolse tutta l’energia che gli
restava nelle lunghe gambe d’acciaio e si alzò di scatto, con il sangue che gli
colava sul torace color ebano. Mankiller gli si avventò contro e Ace, con la
forza della disperazione, gli sferrò un destro tremendo in piena mascella. Il
campione in carica crollò all’indietro. Il pubblico scattò in piedi urlando.
Nell’arco di dieci secondi entrambi i contendenti erano finiti al tappeto,
ciascuno per la prima volta nella vita.
— Uno, due, tre, quattro! — gridò l’arbitro, alzando e abbassando la
mano.
Gómez si risollevò incolume, fuori di sé dalla rabbia. Con un ruggito da
belva, si lanciò all’attacco e, scansando l’avversario che lo tempestava di
pugni, gli assestò un destro alla cintola con tutta la potenza delle vigorose
spalle. Jessel diventò terreo e barcollò come un grande albero, mentre
Gómez lo spediva in ginocchio con destri e sinistri che risuonavano come
colpi di maglio.
— Uno, due, tre, quattro...!
Ace si contorse al tappeto, cercando disperatamente nelle gambe la forza
di rialzarsi. Le urla dei tifosi erano un torrente di suoni, un mare di rumori
che soffocava ogni pensiero.
— Cinque, sei, sette...!
Ace si raddrizzò. In mezzo al ring macchiato di sangue, Gómez partì alla
carica farfugliando le sue imprecazioni pagane e assalì lo stordito sfidante
con una scarica di mazzate: un sinistro, un destro e un altro sinistro che Ace
non ebbe la forza di schivare.
— Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto...!
Ace si rialzò ancora una volta, inerme, barcollante, con lo sguardo
spento. Un fulmineo sinistro lo spedì alle corde e, rimbalzando su queste, il
colosso cadde in ginocchio nel momento stesso in cui suonava il gong.
Mentre i suoi secondi e io balzavamo sul ring, Ace guadagnò l’angolo
tastoni e si lasciò cadere pesantemente sullo sgabello.
— Mankiller è troppo superiore a te, Ace — dissi.
Jessel abbozzò un sorriso con le labbra insanguinate e la luce di uno
spirito indomito gli balenò negli occhi iniettati di sangue.
— Ti prego, misto John, non gettare la spugna. Devo resistere, resistere
in piedi. Quel ragazzo non può durare tutta la sera a questo ritmo.
No, non poteva, ma non era in grado di farlo nemmeno Ace Jessel,
nonostante la straordinaria vitalità e la meravigliosa capacità di recupero che
gli permisero di tornare sul quadrato nel round successivo, mostrando se
non altro rinnovate energia e freschezza.
Il sesto e il settimo round furono relativamente tranquilli, forse perché
Gómez era effettivamente stanco per il ritmo spaventoso che aveva impresso
all’incontro; in ogni caso Ace riuscì a trasformarli in un match di
allenamento e il pubblico ebbe modo di vedere per quanto tempo un uomo
in buona salute potesse tenere a bada un picchiatore votato alla sua
distruzione. Perfino io mi stupii dell’eccellente prova che Jessel stava dando
di sé, benché sapessi che Mankiller usava una certa cautela rispetto allo stile
che esibiva di solito. Aveva assaggiato la forza del destro di Ace nel
frenetico quinto round e forse aveva paura di cadere in un trabocchetto. Per
la prima volta nella vita era finito al tappeto. Sapeva di stare vincendo e
credo che calcolasse di riposarsi per un paio di round, concedersi un piccolo
intervallo e raccogliere le energie per l’assalto finale.
L’assalto iniziò quando suonò il gong dell’ottavo round. Gómez sferrò il
consueto attacco frontale, spingendo Ace in giro per il quadrato e
atterrandolo in un angolo neutro. Dato il suo stile di combattimento, quando
il senegalese era deciso ad annientare un avversario, questi non riusciva
neanche con tutta la tecnica, la velocità e la competenza del mondo a evitare
la sconfitta, ma solo a rimandarla. Ace si rialzò al “nove” e provò ad
arretrare, ma il campione lo inseguì, sferrò due ganci sinistri che non
andarono a segno e riuscì ad assestargli un diretto destro poco sotto il cuore.
Ace diventò pallido come un morto e, incassando il successivo sinistro alla
mascella, sentì le ginocchia mancargli e si tuffò in un disperato clinch.
Appena furono separati, rifilò a Mankiller un diretto destro al viso e un
gancio sinistro al mento, ma poiché i colpi non avevano più la forza iniziale,
il campione in carica si smarcò e raggiunse lo sfidante con un sinistro in
piena cintola. Ancora una volta Ace legò l’avversario, il quale però lo
rintuzzò sospingendolo dall’altra parte del ring con una furibonda serie di
ganci al corpo. Al gong si stavano tempestando di pugni lungo le corde.
Ace si diresse barcollando all’angolo sbagliato, e quando i secondi lo
condussero al suo si lasciò cadere sullo sgabello con le gambe tremanti e il
grande torace scuro che ansimava per lo sforzo sovrumano. Sbirciai il
campione, che guardava torvo Jessel dal suo sgabello. Anche lui mostrava
segni di stanchezza, ma era assai più fresco del mio uomo. L’arbitro si
avvicinò a noi, guardò Jessel con aria esitante, poi mi parlò.
Tra la nebbia che gli velava il cervello ammaccato, Ace comprese il
significato delle sue parole e tentò di alzarsi con un’espressione quasi di
spavento negli occhi.
— Misto John, non dirgli di sospendere il match, ti prego. Non farglielo
sospendere. Non sono conciato come crede.
Mentre l’arbitro alzava le spalle e andava al centro del ring, io mi rivolsi a
uno dei trainer e gli dissi di passarmi il pacco rettangolare che mi ero portato
allo stadio.
Non serviva a niente dare consigli ad Ace. Era troppo stordito per capire;
nel suo cervello suonato non c’era spazio che per un’idea: combattere,
combattere e continuare a combattere, l’antico istinto primordiale che è più
forte di qualsiasi altra cosa a parte la morte.
Al suono del gong, barcollò incontro al destino con indomito coraggio,
sicché il pubblico scattò in piedi urlando. Sferrò alla cieca un pugno
micidiale a cui il campione rispose con una pioggia di destri e sinistri che lo
mandarono al tappeto. Al “nove” Jessel si rialzò e fece istintivamente marcia
indietro, finché Gómez non lo raggiunse con un lungo diretto destro che lo
rispedì a terra. Di nuovo Ace si raddrizzò a fatica al “nove”. Stavolta la folla
rimase in silenzio; non una voce si levò per incoraggiare il campione in
carica a finirlo. Era un vero e proprio massacro, un selvaggio scannamento,
e il coraggio di Ace Jessel mozzò il fiato alla gente e diede una stretta al
cuore a me.
Ace si buttò alla cieca in un clinch, poi in un altro e un altro ancora,
finché Mankiller, furioso, se lo scrollò di dosso e lo colpì di destro al torso.
Le costole di Ace cedettero come legno marcio, con un sonoro schiocco che
si udì distintamente in tutto lo stadio. La folla si lasciò sfuggire un grido
soffocato e Jessel, rimasto senza respiro, cadde in ginocchio.
— Sette! Otto...! — gridò l’arbitro mentre il gigante nero si contorceva al
tappeto.
— ... Nove!
Accadde il miracolo, e Jessel si risollevò per l’ennesima volta,
ciondolando con la bocca aperta e le braccia flosce.
Gómez lo guardò torvo, senza ombra di pietà, ma con l’aria di chiedersi
come avesse fatto a rialzarsi ancora. Poi gli si avventò contro per finirlo.
Ace si trovava in difficoltà. Era accecato dal sangue sulle palpebre e
scivolava sulle grandi macchie, sempre di sangue suo, sparse in terra. Aveva
entrambi gli occhi quasi chiusi, e quando, con il naso schiacciato dai pugni,
respirava affannosamente, spandeva in giro un vapore rosso. Aveva tagli
profondi e sanguinanti alle guance e alle mascelle, e il fianco sinistro ridotto
a un grumo di carne purpurea maciullata. Ormai si lasciava guidare solo
dall’istinto della lotta e nessuno al mondo avrebbe più potuto dubitare del
fatto che avesse un cuore di combattente.
Tuttavia un cuore di combattente non basta quando il corpo in cui batte è
percosso e bastonato e la mente è avvolta nella nebbia dell’incoscienza. Ace
crollò sotto l’assalto dello sbuffante Gómez, e stavolta il pubblico capì che
non ci sarebbe stata resurrezione.
Quando un uomo ha incassato i colpi che aveva incassato Ace, perché
riprenda a lottare deve intervenire qualcosa di più del corpo e del cuore,
qualcosa che ispiri e stimoli il cervello obnubilato e lo infiammi al punto da
fargli compiere un’impresa sovrumana. Nel caso si fosse arrivati al peggio,
mi ero ripromesso di fornirgli l’ispirazione suprema nell’unico modo che
sapevo lo avrebbe toccato.
Prima di lasciare la palestra dove Ace si allenava, avevo tolto a sua
insaputa il quadro di Tom Molyneaux dalla cornice e, incartatolo con cura,
lo aveva portato con me allo stadio. Lo presi dunque dalle mani del trainer, e
quando Ace involontariamente guardò verso il suo angolo, sollevai il ritratto
tenendolo un poco scostato dalle luci del ring, in maniera che, pur
venendone illuminato, esibisse contorni confusi e indistinti. Si potrà pensare
che abbia agito male, che abbia seguito un istinto egoistico cercando di
spronare a combattere e a farsi ulteriormente massacrare un uomo già
massacrato di pugni, ma l’osservatore estraneo a questo sport non può
capire l’anima fanciullesca dei figli della boxe, per i quali la vittoria è più
grande della vita e la sconfitta peggiore della morte.
Tutti gli occhi erano incollati alla figura distesa al centro del ring, al
campione che, come un albero battuto dal vento, stava afflosciato contro le
corde, al braccio dell’arbitro che si alzava e abbassava inesorabile come la
morte. Credo che quasi nessuno, tra il pubblico, abbia notato il mio gesto,
ma Ace Jessel sì. Vidi i suoi occhi appannati e iniettati di sangue brillare. Lo
vidi scuotere con forza la testa e muovere lentamente le lunghe gambe per
tirarsi su. Parve trascorrere un’eternità mentre l’arbitro snocciolava il suo
ritornello avvicinandosi al culmine; poi, per tutti gli dei, Ace si rialzò! La
folla, impazzita, esplose in un coro di urla.
Negli occhi di Jessel scintillò una luce strana e selvaggia. E ti giuro che,
com’è vero che sono vivo, il quadro nelle mie mani tremò con repentina
violenza.
Un vento gelido come la morte mi investì e l’uomo accanto a me
rabbrividì involontariamente, stringendosi nel cappotto. Ma non spirava
certo un vento freddo sulla mia anima mentre guardavo, con gli occhi
sgranati per lo stupore, il ring dove si stava svolgendo il più grande dramma
che il mondo della boxe avesse mai visto. In mezzo al quadrato c’era Ace
Jessel, insanguinato e terribile, che fremeva e pulsava di nuova vita, animato
e ravvivato da una forza sovrumana; c’era Mankiller Gómez, ammutolito
per lo stupore di vedere la rinnovata furia dell’avversario; c’era l’impassibile
arbitro; e, inorridito, mi accorsi che c’era anche un quarto uomo.
Quest’ultimo, un negro basso e massiccio, con il torace a botte e le
membra forti, indossava i mutandoni lunghi che si usavano un secolo prima.
Mentre osservavo la scena, notai che non era come gli altri, perché
attraverso il suo corpo vedevo le corde del ring e, velatamente, anche le luci,
come se scrutassi tra una nebbia scura ed egli fosse quasi traslucido.
Teneva il braccio vigoroso intorno alla vita di Ace Jessel quando questi si
avventò contro lo stanco e scoraggiato Gómez, e i suoi pugni, privi di
guantoni, calarono assieme a quelli di Ace sulla testa e sul corpo del
disperato Mankiller. Non so se Gómez vide o pensò di vedere l’estraneo.
Stupito dall’incredibile, improvvisa reazione di Jessel e dalla forza inusitata
di un uomo che avrebbe dovuto essere KO al tappeto, barcollò; confuso e
sconcertato, non seppe decidere quale mossa compiere e, prima di riuscire a
riprendersi, fu investito e annientato da una serie di lunghi, rapidi, potenti
diretti, vere e proprie mazzate. L’ultimo colpo, un destro che avrebbe
abbattuto una quercia e che di fatto abbatté Mankiller Gómez, non fu
sferrato dal solo, forte braccio di Ace, ma anche da una traslucida mano nera
che gli stringeva il polso. Ti assicuro che, com’è vero che sono vivo, il
quarto uomo guidò la mano di Ace verso il mento di Gómez e accrebbe la
violenza del pugno con la potenza dei suoi muscoli granitici.
Per un attimo vidi con chiarezza la strana scena nella mia mente.
L’arbitro, incredulo, iniziò il conteggio sopra il campione al tappeto, mentre
Ace Jessel, con la testa china e le braccia penzolanti, era sorretto dalla figura
bassa e forte dai lunghi mutandoni; poi l’estraneo svanì davanti ai miei
occhi, e mentre il ritratto di Tom Molyneaux mi cadde dalle dita intorpidite,
lo sentii tremare come se fosse rabbrividito.
Nel salire sul ring con il boato dei tifosi impazziti nella testa, mi chiesi
sconcertato, e me lo chiedo ancora, se fossi stato solo io, di tutta la folla
presente, a contemplare la scena perché reggevo in mano il dipinto.
La folla vide soltanto il miracolo, un uomo bastonato quasi a morte
riacquistare magicamente forza e vitalità e vincere colui che lo aveva
riempito di botte. Non vide il quarto uomo, né lo vide Mankiller Gómez.
E Ace Jessel? Un negro non parla mai di certi argomenti, e io non gli ho
mai fatto domande in merito. Ma quando Ace si lasciò cadere sullo sgabello
del suo angolo, mi chinai su di lui e lo udii mormorare, mentre perdeva
conoscenza: — Misto Tom... è stato lui a vincere... ha guidato lui la mia
mano quando ho... mandato al tappeto Gómez.
L’antica credenza, a mio avviso, è giustificata. Da quel momento non ho
più dubitato che una devozione profonda, unita a un ritratto in dimensioni
naturali, possa evocare dall’ignoto vuoto del mondo astrale l’anima, lo
spirito o lo spettro che in vita abitava il corpo della persona raffigurata.
Forse il ritratto è una porta attraverso la quale l’essere astrale passa
continuamente da questo mondo all’altro, qualunque esso sia.
Quando però dico che nessuno tranne Ace Jessel e me vide il quarto
uomo, non sono del tutto sincero. Dopo l’incontro l’arbitro, un figlio della
vecchia scuola dai nervi d’acciaio e lo sguardo freddo, mi disse: — Si è
accorto che durante l’ultimo round soffiava sul ring un vento gelido? Mi
dica la verità, ho avuto le traveggole o quando Ace Jessel ha mandato al
tappeto Gómez dietro di lui c’era un’ombra scura?
— Non ha avuto le traveggole — risposi. — E a meno che non siamo
tutti e due pazzi, sul ring stasera c’era il fantasma di Tom Molyneaux.
L’ULTIMO CANTO DI CASONETTO

Guardai incuriosito il pacco. Era piatto e sottile, e l’indirizzo era scritto con
la calligrafia bella ed elegante che avevo imparato a odiare e che sapevo non
si sarebbe mai più esercitata su un pezzo di carta.
— Bada di stare attento, Gordon — mi disse il mio amico Costigan. —
Perché mai quel tizzone d’inferno t’avrebbe mandato qualcosa se non per
farti del male?
— Lì per lì ho pensato a una bomba o a qualcosa del genere — ammisi
— ma questo pacco è troppo sottile per contenerne una. Lo apro.
— Per la miseria, ti manda una delle sue canzoni — fece Costigan con
una risata secca.
Dal pacco era emerso un comune disco di vinile.
Comune, ho detto? Dovrei forse dire il disco più eccezionale del mondo;
perché, a quanto potevamo capire, era l’unico che racchiudesse nel suo
cuore piatto la voce dorata di Giovanni Casonetto, il grande genio malvagio
le cui doti canore avevano entusiasmato il mondo tanto quanto i suoi orridi,
segreti delitti lo avevano sconvolto.
— Il braccio della morte in cui languiva Casonetto attende il prossimo
condannato e il malvagio cantante è stato giustiziato — disse Costigan. —
Quale trucco nasconde allora il disco che ha mandato all’uomo la cui
testimonianza lo ha spedito sulla forca?
Scrollai le spalle. Avevo scoperto il terribile segreto di Casonetto non
certo per la mia arte investigativa, ma per puro caso. Non perché la cercassi
mi ero imbattuto nella grotta dove esercitava antiche pratiche abominevoli e
offriva sacrifici umani al diavolo che adorava. Ma avevo riferito alla corte di
giustizia quanto avevo visto, e prima che il boia regolasse il nodo scorsoio
Casonetto mi aveva augurato un destino di inusitato orrore.
Tutto il mondo sapeva delle atrocità commesse dalla setta diabolica e
disumana di cui il cantante era stato gran sacerdote, e adesso che era morto i
suoi dischi erano molto ricercati dai ricchi collezionisti; ma, in omaggio alle
sue ultime volontà, erano stati tutti distrutti.
Così, per la verità, avevo creduto, poiché il sottile disco rotondo appena
scartato dimostrava che almeno uno era sfuggito alla distruzione generale.
Lo guardai, ma il cerchietto al centro non recava alcun titolo.
— Leggi il biglietto — suggerì Costigan.
Nel pacco era contenuto anche un foglietto di carta bianca, che esaminai.
Era scritto con la calligrafia di Casonetto e diceva: “Al mio amico Stephen
Gordon; lo ascolti da solo nel suo studio”.
— Tutto qui — osservai dopo avere letto a voce alta la strana richiesta.
— Certo, ma basta e avanza. Credo sia un tentativo di esercitare su di te la
magia nera. Perché, altrimenti, ti raccomanderebbe di ascoltare i suoi
miagolii da solo?
— Non lo so, ma credo che lo farò.
— Sei uno stupido — disse Costigan senza peli sulla lingua. — Se non
seguirai il mio consiglio e non butterai in mare quel disco, resterò con te
quando lo metterai sul fonografo. E non osare opporti.
Non mi azzardai a discutere. In effetti avevo un certo timore della
vendetta promessami da Casonetto, anche se non capivo come avrebbe
potuto compierla facendomi ascoltare al fonografo una canzone da lui incisa
su disco.
Costigan e io andammo nel mio studio e mettemmo su l’ultimo disco che
portava incisa la splendida voce di Giovanni Casonetto. Il mio amico strinse
le mascelle con aria combattiva quando il disco cominciò a girare e la
puntina di diamante scivolò lungo i solchi. Senza volerlo, mi tesi come
nell’imminenza di una battaglia. Una voce si levò chiara e forte.
“Stephen Gordon!”
Trasalii mio malgrado e fui lì lì per rispondere. Com’era strano e
inquietante sentirsi nominare dalla voce di un uomo che si sapeva essere
morto!
“Stephen Gordon” continuò la magnifica, odiata voce, “se sta ascoltando
questo disco vuol dire che sono morto, perché se fossi vivo mi libererei di
lei in altro modo. La polizia sarà presto qui e mi ha precluso ogni via di
scampo. Non posso fare altro che affrontare la prova, giacché la sua
testimonianza mi ha stretto il cappio intorno al collo. Ma c’è tempo per un
ultimo canto.
“Questo canto io lo imprigionerò nel disco che adesso si trova sul mio
fonografo e che prima dell’arrivo della polizia le manderò tramite persona di
mia fiducia. Lo riceverà per posta il giorno dopo che sarò stato impiccato.
“Amico mio, questo è un contorno adatto all’ultima aria del gran
sacerdote di Satana. Mi trovo nella cappella nera dove lei mi sorprese la
volta in cui entrò per caso nella mia grotta segreta e i miei maldestri neofiti
la lasciarono scappare.
“Sto guardando la teca dell’Innominabile, davanti alla quale vi è l’altare
insanguinato dove molte anime di vergini volarono verso le stelle nere.
Intorno a me si librano oscuri esseri misteriosi e odo il fruscio di possenti ali
nel buio.
“Satana, amante delle tenebre, cingi la mia anima di male e tocca corde
d’orrore nel mio dorato canto.
“Ascolti, Stephen Gordon!”
Piena, profonda ed esultante, la splendida voce si levò in uno strano
canto ritmico, assai bizzarro e inquietante.
— Gran Dio — sussurrò Costigan — sta cantando le invocazioni della
messa nera!
Non risposi. Le note arcane mi toccarono nel più profondo del cuore.
Negli oscuri meandri della mia anima, qualcosa di cieco e mostruoso si
mosse e si animò come un drago risvegliatosi dal sonno. La stanza divenne
indistinta fino a scomparire mentre mi lasciavo catturare dal potere ipnotico
del canto. Mi strisciavano intorno forze inumane e mi pareva quasi di sentire
ali di pipistrello sfiorarmi il viso nel loro volo; era come se, in virtù del
canto, il morto avesse evocato antichi, spaventosi demoni perché mi
tormentassero.
Rividi la fosca cappella illuminata da un unico fuocherello che tremolava
e guizzava sull’altare, dietro e sopra al quale incombeva l’orrore, l’essere
innominabile con ali e corna a cui si inchinavano gli adoratori del diavolo.
Rividi l’altare insanguinato, il lungo pugnale sacrificale che il malvagio
accolito stringeva nella mano sollevata, le figure ondeggianti dei fedeli
avvolti in tuniche nere.
La voce salì sempre più in alto, esplodendo in un rimbombo trionfante.
Riempì la stanza, il mondo, il cielo, l’universo. Nascose le stelle dietro a un
velo tangibile di tenebra. Mi ritrassi barcollando da essa come da una forza
fisica.
Se mai l’odio e il male si sono incarnati in un suono, è stato in quello che
ho udito e captato allora. La voce mi trascinò negli abissi di un inferno
inaudito. Orridi baratri eterni mi si spalancarono davanti. Colsi immagini di
vuoti efferati e dimensioni blasfeme estranei a ogni esperienza umana. Dal
disco che girava, l’essenza concentrata del purgatorio fluiva verso di me
sulle ali di quella voce meravigliosa e terribile.
Mi coprii di sudore freddo quando compresi che le mie erano le
sensazioni di una vittima sacrificale. Io ero l’olocausto: giacevo sull’altare e
la mano dell’assassino, stringendo il pugnale, era levata su di me.
La voce proseguì nel crescendo di note, sempre più acuta e nel contempo
più profonda, intrisa di follia mentre si approssimava al culmine e mi
sospingeva irresistibilmente verso la morte.
Mi resi conto di essere in pericolo. Sentivo la mente sgretolarsi sotto
l’assalto delle lance acustiche. Cercai di parlare o urlare, ma la bocca si aprì
senza emettere suono. Tentai di fare un passo avanti per spegnere il
fonografo o rompere il disco, ma non riuscivo a muovermi.
Il canto raggiunse una maligna, intollerabile apoteosi. Un odioso senso di
trionfo pervadeva le note: un milione di demoni beffardi mi urlavano e
mugghiavano contro, irridendomi in mezzo al diluvio della musica
diabolica, quasi che il canto fosse una porta attraverso la quale orde infernali
giungessero ruggenti in massa con le mani insanguinate.
La voce si avvicinò con folle rapidità al punto in cui, nella messa nera, il
pugnale beve il sangue del sacrificio. Con uno sforzo supremo che mise a
dura prova la mia anima esausta e la mia mente ottenebrata, ruppi le catene
dell’incanto ipnotico e urlai: un urlo disumano e sinistro, l’urlo di un’anima
trascinata all’inferno e di una mente spinta sull’orlo della follia.
Gli fece eco il grido di Costigan, il quale si protese in avanti e colpì con il
suo potentissimo pugno il piatto del fonografo, facendolo a pezzi e
condannando per sempre all’oblio la splendida quanto terribile voce.
IL TOCCO DELLA MORTE

Finché la mezzanotte avvolgerà la terra


nelle fosche ombre selvagge,
Dio ci salvi dal bacio traditore
di un morto nelle tenebre.

Il vecchio Adam Farrel giaceva morto nella casa in cui era vissuto da solo
per vent’anni. Rustico, silenzioso orso, nella vita non aveva avuto amici e
solo due uomini avevano assistito al suo trapasso.
Il dottor Stein si alzò e guardò dalla finestra la sera incombente. — Pensa
allora di poter passare la notte qui? — chiese al suo interlocutore.
L’uomo, che si chiamava Falred, assentì. — Sì, certo, credo sia mio
dovere.
— Vegliare i morti è un’usanza abbastanza assurda e primitiva —
osservò il dottore preparandosi a uscire — ma immagino che in ossequio
alle convenzioni sociali ci toccherà rispettarla. Forse riuscirò a trovare
qualcuno che venga a darle il cambio.
Falred alzò le spalle. — Ne dubito. Farrel non era amato e quasi nessuno
lo frequentava. Io stesso lo conoscevo appena, ma non ho problemi a stare
seduto accanto a un cadavere.
Il dottor Stein si tolse i guanti di gomma e Falred osservò l’operazione
con interesse o addirittura una punta di fascino. Fu scosso da un piccolo
brivido involontario al pensiero di avere sfiorato quei guanti freddi, viscidi,
appiccicosi, che ricordavano il tocco della morte.
— Forse stanotte si sentirà solo, se non trovo nessuno che le venga a dare
una mano — disse il medico aprendo la porta. — Spero non sia
superstizioso.
Falred rise. — No, affatto. Per la verità, dai commenti che ho sentito sul
carattere di Farrel direi che è più fortunato chi lo veglia in morte di chi ha
avuto la ventura di essere suo ospite in vita.
La porta si chiuse e Falred iniziò la veglia. Si sedette sull’unica sedia della
stanza, gettò un’occhiata distratta, di fronte a sé, alla sagoma informe stesa
sul letto e coperta dal lenzuolo, e cominciò a leggere alla luce della fioca
lampada posta sul rozzo tavolo.
Fuori le tenebre scesero in fretta e alla fine Falred depose la rivista per
riposare gli occhi. Guardò di nuovo la figura immobile che era stata, in vita,
Adam Farrel e si chiese per quale bizzarria della natura umana tante persone
considerassero la vista di un cadavere non solo sgradevole, ma anche
paurosa. L’ignoranza, nella sua irrazionalità, legge nelle cose senza vita un
memento della morte a venire, pensò, mettendosi a riflettere oziosamente su
che cosa la vita avesse riservato a quel vecchio scontroso e ombroso, che
non aveva né parenti né amici e che di rado aveva lasciato la casa in cui era
deceduto. Come al solito erano nate leggende che parlavano di una ricchezza
accumulata con taccagneria, ma Falred era così poco interessato alla
faccenda che non doveva nemmeno fare uno sforzo per vincere la
tentazione di frugare in casa alla ricerca di eventuali tesori nascosti.
Scrollando le spalle, tornò a leggere. La veglia si prospettava più noiosa
del previsto. Dopo un poco si rese conto che ogniqualvolta alzava gli occhi
dalla rivista per posarli sul letto e sul suo macabro fardello, trasaliva
involontariamente, come se, per un istante, si fosse dimenticato del morto e
la consapevolezza di essere in sua presenza gli tornasse all’improvviso in
maniera sgradevole. Era un sussulto minimo, istintivo, ma Falred era quasi
arrabbiato con se stesso. Si rese conto d’un tratto del silenzio assoluto e
assordante in cui era immersa la casa, un silenzio che la notte pareva
condividere, perché non arrivava alcun suono da fuori. Adam Farrel era
vissuto il più lontano possibile dai propri vicini e non c’erano altre
abitazioni da cui potessero giungere rumori.
Falred scosse la testa come per liberare la mente da pensieri spiacevoli e
riprese a leggere. Dalla finestra giunse un’improvvisa raffica di vento e la
fiamma della lampada tremolò, per poi spegnersi. Imprecando fra sé, cercò
al buio i fiammiferi, bruciandosi le dita sul tubo di vetro della lampada, che
scottava. La riaccese e, guardando il letto, ebbe un tremendo sussulto. Adam
Farrel lo fissava senza vederlo, con gli occhi vitrei sbarrati e incastonati nel
grinzoso volto terreo. Vincendo il fremito istintivo, Falred si spiegò
razionalmente lo strano fenomeno: il lenzuolo era stato tirato alla meglio
sopra la faccia e l’improvvisa raffica di vento lo aveva spostato e fatto
cadere di lato.
Vi era però nel fenomeno qualcosa di macabro e orribilmente suggestivo,
come se, nel buio pesto, il cadavere avesse alzato la mano morta per
scoprirsi e magari alzarsi.
Falred, un uomo immaginoso, scrollò le spalle come per scacciare quei
pensieri lugubri e si avvicinò al letto per rimettere a posto il sudario. Il
morto pareva fissarlo con malevolenza, con una cattiveria che andava oltre
la scontrosità mostrata notoriamente in vita. Era certo un parto della sua
vivida fantasia, pensò Falred, e tornò a coprire il volto terreo, fremendo di
disgusto quando la sua mano entrò in contatto con quella pelle gelida,
viscida e appiccicosa: il tocco della morte. Rabbrividì per la naturale
repulsione che i vivi provano per i morti e tornò alla sua sedia e alla sua
rivista.
Alla fine, sentendo arrivare il sonno, si sdraiò su un divano che,
stranamente, il proprietario aveva incluso tra i pochi mobili della stanza e si
preparò a dormire un poco. Decise di lasciare accesa la luce, perché, si disse,
così si faceva durante le veglie funebri, ma sebbene in cuor suo non volesse
ammetterlo, in realtà trovava sgradevole l’idea di starsene sdraiato al buio
con quel cadavere. Sonnecchiò, poi si svegliò di soprassalto e guardò la
figura sul letto avvolta nel lenzuolo. La casa era silenziosa e fuori era buio
pesto.
Si stava avvicinando la mezzanotte, con la sua sinistra influenza sulla
mente umana. Falred guardò di nuovo il letto in cui giaceva il cadavere
coperto dal sudario e trovò quella vista assai repellente. Gli nacque e crebbe
in testa un’idea bizzarra, ossia che sotto il lenzuolo il corpo senza vita di
Farrell fosse divenuto qualcosa di strano e mostruoso, una creatura
abominevole e consapevole che lo osservava con occhi ardenti da sotto la
tela. Quel pensiero, una mera fantasia naturalmente, traeva forse origine
dalle leggende di vampiri, non morti, spettri e altre terrificanti creature
mitiche con cui i vivi hanno adombrato i morti per innumerevoli secoli, fin
dall’epoca in cui l’uomo primitivo riconobbe per la prima volta nella morte
un fenomeno orribile e avulso dalla vita. L’uomo, si disse Falred, temeva la
morte, e parte di questa paura veniva trasferita anche sui morti. La vista dei
cadaveri generava pensieri foschi e suscitava oscuri timori di ancestrale
memoria che stavano in agguato nei recessi della mente.
In ogni caso, l’essere silenzioso steso sotto il lenzuolo gli stava dando ai
nervi. A un certo punto pensò di scoprirgli la faccia, riflettendo che la
familiarità genera disprezzo. La vista di quel viso quieto e immobile nella
morte avrebbe forse dissipato tutte le folli fantasticherie che suo malgrado lo
tormentavano. Ma gli era intollerabile pensare a quegli occhi vitrei che lo
fissavano alla luce della lampada, sicché alla fine spense con un soffio la
candela e si mise a dormire. La paura si era insinuata in lui in maniera così
insidiosa e graduale che non si era reso conto di quanto fosse aumentata.
Dopo che ebbe spento la luce ed escluso dalla sua vista il cadavere, però,
le cose riacquistarono le loro vere dimensioni e proporzioni, ed egli si
addormentò quasi all’istante, sorridendo delle assurde fantasie cui si era
abbandonato.

Si svegliò all’improvviso. Non sapeva per quanto tempo avesse dormito.


Si tirò su a sedere con il cuore in tumulto e la fronte imperlata di sudore.
Capì subito di essere a casa di Farrel e si ricordò del cadavere nella camera.
Ma che cosa lo aveva destato? Un sogno. Sì, ora lo ricordava: un incubo in
cui il morto si alzava dal letto e girava rigido per la stanza con gli occhi
fiammeggianti e un ghigno spaventoso stampato sulle labbra esangui. Falred
aveva l’impressione di essere rimasto sdraiato immobile e inerme, finché il
cadavere non aveva allungato l’orrida mano nodosa, destandolo.
Cercò di distinguere i contorni, ma la stanza era buia e fuori le tenebre
erano così fitte che dalla finestra non arrivava neanche un barlume di luce.
Allungò una mano tremante verso la lampada, poi la ritrasse con un brivido
di repulsione, come se avesse toccato un serpente. Starsene al buio in
compagnia di un orrendo cadavere era già abbastanza brutto, ma non osava
accendere la lampada per paura che la ragione gli si spegnesse come una
candela alla vista della scena macabra che poteva presentarglisi davanti. Fu
colto da un orrore irrazionale, quasi primordiale, e non cercò più di vincere
con il raziocinio le proprie paure istintive. Tutte le leggende che aveva
sentito gli tornarono in mente e gli parvero fondate. La morte era odiosa, un
obbrobrio che faceva vacillare la mente e conferiva ai morti la spaventosa
aura della malevolenza. In vita, Adam Farrel era stato solo un uomo rustico
ma innocuo; adesso era un abominio, un mostro, un demone che stava in
agguato tra le ombre della paura e, con gli artigli intinti nella morte e nella
follia, si preparava ad aggredire l’umanità.
Falred se ne stava lì raggelato, a combattere la sua silenziosa battaglia.
Lievi lampi di razionalità stavano per mitigare la paura, quando un suono
lieve e furtivo ve lo fece ripiombare. Non riconobbe il fruscio del vento
notturno sul davanzale e, a causa della fantasia sovreccitata, lo scambiò per
il passo della morte e dell’orrore. Si alzò di scatto dal divano, ma rimase
indeciso sul da farsi. Era tentato di scappare, ma si sentiva troppo intontito
per provare anche solo a ideare un piano di fuga. Inoltre, aveva perso il
senso dell’orientamento. Era così istupidito dal terrore da non riuscire a
riflettere lucidamente. Le tenebre si stendevano come lunghe onde intorno a
lui e quel buio, con il suo senso di vuoto, gli penetrò nel cervello. Faceva
movimenti puramente istintivi. Si sentiva come incatenato e le membra
rispondevano torpidamente, come quelle di un idiota.
Cominciò a nutrire la convinzione tremenda, orripilante, che il morto
fosse alle sue spalle e si apprestasse ad assalirlo. Non pensò più di accendere
la luce; non pensò più a niente. Era completamente dominato dalla paura:
non c’era spazio per altro.
Arretrò pian piano nel buio muovendosi a tastoni con le mani tese dietro.
Con uno sforzo enorme cercò di scrollarsi di dosso le tenaci nebbie della
paura e, imperlato di sudore freddo, tentò di orientarsi. Non vedeva nulla,
ma il letto era al capo opposto, davanti a lui, e se ne stava allontanando. Era
lì che giaceva il morto secondo tutte le regole della natura; se fosse stato alle
sue spalle ed egli lo avesse toccato con le mani annaspanti, si sarebbero
rivelate vere le vecchie superstizioni, secondo le quali i corpi senza vita
acquisivano un’animazione spettrale e vagavano nell’ombra per imporre la
loro volontà atroce e malvagia agli esseri viventi. D’altronde, Dio mio, che
cos’era l’uomo se non un neonato che vagiva nella notte, smarrito e
spaventato dai mostri orrendi dei neri baratri e dai terribili, ignoti abissi dello
spazio e del tempo? A quelle conclusioni la sua mente stordita dal terrore
non giunse attraverso un processo razionale, ma d’istinto. Indietreggiò
lentamente sempre a tentoni, convinto che il morto fosse di fronte a lui.
Quando incontrò con le mani qualcosa di freddo, viscido e appiccicoso
come il tocco della morte, lanciò un grido, al quale seguì lo schianto di un
corpo che cadeva.

La mattina dopo, coloro che si recarono a casa del defunto rinvennero


due cadaveri. Il corpo coperto dal lenzuolo di Adam Farrel giaceva
immobile sul letto, mentre al capo opposto della stanza Falred era riverso
sotto lo scaffale su cui il dottor Stein aveva lasciato distrattamente i propri
guanti di gomma, che dovevano essere apparsi viscidi e appiccicosi a una
mano annaspante nel buio; la mano di un uomo che, fuggendo dalle sue
stesse paure, aveva creduto di sentire nella gomma molle e vischiosa il tocco
della morte.
DAGLI ABISSI
UNA STORIA DI FARING

Adam Falcon salpò all’alba e la giovane Margeret Deveral, sua promessa


sposa, andò a salutarlo sul molo nella luce fredda e fioca. Al crepuscolo
Margeret si accovacciò con lo sguardo impietrito sopra la sagoma pallida,
scomposta e immobile che le onde avevano deposto sulla spiaggia.
Gli abitanti del villaggio di Faring si radunarono mormorando: — La
nebbia era fitta, forse la barca si è incagliata sulla Scogliera dei fantasmi.
Strano che solo il cadavere sia stato restituito alla baia, e così presto.
Sottovoce aggiunsero: — Vivo o morto, sarebbe sempre tornato da lei...
Il corpo giaceva poco oltre la battigia, come sospinto da un’onda
errabonda; da vivo era stato magro, ma forte e virile, e anche da morto era
cupamente bello. Curiosamente gli occhi erano chiusi, sicché pareva
dormire. Gli abiti da marinaio erano fradici di acqua e frammenti di alghe.
— Strano — mormorò il vecchio John Harper, che era il proprietario
della locanda del Leone marino e anche il più anziano ex marinaio di Faring.
— È finito in profondità, perché questo tipo di alga cresce solo sul fondo
dell’oceano, nelle fredde caverne verdi del mare.
Margeret non disse una parola, ma si accovacciò e, premendosi le mani
sulle guance, fissò Adam con gli occhi sbarrati.
— Abbraccialo e bacialo, figliola, perché questo avrebbe voluto che
facessi da vivo — la esortò pacata la gente del villaggio.
La ragazza obbedì meccanicamente, rabbrividendo al contatto con il
freddo cadavere del fidanzato. Quando lo toccò con le proprie labbra, cacciò
un urlo e si ritrasse.
— Non è Adam! — strillò, guardandosi intorno con aria spiritata.
Le persone si rivolsero un triste cenno di assenso.
— Le ha dato di volta il cervello — mormorarono, poi sollevarono Adam
Falcon e lo portarono nella casa dove era vissuto e dove aveva sperato di
condurre a vivere sua moglie una volta tornato dal suo viaggio.
Presero con loro anche Margeret, accarezzandola e consolandola con
buone parole. Ma la ragazza camminava come in trance, con gli occhi
stranamente imbambolati.
Adagiarono il cadavere sul letto ponendogli delle candele funebri ai lati
della testa e dei piedi, e l’acqua salmastra di cui erano intrisi i vestiti
gocciolò giù, spargendosi sul pavimento. Fecero così perché, a Faring come
in molte oscure zone costiere, si credeva che sarebbe capitata una disgrazia
tremenda se si fossero tolti i vestiti a un uomo annegato.
Nella camera ardente, Margeret sedette senza parlare con nessuno,
fissando il viso scuro e quieto di Adam. A un certo punto John Gower, un
uomo lunatico e pericoloso che l’aveva corteggiata e ne era stato respinto,
entrò e guardando il cadavere disse: — Se questo è davvero l’Adam Falcon
che conoscevo, la morte per mare provoca strani cambiamenti.
La gente intorno lo guardò male e lui ne parve stupito. Gli uomini si
alzarono in silenzio e lo accompagnarono alla porta.
— Tu odiavi Adam Falcon, John Gower, e odii Margeret perché ti ha
preferito un uomo che era migliore di te — disse Tom Leary. — Ora, per
Satana, non torturare questa povera ragazza con i tuoi discorsi cattivi.
Vattene e non tornare più qui.
Gower lo guardò torvo, ma siccome Leary gli tenne spavaldamente testa
e gli altri uomini del villaggio gli diedero man forte, voltò le spalle a tutti e si
allontanò. Eppure a me non era sembrato che avesse pronunciato quella
frase per tormentare o insultare, ma solo perché aveva davvero fatto quella
riflessione.
Mentre si allontanava, lo sentii mormorare fra sé: — Gli assomiglia,
eppure è stranamente diverso...
Scese la sera a Faring e le luci delle case brillarono tra le tenebre; dalle
finestre della camera di Adam Falcon si vedevano ardere le candele funebri
della veglia che Margeret e altri fecero in silenzio fino all’alba. Di là dal
tepore amico delle luci del villaggio, il cupo titano verde incombeva
minaccioso sulla riva, ora quieto come se fosse addormentato, ma sempre
pronto ad aggredire con i suoi artigli famelici. Andai in spiaggia e,
sdraiandomi sulla sabbia bianca, contemplai la massa liquida che si muoveva
lenta, gonfiandosi e ritraendosi con onde pigre come un serpente
addormentato.
Il mare: grande, millenaria donna grigia dagli occhi freddi. Le sue onde
mi parlavano come mi avevano parlato fin da quando ero nato. Mi
parlavano con lo sciabordio della risacca, con le strida dei gabbiani, con il
silenzio pulsante. Sono molto vecchio e molto saggio, pensava il mare, e
non ho nulla di umano: uccido gli uomini e anche dei loro corpi mi disfo,
scaraventandoli sulla vile terra. C’è vita nel mio seno, ma non è vita umana,
sussurrava il mare; i miei figli odiano i figli degli uomini.
Un urlo fendette il silenzio. Subito scattai in piedi e mi guardai intorno
allarmato. In cielo le stelle brillavano fredde e i loro fulgidi fantasmi
luccicavano sulla gelida superficie dell’oceano. Il villaggio era buio e
silenzioso, tranne che per le luci della camera ardente in casa di Adam
Falcon, e l’eco dell’urlo vibrava ancora nel silenzio pulsante.
Fui tra i primi ad arrivare sulla soglia della stanza, dove, in compagnia
degli altri, mi fermai agghiacciato. Margeret Deveral giaceva morta in terra,
il corpicino esile schiantato come una piccola barca tra le secche. John
Gower, con la luce della follia negli occhi sbarrati, era chino sopra di lei e la
teneva tra le braccia. Le candele funebri continuavano a tremolare e
guizzare, ma non c’era più nessun cadavere sul letto di Adam Falcon.
— Misericordia! — ansimò Tom Leary. — John Gower, tizzone
d’inferno, che diavolo hai fatto?
Gower alzò gli occhi a guardarlo.
— Ve l’avevo detto! — urlò. — Lei aveva capito, e l’avevo capito
anch’io, che il gelido mostro sbattuto dalle onde beffarde sulla spiaggia non
era Adam Falcon, bensì un demone che si è impossessato del suo cadavere.
Ascoltate, sono andato a letto e ho cercato di dormire, ma ogni volta ero
assalito dal pensiero di questa tenera fanciulla seduta accanto al freddo
mostro disumano che passava per il suo innamorato, così alla fine mi sono
alzato e sono venuto a guardare dalla finestra: Margeret sonnecchiava su una
sedia mentre gli altri, da quegli imbecilli che sono, dormivano in altre parti
della casa. E mentre guardavo... — qui fu scosso in tutto il corpo da un
brivido — ... mentre guardavo, Adam ha aperto gli occhi e si è alzato in
fretta, con fare furtivo, dal letto dove giaceva. Raggelato e impotente davanti
alla finestra, ho visto quell’essere orrendo avvicinarsi alla ragazza ignara
con le braccia protese come tentacoli e una luce infernale negli occhi
tremendi. Luce infernale e tentacoli, vi dico. Lei si è svegliata e si è messa a
urlare. Allora, Vergine santa, il morto l’ha stritolata con le braccia immonde
e lei è morta senza emettere un suono.
La voce si spense in un balbettio incoerente e Gower si mise a cullare la
morta dolcemente, come una madre il suo bambino.
Tom Leary scosse la testa.
— Dov’è il cadavere?
— È fuggito nella notte — rispose John Gower con voce spenta.
Gli uomini si guardarono sconcertati.
— Mente — farfugliarono tra i peli delle lunghe barbe. — Ha ucciso lui
Margeret e nascosto il cadavere di Adam da qualche parte per avvalorare la
sua bizzarra versione dei fatti.
Un cupo ringhio si levò in coro dalla folla, che si girò a guardare la forca
dove, in cima alla Collina dell’impiccato prospiciente la baia, biancheggiava
sotto le stelle lo scheletro di Boccabugiarda Canool.
Strapparono la ragazza morta al forte abbraccio di Gower e la deposero
delicatamente sul letto tra le candele che avrebbero dovuto illuminare il
corpo di Adam Falcon. Margeret giacque terrea e immobile, e uomini e
donne bisbigliarono che pareva più annegata che stritolata.
Trascinammo John Gower per le strade del villaggio e lui non oppose
resistenza, ma camminò come in trance, mormorando fra sé. In piazza, però,
Tom Leary si fermò.
— È una strana storia, questa che ci ha raccontato Gower — disse. —
Sarà senz’altro una bugia, ma io non sono il tipo che ammazza un uomo
senza avere prove certe. Per sicurezza, quindi, mettiamolo in prigione e
cerchiamo nel frattempo il cadavere di Adam. Ci sarà tutto il tempo di
impiccarlo dopo.
Così fu fatto. Mentre me ne andavo con gli altri, mi girai a guardare John
Gower, il quale sedeva con la testa reclinata sul petto, come un uomo
mortalmente stanco.
Cercammo il cadavere di Adam Falcon sotto i moli bui, nelle soffitte delle
case e tra le barche in secca. La nostra ricerca ci condusse fin sui colli dietro
il villaggio, dove ci dividemmo in gruppi e coppie e ci sparpagliammo per le
alture brulle.
Avevo per compagno Michael Hansen e ci eravamo talmente allontanati
l’uno dall’altro che non lo distinguevo più al buio; ma d’un tratto lo udii
gridare. Mentre correvo nella sua direzione, il grido divenne un urlo
tremendo che poi si spense in un silenzio sinistro. Michael giaceva morto in
terra, e una sagoma confusa sgattaiolò via nella notte. Guardai il cadavere e
mi si accapponò la pelle.
Tom Leary e gli altri arrivarono di corsa, si radunarono intorno a Hansen
e dissero che anche quella era opera di John Gower.
— In qualche modo è riuscito a liberarsi — affermarono, così ci
precipitammo di nuovo al villaggio.
In effetti, John Gower si era liberato dai ceppi, dall’odio dei compaesani
e da tutte le sofferenze della vita. Sedeva come l’avevamo lasciato, con la
testa reclinata sul petto, ma era stato assalito da qualcuno nelle tenebre e,
benché avesse le ossa stritolate, pareva un annegato.
Un orrore indicibile avvolse come una fitta nebbia il villaggio di Faring.
Ammutoliti dallo sgomento, ci radunammo intorno al cadavere in ceppi,
finché delle urla provenienti da un’abitazione della periferia ci fecero capire
che il mostro aveva colpito ancora. Corremmo alla casa e vi trovammo
sangue, distruzione e morte. Prima di esalare l’ultimo respiro, una donna
moribonda e quasi fuori di senno mormorò che il cadavere di Adam Falcon
aveva spaccato una finestra e, con faccia orrenda e occhi fiammeggianti,
aveva imperversato. Una fanghiglia verde insozzava la stanza e dal
davanzale della finestra pendevano frammenti di alghe.
Allora una tremenda paura irrazionale si impadronì degli abitanti di
Faring. Tutti corsero nelle rispettive case, sprangarono porte e finestre e si
accovacciarono dietro di esse con le mani tremanti strette intorno al fucile e
un terrore folle nell’animo. Perché quale arma poteva mai uccidere i morti?
In quella notte fatale, l’orrore percorse il villaggio dando la caccia ai figli
degli uomini. La gente tremava e non osava nemmeno guardare quando
dallo schianto di una porta o di una finestra si capiva che il mostro era
entrato nella casupola di qualche disgraziato, e urla e gemiti soffocati
tradivano le orrende gesta che vi erano compiute.
Tuttavia vi fu un uomo che non si chiuse dietro una porta per farsi
ammazzare come una pecora. Non sono mai stato coraggioso, né fu il
coraggio che mi indusse a vagare nella notte spettrale. No, a guidarmi fu lo
sprone di un pensiero che mi era nato nel cervello mentre contemplavo il
viso senza vita di Michael Hansen. Era un’idea vaga e chimerica,
un’intuizione inconsistente, eppure dotata di una sua sostanza. In qualche
recesso dell’animo quell’impressione mi incalzava e non avrei avuto pace
finché non avessi dimostrato o confutato ciò che non riuscivo nemmeno a
definire in termini chiari e concreti.
Così, con quell’ipotesi singolare e strampalata in testa, vagai cauto nella
notte. Chissà, forse il mare, strano e volubile anche con le sue creature
predilette, aveva sussurrato qualcosa alla mia anima, tradendosi.
In ogni caso, tutta la notte mi aggirai per la spiaggia e quando, alle prime
luci grigie dell’alba, una figura demoniaca mi venne incontro lungo la
battigia, la aspettavo.
All’apparenza fu il cadavere di Adam Falcon, animato da una sua
macabra vita, ad affrontarmi nel chiarore vago. Gli occhi aperti brillavano di
una luce fredda, come riflessi infernali di abissi marini, ma sapevo che non
era Adam quello davanti a me.
— Mostro marino — dissi con voce tremante — non so come tu abbia
fatto a giungere qui sotto le sembianze di Falcon. Non so se la sua barca si
sia incagliata tra le rocce e lui sia caduto fuori bordo, o se tu ti sia
arrampicato dal fasciame e sporgendoti oltre il parapetto l’abbia trascinato
giù dal ponte. Non so nemmeno per quale malefico incantesimo marino tu
abbia mutato il tuo aspetto di demonio nel suo.
“Ma una cosa so: Adam Falcon riposa in pace sotto le onde azzurre. Tu
non sei lui. L’avevo sospettato, ma ora ne ho la certezza. L’abominio che sei
comparve sulla terra tanto tempo fa, in epoche così lontane che gli uomini
hanno dimenticato la tua storia; l’hanno dimenticata tutti, tranne persone
come me, giudicate stupide dagli altri. Io so e, sapendo, non ti temo. Adesso
ti ucciderò, perché sebbene tu non sia umano, puoi essere ucciso da un
uomo che non ti teme, anche se quell’uomo è solo un ragazzo considerato
da tutti stupido e stravagante. Hai lasciato il tuo marchio di mostro sulla
terra: solo Dio sa quante anime hai depredato, quante menti hai distrutto
stanotte. Gli antichi dicevano che quelli della tua stirpe potevano fare il male
solo sotto sembianza umana, sulla terraferma. Sì, hai ingannato i figli degli
uomini, facendoti trarre a terra da mani buone e gentili, da uomini che non
sapevano di avere davanti un mostro degli abissi.
“Ora hai compiuto la tua volontà e il sole sta per sorgere. Prima che sorga
sei costretto a tornare nelle verdi profondità, a crogiolarti nelle immonde
grotte che l’occhio umano non ha contemplato se non nella morte. Laggiù
sono il mare e la sicurezza: solo io ti sbarro la strada.”
Si avventò su di me come un gigantesco maroso, agitandomi intorno le
braccia simili a verdi serpenti. Sapevo che quegli arti mi stavano stritolando,
eppure mi sentivo annegare e in quel momento compresi perché Michael
Hansen avesse avuto, nella morte, quell’espressione sconcertante,
l’espressione di un annegato.
Guardare gli occhi disumani del mostro fu come guardare gli infiniti
abissi marini, le liquide profondità in cui presto sarei piombato, annegando.
E sentivo delle scaglie...
Mentre mi afferrava collo, braccia e spalle, piegandomi per spezzarmi la
spina dorsale, gli conficcai il coltello nel corpo una, due, innumerevoli volte.
Lanciò un grido, l’unico suono che sentii uscire da lui, simile al mugghiare
delle onde verdi tra le secche. Sentire le sue braccia sul corpo e le membra
era come subire la pressione di duecento metri d’acqua; poi, all’ultimo dei
miei colpi, cedette e si accasciò sulla spiaggia.
Lì giacque contorcendosi; poi smise di agitarsi e cominciò a mutare.
Tritoni, li chiamavano gli antichi, i quali sapevano che erano dotati di strane
caratteristiche, come quella di assumere la forma umana se tratti in secco da
mani d’uomo. Mi chinai e gli strappai gli abiti di Adam Falcon. Il primo
raggio di sole illuminò la massa viscida e putrescente delle alghe, tra le quali
mi fissavano, dalla battigia, due orribili occhi senza vita inseriti in una massa
informe che la prima alta marea avrebbe risospinto nei luoghi da cui veniva:
i freddi abissi color giada dell’oceano.
UNA LEGGENDA DI FARING

La sua casa, mera capanna in collina,


Faring guardava triste e diroccata;
dietro aveva pendenza desolata,
in fondo un vecchio mulino in rovina.
Spesso la sera tetra e indolente,
tutta grinzosa col sobrio suo vestito
il volto tiglioso in cipiglio accanito,
Meg sedeva sulla soglia silente.

Tanti anni prima a Faring era venuta


accompagnata da una bella bambina
che scomparve dalla sera alla mattina.
Rammendatrice di vele avveduta,
Meg disse che la piccola era morta
e tacque, ma la guardavan storta.

Una notte andò a fuoco il borgo nostro,


il tetto di Meg sputò nero furore;
lei non uscì, entrammo e nel bagliore
la vedemmo chinata come un mostro
sopra uno scheletro nel letto.
“Infanticida!” urlarono le donne;
una trave lassù bruciava insonne
l’impiccammo e restò del fuoco in petto.

Trovammo un libro e pensieri pietosi


vergati mestamente: “Il mio tesoro è morto,
ma dormirà accanto a me per suo conforto,
non la daranno ai crudeli marosi”.
Rabbrividimmo e guardammo con orrore
la vecchia pender nera nel rossore.
ACQUE AGITATE

Ricordo come fosse ieri la terribile notte al Silver Slipper, nel tardo autunno
del 1845. Fuori imperversava una gelida tempesta e il nevischio, spinto dal
vento, batteva contro le finestre come le falangi di uno scheletro. Seduti
intorno al fuoco della taverna, sentivamo, al di sopra del vento e della neve,
i cavalloni bianchi mugghiare furiosi mentre si infrangevano contro la
desolata costa del New England. Le navi, nel porto del piccolo villaggio,
erano ormeggiate con una doppia ancora e i loro comandanti avevano
cercato calore e compagnia nelle taverne vicino ai moli.
Al Silver Slipper, quella sera, c’erano quattro uomini oltre a me, il
ragazzo che stappava le bottiglie: Ezra Harper, l’oste, John Gower,
comandante della Sea-Woman, Jonas Hopkins, un avvocato di Salem, e il
capitano Starkey, che comandava la Vulture. I quattro sedevano intorno a un
tavolo spoglio e massiccio davanti al grande fuoco che crepitava nel
caminetto, e io mi affaccendavo in giro, servendo ciò che ordinavano,
riempiendo i boccali e riscaldando le bevande aromatizzate.
Il capitano Starkey dava le spalle al fuoco e aveva davanti una finestra su
cui picchiettava e grattava il nevischio. Ezra Harper sedeva alla sua destra, a
capotavola, il capitano Gower era al capotavola opposto e l’avvocato Jonas
Hopkins si trovava esattamente di fronte a Starkey, per cui voltava la
schiena alla finestra e guardava il fuoco.
— Altro brandy! — ruggì Starkey, battendo sul tavolo il grosso pugno
nodoso. Era un rude gigante di mezz’età, con una corta e folta barba scura e
occhi che scintillavano sotto spesse sopracciglia nere.
— Una notte gelida per chi è costretto a navigare — disse Ezra Harper.
— Una notte ancor più gelida per gli uomini che dormono in fondo al
mare — disse cupo John Gower. Era un tipo bruno, alto, longilineo e
saturnino, un individuo eccentrico e stravagante sul cui conto si
mormoravano cose fosche.
Starkey scoppiò in una risata cattiva. — Se stai pensando a Tom Siler,
puoi anche risparmiarti la tua solidarietà. La terra ci ha solo guadagnato
dalla sua dipartita e il mare non è diventato per questo migliore. Era un vile
assassino ammutinato! — Pronunciò le ultime parole con improvvisa furia,
picchiando forte il pugno sul tavolo e guardandosi intorno come volesse
sfidare i presenti a contestare il suo giudizio.
Un sorriso ironico si dipinse sul viso sinistro di John Gower, mentre
Jonas Hopkins si protese in avanti e, con il suo sguardo acuto, fissò Starkey
dritto negli occhi. Come tutti noi, conosceva la storia di Tom Siler come
l’aveva raccontata Starkey stesso; sapeva che Siler, secondo ufficiale sulla
Vulture, aveva incitato l’equipaggio ad ammutinarsi per darsi alla pirateria e,
caduto in una trappola tesagli da Starkey, era stato impiccato all’albero della
nave. Erano tempi duri, quelli, e la parola del comandante era legge, in
mare.
— Strano — disse Hopkins guardando Starkey con il suo viso scarno e
pallido. — Strano che Tom Siler sia diventato un delinquente, lui che una
volta era un ragazzo così rispettoso della legge.
Starkey si limitò a grugnire sdegnosamente e vuotò il bicchiere. Era già
ubriaco.
— Quand’è che tua nipote Betty sposerà Joseph Harmer? — gli domandò
l’oste Ezra Harper, cercando di indirizzare la conversazione verso argomenti
meno scabrosi. Jonas Hopkins si appoggiò allo schienale della sedia e si
concentrò sul suo rum.
— Domani — ringhiò Starkey.
Gower fece una risatina. — Sposare una ragazza tanto più giovane di
lui... Ma Joe Harmer vuole una moglie o una figlia?
— Fammi il favore di badare agli affaracci tuoi, John Gower! — ruggì
Starkey. — La sgualdrinella dovrebbe essere onorata di sposare un uomo
come Harmer, che è uno dei più ricchi armatori del New England.
— Ma Betty forse non la pensa così, vero? — insistette Gower, come in
cerca di guai. — Piange ancora Dick Hansen, no?
Il capitano Starkey strinse i pugni pelosi e guardò torvo Gower, come
non ne potesse più di quelle domande sulla sua vita privata; poi ingollò il
rum e sbatté il boccale sul tavolo.
— I capricci di una ragazza sono incomprensibili — disse imbronciato.
— Se vuole rovinarsi la vita a piangere dietro a un buono a nulla che è
scappato e si è annegato, sono affari suoi. Ma sono affari miei procurare che
faccia un matrimonio decente.
— E quanto ti paga Joe Harmer, Starkey? — chiese brusco Gower.
Erano stati superati i limiti dell’educazione e della discrezione. Il
corpulento Starkey si alzò dalla sedia urlando e si protese verso Gower con
il pugno levato e gli occhi rossi per la rabbia e l’alcol. Gower non si mosse.
Rimanendo seduto, strinse gli occhi con aria insidiosa e gli rivolse un
sorriso.
— Siediti, Starkey — intervenne Ezra Harper. — John, stasera hai il
diavolo in corpo. Perché non possiamo berci il nostro cicchetto insieme
amichevolmente e...
La bella riflessione filosofica fu interrotta di colpo. La massiccia porta si
spalancò all’improvviso, una raffica di vento fece guizzare furiosamente la
candela e, nel turbine di nevischio che entrò col vento, vedemmo una
ragazza. Balzai in piedi e andai a chiudere la porta alle sue spalle.
— Betty!
La ragazza era esile, quasi fragile. Aveva i grandi occhi neri spiritati e il
bel viso pallido rigato di lacrime. I capelli erano sciolti sulle magre spalle e
gli abiti inzuppati e sgualciti dalla tempesta che aveva attraversato per venire
fin lì.
— Betty! — ruggì il capitano Starkey. — Credevo fossi a casa, a letto.
Che cosa ci fai qui in una notte come questa?
— Oh, zio! — pianse lei, tendendogli le braccia senza badare
minimamente a noialtri. — Sono venuta a dirtelo di nuovo. Non posso
sposare Joseph Harmer domattina, non posso proprio. È per via di Dick
Hansen. Sento la sua voce che mi chiama nel vento, nella notte e nelle acque
nere. Vivo o morto che sia, sarò sempre sua finché respirerò e non posso,
non posso...
— Fuori di qui! — urlò Starkey, pestando i piedi e agitando le braccia
come un pazzo. — Vattene, torna a casa! Poi faremo i conti. E zitta, sai! Se
non sposerai Joe Harmer domani, ti bastonerò a morte.
Con un gemito, lei gli si inginocchiò davanti. Urlando, Starkey sollevò il
grosso pugno come per colpirla, ma con mossa felina John Gower si alzò di
scatto e lo scaraventò contro il tavolo.
— Giù le mani, lurido pirata! — urlò furioso Starkey.
Gower gli rivolse un sorriso cupo. — È ancora da dimostrare che lo sono
— disse. — Ma provati ad alzare un dito su questa ragazza, e vedremo
quanto in fretta un “lurido pirata” può spaccare il cuore a un onesto
mercante che sta vendendo una giovane donna del suo stesso sangue a un
taccagno.
— Lascia perdere, John — intervenne Ezra Harper. — Non vedi che la
ragazza sta per svenire, Starkey? — Si chinò su di lei e la sollevò con
delicatezza. — Coraggio, vieni, tesoro, vieni dal vecchio Ezra. Nella stanza
di sopra c’è un bel fuoco caldo e mia moglie ti darà degli abiti asciutti. È una
notte troppo brutta perché una ragazzina si avventuri fuori da sola. Resterai
con noi fino a domattina, mia cara.
Salì le scale quasi sostenendola di peso e Starkey, dopo averli fissati un
attimo, tornò al tavolo. Per un poco vi fu silenzio, poi Jonas Hopkins, che
non si era spostato dalla sua sedia, disse: — Si sentono raccontare strane
storie, Starkey.
— Quali? — fece lui con aria di sfida.
Hopkins riempì la lunga pipa sottile con tabacco della Virginia, prima di
rispondere. — Ho parlato con alcuni uomini del tuo equipaggio, oggi.
— Bah — fece Starkey, tirando una bestemmia. — La mia nave non fa in
tempo a entrare in porto la mattina che già la sera si fanno pettegolezzi.
Hopkins mi fece segno di dargli un tizzone per accendere la pipa.
Obbedii, e tirò varie boccate.
— Forse stavolta i pettegolezzi sono fondati.
— Avanti, parla! — disse irato Starkey. — Dove vuoi arrivare?
— Dicono che a bordo della Vulture Tom Siler non si era affatto reso
colpevole di ammutinamento. Dicono che tu ti sei inventato false accuse e lo
hai impiccato su due piedi nonostante le proteste dell’equipaggio.
Starkey rise sguaiatamente, ma con una nota cupa nella voce. — E su
quali fatti concreti si basano per sostenere una simile assurdità?
— A quanto pare, mentre si trovava sull’orlo dell’eternità, Tom Siler ha
giurato che lo stavi uccidendo perché aveva saputo cos’era successo a Dick
Hansen. Ma prima che potesse dire altro, il cappio gli ha tolto la parola e la
vita.
— Dick Hansen! — Starkey impallidì, ma continuò a parlare in tono di
sfida. — Dick Hansen fu visto per l’ultima volta sul molo di Salem una sera
di oltre un anno fa. Che cosa c’entro con lui?
— Tu, Starkey, volevi che Betty sposasse Joe Harmer, il quale era pronto
a comprartela come una schiava — rispose calmo Jonas Hopkins. — Questo
lo sanno tutti.
John Gower annuì, dando man forte a Hopkins.
— Betty però voleva sposare Dick Hansen, così tu lo hai fatto drogare e
salire forzatamente a bordo di una baleniera britannica impegnata in una
crociera di quattro anni. Poi hai fatto diffondere la voce che era annegato e
hai cercato di costringere Betty a sposare Harmer contro la sua volontà,
prima che Hansen fosse in grado di tornare. Quando hai capito che Siler
sapeva e che avrebbe raccontato a Betty la verità, sei stato preso dalla
disperazione. So che sei sull’orlo della bancarotta. La tua unica possibilità di
salvezza era il denaro che Harmer ti aveva promesso. Hai assassinato Tom
Siler per chiudergli la bocca.
Seguì un altro silenzio. Fuori, nella notte nera, il vento infuriava
ruggendo. Starkey si torse le grosse dita, rimuginando.
— Puoi provare tutto questo? — sibilò alla fine.
— Posso provare che sei sull’orlo della bancarotta e che Harmer ti ha
promesso dei soldi. Posso provare che hai fatto scomparire Hansen.
— Ma non che Siler non intendeva ammutinarsi — gridò Starkey. — E
come puoi dimostrare che Hansen è stato imbarcato a forza sulla baleniera?
— Stamattina ho ricevuto una lettera dal mio agente, che era appena
arrivato a Boston — rispose Hopkins. — Aveva visto Hansen in un porto
asiatico. Il giovane gli aveva detto di voler abbandonare la nave alla prima
occasione e tornare in America. Ha chiesto se Betty sapesse che era vivo e
che continuava ad amarla.
Starkey puntellò i gomiti sul tavolo e affondò il mento nei pugni, come
chi vedesse tutti i suoi sogni crollare e una nera rovina avvicinarsi. Poi
scrollò le possenti spalle e scoppiò in una risata sguaiata. Vuotò il boccale e
si alzò in piedi, continuando a ridere.
— Ho ancora uno o due assi nella manica — urlò. — Tom Siler è
all’inferno con un cappio al collo e Dick Hansen è dall’altra parte del
mondo. La ragazza è minorenne e sotto la mia tutela, e sposerà chi dico io.
Non puoi dimostrare quello che dici di Tom Siler. La mia parola è legge in
alto mare e non puoi obbligarmi a giustificare niente di quello che faccio a
bordo della mia nave. Quanto a Dick Hansen, mia nipote sarà
tranquillamente sposata con Joe Harmer molto prima che quel giovane idiota
torni dalla sua crociera. Prova a dirglielo, se vuoi. Prova a dirle che Dick
Hansen è ancora vivo!
— È quello che intendo fare — replicò Jonas Hopkins, alzandosi — e lo
avrei già fatto da un pezzo, se non avessi voluto prima inchiodarti
mettendoti di fronte ai fatti.
— Ma bravo! — gridò Starkey come un forsennato. Pareva una belva
con le spalle al muro e ci sfidava tutti. Aveva gli occhi fiammeggianti sotto
le sopracciglia folte e teneva le dita curve, ad artiglio. Prese un calice di
liquore dal tavolo e lo agitò in aria. — Ma sì, va’ a dirglielo! Sposerà
Harmer o l’ammazzerò. Trama e complotta pure, brutto porco vigliacco,
tanto nessun essere vivente può ormai intralciarmi e nessun essere vivente
può salvarla dal suo destino di moglie di Joe Harmer.
“Anzi, ecco un brindisi, brutti vigliacchi codardi! Brindo a Tom Siler,
che dorme nel freddo mare bianco con il cappio del traditore al collo.
Brindo al mio secondo di bordo, Tom Siler, che dondola appeso alla barra.”
Era una vera follia. Fremetti sentendo le orribili parole di quell’uomo
maligno, e perfino dal viso di John Gower sparì il sorriso.
— A Tom Siler! — ripeté Starkey.
Il vento rispose al ruggito. Il nevischio batté con dita frenetiche contro la
finestra, come se la nera notte tentasse di entrare. Mi rannicchiai vicino al
fuoco, dietro alle spalle del capitano Starkey, ma ugualmente fui investito da
un freddo arcano, come se da una porta apertasi all’improvviso si fosse
messo a soffiare il vento di altre sfere.
— A Tom Siler... — Starkey alzò ancora il bicchiere e, seguendone il
movimento, contemplò la finestra che ci separava dalle tenebre esterne.
All’improvviso si bloccò, strabuzzò gli occhi, lasciò cadere il calice e con un
urlo terrificante crollò sul tavolo, morto.
Che cosa lo uccise? Troppo alcol e troppo fuoco nel cervello malvagio,
dissero. Eppure... Jonas Hopkins aveva voltato le spalle per dirigersi alla
scala e John Gower stava fissando Starkey. Solo io guardai la finestra e vidi
quello che aveva fatto perdere la ragione al capitano, spegnendogli la vita
come una strega spegne una candela. Ciò che vidi mi ha perseguitato fino a
oggi e mi perseguiterà finché vivrò.
La finestra era incrostata di ghiaccio e le candele le ardevano illusorie
davanti, ma per un attimo la vidi chiaramente: una figura vaga e confusa,
simile al riflesso di una sagoma umana in acque agitate. Era la faccia di
Tom Siler e intorno al collo aveva l’ombra di un cappio.
L’OMBRA DELLA BESTIA

Finché stelle malvagie si leveranno


o il chiaro di luna infuocherà il levante,
il Dio dei cieli ci preservi
dall’ombra della bestia!

La tremenda avventura iniziò con un colpo di pistola sparato da una mano


nera. Un uomo bianco cadde con una pallottola in petto e il negro che aveva
sparato voltò le spalle e fuggì lanciando una terribile minaccia contro la
pallida ragazza che, impietrita dall’orrore, stava accanto al ferito.
Nel giro di un’ora uomini dall’aria truce, armati di pistola, setacciarono la
pineta e per tutta la notte la furibonda caccia proseguì, mentre la vittima del
ricercato lottava tra la vita e la morte.
— Adesso è stabile e dicono che vivrà — riferì la sorella uscendo dalla
stanza in cui giaceva il giovane. Poi si lasciò cadere su una sedia e scoppiò
in lacrime.
Le sedetti accanto e la consolai quasi come si consola un bambino. La
amavo e lei aveva dimostrato di ricambiare il mio affetto. Era stato per
amore di lei che mi ero deciso a lasciare il mio ranch nel Texas e a
raggiungere l’accampamento all’ombra della pineta, dove suo fratello
dirigeva le attività della sua azienda di legname.
— Raccontami tutto in dettaglio — dissi. — Non sono ancora riuscito a
sentire un resoconto coerente. Sai che sono arrivato dopo che Harry era
stato ferito.
— Non c’è molto da dire — rispose apatica. — Il negro si chiama Joe
Cagle ed è cattivo sotto ogni profilo. Per due volte l’ho visto sbirciare dalla
mia finestra e stamattina è sbucato da dietro un mucchio di legname e mi ha
afferrato per un braccio. Ho urlato, Harry è corso in mio aiuto e lo ha
colpito con un randello. Cagle allora gli ha sparato e, ringhiando come una
belva, ha promesso di vendicarsi anche di me. Poi, correndo come uno
scimmione con la sua grande schiena e l’andatura curva, è scomparso tra gli
alberi al confine dell’accampamento.
— In che modo ti ha minacciato? — chiesi, stringendo istintivamente i
pugni.
— Ha detto che sarebbe tornato a prendermi una di queste notti, appena
fosse stato buio nel bosco — rispose stancamente. Quindi, con un fatalismo
che mi sorprese e sgomentò, aggiunse: — Lo farà. Quando un negro come
lui si mette in testa una donna bianca, solo la morte lo ferma.
— Allora la morte lo fermerà — dissi aspro, alzandomi. — Pensi che
starò qui seduto a lasciare che quella bestia ti minacci? Intendo unirmi al
gruppo. Non lasciare la casa, stasera. Entro domattina Joe Cagle non potrà
più far del male a nessuna ragazza, bianca o nera che sia.
Mentre uscivo di casa, incontrai uno degli uomini che avevano dato la
caccia al negro. Si era slogato una caviglia inciampando al buio in una
radice nascosta ed era tornato al campo prendendo in prestito un cavallo.
— No, non abbiamo ancora trovato traccia di lui — disse, rispondendo
alla mia domanda. — Abbiamo setacciato la campagna tutt’intorno
all’accampamento e i ragazzi stanno andando anche verso la palude. Non mi
sembra probabile che sia arrivato così lontano con il poco vantaggio che
aveva su di noi, tanto più che lo abbiamo inseguito a cavallo; ma Joe Cagle è
più un animale che un uomo: sembra un gorilla. Immagino che si nasconda
nella palude e, se è così, forse ci vorranno settimane per stanarlo. Come ho
detto, abbiamo setacciato tutti i boschi vicini, tranne i dintorni della casa
abbandonata, naturalmente.
— Perché non avete guardato anche lì? Dove si trova?
— Lungo la vecchia mulattiera che nessuno usa più, a circa quattro
miglia da qui. In tutta la regione non c’è negro che si avvicinerebbe mai a
quel posto, fosse pure per aver salva la vita. A quello che uccise il
caposquadra, qualche anno fa, diedero la caccia sulla vecchia mulattiera e
lui, quando vide che per salvarsi sarebbe dovuto passare davanti alla casa
abbandonata, girò sui tacchi e si consegnò alla folla. Sta’ pur certo che Joe
Cagle si tiene alla larga da quel rudere.
— Come mai ha una così cattiva fama?
— Non ci vive più nessuno da vent’anni. L’ultimo proprietario morì
gettandosi o venendo gettato da una finestra del secondo piano. In seguito
un giovane viaggiatore pernottò per scommessa nella casa: la mattina dopo
lo trovarono lì fuori sfracellato, come se fosse caduto da una grande altezza.
Un tizio che abitava nel bosco e che si trovò a passare dal rudere quella
notte giurò di avere udito un urlo terribile e di avere visto il giovane
viaggiatore precipitare dalla finestra del secondo piano. Non aspettò di
vedere altro. Ciò che in origine conferì alla casa abbandonata la sua cattiva
fama fu...
Ma non avevo nessuna voglia di ascoltare una lunga storia di fantasmi o
qualunque altra cosa l’uomo intendesse raccontarmi. Quasi ogni villaggio
del Sud ha una casa “infestata” e innumerevoli leggende a essa legate.
Lo interruppi per chiedere dov’era più probabile trovare gli uomini della
squadra spintisi più addentro alla pineta e, quando mi ebbe dato ragguagli,
salii sul cavallo con cui era tornato e mi allontanai, facendomi promettere
che avrebbe tenuto d’occhio Joan fino al mio ritorno.
— Stia attento a non perdersi! — mi gridò dietro. — Chi non conosce
quella pineta può correre dei rischi. Tenga gli occhi aperti finché non
intravede la luce delle torce tra gli alberi.
Raggiunsi al piccolo galoppo una strada nel bosco che portava nella
direzione in cui volevo andare, ma lì mi fermai, perché perpendicolarmente
a quella iniziava un’altra strada, poco più di un sentiero dai contorni
indistinti: la vecchia mulattiera che passava per la casa abbandonata. Esitai,
perché, diversamente dagli altri, non ero così sicuro che Joe Cagle non
l’avesse imboccata. Più ci pensavo, più mi pareva probabile che il negro si
fosse rifugiato là. Era, sotto tutti i punti di vista, un uomo alquanto insolito,
un vero e proprio selvaggio, così bestiale, così in basso nella scala
dell’intelligenza, da non essere toccato nemmeno dalle superstizioni della
sua razza. Perché la sua furbizia animale non avrebbe dovuto suggerirgli di
nascondersi nell’ultimo posto in cui i suoi inseguitori avrebbero pensato di
guardare? Tanto più che, per la sua stessa natura animale, disdegnava le
paure da cui erano tormentati i membri più immaginosi della sua razza.
Presa la mia decisione, spronai il cavallo avviandomi sulla vecchia
mulattiera.
Non vi è oscurità al mondo così radicalmente priva di luce come il buio
di quella pineta. Gli alberi intorno a me si levavano silenziosi come mura
basaltiche, nascondendo le stelle. A parte il saltuario sospiro sinistro del
vento tra i rami o il lontano e inquietante richiamo della civetta, il silenzio
era assoluto come le tenebre. Quella quiete mi opprimeva. Mi pareva di
cogliere, nella nera notte intorno a me, lo spirito delle paludi inespugnabili,
il nemico primordiale dell’uomo la cui abissale barbarie continua a sfidare la
tanto celebrata civiltà. In simili contesti qualunque cosa sembra possibile.
Non trovavo strane, in quel momento, le fosche leggende di magia nera e
riti vudù che avevano tratto ispirazione da quegli orridi anfratti, né mi sarei
stupito di udire il battito del tam-tam, scorgere un fuoco nelle tenebre o
vedere figure nude danzare intorno a un banchetto di cannibali.
Scrollai le spalle per liberarmi da simili pensieri. Se gli adepti del vudù
eseguivano in segreto i loro riti nella pineta, non l’avrebbero certo fatto
quella sera, con tutti i bianchi assetati di vendetta che setacciavano l’area.
Mentre il cavallo, nato e cresciuto nella zona, galoppava sul sentiero buio
con la sicurezza di un gatto, senza bisogno del mio aiuto, concentrai tutti i
sensi per cogliere eventuali suoni umani. Ma non udii alcun furtivo
calpestio, né alcun fruscio tra i radi arbusti. Joe Cagle era armato e disperato.
Forse stava in agguato tra gli alberi e avrebbe potuto balzarmi addosso in
qualsiasi momento, ma non avevo troppa paura. Nel buio generale non
poteva vedere meglio di me e avrei avuto le sue stesse possibilità in una
sparatoria alla cieca. Se poi si fosse arrivati al corpo a corpo, ritenevo che
con i miei novantatré chili di ossa e muscoli sarei stato un buon contendente
anche per uno scimmione come lui.
Dovevo essere ormai vicino alla casa abbandonata. Non avevo idea di
che ora fosse, ma in lontananza, a levante, un lieve bagliore cominciava a
spuntare tra le tenebre che avvolgevano i pini. Stava sorgendo la luna. In
quell’istante, da un punto di fronte a me arrivò un’improvvisa raffica di
spari, poi il silenzio calò di nuovo come fitta nebbia. Mi ero fermato
all’improvviso e ora non sapevo bene cosa fare. Mi pareva che tutti i colpi
fossero stati esplosi dalla stessa arma e che non ce ne fosse stato nessuno in
risposta. Che cos’era accaduto nell’oscurità impenetrabile? Gli spari
significavano che Joe Cagle era morto o che era tornato all’attacco? Oppure
non erano affatto connessi con l’uomo cui stavo dando la caccia? Non c’era
che un modo per scoprirlo, e spronando il cavallo procedetti ad andatura più
spedita.
Pochi istanti dopo si aprì davanti a me una grande radura e vidi uno
scuro edificio fatiscente stagliarsi contro le stelle. La casa abbandonata,
finalmente! La luna splendeva malvagia tra gli alberi, mettendo in risalto le
ombre nere e gettando una luce stregata sull’intero paesaggio. In quel
bagliore vago notai che la casa era stata un tempo una villa in vecchio stile
coloniale. Indugiai per un attimo in sella prima di smontare e pensai alle
passate glorie, figurandomi le grandi piantagioni, i negri salmodianti, i
colonnelli aristocratici del Sud, i balli, le danze, le galanterie.
Tutto scomparso, ormai. Cancellato dalla guerra civile. Ora c’erano i pini
al posto delle piantagioni, le dame e i cavalieri erano da tempo morti e
dimenticati, la villa era cadente e diroccata, e forse cupe minacce si
annidavano in quelle stanze buie e polverose dove i topi contendevano il
campo alle civette.
Balzai giù di sella e, mentre lo facevo, il cavallo sbuffò e si impennò
violentemente, sicché le redini mi sfuggirono di mano. Cercai di riafferrarle,
ma l’animale si girò e galoppò via, scomparendo come l’ombra di un
folletto nell’oscurità. Rimasi ammutolito ad ascoltare il calpestio sempre più
lontano degli zoccoli, e ammetto che sentii come un dito gelido corrermi
lungo la schiena. È un’esperienza abbastanza tremenda veder svanire
all’improvviso la possibilità di battere in ritirata, per giunta in un ambiente
come quello in cui mi trovavo.
Tuttavia, poiché non mi ero spinto fin lì per fuggire dal pericolo, mi
diressi audacemente verso la grande veranda con la pesante pistola in una
mano e la torcia elettrica nell’altra. Le massicce colonne torreggiavano sopra
di me e la porta scardinata dondolava aperta. Esplorai l’ampio atrio con la
torcia, ma vidi solo polvere e rovina. Entrai con cautela, spegnendo la torcia.
Mentre, sulla soglia, cercavo di abituare gli occhi al buio, mi accorsi che
stavo agendo nella maniera più sconsiderata. Se Joe Cagle era nascosto in
qualche angolo della casa, gli sarebbe bastato aspettare che accendessi la
torcia per riempirmi di piombo. Ma, ripensando alle minacce da lui fatte alla
fragile e inerme fanciulla che amavo, sentii rafforzarsi in me la
determinazione. Se Cagle era in quella casa, sarebbe morto.
Mi diressi alla scala, pensando istintivamente che, se fosse stato davvero
all’interno, il fuggitivo avrebbe quasi sicuramente cercato riparo al secondo
piano. Salii a tentoni e arrivai a un pianerottolo illuminato dal chiaro di luna
che proveniva dalla finestra. Uno spesso strato di polvere ricopriva il
pavimento, che pareva essere rimasto inviolato per un ventennio, e udii un
fruscio di pipistrelli che volavano e topi che scappavano. Nessuna impronta,
in terra, tradiva la presenza di un uomo, ma ero sicuro vi fossero altre scale.
Forse Cagle era entrato dalla finestra.
Percorsi il corridoio, un orribile groviglio di nere ombre insidiose e
quadrati di luce lunare, giacché ormai la luna era abbastanza alta da
penetrare attraverso le finestre. Non si udiva altro suono che quello dei miei
passi felpati sull’alto strato di polvere del pavimento. Esplorai stanza dopo
stanza, ma la torcia non rivelò che pareti ammuffite, soffitti scrostati e mobili
rotti. Quasi al termine del corridoio, arrivai infine a una stanza dalla porta
chiusa. Mi fermai con una sensazione indefinibile che mi agghiacciò il
sangue inducendomi a chiamare a raccolta tutta la mia forza nervosa. In
qualche modo sapevo che di là dalla porta c’era qualcosa di misterioso e
minaccioso.
Accesi con cautela la torcia. La polvere davanti alla soglia era smossa.
Proprio di fronte all’uscio era disegnato un arco quasi pulito. La porta era
stata aperta e richiusa poco tempo prima. Provai con prudenza la maniglia,
fremendo per il rumore che fece e aspettandomi che da dentro arrivasse uno
sparo; ma il silenzio restò inalterato. Aprii e mi gettai in fretta di lato.
Non vi furono né spari né altri suoni. Mi acquattai con la pistola in pugno
e scrutai la stanza dallo stipite, aguzzando gli occhi. Mi arrivò alle narici un
lieve odore acre di polvere da sparo; era lì che erano stati sparati i colpi che
avevo udito?
La luce della luna entrava dalla finestra rotta, inondando l’ambiente di un
vago chiarore. Vidi una sagoma umana, scura e massiccia, distesa quasi al
centro del pavimento. Varcai la soglia, mi chinai sull’uomo supino e, accesa
la torcia, gliela puntai sul viso.
Joan non doveva più temere le minacce di Joe Cagle, perché Joe Cagle
era lì, in terra, morto.
Vicino alla mano protesa stava un revolver con tutte le cartucce vuote nel
tamburo. Eppure il negro non aveva alcuna ferita: a chi aveva sparato e che
cosa lo aveva ucciso? Guardai di nuovo il suo viso stravolto e compresi.
Avevo già visto quello sguardo negli occhi di un uomo morsicato da un
serpente a sonagli: era morto prima di paura che per il veleno del rettile.
Cagle aveva la bocca spalancata e gli occhi orribilmente sbarrati; anche lui
era morto di paura, ma quale orrore gliel’aveva suscitata? A quel pensiero
mi si imperlò la fronte di sudore e mi si rizzarono i capelli in testa.
All’improvviso sentii tutto il silenzio e la solitudine della casa e della notte.
Da qualche parte un topo squittì, facendomi trasalire violentemente.
Alzai gli occhi, poi mi bloccai raggelato: la luna illuminava il muro
opposto e d’un tratto un’ombra si disegnò silenziosa sul quadrato di luce.
Scattai in piedi e corsi alla porta, che era libera. Passai oltre, attraversai di
corsa una stanza, varcai un’altra porta, me la chiusi alle spalle, poi mi
fermai, scosso. Neanche un suono fendeva il silenzio. Quale creatura aveva
sostato per un attimo sulla porta che dava nel corridoio, proiettando la sua
ombra nella camera da cui ero fuggito? Tremavo di paura. L’idea di un
fuggitivo disperato era già abbastanza brutta, ma nel breve istante in cui
avevo visto l’ombra avevo avuto l’impressione di qualcosa di strano e
spaventoso, qualcosa di... inumano.
Anche la stanza in cui mi trovavo adesso dava sul corridoio. La
attraversai, poi esitai al pensiero di un confronto tra me e l’entità misteriosa
in agguato nell’oscurità. La porta si aprì cigolando. Non vidi nulla, ma in
preda a un terrore che mi attanagliava l’anima distinsi in terra una figura
orrenda che prese a dirigersi verso di me.
Una sagoma terrificante si stagliava nera nel chiarore lunare che
illuminava le assi del pavimento. Eppure giuro che sulla soglia non c’era
nessuno!
Attraversai la stanza di corsa e varcata una porta passai in quella
successiva, a sua volta affacciata sul corridoio. Tutte le camere del secondo
piano parevano dare sul corridoio. Rimasi lì tremante, stringendo così forte
la pistola nella mano sudata che la canna ondeggiò come una foglia. Il
battito del mio cuore rimbombava nel silenzio. Cosa diavolo era l’orrore che
mi inseguiva per quelle stanze buie? Cosa mai poteva proiettare un’ombra
senza essere dotata di sostanza? Il silenzio ammantava la casa come una
nebbia oscura e il bagliore spettrale della luna disegnava arabeschi sul
pavimento. Due camere più in là giaceva il cadavere di un uomo che aveva
visto una cosa così orrenda da annientargli la mente e strappargli la vita. E io
ero lì, da solo con l’ignoto mostro.
Che cos’era quel rumore? Il cigolio di vecchi cardini! Mi rannicchiai
contro il muro, con il sangue gelato. La porta da cui ero appena venuto si
stava aprendo lentamente. Un’improvvisa folata di vento la investì,
spalancandola, e io mi preparai a sostenere la vista di un mostro sulla soglia;
ma non vidi nulla.
Come in tutte le stanze da quella parte del corridoio, la luce della luna
inondava l’ambiente illuminando la parete opposta alla porta. Se un essere
invisibile fosse per caso arrivato dalla camera attigua, la luce non gli sarebbe
stata alle spalle. Eppure un’ombra distorta si disegnò sul muro e,
scintillando al chiarore lunare, cominciò ad avanzare.
Ora la vedevo chiaramente, anche se da un’angolazione che la
deformava. Era una figura grande, curva, ciondolante, con la testa protesa in
avanti e le lunghe braccia umane che dondolavano; pur ricordando
sinistramente un essere umano, se ne differenziava in maniera inquietante.
Me ne accorsi mentre l’ombra si avvicinava senza che si vedesse la creatura
in carne e ossa che la proiettava.
In preda al panico, premetti il grilletto più volte, riempiendo la casa
abbandonata di boati e dell’odore acre della polvere da sparo. Mirai prima
alla porta davanti a me, poi, disperato, sparai l’ultimo proiettile al centro
dell’ombra in movimento. La stessa cosa doveva avere fatto Joe Cagle
nell’ultimo, terribile momento che aveva preceduto la sua morte. Alla fine il
grilletto scattò a vuoto perché il tamburo era scarico, e gettai con rabbia il
revolver in terra. L’entità misteriosa non si era fermata un solo istante e
adesso incombeva su di me.
Tesi le mani indietro, incontrai la porta e girai la maniglia. Resisteva. La
porta era chiusa a chiave! Nella parete accanto a me l’ombra giganteggiava,
nera e terrificante, alzando due braccia grandi come alberi. Con un urlo mi
lanciai con tutto il peso del corpo contro la porta; il pannello cedette con uno
schianto e caddi lungo disteso nella stanza attigua.
Il resto è un incubo. Rialzandomi goffamente senza guardarmi alle spalle,
corsi per il corridoio, in fondo al quale scorgevo il pianerottolo da cui
partivano le scale. Il corridoio era lungo, quasi interminabile. Pareva
allungarsi all’infinito ed ebbi l’impressione di correre per ore sul suo
sinistro pavimento. L’ombra nera mi inseguiva lungo il muro illuminato
dalla luna, svanendo ogni tanto nella nera oscurità, per riapparire un istante
dopo nel riquadro di luce proiettato da un’altra finestra.
Continuò ad affiancarmi sul muro alla mia sinistra, facendomi capire che,
qualunque cosa fosse, mi tallonava. Si dice che un fantasma getta un’ombra
al chiaro di luna anche quando di per sé non è visibile all’occhio umano, ma
non è mai vissuto uomo il cui fantasma potesse proiettare una sagoma
simile. Feci quelle riflessioni senza rendermene del tutto conto, mentre
correvo; ero in preda a una paura irrazionale, ma tra la nebbia dell’orrore
nutrivo la consapevolezza di trovarmi di fronte a un’entità soprannaturale,
insieme ultraterrena e bestiale.
Ero quasi arrivato alla scala, ma l’ombra mi superò. L’essere mi era alle
calcagna e stava allungando le orride braccia invisibili per ghermirmi.
Gettandomi una breve occhiata alle spalle, vidi qualcos’altro: sulla polvere
del corridoio, quasi sopra le impronte che avevo appena lasciato, se ne
stavano formando altre; enormi orme deformi che lasciavano un segno di
artigli. Con un urlo terrificante girai istintivamente a destra, lanciandomi
verso una finestra aperta come chi sta per annegare si lancia verso una
corda.
Sbattei con una spalla contro lo stipite, poi sentii solo l’aria sotto i piedi e,
mentre la terra mi volava incontro, vidi per un istante un vortice di luna,
cielo e pini scuri; quindi sprofondai nell’oblio più nero.
Per prima cosa, riprendendo conoscenza, sentii mani delicate che mi
sollevavano la testa e accarezzavano il viso. Giacqui immobile con gli occhi
chiusi, cercando di orientarmi; non riuscivo a ricordare né dove fossi né che
cosa fosse successo. Poi, di colpo, tutto mi tornò in mente. Spalancai gli
occhi e tentai con tutte le mie forze di alzarmi.
— Steve, oh, Steve, sei ferito?
Dovevo essere pazzo, perché mi pareva la voce di Joan.
No, non lo ero. Joan mi teneva la testa sul grembo e mi fissava con i
grandi occhi neri lucidi di pianto.
— Dio mio, Joan, che cosa ci fai qui? — Mi tirai su a sedere e la presi tra
le braccia. La testa mi pulsava orribilmente ed ero dolorante e ammaccato.
Sopra di noi si levavano le pareti nude e squallide della casa abbandonata e
vedevo la finestra da cui ero caduto. Dovevo essere rimasto svenuto a
lungo, perché adesso la luna, rossa come sangue, era bassa sull’orizzonte a
ponente e brillava in una mota scarlatta tra le cime dei pini.
— Il cavallo che montavi è tornato senza di te e io, non sopportando di
stare ad aspettare, sono uscita di nascosto di casa per venire qui. Mi hanno
detto che eri andato a unirti alla squadra, ma il cavallo è tornato dalla
vecchia mulattiera. Non c’era nessuno da mandare in tuo soccorso, così ho
eluso la sorveglianza e sono venuta di persona.
— Joan! — Vedendo la sua aria preoccupata e pensando al suo coraggio,
fui preso dalla commozione e, senza dire altro, la baciai.
— Che cosa ti è successo, Steve? — sussurrò spaventata. — Quando
sono arrivata qui a cavallo, giacevi privo di conoscenza come gli altri due
uomini che in passato caddero dalla finestra. Solo che loro erano morti.
— Nonostante la corporatura forte e le ossa robuste, mi sono salvato per
pura fortuna — dissi. — Si ha soltanto una probabilità su cento di rimanere
incolumi dopo una caduta come questa. Joan, che cosa accadde vent’anni fa
di così grave da rendere questa casa maledetta?
Rabbrividendo, rispose: — Non lo so. Le persone che ne erano
proprietarie prima della guerra dovettero venderla alla fine del conflitto.
Naturalmente gli inquilini la lasciarono cadere in rovina. Vi accadde un fatto
strano poco prima della morte dell’ultimo inquilino. Un enorme gorilla
fuggito da un circo che passava da queste parti si rifugiò nella casa. Lottò
con tale furia quando cercarono di riprenderlo, che furono costretti a
ucciderlo. Successe più di vent’anni fa. Poco tempo dopo, il proprietario
della casa precipitò da una finestra del secondo piano e morì. Tutti
credettero che si fosse suicidato o che fosse caduto mentre era in preda a un
attacco di sonnambulismo, ma...
— No — la interruppi rabbrividendo. — Fu inseguito per tutte quelle
orribili stanze da un essere così terribile che la morte stessa gli parve una via
di scampo. So anche chi uccise il viaggiatore. Quanto a Joe Cagle...
— Joe Cagle? — fece Joan con un violento sussulto. — Dove è...?
— Non ti preoccupare, piccola — la tranquillizzai — non può più farti
del male, adesso. Non chiedermi altro. Ma non l’ho ucciso; la sua morte è
stata più orribile di quella che avrei potuto procurargli io. Vi sono mondi e
ombre di mondi che vanno al di là della nostra comprensione, e forse spiriti
bestiali e primordiali si annidano negli oscuri anfratti della terra. Su,
andiamo.
Joan aveva portato con sé un altro cavallo e aveva legato i due animali a
poca distanza. La aiutai a salire in sella, poi, nonostante le sue suppliche e
proteste, tornai nella casa. Mi spinsi solo fino a una finestra del primo piano
e mi trattenni qualche istante. Poi anch’io montai a cavallo e insieme
percorremmo piano la vecchia mulattiera. Le stelle impallidivano e a levante
il cielo si stava rischiarando per l’alba imminente.
— Non mi hai detto da che cosa è infestata la casa, ma so che è qualcosa
di orribile — disse Joan in tono sgomento. — Che cosa dobbiamo fare?
Per tutta risposta mi girai sulla sella e indicai col dito. Avevamo svoltato a
una curva della mulattiera e vedevamo uno scorcio della vecchia casa
incorniciato dagli alberi. Mentre guardavamo, una rossa lancia di fuoco
fendette l’aria e una nuvola di fumo riempì il cielo del mattino. Pochi minuti
dopo udimmo uno schianto tremendo, come se l’intero edificio fosse
crollato tra le fiamme insaziabili che avevo appiccato prima di andarmene.
Gli antichi dicevano che il fuoco è il distruttore definitivo, perciò, mentre
guardavo, sapevo che lo spettro del gorilla morto era stato annientato e
l’ombra della bestia aveva abbandonato per sempre la pineta.
LA NAVE NEGRIERA

Confuso e grigio il mare silenzioso


confusa pure la luna crescente,
dalla giungla dietro il piano erboso
veniva un tam-tam impaziente
quando gettammo cento schiavi a mare
giunti da Jekra, il presidio militare.

Una nave da guerra era arrivata


la nostra rotta rapida a incrociare,
prendemmo dalla stiva quella stirpe dannata,
la massacrammo e la buttammo a mare
e udimmo orrendi squali che tranciato
avean la carne d’ogni sen spaccato.

Veloci veleggiammo al sol levante


senza poter però sfuggire ai morti
ché dietro nostra nave galoppante
il sangue non cessava i suoi apporti.

Nel Calabar affondò come un bidone


con tutta la dannata ciurma oscena,
nessun vento agitava il pennone,
né uno scoglio spaccò la carena,
ma scure mani emersero da giù
per trascinarla nel profondo blu.
DERMOD’S BANE

Se il vostro cuore è triste in petto e una nera cortina di dolore vi è calata tra
il cervello e gli occhi, facendovi apparire pallida e lebbrosa perfino la luce
del sole, andate a Galway, nella contea omonima sita nella provincia del
Connaught, in Irlanda.
Nella vecchia, grigia “città delle tribù”, com’è chiamata, vi è un sognante
incantesimo consolatorio che è come una malia e, se siete originari di
Galway, per quanto ve ne siate allontanati il vostro dolore svanirà con la
leggerezza di un sogno, lasciando solo un ricordo dolce e triste come il
profumo di una rosa morente. Sta sospesa sopra l’antica città una nebbia
arcaica che si mischia al dolore e induce a dimenticare. Oppure salite sulle
azzurre colline del Connaught, fiutate l’aspro odor di salmastro del vento
atlantico, e la vita, con tutte le sue intense gioie e i suoi amari dolori, vi
sembrerà vaga, remota e non più reale dell’ombra delle nubi che passano.
Venni a Galway come una bestia ferita torna alla sua tana sui colli.
Quando la città di cui la mia famiglia era originaria mi si presentò per la
prima volta allo sguardo, non mi parve né strana né straniera. Mi sembrò
come di essere tornato a casa, e ogni giorno che passava la terra dov’ero
nato mi riusciva sempre più lontana e quella dei miei antenati più vicina.
Venni a Galway con il cuore spezzato. Mia sorella gemella, che amavo
più di qualsiasi altra persona al mondo, era morta. Se n’era andata in modo
improvviso e inaspettato. Nel mio attonito strazio, mi pareva non fosse
trascorso un attimo tra il momento in cui aveva per l’ultima volta riso
allegramente accanto a me con i luminosi occhi grigi da irlandese, e quello
in cui era scesa sottoterra. Dio dei cieli, tuo figlio non è stato l’unico a
sopportare la crocifissione.
Un nube nera come un sudario mi avvolse e nel confine indistinto tra
ragione e follia me ne stavo seduto da solo senza lacrime né parole. Alla fine
mia nonna, una grande vecchia arcigna, con duri occhi tormentati che
parevano esprimere tutto il dolore della razza irlandese, venne da me e disse:
— Vai a Galway, figliolo. Va’ nella terra dei tuoi avi. Forse la tua sofferenza
annegherà nel gelido mare salato. Forse la gente del Connaught può guarire
la tua ferita.
Andai a Galway.
E trovai gente cordiale; tutti gli antichi clan, i Martin, i Lynche, i Deane, i
Dorsey, i Blake, i Kirowan, per citare solo alcune delle quattordici grandi
famiglie che governano Galway.
Vagai per i colli e le valli, conversando con i buoni, bizzarri villici, molti
dei quali parlavano ancora l’antica, cara lingua gaelica che io masticavo
appena.
Una sera, davanti al fuoco di un pastore in cima a una collina, sentii
raccontare di nuovo la vecchia leggenda di Dermod O’Connor. Mentre il
pastore narrava la terribile storia nel suo ricco inglese accentato e infarcito di
molte espressioni gaeliche, ricordai che mia nonna me l’aveva raccontata
quando ero piccolo, ma l’avevo quasi integralmente dimenticata.
In breve, esisteva un tempo un capo del clan degli O’Connor che si
chiamava Dermod ma che la gente chiamava il Lupo. Nei tempi antichi gli
O’Connor erano re e governavano il Connaught con pugno di ferro.
Dividevano il governo d’Irlanda con gli O’Brien nel Munster, a sud, e con
gli O’Neill nell’Ulster, a nord. Assieme agli O’Rourke combatterono i
MacMurrough del Leinster e fu Dermot MacMurrough, cacciato dall’Irlanda
dagli O’Connor, a portare sull’isola il conte di Pembroke, soprannominato
Strongbow, e i suoi avventurieri normanni. Quando il conte di Pembroke
sbarcò in Irlanda, Roderick O’Connor era re dell’isola di nome e di diritto, o
di quello che era ritenuto diritto. Il clan degli O’Connor, fieri guerrieri celti,
continuò a lottare per la libertà finché non fu sgominato dalla terribile
invasione normanna. Sia reso onore agli O’Connor. Nei tempi antichi i miei
antenati combatterono sotto il loro vessillo, ma ciascuna stirpe ha il suo
virgulto marcio. Ogni grande famiglia ha la sua pecora nera. Dermod
O’Connor era quella del suo clan, e una pecora così nera non si era mai
vista.
Era ostile a tutti, anche alla sua stessa famiglia. Non era un capoclan che
combatteva per riconquistare la corona di Erin o per liberare il suo popolo:
era un razziatore dalle mani insanguinate, che depredava tanto i normanni
quanto i celti. Fece incursioni nel Pale e mise a ferro e fuoco il Munster e il
Leinster. Gli O’Brien e gli O’Carroll avevano motivo di maledirlo, e gli
O’Neill gli diedero la caccia come a un lupo.
Lasciava una scia di sangue e devastazione ovunque andasse e alla fine,
quando la sua banda si ridusse a pochi elementi a causa delle diserzioni e
delle continue battaglie, rimase solo. Si nascondeva in grotte e colline,
ammazzando i viandanti solitari per mera sete di sangue e attaccando le case
coloniche isolate o le capanne dei pastori, dove commetteva atrocità sulle
donne. Era un gigante e la leggenda ha fatto di lui un personaggio disumano
e mostruoso. Ma dev’essere vero che era d’aspetto strano e terribile.
A un certo punto, però, la fine venne anche per lui. Assassinò un giovane
del clan dei Kirowan, e i Kirowan partirono a cavallo dalla città di Galway
con in cuore un furioso desiderio di vendetta. Sir Michael Kirowan, un mio
diretto antenato di cui porto il nome, affrontò il predone sulle alture.
Combatterono da soli, con le colline come uniche testimoni tremanti, una
battaglia terribile, finché il fragore delle armi giunse alle orecchie del resto
del clan, che stava perlustrando la zona a cavallo.
Trovarono sir Michael gravemente ferito e Dermod O’Connor in fin di
vita, con una clavicola fratturata e un’orribile squarcio nel petto. Ma erano
così accecati dall’odio e dalla furia, che infilarono un cappio al collo del
predone morente e lo impiccarono a un grande albero sull’orlo di una falesia
sul mare.
— I contadini indicano ancora l’albero e lo chiamano Dermod’s Bane,
usando, per “morte”, la parola bane, di origine danese — disse il mio amico
pastore attizzando il fuoco. — Vari uomini di notte hanno visto quel gran
delinquente digrignare i grossi denti perdendo fiotti di sangue dalla spalla e
dal petto e maledire in tutti i modi i Kirowan e i loro discendenti per
l’eternità.
“Quindi, signore, non si avventuri sulle falesie di notte, perché lei
appartiene al clan che Dermod odia e porta lo stesso nome di chi lo uccise.
Oh, rida pure se vuole, ma il fantasma del Lupo vaga libero nelle cupe notti
di novilunio, con il suo barbone nero, gli occhi terribili e le zanne da
cinghiale.”
Mi indicarono l’albero, Dermod’s Bane, che curiosamente, così solitario,
sembrava un patibolo. Era rimasto in piedi per non so quanti secoli, perché
gli uomini vivono a lungo in Irlanda e gli alberi ancora di più. Non c’erano
altre piante in giro e il baratro, sotto la falesia a strapiombo, era di un
centinaio di metri. In fondo si vedeva solo il blu sinistro delle onde, le acque
profonde e cupe che si infrangevano sulle crudeli rocce.
Camminavo molto sulle colline la sera, perché, quando il silenzio delle
tenebre calava sul mondo e né discorsi né rumori umani interferivano nei
miei pensieri, sentivo tornare più forte che mai la sofferenza del cuore e
salivo in alto, dove le stelle parevano più calde e vicine. Spesso, con la
mente confusa, mi chiedevo su quale stella lei fosse o se si fosse trasformata
in stella.
Una notte l’antico dolore tornò, straziante e insopportabile. Alzandomi da
letto, nella camera della piccola locanda di montagna in cui all’epoca
soggiornavo, mi vestii e andai sulle alture. Mi pulsavano le tempie e un peso
intollerabile mi gravava sul cuore. La mia anima impietrita e frastornata
gridava a Dio, ma non riuscivo a piangere. Sentivo che se non avessi pianto
sarei impazzito. Da quando era successo quel che era successo, mai una
lacrima avevo versato.
Ebbene, continuai a camminare e camminare, non so per quanto tempo e
fino a dove. Le stelle erano rosse, ardenti e irate, e non mi diedero alcun
conforto quella sera. Dapprima avrei voluto urlare, gridare, buttarmi in terra
e strappare l’erba coi denti; poi la furia passò e girovagai come in trance.
Non c’era la luna e nel fioco chiarore delle stelle le colline e gli alberi si
stagliavano scuri e strani. Dalla cima della falesia vidi l’immenso Atlantico
che si stendeva come un cupo mostro argenteo e udii il suo rombo lontano.
Mi guizzò davanti qualcosa e pensai fosse un lupo, ma sono tanti anni
che i lupi non vivono più in Irlanda. Scorsi di nuovo la lunga ombra bassa
che mi si era profilata davanti e, meccanicamente, la seguii. Ora dinanzi a
me vedevo una rupe a strapiombo sul mare e sul suo orlo un grande albero
che incombeva solitario, come un patibolo. Mi avvicinai.
All’improvviso calò di fronte a me una confusa nebbia. Mi colse una
strana paura mentre la fissavo inebetito; poi al suo interno comparve una
figura, velata e serica come un brandello di bruma lunare, ma con
un’inequivocabile forma umana: un volto. Urlai.
Un viso vago e dolce mi fluttuò davanti, e benché fosse indistinto come
foschia riconobbi la lucida massa di capelli neri, la fronte alta e pura, le
labbra rosse e piene, i dolci occhi grigi dall’espressione seria.
— Moira! — gridai angosciato, e corsi innanzi protendendo le braccia,
con il cuore che mi scoppiava in petto.
Fuggì da me come bruma soffiata via dal vento; ora sembrava guizzare
nello spazio e io mi sentii vacillare violentemente sull’orlo della falesia dove
mi aveva condotto la mia cieca corsa. Come un uomo che si svegliasse da un
sogno, vidi in un lampo le crudeli rocce un centinaio di metri più sotto e udii
il famelico rumore delle onde sugli scogli; mentre mi sbilanciavo in avanti,
ebbi di nuovo la visione, ma stavolta orribilmente mutata. Denti simili a
zanne luccicavano diabolici in mezzo a un’arruffata barba nera, occhi
terribili ardevano sotto sopracciglia spioventi e il sangue fluiva da una ferita
alla spalla e uno squarcio nell’ampio petto.
— Dermod O’Connor! — urlai, con i capelli ritti in testa. — Vade retro,
Satana!
Perso l’equilibrio, stavo per cadere nel baratro e andare incontro a morte
certa, quando una mano delicata mi afferrò per un polso e mi tirò indietro.
Caddi, ma sul morbido tappeto erboso della cima anziché tra le rocce
acuminate e il mare in fondo allo strapiombo. Oh, lo sapevo, non potevo
sbagliarmi. Nessuno mi stringeva più il polso e l’orribile faccia era
scomparsa dalla sommità della rupe, ma la mano delicata che mi aveva
afferrato impedendomi di precipitare non potevo non riconoscerla.
Innumerevoli volte avevo sentito il suo dolce tocco sul mio braccio o la mia
mano. Oh, Moira, Moira, cuore del mio cuore, nella vita e nella morte sei
sempre stata al mio fianco.
Per la prima volta, steso supino sull’erba, piansi. Coprendomi la faccia
con le mani, sciolsi il mio cuore tormentato in lacrime calde, accecanti e
catartiche, finché il sole si levò sopra le azzurre colline di Galway facendo
apparire i rami di Dermod’s Bane in una strana luce nuova.
Sognavo o ero pazzo? Era stato in realtà il fantasma del predone da
tempo morto a farmi attraversare le colline per arrivare fino alla rupe
dell’albero della morte? Era stato lui ad assumere le sembianze della mia
defunta sorella per spingermi nel baratro? Ed era stata la mano vera di
Moira, evocata improvvisamente dal mio essere in pericolo di vita, a
salvarmi?
Ci crediate o no, lo considerai un dato di fatto. Sono sicuro che quella
notte vidi Dermod O’Connor, che egli mi spinse sull’orlo dello strapiombo
e che la mano delicata di Moira Kirowan mi riportò indietro, sciogliendo
con quel gesto il gelo del mio cuore e ridandomi la pace. Perché, ora lo so, il
muro che separa i vivi dai morti è assai sottile e, com’è certo che l’amore di
una donna morta vinse l’odio di un uomo morto, così è certo che un giorno,
nell’aldilà, stringerò di nuovo mia sorella tra le braccia.
LE COLLINE DEI MORTI
1
Vudù

I rametti che N’Longa gettò sul fuoco si spezzarono e crepitarono. Le


fiamme alte illuminarono il volto dei due uomini. N’Longa, stregone della
Costa degli schiavi, era molto vecchio, con la pelle avvizzita e grinzosa, il
corpo curvo e fragile, il viso solcato da innumerevoli rughe. Alla rossa luce
del fuoco, le ossa di dita umane da cui era composta la sua collana
brillavano.
L’altro uomo era un bianco di nome Solomon Kane. Alto e ben piantato,
indossava un abito nero accollato di foggia puritana. La tesa del cappello
senza piume era così bassa che quasi gli sfiorava le folte sopracciglia,
lasciando in ombra il volto cupamente pallido. Gli occhi, freddi e profondi,
apparivano pensierosi alla luce del fuoco.
— Sei tornato, fratello — disse lo stregone nel gergo che parlavano neri e
bianchi sulla costa occidentale dell’Africa. — Molte lune sono arse e morte
da quando facemmo il nostro patto di sangue. Tu sei andato nel sole calante,
ma sei tornato.
— Sì — disse Kane con voce profonda, quasi sepolcrale. — La tua è una
terra spietata, N’Longa, una terra rossa percorsa dalle nere tenebre
dell’orrore e dall’ombra insanguinata della morte. Eppure sono tornato.
N’Longa attizzò il fuoco senza dire niente. Dopo una pausa Kane riprese
a parlare.
— Laggiù, nelle grandi vastità ignote — disse indicando con il lungo
indice la nera giungla silenziosa che sorgeva oltre il fuoco del bivacco —
laggiù si annidano mistero, avventura e terrore indicibile. Una volta sfidai la
giungla e per poco non mi tolse la vita. Qualcosa mi entrò nel sangue, allora;
qualcosa mi si insinuò nell’anima come il sussurro di un peccato
innominabile. La giungla! Scura e minacciosa, mi ha attirato benché vivessi
a molte leghe di distanza, oltre l’azzurro oceano, e all’alba andrò in cerca del
suo cuore. Forse incapperò in singolari avventure, forse invece troverò la
morte. Ma meglio la morte dell’incessante, eterna frenesia, il fuoco che ha
acceso le mie vene di amara brama.
— La giungla chiama — mormorò N’Longa. — Di notte si acciambella
come un serpente intorno alla mia capanna e mi bisbiglia strane cose. Ai ya.
Il richiamo della giungla. Siamo fratelli di sangue, tu e io. Io, N’Longa,
sono un potente artefice della magia senza nome. Tu vai nella giungla come
tutti gli uomini che sentono il suo richiamo. Forse vivrai, più probabilmente
morirai. Credi nella mia arte magica?
— Non la capisco — disse cupo Kane — ma ho visto il tuo spirito uscire
dal corpo per animare un cadavere.
— Sì. Io N’Longa, sacerdote di Dio Nero — disse lo stregone nel suo
semplice inglese. — Ora guarda, compio magia.
Kane guardò il negro chinarsi sul fuoco, fare gesti ripetitivi con le mani e
mormorare formule magiche. Continuò a guardare e gli venne sonno.
Cominciò a fluttuargli davanti una nebbia nella quale vedeva confusamente
la sagoma di N’Longa stagliarsi nera contro le fiamme. Poi tutto scomparve.
Si svegliò di soprassalto e subito la mano gli andò alla pistola infilata
nella cintura. N’Longa gli sorrise dall’altra parte del fuoco; nell’aria si
coglievano i primi sentori dell’alba. Lo stregone reggeva una lunga verga di
strano legno nero, intagliata in maniera insolita e con un’estremità affusolata
che terminava in una punta aguzza.
— È bastone vudù — disse mettendolo in mano all’inglese. — Quando
pistola e coltello non più buoni, questo ti salva. Se vuoi chiamare me,
appoggia questo su petto, congiungi tue mani sopra e dormi. Io vengo da te
nei tuoi sogni.
Kane afferrò l’oggetto e lo soppesò con l’aria diffidente che gli ispirava
tutta la stregoneria. Non era pesante, ma pareva duro come il ferro. Se non
altro era una buona arma, pensò. La luce dell’alba aveva appena cominciato
a infiltrarsi tra la giungla e il fiume.
2
Occhi rossi

Solomon Kane si sfilò il moschetto dalle spalle e ne lasciò cadere il calcio in


terra. Il silenzio lo avvolgeva come una nebbia. Il viso segnato e gli abiti
stracciati dimostravano che il viaggio nella boscaglia era stato lungo. Si
guardò intorno.
Dietro di lui, a una certa distanza, la verde giungla lussureggiante si
diradava, cedendo il posto ad arbusti bassi, alberi striminziti ed erba alta.
Davanti a lui, a una certa distanza, sorgeva la prima di una catena di
squallide colline brulle disseminate di massi, che scintillavano alla spietata
luce del sole. Tra le colline e la giungla si stendeva un’ampia prateria piena
di cunette e avvallamenti, punteggiata qui e là di biancospini.
Tutto era immerso in un silenzio di tomba. L’unico segno di vita era dato
da avvoltoi che volavano con le grandi ali spiegate sopra i colli lontani.
Negli ultimi giorni Kane aveva notato che il numero di quegli uccelli odiosi
era aumentato. Il sole stava declinando a ponente, ma il caldo era ancora
insopportabile.
Tirandosi dietro il moschetto, Kane si incamminò piano. Non aveva
nessun obiettivo in mente. Il paese gli era sconosciuto e una direzione
valeva l’altra. Diverse settimane prima si era avventurato nella giungla con
la sicurezza che solo il coraggio e l’ignoranza danno. Essendo
miracolosamente sopravvissuto alle prime settimane, si era indurito e
temprato e adesso era in grado di affrontare qualunque fosco abitante della
zona avesse voluto sfidare.
Mentre procedeva, notò a tratti delle orme di leone, ma nella prateria non
parevano esserci animali, o almeno non di quelli che lasciavano tracce. Gli
avvoltoi erano appollaiati come nere figure minacciose su esili alberi e d’un
tratto Kane li vide darsi un gran da fare a una certa distanza: parecchi
giravano in cerchio sopra una macchia d’erba alta, tuffandosi per poi
risalire. Forse una belva stava difendendo la sua preda dalle loro grinfie,
pensò Kane, chiedendosi come mai non sentisse i ringhi e i ruggiti che di
solito accompagnavano simili scene. Si incuriosì e si incamminò in quella
direzione.
Alla fine, facendosi strada in mezzo all’erba che gli arrivava fino alle
spalle, vide, in fondo a un corridoio le cui pareti erano costituite da ciuffi di
rigogliosa erba ondeggiante, uno spettacolo orrendo. Il cadavere di un negro
giaceva prono e un grande serpente scuro si sollevò e scivolò tra l’erba,
allontanandosi così in fretta che Kane non riuscì a definirne la natura; ma
aveva un che di stranamente umano.
L’inglese esaminò il cadavere e si accorse che, sebbene gli arti fossero
scomposti come quando le ossa sono fratturate, non era scarnificato come lo
sarebbe stato se fosse stato aggredito da un leone o un leopardo. Alzò gli
occhi a guardare gli avvoltoi che giravano in cerchio e si stupì di vederne
parecchi volare rasente il terreno, sopra l’erba ondeggiante che segnava la
via di fuga della creatura forse responsabile della morte del negro. Si chiese
a che cosa dessero la caccia, nella prateria, quegli uccelli necrofori che
mangiavano solo cadaveri. Ma l’Africa è piena di misteri inspiegati.
Alzò le spalle e sollevò di nuovo il moschetto. Aveva vissuto
innumerevoli avventure da quando si era separato da N’Longa, alcune lune
prima, eppure la solita, oscura pulsione paranoica lo aveva spinto ad
addentrarsi sempre di più in quelle regioni impervie. Era chiaro che non
aveva analizzato quella brama, perché se l’avesse fatto l’avrebbe attribuita a
Satana, il quale spinge gli uomini verso la distruzione. Ma a guidarlo era
l’inquieto, turbolento spirito degli avventurieri e dei vagabondi, l’impulso
che induce gli zingari a girare per il mondo con le loro carovane, che
sospinse le navi vichinghe verso ignoti mari e che governa il volo delle oche
selvatiche.
Kane sospirò. Lì, in quella terra desolata, non c’erano né cibo né acqua,
ma ormai si era terribilmente stancato del veleno umido e fetido della fitta
giungla. Almeno per un certo tempo, molto meglio quelle colline spoglie. Le
scrutò, minacciose sotto il sole, e riprese a camminare.
Teneva il bastone vudù di N’Longa nella mano sinistra; benché la
coscienza non cessasse di rimproverargli il possesso di un oggetto
dall’apparenza diabolica, non si era sentito di gettarlo via.
Mentre si dirigeva verso le colline, notò un movimento improvviso
nell’erba di fronte a lui, in molti punti più alta di un uomo. Si udì un grido
acuto, poi un ruggito terrificante. L’erba si divise e una figura esile volò
verso di lui come una pagliuzza sollevata dal vento: era una ragazza dalla
pelle scura, che indossava solo una sorta di gonna ed era inseguita, a breve
distanza, da un enorme leone.
La ragazza cadde ai piedi di Kane gemendo e piangendo, e gli afferrò le
caviglie. L’inglese lasciò cadere il bastone vudù, portò il moschetto alla
spalla e mirò con calma al feroce muso felino che si avvicinava velocissimo.
Bam! Con un urlo, la giovane donna si afflosciò e nascose il viso in terra.
L’enorme leone spiccò un gran balzo, per poi ricadere giù immobile.
Kane ricaricò in fretta prima di dare un’occhiata alla sagoma ai suoi piedi.
La ragazza giaceva inerte come il leone appena ucciso, ma a un rapido
esame risultò soltanto svenuta.
L’inglese le spruzzò in faccia acqua della borraccia e subito lei aprì gli
occhi, si tirò su a sedere e, guardando il suo salvatore con aria terrorizzata,
fece per alzarsi.
Kane tese la mano per farle capire che non doveva aver paura e lei si
accovacciò di nuovo, tremante. Lui comprese che il fragoroso sparo del
moschetto bastava a spaventare qualunque indigeno non avesse mai visto un
uomo bianco.
La giovane aveva lineamenti molto più fini dei bestiali negri dai labbroni
grossi della costa occidentale ai quali era abituato. Snella e ben fatta, color
cioccolata anziché ebano, aveva il naso diritto e sottile e le labbra non troppo
carnose. Nel suo sangue c’era senza dubbio una forte componente berbera.
Kane le parlò nel dialetto del fiume, l’elementare gergo che aveva
appreso nelle sue peregrinazioni, e lei rispose esitante. Le tribù
dell’entroterra vendevano schiavi e avorio alla gente del fiume e
conoscevano bene quella lingua.
— Il mio villaggio è laggiù — disse la ragazza rispondendo alla domanda
di Kane e indicando la giungla a sud con il braccio sottile ma ben tornito. —
Mi chiamo Zunna. Mia madre mi ha frustato perché ho rotto un tegame e io
mi sono arrabbiata e sono scappata. Ho paura. Ti prego, lasciami tornare da
mia madre.
— Sei libera di andare, ma io ti accompagnerò, figliola — disse Kane. —
Metti che arrivi un altro leone... Sei stata molto sciocca a scappare.
— Sei forse un dio? — gemette lei.
— No, Zunna. Sono solo un uomo, anche se il colore della mia pelle è
diverso dal tuo. Portami al villaggio.
Lei si alzò, guardandolo apprensiva ed esitante tra i capelli scarmigliati. A
Kane pareva un cucciolo spaventato. Zunna si incamminò, facendogli
strada, e lui la seguì. Gli fece capire che il villaggio si trovava a sudest,
sicché si diressero verso le colline. Il sole cominciò a tramontare nella
prateria, dove si sentiva il ruggito dei leoni. Kane guardò il cielo a ponente:
non era il caso di farsi sorprendere dalle tenebre in mezzo alla distesa
d’erba. Lanciò un’occhiata alle colline e vide che la più vicina era a poche
centinaia di metri e che sul suo fianco si apriva una sorta di grotta.
— Zunna — disse incerto — non raggiungeremo mai il villaggio prima
del crepuscolo, e se aspettiamo qui i leoni ci saranno addosso. Laggiù c’è
una caverna in cui possiamo passare la notte.
Lei si ritrasse, tremante.
— Non in collina, buana — gemette. — Meglio i leoni!
— Sciocchezze — fece lui spazientito e nauseato dalle superstizioni degli
indigeni. — Trascorreremo la notte in quella grotta.
Zunna smise di discutere e lo seguì. Salirono un breve pendio e giunsero
all’imboccatura della caverna, che era piccola, con pareti di solida roccia e in
terra una spessa coltre di sabbia.
— Raccogli un po’ d’erba secca, Zunna — ordinò Kane, appoggiando il
moschetto al muro davanti all’ingresso della grotta — ma non spingerti
troppo lontano e tendi l’orecchio per sincerarti che non ci siano leoni.
Accenderò un fuoco che stanotte terrà lontane le bestie feroci. Su, fa’ la
brava e porta dell’erba e tutti i ramoscelli che trovi. Poi ceneremo. Ho nella
borsa della carne secca e anche dell’acqua.
Lei gli scoccò una lunga occhiata strana, poi voltò le spalle senza dire una
parola. Kane strappò l’erba vicina, notando che era tutta bruciata dal sole, e
ammucchiandola accese il fuoco con acciarino e pietra focaia. Le fiamme
divamparono, divorando il mucchio all’istante. Stava chiedendosi come
avrebbero fatto a raccogliere abbastanza erba da mantenere il fuoco vivo
tutta la notte, quando si rese conto di avere dei visitatori.
Aveva fatto il callo alle scene grottesche, ma appena li vide trasalì e sentì
un brivido gelido corrergli lungo la schiena. Due negri gli si pararono
davanti senza dire una parola. Erano alti, magri e completamente nudi.
Avevano la pelle di un nero polveroso, con una vena di grigio cenere che
sapeva di morte e un viso diverso da quello di tutti gli altri indigeni che gli
era capitato di vedere. La fronte era alta e stretta, il naso enorme ricordava
un grugno, gli occhi erano così grandi e iniettati di sangue da non sembrare
umani. Mentre se ne stavano lì ritti, gli parve che solo quegli occhi
fiammeggianti fossero vivi.
Kane rivolse loro la parola, ma non risposero. Con un gesto li invitò a
mangiare ed essi, sempre muti, si sedettero presso l’entrata della caverna, il
più lontano possibile dalle ceneri ormai quasi spente del falò.
Kane prese la borsa e cominciò a estrarne le strisce di carne secca che si
era portato dietro. Lanciò un’occhiata ai suoi silenziosi ospiti ed ebbe
l’impressione che non guardassero lui, ma le ceneri sfavillanti del fuoco.
Il sole stava per calare dietro l’orizzonte, a ponente. La prateria si accese
di un’intensa luce rossa, trasformandosi in un mare di sangue increspato.
Kane si chinò sopra la sua borsa e, alzando gli occhi, vide Zunna arrivare
dal pendio con le braccia piene di erba e rami secchi.
La ragazza all’improvviso sbarrò gli occhi, lasciò cadere i fuscelli e
fendette il silenzio con un terribile urlo di avvertimento. Kane, ancora
accovacciato, si girò di scatto e vide i due alti negri avventarglisi contro.
Alzandosi con l’agilità di un leopardo all’attacco, prese il bastone vudù e lo
conficcò nel corpo dell’aggressore più vicino con tale violenza che la punta
acuminata gli fuoriuscì tra le spalle. L’altro gli strinse le lunghe braccia
magre intorno al corpo, e bianco e negro crollarono a terra insieme.
Con unghie simili ad artigli, l’uomo gli graffiò il viso, mentre gli orrendi
occhi rossi lo fissavano terribilmente minacciosi. Kane si dimenò per
sottrarsi alla stretta, estrasse la pistola, gli piantò la canna contro il fianco e
premette il grilletto. Al suono soffocato dello sparo, il negro sussultò, ma le
grosse labbra si schiusero in un orrendo sorriso.
Infilò un lungo braccio sotto le spalle di Kane, mentre con l’altra mano
gli afferrò i capelli. L’inglese sentì che la testa gli veniva spinta
irreparabilmente indietro. Strinse il polso dell’altro con entrambe le mani,
ma sotto le dita frenetiche la carne gli parve dura come legno. Si sentì girare
la testa; ancora un minimo di pressione e il collo gli si sarebbe spezzato. Con
uno sforzo titanico si sottrasse alla presa mortale. Il negro gli fu di nuovo
addosso e lo artigliò con le unghie. Kane afferrò la pistola scarica, lo colpì
con la lunga canna nella maniera più violenta possibile e sentì il suo cranio
spaccarsi come un guscio; ma ancora una volta i labbroni si schiusero in un
orrido, beffardo ghigno.
L’inglese si sentì prossimo al panico. Che razza di uomo era quello, che
continuava a minacciarlo mortalmente con le mani come artigli dopo essere
stato ferito da uno sparo e avere ricevuto una botta micidiale in testa? Non
era un uomo, ma un figlio di Satana! A quell’idea Kane ebbe uno scatto
furioso e rotolò, avvinghiato al rivale, sul suolo della grotta, finendo sulle
ceneri non del tutto spente davanti all’entrata. Non sentì quasi il calore delle
braci, ma il suo avversario spalancò la bocca per il dolore e allentò le dita
tremende, permettendogli di liberarsi.
Il negro con il cranio sfondato si stava puntellando su una mano e un
ginocchio per rialzarsi quando Kane si mosse, tornando all’attacco come il
lupo affamato fa con il bisonte ferito. Lo aggredì di fianco, atterrandogli
sulla schiena, e con le forti braccia cercò e trovò una presa mortale; mentre
crollavano di nuovo a terra, gli spezzò il collo, sicché l’orrenda faccia ruotò
sulla spalla e lo fissò. Il negro giacque immobile, ma a Kane non sembrò
morto nemmeno allora, perché negli occhi rossi continuava ad ardere una
luce spaventosa.
Kane si girò e scorse la ragazza rannicchiata contro la parete della grotta.
Cercò il bastone vudù: era in mezzo a un mucchio di polvere e ossa
sbriciolate. Lo fissò con la testa che gli girava, poi in un balzo lo prese e,
voltatosi verso il negro a terra, con espressione truce lo sollevò e glielo
conficcò nel petto. Davanti ai suoi occhi inorriditi, il gigantesco corpo si
sgretolò, riducendosi in polvere come in polvere si era ridotto il primo
visitatore che Kane aveva colpito con la medesima verga.
3
Magia del sogno

— Gran Dio, questi uomini erano morti! — esclamò Kane. — Vampiri!


Tutto questo è chiaramente opera di Satana.
Zunna gli si avvicinò carponi e gli abbracciò le ginocchia.
— Sono morti viventi, buana — gemette. — Avrei dovuto avvertirti.
— Come mai non mi hanno aggredito alle spalle quando sono arrivati?
— domandò l’inglese.
— Avevano paura del fuoco. Aspettavano che le braci si spegnessero del
tutto.
— Da dove venivano?
— Dalle colline. Centinaia di morti viventi vagano tra i massi e le grotte
di queste alture, cibandosi di vite umane. Ammazzano gli uomini e divorano
il loro spirito quando questo lascia il corpo tremante. Sono succhiatori di
anime.
“Sai, buana, tra le colline più grandi sorge una silenziosa città di pietra
dove, nell’epoca lontana dei miei antenati, vivevano questi esseri. Erano
umani, ma non come noi, perché avevano regnato su queste terre per secoli
e secoli. Gli antenati della mia gente mossero loro guerra e ne uccisero
molti, e i loro stregoni resero tutti i cadaveri dei morti viventi come quelli
che hai appena visto. Alla fine perirono tutti.
“Per secoli i morti viventi depredarono le tribù della giungla, scendendo
furtivamente dalle colline a mezzanotte e al tramonto per infestare la
giungla, uccidendo e massacrando. Uomini e animali fuggono da loro e solo
il fuoco li distrugge.”
— Ecco che cosa li distruggerà — disse cupo Kane, alzando il bastone
vudù. — La magia nera va combattuta con la magia nera. Non so quale
incantesimo N’Longa abbia gettato su questa verga, ma...
— Tu sei un dio — disse decisa Zunna. — Nessun uomo potrebbe
sconfiggere due morti viventi. Non puoi liberare da questa maledizione la
mia tribù, buana? Non abbiamo un posto dove fuggire e i mostri ci
ammazzano a loro piacimento, catturando i viandanti fuori dai confini del
villaggio. La morte regna su questa landa e noi moriamo senza riuscire a
difenderci.
Nel cuore di Kane si risvegliò lo spirito del crociato e la passione dello
zelota, il fanatico che consacra la vita a combattere le potenze delle tenebre.
— Mangiamo, poi accenderemo un grande fuoco all’entrata della caverna
— disse. — Il fuoco che tiene lontane le bestie terrà lontani anche i mostri.
In seguito sedette nella grotta con il mento appoggiato sul pugno,
fissando il fuoco senza realmente vederlo. Alle sue spalle, nell’ombra,
Zunna lo osservava con profondo rispetto.
— Dio degli eserciti, concedimi il tuo aiuto — mormorò Kane. — È la
mia mano che deve levare l’antica maledizione da questa terra oscura. Come
posso combattere i demoni viventi, che sono insensibili alle armi mortali? Il
fuoco li distrugge, il collo spezzato li rende inermi, se gli si conficca nel
corpo il bastone vudù si sbriciolano riducendosi in polvere, ma a che serve?
Come posso sconfiggere centinaia di mostri che infestano le colline e che si
nutrono della linfa vitale umana? Come dice Zunna, non li hanno forse
combattuti, in passato, anche dei guerrieri, solo per scoprire che si erano
rifugiati nella loro città dalle alte mura, dove nessun uomo poteva
raggiungerli?
La notte si fece sempre più profonda. Zunna dormiva usando come
guanciale il suo braccio tornito di ragazzina. Le colline tremavano per il
ruggito dei leoni e Kane continuava a contemplare pensieroso il fuoco.
Fuori, la notte brulicava di sospiri, fruscii e passi furtivi. A volte, alzando lo
sguardo dalle sue meditazioni, Kane aveva l’impressione di vedere il
bagliore di occhi rossi di là dalle fiamme guizzanti.
L’alba grigia stava spuntando sopra la prateria quando l’inglese scosse
Zunna per svegliarla.
— Dio mi perdoni se mi accingo a indagare sulla magia dei barbari —
disse — ma forse l’unico modo di combattere la stregoneria è la stregoneria.
Bada al fuoco e svegliami se succede qualcosa di brutto.
Si sdraiò supino sul pavimento di sabbia della caverna, si appoggiò il
bastone vudù sul petto e vi incrociò sopra le braccia. Si addormentò
all’istante e, dormendo, sognò. Nel sogno gli parve di camminare in una
nebbia oscura e di incontrare in quella nebbia N’Longa, tale e quale a
com’era nella vita vera. N’Longa parlò e le parole, chiare e vivide, si
impressero così profondamente nella coscienza di Kane da colmare il
divario tra sonno e veglia.
“Manda la ragazza al villaggio poco dopo l’alba, quando i leoni si sono
ritirati nelle loro tane” ordinò N’Longa “e dille di portare in questa grotta il
suo innamorato e di farlo sdraiare come se dovesse dormire, con il bastone
vudù in mano.”
Il sogno svanì e Kane si svegliò all’improvviso, stupendosi della strana
nitidezza della visione avuta e del fatto singolare che N’Longa avesse
parlato in buon inglese anziché nel gergo che usavano di solito. Alzò le
spalle. Sapeva che N’Longa sosteneva di poter inviare il proprio spirito
nello spazio, e lui stesso lo aveva visto con i suoi occhi animare un
cadavere, tuttavia...
— Zunna — disse, rinunciando a spiegarsi il fenomeno — verrò con te
fino al confine della giungla e tu da lì tornerai al tuo villaggio e mi porterai
nella caverna il tuo innamorato.
— Kran? — chiese ingenuamente lei.
— Qualunque sia il suo nome. Fa’ colazione, poi partiamo.

Ancora una volta il sole calò sull’orizzonte, a ponente. Kane sedeva in


attesa nella grotta. Per sicurezza aveva accompagnato Zunna fino al punto in
cui la giungla, al confine con la prateria, si diradava, e benché gli rimordesse
la coscienza al pensiero dei pericoli che avrebbero potuto insidiarla, l’aveva
fatta proseguire da sola ed era tornato indietro. Adesso si chiedeva se non
sarebbe stato condannato al fuoco eterno per essersi gingillato con la magia
nera di uno stregone, fosse o no suo fratello carnale.
Udì dei passi leggeri e stava allungando la mano verso il moschetto,
quando Zunna entrò in compagnia di un giovane alto e aitante, la cui pelle
scura dimostrava l’appartenenza alla stessa razza di lei. L’uomo fissò Kane
con dolci occhi sognanti, come provasse per lui una vera e propria
adorazione. Evidentemente, nel raccontargli la sua storia, la ragazza non
aveva minimizzato i meriti del dio bianco.
Kane disse a Kran di sdraiarsi e gli mise il bastone vudù in mano, al
centro del petto. Zunna gli si accovacciò accanto con gli occhi sgranati.
Kane fece un passo indietro, vergognandosi un poco di quella pantomima e
chiedendosi che cosa ne sarebbe venuto fuori, se mai ne fosse venuto fuori
qualcosa. D’un tratto, con orrore, vide il ragazzo emettere un rantolo e
irrigidirsi.
Zunna urlò, scattando in piedi.
— Hai ucciso Kran! — strillò, scagliandosi contro l’ammutolito Kane.
Poi si fermò di colpo, barcollò e si passò una mano sulla fronte con aria
languida; un attimo dopo svenne, ruzzolando in terra e stringendo le braccia
intorno al corpo immobile dell’innamorato.
Quel corpo si mosse all’improvviso, con scatti inconsulti delle mani e dei
piedi, quindi si tirò su a sedere e si liberò della stretta della ragazza, ancora
priva di sensi.
Kran alzò gli occhi a guardare Kane e gli rivolse un sorriso furbo e
malizioso che pareva in qualche modo stonato sul suo viso. Kane trasalì.
Quegli occhi dolci avevano mutato espressione e adesso erano duri,
scintillanti e volpini: gli occhi di N’Longa.
— Ai ya — disse Kran con voce grottescamente familiare. — Fratello di
sangue, non saluti N’Longa?
Kane rimase zitto. Suo malgrado, si sentì accapponare la pelle. Kran si
alzò, tese le braccia in maniera bizzarra, come se i suoi stessi arti gli
paressero estranei, e si batté una mano sul petto con aria di approvazione.
— Io N’Longa — disse con la consueta aria tronfia. — Potente stregone.
Fratello di sangue, non mi riconosci?
— Tu sei Satana — replicò sincero Kane. — Sei Kran o sei N’Longa?
— Io N’Longa — lo rassicurò l’altro. — Mio corpo dorme in capanna di
stregone su costa a molti passi da qui. Io preso in prestito corpo di Kran per
un poco. Mio spirito fatto viaggio di dieci giorni in un attimo e viaggio di
venti sempre in un attimo. Mio spirito uscito da corpo e scacciato spirito di
Kran.
— Allora Kran è morto?
— No, lui non morto. Mando suo spirito per un poco in terra di ombre e
mando anche spirito di ragazza in terra di ombre, così lei tiene a lui
compagnia; tra poco tornano indietro.
— Questa è opera del demonio — disse franco Kane — ma ti ho visto
fare magie anche peggiori. Allora, ti devo chiamare N’Longa o Kran?
— Kran. Kah! No, N’Longa. Corpi sono come abiti. Io N’Longa e
adesso sono qui. — Si batté di nuovo una mano sul petto. — Tra poco Kran
torna in suo corpo e allora lui è Kran e io N’Longa, come prima. Adesso
Kran non vive qui, vive N’Longa in suo corpo. Fratello di sangue, io
N’Longa.
Kane annuì. Era davvero una terra di orrore e incanto; tutto era possibile,
anche che la voce sottile di N’Longa uscisse dal possente torace di Kran e
gli occhi volpini dello stregone gli ammiccassero da quel bel viso giovane.
— Conosco da tempo questa terra e so che i morti viventi sono potenti
stregoni — disse N’Longa, venendo al sodo. — So che non c’è tempo da
perdere. Ti parlo in sonno e dico: mio fratello carnale vuole sterminare
questi morti viventi, vero?
— È una cosa contro natura che i morti continuino a vivere — disse cupo
Kane. — Dalle mie parti li chiamano vampiri. Mai mi sarei aspettato di
trovarne un’intera nazione.
4
La città silenziosa

— Ora cerchiamo città di pietra — sentenziò N’Longa.


— Dici? — replicò ozioso Kane. — Perché non mandare il tuo spirito a
uccidere i vampiri?
— Spirito deve avere suo corpo per operare — disse N’Longa. —
Adesso tu dormi. Domani partiamo.
Il sole era tramontato e il fuoco ardeva con lingue guizzanti all’entrata
della caverna. Kane guardò la ragazza che giaceva ancora immobile dov’era
caduta e si preparò a dormire.
— Svegliami a mezzanotte e farò la sentinella fino all’alba — disse.
Ma quando N’Longa alla fine lo scosse per svegliarlo, Kane vide che le
prime luci del giorno stavano tingendo di rosso la terra.
— È ora di partire — disse lo stregone.
— Ma la ragazza? Sei sicuro che sia viva?
— È viva, fratello di sangue.
— Santo cielo, allora non possiamo lasciarla alla mercé di qualunque
mostro in cerca di preda si aggiri da queste parti. Potrebbe aggredirla anche
un leone.
— Nessun leone viene. C’è ancora odore di vampiro misto a odore di
uomo. Leone non ama odore di uomo e teme morti viventi. Nessuna bestia
viene. — Raccolse il bastone vudù, lo pose di traverso all’ingresso della
grotta e aggiunse: — Adesso neanche morto vivente viene.
Kane lo guardò incupito, senza entusiasmo.
— In che modo quel bastone la difenderà?
— È potente magia — disse N’Longa. — Tu visto come vampiro diventa
polvere quando percosso da bastone. Nessun vampiro osa toccare o
avvicinare. Ho dato bastone a te perché, vicino a colline di vampiri, uomo a
volte incontra in giungla cadavere ambulante quando buio è fitto. Non tutti i
morti viventi sono qui. Tutti succhiano vita a uomo; se non succhiano,
marciscono come legno putrido.
— Allora fa’ parecchi di quei bastoni e dalli alla gente.
— Non posso! — esclamò N’Longa scuotendo con forza la testa. —
Bastone vudù può essere potente magia. Antica, molto antica. Nessun uomo
vivente può dire quanto antica è questa magia. Io fatto dormire mio fratello
di sangue e fatto magia con bastone per proteggere lui, al momento di nostre
parole in villaggio di costa. Oggi esploriamo e corriamo, niente bisogno di
bastone. Lasciamo qui per proteggere ragazza.
Kane alzò le spalle e seguì lo stregone dopo aver lanciato un’occhiata al
corpo immobile di Zunna nella grotta. Non l’avrebbe mai lasciata sola così a
cuor leggero, se avesse creduto davvero che fosse viva. Le aveva toccato la
pelle e l’aveva sentita fredda.
Salirono tra le colline spoglie mentre il sole sorgeva. Si spinsero sempre
più in alto, su ripide alture d’argilla, avanzando tra burroni e grossi massi.
Le colline erano disseminate di buie grotte quasi inaccessibili, accanto alle
quali passarono con cautela. Kane si sentì accapponare la pelle al pensiero
dei loro orridi abitatori.
Disse infatti N’Longa: — Vampiri dormono in caverne quasi tutto
giorno, fino a tramonto. Queste caverne sono piene di morti viventi.
Il sole salì più in alto nel cielo, abbrustolendo gli spogli pendii con il suo
calore intollerabile. Il silenzio gravava come un mostro malvagio sulla terra.
Non avevano visto nessuno, ma a volte Kane avrebbe giurato di scorgere
un’ombra nera sgattaiolare dietro un masso al loro avvicinarsi.
— Questi vampiri stanno nascosti il giorno — disse N’Longa con una
risatina. — Hanno paura di avvoltoi. Mica scemi, avvoltoi! Riconoscono
morte quando la vedono. Piombano su morti viventi e strappano carne e
mangiano, morto disteso o in piedi non importa.
Kane fu scosso da un brivido.
— Dio mio, non c’è dunque fine all’abominio in questo posto
spaventoso? — esclamò, battendosi il cappello sulla coscia. — Questa terra è
consacrata alle potenze delle tenebre!
Una luce pericolosa gli brillò negli occhi. La terribile afa, la solitudine e
la consapevolezza degli orrori che si annidavano da ogni parte avevano
scosso anche nervi d’acciaio come i suoi.
— Tieni cappello in testa, fratello di sangue — lo ammonì N’Longa con
una risatina divertita. — Altrimenti il sole uccide te.
Kane sollevò il moschetto che si era voluto per forza portare dietro e non
replicò.
Alla fine salirono su un’altura e da lì contemplarono una sorta di
altopiano al centro del quale sorgeva una silenziosa città di pietre grigie in
rovina. Colpì l’inglese il senso di incredibile antichità che emanava da quel
luogo. Le mura e le case erano fatte di grandi blocchi di pietra, eppure si
stavano sgretolando. L’erba cresceva su tutto l’altopiano ed era alta nelle
strade desolate. Kane non scorse alcun segno di vita tra le rovine.
— Ecco la loro città. Ma perché preferiscono dormire nelle grotte?
— Forse hanno paura di masso che cade da tetto e schiaccia loro. Queste
capanne di pietra presto crollano. O forse morti viventi non vogliono stare
insieme, forse temono che uno mangia l’altro.
— Che profondo silenzio regna ovunque — sussurrò Kane.
— Vampiri non parlano e non urlano: sono morti. Dormono in caverne,
girano al tramonto o di notte. Quando tribù negre di boscaglia vengono con
lance, vampiri vanno in villaggio di pietra e combattono da dietro mura.
Kane annuì. Le mura sgretolate che circondavano la città morta erano
ancora abbastanza alte e solide da resistere all’attacco dei guerrieri armati di
lancia, specie se a difenderle erano quei mostri dal naso grosso.
— Fratello di sangue, ho pensiero di potente magia — disse
solennemente N’Longa. — Resta in silenzio.

Kane si sedette su un masso e contemplò tristemente i brulli colli e le


alture da cui erano circondati. In lontananza, verso sud, si scorgeva l’oceano
color verde foglia della giungla, cui la distanza conferiva un certo fascino.
Più vicino spiccavano le macchie scure costituite dagli ingressi delle caverne
dei mostri.
Accovacciato in terra, N’Longa stava tracciando con la punta del pugnale
uno strano disegno nell’argilla. Kane lo osservò e pensò che sarebbero stati
facili prede se anche solo tre o quattro vampiri fossero usciti dalle grotte.
Proprio mentre lo pensava, una terrificante ombra nera calò sopra lo
stregone rannicchiato.
Agì senza stare a riflettere. Come un sasso lanciato da una catapulta,
balzò in piedi dal masso dove sedeva e con il calcio del moschetto spaccò la
faccia all’orrida sagoma nera che li aveva assaliti. Colpì più volte il suo
nemico inumano, aggredendolo con la forza di una tigre furiosa senza mai
dargli il tempo di difendersi o contrattaccare.
Proprio sull’orlo dell’altura, il vampiro barcollò e perse l’equilibrio,
precipitando per una trentina di metri fino a sfracellarsi sulle rocce
dell’altopiano sottostante.
N’Longa si era alzato e indicava col dito: le colline stavano sputando
fuori i loro morti viventi.
Uscivano sciamando dalle caverne, le terribili figure silenziose. Partivano
all’assalto dai pendii, arrampicandosi sui massi e fissando con gli occhi rossi
i due esseri umani in cima all’altura che dominava la città silenziosa. Le
grotte li vomitavano fuori come in un empio Giorno del giudizio.
N’Longa indicò un picco a una certa distanza e, con un urlo, si mise a
correre rapido in quella direzione. Kane lo seguì. Da dietro i massi neri
artigli tentarono di afferrarli, strappando loro i vestiti. Nella corsa, N’Longa
e Kane passarono accanto a grotte dalle quali sbucarono orrende mummie
farfuglianti e barcollanti che si unirono alla caccia.
Le mani morte erano quasi alle loro calcagna quando i due terminarono
l’ultimo tratto di ripida salita e raggiunsero la cornice di roccia sulla cima. I
mostri si fermarono un attimo, muti; poi cominciarono ad arrampicarsi.
Kane usava il calcio del moschetto come una clava e picchiava con quello i
grugni dagli occhi rossi, liberandosi dagli artigli che cercavano di afferrarlo.
I morti viventi continuarono ad arrampicarsi come un’onda nera, mentre
l’inglese menava fendenti con una furia silenziosa non meno grande della
loro. L’onda nera si rompeva e ritraeva, per poi gonfiarsi di nuovo.
Non poteva ucciderli! Quelle parole gli percuotevano il cervello come un
martello l’incudine, mentre con le sue mazzate fracassava carne dura come
legno e ossa morte. Li abbatteva e li scaraventava indietro, ma tornavano
sempre. Non poteva resistere oltre. Che diavolo stava facendo N’Longa? Si
lanciò una breve occhiata angosciata alle spalle. Lo stregone era salito sulla
parte più alta della cornice rocciosa e, con la testa gettata indietro e le braccia
sollevate, invocava qualcuno o qualcosa.
Kane vide confusamente la marea di spaventose facce nere dai vitrei
occhi rossi. I vampiri in prima fila erano più orrendi che mai, perché
avevano il cranio spaccato, il viso schiacciato e gli arti a pezzi. Però
continuavano ad avanzare, e quelli dietro tendevano le mani oltre le spalle
dei compagni per afferrare l’uomo che li stava sfidando.
Kane era coperto di sangue, ma solo del proprio. Dalle vene da tempo
essiccate dei mostri non usciva una sola goccia di sangue caldo. D’un tratto
sentì arrivare da dietro un lungo lamento straziante: N’Longa. Più forte del
rumore dei fendenti e dello schianto delle ossa fratturate era quella voce
acuta e nitida, l’unica che si udiva nella macabra battaglia.
La marea nera sommerse i piedi di Kane, travolgendolo. Unghie affilate
lo graffiarono, labbra flaccide gli succhiarono le ferite. Scarmigliato e
insanguinato, l’inglese riuscì a rialzarsi e a ricavarsi uno spazio brandendo
ancora una volta il moschetto scheggiato. Poi fu di nuovo assediato e
travolto.
“È la fine” pensò, ma proprio in quell’istante la pressione si allentò e il
cielo si riempì del fruscio di grandi ali.
Improvvisamente libero, si rimise in piedi. Era semiaccecato, stordito e
barcollante, ma pronto a riprendere la lotta. Si fermò a guardare, impietrito.
I morti viventi correvano giù dal pendio inseguiti da enormi avvoltoi che si
gettavano in picchiata a piluccarli avidamente, affondando il becco nella loro
carne morta e divorandoli mentre fuggivano.
Kane scoppiò in una folle risata. — Potrete anche sfidare l’uomo e Dio,
ma non ingannate gli avvoltoi, figli di Satana! Loro sanno se un uomo è
vivo o morto!
N’Longa stava ritto come un profeta sullo sperone di roccia, mentre in
cielo i grandi uccelli neri gli volavano intorno. Continuava ad agitare le
mani e a levare il suo lamento, che echeggiava per tutte le colline.
Dall’orizzonte giunsero immensi, infiniti stormi di avvoltoi, richiamati dal
banchetto a lungo negato. Erano così numerosi che annerivano il cielo
oscurando il sole, e singolari tenebre ammantarono la terra. In lunghe file
nere, si infilarono dentro le grotte con gran frusciare d’ali e schioccar di
becchi. E con gli artigli lacerarono i mostri neri che uscivano a frotte.
Tutti i vampiri fuggirono verso la loro città. La vendetta da cui erano stati
esentati per secoli li aveva finalmente colpiti e la loro ultima speranza erano
le massicce mura che avevano sempre respinto i disperati avversari umani.
Sotto quei tetti in rovina forse avrebbero trovato riparo. N’Longa li guardò
sciamare verso la città e rise al punto che tutte le colline echeggiarono dei
suoi sghignazzi.
Ora che tutti i vampiri erano dentro le mura, gli avvoltoi calarono come
una nube sulla città condannata, appollaiandosi in file compatte lungo i muri
e affilando becco e artigli sulle torri.
Con acciarino e pietra focaia, N’Longa appiccò il fuoco a una fascina di
foglie secche che aveva portato con sé. Subito la sterpaglia si incendiò e lo
stregone, salito in cima alla roccia, la fece cadere come un meteorite
sull’altopiano sottostante. Le faville si sparsero a pioggia e l’erba alta prese
fuoco.
Dalla città silenziosa emanarono onde invisibili di paura, simili a una
nebbia bianca.
Kane sorrise cupo. — L’erba è secca e arida per la siccità — disse. — C’è
stata ancor meno pioggia del solito quest’anno: brucerà in fretta.
Come un serpente cremisi, il fuoco divampò tra gli sterpi, diffondendosi
sempre di più. Pur trovandosi in cima all’altura, Kane avvertì la terribile
intensità con cui centinaia di occhi iniettati di sangue guardavano l’incendio
dalla città di pietra.
Il serpente scarlatto raggiunse le mura e si sollevò come per superarle con
le sue spire. Gli avvoltoi si alzarono in volo con le grandi ali e salirono in
cielo riluttanti. Una folata improvvisa di vento propagò le fiamme, che
avvolsero le mura come in un lungo sudario rosso. Ora la città era cinta da
ogni lato da un’ininterrotta barriera di fuoco. Il ruggito dell’incendio arrivò
fino ai due uomini sulla vetta.
Le faville volarono sopra le mura, appiccando il fuoco all’erba alta che
invadeva le strade. Varie lingue di fiamma si levarono verso il cielo,
divampando a velocità terrificante. Un velo rosso avvolse strade e edifici, e
attraverso quella corrusca nebbia vorticante Kane e N’Longa videro
centinaia di figure nere fuggire qua e là contorcendosi, per poi scomparire
all’improvviso tra vampate di fiamma. Dalla carne marcia che bruciava
saliva un fetore immondo.
Kane contemplò la scena. Era davvero l’inferno in terra. Come in un
incubo, guardò il ruggente calderone rosso dove insetti neri tentavano
inutilmente di sfuggire alla loro condanna. Le fiamme erano alte una trentina
di metri e all’improvviso, al di sopra del loro rombo, si udì un urlo bestiale e
disumano che pareva provenire da abissi inauditi di spazio cosmico: un
vampiro, morendo, aveva spezzato la catena del silenzio che lo aveva
vincolato per innumerevoli secoli e aveva elevato al cielo il suo lamento
terrificante, il grido di morte di una razza perduta.
Poi le fiamme si spensero di colpo. Era stato un tipico incendio d’erba
secca, breve e violento. Ora sull’altipiano si vedevano una distesa annerita e
la città ridotta a un cumulo di macerie carbonizzate e fumanti. Non si
scorgevano né cadaveri né ossa. Sopra le rovine volavano scuri stormi di
avvoltoi, ma anch’essi avevano preso a sparpagliarsi.
Kane contemplò avidamente il nitido cielo azzurro. Fu come se un forte
vento di mare avesse dissipato la nebbia dell’orrore. Da qualche parte, in
lontananza, giunse il debole ruggito di un leone. Gli avvoltoi si
allontanarono in nere file sparse.
5
Colloquio finito!

Seduto all’entrata della caverna, dove giaceva Zunna, Kane si lasciava


fasciare dallo stregone.
Gli abiti da puritano gli penzolavano laceri dal corpo; braccia, gambe e
petto erano piagati da lividi e tagli profondi, ma nessuna ferita era stata
mortale durante la tremenda battaglia in cima alla rupe.
— Uomini potenti, siamo! — esclamò N’Longa con grande
soddisfazione. — Città di vampiri adesso silenziosa e sicura. Nessun morto
vivente abita più colline.
— Non capisco — osservò Kane con il mento appoggiato sulla mano. —
Dimmi, N’Longa, come sei riuscito a operare queste magie? In che modo mi
hai parlato in sogno, come sei entrato nel corpo di Kran e con quale
richiamo hai riunito gli avvoltoi?
— Fratello di sangue — disse N’Longa, abbandonando lo stentato
inglese che esibiva fieramente per passare al gergo del fiume che Kane
capiva — sono così vecchio che mi daresti del bugiardo se ti dicessi la mia
età. Ho dedicato tutta la vita alla magia, prima fungendo da apprendista di
potenti stregoni del Sud e dell’Est, poi facendo lo schiavo dei Buckra, gli
uomini bianchi, con i quali ho appreso altre cose. Fratello, come faccio a
raccontarti in un attimo tutti quegli anni e a farti comprendere in una parola
quello che ho impiegato tanto tempo a imparare? Non riuscirei neanche a
spiegarti come i vampiri abbiano evitato la putrefazione succhiando la vita
agli uomini.
“Dormo e lo spirito mi esce dal corpo per andare nella giungla e sui fiumi
a parlare con gli spiriti dei miei amici, che dormono a loro volta. È stato
gettato un potente incantesimo sul bastone vudù che ti ho dato, una magia
della Terra Antica che attira il mio spirito verso il bastone come la calamita
dell’uomo bianco attira il metallo.”
Kane ascoltava in silenzio, scorgendo per la prima volta negli occhi
scintillanti di N’Longa qualcosa di più intenso e profondo della bramosia
dell’uomo esperto di magia nera. Gli parve quasi di contemplare gli occhi
mistici e saggi degli antichi profeti.
— Ti ho parlato in sogno — proseguì N’Longa — facendo in modo che
le anime di Kran e Zunna si addormentassero di un sonno profondo e
andassero in una terra oscura e lontana, da dove presto torneranno senza
ricordare nulla. Tutte le cose si arrendono alla magia, fratello di sangue, e le
bestie e gli uccelli obbediscono alle parole del loro signore. Ho operato un
potente rituale vudù, l’incantesimo degli avvoltoi, e gli esseri dell’aria sono
volati tutti al mio richiamo.
“Io conosco questo mondo di magie e ne faccio parte, ma come posso
spiegarlo a te? Fratello di sangue, tu sei un eroico guerriero, ma in fatto di
incantesimi sei come un bambino smarrito. Ciò che io ho impiegato lunghi
anni oscuri a imparare, non posso confidarlo a te per farti capire. Tu, amico,
vedi solo spiriti maligni. Ma se la mia magia fosse soltanto cattiva, non terrei
per me questo bel corpo giovane, rinunciando alla mia vecchia carcassa
avvizzita? Invece Kran riavrà il suo corpo e vivrà come se nulla fosse stato.
“Conserva il bastone vudù, fratello di sangue. Ha un grande potere
contro tutti i maghi, i serpenti e le cose malvagie. Ora torno al villaggio sulla
costa dove dorme il mio vero corpo. E tu, fratello, dove andrai?”
Kane indicò in silenzio l’Est.
— Sento sempre più forte il richiamo. Devo andare.
N’Longa annuì e gli tese la mano. Kane gliela strinse. L’espressione
mistica era scomparsa dal viso scuro dello stregone e i suoi occhi brillavano
volpini, ma allegri.
— Io vado, tu attento a giungla, che non ti spolpa ossa — disse lo
stregone, tornando al suo amato inglese, della cui conoscenza era più
orgoglioso che di tutti i suoi trucchi magici. — Ricordati bastone vudù,
fratello. Ai ya, colloquio finito!
Si lasciò cadere supino sulla sabbia e Kane vide la sua espressione furba
e sveglia scomparire dal viso di Kran. Si sentì di nuovo accapponare la
pelle. In una capanna della Costa degli schiavi, il corpo grinzoso e
incartapecorito di N’Longa si stava muovendo, come ridestandosi da un
sonno profondo. Kane rabbrividì.
Kran si tirò su a sedere, si stirò e sorrise. Accanto a lui Zunna si alzò
stropicciandosi gli occhi.
— Oh, dobbiamo esserci addormentati, buana — disse il giovane in tono
di scusa.
NON SCAVATEMI LA FOSSA

Il frastuono del vecchio batacchio della porta, che risuonò sinistro per tutta
la casa, mi destò da un sonno inquieto funestato da incubi. Guardai dalla
finestra. Nel residuo chiarore della luna ormai bassa nel cielo, vidi stagliarsi
il viso del mio amico John Conrad.
— Posso entrare, Kirowan? — chiese con voce scossa e tesa.
— Ma certo — dissi. Saltai giù dal letto e mi infilai una vestaglia mentre
lui entrava e saliva le scale.
Un istante dopo mi era davanti e alla luce della lampada che accesi vidi
che era innaturalmente pallido e gli tremavano le mani.
— Il vecchio John Grimlan è morto un’ora fa — disse senza preamboli.
— Davvero? Non sapevo che fosse ammalato.
— È stato un malore improvviso e violento di natura molto particolare,
una crisi di tipo epilettico. Sai, era soggetto a questi attacchi, negli ultimi
anni.
Annuii. Sapevo qualcosa del vecchio che viveva come un eremita nella
sua grande, cupa casa sulla collina; anzi, una volta avevo assistito io stesso a
una delle sue strane crisi ed ero rimasto sconvolto dalle urla, dai
contorcimenti e dai lamenti del poveretto, che aveva continuato a strisciare
in terra come un serpente ferito, biascicando tremende imprecazioni e
orrende bestemmie, finché la voce non gli si era ridotta a un urlo inarticolato
accompagnato dall’emissione di bava. Davanti a quella scena, avevo capito
perché anticamente gli epilettici fossero considerati degli indemoniati.
— ... una tara ereditaria — stava dicendo Conrad. — Il vecchio John
aveva indubbiamente una debolezza congenita causata magari da qualche
brutta malattia trasmessagli da un lontano antenato; ogni tanto capitano
queste cose. Oppure... tu sai che in gioventù John si avventurò in regioni
misteriose della terra ed esplorò tutto l’Oriente. È possibile che si sia buscato
qualche strano malanno durante i suoi vagabondaggi. Esistono ancora molte
malattie sconosciute alla scienza, in Africa e in Oriente.
— Ma non mi hai ancora detto il motivo della tua visita improvvisa a
quest’ora assurda — dissi. — Vedo che è mezzanotte passata.
Il mio amico parve abbastanza confuso.
— Be’, il fatto è che John Grimlan è morto senza nessuno all’infuori di
me, accanto. Ha rifiutato di ricevere qualsiasi cura medica e negli ultimi
istanti, quando era chiaro che stava spirando e io mi accingevo ad andare in
cerca di aiuto contro il suo volere, si è messo a urlare, strepitare, supplicare
disperatamente che non lo lasciassi morire da solo, e non ho potuto
ignorarlo. — Si asciugò la fronte pallida imperlata di sudore e aggiunse: —
Ho visto morire altri uomini, ma la sua fine è stata la più terribile di tutte.
— Ha sofferto molto?
— Sembrava avere forti dolori, ma la sofferenza fisica non era niente in
confronto alla terrificante sofferenza psichica. Gli occhi sbarrati e le urla
laceranti facevano pensare a un terrore di natura ultraterrena. Ti assicuro,
Kirowan, che la paura di Grimlan era più grande e profonda dell’ordinario
timore dell’aldilà nutrito dagli uomini che hanno condotto una vita
ordinariamente malvagia.
Mi agitai, inquieto. Un brivido di tremenda apprensione mi corse lungo la
schiena quando pensai alle fosche implicazioni di quel discorso.
— So che i villici hanno sempre detto che Grimlan in gioventù vendette
l’anima al diavolo e che i suoi improvvisi attacchi epilettici erano solo il
segno visibile del potere del Maligno su di lui; ma si tratta naturalmente di
sciocche chiacchiere di stampo medievale. Tutti sappiamo che Grimlan ha
condotto fino alla fine una vita particolarmente malvagia e violenta. A
ragione era universalmente detestato e temuto: non ho mai sentito dire che
abbia compiuto una sola buona azione. Tu eri il suo unico amico.
— È stata una strana amicizia — disse Conrad. — Ero attratto da lui a
causa dei suoi poteri insoliti. Nonostante la sua natura bestiale, infatti, John
Grimlan era un uomo molto colto, erudito. Aveva studiato a fondo le
scienze occulte e lo conobbi proprio per tale motivo, perché, come sai, mi
sono sempre vivamente interessato a questo tipo di ricerca.
“Ma, in quella come in altre cose, era perfido e perverso. Ignorando la
magia bianca, aveva indagato nel mondo più cupo e fosco di quella nera:
adorazione del diavolo, vudù, scintoismo. Aveva una conoscenza immensa
ed empia della stregoneria. Quando lo sentivo parlare delle sue ricerche e dei
suoi esperimenti, provavo lo stesso orrore e la stessa repulsione che si
provano davanti a un serpente velenoso. Perché non c’era abisso che non
avesse esplorato, e di alcune cose fece, perfino a me, solo pochi cenni. Ti
assicuro, Kirowan, che è facile ridere di questa conoscenza arcana e terribile
quando si è in piacevole compagnia alla vivida luce del sole, ma se, come
me, ti fossi trovato a tarda notte nella silenziosa, bizzarra biblioteca di John
Grimlan, a consultare antichi volumi ammuffiti e ascoltare i suoi inquietanti
discorsi, ti si sarebbe incollata la lingua al palato per la paura, come capitò a
me, e il soprannaturale ti sarebbe parso, come parve a me, molto reale e
vicino.”
— Ma santo cielo, amico, vieni al punto e dimmi cosa vuoi da me! —
gridai attanagliato da una tensione divenuta ormai insostenibile.
— Voglio che mi accompagni a casa di Grimlan e mi aiuti a eseguire gli
strani ordini che ha lasciato in merito al suo corpo.

Non mi piaceva per niente quella storia, ma mi vestii in fretta, tormentato


da qualche brivido di cattivo presentimento. Quando fui pronto, seguii
Conrad lungo la via silenziosa che conduceva da John Grimlan. La strada
saliva tortuosa sulla collina e per tutto il tempo, guardando davanti a me,
vidi la grande casa tetra che, appollaiata sulla cima come un rapace, si
stagliava nera e spoglia contro il cielo stellato. A ponente pulsava un’unica,
opaca macchia rossa dove la luna crescente era appena scomparsa dietro le
basse alture scure. L’intera notte pareva covare una malvagità insidiosa e il
persistente frullo d’ali dei pipistrelli sopra le nostre teste metteva a dura
prova i miei nervi tesi.
Per tacitare il furioso batticuore, dissi: — Pensi anche tu, come tanti, che
Grimlan fosse pazzo?
Facemmo molti passi prima che Conrad rispondesse con singolare
riluttanza: — Se non fosse per un episodio, direi che non ho mai conosciuto
uomo più sano di mente di lui. Ma una sera, nel suo studio, sembrò d’un
tratto spezzare tutti i vincoli della ragione.
“Da ore dissertava del suo argomento preferito, la magia nera, quando
all’improvviso gridò, illuminandosi di una strana luce mefistofelica: ‘Ma
perché sto qui a cianciare di queste sciocchezze puerili con te? Puah, riti
vudù, sacrifici scintoisti, serpenti piumati, capre senza corna, culti della
pantera nera, tutto ciò è solo lerciume e polvere che il vento soffia via, feccia
del vero ignoto, degli autentici, profondi misteri. È solo un’eco dell’Abisso.
Potrei raccontarti cose che distruggerebbero la tua povera mente. Potrei
sussurrarti all’orecchio nomi che ti brucerebbero come erba secca. Che cosa
ne sai di Yog Sothoth, di Kathulos e delle città sommerse? Non uno di
questi nomi compare nelle vostre mitologie. Neanche in sogno hai intravisto
le nere mura ciclopiche di Koth o sei avvizzito davanti ai venti malefici che
soffiano da Yuggoth. Ma non voglio privarti della vita con la mia magia
nera. Il tuo cervello infantile non reggerebbe mai al mio tremendo scibile. Se
tu fossi vecchio come me, se avessi visto, come ho visto io, regni svanire e
generazioni trascorrere, se avessi raccolto come grano maturo gli oscuri
segreti dei secoli...’
“Stava delirando, tanto che il suo volto, illuminato da una luce folle, non
aveva quasi più nulla di umano. All’improvviso, notando il mio evidente
sconcerto, scoppiò in una risata stridula, orribile. ‘Dio’ disse con una voce e
un accento che non gli avevo mai sentito ‘temo di averti spaventato e invero
non c’è da maravigliarsene, imperocché in fondo sei solo un selvaggio
ignaro delle arti della vita. Mi credi vetusto, nevvero? Ma lo sai, piccolo
zotico che mi guardi attonito, che cadresti stecchito se ti dicessi quante
generazioni di uomini ho conosciuto?’
“A quel punto fui preso da un tale orrore che fuggii da lui come da una
vipera, e la sua risata stridula e diabolica mi inseguì fuori dalla casa buia.
Qualche giorno dopo ricevetti una lettera in cui si scusava per i suoi modi
attribuendoli candidamente, troppo candidamente, alle droghe. Non gli
credetti, ma dopo qualche esitazione ripresi i contatti con lui.”
— Mi sembrano cose del tutto deliranti, quelle che ti disse — mormorai.
— Sì — ammise Conrad con qualche esitazione. — Ma... che tu sappia,
Kirowan, qualcuno ha mai conosciuto John Grimlan da giovane?
Scossi la testa.
— Mi sono preso la briga di raccogliere con discrezione notizie su di lui
— continuò. — A parte misteriosi viaggi che lo portarono lontano per mesi
di fila, vive qui da vent’anni. I più anziani del villaggio ricordano
distintamente il giorno in cui si trasferì qui e prese possesso della vecchia
casa sulla collina, e tutti dicono che da allora non è invecchiato in maniera
percepibile. Quando arrivò pareva un uomo sulla cinquantina, la stessa età
che dimostra adesso, o che ha dimostrato fino a quando non è morto.
“A Vienna ho incontrato il venerabile von Boehnk, il quale mi ha
spiegato che quando, mezzo secolo fa, era giovanissimo e studiava a
Berlino, conobbe Grimlan, e lo ha stupito moltissimo sentire che il vecchio
era ancora in vita, perché all’epoca, ha detto, dimostrava già una cinquantina
d’anni.”
Capendo dove voleva andare a parare, esclamai incredulo: —
Sciocchezze. Il professor von Boehnk ha oltre ottant’anni e commette gli
errori tipici delle persone molto anziane. Ha confuso Grimlan con qualcun
altro. — Tuttavia, mentre lo dicevo, fu spiacevole sentire la pelle
accapponarsi e i capelli rizzarsi sulla nuca.
Conrad si strinse nelle spalle. — Be’, eccoci arrivati.
La grande casa sorgeva minacciosa davanti a noi. Quando
raggiungemmo la porta d’ingresso, un vento errabondo fischiò tra i vicini
alberi e io, sentendo di nuovo il frullo spettrale delle ali di pipistrello, trasalii
stupidamente. Conrad girò una grossa chiave nella vecchia serratura ed
entrando fummo investiti da una corrente fredda che aveva sentore di muffa
e pareva un alito di tomba. Rabbrividii.
Avanzando tentoni lungo il corridoio buio, entrammo nello studio, dove
Conrad accese una candela, perché la casa era priva sia di luce elettrica sia di
lumi a gas. Mi guardai intorno, temendo le cose che la luce avrebbe potuto
rivelarmi, ma nella stanza tappezzata di tendaggi e bizzarramente arredata
c’eravamo soltanto noi.
— Dove... dov’è lui? — domandai con un sussurro rauco che mi uscì
dalla gola secca.
— Al piano di sopra — rispose Conrad a bassa voce, dimostrando che il
silenzio e l’aura di mistero avevano soggiogato anche lui. — Al piano di
sopra, nella biblioteca dove è morto.
Alzai involontariamente gli occhi. Sopra la nostra testa, il solitario
padrone di quella casa tetra, con il viso terreo congelato nella maschera
ghignante della morte, era silenziosamente immerso nel suo ultimo sonno.
Fui colto dal panico e dovetti fare uno sforzo per riprendere il controllo.
Dopotutto era solo il cadavere di un vecchio malvagio che non poteva più
nuocere a nessuno, mi dissi; ma il ritornello che mi ripetevo vanamente
suonava come quello di un bambino spaventato in cerca di rassicurazioni.
Mi girai verso Conrad. Da una tasca interna aveva preso una busta
ingiallita dal tempo.
— Queste sono le ultime parole di John Grimlan, anche se Dio solo sa
quanti anni fa sono state scritte — disse, tirando fuori diverse pagine di
pergamena a sua volta ingiallita e vergata fittamente. — Mi consegnò la
busta dieci anni fa, subito dopo essere tornato dalla Mongolia. Poco tempo
dopo ebbe il suo primo attacco epilettico.
“Mi diede il documento, facendomi giurare che l’avrei nascosto bene e
aperto solo alla sua morte, quando avrei dovuto leggerne il contenuto e
seguirne per filo e per segno le istruzioni. Inoltre, mi fece giurare che,
qualunque cosa avesse detto o fatto dopo avermi consegnato la busta, avrei
proceduto secondo le disposizioni originarie. ‘Perché’ mi disse con un
sorriso inquietante ‘la carne è debole, ma io sono un uomo di parola, e
anche se in un momento di debolezza potrei desiderare di ritrattare, ormai è
troppo tardi. Forse non capirai mai l’operazione, ma devi fare come ti ho
detto.’”
— Ebbene?
— Ebbene — continuò Conrad asciugandosi di nuovo la fronte —
stasera, mentre si contorceva nell’agonia, tra un verso inarticolato e l’altro
mi ha pregato di portargli la lettera e distruggerla davanti ai suoi occhi.
Mentre farfugliava questo, si è sollevato sui gomiti e, con gli occhi sbarrati e
i capelli ritti in testa, ha lanciato urla da far gelare il sangue. Strillava che
non dovevo aprire la busta, ma distruggerla, e una volta, nel delirio, mi ha
gridato di fare a pezzi il suo corpo e gettarlo ai quattro venti.
Dalle labbra mi uscì, incontrollabile, un’esclamazione di orrore.
— Alla fine ho ceduto — disse. — Ricordando i suoi ordini di dieci anni
fa, all’inizio ho resistito, ma poi, quando non sono più riuscito a sopportare
le sue grida disperate, mi sono girato per andare a prendere la busta, anche
se questo significava lasciarlo da solo. Tuttavia, mentre mi voltavo, con un
grande spasmo del corpo contratto, un’ultima, spaventosa convulsione che
gli ha strappato dalla bocca contorta una bava venata di sangue, ha esalato
l’ultimo respiro.
Si rigirò tra le mani la pergamena. — Intendo mantenere la promessa. Le
istruzioni che mi dà appaiono assurde e forse sono solo i vaneggiamenti di
una mente delirante, ma ho dato la mia parola. In breve, Grimlan mi ordina
di deporre il suo cadavere sul grande tavolo di ebano nero della biblioteca e
di accendervi intorno sette candele nere. Le porte e le finestre vanno chiuse
e sprangate. Poi, nel buio che precede l’alba, dovrò leggere la formula,
ovvero l’incantesimo o magia che è contenuto nella busta più piccola,
ancora sigillata, inserita in quella più grande.
— Tutto qui? — chiesi. — Non dà disposizioni riguardo al suo
patrimonio, alla sua casa o... al suo cadavere?
— Niente. Nel testamento, che ho visto da qualche altra parte, lascia la
casa e il patrimonio a un orientale, un certo Melek Taus, che nomina nel
documento.
— Che cosa? — gridai, profondamente scosso. — Conrad, è una follia
che si aggiunge alla follia! Melek Taus... Dio mio, nessun essere mortale si è
mai chiamato così! È il nome del dio malvagio adorato dai misteriosi yazidi
del monte Alamut, 1 la montagna maledetta le cui otto torri di ottone sorgono
nei misteriosi deserti del cuore dell’Asia. L’idolo simbolo del culto è il
pavone d’ottone. I maomettani, che odiano gli adoratori di questo demone,
dicono che Melek è l’essenza di tutto il male dell’universo, il Principe delle
Tenebre, Arimane, l’antico Serpente, insomma Satana. E tu dici che Grimlan
nomina questo mitico demonio suo erede nel testamento?
— È così — rispose Conrad con la gola secca. — E guarda, ha
scarabocchiato una strana frase in un angolo della pergamena: “Non
scavatemi la fossa; non ne avrò bisogno”.
Sentii di nuovo un brivido gelido corrermi lungo la schiena.
— In nome di Dio, sbrighiamoci a portare a termine quest’incombenza
— gridai preso da una sorta di frenesia.
— Forse bere qualcosa ci aiuterebbe — replicò Conrad, umettandosi le
labbra. — Mi pare di avere visto Grimlan prendere il vino da questa
credenza. — Si chinò sullo sportello di un mobile di mogano finemente
intarsiato e lo aprì con qualche difficoltà.
— Niente vino — disse deluso — e se avevo bisogno di stimolanti non...
Ma che cos’è questo?
Tirò fuori un rotolo di pergamena impolverato, ingiallito e parzialmente
coperto di ragnatele. In quella casa tetra, ai miei sensi e ai miei nervi eccitati
tutto appariva carico di significati e allusioni reconditi, e mi protesi in avanti
per guardare, mentre Conrad srotolava il documento.
— È un almanacco nobiliare — disse — un registro delle nascite, delle
morti e degli avvenimenti importanti che le antiche famiglie solevano tenere
nel sedicesimo secolo o anche prima.
— Qual è il nome? — chiesi.
Guardò con la fronte aggrottata le parole confuse, sbiadite e scritte con
grafia arcaica, cercando di decifrarle.
— G-r-y-m... ma sì, certo, Grymlann. È il registro della famiglia di John,
i Grymlann di Toad’s-heath Manor, nel Suffolk. Toad’s-heath, Brughiera
del Rospo: che strano nome per una tenuta. Guarda l’ultima voce.
Insieme leggemmo: “John Grymlann, nato il 10 marzo 1630” e insieme
lanciammo un grido. Sotto quella voce vi era una frase recente, scritta con
una curiosa grafia illeggibile: “Morto il 10 marzo 1930”. Seguiva un sigillo
di cera nera dalla forma singolare: un pavone che faceva la ruota.
Conrad mi fissò ammutolito e pallido come un lenzuolo. Io mi animai per
la rabbia generata dalla paura.
— È la burla di un pazzo — sbottai. — Ha curato così bene lo scenario
che gli attori hanno strafatto. Chiunque siano, hanno accumulato troppi
effetti incredibili, rendendoli inefficaci. È una stupidissima, banale
montatura.
Tuttavia, mentre parlavo, un sudore gelido mi imperlava il corpo e
tremavo come avessi la febbre. Senza dire una parola, Conrad prese una
grossa candela da un tavolo di mogano e si avviò verso la scala.
— Era sottinteso, credo, che sbrigassi questa macabra faccenda da solo,
ma non ne ho avuto il coraggio, e adesso sono lieto di non averlo avuto.

Un’aura immota di orrore gravava sulla casa silenziosa quando salimmo


le scale. Da qualche parte arrivò un venticello che fece frusciare le pesanti
tende di velluto, e mi immaginai dita ad artiglio spuntare furtive e rossi
occhi maligni fissarci. A un certo punto ebbi l’impressione di udire sopra le
nostre teste il pesante calpestio di piedi mostruosi, ma doveva essere il mio
cuore che batteva all’impazzata.
La scala dava su un ampio corridoio buio che la fievole fiamma della
nostra candela non riuscì a illuminare. La luce rischiarava solo le nostre
facce, rendendo ancor più nere, per contrasto, le ombre. Ci fermammo
davanti a una porta massiccia. Conrad trasse un respiro profondo, come per
farsi forza fisicamente e psicologicamente. D’istinto strinsi i pugni fino a
conficcarmi le unghie nei palmi; poi Conrad aprì la porta di colpo.
Si lasciò sfuggire un terribile grido e la candela gli cadde dalle dita flosce,
spegnendosi. Benché l’intera casa fosse stata buia quando eravamo entrati,
la biblioteca di John Grimlan era illuminata a giorno.
La luce proveniva dalle sette candele nere poste a intervalli regolari
intorno al grande tavolo di ebano. Sul tavolo, tra le candele... Avevo cercato
di prepararmi alla scena, ma adesso, davanti alla misteriosa illuminazione e
alla vista dell’essere steso sul tavolo, la forza che avevo raccolto mi venne a
mancare. Grimlan era stato brutto in vita, ma in morte era orrendo. Sì, era
orrendo anche se la faccia era pietosamente coperta dalla strana tunica di seta
che, ricamata con un arabesco simile a una figura d’uccello, gli copriva
l’intero corpo, eccetto le mani curve come artigli e i grinzosi piedi nudi.
Conrad emise un gemito soffocato. — Dio mio, che cos’è successo? —
sussurrò. — L’ho steso sul tavolo e vi ho posto intorno le candele, ma non
le ho accese né l’ho coperto con questa tunica. E quando sono uscito di qui,
il cadavere calzava ciabatte.
Di colpo si interruppe. Non eravamo soli nella camera ardente.
In un primo tempo non lo avevamo notato, perché sedeva in una poltrona
posta in un angolo lontano e sembrava quasi parte delle ombre proiettate
dalle pesanti tende. Quando lo vidi, fui scosso da un brivido violento e il
mio stomaco fu preda di una sensazione molto simile alla nausea. A colpirmi
per primi furono due vividi, obliqui occhi gialli che ci fissavano. Poi l’uomo
si alzò, fece un profondo inchino e ci accorgemmo che era un orientale. Ora,
quando cerco di richiamarlo alla memoria, non mi viene in mente nessuna
immagine precisa: ricordo solo quegli occhi penetranti e la stravagante
tunica gialla che indossava.
Restituimmo meccanicamente il saluto.
— Signori, vi domando scusa — disse con voce bassa e cortese. — Mi
sono preso la libertà di accendere le candele. Vogliamo procedere con
l’operazione che riguarda il nostro comune amico? — Indicò con un cenno
la muta sagoma sul tavolo.
Conrad annuì, incapace di parlare. Tutti e due pensammo che anche a
quell’uomo fosse stata consegnata una busta sigillata; ma come era potuto
venire lì così in fretta? Grimlan era morto da appena due ore e, a quanto ci
risultava, soltanto noi sapevamo della sua dipartita. Inoltre, come aveva fatto
l’orientale a entrare in una casa chiusa ermeticamente?
L’intera faccenda era del tutto assurda, grottesca. Non ci presentammo,
né chiedemmo allo sconosciuto come si chiamasse. Assunse il comando con
la massima naturalezza ed eravamo così attanagliati dall’orrore e dal senso di
irrealtà, che ci muovemmo storditi, obbedendo involontariamente alle
indicazioni dateci in tono basso e rispettoso.
Presi posto alla sinistra del tavolo, davanti a Conrad, che era dall’altra
parte della salma. L’orientale, con le braccia conserte e la testa inclinata,
stava a un capo del ripiano di ebano, e non mi parve strano che si fosse
messo lui lì anziché Conrad, il quale avrebbe letto lo scritto di Grimlan. Il
mio sguardo fu attratto dal ricamo di seta nera che l’uomo aveva sul petto
della tunica: era una figura curiosa, rassomigliante in parte a un pavone, in
parte a un pipistrello o un drago volante. Trasalii notando che era lo stesso
disegno della tunica del cadavere.

Le porte erano chiuse a chiave, le finestre sprangate. Con mano tremante,


Conrad aprì la busta interna e tirò fuori i fogli di pergamena che conteneva.
Pareva carta molto più vecchia di quella della busta grande con le istruzioni.
Cominciò a leggere con una voce monotona dall’effetto così ipnotico che a
volte mi pareva di vedere la luce delle candele sfuocarsi e la stanza e i suoi
occupanti vorticare in maniera strana e mostruosa, velata e distorta come in
un’allucinazione. Ciò che leggeva erano per lo più sciocchezze prive di
significato, eppure il suono delle parole e il loro stile arcaico mi riempivano
di un intollerabile orrore.
— “Al contratto in altro loco stipulato, io, John Grymlann, in siffatta
guisa giuro nel nome dell’Innominabile di attenermi. Onde per cui scrivo
presentemente con il sanguine le parole dettatemi in codesta fosca e silente
camera della morta città di Koth, cui nessun uomo all’infuori di me mai
addivenne. Queste parole io al dì d’oggi scrivo acciocché siano lette sovra il
mio corpo a tempo debito, e acciocché io assolva la mia parte di contratto, il
quale strinsi consapevole di mia volontà e senza costrizione alcuna,
trovandomi nella disposizione giusta all’etade di cinquant’anni in codesto
anno 1680 d.C. Ecco la formula magica. Pria che fosse l’uomo erano li
Antichi, e il lor signore già dimorava infra le ombre alle quali l’uomo non
puote accedere senza rischio di non recedere più.”
Le parole degenerarono poi in un gergo barbaro che Conrad si sforzò di
leggere. Era una lingua arcaica che ricordava vagamente il fenicio, ma che
più di qualsiasi altra lingua della terra trasudava oscena antichità. Una
candela tremolò e si spense. Feci per riaccenderla, ma l’orientale mi dissuase
con un gesto silenzioso. Mi lanciò un’occhiata fiammeggiante, poi tornò a
concentrarsi sulla figura immobile sul tavolo.
Il manoscritto era tornato nella nostra lingua arcaica.
— “Il mortale che pervenga alle nere cittadelle di Koth e parli con il
Signore Oscuro dal volto nascosto, per un prezzo puote conseguire quello di
che il suo cuore desia: ricchezza e cognoscenza immensurabili e fino a
duecentocinquant’anni di vita, ben oltre l’arco de’ la natura.”
Ancora una volta Conrad passò a leggere parole sconosciute e gutturali, e
un’altra candela si spense.
— “Il mortale non si sottragga quando giugne l’ora del pagamento e il
fuoco de l’inferno ghermisce l’essenza umana a cagione della resa dei conti.
Imperocché il Principe delle Tenebre prende ciò che gli spetta e guai a chi lo
inganna. È d’uopo mantenere la promessa fatta. Augantha ne shuba...”
Quando sentii quegli accenti barbarici, una gelida morsa di terrore mi
attanagliò la gola. Con frenesia guardai le candele e non mi stupii di vederne
un’altra spegnersi. Eppure nessuna corrente giustificava l’ondeggiare delle
pesanti tende nere. A Conrad tremò la voce; si passò una mano sulla gola
come se stesse per soffocare. L’orientale non mutava mai espressione.
— “Tra i figli degli uomini aleggiano in eterno ombre estranee. Gli
uomini scorgono l’orme de’ l’artigli, non già i piedi che le lasciano. Sopra le
loro anime atre ali si dispiegano. Non vi è che un unico Signore delle
Tenebre, sebbene gli uomini lo chiamino con svariati nomi come Satana,
Belzebù, Lucifero, Arimane, Melek Taus...”
Mi sentii avvolgere da una nebbia di orrore. Mi rendevo vagamente conto
che Conrad continuava a parlare in tono monocorde sia in inglese sia
nell’altra spaventosa lingua il cui atroce significato non osavo nemmeno
provare a immaginare. E con il cuore attanagliato da una folle paura vidi le
candele spegnersi a una a una. A ogni fiamma che moriva, le tenebre si
infittivano intorno a noi e il mio terrore aumentava. Non riuscivo né a
parlare né a muovermi; i miei occhi sbarrati fissavano con atroce intensità
l’unica candela rimasta. Il silenzioso orientale a capo della macabra tavola
faceva parte delle mie paure. Non si era mosso né aveva parlato, ma sotto le
palpebre semichiuse gli occhi gli brillavano di diabolico trionfo. Mi rendevo
conto che dietro l’apparenza impenetrabile si compiaceva orribilmente; ma
perché, perché?
Sapevo che nel momento in cui l’estinzione dell’ultima fiamma avesse
precipitato la stanza nella più completa oscurità, si sarebbe verificato
qualcosa di orrendo e abominevole. Conrad stava per finire. La sua voce
giunse al culmine in un crescendo incalzante.
— “Prossima è l’ora di pagare il prezzo. Volano i corvi e spiegano l’ali in
cielo i pipistrelli. Vi sono teschi tra le stelle. L’anima e il corpo furono
promessi ed è d’uopo il consegnarli, non novamente alla polvere, né agli
elementi da che nasce la vita...”
La candela tremolò leggermente. Aprii la bocca per urlare, ma mi uscì
solo un suono inarticolato. Cercai di fuggire, ma ero bloccato, incapace
anche solo di chiudere gli occhi.
— “L’abisso si spalanca e conviene estinguere il debito. La luce si
spegne, l’ombre si raccolgono. Non vi è altro bene che il male; non vi è altra
luce che la tenebra; non vi è altra speranza che la morte...”
Nella stanza risuonò un gemito rauco che pareva provenire dal cadavere
sul tavolo. La tunica che lo copriva fremette tutta.
— “Oh, ali nell’atra oscurità!”
Ebbi un violento sussulto: un debole fruscio risuonò nel buio ormai quasi
completo della stanza. Erano le tende nere che si muovevano? Pareva il
frullo di gigantesche ali.
— “Oh, occhi scarlatti nell’ombra! Quello che fu promesso, quello che fu
scritto con il sanguine si compia! La luce è inghiottita dalle tenebre! Ya...
Koth!”
L’ultima candela si spense all’improvviso e si udì un grido inumano,
terrificante, che però non proruppe né dalle mie labbra né da quelle di
Conrad. Fui sopraffatto dall’orrore come da un’ondata di ghiaccio nero;
nelle fitte tenebre sentii che lanciavo un urlo lacerante. Poi, con un turbine e
una raffica di vento, qualcosa attraversò la stanza, sollevando i tendaggi e
scaraventando rovinosamente in terra sedie e tavoli. Per un istante un odore
disgustoso ci ferì le narici e un’orrenda risata chioccia ci irrise nelle tenebre;
quindi il silenzio ci avvolse come un sudario.
In qualche modo, Conrad trovò una candela e la accese. Il fioco bagliore
ci rivelò una stanza in spaventoso disordine, le nostre facce spettrali e il
tavolo di ebano... vuoto. Porte e finestre erano sprangate come prima, ma
l’orientale se n’era andato, e così il cadavere di John Grimlan.
Urlando come anime dannate, spalancammo la porta e ci precipitammo
giù dalla scala buia, simile a un pozzo dove le tenebre ci ghermirono con
nere dita vischiose. Quando arrivammo quasi rotolando al corridoio del
piano di sotto, una luce livida fendette le tenebre e l’odore di legno in
fiamme ci riempì le narici.

Il portone dapprima non cedette al nostro assalto convulso, poi si aprì e


corremmo fuori alla luce delle stelle. Mentre ci precipitavamo giù dalla
collina, alle nostre spalle le fiamme divamparono alte, crepitando.
Guardando indietro, Conrad si fermò di botto, si girò e, agitando le braccia
come un pazzo, gridò: — Ha venduto anima e corpo a Melek Taus, cioè
Satana, duecentocinquant’anni fa. Questa era la notte della resa dei conti, e
guarda, Dio mio, guarda! Il Maligno ha reclamato ciò che era suo!
Guardai e inorridii. Le fiamme avevano avvolto l’intera casa con
inquietante rapidità e ora un inferno cremisi si stagliava contro il cielo nero.
Sopra quell’olocausto era sospesa una gigantesca ombra nera, simile a un
mostruoso pipistrello, e dai suoi scuri artigli penzolava floscia un’esile e
pallida forma umana. Mentre urlavamo di terrore, la figura scomparve e il
nostro sguardo attonito si posò sui muri cadenti e il tetto fumante della casa,
che crollò tra le fiamme con un boato da far tremare la terra.

1. In realtà, il monte Alamut è connesso alla setta degli assassini, non degli
yazidi. (NdT)
CANZONE DEL MENESTRELLO PAZZO

Io son del piede la spina, dell’occhio la sfocatura,


son il ladro di notte, il verme nella coltura,
il topo nel muro, il lebbroso che spia con livore,
lo spettro nell’atrio, araldo di odio e orrore.

Son la ruggine del mais e la fuliggine del grano,


irrido le cure dell’uomo tessendogli ragna alla mano.
Sono cancro, muffa e fungo, pericolo, morte e declino,
guazza di pioggia la notte, furia di sole al mattino.

Brucio con la siccità, nutro lo stagno fetente,


importo peste dal Sud e la lebbra da Oriente;
alla cicuta strappo il vino dai petali alieni,
ove dormon le serpi dell’upas raccolgo i veleni.

Nel grande Nord ho cercato magie di piombo ghiacciato,


in grigie perdute risaie da morti mongoli ho imparato.
Su pendici di cupo monte depredai cave tremende,
tra sabbie di deserto ho scavato tombe orrende.

Il sole non splende mai, né la luna brilla rossa,


ma dal Sud e dal Nord io giungo con morte ossa.
Vengo con fosche malie, atri canti, note austere,
ho razziato inferni nascosti e perdute lune nere.

Mai sovrano o sacerdote m’approvò con sguardo o parola,


né incrociai uomo o bestia sulla via che sangue cola.
Vidi ignoti abissi scarlatti, nere ali che volavano sul mare,
pozzi dove la follia imperversava, e abomini da tremare.

Sacrileghe tombe dove viscidi mostri sognavano,


nubi di rossa piuma in cui demoni non nati urlavano.
Ere morte al Tempo e terre allo Spazio perse,
un blasfemo Volto oscuro e serpi nel sangue immerse.

Il cuor nel petto di pietra, la mente raggelata,


solo sulla via tortuosa bevvi l’amara sorsata
di orrori, morti, malie, neri fiori e radici fatali,
e ora di mille inferni vi porto i frutti letali.
I FIGLI DELLA NOTTE

Ricordo che eravamo in sei nello studio di Conrad, bizzarramente arredato


con cimeli raccolti in tutto il mondo e lunghi scaffali di libri che andavano
dall’edizione Mandrake Press del Boccaccio a un Missale Romanum
stampato a Venezia nel 1740 e rilegato in tavolette di quercia chiuse da
borchie. Clemants e il professor Kirowan avevano appena iniziato
un’accanita discussione di argomento antropologico: il primo sosteneva che
la razza alpina fosse ben distinta dalle altre, mentre il secondo affermava che
derivava in realtà dal ceppo ariano ed era il probabile risultato di un
miscuglio tra razze meridionali o mediterranee e razza nordica.
— Come spieghi, allora, che la razza alpina sia brachicefala? I
mediterranei erano dolicocefali come gli ariani: com’è possibile che l’unione
tra due popoli dal cranio lungo abbia prodotto un tipo intermedio dal cranio
corto?
— Delle condizioni particolari potrebbero indurre un cambiamento in
una razza originariamente dolicocefala — replicò Kirowan. — Boaz ha per
esempio dimostrato che negli immigrati americani la conformazione del
cranio spesso si modifica nell’arco di una sola generazione, e Flinders Petrie
ha addotto prove che confermano come i lombardi siano passati dalla
dolicocefalia alla brachicefalia in pochi secoli.
— Ma che cosa avrebbe provocato le modifiche?
— Molto è ancora ignoto alla scienza e non conviene essere dogmatici —
rispose Kirowan. — Nessuno sa ancora perché nel distretto di Darling, in
Australia, gli individui di origine britannica o irlandese siano in genere
molto alti, tanto da essere chiamati “gli spilungoni”, né perché lo stesso
ceppo angloirlandese, una volta emigrato nel New England, tenda dopo
poche generazioni ad avere mascelle meno pronunciate. L’universo pullula
di fenomeni inspiegabili.
— E quindi, secondo la teoria di Machen, poco interessanti — rise
Taverel.
Conrad scosse la testa. — Sono in completo disaccordo con Machen.
L’inconoscibile mi affascina moltissimo.
— Il che indubbiamente spiega perché hai tutte quelle opere di
stregoneria e demonologia sugli scaffali — osservò Ketrick indicando le file
di libri.
Mi si permetta una parola su Ketrick. Eravamo tutti e sei della stessa
razza, ossia britannici o americani di ascendenza britannica; e con
“britannico” intendo tutti coloro che da sempre vivono nelle omonime isole.
Rappresentavamo vari ceppi di sangue inglese e celtico, i quali poi, alla fine,
sono pressoché identici. Ketrick, invece, mi era sempre parso un elemento
singolare, estraneo. Esteriormente era negli occhi che si notava la differenza.
Erano color ambra, quasi gialli, e leggermente obliqui. A volte, quando lo si
guardava da certe angolazioni, parevano quasi gli occhi di un cinese.
Anche altri avevano osservato quella caratteristica, così insolita in un
uomo di pura razza anglosassone. Si era evocato il solito mito delle
influenze prenatali e ricordo che il professor Hendrik Brooler aveva
osservato una volta che Ketrick rappresentava senza dubbio un atavismo,
una reversione a chissà quale lontano antenato di sangue mongolo; una
reversione peraltro assai bizzarra, giacché nessun suo familiare mostrava
tratti analoghi.
Ma Ketrick appartiene al ramo gallese dei Cetric del Sussex e del suo
lignaggio si può trovare testimonianza nel Libro dei Pari, dove è riportata
tutta la sua linea ancestrale, che risale ininterrotta all’epoca di Canuto I
d’Inghilterra. Non vi è traccia di commistioni mongole nella sua genealogia;
d’altronde come avrebbe potuto essercene nell’antica Inghilterra sassone?
Perché “Ketrick” è la versione moderna di “Cedric” e, benché tale ramo sia
fuggito nel Galles prima dell’invasione dei danesi, i suoi eredi maschi
sposarono sempre donne inglesi nelle marche di confine. Si tratta insomma
di un lignaggio incorrotto dei potenti Cetric del Sussex, sassoni quasi puri.
Quanto all’uomo in questione, il difetto degli occhi, se mai lo si può definire
tale, è la sua unica anomalia, a parte, ogni tanto, la pronuncia blesa della
esse. È un uomo molto intelligente e un interlocutore piacevole, anche se
mostra una certa scontrosità e un’indifferenza che si potrebbe giudicare
durezza se non servisse forse a mascherare una natura assai sensibile.
Riferendomi all’osservazione di Ketrick, dissi ridendo: — Conrad
insegue il mistero e il misticismo come altri inseguono l’avventura amorosa;
la sua libreria pullula di deliziosi incubi di ogni possibile specie.
Il padrone di casa annuì. — Troverete sugli scaffali molte pietanze
squisite: Machen, Poe, Blackwell, Maturin, e guardate qui, un piatto raro:
Orridi misteri, del marchese di Grosse, nell’edizione originale del
diciottesimo secolo.
Taverel esplorò con lo sguardo la biblioteca. — Vedo che con le opere di
stregoneria, vudù e magia nera rivaleggiano quelle di narrativa bizzarra.
— È vero: storici e cronisti sono spesso noiosi, mentre i narratori, per lo
meno i maestri, mai. I primi descrivono un sacrificio vudù in maniera così
tediosa da privarlo di tutta la sua carica fantastica e mostrarlo solo come un
orrendo omicidio. Ammetto che ben pochi narratori raggiungono i vertici
dell’orrore, perché scrivono in genere cose troppo concrete, troppo legate
alla forma e alla dimensione terrene, ma in racconti come La caduta della
casa degli Usher di Poe, Storia del sigillo nero di Machen e Il richiamo di
Cthulhu di Lovecraft, che sono a mio avviso tre capolavori dell’orrore, il
lettore è condotto in regni dell’immaginazione realmente oscuri e alieni.
“Ma guardate lì. Tra quell’incubo di Huysmans e Il castello di Otranto di
Walpole, è infilato Culti innominabili di von Junzt, un libro da non far
dormire la notte.”
— L’ho letto e sono convinto che l’autore sia folle — disse Taverel. —
Sembra il monologo di un pazzo: per un po’ von Junzt procede con
sorprendente chiarezza, poi di colpo si lascia andare a digressioni oscure e
sconnesse.
Conrad scosse la testa. — Non hai mai pensato che si esprima in quel
modo proprio perché è sano di mente? Forse non osa scrivere nero su
bianco tutto ciò che sa. Forse le sue vaghe ipotesi sono in realtà allusioni
oscure e misteriose, chiavi che egli fornisce alle persone avvertite per
risolvere un enigma.
— Sciocchezze — replicò Kirowan. — Non vorrai insinuare che i culti
terribili di cui parla sopravvivano ancora oggi, ammesso e non concesso che
siano esistiti al di fuori della mente tormentata di un poeta e filosofo pazzo?
— Non sarebbe stato l’unico a introdurre significati reconditi nei suoi
scritti — disse Conrad. — Se esamini le opere di alcuni grandi poeti, ci puoi
trovare dei doppi sensi. In passato gli uomini scoprirono per caso segreti
cosmici e diedero al mondo indicazioni su di essi in linguaggio criptico. Vi
ricordate l’accenno che von Junzt fa a “una città nel deserto”? Che cosa
pensate dei versi di Flecker:

Non passar oltre! Nei petrosi deserti la rosa ancor fiorisce ma non
ha rosso nei petali e nessun profumo ne fluisce.

“Gli uomini a volte scoprono per caso segreti cosmici, ma von Junzt ha
indagato a fondo su argomenti proibiti. È stato uno dei pochissimi, per
esempio, a leggere il Necronomicon nella traduzione greca originale.”
Taverel scrollò le spalle. Il professor Kirowan tirò furiose boccate dalla
pipa senza rispondere, perché anche lui, come Conrad, aveva studiato la
versione latina del Necronomicon e vi aveva rinvenuto cose che nemmeno
uno scienziato freddo e razionale avrebbe potuto spiegare o confutare.
— Bene — disse dopo qualche istante — anche ammettendo che in
passato siano esistite religioni incentrate sull’adorazione di dei orridi e
innominabili e di entità come Cthulhu, Yog Sothoth, Tsathoggua, Gol-
goroth e così via, non posso assolutamente credere che simili culti siano
sopravvissuti negli anfratti più bui del mondo odierno.
Con nostra sorpresa intervenne Clemants, un uomo alto, magro e così
riservato da poter essere definito taciturno. In gioventù si era talmente
dibattuto nelle strette della povertà da recarne i segni sul viso, più rugoso di
quanto l’età giustificasse. Come molti altri artisti, viveva una doppia vita
letteraria: scriveva romanzi di cappa e spada che gli garantivano un alto
reddito, mentre il suo ruolo editoriale nel “Cloven Hoof” gli permetteva di
dare piena espressione al proprio talento artistico. “The Cloven Hoof” era un
periodico di poesia il cui bizzarro contenuto aveva spesso destato lo
scandalizzato interesse dei critici conservatori.
— Ti ricordi che von Junzt menziona il cosiddetto culto di Bran? —
disse, riempiendo il fornello della pipa di un grossolano tabacco trinciato. —
Credo di averti sentito discuterne una volta con Taverel.
— Da quanto ho potuto arguire dalle sue allusioni, von Junzt include il
culto di Bran in quelli ancora esistenti, il che è assurdo — protestò Kirowan.
Clemants scosse la testa. — Quando, da ragazzo, studiavo in una certa
università, avevo per compagno di stanza un ragazzo povero e ambizioso
come me. Se vi dicessi il suo nome, vi stupireste molto. Benché fosse
l’erede di un antico casato scozzese di Galloway, appariva palese che non
fosse ariano.
“Come potrete comprendere, è una notizia strettamente riservata, ma il
mio compagno di stanza parlava nel sonno. Cominciai ad ascoltarlo e
collegai i discorsi frammentari che faceva. Origliando lo sentii parlare per la
prima volta dell’antico culto cui accenna von Junzt, di un re che governava
l’Impero Oscuro, epigono di un impero ancora più antico e tenebroso
risalente all’Età della Pietra, e di una grande, paurosa caverna dove
dimorava l’Uomo Oscuro, l’effigie di Bran Mak Morn, scolpita con grande
realismo da un maestro scultore mentre il grande re era ancora vivo, e che
era meta di pellegrinaggio per i fedeli, i quali si recavano a venerarla almeno
una volta nella vita. Sì, il culto sopravvive ancora oggi nei discendenti del
popolo di Bran: una corrente silenziosa e ignota continua a fluire verso il
grande oceano della vita, aspettando che la statua di pietra di re Bran,
animandosi all’improvviso, torni a respirare e muoversi, e uscendo dalla
grande grotta venga a ricostruire il perduto impero.”
— Qual era il popolo di quell’impero? — domandò Ketrick.
— I pitti, senza dubbio coloro che in seguito sarebbero stati definiti i
selvaggi pitti di Galloway — rispose Taverel. — Erano prevalentemente
celti: un misto di gaeli, cimbri, aborigeni e forse teutoni. Se abbiano preso il
nome dalla razza più antica o gliel’abbiano dato, non è ancora chiaro. Ma
quando von Junzt parla dei pitti, si riferisce specificamente al popolo di
sangue mediterraneo, statura bassa e carnagione scura che mangiava aglio e
che portò la civiltà neolitica nella Britannia. Di fatto, furono i primi
colonizzatori dell’isola e sono all’origine delle leggende che parlano di
folletti e spiriti della terra.
— Non sono d’accordo su quest’ultimo punto — disse Conrad. — Le
leggende attribuiscono a spiriti e folletti un aspetto deforme e inumano,
mentre i pitti non avevano niente che suscitasse orrore e repulsione nei
popoli ariani. Credo che i mediterranei siano stati preceduti da un tipo
mongolico molto in basso nella scala dell’evoluzione e che sia stato quello a
dare origine ai miti.
— Senz’altro — interloquì Kirowan — ma non penso che i mongoli
siano arrivati in Britannia prima dei pitti. Rinveniamo leggende di nani e
troll in tutta Europa e tendo a pensare che sia i mediterranei sia gli ariani si
siano portati dietro questi miti dal continente. Deve avere avuto un aspetto
ben poco umano, la razza mongolica primitiva.
— Se non altro, qui c’è una mazza di selce che un minatore ha rinvenuto
sulle colline del Galles e che mi ha regalato — disse Conrad. — Non si è
trovata ancora una valida spiegazione della sua esistenza. È evidente che non
è un comune arnese neolitico. Guardate quanto è piccola in confronto alla
maggior parte degli utensili dell’epoca: sembra quasi un giocattolo, eppure è
pesantissima e può indubbiamente vibrare un colpo mortale. Il manico l’ho
fabbricato io e vi stupireste di sapere quanto è stato difficile dargli una
forma e un assetto che corrispondessero alla testa.
Guardammo l’oggetto. Era ben fatto, levigato come altri arnesi del
neolitico che avevo visto, eppure, come aveva detto Conrad, stranamente
diverso. Le dimensioni ridotte in qualche modo inquietavano, perché per il
resto non sembrava affatto un giocattolo. Emanava un’aura sinistra, come
un pugnale sacrificale azteco. Conrad aveva fabbricato il manico di quercia
con rara abilità, e nel modellarlo in maniera che si adattasse alla testa era
riuscito a conferirgli la stessa apparenza innaturale della mazza. Aveva
perfino copiato la tecnica artigianale primitiva, fissando la testa alla fessura
del manico con cuoio greggio.
— Perbacco — esclamò Taverel, e con la mazza in mano mimò un goffo
colpo contro un avversario immaginario, rischiando quasi di spaccare un
costoso vaso della dinastia Shang. — Questo maglio ha un bilanciamento
molto strano; devo cambiare completamente assetto e cercare un diverso
equilibrio per maneggiarlo.
— Fammi vedere — disse Ketrick. Prese l’arnese e armeggiò con esso,
cercando di capire come si dovesse impugnarlo. Alla fine, irritato, lo sollevò
e fece per colpire con violenza uno scudo appeso al muro vicino al quale mi
trovavo; vidi la mazza infernale torcersi nella sua mano come un serpente
vivo e il suo braccio seguirla nella direzione sbagliata, poi udii un
angosciato grido di avvertimento e infine, quando il maglio mi percosse alla
testa, sprofondai nelle tenebre.

Pian piano ripresi conoscenza. Dapprima rimasi immerso in un torpore in


cui non vedevo niente e non sapevo né dov’ero né chi ero; poi mi resi
vagamente conto che ero vivo e che qualcosa mi premeva contro le costole;
infine la nebbia si dissipò e rinvenni del tutto.
Giacevo supino, per metà sotto alcuni arbusti, e la testa mi pulsava
furiosamente. A causa di una ferita alla testa, avevo i capelli incrostati di
sangue raggrumato. Ma quando mi guardai il corpo, coperto solo da un
perizoma di pelle di daino, e i piedi che calzavano sandali dello stesso
materiale, non vidi altre ferite. A premermi fastidiosamente contro le costole
era la mia ascia, sulla quale ero caduto.
Un orrendo balbettio mi giunse all’orecchio, riportandomi alla piena
coscienza. Somigliava vagamente a un linguaggio, ma non a quelli a cui
eravamo abituati noi uomini: pareva semmai il sibilo insistente di un
groviglio di grossi serpenti.
Mi guardai intorno e vidi che ero in una cupa foresta. La radura ai limiti
della quale mi trovavo era in ombra, sicché anche di giorno era buia. Sì, era
un’immensa selva oscura, una selva fredda, silenziosa e terribilmente
inquietante. Osservai la radura e vidi una carneficina.
Vi giacevano cinque uomini, o almeno i loro resti. Mentre scorgevo le
loro oscene mutilazioni, mi sentii nauseato fino in fondo all’anima. Intorno
ai cadaveri erano radunati gli... esseri. Erano di aspetto abbastanza umano,
anche se umani non mi parvero affatto. Bassi e tarchiati, avevano una grossa
testa sproporzionata rispetto al corpo scheletrico, i capelli accordellati e
arruffati, la faccia larga e squadrata, il naso camuso, occhi orribilmente
obliqui, una bocca sottile come una fessura e le orecchie a punta.
Indossavano come me pelli di animali, ma rifinite rozzamente. Erano armati
di piccoli archi con frecce dalla punta di selce, nonché di coltelli e mazze
anch’essi di selce. La lingua che parlavano era orribile come loro, un sibilo
da serpi che mi riempì di orrore e disgusto.
Oh, come li odiavo mentre giacevo lì; avevo il cervello accecato da una
furia terribile. D’un tratto ricordai. Ero andato a caccia con altri cinque
ragazzi del Popolo della Spada e ci eravamo addentrati parecchio nella cupa
foresta che la nostra gente di solito evitava. Stanchi di cacciare, ci eravamo
fermati a riposare; a me era toccato il primo turno di guardia, perché a
quell’epoca non era consigliabile dormire senza che qualcuno restasse di
sentinella. All’improvviso fui sopraffatto da vergogna e sprezzo: mi ero
addormentato e avevo così tradito i miei compagni, che mentre dormivano
erano stati sbudellati, mutilati, massacrati da creature malvagie che non
avevano mai osato affrontarli a viso aperto. Io, Aryara, avevo tradito la loro
fiducia.
Sì, ora rammentavo. Mi ero addormentato e nel bel mezzo di un sogno di
caccia mi erano esplose in testa fiamme e faville ed ero piombato nelle
tenebre profonde del sonno senza sogni. Ora pagavo il fio. Coloro che
erano giunti furtivi dal folto della foresta e mi avevano colpito, facendomi
svenire, non si erano preoccupati di mutilarmi. Credendomi morto, si erano
affrettati a compiere la loro macabra opera. Forse, per il momento, si erano
dimenticati di me. Ero seduto a una certa distanza dai miei compagni quando
era iniziato l’assalto, e appena ero stato aggredito ero caduto sotto alcuni
arbusti. Ma presto si sarebbero ricordati di me. Non sarei più andato a
caccia, non avrei più partecipato alle danze di caccia, amore e guerra, non
avrei più visto le capanne di canniccio del Popolo della Spada.
Ma non avevo alcuna voglia di tornare dalla mia gente. Avrebbe
significato raccontare, come un verme, una storia di infamia e vergogna.
Avrebbe significato udire le parole di disprezzo della mia tribù, vedere le
ragazze puntarmi l’indice contro ed esecrare il giovane che si era
addormentato durante il turno di guardia tradendo i compagni e
consegnandoli ai coltelli di quei malvagi.
Sentii le lacrime bruciarmi gli occhi e a poco a poco l’odio mi montò in
petto e nell’animo. Non avrei mai portato la spada simbolo del guerriero.
Non avrei mai trionfato su nemici degni di me, né sarei mai morto
gloriosamente per le frecce dei pitti o le asce del Popolo del Lupo o del
Popolo del Fiume. Sarei morto tra la schifosa plebaglia che, come un’orda
di topi, i pitti avevano da tempo sospinto verso tane nella foresta.
Fui preso da un’ira tremenda che mi asciugò le lacrime, facendo
divampare al loro posto il fuoco del furore. Se quelle serpi dovevano
rovinarmi, avrei almeno reso la mia rovina memorabile... ammesso che
bestie del genere fossero capaci di ricordare.
Muovendomi con cautela, cercai tastoni il manico dell’ascia e lo trovai;
quindi invocai Ilmarinen e balzai in piedi con scatto felino. Rapido come la
tigre fui in mezzo ai miei nemici e schiacciai un cranio come si schiaccia la
testa a un serpente. I miei nemici si lasciarono sfuggire un improvviso grido
di paura e in un attimo mi accerchiarono, vibrando colpi e fendenti. Un
coltello mi ferì al petto, ma non me ne curai. Mentre una nebbia rossa mi
tremolava davanti agli occhi, corpo e membra si muovevano in perfetta
sintonia con la mente guerriera. Ringhiando, menai furiosi fendenti da ogni
parte, come una tigre fra rettili. In un istante cedettero le armi e fuggirono,
lasciandomi tra i cadaveri di cinque o sei di quei nani. Ma non ero pago.
Inseguii il più alto di loro, all’apparenza il capo, la cui testa mi arrivava al
massimo alla spalla. Corse strillando lungo una sorta di pista come una
mostruosa lucertola e quando gli fui vicinissimo si infilò, come un serpente,
tra i cespugli. Ma ero troppo più rapido di lui e lo afferrai, ammazzandolo
nel più cruento dei modi.
Tra i cespugli vidi il sentiero che aveva tentato di raggiungere, un
viottolo tortuoso tra gli alberi, quasi troppo stretto per un uomo di statura e
corporatura normali. Tagliai la testa all’odioso nemico e, reggendo quella
con la sinistra e l’ascia insanguinata con la destra, mi incamminai lungo il
sentiero.
Mentre procedevo veloce e a ogni passo mi gocciolava a fianco il sangue
della giugulare del mio avversario, pensai a coloro che stavo inseguendo. Li
tenevamo in così poco conto che ci eravamo sentiti liberi di andare a caccia
in pieno giorno nella foresta da loro infestata. Non sapevamo che nome si
davano, perché nessuno della mia tribù aveva mai appreso l’orrido concerto
di sibili con cui comunicavano, ma noi li chiamavamo i Figli della Notte. In
effetti erano proprio creature notturne, perché strisciavano nel cuore dei cupi
boschi e in tane sotterranee, avventurandosi sulle colline solo quando coloro
che li avevano sgominati dormivano. Era di notte che compivano le loro
malvagie gesta: scoccavano veloci frecce dalla punta di selce per uccidere un
bovino o un uomo che vagava solitario, o magari rapivano un bambino
allontanatosi dal villaggio.
Ma non era solo per quello che li avevamo chiamati così; erano di fatto
esseri della notte e delle tenebre, che appartenevano all’antica, inquietante
ombra di ere trascorse. Creature dei tempi immemorabili, rappresentavano
un’epoca superata. Un tempo avevano invaso e dominato la regione, ma
erano stati costretti a nascondersi nei bui anfratti della foresta dai fieri pitti, il
popolo di bassa statura e pelle scura con cui adesso ci battevamo, e che li
odiava e disprezzava con non meno furia di noi.
D’aspetto i pitti erano diversi da noi, perché erano appunto bassi, bruni e
con occhi e pelle scuri, mentre noi eravamo alti, robusti, biondi e con gli
occhi azzurri. Però erano della stessa nostra pasta. I Figli della Notte, con il
loro corpo da nani deformi, la pelle gialla e la faccia orripilante, non ci
sembravano umani. Sì, erano rettili, parassiti.
Il cervello quasi mi scoppiava di rabbia al pensiero che nel sangue di quei
miserabili dovessi inzuppare l’ascia prima di morire. Puah, non vi è gloria
nell’uccidere serpenti o nel morire dei loro morsi. Tutta la furia e la
tremenda delusione che provavo si riversarono sugli oggetti del mio odio e,
con gli occhi di nuovo appannati da una nebbia rossa, giurai su tutti gli dei a
me noti che avrei compiuto un tal massacro, prima di morire, da lasciare un
orribile ricordo nella mente dei nani superstiti.
Il mio popolo non mi avrebbe onorato, perché disprezzava troppo i Figli
della Notte. Ma i rettili che avessi lasciato in vita mi avrebbero ricordato con
orrore. Così giurai, stringendo con furia la mia ascia di bronzo, che era
fissata con strisce di cuoio greggio al manico di quercia.
Udii, davanti a me, un lieve sibilo immondo e mi giunse dagli alberi un
odore disgustoso, umano e nel contempo subumano. Pochi attimi dopo
emersi dalla fitta oscurità in un’ampia radura. Non avevo mai visto un
villaggio dei Figli della Notte. C’erano diverse cupole di fango secco, con
basse porte sprofondate nel terreno: squallide dimore, per metà sopra e per
metà sotto terra. Sapevo dai discorsi degli antichi guerrieri che quelle
abitazioni erano collegate attraverso corridoi sotterranei, sicché l’intero
villaggio era come un formicaio o una rete di tane di serpi. Mi chiesi se non
vi fossero anche altri cunicoli che emergessero a parecchia distanza dai
villaggi.
Davanti alle cupole era radunato un folto gruppo di creature della notte
che sibilavano e biascicavano concitate.
Accelerai il passo e, quando uscii all’improvviso dalla boscaglia, agii con
la rapidità della mia razza. La plebaglia proruppe in esclamazioni di terrore
vedendo sbucare dalla foresta il vendicatore alto, insanguinato, con gli occhi
ardenti. Con un grido terribile, lanciai in mezzo ai nani la testa insanguinata
del loro capo e mi tuffai nel mucchio come una tigre ferita.
Adesso non avevano scampo. Certo, potevano fuggire nei loro tunnel,
ma li avrei inseguiti anche all’interno. Sapevano che dovevano uccidermi, e
mi si strinsero intorno in almeno un centinaio.
Non avevo nell’animo il miraggio della gloria, come lo avevo avuto
quando avevo combattuto con avversari degni, ma sentivo nel sangue
l’ancestrale furia guerriera della mia razza e nelle narici l’odore del sangue e
della distruzione.
Non so quanti ne uccisi. So solo che mi si affollarono intorno formando
una massa strisciante e violenta, simili a serpenti intorno a un lupo, e li
massacrai finché il filo dell’ascia non si curvò e l’arma non si trasformò in
un semplice randello; schiacciai crani, spaccai teste, fracassai ossa, sparsi
sangue e cervella in un unico sacrifico scarlatto a Ilmarinen, dio del Popolo
della Spada.
Mentre ero accecato da un taglio in mezzo agli occhi e sanguinavo da una
cinquantina di ferite, sentii un coltello di selce conficcarmisi nell’inguine e,
nel medesimo istante, una mazza spaccarmi il cuoio capelluto. Caddi in
ginocchio, ma mi rialzai barcollando e vidi tra la nebbia rossa che mi
offuscava lo sguardo una cerchia di creature dagli occhi obliqui scrutarmi
malevola. Come una tigre morente, mi avventai contro i mostri e le loro
facce si ridussero a una poltiglia cremisi.
Stavo barcollando, sopraffatto dalla furia dei miei stessi colpi, quando
una mano ad artiglio mi strinse la gola e qualcuno mi conficcò nelle costole
una lama di selce, rigirandola per farmi ancora più male. Caddi di nuovo
sotto una pioggia di colpi, ma l’uomo con il coltello si trovava sotto di me e
con la sinistra lo afferrai e gli spezzai il collo prima che fuggisse.
La vita mi stava abbandonando in fretta, e tra i sibili e gli ululati dei Figli
della Notte udivo la voce di Ilmarinen. Tuttavia, ancora, mi rialzai
caparbiamente in mezzo a un vero e proprio turbine di mazzate e colpi di
lancia. Non vedevo più i miei nemici, nemmeno tra la nebbia scarlatta, ma
sentivo i loro fendenti e sapevo che erano sempre più numerosi. Puntai i
piedi, strinsi forte il manico viscido dell’ascia con entrambe le mani e,
invocando ancora una volta Ilmarinen, sollevai l’arma e vibrai un ultimo,
tremendo colpo. Devo essere morto in piedi, perché non ebbi la sensazione
di cadere; mentre, in un estremo empito guerriero, mi rendevo conto di
uccidere e sentivo i crani spaccarsi sotto la mia ascia, le tenebre mi avvolsero
e precipitai nell’oblio.

All’improvviso rinvenni. Ero semisdraiato in una grande poltrona e


Conrad mi stava versando addosso dell’acqua. Avevo un gran mal di testa e
un rivolo di sangue quasi secco sul viso. Kirowan, Taverel e Clemants mi
circondavano con aria ansiosa, mentre Ketrick, davanti a me, aveva il
maglio ancora in mano e nel volto una preoccupazione che era smentita
dallo sguardo. Alla vista di quei maledetti occhi obliqui mi sentii sopraffare
da una rabbia furiosa.
— Ecco, ve l’avevo detto che sarebbe rinvenuto presto e che era solo una
scalfittura — stava dicendo Conrad. — Ha incassato colpi ben peggiori.
Bene, tutto a posto, vero, O’Donnel?
Lo spinsi da parte con la mano e con un sommesso ringhio di odio mi
lanciai contro Ketrick. Preso completamente alla sprovvista, lui non ebbe
modo di difendersi. Gli strinsi le mani intorno alla gola e piombammo
avvinghiati su un divano, che si sfondò. Gli altri, lanciando un grido di
stupore e orrore, corsero a separarci, o meglio a staccarmi dalla mia vittima,
che stava già strabuzzando gli occhi.
— Per amor del cielo, O’Donnel, che ti prende? — fece Conrad,
cercando di allontanarmi dalla mia preda. — Ketrick non intendeva colpirti.
Su, molla la presa, idiota.
Pieno di odio per quegli uomini che erano miei amici, uomini della mia
stessa tribù, imprecai contro di loro e la loro cecità mentre staccavano
finalmente le mie dita d’acciaio dalla gola di Ketrick. Questi si tirò su a
sedere tossendo e tastandosi i lividi blu che la mia mano gli aveva lasciato,
mentre io, sempre imprecando con veemenza, quasi tenevo testa ai quattro
che, tutti insieme, mi trattenevano.
— Stupidi! — urlai. — Lasciatemi andare, lasciatemi fare il mio dovere
di membro della tribù! Stupidi idioti! Non me ne importa niente del misero
colpo che mi ha assestato, lui e la sua gente me ne vibrarono ben altri in
passato! Ma non capite, imbecilli, che è segnato con il marchio della bestia,
il marchio dei serpenti che sterminammo secoli fa? Devo schiacciarlo, devo
calpestarlo, devo liberare la terra pura dalla sua razza maledetta che la lorda!
Così deliravo, dibattendomi.
Conrad sussurrò all’orecchio di Ketrick: — Esci, presto, è troppo
sconvolto, sta farneticando. Vattene.

Ora contemplo gli antichi colli sognanti, le alture e le fitte foreste di là da


esse, e medito. In qualche modo, il colpo datomi con l’antica mazza
maledetta mi ha riportato a un’altra era e a un’altra vita. Mentre ero Aryara
non ero consapevole di altre esistenze. Non era un sogno: era un frammento
vagante della realtà in cui io, John O’Donnel, un tempo ero vissuto e morto
e nella quale un colpo casuale mi aveva rigettato, di là dagli abissi del tempo
e dello spazio. Il tempo e i tempi sono solo ingranaggi a sé stanti che
procedono dimentichi l’uno dell’altro. Ogni tanto, oh, molto raramente!, le
rotelle si collegano, i pezzi del meccanismo per un attimo funzionano e
mostrano agli uomini deboli scorci di quanto si nasconde dietro il velo di
quella cecità quotidiana che chiamiamo realtà.
Io sono John O’Donnel ed ero Aryara, che sognava la gloria della
guerra, la gloria della caccia e la gloria del banchetto, e che morì in mezzo a
un mucchio insanguinato di sue vittime in un’era lontana. Ma in quale,
esattamente, e in quale luogo?
All’ultima domanda posso rispondere. Le montagne e i fiumi modificano
i contorni, i paesaggi cambiano, ma le colline basse mutano meno di tutto il
resto. Ora che le sto contemplando, le ricordo non solo con gli occhi di John
O’Donnel, ma anche con quelli di Aryara. Sono mutate pochissimo. Solo la
grande foresta si è ridotta e diradata, e in innumerevoli punti è scomparsa
del tutto. Ma fu qui, proprio su questi colli, che Aryara visse, combatté e
amò, e fu in quella foresta che morì. Kirowan si sbagliava. I piccoli, bruni,
fieri pitti non furono i primi uomini ad abitare le Isole Britanniche. Vi
furono altre creature prima di loro: i Figli della Notte. Leggende? Ebbene, i
Figli della Notte non ci erano sconosciuti quando approdammo nell’isola
che oggi è chiamata Gran Bretagna. Li avevamo già incontrati secoli e secoli
prima. Avevamo già leggende che parlavano di loro. Ma li trovammo in
Britannia. I pitti non li avevano sterminati del tutto.
Né, contrariamente a quanto si crede, i pitti ci avevano preceduto di molti
secoli. Li spingemmo noi quando giungemmo qui, al termine di una lunga
migrazione dall’Oriente. Io, Aryara, ho conosciuto vecchi che avevano
percorso le innumerevoli miglia di foresta e pianura di quella pista secolare
in braccio a donne bionde, e che da ragazzi avevano marciato nelle
avanguardie degli invasori.
Quanto all’epoca, non so dire quale fosse. Ma io, Aryara, ero
sicuramente ariano e il mio popolo era un popolo ariano, che partecipò a
una delle tante ignote, oscure migrazioni grazie alle quali si diffusero in tutto
il mondo tribù dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. I celti non furono i
primi ad arrivare nell’Europa occidentale. Io avevo lo stesso sangue e lo
stesso aspetto degli uomini che saccheggiarono Roma, ma il mio era un
ceppo assai più antico. Della lingua che parlavo non è rimasta alcuna eco
nella mente di John O’Donnel al risveglio dal sogno, ma so che la lingua di
Aryara stava al celtico antico come il celtico antico sta al gaelico moderno.
Ilmarinen! Ricordo il dio che invocavo, l’antichissimo dio fabbro che
lavorava i metalli, all’epoca il bronzo. Perché Ilmarinen era uno degli dei
fondamentali degli ariani, di quel gruppo ristretto da cui si originarono gli
altri, ed era chiamato Wieland e Vulcano nell’Età del Ferro. Ma per Aryara
era Ilmarinen.
Quanto ad Aryara, apparteneva a una delle molte tribù giunte in
successive migrazioni. Il Popolo della Spada non fu l’unico a venire in
Britannia. Prima di noi arrivò il Popolo del Fiume, dopo di noi il Popolo del
Lupo. Ma erano anche loro ariani, alti, biondi e con gli occhi chiari. Li
combattemmo, perché le varie tribù ariane si sono sempre combattute tra
loro, come fecero gli achei con i dori e i celti con i germani; del resto, anche
gli elleni e i persiani, un tempo un’unica popolazione dello stesso ceppo, si
divisero in due popoli che presero due strade differenti e molti secoli dopo
si rincontrarono insanguinando tutta la Grecia e l’Asia Minore.
Ora capisco che di questo non ero cosciente nelle sembianze di Aryara.
Io, Aryara, non sapevo nulla dei ceppi e delle migrazioni della mia razza.
Sapevo soltanto che il mio era un popolo di conquistatori, che un secolo
prima i miei antenati avevano dimorato nelle grandi pianure d’oriente,
popolate da fiere genti dai capelli biondi e dagli occhi azzurri come me, e
che i miei antenati si erano spostati verso occidente nel corso di una grande
migrazione. Durante quella migrazione avevano incontrato tribù di altre
razze che avevano schiacciato e annientato, e si erano imbattuti in altri
popoli dai capelli biondi e dagli occhi azzurri, di più antica o più recente
migrazione, che avevano combattuto con selvaggia ferocia, secondo l’uso
assurdo e inveterato degli ariani. Questo sapeva Aryara, e io, John
O’Donnel, che so molto di più e molto di meno di lui, ho messo insieme le
conoscenze di questi due distinti io per giungere a conclusioni che
sbalordirebbero molti scienziati e storici famosi.
Tuttavia una cosa è nota: gli ariani declinarono appena si misero a
condurre una vita pacifica e sedentaria. Erano fatti per un’esistenza nomade;
quando cominciarono a cullarsi negli agi della vita agricola, prepararono la
strada al declino, e quando si rinchiusero dentro mura cittadine, firmarono la
propria condanna. Io, Aryara, ricordo i racconti degli anziani, secondo i
quali i Figli della Spada, durante la loro lunga migrazione, trovarono
villaggi abitati da gente bionda dalla pelle chiara che si era trasferita in
Occidente secoli prima, abbandonando la vita nomade per stabilirsi tra i
popoli bruni mangiatori d’aglio e sostentarsi con il lavoro della terra. I
vecchi raccontavano anche che quegli ariani erano deboli e debosciati e si
arresero subito alle armi di bronzo del Popolo della Spada.
Non ho forse riassunto in poche righe l’intera storia dei Figli di Ario?
Del resto, i persiani presto seguirono ai medi, i greci ai persiani, i romani ai
greci e i germani ai romani. Già, e i vichinghi succedettero alle tribù
germaniche ormai decadute dopo un secolo di pace e ozio, e sottrassero loro
il bottino raccolto nelle terre del Sud.
Ma veniamo a Ketrick. Ah, mi si rizzano i capelli in testa al solo
nominarlo. Un atavismo, sì. Una reversione alle generazioni passate, ma non
ai caratteri di un cinese o un mongolo puri di un’epoca recente. Dopo che i
danesi ebbero condotto i suoi antenati sulle colline del Galles, in quale
secolo medievale e in quale modo perverso la maledetta tara aborigena si
insinuò nel puro sangue sassone di quel ceppo celtico, per restarvi latente
tanto a lungo? Né i celti del Galles né i pitti si accoppiarono mai con i Figli
della Notte. Ma evidentemente vi furono dei sopravvissuti di quella razza
maledetta; alcuni di loro continuarono a nascondersi tra le fosche colline e
vissero più a lungo di quanto avrebbero dovuto. All’epoca di Aryara erano
subumani. Che cos’avrà fatto un migliaio d’anni di reversione al ceppo?
Quale orrido mostro si introdusse nel castello di Ketrick una lontana
notte? Quale ombra uscì dal crepuscolo per ghermire una donna di sangue
celtico che vagava per le colline?
La mente rifugge da simili immagini, ma una cosa è certa: sopravvissero
elementi dell’orrida epoca rettiliana quando i Ketrick si trasferirono nel
Galles, e forse sopravvivono ancora. Ma il bambino sostituito, il figlio
randagio delle tenebre, questo orrore che porta il nobile cognome di Ketrick,
ha il marchio del serpente, e finché non sarà distrutto io non avrò requie.
Ora che conosco la sua vera identità, so che inquina l’aria pura e lascia la
bava del serpente sulla terra verde. Il suono della sua esse blesa mi fa
inorridire e accapponare la pelle, e i suoi occhi a mandorla mi fanno uscire
di senno.
Provengo infatti da una stirpe regale ed esseri come lui rappresentano una
continua offesa e una continua minaccia, come una vipera sotto i piedi. La
mia è una razza sovrana, anche se adesso è sempre più debole e decaduta
per l’incessante commistione con le razze conquistate. Gli afflussi di sangue
straniero hanno tinto di nero i miei capelli e reso più scura la mia pelle, ma
ho ancora l’alta statura e gli occhi azzurri di un ariano regale.
Come i miei antenati, o meglio come io, Aryara, distrussi la feccia che si
contorceva sotto i miei tacchi, così io, John O’Donnel, ucciderò quel rettile,
il mostro che ha ereditato la tara trasmessa dai Figli della Notte e rimasta per
tanto tempo latente nel puro sangue sassone. Ucciderò le vestigia di rettile
che lordano ancora i Figli di Ario. Dicono che il colpo in testa mi abbia
offuscato la mente; può darsi, ma mi ha di certo aperto gli occhi. Il mio
nemico ancestrale passeggia spesso nella brughiera da solo, attratto, benché
forse lo ignori, da impulsi atavici. Durante una di quelle passeggiate gli
andrò incontro e gli spezzerò il lurido collo con le mani nude; glielo
spezzerò come io, Aryara, lo spezzai alle orride creature notturne secoli e
secoli fa.
Poi potranno pure rompere il collo a me sulla forca, se vorranno. Non
sono ottenebrato come i miei amici, e davanti agli occhi dell’antico dio
ariano, anche se forse non davanti a quelli miopi degli uomini, conserverò
integro l’onore della mia tribù.
MEDITAZIONI

I poeti piccini cantan temi piccini:


speranza, gioia e fede, regine e re burattini,
amanti che con un bacio sono una carne sola,
umili fior che ondeggiano al sole nell’aiuola.

I grandi poeti scrivono con le lacrime e il sangue


e l’angoscia che come fuoco arde e ti lascia esangue.
Allungan le folli mani nella notte nera
per sondare abissi morti all’umana sfera,

e traggono da baratri con la follia nel fondo


orrende forme d’incubo per distruggere il mondo.
LA PIETRA NERA

Par che maligni esseri ancestrali


ancor si annidino in cupi, obliati angoli del mondo
e che porte si apran, certe notti,
per liberare creature infernali.
JUSTIN GEOFFREY

Ne sentii parlare per la prima volta nello strano libro di von Junzt,
l’eccentrico tedesco che condusse una vita tanto stravagante e trovò una
morte tanto orrenda e misteriosa. Per un puro colpo di fortuna rinvenni il
s u o Culti innominabili nell’edizione originale, il cosiddetto Libro Nero
uscito a Düsseldorf nel 1839, poco prima che l’autore venisse fatalmente a
mancare. I bibliofili conoscono Culti innominabili soprattutto nella versione
dozzinale e lacunosa che fu pubblicata illecitamente a Londra da Bridewall
nel 1845, e nell’edizione abbondantemente censurata data alle stampe dalla
Golden Goblin Press di New York nel 1909. Ma il volume in cui mi
imbattei io era l’originale tedesco integrale, con spessa copertina di pelle e
borchie di ferro arrugginite. Credo che oggi non ne circolino più di cinque o
sei copie in tutto il mondo, perché la tiratura fu limitata e quando si seppe
com’era morto l’autore molte delle persone che possedevano il libro si
spaventarono e lo bruciarono.
Von Junzt dedicò l’intera vita (1795-1840) allo studio di argomenti
proibiti, viaggiando in tutto il mondo, entrando in innumerevoli società
segrete e leggendo nella lingua originale una gran quantità di libri e
manoscritti oscuri ed esoterici; e nei vari capitoli del Libro Nero, in cui
un’eccezionale chiarezza di esposizione si alterna a torbide ambiguità, vi
sono affermazioni e allusioni che fanno gelare il sangue a un uomo
razionale. Quando si legge quello che von Junzt osò dare alle stampe, viene
da chiedersi preoccupati che cosa non abbia osato dire. Di quali foschi
argomenti si parlava per esempio nelle dense pagine del manoscritto inedito
a cui lavorò febbrilmente per mesi prima di morire, e che erano strappate e
sparse sul pavimento della camera ermeticamente chiusa in cui fu trovato
morto con segni di artigli sulla gola? Non lo si saprà mai, perché il suo più
intimo amico, il francese Alexis Ladeau, dopo aver passato un’intera notte a
cercare di ricostruire e leggere il testo attraverso i frammenti, lo ridusse in
cenere e si sgozzò con un rasoio.
Ma, anche se si convenisse con la maggior parte della gente che si tratta
dei deliri di un pazzo, il contenuto del volume pubblicato sarebbe già
abbastanza terrificante. Tra le molte cose strane vi rinvenni accenni alla
Pietra Nera, il curioso, inquietante monolito che sorge tra le montagne
ungheresi e che ha dato origine a tante cupe leggende. Von Junzt non le
dedicò molto spazio, perché nella sua tenebrosa opera si concentrò
soprattutto su culti e oggetti di venerazione diabolici che affermava
esistessero ancora, mentre la Pietra Nera rappresentava, a quanto pare, un
ordine o un essere ormai dimenticato da secoli. Ma la definiva “una delle
chiavi”, un’espressione che usa spesso in varie circostanze e che costituisce
uno degli aspetti indecifrabili del suo lavoro. Accennò anche, brevemente, a
strane cose che si sarebbero viste intorno al monolito la notte di San
Giovanni. Menzionò la teoria di Otto Dostmann secondo la quale la pietra
sarebbe stata una delle vestigia dell’invasione unna, eretta per commemorare
una vittoria di Attila sui goti. Von Junzt confutava l’ipotesi, ma non forniva
dati concreti e si limitava a osservare che attribuire l’origine della Pietra
Nera agli unni era assurdo quanto supporre che Guglielmo il Conquistatore
avesse eretto Stonehenge.
Quei riferimenti a epoche molto antiche suscitarono il mio profondo
interesse, e con qualche difficoltà riuscii a procurarmi una copia ammuffita e
rosicchiata dai topi di Reperti di imperi perduti di Dostmann (Der
Drachenhaus, Berlino 1809). Rimasi deluso di scoprire che Dostmann
dedicava alla Pietra Nera ancor meno attenzione di von Junzt, liquidandola
in poche righe nelle quali la definiva un manufatto relativamente moderno in
confronto alle rovine grecoromane dell’Asia Minore, suo tema preferito.
Ammise di non essere riuscito a decifrare i caratteri semicancellati del
monolito, ma li giudicava con sicurezza mongolici. Benché Dostmann
dicesse poco, menzionava però il villaggio più vicino alla Pietra Nera:
Stregoicavar, un nome sinistro che significa qualcosa come “Paese delle
streghe”.
Non ottenni altre informazioni dall’attento esame di guide e articoli
sull’Ungheria: Stregoicavar, assente da tutte le carte geografiche che riuscii a
reperire, era situata in una regione poco frequentata, fuori dall’itinerario
anche dei turisti occasionali. Ma trovai materiale che mi fece riflettere in
Folclore magiaro , di Dornly. Nel capitolo Miti onirici, menziona la Pietra
Nera e accenna a una strana superstizione, ossia che chiunque dorma nelle
vicinanze del monolito avrà da allora in poi tremendi incubi. Riporta inoltre
i racconti dei contadini, secondo i quali le persone avventuratesi per
curiosità sul luogo la vigilia di San Giovanni sarebbero morte vaneggiando
di cose spaventose viste intorno alla pietra.
Solo questo riuscii a trovare nel libro di Dornly, ma il mio interesse si
accese ancor di più, giacché capivo che un’aura sinistra aleggiava intorno al
monolito. Sentir parlare dell’inquietante antichità e degli eventi anomali
verificatisi la vigilia di San Giovanni era per me come sentir scorrere un
oscuro fiume sotterraneo la notte, e i miei istinti latenti si ridestarono.
D’un tratto scorsi un collegamento tra la pietra e Il Popolo del Monolito,
una curiosa, stravagante poesia scritta dal poeta folle Justin Geoffrey.
Cercando informazioni, venni a sapere che Geoffrey l’aveva scritta durante
un suo soggiorno in Ungheria e non dubitavo che la Pietra Nera fosse
proprio il monolito cui si riferiva nei suoi versi bizzarri. Rileggendo le
strofe, avvertii di nuovo la strana, inspiegabile eccitazione che avevo
provato la prima volta in cui avevo letto della pietra.

Da tempo cercavo un posto in cui passare una breve vacanza, così decisi
di andare a Stregoicavar. Un vecchio treno mi portò da Temesvar alla città
più vicina alla meta e, dopo tre giorni a bordo di una carrozza sobbalzante,
giunsi al piccolo villaggio che sorgeva in una fertile valle circondata da
montagne coperte di abeti. Di per sé il viaggio si svolse senza incidenti, ma
il primo giorno passammo accanto all’antico campo di battaglia di
Schomvaal, dove il conte Boris Vladinoff, coraggioso cavaliere polacco-
ungarico, aveva opposto un’eroica ma inutile resistenza all’esercito
vittorioso di Solimano il Magnifico, il grande turco che invase l’Ungheria
nel 1526.
Il cocchiere indicò un cumulo di pietre sgretolate su un vicino colle e
disse che lì sotto riposavano le ossa del coraggioso conte. Mi ricordai di un
brano delle Guerre turche di Larson:

Dopo la schermaglia [in cui Vladinoff, con il suo piccolo esercito,


aveva respinto l’avanguardia turca] il conte stava dando ordini in
merito alla disposizione degli uomini sotto le mura fatiscenti
dell’antico castello in collina, quando un attendente gli portò un
astuccio laccato prelevato dal cadavere del famoso scriba e storico
turco Selim Bahadur, il quale era caduto in battaglia. Il conte prese
dall’astuccio un rotolo di pergamena e cominciò a leggere, ma
dopo poco divenne mortalmente pallido e, senza dire una parola,
rimise la pergamena nella scatola e infilò la scatola nel mantello. In
quell’istante una batteria turca nascosta aprì il fuoco
all’improvviso, le palle da cannone colpirono l’antico castello e gli
ungheresi guardarono inorriditi le mura crollare letteralmente
sopra il coraggioso conte, seppellendolo. Senza un comandante, il
piccolo, valoroso esercito fu sgominato, e negli anni di guerra che
seguirono le ossa del nobile non furono mai recuperate. Oggi la
gente del luogo afferma che sotto un enorme mucchio di rovine
cadenti, vicino a Schomvaal, riposano ancora i resti mortali del
conte.

Stregoicavar era un piccolo villaggio sognante e sonnolento che


all’apparenza non meritava il suo nome sinistro: sembrava solo un posto
sperduto e lontano, dimenticato dal progresso. Le strane case e gli ancor più
strani abiti e costumi degli abitanti erano quelli di un secolo prima. La gente
era cordiale e, per quanto vedesse molto di rado visitatori di altri paesi, era
solo moderatamente curiosa e non invadente.
— Dieci anni fa un altro americano venne qui e si trattenne da noi
qualche giorno — disse il proprietario della locanda dove presi alloggio. —
Era un giovane che si comportava in modo singolare, perché borbottava fra
sé. Credo fosse un poeta.
Doveva essere Justin Geoffrey, pensai.
— Sì, era un poeta e ha scritto una poesia su una località vicina a questo
villaggio — dissi.
— Davvero? — fece l’oste, interessato. — Se è vero che tutti i grandi
poeti dicono e fanno cose strane, lui deve avere ottenuto grande fama,
perché faceva e diceva le cose più strane del mondo.
— Come accade sempre agli artisti — replicai — gli onori gli sono stati
tributati quasi tutti dopo la morte.
— Allora è morto?
— È morto cinque anni fa, delirando in manicomio.
— Ma che peccato — sospirò dispiaciuto il locandiere. — Povero
ragazzo, aveva guardato troppo a lungo la Pietra Nera.
Mi sentii balzare il cuore in petto, ma mascherando il mio acceso interesse
dissi con indifferenza: — Ho sentito parlare di questo monolito. Si trova qui
vicino, vero?
— Più vicino di quanto un cristiano ritenga opportuno — rispose. —
Guardi. — Mi condusse a una finestra protetta da sbarre e indicò i fianchi
dei foschi monti azzurri coperti di abetaie. — Là, oltre quella roccia nuda e
scoscesa, si trova la pietra maledetta. Vorrei tanto che si riducesse in polvere
e che la polvere fosse gettata nel Danubio e trascinata negli abissi marini.
Una volta hanno provato a distruggerla, ma chiunque abbia cercato di
spaccarla col martello o la mazza, è finito male. Così adesso tutti la evitano.
— Che cos’ha di così malefico? — domandai incuriosito.
— È infestata dai demoni — rispose con un piccolo brivido di
turbamento. — Da piccolo conobbi un giovane che veniva dalla pianura e
rideva delle nostre credenze. Si avvicinò avventatamente alla pietra la notte
di San Giovanni e all’alba tornò al villaggio senza più parola né raziocinio.
Qualcosa gli aveva sconvolto la mente e cucito la bocca, perché fino al
giorno della morte, che arrivò presto, biascicò solo orribili bestemmie o
idiozie senza senso.
“Mio nipote, che da bambino si smarrì tra le montagne e dormì nei boschi
vicino alla pietra, adesso che è un uomo è tormentato dagli incubi; a volte
passa notti infernali, urlando e svegliandosi coperto di sudore freddo. Ma
parliamo d’altro, mein Herr: non è il caso di soffermarsi su simili
argomenti.”
Osservai che la locanda mi pareva molto antica e rispose tutto fiero: —
Le fondamenta hanno più di quattrocento anni. La casa originale fu l’unica
del villaggio a non essere rasa al suolo dalle fiamme quando i diavoli di
Solimano invasero questi monti. A quanto pare proprio qui, nell’abitazione
che sorgeva su queste stesse fondamenta, lo scriba Selim Bahadur aveva
stabilito il quartier generale da cui partiva per le sue scorrerie nei dintorni.
Appresi che gli abitanti di Stregoicavar non discendevano dalla
popolazione insediata nella zona prima dell’invasione turca del 1526.
Durante la loro incursione, i musulmani vittoriosi non avevano lasciato un
solo superstite nel villaggio e nell’intera regione. Avevano compiuto
un’orrenda carneficina, sterminando uomini, donne e bambini e lasciandosi
dietro una landa silenziosa completamente deserta. Gli attuali abitanti di
Stregoicavar discendevano dai gagliardi coloni delle vallate più basse, che
dopo la cacciata dei turchi erano saliti verso i monti e avevano ricostruito il
villaggio distrutto.
Il locandiere parlò dello sterminio degli antichi abitanti senza troppo
risentimento e seppi che i suoi antenati delle valli avevano nutrito per i
montanari ancor più odio e rancore dei turchi. Non chiarì bene i motivi della
faida, ma disse che gli abitanti originari di Stregoicavar solevano fare
improvvise incursioni a valle per rapire ragazze e bambini. Inoltre,
aggiunse, non appartenevano alla loro stessa razza: in essi il forte ceppo
originario magiaro-slavo si era mischiato, attraverso matrimoni misti, con
un’abietta razza aborigena, dando luogo a disgustosi mezzosangue. Non
aveva la più pallida idea di chi fossero gli aborigeni, ma si trattava, disse, di
“pagani” che avevano vissuto su quelle montagne per lungo tempo, prima
dell’arrivo dei popoli conquistatori.
Diedi scarso peso al racconto, vedendovi solo un parallelo con il
connubio tra tribù celtiche e aborigeni mediterranei che si era verificato sulle
colline di Galloway e che aveva dato origine alla razza mista dei pitti,
protagonista di tante leggende scozzesi. Il tempo ha il curioso effetto di far
confondere un folclore con l’altro: come le storie dei pitti si erano intrecciate
con quelle di popoli mongolici più antichi, sicché ai primi era stato attribuito
l’aspetto ripugnante di nani primitivi proprio dei secondi e le caratteristiche
peculiari di questi ultimi, confondendosi con la storia degli altri, erano state
dimenticate, così, pensai, i presunti attributi inumani degli abitanti originari
di Stregoicavar appartenevano con tutta probabilità a popolazioni più
antiche e dimenticate, come unni e mongoli invasori.

La mattina dopo il mio arrivo, il locandiere mi diede istruzioni con aria


preoccupata e mi diressi al sito della Pietra Nera. Dopo essermi arrampicato
per qualche ora su monti ammantati di abetaie, giunsi alla rupe nuda e
frastagliata che sorgeva ardita dalla pendice della montagna. Uno stretto
sentiero arrivava alla sua cima e, dopo averlo imboccato, contemplai la
tranquilla valle di Stregoicavar, che sonnecchiava sorvegliata ai lati dalle
grandi montagne azzurre. Tra la roccia su cui mi stavo inerpicando e il
villaggio non si vedevano né capanne né tracce di abitazioni umane. Scorsi
numerose fattorie isolate nella valle, ma erano tutte dall’altro lato di
Stregoicavar, che pareva volersi ritrarre dagli ampi pendii dietro i quali si
nascondeva la Pietra Nera.
Quando arrivai in cima, mi ritrovai in una sorta di altopiano ricoperto da
un fitto bosco. Percorsi un breve tratto fra gli alberi folti e giunsi a una vasta
radura al centro della quale sorgeva uno spoglio monolito di pietra nera.
Di forma ottagonale, era alto cinque metri e spesso mezzo. Un tempo
doveva essere stato perfettamente liscio, ma adesso la superficie era tutta
segnata: pareva fossero stati compiuti tremendi sforzi per abbatterlo, ma i
martelli avevano staccato solo piccole schegge e mutilato la spirale di
caratteri che in origine era stata indubbiamente incisa fino al vertice. Poiché
fino all’altezza di tre metri i geroglifici erano quasi completamente
cancellati, era assai difficile capire che direzione seguissero. Più in alto erano
ancora abbastanza chiari, sicché mi arrampicai per vederli a distanza
ravvicinata. I simboli erano quasi tutti cancellati, ma ero sicuro che non
appartenessero a nessuna delle lingue di cui si conservava testimonianza
sulla faccia della terra. Conosco abbastanza bene tutti i geroglifici noti ai
ricercatori e ai filologi, e posso dire senza tema di sbagliare che i caratteri
non somigliavano a nessuno di quelli di cui avevo letto o sentito parlare.
Ricordavano semmai i rozzi segni che avevo visto sulla roccia gigantesca e
stranamente simmetrica di una valle sperduta dello Yucatán. Rammento che
quando li avevo indicati all’archeologo con cui viaggiavo, lui aveva
osservato che erano erosioni dovute agli agenti atmosferici o graffi incisi a
casaccio da qualche indio. Quando avevo replicato che forse invece la roccia
rappresentava la base di una colonna da tempo sgretolatasi, si era messo a
ridere; date le dimensioni della “base”, aveva detto, la colonna, se costruita
secondo le normali regole della simmetria architettonica, avrebbe dovuto
essere alta trecento metri. Ma non mi aveva convinto.
Non voglio dire che i caratteri della Pietra Nera fossero simili a quelli
della rupe dello Yucatán; semplicemente, me li ricordavano. Anche la
materia di cui era fatto il monolito mi lasciava perplesso. La pietra era lucida
ma non troppo, e la superficie, là dove non vi erano né graffi né scalfitture,
dava una curiosa illusione di semitrasparenza.
Passai lì quasi tutta la mattina e tornai interdetto. Non riuscivo ad
associare il monolito ad alcun altro manufatto della terra. Era come se fosse
stato costruito da mani aliene in un’era lontana precedente l’uomo.
Tornai al villaggio senza avere soddisfatto la mia curiosità. Ora che avevo
visto il singolare monolito, provavo ancor più forte il desiderio di indagare
sulla sua origine e cercare di apprendere quali strane mani lo avessero eretto
tanto tempo prima, e a quale scopo recondito.
Cercai il nipote del locandiere e lo interrogai riguardo ai suoi incubi, ma
lui, pur mostrandosi compiacente, si mantenne nel vago. Non gli dispiaceva
parlarne, ma non riuscì a descriverli con chiarezza. Benché facesse spesso lo
stesso sogno e questo fosse orribilmente vivido, quando si svegliava non ne
aveva un ricordo netto. Rammentava solo che era un confuso incubo in cui
vedeva livide lingue di fiamma salire vorticose al cielo e udiva un tamburo
nero suonare incessantemente. Una sola cosa gli era chiara: in uno dei suoi
sogni la Pietra Nera non era sulla montagna, ma era la guglia di un colossale
castello nero.
Quanto agli altri abitanti, nessuno aveva voglia di parlare del monolito, a
parte il maestro elementare, un uomo di singolare cultura che conosceva il
mondo molto più dei suoi compaesani.
Dimostrò grande interesse per le osservazioni di von Junzt in merito alla
pietra e concordava in pieno con lo studioso tedesco riguardo alla sua
presunta età. A suo avviso, un tempo era esistita nella zona una congrega di
streghe e tutti gli abitanti originari del villaggio erano stati seguaci del culto
della fertilità che in passato aveva rischiato di indebolire la civiltà europea e
dato origine alle leggende della stregoneria. A sostegno della sua tesi portò il
nome stesso del paese, che non era sempre stato Stregoicavar; secondo
quanto si narrava, chi lo aveva costruito lo aveva chiamato Xuthltan, il
nome aborigeno della località in cui era stato fondato il villaggio molti secoli
prima.
Il discorso suscitò in me una grande inquietudine. Quel nome barbaro
non aveva alcun nesso con le lingue degli sciti, degli slavi o dei mongoli ai
cui ceppi gli aborigeni di quelle montagne avrebbero dovuto, di regola,
appartenere.
Senza dubbio, disse il maestro, i magiari e gli slavi delle valli più basse
erano convinti che gli abitanti originari del villaggio fossero adepti della
stregoneria, altrimenti non gli avrebbero dato quel nome, sopravvissuto
anche dopo che gli antichi coloni erano stati massacrati dai turchi e il
villaggio era stato ricostruito da una razza più pura e sana.
Non riteneva che i seguaci del culto avessero eretto il monolito, ma solo
che lo avessero usato come fulcro della loro attività. Basandosi su vaghe
leggende tramandate da prima dell’invasione turca, avanzò l’ipotesi che i
paesani degenerati lo avessero usato come altare per i sacrifici umani,
immolando le fanciulle e i bambini rapiti nelle valli più basse.
Sminuì l’importanza degli eventi bizzarri che si diceva accadessero la
vigilia di San Giovanni, e fece altrettanto con la curiosa leggenda che
parlava di una strana divinità invocata dalle streghe di Xuthltan con canti e
selvaggi riti di morte e flagellazione.
Non aveva mai visitato il sito della pietra la notte di San Giovanni, disse,
ma non avrebbe avuto paura di farlo; qualunque cosa fosse esistita o
accaduta in passato, da secoli era stata inghiottita dalle nebbie del tempo e
dell’oblio. La Pietra Nera non era più altro che una reliquia di un passato
morto e sepolto.

Una sera, mentre tornavo da una visita al maestro una settimana dopo il
mio arrivo a Stregoicavar, mi venne in mente all’improvviso che era la
vigilia di San Giovanni, la notte tra il 23 e il 24 giugno in cui, secondo la
leggenda, avvenivano strane cose connesse con la Pietra Nera. Volsi le
spalle alla locanda e attraversai in fretta il villaggio. Stregoicavar era
silenziosa; i suoi abitanti erano andati a letto presto. Non vidi nessuno
mentre mi allontanavo in fretta per addentrarmi tra gli abeti che, con il loro
frusciante manto scuro, coprivano i pendii. La grande luna argentea sospesa
sopra la valle inondava picchi e colli di una luce spettrale, esaltando i
contorni neri delle ombre. Tra gli abeti non soffiava il vento, ma aleggiava
un impercettibile, misterioso mormorio. Senza dubbio, mi dissi con la mia
fantasia eccitata, in analoghe notti dei secoli passati streghe nude a cavallo di
scope magiche erano volate sopra la valle inseguite da beffardi famuli.
Quando salii sulla roccia, mi inquietò un poco scoprire che il chiaro di
luna conferiva alle cime un’apparenza illusoria che non avevo notato prima:
parevano, in quella luce, non tanto formazioni naturali, quanto rovine di
spalti ciclopici eretti da titani, che sporgevano dal terreno ondulato.
Liberandomi con qualche difficoltà dalla visione allucinatoria, arrivai
all’altopiano ed esitai un istante prima di immergermi nelle minacciose
tenebre dei boschi. Incombeva sull’oscurità una sorda tensione, simile a un
mostro invisibile che trattenesse il fiato per non spaventare la preda.
Cercai di scrollarmi di dosso quella sensazione, in fondo comprensibile
se si considerava la stranezza del luogo e la sua cattiva fama, e mi addentrai
nel bosco, provando l’impressione molto sgradevole di essere seguito e
fermandomi a un certo punto per verificare se nel buio qualcosa di mobile e
viscido non mi avesse sfiorato il viso.
Giunto nella radura, vidi la sagoma del monolito levarsi alta e sottile
sopra la distesa erbosa. Al limitare del bosco, dal lato delle rocce, c’era una
pietra che pareva una sorta di sedile naturale. Vi sedetti, riflettendo che forse
proprio in quel luogo il poeta pazzo Justin Geoffrey aveva scritto la bizzarra
poesia Il Popolo del Monolito. Secondo il locandiere era stata la pietra a
farlo impazzire, ma il seme della follia si era insinuato in quella mente molto
prima che Geoffrey arrivasse a Stregoicavar.
Dando un’occhiata all’orologio mi accorsi che era quasi mezzanotte. Mi
appoggiai allo schienale di pietra, aspettando arcane visioni. Un venticello
notturno si levò tra i rami di abete, accompagnato da una strana melodia
sommessa, un concerto di invisibili cornamuse che riusciva sinistro e
malefico all’orecchio. La monotonia della musica e lo sguardo fisso sul
monolito mi procurarono una sorta di autoipnosi e presi a sonnecchiare.
Cercai di controllarmi, ma il sonno mi vinse. Il monolito parve ondeggiare e
danzare, curiosamente distorto; poi mi addormentai.

Quando aprii gli occhi e cercai di alzarmi, mi accorsi di giacere immobile,


come bloccato da una mano di ghiaccio che mi stringesse in una morsa. Ero
terrorizzato. La radura non era più deserta, ma popolata da una folla
silenziosa e ignota. Con gli occhi sbarrati osservai gli strani particolari di
indumenti barbarici che a ben riflettere erano fuori moda e arcaici perfino
per quella terra dimenticata da Dio. All’inizio pensai fossero paesani lì
convenuti per tenere una singolare riunione segreta, ma guardando meglio
capii che non era gente di Stregoicavar. Erano una razza più bassa e tozza,
con fronti anguste e facce larghe e ottuse. Alcuni avevano tratti da slavi o
magiari, ma inquinati da elementi più vili, come se si fossero mischiati con
una razza straniera inferiore la cui natura non riuscivo a identificare. Molti
indossavano pelli di animali selvaggi e tutti, sia uomini sia donne, avevano
un aspetto che tradiva una sensuale brutalità. Ero spaventato e disgustato,
ma non mi prestarono attenzione. Formarono un ampio semicerchio davanti
al monolito e intonarono un canto, alzando all’unisono le braccia e
dondolando ritmicamente il torso. Tenevano gli occhi fissi sul vertice della
pietra, che parevano invocare, ma lo strano era che avevano la voce fievole:
a meno di cinquanta metri da me si trovavano centinaia di uomini e donne
che levavano chiaramente la loro voce in un canto selvaggio, eppure mi
giungeva solo un mormorio debole e indistinto, che sembrava arrivare da
uno spazio, o forse da un tempo, molto lontano.
Davanti al monolito era posto un braciere dal quale si levava un’orribile,
nauseante spirale di fumo giallo, simile a un enorme serpente che guizzasse
intorno alla pietra.
A fianco del braciere giacevano due figure: una ragazza completamente
nuda, con le mani e i piedi legati, e un bambino di pochi mesi. Dall’altro lato
era accovacciata un’orrenda strega che teneva in grembo uno strano
tamburo e vi batteva sopra colpi lenti e leggeri; ma non udivo alcun suono.
Mentre i corpi cominciavano a dondolare a un ritmo sempre più rapido,
nello spazio tra la gente e il monolito comparve all’improvviso una giovane
donna nuda con occhi ardenti e lunghi capelli neri sciolti sulle spalle.
Girando su stessa a ritmo vertiginoso, attraversò la radura e cadde bocconi
davanti alla pietra, dove giacque immobile. Un istante dopo entrò in scena
un’incredibile figura d’uomo con un perizoma di pelle di capra e la faccia
completamente nascosta da una maschera, una testa di lupo che gli conferiva
un’aria da mostro, da terrificante creatura metà umana metà bestiale. In
mano teneva un mazzo di lunghi frustini ricavati da rami di abete e legati
dalla parte più grossa. Alla luce della luna gli brillava al collo una catena
d’oro massiccio da cui ne pendeva un’altra più sottile destinata a reggere un
ciondolo che tuttavia non c’era.
La gente alzava e abbassava le braccia con forza e raddoppiò le grida
quando il grottesco uomo-lupo attraversò a balzi e capriole la radura.
Avvicinatosi alla donna prona davanti al monolito, cominciò a colpirla con il
fascio di fruste e lei saltò e piroettò nella danza più selvaggia e incredibile
che abbia mai visto. Il torturatore danzava con lei al suo stesso folle ritmo,
accompagnando a ogni suo volteggio e giravolta i propri, senza mai
smettere di sferzarle il corpo nudo con gragnuole di frustate. A ogni colpo
urlava un’unica parola, cui tutta la gente faceva eco. Vedevo le labbra di
tutti aprirsi e chiudersi, e il distante mormorio delle voci si unì e si confuse
in un grido lontano ripetuto con estasi lasciva. Ma non riuscivo a decifrare la
parola.
I danzatori frenetici continuarono nelle loro vertiginose giravolte, e gli
spettatori, fermi nello stesso posto, seguivano il ritmo della danza con il
corpo e le braccia ondeggianti. Si leggeva una crescente follia negli occhi
della danzatrice nuda, e quella follia si rifletteva nello sguardo degli
spettatori. Mentre la vecchia con il tamburo ululava e suonava come una
pazza e i frustini schioccavano in un diabolico concerto, la danza frenetica
giunse al parossismo, diventando oscena e bestiale.
La danzatrice perdeva copioso sangue dalle ferite, ma non trovava nelle
frustate che un nuovo stimolo a dimenarsi lascivamente; a un certo punto si
tuffò nel fumo giallo, i cui sottili tentacoli si allungarono ad abbracciare sia
lei sia il suo torturatore, e si lasciò avvolgere dalla malefica nebbia come da
un velo. Poi, uscendo dalla nube per mostrarsi di nuovo alla platea, seguita
dappresso dall’uomo-lupo che la frustava, esplose in una folle,
indescrivibile girandola di volteggi, al culmine della quale cadde sull’erba
tremando e ansimando, come sopraffatta dallo sforzo. Mentre l’uomo
continuava a frustarla con implacabile violenza e intensità, strisciò sul ventre
verso il monolito. Il sacerdote, come lo battezzai in cuor mio, la seguì,
sferzandole il corpo indifeso con tutta la potenza dei suoi muscoli. La donna
continuò ad avanzare, lasciando una grossa scia di sangue sull’erba, e
quando ebbe raggiunto boccheggiando il freddo monolito, lo abbracciò e lo
coprì di baci furiosi e appassionati in una sorta di empia, spasmodica
adorazione.
Lo strano sacerdote spiccò un gran balzo in aria, gettando via le fruste
macchiate di sangue. I fedeli urlarono e, con la schiuma alla bocca, si
avventarono gli uni contro gli altri morsicandosi, graffiandosi, lacerandosi
gli abiti e la carne in preda a un istinto cieco e bestiale. Il sacerdote raccolse
con il lungo braccio il neonato piangente, poi, dopo aver gridato di nuovo il
Nome, lo sollevò e scaraventò contro il monolito, lasciando un orribile
grumo di sangue e cervella sulla sua superficie nera. Lo guardai inorridito
squarciare il corpicino con le brutali mani nude, lanciare manciate di sangue
contro la pietra e gettare il cadavere insanguinato e martoriato sul braciere.
Mentre il fuoco e il fumo si estinguevano con la pioggia di sangue, i bruti
che alle sue spalle assistevano alla scena urlarono ripetutamente il Nome,
quindi si prosternarono strisciando come serpenti, e il sacerdote spalancò le
braccia insanguinate come in segno di trionfo. Aprii la bocca per urlare tutto
il mio orrore e disgusto, ma mi uscì solo un suono rauco e inarticolato:
acquattata in cima al monolito c’era una creatura simile a un enorme,
mostruoso rospo.
Vidi un profilo gonfio, ripugnante, instabile stagliarsi contro il chiaro di
luna e, in un muso per altri versi di normale animale, due grandi occhi
ammiccanti esprimere la lussuria, l’avidità abissale, l’oscena crudeltà e
l’inaudita malvagità che avevano perseguitato i figli degli uomini fin da
quando i loro antenati ciechi e glabri erano vissuti come bruti sugli alberi. In
quegli occhi terribili si leggevano tutte le empietà e gli abietti segreti che
covano nelle città sommerse e rifuggono dalla luce diurna nelle oscure
caverne primordiali. Quell’essere orrendo, che il rito sacrilego di crudeltà,
sadismo e sangue aveva evocato dal silenzio delle colline, scrutava
ghignante i feroci adoratori prosternati davanti a lui in odiosa degradazione.
Il sacerdote dalla testa di lupo prese con le rozze mani la ragazza legata,
che si contorceva debolmente, e la offrì all’obbrobriosa creatura acquattata
sul monolito. Mentre il mostro pregustava l’offerta con sbavante libidine,
qualcosa mi si annebbiò nel cervello e per fortuna svenni.

Quando aprii gli occhi, vidi un’alba bianca e silenziosa. Mi tornarono


d’un tratto in mente tutti gli eventi della notte e, scattando in piedi, mi
guardai intorno meravigliato. Il monolito si ergeva muto, sottile e
inquietante sull’erba che, verde e intatta, ondeggiava nella brezza mattutina.
Con pochi, rapidi passi attraversai la radura: lì i danzatori avevano
volteggiato e piroettato, sicché le orme sarebbero dovute risultare evidenti in
terra; là la donna bruna era strisciata verso la pietra, lasciandosi dietro una
coda di sangue, ma non si vedeva nessuna macchia rossa sull’erba intonsa.
Guardai con un brivido il lato del monolito contro il quale il bestiale
sacerdote aveva scaraventato il bambino rapito fracassandogli la testa, ma
non notai tracce scure o orrendi grumi sulla sua superficie.
Un sogno! Era stato un terribile incubo, oppure... Scrollai le spalle. Che
sogno vivido, però.
Tornai in silenzio al villaggio, entrai nella locanda senza che mi notasse
nessuno e sedetti a riflettere sugli strani avvenimenti della notte. Ero sempre
più propenso a scartare l’ipotesi del sogno. Che quanto avevo visto fosse
illusorio e non avesse consistenza reale era chiaro, ma ero convinto di avere
contemplato l’immagine speculare di un avvenimento realmente accaduto in
tempi lontani. Come facevo, però, a provarlo? Come potevo dimostrare che
avevo visto una congrega di orridi spettri e non figure d’incubo partorite
dalla mia mente?
Quasi in risposta alla domanda, mi balenò in testa un nome: Selim
Bahadur. Secondo la leggenda, il soldato e scriba Bahadur aveva comandato
le truppe di Solimano che avevano distrutto Stregoicavar. La storia, a mio
avviso abbastanza credibile, diceva che dalla campagna devastata aveva
raggiunto il campo di battaglia insanguinato di Schomvaal, andando
incontro al proprio destino. All’improvviso balzai in piedi con un grido: il
manoscritto che era stato sottratto al turco, e leggendo il quale il conte Boris
era impallidito, non poteva descrivere quello che i turchi conquistatori
avevano trovato a Stregoicavar? Che cos’altro avrebbe potuto sconvolgere i
nervi d’acciaio dell’avventuriero polacco? Poiché le ossa del conte non
erano mai state recuperate, con tutta probabilità l’astuccio laccato, con il suo
contenuto misterioso, era ancora nascosto sotto le macerie che coprivano
Boris Vladinoff. Feci subito le valigie.
Tre giorni dopo mi trasferii in un piccolo villaggio a poche miglia dal
campo di battaglia, e quando si alzò la luna mi misi a scavare con alacre
frenesia tra il cumulo di pietre cadenti che coronava la collina. Fu una
faticaccia tremenda e, pur avendo lavorato ininterrottamente dalla sera alla
mattina, non riesco ancora oggi a capacitarmi di essere riuscito nell’impresa.
All’alba tolsi le ultime pietre e contemplai i resti mortali del conte Boris
Vladinoff: pochi, pietosi frammenti di ossa sbriciolate tra cui, così
schiacciato da avere perso la forma originaria, giaceva un astuccio cui solo
la superficie laccata aveva impedito di marcire del tutto nel corso dei secoli.
Lo afferrai con ansia furiosa, ricoprii le ossa con qualche pietra e corsi
via, perché non volevo che qualche contadino sospettoso mi giudicasse un
profanatore di tombe.
Una volta alla locanda, aprii l’astuccio e trovai la pergamena
relativamente intatta. Dentro c’era anche qualcos’altro, un oggetto piccolo e
tozzo avvolto nella seta. Ero ansioso di indagare i segreti delle pagine
ingiallite, ma la stanchezza me lo impedì. Da quando avevo lasciato
Stregoicavar non avevo praticamente dormito, e la terribile fatica della notte
precedente si coalizzò con il sonno, sopraffacendomi. Mio malgrado fui
costretto a sdraiarmi sul letto e non mi svegliai che al tramonto.
Consumai in fretta la cena, quindi, alla luce tremolante della candela, mi
misi a leggere i nitidi caratteri turchi della pergamena. Fu un’ardua impresa,
perché non sono molto versato in quella lingua e lo stile arcaico accresceva
le mie difficoltà. Ma mentre mi affannavo nell’opera di decifrazione,
cominciai a capire qui e là parole e frasi e mi sentii invadere da un crescente
orrore. Diedi fondo a tutte le mie energie e quando la narrazione assunse
una forma concreta e definitiva, il sangue mi si gelò nelle vene, i capelli mi
si rizzarono in testa e la lingua mi si incollò al palato. Tutto intorno a me
pareva partecipare della spaventevole follia di quel manoscritto infernale: nel
volo degli insetti e nel fruscio degli animali del bosco percepivo un
mormorio sinistro e un calpestio di diabolici, invisibili orrori, e nel sospiro
del vento notturno coglievo la ghignante, oscena risata con cui il male irride
le anime degli uomini.
Finalmente, quando la luce grigia dell’alba penetrò dalla grata della
finestra, deposi il manoscritto, raccolsi ciò che lo accompagnava e lo tolsi
dal suo involucro di seta. Fissandolo con occhi spiritati, capii che
dimostrava, se mai se ne fosse potuto dubitare, la veridicità del terribile
manoscritto.
Riposi i due immondi oggetti e non mi concessi sonno, riposo o pranzo
finché non ebbi legato delle pietre intorno all’astuccio e non lo ebbi gettato
tra le forti correnti del Danubio perché fosse ricondotto nell’inferno dal
quale proveniva.
Non era un sogno quello che avevo fatto la vigilia di San Giovanni sui
monti sopra Stregoicavar. Era un bene che Justin Geoffrey si fosse
trattenuto solo durante il giorno in quella località e poi se ne fosse andato
per la sua strada, perché se avesse visto con i suoi occhi l’oscena congrega,
la sua mente già fragile avrebbe ceduto ancor prima alla follia. Non so dirmi
come io sia riuscito a non perdere la ragione.
No, non era un sogno. Avevo contemplato un’orrida accolita di fedeli da
tempo defunti che erano risaliti dall’inferno per adorare, come in passato, la
loro divinità; spettri che si inchinavano a uno spettro, giacché l’inferno si era
portato via da un pezzo il loro dio. Per lungo, lunghissimo tempo il dio
aveva dimorato tra i monti. Folle relitto di un’era scomparsa, non ghermiva
più con gli osceni artigli le anime dei vivi e il suo regno era un regno morto,
popolato solo dai fantasmi di coloro che lo avevano servito quando era, ed
erano, in vita.
Non so per quale diabolica alchimia o empia magia si aprano le porte
dell’inferno la sinistra notte tra il 23 e il 24 giugno, ma i miei occhi videro
tutto. E so che non contemplai alcun essere vivente la vigilia di San
Giovanni, perché, nel suo minuzioso manoscritto, Selim Bahadur raccontava
per filo e per segno che cosa aveva trovato, con i suoi razziatori, nella valle
di Stregoicavar; lessi in dettaglio quali osceni orrori la tortura avesse
strappato alle labbra dei fedeli urlanti, e come in una recondita e buia
caverna sui monti i turchi avessero rinvenuto, inorriditi, una mostruosa
creatura simile a un grosso rospo sguazzante e l’avessero soppressa con il
fuoco, un’antica spada d’acciaio benedetta in origine da Maometto e
formule magiche che erano già antiche quando l’Arabia era giovane. Perfino
il vecchio Selim, con la sua mano salda, aveva tremato rievocando le urla
terrificanti, da far tremare la terra, che il mostro aveva lanciato in punto di
morte; una morte peraltro non solo sua, giacché diversi soldati turchi erano
periti con lui in modi che Bahadur non aveva voluto o potuto descrivere.
L’idolo tozzo, scolpito nell’oro e avvolto nella seta, rappresentava lui, e
Selim lo aveva strappato dalla catena d’oro che portava al collo il gran
sacerdote mascherato ucciso dai turchi.
Fu un bene che i turchi imperversassero per l’obbrobriosa valle con torce
e acciaio puro. Spettacoli come quelli a cui le cupe montagne dovettero
assistere appartengono alle tenebre e agli abissi di ere perdute. No, non è la
paura del mostruoso rospo a farmi rabbrividire, la notte. Solide catene,
all’inferno, legano lui e la sua orda nauseante, e come ho avuto modo di
vedere esso viene liberato solo per un’ora nella notte più arcana dell’anno.
Quanto ai suoi adoratori, non ne sopravvive nessuno.
A farmi venire i sudori freddi è la consapevolezza che simili realtà un
tempo si annidassero come bestie nell’anima umana, e ho paura di sbirciare
ancora tra le pagine terrificanti di von Junzt. Perché ora capisco la frase che
egli ripete a proposito delle chiavi. Sì, le chiavi della Porta Esterna, il legame
con un passato abominevole e, chissà, forse anche con sfere abominevoli del
presente. Capisco perché le rocce di Stregoicavar sembrino spalti alla luce
della luna e perché il nipote del locandiere abbia avuto incubi nei quali il
monolito gli appariva come la guglia di un ciclopico castello nero. Se un
giorno gli uomini scavassero tra quei monti, forse troverebbero cose
incredibili sotto le loro pendici apparentemente innocue. Perché la caverna
in cui i turchi intrappolarono il mostro non era in realtà una caverna, e
rabbrividisco al pensiero dell’immenso arco di tempo che separa la nostra
era da quella in cui la terra tremò, lasciando affiorare come onde le
montagne azzurre da cui vennero avvolte cose inimmaginabili. L’uomo non
cerchi mai di svellere l’orrida guglia chiamata Pietra Nera!
Una chiave! Sì, è una chiave, simbolo di un orrore dimenticato, un orrore
svanito nel limbo dal quale era emerso, in tutta la sua oscenità, nell’atra alba
della terra. Ma che dire delle altre diaboliche potenzialità cui accennava von
Junzt? Della mano mostruosa che gli strinse la gola, uccidendolo? Da
quando ho letto il manoscritto di Selim Bahadur, non dubito più di una sola
riga del Libro Nero. L’uomo non è sempre stato il padrone della terra... Ma
lo è, adesso?
Un pensiero mi assilla: se un’entità mostruosa come il Signore del
Monolito è sopravvissuta in qualche modo a un’epoca infinitamente lontana,
quali esseri inauditi potrebbero celarsi nei luoghi più oscuri della terra?
LA COSA SUL TETTO

Si muovon nell’oscurità
con passo d’elefante;
grande paura e ansietà
provo nel letto tremante.
Spiegan ali sterminate
sugli alti tetti a spiovente
che vibrano per falcate
di zoccolo travolgente.
JUSTIN GEOFFREY
Dall’antica terra

Inizierò col dire che mi stupii quando Tussmann mi venne a trovare. Non
eravamo mai stati amici intimi: il suo spirito mercenario mi disgustava e da
quando, tre anni prima, aveva tentato di screditare il mio Tracce di cultura
nahua nello Yucatán, frutto di anni di accurate ricerche, avevamo avuto
un’aspra controversia e i nostri rapporti non erano affatto cordiali. Tuttavia
lo ricevetti, notando che dietro i modi bruschi e spicci appariva distratto,
come se, in preda a una passione dominante, avesse accantonato l’antipatia
per me.
Mi disse subito il motivo della visita. Mi chiedeva di aiutarlo a procurarsi
la prima edizione dei Culti innominabili di von Junzt, quella chiamata Libro
Nero non per il suo colore, bensì per il suo tenebroso contenuto. Era come
domandarmi la traduzione greca originale del Necronomicon. Anche se, da
quando ero tornato dallo Yucatán, mi ero quasi interamente dedicato al mio
passatempo di bibliofilo, non mi risultava da nessuna fonte che esistessero
ancora copie dell’edizione di Düsseldorf del libro di von Junzt.
Due parole su quest’opera rara. L’estrema ambiguità di certi brani, unita
all’argomento alquanto eccentrico, ha indotto da tempo il pubblico a
considerarla un’accozzaglia di vaneggiamenti e ad affibbiare al suo autore
l’etichetta di pazzo. Resta il fatto che a gran parte delle tesi ivi avanzate non
è stata data risposta e che von Junzt passò tutti i quarantacinque anni della
sua vita a curiosare in strani luoghi e scoprire segreti tremendi. Della prima
edizione non furono tirate molte copie, e parecchie furono bruciate dai loro
spaventati possessori dopo che una sera del 1840, sei mesi dopo essere
tornato da un misterioso viaggio in Mongolia, von Junzt fu misteriosamente
strangolato nella sua camera sprangata dall’interno.
Cinque anni dopo un tipografo di Londra, un certo Bridewall, pubblicò
una dozzinale versione pirata a scopo commerciale, illustrata da grottesche
xilografie e zeppa di refusi, errori di traduzione e i tipici strafalcioni delle
edizioni dilettantesche a poco prezzo. Questo screditò ancora di più
l’originale, e editori e pubblico si dimenticarono del libro finché, nel 1909,
la Golden Goblin Press di New York non lo stampò di nuovo.
L’edizione americana era talmente censurata che un quarto dell’originale
appariva mancante, ma era ben rilegata e illustrata dalla bizzarra, raffinata
fantasia di Diego Vásquez. In teoria l’edizione si rivolgeva a un pubblico
popolare, ma in pratica il gusto estetico dell’editore aveva prevalso e i costi
alla fine si erano rivelati così alti che la Golden Goblin era stata costretta a
venderlo a un prezzo proibitivo.
Stavo spiegando questo a Tussmann, quando mi interruppe bruscamente
per dire che sapeva già tutto. Una copia dell’edizione Golden Goblin faceva
bella mostra di sé nella sua biblioteca e proprio in quella aveva trovato una
frase che aveva destato il suo interesse. Se fossi riuscito a procurargli
l’edizione originale del 1839, mi sarebbe stato molto grato; sapendo che non
sarebbe servito a niente offrirmi del denaro, disse, in cambio del mio
disturbo avrebbe ritrattato completamente le accuse da lui rivolte anni prima
alle mie ricerche sullo Yucatán e avrebbe pubblicato delle scuse ufficiali
sulle pagine di “Scientific News”.
Ammetto che rimasi sbalordito: capii che se la questione era così
importante da indurlo a farmi una simile concessione, doveva essere
davvero cruciale per lui. Risposi che ritenevo di avere rintuzzato a
sufficienza le sue critiche nel consesso internazionale degli studiosi e che
non desideravo umiliarlo, ma che avrei fatto tutto il possibile per procurargli
quello che voleva.
Mi ringraziò bruscamente e si congedò, spiegando in maniera abbastanza
vaga che sperava di trovare nel Libro Nero la descrizione completa di una
cosa epurata nell’edizione americana.

Mi misi all’opera, scrivendo lettere ad amici, colleghi e librai di tutto il


mondo, e presto scoprii che mi ero assunto un compito decisamente arduo.
Passarono tre mesi prima che i miei sforzi fossero coronati da successo, ma
alla fine, grazie all’aiuto del professor James Clement di Richmond, in
Virginia, riuscii a ottenere quello che volevo.
Informai Tussmann, che venne a Londra con il primo treno. Aveva gli
occhi che brillavano di bramosia e, dopo aver guardato il grosso volume
polveroso con la sua spessa copertina di pelle e le borchie di ferro
arrugginite, ne sfogliò le pagine ingiallite con mani tremanti di impazienza.
Quando lanciò un sonoro grido e picchiò un pugno sul tavolo, capii che
aveva trovato ciò che cercava.
— Ascolti — disse, e mi lesse il brano che parlava di un antichissimo
tempio nella giungla dell’Honduras dove una lontana tribù estintasi prima
dell’arrivo degli spagnoli aveva adorato uno strano dio. Lesse ad alta voce la
storia della mummia dell’ultimo gran sacerdote del popolo scomparso, che
adesso giaceva in una camera scavata nella roccia a ridosso della quale era
stato eretto il tempio. Intorno al collo avvizzito la mummia aveva una catena
di rame alla quale era legata una grande gemma rossa a forma di rospo. Il
gioiello, proseguiva von Junzt, era una chiave per accedere al tesoro del
tempio, nascosto in una cripta parecchi metri sotto l’altare.
— Ho visto quel tempio! — esclamò Tussmann con occhi sfavillanti. —
Sono stato davanti a quell’altare. Ho visto l’ingresso sigillato della camera in
cui, secondo gli indigeni, si trova la mummia del gran sacerdote. È un
tempio molto curioso: non somiglia alle rovine di un edificio preistorico
indio più di quanto somigli a un edificio sudamericano moderno. Gli indios
della zona affermano che la località non è per nulla connessa con la loro
storia e che i costruttori del tempio appartenevano a una razza diversa,
presente sul luogo da prima che i loro antenati giungessero in quel paese.
Credo siano i resti di una civiltà da tempo scomparsa, che cominciò a
decadere già migliaia di anni prima dell’arrivo degli spagnoli.
“Sarei voluto entrare nella stanza sigillata, ma non ne avevo né il tempo
né gli strumenti. Dovevo raggiungere in fretta la costa, perché ero stato
ferito accidentalmente da un colpo di pistola a un piede e mi ero imbattuto
per puro caso nel tempio.
“Mi ripromettevo di darvi un’altra occhiata, ma le circostanze mi hanno
impedito di farlo. Ora voglio tornarci e non mi lascerò fermare da nessun
ostacolo. Per caso ho letto un brano dell’edizione Golden Goblin di Culti
innominabili in cui era descritto il tempio. Ma non c’erano altri particolari: la
mummia era menzionata solo di sfuggita. Incuriosito, mi sono procurato una
copia dell’edizione inglese Bridewall, ma mi sono trovato davanti a una
montagna di strafalcioni tremendi. Per qualche irritante svista, il traduttore
aveva sbagliato perfino l’ubicazione del Tempio del Rospo, come lo chiama
von Junzt, collocandola in Guatemala anziché in Honduras. La descrizione
generale è lacunosa, ma si fa menzione della gemma e anche del fatto che si
tratti di una “chiave”, sebbene non venga detto di che cosa. A meno che von
Junzt non fosse, come sostenevano molti, pazzo, ritenevo di essere vicino a
una scoperta concreta. D’altronde è comprovato che sia stato realmente in
Honduras a un certo punto della vita, e nessuno avrebbe potuto descrivere
così vividamente il tempio, come fa lui nel Libro Nero, senza averlo visto di
persona. Come abbia saputo della gemma non sono assolutamente in grado
di dirlo. Gli indios che mi parlarono della mummia non accennarono ad
alcun gioiello. Posso solo supporre che von Junzt abbia trovato il modo di
accedere alla cripta sigillata; del resto, aveva l’arcana capacità di scoprire
segreti ben custoditi.
“A quanto ne so, solo un altro bianco, oltre a lui e a me, ha visto il
Tempio del Rospo: l’esploratore spagnolo Juan Gonzales, che viaggiò in
una parte del paese nel 1793. Gonzales accennò brevemente a un tempio
strano, diverso dalla maggior parte delle rovine indie, sotto il quale, secondo
la leggenda indigena che citava con scetticismo, vi sarebbe stato ‘qualcosa di
insolito’. Sono sicuro che si riferisse al Tempio del Rospo.
“Domani salperò per l’America Centrale. Tenga pure il libro: non mi
serve più. Stavolta sono ben preparato e, anche a costo di demolirlo, intendo
scoprire che cosa nasconde quel tempio. Non dubito si tratti di un forziere
pieno d’oro sfuggito in qualche modo all’attenzione degli spagnoli. Quando
arrivarono nell’America centrale, videro il tempio abbandonato; cercavano
indios vivi a cui strappare con la tortura notizie sull’oro disponibile, non
mummie di popoli perduti. Ma intendo assolutamente trovare il tesoro.”
Così dicendo, Tussmann si congedò da me. Mi sedetti, aprii il libro nel
punto in cui aveva smesso di leggere e non mi alzai prima di mezzanotte,
affascinato dai discorsi stravaganti, bizzarri e a volte estremamente oscuri di
von Junzt. Alcune cose relative al Tempio del Rospo mi inquietarono tanto
che la mattina dopo tentai di mettermi in contatto con Tussmann; ma era già
salpato.

Dopo diversi mesi, ricevetti da lui una lettera in cui mi chiedeva di andare
a trovarlo per qualche giorno nella sua tenuta del Sussex e di portarmi dietro
il Libro Nero.
Arrivai nella sua proprietà abbastanza isolata dopo il crepuscolo. Viveva
quasi come nel Medioevo: la grande dimora ricoperta d’edera e l’ampio
prato erano infatti circondati da alte mura di pietra. Quando imboccai il
sentiero fiancheggiato da siepi che dal cancello saliva verso la casa, notai
che la residenza non era stata tenuta bene durante l’assenza del padrone. Tra
gli alberi crescevano rigogliose le sterpaglie, quasi soffocando l’erba. Tra
alcuni cespugli incolti dalla parte del muro esterno, sentii il pesante calpestio
di un cavallo o un bue e distinsi il rumore degli zoccoli sulla pietra.
Un domestico mi accolse con sguardo sospettoso. Tussmann camminava
avanti e indietro per il suo studio come un leone in gabbia. Il corpo
imponente era più magro e forte di quando lo avevo visto l’ultima volta e
nel viso energico, abbronzato dal sole tropicale, le rughe apparivano più fitte
e gli occhi più ardenti che mai. Pareva covare sotto la cenere una collera
venata di stupore.
— Allora, Tussmann, ha avuto successo? — esordii. — Ha trovato l’oro?
— Non ne ho visto neanche un grammo — brontolò. — Era solo una
beffa; oddio, non del tutto, perché sono riuscito a penetrare nella stanza
sigillata e ho trovato la mummia...
— E la gemma? — chiesi.
Si frugò in tasca e mi allungò un oggetto.
Osservai incuriosito ciò che mi aveva porto. Era una grossa gemma,
limpida e trasparente come cristallo, ma di un sinistro colore rosso e, come
aveva dichiarato von Junzt, a forma di rospo. Senza volere provai un
brivido, perché l’immagine era particolarmente ripugnante. Rivolsi
l’attenzione alla catena, che era di rame pesante e lavorata in maniera strana.
— Che caratteri sono quelli incisi qui? — domandai.
— Non lo so — rispose. — Pensavo lo sapesse magari lei. Trovo che
somiglino vagamente a certi geroglifici semicancellati rinvenuti su un
monolito chiamato Pietra Nera, in una zona montuosa dell’Ungheria. Non
sono riuscito a decifrarli.
— Mi parli del suo viaggio — dissi, e mentre bevevamo whisky and soda
iniziò il racconto con strana riluttanza.
— Ho ritrovato il tempio senza difficoltà, anche se è situato in una
regione sperduta e poco frequentata. È stato costruito a ridosso di una ripida
rupe in una valle deserta che non è segnata sulle carte geografiche e non è
stata esplorata da nessuno. Non mi azzardo a valutarne l’età, ma è fatto di un
basalto durissimo, come non ne avevo mai visto, e i pesanti segni lasciati
dagli agenti atmosferici inducono a supporre che sia molto antico.
“Quasi tutte le colonne della facciata sono crollate, sicché sulle basi
consunte sono rimasti moncherini frastagliati che ricordano il ghigno
sdentato di una strega. Le mura esterne sono in rovina, mentre i muri interni
e le colonne che sostengono quel che resta del tetto sembrano così solidi da
poter durare altri mille anni.
“La sala principale è un ampio spazio circolare con il pavimento costituito
da grandi quadrati di pietra. Al centro c’è l’altare, un enorme blocco
rotondo su cui sono incisi strani geroglifici. Dietro questo, nella solida
roccia che funge da parete posteriore della camera, c’è l’ingresso della
nicchia sigillata in cui giace la mummia dell’ultimo sacerdote del tempio.
“Sono penetrato nella cripta senza troppa difficoltà e ho trovato la
mummia uguale a come è descritta nel Libro Nero. Benché fosse in
eccellente stato di conservazione, non sono riuscito a classificarla. Il viso
avvizzito e la conformazione del cranio fanno pensare a certe abiette razze
miste del Basso Egitto, e sono certo che il sacerdote apparteneva a una razza
più affine a quella bianca che a quella india. A parte questo, non posso dire
niente di sicuro. Ma la gemma c’era e la catena era avvolta intorno al collo
rinsecchito.”
Da quel punto in poi la cronaca si fece così confusa che ebbi qualche
difficoltà a seguire Tussmann e mi chiesi se il sole tropicale non gli avesse
sconvolto la mente. Disse di avere aperto con la gemma una porta segreta
nell’altare, ma non spiegò bene in che modo l’avesse fatto e pensai che
nemmeno lui avesse capito il funzionamento della chiave. L’apertura della
porta aveva però avuto un effetto negativo sugli incalliti mascalzoni al suo
servizio, i quali si erano rifiutati categoricamente di seguirlo nella nicchia
buia che si era misteriosamente dischiusa nel momento in cui lui aveva
appoggiato la gemma all’altare e l’aveva toccata.
Tussmann era entrato da solo, armato di pistola e di torcia elettrica, e
aveva scorto una stretta scala di pietra che portava nelle viscere della terra.
Aveva cominciato a scendere ed era arrivato a un ampio corridoio buio che
aveva quasi inghiottito il sottile raggio di luce. Mentre raccontava, accennò
con curioso fastidio a un rospo che, per tutto il tempo della sua permanenza
nel sottosuolo, gli aveva saltellato davanti, poco oltre il cerchio di luce della
torcia.
Procedendo lungo umidi cunicoli e scale simili a pozzi di solide tenebre,
era giunto infine a una porta dalle bizzarre sculture, che aveva compreso
essere la cripta in cui era nascosto l’oro dell’antica setta. Aveva premuto la
gemma contro vari punti della porta e alla fine questa si era aperta.
— E il tesoro? — domandai incuriosito.
Si mise a ridere, credo di se stesso.
— Non c’erano né oro né pietre preziose: niente — rispose esitante. —
Per lo meno niente che potessi portare con me.
Ancora una volta il racconto si fece confuso. Mi parve di capire che
avesse lasciato in fretta il tempio senza cercare oltre il tesoro di cui aveva
fantasticato. Avrebbe voluto prendere la mummia per donarla a qualche
museo, disse, ma quando era uscito dal sotterraneo non l’aveva più trovata.
Era convinto che i suoi uomini, per la paura superstiziosa di dover
sopportare un simile compagno di viaggio sulla via del ritorno, l’avessero
gettata in un pozzo o in una caverna.
— Così eccomi di nuovo qui in Inghilterra, non più ricco di quando sono
partito.
— Ha la gemma — gli ricordai. — Dev’essere preziosa.
Le lanciò uno sguardo in cui non si leggeva benevolenza, ma solo una
bramosia feroce, quasi ossessiva.
— Le pare un rubino? — domandò.
Scossi la testa. — Non sono in grado di dire che cos’è.
— Nemmeno io. Ma mi lasci consultare il libro.

Sfogliò lentamente le spesse pagine, muovendo le labbra mentre leggeva.


A volte scuoteva la testa come sconcertato e notai che si soffermava a lungo
su una particolare riga.
— Quest’uomo ha esplorato così a fondo reami proibiti, che non c’è da
stupirsi se è morto in maniera tanto strana e misteriosa — disse. — Deve
avere avuto un presentimento della fine, perché qui avverte gli uomini di
non disturbare le cose dormienti.
Rimase per qualche istante assorto nei suoi pensieri, poi mormorò: — Sì,
le cose dormienti, che paiono morte ma in realtà giacciono in attesa che
qualche sconsiderato imbecille le risvegli. Avrei dovuto finire di leggere le
pagine del Libro Nero e chiudere la porta alle mie spalle quando ho lasciato
la cripta... ma ho la chiave e la terrò a ogni costo.
Si ridestò dalle sue fantasticherie e stava per parlarmi, quando si fermò di
colpo. Dal piano di sopra arrivava uno strano suono.
— Che cos’è stato? — domandò, guardandomi torvo.
Scossi la testa. Corse alla porta e chiamò un servo, che entrò pochi attimi
dopo, pallido in viso.
— Eri al piano di sopra? — ringhiò Tussmann.
— Sì, signore.
— Hai udito niente? — domandò Tussmann in un tono aspro, quasi di
minaccia o di accusa.
— Sì, signore — rispose perplesso l’uomo.
— Che cosa?
— Ecco, signore — rise l’uomo in tono di scusa — temo che mi darà del
matto, ma a dir la verità ho sentito come il calpestio di un cavallo sul tetto...
Negli occhi di Tussmann si accese un lampo di autentica follia.
— Imbecille, fuori di qui! — urlò.
L’uomo si ritrasse sbigottito e Tussmann afferrò la luccicante gemma a
forma di rospo.
— Sono stato un idiota — sbottò. — Non ho letto tutte le pagine. Avrei
dovuto chiudere la porta della cripta, ma, Dio mio, la chiave l’ho in mano io
e la terrò a dispetto di tutti, uomini o diavoli che siano.
Con quelle strane parole, volse le spalle e corse al piano di sopra. Un
istante dopo la porta sbatté violentemente; a un domestico che bussò piano,
Tussmann ingiunse con una bestemmia di ritirarsi, minacciando con parole
tremende di sparare a chiunque avesse tentato di entrare nella stanza.
Se non fosse stato così tardi me ne sarei andato dalla villa, perché ero
sicuro che fosse completamente impazzito. Data l’ora, mi ritirai nella camera
dove mi accompagnò uno spaventato domestico, ma non andai a letto. Aprii
le pagine del Libro Nero nel punto in cui le aveva lette il padrone di casa.
Se Tussmann non era diventato completamente matto, si comportava così
perché aveva rinvenuto qualcosa di imprevisto nel Tempio del Rospo.
Qualcosa di innaturale nell’apertura della porta dell’altare aveva spaventato i
suoi uomini, e nella cripta Tussmann si era imbattuto in qualcosa che non si
aspettava. Ero convinto che dall’America centrale qualcuno lo avesse
seguito e che il motivo per cui lo aveva fatto fosse la gemma da lui chiamata
“chiave”.
Cercando qualche indizio nel volume di von Junzt, rilessi la storia del
Tempio del Rospo e dello strano popolo preindio che lì adorava un grosso
mostro ghignante dotato di tentacoli e zoccoli.
Tussmann si era rammaricato di non avere letto fino in fondo la sezione
quando aveva visto il libro per la prima volta. Ripensando perplesso a quella
frase criptica, trovai la riga su cui si era soffermato sottolineandola con
un’unghiata. Mi parve una delle tante asserzioni ambigue di von Junzt,
perché diceva soltanto che il dio di un tempio era il tesoro del tempio stesso.
Poi, all’improvviso, compresi il significato recondito della frase e la fronte
mi si imperlò di sudore freddo.
La chiave del tesoro! E il tesoro era il dio del tempio! Le cose dormienti
si sarebbero svegliate quando la porta della prigione fosse stata aperta...
Balzai in piedi, innervosito dall’intollerabile allusione, e proprio in quel
momento il silenzio fu rotto da uno schianto e un raccapricciante urlo
umano.
Mi precipitai fuori, e correndo al piano di sopra udii suoni così inusitati
che da allora ho continuato a chiedermi se non fossi impazzito. Sulla porta
della stanza di Tussmann mi fermai e cercai con mano tremante di girare la
maniglia. La porta era chiusa a chiave, e mentre esitavo sentii arrivare
dall’interno un ghigno acuto e orribile, seguito dal tonfo disgustoso di
qualcosa di molliccio, come se una grande massa gelatinosa fosse stata fatta
passare a forza dalla finestra. Poi il rumore cessò e mi parve di udire il lieve
fruscio di ali gigantesche. Seguì il silenzio.
Cercando di dominare i miei nervi scossi, abbattei la porta. Un fetore
immondo, tremendo, mi investì come una nebbia gialla. Boccheggiando in
preda alla nausea, entrai. La stanza era distrutta, ma non mancava niente,
eccetto la gemma rossa a forma di rospo che Tussmann chiamava la
“chiave”, e che non fu più trovata. Il davanzale era macchiato da un’orrida,
fetida mucillagine; al centro della stanza giaceva Tussmann con la testa
completamente schiacciata, e sui resti insanguinati del cranio e del viso si
scorgeva l’impronta netta di un enorme zoccolo.
L’ABITATORE DI VALLE FOSCA

Il vento soffiava tra i rami, le stelle emanavan disprezzo


quando nacqui in Valle Fosca della notte nel mezzo.
L’ostetrica sonnecchiava, una man la finestra forzò;
destatasi, vide qualcosa e prima di svenire urlò.

Di bianca lebbra fece i capelli e perse la favella,


ridendo intrecciava fiori in ghirlanda sempre novella.
Appen la mia lingua parlò e i piedini mossero un passo
la vidi morente sui colli, il sol all’orizzonte basso;

gli occhi tornati vivi, lanciò una tremenda avvertenza:


“Tu nato in Valle Fosca temi del suo Signor la potenza.”
Mentre a valle scendevo, cupi monti celaron la luce
e un calpestio di mostri udii nella tenebra truce.

Gli alberi s’avvinghiavan, edere m’irretivan il piede,


sentivo nell’ombra il cuore battermi senza mercede.
Maledetti gli antri bui ove risorgon antichi orrori
e mostri di ere perdute divorano anime e cuori.

Salii a guardare la luna, indi mi volsi tremante:


nell’ombra occhi infernali mi ardevano davante.
Sotto gli alberi maligni cadde un’Ombra d’Averno;
non tornerò in Valle Fosca, la Porta dell’Inferno.
L’ORRORE NEL TUMULO

Steve Brill non credeva ai fantasmi o ai demoni, mentre Juan López sì, ma
né la prudenza dell’uno né il solido scetticismo dell’altro li difese dall’orrore
che si trovarono di fronte e che gli uomini avevano dimenticato da oltre tre
secoli, un abominio urlante risorto per infausto caso da perdute ere
tenebrose.
Tuttavia, mentre quella sera meditava seduto sulla veranda leggermente
infossata, Brill non pensava certo ad arcane minacce, ma a ciò a cui può
pensare un uomo. Stava facendo riflessioni amare eppure concrete. Scrutò la
sua proprietà e imprecò. Era alto, longilineo e coriaceo come il cuoio dei
suoi stivali: un vero figlio dei gagliardi pionieri che avevano strappato il
selvaggio Texas al deserto. Era abbronzato e forte come un manzo
longhorn. Le gambe magre e gli stivali ai piedi riflettevano le sue abitudini e
i suoi istinti di cowboy, e si maledisse per essere sceso dalla turbolenta
groppa del suo spiritato mustang per darsi all’agricoltura. Non era un
contadino, ammise con una sequela di bestemmie.
Tuttavia l’insuccesso non era imputabile interamente a lui. Abbondanti
piogge invernali, abbastanza rare nel Texas occidentale, erano parse
promettere un buon raccolto, ma, come sempre, erano intervenuti ostacoli.
Una tardiva tempesta di neve aveva devastato tutti i frutti in boccio. Il grano,
che cresceva bene, era stato gravemente danneggiato da una serie di
terrificanti grandinate proprio nel momento in cui aveva cominciato a
imbiondire. Un periodo di forte siccità, seguito da un’altra grandinata, era
stato fatale per il mais.
Poi al cotone, uscito in qualche modo indenne dalle traversie, era toccato
soccombere a uno sciame di cavallette che aveva devastato il campo quasi da
un giorno all’altro. Così Brill adesso si ripeteva imprecando che non
avrebbe rinnovato il contratto di affitto, che per fortuna non era il
proprietario di quella terra su cui aveva sudato sette camicie, e che all’Ovest
c’erano ancora vaste praterie dove un giovane forte come lui poteva
guadagnarsi da vivere andando a cavallo e usando il lazo.
Mentre sedeva imbronciato, vide arrivare il suo vicino Juan López, un
vecchio messicano taciturno che viveva oltre il ruscello, in una capanna
sull’altro versante della collina, e che sbarcava il lunario faticosamente. Al
momento stava ripulendo una striscia di terra in una vicina tenuta e per
tornare a casa doveva attraversare un pezzetto di pascolo di Brill.
Brill lo guardò oziosamente superare il reticolato di filo spinato e
arrancare lungo il sentiero che si era aperto nell’erba secca. López lavorava
ormai da un mese alla ripulitura, abbattendo mesquite duri e nodosi e
portandone alla luce le radici lunghissime. Brill sapeva che faceva sempre la
stessa strada per tornare a casa e, guardandolo, notò che compiva una
deviazione per evitare una montagnola bassa e rotonda al centro del pascolo.
Il messicano girò alla larga dal tumulo e Brill si ricordò che faceva
invariabilmente così. Mentre rifletteva pigro, il cowboy si rammentò di un
altro particolare: López accelerava sempre il passo quando doveva superare
la montagnola e cercava di lasciarsela alle spalle prima del tramonto, anche
se di solito gli operai messicani, soprattutto quelli pagati a ettaro anziché a
giornata, lavoravano dall’alba all’ultimo bagliore del crepuscolo.
Incuriosito, Brill si alzò e, scendendo pigramente il leggero pendio in
cima al quale sorgeva la sua catapecchia, salutò il vecchio che si trascinava a
fatica.
— Ehi, López, aspetta un attimo.
L’uomo si fermò, si guardò intorno e, senza alcun entusiasmo, rimase ad
aspettare il bianco.
— Non sono affari miei, López, ma volevo chiederti perché giri sempre
alla larga dal tumulo indiano — disse Brill.
— No sabe — tagliò corto l’altro.
— Bugiardo — fece allegro Brill. — Lo sai benissimo: parli l’inglese
bene quanto me. Credi forse che quel tumulo sia infestato dai fantasmi, o
qualcosa del genere?
Per parte sua, parlava spagnolo e lo leggeva anche, ma come la maggior
parte degli anglosassoni preferiva di gran lunga esprimersi nella sua lingua.
López alzò le spalle.
— Non è un buon posto, no bueno — borbottò, evitando di guardare
l’altro negli occhi. — Bisogna lasciare stare le cose nascoste.
— Ho capito, hai paura dei fantasmi — lo canzonò Brill. — Bah, se è
davvero una tomba indiana, quegli indiani saranno morti da tanto tempo che
anche i loro fantasmi saranno ridotti in polvere.
Brill sapeva che i messicani analfabeti nutrivano un’avversione
superstiziosa per i tumuli sparsi qua e là nell’intero Sudovest, per quelle
vestigia di un’epoca passata e dimenticata che contenevano le ossa
polverizzate di capi e guerrieri di una razza da tempo scomparsa.
— Meglio non disturbare quel che è nascosto nella terra — brontolò
López.
— Sciocchezze — disse Brill. — Io e alcuni miei amici abbiamo scavato
in un tumulo nella zona di Palo Pinto e abbiamo tirato fuori delle ossa
insieme con perle, punte di freccia di selce e cose del genere. Ho conservato
per un pezzo alcuni denti finché non li ho smarriti, ma non sono stato
perseguitato da nessun fantasma.
— Indiani? — sbottò inaspettatamente López. — Chi ha parlato di
indiani? Non ci sono stati solo gli indiani in questo paese. In tempi lontani
successero cose strane, da queste parti. Ho sentito leggende del mio popolo,
tramandate di generazione in generazione, e il mio popolo è qui da molto
prima del suo, señor Brill.
— Sì, hai ragione — ammise Steve. — I primi bianchi in questo paese
furono gli spagnoli, naturalmente. Ho sentito dire che Coronado passò non
lontano da qui e che la spedizione di Hernando de Estrada attraversò proprio
questa regione, non so quanto tempo fa.
— Nel 1545 — disse López. — Si accampò là dove c’è adesso il recinto
del suo bestiame.
Brill si girò a guardare il corral, dove al momento c’erano solo il suo
pony da sella, un paio di cavalli da tiro e una mucca scheletrica.
— Come mai sei così informato? — domandò incuriosito.
— Uno dei miei antenati marciò con de Estrada — rispose il messicano.
— Era un soldato, Porfirio López. Raccontò a suo figlio della spedizione, il
figlio ne parlò al proprio e così via, finché la storia arrivò a me, che non ho
figli a cui raccontarla.
— Non sapevo che avessi antenati così importanti — disse Brill. — Forse
sai qualcosa dell’oro che si dice che de Estrada abbia nascosto qui da
qualche parte.
— Non c’era affatto oro — brontolò López. — I soldati di de Estrada,
che avevano solo le loro armi, avanzarono combattendo in un paese ostile e
spesso ci lasciarono la pelle. In seguito, molti anni dopo, la gente di una
carovana di muli proveniente da Santa Fe fu attaccata a poche miglia da qui
dai comanche e nascose l’oro prima di scappare; così le due leggende si
sono mischiate. Ma nemmeno quell’oro esiste più, in quanto dei gringo
cacciatori di bisonti lo trovarono e se lo portarono via.
Brill annuì distratto, senza realmente ascoltare. In nessuna parte del
continente nordamericano si narrano tante storie di tesori nascosti o perduti
come nel Sudovest. Ai vecchi tempi, quando la Spagna possedeva le miniere
d’oro e d’argento del Nuovo Mondo e controllava il ricco commercio di
pellicce dell’Ovest, erano passate avanti e indietro per le colline e le pianure
del Texas e del New Mexico incalcolabili ricchezze, echi delle quali si
coglievano ancora nelle leggende di tesori nascosti. Così nella mente di Brill
germogliò un sogno ozioso, nato dal suo fallimento di agricoltore e dalla
minaccia della povertà.
A voce alta disse: — Be’, intanto, siccome non ho altro da fare, credo che
scaverò in quel vecchio tumulo per vedere cosa trovo.
Quella semplice dichiarazione ebbe un effetto scioccante su López, che
fece un salto indietro. Il suo viso olivastro diventò terreo, e guardando
l’altro con i neri occhi fiammeggianti alzò le braccia in un gesto di protesta.
— Dios, no! — esclamò. — Non lo faccia, s eñ o r Brill, c’è una
maledizione! Mi ha detto mio nonno che...
— Cosa ti ha detto? — chiese Brill, mentre il messicano si interrompeva
di colpo.
Pentito, López tenne la bocca ostinatamente cucita. — Non posso parlare:
ho giurato di tacere — mormorò. — Potrei confidarmi solo con un figlio
primogenito, ma mi creda quando le dico che sarebbe meglio per lei tagliarsi
la gola che andare a frugare in quella maledetta tomba.
— Se è così pericoloso scavarci dentro, perché non me ne dici il motivo
razionale? — chiese Brill, insofferente delle superstizioni messicane.
— Non posso parlare — esclamò disperato López. — Io so, ma, come
ogni altro membro della mia famiglia, ho giurato sul santo crocifisso di
tacere. È una cosa così tremenda che si rischia la dannazione anche solo a
farne un accenno. Se glielo dicessi, l’anima le uscirebbe dal corpo per la
paura, ma siccome ho giurato e non ho figli, le mie labbra resteranno
sigillate per sempre.
— Allora perché non lo scrivi? — fece sarcastico Brill.
López trasalì, lo fissò e, stupendo Steve, accolse il suggerimento.
— Va bene — disse. — Grazie a Dios, il buon parroco mi ha insegnato a
scrivere quando ero bambino. Nel giuramento mi sono impegnato a non
parlarne, non a non scriverne. Affiderò alla carta il segreto, se mi promette
di non farne parola e di distruggere i fogli subito dopo averli letti.
— Certo — lo assecondò Brill, e il vecchio messicano parve molto
sollevato.
— Bueno, vado subito a scrivere. Domani, andando al lavoro, le porterò i
fogli e capirà perché nessuno deve aprire quella maledetta tomba.
López si affrettò lungo il sentiero di casa con le spalle che ondeggiavano
curve per lo sforzo dell’insolita corsa. Steve lo guardò, sorrise scrollando le
spalle, poi si girò per tornare alla sua catapecchia. Si fermò a contemplare il
tumulo basso e rotondo con i suoi fianchi ricoperti d’erba: doveva essere
per forza una tomba indiana, perché la simmetria e la struttura erano simili a
quelle di altre tombe indiane che aveva visto. Aggrottò la fronte, cercando di
capire il nesso che pareva esserci tra il misterioso tumulo e l’antenato
soldato di Juan López.
Tornò a guardare la figura sempre più lontana del messicano. Tra il
pascolo di Brill e il colle oltre il quale si trovava la capanna di López, c’era
una valle poco profonda attraversata da un ruscello quasi prosciugato e
fiancheggiato da alberi e cespugli. Mentre il vecchio scompariva tra gli
alberi della riva, Brill prese una decisione improvvisa.
Salì in fretta il pendio fino alla propria casa e prelevò piccone e badile dal
capanno degli attrezzi sul retro. Poiché il sole non era ancora calato, era
convinto di poter scavare abbastanza da capire alla luce della lanterna se la
tomba nascondeva qualcosa oppure no. Come la maggior parte degli uomini
della sua razza agiva soprattutto d’impulso, e il suo immediato desiderio era
di frugare nel misterioso tumulo per scoprire se celava qualcosa.
L’atteggiamento elusivo di López lo aveva stuzzicato inducendolo
nuovamente ad accarezzare l’idea del tesoro.
E se alla fine sotto quella montagnola di terra marrone ricoperta d’erba vi
fosse stato l’oro greggio di miniere perdute o un mucchio di monete
dell’antica Spagna? E se i moschettieri di de Estrada l’avessero eretta loro
stessi per nascondere un tesoro che non potevano trasportare lontano
dandole la forma di un tumulo indiano per ingannare i razziatori? Il vecchio
López era per caso al corrente dell’inganno? Brill non si sarebbe stupito se,
pur sapendo dell’esistenza del tesoro, il vecchio messicano non ne avesse
fatto parola. Vittima di paure superstiziose, forse aveva preferito tirare a
campare spaccandosi la schiena che rischiare di incappare nell’ira di
insidiosi spettri o demoni; i messicani, infatti, dicono che l’oro nascosto è
sempre maledetto, e senza dubbio qualcuno aveva lanciato una particolare
maledizione su quella tomba. Ebbene, pensò, i diavoli latino-indiani non
facevano paura agli anglosassoni, i quali erano semmai tormentati dai
demoni della siccità, della tempesta e del cattivo raccolto.
Si mise a lavorare con la furiosa energia della sua razza. Non era
un’impresa da poco: il suolo, inaridito dal sole torrido, era duro come ferro
e misto a pietre e sassi. Sudò sette camicie grugnendo per lo sforzo, ma
ormai era in preda al sacro fuoco del cercatore di tesori. Si asciugò il sudore
dagli occhi con la mano e picconò con veemenza, fendendo e sbriciolando il
terreno compatto.
Il sole calò e Brill, dimentico del tempo e dello spazio, continuò a
lavorare nel lungo crepuscolo sognante dell’estate. Cominciava a pensare
che il tumulo fosse davvero una tomba indiana, perché nel suolo trovò
tracce di carbone di legna. L’antico popolo che erigeva quel tipo di sepolcro
in una certa fase della costruzione vi faceva ardere per giorni il fuoco. In
tutti i tumuli in cui aveva scavato, Steve aveva trovato un solido strato di
carbone poco sotto la superficie. Ma le tracce che rinvenne lì erano sparse in
tutto il terreno.
Pur rendendosi presto conto che non c’era il tesoro degli spagnoli,
continuò a scavare. Non si poteva mai sapere. Forse lo strano popolo dei
costruttori di tumuli aveva ricchezze che soleva seppellire con i morti.
Proruppe in un’esclamazione di gioia quando il piccone colpì un pezzo di
metallo. Lo raccolse e lo guardò bene, aguzzando la vista nella luce sempre
più fioca. Era incrostato e corroso dalla ruggine, e così consunto da essere
divenuto sottile come carta, ma Steve sapeva che cos’era: una rotella di
sperone spagnolo dalle lunghe punte crudeli. Si fermò a riflettere,
sconcertato. Non erano stati gli spagnoli a erigere il tumulo, che era
inequivocabilmente opera delle popolazioni aborigene; come mai, allora,
quella reliquia dei caballeros era conficcata in profondità nel suolo?
Scosse la testa e si rimise all’opera. Sapeva che, se era davvero una
tomba aborigena, al centro del tumulo avrebbe trovato una stretta camera di
pietra massiccia, contenente le ossa del capo per cui era stato eretto il
monumento funebre e, sopra, quelle delle vittime sacrificate. Nelle tenebre
sempre più fitte sentì il piccone colpire con forza qualcosa che pareva
granito e non cedeva alla pressione. Guardando e tastando, vide che si
trattava di una solida lastra di pietra tagliata rozzamente: senza dubbio il tetto
della camera funebre. Era inutile cercare di spaccarla. Vibrò piccoli colpi
tutt’intorno, rimuovendo la terra e i sassi dagli angoli finché non ebbe
l’impressione che per estrarla bastasse conficcarvi sotto la punta del piccone
e fare leva.
D’un tratto si rese conto che era buio pesto. Alla luce della luna crescente
gli oggetti apparivano confusi e indistinti. Il mustang nitrì nel recinto, da
dove giungeva il quieto rumore che le stanche bestie facevano
sgranocchiando i chicchi di mais. Un caprimulgo lanciò il suo sinistro
richiamo tra le ombre cupe intorno al sinuoso ruscello. Brill si tirò su di
malavoglia: meglio prendere una lanterna prima di proseguire
l’esplorazione, si disse.
Si frugò in tasca con l’idea di estrarre la lastra ed esplorare la cavità con
l’aiuto dei fiammiferi, poi si irrigidì di colpo. Era la sua immaginazione o
aveva udito un lieve fruscio sinistro provenire da sotto la pietra? Serpenti!
Senza dubbio avevano la tana intorno alla base del tumulo. Potevano esserci
una dozzina di grossi crotali diamantini che, raggomitolati nella fossa simile
a una caverna, lo avrebbero morso appena li avesse toccati. Fu scosso da un
lieve brivido al pensiero e si allontanò dallo scavo.
Non aveva senso cercare a tastoni nella cavità. Poi si rese conto che già
da qualche minuto usciva cattivo odore dagli interstizi intorno alla lastra,
anche se bisognava ammettere che non era tipico di una tana di serpenti, ma
semmai di un ossario: il puzzo dei gas formatisi nella camera funebre e
nocivi agli esseri viventi.
Depose il piccone e tornò a casa, seccato del pur necessario indugio.
Entrando nell’atrio buio, accese un fiammifero e vide la lampada a
cherosene che pendeva dal suo chiodo nel muro. Scuotendola, fu lieto di
constatare che era quasi piena di combustibile, e la accese; poi tornò fuori,
troppo smanioso per fermarsi a mangiare un boccone. Come accade
inevitabilmente agli uomini fantasiosi, anche solo scavare nel tumulo lo
aveva elettrizzato e la scoperta dello sperone spagnolo aveva stuzzicato la
sua curiosità.
Si diresse allo scavo con la lanterna che gli dondolava in mano e gli
proiettava lunghe ombre deformi davanti e dietro. Rise pensando a come
avrebbe reagito López l’indomani, appena avesse saputo che la tomba
proibita era stata profanata. Aveva fatto benissimo a esplorarla quella sera
stessa, si disse; una volta informato, il messicano avrebbe potuto cercare di
mettergli i bastoni fra le ruote.
Nella quiete sognante della sera estiva, raggiunse il tumulo, alzò la
lanterna e imprecò, sbalordito: alla luce vide i suoi scavi, gli arnesi che
giacevano dove li aveva buttati e una grande voragine nera. La lastra che
bloccava la camera interna era finita ai piedi della montagnola, come fosse
stata buttata da parte. Con cautela, Brill tese il braccio che reggeva la
lanterna e scrutò nella piccola camera simile a una caverna, senza sapere
bene che cosa aspettarsi. Non vide nulla, salvo le nude pareti di pietra di una
cella lunga e stretta ma sufficiente a contenere il corpo di un uomo. Era
costruita con cubi di pietra tagliati rozzamente e incastrati con abilità.
— López! — esclamò furioso. — Quel lurido coyote! Mi ha guardato
scavare, e appena sono andato a prendere la lanterna è venuto qui, ha tolto la
lastra di chiusura e ha preso tutto quello che ha trovato. Brutta faccia da
messicano, lo sistemo io!
Spense con rabbia la lanterna, scrutò la valle ammantata di alberi e,
mentre lo faceva, si irrigidì. In un angolo della collina sull’altro versante
della quale sorgeva la capanna di López, si muoveva un’ombra. Sotto la
falce di luna calante la luce era scarsa e il gioco di ombre sconcertante. Ma
Steve, che aveva tante volte aguzzato la vista nel sole e nel vento del deserto,
vide distintamente un bipede scomparire di là dalla cima del colle ricoperto
di mesquite.
— Sta tornando alla sua capanna — ringhiò. — Ha trovato di sicuro
qualcosa, altrimenti non correrebbe così.
Deglutì a vuoto, chiedendosi perché avesse cominciato all’improvviso a
tremare. Che cosa c’era di strano nel fatto che un lurido messicano avesse
rubato qualcosa e fosse scappato a casa col bottino? Cercò di reprimere la
sensazione che la figura appena dileguatasi si muovesse in maniera strana,
con un passo strascicato e furtivo. Evidentemente il vecchio, tozzo Juan
López aveva una gran fretta se aveva deciso di camminare in quel modo
curioso.
— Qualunque cosa abbia trovato, è tanto mia quanto sua — sibilò Steve,
cercando di non pensare all’andatura anomala dell’ombra. — Ho io in
affitto questa terra e ho scavato io in questa tomba. Una maledizione, eh?
Certo, mi ha raccontato apposta quelle fandonie perché non toccassi la
tomba e la lasciassi tutta a lui. Mi stupisco che non abbia scavato già
parecchio tempo fa, ma non si sa mai cosa gli passi per la testa, ai dannati
messicani.
Mentre rifletteva così, scese giù dal pendio che conduceva al ruscello.
Penetrò tra le fitte ombre degli alberi e dell’intricato sottobosco e, mentre
attraversava il letto secco del torrente, notò distrattamente che né il
caprimulgo né la civetta lanciavano il loro richiamo nell’oscurità. Nelle
tenebre si coglieva un senso di tensione o attesa che non gli piacque. Le
ombre ai lati del ruscello erano troppo fitte, troppo opprimenti. Si pentì di
avere spento la lanterna che aveva ancora con sé e si rallegrò di essersi
portato dietro il piccone, che stringeva nella destra come un’ascia da guerra.
Fu tentato di fischiare per rompere il silenzio, poi, imprecando, lasciò
perdere. Tuttavia fu contento quando, superato il ruscello, risalì sull’argine
opposto ed emerse alla luce delle stelle.
Si arrampicò in cima alla collina e guardò, in basso, la radura di mesquite
dove sorgeva la squallida capanna di López. A una finestra brillava una
luce.
— Sta facendo le valigie e si prepara alla fuga — bofonchiò. — Ehi, ma
che cosa...
Vacillò come se fosse stato colpito fisicamente sentendo un urlo
terrificante fendere l’oscurità. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie con le
mani per non sentire quel grido spaventoso, che diventò acutissimo prima di
spegnersi in un gorgoglio osceno.
— Buon Dio — fece, coprendosi di sudore freddo. — López... o
qualcuno...
Pronunciando quelle parole, corse giù dalla collina con la maggior
rapidità consentitagli dalle lunghe gambe. Stava avvenendo qualcosa di
raccapricciante nella capanna solitaria, ma avrebbe scoperto cos’era anche se
avesse significato affrontare il diavolo in persona. In mano stringeva forte il
piccone. Pensando che forse delinquenti di passaggio avevano assassinato il
vecchio López per strappargli il bottino che aveva preso nella tomba, si
dimenticò della sua ira. Gliel’avrebbe fatta pagare, a chiunque avesse
sorpreso nell’atto di molestare quel vecchio, per quanto ladro.
Arrivò trafelato nella radura. In quel momento la luce alla finestra si
spense. Steve barcollò, andò a sbattere contro un mesquite e si punse le
mani. Con un gemito e una sommessa bestemmia, si allontanò dall’albero e
riprese la corsa verso la capanna; poi, con i capelli ancora ritti per quel che
aveva visto, si preparò a vedere di peggio.
Provò ad aprire la porta di ingresso e scoprì che era sprangata da dentro.
Chiamò ad alta voce López, ma non ricevette risposta. Tuttavia il silenzio
non era assoluto. Dall’interno arrivava uno strano suono, smorzato e
inquietante, che cessò appena Brill cominciò a vibrare colpi di piccone
contro l’uscio. Il legno sottile si spaccò subito e Steve, brandendo l’arma
improvvisata e preparandosi a un furioso assalto, irruppe nella stanza con gli
occhi fiammeggianti. Ma il silenzio adesso era cupo e totale e nell’oscurità
non si muoveva niente, anche se Brill, con la sua accesa fantasia, credette di
distinguere orride ombre negli angoli più bui.
Con la mano sudata trovò un fiammifero e lo accese. Oltre a lui, nella
capanna c’era soltanto il vecchio López, morto stecchito sul pavimento di
terra battuta, con le braccia aperte come un crocifisso, la bocca spalancata
come quella di un idiota e negli occhi sbarrati un’espressione di orrore che
Brill trovò insopportabile. L’unica finestra era aperta e mostrava in che
modo l’assassino era fuggito e forse anche entrato. Brill vi si avvicinò e
guardò fuori con cautela. Vide soltanto il pendio da un lato e la radura di
mesquite dall’altro. D’un tratto trasalì: qualcosa si era mosso tra le ombre
striminzite dei mesquite e gli arbusti del chaparral o si era solo immaginato
di vedere una figura indistinta procedere a lunghe falcate tra gli alberi?
Si girò, e proprio in quel momento il fiammifero si spense. Accese la
vecchia lanterna a cherosene sul tavolo di legno grezzo, imprecando per
essersi scottato le dita. Il globo della lampada era incandescente, come se
avesse bruciato per ore.
Di malavoglia si volse verso il cadavere in terra. Di qualunque cosa fosse
morto, il messicano aveva fatto una fine orribile, ma Brill, esaminandolo con
cautela, non vide né randellate né ferite d’arma da taglio. Tuttavia scoprì
poco dopo una macchiolina di sangue sulle dita e, cercando, ne trovò
l’origine: nella gola di López c’erano tre o quattro minuscoli fori da cui il
sangue era uscito lentamente. In un primo tempo pensò gli fossero stati
procurati con uno stiletto, un pugnale sottile con sezione triangolare e
manico rotondo. Aveva già visto ferite da stiletto, e anzi lui stesso ne aveva
riportata una di cui recava ancora la cicatrice. No, quelle minuscole ferite
sembravano più prodotte dal morso di un animale, come i segni lasciati da
denti aguzzi.
Tuttavia non gli parevano abbastanza profonde da rivelarsi letali, anche
perché non ne era uscito molto sangue. Nei meandri più oscuri del cervello
gli balenò l’idea orripilante che López fosse morto di paura e che le ferite
fossero state inflitte simultaneamente alla morte o un istante dopo.
Notò anche qualcos’altro: sparsi in terra vi erano diversi fogli di carta
sbiadita, scritti con la grafia elementare del vecchio messicano. Si ricordò
che López si era impegnato a spiegare per iscritto quale fosse la maledizione
del tumulo. I fogli, un mozzicone di matita sul pavimento e la lampada
incandescente erano tutti muti testimoni del fatto che il vecchio era rimasto
seduto al rozzo tavolo per ore. Quindi non era stato lui a togliere la lastra
che faceva da tetto alla tomba e a rubare il contenuto della camera funebre;
ma allora, si chiese Steve, chi era stato e chi o che cosa aveva visto
arrampicarsi sul fianco della collina?
Non c’era che una cosa da fare: sellare il mustang e percorrere le dieci
miglia che separavano la località da Coyote Wells, il paese più vicino, per
informare lo sceriffo del delitto.
Raccolse i fogli di carta. L’ultimo era accartocciato nel pugno del vecchio
e fece una certa fatica a prenderlo. Ebbe un attimo di esitazione mentre si
girava a spegnere la luce, e imprecò fra sé per la paura che gli covava
insidiosa in fondo all’anima, la paura dell’ombra misteriosa che era passata
davanti alla finestra un istante prima che nella capanna si facesse buio. Era
stato senza dubbio il lungo braccio dell’assassino a protendersi per spegnere
la lanterna, pensò. Che cosa aveva colto di anomalo o inumano in quella
visione, già di per sé confusa per il gioco di ombre alla luce fioca della
lampada? Come un uomo che tentasse di ricordare i particolari di un incubo,
Steve cercò di capire perché fosse rimasto così turbato da quella scena
fugace da andare a sbattere contro un albero e perché anche solo ricordarla
gli desse i sudori freddi.
Continuando a imprecare per farsi coraggio, accese la propria lanterna e
si avviò stringendo il piccone come un’arma. Perché mai gli aspetti
apparentemente anomali di un sordido delitto lo turbavano tanto? Crimini
del genere erano rivoltanti, ma abbastanza frequenti, specie tra i messicani,
che perpetuavano faide inaudite.
Appena uscì nella notte silenziosa e stellata, si fermò di colpo. Sull’argine
opposto del ruscello risuonò d’un tratto il nitrito lacerante di un cavallo
terrorizzato, seguito da un furioso scalpitio di zoccoli che si perse lontano.
Brill imprecò per la rabbia e lo sgomento. C’era forse un puma in agguato
sulle colline? Che fosse stato un mostruoso felino ad ammazzare López?
Allora come mai la vittima non era straziata da feroci artigli ricurvi? E chi
aveva spento la luce della capanna?
Mentre rifletteva, si precipitò verso il torrente in ombra. Un mandriano
non sottovaluta mai il motivo per cui il bestiame si dà alla fuga. Mentre
raggiungeva il tenebroso sottobosco che costeggiava il ruscello prosciugato,
si sentì le fauci stranamente secche. Continuò a deglutire tenendo alta la
lanterna, che anziché fendere il buio pesto pareva esaltarlo. Per qualche
strano motivo, nella sua mente confusa si fece strada il pensiero che il
Texas, per quanto nuovo per gli anglosassoni, era in realtà millenario. La
stessa tomba violata e profanata rappresentava una muta prova della
profonda antichità di quella terra, e d’un tratto la notte, le colline e le ombre
gli parvero orribilmente gravate dal peso dei secoli. Generazioni e
generazioni di uomini erano vissute e morte prima che i suoi antenati
sentissero anche solo parlare del Texas. Di notte, tra le tenebre che
circondavano quello stesso ruscello, gli uomini avevano reso l’anima in tanti
modi terribili. Così ragionando, Brill si affrettò tra le ombre dei fitti alberi.
Trasse un profondo respiro di sollievo quando dal sottobosco emerse
sulla propria sponda del torrente. Correndo su per la lieve pendenza verso il
recinto del bestiame, alzò ancora di più la lanterna per vedere che cosa fosse
successo. Il corral era vuoto: non c’era nemmeno la placida vacca e lo
steccato era stato abbattuto. Era dunque opera dell’uomo e al mistero si
aggiungeva un ennesimo aspetto sinistro: qualcuno voleva impedirgli di
andare a Coyote Wells quella notte. Significava che l’assassino intendeva
darsi alla fuga e guadagnare un consistente vantaggio sullo sceriffo,
oppure... Fece un sorriso amaro.
In lontananza, di là da una radura di mesquite, gli parve di udire ancora il
lieve scalpitio di cavalli al galoppo. Che diavolo li aveva fatti spaventare a
quel modo? Il gelido dito della paura gli percorse la spina dorsale.
Si diresse a casa. Non entrò subito, ma girò intorno alla baracca, sbirciò
tremante dalle finestre buie e tese l’orecchio in dolorosa concentrazione per
sincerarsi che non vi fosse nessuno in agguato. Alla fine si azzardò a fare il
suo ingresso. Sbatté la porta contro il muro per vedere se qualcuno vi si
nascondeva dietro, poi alzò la lanterna ed entrò con il cuore in tumulto, il
piccone stretto furiosamente nella mano e un misto di paura e folle rabbia in
petto. Ma nessun delinquente lo aggredì, e una cauta ispezione della
catapecchia non rivelò niente di sospetto.
Con un sospiro di sollievo, chiuse porta e finestre e accese la vecchia
lampada a cherosene. Il pensiero che il vecchio López giacesse da solo, con
gli occhi vitrei, nella sua capanna dall’altra parte del ruscello, lo fece fremere
e rabbrividire, ma non intendeva raggiungere Coyote Wells a piedi di notte.
Tirò fuori dal nascondiglio la sua fida Colt calibro 45, fece ruotare il
tamburo d’acciaio azzurrino e sorrise senza allegria. Forse l’omicida non
intendeva lasciare vivo nessun testimone del suo crimine. Ebbene, venisse
pure. Avrebbe, o avrebbero scoperto che un giovane cowboy con una sei
colpi non era una vittima facile come un vecchio messicano disarmato.
Pensando a López gli tornarono in mente i fogli prelevati nella sua capanna.
Si tenne lontano dalla finestra, dalla quale sarebbe potuto arrivare un
proiettile, e cominciò a leggere, sempre attento a cogliere eventuali rumori
sospetti.
Mentre leggeva i fogli vergati rozzamente, si sentì sempre più invadere da
un gelido orrore. Era una storia di paura quella che il vecchio messicano
aveva raccontato, un’antica leggenda tramandata di generazione in
generazione.
Lesse delle peregrinazioni del caballero Hernando de Estrada e dei suoi
picchieri corazzati, che avevano sfidato i deserti del Sudovest all’epoca in
cui questi erano del tutto sconosciuti e inesplorati. Tra servi e padroni,
esordiva il manoscritto, erano una quarantina di soldati. C’erano il capitano
de Estrada, il prete, il giovane Juan Zavilla e don Santiago de Valdez, un
misterioso nobiluomo che avevano tratto in salvo da una nave alla deriva nel
Mar dei Caraibi. Il resto dell’equipaggio e i passeggeri, aveva spiegato de
Valdez, erano morti di peste e lui stesso li aveva gettati in mare. De Estrada
lo aveva preso a bordo del veliero che dalla Spagna stava andando in
America e il nobiluomo aveva deciso di partecipare alla sua spedizione.
Brill apprese delle loro vicissitudini, che nel suo stile elementare il
vecchio López aveva riportato nella versione tramandatagli per oltre tre
secoli dagli antenati messicani. Le parole scarne rendevano solo vagamente
l’idea delle terribili prove affrontate dagli esploratori: siccità, sete,
inondazioni, tempeste di sabbia, lance di pellirosse ostili. Ma era un altro il
pericolo che López rievocava, un’orribile insidia che aveva funestato il
viaggio della carovana solitaria sperduta in mezzo a una terra immensa e
desolata. Gli uomini morivano a uno a uno senza che si capisse chi fosse a
ucciderli. Paura e cupo sospetto rodevano come un cancro il cuore dei
superstiti e il comandante non sapeva che fare. Era però ormai chiaro che si
nascondeva tra loro un demonio sotto sembianze umane.
Diffidando gli uni degli altri, gli uomini presero a marciare lontani, sicché
la sfiducia reciproca, che induceva a cercare la sicurezza nella solitudine,
fece il gioco dell’ignoto demonio. La spedizione, o quel che ne restava,
avanzava nel deserto smarrita, frastornata e inerme, sempre tallonata dal
mostro invisibile che abbatteva i soldati rimasti indietro e aggrediva
sentinelle sonnecchianti e uomini addormentati. Ciascun morto aveva sulla
gola i segni lasciati da denti aguzzi che lo avevano prosciugato di ogni
goccia di sangue, sicché i superstiti sapevano quale orrore li attendesse. I
picchieri vagavano nel deserto invocando i santi o bestemmiando per la
paura, e lottavano disperatamente contro il sonno, finché, esausti, vi si
arrendevano e cadevano irreparabilmente vittime del mostro.
I sospetti si incentrarono su un gigantesco negro, uno schiavo cannibale
del Calabar che fu messo in catene. Ma il giovane Juan Zavilla morì come
tutti gli altri, seguito poco dopo dal prete. Il prete, però, lottò contro il
demonio che l’aveva assalito e visse abbastanza da bisbigliarne il nome a de
Estrada.
Brill lesse:

De Estrada capì che il buon sacerdote aveva detto la verità e che


l’assassino era don Santiago de Valdez, il quale era un vampiro,
un orrido morto vivente che si nutriva del sangue dei vivi. De
Estrada allora si ricordò del perfido nobiluomo che, nascosto tra le
montagne della Castiglia fin dai tempi dei mori, si era nutrito del
sangue di vittime inermi, assicurandosi un’atroce immortalità.
L’aristocratico era stato scacciato e nessuno sapeva dove fosse
fuggito, ma era chiaro che si trattava di don Santiago. Il mostro era
scappato dalla Spagna a bordo di una nave, e de Estrada capì che
tutti i passeggeri e l’equipaggio erano morti non già di peste, come
aveva asserito quel demonio, bensì dissanguati dai denti del
vampiro.
De Estrada, il negro e i pochi soldati ancora vivi andarono a
cercarlo e lo trovarono in una macchia di chaparral mentre,
rimpinzato del sangue della sua ultima vittima umana, dormiva di
un sonno bestiale. Ora, è noto che, come un grosso serpente, il
vampiro quando ha mangiato a sazietà cade in un sonno profondo
e può essere ucciso senza pericolo. Ma de Estrada non sapeva
come disfarsene, perché come si può uccidere un morto? Il
vampiro è infatti un uomo morto da tempo, che tuttavia vive una
sua oscena non vita.
I picchieri gli suggerirono di conficcargli un palo nel cuore e
tagliargli la testa pronunciando la sacra formula che avrebbe
ridotto in polvere quel corpo decrepito, ma il prete era morto e de
Estrada temeva che durante l’operazione il mostro si svegliasse.
Così sollevarono delicatamente don Santiago e lo portarono in
un vecchio tumulo indiano che sorgeva nei pressi. Aprirono la
tomba, ne tolsero le ossa, vi deposero dentro il vampiro e
sigillarono il tutto. Piaccia a Dios che così resti fino al Giorno del
giudizio.
È un luogo maledetto e sono pentito di non essere andato
altrove a fare la fame, invece di venire a cercar lavoro in questa
terra. Di questa zona, con il suo ruscello, il tumulo e il suo terribile
segreto, sapevo infatti fin dall’infanzia. Ecco, señor Brill, perché
non deve scavare e svegliare il demonio...

Il manoscritto finiva così, con uno scarabocchio che aveva lacerato il


foglio spiegazzato.
Brill si alzò con il cuore che batteva all’impazzata e la lingua incollata al
palato. Ebbe un conato di vomito, prima di trovare le parole.
— Ecco perché c’era uno sperone nel tumulo: uno di quegli spagnoli lo
perse mentre scavava... Avrei dovuto capire che la tomba era stata violata
già in passato perché c’era carbone sparso dappertutto, ma, Dio mio...
Atterrito, cercò di scacciare le cupe visioni evocate: un orrido morto
vivente che si alzava nel buio della tomba, faceva rotolare la lastra di pietra
smossa dal piccone ignaro, saliva con la sua figura scura sulla collina verso
una luce indicante una preda umana, allungava l’orrido braccio che si
stagliava contro la finestra fiocamente illuminata.
— È pura follia — balbettò. — López era completamente loco. Non
esistono i vampiri. Se questo mostro esiste davvero, perché non ha preso me
invece di lui? A meno che non stesse esplorando la zona per vedere com’era
la situazione prima di colpire... Ah, al diavolo, sono solo fantasie.
Le parole gli morirono in gola. Alla finestra una faccia lo guardava
farfugliando cose inaudibili e due occhi di ghiaccio gli trafissero l’anima.
Cacciò un urlo, e l’orrida visione sparì; ma l’aria era permeata dell’odore
disgustoso che aleggiava intorno all’antico tumulo. La porta cigolò,
socchiudendosi lentamente. Stringendo la pistola con la mano tremante, Brill
indietreggiò verso il muro. Non cercò neppure di sparare contro la porta.
Nella sua mente frastornata non aveva che un pensiero: solo quella sottile
parete di legno lo separava da un orrore partorito dal grembo della notte,
delle tenebre e del nero passato. Sbarrò gli occhi vedendola cedere e
sentendo gli anelli del chiavistello cigolare.
La porta si spalancò. Brill non gridò, perché aveva la lingua incollata al
palato. Con gli occhi sbarrati dal terrore, vide una figura alta, da avvoltoio,
con occhi gelidi e lunghe unghie nere. Il mostro indossava un abito vetusto
e lacero, un cappello dalla tesa inclinata e dalla piuma spennata, un mantello
che cadeva a pezzi e stivali dai lunghi speroni. Stagliato contro l’oscurità
della notte, se ne stava sulla soglia di casa come un’abominevole ombra del
passato, e Brill sentì la propria mente vacillare. Il vampiro, emanando un
gelo terrificante e un odore di ossario e argilla sbriciolata, si avventò contro
l’uomo vivo come un avvoltoio in picchiata.
Brill gli sparò a bruciapelo e vide frammenti di stoffa marcia volargli via
dal petto. Il vampiro vacillò sotto l’impatto del proiettile, poi si raddrizzò e
tornò all’assalto con terrificante rapidità. Con un urlo soffocato, Steve
indietreggiò contro la parete e la pistola gli cadde dalla mano floscia.
Dunque le leggende più fosche erano vere: le armi umane erano impotenti,
perché non si può uccidere un uomo morto da secoli alla maniera in cui si
uccidono i viventi.
Le mani ad artiglio protese verso la sua gola gli scatenarono un attacco di
follia. Come i suoi antenati pionieri avevano combattuto contro nemici
spaventosamente superiori, così il giovane cowboy Steve Brill combatté
contro l’osceno cadavere che tentava di ghermirgli la vita e l’anima.
Di quella terrificante battaglia non ricordò mai molto. Fu un cieco caos in
cui, urlando come una bestia, lacerò, picchiò e martellò, opponendosi alle
lunghe unghie nere da puma che cercavano di straziarlo e ai denti aguzzi che
tentavano continuamente di azzannargli la gola. Si batterono ruzzolando per
la stanza tra lo svolazzante mantello ammuffito e il mobilio rotto, e la furia
del vampiro non fu più tremenda della folle disperazione della sua atterrita
vittima.
Piombarono sul tavolo, rovesciandolo su un fianco, e la lampada a
cherosene cadde in terra, spaccandosi e appiccando il fuoco alle pareti di
legno. Brill sentì spruzzi di petrolio bollente mordergli la pelle, ma nella
folle violenza della lotta non vi badò. I neri artigli cercavano di ghermirlo,
gli inumani occhi di ghiaccio gli bruciavano l’anima, e tra le dita frenetiche
sentiva la carne avvizzita del mostro dura come legna secca. Fu preso da
ondate di furia cieca. Come un uomo in preda a un incubo, urlò e imprecò,
mentre tutt’intorno a lui il fuoco divorava le pareti e il tetto.
Tra il guizzare delle fiamme, i due lottarono avvinghiati come un uomo e
un demonio in un girone infernale. Nel rogo che divampava sempre più
impetuoso, Brill trovò la forza di un ultimo, vulcanico assalto. Staccandosi
dall’avversario, si rialzò ansimante e insanguinato, poi gli si lanciò contro
come un folle e lo strinse in una morsa ferrea anche per un mostro del
genere. Sollevandolo in alto, lo sbatté contro lo spigolo del tavolo rovesciato
come avrebbe sbattuto una bacchetta contro il ginocchio per spezzarla.
Qualcosa si ruppe con lo schiocco di un ramo secco. Il vampiro si contorse,
assumendo una strana postura sul pavimento in fiamme; ma non era morto,
perché guardò ancora Brill con occhi fiammeggianti in cui balenava
un’oscena fame, e cercò di avvicinarglisi con la spina dorsale spezzata,
strisciando come un serpente agonizzante.
Ansimante, con la testa che gli girava, Brill si asciugò il sangue dagli
occhi e uscì a tentoni dalla porta schiantata. Come un uomo che fuggisse
dall’inferno, corse in mezzo ai mesquite e al chaparral finché non crollò al
suolo per la stanchezza. Guardandosi alle spalle, vide la casa avvolta in un
fuoco che fendeva il cielo notturno e ringraziò Dio, perché le fiamme
avrebbero continuato ad ardere finché le ossa di don Santiago de Valdez
non si fossero consumate del tutto e di esse non fosse rimasta traccia sulla
terra.
UN SORDO BUSSARE

Chi bussa nella notte incombente


svegliandomi con suono smorzato?
Nella mia stanza la luce è assente
e nel silenzio sono avviluppato.

Sapore di terra ho in bocca,


buia quiete, marcio suppurare,
sordo come il fato rintocca
alla porta il lieve bussare.

Nero, stretto, silente è il vano


che re e mendichi del pari ripara,
le zolle cadenti sono la mano
che bussa al coperchio della mia bara.
IL POPOLO DELLE TENEBRE

Mi diressi alla grotta di Dagon per uccidere Richard Brent. Percorsi i


malinconici viali formati da gigantesche querce in uno stato d’animo che era
in piena sintonia con la primordiale cupezza dello scenario. Ci si avvicina a
Dagon al buio, perché i grossi rami e le spesse foglie nascondono il sole, e
la mia malinconia rendeva le ombre ancora più sinistre e deprimenti di
quanto non fossero davvero.
Non lontano si udiva il lento sciabordio delle onde contro le alte falesie,
ma il mare, nascosto dalla fitta querceta, non si vedeva. L’oscurità e la
tremenda tetraggine del bosco mi stavano opprimendo l’anima già triste
quando, dall’intrico degli antichi alberi, uscii in una piccola radura davanti
all’ingresso della vecchia caverna. Mi fermai, esaminandone l’esterno e
guardando fin dove arrivassero le mute querce con la loro ombra.
L’uomo che odiavo non mi aveva battuto in velocità: facevo in tempo a
dare corpo al mio intento omicida. Per un attimo esitai, poi, come un’onda,
mi investì il profumo di Eleanor Bland ed ebbi la visione dei suoi riccioli
biondi e dei suoi profondi occhi grigi, mutevoli e mistici come il mare.
Strinsi i pugni fino a sbiancare le nocche e toccai istintivamente il crudele
revolver a canna corta, che con il suo peso gravava nella tasca della mia
giacca.
Se non fosse stato per Richard Brent, ero sicuro che avrei conquistato
Eleanor, il desiderio della quale rendeva le mie ore di veglia un tormento e
quelle di sonno una tortura. Lei chi amava? Non voleva dirlo, forse non lo
sapeva nemmeno. Se uno dei due contendenti fosse sparito, mi ero detto,
avrebbe rivolto le sue attenzioni all’altro. Intendevo semplificarle le cose, e
semplificarle anche a me. Avevo sentito per caso il mio biondo rivale
inglese dire che voleva recarsi in gita di piacere, da solo, in un posto isolato
come la grotta di Dagon.
Per natura non sono un criminale. Sono nato e cresciuto in un paese
difficile e ho vissuto quasi tutta la vita in un ambiente duro, dove un uomo
prendeva, se poteva, quello che voleva e la pietà era una virtù pressoché
ignota. Ma era stato un tormento che mi straziava giorno e notte a farmi
venire la voglia di sopprimere Richard Brent. Avevo vissuto una vita rude e
forse violenta. Quando mi ero innamorato, anche il mio affetto si era
rivelato feroce e violento. Forse nel mio amore per Eleanor Bland e nel mio
odio per Richard Brent ero un po’ folle. In qualsiasi altra circostanza sarei
stato felice di avere l’inglese per amico, perché era un giovane alto, bello,
sano, nonché dotato di forza e intelligenza; ma mi intralciava nel mio
desiderio e doveva morire.

Entrai nella grotta buia e mi fermai. Non avevo mai visitato la caverna di
Dagon, eppure quando contemplai l’alto soffitto a volta, la pietra levigata
delle pareti e il pavimento impolverato, provai un vago senso di déjà vu che
mi turbò. Scrollai le spalle, incapace di definire la sensazione elusiva: senza
dubbio era suscitata dalla somiglianza tra quel luogo e la regione montuosa
del Sudovest americano in cui ero nato e avevo trascorso l’infanzia.
Sapevo però di non aver mai visto una grotta come quella, il cui aspetto
regolare aveva dato origine alla leggenda che non fosse una caverna
naturale, ma fosse stata ricavata nella roccia secoli e secoli prima dalle
minuscole mani del misterioso Piccolo Popolo, gli esseri preistorici della
mitologia britannica. L’intera campagna, da quelle parti, era una miniera
inesauribile di storie dell’antico folclore.
I contadini erano prevalentemente celti; lì gli invasori sassoni non
avevano mai prevalso e, a causa della colonizzazione di vecchissima data, le
leggende risalivano a molti secoli prima, a un’epoca più antica che in
qualsiasi altra zona d’Inghilterra, l’epoca assai remota, precedente all’arrivo
dei sassoni e addirittura all’invasione romana, in cui i nativi britanni
avevano combattuto contro i bruni pirati irlandesi.
Naturalmente il Piccolo Popolo aveva il suo posto nel folclore. Si
raccontava che la grotta di Dagon fosse stata una delle sue ultime roccaforti
contro i conquistatori celti e si favoleggiava di tunnel da tempo crollati o
bloccati che in passato avrebbero collegato la grotta con una rete di corridoi
sotterranei scavati nelle colline. Mentre queste oziose riflessioni
gareggiavano nella mia mente con considerazioni più cupe, attraversai la
parte di caverna più vicina all’ingresso ed entrai in uno stretto tunnel che, da
precedenti descrizioni, sapevo essere connesso con un’area più grande.
Nella galleria era buio, ma non tanto da impedirmi di distinguere i
contorni vaghi e semicancellati di misteriosi graffiti nella parete di pietra.
Osai accendere la torcia elettrica per esaminarli più attentamente. Pur nella
luce fioca, trovai repellenti quei segni così anomali e sgradevoli. Nessun
individuo appartenente alla razza umana avrebbe potuto scarabocchiare
simili obbrobri grotteschi.
Il Piccolo Popolo... Mi chiesi se fosse fondata l’ipotesi degli antropologi
secondo la quale era esistita una razza di tozzi aborigeni di origine
mongolica, così in basso nella scala evolutiva da poter essere considerati a
stento umani e tuttavia dotati di una loro precisa, benché ripugnante, civiltà.
Erano scomparsi, sostenevano gli antropologi, prima che giungessero i
popoli invasori e avevano dato origine alle leggende ariane su elfi, troll, nani
e streghe. Vissuti fin dall’inizio in caverne, davanti ai conquistatori si erano
ritirati in tane sempre più remote sulle colline, finché si erano del tutto
estinti, anche se il folclore fantasticava che i loro discendenti, abominevoli
epigoni di un’era scomparsa, dimorassero ancora nei perduti abissi dei
tunnel sotto i monti.
Spensi la torcia, percorsi la galleria e uscii da una specie di porta che
pareva troppo simmetrica per essere opera della natura. Mi ritrovai davanti a
una grande grotta buia situata a un livello più basso della camera vicina
all’ingresso, e ancora una volta rabbrividii per lo strano, inquietante senso di
déjà vu. La breve rampa che conduceva dal tunnel al pavimento della
caverna era composta da scalini ricavati nella pietra massiccia troppo piccoli
per i normali piedi umani. Gli spigoli erano in gran parte smussati, come
consunti dai secoli. Feci per scendere, ma all’improvviso scivolai. D’istinto
sapevo che cosa mi aspettava, perché anche quello rientrava nella singolare
sensazione di déjà vu, ma non riuscii a sorreggermi. Caddi in avanti e sbattei
sul pavimento di pietra con tanta violenza che persi i sensi.

Ripresi lentamente conoscenza con un dolore pulsante alla testa e un


senso di sbigottimento. Mi toccai il capo e sentii il sangue raggrumato. Ero
caduto o ero stato colpito, ma lo svenimento era stato così profondo che
adesso facevo fatica a ricordare. Non sapevo né chi ero né dov’ero. Mi
guardai intorno, battendo le palpebre nella luce fioca, e vidi che mi trovavo
in una caverna ampia e polverosa. Ero ai piedi di una breve rampa di scale
che portava a un tunnel. Stupito, mi passai la mano sui corti capelli neri e
contemplai le mie robuste membra nude e il torace possente. Indossavo solo
un perizoma dalla cui cinta pendeva un fodero vuoto, e avevo ai piedi
sandali di pelle.
Vidi un oggetto in terra e mi chinai a raccoglierlo. Era una pesante spada
di ferro con la grande lama macchiata di scuro. Istintivamente ne toccai
l’elsa come se l’avessi usata centinaia di volte. D’un tratto, rammentando
quanto era successo, risi e mi dissi che cadere battendo la testa doveva avere
trasformato me, Conan il predone, in un completo idiota. Ma certo, ora mi
tornava tutto in mente: partendo dall’isola di Eireann, dovevamo aver
compiuto una razzia contro i britanni, sulle cui coste facevamo continue
incursioni con torce e spade. Quel giorno noi bruni gaeli avevamo
depredato all’improvviso un villaggio costiero con le nostre imbarcazioni
lunghe e basse; nella furia della successiva battaglia, i britanni avevano
deciso di rinunciare a combattere e tutti, guerrieri, donne e bambini, si erano
ritirati tra le fitte ombre della foresta di querce, dove non osavamo quasi mai
avventurarci.
Ma io li avevo seguiti, perché c’era una ragazza del popolo nemico che
desideravo ardentemente, una giovane snella e flessuosa dai riccioli biondi e
dai profondi occhi grigi, mutevoli e mistici come il mare. Si chiamava
Tamera: lo sapevo perché tra le nostre due razze non c’era solo guerra, ma
anche commercio, e durante un raro momento di pace ero stato in uno dei
villaggi britanni come semplice visitatore.

Avevo visto Tamera, con il bianco corpo seminudo, guizzare tra gli alberi
rapida come una cerbiatta, e l’avevo inseguita, ansimando per la furiosa
brama. Correva all’ombra scura delle nodose querce, tallonata da me,
mentre alle nostre spalle si affievoliva il frastuono dei guerrieri che si
uccidevano e delle spade che si incrociavano. Alla fine avevamo corso in un
silenzio rotto solo dal suo respiro affannoso, e quando eravamo giunti a una
piccola radura davanti a una squallida grotta, le ero arrivato così vicino da
afferrarle con la mano possente le bionde trecce ondeggianti. Era crollata in
terra con un gemito disperato, ma subito al suo lamento aveva fatto eco un
grido e, voltandomi di scatto, avevo visto un alto britanno sbucare dal folto
degli alberi con la luce della disperazione negli occhi.
— Vertorige! — aveva esclamato con un singhiozzo la ragazza, e in petto
mi era montata una rabbia feroce, perché sapevo che era il suo innamorato.
— Corri nella foresta, Tamera! — aveva gridato lui, avventandosi contro
di me come una pantera e facendo vorticare l’ascia di bronzo come una
ruota scintillante. Subito ci eravamo buttati nel clangore della lotta e nel
furioso ansimare del combattimento.
Il britanno era alto come me, ma agile, mentre io ero massiccio. Avevo
dalla mia il vantaggio della potenza muscolare e presto si era messo sulla
difensiva, tentando disperatamente di parare con l’ascia i miei colpi
micidiali. Martellandolo in quella posizione di difesa come un fabbro
l’incudine, lo avevo spietatamente incalzato, senza dargli un attimo di
tregua. Ansimava forte, rantolando anziché respirare, e gli colava sangue
dalla testa, dal petto e dalla coscia, dove la mia spada sibilante gli aveva
lacerato la pelle mancando di poco un organo vitale. Mentre raddoppiavo gli
sforzi e si chinava per schivare i colpi ondeggiando come un arboscello
nella tempesta, avevo sentito la ragazza gridare: — Vertorige, Vertorige, la
grotta, la grotta!
L’avevo visto impallidire per una paura più grande di quella della mia
spada inesorabile.
— No, non là, meglio una morte degna! In nome di Ilmarinen, Tamera,
corri nella foresta e salvati!
— Non ti lascio qui! — aveva gridato lei. — La grotta è la nostra unica
possibilità!
Ci aveva superato di corsa come una bianca piuma volante ed era sparita
dentro la caverna. Con un urlo di disperazione, il giovane britanno mi aveva
sferrato un colpo tremendo che per poco non mi aveva spaccato in due il
cranio. Mentre barcollavo sotto l’assalto violento che avevo parato appena
in tempo, era fuggito con un balzo nella grotta dietro alla ragazza, sparendo
nell’ingresso buio.

Con un urlo furioso di invocazione rivolto a tutti i miei cupi dei gaelici,
mi ero gettato incautamente al loro inseguimento, senza calcolare che il
britanno avrebbe potuto stare in agguato all’entrata per spaccarmi la testa.
Ma mi era bastata una breve occhiata per constatare che l’area era deserta e
scorgere una piccola figura bianca scomparire dietro una porta scura in
fondo alla parete.
Dopo aver attraversato di corsa la grotta, mi ero fermato all’improvviso
vedendo un’ascia spuntare dall’ingresso buio e fischiarmi pericolosamente
vicino alla testa bruna. Avevo fatto un salto indietro. Adesso era in
vantaggio Vertorige, che stava appostato nella stretta imboccatura del
corridoio dove non potevo aggredirlo senza espormi a un devastante colpo
d’ascia.
Già schiumavo di rabbia e, nel vedere un’esile sagoma bianca nell’ombra
dietro il guerriero, ero uscito di senno. Avevo attaccato con furia ma anche
con cautela, menando fendenti micidiali al mio nemico ed eludendo i suoi.
Volevo indurlo a un lungo affondo, schivarlo e trafiggerlo prima che
recuperasse l’equilibrio. All’aria aperta avrei potuto sconfiggerlo con la pura
forza e potenti affondi, ma lì potevo solo colpire, e anche male, di punta,
mentre preferivo sempre colpire di taglio. Però ero ostinato: se anche non
fossi riuscito ad assestargli il fendente fatale, finché l’avessi tenuto in scacco
nel tunnel avrei impedito a lui e alla ragazza di sfuggirmi.
Rendendosi forse conto della situazione disperata, la ragazza aveva
deciso di agire, dicendo a Vertorige che avrebbe cercato una via d’uscita, e
benché lui le gridasse di non avventurarsi lontano al buio, gli aveva voltato
le spalle, era corsa rapida lungo il tunnel ed era sparita nell’oscurità. La mia
furia era cresciuta smisuratamente e, nella mia bramosia di abbattere
l’avversario prima che lei trovasse il modo di fuggire, avevo rischiato di
farmi spaccare la testa in due.
Poi la grotta aveva echeggiato di un grido orribile e Vertorige, pallido
come un morto nelle tenebre, aveva lanciato l’urlo di un uomo ferito
letalmente. Si era girato di scatto, come dimentico di me e della mia spada,
ed era corso per il tunnel come un pazzo, urlando il nome di Tamera. Da
lontano, come arrivasse dalle viscere della terra, avevo udito il grido di lei
misto a uno strano sibilo che mi aveva riempito di un orrore indefinibile, ma
istintivo. Era seguito il silenzio, rotto solo dalle urla furiose di Vertorige, il
quale si stava addentrando sempre più nella caverna.

Riprendendomi, mi ero lanciato nel tunnel sulle orme del britanno con la
stessa impulsività con cui lui aveva inseguito la ragazza, e a dire il vero,
benché fossi un predone dalle mani insanguinate, mi premeva di più
scoprire quale orribile creatura avesse tra le sue grinfie Tamera che colpire il
mio rivale alle spalle.
Mentre correvo, avevo notato distrattamente che sulle pareti erano incisi
mostruosi graffiti e mi ero reso conto d’un tratto, con un brivido di orrore,
che quella doveva essere la terribile caverna dei Figli della Notte, la cui fama
aveva attraversato lo stretto braccio di mare per risuonare orribilmente alle
orecchie dei gaeli. Tamera doveva avere avuto una paura tremenda di me
per avere osato infilarsi nella grotta che la sua gente evitava con cura, la
grotta dove si sussurrava si celassero gli ultimi discendenti dell’immonda
razza che aveva abitato la regione prima dell’arrivo dei pitti e dei britanni e
che, fuggendo dagli invasori, si era riparata nelle ignote caverne delle
colline.
Davanti a me il tunnel era sfociato in un’ampia area e avevo visto la
sagoma bianca di Vertorige scintillare un istante nella semioscurità prima di
sparire in un corridoio dirimpetto all’ingresso della galleria che avevo
appena percorso. Avevo udito un urlo breve e terribile seguito da un grande
schianto, poi gli strilli isterici della ragazza e un coro di sibili di serpente che
mi avevano fatto rizzare i capelli in testa. In quell’attimo ero uscito dal
budello impetuosamente accorgendomi troppo tardi che il pavimento della
grotta era almeno un metro più in basso. Correndo non avevo visto i piccoli
gradini ed ero crollato con un gran tonfo sul suolo di pietra massiccia.

In piedi nell’oscurità, mi sfregai la testa dolorante. Ora ricordavo tutto e


fissai impaurito la vasta sala in fondo al misterioso corridoio buio dove
erano scomparsi Tamera e il suo innamorato e su cui il silenzio gravava
come un sudario. Afferrando la spada, attraversai con cautela la grande,
quieta caverna e sbirciai nel tunnel. Vidi solo un buio ancora più fitto.
Entrai, aguzzando la vista per cercare di distinguere qualcosa nell’oscurità, e
quando scivolai su una grande macchia umida sul pavimento di pietra, mi
giunse alle narici l’odore acre e sgradevole del sangue fresco. In quel punto
qualcuno era morto: o il giovane britanno o il suo ignoto aggressore.
Rimasi un attimo incerto, mentre nella mia anima primitiva si risvegliava
tutta la paura del soprannaturale della razza gaelica. Avrei potuto voltar le
spalle a quel labirinto maledetto, uscire alla nitida luce del sole e raggiungere
il limpido mare azzurro, dove senza dubbio i miei compagni mi aspettavano
impazienti dopo la scorreria contro i britanni. Perché rischiare la vita in quel
dedalo di orrende tane di topo? Smaniavo dalla curiosità di sapere
com’erano le creature della caverna che i britanni chiamavano Figli della
Notte, ma era il mio amore per la ragazza bionda a spingermi nel tunnel
buio; a mio modo l’amavo e sarei stato buono con lei, se fossi riuscito a
portarla nel mio rifugio sulla mia isola.
Camminai lungo il corridoio in punta di piedi, con la spada in pugno.
Non avevo idea di come fossero i Figli della Notte, ma secondo le leggende
dei britanni erano esseri dall’aspetto tutt’altro che umano.
Mentre avanzavo le tenebre mi accerchiarono, finché il buio diventò
fittissimo. Muovendo a tastoni la mano sinistra, toccai una porta dagli strani
rilievi e in quell’istante qualcosa mi sibilò come una vipera accanto e mi
colpì con violenza la coscia. Risposi con furia e sentii che il fendente dato
alla cieca aveva raggiunto l’obiettivo, perché un corpo cadde ai miei piedi e
morì. Che cosa avessi ucciso al buio non sapevo, ma doveva essere una
creatura almeno in parte umana, perché la ferita di striscio alla coscia non mi
era stata inferta da zanne o artigli, ma da una lama. Sudai freddo per
l’orrore, perché, com’è vero che esistono gli dei, la voce sibilante del mostro
non somigliava ad alcuna lingua umana a me nota.
Nell’oscurità che avevo di fronte sentii di nuovo quel suono misto a un
orribile fruscio, come se mi stessero strisciando incontro innumerevoli
rettili. Varcai in fretta la soglia in cui mi ero imbattuto e per poco non caddi
di nuovo rovinosamente, perché invece di mettere in comunicazione con un
altro corridoio allo stesso livello del precedente, la porta dava su una rampa
di minuscoli gradini sui quali vacillai.
Riprendendo l’equilibrio, procedetti cauto, tastando le pareti del tunnel
per aiutarmi. Stavo scendendo nelle viscere della terra, ma non osavo
voltarmi indietro. D’un tratto, sotto di me, scorsi una luce sinistra. Non potei
fare a meno di proseguire, e alla fine la galleria sfociò in un’altra grande
area dal soffitto a volta, dove mi ritrassi atterrito.

Al centro di quella sorta di sala stava un lugubre altare nero che doveva
essere stato ricoperto di una sostanza fosforescente, perché emanava una
luce fioca che in qualche modo illuminava la caverna buia. Dietro di esso, su
un piedistallo di teschi umani, torreggiava un misterioso oggetto nero su cui
erano incisi arcani geroglifici. Era la Pietra Nera, l’antico, primordiale
monolito davanti al quale, dicevano i britanni, i Figli della Notte si
prosternavano in nefanda adorazione, e la cui origine si perdeva nelle atre
nebbie di un passato spaventosamente remoto. Secondo la leggenda, un
tempo stava nel lugubre cerchio di megaliti chiamato Stonehenge, prima che
gli archi e le frecce dei pitti eliminassero i suoi adoratori come si elimina il
loglio dal grano.
Ma rivolsi alla pietra solo una fugace occhiata di ribrezzo. Due figure,
legate da cinghie di cuoio, giacevano sul luccicante altare nero: una era
Tamera, l’altra l’insanguinato e scarmigliato Vertorige. L’ascia di bronzo del
britanno, incrostata di sangue raggrumato, giaceva accanto alla lucida ara,
davanti alla quale stava acquattato un obbrobrio.
Anche se non ne avevo mai visto nessuno prima d’allora, sapevo che
quella creatura era un osceno aborigeno e rabbrividii. Aveva una vaga
parvenza umana, ma si trovava a un grado così basso dell’evoluzione che la
sua distorta umanità era ancor più spaventosa della sua bestialità.
Non più alto di un metro e mezzo, aveva il corpo scheletrico e deforme e
la testa sproporzionatamente grossa. Capelli lisci simili a bisce
incorniciavano un viso squadrato e ferino, dove campeggiavano labbra
flosce e cascanti che lasciavano scoperte zanne gialle, un naso camuso dalle
narici larghe e grandi occhi a mandorla color ambra. Non dubitavo che
fosse capace di vedere al buio come un gatto. Dopo essersi nascosta per
secoli in caverne tenebrose, la razza aveva acquisito immonde caratteristiche
inumane. Ma la cosa più repellente era la pelle: squamosa, giallastra e
chiazzata come quella di un serpente. Un perizoma di pelle di vero serpente
gli copriva i lombi magri e le mani ad artiglio stringevano l’una una corta
lancia dalla punta di selce e l’altra una minacciosa mazza di selce levigata.

Era così intento a covarsi con gli occhi i prigionieri, che non aveva udito
i miei passi silenziosi. Mentre esitavo nel corridoio buio, sopra di me udii un
lieve, sinistro fruscio che mi fece gelare il sangue nelle vene. I Figli della
Notte strisciavano lungo il tunnel alle mie spalle, ed ero in trappola. Vidi
un’altra porta che dava sulla sala e decisi di agire, rendendomi conto che la
mia unica speranza era allearmi con Vertorige. Per quanto fossimo nemici,
appartenevamo entrambi alla razza umana ed eravamo intrappolati nella tana
di quelle abominevoli creature.
Mentre uscivo dal tunnel, il mostro accanto all’altare alzò la testa e posò
gli occhi su di me. Mi avventai contro di lui senza dargli il tempo di balzare
in piedi, e quando la mia pesante spada gli spaccò il cuore di rettile si
accartocciò sprizzando sangue. Morendo, però, lanciò un grido terribile che
echeggiò per tutto il tunnel. In fretta e furia tagliai le cinghie che legavano
Vertorige e lo aiutai a rialzarsi. Poi mi rivolsi verso Tamera, che nella
circostanza di grave pericolo non si ritrasse da me, ma mi guardò implorante
con gli occhi sbarrati dal terrore.
Rendendosi conto che il caso ci aveva reso alleati, Vertorige non perse
tempo in chiacchiere e afferrò l’ascia mentre io liberavo la ragazza.
— Non possiamo passare per il corridoio da cui siamo venuti, perché
presto avremmo addosso l’intero branco — disse in fretta. — Hanno
catturato Tamera mentre cercava una via di scampo e quando l’ho seguita mi
hanno sopraffatto con la forza del numero. Ci hanno trascinato qui, poi tutti
tranne quella carogna che hai ucciso si sono sparpagliati, penso per
diffondere nelle varie tane la notizia del sacrificio. Solo Ilmarinen sa quanti
individui del mio popolo, rapiti nel cuore della notte, siano morti su
quell’altare. Dobbiamo correre i nostri rischi e imboccare uno degli altri
tunnel, anche se magari conducono tutti all’inferno. Seguitemi.

Prendendo Tamera per mano, corse rapido verso la galleria più vicina e
io gli andai dietro. Guardando alle mie spalle la sala prima di svoltare, notai
che un’abominevole orda di mostri stava sbucando dal corridoio da cui ero
arrivato. Quello in cui ci eravamo infilati saliva ripido e d’un tratto
vedemmo davanti a noi una striscia di luce grigia. Ma l’istante dopo le
nostre esclamazioni di speranza si trasformarono in grida di amara
delusione. Sì, la luce del giorno arrivava da una fessura nel tetto a volta, ma
l’uscita era troppo in alto perché potessimo raggiungerla. Dietro di noi il
branco grugniva assaporando la vittoria. Mi fermai.
— Cercate di salvarvi voi, se potete — ringhiai. — Io li combatterò qui.
Loro hanno gli occhi come i gatti, io no. Almeno qui li vedo. Andate!
Ma anche Vertorige si arrestò. — Non ha senso farsi inseguire come topi
fino alla fine. Non c’è via di scampo. Affrontiamo la morte da uomini.
Tamera si lasciò sfuggire un grido e si torse le mani, ma si strinse al suo
innamorato.
— Tu stai dietro di me con la ragazza — sibilai. — Quando cadrò,
spaccale la testa con l’ascia perché non la catturino di nuovo da viva. Poi
vendi cara la pelle, perché non ci sarà nessuno a vendicarci.
Vertorige mi guardò con i suoi occhi intelligenti.
— Adoriamo dei diversi, predone, ma tutti gli dei amano gli uomini
coraggiosi — disse. — Forse ci incontreremo di nuovo, oltre le tenebre.
— Salute a te e addio, britanno — proclamai, mentre le nostre destre si
univano in una stretta d’acciaio.
— Salute a te e addio, gaelo — disse.

Quando mi girai, vidi un’abominevole orda di mostri emergere dal tunnel


nella luce fioca: un vero e proprio incubo di capelli serpentini svolazzanti,
occhi torvi e bocche sbavanti. Con il mio grido di guerra sulle labbra, mi
avventai contro di loro e la mia pesante spada cantò, spiccando una testa
ghignante dal busto e disegnando in aria una fontana di sangue. Mentre mi
assalivano come un’onda, mi lasciai afferrare dalla furia guerriera della mia
razza. Combattei come una belva impazzita: a ogni colpo fendevo carne e
ossa e il sangue schizzava in una pioggia cremisi.
Poi, quando divennero una marea montante e cominciai a soccombere al
mero peso del numero, un urlo tremendo superò il loro clamore e l’ascia di
Vertorige cantò al di sopra di me, spandendo sangue e cervella come acqua.
La pressione dei mostri si allentò e mi rialzai calpestando i corpi che mi si
contorcevano sotto i piedi.
— Dietro di noi c’è una scala seminascosta in un angolo della parete —
gridò il britanno. — Deve portare all’esterno. Presto, in nome di Ilmarinen,
saliamola.
Così indietreggiammo, facendoci strada con la spada centimetro per
centimetro. I Figli della Notte combattevano come diavoli assetati di sangue,
arrampicandosi sopra i cadaveri dei compagni morti e strillando mentre
colpivano. Sia io sia Vertorige grondavamo sangue a ogni passo quando
raggiungemmo l’inizio della scala dove Tamera ci aveva preceduto.
Urlando come veri e propri demoni, i Figli della Notte si sollevarono per
tirarci giù dai gradini. Il budello in cui si trovava la scala non era illuminato
come il corridoio e diventava sempre più buio a mano a mano che si saliva,
ma se non altro i nostri nemici potevano aggredirci solo da una direzione.
Per gli dei, li massacrammo finché la scala non fu ingombra di cadaveri
mutilati. Sbavavano come lupi rabbiosi, quei mostri. Poi, all’improvviso,
abbandonarono la lotta e corsero giù dai gradini.
— Che cosa significa? — ansimò Vertorige, asciugandosi sangue e
sudore dalla fronte.
— Su, affrettiamoci — dissi. — Intendono sicuramente salire da qualche
altra scala per calarci addosso dall’alto.
Così ci arrampicammo per i maledetti gradini, scivolando e inciampando,
e quando passammo accanto a un tunnel buio che si apriva nel budello,
udimmo in fondo a esso un ululato spaventoso. Un istante dopo sfociammo
in un corridoio tortuoso, fiocamente illuminato da un’opaca luce grigia che
filtrava dall’alto, mentre dalle viscere della terra sentivo arrivare il rombo di
acque scroscianti. Ci incamminammo lungo il tunnel, e a un tratto qualcosa
di molto pesante mi piombò sulle spalle, facendomi cadere lungo disteso.
Una mazza mi colpì più volte in testa, procurandomi rosse fitte di dolore
lancinante. Torcendomi furiosamente, mi liberai del mio assalitore, lo
scaraventai in terra e gli lacerai la gola con le mani nude, mentre lui mi
affondava le zanne in un braccio nell’ultimo morso della morte.

Quando mi rialzai, non vidi più Tamera e Vertorige. Già prima ero
indietro rispetto a loro, che avevano proceduto senza rendersi conto del
mostro che mi aveva assalito alle spalle; senza dubbio erano convinti che
continuassi a seguirli dappresso. Feci una dozzina di passi, poi mi fermai. Il
corridoio si biforcava e non sapevo quale tunnel i miei compagni avessero
preso. Imboccai a caso quello di sinistra e avanzai incerto nella penombra.
Non solo ero debole per la stanchezza e la perdita di sangue, ma provavo
nausea e senso di stordimento a causa dei colpi ricevuti. Solo il pensiero di
Tamera mi incoraggiava a proseguire ostinato. Adesso sentivo distintamente
un torrente invisibile scorrere impetuoso.
Che non mi trovassi più nelle viscere della terra fu evidente quando vidi
filtrare dall’alto una luce fioca. Lì per lì pensai che mi sarei imbattuto in
un’altra scala, e in effetti poco dopo ne vidi una, ma mi bloccai, in preda a
cupa disperazione: anziché salire, scendeva. Alle mie spalle, in lontananza,
udii le grida del branco, e allora scesi, piombando nelle tenebre più fitte.
Finalmente raggiunsi una superficie piana e procedetti alla cieca. Avevo
abbandonato ogni speranza di fuga e speravo solo di trovare Tamera
(sempre che non fosse riuscita a fuggire con Vertorige all’esterno) e morire
con lei. Adesso sentivo il rombo dell’acqua scrosciante sopra di me, e il
tunnel era umido e fangoso. Mi piovvero in testa gocce di umidità e capii
che stavo passando sotto un fiume.
Poi mi imbattei di nuovo in scalini di roccia, che stavolta conducevano in
su. Mi arrampicai con la maggiore rapidità permessami dalle ferite, sempre
più dolenti e così numerose che sicuramente avrebbero ucciso un uomo
comune. Salii e salii, finché all’improvviso la luce del giorno mi investì
attraverso una fenditura nella roccia. Uscii all’aperto, sotto il sole ardente.
Mi trovavo su una sporgenza molto alta, sotto la quale, tra gigantesche rupi,
scorrevano a velocità impressionante le acque impetuose di un fiume. La
cornice di roccia era vicina alla cima del monte e avevo la salvezza a portata
di mano; ma esitai, poiché amavo talmente la fanciulla bionda che, nella
folle speranza di ritrovarla, sarei stato pronto a tornare nei neri tunnel da cui
provenivo. Poi sobbalzai.

Dall’altra parte del fiume, di fronte a me, c’era una fenditura nella parete,
con una sporgenza simile a quella dove stavo io, ma più lunga. Anticamente,
forse prima che fosse scavato il tunnel sotto il letto del fiume, una sorta di
ponte primitivo doveva avere collegato i due spuntoni. Mentre guardavo,
due figure comparvero sulla cornice: una ferita, zoppicante, impolverata,
che stringeva un’ascia insanguinata, l’altra esile e bianca.
Vertorige e Tamera! Evidentemente nel punto di biforcazione avevano
preso l’altro corridoio e seguito le finestre del tunnel fino a sfociare, come
me, all’esterno, solo che io avevo imboccato il ramo di sinistra ed ero
passato direttamente sotto il fiume. Capii che erano in trappola. Da quel lato
la roccia era alta una quindicina di metri più della mia, e così ripida che non
avrebbe potuto arrampicarcisi neanche un ragno. C’erano due soli modi di
fuggire da quello spuntone: tornare nei tunnel infestati da mostri o gettarsi
nel fiume che scorreva impetuoso sotto.
Vidi Vertorige guardare prima la rupe scoscesa in alto, poi il torrente in
basso, e scuotere la testa disperato. Tamera gli gettò le braccia al collo, e
benché non udissi le loro voci a causa del fragore dell’acqua, li vidi
sorridere e avvicinarsi insieme all’orlo del precipizio. Dall’apertura nella
roccia emersero alla luce del sole vari mostri, simili a immondi rettili che
uscissero torcendosi da una tana buia, e per un attimo rimasero fermi ad
ammiccare come le creature notturne che erano. Disperato di non poter dare
alcun aiuto, strinsi l’elsa della spada così forte da farmi sanguinare la pelle
sotto le unghie. Perché il branco non aveva seguito me anziché i miei
compagni?
I Figli della Notte esitarono un istante quando i due britanni si girarono a
guardarli; con una risata, Vertorige lanciò l’ascia più lontano che poté, nel
fiume, poi si voltò ad abbracciare Tamera. Si gettarono insieme, stretti l’uno
all’altra, e dopo un rapido volo piombarono tra la spuma furibonda che
pareva andar loro incontro, sparendo tra i flutti. Il fiume impetuoso continuò
a scorrere come un mostro cieco e insensato, ruggendo tra le rupi che
echeggiavano del suo rombo.
Per un attimo rimasi lì impietrito, poi, come un uomo perso in un sogno,
mi girai, afferrai la cresta di roccia sopra di me. Mi arrampicai stancamente
e, giunto in cima, ascoltai come ipnotizzato il fragore del fiume molti metri
sotto.

Mi alzai, mi strinsi tra le mani la testa pulsante, sulla quale sentii un


grumo di sangue secco, e mi guardai intorno senza capire. Ero salito in cima
alla rupe; no, per tutti i tuoni di Crom, ero ancora nella caverna! Allungai la
mano per afferrare la spada.
La nebbia mi scomparve dal cervello e scrutai perplesso l’ambiente,
orientandomi nello spazio e nel tempo. Mi trovavo ai piedi dei gradini dai
quali ero caduto. Io, che ero stato Conan il predone, ero tornato a essere
John O’Brien. Quel grottesco interludio era dunque stato soltanto un sogno?
Possibile che fosse così vivido? Perfino in sogno ci rendiamo spesso conto
di stare sognando, ma Conan il predone non aveva cognizione di altre
esistenze oltre alla sua. E ricordava la propria vita passata come la può
ricordare un uomo vivo, anche se nella mente conscia di John O’Brien i suoi
ricordi erano solo polvere e nebbia. Invece rammentava molto bene le
avventure che Conan aveva vissuto nella grotta dei Figli della Notte.
Guardai, di là dalla camera buia, l’ingresso del tunnel lungo il quale
Vertorige aveva seguito la ragazza, ma non vidi altro che la parete spoglia
della caverna. Attraversai la sala, accesi la torcia che per miracolo non si era
rotta mentre cadevo, e tastai la roccia.
— Ah! — Sussultai come per una scossa elettrica. Proprio dove avrebbe
dovuto trovarsi l’entrata, le mie dita rilevarono nella parete una differenza di
grana: una sezione era più ruvida del resto. Ero convinto che l’avessero
eretta abbastanza di recente e che il tunnel fosse stato murato.
Mi lanciai contro di essa con tutta la forza che avevo e mi parve che
stesse per cedere. Feci qualche passo indietro, poi, respirando a fondo e
contraendo i potenti muscoli, mi ci buttai contro con tutto il peso. Il muro
friabile e marcio cedette con un grande schianto e fui catapultato dall’altra
parte in mezzo a una pioggia di calce e detriti.
Mi rialzai con un urlo terribile. Stavolta non potevo non notare la
somiglianza con la situazione del sogno. Lì Vertorige si era scontrato per la
prima volta con i Figli della Notte quando questi avevano trascinato via
Tamera, e nel punto dove mi trovavo adesso il pavimento era allagato dal
sangue.
Camminai lungo il tunnel come in trance. Presto avrei dovuto
raggiungere la porta sulla sinistra. Sì, infatti c’era, la strana porta scolpita,
presso la quale avevo ucciso il mostro che di sorpresa mi aveva attaccato
nelle tenebre. Per un istante provai un brivido. Era possibile che i superstiti
di quella razza dannata si annidassero ancora, insidiosamente, nelle remote
caverne?

Raggiunsi la soglia e la torcia illuminò un lungo corridoio in pendenza,


con piccoli gradini scavati nella roccia massiccia. Da quella scala era sceso
tastoni Conan il predone, e da quella scala scesi io, John O’Brien, con i
ricordi dell’altra vita che mi affollavano la mente come vaghi fantasmi.
Nessuna luce brillava in fondo al tunnel, ma giunsi in una grande sala buia
che conoscevo già. Rabbrividii quando la torcia illuminò il fosco altare nero.
Ora nessuna figura legata vi si contorceva sopra, nessun mostro gongolante
vi stava acquattato davanti, nessuna piramide di teschi sosteneva la Pietra
Nera di fronte alla quale ignote razze si erano inchinate prima che l’Egitto
nascesse dall’alba dei tempi. C’era solo un mucchio disordinato di terriccio
nel punto in cui i teschi avevano sostenuto l’infernale monolito. No, non era
stato un sogno: io ero John O’Brien, ma nell’altra vita ero stato Conan il
predone e quel fosco interludio era un breve episodio reale che avevo
rivissuto.
Entrai nel tunnel della mia fuga, illuminandolo con la torcia, e come
nell’altra era perduta vidi un raggio di luce grigia provenire dall’alto. Lì il
britanno e io, Conan, trovandoci con le spalle al muro avevamo cercato una
via di scampo. Distolsi gli occhi dall’antica fenditura nel soffitto a volta e
cercai la scala. C’era, seminascosta da uno sporgenza rocciosa.
Salii, ricordandomi della fatica che, tanti secoli prima, Vertorige e io
avevamo fatto per arrampicarci con l’orda di mostri sibilanti e sbavanti alle
calcagna. Ero teso per la paura mentre mi avvicinavo al tenebroso antro in
cui il branco aveva tentato di bloccarci il passo. Spensi la luce quando
arrivai nel buio corridoio sottostante e scrutai il muro di tenebra che si
spalancava sulla scala. Con un grido, feci un balzo indietro, quasi
inciampando sui gradini consumati. Sudando nella penombra, riaccesi la
torcia e ne diressi la luce verso la misteriosa apertura, mentre con l’altra
mano stringevo la pistola.
Vidi solo le pareti nude e smussate di un piccolo cunicolo simile a un
pozzo e scoppiai in una risata nervosa. La mia immaginazione si era
scatenata: avrei giurato che dalle tenebre mi scrutassero terribili occhi gialli e
che un mostro strisciante fosse sgattaiolato nel tunnel. Che sciocco ero, a
lasciarmi turbare così dalla fantasia. I Figli della Notte erano scomparsi da
tempo da quelle caverne; esseri di inaudita ripugnanza, più simili ai serpenti
che all’uomo, secoli prima erano caduti nell’oblio da cui erano apparsi nella
tenebrosa alba della terra.

Uscii dal tunnel nel corridoio tortuoso che, come ricordavo dalla
precedente vita, era più illuminato. Lì, da qualche angolo oscuro, era balzato
fuori il mostro che mi aveva aggredito alle spalle mentre i miei compagni,
ignari, avevano proseguito nella loro fuga. Quale brutale resistenza aveva
dimostrato Conan quando aveva continuato a procedere nonostante le
spaventose ferite riportate! A quell’epoca gli uomini erano davvero
d’acciaio.
Giunsi nel punto dove il tunnel si biforcava e, come la volta precedente,
presi il ramo sinistro e arrivai al corridoio che conduceva in basso. Lo seguii
tendendo l’orecchio per cogliere il rombo del fiume, ma non mi giunse
alcun rumore. Il budello era di nuovo buio, sicché fui costretto a riaccendere
la torcia elettrica per non inciampare e rischiare conseguenze fatali. Io, John
O’Brien, non sono così saldo sulle gambe come Conan il predone; no, e non
ho nemmeno la sua forza e la sua rapidità felina.
Presto raggiunsi il fondo. L’umidità dimostrava che mi trovavo sotto il
letto del fiume, ma non sentivo ancora lo scrosciare delle acque. In realtà
sapevo che, sebbene anticamente scorresse in quei luoghi un fiume
impetuoso, in epoca moderna non ne esisteva nessuno tra le colline. Mi
fermai, esplorando con la torcia l’ambiente. Mi trovavo in un tunnel largo,
anche se con un tetto piuttosto basso, dal quale si dipartivano altri cunicoli
più stretti. Mi stupii della rete di gallerie da cui erano traforati i monti.
Non so descrivere quanta tristezza e scoramento mi diedero quei corridoi
sotterranei così bui e soffocanti. Su tutto gravava un senso opprimente di
inaudita antichità. Perché il Piccolo Popolo aveva scavato le misteriose
cripte, e in quale tenebrosa epoca? Erano, quelle grotte, il rifugio estremo
contro la marea avanzante dell’umanità o rappresentavano da tempo
immemorabile i loro castelli? Scossi la testa, sconcertato; i Figli della Notte
che avevo visto erano assolutamente bestiali, eppure in qualche modo erano
riusciti a scavare tunnel e camere con una sapienza che avrebbe fatto invidia
ai moderni ingegneri. Anche ammesso che si fossero limitati a completare
un’opera iniziata dalla natura, bisognava riconoscere che era un risultato
mirabile per una razza di aborigeni nani.

Mi resi conto con un sussulto che stavo passando in quei lugubri tunnel
più tempo di quanto volessi e cominciai a cercare la scala su cui si era
arrampicato Conan per uscire. La trovai e trassi un gran respiro di sollievo
quando, sui gradini, vidi all’improvviso la luce del sole illuminare il
budello. Sbucai sulla cornice di roccia, così consunta da essere ormai solo
un misero spuntone sull’abisso. Il grande fiume, che un tempo correva
impetuoso ruggendo come un mostro prigioniero tra le ripide pareti della
stretta gola, con il passare dei secoli si era rimpicciolito fino a ridursi a un
ruscelletto che fluiva tra i massi verso il mare senza produrre alcun suono.
Certo, la superficie della terra cambia, i fiumi si gonfiano o prosciugano,
le montagne sorgono o crollano, i laghi si seccano, i continenti si
trasformano, ma nel sottosuolo l’opera di misteriose mani d’altre epoche
dorme senza essere intaccata dal trascorrere dei secoli. Le mani che avevano
creato quell’opera avevano resistito anch’esse e si annidavano ancora nelle
viscere delle colline?
Non so per quanto tempo rimasi assorto in vaghe riflessioni, ma
all’improvviso, guardando dall’altra parte della gola una cornice di roccia
non meno consunta e sgretolata della mia, vidi qualcosa che mi indusse a
ritrarmi sulla soglia dell’antro alle mie spalle. Sullo spuntone opposto erano
infatti apparse due figure, e mi sfuggì un ansito quando riconobbi Richard
Brent e Eleanor Bland. Mi ricordai del motivo per cui ero entrato nella grotta
e cercai istintivamente la pistola che tenevo in tasca. Loro non mi notarono,
ma io li vedevo e udivo distintamente, perché sul fondo della forra non
scorreva più il fiume rumoreggiante.
— Perdio, Eleanor, sono contento che tu abbia deciso di venire con me
— stava dicendo Brent. — Chi avrebbe mai pensato che ci fosse un
fondamento di verità nelle antiche leggende sui tunnel nascosti che dalle
caverne portano all’esterno? Mi chiedo come sia crollata quella parte di
muro. Mi è parso di udire uno schianto nel momento in cui siamo entrati
nella prima grotta. Credi che qualcuno si sia infilato dentro prima di noi e
abbia sfondato il muro?
— Non lo so — rispose lei. — Ricordo che... Oh, non so. Ho come
l’impressione di essere già stata qui o di avere sognato di esserci. Mi pare di
rammentare vagamente, come un lontano incubo, di avere corso a perdifiato
per questi tunnel bui, inseguita da mostri orrendi.
— E io c’ero? — scherzò Brent.
— Sì, e c’era anche John — rispose Eleanor. — Ma tu non eri Richard
Brent e John non era John O’Brien, no. Nemmeno io ero Eleanor Bland.
Oh, è un ricordo così sfuggente e lontano che non posso rievocarlo nei
particolari. È una reminiscenza indefinita, confusa e orribile.
— Credo di capirti — disse inaspettatamente lui. — Da quando siamo
penetrati in quella breccia nella parete che ha rivelato l’esistenza dell’antico
tunnel, ho avuto una sensazione di déjà vu. Mi pare di avere vissuto una
storia di orrore, pericolo, lotta... e anche amore.

Brent si avvicinò all’orlo del precipizio per guardare in fondo alla gola,
ma all’improvviso Eleanor, con un grido lacerante, lo afferrò convulsamente
per un braccio.
— No, non farlo, Richard! Stringimi, stringimi forte!
Lui la prese tra le braccia. — Che cosa c’è, Eleanor, cara? Che cosa ti
prende?
— Niente — balbettò lei, ma si strinse ancora di più a lui e capii che
tremava. — È che ho una sensazione strana, un senso di paura e vertigine,
come se stessi cadendo da una grande altezza. Non stare così vicino al
precipizio, Dick: mi fa paura.
— Va bene, tesoro — disse lui, abbracciandola più forte. Con una certa
esitazione, continuò: — C’è una cosa che volevo chiederti da tempo. Sai,
non so esprimermi con belle parole, ma ti amo e ti ho sempre amato,
Eleanor. Se però tu non mi ami, mi farò da parte e non ti seccherò mai più.
Solo, ti prego, dimmi se anche tu provi qualcosa per me oppure no, perché
non posso più resistere senza saperlo. Ami me o l’americano?
— Te, Dick — rispose lei, nascondendogli il viso nella spalla. — Ho
amato sempre te, anche se non me ne rendevo conto. Stimo molto John
O’Brien e di fatto non mi era chiaro quale dei due amassi davvero. Ma oggi,
mentre attraversavamo quei terribili tunnel e salivamo per quelle orrende
scale, e anche un attimo fa, quando per qualche strano motivo ho pensato
che potessimo cadere nel precipizio, ho capito di amare te, di averti sempre
amato non solo in questa vita, ma anche in altre. Sempre.
Le loro labbra si incontrarono e vidi la testa bionda di Eleanor reclinata
sulla spalla di lui. Pur avendo le fauci secche e il cuore freddo, mi sentivo
l’animo in pace. Richard ed Eleanor si appartenevano. Secoli e secoli prima
erano vissuti e si erano amati, e a causa di quell’amore avevano sofferto ed
erano morti. Proprio io, Conan, li avevo spinti verso il loro destino.
Li osservai girarsi verso la fenditura allacciati l’uno all’altra, poi udii
Tamera, ossia Eleanor, urlare e li vidi indietreggiare entrambi. Dalla grotta
sbucò un orrore strisciante, un disgustoso, osceno mostro che batté le
palpebre nella limpida luce del sole. Lo riconobbi dai tempi antichi: relitto di
un’epoca dimenticata, uscì dalle viscere oscure della terra e di un passato
scomparso e, dimenando l’immondo corpo, avanzò verso le sue vittime.

Vidi che cosa tremila anni di regressione possono fare a una razza già di
per sé abominevole, e rabbrividii. Compresi d’istinto che era l’unico
esemplare del genere al mondo, un mostro sopravvissuto alla sua era chissà
per quanti secoli, voltolandosi nel fango delle umide tane sotterranee. Prima
che i Figli della Notte scomparissero, la razza doveva avere perso ogni
sembianza umana, vivendo costantemente una vita da rettili. Il mostro
somigliava più di tutto a un gigantesco serpente, ma aveva zampe abortite e
braccia sinuose con artigli ricurvi. Strisciava sul ventre e le labbra chiazzate,
ritratte, rivelavano denti simili ad aghi che pensai gocciolassero veleno.
Sibilando, rizzò l’orrida testa sorretta da un collo lunghissimo, mentre i
gialli occhi a mandorla luccicavano di tutto l’orrore generato negli atri covi
sotterranei.
Sapevo che quegli occhi mi avevano scrutato fiammeggianti dal buio
tunnel che si apriva sulla scala. Per qualche motivo il mostro era rifuggito da
me, forse perché temeva la luce della torcia, ed era plausibile che fosse
l’unico rimasto nelle grotte, altrimenti avrei subito un assalto nelle tenebre.
A parte quell’ultima creatura, nessuna insidia funestava più il sottosuolo.
Avanzò sinuoso verso i due esseri umani intrappolati sulla cornice di
roccia. Brent si mise davanti a Eleanor per difenderla e, terreo in volto, gli si
parò di fronte. E io, John O’Brien, fui lieto di poter pagare il debito che io,
Conan il predone, avevo da millenni con i due innamorati.
Il mostro si rizzò ancor di più e Brent, con freddo coraggio, gli balzò
incontro per affrontarlo a mani nude. Prendendo rapido la mira, feci fuoco
una sola volta. Lo sparo echeggiò con il suo boato letale fra le torri di
roccia. Con un urlo atrocemente umano, il mostro ondeggiò paurosamente
avvitandosi come un pitone ferito, infine precipitò dalla cornice per
sfracellarsi sulle rocce in fondo alla gola.
DELENDA EST

— Non è un impero, ti dico, è solo finzione. Impero? Bah! Pirati, ecco cosa
siamo! — Era Hunegais, naturalmente, sempre cupo e malinconico, con i
neri boccoli intrecciati e i baffi spioventi che tradivano l’origine slava.
Trasse un gran sospiro e il vino falerno traboccò dal calice di giada che
stringeva nella mano forte, macchiandogli la tunica rossa dai ricami dorati.
Bevve rumorosamente, come un cavallo, e tornò con gusto malinconico alla
sua rimostranza.
— Che cos’abbiamo fatto in Africa? Abbiamo eliminato i latifondisti e i
sacerdoti, per diventare noi stessi i latifondisti. Chi lavora la terra, i vandali?
Nient’affatto. Gli stessi che la lavoravano sotto i romani. Abbiamo
semplicemente preso il posto dei romani. Imponiamo tasse e affitti, e siamo
costretti a difendere la terra dai maledetti berberi. La nostra debolezza sta nel
numero. Non possiamo amalgamarci con il popolo, perché altrimenti
verremmo assimilati. Non possiamo fare di queste persone degli alleati e dei
sudditi. L’unica cosa che possiamo fare è mantenere un qualche prestigio
militare: siamo un piccolo nucleo di stranieri che stanno nelle loro fortezze e
che per il momento esercitano il potere su una nutrita popolazione indigena
la quale di fatto ci odia non meno di quanto odiasse i romani, ma...
— Parte di quell’odio si potrebbe eliminare — lo interruppe Ataulfo. Più
giovane di Hunegais, aveva un viso bello e ben rasato, e modi meno rozzi.
Era uno svevo che per tutta l’adolescenza era stato ostaggio nella corte
romana d’Oriente. — Sono ortodossi; se facessimo lo sforzo di rinunciare
all’arianesimo...
— No! — gridò Hunegais, aprendo e chiudendo la bocca con uno
schiocco così violento che avrebbe frantumato denti meno sani dei suoi. I
suoi occhi scuri ardevano di un fanatismo che, fra tutti i teutoni, era
appannaggio esclusivo della sua razza. — Mai. Noi siamo i signori. Tocca a
loro, non a noi, sottomettersi. Noi conosciamo la verità ariana; se i
miserabili africani non riescono a comprendere il loro errore, bisognerà
costringerli a capirlo con la torcia, la spada e se necessario la tortura della
ruota. — Poi gli occhi gli si appannarono di nuovo e, con un sospiro
profondo proveniente stavolta dalle viscere, allungò la mano verso il
boccale di vino.
— Tra cent’anni il regno dei vandali sarà solo un pallido ricordo —
predisse. — A tenerlo insieme, adesso, è solo la volontà di Genserico.
Ridendo, l’uomo così chiamato si appoggiò allo schienale della sua sedia
di ebano intagliata e stese le gambe muscolose. Erano le gambe di un
cavallerizzo, ma il loro proprietario aveva preferito alla sella il ponte di una
galea da guerra. Nell’arco di una generazione Genserico aveva trasformato
una razza di cavalleggeri in una razza di pirati. Era il re di un popolo il cui
nome era già divenuto sinonimo di distruzione e aveva il cervello più
brillante del mondo conosciuto.
Nato sulle rive del Danubio, era passato dall’infanzia all’età adulta
durante il lungo viaggio verso occidente, quando le migrazioni avevano
abbattuto le palizzate dei romani, e aveva portato alla corona creata per lui in
Spagna tutta la fiera saggezza che i tempi potevano insegnare, nel tripudio
delle spade e nell’ascesa e nel tramonto delle razze. I suoi selvaggi cavalieri
avevano gettato nell’oblio le lance dei governatori romani di Spagna.
Quando i visigoti e i romani, alleatisi, avevano cominciato a guardare a sud,
era stato Genserico, con i suoi intrighi, a condurre in massa verso occidente
gli unni di Attila, con il loro viso sfregiato e le miriadi di lance stagliate
contro il cielo fiammeggiante. Attila era morto, ormai, e nessuno sapeva
dove giacevano le sue ossa e i suoi tesori, sorvegliati dai fantasmi di
cinquecento schiavi trucidati; il suo nome echeggiava per tutto il mondo, ma
alla sua epoca non era stato che una delle pedine mosse senza tregua dalla
mano del re vandalo.
Quando, dopo la battaglia dei Campi Catalaunici, le orde dei goti si erano
dirette a sud attraversando i Pirenei, Genserico non era rimasto ad aspettare
di farsi schiacciare da un numero superiore di soldati. Gli uomini
maledicevano ancora Bonifacio, che aveva chiamato Genserico perché lo
aiutasse a sconfiggere il suo rivale Ezio e aveva così aperto ai vandali la
strada per l’Africa. La sua riconciliazione con Roma era stata troppo tardiva,
inutile come il coraggio con cui aveva tentato di disfare quello che aveva
fatto. Bonifacio era morto di spada vandala e un nuovo regno era sorto in
Africa. Anche Ezio era morto, e le grandi galee da guerra vandale si
dirigevano a nord, vascelli rollanti e beccheggianti sulle onde, con i lunghi
remi che pescavano nell’acqua luccicando argentei alla luce delle stelle.
Nella cabina della prima galea, Genserico ascoltava la conversazione dei
suoi capitani e sorrideva amabilmente lisciandosi la bionda barba ribelle con
le dita forti. Nelle sue vene non c’era traccia del sangue scitico che rendeva
la sua razza piuttosto diversa dalle altre razze teutoni e che si era infiltrato
nell’antica epoca in cui, spostandosi verso ovest a piedi o a cavallo incalzati
dagli invasori sarmati, gli sciti si erano mescolati alla popolazione del tratto
superiore dell’Elba. Era un germano puro: di media altezza, con spalle e
torace ampi e possenti e un massiccio collo taurino. Il suo corpo sprizzava
vitalità fisica quanto i grandi occhi azzurri vigore intellettuale.
Era l’uomo più forte del mondo conosciuto ed era un pirata, il primo dei
corsari teutonici che in seguito sarebbero stati definiti vichinghi; ma le sue
terre di conquista non erano affacciate né sul Mar Baltico né sul Mare del
Nord, e guardavano invece le sponde soleggiate del Mediterraneo.
— La volontà di Genserico è che beviamo, mangiamo e lasciamo al
domani il pensiero del domani — disse ridendo, in risposta all’ultima
osservazione di Hunegais.
— Ah, tu dici? — sbuffò Hunegais con la libertà che ancora esisteva tra i
barbari. — Ma quando mai hai lasciato al domani il pensiero del domani?
Tu pianifichi e pianifichi non solo per il domani, ma per mille domani a
venire. Non nasconderti dietro a una maschera con noi. Non siamo stupidi
romani che possono essere indotti a credere, come fu indotto a credere
Bonifacio, che tu sia stupido.
— Ezio non era uno stupido — mormorò Trasamundo.
— Ma è morto e noi stiamo veleggiando verso Roma — rispose
Hunegais, lasciando trapelare per la prima volta una certa soddisfazione. —
Grazie a Dio Alarico non si è preso tutto e sono contento che all’ultimo
momento Attila abbia perso coraggio: tanto più bottino ci sarà per noi.
— Attila si ricordava della sconfitta dei Campi Catalaunici — bofonchiò
Ataulfo. — C’è, in Roma, qualcosa che sopravvive sempre. Per tutti i santi,
è strano. Proprio quando l’impero sembra più sfasciato che mai, quando è
straziato, lordato e distrutto, alcune sue parti rinascono a nuova vita.
Stilicone, Teodosio, Ezio. Chi può dirlo? Magari stasera a Roma dorme un
uomo che ci sgominerà tutti.
Hunegais sbuffò e picchiò un pugno sul tavolo macchiato di vino.
— Roma è morta come la cavalla bianca che cavalcavo durante la presa di
Cartagine. Non abbiamo che da tendere le mani e strapparle il bottino.
— Una volta c’era un grande generale che la pensava così — disse
pigramente Trasamundo. — Tra l’altro, perdio, era un cartaginese. Me ne
sono dimenticato il nome, ma sconfiggeva in continuazione Roma.
Ammazzava e massacrava senza tregua; così faceva.
— Be’, alla fine avrà perso, altrimenti a quest’ora l’avrebbe distrutta —
osservò Hunegais.
— Proprio così — esclamò Trasamundo.
— Noi non siamo cartaginesi — rise Genserico. — E chi ha parlato di
saccheggiare Roma? Non stiamo solo veleggiando verso la città imperiale in
risposta all’appello dell’imperatrice, che è assediata da nemici invidiosi?
Adesso uscite, tutti quanti. Voglio dormire.
La porta della cabina si chiuse, ponendo fine alle cupe predizioni di
Hunegais, alle battute di Ataulfo e ai borbottii degli altri. Genserico si alzò,
si avvicinò al tavolo e si versò un ultimo bicchiere di vino. Zoppicava
perché molti anni prima la lancia di un franco lo aveva colpito a una coscia.
Portò il calice di giada alla bocca, poi si girò di scatto imprecando per lo
spavento. Non aveva sentito la porta della cabina aprirsi, ma un uomo gli
stava davanti dall’altra parte del tavolo.
— Per Odino! — disse, perché il suo arianesimo era molto superficiale.
— Che cosa ci fai nella mia cabina?
Dopo la prima esclamazione di paura, parlò con voce calma, quasi pacata.
Era troppo scaltro per manifestare i suoi veri sentimenti. Furtivamente
strinse la mano sull’elsa della spada. Un colpo improvviso e inaspettato e...
Ma lo sconosciuto non fece alcuna mossa ostile. Genserico non lo
conosceva, però capì che non era né teutone né romano. Era alto e bruno,
con una testa maestosa di boccoli fluenti tenuti fermi da una fascia rosso
scuro. Sul petto gli scendeva una barba nera e riccia da patriarca.
Guardandolo, il vandalo ebbe l’impressione, senza dubbio errata, di averlo
già visto da qualche parte.
— Non sono qui per farti del male — disse lo sconosciuto con voce
forte, profonda e tonante.
Genserico non poteva dedurre niente dal suo abbigliamento, perché
l’uomo era avvolto in un ampio mantello nero. Si chiese se per caso non vi
nascondesse sotto un’arma.
— Chi sei e come hai fatto a entrare nella mia cabina? — volle sapere.
— Chi sono non importa — replicò l’altro. — Mi trovo su questa nave da
quando siete partiti da Cartagine. Siete salpati di notte e sono salito a bordo
in quell’occasione.
— Non ti ho mai visto a Cartagine, eppure sei uno che si nota bene in
mezzo alla folla — mormorò Genserico.
— Abito a Cartagine — disse l’uomo. — Ci abito da molti anni. Vi sono
nato e tutti i miei antenati vi hanno visto la luce prima di me. Cartagine è la
mia vita! — Pronunciò l’ultima frase con tanta passione e intensità che
Genserico involontariamente indietreggiò, stringendo gli occhi.
— La popolazione della città ha qualche motivo per lamentarsi di noi —
disse il re vandalo — ma non ho ordinato io razzie e distruzione; fin
dall’inizio volevo fare di Cartagine la mia capitale. Se tu hai subito perdite a
causa del saccheggio, ebbene...
— Non a causa dei tuoi lupi — lo interruppe cupo l’altro. — Saccheggio
della città? Ho visto un tale sacco che nemmeno tu, barbaro, te lo puoi
immaginare. Ti chiamano barbaro, ma ho assistito a quello che fanno i civili
romani.
— Che io sappia, i romani non hanno saccheggiato Cartagine —
mormorò Genserico, aggrottando la fronte perplesso.
— Giustizia poetica! — esclamò lo sconosciuto, tirando fuori un braccio
dal mantello e battendo un pugno sul tavolo. Genserico notò che la mano
era forte e tuttavia bianca: la mano di un aristocratico. — La cupidigia e la
perfidia romane hanno distrutto Cartagine; il commercio l’ha ricostruita in
un’altra maniera. Ora tu, barbaro, salpi dai suoi porti per umiliare il
conquistatore. C’è forse da stupirsi che gli antichi sogni inargentino i cavi
della tua nave e si insinuino tra le stive, e che fantasmi dimenticati escano da
tombe antichissime per scivolare sui vostri ponti?
— Chi ha parlato di umiliare Roma? — disse, a disagio, Genserico. — Io
vado a Roma solo per fare da arbitro in una vertenza riguardante una
successione.
— Bah! — gridò lo sconosciuto picchiando di nuovo il pugno sul tavolo.
— Se tu sapessi quello che so io, spazzeresti via ogni traccia di vita da quella
maledetta città prima di volgere di nuovo la prua a sud. Proprio in questo
momento quelli dai quali stai andando tramano la tua rovina, e c’è anche un
traditore a bordo della tua nave.
— Che cosa intendi dire? — fece il vandalo con un tono da cui, come al
solito, non trapelavano né paura né emozione.
— Poniamo che ti fornissi la prova che il tuo più fido amico e vassallo
medita la tua rovina assieme a quelli in aiuto dei quali stai andando...
— Dammela e chiedimi ciò che vuoi — rispose Genserico con un’ombra
di cupezza.
— Prendi questa come pegno della mia fiducia — disse lo sconosciuto,
facendo tintinnare una moneta sul tavolo. Poi raccolse una cintura di seta
che lo stesso Genserico aveva gettato in terra con noncuranza. — Seguimi
nella cabina del tuo consigliere e scriba, il più bello di tutti i barbari.
— Ataulfo? — Suo malgrado, Genserico trasalì. — Ho più fiducia in lui
che in tutti gli altri.
— Allora non sei saggio come credevo — replicò tetro l’altro. — Il
traditore all’interno è più temibile del nemico all’esterno. Non furono le
legioni di Roma a conquistare me, ma i traditori all’interno delle mie porte.
Roma non commercia solo in spade e navi, ma anche in anime di uomini.
Sono venuto da una terra lontana per salvare il tuo impero e la tua vita. In
cambio non ti chiedo che una cosa: affoga Roma nel sangue!
Per un istante, con il possente braccio alzato, il pugno chiuso, gli occhi
neri dardeggianti, lo sconosciuto quasi si trasfigurò. Emanava un’aura
terribilmente autorevole, che riuscì a incutere timore perfino al selvaggio
vandalo. Poi, avvolgendosi nel mantello purpureo con un gesto regale, si
diresse alla porta e scomparve benché Genserico lo chiamasse e cercasse di
trattenerlo.
Imprecando per lo stupore, il re si trascinò zoppicando alla porta, la aprì e
guardò sul ponte. Una lampada ardeva a poppa e un fetore di corpi sporchi
giungeva dalla stiva, dove gli stanchi vogatori faticavano ai remi. Il rumore
ritmico degli scalmi rivaleggiava con quello via via più lontano delle galee
che seguivano la prima in una lunga fila spettrale. La luna strappava argento
alle onde per brillare bianca sul ponte. Un unico guerriero stava di guardia
davanti alla porta di Genserico e nel chiarore lunare il suo elmo dorato
fornito di cimiero e il corsaletto romano scintillavano. L’uomo alzò il
giavellotto in segno di saluto.
— Dov’è andato? — chiese il re.
— Chi, mio signore? — domandò il guerriero senza capire.
— L’uomo alto, idiota — fece spazientito Genserico. — L’uomo con il
mantello rosso che ha appena lasciato la mia cabina.
— Nessuno ha lasciato la tua cabina da quando il nobile Hunegais e gli
altri si sono congedati, mio sovrano — rispose sbalordita la sentinella.
— Bugiardo! — esclamò Genserico, sfilando la spada argentea dal
fodero.
Il guerriero impallidì e si ritrasse.
— Dio mi è testimone che stanotte non ho visto nessun uomo alto dal
mantello rosso, mio sovrano — giurò.
Genserico lo guardò torvo. Il re dei vandali sapeva giudicare gli uomini e
capì che la sentinella non gli aveva mentito. Sentì un formicolio alla nuca e,
voltandosi senza dire una parola, raggiunse in fretta la cabina di Ataulfo. Lì,
dopo un attimo di esitazione, aprì la porta.
Ataulfo giaceva scomposto sul tavolo, chiaramente esanime. Aveva il
viso viola, gli occhi sbarrati e vitrei, la lingua penzoloni annerita. A
strozzarlo era stata la cintura di seta di Genserico, legata con un nodo da
marinaio. Vicino a una mano c’era un calamo, accanto all’altra l’inchiostro e
un foglio di pergamena. Genserico raccolse la carta e lesse a fatica:

A Cesare, imperatore di Roma

Io, tuo fedele servitore, eseguendo i tuoi ordini mi accingo a


convincere il barbaro mio signore a rimandare il suo attacco alla
città imperiale al momento in cui ti arriverà l’atteso aiuto da
Bisanzio. Poi lo indurrò a entrare nella baia che sai, dove potrà
essere preso in trappola, distrutto con l’intera sua flotta e...

Uno scarabocchio dimostrava che la lettera era stata interrotta


all’improvviso.
Genserico guardò Ataulfo e sentì di nuovo i capelli rizzarglisi in testa.
Non c’era traccia dello sconosciuto alto e il re capì che non l’avrebbe più
rivisto.
— Roma pagherà per questo — borbottò. La maschera che soleva
indossare in pubblico gli cadde e di colpo si trasformò in un lupo famelico.
Non occorreva essere un’aquila per leggere nel suo sguardo torvo e nei suoi
grossi pugni chiusi la rovina di Roma. D’un tratto si ricordò di avere ancora
in mano la moneta che lo sconosciuto aveva gettato sul tavolo. Vi diede
un’occhiata ed emise un fischio, perché riconobbe i caratteri di un’antica
lingua dimenticata e un profilo che aveva visto spesso scolpito nel marmo
della vetusta Cartagine, preservato dall’odio romano.
— Annibale! — mormorò.
LA TOMBA SUL PROMONTORIO

— Questo è il tumulo che cerca — dissi, posando con cautela la mano su


una delle scabre pietre da cui era costituita la montagnola curiosamente
simmetrica.
Ortali, i cui occhi si accesero di un avido interesse, guardò il paesaggio
intorno, poi si concentrò sul grande mucchio di massi levigati dalle
intemperie.
— Che luogo strano, selvaggio e desolato — disse. — Chi avrebbe mai
pensato di trovare un posto simile da queste parti? Se non fosse per quel
fumo laggiù, non si immaginerebbe mai che di là dal promontorio sorga una
grande città. Qui in giro non si vedono nemmeno capanni di pescatori.
— La gente sta alla larga dal tumulo come ha fatto per secoli — osservai.
— Perché?
— Me lo ha già chiesto prima — dissi spazientito. — Posso solo
rispondere che adesso evitano per abitudine quello che i loro antenati
evitavano con cognizione di causa.
— Cognizione di causa! — fece con una risata canzonatoria. —
Superstizione, vorrà dire!
Gli lanciai una cupa occhiata piena di odio malcelato. Non avremmo
potuto essere più diversi. Lui era magro, calmo, inequivocabilmente latino
con quei suoi occhi neri e quell’aria sofisticata. Io ero robusto, goffo e
sgraziato, con freddi occhi azzurri e capelli rossi arruffati. Eravamo
connazionali, nel senso che eravamo nati nella stessa terra, ma le patrie dei
nostri antenati erano lontane quanto il Sud dal Nord.
— Superstizione nordica — ribadì. — Non me lo immagino, un popolo
latino che si astiene per tanti anni dall’indagare su un simile mistero. I latini
sono troppo pratici, troppo prosaici, se vogliamo. È sicuro della data a cui
risale il tumulo?
— Non ho trovato nessun accenno a esso nei manoscritti precedenti il
1014 d.C., e ho letto tutti quelli pertinenti nella lingua originale — brontolai.
— MacLiag, il poeta di re Brian Boru, dice che fu eretto subito dopo la
battaglia, e non vi è dubbio che faccia riferimento proprio a questo tumulo.
Viene poi nominato di passata anche nei successivi Annali dei Quattro
Maestri, nel Libro di Leinster, redatto alla fine del decennio 1150-1160, e
ancora nel Libro di Lecan, scritto dalla famiglia MacFirbis verso il 1416.
Tutti lo collegano con la battaglia di Clontarf, senza menzionare il motivo
per cui fu costruito.
— Ebbene, qual è il mistero che lo riguarda? — domandò. — Non è
forse più che naturale che i vichinghi sconfitti abbiano eretto un tumulo in
onore del loro grande capo morto in battaglia?
— Innanzitutto vi è un mistero riguardante l’esistenza del tumulo stesso
— risposi. — Erigere un monumento funebre fatto di sassi era un’usanza
vichinga, non irlandese, eppure, secondo i cronisti, non furono i vichinghi a
erigere questo. Come avrebbero potuto costruirlo subito dopo la battaglia
nella quale erano stati massacrati e intercettati mentre cercavano di rifugiarsi
dentro le porte di Dublino? I loro condottieri giacevano dov’erano caduti e i
corvi beccavano le loro ossa. Furono mani irlandesi a erigerlo.
— Be’, e le pare così strano? — insistette Ortali. — Nell’antichità gli
irlandesi erigevano tumuli prima di combattere: ciascun soldato depositava
un sasso e dopo la battaglia i superstiti riprendevano il loro, permettendo
così a chi avesse voluto contare i sassi rimanenti di conoscere il numero dei
morti.
Scossi la testa. — Questo avveniva in tempi più remoti, non all’epoca
della battaglia di Clontarf. In primo luogo c’erano più di ventimila guerrieri,
e quattromila caddero qui: questo tumulo non è così grande da permettere di
calcolare il numero degli uomini morti in battaglia. Inoltre, è costruito in
maniera troppo simmetrica. In tutti questi secoli non è crollata praticamente
neanche una pietra. No, fu eretto per nascondere qualcosa.
— Superstizioni nordiche! — rise di nuovo Ortali.
— Sì, superstizioni, se vuole! — Piccato per lo scherno, lo dissi con tale
violenza che fece istintivamente un passo indietro e si infilò la mano nel
soprabito. — Noi dell’Europa settentrionale avevamo dei e demoni al
confronto dei quali le esangui mitologie mediterranee appaiono puerili. Al
tempo in cui i suoi antenati si stravaccavano su cuscini di seta tra le fatiscenti
colonne di marmo di una civiltà decadente, i miei costruivano la propria
civiltà con sacrificio e gigantesche battaglie contro nemici umani e inumani.
“Qui, in questa stessa pianura, il Medioevo finì e la timida alba di una
nuova era illuminò un mondo di odio e anarchia. Qui, come perfino lei sa,
nell’anno 1014 Brian Boru e i suoi dalcassiani armati di asce annientarono
per sempre il potere dei vichinghi pagani, quei truci razziatori anarchici che
avevano impedito per secoli il progresso della civiltà.
“Fu qualcosa di più di una battaglia tra gaeli e norreni per la corona
d’Irlanda. Fu una guerra tra il ‘Cristo Bianco’ 1 e Odino, tra cristiani e
pagani. Fu l’ultima resistenza opposta dai pagani, dal popolo che seguiva
antiche, fosche tradizioni. Per trecento anni il mondo aveva subito il giogo
vichingo, e qui, a Clontarf, il flagello norreno fu eliminato per sempre.
“Allora come adesso l’importanza di quella battaglia fu sottovalutata dai
raffinati scrittori e storici latini o latinizzati. Gli squisiti esteti delle civili città
del Mediterraneo non si interessavano alle battaglie combattute dai barbari
nel più remoto angolo nordoccidentale del mondo, non si curavano di
luoghi e popoli di cui conoscevano a malapena il nome; sapevano solo che
all’improvviso i re dei mari avevano smesso di condurre le loro terribili
scorrerie sulle coste nordiche. Nell’arco di un altro secolo la selvaggia epoca
delle razzie e dei massacri fu quasi dimenticata, perché un popolo
semibarbaro che a stento si copriva le nudità con pelli di lupo si era ribellato
ai conquistatori.
“La battaglia di Clontarf segnò il Ragnarok, il crepuscolo degli dei. Fu in
essa che Odino venne sconfitto, perché alla sua religione fu assestato un
colpo mortale. Odino fu l’ultimo degli dei pagani a combattere il
cristianesimo e per un certo tempo parve che i suoi figli potessero prevalere
e far ripiombare il mondo nelle tenebre della barbarie. Dice la leggenda che,
prima di Clontarf, egli apparisse spesso ai suoi fedeli, sulla terra. Lo
scorgevano tra il fumo di sacrifici in cui nude vittime umane morivano fra
atroci tormenti, lo vedevano a cavallo di nubi sfilacciate dal vento con i
riccioli scomposti dalla tempesta, lo riconoscevano mentre, sotto le
sembianze di guerriero vichingo, vibrava colossali fendenti in prima linea
nelle battaglie più tremende. Ma dopo Clontarf non fu più avvistato; i suoi
fedeli lo invocavano invano con canti selvaggi e sacrifici orrendi. Essi
persero la fede in lui, che li aveva abbandonati nell’ora più tragica; i suoi
altari crollarono, i suoi sacerdoti invecchiarono e morirono, e gli uomini si
rivolsero a colui che lo aveva sconfitto: il Cristo Bianco. Il regno del sangue
e del ferro fu dimenticato; l’era degli dei marini dalle mani insanguinate
tramontò. Lentamente il sole sorse fioco a illuminare la notte del Medioevo e
gli uomini dimenticarono Odino, che non tornò più sulla terra.
“Sì, rida pure, se vuole, ma chissà quali forme l’orrore ha assunto nelle
tenebre, nella gelida tetraggine, nei sibilanti, atri abissi del Nord. Nel Sud
splende il sole, sbocciano i fiori e sotto il dolce cielo gli uomini ridono dei
demoni. Ma nel Nord chi può dire quali malvagi spiriti primordiali si
annidino nell’oscurità e nelle furibonde tempeste? Può darsi benissimo che a
simili diavoli notturni si siano ispirati gli uomini quando fondarono il culto
di divinità spaventose come Odino, Thor e gli altri terribili dei germanici.”
Come preso in contropiede dalla mia veemenza, Ortali rimase zitto per
qualche istante, poi scoppiò a ridere. — Ben detto, caro il mio filosofo
nordico. Discetteremo di questi argomenti un’altra volta. È abbastanza
logico che un discendente dei barbari del Nord conservi qualche traccia dei
sogni e del misticismo della sua razza, ma non si aspetti che io sia toccato
dalle sue fantasie. Continuo a credere che il tumulo non nasconda segreto
più fosco di un capo norreno caduto in battaglia e che i suoi deliri sui
diavoli germanici non abbiano alcun nesso con la faccenda. Mi vuole aiutare
a scavare qui dentro?
— No — risposi lapidario.
— Poche ore di lavoro basteranno a riportare alla luce qualunque cosa si
celi qui sotto — continuò Ortali come se non mi avesse udito. — E a
proposito di superstizioni, non c’è la sciocca leggenda di un agrifoglio, che
riguarda questo tumulo?
— Dice una vecchia leggenda che, per qualche misterioso motivo, tutti
gli alberi di agrifoglio furono abbattuti nel raggio di una lega — risposi
cupo. — È un altro mistero. L’agrifoglio aveva un ruolo importante nella
magia norrena. I Quattro Maestri parlano di un vichingo, un vecchio dalla
barba bianca e dall’aria spiritata, a quanto pare un sacerdote di Odino, che
fu ammazzato dagli indigeni mentre tentava di deporre un ramo di agrifoglio
sul tumulo un anno dopo la battaglia.
— Bene — rise Ortali — ho portato un rametto di agrifoglio e me lo
infilerò all’occhiello, vede? Forse mi proteggerà dai suoi diavoli nordici.
Sono arcisicuro che in questa tomba giaccia un vichingo e che, come i suoi
pari, sia stato sepolto con tutte le proprie ricchezze: coppe d’oro, else
tempestate di gemme, corsaletti d’argento. Secondo me il tumulo contiene
un tesoro nel quale gli stupidi contadini irlandesi che vivevano
nell’indigenza e morivano di fame sono inciampati per secoli. Bah,
torneremo qui verso mezzanotte, quando saremo abbastanza sicuri di non
essere interrotti. E lei mi aiuterà a scavare.
Pronunciò l’ultima frase con un tono che mi fece andare il sangue alla
testa. Voltò le spalle e, mentre ancora parlava, cominciò a esaminare la
montagnola. Quasi senza volere raccolsi furtivamente una pietra pesante e
appuntita che si era staccata da un masso: in quel momento avevo più voglia
di uccidere di qualunque altra persona al mondo. Un colpo rapido e violento
assestato in silenzio e mi sarei per sempre liberato da una schiavitù amara
come quella che i miei antenati celti avevano patito sotto il dominio norreno.
Come percependo i miei pensieri, Ortali si girò a guardarmi. Infilai subito
la pietra in tasca, senza sapere se avesse notato il gesto. Ma evidentemente
vide la rossa sete di sangue che mi ardeva negli occhi, perché ancora una
volta fece un passo indietro e cercò con la mano il revolver nascosto.
Tuttavia disse solo: — Ho cambiato idea. Non scaveremo stasera, ma
magari domani notte. Forse ci stanno spiando. Ora torno in albergo.
Non feci commenti, ma gli voltai le spalle e mi avviai depresso verso la
spiaggia. Lui si arrampicò sul promontorio oltre il quale sorgeva la città;
quando mi girai a guardarlo, stava superando la cima e la sua figura si
stagliava netta contro il cielo caliginoso. Se l’odio uccidesse, sarebbe morto
sul colpo. Lo vidi nella foschia rossastra e il sangue mi martellò furioso
nelle tempie.
Mi volsi di nuovo verso la spiaggia e mi fermai di botto. Assorto nei miei
cupi pensieri, ero giunto a pochi passi da una donna senza nemmeno
accorgermi della sua presenza. Alta e robusta, aveva un viso severo e
squadrato, rugoso e segnato dalle intemperie come le colline. Era vestita in
maniera strana, ma, sapendo che nelle culture contadine arretrate si predilige
un abbigliamento particolare, non vi badai.
— Che cosa facevate presso il tumulo? — chiese con una voce sonora e
profonda. La guardai stupito: parlava gaelico, il che di per sé non era strano,
ma era il gaelico puro, con inflessioni arcaiche, di cui si occupavano solo gli
studiosi e che credevo estinto da tempo. Una campagnola di qualche valle
isolata, pensai, dove la gente parlava ancora la lingua genuina degli antenati.
— Ci stavamo interrogando sul suo mistero — risposi nella stessa lingua
con fatica, perché, sebbene parlassi correntemente il gaelico moderno
insegnato nelle scuole, quello antico mi richiedeva un notevole sforzo.
Scosse lentamente la testa. — Non mi piace l’uomo bruno che era con te
— disse cupa. — Tu chi sei?
— Sono un americano — risposi. — Mi chiamo James O’Brien.
Una strana luce brillò nei suoi occhi freddi.
— O’Brien? Appartieni al mio stesso clan. Io sono una O’Brien. Ho
sposato un MacDonnal, ma il mio cuore sarà sempre con la gente del mio
sangue.
— Vivi nei dintorni? — domandai, pensando al suo strano accento.
— Sì, vivevo qui un tempo, ma sono stata via a lungo — rispose. —
Tutto è cambiato, molto cambiato. Non sarei ritornata se non fossi stata
richiamata da qualcosa che non puoi capire. Dimmi, scoperchierete quella
tomba?
Trasalii e la guardai intento, pensando che avesse udito in qualche modo
la nostra conversazione.
— Non sono io a decidere — risposi aspro. — Ortali, l’uomo che era con
me, vi scaverà sicuramente e io sarò costretto ad aiutarlo. Se fosse per me, la
lascerei stare.
Mi trafisse con i suoi occhi freddi.
— Gli stolti corrono ciecamente incontro al loro destino — sentenziò
cupa. — Che ne sa quell’uomo dei misteri di questa antica terra? Qui furono
compiute gesta della cui portata si parlò in tutto il mondo. Nel lontano
passato, quando la foresta di Tomar si stagliava scura e frusciante contro la
piana di Clontarf e le mura danesi di Dublino torreggiavano a sud del
Liffey, i corvi si cibarono dei morti ammazzati e il sole calante illuminò
laghi di sangue. Laggiù re Brian, tuo e mio antenato, spezzò le lance dei
nordici. Giunsero da tutte le terre e dalle isole del mare; vennero con le cotte
luccicanti e gli elmi dalle grandi corna che proiettavano lunghe ombre in
terra. Le loro prue a forma di drago solcavano il mare e il suono dei loro
remi pareva il rombo della tempesta.
“Su quella pianura gli eroi caddero come grano maturo davanti alla falce.
Caddero Jarl Sigurd delle Orcadi e Brodir di Man, ultimo dei vichinghi, e
tutti i loro capi. Laggiù furono abbattuti anche il principe Murrogh, suo
figlio Turlogh e molti condottieri dei gaeli, nonché lo stesso re Brian Boru,
il più potente sovrano di Erin.”
— È vero — dissi, come sempre infiammato dall’epica storia della mia
terra ancestrale. — I miei antenati versarono qui il loro sangue, e anche se io
sono nato in una terra lontana, vi sono vincoli profondi che mi legano a
queste sponde.
Annuì lentamente e trasse dalla tunica qualcosa che emise un lieve
luccichio nel sole del tramonto.
— Prendi questo — disse. — Te lo do come segno del nostro legame di
sangue. Ho la sensazione che accadranno cose strane e terribili, ma questo ti
proteggerà dal male e dal popolo della notte. È più sacro di quanto si possa
immaginare.
Lo presi e lo guardai perplesso. Era un crocifisso d’oro, lavorato in
maniera strana e tempestato di minuscole gemme. Era di foggia molto
arcaica e inequivocabilmente celtico. Mi ricordai vagamente di una reliquia
da lungo tempo persa, che era stata descritta da antichi monaci in oscuri
manoscritti.
— Dio mio, ma questo è... deve essere... non può essere altro che il
crocifisso perduto del venerabile san Brandano! — esclamai.
— Sì — disse, chinando il viso austero. — È la croce di san Brandano,
forgiata dal venerabile tanto tempo fa, all’epoca in cui pace e santità
regnavano felici su questa terra e i barbari vichinghi non avevano ancora
messo a ferro e fuoco Erin.
— Ma non posso accettare un simile dono da te — protestai vivamente.
— È chiaro che non ne conosci il valore. Già come gioiello vale moltissimo;
in quanto reliquia, poi, il suo prezzo è inestimabile.
— Basta — mi zittì con la sua voce profonda. — Smettila con questi
discorsi blasfemi. La croce di san Brandano non ha prezzo. Non è mai stata
lordata da moneta di scambio ed è passata di mano in mano solo come dono.
Te la do perché ti protegga dalle potenze del male. Non dire altro.
— Ma era andata smarrita almeno tre secoli or sono — esclamai. —
Come... dove...?
— Un sant’uomo me la diede tanto tempo fa — rispose. — L’ho nascosta
in seno, dov’è rimasta a lungo. Adesso però la dono a te; sono venuta qui da
una terra lontana per dartela, perché sento che cose terribili stanno per
accadere ed essa rappresenta una spada e uno scudo contro il popolo della
notte. Un male antico si sta ridestando nella sua prigione, che le mani cieche
della follia potrebbero aprire; ma più forte di qualsiasi male è la croce di san
Brandano, che ha acquisito sempre più potere nelle lunghe ere trascorse da
quando quel male oggi dimenticato cadde sulla terra.
— Ma chi sei, tu? — domandai.
— Sono Meve MacDonald — rispose.
Poi, senza aggiungere una parola, voltò le spalle e si allontanò nella luce
sempre più fioca del crepuscolo. Sconcertato, la guardai attraversare il
promontorio, superarne la cima e dirigersi verso l’entroterra, scomparendo
alla vista. Allora anch’io, come svegliandomi da un sogno, mi incamminai
lentamente. Quando superai la cima del promontorio, fu come passare da un
mondo all’altro: alle mie spalle c’era una landa desolata e deserta dal
bizzarro sapore medievale, mentre davanti a me pulsavano le luci e il
frastuono della moderna Dublino. Nello scenario di fronte distinguevo un
unico residuo di antichità: dalla parte dell’entroterra si levavano le lapidi in
rovina di un antico cimitero. Da tempo abbandonato e ricoperto di erbacce,
si notava appena nella sera incombente. Mentre guardavo, vidi un’alta figura
muoversi tra i cippi fatiscenti e scossi la testa incredulo: Meve MacDonald
doveva essere pazza per vivere nel passato e cercare di far rivivere le ceneri
dei morti giorni. Mi diressi verso il punto in cui brillavano le prime finestre
illuminate dell’immenso oceano di luci di Dublino.
Tornato nell’albergo di periferia in cui avevamo preso alloggio, non
parlai a Ortali della croce che la donna mi aveva donato; almeno in quello
non doveva mettere becco. Intendevo tenerla finché Meve non mi avesse
chiesto di restituirgliela, cosa che ero sicuro avrebbe fatto. Mentre ripensavo
al suo aspetto e al suo abbigliamento strani, mi tornò in mente un particolare
che mi aveva colpito, ma che sul momento non era affiorato alla coscienza:
Meve calzava un tipo di sandalo che in Irlanda non si portava più da secoli.
Mah, forse era normale che, essendo per temperamento molto legata alla
tradizione, indossasse abiti che ricordavano quel passato cui consacrava tutti
i suoi pensieri.
Mi rigirai il crocifisso tra le dita con un senso di reverenza. Era proprio
quello che gli antiquari avevano cercato invano per tanto tempo e del quale,
esasperati dall’infruttuosità dei loro sforzi, avevano finito per negare
l’esistenza. In un trattato stilato nel 1690, il sacerdote ed erudito Michael
O’Rourke aveva descritto dettagliatamente la reliquia e ne aveva ricostruito
con minuzia la storia. A suo avviso, l’ultima volta in cui se ne era sentito
parlare, il crocifisso era nelle mani del vescovo Liam O’Brien, che quando
era morto, nel 1595, lo aveva affidato alle cure di una parente la cui identità
non si era mai saputa; a detta di O’Rourke, la donna non avrebbe mai
parlato con nessuno del suo segreto e si sarebbe portata l’oggetto nella
tomba.
In un altro momento il mio entusiasmo per la scoperta della reliquia
sarebbe stato immenso, ma in quella particolare circostanza mi sentivo il
cuore troppo pieno di odio e furia malcelata. Rinfilandomi il crocifisso in
tasca, mi misi a riflettere irritato sui miei rapporti con Ortali, che lasciavano
sconcertati i miei amici ma alla fine erano facilmente spiegabili.

Qualche anno prima avevo frequentato una grande università come


studente lavoratore. Uno dei miei professori, un uomo di nome Reynolds,
aveva un atteggiamento insopportabilmente arrogante verso coloro che
considerava inferiori. Io ero uno studente povero che cercava di
sopravvivere in un sistema che rende precaria l’esistenza stessa di persone
del genere. Sopportai i maltrattamenti del professor Reynolds finché potei,
ma un giorno litigammo. Il motivo non importa, di per sé era banale.
Siccome osai rispondere per le rime ai suoi insulti, Reynolds mi colpì e io
gli diedi un pugno che lo fece svenire.
Quello stesso giorno mi cacciò dall’università. Posto di fronte alla
prospettiva non solo di non studiare e lavorare più, ma anche di morire di
fame, fui preso dalla disperazione e quella sera, a tarda ora, andai nello
studio del professore con l’intenzione di suonargliele di santa ragione. Lo
trovai da solo nella stanza, ma appena entrai balzò in piedi e mi si avventò
contro come una belva, stringendo un pugnale che usava come fermacarte.
Non lo colpii; non lo toccai neppure. Feci un balzo per schivare il colpo, lui
scivolò sul tappeto, cadde lungo disteso e sotto i miei occhi inorriditi si
trafisse da solo il cuore con il pugnale. Morì all’istante. D’un tratto mi resi
conto della mia delicata posizione. Si sapeva che avevamo litigato e perfino
che ci eravamo presi a pugni. Avevo ogni motivo di odiarlo. Se mi avessero
trovato nello studio dove giaceva il cadavere di Reynolds, nessuna giuria al
mondo si sarebbe mai convinta che non l’avessi assassinato io. Fuggii dalla
stessa parte da cui ero entrato, pensando di passare inosservato, ma Ortali, il
segretario del professore, mi aveva visto. Tornando da una sala da ballo,
aveva notato che entravo nelle stanze di Reynolds e, seguendomi, aveva
assistito a tutta la scena dalla finestra. Questo però lo seppi solo in seguito.
Il corpo fu trovato dalla governante, e naturalmente il fatto destò grande
scalpore. I sospetti si appuntarono su di me, ma per mancanza di prove non
poterono incriminarmi e per il medesimo motivo la giuria emise un verdetto
di suicidio. Per tutto quel tempo Ortali non disse una parola. Dopo che fu
letta la sentenza, venne da me e mi rivelò di essere al corrente di ogni cosa.
Sapeva naturalmente che non ero un assassino, ma avrebbe potuto
dimostrare che mi trovavo nello studio quando il professore era morto ed
era capacissimo di tradurre in atto la sua minaccia, ossia di giurare d’avermi
visto ammazzare Reynolds a sangue freddo. Così cominciò sistematicamente
a ricattarmi.
Devo dire che mai ricatto fu più strano. All’epoca non avevo soldi; Ortali
puntò sul mio futuro, perché aveva fiducia nelle mie capacità. Mi anticipò
dei soldi e, con abili manovre, mi procurò un posto in un grande college.
Poi cominciò a raccogliere in abbondanza i frutti del suo piano. Ottenni
infatti un enorme successo. Presto percepii un lauto stipendio per il mio
lavoro e ricevetti ricchi premi e riconoscimenti per impegnative ricerche di
varia natura. Guadagnai molti soldi, la maggior parte dei quali andò a Ortali.
Parevo avere il tocco di Mida, tuttavia del vino del mio successo gustavo
solo la feccia.
Non avevo neanche un centesimo intestato a mio nome. Il denaro che
fluiva nelle mie mani serviva solo ad arricchire, all’insaputa del mondo, il
mio sfruttatore. Uomo di notevole talento, avrebbe potuto avere successo in
qualsiasi campo, ma a causa di una vena di stravaganza unita a
un’incredibile cupidigia si era ridotto a fare il parassita, la sanguisuga.
Il viaggio a Dublino era stato una vacanza, per me. Ero esausto per i miei
studi e la fatica. Ma lui in qualche modo aveva saputo del tumulo di
Grimmin, com’era chiamata la tomba, e come un avvoltoio sull’usta di un
cadavere aveva subito pensato di cercare il tesoro nascosto. Un calice d’oro
massiccio sarebbe bastato a ricompensarlo della fatica di scavare nel tumulo,
e gli pareva ragione sufficiente per profanare o addirittura distruggere
l’antico monumento. Era un porco che adorava un unico dio: il denaro.

Bene, pensai cupo mentre mi svestivo per andare a letto, tutto finisce, sia
il bene sia il male. La vita che avevo vissuto era intollerabile. Ortali mi aveva
fatto balenare davanti agli occhi lo spettro del patibolo, finché quest’ultimo
aveva perso la sua aura orribile. Avevo vacillato sotto il pesante fardello
perché amavo il mio lavoro, ma la sopportazione umana ha un limite. Mi
sentii le mani di piombo mentre pensavo a quell’uomo che a mezzanotte si
metteva a scavare con me nella tomba solitaria. Se lo avessi colpito con la
pietra che mi ero infilato in tasca, avrei posto fine alla mia angoscia; ma era
inevitabile che terminassero con essa anche vita, speranza, carriera e
ambizioni. Ah, che fine tristissima per i miei grandi sogni! Quant’era brutto
che troncassi una carriera onorata e una vita utile con un lungo salto in una
botola attaccato a un pezzo di corda! E tutto a causa di un vampiro umano
che si cibava della mia anima per soddisfare le sue luride brame,
spingendomi verso l’omicidio e la rovina.
Ma sapevo che il mio destino era scritto nell’inesorabile libro della morte.
Prima o poi avrei aggredito e ucciso Ortali, anche a costo di finire sul
patibolo. Ero arrivato al capolinea. Credo che la tortura troppo prolungata
mi avesse fatto quasi impazzire. Sapevo che quando, a mezzanotte, avessimo
scavato nel tumulo di Grimmin, avrei posto fine alla vita di Ortali e rovinato
la mia.
Qualcosa mi cadde dalla tasca e lo raccolsi: era la pietra appuntita che
avevo preso dalla tomba. Guardandola con tristezza, mi chiesi quali strane
mani l’avessero toccata un tempo e quale fosco segreto si celasse sul nudo
promontorio di Grimmin. Spensi la luce e rimasi sdraiato al buio, così
assorto nei miei cupi pensieri da dimenticarmi di avere la pietra ancora in
mano. A poco a poco piombai in un sonno profondo.
All’inizio, come capita a molti, mi resi conto di stare sognando. Tutto era
vago, confuso e, compresi, curiosamente connesso con la pietra che
stringevo ancora in mano. Davanti ai miei occhi scenari, paesaggi ed eventi
caotici e colossali si susseguivano con la velocità di nubi che viaggiassero
rapide nella tempesta. Pian piano tutto il tumulto si placò, cristallizzandosi in
un’unica, particolare scena, a me familiare e tuttavia assolutamente estranea.
Scorsi una grande pianura brulla, circondata su un lato dal mare grigio e
sull’altro da una cupa foresta frusciante; era attraversata da un fiume
sinuoso, e di là dal fiume vidi una città che nella mia vita cosciente non
avevo mai visto: grande, desolata, dominata da un’architettura fosca che
risaliva a una lontana epoca selvaggia. Sulla pianura vidi svolgersi, come
avvolta in una nebbia, una battaglia campale. Schiere serrate avanzavano e
indietreggiavano, l’acciaio delle lame lampeggiava come un mare illuminato
dal sole e i soldati cadevano sotto i colpi come grano maturo. Vidi uomini
selvaggi e scarmigliati, vestiti di pelli di lupo, brandire asce gocciolanti
sangue, e giganti dagli occhi freddi e azzurri come il mare muoversi con la
cotta luccicante e l’elmo dotato di corna. E vidi me stesso.
Sì, nel sogno vidi e riconobbi, come in un riquadro, la mia persona. Ero
alto, slanciato, forte. Scarmigliato, con un semplice perizoma di pelle di lupo
addosso, correvo tra i ranghi urlando e vibrando colpi con un’ascia
arrossata e il sangue mi colava lungo i fianchi da ferite che non mi ero
nemmeno accorto di avere. Gli occhi erano di un gelido azzurro, mentre gli
ispidi capelli e la barba rossi.
Per un attimo mi resi conto della mia doppia personalità: compresi che
ero a un tempo un selvaggio che imperversava con l’ascia imbrattata di
sangue e l’uomo che dormiva profondamente, sognando secoli passati. Ma
la sensazione presto passò. Non avvertii più altra personalità che quella di
un barbaro impegnato a correre e ammazzare. James O’Brien non esisteva
più; ero l’irlandese Cumal il Rosso, fante dell’esercito di Brian Boru, e la
mia ascia stillava sangue di nemici.
Il frastuono della battaglia si stava smorzando, anche se qui e là si
vedevano ancora nella pianura gruppi di guerrieri in lotta. Lungo il fiume,
irlandesi seminudi, immersi fino alla vita nell’acqua rosseggiante, si
accapigliavano con guerrieri dotati d’elmo, la cui corazza non li salvava
dalle asce dalcassiane. Oltre il fiume un’orda insanguinata e caotica si
trascinava avanti cercando di entrare dalle porte di Dublino.

Il sole calò sull’orizzonte. Tutto il giorno avevo combattuto a fianco dei


condottieri. Avevo visto Sigurd cadere trafitto dalla spada del principe
Murrogh. Avevo visto Murrogh stesso, nel momento della vittoria, morire
per mano di un truce gigante con la corazza il cui nome non conoscevo.
Avevo visto, durante la fuga del nemico, Brodir e re Brian cadere insieme
sulla soglia della tenda del grande sovrano.
Sì. Era stata una festa per i corvi, un rosso mare di sangue, e sapevo che
le flotte dalla prua a forma di drago non sarebbero più giunte dall’azzurro
Nord per mettere a ferro e fuoco la nostra terra. Dappertutto i vichinghi, con
le loro cotte di maglia luccicanti, giacevano riversi come il grano maturo
dopo la mietitura. In mezzo ai loro vi erano migliaia di cadaveri avvolti nelle
pelli di lupo delle tribù irlandesi, ma i morti norreni erano assai più
numerosi dei morti di Erin. Ero stanco e nauseato dal puzzo di sangue
fresco. Mi ero saziato l’anima di massacri; ora cercavo il bottino e lo trovai
su un condottiero vichingo dalle ricche vesti, che giaceva vicino alla riva del
mare. Gli strappai il corsaletto di squame d’argento e l’elmo con le corna.
Mi si adattavano come se fossero stati fatti per me e aggirandomi tra i morti
chiamai i miei selvaggi compagni perché mi ammirassero, anche se il
corsaletto mi sembrava strano, in quanto noi gaeli disprezziamo le armature
e combattiamo seminudi.
Nella mia ricerca di bottino mi spinsi ai limiti della pianura, lontano dal
fiume; i cadaveri con la corazza erano sparpagliati, perché quando i nemici
avevano rotto le fila, i fuggitivi e i loro inseguitori si erano sparsi per tutta la
campagna, che andava dalle cime ondeggianti dei cupi alberi di Tomar al
fiume e alla riva del mare. Sul promontorio di Drumna, dal quale non si
vedevano più né la città né la piana di Clontarf, mi imbattei all’improvviso
in un guerriero morente. Era alto e grosso, avvolto in una corazza grigia.
Giaceva coperto in parte dalle pieghe di un grande mantello scuro e accanto
alla forte mano destra aveva la spada spezzata. L’elmo con le corna gli era
caduto dalla testa e i riccioli da elfo erano mossi dal vento dell’Ovest.
Al posto di un occhio c’era l’orbita vuota, mentre l’altro, anche se già
vitreo per la morte imminente, brillava freddo e cupo come il Mare del
Nord. Il sangue gli usciva da una ferita nel corsaletto. Mi avvicinai con
cautela, preso da uno strano, gelido timore che non riuscivo a definire. Con
l’ascia pronta a spappolargli il cervello, mi chinai su di lui e vidi che era il
condottiero che aveva ucciso il principe Murrogh e falciato come fieno i
guerrieri gaelici. Ovunque avesse combattuto, quel vichingo aveva vinto,
ma in tutte le altre parti del campo di battaglia i gaeli erano stati irresistibili.
Mi parlò in norreno e capii, perché dopotutto ero stato schiavo dei
vichinghi per lunghi, amari anni.
— I cristiani hanno vinto — disse con una voce che, pur roca e flebile
nell’agonia, mi fece rabbrividire: evocava il freddo mare che spazza le rive
nordiche e il gelido vento che mormora tra i pini. — Morte e ombra
attendono ad Asgard in questo giorno del Ragnarok. Non ho potuto
combattere contemporaneamente in tutte le parti del campo e adesso sono
ferito a morte. Una lancia, una lancia con una croce incisa nella lama;
nessun’altra arma avrebbe potuto ferirmi.
Compresi che il condottiero, vedendo con gli occhi appannati dalla morte
la mia barba rossa e l’armatura norrena, mi aveva scambiato per uno della
sua razza. Ma un orrore cupo e strisciante si insinuò nel profondo della mia
anima.
— Cristo Bianco, non mi hai ancora conquistato — mormorò nel delirio.
— Sollevami, amico, e lascia che ti parli.
Per qualche motivo lo accontentai, tirandolo su e mettendolo seduto.
Provai un brivido che mi fece accapponare la pelle quando lo toccai, perché
aveva la carne come avorio, più liscia e dura della normale carne umana e
ancor più fredda di quella di un moribondo.
— Muoio come muoiono gli uomini — mormorò. — Sono stato stupido
ad assumere gli attributi umani, anche se l’ho fatto per aiutare il popolo dei
miei fedeli. Gli dei sono immortali, ma la carne muore anche quando
racchiude un dio. Presto, portami un ramo della pianta magica, l’agrifoglio,
e mettimelo sul petto. Anche se non è più grande di una punta di pugnale,
mi libererà dalla prigione della carne in cui mi sono lasciato intrappolare
quando sono venuto a fare la guerra con gli uomini e le loro armi. Mi
spoglierò di questa carne e tornerò ancora una volta tra le nubi tonanti. Guai
allora agli uomini che non si inginocchieranno davanti a me! Presto: aspetto
che tu mi porti l’agrifoglio.
Reclinò indietro la testa leonina. Rabbrividendo, gli tastai il petto sotto la
corazza e non sentii il battito del cuore. Come uomo era morto, ma sapevo
che sotto le sembianze umane si celava lo spirito di un demone del gelo e
delle tenebre.
Sì, l’avevo riconosciuto: era Odino, l’Uomo Grigio, il Monocolo, il dio
nordico che aveva assunto forma di guerriero per combattere per il suo
popolo. Accettando di darsi tali sembianze, si era assoggettato a molti dei
limiti dell’umanità. Tutti sapevano che gli dei spesso camminavano sulla
terra sotto apparenze umane. Odino, abbigliato come un guerriero, poteva
essere ferito da certe armi e perfino ucciso, ma bastava il tocco del
misterioso agrifoglio per infondergli nuova vita in una fosca resurrezione.
Non riconoscendo in me un nemico, mi aveva affidato il compito di
portargli la magica pianta; quando assumeva l’aspetto di un uomo poteva
usare solo facoltà umane, e queste erano state danneggiate in punto di morte.
Con la pelle accapponata e i capelli ritti in testa, mi spogliai del corsaletto
norreno e cercai di vincere il folle panico che mi suggeriva di fuggire
urlando per la pianura. Nauseato dal terrore, raccolsi grosse pietre e le
ammucchiai, preparando un rozzo letto sopra il quale deposi con mano
tremante il cadavere del dio vichingo. Quando il sole tramontò e spuntarono
silenziose le stelle, lavoravo ancora con furibonda energia, ammucchiando
grossi macigni sul cadavere. Comparvero altri irlandesi e dissi loro chi stavo
seppellendo, mi auguravo per sempre. Con un brivido di orrore, si misero
ad aiutarmi. Nessun ramo di agrifoglio magico doveva essere deposto sul
terribile petto di Odino. Sotto quelle rozze pietre il demone nordico avrebbe
dovuto dormire fino alle trombe del Giorno del giudizio, dimenticato dal
mondo che un tempo aveva patito sotto il suo giogo, ma non dimenticato del
tutto, perché mentre faticavamo uno dei miei compagni disse: — Questo
non sarà più il promontorio di Drumna, ma il promontorio dell’Uomo
Grigio.
La frase collegò in qualche modo l’io del sogno con l’io dormiente. Mi
svegliai di colpo esclamando: — Il promontorio dell’Uomo Grigio!
Guardai stupito, intorno a me, i mobili della stanza, leggermente
rischiarati dalla luce delle stelle che entrava dalle finestre, e mi parvero del
tutto estranei finché non mi orientai a poco a poco nel tempo e nello spazio.
— Il promontorio dell’Uomo Grigio — ripetei. — Gray Man, Graymin,
Grimmin: il promontorio di Grimmin. Dio mio, il demone sotto il tumulo!

Balzai in piedi, scosso, e solo allora mi resi conto di avere ancora in


mano la pietra aguzza che avevo raccolto sulla tomba. È noto che gli oggetti
inanimati conservano impronte che favoriscono le associazioni psichiche.
Una medium in trance cui era stata messa in mano una pietra rotonda della
piana di Gerico ha subito ricostruito mentalmente la battaglia, l’assedio della
città e la rovinosa caduta delle mura. Ero sicuro che la particolare pietra che
avevo raccolto avesse agito da calamita, sospingendo la mia mente di uomo
moderno verso epoche lontane e permettendole di scrutare una vita da me
vissuta secoli prima.
Non so dire quanto fossi scosso, perché quella storia fantastica
giustificava fin troppo le sensazioni vaghe e confuse che avevo già provato
inconsciamente riguardo al tumulo e che avevo liquidato come sogni vividi.
Sentivo il bisogno di bere del vino e mi ricordai che Ortali ne aveva sempre
nella sua stanza. Mi vestii in fretta e uscii dalla mia camera. Attraversato il
corridoio, stavo per bussare alla porta di Ortali quando notai che era
semplicemente accostata, come se qualcuno avesse dimenticato
distrattamente di chiuderla. Entrai e accesi la luce: la stanza era vuota.
Capii che cosa era successo. Ortali non si fidava di me e non voleva
correre il rischio di trovarsi a mezzanotte in mia compagnia in un posto
solitario. Aveva mentito dicendo di voler rimandare lo scavo; in realtà,
aveva inteso raggiungere la tomba da solo.
Lì per lì dimenticai completamente il mio odio per lui e pensai solo,
inorridito, a quanto sarebbe potuto accadere se si fosse dissotterrato ciò che
riposava sotto i sassi. Non dubitavo infatti dell’autenticità del mio sogno.
Non era un sogno, ma una reminiscenza frammentaria con la quale avevo
rivissuto la mia vita passata. Il promontorio di Grimmin era il promontorio
dell’Uomo Grigio, e sotto le ruvide pietre giaceva l’orrido cadavere dalle
sembianze umane di... Non potevo sperare che, impregnato com’era
dell’essenza indistruttibile di uno spirito primordiale, con il passare dei
secoli il morto si fosse ridotto in polvere.
Della mia fuga dalla città verso la landa desolata ricordo poco. La notte
era un manto d’orrore tra le pieghe del quale sbirciavano rosse stelle simili
agli occhi maligni di arcane bestie e i miei passi echeggiavano cupi, sicché
più volte pensai di essere inseguito da un mostro.

Mi lasciai le luci ormai rade alle spalle ed entrai nella regione del mistero
e dell’orrore. Non c’era da stupirsi che il progresso avesse ignorato quel
luogo lasciandolo intatto, vicolo cieco consegnato a sogni di folletti e ricordi
d’incubo, di cui solo pochissimi sospettavano l’esistenza.
Vidi confusamente il promontorio, ma mi colse una tale paura che me ne
tenni alla larga. Avevo l’idea vaga e confusa di andare dall’anziana Meve
MacDonald. Era cresciuta tra i misteri e le tradizioni di quella terra arcana e
avrebbe potuto aiutarmi, se quell’idiota incosciente di Ortali avesse davvero
sguinzagliato per il mondo il demone dimenticato che un tempo i popoli del
Nord adoravano.
Un uomo comparve all’improvviso alla luce delle stelle e mi scontrai con
lui, rischiando di farlo cadere. Bofonchiando frasi sconnesse con forte
accento locale, protestò con la petulanza dell’ubriaco. Era un portuale
corpulento che senza dubbio stava tornando a casa dopo avere gozzovigliato
fino a tardi in una taverna. Lo afferrai per le spalle e lo scossi, con gli occhi
che mi brillavano di una luce folle sotto la volta stellata.
— Cerco Meve MacDonald, la conosci? Dimmi, idiota, conosci la
vecchia Meve MacDonald?
Davanti a quella domanda tornò all’improvviso sobrio come se gli avessi
gettato in faccia un secchio di acqua gelata. Al chiarore delle stelle vidi il suo
viso luccicare pallido e la paura serrargli la gola fin quasi a impedirgli di
parlare. Si fece il segno della croce con mano incerta.
— Meve MacDonald? Sei pazzo? Che cosa potrai mai volere da lei?
— Dimmi dove abita! — urlai scrollandolo furiosamente. — Dov’è Meve
MacDonald?
— Là — gemette, indicando con il dito tremante un punto in cui alcuni
oggetti indistinti spuntavano dalle tenebre notturne. — In nome di tutti i
santi, uomo o diavolo che tu sia, vattene e lascia in pace le persone oneste.
Laggiù troverai Meve MacDonald, dove la seppellirono oltre trecento anni
fa!
Senza quasi ascoltarlo, lo lasciai andare con un grido di rabbia e
attraversai di corsa la pianura incolta, mentre quello fuggiva a gambe levate.
Mezzo accecato dalla paura, raggiunsi le sagome basse che mi aveva
indicato e correndo tra le erbacce, con i piedi che affondavano nella muffa,
mi accorsi sbigottito di trovarmi nell’antico cimitero dell’entroterra, lo stesso
in cui avevo visto scomparire Meve MacDonald la sera prima. Ero vicino
alla porta della tomba più grande e con un inquietante senso di
premonizione mi ci chinai sopra, cercando di decifrare l’incisione. In parte
con l’ausilio delle stelle, in parte tastando con le dita, lessi le parole e le cifre
scritte nel gaelico semidimenticato di trecento anni prima: MEVE
MACDONALD - 1565-1640 .

Mi ritrassi con un grido di orrore e, tirando fuori il crocifisso che la


donna mi aveva donato, feci per scagliarlo nel buio della notte; ma mi sentii
come afferrare per il polso da una mano invisibile. Era folle, era pazzesco,
ma non potevo dubitarne: Meve MacDonald era uscita dalla tomba in cui
riposava da tre secoli per venirmi a dare l’antichissima reliquia affidatale
tanto tempo prima dal suo parente vescovo.
Ricordai le sue parole, e ricordai Ortali e l’Uomo Grigio. All’orrore
piccolo subentrò l’orrore grande e mi misi a correre a perdifiato verso il
promontorio che si stagliava scuro contro la volta stellata e il mare.
Mentre superavo la cima vidi alla luce degli astri il tumulo e l’uomo che
vi scavava sopra come uno gnomo. Ortali, con la consueta, quasi sovrumana
energia, aveva tolto parecchi massi e mentre mi avvicinavo, tremando per
l’orrore che mi attendeva, lo vidi sollevare l’ultima lastra e udii il suo
selvaggio grido di trionfo. Mi fermai a pochi metri da lui, sul pendio, per
guardare la scena. Una luce sacrilega promanava dal tumulo mentre, a nord,
l’aurora sorgeva improvvisa con tremenda bellezza di fiamma, facendo
impallidire le stelle. Nei pressi della tomba pulsava uno strano bagliore che
aveva trasformato le ruvide pietre in freddo argento brillante, e in quella
luce vidi Ortali, del tutto incurante di quanto gli accadeva intorno, gettare il
piccone e chinarsi avidamente sopra la buca scavata. E dentro la fossa vidi la
testa con l’elmo che riposava sul letto di pietre dove io, Cumal il Rosso,
l’avevo deposta tanto tempo prima. Vidi la paurosa bellezza inumana del
terribile viso scolpito, in cui non si leggevano debolezza, pietà o
misericordia umane. Vidi brillare tremendo l’unico occhio, sbarrato in
un’inquietante sembianza di vita. L’alta figura con la corazza splendeva e
scintillava di una luce fredda, gelida come l’aurora boreale che ardeva nel
cielo fremente. Sì, l’Uomo Grigio giaceva come l’avevo lasciato più di
novecento anni prima, senza traccia di ruggine, putredine o decadimento.

Quando Ortali si protese in avanti per esaminare ciò che aveva scoperto,
proruppi in un grido angosciato, perché il rametto di agrifoglio che aveva
infilato all’occhiello sfidando le “superstizioni nordiche”, gli scivolò dal
bavero e nel chiarore arcano cadde sul possente torace corazzato del
Monocolo, dove si accese all’improvviso di un bagliore accecante per
l’occhio umano. Al mio grido fece eco quello di Ortali. L’Uomo Grigio si
mosse flettendo le grandi braccia, e le pietre lucenti che gli stavano intorno
rotolarono giù. Una nuova luce animò l’unico, terribile occhio e l’onda della
vita investì e animò i granitici lineamenti.
Si alzò dalla tomba e i bagliori boreali gli giocarono terribili intorno.
Cambiò completamente, subendo una spaventosa metamorfosi. I lineamenti
umani scomparvero come una maschera sbiadita, la corazza cadde dal corpo
riducendosi in polvere e lo spirito demoniaco del gelo, del ghiaccio e delle
tenebre, che i figli del Nord chiamavano Odino, si eresse, nudo e terribile,
sullo sfondo delle stelle. La testa spettrale era circondata da un carosello di
lampi e vibranti chiarori d’aurora. La colossale figura antropomorfica era
scura come l’ombra e luccicante come ghiaccio, e l’orribile criniera si
stagliava gigantesca contro la volta del cielo.
Terrorizzato, Ortali emise un urlo muto mentre le deformi mani ad
artiglio lo ghermivano. Nelle fattezze oscure e indescrivibili dello spirito del
Nord non vi era ombra di gratitudine per colui che lo aveva liberato, ma
solo una demoniaca esultanza e un diabolico odio per tutti i figli degli
uomini. Vidi le tenebrose braccia allungarsi e colpire. Ortali urlò,
finalmente: un unico, insopportabile grido che si interruppe di colpo al suo
apice. Dopo un attimo un’accecante luce azzurra lo avvolse, illuminandone
il viso convulso e gli occhi strabuzzati; poi il corpo, come investito da una
scossa elettrica, fu scagliato in terra con tale violenza che udii distintamente
le ossa frantumarsi. Ma nel momento in cui toccò il suolo Ortali era già
morto: si raggrinzì e incenerì come fosse stato colpito da un fulmine, e in
effetti in seguito fu ritenuta quella la causa del decesso.
Il mostro sbavante che lo aveva ammazzato rivolse la sua attenzione
verso di me, protendendo lo scuro braccio simile a un tentacolo, mentre al
pallido lucore delle stelle il suo unico, grande occhio pareva un lago di luce
e i terribili artigli emanavano una forza primordiale capace di annientare il
corpo e l’anima degli uomini.

Io però non battei ciglio, giacché non temevo né lui, con il suo aspetto
terribile, né la minaccia dei suoi fulmini letali. In un bianco, accecante lampo
di consapevolezza, avevo infatti capito perché Meve MacDonald fosse uscita
dalla tomba per portarmi l’oggetto custodito in seno per trecento anni,
l’antica croce che racchiudeva le forze invisibili del bene e della luce, in
eterno conflitto con le forme della follia e delle tenebre.
Mentre tiravo fuori di tasca l’antico crocifisso, sentii muoversi nell’aria
intorno a me potenze gigantesche e intangibili. Non ero che una pedina nel
gioco, solo la mano che stringeva la santa reliquia, simbolo delle entità che
si opponevano in eterno ai demoni dell’oscurità. Mentre lo tenevo alto sopra
la testa, il crocifisso emise un raggio luminoso di una purezza e un candore
inauditi, quasi che le tremende forze della Luce si fossero unite in quel
simbolo e concentrate in una furente freccia diretta contro il mostro delle
tenebre. Con un urlo terribile, il demone indietreggiò, rannicchiandosi
davanti ai miei occhi. Poi, spiegate due ali da avvoltoio, volò verso le stelle,
rimpicciolendo sempre più tra i fuochi e i bagliori del cielo spettrale e
tornando nell’oscuro limbo da cui era nato Dio solo sa quanti foschi eoni
prima.
1. L’appellativo di “Cristo Bianco” ( Hvítakristr) dato dai vichinghi a Gesù
Cristo aveva una connotazione negativa, in quanto il termine hvitr,
attribuito a un uomo, indicava viltà ed effeminatezza. Viceversa Thor era
“rosso”, il colore del coraggio e della virilità. (NdT)
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato,
riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o
utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente
autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da
quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o
fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni
elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e
dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla
Legge 633/1941 e successive modifiche.
Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio,
prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso
scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma
diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla
presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

www.librimondadori.it

I figli della notte - Racconti dell’orrore - Vol. 1 (Urania)


di Robert E. Howard
Titolo originale: The Horror Stories of Robert E. Howard
© 2008 by Robert E. Howard Properties, LLC.
This translation published by arrangement with Del Rey, an imprint of Random
House, a division of Random House, LLC.
© 2015 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Ebook ISBN 9788852061417

COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO | PROGETTO GRAFICO: ANDREA FALSETTI | © FRANCO BRAMBILLA

Potrebbero piacerti anche