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Quella sera mi ritirai presto, stanco del lungo viaggio per mare e stordito
dal vino gagliardo di cui dom Vincente teneva grandi riserve.
La mia stanza, subito sotto il tetto, dava sulle foreste a sud e sul fiume.
Come il resto del castello, era arredata con lusso rude e grossolano.
Guardai dalla finestra. L’archibugiere camminava avanti e indietro
all’interno della palizzata, l’area deserta ai lati del castello appariva squallida
e desolata sotto la luce della luna, e più in là si stendevano la foresta e il
fiume quieto.
Dagli alloggi degli indigeni presso l’argine giungevano le note bizzarre di
un rudimentale liuto che suonava una melodia barbara.
Tra le ombre scure del bosco uno strano uccello notturno levò il suo
canto beffardo. Risuonava un intero coro di mille piccole note: uccelli,
bestie e chissà cos’altro. Un grande felino della giungla innalzò al cielo un
miagolio inquietante. Scrollando le spalle, mi allontanai dalla finestra. Senza
dubbio tra quelle fosche tenebre stava in agguato qualche demone.
Bussarono alla porta e aprii: era de Montour.
Andò alla finestra e guardò la luna, che splendeva in tutta la sua fulgida
gloria.
— La luna è quasi piena, vero, monsieur? — disse, voltandosi verso di
me.
Annuii, e mi parve fosse scosso da un tremito.
— Mi scusi, monsieur, non la disturberò oltre. — Si diresse alla porta, ma
sulla soglia si girò e tornò indietro.
— Qualunque cosa intenda fare, badi di chiudere la porta con il
catenaccio, stasera — sussurrò con fiera intensità.
Sconcertato, lo guardai allontanarsi e scomparire.
Mi assopii con nelle orecchie le grida lontane di chi ancora banchettava, e
benché fossi stanco, o forse proprio perché lo ero, dormii di un sonno
leggero. Anche se non mi svegliai fino alla mattina, suoni e rumori mi
giunsero come attraverso il velo del sonno, e una volta ebbi l’impressione
che qualcosa premesse contro la porta tentando di aprirla.
Com’era prevedibile, il giorno dopo quasi tutti gli ospiti erano storditi dal
vino e rimasero nelle loro stanze per gran parte della mattina, scendendo
tardi al piano di sotto. Oltre a dom Vincente, erano solo tre gli uomini sobri:
de Montour, lo spagnolo de Seville (come si faceva chiamare) e io. Lo
spagnolo non aveva toccato vino, mentre de Montour, pur avendone
trincato in abbondanza, non accusava alcun postumo.
Le signore ci salutarono con tutta la loro grazia.
— In verità, signore 1 — disse quella civetta di Marcita prendendomi per
mano con un’aria accattivante che mi fece sorridere — sono lieta di
constatare che tra noi vi sono gentiluomini i quali preferiscono la nostra
compagnia a quella di un bicchiere di vino; perché la maggior parte è
completamente intontita, stamattina.
Roteando indignata i begli occhi, aggiunse: — Ho l’impressione che
stanotte qualcuno fosse troppo... o troppo poco ubriaco per mantenere la
naturale discrezione, perché, se i miei miseri sensi non mi hanno ingannato,
qualcuno è venuto ad armeggiare alla mia porta a tarda notte.
— Ah! — esclamai con improvvisa collera — qualche...
— No, taci — mi zittì. Si guardò intorno come per assicurarsi che
fossimo soli, e aggiunse: — Non è strano che il signor de Montour, prima di
ritirarsi ieri sera, mi abbia invitato a chiudere la porta con il catenaccio?
— Sì, è strano — mormorai, senza confidarle che il francese aveva detto
la stessa cosa a me.
— E non è singolare, Pierre, che il signor de Montour, pur essendosi
ritirato prima di te, abbia l’aria di uno che è rimasto sveglio tutta la notte?
Alzai le spalle. Le donne hanno spesso fantasie strane.
— Stasera non sprangherò la porta e vedrò chi ha cercato di entrare —
dichiarò con aria maliziosa.
— Guardati bene dal farlo!
Scoprì i dentini in un sorriso sprezzante e mi mostrò un piccolo, micidiale
pugnale.
— Senti, monella — dissi — de Montour mi ha dato lo stesso
avvertimento che ha dato a te. Qualsiasi cosa sappia, credo che chiunque
abbia vagato per le sale del castello, stanotte, non mirasse tanto ad avere
un’avventura galante, quanto ad ammazzare qualcuno. Chiudi la porta con il
catenaccio. Dividi la stanza con la signorina Ysabel, vero?
— No, e mando la mia cameriera negli alloggi degli schiavi, la notte —
mormorò guardandomi maliziosamente da sotto le palpebre abbassate.
— Da come parli sembreresti una ragazza priva di moralità — dissi con la
franchezza consentitami dalla gioventù e dalla nostra lunga amicizia. — Sii
prudente, mia cara, altrimenti dirò a tuo fratello di sculacciarti.
Mi allontanai per porgere i miei omaggi a Ysabel. La portoghese era
l’esatto opposto di Marcita: una giovane timida e modesta, meno bella
dell’italiana, ma con una grazia quasi infantile che la rendeva assai attraente.
Allora avevo delle mire su di lei. Ah, essere giovani e sciocchi!
Scusate, messieurs, le divagazioni di un vecchio. Era di de Montour che
volevo parlarvi; di de Montour e del cugino infido di dom Vincente.
Un gruppo di indigeni armati era radunato davanti alla porta del castello
ed era tenuto a distanza dai soldati portoghesi. Tra loro vi erano diversi
giovani uomini e donne integralmente nudi, incatenati collo a collo: schiavi
catturati da qualche tribù guerriera e condotti lì per essere venduti. Dom
Vincente li stava esaminando di persona.
Seguì un lungo contrattare, di cui mi stancai subito. Mi allontanai
chiedendomi come potesse un uomo della levatura di dom Vincente
abbassarsi al punto di mercanteggiare così.
Ma tornai indietro quando comparve un indigeno del villaggio vicino che
intavolò un lungo discorso con dom Vincente, interrompendo la vendita.
Mentre i due parlavano, arrivò de Montour e d’un tratto dom Vincente si
girò verso di noi e disse: — Stanotte uno dei taglialegna del villaggio è stato
sbranato da un leopardo o qualche altra belva. Era uno scapolo giovane e
forte.
— Un leopardo? Lo hanno visto? — chiese di punto in bianco de
Montour, e quando dom Vincente rispose di no, che la belva aveva
aggredito l’uomo per poi dileguarsi, de Montour alzò una mano tremante e
se la passò sulla fronte come per asciugarsi il sudore freddo.
— Senti, Pierre — disse dom Vincente — ho qui un indigeno che,
meraviglia delle meraviglie, desidera essere tuo schiavo, anche se non so
perché diavolo si sia messo in testa una cosa del genere.
Condusse da me un giovane e smilzo jakri, un adolescente la cui
principale qualità pareva essere il sorriso gioviale.
— È tuo — disse. — Ha ricevuto un addestramento adeguato e sarà un
ottimo schiavo. Bada che è meglio uno schiavo di un servo, perché devi
dargli solo un po’ di cibo e un perizoma, e basta qualche colpo di frusta per
farlo stare al suo posto.
Non molto tempo dopo seppi perché Gola aveva voluto essere mio
schiavo, scegliendomi come padrone tra tutti gli altri. Era per via dei capelli.
Come molti dandy dell’epoca, li portavo lunghi e ricci, e i boccoli mi
ricadevano sulle spalle. Si dà il caso che fossi l’unico uomo della compagnia
ad avere quella pettinatura, e Gola rimaneva a guardarla in quieta
ammirazione per ore, finché, innervosito dalla contemplazione indefessa,
non lo cacciavo a pedate.
Quella sera un rancore che covava sotto la cenere tra il barone von
Schiller e Jean Desmarte, e di cui nessuno si era accorto, divampò come un
incendio.
Come sempre, la causa fu una donna. Marcita si mise a flirtare
scandalosamente con entrambi.
Non fu saggio da parte sua. Desmarte era un giovane sciocco e irruente,
von Schiller una bestia libidinosa. Ma quando mai, messieurs, le donne si
dimostrano sagge?
L’odio tra i due scoppiò con furia omicida quando il tedesco tentò di
baciare Marcita.
I contendenti misero subito mano alla spada. Ma ancor prima che dom
Vincente li invitasse a fermarsi, Luigi si interpose e gettò loro le spade in
terra, respingendoli con furia.
— Signori — disse a voce bassa ma carica di una fiera intensità — è
degno di due gentiluomini combattere tra loro per mia sorella? Ah, per le
unghie dei piedi di Satana, fremo dalla voglia di sfidare a duello entrambi!
Tu, Marcita, vai subito in camera tua e non uscirne finché non te ne darò il
permesso.
Marcita obbedì, perché, per quanto fosse indipendente, né lei né altri
osavano affrontare quel giovane magro e piuttosto effeminato quando aveva
le labbra increspate in un ringhio di tigre e un lampo di luce omicida negli
occhi neri.
I due rivali si porsero reciproche scuse, ma dagli sguardi che si
lanciarono capimmo che la lite non era composta e che al minimo pretesto
sarebbe riesplosa.
A tarda sera mi svegliai all’improvviso con una strana, inquietante
sensazione di paura. Non sapevo spiegarmi da cosa traesse origine. Mi alzai,
constatai che la porta era saldamente sprangata e, vedendo Gola dormire in
terra, mi irritai e gli diedi un calcio per svegliarlo.
Mentre lui si alzava in fretta stropicciandosi gli occhi, il silenzio fu rotto
da un urlo selvaggio, l’urlo di una donna agghiacciata dal terrore che
risuonò per tutto il castello e strappò un’esclamazione di spavento
all’archibugiere posto di sentinella davanti alla palizzata.
Con un verso rauco, Gola andò a nascondersi dietro il divano. Io corsi
alla porta, la aprii e mi affrettai per il corridoio buio. Scendendo a precipizio
una scala a chiocciola, in fondo andai a sbattere contro qualcuno e finimmo
entrambi in terra.
L’uomo disse qualcosa e riconobbi la voce di Jean Desmarte. Lo aiutai a
rialzarsi e ripresi a correre, seguito da lui; le grida erano cessate, ma l’intero
castello era in subbuglio ed echeggiava di voci e clangore di armi. Le luci
vennero accese. Dom Vincente chiamò a squarciagola i soldati, che
attraversarono le sale di corsa, sbattendo gli uni contro gli altri. In mezzo a
tutta quella confusione, Desmarte, lo spagnolo e io raggiungemmo la camera
di Marcita proprio nel momento in cui Luigi vi irrompeva e prendeva la
sorella tra le braccia.
Anche altri entrarono con lanterne e armi, chiedendo a gran voce che
cosa fosse successo.
La ragazza giaceva svenuta tra le braccia del fratello, con i boccoli bruni
sciolti sulle spalle e l’elegante camicia da notte così lacera da rivelare il bel
corpo. Era tutta graffiata sulle braccia, il seno e le spalle.
D’un tratto aprì gli occhi, rabbrividì e cacciò un urlo tremendo,
avvinghiandosi con furia a Luigi e supplicandolo di non permettere al
mostro di ghermirla di nuovo.
— La porta — gemette. — Non ho messo il catenaccio e nel buio
qualcuno o qualcosa è strisciato nella mia stanza. L’ho colpito con il pugnale
e mi ha scaraventato a terra, strappandomi i vestiti di dosso. Poi sono
svenuta.
— Dov’è von Schiller? — chiese lo spagnolo con un lampo di ferocia
negli occhi neri.
Ognuno guardò il suo vicino. Erano presenti tutti gli ospiti, tranne il
tedesco. Notai che de Montour, guardando la ragazza terrorizzata, aveva
l’aria più spaurita che mai, e giudicai strano che non portasse armi.
— Sì, von Schiller! — esclamò con veemenza Desmarte, e metà dei
presenti, me compreso, seguirono dom Vincente nel corridoio.
Cominciammo a frugare come furie il castello e, in un corridoio stretto e
buio, trovammo von Schiller. Aveva sul viso una macchia cremisi che
andava facendosi sempre più grande.
— Questa è opera di un indigeno! — esclamò turbato Desmarte.
— Sciocchezze — ruggì dom Vincente. — Nessun indigeno proveniente
dall’esterno potrebbe mai superare la barriera dei soldati. Tutti gli schiavi,
tra cui quelli di von Schiller, sono chiusi ermeticamente nei loro alloggi,
tranne la cameriera di Ysabel e Gola, che dorme nella stanza di Pierre.
— Ma chi altri avrebbe potuto compiere un simile crimine? — fece con
sdegno Desmarte.
— Lei! — proruppi io. — Perché, se no, sarebbe corso via
precipitosamente dalla stanza di Marcita?
— La peste la colga, bugiardo! — gridò, snudando rapido la spada e
puntandomela contro il petto; ma, per quanto fosse stato veloce, lo spagnolo
lo fu ancora di più e gli deviò la stoccata, che andò a colpire il muro.
Desmarte rimase come una statua mentre la punta della spada dell’altro gli
toccava la gola e non si spostava di lì.
— Legatelo — disse gelido de Seville.
— Riponga la spada, don Florenzo — ordinò dom Vincente, facendo un
passo avanti e ponendosi al centro della scena. — Desmarte, tu sei uno dei
miei migliori amici, ma qui comando io e dobbiamo compiere il nostro
dovere. Dammi la tua parola che non tenterai di scappare.
— Te la do — rispose calmo il guascone. — Ho agito d’impulso e me ne
scuso. Non intendevo fuggire, ma le sale e i corridoi di questo maledetto
castello mi hanno disorientato.
Quasi nessuno di noi gli credette.
— Messieurs — disse de Montour facendo un passo avanti — questo
giovane non ha nessuna colpa. Girate il corpo del tedesco.
Due soldati obbedirono. De Montour rabbrividì e indicò col dito. Tutti
guardammo una sola volta e frememmo di orrore.
— Quale uomo avrebbe mai potuto fare una cosa del genere?
— Con un pugnale... — azzardò qualcuno.
— Nessun pugnale produce ferite simili — replicò lo spagnolo. — Il
tedesco è stato fatto a pezzi dagli artigli di un’orribile bestia.
Ci guardammo intorno, quasi aspettandoci che un mostro orripilante ci
balzasse addosso dall’ombra.
Frugammo ogni metro, ogni centimetro del castello senza trovare traccia
di belve.
Stava albeggiando quando tornai nella mia stanza e scoprii che Gola vi si
era barricato dentro; mi ci volle quasi mezz’ora per convincerlo a lasciarmi
entrare.
Dopo avergli dato una bella bastonata rampognandolo per la sua viltà, gli
raccontai che cos’era successo, dato che capiva il francese e, affermava con
orgoglio, lo parlava, benché il suo fosse in realtà uno strano gergo bastardo.
Mi ascoltò a bocca aperta e, quando il racconto giunse al culmine,
strabuzzò gli occhi.
— Magia nera — sussurrò impaurito. — Lo stregone!
D’un tratto mi venne in mente una cosa. Avevo sentito parlare
confusamente di lontane leggende in cui si farneticava di un culto diabolico
del leopardo che sarebbe esistito sulla costa occidentale. Nessun bianco
aveva mai visto uno degli adepti, ma dom Vincente ci aveva raccontato
storie di uomini-belva che, coperti di pelli di leopardo, si aggiravano per la
giungla a mezzanotte, massacrando e divorando vittime. Sentii un brivido di
terrore corrermi lungo la schiena e strinsi Gola con tanta forza da farlo
urlare.
— È stato forse l’uomo leopardo? — sibilai, scuotendolo con furia.
— Buana, io buono, io fatto niente, buana. Magia nera si vendica!
Meglio non dire altro!
— Parla! — ringhiai, strapazzandolo di nuovo finché agitò le mani in
segno di debole protesta e promise di dire ciò che sapeva.
— Non è uomo leopardo — sussurrò, strabuzzando gli occhi per la paura
arcana. — Con luna piena, taglialegna trovato tutto straziato. Poi trovato
altro taglialegna. Gran buana (dom Vincente) dice “leopardo”. No leopardo
vero, ma uomo leopardo sì, quello viene e uccide. Uomo leopardo uccide!
Dilaniato da artigli. Ahi, ahi. Luna di nuovo piena. Qualcosa arriva in
capanna solitaria, fa a pezzi donna, fa a pezzi bambino. Uomo trova loro
sbranati. Gran buana dice “leopardo”. Di nuovo luna piena, e taglialegna
trovato sbranato. Adesso arriva in castello. No leopardo, sempre orme di
uomo.
Proruppi in un’esclamazione di stupore e incredulità.
Gola giurò di avere detto la verità. Sulla scena del delitto erano sempre
visibili orme umane. Dunque perché gli indigeni non dicevano al gran
buana di dare la caccia a quel demonio?
Gola assunse un’espressione scaltra e mi bisbigliò all’orecchio: — Orme
sempre di uomo con scarpe.
Benché avessi qualche dubbio sulla sua sincerità, fui scosso da un brivido
di inesplicabile orrore. Allora chi era, secondo gli indigeni, a commettere gli
orrendi delitti?
Dom Vincente, rispose Gola.
A quel punto, messieurs, mi sentii del tutto disorientato.
Che senso aveva una simile storia? Chi aveva assassinato il tedesco e
tentato di violentare Marcita? Mentre riflettevo sul delitto, mi dissi che con
tutta probabilità il misterioso demonio non intendeva stuprare, bensì
ammazzare la donna.
Come mai de Montour ci aveva avvertiti, poi era sembrato a conoscenza
del crimine e ci aveva detto, nonché dimostrato, che Desmarte era
innocente?
Non riuscivo assolutamente a capire.
Benché noi non parlassimo, gli indigeni vennero a sapere dell’omicidio e
parvero inquieti e nervosi. Per tre volte dom Vincente fece frustare un negro
accusandolo di insolenza. In tutto il castello si era diffusa un’atmosfera
fosca.
Mi chiesi se non fosse il caso di raccontare a dom Vincente la storia di
Gola, ma decisi di aspettare.
All’alba seppi che gli indigeni del villaggio erano terrorizzati: una nera
era stata ghermita da un demone notturno e a stento era riuscita a sfuggirgli.
Mi recai da de Montour.
Mentre andavo incontrai dom Vincente, perplesso e adirato. — Un agente
dell’inferno imperversa nel castello — disse. — Non l’ho ancora detto a
nessuno, ma stanotte qualcuno ha aggredito alle spalle un archibugiere, gli
ha strappato di dosso il farsetto di pelle e lo ha inseguito fino al barbacane.
Per giunta, de Montour si è ritrovato chiuso a chiave dall’esterno nella sua
stanza e ha dovuto abbattere la porta per uscire.
Proseguì per la sua strada, borbottando fra sé, mentre io scesi le scale più
sconcertato che mai.
Seduto su uno sgabello, de Montour guardava fuori dalla finestra con
un’aria di totale sfinimento.
Aveva i lunghi capelli spettinati e aggrovigliati, e gli abiti stracciati.
Rabbrividii vedendogli le mani leggermente macchiate di rosso e notando
che aveva le unghie rotte e spezzate.
Quando entrai alzò gli occhi e mi invitò con un cenno a sedermi. Aveva
un’espressione stanca e smarrita, ma umana.
Dopo un attimo di silenzio, iniziò a parlare.
— Le racconterò la mia strana vicenda. Non l’ho mai confidata a nessuno
prima d’ora e non so dirmi perché la confido a lei pur sapendo che non mi
crederà.
Ascoltai così la storia più folle, fantastica e arcana che mi sia mai capitato
di sentire da labbra umane.
— Anni fa, mentre ero in missione militare nella Francia settentrionale —
disse — dovetti per forza attraversare da solo i boschi di Villefère, infestati
dai demoni. In quella spaventosa foresta fui assalito da un essere disumano
e tremendo, un lupo mannaro. Lottammo sotto la luna di mezzanotte e lo
uccisi. Ma vede, se un lupo mannaro viene ucciso mentre ha sembianze
parzialmente umane, il suo spettro perseguita il proprio assassino per
l’eternità; se invece è ucciso mentre ha sembianze di lupo, precipita
nell’inferno. Il vero lupo mannaro non è, come molti pensano, un uomo che
assume a volte l’aspetto di un lupo, ma un lupo che assume l’aspetto di un
uomo.
“Ora mi ascolti, amico mio: le confiderò tutte le cose che so, il sapere
infernale che ho appreso con le mie tante imprese terrificanti e che mi è stato
trasmesso tra le ombre terribili delle foreste notturne dove si aggirano
demoni ed esseri mezzo umani e mezzo bestiali.
“In principio la terra era strana e deforme. Belve grottesche vagavano per
le sue giungle. Cacciati da un altro mondo, antichi demoni e diavoli
giunsero a frotte e si stabilirono in questo mondo più nuovo e più giovane.
A lungo le forze del bene e del male combatterono tra loro.
“Uno strano animale, chiamato uomo, errava tra gli altri, e poiché il bene
e il male devono assumere forma concreta per poter realizzare il proprio
fine, gli spiriti del bene entrarono in lui. I demoni si introdussero in altre
bestie, come rettili e uccelli, e l’antica guerra imperversò, lunga e feroce. Ma
l’uomo vinse. I grandi draghi e serpenti furono uccisi, con i loro demoni.
Alla fine Salomone, assai più saggio di quanto non fossero di solito gli
uomini, mosse loro una guerra tremenda e, grazie alla sua sapienza, li
soppresse, li catturò, li incatenò. Ma alcuni erano più feroci e audaci degli
altri e Salomone, pur avendoli scacciati, non riuscì ad aver ragione di loro.
Questi avevano assunto l’aspetto di lupi. Con il passare dei secoli, l’unione
tra lupi e demoni diventò indissolubile. Il demone non poteva più
abbandonare il corpo del lupo a piacimento. Spesso il lupo, con la sua furia,
vinceva la scaltrezza del demone e lo schiavizzava, sicché tornava a essere
solo una bestia astuta e feroce, ma pur sempre bestia. Tuttavia di lupi
mannari ve ne sono ancora molti.
“A volte, durante il plenilunio, il lupo assume forma interamente o
parzialmente umana, ma quando la luna sale allo zenit, lo spirito del lupo
riprende il sopravvento e il lupo mannaro torna a essere un vero lupo. Se
però la creatura viene uccisa mentre ha forma umana, lo spirito è libero di
perseguitare il suo assassino per l’eternità.
“Ora mi ascolti. Credevo di avere ucciso il mostro dopo che aveva
assunto la sua vera forma, invece l’ho ucciso con qualche istante di anticipo.
Benché fosse alta nel cielo, la luna non era allo zenit e l’essere non aveva
ancora ripreso in pieno la forma di lupo.
“Allora non sapevo nulla di queste cose e proseguii per la mia strada. Ma
al plenilunio successivo cominciai ad avvertire un’influenza arcana e
maligna. Sentivo l’orrore aleggiare nell’aria ed ero preda di strani impulsi
inesplicabili.
“Una sera, in un piccolo villaggio al centro di una grande foresta,
l’influsso mi investì con tutta la sua violenza. La luna quasi piena era alta nel
cielo notturno sopra la foresta e tra il suo disco e me vidi fluttuare a
mezz’aria, spettrale e traslucido, il profilo di una testa di lupo.
“Non rammento quasi niente di quanto accadde dopo. Ricordo
vagamente di avere annaspato sulla strada silenziosa nel vano tentativo di
lottare e resistere, poi mi ricordo solo di un labirinto purpureo e di essermi
svegliato, la mattina dopo, con mani e abiti tutti macchiati e incrostati di
sangue. Seppi poi dai paesani terrorizzati che, poco fuori dal villaggio, due
amanti clandestini erano stati brutalmente uccisi, addirittura dilaniati come
da fiere o lupi.
“Fuggii inorridito dal paese, ma non fuggii da solo. Durante il giorno
non sentivo l’influsso del mio atroce padrone, ma quando scendeva la sera e
sorgeva la luna, percorrevo la quieta foresta come l’orrendo mostro
massacratore d’uomini che ero divenuto, vero e proprio demone chiuso in
un corpo umano.
“Dio, quante guerre gli ho mosso! Ma mi ha sempre vinto e mi ha sempre
spinto sull’usta di nuove prede. Quando però la luna cominciava a calare
dopo il plenilunio, la forza dell’influsso che mi attanagliava cessava di colpo
e tornava soltanto tre notti prima del plenilunio successivo.
“Da allora ho vagato per il mondo in continua fuga, cercando una via di
scampo. Il mostro mi segue sempre, impossessandosi del mio corpo quando
la luna è piena. Per gli dei, quali orribili gesta ho compiuto!
“Mi sarei ucciso già molto tempo fa, ma non ho mai osato, perché
l’anima del suicida è maledetta, e sarei stato tormentato per sempre nelle
fiamme dell’inferno. Mi creda, il pensiero più tremendo è che il mio corpo
vaghi in eterno per la terra, abitato e comandato dallo spirito di un lupo
mannaro. Esiste destino più agghiacciante?
“Sembro anche immune dalle armi umane. Sono stato ferito da spade e
sfregiato da pugnali, e sono coperto di cicatrici; eppure non sono mai riusciti
ad abbattermi. In Germania mi incatenarono e condussero al patibolo. Avrei
posato volentieri la testa sul ceppo, ma l’essere si impossessò di me,
inducendomi a spezzare le catene, uccidere i miei catturatori e fuggire. Ho
errato per il mondo, lasciandomi dietro una scia di orrori e massacri. Né
catene né celle possono trattenermi. L’essere è vincolato a me per l’eternità.
“Per la disperazione ho accettato l’invito di dom Vincente, perché
nessuno sa della mia seconda, orripilante vita, nessuno mi riconoscerebbe
mentre sono tra le grinfie del demone, e se anche qualcuno mi riconoscesse,
non vivrebbe abbastanza da dirlo in giro.
“Ho le mani rosse di sangue, l’anima condannata al fuoco eterno, la
mente straziata dal rimorso per i miei crimini. Tuttavia non posso fare niente
per aiutare me stesso. Stia pur certo che nessun uomo ha mai vissuto un
inferno come il mio, Pierre.
“Sì, ho ucciso von Schiller e cercato di ammazzare quella ragazza,
Marcita. Perché non l’abbia fatto non so dire, in quanto ho soppresso sia
uomini sia donne.
“Ora, per favore, prenda la spada e mi uccida. Quando esalerò l’ultimo
respiro, ringrazierò il buon Dio pregandolo di benedirla. Lo farà?
“Adesso conosce la mia storia e sa di avere davanti un uomo perseguitato
in eterno da un demone.”
Una sera, non molto prima della luna piena, entrai nel sotterraneo dov’era
rinchiuso de Montour.
Alzò subito gli occhi a guardarmi e disse: — Ha un bel coraggio, a venire
a trovarmi di notte.
Scrollai le spalle e mi sedetti.
Da una finestrella protetta da sbarre arrivavano suoni e profumi della
notte africana.
— Ascolti i tamburi — dissi. — È da una settimana che gli indigeni li
suonano senza posa.
De Montour annuì. — Gli indigeni sono inquieti. Credo stiano
architettando qualche diabolico piano. Ha notato che Carlos si reca spesso
da loro?
— No — risposi — ma siccome sta corteggiando Ysabel, penso che
prima o poi lui e Luigi romperanno i rapporti.
Mentre conversavamo, all’improvviso de Montour tacque, si fece
pensieroso e rispose solo a monosillabi.
La luna sorse e la sua luce, filtrando dalle sbarre della finestra, gli
illuminò il viso.
All’improvviso mi sentii stringere nella morsa dell’orrore. Sulla parete
dietro di lui vidi comparire un’ombra con i chiari contorni di una testa di
lupo.
Nello stesso istante egli avvertì il suo influsso e scattò in piedi urlando.
Indicò con furia la porta, e quando, con mani tremanti, me la richiusi alle
spalle tirando il catenaccio, vi si scagliò violentemente contro. Mentre salivo
di corsa la scala, lo udii picchiare rabbioso contro la porta cerchiata di ferro.
Ma nonostante la forza del lupo mannaro il battente resistette.
Quando entrai nella mia stanza, Gola corse da me a raccontarmi la storia
che aveva taciuto per giorni.
Lo ascoltai incredulo, poi corsi a cercare dom Vincente.
Seppi che Carlos lo aveva pregato di accompagnarlo al villaggio per
organizzare una vendita di schiavi.
A dirmelo era stato don Florenzo de Seville, e quando gli raccontai in
due parole quanto mi aveva confidato Gola, mi accompagnò.
Ci precipitammo insieme fuori dal castello, fornendo una breve
spiegazione alle sentinelle, e attraversammo il tratto di molo che ci separava
dal villaggio.
“Dom Vincente, dom Vincente, sii cauto, tieni la spada pronta nel fodero!
Quanto sei stato stolto ad avventurarti fuori di notte con Carlos, il traditore!”
Ricordo che il giorno dopo era ancora più freddo; una nebbia grigia
giunse da est e avvolse nelle sue spire il mare e la spiaggia. Poiché la nave
non sarebbe ripartita in giornata, tutti gli abitanti di Faring si chiusero nelle
loro case confortevoli o andarono a scambiare qualche chiacchiera alla
taverna. Accadde così che io e il mio amico Joe, un ragazzo della mia età,
fummo testimoni di strani avvenimenti.
Da quegli adolescenti avventati e privi di giudizio che eravamo, ci
sedemmo su una barchetta a remi ormeggiata in fondo a un molo. Ognuno
dei due avrebbe voluto che l’altro dicesse: “Su, torniamo a casa”, perché
non avevamo alcun motivo di stare sulla barca, se non forse quello di fare
indisturbati i nostri castelli in aria.
D’un tratto Joe alzò una mano e disse: — Ehi, non senti? Chi può avere
preso il mare in un giorno come questo?
— Nessuno. Perché, cos’hai udito?
— Se non sono un marinaio d’acqua dolce, questo è rumor di remi.
Ascolta.
Non c’era modo di vedere nulla nella nebbia, e io non udii alcun suono.
Eppure Joe giurava di sentire dei rumori e di colpo assunse una strana
espressione.
— Qualcuno sta remando qua in mare, t’assicuro. A giudicare dalle mie
orecchie, direi che la baia brulica di remi. Ci sono almeno una ventina di
barche, idiota, non senti?
Mentre scuotevo la testa, si alzò e cominciò a sciogliere la cima.
— Vado a vedere chi sono. Se la baia non risulterà piena di barche
affiancate come una fitta flotta, dammi pure del bugiardo. Vieni con me?
Sì, dissi, sarei andato con lui anche se non avevo udito nulla.
Allora ci tuffammo nella bruma grigia. La nebbia si richiuse davanti e
dietro a noi, sicché prendemmo a navigare in un vago mondo di fumo dove
non si vedeva né udiva niente. Presto ci smarrimmo, e maledissi Joe per
avermi trascinato in un’avventura assurda nella quale entrambi saremmo
finiti probabilmente annegati. Pensai alla nipote di Moll Farrell e rabbrividii.
Non so per quanto tempo andammo alla deriva. I minuti si stemperarono
in ore, le ore in secoli. Joe continuava a udire il suono dei remi, a volte
vicino, altre lontano, e per ore lo seguimmo, regolando la rotta in base alla
sua intensità. Su questo particolare avrei poi riflettuto successivamente,
senza capire.
Quando avevo ormai le mani così intirizzite da non riuscire a reggere il
remo e stavo cedendo alla morsa della sonnolenza causata dal freddo e dalla
stanchezza, lugubri stelle bianche squarciarono la nebbia, che d’un tratto si
alzò dissipandosi come un fantasma di fumo. Eravamo appena fuori
dall’imboccatura della baia: il mare, scuro e argenteo alla luce delle stelle,
era liscio come l’olio e il freddo più pungente che mai. Stavo girando la
barca per riportarla nella baia, quando Joe lanciò un grido e per la prima
volta udii anch’io lo schiocco degli scalmi. Mi guardai alle spalle e mi si
gelò il sangue.
Stagliandosi contro le stelle, una grande prua rostrata di forma strana e
sinistra ci veniva incontro. All’ultimo momento, mentre trattenevo il fiato,
virò bruscamente per non investirci, con un fruscio che non avevo mai udito
fare a nessun’altra imbarcazione. Urlando, Joe remò freneticamente indietro
e solo per un soffio non fummo investiti; sebbene la prua ci avesse mancato,
infatti, saremmo stati colpiti lo stesso, in quanto dai fianchi
dell’imbarcazione sporgevano i lunghi remi che, fila dopo fila, la
sospingevano. Anche se non avevo mai visto una nave così, sapevo che era
una galea; ma che cosa ci faceva lungo le nostre coste? Chi era stato in terre
lontane diceva che navi del genere erano ancora in uso presso gli infedeli
berberi; ma la Barberia distava molte, molte miglia marine e poi quella galea
non somigliava alle imbarcazioni descritte da chi era arrivato in quelle terre
lontane.
Ci lanciammo all’inseguimento e accadde un fatto strano: benché le acque
si aprissero davanti alla sua prora e la galea paresse quasi volare sulle onde,
non procedeva veloce, e in poco tempo la raggiungemmo. Legando la
nostra cima a una catena che si trovava a distanza di sicurezza dai remi della
galea, chiamammo i marinai sul ponte, ma non ricevemmo risposta. Alla
fine, vincendo la paura, ci arrampicammo sulla catena e mettemmo piede sul
ponte più singolare che si fosse mai visto in molti, ruggenti secoli.
— Non è una nave di pirati berberi — mormorò impaurito Joe. —
Guarda, sembra antichissima, quasi sul punto di cadere a pezzi. È quasi tutta
marcia, non vedi?
Non c’era nessuno né sul ponte né alla lunga barra del timone. Ci
dirigemmo alla scala che portava ai banchi di voga e lì, se mai qualcuno fu
sul punto di perder la ragione, fummo noi. Perché i vogatori c’erano, certo,
e sedevano ai banchi fendendo l’acqua grigia con i remi scricchiolanti, ma
erano tutti scheletri.
Con un urlo, attraversammo d’un balzo il ponte per tuffarci in mare, ma
all’altezza del parapetto inciampai e, cadendo lungo disteso, vidi qualcosa
che mi fece dimenticare l’orrore provato davanti agli spettrali vogatori. Ciò
in cui ero inciampato era un corpo umano, e alla fioca luce grigia che
cominciava a illuminare l’orizzonte a levante notai che dalla schiena gli
spuntava un manico di pugnale. Joe, sul parapetto, mi incitò a sbrigarmi e
insieme scendemmo dalla catena da cui eravamo saliti e tagliammo la cima.
Ci mantenemmo al largo, nella baia. La sinistra galea continuò a
procedere e noi la seguimmo lentamente, chiedendoci dove fosse diretta.
Pareva puntare proprio contro la spiaggia e i moli, e quando ci avvicinammo
scorgemmo le banchine affollate di persone che, chiaramente, non ci
avevano visto. Tutti, alle prime luci dell’alba, contemplavano increduli quel
fantasma emerso dalla notte e dal terribile oceano.
La galea continuò a navigare con i remi che frusciavano sull’acqua; poi,
prima di arrivare alla secca, un terribile schianto fece tremare la baia.
Davanti ai nostri occhi, la tetra imbarcazione si dissipò e scomparve. Le
acque verdi ribollirono nel punto in cui erano state da questa solcate, ma
non si vedeva alcun relitto, né lo si vide in seguito a riva. O meglio,
qualcosa fu sbattuto sulla battigia, ma era un reperto assai inquietante.
Lo trascinarono al crocevia
alla fine del giorno funesto;
lo appesero al patibolo
lasciando ai corvi il resto.
Mia sorella depose il libro che stava leggendo, anzi, per l’esattezza me lo
tirò.
— Che sciocchezze! — disse. — Favole! Dammi quel libro di Michael
Arlen.
Obbedii meccanicamente, guardando il volume che aveva suscitato il suo
disgusto di adolescente. Era il racconto La piramide di fuoco, di Arthur
Machen.
— Ma è un capolavoro della letteratura outré, mia cara — replicai.
— Sì, ma l’idea... — Sbuffò. — È da quando avevo dieci anni che non
credo più alle favole.
— Questa particolare favola non intende porsi come esempio di realismo
— spiegai pazientemente.
— È troppo astrusa — sentenziò, categorica come tutte le diciassettenni.
— Voglio leggere di cose che potrebbero succedere. Chi è il “Piccolo
Popolo” di cui parla, i soliti barbosi elfi e troll?
— Tutte le leggende affondano le radici in eventi reali — dissi. — C’è un
motivo...
— Non vorrai mica dirmi che queste cose sono esistite sul serio? — mi
interruppe — Ma va’ al diavolo!
— Non così in fretta, signorina — la ammonii, piuttosto irritato. —
Volevo dire che tutti i miti hanno tratto origine da realtà concrete che in
seguito sono state modificate e distorte al punto da assumere un significato
soprannaturale. I giovani — continuai guardando con fraterno cipiglio il suo
visino imbronciato — tendono ad accettare acriticamente o a respingere
integralmente le cose che non capiscono. Forse il Piccolo Popolo di cui parla
Machen è costituito dai discendenti degli uomini preistorici vissuti in Europa
prima che i celti calassero dal Nord.
“Sono chiamati con vari nomi: turaniani, pitti, mediterranei o mangiatori
d’aglio. Erano uomini bassi e scuri, tracce dei quali si rinvengono oggi in
regioni primitive dell’Europa e dell’Asia, per esempio tra i baschi di
Spagna, gli scozzesi di Galloway e i lapponi.
“Siccome lavoravano la selce, gli antropologi li definiscono uomini del
neolitico o dell’Età della Pietra levigata. I reperti neolitici dimostrano
chiaramente che quegli uomini, sia pur primitivi, avevano raggiunto un
grado relativamente alto di civiltà all’inizio dell’Età del Bronzo, la quale,
cara la mia ragazza, fu inaugurata dagli antenati dei celti, i nostri progenitori
preistorici.
“Questi sgominarono o ridussero in schiavitù i popoli mediterranei e
furono a loro volta soppiantati dalle tribù teutoniche. Secondo la leggenda,
in tutta Europa e soprattutto in Britannia, i pitti, che i celti consideravano a
stento umani, si rifugiarono in caverne sotterranee e lì vissero, uscendo solo
la notte per uccidere, incendiare case e rapire bambini da usare nei loro
cruenti riti religiosi. Vi è senza dubbio molta verità in questa leggenda. Mi
pare logico che, essendo discendenti di cavernicoli, i nani sgominati dagli
invasori abbiano cercato rifugio in grotte, e senza dubbio riuscirono a vivere
in clandestinità per svariate generazioni.”
— Tutto questo accadde molto tempo fa — disse mia sorella minore con
scarso interesse. — Se mai sono esistiti esseri del genere, sono morti da
secoli. Insomma, ci troviamo proprio nel paese in cui si sarebbero dovuti
rivelare e non ne abbiamo mai visto traccia.
Annuii. Diversamente da me, Joan non era affascinata dalle misteriose
regioni occidentali. In me gli immensi menhir e cromlech che si levavano
desolati in mezzo alla brughiera suscitavano vaghi ricordi di razze lontane e
stimolavano la fantasia celtica.
— Forse hai ragione — dissi, e aggiunsi incautamente: — Hai sentito
però che quel vecchio paesano ci ha diffidato dal camminare nella palude di
notte. Nessuno si azzarda a farlo. Tu sei molto evoluta, mia cara, ma
scommetto che non passeresti mai la notte da sola tra le rovine di pietra che
vediamo dalla mia finestra.
Depose il libro e mi guardò con gli occhi che brillavano di interesse e
senso di sfida.
— Lo farò! — esclamò. — Ti farò vedere. Il vecchio ha detto che
nessuno si avvicina mai a quelle antiche pietre di sera, vero? Be’, io mi ci
avvicinerò e ci resterò per tutta la notte!
Si alzò all’istante, e compresi di aver commesso un errore.
— No, non ci andrai nemmeno tu — dissi. — Che cosa penserebbe la
gente?
— Che me ne importa? — ribatté lei con lo spirito ribelle delle nuove
generazioni.
— È assurdo andare nella brughiera di notte — replicai. — Le antiche
leggende saranno anche tutte sciocchezze, d’accordo, ma nottetempo ci sono
molti loschi individui che non esiterebbero a far del male a una ragazzina
inerme. Non è consigliabile che un’adolescente come te se ne vada in giro
senza nessuno che la protegga.
— Vuoi dire che sono troppo carina?
— Voglio dire che sei troppo sciocca — ribattei con la maggiore
autorevolezza fraterna che mi riuscì di trovare.
Mi fece una smorfia e rimase zitta un istante, mentre io, che leggevo con
incredibile facilità nella sua agile mente, capivo dalla sua aria meditabonda e
dagli occhi scintillanti che cosa pensava. Stava immaginando il suo ritorno a
casa, quando una folla di amici l’avrebbe circondata e lei avrebbe detto, con
parole che già adesso stava rimuginando: “Sapete, ho passato un’intera notte
tra le rovine più antiche e romantiche dell’Inghilterra occidentale, che
dicevano essere infestate da spettri...”.
Mi stavo maledicendo per aver tirato fuori l’argomento, quando disse di
punto in bianco: — Ci andrò lo stesso. Nessuno mi farà del male e non
intendo assolutamente lasciarmi sfuggire l’occasione di una simile
avventura.
— Joan — dissi — ti proibisco di uscire da sola stasera o qualsiasi altra
sera.
Mandò lampi dagli occhi e subito mi pentii di non avere formulato il mio
divieto in maniera più diplomatica. Mia sorella era testarda e coraggiosa,
abituata a fare quello che voleva e insofferente di ogni restrizione.
— Non puoi darmi degli ordini — proclamò sdegnata. — Da quando
abbiamo lasciato l’America, non hai fatto altro che comportarti da
prepotente con me.
— Ci sono stato costretto — sospirai. — Credimi, conosco un sacco di
passatempi più belli che girare per l’Europa con una maschietta come te.
Aprì la bocca come per darmi una rispostaccia, poi scrollò le esili spalle,
si appoggiò allo schienale della sedia e riprese in mano il libro.
— E va bene, tanto non mi andava molto di uscire — disse quasi con
indifferenza.
La scrutai con sospetto: di solito non si lasciava ammansire così
facilmente, e anzi, alcuni dei momenti più atroci della mia vita erano stati
quelli in cui avevo dovuto convincerla con le blandizie a desistere dal suo
atteggiamento ribelle.
I miei sospetti non svanirono del tutto nemmeno quando, pochi minuti
dopo, annunciò di volersi ritirare nella sua stanza dall’altra parte del
corridoio.
Spensi la luce e andai alla finestra, da cui si godeva un’ampia vista della
grande, desolata brughiera disseminata di dossi. La luna stava sorgendo e la
terra splendeva squallida e brulla sotto i suoi raggi freddi. L’aria della tarda
estate era tiepida, ma il paesaggio appariva freddo, tetro e ostile. In mezzo
alla landa si levavano, scure e spoglie, le guglie alte e scabre delle rovine.
Sinistre e terribili si stagliavano contro il cielo notturno, muti spettri di...
[In questo punto nel dattiloscritto di Robert E. Howard manca una pagina.]
Molti sono gli scontri che vincono o perdono i vivi, ma questa è la storia di
uno scontro che vinse un uomo morto da oltre un secolo. Mentre, un freddo
giorno d’inverno, sedeva nel vecchio East Side Athletic Club, l’allenatore di
campioni John Taverel mi raccontò la storia del fantasma che si aggiudicò il
combattimento di boxe e dell’uomo che per quel fantasma aveva una vera
adorazione. Lasciamo che sia Taverel stesso a narrare la vicenda con le
esatte parole che disse a me.
Guardai incuriosito il pacco. Era piatto e sottile, e l’indirizzo era scritto con
la calligrafia bella ed elegante che avevo imparato a odiare e che sapevo non
si sarebbe mai più esercitata su un pezzo di carta.
— Bada di stare attento, Gordon — mi disse il mio amico Costigan. —
Perché mai quel tizzone d’inferno t’avrebbe mandato qualcosa se non per
farti del male?
— Lì per lì ho pensato a una bomba o a qualcosa del genere — ammisi
— ma questo pacco è troppo sottile per contenerne una. Lo apro.
— Per la miseria, ti manda una delle sue canzoni — fece Costigan con
una risata secca.
Dal pacco era emerso un comune disco di vinile.
Comune, ho detto? Dovrei forse dire il disco più eccezionale del mondo;
perché, a quanto potevamo capire, era l’unico che racchiudesse nel suo
cuore piatto la voce dorata di Giovanni Casonetto, il grande genio malvagio
le cui doti canore avevano entusiasmato il mondo tanto quanto i suoi orridi,
segreti delitti lo avevano sconvolto.
— Il braccio della morte in cui languiva Casonetto attende il prossimo
condannato e il malvagio cantante è stato giustiziato — disse Costigan. —
Quale trucco nasconde allora il disco che ha mandato all’uomo la cui
testimonianza lo ha spedito sulla forca?
Scrollai le spalle. Avevo scoperto il terribile segreto di Casonetto non
certo per la mia arte investigativa, ma per puro caso. Non perché la cercassi
mi ero imbattuto nella grotta dove esercitava antiche pratiche abominevoli e
offriva sacrifici umani al diavolo che adorava. Ma avevo riferito alla corte di
giustizia quanto avevo visto, e prima che il boia regolasse il nodo scorsoio
Casonetto mi aveva augurato un destino di inusitato orrore.
Tutto il mondo sapeva delle atrocità commesse dalla setta diabolica e
disumana di cui il cantante era stato gran sacerdote, e adesso che era morto i
suoi dischi erano molto ricercati dai ricchi collezionisti; ma, in omaggio alle
sue ultime volontà, erano stati tutti distrutti.
Così, per la verità, avevo creduto, poiché il sottile disco rotondo appena
scartato dimostrava che almeno uno era sfuggito alla distruzione generale.
Lo guardai, ma il cerchietto al centro non recava alcun titolo.
— Leggi il biglietto — suggerì Costigan.
Nel pacco era contenuto anche un foglietto di carta bianca, che esaminai.
Era scritto con la calligrafia di Casonetto e diceva: “Al mio amico Stephen
Gordon; lo ascolti da solo nel suo studio”.
— Tutto qui — osservai dopo avere letto a voce alta la strana richiesta.
— Certo, ma basta e avanza. Credo sia un tentativo di esercitare su di te la
magia nera. Perché, altrimenti, ti raccomanderebbe di ascoltare i suoi
miagolii da solo?
— Non lo so, ma credo che lo farò.
— Sei uno stupido — disse Costigan senza peli sulla lingua. — Se non
seguirai il mio consiglio e non butterai in mare quel disco, resterò con te
quando lo metterai sul fonografo. E non osare opporti.
Non mi azzardai a discutere. In effetti avevo un certo timore della
vendetta promessami da Casonetto, anche se non capivo come avrebbe
potuto compierla facendomi ascoltare al fonografo una canzone da lui incisa
su disco.
Costigan e io andammo nel mio studio e mettemmo su l’ultimo disco che
portava incisa la splendida voce di Giovanni Casonetto. Il mio amico strinse
le mascelle con aria combattiva quando il disco cominciò a girare e la
puntina di diamante scivolò lungo i solchi. Senza volerlo, mi tesi come
nell’imminenza di una battaglia. Una voce si levò chiara e forte.
“Stephen Gordon!”
Trasalii mio malgrado e fui lì lì per rispondere. Com’era strano e
inquietante sentirsi nominare dalla voce di un uomo che si sapeva essere
morto!
“Stephen Gordon” continuò la magnifica, odiata voce, “se sta ascoltando
questo disco vuol dire che sono morto, perché se fossi vivo mi libererei di
lei in altro modo. La polizia sarà presto qui e mi ha precluso ogni via di
scampo. Non posso fare altro che affrontare la prova, giacché la sua
testimonianza mi ha stretto il cappio intorno al collo. Ma c’è tempo per un
ultimo canto.
“Questo canto io lo imprigionerò nel disco che adesso si trova sul mio
fonografo e che prima dell’arrivo della polizia le manderò tramite persona di
mia fiducia. Lo riceverà per posta il giorno dopo che sarò stato impiccato.
“Amico mio, questo è un contorno adatto all’ultima aria del gran
sacerdote di Satana. Mi trovo nella cappella nera dove lei mi sorprese la
volta in cui entrò per caso nella mia grotta segreta e i miei maldestri neofiti
la lasciarono scappare.
“Sto guardando la teca dell’Innominabile, davanti alla quale vi è l’altare
insanguinato dove molte anime di vergini volarono verso le stelle nere.
Intorno a me si librano oscuri esseri misteriosi e odo il fruscio di possenti ali
nel buio.
“Satana, amante delle tenebre, cingi la mia anima di male e tocca corde
d’orrore nel mio dorato canto.
“Ascolti, Stephen Gordon!”
Piena, profonda ed esultante, la splendida voce si levò in uno strano
canto ritmico, assai bizzarro e inquietante.
— Gran Dio — sussurrò Costigan — sta cantando le invocazioni della
messa nera!
Non risposi. Le note arcane mi toccarono nel più profondo del cuore.
Negli oscuri meandri della mia anima, qualcosa di cieco e mostruoso si
mosse e si animò come un drago risvegliatosi dal sonno. La stanza divenne
indistinta fino a scomparire mentre mi lasciavo catturare dal potere ipnotico
del canto. Mi strisciavano intorno forze inumane e mi pareva quasi di sentire
ali di pipistrello sfiorarmi il viso nel loro volo; era come se, in virtù del
canto, il morto avesse evocato antichi, spaventosi demoni perché mi
tormentassero.
Rividi la fosca cappella illuminata da un unico fuocherello che tremolava
e guizzava sull’altare, dietro e sopra al quale incombeva l’orrore, l’essere
innominabile con ali e corna a cui si inchinavano gli adoratori del diavolo.
Rividi l’altare insanguinato, il lungo pugnale sacrificale che il malvagio
accolito stringeva nella mano sollevata, le figure ondeggianti dei fedeli
avvolti in tuniche nere.
La voce salì sempre più in alto, esplodendo in un rimbombo trionfante.
Riempì la stanza, il mondo, il cielo, l’universo. Nascose le stelle dietro a un
velo tangibile di tenebra. Mi ritrassi barcollando da essa come da una forza
fisica.
Se mai l’odio e il male si sono incarnati in un suono, è stato in quello che
ho udito e captato allora. La voce mi trascinò negli abissi di un inferno
inaudito. Orridi baratri eterni mi si spalancarono davanti. Colsi immagini di
vuoti efferati e dimensioni blasfeme estranei a ogni esperienza umana. Dal
disco che girava, l’essenza concentrata del purgatorio fluiva verso di me
sulle ali di quella voce meravigliosa e terribile.
Mi coprii di sudore freddo quando compresi che le mie erano le
sensazioni di una vittima sacrificale. Io ero l’olocausto: giacevo sull’altare e
la mano dell’assassino, stringendo il pugnale, era levata su di me.
La voce proseguì nel crescendo di note, sempre più acuta e nel contempo
più profonda, intrisa di follia mentre si approssimava al culmine e mi
sospingeva irresistibilmente verso la morte.
Mi resi conto di essere in pericolo. Sentivo la mente sgretolarsi sotto
l’assalto delle lance acustiche. Cercai di parlare o urlare, ma la bocca si aprì
senza emettere suono. Tentai di fare un passo avanti per spegnere il
fonografo o rompere il disco, ma non riuscivo a muovermi.
Il canto raggiunse una maligna, intollerabile apoteosi. Un odioso senso di
trionfo pervadeva le note: un milione di demoni beffardi mi urlavano e
mugghiavano contro, irridendomi in mezzo al diluvio della musica
diabolica, quasi che il canto fosse una porta attraverso la quale orde infernali
giungessero ruggenti in massa con le mani insanguinate.
La voce si avvicinò con folle rapidità al punto in cui, nella messa nera, il
pugnale beve il sangue del sacrificio. Con uno sforzo supremo che mise a
dura prova la mia anima esausta e la mia mente ottenebrata, ruppi le catene
dell’incanto ipnotico e urlai: un urlo disumano e sinistro, l’urlo di un’anima
trascinata all’inferno e di una mente spinta sull’orlo della follia.
Gli fece eco il grido di Costigan, il quale si protese in avanti e colpì con il
suo potentissimo pugno il piatto del fonografo, facendolo a pezzi e
condannando per sempre all’oblio la splendida quanto terribile voce.
IL TOCCO DELLA MORTE
Il vecchio Adam Farrel giaceva morto nella casa in cui era vissuto da solo
per vent’anni. Rustico, silenzioso orso, nella vita non aveva avuto amici e
solo due uomini avevano assistito al suo trapasso.
Il dottor Stein si alzò e guardò dalla finestra la sera incombente. — Pensa
allora di poter passare la notte qui? — chiese al suo interlocutore.
L’uomo, che si chiamava Falred, assentì. — Sì, certo, credo sia mio
dovere.
— Vegliare i morti è un’usanza abbastanza assurda e primitiva —
osservò il dottore preparandosi a uscire — ma immagino che in ossequio
alle convenzioni sociali ci toccherà rispettarla. Forse riuscirò a trovare
qualcuno che venga a darle il cambio.
Falred alzò le spalle. — Ne dubito. Farrel non era amato e quasi nessuno
lo frequentava. Io stesso lo conoscevo appena, ma non ho problemi a stare
seduto accanto a un cadavere.
Il dottor Stein si tolse i guanti di gomma e Falred osservò l’operazione
con interesse o addirittura una punta di fascino. Fu scosso da un piccolo
brivido involontario al pensiero di avere sfiorato quei guanti freddi, viscidi,
appiccicosi, che ricordavano il tocco della morte.
— Forse stanotte si sentirà solo, se non trovo nessuno che le venga a dare
una mano — disse il medico aprendo la porta. — Spero non sia
superstizioso.
Falred rise. — No, affatto. Per la verità, dai commenti che ho sentito sul
carattere di Farrel direi che è più fortunato chi lo veglia in morte di chi ha
avuto la ventura di essere suo ospite in vita.
La porta si chiuse e Falred iniziò la veglia. Si sedette sull’unica sedia della
stanza, gettò un’occhiata distratta, di fronte a sé, alla sagoma informe stesa
sul letto e coperta dal lenzuolo, e cominciò a leggere alla luce della fioca
lampada posta sul rozzo tavolo.
Fuori le tenebre scesero in fretta e alla fine Falred depose la rivista per
riposare gli occhi. Guardò di nuovo la figura immobile che era stata, in vita,
Adam Farrel e si chiese per quale bizzarria della natura umana tante persone
considerassero la vista di un cadavere non solo sgradevole, ma anche
paurosa. L’ignoranza, nella sua irrazionalità, legge nelle cose senza vita un
memento della morte a venire, pensò, mettendosi a riflettere oziosamente su
che cosa la vita avesse riservato a quel vecchio scontroso e ombroso, che
non aveva né parenti né amici e che di rado aveva lasciato la casa in cui era
deceduto. Come al solito erano nate leggende che parlavano di una ricchezza
accumulata con taccagneria, ma Falred era così poco interessato alla
faccenda che non doveva nemmeno fare uno sforzo per vincere la
tentazione di frugare in casa alla ricerca di eventuali tesori nascosti.
Scrollando le spalle, tornò a leggere. La veglia si prospettava più noiosa
del previsto. Dopo un poco si rese conto che ogniqualvolta alzava gli occhi
dalla rivista per posarli sul letto e sul suo macabro fardello, trasaliva
involontariamente, come se, per un istante, si fosse dimenticato del morto e
la consapevolezza di essere in sua presenza gli tornasse all’improvviso in
maniera sgradevole. Era un sussulto minimo, istintivo, ma Falred era quasi
arrabbiato con se stesso. Si rese conto d’un tratto del silenzio assoluto e
assordante in cui era immersa la casa, un silenzio che la notte pareva
condividere, perché non arrivava alcun suono da fuori. Adam Farrel era
vissuto il più lontano possibile dai propri vicini e non c’erano altre
abitazioni da cui potessero giungere rumori.
Falred scosse la testa come per liberare la mente da pensieri spiacevoli e
riprese a leggere. Dalla finestra giunse un’improvvisa raffica di vento e la
fiamma della lampada tremolò, per poi spegnersi. Imprecando fra sé, cercò
al buio i fiammiferi, bruciandosi le dita sul tubo di vetro della lampada, che
scottava. La riaccese e, guardando il letto, ebbe un tremendo sussulto. Adam
Farrel lo fissava senza vederlo, con gli occhi vitrei sbarrati e incastonati nel
grinzoso volto terreo. Vincendo il fremito istintivo, Falred si spiegò
razionalmente lo strano fenomeno: il lenzuolo era stato tirato alla meglio
sopra la faccia e l’improvvisa raffica di vento lo aveva spostato e fatto
cadere di lato.
Vi era però nel fenomeno qualcosa di macabro e orribilmente suggestivo,
come se, nel buio pesto, il cadavere avesse alzato la mano morta per
scoprirsi e magari alzarsi.
Falred, un uomo immaginoso, scrollò le spalle come per scacciare quei
pensieri lugubri e si avvicinò al letto per rimettere a posto il sudario. Il
morto pareva fissarlo con malevolenza, con una cattiveria che andava oltre
la scontrosità mostrata notoriamente in vita. Era certo un parto della sua
vivida fantasia, pensò Falred, e tornò a coprire il volto terreo, fremendo di
disgusto quando la sua mano entrò in contatto con quella pelle gelida,
viscida e appiccicosa: il tocco della morte. Rabbrividì per la naturale
repulsione che i vivi provano per i morti e tornò alla sua sedia e alla sua
rivista.
Alla fine, sentendo arrivare il sonno, si sdraiò su un divano che,
stranamente, il proprietario aveva incluso tra i pochi mobili della stanza e si
preparò a dormire un poco. Decise di lasciare accesa la luce, perché, si disse,
così si faceva durante le veglie funebri, ma sebbene in cuor suo non volesse
ammetterlo, in realtà trovava sgradevole l’idea di starsene sdraiato al buio
con quel cadavere. Sonnecchiò, poi si svegliò di soprassalto e guardò la
figura sul letto avvolta nel lenzuolo. La casa era silenziosa e fuori era buio
pesto.
Si stava avvicinando la mezzanotte, con la sua sinistra influenza sulla
mente umana. Falred guardò di nuovo il letto in cui giaceva il cadavere
coperto dal sudario e trovò quella vista assai repellente. Gli nacque e crebbe
in testa un’idea bizzarra, ossia che sotto il lenzuolo il corpo senza vita di
Farrell fosse divenuto qualcosa di strano e mostruoso, una creatura
abominevole e consapevole che lo osservava con occhi ardenti da sotto la
tela. Quel pensiero, una mera fantasia naturalmente, traeva forse origine
dalle leggende di vampiri, non morti, spettri e altre terrificanti creature
mitiche con cui i vivi hanno adombrato i morti per innumerevoli secoli, fin
dall’epoca in cui l’uomo primitivo riconobbe per la prima volta nella morte
un fenomeno orribile e avulso dalla vita. L’uomo, si disse Falred, temeva la
morte, e parte di questa paura veniva trasferita anche sui morti. La vista dei
cadaveri generava pensieri foschi e suscitava oscuri timori di ancestrale
memoria che stavano in agguato nei recessi della mente.
In ogni caso, l’essere silenzioso steso sotto il lenzuolo gli stava dando ai
nervi. A un certo punto pensò di scoprirgli la faccia, riflettendo che la
familiarità genera disprezzo. La vista di quel viso quieto e immobile nella
morte avrebbe forse dissipato tutte le folli fantasticherie che suo malgrado lo
tormentavano. Ma gli era intollerabile pensare a quegli occhi vitrei che lo
fissavano alla luce della lampada, sicché alla fine spense con un soffio la
candela e si mise a dormire. La paura si era insinuata in lui in maniera così
insidiosa e graduale che non si era reso conto di quanto fosse aumentata.
Dopo che ebbe spento la luce ed escluso dalla sua vista il cadavere, però,
le cose riacquistarono le loro vere dimensioni e proporzioni, ed egli si
addormentò quasi all’istante, sorridendo delle assurde fantasie cui si era
abbandonato.
Ricordo come fosse ieri la terribile notte al Silver Slipper, nel tardo autunno
del 1845. Fuori imperversava una gelida tempesta e il nevischio, spinto dal
vento, batteva contro le finestre come le falangi di uno scheletro. Seduti
intorno al fuoco della taverna, sentivamo, al di sopra del vento e della neve,
i cavalloni bianchi mugghiare furiosi mentre si infrangevano contro la
desolata costa del New England. Le navi, nel porto del piccolo villaggio,
erano ormeggiate con una doppia ancora e i loro comandanti avevano
cercato calore e compagnia nelle taverne vicino ai moli.
Al Silver Slipper, quella sera, c’erano quattro uomini oltre a me, il
ragazzo che stappava le bottiglie: Ezra Harper, l’oste, John Gower,
comandante della Sea-Woman, Jonas Hopkins, un avvocato di Salem, e il
capitano Starkey, che comandava la Vulture. I quattro sedevano intorno a un
tavolo spoglio e massiccio davanti al grande fuoco che crepitava nel
caminetto, e io mi affaccendavo in giro, servendo ciò che ordinavano,
riempiendo i boccali e riscaldando le bevande aromatizzate.
Il capitano Starkey dava le spalle al fuoco e aveva davanti una finestra su
cui picchiettava e grattava il nevischio. Ezra Harper sedeva alla sua destra, a
capotavola, il capitano Gower era al capotavola opposto e l’avvocato Jonas
Hopkins si trovava esattamente di fronte a Starkey, per cui voltava la
schiena alla finestra e guardava il fuoco.
— Altro brandy! — ruggì Starkey, battendo sul tavolo il grosso pugno
nodoso. Era un rude gigante di mezz’età, con una corta e folta barba scura e
occhi che scintillavano sotto spesse sopracciglia nere.
— Una notte gelida per chi è costretto a navigare — disse Ezra Harper.
— Una notte ancor più gelida per gli uomini che dormono in fondo al
mare — disse cupo John Gower. Era un tipo bruno, alto, longilineo e
saturnino, un individuo eccentrico e stravagante sul cui conto si
mormoravano cose fosche.
Starkey scoppiò in una risata cattiva. — Se stai pensando a Tom Siler,
puoi anche risparmiarti la tua solidarietà. La terra ci ha solo guadagnato
dalla sua dipartita e il mare non è diventato per questo migliore. Era un vile
assassino ammutinato! — Pronunciò le ultime parole con improvvisa furia,
picchiando forte il pugno sul tavolo e guardandosi intorno come volesse
sfidare i presenti a contestare il suo giudizio.
Un sorriso ironico si dipinse sul viso sinistro di John Gower, mentre
Jonas Hopkins si protese in avanti e, con il suo sguardo acuto, fissò Starkey
dritto negli occhi. Come tutti noi, conosceva la storia di Tom Siler come
l’aveva raccontata Starkey stesso; sapeva che Siler, secondo ufficiale sulla
Vulture, aveva incitato l’equipaggio ad ammutinarsi per darsi alla pirateria e,
caduto in una trappola tesagli da Starkey, era stato impiccato all’albero della
nave. Erano tempi duri, quelli, e la parola del comandante era legge, in
mare.
— Strano — disse Hopkins guardando Starkey con il suo viso scarno e
pallido. — Strano che Tom Siler sia diventato un delinquente, lui che una
volta era un ragazzo così rispettoso della legge.
Starkey si limitò a grugnire sdegnosamente e vuotò il bicchiere. Era già
ubriaco.
— Quand’è che tua nipote Betty sposerà Joseph Harmer? — gli domandò
l’oste Ezra Harper, cercando di indirizzare la conversazione verso argomenti
meno scabrosi. Jonas Hopkins si appoggiò allo schienale della sedia e si
concentrò sul suo rum.
— Domani — ringhiò Starkey.
Gower fece una risatina. — Sposare una ragazza tanto più giovane di
lui... Ma Joe Harmer vuole una moglie o una figlia?
— Fammi il favore di badare agli affaracci tuoi, John Gower! — ruggì
Starkey. — La sgualdrinella dovrebbe essere onorata di sposare un uomo
come Harmer, che è uno dei più ricchi armatori del New England.
— Ma Betty forse non la pensa così, vero? — insistette Gower, come in
cerca di guai. — Piange ancora Dick Hansen, no?
Il capitano Starkey strinse i pugni pelosi e guardò torvo Gower, come
non ne potesse più di quelle domande sulla sua vita privata; poi ingollò il
rum e sbatté il boccale sul tavolo.
— I capricci di una ragazza sono incomprensibili — disse imbronciato.
— Se vuole rovinarsi la vita a piangere dietro a un buono a nulla che è
scappato e si è annegato, sono affari suoi. Ma sono affari miei procurare che
faccia un matrimonio decente.
— E quanto ti paga Joe Harmer, Starkey? — chiese brusco Gower.
Erano stati superati i limiti dell’educazione e della discrezione. Il
corpulento Starkey si alzò dalla sedia urlando e si protese verso Gower con
il pugno levato e gli occhi rossi per la rabbia e l’alcol. Gower non si mosse.
Rimanendo seduto, strinse gli occhi con aria insidiosa e gli rivolse un
sorriso.
— Siediti, Starkey — intervenne Ezra Harper. — John, stasera hai il
diavolo in corpo. Perché non possiamo berci il nostro cicchetto insieme
amichevolmente e...
La bella riflessione filosofica fu interrotta di colpo. La massiccia porta si
spalancò all’improvviso, una raffica di vento fece guizzare furiosamente la
candela e, nel turbine di nevischio che entrò col vento, vedemmo una
ragazza. Balzai in piedi e andai a chiudere la porta alle sue spalle.
— Betty!
La ragazza era esile, quasi fragile. Aveva i grandi occhi neri spiritati e il
bel viso pallido rigato di lacrime. I capelli erano sciolti sulle magre spalle e
gli abiti inzuppati e sgualciti dalla tempesta che aveva attraversato per venire
fin lì.
— Betty! — ruggì il capitano Starkey. — Credevo fossi a casa, a letto.
Che cosa ci fai qui in una notte come questa?
— Oh, zio! — pianse lei, tendendogli le braccia senza badare
minimamente a noialtri. — Sono venuta a dirtelo di nuovo. Non posso
sposare Joseph Harmer domattina, non posso proprio. È per via di Dick
Hansen. Sento la sua voce che mi chiama nel vento, nella notte e nelle acque
nere. Vivo o morto che sia, sarò sempre sua finché respirerò e non posso,
non posso...
— Fuori di qui! — urlò Starkey, pestando i piedi e agitando le braccia
come un pazzo. — Vattene, torna a casa! Poi faremo i conti. E zitta, sai! Se
non sposerai Joe Harmer domani, ti bastonerò a morte.
Con un gemito, lei gli si inginocchiò davanti. Urlando, Starkey sollevò il
grosso pugno come per colpirla, ma con mossa felina John Gower si alzò di
scatto e lo scaraventò contro il tavolo.
— Giù le mani, lurido pirata! — urlò furioso Starkey.
Gower gli rivolse un sorriso cupo. — È ancora da dimostrare che lo sono
— disse. — Ma provati ad alzare un dito su questa ragazza, e vedremo
quanto in fretta un “lurido pirata” può spaccare il cuore a un onesto
mercante che sta vendendo una giovane donna del suo stesso sangue a un
taccagno.
— Lascia perdere, John — intervenne Ezra Harper. — Non vedi che la
ragazza sta per svenire, Starkey? — Si chinò su di lei e la sollevò con
delicatezza. — Coraggio, vieni, tesoro, vieni dal vecchio Ezra. Nella stanza
di sopra c’è un bel fuoco caldo e mia moglie ti darà degli abiti asciutti. È una
notte troppo brutta perché una ragazzina si avventuri fuori da sola. Resterai
con noi fino a domattina, mia cara.
Salì le scale quasi sostenendola di peso e Starkey, dopo averli fissati un
attimo, tornò al tavolo. Per un poco vi fu silenzio, poi Jonas Hopkins, che
non si era spostato dalla sua sedia, disse: — Si sentono raccontare strane
storie, Starkey.
— Quali? — fece lui con aria di sfida.
Hopkins riempì la lunga pipa sottile con tabacco della Virginia, prima di
rispondere. — Ho parlato con alcuni uomini del tuo equipaggio, oggi.
— Bah — fece Starkey, tirando una bestemmia. — La mia nave non fa in
tempo a entrare in porto la mattina che già la sera si fanno pettegolezzi.
Hopkins mi fece segno di dargli un tizzone per accendere la pipa.
Obbedii, e tirò varie boccate.
— Forse stavolta i pettegolezzi sono fondati.
— Avanti, parla! — disse irato Starkey. — Dove vuoi arrivare?
— Dicono che a bordo della Vulture Tom Siler non si era affatto reso
colpevole di ammutinamento. Dicono che tu ti sei inventato false accuse e lo
hai impiccato su due piedi nonostante le proteste dell’equipaggio.
Starkey rise sguaiatamente, ma con una nota cupa nella voce. — E su
quali fatti concreti si basano per sostenere una simile assurdità?
— A quanto pare, mentre si trovava sull’orlo dell’eternità, Tom Siler ha
giurato che lo stavi uccidendo perché aveva saputo cos’era successo a Dick
Hansen. Ma prima che potesse dire altro, il cappio gli ha tolto la parola e la
vita.
— Dick Hansen! — Starkey impallidì, ma continuò a parlare in tono di
sfida. — Dick Hansen fu visto per l’ultima volta sul molo di Salem una sera
di oltre un anno fa. Che cosa c’entro con lui?
— Tu, Starkey, volevi che Betty sposasse Joe Harmer, il quale era pronto
a comprartela come una schiava — rispose calmo Jonas Hopkins. — Questo
lo sanno tutti.
John Gower annuì, dando man forte a Hopkins.
— Betty però voleva sposare Dick Hansen, così tu lo hai fatto drogare e
salire forzatamente a bordo di una baleniera britannica impegnata in una
crociera di quattro anni. Poi hai fatto diffondere la voce che era annegato e
hai cercato di costringere Betty a sposare Harmer contro la sua volontà,
prima che Hansen fosse in grado di tornare. Quando hai capito che Siler
sapeva e che avrebbe raccontato a Betty la verità, sei stato preso dalla
disperazione. So che sei sull’orlo della bancarotta. La tua unica possibilità di
salvezza era il denaro che Harmer ti aveva promesso. Hai assassinato Tom
Siler per chiudergli la bocca.
Seguì un altro silenzio. Fuori, nella notte nera, il vento infuriava
ruggendo. Starkey si torse le grosse dita, rimuginando.
— Puoi provare tutto questo? — sibilò alla fine.
— Posso provare che sei sull’orlo della bancarotta e che Harmer ti ha
promesso dei soldi. Posso provare che hai fatto scomparire Hansen.
— Ma non che Siler non intendeva ammutinarsi — gridò Starkey. — E
come puoi dimostrare che Hansen è stato imbarcato a forza sulla baleniera?
— Stamattina ho ricevuto una lettera dal mio agente, che era appena
arrivato a Boston — rispose Hopkins. — Aveva visto Hansen in un porto
asiatico. Il giovane gli aveva detto di voler abbandonare la nave alla prima
occasione e tornare in America. Ha chiesto se Betty sapesse che era vivo e
che continuava ad amarla.
Starkey puntellò i gomiti sul tavolo e affondò il mento nei pugni, come
chi vedesse tutti i suoi sogni crollare e una nera rovina avvicinarsi. Poi
scrollò le possenti spalle e scoppiò in una risata sguaiata. Vuotò il boccale e
si alzò in piedi, continuando a ridere.
— Ho ancora uno o due assi nella manica — urlò. — Tom Siler è
all’inferno con un cappio al collo e Dick Hansen è dall’altra parte del
mondo. La ragazza è minorenne e sotto la mia tutela, e sposerà chi dico io.
Non puoi dimostrare quello che dici di Tom Siler. La mia parola è legge in
alto mare e non puoi obbligarmi a giustificare niente di quello che faccio a
bordo della mia nave. Quanto a Dick Hansen, mia nipote sarà
tranquillamente sposata con Joe Harmer molto prima che quel giovane idiota
torni dalla sua crociera. Prova a dirglielo, se vuoi. Prova a dirle che Dick
Hansen è ancora vivo!
— È quello che intendo fare — replicò Jonas Hopkins, alzandosi — e lo
avrei già fatto da un pezzo, se non avessi voluto prima inchiodarti
mettendoti di fronte ai fatti.
— Ma bravo! — gridò Starkey come un forsennato. Pareva una belva
con le spalle al muro e ci sfidava tutti. Aveva gli occhi fiammeggianti sotto
le sopracciglia folte e teneva le dita curve, ad artiglio. Prese un calice di
liquore dal tavolo e lo agitò in aria. — Ma sì, va’ a dirglielo! Sposerà
Harmer o l’ammazzerò. Trama e complotta pure, brutto porco vigliacco,
tanto nessun essere vivente può ormai intralciarmi e nessun essere vivente
può salvarla dal suo destino di moglie di Joe Harmer.
“Anzi, ecco un brindisi, brutti vigliacchi codardi! Brindo a Tom Siler,
che dorme nel freddo mare bianco con il cappio del traditore al collo.
Brindo al mio secondo di bordo, Tom Siler, che dondola appeso alla barra.”
Era una vera follia. Fremetti sentendo le orribili parole di quell’uomo
maligno, e perfino dal viso di John Gower sparì il sorriso.
— A Tom Siler! — ripeté Starkey.
Il vento rispose al ruggito. Il nevischio batté con dita frenetiche contro la
finestra, come se la nera notte tentasse di entrare. Mi rannicchiai vicino al
fuoco, dietro alle spalle del capitano Starkey, ma ugualmente fui investito da
un freddo arcano, come se da una porta apertasi all’improvviso si fosse
messo a soffiare il vento di altre sfere.
— A Tom Siler... — Starkey alzò ancora il bicchiere e, seguendone il
movimento, contemplò la finestra che ci separava dalle tenebre esterne.
All’improvviso si bloccò, strabuzzò gli occhi, lasciò cadere il calice e con un
urlo terrificante crollò sul tavolo, morto.
Che cosa lo uccise? Troppo alcol e troppo fuoco nel cervello malvagio,
dissero. Eppure... Jonas Hopkins aveva voltato le spalle per dirigersi alla
scala e John Gower stava fissando Starkey. Solo io guardai la finestra e vidi
quello che aveva fatto perdere la ragione al capitano, spegnendogli la vita
come una strega spegne una candela. Ciò che vidi mi ha perseguitato fino a
oggi e mi perseguiterà finché vivrò.
La finestra era incrostata di ghiaccio e le candele le ardevano illusorie
davanti, ma per un attimo la vidi chiaramente: una figura vaga e confusa,
simile al riflesso di una sagoma umana in acque agitate. Era la faccia di
Tom Siler e intorno al collo aveva l’ombra di un cappio.
L’OMBRA DELLA BESTIA
Se il vostro cuore è triste in petto e una nera cortina di dolore vi è calata tra
il cervello e gli occhi, facendovi apparire pallida e lebbrosa perfino la luce
del sole, andate a Galway, nella contea omonima sita nella provincia del
Connaught, in Irlanda.
Nella vecchia, grigia “città delle tribù”, com’è chiamata, vi è un sognante
incantesimo consolatorio che è come una malia e, se siete originari di
Galway, per quanto ve ne siate allontanati il vostro dolore svanirà con la
leggerezza di un sogno, lasciando solo un ricordo dolce e triste come il
profumo di una rosa morente. Sta sospesa sopra l’antica città una nebbia
arcaica che si mischia al dolore e induce a dimenticare. Oppure salite sulle
azzurre colline del Connaught, fiutate l’aspro odor di salmastro del vento
atlantico, e la vita, con tutte le sue intense gioie e i suoi amari dolori, vi
sembrerà vaga, remota e non più reale dell’ombra delle nubi che passano.
Venni a Galway come una bestia ferita torna alla sua tana sui colli.
Quando la città di cui la mia famiglia era originaria mi si presentò per la
prima volta allo sguardo, non mi parve né strana né straniera. Mi sembrò
come di essere tornato a casa, e ogni giorno che passava la terra dov’ero
nato mi riusciva sempre più lontana e quella dei miei antenati più vicina.
Venni a Galway con il cuore spezzato. Mia sorella gemella, che amavo
più di qualsiasi altra persona al mondo, era morta. Se n’era andata in modo
improvviso e inaspettato. Nel mio attonito strazio, mi pareva non fosse
trascorso un attimo tra il momento in cui aveva per l’ultima volta riso
allegramente accanto a me con i luminosi occhi grigi da irlandese, e quello
in cui era scesa sottoterra. Dio dei cieli, tuo figlio non è stato l’unico a
sopportare la crocifissione.
Un nube nera come un sudario mi avvolse e nel confine indistinto tra
ragione e follia me ne stavo seduto da solo senza lacrime né parole. Alla fine
mia nonna, una grande vecchia arcigna, con duri occhi tormentati che
parevano esprimere tutto il dolore della razza irlandese, venne da me e disse:
— Vai a Galway, figliolo. Va’ nella terra dei tuoi avi. Forse la tua sofferenza
annegherà nel gelido mare salato. Forse la gente del Connaught può guarire
la tua ferita.
Andai a Galway.
E trovai gente cordiale; tutti gli antichi clan, i Martin, i Lynche, i Deane, i
Dorsey, i Blake, i Kirowan, per citare solo alcune delle quattordici grandi
famiglie che governano Galway.
Vagai per i colli e le valli, conversando con i buoni, bizzarri villici, molti
dei quali parlavano ancora l’antica, cara lingua gaelica che io masticavo
appena.
Una sera, davanti al fuoco di un pastore in cima a una collina, sentii
raccontare di nuovo la vecchia leggenda di Dermod O’Connor. Mentre il
pastore narrava la terribile storia nel suo ricco inglese accentato e infarcito di
molte espressioni gaeliche, ricordai che mia nonna me l’aveva raccontata
quando ero piccolo, ma l’avevo quasi integralmente dimenticata.
In breve, esisteva un tempo un capo del clan degli O’Connor che si
chiamava Dermod ma che la gente chiamava il Lupo. Nei tempi antichi gli
O’Connor erano re e governavano il Connaught con pugno di ferro.
Dividevano il governo d’Irlanda con gli O’Brien nel Munster, a sud, e con
gli O’Neill nell’Ulster, a nord. Assieme agli O’Rourke combatterono i
MacMurrough del Leinster e fu Dermot MacMurrough, cacciato dall’Irlanda
dagli O’Connor, a portare sull’isola il conte di Pembroke, soprannominato
Strongbow, e i suoi avventurieri normanni. Quando il conte di Pembroke
sbarcò in Irlanda, Roderick O’Connor era re dell’isola di nome e di diritto, o
di quello che era ritenuto diritto. Il clan degli O’Connor, fieri guerrieri celti,
continuò a lottare per la libertà finché non fu sgominato dalla terribile
invasione normanna. Sia reso onore agli O’Connor. Nei tempi antichi i miei
antenati combatterono sotto il loro vessillo, ma ciascuna stirpe ha il suo
virgulto marcio. Ogni grande famiglia ha la sua pecora nera. Dermod
O’Connor era quella del suo clan, e una pecora così nera non si era mai
vista.
Era ostile a tutti, anche alla sua stessa famiglia. Non era un capoclan che
combatteva per riconquistare la corona di Erin o per liberare il suo popolo:
era un razziatore dalle mani insanguinate, che depredava tanto i normanni
quanto i celti. Fece incursioni nel Pale e mise a ferro e fuoco il Munster e il
Leinster. Gli O’Brien e gli O’Carroll avevano motivo di maledirlo, e gli
O’Neill gli diedero la caccia come a un lupo.
Lasciava una scia di sangue e devastazione ovunque andasse e alla fine,
quando la sua banda si ridusse a pochi elementi a causa delle diserzioni e
delle continue battaglie, rimase solo. Si nascondeva in grotte e colline,
ammazzando i viandanti solitari per mera sete di sangue e attaccando le case
coloniche isolate o le capanne dei pastori, dove commetteva atrocità sulle
donne. Era un gigante e la leggenda ha fatto di lui un personaggio disumano
e mostruoso. Ma dev’essere vero che era d’aspetto strano e terribile.
A un certo punto, però, la fine venne anche per lui. Assassinò un giovane
del clan dei Kirowan, e i Kirowan partirono a cavallo dalla città di Galway
con in cuore un furioso desiderio di vendetta. Sir Michael Kirowan, un mio
diretto antenato di cui porto il nome, affrontò il predone sulle alture.
Combatterono da soli, con le colline come uniche testimoni tremanti, una
battaglia terribile, finché il fragore delle armi giunse alle orecchie del resto
del clan, che stava perlustrando la zona a cavallo.
Trovarono sir Michael gravemente ferito e Dermod O’Connor in fin di
vita, con una clavicola fratturata e un’orribile squarcio nel petto. Ma erano
così accecati dall’odio e dalla furia, che infilarono un cappio al collo del
predone morente e lo impiccarono a un grande albero sull’orlo di una falesia
sul mare.
— I contadini indicano ancora l’albero e lo chiamano Dermod’s Bane,
usando, per “morte”, la parola bane, di origine danese — disse il mio amico
pastore attizzando il fuoco. — Vari uomini di notte hanno visto quel gran
delinquente digrignare i grossi denti perdendo fiotti di sangue dalla spalla e
dal petto e maledire in tutti i modi i Kirowan e i loro discendenti per
l’eternità.
“Quindi, signore, non si avventuri sulle falesie di notte, perché lei
appartiene al clan che Dermod odia e porta lo stesso nome di chi lo uccise.
Oh, rida pure se vuole, ma il fantasma del Lupo vaga libero nelle cupe notti
di novilunio, con il suo barbone nero, gli occhi terribili e le zanne da
cinghiale.”
Mi indicarono l’albero, Dermod’s Bane, che curiosamente, così solitario,
sembrava un patibolo. Era rimasto in piedi per non so quanti secoli, perché
gli uomini vivono a lungo in Irlanda e gli alberi ancora di più. Non c’erano
altre piante in giro e il baratro, sotto la falesia a strapiombo, era di un
centinaio di metri. In fondo si vedeva solo il blu sinistro delle onde, le acque
profonde e cupe che si infrangevano sulle crudeli rocce.
Camminavo molto sulle colline la sera, perché, quando il silenzio delle
tenebre calava sul mondo e né discorsi né rumori umani interferivano nei
miei pensieri, sentivo tornare più forte che mai la sofferenza del cuore e
salivo in alto, dove le stelle parevano più calde e vicine. Spesso, con la
mente confusa, mi chiedevo su quale stella lei fosse o se si fosse trasformata
in stella.
Una notte l’antico dolore tornò, straziante e insopportabile. Alzandomi da
letto, nella camera della piccola locanda di montagna in cui all’epoca
soggiornavo, mi vestii e andai sulle alture. Mi pulsavano le tempie e un peso
intollerabile mi gravava sul cuore. La mia anima impietrita e frastornata
gridava a Dio, ma non riuscivo a piangere. Sentivo che se non avessi pianto
sarei impazzito. Da quando era successo quel che era successo, mai una
lacrima avevo versato.
Ebbene, continuai a camminare e camminare, non so per quanto tempo e
fino a dove. Le stelle erano rosse, ardenti e irate, e non mi diedero alcun
conforto quella sera. Dapprima avrei voluto urlare, gridare, buttarmi in terra
e strappare l’erba coi denti; poi la furia passò e girovagai come in trance.
Non c’era la luna e nel fioco chiarore delle stelle le colline e gli alberi si
stagliavano scuri e strani. Dalla cima della falesia vidi l’immenso Atlantico
che si stendeva come un cupo mostro argenteo e udii il suo rombo lontano.
Mi guizzò davanti qualcosa e pensai fosse un lupo, ma sono tanti anni
che i lupi non vivono più in Irlanda. Scorsi di nuovo la lunga ombra bassa
che mi si era profilata davanti e, meccanicamente, la seguii. Ora dinanzi a
me vedevo una rupe a strapiombo sul mare e sul suo orlo un grande albero
che incombeva solitario, come un patibolo. Mi avvicinai.
All’improvviso calò di fronte a me una confusa nebbia. Mi colse una
strana paura mentre la fissavo inebetito; poi al suo interno comparve una
figura, velata e serica come un brandello di bruma lunare, ma con
un’inequivocabile forma umana: un volto. Urlai.
Un viso vago e dolce mi fluttuò davanti, e benché fosse indistinto come
foschia riconobbi la lucida massa di capelli neri, la fronte alta e pura, le
labbra rosse e piene, i dolci occhi grigi dall’espressione seria.
— Moira! — gridai angosciato, e corsi innanzi protendendo le braccia,
con il cuore che mi scoppiava in petto.
Fuggì da me come bruma soffiata via dal vento; ora sembrava guizzare
nello spazio e io mi sentii vacillare violentemente sull’orlo della falesia dove
mi aveva condotto la mia cieca corsa. Come un uomo che si svegliasse da un
sogno, vidi in un lampo le crudeli rocce un centinaio di metri più sotto e udii
il famelico rumore delle onde sugli scogli; mentre mi sbilanciavo in avanti,
ebbi di nuovo la visione, ma stavolta orribilmente mutata. Denti simili a
zanne luccicavano diabolici in mezzo a un’arruffata barba nera, occhi
terribili ardevano sotto sopracciglia spioventi e il sangue fluiva da una ferita
alla spalla e uno squarcio nell’ampio petto.
— Dermod O’Connor! — urlai, con i capelli ritti in testa. — Vade retro,
Satana!
Perso l’equilibrio, stavo per cadere nel baratro e andare incontro a morte
certa, quando una mano delicata mi afferrò per un polso e mi tirò indietro.
Caddi, ma sul morbido tappeto erboso della cima anziché tra le rocce
acuminate e il mare in fondo allo strapiombo. Oh, lo sapevo, non potevo
sbagliarmi. Nessuno mi stringeva più il polso e l’orribile faccia era
scomparsa dalla sommità della rupe, ma la mano delicata che mi aveva
afferrato impedendomi di precipitare non potevo non riconoscerla.
Innumerevoli volte avevo sentito il suo dolce tocco sul mio braccio o la mia
mano. Oh, Moira, Moira, cuore del mio cuore, nella vita e nella morte sei
sempre stata al mio fianco.
Per la prima volta, steso supino sull’erba, piansi. Coprendomi la faccia
con le mani, sciolsi il mio cuore tormentato in lacrime calde, accecanti e
catartiche, finché il sole si levò sopra le azzurre colline di Galway facendo
apparire i rami di Dermod’s Bane in una strana luce nuova.
Sognavo o ero pazzo? Era stato in realtà il fantasma del predone da
tempo morto a farmi attraversare le colline per arrivare fino alla rupe
dell’albero della morte? Era stato lui ad assumere le sembianze della mia
defunta sorella per spingermi nel baratro? Ed era stata la mano vera di
Moira, evocata improvvisamente dal mio essere in pericolo di vita, a
salvarmi?
Ci crediate o no, lo considerai un dato di fatto. Sono sicuro che quella
notte vidi Dermod O’Connor, che egli mi spinse sull’orlo dello strapiombo
e che la mano delicata di Moira Kirowan mi riportò indietro, sciogliendo
con quel gesto il gelo del mio cuore e ridandomi la pace. Perché, ora lo so, il
muro che separa i vivi dai morti è assai sottile e, com’è certo che l’amore di
una donna morta vinse l’odio di un uomo morto, così è certo che un giorno,
nell’aldilà, stringerò di nuovo mia sorella tra le braccia.
LE COLLINE DEI MORTI
1
Vudù
Il frastuono del vecchio batacchio della porta, che risuonò sinistro per tutta
la casa, mi destò da un sonno inquieto funestato da incubi. Guardai dalla
finestra. Nel residuo chiarore della luna ormai bassa nel cielo, vidi stagliarsi
il viso del mio amico John Conrad.
— Posso entrare, Kirowan? — chiese con voce scossa e tesa.
— Ma certo — dissi. Saltai giù dal letto e mi infilai una vestaglia mentre
lui entrava e saliva le scale.
Un istante dopo mi era davanti e alla luce della lampada che accesi vidi
che era innaturalmente pallido e gli tremavano le mani.
— Il vecchio John Grimlan è morto un’ora fa — disse senza preamboli.
— Davvero? Non sapevo che fosse ammalato.
— È stato un malore improvviso e violento di natura molto particolare,
una crisi di tipo epilettico. Sai, era soggetto a questi attacchi, negli ultimi
anni.
Annuii. Sapevo qualcosa del vecchio che viveva come un eremita nella
sua grande, cupa casa sulla collina; anzi, una volta avevo assistito io stesso a
una delle sue strane crisi ed ero rimasto sconvolto dalle urla, dai
contorcimenti e dai lamenti del poveretto, che aveva continuato a strisciare
in terra come un serpente ferito, biascicando tremende imprecazioni e
orrende bestemmie, finché la voce non gli si era ridotta a un urlo inarticolato
accompagnato dall’emissione di bava. Davanti a quella scena, avevo capito
perché anticamente gli epilettici fossero considerati degli indemoniati.
— ... una tara ereditaria — stava dicendo Conrad. — Il vecchio John
aveva indubbiamente una debolezza congenita causata magari da qualche
brutta malattia trasmessagli da un lontano antenato; ogni tanto capitano
queste cose. Oppure... tu sai che in gioventù John si avventurò in regioni
misteriose della terra ed esplorò tutto l’Oriente. È possibile che si sia buscato
qualche strano malanno durante i suoi vagabondaggi. Esistono ancora molte
malattie sconosciute alla scienza, in Africa e in Oriente.
— Ma non mi hai ancora detto il motivo della tua visita improvvisa a
quest’ora assurda — dissi. — Vedo che è mezzanotte passata.
Il mio amico parve abbastanza confuso.
— Be’, il fatto è che John Grimlan è morto senza nessuno all’infuori di
me, accanto. Ha rifiutato di ricevere qualsiasi cura medica e negli ultimi
istanti, quando era chiaro che stava spirando e io mi accingevo ad andare in
cerca di aiuto contro il suo volere, si è messo a urlare, strepitare, supplicare
disperatamente che non lo lasciassi morire da solo, e non ho potuto
ignorarlo. — Si asciugò la fronte pallida imperlata di sudore e aggiunse: —
Ho visto morire altri uomini, ma la sua fine è stata la più terribile di tutte.
— Ha sofferto molto?
— Sembrava avere forti dolori, ma la sofferenza fisica non era niente in
confronto alla terrificante sofferenza psichica. Gli occhi sbarrati e le urla
laceranti facevano pensare a un terrore di natura ultraterrena. Ti assicuro,
Kirowan, che la paura di Grimlan era più grande e profonda dell’ordinario
timore dell’aldilà nutrito dagli uomini che hanno condotto una vita
ordinariamente malvagia.
Mi agitai, inquieto. Un brivido di tremenda apprensione mi corse lungo la
schiena quando pensai alle fosche implicazioni di quel discorso.
— So che i villici hanno sempre detto che Grimlan in gioventù vendette
l’anima al diavolo e che i suoi improvvisi attacchi epilettici erano solo il
segno visibile del potere del Maligno su di lui; ma si tratta naturalmente di
sciocche chiacchiere di stampo medievale. Tutti sappiamo che Grimlan ha
condotto fino alla fine una vita particolarmente malvagia e violenta. A
ragione era universalmente detestato e temuto: non ho mai sentito dire che
abbia compiuto una sola buona azione. Tu eri il suo unico amico.
— È stata una strana amicizia — disse Conrad. — Ero attratto da lui a
causa dei suoi poteri insoliti. Nonostante la sua natura bestiale, infatti, John
Grimlan era un uomo molto colto, erudito. Aveva studiato a fondo le
scienze occulte e lo conobbi proprio per tale motivo, perché, come sai, mi
sono sempre vivamente interessato a questo tipo di ricerca.
“Ma, in quella come in altre cose, era perfido e perverso. Ignorando la
magia bianca, aveva indagato nel mondo più cupo e fosco di quella nera:
adorazione del diavolo, vudù, scintoismo. Aveva una conoscenza immensa
ed empia della stregoneria. Quando lo sentivo parlare delle sue ricerche e dei
suoi esperimenti, provavo lo stesso orrore e la stessa repulsione che si
provano davanti a un serpente velenoso. Perché non c’era abisso che non
avesse esplorato, e di alcune cose fece, perfino a me, solo pochi cenni. Ti
assicuro, Kirowan, che è facile ridere di questa conoscenza arcana e terribile
quando si è in piacevole compagnia alla vivida luce del sole, ma se, come
me, ti fossi trovato a tarda notte nella silenziosa, bizzarra biblioteca di John
Grimlan, a consultare antichi volumi ammuffiti e ascoltare i suoi inquietanti
discorsi, ti si sarebbe incollata la lingua al palato per la paura, come capitò a
me, e il soprannaturale ti sarebbe parso, come parve a me, molto reale e
vicino.”
— Ma santo cielo, amico, vieni al punto e dimmi cosa vuoi da me! —
gridai attanagliato da una tensione divenuta ormai insostenibile.
— Voglio che mi accompagni a casa di Grimlan e mi aiuti a eseguire gli
strani ordini che ha lasciato in merito al suo corpo.
1. In realtà, il monte Alamut è connesso alla setta degli assassini, non degli
yazidi. (NdT)
CANZONE DEL MENESTRELLO PAZZO
Non passar oltre! Nei petrosi deserti la rosa ancor fiorisce ma non
ha rosso nei petali e nessun profumo ne fluisce.
“Gli uomini a volte scoprono per caso segreti cosmici, ma von Junzt ha
indagato a fondo su argomenti proibiti. È stato uno dei pochissimi, per
esempio, a leggere il Necronomicon nella traduzione greca originale.”
Taverel scrollò le spalle. Il professor Kirowan tirò furiose boccate dalla
pipa senza rispondere, perché anche lui, come Conrad, aveva studiato la
versione latina del Necronomicon e vi aveva rinvenuto cose che nemmeno
uno scienziato freddo e razionale avrebbe potuto spiegare o confutare.
— Bene — disse dopo qualche istante — anche ammettendo che in
passato siano esistite religioni incentrate sull’adorazione di dei orridi e
innominabili e di entità come Cthulhu, Yog Sothoth, Tsathoggua, Gol-
goroth e così via, non posso assolutamente credere che simili culti siano
sopravvissuti negli anfratti più bui del mondo odierno.
Con nostra sorpresa intervenne Clemants, un uomo alto, magro e così
riservato da poter essere definito taciturno. In gioventù si era talmente
dibattuto nelle strette della povertà da recarne i segni sul viso, più rugoso di
quanto l’età giustificasse. Come molti altri artisti, viveva una doppia vita
letteraria: scriveva romanzi di cappa e spada che gli garantivano un alto
reddito, mentre il suo ruolo editoriale nel “Cloven Hoof” gli permetteva di
dare piena espressione al proprio talento artistico. “The Cloven Hoof” era un
periodico di poesia il cui bizzarro contenuto aveva spesso destato lo
scandalizzato interesse dei critici conservatori.
— Ti ricordi che von Junzt menziona il cosiddetto culto di Bran? —
disse, riempiendo il fornello della pipa di un grossolano tabacco trinciato. —
Credo di averti sentito discuterne una volta con Taverel.
— Da quanto ho potuto arguire dalle sue allusioni, von Junzt include il
culto di Bran in quelli ancora esistenti, il che è assurdo — protestò Kirowan.
Clemants scosse la testa. — Quando, da ragazzo, studiavo in una certa
università, avevo per compagno di stanza un ragazzo povero e ambizioso
come me. Se vi dicessi il suo nome, vi stupireste molto. Benché fosse
l’erede di un antico casato scozzese di Galloway, appariva palese che non
fosse ariano.
“Come potrete comprendere, è una notizia strettamente riservata, ma il
mio compagno di stanza parlava nel sonno. Cominciai ad ascoltarlo e
collegai i discorsi frammentari che faceva. Origliando lo sentii parlare per la
prima volta dell’antico culto cui accenna von Junzt, di un re che governava
l’Impero Oscuro, epigono di un impero ancora più antico e tenebroso
risalente all’Età della Pietra, e di una grande, paurosa caverna dove
dimorava l’Uomo Oscuro, l’effigie di Bran Mak Morn, scolpita con grande
realismo da un maestro scultore mentre il grande re era ancora vivo, e che
era meta di pellegrinaggio per i fedeli, i quali si recavano a venerarla almeno
una volta nella vita. Sì, il culto sopravvive ancora oggi nei discendenti del
popolo di Bran: una corrente silenziosa e ignota continua a fluire verso il
grande oceano della vita, aspettando che la statua di pietra di re Bran,
animandosi all’improvviso, torni a respirare e muoversi, e uscendo dalla
grande grotta venga a ricostruire il perduto impero.”
— Qual era il popolo di quell’impero? — domandò Ketrick.
— I pitti, senza dubbio coloro che in seguito sarebbero stati definiti i
selvaggi pitti di Galloway — rispose Taverel. — Erano prevalentemente
celti: un misto di gaeli, cimbri, aborigeni e forse teutoni. Se abbiano preso il
nome dalla razza più antica o gliel’abbiano dato, non è ancora chiaro. Ma
quando von Junzt parla dei pitti, si riferisce specificamente al popolo di
sangue mediterraneo, statura bassa e carnagione scura che mangiava aglio e
che portò la civiltà neolitica nella Britannia. Di fatto, furono i primi
colonizzatori dell’isola e sono all’origine delle leggende che parlano di
folletti e spiriti della terra.
— Non sono d’accordo su quest’ultimo punto — disse Conrad. — Le
leggende attribuiscono a spiriti e folletti un aspetto deforme e inumano,
mentre i pitti non avevano niente che suscitasse orrore e repulsione nei
popoli ariani. Credo che i mediterranei siano stati preceduti da un tipo
mongolico molto in basso nella scala dell’evoluzione e che sia stato quello a
dare origine ai miti.
— Senz’altro — interloquì Kirowan — ma non penso che i mongoli
siano arrivati in Britannia prima dei pitti. Rinveniamo leggende di nani e
troll in tutta Europa e tendo a pensare che sia i mediterranei sia gli ariani si
siano portati dietro questi miti dal continente. Deve avere avuto un aspetto
ben poco umano, la razza mongolica primitiva.
— Se non altro, qui c’è una mazza di selce che un minatore ha rinvenuto
sulle colline del Galles e che mi ha regalato — disse Conrad. — Non si è
trovata ancora una valida spiegazione della sua esistenza. È evidente che non
è un comune arnese neolitico. Guardate quanto è piccola in confronto alla
maggior parte degli utensili dell’epoca: sembra quasi un giocattolo, eppure è
pesantissima e può indubbiamente vibrare un colpo mortale. Il manico l’ho
fabbricato io e vi stupireste di sapere quanto è stato difficile dargli una
forma e un assetto che corrispondessero alla testa.
Guardammo l’oggetto. Era ben fatto, levigato come altri arnesi del
neolitico che avevo visto, eppure, come aveva detto Conrad, stranamente
diverso. Le dimensioni ridotte in qualche modo inquietavano, perché per il
resto non sembrava affatto un giocattolo. Emanava un’aura sinistra, come
un pugnale sacrificale azteco. Conrad aveva fabbricato il manico di quercia
con rara abilità, e nel modellarlo in maniera che si adattasse alla testa era
riuscito a conferirgli la stessa apparenza innaturale della mazza. Aveva
perfino copiato la tecnica artigianale primitiva, fissando la testa alla fessura
del manico con cuoio greggio.
— Perbacco — esclamò Taverel, e con la mazza in mano mimò un goffo
colpo contro un avversario immaginario, rischiando quasi di spaccare un
costoso vaso della dinastia Shang. — Questo maglio ha un bilanciamento
molto strano; devo cambiare completamente assetto e cercare un diverso
equilibrio per maneggiarlo.
— Fammi vedere — disse Ketrick. Prese l’arnese e armeggiò con esso,
cercando di capire come si dovesse impugnarlo. Alla fine, irritato, lo sollevò
e fece per colpire con violenza uno scudo appeso al muro vicino al quale mi
trovavo; vidi la mazza infernale torcersi nella sua mano come un serpente
vivo e il suo braccio seguirla nella direzione sbagliata, poi udii un
angosciato grido di avvertimento e infine, quando il maglio mi percosse alla
testa, sprofondai nelle tenebre.
Ne sentii parlare per la prima volta nello strano libro di von Junzt,
l’eccentrico tedesco che condusse una vita tanto stravagante e trovò una
morte tanto orrenda e misteriosa. Per un puro colpo di fortuna rinvenni il
s u o Culti innominabili nell’edizione originale, il cosiddetto Libro Nero
uscito a Düsseldorf nel 1839, poco prima che l’autore venisse fatalmente a
mancare. I bibliofili conoscono Culti innominabili soprattutto nella versione
dozzinale e lacunosa che fu pubblicata illecitamente a Londra da Bridewall
nel 1845, e nell’edizione abbondantemente censurata data alle stampe dalla
Golden Goblin Press di New York nel 1909. Ma il volume in cui mi
imbattei io era l’originale tedesco integrale, con spessa copertina di pelle e
borchie di ferro arrugginite. Credo che oggi non ne circolino più di cinque o
sei copie in tutto il mondo, perché la tiratura fu limitata e quando si seppe
com’era morto l’autore molte delle persone che possedevano il libro si
spaventarono e lo bruciarono.
Von Junzt dedicò l’intera vita (1795-1840) allo studio di argomenti
proibiti, viaggiando in tutto il mondo, entrando in innumerevoli società
segrete e leggendo nella lingua originale una gran quantità di libri e
manoscritti oscuri ed esoterici; e nei vari capitoli del Libro Nero, in cui
un’eccezionale chiarezza di esposizione si alterna a torbide ambiguità, vi
sono affermazioni e allusioni che fanno gelare il sangue a un uomo
razionale. Quando si legge quello che von Junzt osò dare alle stampe, viene
da chiedersi preoccupati che cosa non abbia osato dire. Di quali foschi
argomenti si parlava per esempio nelle dense pagine del manoscritto inedito
a cui lavorò febbrilmente per mesi prima di morire, e che erano strappate e
sparse sul pavimento della camera ermeticamente chiusa in cui fu trovato
morto con segni di artigli sulla gola? Non lo si saprà mai, perché il suo più
intimo amico, il francese Alexis Ladeau, dopo aver passato un’intera notte a
cercare di ricostruire e leggere il testo attraverso i frammenti, lo ridusse in
cenere e si sgozzò con un rasoio.
Ma, anche se si convenisse con la maggior parte della gente che si tratta
dei deliri di un pazzo, il contenuto del volume pubblicato sarebbe già
abbastanza terrificante. Tra le molte cose strane vi rinvenni accenni alla
Pietra Nera, il curioso, inquietante monolito che sorge tra le montagne
ungheresi e che ha dato origine a tante cupe leggende. Von Junzt non le
dedicò molto spazio, perché nella sua tenebrosa opera si concentrò
soprattutto su culti e oggetti di venerazione diabolici che affermava
esistessero ancora, mentre la Pietra Nera rappresentava, a quanto pare, un
ordine o un essere ormai dimenticato da secoli. Ma la definiva “una delle
chiavi”, un’espressione che usa spesso in varie circostanze e che costituisce
uno degli aspetti indecifrabili del suo lavoro. Accennò anche, brevemente, a
strane cose che si sarebbero viste intorno al monolito la notte di San
Giovanni. Menzionò la teoria di Otto Dostmann secondo la quale la pietra
sarebbe stata una delle vestigia dell’invasione unna, eretta per commemorare
una vittoria di Attila sui goti. Von Junzt confutava l’ipotesi, ma non forniva
dati concreti e si limitava a osservare che attribuire l’origine della Pietra
Nera agli unni era assurdo quanto supporre che Guglielmo il Conquistatore
avesse eretto Stonehenge.
Quei riferimenti a epoche molto antiche suscitarono il mio profondo
interesse, e con qualche difficoltà riuscii a procurarmi una copia ammuffita e
rosicchiata dai topi di Reperti di imperi perduti di Dostmann (Der
Drachenhaus, Berlino 1809). Rimasi deluso di scoprire che Dostmann
dedicava alla Pietra Nera ancor meno attenzione di von Junzt, liquidandola
in poche righe nelle quali la definiva un manufatto relativamente moderno in
confronto alle rovine grecoromane dell’Asia Minore, suo tema preferito.
Ammise di non essere riuscito a decifrare i caratteri semicancellati del
monolito, ma li giudicava con sicurezza mongolici. Benché Dostmann
dicesse poco, menzionava però il villaggio più vicino alla Pietra Nera:
Stregoicavar, un nome sinistro che significa qualcosa come “Paese delle
streghe”.
Non ottenni altre informazioni dall’attento esame di guide e articoli
sull’Ungheria: Stregoicavar, assente da tutte le carte geografiche che riuscii a
reperire, era situata in una regione poco frequentata, fuori dall’itinerario
anche dei turisti occasionali. Ma trovai materiale che mi fece riflettere in
Folclore magiaro , di Dornly. Nel capitolo Miti onirici, menziona la Pietra
Nera e accenna a una strana superstizione, ossia che chiunque dorma nelle
vicinanze del monolito avrà da allora in poi tremendi incubi. Riporta inoltre
i racconti dei contadini, secondo i quali le persone avventuratesi per
curiosità sul luogo la vigilia di San Giovanni sarebbero morte vaneggiando
di cose spaventose viste intorno alla pietra.
Solo questo riuscii a trovare nel libro di Dornly, ma il mio interesse si
accese ancor di più, giacché capivo che un’aura sinistra aleggiava intorno al
monolito. Sentir parlare dell’inquietante antichità e degli eventi anomali
verificatisi la vigilia di San Giovanni era per me come sentir scorrere un
oscuro fiume sotterraneo la notte, e i miei istinti latenti si ridestarono.
D’un tratto scorsi un collegamento tra la pietra e Il Popolo del Monolito,
una curiosa, stravagante poesia scritta dal poeta folle Justin Geoffrey.
Cercando informazioni, venni a sapere che Geoffrey l’aveva scritta durante
un suo soggiorno in Ungheria e non dubitavo che la Pietra Nera fosse
proprio il monolito cui si riferiva nei suoi versi bizzarri. Rileggendo le
strofe, avvertii di nuovo la strana, inspiegabile eccitazione che avevo
provato la prima volta in cui avevo letto della pietra.
Da tempo cercavo un posto in cui passare una breve vacanza, così decisi
di andare a Stregoicavar. Un vecchio treno mi portò da Temesvar alla città
più vicina alla meta e, dopo tre giorni a bordo di una carrozza sobbalzante,
giunsi al piccolo villaggio che sorgeva in una fertile valle circondata da
montagne coperte di abeti. Di per sé il viaggio si svolse senza incidenti, ma
il primo giorno passammo accanto all’antico campo di battaglia di
Schomvaal, dove il conte Boris Vladinoff, coraggioso cavaliere polacco-
ungarico, aveva opposto un’eroica ma inutile resistenza all’esercito
vittorioso di Solimano il Magnifico, il grande turco che invase l’Ungheria
nel 1526.
Il cocchiere indicò un cumulo di pietre sgretolate su un vicino colle e
disse che lì sotto riposavano le ossa del coraggioso conte. Mi ricordai di un
brano delle Guerre turche di Larson:
Una sera, mentre tornavo da una visita al maestro una settimana dopo il
mio arrivo a Stregoicavar, mi venne in mente all’improvviso che era la
vigilia di San Giovanni, la notte tra il 23 e il 24 giugno in cui, secondo la
leggenda, avvenivano strane cose connesse con la Pietra Nera. Volsi le
spalle alla locanda e attraversai in fretta il villaggio. Stregoicavar era
silenziosa; i suoi abitanti erano andati a letto presto. Non vidi nessuno
mentre mi allontanavo in fretta per addentrarmi tra gli abeti che, con il loro
frusciante manto scuro, coprivano i pendii. La grande luna argentea sospesa
sopra la valle inondava picchi e colli di una luce spettrale, esaltando i
contorni neri delle ombre. Tra gli abeti non soffiava il vento, ma aleggiava
un impercettibile, misterioso mormorio. Senza dubbio, mi dissi con la mia
fantasia eccitata, in analoghe notti dei secoli passati streghe nude a cavallo di
scope magiche erano volate sopra la valle inseguite da beffardi famuli.
Quando salii sulla roccia, mi inquietò un poco scoprire che il chiaro di
luna conferiva alle cime un’apparenza illusoria che non avevo notato prima:
parevano, in quella luce, non tanto formazioni naturali, quanto rovine di
spalti ciclopici eretti da titani, che sporgevano dal terreno ondulato.
Liberandomi con qualche difficoltà dalla visione allucinatoria, arrivai
all’altopiano ed esitai un istante prima di immergermi nelle minacciose
tenebre dei boschi. Incombeva sull’oscurità una sorda tensione, simile a un
mostro invisibile che trattenesse il fiato per non spaventare la preda.
Cercai di scrollarmi di dosso quella sensazione, in fondo comprensibile
se si considerava la stranezza del luogo e la sua cattiva fama, e mi addentrai
nel bosco, provando l’impressione molto sgradevole di essere seguito e
fermandomi a un certo punto per verificare se nel buio qualcosa di mobile e
viscido non mi avesse sfiorato il viso.
Giunto nella radura, vidi la sagoma del monolito levarsi alta e sottile
sopra la distesa erbosa. Al limitare del bosco, dal lato delle rocce, c’era una
pietra che pareva una sorta di sedile naturale. Vi sedetti, riflettendo che forse
proprio in quel luogo il poeta pazzo Justin Geoffrey aveva scritto la bizzarra
poesia Il Popolo del Monolito. Secondo il locandiere era stata la pietra a
farlo impazzire, ma il seme della follia si era insinuato in quella mente molto
prima che Geoffrey arrivasse a Stregoicavar.
Dando un’occhiata all’orologio mi accorsi che era quasi mezzanotte. Mi
appoggiai allo schienale di pietra, aspettando arcane visioni. Un venticello
notturno si levò tra i rami di abete, accompagnato da una strana melodia
sommessa, un concerto di invisibili cornamuse che riusciva sinistro e
malefico all’orecchio. La monotonia della musica e lo sguardo fisso sul
monolito mi procurarono una sorta di autoipnosi e presi a sonnecchiare.
Cercai di controllarmi, ma il sonno mi vinse. Il monolito parve ondeggiare e
danzare, curiosamente distorto; poi mi addormentai.
Si muovon nell’oscurità
con passo d’elefante;
grande paura e ansietà
provo nel letto tremante.
Spiegan ali sterminate
sugli alti tetti a spiovente
che vibrano per falcate
di zoccolo travolgente.
JUSTIN GEOFFREY
Dall’antica terra
Inizierò col dire che mi stupii quando Tussmann mi venne a trovare. Non
eravamo mai stati amici intimi: il suo spirito mercenario mi disgustava e da
quando, tre anni prima, aveva tentato di screditare il mio Tracce di cultura
nahua nello Yucatán, frutto di anni di accurate ricerche, avevamo avuto
un’aspra controversia e i nostri rapporti non erano affatto cordiali. Tuttavia
lo ricevetti, notando che dietro i modi bruschi e spicci appariva distratto,
come se, in preda a una passione dominante, avesse accantonato l’antipatia
per me.
Mi disse subito il motivo della visita. Mi chiedeva di aiutarlo a procurarsi
la prima edizione dei Culti innominabili di von Junzt, quella chiamata Libro
Nero non per il suo colore, bensì per il suo tenebroso contenuto. Era come
domandarmi la traduzione greca originale del Necronomicon. Anche se, da
quando ero tornato dallo Yucatán, mi ero quasi interamente dedicato al mio
passatempo di bibliofilo, non mi risultava da nessuna fonte che esistessero
ancora copie dell’edizione di Düsseldorf del libro di von Junzt.
Due parole su quest’opera rara. L’estrema ambiguità di certi brani, unita
all’argomento alquanto eccentrico, ha indotto da tempo il pubblico a
considerarla un’accozzaglia di vaneggiamenti e ad affibbiare al suo autore
l’etichetta di pazzo. Resta il fatto che a gran parte delle tesi ivi avanzate non
è stata data risposta e che von Junzt passò tutti i quarantacinque anni della
sua vita a curiosare in strani luoghi e scoprire segreti tremendi. Della prima
edizione non furono tirate molte copie, e parecchie furono bruciate dai loro
spaventati possessori dopo che una sera del 1840, sei mesi dopo essere
tornato da un misterioso viaggio in Mongolia, von Junzt fu misteriosamente
strangolato nella sua camera sprangata dall’interno.
Cinque anni dopo un tipografo di Londra, un certo Bridewall, pubblicò
una dozzinale versione pirata a scopo commerciale, illustrata da grottesche
xilografie e zeppa di refusi, errori di traduzione e i tipici strafalcioni delle
edizioni dilettantesche a poco prezzo. Questo screditò ancora di più
l’originale, e editori e pubblico si dimenticarono del libro finché, nel 1909,
la Golden Goblin Press di New York non lo stampò di nuovo.
L’edizione americana era talmente censurata che un quarto dell’originale
appariva mancante, ma era ben rilegata e illustrata dalla bizzarra, raffinata
fantasia di Diego Vásquez. In teoria l’edizione si rivolgeva a un pubblico
popolare, ma in pratica il gusto estetico dell’editore aveva prevalso e i costi
alla fine si erano rivelati così alti che la Golden Goblin era stata costretta a
venderlo a un prezzo proibitivo.
Stavo spiegando questo a Tussmann, quando mi interruppe bruscamente
per dire che sapeva già tutto. Una copia dell’edizione Golden Goblin faceva
bella mostra di sé nella sua biblioteca e proprio in quella aveva trovato una
frase che aveva destato il suo interesse. Se fossi riuscito a procurargli
l’edizione originale del 1839, mi sarebbe stato molto grato; sapendo che non
sarebbe servito a niente offrirmi del denaro, disse, in cambio del mio
disturbo avrebbe ritrattato completamente le accuse da lui rivolte anni prima
alle mie ricerche sullo Yucatán e avrebbe pubblicato delle scuse ufficiali
sulle pagine di “Scientific News”.
Ammetto che rimasi sbalordito: capii che se la questione era così
importante da indurlo a farmi una simile concessione, doveva essere
davvero cruciale per lui. Risposi che ritenevo di avere rintuzzato a
sufficienza le sue critiche nel consesso internazionale degli studiosi e che
non desideravo umiliarlo, ma che avrei fatto tutto il possibile per procurargli
quello che voleva.
Mi ringraziò bruscamente e si congedò, spiegando in maniera abbastanza
vaga che sperava di trovare nel Libro Nero la descrizione completa di una
cosa epurata nell’edizione americana.
Dopo diversi mesi, ricevetti da lui una lettera in cui mi chiedeva di andare
a trovarlo per qualche giorno nella sua tenuta del Sussex e di portarmi dietro
il Libro Nero.
Arrivai nella sua proprietà abbastanza isolata dopo il crepuscolo. Viveva
quasi come nel Medioevo: la grande dimora ricoperta d’edera e l’ampio
prato erano infatti circondati da alte mura di pietra. Quando imboccai il
sentiero fiancheggiato da siepi che dal cancello saliva verso la casa, notai
che la residenza non era stata tenuta bene durante l’assenza del padrone. Tra
gli alberi crescevano rigogliose le sterpaglie, quasi soffocando l’erba. Tra
alcuni cespugli incolti dalla parte del muro esterno, sentii il pesante calpestio
di un cavallo o un bue e distinsi il rumore degli zoccoli sulla pietra.
Un domestico mi accolse con sguardo sospettoso. Tussmann camminava
avanti e indietro per il suo studio come un leone in gabbia. Il corpo
imponente era più magro e forte di quando lo avevo visto l’ultima volta e
nel viso energico, abbronzato dal sole tropicale, le rughe apparivano più fitte
e gli occhi più ardenti che mai. Pareva covare sotto la cenere una collera
venata di stupore.
— Allora, Tussmann, ha avuto successo? — esordii. — Ha trovato l’oro?
— Non ne ho visto neanche un grammo — brontolò. — Era solo una
beffa; oddio, non del tutto, perché sono riuscito a penetrare nella stanza
sigillata e ho trovato la mummia...
— E la gemma? — chiesi.
Si frugò in tasca e mi allungò un oggetto.
Osservai incuriosito ciò che mi aveva porto. Era una grossa gemma,
limpida e trasparente come cristallo, ma di un sinistro colore rosso e, come
aveva dichiarato von Junzt, a forma di rospo. Senza volere provai un
brivido, perché l’immagine era particolarmente ripugnante. Rivolsi
l’attenzione alla catena, che era di rame pesante e lavorata in maniera strana.
— Che caratteri sono quelli incisi qui? — domandai.
— Non lo so — rispose. — Pensavo lo sapesse magari lei. Trovo che
somiglino vagamente a certi geroglifici semicancellati rinvenuti su un
monolito chiamato Pietra Nera, in una zona montuosa dell’Ungheria. Non
sono riuscito a decifrarli.
— Mi parli del suo viaggio — dissi, e mentre bevevamo whisky and soda
iniziò il racconto con strana riluttanza.
— Ho ritrovato il tempio senza difficoltà, anche se è situato in una
regione sperduta e poco frequentata. È stato costruito a ridosso di una ripida
rupe in una valle deserta che non è segnata sulle carte geografiche e non è
stata esplorata da nessuno. Non mi azzardo a valutarne l’età, ma è fatto di un
basalto durissimo, come non ne avevo mai visto, e i pesanti segni lasciati
dagli agenti atmosferici inducono a supporre che sia molto antico.
“Quasi tutte le colonne della facciata sono crollate, sicché sulle basi
consunte sono rimasti moncherini frastagliati che ricordano il ghigno
sdentato di una strega. Le mura esterne sono in rovina, mentre i muri interni
e le colonne che sostengono quel che resta del tetto sembrano così solidi da
poter durare altri mille anni.
“La sala principale è un ampio spazio circolare con il pavimento costituito
da grandi quadrati di pietra. Al centro c’è l’altare, un enorme blocco
rotondo su cui sono incisi strani geroglifici. Dietro questo, nella solida
roccia che funge da parete posteriore della camera, c’è l’ingresso della
nicchia sigillata in cui giace la mummia dell’ultimo sacerdote del tempio.
“Sono penetrato nella cripta senza troppa difficoltà e ho trovato la
mummia uguale a come è descritta nel Libro Nero. Benché fosse in
eccellente stato di conservazione, non sono riuscito a classificarla. Il viso
avvizzito e la conformazione del cranio fanno pensare a certe abiette razze
miste del Basso Egitto, e sono certo che il sacerdote apparteneva a una razza
più affine a quella bianca che a quella india. A parte questo, non posso dire
niente di sicuro. Ma la gemma c’era e la catena era avvolta intorno al collo
rinsecchito.”
Da quel punto in poi la cronaca si fece così confusa che ebbi qualche
difficoltà a seguire Tussmann e mi chiesi se il sole tropicale non gli avesse
sconvolto la mente. Disse di avere aperto con la gemma una porta segreta
nell’altare, ma non spiegò bene in che modo l’avesse fatto e pensai che
nemmeno lui avesse capito il funzionamento della chiave. L’apertura della
porta aveva però avuto un effetto negativo sugli incalliti mascalzoni al suo
servizio, i quali si erano rifiutati categoricamente di seguirlo nella nicchia
buia che si era misteriosamente dischiusa nel momento in cui lui aveva
appoggiato la gemma all’altare e l’aveva toccata.
Tussmann era entrato da solo, armato di pistola e di torcia elettrica, e
aveva scorto una stretta scala di pietra che portava nelle viscere della terra.
Aveva cominciato a scendere ed era arrivato a un ampio corridoio buio che
aveva quasi inghiottito il sottile raggio di luce. Mentre raccontava, accennò
con curioso fastidio a un rospo che, per tutto il tempo della sua permanenza
nel sottosuolo, gli aveva saltellato davanti, poco oltre il cerchio di luce della
torcia.
Procedendo lungo umidi cunicoli e scale simili a pozzi di solide tenebre,
era giunto infine a una porta dalle bizzarre sculture, che aveva compreso
essere la cripta in cui era nascosto l’oro dell’antica setta. Aveva premuto la
gemma contro vari punti della porta e alla fine questa si era aperta.
— E il tesoro? — domandai incuriosito.
Si mise a ridere, credo di se stesso.
— Non c’erano né oro né pietre preziose: niente — rispose esitante. —
Per lo meno niente che potessi portare con me.
Ancora una volta il racconto si fece confuso. Mi parve di capire che
avesse lasciato in fretta il tempio senza cercare oltre il tesoro di cui aveva
fantasticato. Avrebbe voluto prendere la mummia per donarla a qualche
museo, disse, ma quando era uscito dal sotterraneo non l’aveva più trovata.
Era convinto che i suoi uomini, per la paura superstiziosa di dover
sopportare un simile compagno di viaggio sulla via del ritorno, l’avessero
gettata in un pozzo o in una caverna.
— Così eccomi di nuovo qui in Inghilterra, non più ricco di quando sono
partito.
— Ha la gemma — gli ricordai. — Dev’essere preziosa.
Le lanciò uno sguardo in cui non si leggeva benevolenza, ma solo una
bramosia feroce, quasi ossessiva.
— Le pare un rubino? — domandò.
Scossi la testa. — Non sono in grado di dire che cos’è.
— Nemmeno io. Ma mi lasci consultare il libro.
Steve Brill non credeva ai fantasmi o ai demoni, mentre Juan López sì, ma
né la prudenza dell’uno né il solido scetticismo dell’altro li difese dall’orrore
che si trovarono di fronte e che gli uomini avevano dimenticato da oltre tre
secoli, un abominio urlante risorto per infausto caso da perdute ere
tenebrose.
Tuttavia, mentre quella sera meditava seduto sulla veranda leggermente
infossata, Brill non pensava certo ad arcane minacce, ma a ciò a cui può
pensare un uomo. Stava facendo riflessioni amare eppure concrete. Scrutò la
sua proprietà e imprecò. Era alto, longilineo e coriaceo come il cuoio dei
suoi stivali: un vero figlio dei gagliardi pionieri che avevano strappato il
selvaggio Texas al deserto. Era abbronzato e forte come un manzo
longhorn. Le gambe magre e gli stivali ai piedi riflettevano le sue abitudini e
i suoi istinti di cowboy, e si maledisse per essere sceso dalla turbolenta
groppa del suo spiritato mustang per darsi all’agricoltura. Non era un
contadino, ammise con una sequela di bestemmie.
Tuttavia l’insuccesso non era imputabile interamente a lui. Abbondanti
piogge invernali, abbastanza rare nel Texas occidentale, erano parse
promettere un buon raccolto, ma, come sempre, erano intervenuti ostacoli.
Una tardiva tempesta di neve aveva devastato tutti i frutti in boccio. Il grano,
che cresceva bene, era stato gravemente danneggiato da una serie di
terrificanti grandinate proprio nel momento in cui aveva cominciato a
imbiondire. Un periodo di forte siccità, seguito da un’altra grandinata, era
stato fatale per il mais.
Poi al cotone, uscito in qualche modo indenne dalle traversie, era toccato
soccombere a uno sciame di cavallette che aveva devastato il campo quasi da
un giorno all’altro. Così Brill adesso si ripeteva imprecando che non
avrebbe rinnovato il contratto di affitto, che per fortuna non era il
proprietario di quella terra su cui aveva sudato sette camicie, e che all’Ovest
c’erano ancora vaste praterie dove un giovane forte come lui poteva
guadagnarsi da vivere andando a cavallo e usando il lazo.
Mentre sedeva imbronciato, vide arrivare il suo vicino Juan López, un
vecchio messicano taciturno che viveva oltre il ruscello, in una capanna
sull’altro versante della collina, e che sbarcava il lunario faticosamente. Al
momento stava ripulendo una striscia di terra in una vicina tenuta e per
tornare a casa doveva attraversare un pezzetto di pascolo di Brill.
Brill lo guardò oziosamente superare il reticolato di filo spinato e
arrancare lungo il sentiero che si era aperto nell’erba secca. López lavorava
ormai da un mese alla ripulitura, abbattendo mesquite duri e nodosi e
portandone alla luce le radici lunghissime. Brill sapeva che faceva sempre la
stessa strada per tornare a casa e, guardandolo, notò che compiva una
deviazione per evitare una montagnola bassa e rotonda al centro del pascolo.
Il messicano girò alla larga dal tumulo e Brill si ricordò che faceva
invariabilmente così. Mentre rifletteva pigro, il cowboy si rammentò di un
altro particolare: López accelerava sempre il passo quando doveva superare
la montagnola e cercava di lasciarsela alle spalle prima del tramonto, anche
se di solito gli operai messicani, soprattutto quelli pagati a ettaro anziché a
giornata, lavoravano dall’alba all’ultimo bagliore del crepuscolo.
Incuriosito, Brill si alzò e, scendendo pigramente il leggero pendio in
cima al quale sorgeva la sua catapecchia, salutò il vecchio che si trascinava a
fatica.
— Ehi, López, aspetta un attimo.
L’uomo si fermò, si guardò intorno e, senza alcun entusiasmo, rimase ad
aspettare il bianco.
— Non sono affari miei, López, ma volevo chiederti perché giri sempre
alla larga dal tumulo indiano — disse Brill.
— No sabe — tagliò corto l’altro.
— Bugiardo — fece allegro Brill. — Lo sai benissimo: parli l’inglese
bene quanto me. Credi forse che quel tumulo sia infestato dai fantasmi, o
qualcosa del genere?
Per parte sua, parlava spagnolo e lo leggeva anche, ma come la maggior
parte degli anglosassoni preferiva di gran lunga esprimersi nella sua lingua.
López alzò le spalle.
— Non è un buon posto, no bueno — borbottò, evitando di guardare
l’altro negli occhi. — Bisogna lasciare stare le cose nascoste.
— Ho capito, hai paura dei fantasmi — lo canzonò Brill. — Bah, se è
davvero una tomba indiana, quegli indiani saranno morti da tanto tempo che
anche i loro fantasmi saranno ridotti in polvere.
Brill sapeva che i messicani analfabeti nutrivano un’avversione
superstiziosa per i tumuli sparsi qua e là nell’intero Sudovest, per quelle
vestigia di un’epoca passata e dimenticata che contenevano le ossa
polverizzate di capi e guerrieri di una razza da tempo scomparsa.
— Meglio non disturbare quel che è nascosto nella terra — brontolò
López.
— Sciocchezze — disse Brill. — Io e alcuni miei amici abbiamo scavato
in un tumulo nella zona di Palo Pinto e abbiamo tirato fuori delle ossa
insieme con perle, punte di freccia di selce e cose del genere. Ho conservato
per un pezzo alcuni denti finché non li ho smarriti, ma non sono stato
perseguitato da nessun fantasma.
— Indiani? — sbottò inaspettatamente López. — Chi ha parlato di
indiani? Non ci sono stati solo gli indiani in questo paese. In tempi lontani
successero cose strane, da queste parti. Ho sentito leggende del mio popolo,
tramandate di generazione in generazione, e il mio popolo è qui da molto
prima del suo, señor Brill.
— Sì, hai ragione — ammise Steve. — I primi bianchi in questo paese
furono gli spagnoli, naturalmente. Ho sentito dire che Coronado passò non
lontano da qui e che la spedizione di Hernando de Estrada attraversò proprio
questa regione, non so quanto tempo fa.
— Nel 1545 — disse López. — Si accampò là dove c’è adesso il recinto
del suo bestiame.
Brill si girò a guardare il corral, dove al momento c’erano solo il suo
pony da sella, un paio di cavalli da tiro e una mucca scheletrica.
— Come mai sei così informato? — domandò incuriosito.
— Uno dei miei antenati marciò con de Estrada — rispose il messicano.
— Era un soldato, Porfirio López. Raccontò a suo figlio della spedizione, il
figlio ne parlò al proprio e così via, finché la storia arrivò a me, che non ho
figli a cui raccontarla.
— Non sapevo che avessi antenati così importanti — disse Brill. — Forse
sai qualcosa dell’oro che si dice che de Estrada abbia nascosto qui da
qualche parte.
— Non c’era affatto oro — brontolò López. — I soldati di de Estrada,
che avevano solo le loro armi, avanzarono combattendo in un paese ostile e
spesso ci lasciarono la pelle. In seguito, molti anni dopo, la gente di una
carovana di muli proveniente da Santa Fe fu attaccata a poche miglia da qui
dai comanche e nascose l’oro prima di scappare; così le due leggende si
sono mischiate. Ma nemmeno quell’oro esiste più, in quanto dei gringo
cacciatori di bisonti lo trovarono e se lo portarono via.
Brill annuì distratto, senza realmente ascoltare. In nessuna parte del
continente nordamericano si narrano tante storie di tesori nascosti o perduti
come nel Sudovest. Ai vecchi tempi, quando la Spagna possedeva le miniere
d’oro e d’argento del Nuovo Mondo e controllava il ricco commercio di
pellicce dell’Ovest, erano passate avanti e indietro per le colline e le pianure
del Texas e del New Mexico incalcolabili ricchezze, echi delle quali si
coglievano ancora nelle leggende di tesori nascosti. Così nella mente di Brill
germogliò un sogno ozioso, nato dal suo fallimento di agricoltore e dalla
minaccia della povertà.
A voce alta disse: — Be’, intanto, siccome non ho altro da fare, credo che
scaverò in quel vecchio tumulo per vedere cosa trovo.
Quella semplice dichiarazione ebbe un effetto scioccante su López, che
fece un salto indietro. Il suo viso olivastro diventò terreo, e guardando
l’altro con i neri occhi fiammeggianti alzò le braccia in un gesto di protesta.
— Dios, no! — esclamò. — Non lo faccia, s eñ o r Brill, c’è una
maledizione! Mi ha detto mio nonno che...
— Cosa ti ha detto? — chiese Brill, mentre il messicano si interrompeva
di colpo.
Pentito, López tenne la bocca ostinatamente cucita. — Non posso parlare:
ho giurato di tacere — mormorò. — Potrei confidarmi solo con un figlio
primogenito, ma mi creda quando le dico che sarebbe meglio per lei tagliarsi
la gola che andare a frugare in quella maledetta tomba.
— Se è così pericoloso scavarci dentro, perché non me ne dici il motivo
razionale? — chiese Brill, insofferente delle superstizioni messicane.
— Non posso parlare — esclamò disperato López. — Io so, ma, come
ogni altro membro della mia famiglia, ho giurato sul santo crocifisso di
tacere. È una cosa così tremenda che si rischia la dannazione anche solo a
farne un accenno. Se glielo dicessi, l’anima le uscirebbe dal corpo per la
paura, ma siccome ho giurato e non ho figli, le mie labbra resteranno
sigillate per sempre.
— Allora perché non lo scrivi? — fece sarcastico Brill.
López trasalì, lo fissò e, stupendo Steve, accolse il suggerimento.
— Va bene — disse. — Grazie a Dios, il buon parroco mi ha insegnato a
scrivere quando ero bambino. Nel giuramento mi sono impegnato a non
parlarne, non a non scriverne. Affiderò alla carta il segreto, se mi promette
di non farne parola e di distruggere i fogli subito dopo averli letti.
— Certo — lo assecondò Brill, e il vecchio messicano parve molto
sollevato.
— Bueno, vado subito a scrivere. Domani, andando al lavoro, le porterò i
fogli e capirà perché nessuno deve aprire quella maledetta tomba.
López si affrettò lungo il sentiero di casa con le spalle che ondeggiavano
curve per lo sforzo dell’insolita corsa. Steve lo guardò, sorrise scrollando le
spalle, poi si girò per tornare alla sua catapecchia. Si fermò a contemplare il
tumulo basso e rotondo con i suoi fianchi ricoperti d’erba: doveva essere
per forza una tomba indiana, perché la simmetria e la struttura erano simili a
quelle di altre tombe indiane che aveva visto. Aggrottò la fronte, cercando di
capire il nesso che pareva esserci tra il misterioso tumulo e l’antenato
soldato di Juan López.
Tornò a guardare la figura sempre più lontana del messicano. Tra il
pascolo di Brill e il colle oltre il quale si trovava la capanna di López, c’era
una valle poco profonda attraversata da un ruscello quasi prosciugato e
fiancheggiato da alberi e cespugli. Mentre il vecchio scompariva tra gli
alberi della riva, Brill prese una decisione improvvisa.
Salì in fretta il pendio fino alla propria casa e prelevò piccone e badile dal
capanno degli attrezzi sul retro. Poiché il sole non era ancora calato, era
convinto di poter scavare abbastanza da capire alla luce della lanterna se la
tomba nascondeva qualcosa oppure no. Come la maggior parte degli uomini
della sua razza agiva soprattutto d’impulso, e il suo immediato desiderio era
di frugare nel misterioso tumulo per scoprire se celava qualcosa.
L’atteggiamento elusivo di López lo aveva stuzzicato inducendolo
nuovamente ad accarezzare l’idea del tesoro.
E se alla fine sotto quella montagnola di terra marrone ricoperta d’erba vi
fosse stato l’oro greggio di miniere perdute o un mucchio di monete
dell’antica Spagna? E se i moschettieri di de Estrada l’avessero eretta loro
stessi per nascondere un tesoro che non potevano trasportare lontano
dandole la forma di un tumulo indiano per ingannare i razziatori? Il vecchio
López era per caso al corrente dell’inganno? Brill non si sarebbe stupito se,
pur sapendo dell’esistenza del tesoro, il vecchio messicano non ne avesse
fatto parola. Vittima di paure superstiziose, forse aveva preferito tirare a
campare spaccandosi la schiena che rischiare di incappare nell’ira di
insidiosi spettri o demoni; i messicani, infatti, dicono che l’oro nascosto è
sempre maledetto, e senza dubbio qualcuno aveva lanciato una particolare
maledizione su quella tomba. Ebbene, pensò, i diavoli latino-indiani non
facevano paura agli anglosassoni, i quali erano semmai tormentati dai
demoni della siccità, della tempesta e del cattivo raccolto.
Si mise a lavorare con la furiosa energia della sua razza. Non era
un’impresa da poco: il suolo, inaridito dal sole torrido, era duro come ferro
e misto a pietre e sassi. Sudò sette camicie grugnendo per lo sforzo, ma
ormai era in preda al sacro fuoco del cercatore di tesori. Si asciugò il sudore
dagli occhi con la mano e picconò con veemenza, fendendo e sbriciolando il
terreno compatto.
Il sole calò e Brill, dimentico del tempo e dello spazio, continuò a
lavorare nel lungo crepuscolo sognante dell’estate. Cominciava a pensare
che il tumulo fosse davvero una tomba indiana, perché nel suolo trovò
tracce di carbone di legna. L’antico popolo che erigeva quel tipo di sepolcro
in una certa fase della costruzione vi faceva ardere per giorni il fuoco. In
tutti i tumuli in cui aveva scavato, Steve aveva trovato un solido strato di
carbone poco sotto la superficie. Ma le tracce che rinvenne lì erano sparse in
tutto il terreno.
Pur rendendosi presto conto che non c’era il tesoro degli spagnoli,
continuò a scavare. Non si poteva mai sapere. Forse lo strano popolo dei
costruttori di tumuli aveva ricchezze che soleva seppellire con i morti.
Proruppe in un’esclamazione di gioia quando il piccone colpì un pezzo di
metallo. Lo raccolse e lo guardò bene, aguzzando la vista nella luce sempre
più fioca. Era incrostato e corroso dalla ruggine, e così consunto da essere
divenuto sottile come carta, ma Steve sapeva che cos’era: una rotella di
sperone spagnolo dalle lunghe punte crudeli. Si fermò a riflettere,
sconcertato. Non erano stati gli spagnoli a erigere il tumulo, che era
inequivocabilmente opera delle popolazioni aborigene; come mai, allora,
quella reliquia dei caballeros era conficcata in profondità nel suolo?
Scosse la testa e si rimise all’opera. Sapeva che, se era davvero una
tomba aborigena, al centro del tumulo avrebbe trovato una stretta camera di
pietra massiccia, contenente le ossa del capo per cui era stato eretto il
monumento funebre e, sopra, quelle delle vittime sacrificate. Nelle tenebre
sempre più fitte sentì il piccone colpire con forza qualcosa che pareva
granito e non cedeva alla pressione. Guardando e tastando, vide che si
trattava di una solida lastra di pietra tagliata rozzamente: senza dubbio il tetto
della camera funebre. Era inutile cercare di spaccarla. Vibrò piccoli colpi
tutt’intorno, rimuovendo la terra e i sassi dagli angoli finché non ebbe
l’impressione che per estrarla bastasse conficcarvi sotto la punta del piccone
e fare leva.
D’un tratto si rese conto che era buio pesto. Alla luce della luna crescente
gli oggetti apparivano confusi e indistinti. Il mustang nitrì nel recinto, da
dove giungeva il quieto rumore che le stanche bestie facevano
sgranocchiando i chicchi di mais. Un caprimulgo lanciò il suo sinistro
richiamo tra le ombre cupe intorno al sinuoso ruscello. Brill si tirò su di
malavoglia: meglio prendere una lanterna prima di proseguire
l’esplorazione, si disse.
Si frugò in tasca con l’idea di estrarre la lastra ed esplorare la cavità con
l’aiuto dei fiammiferi, poi si irrigidì di colpo. Era la sua immaginazione o
aveva udito un lieve fruscio sinistro provenire da sotto la pietra? Serpenti!
Senza dubbio avevano la tana intorno alla base del tumulo. Potevano esserci
una dozzina di grossi crotali diamantini che, raggomitolati nella fossa simile
a una caverna, lo avrebbero morso appena li avesse toccati. Fu scosso da un
lieve brivido al pensiero e si allontanò dallo scavo.
Non aveva senso cercare a tastoni nella cavità. Poi si rese conto che già
da qualche minuto usciva cattivo odore dagli interstizi intorno alla lastra,
anche se bisognava ammettere che non era tipico di una tana di serpenti, ma
semmai di un ossario: il puzzo dei gas formatisi nella camera funebre e
nocivi agli esseri viventi.
Depose il piccone e tornò a casa, seccato del pur necessario indugio.
Entrando nell’atrio buio, accese un fiammifero e vide la lampada a
cherosene che pendeva dal suo chiodo nel muro. Scuotendola, fu lieto di
constatare che era quasi piena di combustibile, e la accese; poi tornò fuori,
troppo smanioso per fermarsi a mangiare un boccone. Come accade
inevitabilmente agli uomini fantasiosi, anche solo scavare nel tumulo lo
aveva elettrizzato e la scoperta dello sperone spagnolo aveva stuzzicato la
sua curiosità.
Si diresse allo scavo con la lanterna che gli dondolava in mano e gli
proiettava lunghe ombre deformi davanti e dietro. Rise pensando a come
avrebbe reagito López l’indomani, appena avesse saputo che la tomba
proibita era stata profanata. Aveva fatto benissimo a esplorarla quella sera
stessa, si disse; una volta informato, il messicano avrebbe potuto cercare di
mettergli i bastoni fra le ruote.
Nella quiete sognante della sera estiva, raggiunse il tumulo, alzò la
lanterna e imprecò, sbalordito: alla luce vide i suoi scavi, gli arnesi che
giacevano dove li aveva buttati e una grande voragine nera. La lastra che
bloccava la camera interna era finita ai piedi della montagnola, come fosse
stata buttata da parte. Con cautela, Brill tese il braccio che reggeva la
lanterna e scrutò nella piccola camera simile a una caverna, senza sapere
bene che cosa aspettarsi. Non vide nulla, salvo le nude pareti di pietra di una
cella lunga e stretta ma sufficiente a contenere il corpo di un uomo. Era
costruita con cubi di pietra tagliati rozzamente e incastrati con abilità.
— López! — esclamò furioso. — Quel lurido coyote! Mi ha guardato
scavare, e appena sono andato a prendere la lanterna è venuto qui, ha tolto la
lastra di chiusura e ha preso tutto quello che ha trovato. Brutta faccia da
messicano, lo sistemo io!
Spense con rabbia la lanterna, scrutò la valle ammantata di alberi e,
mentre lo faceva, si irrigidì. In un angolo della collina sull’altro versante
della quale sorgeva la capanna di López, si muoveva un’ombra. Sotto la
falce di luna calante la luce era scarsa e il gioco di ombre sconcertante. Ma
Steve, che aveva tante volte aguzzato la vista nel sole e nel vento del deserto,
vide distintamente un bipede scomparire di là dalla cima del colle ricoperto
di mesquite.
— Sta tornando alla sua capanna — ringhiò. — Ha trovato di sicuro
qualcosa, altrimenti non correrebbe così.
Deglutì a vuoto, chiedendosi perché avesse cominciato all’improvviso a
tremare. Che cosa c’era di strano nel fatto che un lurido messicano avesse
rubato qualcosa e fosse scappato a casa col bottino? Cercò di reprimere la
sensazione che la figura appena dileguatasi si muovesse in maniera strana,
con un passo strascicato e furtivo. Evidentemente il vecchio, tozzo Juan
López aveva una gran fretta se aveva deciso di camminare in quel modo
curioso.
— Qualunque cosa abbia trovato, è tanto mia quanto sua — sibilò Steve,
cercando di non pensare all’andatura anomala dell’ombra. — Ho io in
affitto questa terra e ho scavato io in questa tomba. Una maledizione, eh?
Certo, mi ha raccontato apposta quelle fandonie perché non toccassi la
tomba e la lasciassi tutta a lui. Mi stupisco che non abbia scavato già
parecchio tempo fa, ma non si sa mai cosa gli passi per la testa, ai dannati
messicani.
Mentre rifletteva così, scese giù dal pendio che conduceva al ruscello.
Penetrò tra le fitte ombre degli alberi e dell’intricato sottobosco e, mentre
attraversava il letto secco del torrente, notò distrattamente che né il
caprimulgo né la civetta lanciavano il loro richiamo nell’oscurità. Nelle
tenebre si coglieva un senso di tensione o attesa che non gli piacque. Le
ombre ai lati del ruscello erano troppo fitte, troppo opprimenti. Si pentì di
avere spento la lanterna che aveva ancora con sé e si rallegrò di essersi
portato dietro il piccone, che stringeva nella destra come un’ascia da guerra.
Fu tentato di fischiare per rompere il silenzio, poi, imprecando, lasciò
perdere. Tuttavia fu contento quando, superato il ruscello, risalì sull’argine
opposto ed emerse alla luce delle stelle.
Si arrampicò in cima alla collina e guardò, in basso, la radura di mesquite
dove sorgeva la squallida capanna di López. A una finestra brillava una
luce.
— Sta facendo le valigie e si prepara alla fuga — bofonchiò. — Ehi, ma
che cosa...
Vacillò come se fosse stato colpito fisicamente sentendo un urlo
terrificante fendere l’oscurità. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie con le
mani per non sentire quel grido spaventoso, che diventò acutissimo prima di
spegnersi in un gorgoglio osceno.
— Buon Dio — fece, coprendosi di sudore freddo. — López... o
qualcuno...
Pronunciando quelle parole, corse giù dalla collina con la maggior
rapidità consentitagli dalle lunghe gambe. Stava avvenendo qualcosa di
raccapricciante nella capanna solitaria, ma avrebbe scoperto cos’era anche se
avesse significato affrontare il diavolo in persona. In mano stringeva forte il
piccone. Pensando che forse delinquenti di passaggio avevano assassinato il
vecchio López per strappargli il bottino che aveva preso nella tomba, si
dimenticò della sua ira. Gliel’avrebbe fatta pagare, a chiunque avesse
sorpreso nell’atto di molestare quel vecchio, per quanto ladro.
Arrivò trafelato nella radura. In quel momento la luce alla finestra si
spense. Steve barcollò, andò a sbattere contro un mesquite e si punse le
mani. Con un gemito e una sommessa bestemmia, si allontanò dall’albero e
riprese la corsa verso la capanna; poi, con i capelli ancora ritti per quel che
aveva visto, si preparò a vedere di peggio.
Provò ad aprire la porta di ingresso e scoprì che era sprangata da dentro.
Chiamò ad alta voce López, ma non ricevette risposta. Tuttavia il silenzio
non era assoluto. Dall’interno arrivava uno strano suono, smorzato e
inquietante, che cessò appena Brill cominciò a vibrare colpi di piccone
contro l’uscio. Il legno sottile si spaccò subito e Steve, brandendo l’arma
improvvisata e preparandosi a un furioso assalto, irruppe nella stanza con gli
occhi fiammeggianti. Ma il silenzio adesso era cupo e totale e nell’oscurità
non si muoveva niente, anche se Brill, con la sua accesa fantasia, credette di
distinguere orride ombre negli angoli più bui.
Con la mano sudata trovò un fiammifero e lo accese. Oltre a lui, nella
capanna c’era soltanto il vecchio López, morto stecchito sul pavimento di
terra battuta, con le braccia aperte come un crocifisso, la bocca spalancata
come quella di un idiota e negli occhi sbarrati un’espressione di orrore che
Brill trovò insopportabile. L’unica finestra era aperta e mostrava in che
modo l’assassino era fuggito e forse anche entrato. Brill vi si avvicinò e
guardò fuori con cautela. Vide soltanto il pendio da un lato e la radura di
mesquite dall’altro. D’un tratto trasalì: qualcosa si era mosso tra le ombre
striminzite dei mesquite e gli arbusti del chaparral o si era solo immaginato
di vedere una figura indistinta procedere a lunghe falcate tra gli alberi?
Si girò, e proprio in quel momento il fiammifero si spense. Accese la
vecchia lanterna a cherosene sul tavolo di legno grezzo, imprecando per
essersi scottato le dita. Il globo della lampada era incandescente, come se
avesse bruciato per ore.
Di malavoglia si volse verso il cadavere in terra. Di qualunque cosa fosse
morto, il messicano aveva fatto una fine orribile, ma Brill, esaminandolo con
cautela, non vide né randellate né ferite d’arma da taglio. Tuttavia scoprì
poco dopo una macchiolina di sangue sulle dita e, cercando, ne trovò
l’origine: nella gola di López c’erano tre o quattro minuscoli fori da cui il
sangue era uscito lentamente. In un primo tempo pensò gli fossero stati
procurati con uno stiletto, un pugnale sottile con sezione triangolare e
manico rotondo. Aveva già visto ferite da stiletto, e anzi lui stesso ne aveva
riportata una di cui recava ancora la cicatrice. No, quelle minuscole ferite
sembravano più prodotte dal morso di un animale, come i segni lasciati da
denti aguzzi.
Tuttavia non gli parevano abbastanza profonde da rivelarsi letali, anche
perché non ne era uscito molto sangue. Nei meandri più oscuri del cervello
gli balenò l’idea orripilante che López fosse morto di paura e che le ferite
fossero state inflitte simultaneamente alla morte o un istante dopo.
Notò anche qualcos’altro: sparsi in terra vi erano diversi fogli di carta
sbiadita, scritti con la grafia elementare del vecchio messicano. Si ricordò
che López si era impegnato a spiegare per iscritto quale fosse la maledizione
del tumulo. I fogli, un mozzicone di matita sul pavimento e la lampada
incandescente erano tutti muti testimoni del fatto che il vecchio era rimasto
seduto al rozzo tavolo per ore. Quindi non era stato lui a togliere la lastra
che faceva da tetto alla tomba e a rubare il contenuto della camera funebre;
ma allora, si chiese Steve, chi era stato e chi o che cosa aveva visto
arrampicarsi sul fianco della collina?
Non c’era che una cosa da fare: sellare il mustang e percorrere le dieci
miglia che separavano la località da Coyote Wells, il paese più vicino, per
informare lo sceriffo del delitto.
Raccolse i fogli di carta. L’ultimo era accartocciato nel pugno del vecchio
e fece una certa fatica a prenderlo. Ebbe un attimo di esitazione mentre si
girava a spegnere la luce, e imprecò fra sé per la paura che gli covava
insidiosa in fondo all’anima, la paura dell’ombra misteriosa che era passata
davanti alla finestra un istante prima che nella capanna si facesse buio. Era
stato senza dubbio il lungo braccio dell’assassino a protendersi per spegnere
la lanterna, pensò. Che cosa aveva colto di anomalo o inumano in quella
visione, già di per sé confusa per il gioco di ombre alla luce fioca della
lampada? Come un uomo che tentasse di ricordare i particolari di un incubo,
Steve cercò di capire perché fosse rimasto così turbato da quella scena
fugace da andare a sbattere contro un albero e perché anche solo ricordarla
gli desse i sudori freddi.
Continuando a imprecare per farsi coraggio, accese la propria lanterna e
si avviò stringendo il piccone come un’arma. Perché mai gli aspetti
apparentemente anomali di un sordido delitto lo turbavano tanto? Crimini
del genere erano rivoltanti, ma abbastanza frequenti, specie tra i messicani,
che perpetuavano faide inaudite.
Appena uscì nella notte silenziosa e stellata, si fermò di colpo. Sull’argine
opposto del ruscello risuonò d’un tratto il nitrito lacerante di un cavallo
terrorizzato, seguito da un furioso scalpitio di zoccoli che si perse lontano.
Brill imprecò per la rabbia e lo sgomento. C’era forse un puma in agguato
sulle colline? Che fosse stato un mostruoso felino ad ammazzare López?
Allora come mai la vittima non era straziata da feroci artigli ricurvi? E chi
aveva spento la luce della capanna?
Mentre rifletteva, si precipitò verso il torrente in ombra. Un mandriano
non sottovaluta mai il motivo per cui il bestiame si dà alla fuga. Mentre
raggiungeva il tenebroso sottobosco che costeggiava il ruscello prosciugato,
si sentì le fauci stranamente secche. Continuò a deglutire tenendo alta la
lanterna, che anziché fendere il buio pesto pareva esaltarlo. Per qualche
strano motivo, nella sua mente confusa si fece strada il pensiero che il
Texas, per quanto nuovo per gli anglosassoni, era in realtà millenario. La
stessa tomba violata e profanata rappresentava una muta prova della
profonda antichità di quella terra, e d’un tratto la notte, le colline e le ombre
gli parvero orribilmente gravate dal peso dei secoli. Generazioni e
generazioni di uomini erano vissute e morte prima che i suoi antenati
sentissero anche solo parlare del Texas. Di notte, tra le tenebre che
circondavano quello stesso ruscello, gli uomini avevano reso l’anima in tanti
modi terribili. Così ragionando, Brill si affrettò tra le ombre dei fitti alberi.
Trasse un profondo respiro di sollievo quando dal sottobosco emerse
sulla propria sponda del torrente. Correndo su per la lieve pendenza verso il
recinto del bestiame, alzò ancora di più la lanterna per vedere che cosa fosse
successo. Il corral era vuoto: non c’era nemmeno la placida vacca e lo
steccato era stato abbattuto. Era dunque opera dell’uomo e al mistero si
aggiungeva un ennesimo aspetto sinistro: qualcuno voleva impedirgli di
andare a Coyote Wells quella notte. Significava che l’assassino intendeva
darsi alla fuga e guadagnare un consistente vantaggio sullo sceriffo,
oppure... Fece un sorriso amaro.
In lontananza, di là da una radura di mesquite, gli parve di udire ancora il
lieve scalpitio di cavalli al galoppo. Che diavolo li aveva fatti spaventare a
quel modo? Il gelido dito della paura gli percorse la spina dorsale.
Si diresse a casa. Non entrò subito, ma girò intorno alla baracca, sbirciò
tremante dalle finestre buie e tese l’orecchio in dolorosa concentrazione per
sincerarsi che non vi fosse nessuno in agguato. Alla fine si azzardò a fare il
suo ingresso. Sbatté la porta contro il muro per vedere se qualcuno vi si
nascondeva dietro, poi alzò la lanterna ed entrò con il cuore in tumulto, il
piccone stretto furiosamente nella mano e un misto di paura e folle rabbia in
petto. Ma nessun delinquente lo aggredì, e una cauta ispezione della
catapecchia non rivelò niente di sospetto.
Con un sospiro di sollievo, chiuse porta e finestre e accese la vecchia
lampada a cherosene. Il pensiero che il vecchio López giacesse da solo, con
gli occhi vitrei, nella sua capanna dall’altra parte del ruscello, lo fece fremere
e rabbrividire, ma non intendeva raggiungere Coyote Wells a piedi di notte.
Tirò fuori dal nascondiglio la sua fida Colt calibro 45, fece ruotare il
tamburo d’acciaio azzurrino e sorrise senza allegria. Forse l’omicida non
intendeva lasciare vivo nessun testimone del suo crimine. Ebbene, venisse
pure. Avrebbe, o avrebbero scoperto che un giovane cowboy con una sei
colpi non era una vittima facile come un vecchio messicano disarmato.
Pensando a López gli tornarono in mente i fogli prelevati nella sua capanna.
Si tenne lontano dalla finestra, dalla quale sarebbe potuto arrivare un
proiettile, e cominciò a leggere, sempre attento a cogliere eventuali rumori
sospetti.
Mentre leggeva i fogli vergati rozzamente, si sentì sempre più invadere da
un gelido orrore. Era una storia di paura quella che il vecchio messicano
aveva raccontato, un’antica leggenda tramandata di generazione in
generazione.
Lesse delle peregrinazioni del caballero Hernando de Estrada e dei suoi
picchieri corazzati, che avevano sfidato i deserti del Sudovest all’epoca in
cui questi erano del tutto sconosciuti e inesplorati. Tra servi e padroni,
esordiva il manoscritto, erano una quarantina di soldati. C’erano il capitano
de Estrada, il prete, il giovane Juan Zavilla e don Santiago de Valdez, un
misterioso nobiluomo che avevano tratto in salvo da una nave alla deriva nel
Mar dei Caraibi. Il resto dell’equipaggio e i passeggeri, aveva spiegato de
Valdez, erano morti di peste e lui stesso li aveva gettati in mare. De Estrada
lo aveva preso a bordo del veliero che dalla Spagna stava andando in
America e il nobiluomo aveva deciso di partecipare alla sua spedizione.
Brill apprese delle loro vicissitudini, che nel suo stile elementare il
vecchio López aveva riportato nella versione tramandatagli per oltre tre
secoli dagli antenati messicani. Le parole scarne rendevano solo vagamente
l’idea delle terribili prove affrontate dagli esploratori: siccità, sete,
inondazioni, tempeste di sabbia, lance di pellirosse ostili. Ma era un altro il
pericolo che López rievocava, un’orribile insidia che aveva funestato il
viaggio della carovana solitaria sperduta in mezzo a una terra immensa e
desolata. Gli uomini morivano a uno a uno senza che si capisse chi fosse a
ucciderli. Paura e cupo sospetto rodevano come un cancro il cuore dei
superstiti e il comandante non sapeva che fare. Era però ormai chiaro che si
nascondeva tra loro un demonio sotto sembianze umane.
Diffidando gli uni degli altri, gli uomini presero a marciare lontani, sicché
la sfiducia reciproca, che induceva a cercare la sicurezza nella solitudine,
fece il gioco dell’ignoto demonio. La spedizione, o quel che ne restava,
avanzava nel deserto smarrita, frastornata e inerme, sempre tallonata dal
mostro invisibile che abbatteva i soldati rimasti indietro e aggrediva
sentinelle sonnecchianti e uomini addormentati. Ciascun morto aveva sulla
gola i segni lasciati da denti aguzzi che lo avevano prosciugato di ogni
goccia di sangue, sicché i superstiti sapevano quale orrore li attendesse. I
picchieri vagavano nel deserto invocando i santi o bestemmiando per la
paura, e lottavano disperatamente contro il sonno, finché, esausti, vi si
arrendevano e cadevano irreparabilmente vittime del mostro.
I sospetti si incentrarono su un gigantesco negro, uno schiavo cannibale
del Calabar che fu messo in catene. Ma il giovane Juan Zavilla morì come
tutti gli altri, seguito poco dopo dal prete. Il prete, però, lottò contro il
demonio che l’aveva assalito e visse abbastanza da bisbigliarne il nome a de
Estrada.
Brill lesse:
Entrai nella grotta buia e mi fermai. Non avevo mai visitato la caverna di
Dagon, eppure quando contemplai l’alto soffitto a volta, la pietra levigata
delle pareti e il pavimento impolverato, provai un vago senso di déjà vu che
mi turbò. Scrollai le spalle, incapace di definire la sensazione elusiva: senza
dubbio era suscitata dalla somiglianza tra quel luogo e la regione montuosa
del Sudovest americano in cui ero nato e avevo trascorso l’infanzia.
Sapevo però di non aver mai visto una grotta come quella, il cui aspetto
regolare aveva dato origine alla leggenda che non fosse una caverna
naturale, ma fosse stata ricavata nella roccia secoli e secoli prima dalle
minuscole mani del misterioso Piccolo Popolo, gli esseri preistorici della
mitologia britannica. L’intera campagna, da quelle parti, era una miniera
inesauribile di storie dell’antico folclore.
I contadini erano prevalentemente celti; lì gli invasori sassoni non
avevano mai prevalso e, a causa della colonizzazione di vecchissima data, le
leggende risalivano a molti secoli prima, a un’epoca più antica che in
qualsiasi altra zona d’Inghilterra, l’epoca assai remota, precedente all’arrivo
dei sassoni e addirittura all’invasione romana, in cui i nativi britanni
avevano combattuto contro i bruni pirati irlandesi.
Naturalmente il Piccolo Popolo aveva il suo posto nel folclore. Si
raccontava che la grotta di Dagon fosse stata una delle sue ultime roccaforti
contro i conquistatori celti e si favoleggiava di tunnel da tempo crollati o
bloccati che in passato avrebbero collegato la grotta con una rete di corridoi
sotterranei scavati nelle colline. Mentre queste oziose riflessioni
gareggiavano nella mia mente con considerazioni più cupe, attraversai la
parte di caverna più vicina all’ingresso ed entrai in uno stretto tunnel che, da
precedenti descrizioni, sapevo essere connesso con un’area più grande.
Nella galleria era buio, ma non tanto da impedirmi di distinguere i
contorni vaghi e semicancellati di misteriosi graffiti nella parete di pietra.
Osai accendere la torcia elettrica per esaminarli più attentamente. Pur nella
luce fioca, trovai repellenti quei segni così anomali e sgradevoli. Nessun
individuo appartenente alla razza umana avrebbe potuto scarabocchiare
simili obbrobri grotteschi.
Il Piccolo Popolo... Mi chiesi se fosse fondata l’ipotesi degli antropologi
secondo la quale era esistita una razza di tozzi aborigeni di origine
mongolica, così in basso nella scala evolutiva da poter essere considerati a
stento umani e tuttavia dotati di una loro precisa, benché ripugnante, civiltà.
Erano scomparsi, sostenevano gli antropologi, prima che giungessero i
popoli invasori e avevano dato origine alle leggende ariane su elfi, troll, nani
e streghe. Vissuti fin dall’inizio in caverne, davanti ai conquistatori si erano
ritirati in tane sempre più remote sulle colline, finché si erano del tutto
estinti, anche se il folclore fantasticava che i loro discendenti, abominevoli
epigoni di un’era scomparsa, dimorassero ancora nei perduti abissi dei
tunnel sotto i monti.
Spensi la torcia, percorsi la galleria e uscii da una specie di porta che
pareva troppo simmetrica per essere opera della natura. Mi ritrovai davanti a
una grande grotta buia situata a un livello più basso della camera vicina
all’ingresso, e ancora una volta rabbrividii per lo strano, inquietante senso di
déjà vu. La breve rampa che conduceva dal tunnel al pavimento della
caverna era composta da scalini ricavati nella pietra massiccia troppo piccoli
per i normali piedi umani. Gli spigoli erano in gran parte smussati, come
consunti dai secoli. Feci per scendere, ma all’improvviso scivolai. D’istinto
sapevo che cosa mi aspettava, perché anche quello rientrava nella singolare
sensazione di déjà vu, ma non riuscii a sorreggermi. Caddi in avanti e sbattei
sul pavimento di pietra con tanta violenza che persi i sensi.
Avevo visto Tamera, con il bianco corpo seminudo, guizzare tra gli alberi
rapida come una cerbiatta, e l’avevo inseguita, ansimando per la furiosa
brama. Correva all’ombra scura delle nodose querce, tallonata da me,
mentre alle nostre spalle si affievoliva il frastuono dei guerrieri che si
uccidevano e delle spade che si incrociavano. Alla fine avevamo corso in un
silenzio rotto solo dal suo respiro affannoso, e quando eravamo giunti a una
piccola radura davanti a una squallida grotta, le ero arrivato così vicino da
afferrarle con la mano possente le bionde trecce ondeggianti. Era crollata in
terra con un gemito disperato, ma subito al suo lamento aveva fatto eco un
grido e, voltandomi di scatto, avevo visto un alto britanno sbucare dal folto
degli alberi con la luce della disperazione negli occhi.
— Vertorige! — aveva esclamato con un singhiozzo la ragazza, e in petto
mi era montata una rabbia feroce, perché sapevo che era il suo innamorato.
— Corri nella foresta, Tamera! — aveva gridato lui, avventandosi contro
di me come una pantera e facendo vorticare l’ascia di bronzo come una
ruota scintillante. Subito ci eravamo buttati nel clangore della lotta e nel
furioso ansimare del combattimento.
Il britanno era alto come me, ma agile, mentre io ero massiccio. Avevo
dalla mia il vantaggio della potenza muscolare e presto si era messo sulla
difensiva, tentando disperatamente di parare con l’ascia i miei colpi
micidiali. Martellandolo in quella posizione di difesa come un fabbro
l’incudine, lo avevo spietatamente incalzato, senza dargli un attimo di
tregua. Ansimava forte, rantolando anziché respirare, e gli colava sangue
dalla testa, dal petto e dalla coscia, dove la mia spada sibilante gli aveva
lacerato la pelle mancando di poco un organo vitale. Mentre raddoppiavo gli
sforzi e si chinava per schivare i colpi ondeggiando come un arboscello
nella tempesta, avevo sentito la ragazza gridare: — Vertorige, Vertorige, la
grotta, la grotta!
L’avevo visto impallidire per una paura più grande di quella della mia
spada inesorabile.
— No, non là, meglio una morte degna! In nome di Ilmarinen, Tamera,
corri nella foresta e salvati!
— Non ti lascio qui! — aveva gridato lei. — La grotta è la nostra unica
possibilità!
Ci aveva superato di corsa come una bianca piuma volante ed era sparita
dentro la caverna. Con un urlo di disperazione, il giovane britanno mi aveva
sferrato un colpo tremendo che per poco non mi aveva spaccato in due il
cranio. Mentre barcollavo sotto l’assalto violento che avevo parato appena
in tempo, era fuggito con un balzo nella grotta dietro alla ragazza, sparendo
nell’ingresso buio.
Con un urlo furioso di invocazione rivolto a tutti i miei cupi dei gaelici,
mi ero gettato incautamente al loro inseguimento, senza calcolare che il
britanno avrebbe potuto stare in agguato all’entrata per spaccarmi la testa.
Ma mi era bastata una breve occhiata per constatare che l’area era deserta e
scorgere una piccola figura bianca scomparire dietro una porta scura in
fondo alla parete.
Dopo aver attraversato di corsa la grotta, mi ero fermato all’improvviso
vedendo un’ascia spuntare dall’ingresso buio e fischiarmi pericolosamente
vicino alla testa bruna. Avevo fatto un salto indietro. Adesso era in
vantaggio Vertorige, che stava appostato nella stretta imboccatura del
corridoio dove non potevo aggredirlo senza espormi a un devastante colpo
d’ascia.
Già schiumavo di rabbia e, nel vedere un’esile sagoma bianca nell’ombra
dietro il guerriero, ero uscito di senno. Avevo attaccato con furia ma anche
con cautela, menando fendenti micidiali al mio nemico ed eludendo i suoi.
Volevo indurlo a un lungo affondo, schivarlo e trafiggerlo prima che
recuperasse l’equilibrio. All’aria aperta avrei potuto sconfiggerlo con la pura
forza e potenti affondi, ma lì potevo solo colpire, e anche male, di punta,
mentre preferivo sempre colpire di taglio. Però ero ostinato: se anche non
fossi riuscito ad assestargli il fendente fatale, finché l’avessi tenuto in scacco
nel tunnel avrei impedito a lui e alla ragazza di sfuggirmi.
Rendendosi forse conto della situazione disperata, la ragazza aveva
deciso di agire, dicendo a Vertorige che avrebbe cercato una via d’uscita, e
benché lui le gridasse di non avventurarsi lontano al buio, gli aveva voltato
le spalle, era corsa rapida lungo il tunnel ed era sparita nell’oscurità. La mia
furia era cresciuta smisuratamente e, nella mia bramosia di abbattere
l’avversario prima che lei trovasse il modo di fuggire, avevo rischiato di
farmi spaccare la testa in due.
Poi la grotta aveva echeggiato di un grido orribile e Vertorige, pallido
come un morto nelle tenebre, aveva lanciato l’urlo di un uomo ferito
letalmente. Si era girato di scatto, come dimentico di me e della mia spada,
ed era corso per il tunnel come un pazzo, urlando il nome di Tamera. Da
lontano, come arrivasse dalle viscere della terra, avevo udito il grido di lei
misto a uno strano sibilo che mi aveva riempito di un orrore indefinibile, ma
istintivo. Era seguito il silenzio, rotto solo dalle urla furiose di Vertorige, il
quale si stava addentrando sempre più nella caverna.
Riprendendomi, mi ero lanciato nel tunnel sulle orme del britanno con la
stessa impulsività con cui lui aveva inseguito la ragazza, e a dire il vero,
benché fossi un predone dalle mani insanguinate, mi premeva di più
scoprire quale orribile creatura avesse tra le sue grinfie Tamera che colpire il
mio rivale alle spalle.
Mentre correvo, avevo notato distrattamente che sulle pareti erano incisi
mostruosi graffiti e mi ero reso conto d’un tratto, con un brivido di orrore,
che quella doveva essere la terribile caverna dei Figli della Notte, la cui fama
aveva attraversato lo stretto braccio di mare per risuonare orribilmente alle
orecchie dei gaeli. Tamera doveva avere avuto una paura tremenda di me
per avere osato infilarsi nella grotta che la sua gente evitava con cura, la
grotta dove si sussurrava si celassero gli ultimi discendenti dell’immonda
razza che aveva abitato la regione prima dell’arrivo dei pitti e dei britanni e
che, fuggendo dagli invasori, si era riparata nelle ignote caverne delle
colline.
Davanti a me il tunnel era sfociato in un’ampia area e avevo visto la
sagoma bianca di Vertorige scintillare un istante nella semioscurità prima di
sparire in un corridoio dirimpetto all’ingresso della galleria che avevo
appena percorso. Avevo udito un urlo breve e terribile seguito da un grande
schianto, poi gli strilli isterici della ragazza e un coro di sibili di serpente che
mi avevano fatto rizzare i capelli in testa. In quell’attimo ero uscito dal
budello impetuosamente accorgendomi troppo tardi che il pavimento della
grotta era almeno un metro più in basso. Correndo non avevo visto i piccoli
gradini ed ero crollato con un gran tonfo sul suolo di pietra massiccia.
Al centro di quella sorta di sala stava un lugubre altare nero che doveva
essere stato ricoperto di una sostanza fosforescente, perché emanava una
luce fioca che in qualche modo illuminava la caverna buia. Dietro di esso, su
un piedistallo di teschi umani, torreggiava un misterioso oggetto nero su cui
erano incisi arcani geroglifici. Era la Pietra Nera, l’antico, primordiale
monolito davanti al quale, dicevano i britanni, i Figli della Notte si
prosternavano in nefanda adorazione, e la cui origine si perdeva nelle atre
nebbie di un passato spaventosamente remoto. Secondo la leggenda, un
tempo stava nel lugubre cerchio di megaliti chiamato Stonehenge, prima che
gli archi e le frecce dei pitti eliminassero i suoi adoratori come si elimina il
loglio dal grano.
Ma rivolsi alla pietra solo una fugace occhiata di ribrezzo. Due figure,
legate da cinghie di cuoio, giacevano sul luccicante altare nero: una era
Tamera, l’altra l’insanguinato e scarmigliato Vertorige. L’ascia di bronzo del
britanno, incrostata di sangue raggrumato, giaceva accanto alla lucida ara,
davanti alla quale stava acquattato un obbrobrio.
Anche se non ne avevo mai visto nessuno prima d’allora, sapevo che
quella creatura era un osceno aborigeno e rabbrividii. Aveva una vaga
parvenza umana, ma si trovava a un grado così basso dell’evoluzione che la
sua distorta umanità era ancor più spaventosa della sua bestialità.
Non più alto di un metro e mezzo, aveva il corpo scheletrico e deforme e
la testa sproporzionatamente grossa. Capelli lisci simili a bisce
incorniciavano un viso squadrato e ferino, dove campeggiavano labbra
flosce e cascanti che lasciavano scoperte zanne gialle, un naso camuso dalle
narici larghe e grandi occhi a mandorla color ambra. Non dubitavo che
fosse capace di vedere al buio come un gatto. Dopo essersi nascosta per
secoli in caverne tenebrose, la razza aveva acquisito immonde caratteristiche
inumane. Ma la cosa più repellente era la pelle: squamosa, giallastra e
chiazzata come quella di un serpente. Un perizoma di pelle di vero serpente
gli copriva i lombi magri e le mani ad artiglio stringevano l’una una corta
lancia dalla punta di selce e l’altra una minacciosa mazza di selce levigata.
Era così intento a covarsi con gli occhi i prigionieri, che non aveva udito
i miei passi silenziosi. Mentre esitavo nel corridoio buio, sopra di me udii un
lieve, sinistro fruscio che mi fece gelare il sangue nelle vene. I Figli della
Notte strisciavano lungo il tunnel alle mie spalle, ed ero in trappola. Vidi
un’altra porta che dava sulla sala e decisi di agire, rendendomi conto che la
mia unica speranza era allearmi con Vertorige. Per quanto fossimo nemici,
appartenevamo entrambi alla razza umana ed eravamo intrappolati nella tana
di quelle abominevoli creature.
Mentre uscivo dal tunnel, il mostro accanto all’altare alzò la testa e posò
gli occhi su di me. Mi avventai contro di lui senza dargli il tempo di balzare
in piedi, e quando la mia pesante spada gli spaccò il cuore di rettile si
accartocciò sprizzando sangue. Morendo, però, lanciò un grido terribile che
echeggiò per tutto il tunnel. In fretta e furia tagliai le cinghie che legavano
Vertorige e lo aiutai a rialzarsi. Poi mi rivolsi verso Tamera, che nella
circostanza di grave pericolo non si ritrasse da me, ma mi guardò implorante
con gli occhi sbarrati dal terrore.
Rendendosi conto che il caso ci aveva reso alleati, Vertorige non perse
tempo in chiacchiere e afferrò l’ascia mentre io liberavo la ragazza.
— Non possiamo passare per il corridoio da cui siamo venuti, perché
presto avremmo addosso l’intero branco — disse in fretta. — Hanno
catturato Tamera mentre cercava una via di scampo e quando l’ho seguita mi
hanno sopraffatto con la forza del numero. Ci hanno trascinato qui, poi tutti
tranne quella carogna che hai ucciso si sono sparpagliati, penso per
diffondere nelle varie tane la notizia del sacrificio. Solo Ilmarinen sa quanti
individui del mio popolo, rapiti nel cuore della notte, siano morti su
quell’altare. Dobbiamo correre i nostri rischi e imboccare uno degli altri
tunnel, anche se magari conducono tutti all’inferno. Seguitemi.
Prendendo Tamera per mano, corse rapido verso la galleria più vicina e
io gli andai dietro. Guardando alle mie spalle la sala prima di svoltare, notai
che un’abominevole orda di mostri stava sbucando dal corridoio da cui ero
arrivato. Quello in cui ci eravamo infilati saliva ripido e d’un tratto
vedemmo davanti a noi una striscia di luce grigia. Ma l’istante dopo le
nostre esclamazioni di speranza si trasformarono in grida di amara
delusione. Sì, la luce del giorno arrivava da una fessura nel tetto a volta, ma
l’uscita era troppo in alto perché potessimo raggiungerla. Dietro di noi il
branco grugniva assaporando la vittoria. Mi fermai.
— Cercate di salvarvi voi, se potete — ringhiai. — Io li combatterò qui.
Loro hanno gli occhi come i gatti, io no. Almeno qui li vedo. Andate!
Ma anche Vertorige si arrestò. — Non ha senso farsi inseguire come topi
fino alla fine. Non c’è via di scampo. Affrontiamo la morte da uomini.
Tamera si lasciò sfuggire un grido e si torse le mani, ma si strinse al suo
innamorato.
— Tu stai dietro di me con la ragazza — sibilai. — Quando cadrò,
spaccale la testa con l’ascia perché non la catturino di nuovo da viva. Poi
vendi cara la pelle, perché non ci sarà nessuno a vendicarci.
Vertorige mi guardò con i suoi occhi intelligenti.
— Adoriamo dei diversi, predone, ma tutti gli dei amano gli uomini
coraggiosi — disse. — Forse ci incontreremo di nuovo, oltre le tenebre.
— Salute a te e addio, britanno — proclamai, mentre le nostre destre si
univano in una stretta d’acciaio.
— Salute a te e addio, gaelo — disse.
Quando mi rialzai, non vidi più Tamera e Vertorige. Già prima ero
indietro rispetto a loro, che avevano proceduto senza rendersi conto del
mostro che mi aveva assalito alle spalle; senza dubbio erano convinti che
continuassi a seguirli dappresso. Feci una dozzina di passi, poi mi fermai. Il
corridoio si biforcava e non sapevo quale tunnel i miei compagni avessero
preso. Imboccai a caso quello di sinistra e avanzai incerto nella penombra.
Non solo ero debole per la stanchezza e la perdita di sangue, ma provavo
nausea e senso di stordimento a causa dei colpi ricevuti. Solo il pensiero di
Tamera mi incoraggiava a proseguire ostinato. Adesso sentivo distintamente
un torrente invisibile scorrere impetuoso.
Che non mi trovassi più nelle viscere della terra fu evidente quando vidi
filtrare dall’alto una luce fioca. Lì per lì pensai che mi sarei imbattuto in
un’altra scala, e in effetti poco dopo ne vidi una, ma mi bloccai, in preda a
cupa disperazione: anziché salire, scendeva. Alle mie spalle, in lontananza,
udii le grida del branco, e allora scesi, piombando nelle tenebre più fitte.
Finalmente raggiunsi una superficie piana e procedetti alla cieca. Avevo
abbandonato ogni speranza di fuga e speravo solo di trovare Tamera
(sempre che non fosse riuscita a fuggire con Vertorige all’esterno) e morire
con lei. Adesso sentivo il rombo dell’acqua scrosciante sopra di me, e il
tunnel era umido e fangoso. Mi piovvero in testa gocce di umidità e capii
che stavo passando sotto un fiume.
Poi mi imbattei di nuovo in scalini di roccia, che stavolta conducevano in
su. Mi arrampicai con la maggiore rapidità permessami dalle ferite, sempre
più dolenti e così numerose che sicuramente avrebbero ucciso un uomo
comune. Salii e salii, finché all’improvviso la luce del giorno mi investì
attraverso una fenditura nella roccia. Uscii all’aperto, sotto il sole ardente.
Mi trovavo su una sporgenza molto alta, sotto la quale, tra gigantesche rupi,
scorrevano a velocità impressionante le acque impetuose di un fiume. La
cornice di roccia era vicina alla cima del monte e avevo la salvezza a portata
di mano; ma esitai, poiché amavo talmente la fanciulla bionda che, nella
folle speranza di ritrovarla, sarei stato pronto a tornare nei neri tunnel da cui
provenivo. Poi sobbalzai.
Dall’altra parte del fiume, di fronte a me, c’era una fenditura nella parete,
con una sporgenza simile a quella dove stavo io, ma più lunga. Anticamente,
forse prima che fosse scavato il tunnel sotto il letto del fiume, una sorta di
ponte primitivo doveva avere collegato i due spuntoni. Mentre guardavo,
due figure comparvero sulla cornice: una ferita, zoppicante, impolverata,
che stringeva un’ascia insanguinata, l’altra esile e bianca.
Vertorige e Tamera! Evidentemente nel punto di biforcazione avevano
preso l’altro corridoio e seguito le finestre del tunnel fino a sfociare, come
me, all’esterno, solo che io avevo imboccato il ramo di sinistra ed ero
passato direttamente sotto il fiume. Capii che erano in trappola. Da quel lato
la roccia era alta una quindicina di metri più della mia, e così ripida che non
avrebbe potuto arrampicarcisi neanche un ragno. C’erano due soli modi di
fuggire da quello spuntone: tornare nei tunnel infestati da mostri o gettarsi
nel fiume che scorreva impetuoso sotto.
Vidi Vertorige guardare prima la rupe scoscesa in alto, poi il torrente in
basso, e scuotere la testa disperato. Tamera gli gettò le braccia al collo, e
benché non udissi le loro voci a causa del fragore dell’acqua, li vidi
sorridere e avvicinarsi insieme all’orlo del precipizio. Dall’apertura nella
roccia emersero alla luce del sole vari mostri, simili a immondi rettili che
uscissero torcendosi da una tana buia, e per un attimo rimasero fermi ad
ammiccare come le creature notturne che erano. Disperato di non poter dare
alcun aiuto, strinsi l’elsa della spada così forte da farmi sanguinare la pelle
sotto le unghie. Perché il branco non aveva seguito me anziché i miei
compagni?
I Figli della Notte esitarono un istante quando i due britanni si girarono a
guardarli; con una risata, Vertorige lanciò l’ascia più lontano che poté, nel
fiume, poi si voltò ad abbracciare Tamera. Si gettarono insieme, stretti l’uno
all’altra, e dopo un rapido volo piombarono tra la spuma furibonda che
pareva andar loro incontro, sparendo tra i flutti. Il fiume impetuoso continuò
a scorrere come un mostro cieco e insensato, ruggendo tra le rupi che
echeggiavano del suo rombo.
Per un attimo rimasi lì impietrito, poi, come un uomo perso in un sogno,
mi girai, afferrai la cresta di roccia sopra di me. Mi arrampicai stancamente
e, giunto in cima, ascoltai come ipnotizzato il fragore del fiume molti metri
sotto.
Uscii dal tunnel nel corridoio tortuoso che, come ricordavo dalla
precedente vita, era più illuminato. Lì, da qualche angolo oscuro, era balzato
fuori il mostro che mi aveva aggredito alle spalle mentre i miei compagni,
ignari, avevano proseguito nella loro fuga. Quale brutale resistenza aveva
dimostrato Conan quando aveva continuato a procedere nonostante le
spaventose ferite riportate! A quell’epoca gli uomini erano davvero
d’acciaio.
Giunsi nel punto dove il tunnel si biforcava e, come la volta precedente,
presi il ramo sinistro e arrivai al corridoio che conduceva in basso. Lo seguii
tendendo l’orecchio per cogliere il rombo del fiume, ma non mi giunse
alcun rumore. Il budello era di nuovo buio, sicché fui costretto a riaccendere
la torcia elettrica per non inciampare e rischiare conseguenze fatali. Io, John
O’Brien, non sono così saldo sulle gambe come Conan il predone; no, e non
ho nemmeno la sua forza e la sua rapidità felina.
Presto raggiunsi il fondo. L’umidità dimostrava che mi trovavo sotto il
letto del fiume, ma non sentivo ancora lo scrosciare delle acque. In realtà
sapevo che, sebbene anticamente scorresse in quei luoghi un fiume
impetuoso, in epoca moderna non ne esisteva nessuno tra le colline. Mi
fermai, esplorando con la torcia l’ambiente. Mi trovavo in un tunnel largo,
anche se con un tetto piuttosto basso, dal quale si dipartivano altri cunicoli
più stretti. Mi stupii della rete di gallerie da cui erano traforati i monti.
Non so descrivere quanta tristezza e scoramento mi diedero quei corridoi
sotterranei così bui e soffocanti. Su tutto gravava un senso opprimente di
inaudita antichità. Perché il Piccolo Popolo aveva scavato le misteriose
cripte, e in quale tenebrosa epoca? Erano, quelle grotte, il rifugio estremo
contro la marea avanzante dell’umanità o rappresentavano da tempo
immemorabile i loro castelli? Scossi la testa, sconcertato; i Figli della Notte
che avevo visto erano assolutamente bestiali, eppure in qualche modo erano
riusciti a scavare tunnel e camere con una sapienza che avrebbe fatto invidia
ai moderni ingegneri. Anche ammesso che si fossero limitati a completare
un’opera iniziata dalla natura, bisognava riconoscere che era un risultato
mirabile per una razza di aborigeni nani.
Mi resi conto con un sussulto che stavo passando in quei lugubri tunnel
più tempo di quanto volessi e cominciai a cercare la scala su cui si era
arrampicato Conan per uscire. La trovai e trassi un gran respiro di sollievo
quando, sui gradini, vidi all’improvviso la luce del sole illuminare il
budello. Sbucai sulla cornice di roccia, così consunta da essere ormai solo
un misero spuntone sull’abisso. Il grande fiume, che un tempo correva
impetuoso ruggendo come un mostro prigioniero tra le ripide pareti della
stretta gola, con il passare dei secoli si era rimpicciolito fino a ridursi a un
ruscelletto che fluiva tra i massi verso il mare senza produrre alcun suono.
Certo, la superficie della terra cambia, i fiumi si gonfiano o prosciugano,
le montagne sorgono o crollano, i laghi si seccano, i continenti si
trasformano, ma nel sottosuolo l’opera di misteriose mani d’altre epoche
dorme senza essere intaccata dal trascorrere dei secoli. Le mani che avevano
creato quell’opera avevano resistito anch’esse e si annidavano ancora nelle
viscere delle colline?
Non so per quanto tempo rimasi assorto in vaghe riflessioni, ma
all’improvviso, guardando dall’altra parte della gola una cornice di roccia
non meno consunta e sgretolata della mia, vidi qualcosa che mi indusse a
ritrarmi sulla soglia dell’antro alle mie spalle. Sullo spuntone opposto erano
infatti apparse due figure, e mi sfuggì un ansito quando riconobbi Richard
Brent e Eleanor Bland. Mi ricordai del motivo per cui ero entrato nella grotta
e cercai istintivamente la pistola che tenevo in tasca. Loro non mi notarono,
ma io li vedevo e udivo distintamente, perché sul fondo della forra non
scorreva più il fiume rumoreggiante.
— Perdio, Eleanor, sono contento che tu abbia deciso di venire con me
— stava dicendo Brent. — Chi avrebbe mai pensato che ci fosse un
fondamento di verità nelle antiche leggende sui tunnel nascosti che dalle
caverne portano all’esterno? Mi chiedo come sia crollata quella parte di
muro. Mi è parso di udire uno schianto nel momento in cui siamo entrati
nella prima grotta. Credi che qualcuno si sia infilato dentro prima di noi e
abbia sfondato il muro?
— Non lo so — rispose lei. — Ricordo che... Oh, non so. Ho come
l’impressione di essere già stata qui o di avere sognato di esserci. Mi pare di
rammentare vagamente, come un lontano incubo, di avere corso a perdifiato
per questi tunnel bui, inseguita da mostri orrendi.
— E io c’ero? — scherzò Brent.
— Sì, e c’era anche John — rispose Eleanor. — Ma tu non eri Richard
Brent e John non era John O’Brien, no. Nemmeno io ero Eleanor Bland.
Oh, è un ricordo così sfuggente e lontano che non posso rievocarlo nei
particolari. È una reminiscenza indefinita, confusa e orribile.
— Credo di capirti — disse inaspettatamente lui. — Da quando siamo
penetrati in quella breccia nella parete che ha rivelato l’esistenza dell’antico
tunnel, ho avuto una sensazione di déjà vu. Mi pare di avere vissuto una
storia di orrore, pericolo, lotta... e anche amore.
Brent si avvicinò all’orlo del precipizio per guardare in fondo alla gola,
ma all’improvviso Eleanor, con un grido lacerante, lo afferrò convulsamente
per un braccio.
— No, non farlo, Richard! Stringimi, stringimi forte!
Lui la prese tra le braccia. — Che cosa c’è, Eleanor, cara? Che cosa ti
prende?
— Niente — balbettò lei, ma si strinse ancora di più a lui e capii che
tremava. — È che ho una sensazione strana, un senso di paura e vertigine,
come se stessi cadendo da una grande altezza. Non stare così vicino al
precipizio, Dick: mi fa paura.
— Va bene, tesoro — disse lui, abbracciandola più forte. Con una certa
esitazione, continuò: — C’è una cosa che volevo chiederti da tempo. Sai,
non so esprimermi con belle parole, ma ti amo e ti ho sempre amato,
Eleanor. Se però tu non mi ami, mi farò da parte e non ti seccherò mai più.
Solo, ti prego, dimmi se anche tu provi qualcosa per me oppure no, perché
non posso più resistere senza saperlo. Ami me o l’americano?
— Te, Dick — rispose lei, nascondendogli il viso nella spalla. — Ho
amato sempre te, anche se non me ne rendevo conto. Stimo molto John
O’Brien e di fatto non mi era chiaro quale dei due amassi davvero. Ma oggi,
mentre attraversavamo quei terribili tunnel e salivamo per quelle orrende
scale, e anche un attimo fa, quando per qualche strano motivo ho pensato
che potessimo cadere nel precipizio, ho capito di amare te, di averti sempre
amato non solo in questa vita, ma anche in altre. Sempre.
Le loro labbra si incontrarono e vidi la testa bionda di Eleanor reclinata
sulla spalla di lui. Pur avendo le fauci secche e il cuore freddo, mi sentivo
l’animo in pace. Richard ed Eleanor si appartenevano. Secoli e secoli prima
erano vissuti e si erano amati, e a causa di quell’amore avevano sofferto ed
erano morti. Proprio io, Conan, li avevo spinti verso il loro destino.
Li osservai girarsi verso la fenditura allacciati l’uno all’altra, poi udii
Tamera, ossia Eleanor, urlare e li vidi indietreggiare entrambi. Dalla grotta
sbucò un orrore strisciante, un disgustoso, osceno mostro che batté le
palpebre nella limpida luce del sole. Lo riconobbi dai tempi antichi: relitto di
un’epoca dimenticata, uscì dalle viscere oscure della terra e di un passato
scomparso e, dimenando l’immondo corpo, avanzò verso le sue vittime.
Vidi che cosa tremila anni di regressione possono fare a una razza già di
per sé abominevole, e rabbrividii. Compresi d’istinto che era l’unico
esemplare del genere al mondo, un mostro sopravvissuto alla sua era chissà
per quanti secoli, voltolandosi nel fango delle umide tane sotterranee. Prima
che i Figli della Notte scomparissero, la razza doveva avere perso ogni
sembianza umana, vivendo costantemente una vita da rettili. Il mostro
somigliava più di tutto a un gigantesco serpente, ma aveva zampe abortite e
braccia sinuose con artigli ricurvi. Strisciava sul ventre e le labbra chiazzate,
ritratte, rivelavano denti simili ad aghi che pensai gocciolassero veleno.
Sibilando, rizzò l’orrida testa sorretta da un collo lunghissimo, mentre i
gialli occhi a mandorla luccicavano di tutto l’orrore generato negli atri covi
sotterranei.
Sapevo che quegli occhi mi avevano scrutato fiammeggianti dal buio
tunnel che si apriva sulla scala. Per qualche motivo il mostro era rifuggito da
me, forse perché temeva la luce della torcia, ed era plausibile che fosse
l’unico rimasto nelle grotte, altrimenti avrei subito un assalto nelle tenebre.
A parte quell’ultima creatura, nessuna insidia funestava più il sottosuolo.
Avanzò sinuoso verso i due esseri umani intrappolati sulla cornice di
roccia. Brent si mise davanti a Eleanor per difenderla e, terreo in volto, gli si
parò di fronte. E io, John O’Brien, fui lieto di poter pagare il debito che io,
Conan il predone, avevo da millenni con i due innamorati.
Il mostro si rizzò ancor di più e Brent, con freddo coraggio, gli balzò
incontro per affrontarlo a mani nude. Prendendo rapido la mira, feci fuoco
una sola volta. Lo sparo echeggiò con il suo boato letale fra le torri di
roccia. Con un urlo atrocemente umano, il mostro ondeggiò paurosamente
avvitandosi come un pitone ferito, infine precipitò dalla cornice per
sfracellarsi sulle rocce in fondo alla gola.
DELENDA EST
— Non è un impero, ti dico, è solo finzione. Impero? Bah! Pirati, ecco cosa
siamo! — Era Hunegais, naturalmente, sempre cupo e malinconico, con i
neri boccoli intrecciati e i baffi spioventi che tradivano l’origine slava.
Trasse un gran sospiro e il vino falerno traboccò dal calice di giada che
stringeva nella mano forte, macchiandogli la tunica rossa dai ricami dorati.
Bevve rumorosamente, come un cavallo, e tornò con gusto malinconico alla
sua rimostranza.
— Che cos’abbiamo fatto in Africa? Abbiamo eliminato i latifondisti e i
sacerdoti, per diventare noi stessi i latifondisti. Chi lavora la terra, i vandali?
Nient’affatto. Gli stessi che la lavoravano sotto i romani. Abbiamo
semplicemente preso il posto dei romani. Imponiamo tasse e affitti, e siamo
costretti a difendere la terra dai maledetti berberi. La nostra debolezza sta nel
numero. Non possiamo amalgamarci con il popolo, perché altrimenti
verremmo assimilati. Non possiamo fare di queste persone degli alleati e dei
sudditi. L’unica cosa che possiamo fare è mantenere un qualche prestigio
militare: siamo un piccolo nucleo di stranieri che stanno nelle loro fortezze e
che per il momento esercitano il potere su una nutrita popolazione indigena
la quale di fatto ci odia non meno di quanto odiasse i romani, ma...
— Parte di quell’odio si potrebbe eliminare — lo interruppe Ataulfo. Più
giovane di Hunegais, aveva un viso bello e ben rasato, e modi meno rozzi.
Era uno svevo che per tutta l’adolescenza era stato ostaggio nella corte
romana d’Oriente. — Sono ortodossi; se facessimo lo sforzo di rinunciare
all’arianesimo...
— No! — gridò Hunegais, aprendo e chiudendo la bocca con uno
schiocco così violento che avrebbe frantumato denti meno sani dei suoi. I
suoi occhi scuri ardevano di un fanatismo che, fra tutti i teutoni, era
appannaggio esclusivo della sua razza. — Mai. Noi siamo i signori. Tocca a
loro, non a noi, sottomettersi. Noi conosciamo la verità ariana; se i
miserabili africani non riescono a comprendere il loro errore, bisognerà
costringerli a capirlo con la torcia, la spada e se necessario la tortura della
ruota. — Poi gli occhi gli si appannarono di nuovo e, con un sospiro
profondo proveniente stavolta dalle viscere, allungò la mano verso il
boccale di vino.
— Tra cent’anni il regno dei vandali sarà solo un pallido ricordo —
predisse. — A tenerlo insieme, adesso, è solo la volontà di Genserico.
Ridendo, l’uomo così chiamato si appoggiò allo schienale della sua sedia
di ebano intagliata e stese le gambe muscolose. Erano le gambe di un
cavallerizzo, ma il loro proprietario aveva preferito alla sella il ponte di una
galea da guerra. Nell’arco di una generazione Genserico aveva trasformato
una razza di cavalleggeri in una razza di pirati. Era il re di un popolo il cui
nome era già divenuto sinonimo di distruzione e aveva il cervello più
brillante del mondo conosciuto.
Nato sulle rive del Danubio, era passato dall’infanzia all’età adulta
durante il lungo viaggio verso occidente, quando le migrazioni avevano
abbattuto le palizzate dei romani, e aveva portato alla corona creata per lui in
Spagna tutta la fiera saggezza che i tempi potevano insegnare, nel tripudio
delle spade e nell’ascesa e nel tramonto delle razze. I suoi selvaggi cavalieri
avevano gettato nell’oblio le lance dei governatori romani di Spagna.
Quando i visigoti e i romani, alleatisi, avevano cominciato a guardare a sud,
era stato Genserico, con i suoi intrighi, a condurre in massa verso occidente
gli unni di Attila, con il loro viso sfregiato e le miriadi di lance stagliate
contro il cielo fiammeggiante. Attila era morto, ormai, e nessuno sapeva
dove giacevano le sue ossa e i suoi tesori, sorvegliati dai fantasmi di
cinquecento schiavi trucidati; il suo nome echeggiava per tutto il mondo, ma
alla sua epoca non era stato che una delle pedine mosse senza tregua dalla
mano del re vandalo.
Quando, dopo la battaglia dei Campi Catalaunici, le orde dei goti si erano
dirette a sud attraversando i Pirenei, Genserico non era rimasto ad aspettare
di farsi schiacciare da un numero superiore di soldati. Gli uomini
maledicevano ancora Bonifacio, che aveva chiamato Genserico perché lo
aiutasse a sconfiggere il suo rivale Ezio e aveva così aperto ai vandali la
strada per l’Africa. La sua riconciliazione con Roma era stata troppo tardiva,
inutile come il coraggio con cui aveva tentato di disfare quello che aveva
fatto. Bonifacio era morto di spada vandala e un nuovo regno era sorto in
Africa. Anche Ezio era morto, e le grandi galee da guerra vandale si
dirigevano a nord, vascelli rollanti e beccheggianti sulle onde, con i lunghi
remi che pescavano nell’acqua luccicando argentei alla luce delle stelle.
Nella cabina della prima galea, Genserico ascoltava la conversazione dei
suoi capitani e sorrideva amabilmente lisciandosi la bionda barba ribelle con
le dita forti. Nelle sue vene non c’era traccia del sangue scitico che rendeva
la sua razza piuttosto diversa dalle altre razze teutoni e che si era infiltrato
nell’antica epoca in cui, spostandosi verso ovest a piedi o a cavallo incalzati
dagli invasori sarmati, gli sciti si erano mescolati alla popolazione del tratto
superiore dell’Elba. Era un germano puro: di media altezza, con spalle e
torace ampi e possenti e un massiccio collo taurino. Il suo corpo sprizzava
vitalità fisica quanto i grandi occhi azzurri vigore intellettuale.
Era l’uomo più forte del mondo conosciuto ed era un pirata, il primo dei
corsari teutonici che in seguito sarebbero stati definiti vichinghi; ma le sue
terre di conquista non erano affacciate né sul Mar Baltico né sul Mare del
Nord, e guardavano invece le sponde soleggiate del Mediterraneo.
— La volontà di Genserico è che beviamo, mangiamo e lasciamo al
domani il pensiero del domani — disse ridendo, in risposta all’ultima
osservazione di Hunegais.
— Ah, tu dici? — sbuffò Hunegais con la libertà che ancora esisteva tra i
barbari. — Ma quando mai hai lasciato al domani il pensiero del domani?
Tu pianifichi e pianifichi non solo per il domani, ma per mille domani a
venire. Non nasconderti dietro a una maschera con noi. Non siamo stupidi
romani che possono essere indotti a credere, come fu indotto a credere
Bonifacio, che tu sia stupido.
— Ezio non era uno stupido — mormorò Trasamundo.
— Ma è morto e noi stiamo veleggiando verso Roma — rispose
Hunegais, lasciando trapelare per la prima volta una certa soddisfazione. —
Grazie a Dio Alarico non si è preso tutto e sono contento che all’ultimo
momento Attila abbia perso coraggio: tanto più bottino ci sarà per noi.
— Attila si ricordava della sconfitta dei Campi Catalaunici — bofonchiò
Ataulfo. — C’è, in Roma, qualcosa che sopravvive sempre. Per tutti i santi,
è strano. Proprio quando l’impero sembra più sfasciato che mai, quando è
straziato, lordato e distrutto, alcune sue parti rinascono a nuova vita.
Stilicone, Teodosio, Ezio. Chi può dirlo? Magari stasera a Roma dorme un
uomo che ci sgominerà tutti.
Hunegais sbuffò e picchiò un pugno sul tavolo macchiato di vino.
— Roma è morta come la cavalla bianca che cavalcavo durante la presa di
Cartagine. Non abbiamo che da tendere le mani e strapparle il bottino.
— Una volta c’era un grande generale che la pensava così — disse
pigramente Trasamundo. — Tra l’altro, perdio, era un cartaginese. Me ne
sono dimenticato il nome, ma sconfiggeva in continuazione Roma.
Ammazzava e massacrava senza tregua; così faceva.
— Be’, alla fine avrà perso, altrimenti a quest’ora l’avrebbe distrutta —
osservò Hunegais.
— Proprio così — esclamò Trasamundo.
— Noi non siamo cartaginesi — rise Genserico. — E chi ha parlato di
saccheggiare Roma? Non stiamo solo veleggiando verso la città imperiale in
risposta all’appello dell’imperatrice, che è assediata da nemici invidiosi?
Adesso uscite, tutti quanti. Voglio dormire.
La porta della cabina si chiuse, ponendo fine alle cupe predizioni di
Hunegais, alle battute di Ataulfo e ai borbottii degli altri. Genserico si alzò,
si avvicinò al tavolo e si versò un ultimo bicchiere di vino. Zoppicava
perché molti anni prima la lancia di un franco lo aveva colpito a una coscia.
Portò il calice di giada alla bocca, poi si girò di scatto imprecando per lo
spavento. Non aveva sentito la porta della cabina aprirsi, ma un uomo gli
stava davanti dall’altra parte del tavolo.
— Per Odino! — disse, perché il suo arianesimo era molto superficiale.
— Che cosa ci fai nella mia cabina?
Dopo la prima esclamazione di paura, parlò con voce calma, quasi pacata.
Era troppo scaltro per manifestare i suoi veri sentimenti. Furtivamente
strinse la mano sull’elsa della spada. Un colpo improvviso e inaspettato e...
Ma lo sconosciuto non fece alcuna mossa ostile. Genserico non lo
conosceva, però capì che non era né teutone né romano. Era alto e bruno,
con una testa maestosa di boccoli fluenti tenuti fermi da una fascia rosso
scuro. Sul petto gli scendeva una barba nera e riccia da patriarca.
Guardandolo, il vandalo ebbe l’impressione, senza dubbio errata, di averlo
già visto da qualche parte.
— Non sono qui per farti del male — disse lo sconosciuto con voce
forte, profonda e tonante.
Genserico non poteva dedurre niente dal suo abbigliamento, perché
l’uomo era avvolto in un ampio mantello nero. Si chiese se per caso non vi
nascondesse sotto un’arma.
— Chi sei e come hai fatto a entrare nella mia cabina? — volle sapere.
— Chi sono non importa — replicò l’altro. — Mi trovo su questa nave da
quando siete partiti da Cartagine. Siete salpati di notte e sono salito a bordo
in quell’occasione.
— Non ti ho mai visto a Cartagine, eppure sei uno che si nota bene in
mezzo alla folla — mormorò Genserico.
— Abito a Cartagine — disse l’uomo. — Ci abito da molti anni. Vi sono
nato e tutti i miei antenati vi hanno visto la luce prima di me. Cartagine è la
mia vita! — Pronunciò l’ultima frase con tanta passione e intensità che
Genserico involontariamente indietreggiò, stringendo gli occhi.
— La popolazione della città ha qualche motivo per lamentarsi di noi —
disse il re vandalo — ma non ho ordinato io razzie e distruzione; fin
dall’inizio volevo fare di Cartagine la mia capitale. Se tu hai subito perdite a
causa del saccheggio, ebbene...
— Non a causa dei tuoi lupi — lo interruppe cupo l’altro. — Saccheggio
della città? Ho visto un tale sacco che nemmeno tu, barbaro, te lo puoi
immaginare. Ti chiamano barbaro, ma ho assistito a quello che fanno i civili
romani.
— Che io sappia, i romani non hanno saccheggiato Cartagine —
mormorò Genserico, aggrottando la fronte perplesso.
— Giustizia poetica! — esclamò lo sconosciuto, tirando fuori un braccio
dal mantello e battendo un pugno sul tavolo. Genserico notò che la mano
era forte e tuttavia bianca: la mano di un aristocratico. — La cupidigia e la
perfidia romane hanno distrutto Cartagine; il commercio l’ha ricostruita in
un’altra maniera. Ora tu, barbaro, salpi dai suoi porti per umiliare il
conquistatore. C’è forse da stupirsi che gli antichi sogni inargentino i cavi
della tua nave e si insinuino tra le stive, e che fantasmi dimenticati escano da
tombe antichissime per scivolare sui vostri ponti?
— Chi ha parlato di umiliare Roma? — disse, a disagio, Genserico. — Io
vado a Roma solo per fare da arbitro in una vertenza riguardante una
successione.
— Bah! — gridò lo sconosciuto picchiando di nuovo il pugno sul tavolo.
— Se tu sapessi quello che so io, spazzeresti via ogni traccia di vita da quella
maledetta città prima di volgere di nuovo la prua a sud. Proprio in questo
momento quelli dai quali stai andando tramano la tua rovina, e c’è anche un
traditore a bordo della tua nave.
— Che cosa intendi dire? — fece il vandalo con un tono da cui, come al
solito, non trapelavano né paura né emozione.
— Poniamo che ti fornissi la prova che il tuo più fido amico e vassallo
medita la tua rovina assieme a quelli in aiuto dei quali stai andando...
— Dammela e chiedimi ciò che vuoi — rispose Genserico con un’ombra
di cupezza.
— Prendi questa come pegno della mia fiducia — disse lo sconosciuto,
facendo tintinnare una moneta sul tavolo. Poi raccolse una cintura di seta
che lo stesso Genserico aveva gettato in terra con noncuranza. — Seguimi
nella cabina del tuo consigliere e scriba, il più bello di tutti i barbari.
— Ataulfo? — Suo malgrado, Genserico trasalì. — Ho più fiducia in lui
che in tutti gli altri.
— Allora non sei saggio come credevo — replicò tetro l’altro. — Il
traditore all’interno è più temibile del nemico all’esterno. Non furono le
legioni di Roma a conquistare me, ma i traditori all’interno delle mie porte.
Roma non commercia solo in spade e navi, ma anche in anime di uomini.
Sono venuto da una terra lontana per salvare il tuo impero e la tua vita. In
cambio non ti chiedo che una cosa: affoga Roma nel sangue!
Per un istante, con il possente braccio alzato, il pugno chiuso, gli occhi
neri dardeggianti, lo sconosciuto quasi si trasfigurò. Emanava un’aura
terribilmente autorevole, che riuscì a incutere timore perfino al selvaggio
vandalo. Poi, avvolgendosi nel mantello purpureo con un gesto regale, si
diresse alla porta e scomparve benché Genserico lo chiamasse e cercasse di
trattenerlo.
Imprecando per lo stupore, il re si trascinò zoppicando alla porta, la aprì e
guardò sul ponte. Una lampada ardeva a poppa e un fetore di corpi sporchi
giungeva dalla stiva, dove gli stanchi vogatori faticavano ai remi. Il rumore
ritmico degli scalmi rivaleggiava con quello via via più lontano delle galee
che seguivano la prima in una lunga fila spettrale. La luna strappava argento
alle onde per brillare bianca sul ponte. Un unico guerriero stava di guardia
davanti alla porta di Genserico e nel chiarore lunare il suo elmo dorato
fornito di cimiero e il corsaletto romano scintillavano. L’uomo alzò il
giavellotto in segno di saluto.
— Dov’è andato? — chiese il re.
— Chi, mio signore? — domandò il guerriero senza capire.
— L’uomo alto, idiota — fece spazientito Genserico. — L’uomo con il
mantello rosso che ha appena lasciato la mia cabina.
— Nessuno ha lasciato la tua cabina da quando il nobile Hunegais e gli
altri si sono congedati, mio sovrano — rispose sbalordita la sentinella.
— Bugiardo! — esclamò Genserico, sfilando la spada argentea dal
fodero.
Il guerriero impallidì e si ritrasse.
— Dio mi è testimone che stanotte non ho visto nessun uomo alto dal
mantello rosso, mio sovrano — giurò.
Genserico lo guardò torvo. Il re dei vandali sapeva giudicare gli uomini e
capì che la sentinella non gli aveva mentito. Sentì un formicolio alla nuca e,
voltandosi senza dire una parola, raggiunse in fretta la cabina di Ataulfo. Lì,
dopo un attimo di esitazione, aprì la porta.
Ataulfo giaceva scomposto sul tavolo, chiaramente esanime. Aveva il
viso viola, gli occhi sbarrati e vitrei, la lingua penzoloni annerita. A
strozzarlo era stata la cintura di seta di Genserico, legata con un nodo da
marinaio. Vicino a una mano c’era un calamo, accanto all’altra l’inchiostro e
un foglio di pergamena. Genserico raccolse la carta e lesse a fatica:
Bene, pensai cupo mentre mi svestivo per andare a letto, tutto finisce, sia
il bene sia il male. La vita che avevo vissuto era intollerabile. Ortali mi aveva
fatto balenare davanti agli occhi lo spettro del patibolo, finché quest’ultimo
aveva perso la sua aura orribile. Avevo vacillato sotto il pesante fardello
perché amavo il mio lavoro, ma la sopportazione umana ha un limite. Mi
sentii le mani di piombo mentre pensavo a quell’uomo che a mezzanotte si
metteva a scavare con me nella tomba solitaria. Se lo avessi colpito con la
pietra che mi ero infilato in tasca, avrei posto fine alla mia angoscia; ma era
inevitabile che terminassero con essa anche vita, speranza, carriera e
ambizioni. Ah, che fine tristissima per i miei grandi sogni! Quant’era brutto
che troncassi una carriera onorata e una vita utile con un lungo salto in una
botola attaccato a un pezzo di corda! E tutto a causa di un vampiro umano
che si cibava della mia anima per soddisfare le sue luride brame,
spingendomi verso l’omicidio e la rovina.
Ma sapevo che il mio destino era scritto nell’inesorabile libro della morte.
Prima o poi avrei aggredito e ucciso Ortali, anche a costo di finire sul
patibolo. Ero arrivato al capolinea. Credo che la tortura troppo prolungata
mi avesse fatto quasi impazzire. Sapevo che quando, a mezzanotte, avessimo
scavato nel tumulo di Grimmin, avrei posto fine alla vita di Ortali e rovinato
la mia.
Qualcosa mi cadde dalla tasca e lo raccolsi: era la pietra appuntita che
avevo preso dalla tomba. Guardandola con tristezza, mi chiesi quali strane
mani l’avessero toccata un tempo e quale fosco segreto si celasse sul nudo
promontorio di Grimmin. Spensi la luce e rimasi sdraiato al buio, così
assorto nei miei cupi pensieri da dimenticarmi di avere la pietra ancora in
mano. A poco a poco piombai in un sonno profondo.
All’inizio, come capita a molti, mi resi conto di stare sognando. Tutto era
vago, confuso e, compresi, curiosamente connesso con la pietra che
stringevo ancora in mano. Davanti ai miei occhi scenari, paesaggi ed eventi
caotici e colossali si susseguivano con la velocità di nubi che viaggiassero
rapide nella tempesta. Pian piano tutto il tumulto si placò, cristallizzandosi in
un’unica, particolare scena, a me familiare e tuttavia assolutamente estranea.
Scorsi una grande pianura brulla, circondata su un lato dal mare grigio e
sull’altro da una cupa foresta frusciante; era attraversata da un fiume
sinuoso, e di là dal fiume vidi una città che nella mia vita cosciente non
avevo mai visto: grande, desolata, dominata da un’architettura fosca che
risaliva a una lontana epoca selvaggia. Sulla pianura vidi svolgersi, come
avvolta in una nebbia, una battaglia campale. Schiere serrate avanzavano e
indietreggiavano, l’acciaio delle lame lampeggiava come un mare illuminato
dal sole e i soldati cadevano sotto i colpi come grano maturo. Vidi uomini
selvaggi e scarmigliati, vestiti di pelli di lupo, brandire asce gocciolanti
sangue, e giganti dagli occhi freddi e azzurri come il mare muoversi con la
cotta luccicante e l’elmo dotato di corna. E vidi me stesso.
Sì, nel sogno vidi e riconobbi, come in un riquadro, la mia persona. Ero
alto, slanciato, forte. Scarmigliato, con un semplice perizoma di pelle di lupo
addosso, correvo tra i ranghi urlando e vibrando colpi con un’ascia
arrossata e il sangue mi colava lungo i fianchi da ferite che non mi ero
nemmeno accorto di avere. Gli occhi erano di un gelido azzurro, mentre gli
ispidi capelli e la barba rossi.
Per un attimo mi resi conto della mia doppia personalità: compresi che
ero a un tempo un selvaggio che imperversava con l’ascia imbrattata di
sangue e l’uomo che dormiva profondamente, sognando secoli passati. Ma
la sensazione presto passò. Non avvertii più altra personalità che quella di
un barbaro impegnato a correre e ammazzare. James O’Brien non esisteva
più; ero l’irlandese Cumal il Rosso, fante dell’esercito di Brian Boru, e la
mia ascia stillava sangue di nemici.
Il frastuono della battaglia si stava smorzando, anche se qui e là si
vedevano ancora nella pianura gruppi di guerrieri in lotta. Lungo il fiume,
irlandesi seminudi, immersi fino alla vita nell’acqua rosseggiante, si
accapigliavano con guerrieri dotati d’elmo, la cui corazza non li salvava
dalle asce dalcassiane. Oltre il fiume un’orda insanguinata e caotica si
trascinava avanti cercando di entrare dalle porte di Dublino.
Mi lasciai le luci ormai rade alle spalle ed entrai nella regione del mistero
e dell’orrore. Non c’era da stupirsi che il progresso avesse ignorato quel
luogo lasciandolo intatto, vicolo cieco consegnato a sogni di folletti e ricordi
d’incubo, di cui solo pochissimi sospettavano l’esistenza.
Vidi confusamente il promontorio, ma mi colse una tale paura che me ne
tenni alla larga. Avevo l’idea vaga e confusa di andare dall’anziana Meve
MacDonald. Era cresciuta tra i misteri e le tradizioni di quella terra arcana e
avrebbe potuto aiutarmi, se quell’idiota incosciente di Ortali avesse davvero
sguinzagliato per il mondo il demone dimenticato che un tempo i popoli del
Nord adoravano.
Un uomo comparve all’improvviso alla luce delle stelle e mi scontrai con
lui, rischiando di farlo cadere. Bofonchiando frasi sconnesse con forte
accento locale, protestò con la petulanza dell’ubriaco. Era un portuale
corpulento che senza dubbio stava tornando a casa dopo avere gozzovigliato
fino a tardi in una taverna. Lo afferrai per le spalle e lo scossi, con gli occhi
che mi brillavano di una luce folle sotto la volta stellata.
— Cerco Meve MacDonald, la conosci? Dimmi, idiota, conosci la
vecchia Meve MacDonald?
Davanti a quella domanda tornò all’improvviso sobrio come se gli avessi
gettato in faccia un secchio di acqua gelata. Al chiarore delle stelle vidi il suo
viso luccicare pallido e la paura serrargli la gola fin quasi a impedirgli di
parlare. Si fece il segno della croce con mano incerta.
— Meve MacDonald? Sei pazzo? Che cosa potrai mai volere da lei?
— Dimmi dove abita! — urlai scrollandolo furiosamente. — Dov’è Meve
MacDonald?
— Là — gemette, indicando con il dito tremante un punto in cui alcuni
oggetti indistinti spuntavano dalle tenebre notturne. — In nome di tutti i
santi, uomo o diavolo che tu sia, vattene e lascia in pace le persone oneste.
Laggiù troverai Meve MacDonald, dove la seppellirono oltre trecento anni
fa!
Senza quasi ascoltarlo, lo lasciai andare con un grido di rabbia e
attraversai di corsa la pianura incolta, mentre quello fuggiva a gambe levate.
Mezzo accecato dalla paura, raggiunsi le sagome basse che mi aveva
indicato e correndo tra le erbacce, con i piedi che affondavano nella muffa,
mi accorsi sbigottito di trovarmi nell’antico cimitero dell’entroterra, lo stesso
in cui avevo visto scomparire Meve MacDonald la sera prima. Ero vicino
alla porta della tomba più grande e con un inquietante senso di
premonizione mi ci chinai sopra, cercando di decifrare l’incisione. In parte
con l’ausilio delle stelle, in parte tastando con le dita, lessi le parole e le cifre
scritte nel gaelico semidimenticato di trecento anni prima: MEVE
MACDONALD - 1565-1640 .
Quando Ortali si protese in avanti per esaminare ciò che aveva scoperto,
proruppi in un grido angosciato, perché il rametto di agrifoglio che aveva
infilato all’occhiello sfidando le “superstizioni nordiche”, gli scivolò dal
bavero e nel chiarore arcano cadde sul possente torace corazzato del
Monocolo, dove si accese all’improvviso di un bagliore accecante per
l’occhio umano. Al mio grido fece eco quello di Ortali. L’Uomo Grigio si
mosse flettendo le grandi braccia, e le pietre lucenti che gli stavano intorno
rotolarono giù. Una nuova luce animò l’unico, terribile occhio e l’onda della
vita investì e animò i granitici lineamenti.
Si alzò dalla tomba e i bagliori boreali gli giocarono terribili intorno.
Cambiò completamente, subendo una spaventosa metamorfosi. I lineamenti
umani scomparvero come una maschera sbiadita, la corazza cadde dal corpo
riducendosi in polvere e lo spirito demoniaco del gelo, del ghiaccio e delle
tenebre, che i figli del Nord chiamavano Odino, si eresse, nudo e terribile,
sullo sfondo delle stelle. La testa spettrale era circondata da un carosello di
lampi e vibranti chiarori d’aurora. La colossale figura antropomorfica era
scura come l’ombra e luccicante come ghiaccio, e l’orribile criniera si
stagliava gigantesca contro la volta del cielo.
Terrorizzato, Ortali emise un urlo muto mentre le deformi mani ad
artiglio lo ghermivano. Nelle fattezze oscure e indescrivibili dello spirito del
Nord non vi era ombra di gratitudine per colui che lo aveva liberato, ma
solo una demoniaca esultanza e un diabolico odio per tutti i figli degli
uomini. Vidi le tenebrose braccia allungarsi e colpire. Ortali urlò,
finalmente: un unico, insopportabile grido che si interruppe di colpo al suo
apice. Dopo un attimo un’accecante luce azzurra lo avvolse, illuminandone
il viso convulso e gli occhi strabuzzati; poi il corpo, come investito da una
scossa elettrica, fu scagliato in terra con tale violenza che udii distintamente
le ossa frantumarsi. Ma nel momento in cui toccò il suolo Ortali era già
morto: si raggrinzì e incenerì come fosse stato colpito da un fulmine, e in
effetti in seguito fu ritenuta quella la causa del decesso.
Il mostro sbavante che lo aveva ammazzato rivolse la sua attenzione
verso di me, protendendo lo scuro braccio simile a un tentacolo, mentre al
pallido lucore delle stelle il suo unico, grande occhio pareva un lago di luce
e i terribili artigli emanavano una forza primordiale capace di annientare il
corpo e l’anima degli uomini.
Io però non battei ciglio, giacché non temevo né lui, con il suo aspetto
terribile, né la minaccia dei suoi fulmini letali. In un bianco, accecante lampo
di consapevolezza, avevo infatti capito perché Meve MacDonald fosse uscita
dalla tomba per portarmi l’oggetto custodito in seno per trecento anni,
l’antica croce che racchiudeva le forze invisibili del bene e della luce, in
eterno conflitto con le forme della follia e delle tenebre.
Mentre tiravo fuori di tasca l’antico crocifisso, sentii muoversi nell’aria
intorno a me potenze gigantesche e intangibili. Non ero che una pedina nel
gioco, solo la mano che stringeva la santa reliquia, simbolo delle entità che
si opponevano in eterno ai demoni dell’oscurità. Mentre lo tenevo alto sopra
la testa, il crocifisso emise un raggio luminoso di una purezza e un candore
inauditi, quasi che le tremende forze della Luce si fossero unite in quel
simbolo e concentrate in una furente freccia diretta contro il mostro delle
tenebre. Con un urlo terribile, il demone indietreggiò, rannicchiandosi
davanti ai miei occhi. Poi, spiegate due ali da avvoltoio, volò verso le stelle,
rimpicciolendo sempre più tra i fuochi e i bagliori del cielo spettrale e
tornando nell’oscuro limbo da cui era nato Dio solo sa quanti foschi eoni
prima.
1. L’appellativo di “Cristo Bianco” ( Hvítakristr) dato dai vichinghi a Gesù
Cristo aveva una connotazione negativa, in quanto il termine hvitr,
attribuito a un uomo, indicava viltà ed effeminatezza. Viceversa Thor era
“rosso”, il colore del coraggio e della virilità. (NdT)
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