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Slavoj Žižek

l’ideologia nell’epoca post-ideologica

Che significato possiamo dare all’affermazione ricorrente che viviamo in un’epoca post-ideologica?
La mia PRIMA tesi è che, a causa della sua onnipervasività, l’ideologia oggi appare come il suo
opposto, come non-ideologia: come l’essenza della nostra identità umana al di sotto di tutte le
etichette ideologiche. Ecco perché un’opera straordinaria come Le benevole di Jonathan Littell
risulta così traumatica, soprattutto per i tedeschi: fornisce un resoconto romanzesco dell’Olocausto
narrato in prima persona da un tedesco, l’Obersturmbannfuehrer delle SS Maximilian Aue. Il
problema è precisamente: come rendere il modo in cui i carnefici nazisti hanno vissuto e
simbolizzato la loro incresciosa situazione senza provocare pietà o addirittura giustificare? Oppure,
per metterla in termini un po’ meno eleganti: ciò che Littell offre è un Primo Levi nazista in
versione romanzesca – come tale, egli ha una fondamentale lezione freudiana da insegnarci:
dobbiamo rigettare l’idea che per combattere la demonizzazione dell’Altro sia necessario
soggettivizzarlo, ascoltarne la storia, comprendere il modo in cui egli percepisce la situazione – o,
come ha detto un partigiano del dialogo in Medio Oriente: “Il nemico è qualcuno di cui non
abbiamo ancora udito la storia”. Tuttavia, c’è un chiaro limite a questo procedimento: riusciamo
anche solo a immaginare di invitare un violento criminale nazista - come il Miximilian Aue di
Littell che, in realtà, si autoinvita – a raccontarci la sua storia? Siamo disposti ad affermare che
Hitler era un nemico perché la sua storia non è stata udita? Questo dettaglio di vita personale può
forse “redimere” gli orrori generati dal suo regno, renderlo “più umano”? Heinrich Heydrich,
l’architetto dell’Olocausto, amava trascorre le serate in compagnia di amici a suonare gli ultimi
quartetti per archi di Beethoven. La nostra esperienza più elementare di soggettività è quella della
“ricchezza della mia vita interiore”: questo è ciò che “sono veramente”, in contrapposizione alle
determinazioni simboliche e ai mandati che assumo nella vita pubblica (padre, professore…). La
prima lezione della psicoanalisi ci dice che questa “ricchezza di vita interiore” è sostanzialmente un
imbroglio: uno schermo, una falsa distanza la cui funzione è, per così dire, salvare la mia apparenza,
rendere palpabile (accessibile al mio narcisismo immaginario) la mia vera identità socio-simbolica.
Uno dei modi per attuare la critica dell’ideologia, perciò, consiste nell’inventare strategie per
smascherare questa ipocrisia di “vita interiore” e delle sue “sincere” emozioni. L’esperienza che
abbiamo della nostra vita dall’interno, la storia di noi che raccontiamo a noi stessi per giustificare
quanto facciamo, è dunque una menzogna – la verità risiede all’esterno, in ciò che facciamo. Qui sta
la difficile lezione del libro di Littell: ci presenta un uomo di cui ascoltiamo l’intera storia e che,
tuttavia, dovrebbe restare nostro nemico. Ciò che è realmente insopportabile dei criminali nazisti
non sono le cose terrificanti che hanno commesso, ma il fatto di essere rimasti “umani, troppo
umani” mentre le commettevano. “Le storie di noi che raccontiamo a noi stessi” servono a offuscare
la vera dimensione etica del nostro atto. Nel giudizio etico non dovremmo essere influenzati dalla
storia – ecco perché il consiglio di Elfriede Jelinek ai drammaturghi non solo è esteticamente
corretto, ma possiede anche una profonda giustificazione morale: “I personaggi sul palcoscenico
dovrebbero essere piatti, come vestiti in uno show di moda: ciò che cogliamo non deve essere più di
quanto vediamo. Il realismo psicologico è ripugnante perché ci permette di sottrarci alla sgradevole
realtà trovando riparo nello “sfarzo” della personalità, perdendoci nella profondità del carattere
individuale. Compito dello scrittore è bloccare questa manovra, spingerci fino a un punto da cui
possiamo osservare l’orrore con occhio spassionato.”
La stessa strategia di “umanizzazione” ideologica (nella direzione della proverbiale saggezza
“errare è umano”) è uno degli elementi chiave della presentazione (di sé) ideologica messa in atto
delle Forze di Difesa israeliane: i media israeliani amano indugiare sulle imperfezioni e sui traumi
psichici dei soldati israeliani, non li presentano come macchine militari perfette, o come eroi
sovrumani, ma come uomini comuni, rimasti intrappolati nei traumi della Storia e della guerra,
uomini che commettono errori e che possono perdersi, come tutte le persone normali. Quando, ad
esempio, nel gennaio 2003 le Forze di Difesa israeliane demolirono l’abitazione della famiglia di un
presunto “terrorista”, lo fecero con accentuato garbo, arrivando perfino ad aiutare la famiglia a
rimuovere i mobili prima di distruggere la casa con un bulldozer. Poco tempo prima la stampa
israeliana aveva riportato un episodio analogo: mentre un soldato israeliano perquisiva una casa
palestinese alla ricerca di sospetti, la madre tentava di calmare la figlia chiamandola per nome. Con
suo grande stupore, il soldato apprese che la ragazza spaventata aveva lo stesso nome della propria
figlia. Spinto da uno slancio sentimentale, estrasse il portafoglio e mostrò la foto di lei alla madre
palestinese. È facile percepire la falsità di un tale gesto di empatia: l’idea che, malgrado le
differenze politiche, siamo tutti esseri umani con gli stessi amori e le stesse preoccupazioni,
neutralizza l’impatto di ciò che in realtà il soldato sta facendo in quel momento. Quindi, l’unica
risposta adeguata da parte della madre dovrebbe essere: “Se è vero che sei umano come me, perché
adesso stai facendo questo?” Il soldato a questo punto può trovare rifugio solo nel dovere reificato:
“Non mi piace farlo, ma è il mio dovere…”, evitando con ciò l’assunzione soggettiva del proprio
dovere.
È interessante notare come una simile “umanizzazione” sia sempre più presente nella recente ondata
di film di grande successo sui supereroi (Spiderman, Batman, Hancock…) - i critici si
entusiasmano per come questi film vadano oltre il piatto personaggio da fumetto e si soffermano ad
analizzare le insicurezze, le debolezze, i dubbi, le paure e le angosce dell’eroe soprannaturale, la sua
lotta con i demoni interiori, il suo confronto con il lato oscuro di sé, ecc., come se tutto ciò rendesse
la superproduzione commerciale in qualche modo più “artistica”. Ma c’è di più, molto di più nel
Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan. Il nuovo procuratore distrettuale Harvey Dent, vigilante
ossessivo contro la criminalità, a sua volta corrotto e responsabile egli stesso di omicidi, alla fine
del film muore. Batman e il suo amico poliziotto Gordon intuiscono lo sconforto in cui cadrebbe la
città se si rivelassero gli omicidi di Dent. Batman convince Gordon a preservare l’immagine di Dent
facendo credere che sia lui il responsabile degli omicidi; Gordon allora distrugge il Bat-segnale e ne
consegue una caccia all’uomo contro Batman. La necessità della menzogna per sostenere il morale
pubblico è il messaggio finale del film: solo una menzogna può redimerci. Non c’è da stupirsi,
allora, se la sola persona veritiera del film sia Joker, il malvagio per eccellenza. L’obiettivo dei suoi
attacchi terroristici su Gotham City viene spiegato: termineranno quando Batman si toglierà la
maschera e rivelerà la sua vera identità; per evitare la rivelazione e proteggere Batman, Dent
dichiara alla stampa di essere Batman – un’altra menzogna. Per intrappolare Joker, Gordon inscena
la propria morte (falsa) – ancora un’altra menzogna…
Ma cos’è allora Joker, che vuole scoprire la realtà sotto la Maschera, convinto che lo svelamento
distruggerà l’ordine sociale? Non è un uomo senza maschera, al contrario, è un uomo pienamente
identificato con la propria maschera, lui È la sua maschera – non c’è nulla, nessun “ragazzo
comune” sotto quella maschera. Il successo straordinario del film non fa riflettere sul fatto che tocca
un nervo della nostra costellazione ideologico-politica: l’indesiderabilità della verità? In questo
senso, Il Cavaliere Oscuro è di fatto una nuova versione di due classici western di John Ford (Il
massacro di Fort Apache e L'uomo che uccise Liberty Valance) che spiegano come, per civilizzare
il Selvaggio West, la Menzogna debba essere elevata a Verità – in breve, come la nostra civiltà sia
fondata sulla Menzogna. A questo punto, la domanda da fare è: perché, in questo nostro preciso
momento, c’è un tale rinnovato bisogno di Menzogna per mantenere il sistema sociale?
Purtroppo, la stessa “umanizzazione” rovina Der Baader Meinhof Complex (2008), descrizione
altrimenti interessante del fato della prima generazione del gruppo RAF in Germania (Ulrike
Meinhof, Gudrun Ensslin, Andreas Baader). Il punto di vista soggettivo del film, la posizione
implicitamente offerta allo spettatore come punto di identificazione, è quello di Meinhof, una
“terrorista” che nonostante tutto rimane “umana”, con paure e dubbi, costantemente impegnata a
riflettere sulla propria difficile situazione, in contrapposizione a Ensslin e Baader, che vengono
presentati come brutalmente disumani nella loro perfezione “angelica”. Il divario che li separa
appare in tutta la sua evidenza nelle diverse modalità dei loro suicidi: Meinhof si impicca per
disperazione quando vede crollare il suo intero universo etico-politico, mentre Ensslin e Baader si
tolgono la vita come atto freddamente calcolato di affermazione politica.
Dovremmo estendere con audacia questa intuizione alla forma collettiva di base del “raccontare
storie di noi stessi” , alla struttura simbolica che fornisce il fondamento di una comunità (etnica, di
stile di vita, sessuale, religiosa…). La distinzione di Kant sull’uso pubblico e privato della ragione
può essere di grande aiuto in questo caso: il difetto fondamentale della cosiddetta “politica
dell’identità” è il suo incentrarsi su tali identità “private” – il suo orizzonte ultimo è quello della
tolleranza e della mescolanza di identità “private”, mentre ogni universalità, ogni aspetto che
attraversa l’intero campo viene respinto come oppressivo.

La mia SECONDA tesi è che la sconfessata dimensione ideologica dell’odierna post-ideologia si


iscriva precisamente in ciò che può apparire come semplice “disegno”. L’esempio delle toilette qui
è indicativo. Pensiamo al triangolo semiotico di Claude Levi-Strauss sulla preparazione del cibo
(crudo, cotto, bollito), che dimostra come il cibo serva anche da “nutrimento per il pensiero”.
Probabilmente tutti ricordano la scena del film di Buñuel, Il fantasma della libertà, in cui le
relazioni fra cibarsi e defecare risultano invertite: le persone siedono sulle loro tazze del WC attorno
al tavolo, conversando amabilmente; quando invece vogliono mangiare chiedono sottovoce alla
governante “Dov’è quel posto là?” ed escono furtivamente in uno sgabuzzino sul retro. Dunque, a
integrazione di Levi-Strauss, ci azzardiamo a suggerire che la merda può servire anche da matière-
à-penser: i tre tipi base di tazze sanitarie non formano forse un genere di contrappunto correlativo
escrementizio al triangolo alimentare di Levi-Strauss? Nella tradizionale tazza tedesca il buco in cui
scompare la merda dopo avere tirato lo sciacquone è proprio di fronte, così che la merda viene
inizialmente esposta per permetterci di annusarla e di esaminarla alla ricerca di tracce di
un’eventuale malattia; nella tazza tipicamente francese, invece, il buco è dietro, cioè la merda deve
sparire il più presto possibile; infine, la tazza americana presenta una sorta di sintesi, una
mediazione fra i due poli opposti – la tazza è piena d’acqua e la merda vi galleggia, visibile ma non
esaminabile. Non c’è da meravigliarsi allora se Erica Jong, nella famosa discussione sui differenti
gabinetti europei all’inizio del suo ormai quasi dimenticato Paura di Volare, afferma
scherzosamente: “le toilette tedesche sono la vera chiave degli orrori del Terzo Reich. Gente che
può costruire toilette come queste è capace di tutto.” È evidente che nessuna di queste versioni può
essere presa in considerazione in termini puramente funzionali: qui si distingue chiaramente una
certa percezione ideologica di come il soggetto si relazioni allo sgradevole escremento che esce
dall’interno del suo corpo – ancora, per la terza volta, “la verità è là fuori.” Hegel è stato tra i primi
a interpretare la triade geografica Germania-Francia-Inghilterra come espressione di tre differenti
atteggiamenti esistenziali: la precisione riflessiva tedesca, l’impazienza rivoluzionaria francese, il
moderato pragmatismo utilitarista inglese; in termini politici questa triade può essere letta come
conservatorismo tedesco, radicalismo rivoluzionario francese e liberalismo moderato inglese; in
termini di predominanza delle sfere della vita sociale, abbiamo la poesia e la metafisica tedesche
contro la politica francese e l’economia inglese. Il riferimento ai diversi tipi di WC ci permette non
solo di distinguere la stessa triade nel campo più intimo dell’esercizio della funzione escrementizia,
ma anche di sviluppare il meccanismo soggiacente della triade nei suoi tre differenti atteggiamenti
di fronte all’eccesso escrementizio: la fascinazione ambiguamente contemplativa; il frettoloso
tentativo di sbarazzarsi dell’eccesso sgradevole il più velocemente possibile; l’approccio
pragmatico nel trattare l’eccesso come normale oggetto di cui disfarsi nel modo più appropriato.
Ecco, quindi, che per uno studioso sarebbe facile affermare, durante una tavola rotonda, che
viviamo in un universo post-ideologico - ma nel momento in cui si reca al gabinetto, dopo
l’incandescente discussione, si ritrova di nuovo sprofondato fino al ginocchio nell’ideologia...
L’investimento ideologico di simili riferimenti all’utilità è attestato dal loro carattere dialogico: la
tazza americana acquisisce un proprio significato solo attraverso la relazione differenziale con
quella francese e quella tedesca. Una simile molteplicità di tipi di tazze sanitarie è causata da un
eccesso traumatico a cui ciascuno di essi tenta di adeguarsi - secondo Lacan, uno dei tratti che
distingue l’uomo dagli animali è proprio il fatto che per gli umani l’eliminazione della merda
diventa un problema…
Nel marzo del 2003 Donald Rumsfeld si è lanciato in una sorta di filosofeggiare amatoriale sulla
relazione fra il noto e l’ignoto: “Ci sono fatti noti conosciuti. Queste sono cose che sappiamo di
sapere. Ci sono fatti ignoti conosciuti. Cioè, ci sono cose che sappiamo di non sapere. Ma ci sono
anche fatti ignoti sconosciuti. Ci sono cose che non sappiamo di non sapere.” Quello che ha
dimenticato di aggiungere è la quarta cruciale proposizione: “i fatti noti sconosciuti”, le cose che
non sappiamo di sapere – che è esattamente l’inconscio freudiano, “la conoscenza che non conosce
se stessa”, come soleva dire Lacan. Se Rumsfeld ritiene che i pericoli maggiori nel conflitto con
l’Iraq siano rappresentati dai “fatti ignoti sconosciuti”, ossia le minacce di Saddam, di cui non
siamo neppure in grado di immaginarne la natura, noi invece dobbiamo rispondere che i pericoli
maggiori sono “i fatti noti sconosciuti”, quelle opinioni e convinzioni sconfessate che aderiscono a
noi stessi, ma di cui non siamo neppure consapevoli. È con questi “fatti noti sconosciuti” che ha a
che fare il disegno.
Questo livello dei “fatti noti sconosciuti” non si limita solo a formulare il messaggio chiave – può
farlo anche in contrapposizione al contenuto esplicito di un edificio ideologico, riuscendo a dire più
di quanto un tale edificio sia pronto ad affermare esplicitamente, la sua “verità repressa”. Quando,
un paio di anni fa, le rivelazioni sul dichiarato comportamento privato “immorale” di Michael
Jackson (i suoi giochi sessuali con ragazzini) inflissero un colpo alla sua immagine di innocente
Peter Pan elevata al di sopra di ogni differenza di sesso e di razza, alcuni acuti commentatori posero
l’ovvia domanda: perché tutto questo clamore? Il cosiddetto “lato oscuro di Michael Jackson” non è
sempre stato davanti agli occhi di tutti, nei video che accompagnavano le sue canzoni, sempre saturi
di violenza ritualizzata e di osceni gesti sessualizzati (soprattutto nel caso di Thriller e Bad)?
L’Inconscio è fuori, non è nascosto in fantomatiche profondità – o, per citare il motto di X Files:
“La verità è la fuori”.
Fra gli psicoanalisti lacaniani circola da decenni una barzelletta diventata classica: un uomo che
crede di essere un granello di seme viene portato in un ospedale psichiatrico dove i dottori fanno del
loro meglio per convincerlo che non è un seme ma un uomo; tuttavia, subito dopo essere stato
dimesso dall’ospedale, finalmente guarito (convinto di non essere un granello di seme ma un
uomo), torna indietro tutto tremante di paura – c’è un pollo fuori dalla porta e lui teme che voglia
mangiarselo. “Caro amico,” gli dice il dottore, “lei sai bene di non essere un granello di seme ma un
uomo”. “Certo, io lo so,” risponde il paziente, “ma il pollo lo sa?” Sta in questo la vera scommessa
del trattamento psicoanalitico: non è sufficiente convincere il paziente della verità inconscia dei
propri sintomi, l’Inconscio stesso deve essere indotto ad ammettere questa verità. La stessa identica
cosa non vale anche per il feticismo delle merci marxiano? Ecco l’inizio della famosa sezione 4 del
capitolo 1 del Capitale, sul “Feticismo delle merci e il suo segreto”:

A prima vista una merce sembra una cosa estremamente triviale e ovvia. Dalla sua analisi risulta
invece che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezze metafisiche e capricci teologici.

Queste righe dovrebbero sorprenderci, dal momento che invertono il tipico procedimento di
demistificazione del mito teologico, della sua riduzione alla base terrena: Marx non afferma, nel
modo tipico della critica illuministica, che il compito dell’analisi critica è dimostrare che quello che
ci appare come una misteriosa entità teologica deriva invece dal processo “ordinario” della vita
reale; al contrario, egli sostiene che il compito dell’analisi critica è portare alla luce le “sottigliezze
metafisiche e i capricci teologici”. In altre parole, quando un marxista critico incontra un soggetto
borghese immerso nel feticismo della merce, il rimprovero che egli muove a quest’ultimo non è:
“Forse ti può sembrare che la merce sia un oggetto magico dotato di poteri speciali, ma in realtà è
solo un’espressione reificata di relazioni fra persone.” Il vero rimprovero del marxista è piuttosto:
“Forse puoi pensare che la merce ti sembri una semplice personificazione delle relazioni sociali
(che, ad esempio, il denaro sia solo una sorta di voucher che ti da diritto a una parte del prodotto
sociale), ma non è così che le cose ti appaiono veramente – nella tua realtà sociale, mediante la tua
partecipazione allo scambio sociale, sei testimone del fatto inspiegabile che la merce ti appare
proprio come oggetto magico dotato di speciali poteri.” In altre parole, possiamo immaginare un
borghese che frequenta un corso di marxismo e viene edotto sul feticismo della merce; alla fine del
corso, torna dal suo insegnante lamentandosi del fatto che è ancora vittima del feticismo della
merce. L’insegnante gli dice: “Ma adesso sai come stanno le cose, che la merce è solo espressione
di relazioni sociali, che non ha nulla di magico!”. Quindi, ancora una volta, il vero compito non è
convincere il soggetto, ma la merce: non è cambiare il modo in cui si parla delle merci, ma
cambiare il modo in cui le merci parlano fra loro… Su questo punto Alenka Zupancic va fino in
fondo e immagina un brillante esempio che fa riferimento a Dio stesso:

“Nella società illuminata, poniamo, del terrore rivoluzionario, un uomo viene messo in prigione
perché crede in Dio. Con misure diverse, ma che vanno oltre la spiegazione illuminata, viene
portato alla conoscenza che Dio non esiste. Quando viene rilasciato, l’uomo torna subito indietro e
confessa il suo terrore di essere punito da Dio. Ovviamente lui sa che Dio non esiste, ma Dio lo sa?”

È proprio in questo senso che l’epoca attuale è forse meno atea di quelle passate: siamo tutti pronti a
indulgere nello scetticismo totale, nella distanza cinica, nello sfruttamento degli altri “senza alcuna
illusione”, nelle violazioni di tutti i vincoli etici, in pratiche sessuali estreme, ecc. – protetti dalla
silenziosa consapevolezza che il grande Altro ne sia ignaro. Ecco perché non dovrebbe sorprenderci
scoprire l’ideologia allo stato puro in ciò che potrebbe apparire come Hollywood al suo stato di
massima innocenza: il grande fumetto blockbuster. “La verità ha la struttura della fiction” – esiste
per questa tesi un’esemplificazione migliore dei fumetti, dove la realtà sull’ordine sociale esistente
viene resa in un modo così diretto, che non sarebbe concesso nel cinema narrativo con attori
“reali”? Pensiamo all’immagine di società che ricaviamo dai fumetti violenti dove ci sono animali
che combattono: spietata lotta per la sopravvivenza, trappole e attacchi brutali, sfruttamento degli
altri… se la stessa storia fosse narrata in un film con attori “reali”, verrebbe senza dubbio censurata
o respinta come oltremodo e ridicolmente pessimistica. Kung Fu Panda, l’ultimo successo animato
della Dreamworks, fa la stessa cosa per il modo in cui le credenze funzionano nella nostra società
cinica – il film è ideologia a un imbarazzante stato puro. Kung Fu Panda oscilla costantemente fra i
due estremi della saggezza serena e del suo cinico senso comune che insidia mediante il riferimento
ai bisogni e alle paure comuni. Ma questi due livelli (la saggezza e il senso comune quotidiano)
sono realmente contrastanti? Non sono le due facce di uno e del medesimo atteggiamento di
saggezza? Ciò che le unisce è il rifiuto dell’objet a, del sublime oggetto di affetto appassionato –
nell’universo di Kung Fu Panda ci sono solo oggetti e bisogni quotidiani comuni, e sotto c’è il
vuoto, tutto il resto è illusione. Questo, per inciso, è il motivo per cui l’universo del film è
asessuale: non c’è sesso né attrazione sessuale nel film, la sua economia è un’economia orale-anale
preedipica (tra l’altro, il nome del protagonista, Po, in tedesco è un termine comune per “culo”). Po
è grasso, goffo, comune, ED è un eroe di Kung Fu, il nuovo Maestro – il terzo escluso in questa
coincidenza degli opposti è la sessualità.
In cosa consiste, allora, l’ideologia del film? Torniamo alla frase fondamentale: “Non c’è nessun
ingrediente speciale. Sei solo tu. Per rendere qualcosa speciale devi solo credere che lo sia.” Questa
frase rappresenta la sconfessione feticista (la rottura) allo stato puro – il suo messaggio è: “SO bene
che non c’è alcun ingrediente speciale, ciononostante CREDO in esso (e agisco di conseguenza)…”
La denunzia cinica (a livello di consapevolezza razionale) è neutralizzata da un richiamo al credo
“irrazionale” – e questa è la formula più elementare di come funziona l’ideologia oggi, formula
magnificamente esemplificata da un aneddoto su Niels Bohr. Scorgendo un ferro di cavallo alla sua
porta di casa, l’ospite sorpreso disse che non credeva alla superstizione del ferro portafortuna, al che
Bohr rispose sgarbatamente: “Neanche io ci credo; lo tengo lì perché mi hanno detto che funziona
anche se uno non ci crede!” Ecco come funziona l’ideologia oggi: non crediamo ad essa, riteniamo
solo che funzioni.

La mia TERZA tesi è che la post-ideologia sia l’ideologia predominante del capitalismo del dopo
sessantotto. The New Spirit of Capitalism di Luc Boltanski e Eve Chiapello esamina nel dettaglio
questa nuova forma di capitalismo. Alla maniera weberiana, il libro distingue in successione tre
“spiriti” capitalistici: il primo spirito del capitalismo imprenditoriale è durato fino alla Grande
Depressione degli anni ’30; il secondo ha preso come proprio ideale non l’imprenditore ma il
direttore salariato della grande azienda. (È facile notare lo stretto parallelo con il ben noto principio
del passaggio dal capitalismo etico protestante individualista a quello manageriale aziendale
dell’“organization man”). A partire dagli anni ’70, si sta delineando una nuova forma di “spirito
capitalistico”: il capitalismo ha abbandonato la struttura gerarchica fordista del processo di
produzione e ha sviluppato una forma di organizzazione network-based, fondata sull’iniziativa del
dipendente e sulla sua autonomia nel luogo di lavoro. Invece della catena di comando
gerarchicamente centralizzata, abbiamo delle reti con una moltitudine di partecipanti, che
organizzano il lavoro in forma di team o progetti, intenti alla soddisfazione del cliente, e una
generale mobilitazione di lavoratori grazie alla vision dei loro capi. In questo modo, il capitalismo
viene trasformato e legittimato come progetto egualitario: accentuando l’interazione autopoietica e
l’auto-organizzazione spontanea, ha usurpato perfino la retorica dell’estrema sinistra
sull’autogestione dei lavoratori e l’ha trasformata da slogan anticapitalistico a slogan capitalistico.
Al livello di consumo, questo nuovo spirito è quello del cosiddetto “capitalismo culturale”: non
acquistiamo i prodotti per la loro utilità e neppure come status symbol; li compriamo principalmente
per ricavarne un’esperienza, li consumiamo per rendere la nostra vita piacevole e darle un
significato. Questa triade non può non evocare la triade lacaniana RSI: il Reale di utilità diretta
(buon cibo salutare, la qualità di un auto, ecc.), il Simbolico dello status (compro una determinata
macchina per comunicare il mio status – la teoria di Thorstein Veblen), l’Immaginario
dell’esperienza piacevole e significativa. Il consumo dovrebbe sostenere la qualità della vita, il suo
tempo dovrebbe essere “tempo di qualità” – non il tempo dell’alienazione, dell’imitazione dei
modelli imposti dalla società, ma il tempo dell’autentica realizzazione del mio vero Io, del gioco
sensoriale dell’esperienza, della cura per gli altri, dall’ecologia alla carità. Ecco un caso esemplare
di “capitalismo culturale”: la campagna pubblicitaria di Starbucks. “Non è solo quello che compri.
È quello a cui credi.” Dopo avere esaltato la qualità del caffè, la pubblicità continua:

“Ma quando compri Starbucks, anche se non te ne rendi conto, stai comprando qualcosa di più
grande di una tazza di caffè. Stai partecipando a un’etica del caffè. Attraverso il nostro programma
Shared Planet, acquistiamo più caffè di commercio equo e solidale di qualsiasi altra azienda nel
mondo, e assicuriamo che gli agricoltori che coltivano i chicchi ricevano un prezzo equo per il loro
duro lavoro. E investiamo in questo, migliorando le pratiche di coltivazione del caffè e le comunità
in tutto il globo. C’è una buona atmosfera di caffè. /…/ Oh, e una piccola parte del prezzo di una
tazza di caffè Starbucks aiuta ad arredare il locale con sedie comode, buona musica, e la giusta
atmosfera per sognare, lavorare e chiacchierare. Abbiamo tutti bisogno di posti così al giorno
d'oggi. Non c’è da stupirsi se è così buono.”

Il surplus culturale viene esplicitato a chiare lettere: il prezzo qui è più alto perché quello che
compri è l’“etica del caffè”, che comprende attenzione per l’ambiente, responsabilità sociale nei
confronti dei produttori, e un luogo dove ognuno può partecipare alla vita comunitaria (fin
dall’inizio, Starbucks ha presentato i suoi luoghi come luoghi della comunità sostitutiva). Ecco
come il capitalismo, al livello di consumo, ha integrato l’eredità del ’68, la critica del consumo
alienato: fatti di esperienza autentica. Una recente reclame della catena di hotel Hilton presenza una
semplice affermazione: “Un viaggio non ci porta solo da un luogo A a un luogo B. Dovrebbe anche
renderci persone migliori.” Chi avrebbe potuto pensare a una pubblicità del genere una decina di
anni fa? E non è forse questo il motivo per cui compriamo cibo il organico? Chi può credere
veramente che quelle mele mezze marce e costose siano più salutari? Il motivo è che, comprandole,
non ci limitiamo a comprare e consumare un prodotto – facciamo anche qualcosa di significativo,
mostriamo la nostra attenzione e la nostra consapevolezza globale, partecipiamo a un grande
progetto collettivo… L’ultima espressione scientifica di questo “nuovo spirito” è il sorgere di una
nuova disciplina, gli “studi sulla felicità” – eppure, come mai in questa nostra epoca di edonismo
spiritualizzato, che definisce chiaramente la felicità quale obiettivo di vita, l’ansietà e la depressione
stanno esplodendo? È l’enigma di questo auto-sabotaggio della felicità e del piacere che rende il
messaggio di Freud più attuale che mai.
A un’analisi più attenta, dovremmo probabilmente distinguere non tre, ma quattro fasi nella logica
pubblicitaria: l’ultima fase (in cui predomina il riferimento all’esperienza soggettiva) andrebbe a
sua volta suddivisa. Nel 1980 e nel 1990 predominava l’allusione diretta all’autenticità personale o
alla qualità della vita, senza tonalità ideologiche, mentre nell’ultimo decennio notiamo una sempre
crescente mobilitazione di motivi socio-ideologici (ecologia, solidarietà sociale): l’esperienza a cui
si fa riferimento è quella di fare parte di un movimento collettivo più grande, di preoccuparsi della
natura e di assistere i malati, i poveri e bisognosi, di fare qualcosa per loro. In questo modo, il
processo raggiunge il suo climax: lo stesso partecipare alle attività consumistiche viene
contemporaneamente presentato come un partecipare alla lotta contro i mali causati dallo stesso
consumismo capitalista.
Sentiamo ripetere ovunque che Che Guevara, uno dei simboli del ’68, è diventato “la più tipica
icona postmoderna”, vale a dire, tutto ciò che vogliamo che egli significhi: dalla ribellione dei
giovani contro l’autoritarismo, alla solidarietà con i poveri e gli sfruttati, dalla santità, fino allo
spirito imprenditoriale liberal-comunista del lavoro per il bene di tutti. Un paio di anni fa, perfino
un alto rappresentante del vaticano ha dichiarato che la celebrazione del Che deve essere intesa
come ammirazione per un uomo che ha rischiato e ha dato la sua vita per il bene altrui. Come
spesso accade, l’innocua beatificazione si combina col suo contrario, l’oscena mercificazione – di
recente, una società australiana ha immesso sul mercato un gelato alla “ciliegia Guevara”, a ha
incentrato la promozione sull’esperienza del mangiare, ovviamente: “La lotta rivoluzionaria delle
ciliegie è stata soffocata: sono rimaste intrappolate fra due strati di cioccolato. Possa il loro ricordo
vivere nella vostra bocca!”
Viene costruita un’intera narrazione storico-ideologica in cui il socialismo appare conservativo,
gerarchico, amministrativo, così che la lezione del ’68 è “addio signor Socialismo”, e la vera
rivoluzione diventa quella del capitalismo digitale. E, com’è spesso il caso, è un paese del Terzo
Mondo in via di sviluppo come il Bhutan, a spiegare ingenuamente le assurde conseguenze socio-
politiche di questa nozione di felicità: un decennio fa, il regno del Bhutan decise di concentrarsi
sulla Felicità Interna Lorda (FIL) piuttosto che sul Prodotto Interno Lordo (PIL); l’idea era il frutto
dell’ingegno dell’ex re Jigme Singye Wangchuck, che cercava di guidare il Bhutan nel mondo
moderno, pur preservandone l’identità. Adesso, con le pressioni della globalizzazione e del
materialismo che incalzano e quel minuscolo paese che si prepara alle sue primissime elezioni, il
nuovo popolarissimo re di formazione oxfordiana, il ventisettenne Jigme Khesar Namgyel
Wangchuck, ha ordinato ad un’agenzia di stato di calcolare il livello di felicità dei 670.000 abitanti
del regno. I funzionari hanno detto di aver condotto uno studio su un campione di 1.000 persone e
hanno stilato una lista di parametri per la felicità – simile all’indice di sviluppo tracciato dalle
Nazioni Unite. Fra le preoccupazioni principali sono stati identificati il benessere psicologico, la
salute, l’educazione, il buon governo, gli standard di vita, la vitalità della comunità e la diversità
ecologica… questo è imperialismo culturale, se ne è mai esistito uno.

La mia QUARTA tesi è che il populismo odierno sia un fenomeno in reazione alla costellazione di
questo capitalismo post-sessantottino. In fondo, il populismo è sempre stato sostenuto
dall’esasperazione frustrata delle persone comuni, da un urlo: “Non so cosa stia accadendo, ma ne
ho abbastanza! Non può continuare così! Deve finire!” – uno scatto di impazienza, un rifiuto di
comprendere con pazienza, l’esasperazione di fronte alla complessità, e la conseguente convinzione
che ci debba essere qualcuno responsabile di tutta questa confusione, che è il motivo per cui si sente
il bisogno di un agente dietro questa confusione che giustifichi tutto. Qui, in questo rifiuto-di-
sapere, risiede la dimensione propriamente feticista del populismo. Vale a dire, sebbene a un livello
puramente formale, il feticcio implica un gesto di trasferimento (sull’oggetto-feticcio), funziona
come un’inversione esatta della formula standard di trasferimento (col soggetto che dovrebbe
sapere): ciò a cui il feticcio dà corpo è proprio il mio ripudio della conoscenza, il mio rifiuto ad
assumere soggettivamente ciò che so. Ecco perché, per dirla in termini nietzschiani, qui pienamente
appropriati, la differenza ultima fra la vera politica radicale emancipatoria e la politica populista è
che l’autentica politica radicale è attiva, imponente, mentre il populismo è fondamentalmente re-
attivo, una reazione a un intruso fastidioso. In altre parole, il populismo rimane una versione della
politica della paura: mobilita la folla evocando la paura dell’intruso corrotto.
Questo ci porta al tema importante della relazione ambigua fra potere e conoscenza nelle società
moderne: in quello che Lacan chiama discorso universitario, l’autorità è esercitata dalla conoscenza
(esperta). Jacques-Alain Miller nota giustamente come l’originalità di Lacan nel trattare la coppia
conoscenza/potere non sia stata sufficientemente evidenziata: in contrapposizione a Foucault, che
variava incessantemente il motivo della loro combinazione (la conoscenza non è neutrale, è in se
stessa un apparato di potere e controllo), Lacan “propone, per l’epoca moderna, separazione,
lacerazione, discordanza fra conoscenza e potere. /…/ La diagnostica che Lacan avanza per il
malessere della civiltà è che la conoscenza abbia assunto ´una crescita sproporzionata nel rapporto
con gli effetti del potere.`”
Questa situazione ci pone di fronte all’impasse della contemporanea “società della scelta” al suo
stato più radicale. Sono molteplici gli investimenti ideologici sull’argomento della scelta di cui ci si
occupa attualmente. Gi scienziati del cervello fanno notare che la libertà di scelta è un’illusione – ci
sentiamo liberi solo quando siamo in grado di agire nel modo in cui ci fa decidere il nostro
organismo, senza ostacoli esterni che contrastino le nostre propensioni. Gli economisti liberali
enfatizzano la libertà di scelta come ingrediente fondamentale dell’economia di mercato:
comprando delle cose, noi in un certo modo votiamo continuamente con il nostro denaro. I
pensatori esistenziali “più profondi” amano presentare variazioni sul tema della scelta esistenziale
“autentica”, dove è in gioco l’essenza stessa del nostro essere, una scelta che implica un impegno
esistenziale completo, in contrasto con le scelte superficiali di questo o quel prodotto. Nella
versione “marxista” del tema, la molteplicità di scelta con cui il mercato ci bombarda oscura
l’assenza di vere scelte radicali relative alla struttura fondamentale della nostra società. Ma c’è un
aspetto visibilmente assente in questa serie: l’ingiunzione a scegliere quanto siamo privi delle
coordinate cognitive di base per fare una scelta razionale. Come spiega Leonardo Padura: “È
orribile non conoscere il passato ed essere comunque in grado di avere un effetto sul futuro” –
essere costretto a prendere decisioni in una situazione che rimane opaca nella nostra condizione di
base. È la situazione standard della scelta forzata (una situazione nella quale sono libero di scegliere
a condizione che faccia la scelta giusta, di modo che, la sola cosa che mi rimane da fare è il gesto
vuoto con cui fingo di compiere liberamente ciò che la conoscenza esperta mi ha imposto). Cosa
succederebbe, invece, se la scelta fosse realmente libera e, proprio per questo, vissuta come ancora
più frustrante? Dunque, ci troviamo costantemente nella posizione di dovere decidere su questioni
che avranno un effetto fondamentale sulla nostra vita, ma senza un adeguato fondamento nella
conoscenza – per citare John Gray: “siamo stati scagliati in un tempo in cui tutto è provvisorio. Le
nuove tecnologie alterano le nostre vite quotidianamente. Le tradizioni del passato non possono
essere recuperate. Allo stesso tempo non abbiamo quasi idea di ciò che porterà il futuro. Siamo
obbligati a vivere come se fossimo liberi.”
La difficoltà di scegliere non è determinata solo l’ignoranza sull’oggetto della scelta (siamo
bombardati da appelli a scegliere senza essere qualificati per fare la scelta adeguata), ma, in modo
persino più radicale, dell’impossibilità soggettiva di rispondere alla domanda del desiderio. Quando
Lacan definisce l’oggetto del desiderio come originariamente perduto, non intende semplicemente
che non possiamo mai sapere cosa desideriamo e siamo condannati all’eterna ricerca del “vero”
oggetto che, come tale, è privo di desiderio, mentre tutti gli oggetti positivi sono semplicemente dei
suoi rimpiazzi metonimici. La sua opinione è molto più radicale: l’oggetto perduto è in fin fine il
soggetto stesso, soggetto come oggetto – il che significa che la domanda del desiderio, il suo
enigma originario, non è “Cosa voglio?”, ma “Cosa vogliono gli altri da me?” Che oggetto – objet
“a” – vedono in me? Che è il motivo per cui, riferendosi alla domanda isterica “perché io sono quel
nome?” (cioè, qual è l’origine della mia identità simbolica, cosa la giustifica), Lacan afferma che il
soggetto come tale è isterico: egli definisce tautologicamente il soggetto come “quello che non è un
oggetto”, dal momento che l’impossibilità di identificare se stessi come oggetto (cioè di sapere cosa
sono libidinalmente per gli altri) è costitutiva del soggetto. (In questo modo Lacan genera l’intera
diversità delle posizioni “patologiche” soggettive, leggendola come la diversità delle risposte alla
domanda isterica: l’isterico e l’ossessivo rappresentano le due modalità della domanda; lo psicotico
intende se stesso come oggetto della jouissance dell’Altro, mentre il pervertito pone se stesso come
strumento della jouissance dell’Altro.)
In questo consiste la dimensione terrorizzante della difficoltà della scelta – ciò che risuona anche
nella domanda più innocente quando prenotiamo una stanza d’hotel (“Cuscini soffici o duri? Letto
matrimoniale o due singoli?”) è la ben più radicale investigazione: “Dimmi che sei. Che tipo di
oggetto vuoi essere? Cosa colmerebbe la lacuna del tuo desiderio?” Ecco perché l’apprensione anti-
essenzialista foucaultiana sulle “identità fisse”, l’impulso incessante a praticare la “cura del Sé”, a
reinventarsi e ricrearsi continuamente, trova una strana eco nella dinamica del capitalismo
“postmoderno”. Era stato già il buon vecchio esistenzialismo, naturalmente, a dichiarare che un
uomo è ciò che riesce a fare di sé, e legava questa libertà radicale all’ansietà esistenziale. Ma per
l’esistenzialismo l’ansietà di sperimentare la propria libertà, la mancanza di una determinazione
sostanziale rappresentava il momento autentico in cui il soggetto vede la propria integrazione nella
fissità dell’universo ideologico in frantumi – quello che l’esistenzialismo non riusciva a immaginare
è ciò che Adorno ha tentato di incapsulare con il titolo del suo libro su Heidegger, Il gergo
dell’autenticità: come, non più reprimendola, l’ideologia egemonica mobiliti direttamente la
mancanza di identità fissa per sostenere l’infinito processo di “auto-ricreazione” consumistica. – E
questo ci riporta al populismo allo stato più violento, come fondamentalismo nazionalista o
religioso: in fin dei conti, è una strategia per evitare questo terrore della scelta. Radovan Karadzic, il
leader serbo bosniaco responsabile della terribile pulizia etnica nella guerra della post Jugoslavia,
non era solo uno spietato leader politico e militare, era anche un poeta, e la sua poesia non dovrebbe
essere ignorata perché ridicola – anzi, merita una lettura più approfondita, in quanto fornisce una
chiave al funzionamento della pulizia etnica. Ecco i primi versi della poesia senza titolo identificata
dalla dedica “…. Per Izlet Sarajlic”:

“Convertitevi alla mia nuova fede, popoli


Vi offro quello che nessuno ha mai avuto prima
Vi offro inclemenza e vino
Chi non avrà pane sarà nutrito dalla luce del mio sole
Gente, nulla è vietato nella mia fede
Si può amare e bere
E guardare il Sole quanto si vuole
E questa divinità non vi vieta nulla
Oh, obbedite al mio appello fratelli, gente, popoli”

La sospensione superegotica delle proibizioni morali è la caratteristica del nazionalismo


“postmoderno” attuale. Qui, il cliché secondo il quale l’identificazione etnica appassionata
restituisce un solido insieme di valori e di credenze nella disorientante insicurezza di una moderna
società globale secolare, deve essere invertito: il “fondamentalismo” nazionalista serve piuttosto
come operatore di un segreto e appena celato TU PUOI! L’odierna società riflessiva postmoderna,
apparentemente edonistica e permissiva, risulta paradossalmente sempre più satura di leggi e
regolamenti che, a quanto si dice, servono per il nostro benessere (restrizioni sul fumo e sul cibo,
contro le molestie sessuali…), così che il riferimento ad una appassionata identificazione etnica,
lungi dal frenarci, funziona piuttosto da appello liberatore: “Tu puoi!” - tu puoi violare (non il
Decalogo, ma) le rigide regole di coesistenza pacifica in una società tollerante e liberale, puoi bere e
mangiare tutto quello che vuoi, intraprendere usanze patriarcali proibite dalla Correttezza Politica
liberale, persino odiare, lottare, uccidere e stuprare… Senza il riconoscimento totale di questo
perverso effetto pseudo - liberatore dell’odierno nazionalismo, di come il superego oscenamente
permissivo integri il tessuto esplicito della legge simbolica sociale, noi condanniamo noi stessi
all’incapacità di comprendere la sua vera dinamica. Ecco come Aleksandr Tijanic, eminente
rubricista serbo, che per un breve periodo è stato anche ministro dell’informazione e dei media di
Milosevic, descrive “lo strano tipo di simbiosi fra Milosevic e i serbi”:

“In generale Milosevic va bene ai serbi. Durante il suo governo i serbi hanno abolito il tempo del
lavoro. Nessuno fa nulla. Ha permesso il fiorire del mercato nero e del contrabbando. Si può
apparire nella TV statale e insultare Blair, Clinton o chiunque altro dei “dignitari mondiali”. /…/
Inoltre, Milosevic ci ha dato il diritto di portare le armi. Ci ha dato il diritto di risolvere tutti i nostri
problemi con le armi. Ci ha dato anche il diritto di guidare auto rubate. /…/ Milosevic ha
trasformato la vita quotidiana dei serbi in una grande vacanza e ci ha permesso di sentirci come
studenti delle superiori nel loro viaggio di maturità – il che significa che nulla, ma proprio nulla di
quello che fai può essere punibile.”

La reputazione di Platone soffre a causa della sua affermazione sulla necessità di scacciare i poeti
fuori dalla città – un consiglio piuttosto saggio, a giudicare da questa esperienza post Jugoslavia,
dove la pulizia etnica era stata imbeccata dai sogni pericolosi dei poeti. È vero, Milosevic
“manipolava” le passioni nazionaliste – ma sono stati i poeti a fornirgli la materia che si è prestata
alla manipolazione. Sono stati loro – i poeti sinceri, e non i politici corrotti –all’origine di tutto,
quando, già negli anni ’70 e ’80 gettavano i semi del nazionalismo aggressivo non solo in Serbia,
ma anche in altre repubbliche della ex - Jugoslavia. Invece del complesso industriale - militare,
nella post - Jugoslavia noi abbiamo avuto il complesso poetico - militare, personificato dalle figure
gemelle di Radovan Karadzic e Ratko Mladic.
Nella sua Fenomenologia dello Spirito, Hegel accenna al “cupo tessere dello spirito”: il lavoro
sotterraneo di cambiamento delle coordinate ideologiche, per lo più invisibile all’occhio pubblico,
che poi esplode all’improvviso cogliendo tutti di sorpresa. Questo è quando accadeva nella ex -
Jugoslavia negli anni ‘70 e ’80. Quindi, quando le cose esplosero alla fine degli anni ’80 era ormai
troppo tardi, il vecchio consenso ideologico era completamente marcio e implose. Negli anni ‘70 e
’80 la Jugoslavia era come il gatto proverbiale dei cartoni che continua a camminare sopra il
precipizio – cade solo quando, alla fine, guarda in basso e si rende conto di non avere il terreno
sotto di sé. Milosevic è stato il primo che ci ha realmente costretto a guardare in basso verso il
precipizio… E per evitare l’illusione che il complesso poetico-militare sia una specialità balcanica,
si dovrebbe almeno menzionare Hassan Ngeze, il Karadzic del Ruanda che nella sua rivista
Kangura diffondeva sistematicamente odio contro i Tutsi e richiedeva il loro genocidio. Ed è troppo
facile dire che Karadzic e compagnia bella erano dei cattivi poeti: altre nazioni della ex Jugoslavia
(e la stessa Serbia) hanno avuto poeti e scrittori riconosciuti come “grandi” e “autentici”, eppure
interamente coinvolti in progetti nazionalisti.
La predominanza di una violenza giustificata religiosamente (o etnicamente) può essere spiegata
proprio dal fatto che viviamo in un’epoca che si considera post-ideologica. Dal momento che le
grandi cause pubbliche non possono più essere mobilitate per la violenza di massa, cioè, la guerra,
dal momento che la nostra ideologia egemonica si rivolge a noi affinché godiamo della vita e
realizziamo noi stessi, è difficile per la maggioranza vincere la propria repulsione per la tortura e
per la soppressione di un altro essere umano. La grande maggioranza delle persone è
spontaneamente “morale”: uccidere un altro essere umano è profondamente traumatico per loro.
Quindi, per fare in modo che lo facciano, c’è bisogno di una Causa “sacra” più grande, che faccia
apparire banali le meschine preoccupazioni individuali nei confronti dell’omicidio. La religione o
l’appartenenza etnica assolvono perfettamente questo ruolo. Ovviamente, ci sono casi di atei
patologici in grado di commettere un omicidio di massa per puro piacere, solo per farlo, ma si tratta
di eccezioni rare. La maggioranza ha bisogno di essere “anestetizzata” contro la loro elementare
sensibilità verso la sofferenza altrui. Per questo serve una Causa “sacra”.
Più di cento anni fa, nei suoi Fratelli Karamazov, Dostoevskij metteva in guardia contro i pericoli
dell’ateo nichilismo morale: “Se Dio non esiste, allora tutto è permesso.” La lezione dell’odierno
terrorismo, al contrario, è quella che se c’è un Dio, allora tutto, anche far saltare in aria centinaia di
persone innocenti, è permesso a coloro che sostengono di agire direttamente per conto di Dio, come
strumenti della Sua volontà, poiché, è chiaro, un legame diretto con Dio giustifica la nostra
violazione di qualsiasi obbligo o considerazione “meramente umani”. Gli “atei” comunisti stalinisti
sono la prova suprema di questo: a loro veniva permesso tutto, dato che si consideravano strumenti
diretti della loro divinità, la Necessità Storica del Progresso verso il Comunismo. Gli ideologismi
religiosi solitamente dichiarano che, vero o no che sia, la religione porta alcune persone altrimenti
cattive a fare delle cose buone; dall’esperienza di oggi forse faremmo meglio a tener fede a quanto
afferma Steven Weinberg: mentre senza religione le persone buone avrebbero fatto cose buone e le
persone cattive cose cattive, solo la religione può far fare cose cattive alle persone buone.

La mia QUINTA tesi è che il manifestardi dell’ideologia come suo opposto, come non-ideologia,
dipende da un cambiamento nella modalità predominante dell’ideologia: nella nostra supposta
epoca post-ideologica l’ideologia funziona sempre più in modalità feticista, in opposizione alla sua
tradizionale modalità sintomale. In quest’ultima modalità, la menzogna ideologica che struttura la
nostra percezione della realtà è minacciata da sintomi che sono “il ritorno del rimosso”, crepe nel
tessuto della menzogna ideologica, mentre il feticcio è in effetti una sorta di inverso del sintomo. In
altre parole, un sintomo è l’eccezione che turba la superficie della falsa apparenza, il punto in cui
irrompe l’Altra Scena rimossa, mentre il feticcio è l’incarnazione della Menzogna che ci permette di
tollerare l’insostenibile verità. Prendiamo il caso della morte di una persona amata: nel caso del
sintomo, io “reprimo” questa morte, cerco di non pensarci, ma il trauma rimosso ritorna nel
sintomo; nel caso del feticcio, al contrario, io accetto “razionalmente” questa morte, e tuttavia mi
aggrappo al feticcio, a un qualche tratto che rappresenti per me la negazione di questa morte. In
questo senso il feticcio può giocare un ruolo molto costruttivo nel permetterci di far fronte ala dura
realtà: i feticisti non sono sognatori persi nei loro mondi privati, essi sono completamente “realisti”,
capaci di accettare il modo in cui stanno davvero le cose – dal momento che hanno il loto feticcio a
cui aggrapparsi per annullare il totale impatto della realtà. Uno psicoanalista mi ha raccontato la
storia tragica di un marito, suo paziente, la cui bellissima moglie era morta di cancro al seno tre
mesi dopo che le era stato diagnosticato; lui era sopravvissuto senza grandi problemi alla sua morte,
ed era in grado di parlare della morte dolorosa di lei senza tensione. Gli amici si chiedevano come
fosse possibile: non la amava veramente, si sentiva segretamente liberato dalla morte di lei? Poi
notarono un indizio: quando parlava di lei, teneva sempre in mano un criceto, l’animale oggetto
preferito della moglie morta, e ci giocava delicatamente – il criceto era il suo feticcio, la
sconfessione vivente della morte di lei, che gli permetteva di accettare razionalmente che lei era
morta pur sospendendo l’efficienza simbolica di questo fatto. La prova: un anno dopo la morte della
moglie, anche il criceto morì, e l’effetto su questa seconda morte fu devastante – il vedovo ebbe
immediatamente un crollo totale e dovette essere ospedalizzato dopo ripetuti tentativi di suicidio…
Proprio in questo senso il denaro per Marx è un feticcio: io fingo di essere un soggetto razionale,
utilitarista, ben consapevole di come stiano veramente le cose – ma sono l’incarnazione della mia
fede smentita nel denaro-feticcio… Qualche volta la linea fra i due è quasi indistinguibile: un
oggetto può funzionare come sintomo (di un desiderio represso) e quasi contemporaneamente anche
come feticcio (incarnando la fede a cui ufficialmente rinunciamo). Ad esempio, un oggetto
appartenuto al defunto, un frammento dei suoi vestiti, può funzionare sia come feticcio (in esso la
persona continua magicamente a vivere) che come sintomo (il dettaglio disturbante che riporta alla
mente la sua morte). Questa tensione ambigua non è forse omologa a quella fra oggetto fobico e
oggetto feticista? Il ruolo strutturale, in entrambi i casi, è lo stesso: se questo elemento eccezionale è
disturbato, l’intero sistema collassa. Non solo il falso universo del soggetto collassa se egli è
costretto a confrontarsi con il significato del suo sintomo; anche l’opposto vale, ossia l’accettazione
“razionale” da parte del soggetto del modo in cui stanno le cose si dissolve quando il suo feticcio gli
viene portato via.
Quindi, quando veniamo bombardati da dichiarazioni sul fatto che in questa nostra cinica epoca
post-ideologica nessuno crede negli ideali proclamati, quando incontriamo qualcuno che sostiene di
essersi liberato da qualsiasi credo, accettando la realtà sociale per come essa realmente è,
dovremmo sempre ribattere con la domanda: OK, ma dov’è il tuo criceto? Dov’è il feticcio che ti
permette di (fingere di) accettare la realtà “così com’è”? Il “buddismo occidentale” è un feticcio di
questo tipo: ti permette di partecipare pienamente al ritmo frenetico del gioco capitalistico,
mantenendo al contempo la percezione di non starci veramente dentro, di essere ben consapevole di
quanto sia desolante questo spettacolo – ciò che realmente conta per te è la pace dell’Io interiore
nella quale sai di poterti sempre ritirare… Scendendo nel dettaglio, dobbiamo rilevare come il
feticcio possa funzionare in due modi opposti: o il suo ruolo rimane inconscio – come nel caso dello
sfortunato marito, inconsapevole del ruolo feticcio del criceto – , oppure si ritiene che il feticcio sia
quello che conta veramente, come nel caso di un buddista occidentale, inconsapevole del fatto che
la “verità” della sua esistenza è il coinvolgimento sociale del quale egli tenta di sbarazzarsi come di
un mero gioco.
Ancora più importante è introdurre un’altra distinzione fra due diverse modalità di feticismo:
dovremmo opporre il feticismo cinico permissivo descritto sopra al feticismo populista-fascista.
Spieghiamo quest’ultima modalità, ancora una volta, opponendo la mistificazione ideologica
implicita in esso con la mistificazione populista-fascista. La prima riguarda la falsa universalità: il
soggetto sostiene la causa della libertà/uguaglianza, ignaro delle limitazioni implicite che, nella loro
stessa forma, ne restringono l’estensione (privilegiando determinati strati sociali: ricchi, maschi,
appartenenti a una determinata razza o cultura). La seconda riguarda la falsa identificazione
dell’antagonismo e del nemico: la lotta di classe viene rimpiazzata dalla lotta contro gli ebrei, di
modo che la rabbia popolare, provocata dal fatto di sentirsi sfruttati, viene reindirizzata dalle
relazioni capitaliste in quanto tali al “complotto ebreo”. Quindi, per esporre la cosa in termini
ingenuamente ermeneutici, nel primo caso, “quando il soggetto dice ´libertà e uguaglianza`, intende
in realtà ´libertà di commercio, uguaglianza di fronte alla legge` ecc., e nel secondo caso, “quando il
soggetto dice ´gli ebrei sono la causa della nostra miseria`, in realtà intende i ´grandi capitali sono la
causa della nostra miseria`”. L’asimmetria è evidente – per usare ancora termini ingenui, nel primo
caso l’esplicito contenuto “buono” (libertà/uguaglianza) copre il contenuto “cattivo” implicito
(classe e altri privilegi ed esclusioni), mentre nel secondo caso, il “cattivo” contenuto esplicito
(l’antisemitismo) copre il “buon” contenuto implicito (lotta di classe, odio dello sfruttamento).
Come possiamo chiaramente vedere, la struttura interna di queste due mistificazioni ideologiche è,
ancora una volta, quella della coppia sintomo/feticcio: le limitazioni implicite sono i sintomi
dell’egualitarismo liberale (ritorni singolari della verità repressa), mentre “l’ebreo” è il feticcio dei
fascisti antisemiti (“l’ultima cosa che il soggetto vede” prima di affrontare la lotta di classe). Questa
asimmetria ha conseguenze cruciali per il processo di demistificazione critico-ideologico: la
demistificazione interpretativa è relativamente facile nel primo caso, dal momento che mobilita la
tensione fra la forma e il contenuto: per essere conseguente, un “onesto” liberal-democratico dovrà
ammettere che il contenuto delle sue premesse ideologiche contraddice la sua forma, e dunque
radicalizzare la forma (l’assioma egualitario) implementandola completamente sul contenuto.
(L’alternativa principale è ripiegare nel cinismo: “sappiamo che l’egualitarismo è un sogno
impossibile, quindi facciamo finta di essere egualitari, e in silenzio accettiamo le necessarie
limitazioni…”). Nel caso dell’“ebreo” come feticcio fascista, la demistificazione interpretativa è
molto più difficile (confermando con ciò l’intuizione clinica che un feticista non può essere minato
dall’interpretazione del “significato” del proprio feticcio – i feticisti si sentono soddisfatti nel loro
feticcio, non provano il bisogno di sbarazzarsene). In termini politicamente pratici, ciò significa che
è pressoché impossibile “illuminare” un lavoratore sfruttato che accusa gli “ebrei” della sua miseria,
spiegandogli che l’“ebreo” è un nemico sbagliato, promosso dal suo vero nemico (la classe
dirigente) per confondere le fila della vera lotta, e convincerlo a spostarsi dagli “ebrei” ai
“capitalisti”. (Anche empiricamente, mentre molti comunisti si unirono ai nazisti in Germania negli
anni ’20 e ’30, e mentre negli ultimi decenni in Francia molti comunisti delusi si sono trasformati in
partigiani del Fronte Nazionale di Le Pen, il processo inverso era estremamente raro.) Per dirla in
crudi termini politici, il paradosso è dunque che, sebbene il soggetto della prima mistificazione sia
principalmente il nemico (il “borghese” liberale che pensa di combattere per la libertà e
l’uguaglianza universali), mentre il soggetto della seconda mistificazione sono primariamente “i
nostri”, i sottoprivilegiati “loro” (che vengono sedotti a reindirizzare la loro rabbia verso un
bersaglio errato), la demistificazione pratico effettiva è molto più facile nel primo caso.
La scena ideologica egemonica di oggigiorno è dunque divisa fra le due modalità di feticismo,
cinico e fondamentalista, entrambi impermeabili al criticismo argomentativo “razionale”. Mentre il
fondamentalista ignora completamente (o per lo meno guarda con sospetto) l’argomentazione,
aggrappandosi ciecamente al suo feticcio, il cinico finge di accettare l’argomentazione, ma non è
consapevole della sua la resa simbolica. In altre parole, mentre il fondamentalista (non tanto crede
quanto) “conosce” la verità incarnata nel suo feticcio, il cinico pratica la logica della negazione del
“So molto bene, ma…” Questo significa che bisognerebbe per lo meno considerare con grande
sospetto quelle persone di sinistra le quali sostengono che i movimenti populisti fondamentalisti
musulmani sono sostanzialmente “nostri”, movimenti emancipatori antimperialisti, e che il fatto che
essi formulino un loro programma in termini anti illuministici e anti universalisti, a volte
avvicinandosi all’antisemitismo, non è che una confusione derivante dal loro essere presi
nell’immediatezza della lotta (“quando dicono di essere contro gli ebrei, quello che intendono
veramente è solo che sono contro il colonialismo sionista”). Una volta accettata questa logica,
facciamo il primo passo sul sentiero alla fine del quale la sola conclusione “logica” è che, dal
momento che anche Hitler “intendeva in realtà” capitalisti quando parlava di “ebrei”, egli dovrebbe
essere nostro alleato strategico nella lotta globale antimperialista, con l’impero angloamericano
quale nemico principale. (E una tale linea di pensiero non è un semplice esercizio teorico: i nazisti
hanno promosso la lotta anticolonialista nei paesi arabi e in India, e molti neonazisti simpatizzano
con la lotta araba contro lo Stato di Israele. Ciò che rende la figura unica di Jacques Verges,
l’“avvocato del terrore”, un fenomeno universale è il fatto che egli incarna questa opzione di
“solidarietà” fra fascismo e anticolonialismo.) Sarebbe un errore fatale pensare che, in un qualche
momento futuro, convinceremo i fascisti che il loro “vero” nemico è il capitale, e che dovrebbero
abbandonare la particolare forma religiosa/etnica/razzista della loro ideologia e unire le forze
all’universalismo egualitario.
Tuttavia, dovremmo precisare che il limite interno di questi movimenti non è il loro carattere in
quanto tale, per quanto “fondamentalista” esso possa essere, ma il loro atteggiamento pratico-
ideologico nei confronti del progetto universalista emancipatorio basato sull’assioma
dell’uguaglianza. Perfino nel caso di movimenti chiaramente fondamentalisti dovremmo fare
attenzione a non dare credito ai media. I talebani vengono regolarmente presentati come un gruppo
fondamentalista islamico che fa rispettare la propria legge con il terrore – tuttavia, quando nella
primavera del 2009 presero il comando della valle di Swat in Pakistan, il New York Times riportò
che avevano architettato “una rivolta di classe che sfrutta le profonde fratture sociali fra un piccolo
gruppo di abbienti possidenti terrieri e i loro mezzadri senza terra”:

“A Swat, dai resoconti di chi è fuggito apprendiamo che i taliban hanno preso il controllo cacciando
una cinquantina di possidenti che detenevano gran parte del potere. Per farlo i militanti hanno
organizzato i contadini in bande armate usandole come truppe d’assalto /…/. L'abilità con cui i
taliban sfruttano le divisioni di classe aggiunge una nuova dimensione all'insurrezione e suscita
allarme sui rischi per il Pakistan, che rimane in gran parte un paese feudale. Mahboob Mahmood,
avvocato pakistano-americano ed ex compagno di studi del Presidente Obama, ha detto: ´Il popolo
pakistano è psicologicamente pronto per una rivoluzione`. I militanti sunniti stanno approfittando
delle profonde fratture sociali che covano da lungo tempo in Pakistan. ´I militanti del resto
promettono molto più della proibizione della musica e della scuola,` – dice. ´Promettono anche una
giustizia islamica, un governo efficace e una ridistribuzione economica`.”

Questo ci porta alla mia ultima, SESTA, tesi: quello che dimostrano fenomeni come i talebani è che
la vecchia tesi di Walter Benjamin, per cui “ogni ascesa del Fascismo è testimonianza di una
rivoluzione fallita”, non solo oggi è ancora valida, ma è forse più pertinente che mai. I liberali
amano sottolineare le affinità fra gli “estremismi” di sinistra e di destra: il terrore e i campi di Hitler
imitavano il terrore bolscevico, il partito leninista oggi è vivo in al Qaeda – sì, ma cosa significa
questo? Possiamo anche considerarlo un indice di come il fascismo sostituisca letteralmente (prenda
il posto di) la rivoluzione di sinistra: la sua ascesa è il fallimento della Sinistra, ma allo stesso tempo
è la prova dell’esistenza di un potenziale rivoluzionario, di un’insoddisfazione che la Sinistra non è
stata in grado di mobilitare. La stessa cosa, forse, non vale anche per quello che attualmente viene
definito (da alcuni) Islamofascismo? L’ascesa dell’Islamismo radicale non è esattamente correlativa
alla scomparsa della sinistra secolare nei paesi musulmani? Oggi, che l’Afghanistan viene ritratto
come il maggiore paese islamico fondamentalista, chi ricorda più che 30 anni fa era un paese con
una forte tradizione secolare, addirittura con un potente partito comunista che aveva preso potere
indipendentemente dall’Unione Sovietica? Dov’è sparita questa tradizione secolare? In Europa, la
stessa cosa vale per la Bosnia: negli anni ’70 e ’80 la Bosnia-Erzegovina era (multi)culturalmente la
più interessante e vivace delle repubbliche jugoslave, con una scuola di cinema internazionalmente
riconosciuta e uno stile unico di rock music; nella Bosnia odierna ci sono effettivamente potenti
forze fondamentaliste (come quel gruppo di fondamentalisti musulmani che ha attaccato
brutalmente la gay parade a Sarajevo nel settembre del 2008). Il motivo principale di questa
regressione è la situazione disperata dei bosniaci musulmani nella guerra del 1992-1995, quando
furono praticamente abbandonati dalle forze occidentali per le armi serbe. (E, come ci ha mostrato
Thomas Frank, lo stesso vale per il Kansas, versione nostrana dell’Afghanistan: lo stato che fino
agli anni ’70 era il caposaldo del populismo radicale di sinistra, oggi è il caposaldo del
fondamentalismo cristiano – questo non conferma ancora una volta la tesi di Benjamin, che ogni
fascismo è indice di una rivoluzione fallita?)
Inoltre, è giustificato il termine Islamofascismo proposto (fra gli altri) da Francis Fukuyama e
Bernard Henri-Levy? Ciò che lo rende problematico non è solo la qualificazione religiosa (siamo
così inclini anche a designare il nostro fascismo occidentale come “Cristofascismo”? – Fascismo di
per sé è sufficiente, non necessita di qualificanti), ma la designazione degli attuali stati e movimenti
islamici “fondamentalisti” come “fascisti”. È un dato di fatto che (più o meno apertamente)
l’antisemitismo sia presente in questi stati e movimenti e che ci siano legami storici fra il
nazionalismo arabo e il fascismo e il nazismo europei; tuttavia, l’antisemitismo non gioca nel
fondamentalismo musulmano lo stesso ruolo che gioca nel fascismo europeo, quello dell’intruso
esterno responsabile della disintegrazione della propria società (un tempo) “armoniosa” – c’è una
grande differenza che non può non venire all’occhio. Per i nazisti, i nemici erano gli ebrei in quanto
popolo nomade/senza patria/sradicato che corrompe la comunità in cui vive. Dunque, per loro lo
Stato di Israele è una soluzione (una delle soluzioni, per lo meno) – non c’è da meravigliarsi se,
prima di decidere di uccidere tutti gli ebrei, i nazisti avevano accarezzato l’idea di dare loro una
terra per formare uno stato (dal Madagascar alla stessa Palestina). Per gli arabi “antisionisti” di
oggi, al contrario, è lo stato di Israele a rappresentare il problema: i più radicali invocano
l’annullamento dello Stato di Israele, cioè, il ritorno degli ebrei al loro status di nomadi/senza stato.
Conosciamo tutti la caratterizzazione anticomunista del marxismo come “Islam del XX secolo”, che
secolarizza l’astratto fanatismo dell’Islam. Jean-Pierre Taguieff, storico liberale dell’antisemitismo,
ha invertito questa descrizione: l’Islam sta diventando il “marxismo del XXI secolo”, che prolunga,
dopo il declino del comunismo, il suo violento anticapitalismo. Se consideriamo l’idea di Benjamin
che il fascismo prende il posto di una rivoluzione fallita, l’“essenza razionale” di queste inversioni
può essere facilmente accettata dai marxisti. Tuttavia, sarebbe stato del tutto errato derivare da
questo pericolo la conclusione che la cosa migliore che la sinistra possa fare è sperare che la crisi
sia limitata, e che il capitalismo continui a garantire il livello relativamente alto della vita per il
numero crescente di persone – una strana politica radicale la cui speranza principale è che le
circostanze continuino a renderla inoperante e marginale… Questa sembra la conclusione tratta da
Moishe Postone e alcuni suoi colleghi: dal momento che ogni crisi che apre uno spazio per la
sinistra radicale, dà origine anche all’antisemitismo, per noi è meglio sostenere il successo del
capitalismo e sperare che non ci siano crisi. Portato alla sua conclusione, un tale ragionamento
implica che, alla fin fine, l’anticapitalismo è nella sua sostanza antisemita… È contro questo
ragionamento che bisogna leggere il motto di Badiou “mieux vaut un désastre qu’un desêtre”
[meglio un disastro che una mancanza ad essere]: bisogna assumersi il rischio della fedeltà
all’Evento, anche se l’Evento si risolve in un “oscuro disastro”. L’indicatore migliore della
mancanza di fiducia dell’attuale sinistra in se stessa è la sua paura della crisi – questa sinistra teme
per la propria comoda posizione di critica pienamente integrata nel sistema, pronta a non rischiare
nulla. Ecco perché oggi più che mai è pertinente il vecchio motto di Mao Tse-tung: “Sotto il cielo,
c'è un caos totale: la situazione è eccellente”. Una vera sinistra prende una crisi seriamente, senza
illusioni, come qualcosa di inevitabile, un’opportunità da sfruttare a pieno. L’intuizione
fondamentale della sinistra radicale è che, sebbene le crisi siano dolorose e pericolose, sono
inevitabili, e sono il terreno su cui intraprendere e vincere le battaglie.

Come dobbiamo intendere questo capovolgimento di spinta emancipatoria in populismo


fondamentalista? Nel marxismo autentico, la totalità non è un ideale ma una nozione critica –
collocare un fenomeno nella sua totalità non significa vedere l’armonia nascosta del Tutto, ma
includere in un sistema tutti i suoi “sintomi”, gli antagonismi, le inconsistenze, come sue parti
integranti. Permettetemi un esempio contemporaneo. In questo senso, il liberalismo e il
fondamentalismo formano una “totalità”: l’opposizione di liberalismo e fondamentalismo è
strutturata in modo tale che è lo stesso liberalismo a generare il suo opposto. E che fine fanno i
valori cardine del liberalismo: libertà, uguaglianza, ecc.? Il paradosso è che il liberalismo non è
forte abbastanza per salvaguardarli – cioè, per salvaguardare la sua stessa anima – contro l’attacco
fondamentalista. Perché? Il problema del liberalismo è che non riesce a stare in piedi da solo:
manca qualcosa nell’edificio liberale, il liberalismo è per sua stessa nozione “parassita”, si basa su
una presupposta rete di valori comuni che esso stesso mina col proprio sviluppo. Il
fondamentalismo è una reazione – una reazione falsa, mistificatoria, naturalmente – contro un
difetto reale del liberalismo, ecco perché viene costantemente generato dal liberalismo. Lasciato a
se stesso, il liberalismo si minerebbe lentamente da solo – l’unica cosa che potrebbe salvare la sua
essenza è una sinistra rinnovata. O, per usare i termini ben noti del ’68, affinché sopravviva il suo
retaggio fondamentale, il liberalismo ha bisogno dell’aiuto fraterno della sinistra radicale.

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