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Media e geopolitica
Elena dell’Agnese
Le relazioni fra media e geopolitica sono articolate e plurivalenti. Nei casi più
evidenti, il contenuto dei media rappresenta in se stesso uno strumento di politica: può infatti
venir utilizzato da parte di chi governa per mettere in atto operazioni di propaganda; oppure,
può essere indirizzato, da parte di luoghi di potere diversi da quelli della politica ufficiale,
come per esempio le grandi multinazionali1, per sostituirsi ad essa e modificare il corso degli
eventi. Per questo, alcuni osservatori, per mettere in evidenza la capacità della comunicazione
mediatica “pilotata” di orientare l’attenzione del pubblico e modellare la sua visione della
realtà, parlano addirittura di “fabbrica del consenso”2.
1
In alcuni casi, questi luoghi di potere esterni al “palazzo” sono rappresentati dalle stesse corporation
mediatiche. Come messo in evidenza da Moerly e Robins, infatti, “gli imperi di magnati della comunicazione
come Rupert Murdoch e Silvio Berlusconi sono innegabilmente sede di grande potere: non è davvero
sorprendente che molti osservatori attribuiscano loro il significato di potenze assolute” (1995, p.70, n.t).
2
Secondo Edward Bernays, considerato il padre delle Relazioni Pubbliche, e certamente uno dei massimi teorici
della “propaganda”, l’“ingegneria del consenso” (1947) sarebbe l’essenza stessa della democrazia. L’espressione
Tuttavia, ciò che viene comunicato dai mezzi di comunicazione di massa, in termini
di informazioni e contenuti simbolici, ha un significato politico anche quando non è
esplicitamente manovrato da parte dei centri della politica. L’informazione comunicata
attraverso i media infatti non è mai neutrale. La semplice operazione di raccolta e selezione
delle notizie da trasmettere al pubblico comporta necessariamente, la presenza di un testimone
e dunque privilegia un punto di vista. Gli stessi giornalisti, a loro volta, possono essere
fortemente influenzati dal contesto da cui provengono e da quello in cui si trovano. Ciò è
particolarmente evidente per quanto riguarda l’informazione di natura prettamente
geopolitica. Di fronte all’esigenza di coprire un conflitto, infatti, i costi legati alla necessità di
garantire la sicurezza dei corrispondenti fanno sì che solo i grandi media possano permettersi
di mandare degli inviati e che questi grandi media siano, salvo limitate eccezioni, collocati nel
mondo occidentale. A loro volta, gli inviati, quando si trovano sul luogo delle operazioni
militari, se sono embedded, ossia al seguito dell’esercito 3, assumono un punto di vista assai
diverso da quello degli “indipendenti”, che si muovono sul campo per proprio conto4.
Anche se in modo vistoso, tuttavia, la maggior parte dei servizi “esteri” dipende da
un numero limitato di fonti, che vengono filtrate e rielaborate dalle grandi agenzie di stampa
come per esempio la Reuters5 o la AP6, tutte collocate nel mondo occidentale. Una volta
raccolte, le notizie vengono poi selezionate sulla base di quello che si ritiene essere il loro
valore potenziale e in seguito codificata, attraverso un processo di adattamento che si
definisce newsmaking. Anche il modo di porgere la notizia ha ovviamente un senso, non solo
“fabbrica del consenso” è stata poi ripresa anche da Herman e Chomsky (1988).
3
A partire dal 2003, nel corso della guerra in Iraq, il Pentagono, per superare le critiche giunte in relazione alla
prima Guerra del Golfo e alla invasione dell’Afghanistan, durante le quali i giornalisti erano rimasti
sostanzialmente relegati nelle sale riunioni, ha introdotto la pratica dei giornalisti e dei fotografi embedded, ossia
dei corrispondenti che possono giungere nelle zone teatro delle operazioni militari, purché spostandosi a seguito
dell’esercito. La prassi degli embedded non è del tutto nuova: l’intera trama di Berretti verdi (1968), il celebre
film di propaganda voluto da John Wayne per sostenere la necessità della guerra in Vietnam, è infatti costruita
sul rapporto, inizialmente difficile, fra un gruppo di militari, capeggiato dallo stesso John Wayne e un giornalista
scettico al loro seguito, che deve essere convinto (insieme al pubblico a casa), delle ragioni del conflitto.
4
A parte il rispetto delle regole (che variano, dal richiedere che non vengano svelati segreti militari, all’impedire
di fotografare soldati morti prima che vengano avvisate le loro famiglie), i giornalisti embedded sono
sostanzialmente liberi di inviare notizie e fotografie di loro scelta. E’ stato tuttavia notato che, data la loro
particolare prospettiva, tendenzialmente mandano notizie di fonte militare, o informazioni che riguardano
militari, mentre gli inviati indipendenti tendono a privilegiare informazioni relative alla gente locale, ai danni
alle cose, alle perdite di civili.
5
Fondata a Londra nel 1851 per trasmettere le quotazioni di borsa da Londra a Parigi, la Reuters ha oggi sedi
distaccate in oltre novanta Paesi al mondo e rappresenta una delle principali agenzie di stampa del pianeta. Nel
2008 si è fusa con la Thompson, un altro gigante dell’informazione economico-finanziaria, dando vita alla
Thompson Reuters.
6
AP, Associated Press, è una agenzia di stampa statunitense, fondata nel 1846, e basata a New York. In seguito al
fallimento della rivale americana United Press, nel 1993, è divenuta la principale agenzia americana, mentre a
livello internazionale si divide il mercato con la inglese Reuters e con la francese Agence France Presse.
perché può portare a distorcerla o falsificarla (prassi, in realtà, assai poco diffusa) 7, ma anche,
molto più di frequente, perché la notizia viene “inquadrata” all’interno di una specifica
cornice cognitiva, che ne indirizza l’interpretazione e quindi il significato 8. All’interno di un
frame9 specifico, come quello relativo alla “narrazione del soccorso”, si può raccontare un
evento come una invasione militare facendo riferimento alla “missione” dello Stato invasore
nei confronti dello Stato occupato, piuttosto che riferirsi esplicitamente agli interessi politici o
economici alla base del conflitto.
Attraverso questa serie di passaggi, le informazioni vengono fornite all’opinione
pubblica, che ovviamente ne risulta condizionata, e ai stessi governanti, che ne sono
influenzati a loro volta e che temono anche le reazioni del pubblico a quelle stesse notizie; a
questo proposito, si parla di “effetto CNN” proprio per sottolineare il ruolo del canale
satellitare americano, e dell’influenza da esso esercitata sull’opinione pubblica statunitense,
nell’orientare diverse scelte geopolitiche statunitensi10. Il collegamento tra media e geopolitica
tuttavia non si limita al ruolo svolto dalle informazioni. Anche i prodotti di intrattenimento e
le diverse forme di cultura popolare veicolate dai media, come il cinema, le fiction televisive,
lo sport, hanno un importante significato geopolitico. Tramite la loro carica di contenuti
simbolici, infatti, i media costruiscono gli immaginari condivisi dalle comunità geopolitiche 11,
offrendo loro paesaggi identitari ed eroi di riferimento, una storia in cui riconoscersi, una
“visione geopolitica” in cui identificarsi: si pensi a come, attraverso l’epica del West,
acclamata come momento fondativo della nazione da un oltre un secolo di musica country e di
cinema western, la narrativa identitaria degli Stati Uniti abbia attribuito al personaggio mitico
7
Come sottolinea Ellul (1962), è molto più efficace la propaganda fatta con le notizie vere, che quella, assai
ingenua, messa in atto con notizie fasulle.
8
In termini tecnici, si parla di framing, in riferimento all’operazione di montaggio di una notizia, all’interno di
una cornice cognitiva pre-figurata, capace di suggerire al pubblico una interpretazione specifica della notizia
stessa.
9
Si definisce framing il processo tramite il quale si selezionano e rimarcano alcuni temi ed eventi, stabilendo fra
loro delle interconnessioni che promuovono una spiegazione o interpretazione prestabilita (vedi Castells, 2009).
In sintesi, si può dire che il frame rappresenti la “chiave di lettura” pre-confezionata attraverso la quale viene
presentata la notizia. Per esempio, lo stesso Castells (2009, p. 214) sottolinea come la narrazione delle vicende
belliche irachene sia avvenuta dapprima attraverso il frame delle armi di distruzione di massa e poi, non essendo
state quelle scoperte, attraverso il frame della narrazione del soccorso (secondo il quale, gli Stati Uniti erano in
Iraq per portare la democrazia al popolo oppresso dal tiranno):
10
Si veda in proposito Ó Tuathail, 1996.
11
Se si accetta la definizione, piuttosto ampia, di geopolitica come di un approccio di analisi alle relazioni di
potere fra gruppi umani che si identificano su base territoriale (Foucher, 1991), per “comunità geopolitiche” si
possono intendere le aggregazioni di individui che si riconoscono sulla base di una appartenenza territoriale. Tale
appartenenza può corrispondere a quella dello Stato-nazione, ma collocarsi anche a scale inferiori, come quella
delle comunità indigene, o superiori, come per esempio l’Occidente, comunque lo si voglia definire; o anche
assumere una struttura reticolare e non territoriale, come quella delle diaspore migratorie. Come attori
geopolitici, al di là degli Stati, si intendono le grandi concentrazioni di potere, come le corporation economiche,
ma anche le reti di individui che contro questi poteri si battono, purché accomunati da interessi territoriali (come
per esempio i movimenti no global o i verdi).
del cowboy non solamente il ruolo di icona della mascolinità americana, ma anche un compito
specifico negli scenari internazionali (tanto che, sin dall’epoca di Theodore Roosevelt, si è
parlato di “presidenti cowboy” e, nel caso di George W. Bush, addirittura di “cowboy
diplomacy” )12.
Attraverso i loro contenuti simbolici, e la rappresentazione stereotipata della realtà
che usualmente se ne può trarre, i media aiutano anche a costruire le “geografie immaginarie”
di chi sta fuori dai confini della comunità di appartenenza. L’ “Oriente” si colora così di
“irrazionalità” e “dispotismo”, l’ “Africa Nera” si carica di tensioni ancestrali, l’ “Impero del
Male” si configura come un blocco minaccioso e inquietante, gli “Stati canaglia” si ergono in
una sinistra e tuttavia mutevole costellazione. Si delineano in tal modo anche i confini fra chi
sta “dentro” ad un dato contesto di appartenenza e chi sta “fuori” di esso, ma è “alleato”
(perché appartiene al medesimo spazio geopolitico), oppure è diverso, talora ostile, addirittura
“nemico” (e pertanto può essere privato della solidarietà o, in caso di conflitto, addirittura
ucciso).
Un ulteriore significato “politico” viene poi attribuito da alcuni autori al ruolo dei
media in quanto forma di comunicazione, a prescindere dai contenuti da essi veicolati. Il
semplice fatto di consentire la diffusione simultanea delle stesse informazioni presso un gran
numero di individui crea infatti i presupposti per l’omogeneizzazione culturale e linguistica
degli spazi politici e pertanto favorisce la nascita delle nazioni in quanto “comunità
immaginate”. Grazie ai media, dunque, o comunque anche grazie ai media, il sistema politico
internazionale si impernia oggi, anche se in maniera imperfetta, sugli Stati-nazione, ossia su
quel mosaico di entità politiche che si presumono omogenee al proprio interno, discrete al
proprio esterno, discontinue fra loro e che si spartiscono la superficie abitabile del pianeta.
Insomma, garantendo la circolazione simultanea di contenuti simbolici e di notizie, i
mezzi di comunicazione di massa13 hanno svolto, e svolgono tuttora, un ruolo fondamentale
nella configurazione della carta geopolitica del mondo. Tuttavia, parlando di media, bisogna
ricordarsi di fare riferimento, oltre che ai contenuti da essi veicolati, e al supporto tramite il
quale essi vengono veicolati, anche alle infrastrutture e alle tecnologie che rendono possibile
la “comunicazione di massa”, alla produzione, alla distribuzione, agli assetti proprietari dei
12
Si parla di “cowboy diplomacy”, per definire un atteggiamento spavaldo, mirato più ottenere un risultato
positivo ad ogni costo, anche a dispetto delle regole (dell’Agnese, 2009).
13
L’espressione “comunicazione di massa” viene definita da Thompson (1995, pp. 41-42 ed. it.) come “infelice”
e “fuorviante”; il termine “massa” infatti induce a immaginare un pubblico vasto in termini quantitativi (il che
non si verifica per alcuni prodotti della comunicazione, come le riviste letterarie, il cui pubblico è “circoscritto e
specializzato”), mentre ciò che conta è che il pubblico sia, in linea di principio, costituito “da una pluralità di
destinatari”. Tuttavia, l’espressione è molto corrente e facilmente riconoscibile e dunque ad essa ci atterremo nel
corso di questo scritto.
mezzi di comunicazione, al loro consumo. Nonostante la definizione di media sia piuttosto
banale (il mass medium “è un mezzo di comunicazione attraverso cui è possibile diffondere
un messaggio, secondo le caratteristiche proprie del mezzo, ad una pluralità di indistinti e
diffusi destinatari”14) , quando si parla di media, si può infatti fare riferimento a più fenomeni
ed elementi distinti (Flew, 2008), e ognuno di essi può avere un proprio significato in termini
politici.
Precisamente, circolazione, proprietà, luoghi di produzione delle notizie e dei
contenuti simbolici configurano la geografia politica mondiale, in quanto da un lato
contribuiscono ai processi di globalizzazione in atto, dall’altro favoriscono l’emergere di
complesse relazioni centro-marginali. Infatti, se il processo di concentrazione proprietaria e
l’affermarsi di corporation mediatiche di portata transnazionale hanno indotto molti a
riflettere sull’emergere di un possibile mediascape15 globale, il fatto che i quartieri generali di
queste grandi corporation siano collocati prevalentemente negli Stati Uniti, suggerisce
piuttosto la configurazione di una struttura centro-periferica di scala planetaria.
Ad un livello di penetrazione e di diffusione inferiore, tuttavia, va rilevato come la
distribuzione dei luoghi di produzione di notizie e di prodotti culturali per l’intrattenimento
possa aiutare a delimitare i grandi quadranti geopolitici, almeno per quanto riguarda la cultura
condivisa (per esempio, la diffusione delle serie televisive americane, apparentemente
inarrestabile in Europa, trova ostacoli di vario genere nel resto del mondo e si scontra con le
produzioni televisive egiziane, da un canto, e il cinema bollywoodiano dall’altro). Accanto al
ruolo dei media in termini di geografia politica e di relazioni inter-nazionali, sembra dunque
necessario porre attenzione alla stessa geopolitica dei media, ossia alla loro distribuzione e
collocazione, al processo di concentrazione delle testate, alla nascita di forme globali, o
pseudo-globali, di intrattenimento, e alle forme di potere che ne scaturiscono. Per questo, tra
media e geopolitica intercorrono relazioni assai complesse, che possono essere affrontate da
molti punti di vista e sotto molte angolature.
Prima di affrontare l’esame del rapporto fra comunicazione di massa e geopolitica,
vale la pena soffermarsi anche sul fatto che, sin dai suoi albori, la riflessione geopolitica ha
dedicato una grande importanza al ruolo politico della comunicazione, analizzandone il
significato prima in termini di trasporto (Mahan, 1890; Mackinder, 1904 e 1919; Gilpin, 1860
e 1890), quindi, più recentemente, in termini di capacità di trasmissione di dati (Hugill, 1999).
Agli apporti teorici di questi autori, vanno poi aggiunti quelli degli studiosi che, pur
14
Edizione italiana di Wikipedia.
15
Con il termine mediascape, o, secondo la traduzione italiana, “mediorama”, Arjun Appadurai (1996) descrive
il paesaggio immaginario il sistema di rappresentazioni dell’Altro prodotti dai media.
muovendosi all’interno di altri orizzonti disciplinari (la storia, le scienze politiche, la
sociologia, i cosiddetti Media Studies), hanno riflettuto sul tema della relazione fra
comunicazione e organizzazione politica degli spazi dell’uomo, portando un valido contributo
all’analisi della geografia politica degli Stati nazionali e delle reti diasporiche.
Oggi, l’apporto teorico più stimolante per analizzare il significato geopolitico dei
media è tuttavia quello della cosiddetta “geopolitica critica” (Ó Tuathail, 1996). Questo
approccio di ricerca, emerso nel mondo anglosassone a metà degli anni Novanta del secolo
scorso, si pone in contrapposizione alla geopolitica classica, cui muove l’accusa di essere al
servizio del potere, e assume come obbiettivo primario semplicemente quello di “capire” il
“discorso geopolitico”, ossia il sistema di interpretazioni utilizzate per dare un senso
geopolitico al mondo. Questa operazione di “comprensione” prevede innanzitutto la
decostruzione delle interpretazioni che di volta in volta vengono date-per-scontate 16, come per
esempio quella che porta a considerare “naturale” la discriminazione su base razziale (perché
è la “natura” che stabilisce la superiorità di una razza sull’altra), oppure definisce come
necessario un intervento “umanitario”, sulla base della “responsabilità” di un gruppo umano
che ritiene di essere superiore agli altri e dunque di avere una missione nei loro confronti
(Agnew, 1998). quindi, si impegna ad individuare come questo discorso venga articolato
attraverso le diverse modalità di trasmissione delle conoscenze geografiche17. Nello specifico,
la geopolitica critica considera veicoli rilevanti per la costruzione del discorso geopolitico
tanto le comunicazioni ufficiali della politica (che costituiscono la cosiddetta “geopolitica
pratica”), quanto gli atlanti geografici, i libri di testo e tutte le interpretazioni teoriche offerte
dall’analisi geografica e dalla riflessione geopolitica (la “geopolitica formale”), quanto il
cinema, la televisione, i cartoni animati e, ovviamente, le notizie diffuse dai mass media (la
“geopolitica popolare”).
La geopolitica, nata come “nuova scienza speculativa” (Heffernan, 2000) tra la fine
dell’Ottocento e i primi del Novecento, ha dedicato le sue prime riflessioni al rapporto fra
comunicazione e controllo politico dello spazio. Proprio in quegli anni, infatti, sia Alfred T.
16
In letteratura, l’espressione ricorrente è taken-for-granted-world.
17
Secondo i teorici della “geopolitica critica”, come per esempio Ơ Tuathail (1996), la geografia non è solo una
descrizione del mondo, ma una pratica di costruzione del mondo (un “geogra-fare”), perché gli individui
agiscono nel mondo sulla base di ciò che del mondo sanno attraverso le diverse forme di geografia.
Mahan e Halford J. Mackinder, oggi considerati unanimemente come i fondatori della
dottrina, sia il meno noto, ma altrettanto innovativo William Gilpin, elaborarono riflessioni
sull’articolazione politica del mondo in cui i trasporti giocavano un ruolo fondamentale.
Mahan e Mackinder, tuttavia, si occuparono prevalentemente della comunicazione in
quanto fattore capace di garantire il controllo militare del territorio. Entrambi evidenziarono,
nello specifico, come fosse possibile operare una distinzione, in relazione alla organizzazione
del sistema di trasporti, fra “potenze di terra”, intendendo con tale espressione i blocchi
continentali caratterizzati da un buon livello di interconnessione interna e dunque di controllo
politico del territorio, e “potenze di mare”, ossia gli Stati e gli imperi capaci di esercitare il
proprio dominio sugli spazi della navigazione oceanica. In particolare, Mahan, ammiraglio
della Marina statunitense, nel 189018 sottolineò il ruolo strategico della “politica navale
insulare”, capace di garantire il controllo sui punti nodali della navigazione marittima, in
un’epoca storica in cui la navigazione rappresentava il mezzo di trasporto più efficiente a
livello globale.
Mackinder, invece, geografo di professione, ma anche esploratore, rettore della
London School of Economics e convinto sostenitore dell’importanza della diffusione della
conoscenza geografica, riteneva, 15 anni più tardi19, che l’epoca del sea-power fosse giunta al
tramonto e che i trasporti marittimi fossero destinati ad essere sopravanzati, per importanza,
da quelli terrestri. Secondo Mackinder, dopo un lungo periodo storico dominato dalla
navigazione, la ferrovia era divenuta all’inizio del Novecento il mezzo di trasporto
principale20 e, per questo motivo, le zone meno accessibili dai mari erano destinate ad
assumere un grande rilievo geopolitico, o addirittura a divenire “il perno geografico della
storia”. In particolare, il controllo sull’area centrale dell’Eurasia, ritenuta inattaccabile,
sembrava poter garantire il controllo anche sulle fasce periferiche esterne ad essa (in una
successiva rielaborazione del modello, proposta nel 1919, la stessa area era definita come
18
Oltre che per i suoi trattati, dei quali il più illustre e citato è ancora oggi The Influence of Seapower Upon
History, 1660-1783 (1890), Mahan è tuttora ricordato dagli storici per il ruolo giocato a fianco di Theodore
Roosevelt nel propugnare la necessità di espandere il grado di sea-power degli Stati Uniti, rinforzando non solo
la loro capacità di controllo dei mari, tramite le forze di navigazione e la strategia militare, ma anche la loro
presenza al di fuori dell’emisfero occidentale.
19
Il testo della conferenza, The Geographical Pivot of History, venne poi pubblicato in “The Geographical
Journal”, Vol. XXIII, n. 4, aprile 1904, pp.421-444; una traduzione italiana, intitolata Il perno geografico della
storia, si trova in “I castelli di Yale. Quaderni di filosofia”, n. 1, 1996, pp.129-162
(http://www.unife.it/stdoc/mackinder.pdf).
20
“Una generazione fa, sembrò che il vapore e il Canale di Suez avessero aumentato la mobilità della potenza
marittima rispetto a quella terrestre. Le ferrovie fungevano principalmente da raccordo per il commercio
oceanico. Ora, però, le strade ferrate transcontinentali stanno mutando le condizioni della potenza terrestre, e in
nessun luogo potranno avere effetti maggiori di quelli che avranno nel chiuso cuore della terra eurasiatica, in
vaste regioni del quale non erano disponibili né il legname né la pietra per la costruzione di strade…”
(Mackinder, 1904, p. 145. ed. it.).
Heartland e la teoria sintetizzata nel dictum “Chi governa l’Europa centrale comanda
l’Heartland, chi controlla l’Heartland comanda l’Isola-mondo, chi controlla l’Isola-mondo
comanda il mondo”)21.
Il ruolo delle reti di trasporto, tuttavia, non è solo quello di muovere eserciti o
portare ordini. Al contrario, le comunicazioni consentono anche la diffusione e lo scambio di
idee, il confronto su temi comuni, la possibilità di sviluppare un sentire che avvicina. Il merito
di aver sottolineato per la prima volta in termini geopolitici il significato delle comunicazioni
in tal senso spetta a William Gilpin, un autore nordamericano assai meno celebre dei
precedenti, che tuttavia, per l’originalità del modello proposto, è stato definito da Bernard
DeVoto (1944, p. 313) come “il primo geopolitico americano, anzi forse come il primo
geopolitico in assoluto” (dell’Agnese, 2005). Esploratore, militare, giornalista, politico (ma
anche studioso di geografia e ottimo conoscitore dell’opera di Alexander von Humboldt)
(Smith, 1950), Gilpin ebbe un ruolo attivo nel propugnare lo sviluppo delle comunicazioni
transcontinentali nel Nord America, impegnandosi dapprima per l’istituzione di un servizio
postale che mettesse in comunicazione la costa pacifica con il resto degli Stati Uniti (il Pony
Express), quindi per la realizzazione di una linea ferroviaria intercontinentale, in seguito
anche di un sistema urbano centrale, da lui definito Centropolis, che avrebbe dovuto
imperniarsi su Kansas City e Denver (Glaab, 1962). Anche se non era il solo a propugnare lo
sviluppo di un sistema ferroviario che mettesse in connessione le due coste del continente,
Gilpin fu certamente il primo a sostenere le proprie idee sulla base di riflessioni di carattere
geografico, come la posizione degli Stati Uniti a metà strada fra la Cina e l’Europa, la
condizione climatica situata favorevolmente in quello che von Humboldt definiva come “asse
isotermico” delle zone temperate, la configurazione “concava” del continente. Ciò lo
condusse ad elaborare un modello globale in cui l’America settentrionale si profilava come il
nuovo nodo di collegamento fra l’Europa e l’Asia e, grazie allo sviluppo dei rapporti
commerciali e dei possibili scambi culturali con queste due regioni, era destinata a divenire
21
Il modello di Mackinder comportava come implicazione diretta la necessità, per la Gran Bretagna, di prevenire
l’alleanza tra la Russia e la Germania, alleanza da cui sarebbe potuta scaturire la creazione di uno Stato-perno in
grado di impadronirsi dello Heartland. Per questo ebbe, nel corso di tutto il secolo Ventesimo, una importanza
straordinaria (ai trattati di pace di Versailles nel 1919, il celebre geografo britannico riuscì ad indurre i
negoziatori a creare una serie di Stati-cuscinetto atti a dividere la Germania dalla Russia; in seguito, le sue idee
vennero riprese da Karl Haushofer e dalla Geopolitik tedesca. divennero note negli Stati Uniti, dove vennero
ripescate nel corso della Seconda guerra mondiale e dove riecheggiano ancora oggi, almeno per quanto riguarda
la politica in Asia Centrale. Per questo, anche se oggi è quasi sconosciuto al di fuori degli studi di geopolitica, “le
sue idee dominano ancora il pensiero globale” (Tristam Hunt su The Times, 17 settembre 2009). Rispolverata,
anche se in modo non totalmente appropriato, da un intellettuale aggressivo come Robert Kaplan (“La rivincita
della geografia”, Foreign Affairs, maggio 2009), la teoria dell’Heartland viene utilizzata per spiegare le ragioni
delle attuali operazioni militari americane in Asia centrale anche in W., il film biografico dedicato a George W.
Bush (Oliver Stone, 2008).
“l’imperitura padrona del mondo” (The Central Gold Region of North America, 1860). Questa
idea venne ribadita in un’opera successiva (The Cosmopolitan Railway: Compacting and
Fusing Together All the World’s Continents, 1890), ancora più interessante dal punto di vista
della riflessione sulle relazioni fra geopolitica e comunicazione. In questo caso, infatti, Gilpin
avanzava l’ipotesi della realizzazione di una rete ferroviaria capace di mettere in contatto gli
uomini di tutti i continenti, tramite la quale si sarebbe progressivamente ottenuta
l’unificazione culturale del pianeta. In questo modo, prefigurava la messa in atto di un sistema
di comunicazioni globale capace di unificare lo spazio politico planetario sotto l’egida di una
unica visione politica, che si sarebbe imposta grazie alla sua superiorità, su tutte le altre: la
democrazia americana22. Pertanto, a differenza di altre “utopie planetarie”, come quelle
avanzate da filosofi come l’Abbé de Saint-Pierre o Claude-Henry de Saint-Simon 23 o dal
geografo russo Pëtr Kropotkin (Mattelart, 2000), la visione di Gilpin non si limitava a
prevedere il superamento delle differenze fra gli uomini grazie all’avvento di un sistema di
connessione globale; ma ipotizzava, grazie alle comunicazioni, l’affermazione di una
specifica idea politica a livello planetario (la democrazia americana) e la conseguente ascesa
degli Stati Uniti a livello di potenza globale, qualificandosi in tal modo come una vera e
propria visione geopolitica (anche se basata sulla conquista “egemonica” dello spazio,
piuttosto che sul suo controllo militare).
24
Per questo motivo, egli ritiene che l’estensione dello spazio soggetto ad un unico potere centrale, in epoca
romana, sia stata resa possibile dalla apertura di quelle che lui stesso definisce le “strade di carta”, ossia dalla
possibilità di inviare messaggi scritti sulla carta, che potevano essere trasmessi da centro sino ai luoghi più
distanti e periferici dell’impero (e “squarciavano l’opacità dei villaggi tribali”, riducendone la discontinuità). Le
grandi dimensioni dell’unità imperiale sarebbero poi di fatto state frantumate in epoca medioevale, quando il
venire meno della carta su cui scrivere lasciò “le strade vuote come oggi nei periodi di razionamento della
benzina”.
avrebbe permesso ad un numero sempre maggiore di persone di condividere, o di immaginare
di condividere, eventi che li coinvolgevano in quanto “comunità”. Tramite la stampa, i lettori
avrebbero così imparato a riconoscersi come membri di una comunità “nazionale”, ossia di
una collettività “finita”, posta all’interno di confini, di là dei quali si situano altre “comunità”
di analoga natura. Per questo, la nazione viene definita da Anderson come una “comunità
immaginata”, ossia come una comunità i cui membri immaginano di essere in contatto e di
conoscersi in qualche modo l’un l’altro, senza che però ciò sia mai effettivamente possibile.
Se il semplice fatto di poter condividere delle idee tramite la comunicazione può
costituire uno strumento per la costruzione di uno spazio politico, ciò non significa che questo
spazio debba necessariamente essere limitato dai confini territoriali dello Stato. Come
sottolinea lo stesso Anderson proprio nell’ultima pagina del suo celebre studio sulle Comunità
immaginate (1991), se la comunicazione a stampa a suo tempo ha favorito l’affermazione
delle comunità nazionali, oggi i mezzi di comunicazione elettronici possono permettere il
nascere di nuove forme di nazionalismo “a lunga distanza” e dunque di nuovi spazi politici,
capaci di andare al di fuori dei limiti dello Stato-nazione. Un esempio di spazio politico
reticolare, tenuto insieme dalla comunicazione, è rappresentato dalle reti dei migranti; quando
la comunicazione transoceanica era lenta e costosa, infatti, le comunità degli emigrati
rallentavano progressivamente i rapporti con la terra d’origine, sino a perdere ogni relazione
con la cultura d’origine e con la famiglia. La facilità di comunicare resa possibile dalla
diffusione dei mezzi elettronici consente oggi, invece, di mantenere rapporti diretti con la
famiglia d’origine e indiretti con la cultura d’origine, anche quando ci si trova all’altro capo
del mondo. In tal modo, si formano delle reti fra individui che, pur essendo molto lontani
dalla patria, e in alcuni casi non avendola addirittura mai vista o conosciuta direttamente, si
identificano con la sua cultura e con la nazione, alimentando nei suoi confronti un intenso
rapporto di affiliazione politica (il che può talora comportare ricadute geopolitiche non
indifferenti: basti pensare al ruolo economico della diaspora croata durante il conflitto della
ex-Iugoslavia, a supporto degli indipendentisti di Franjo Tudjman).
26
Ovviamente, l’intensità della connessione fra religione e qualità dei contenuti mediatici dipende da livello di
secolarizzazione della società di riferimento. Nel periodo del monopolio Rai, e in particolare negli anni della
direzione di Ettore Bernabei (1961-1974), di dichiarata fede democristiana, alla televisione italiana veniva
attribuita una chiara finalità pedagogica; pertanto, ciò che aveva rilievo non era tanto la trama, o il contesto, di
ciò che era mandato in onda, ma la sua capacità di trasmettere valori condivisi, di infondere modelli di
comportamento capaci di fungere da esempio per tutti. La morale di riferimento era ovviamente quella cattolica e
dunque il linguaggio era castigato, le scene d’amore ridotte al minimo, il sesso assente. Oggi, una relazione
molto stretta fra precetti religiosi e caratteristiche del prodotto televisivo si riscontra in alcuni contesti islamici,
come per esempio l’Egitto, dove la fiction può rappresentare come marito e moglie solamente attori
effettivamente sposati fra loro.
27
Anche se per motivi diversi, hanno un significato nazionale anche trasmissioni come “il festival della canzone
italiana”, o un gioco a premi come I fatti vostri, dove i concorrenti sono scelti in rappresentanza delle Regioni
italiane.
Stato-nazione, bisogna tuttavia ricordare come gli stessi mezzi di comunicazione siano capaci
di oltrepassare quei confini. Un genere cinematografico come il western per esempio, anche
se porta avanti una narrativa nazionale specifica (quella degli Stati Uniti), ha riscosso un
grandissimo successo anche all’estero, imponendo quella narrativa a pubblici diversi. La
reazione del pubblico, in quanto comunità interpretativa, è ovviamente diversa a seconda del
contesto e del momento storico. Avviene così che talora si verifichi una assunzione quasi
totalmente passiva di modelli altrui, mentre in altri casi il pubblico adatta quei modelli al
proprio contesto, rielaborandoli attraverso un meccanismo di ibridazione e di rilettura critica
(tanto che gli “spaghetti western” hanno messo in atto un discorso anti-egemonico capace,
grazie ad autori come Sam Peckimpah o Clint Eastwood, di modificare a sua volta il western
americano). Il cinema e la televisione, pertanto, non sono solo un veicolo della narrazione
simbolica della nazione , ma anche un agente della comunicazione trans-nazionale, capace di
innescare alle volte meccanismi di perifericizzazione culturale, in altre circostanze processi di
domesticazione dei contenuti e di re-interpretazione a livello locale dei contenuti.
Anche per quanto riguarda la televisione, che pure è stata a lungo considerata una
questione essenzialmente nazionale (non solo perché la produzione era spesso soggetta ad un
monopolio pubblico, ma anche e soprattutto perché programmazione e audience erano
pensati, e gestiti, in relazione alla scala nazionale), non vi è sempre una stretta coincidenza fra
emittenza e territorio nazionale. Già negli anni Cinquanta, infatti, in molti paesi europei, ai
programmi di produzione locale venivano inframmezzati prodotti di importazione (i cosiddetti
canned program americani) o imitazioni di prodotti stranieri. Questo processo di
internazionalizzazione del mezzo è oggi ancora più evidente. Grazie ai canali satellitari, che
portano i segnali televisivi ovunque nel mondo, e al fatto che i format vengono replicati a
scala planetaria, creando di fatto una relazione centro-marginale fra i luoghi di produzione e le
regioni dove questa televisione viene solamente recepita (o al massimo riadattata), si parla
infatti di “televisione globale”. Tuttavia, anche nel caso della televisione “globale”, il
pubblico (anzi, i diversi tipi di pubblico presenti nel mondo) non si pone solo come un
recettore passivo, ma al contrario seleziona ciò che gli interessa, riadattandolo alle proprie
necessità.
Per questo, tanto il cinema quanto la televisione rappresentano un perfetto veicolo
anche per la costruzione di quelle comunità nazionali diasporiche cui si è fatto cenno in
precedenza. La facile riproducibilità di supporti quali le videocassette prima e i DVD poi, la
diffusione di impianti satellitari e, soprattutto, la possibilità di accedere tramite Internet a
prodotti culturali e a contenuti informativi consentono infatti di selezionare, anche quando ci
si trova lontanissimi, i programmi “di casa”. Proprio l’opportunità di replicare, quasi
all’infinito, i contenuti simbolici di una cultura di massa che richiama specificatamente quella
della “nazione” d’origine costituisce in tal modo uno dei principali collanti di comunità di
emigranti, come per esempio quella rappresentata dagli indiani fuori dell’India 28, quella dei
discendenti degli armeni fuggiti al genocidio turco, o anche quella degli italiani di terza o
quarta generazione, residenti negli Stati Uniti o in Australia. Tramite il “nazionalismo a
distanza”, in tal modo, i media elettronici favoriscono la nascita di comunità geopolitiche di
forma nuova, a struttura reticolare piuttosto che territoriale, che tuttavia mantengono una
connessione con territori e con le nazioni d’origine.
36
Per lo straordinario successo di alcune sue campagne, come quella lanciata nel 1929 per conto della American
Tobacco Company al fine di convincere le donne americane a fumare (perché le sigarette, definite da Bernays
“torches of freedom”, dovevano essere considerate come simboli di emancipazione), o quella mirata ad indurre
gli americani a consumare più uova e soprattutto più pancetta, per la quale vennero scritturati migliaia di medici,
indotti a consigliare una robusta colazione mattutina, Bernays è stato definito uno dei personaggi più influenti,
anche se non necessariamente più noti, del suo secolo. Alla sua figura, e al suo ruolo nella manipolazione
dell’opinione pubblica e dei consumatori, la BBC ha dedicato un documentario in quattro puntate, intitolato The
Century of the Self, dir. Adam Curtis, 2002.
37
Si usa definire come spin doctor un addetto alla comunicazione vicino a personalità di governo, il cui compito
consiste nel mettere in una luce favorevole, la sua figura, le sue azioni e le sue decisioni. Il più celebre spin
doctor contemporaneo è Alistair Campbell, che lavorò con Blair ai tempi della guerra in Iraq, collaborando alla
stesura del cosiddetto Dossier Iraq, in cui veniva corroborata la tesi relativa alla presenza di armi di distruzione
di massa in Iraq.
della propaganda nazista. Anche alcune delle sue attività per il settore privato ebbero ricadute
importanti in termini di relazioni inter-nazionali. Anzi, da questo punto di vista proprio il
ruolo di PR che egli assunse a fianco di grandi compagnie multinazionali dimostra come la
geopolitica non sia solamente il risultato dell’azione degli Stati, ma possa essere il risultato
dei giochi messi in atto anche da attori di diversa natura, come per esempio le grandi
compagnie multinazionali. Nello specifico, si può ricordare il ruolo decisivo di giganti
statunitensi della produzione agroalimentare, come la United Fruit Company (oggi Chiquita)
o la Standard Fruit Company (oggi Dole), nei confronti della gestione politica di Stati come il
Guatemala, l’Honduras, El Salvador, il Nicaragua (i quali, proprio per la scarsa solidità delle
istituzioni politiche interne e per la loro dipendenza dagli interessi delle multinazionali della
frutta, già all’inizio del Novecento avevano meritato la definizione di banana republic).
La United Fruit Co., in particolare, fondata a fine Ottocento a Boston e
impadronitasi in pochi decenni della maggioranza delle terre coltivabili del Guatemala, di
ampi latifondi in Colombia e di gran parte delle superficie agricole dei Caraibi, non si
limitava ad esercitare un ruolo di asservimento nei confronti dei governanti locali, cui
chiedeva di non porre alcun ostacolo allo sfruttamento quasi schiavistico della manodopera e
alla gestione diretta della proprietà terriera, ma era giunta a realizzare un imponente sistema di
infrastrutture trans-regionali (porti, strade, la più grande flotta privata del mondo),
prevalentemente destinato al trasporto delle banane. La compagnia tradizionalmente poteva
contare sulla collaborazione di governi locali autoritari, che soffocavano le manifestazioni
sindacali o qualsiasi altra forma di disordine sociale, anche se già in precedenza non erano
mancati gli episodi drammatici, come lo sciopero del 1928 in Colombia, domato in seguito
all’intervento dell’esercito colombiano e conclusosi con il cosiddetto “massacro delle
banane”.
La crisi peggiore, tuttavia, si aprì nel 1954 in Guatemala, in seguito all’elezione
democratica di Jacobo Arbenz Guzmán. Il nuovo Presidente aveva infatti avviato una riforma
agraria a favore dei contadini senza terra, che metteva a rischio il controllo fondiario della
compagnia e dunque minacciava di destabilizzare la sua capacità di controllo politico ed
economico sulla regione. Per riprendere il controllo della situazione, la compagnia assoldò
allora Edward Bernays, con il compito di discreditare il Presidente Arbenz. Dato il clima
politico dell’epoca, imbevuto di maccartismo, che vedeva gli Stati Uniti duramente impegnati
sul fronte della “guerra fredda”, Bernays decise di giocare la carta dell’anti-comunismo
(anche se Arbenz non era affatto comunista e neppure aveva connessioni con l’Unione
Sovietica)38. A tal fine, organizzò un viaggio in Guatemala per alcuni dei maggiori giornalisti
americani, li indusse a parlare con alcuni politici locali (preventivamente selezionati), che
affermarono di essere a conoscenza di legami fra Arbenz e Mosca, giunse infine ad
organizzare una violenta manifestazione anti-americana nel periodo della visita. Ne conseguì
una campagna mediatica di grande rilievo, che portò quotidiani e periodici come il New York
Times, il New York Herald Tribune, l’Atlantic Monthly, il Time e Newsweek a discutere della
crescente e minacciosa influenza del comunismo in Guatemala, sino a quando un colpo di
stato, organizzato dalla CIA, rovesciò Arbenz, per sostituirlo con un uomo gradito alla
corporation statunitense.
8.8 Framing delle notizie e geopolitica popolare nel caso della guerra in Iraq
esecrati, in anni relativamente recenti è stata ampiamente usata per screditare capi di stato “scomodi”, come il
serbo Milosević o l’iracheno Saddam. La “vaguezza intenzionale”, che mette in modo le emozioni del pubblico,
senza offrire un supporto di ragionevolezza o applicabilità, viene applicata quando si fa uso di espressioni
generiche come “lotta al terrorismo”, o “impero del male”; mentre il ricorso a “glittering generalisation”, come
“speranza”, “patriottismo”, “libertà”, favorisce la costruzione di un’immagine positiva in relazione ad una
determinata azione politica. Infine, il ricorso a “testimonial”, ossia di personaggi che con la loro parola facciano
da “testimoni” della bontà di una scelta, aiuta a dar credito ad una specifica posizione.
ha ripreso il tema dell’autodifesa, sottolineando il legame fra il regime di Saddam e la rete
terroristica di al-Qaida (Castells, 2009). Ad una simile operazione di selezione delle notizie si
è accompagnata una particolare visualizzazione delle immagini, tesa a creare una sensazione
di “distanza” fra l’osservatore e gli avvenimenti (De Angelis, 2007; Oliva, 2008).
Ovviamente, queste dinamiche non sono necessariamente elaborate a tavolino da
gruppi di strateghi della comunicazione asserviti al potere; talora sono semplicemente il
risultato di prassi giornalistiche, o di forme di cultura popolare che veicolano il “discorso
geopolitico” dominante in quel dato momento storico. Anche per quanto riguarda il “discorso
geopolitico” veicolato dalla cultura popolare, la vicenda dell’Iraq ha subito un inquadramento
analogo a quello offerto dai media di informazione.
Il film Three Kings (David O. Russell, 1999), per esempio, racconta di un gruppo di
marine che, durante la prima guerra del Golfo, trovano le carte del tesoro di Saddam. Mentre
cercano l’oro trafugato in Kuwait, tuttavia, i quattro militari si imbattono in alcune prigioni
sotterranee, dove vengono torturati gli oppositori del regime. Sono pertanto costretti a
confrontarsi con le sofferenze del popolo iracheno e, dato l’animo nobile che li
contraddistingue (in quanto americani), non possono che rinunciare alla ricchezza, per
mettersi a fianco del popolo oppresso. In questo modo, il film mette in agenda il motivo
venale che spesso muove gli interessi americani (l’oro del Kuwait), ma nel contempo riprende
il frame della “narrazione del soccorso”, riprendendo nella trama lo schema tipico dei western
“messicani” girati durante la guerra in Vietnam 41. Inoltre, contesta come “incompiuta”
l’operazione irachena del 1991 e accusa George Bush senior di essersi disinteressato delle
ingiustizie subite da quel popolo, lasciando al governo un tiranno crudele come Saddam.
Altri film statunitensi usciti nel primo decennio del 2000 fanno riferimento, in modo
più o meno diretto, alle vicende belliche in cui nello stesso periodo risulta impegnato
l’esercito americano, mettendole in relazione con la mitologia del West e con l’epica del
cowboy. E’ il caso di Hidalgo. Oceano di fuoco, un film per ragazzi del 2004 che, con la scusa
di raccontare agli adolescenti42, la storia di una corsa di resistenza vinta da un cowboy
americano e dal suo mustang attraverso il deserto arabo, nomina quattro volte l’Iraq e nel
41
La struttura della trama è analoga a quella de Il mucchio selvaggio di Peckimpah, del 1969, e di molti altri
western ambientati al di là del confine messicano, negli anni della guerra in Vietnam. Il fatto non è casuale: i
cosiddetti western South-of-the-border, prodotti durante gli anni della guerra in Vietnam, avevano infatti il
compito di mostrare al pubblico come gli americani, anche se apparentemente si muovevano per interesse diretto
o per denaro (come appunto i protagonisti di Il mucchio selvaggio, o anche I magnifici sette), quando si
trovavano di fronte ad un popolo sofferente e tartassato da iniqui poteri locali, come quello messicano, non
potevano che intervenire a favore dei deboli e, data la loro schiacciante superiorità militare, aiutarli a sconfiggere
il cattivo.
42
All’uscita sugli schermi negli Stati Uniti, il film venne pubblicizzato dalla Disney come “una storia vera”. La
cosa è poi stata successivamente smentita.
frattempo dimostra come nel mondo arabo ci siano i cattivi e i buoni e come i cowboy
americani possano schierarsi contro gli uni per soccorrere gli altri (ovviamente, uscendone
vincitori). Anche se in modo meno immediatamente riconoscibile, alla stessa narrativa
nazionale si rifà anche un film ambientato nell’Iraq contemporaneo come The Hurt Locker
(Kathryn Bigelow, 2008), in cui il protagonista, capo di un gruppo di artificieri dell’esercito
americano, si mostra spavaldo, restio al rispetto delle regole e sprezzante del pericolo, tanto
da essere definito, in modo elogiativo, come un wild man (in perfetta linea con la tradizione
della cowboy diplomacy americana).
8.9 Verso una geopolitica dei media? Fra “imperialismo culturale” e negoziazione dei
significati
43
Le prima gazzette erano stampate a Venezia, Genova, Milano già nel Diciassettesimo secolo. Hibberd (2008, p.
16) sottolinea, a questo proposito, come la penisola italiana sia stata “a lungo all’avanguardia” per quanto
riguarda l’innovazione nel sistema mediatico, ricordando come già in epoca romana le notizie cittadine relative a
campagne militari, politica locale e scandali (!) fossero diffuse dagli acta, fogli scritti a mano e distribuiti
attraverso tutto l’Impero. Alla tradizione degli acta si connette probabilmente l’invenzione delle gazzette
veneziane, che inizialmente erano anch’esse compilate a mano e distribuite con frequenza per lo più settimanale.
La trasformazione del settore vide, in meno di un secolo, Milano conquistare un primato nazionale che non
avrebbe più perduto: già a fine Settecento, infatti, si stampavano in città circa 40 giornali di varia natura
(rispettivamente 10 a Venezia, Roma, Napoli). Tuttavia, nonostante queste favorevoli premesse, la situazione
politica locale non favorì la nascita di grandi agenzie giornalistiche.
44
Rispettivamente, si affermarono in quel periodo la Havas, poi France Press, in Francia, la Wolff in Germania,
la Reuters in Gran Bretagna (oggi Thompson-Reuters). Poco più tardi, nacquero negli Stati Uniti anche la
Associated Press e la United Press Associations (UPA, poi United Press International, UPI). Proprio per meglio
coprire i mercati internazionali delle notizie, dopo parecchi anni di rivalità, le tre agenzie europee raggiunsero
nel 1869 un accordo, tramite il quale si spartirono il mercato mondiale, dividendosi il monopolio globale
dell’informazione. In questo modo, la Reuters controllava sia l’Impero britannico e le sue colonie, sia l’Olanda e
le sue colonie,; alla Havas spettava il controllo di buona parte dell’Europa occidentale, del Medio oriente e
dell’America Latina, mentre la Wolff ottenne la concessione relativa all’Europa centrale. Dalla spartizione messa
in atto dal triunvirato europeo rimanevano fuori gli Stati Uniti, dove operavano le grandi agenzie locali.
45
Questo processo di centralizzazione dell’informazione tocca tutti gli aspetti della produzione mediatica; le
grandi agenzie giornalistiche distribuiscono anche immagini, coprendo circa l’80% delle fotografie della stampa
d’informazione mondiale (Pogliano, 2009).
46
Avviene così che alcuni conflitti ricevano una attenzione enorme, giungendo a commuovere l’opinione
pubblica internazionale, ad attivare strategie di aiuti e di solidarietà, addirittura ad innescare forme di militanza.
Altri invece, pur altrettanto drammatici, ma privi di interesse per il mondo occidentale, rimangono
sostanzialmente ignorati dai media (come è avvenuto per il conflitto di Aceh, a Sumatra, divenuto noto al
pubblico internazionale solamente dopo la vicenda dello tsunami del 2004).
generano più notizie estere perché hanno più giornalisti. Gli eventi nelle periferie del mondo
sono spesso riflessi attraverso le lenti dei centri del mondo. Pertanto, le prospettive di una
gran massa della popolazione mondiale sono sotto rappresentate dalle notizie globali, mentre
quelle di una élite relativamente piccola sono sovra-rappresentate” (1998, p. 143, n.t.).
Anche dal punto di vista degli assetti proprietari, è innegabile che negli ultimi
decenni del Novecento si sia verificata una ulteriore intensificazione della posizione di forza
di alcune grandi corporation, oggi tutte basate negli Stati Uniti 47. Tuttavia, il paventato
avvento di un unico mediascape planetario non si è ancora verificato. Per quanto riguarda la
televisione, per esempio, la word television ha mostrato sinora di saper mantenere una
struttura fortemente articolata su base locale. Molte politiche di regolazione del broadcasting
sono infatti ancora formulate a livello di Stato-nazione e le stesse audience internazionali
continuano a preferire programmi capaci di adeguarsi al loro contesto, piuttosto che
trasmissioni raffiguranti un mondo totalmente differente e alieno dal proprio; inoltre, anche
quando i programmi sono uguali, i pubblici rimangono fra loro assai differenti. Le differenti
modalità di ricezione dimostrate dalle diverse “comunità interpretative” nei confronti dello
stesso prodotto dimostrano in effetti che “dobbiamo collocare il discorso sull’imperialismo
culturale (Schiller, 1969) nel contesto delle ricerche sull’audience …[in quanto] i pubblici
televisivi sono produttori ‘attivi’ di significato e non accettano semplicemente in modo
acritico i testi che vengono loro sottoposti” (Barker, 2005, p. 505, n.t.).
47
Nel 1989, per esempio, si unirono Time e la Warner, creando quello che allora era il più grande gruppo di
produzione mediatica del mondo, la Time Warner, poi acquisita dalla Turner Broadcasting (CNN), e
successivamente fusasi con America Online. In seguito, la rete satellitare asiatica Star TV veniva acquisita
dall’australiano Rupert Murdoch, proprietario di News Corporation, forse il gruppo di produzione mediatica più
potente al mondo, che al momento attuale controlla la 20th Century Fox, il sistema satellitare di Sky (presente
anche in Italia), la Times Newspapers Ltd. e il Wall Street Journal, vari altri giornali britannici e statunitensi e
persino il social network MySpace (Flew, 2008).
ancora verificato. Anzi, sia in ambito cinematografico sia per quanto riguarda il mercato
televisivo, il mercato mondiale appare articolato dalla presenza di molti centri di produzione
che, se pur non raggiungono una copertura planetaria, certamente hanno una grandissima
penetrazione a livello sovra-regionale.
In relazione al cinema, per esempio, il maggior centro di produzione mondiale è
costituito non da Hollywood, ma da Bollywood (ossia dai grandi studios di Mumbai, India),
dove si calcola venga prodotto oltre un migliaio di pellicole ogni anno. Oltre ad essere
straordinariamente prolifica, la cinematografia hindi riscuote un grande successo anche al di
fuori dei confini nazionali. Ai milioni di spettatori indiani si devono infatti sommare quelli
pakistani (raggiunti, nonostante il bando che per anni ha limitato l’ingresso dei film di
Bollywood nel loro Paese, da una grande quantità di copie illegali su supporto digitale), gli
abitanti del Bangladesh e i numerosissimi membri della diaspora indiana nel mondo (i quali
costituiscono una quota di pubblico tanto cospicua da meritare produzioni specifiche ad essa
dedicate). Inoltre, il cinema di Bollywood, che nel corso dell’ultimo decennio sta diventando
sempre più “di moda” anche presso il pubblico europeo e nordamericano, già negli anni
Cinquanta era largamente gradito anche nel Sud-est asiatico, nell’Unione Sovietica e persino
presso le audience egiziane e nigeriane48.
Per quanto riguarda il mercato mediatico africano, alla presenza della produzione
cinematografica hindi, si deve aggiungere quella, sviluppatasi in epoca più recente, ma quasi
altrettanto prolifica (anche se i prodotti non sono in genere distribuiti nelle sale, ma
direttamente in formato digitale), che trova sede in Nigeria ed è ormai nota come Nollywood.
Per la quantità delle produzioni, si calcola infatti che l’industria nigeriana (che sforna 30 titoli
la settimana) (Evulochea, 2008) sia la terza al mondo e che i suoi prodotti abbiano, a livello
locale, vendite migliori sia dei film hollywoodiani sia di quelli bollywoodiani. Il mercato di
Nollywood, oltre alla Nigeria, copre buona parte dell’Africa Occidentale, e include anche Sud
Africa e Zambia. Interpretata da attori nigeriani e ambientata in contesti familiari, la
cinematografia di Nollywood rappresenta, in qualche modo, “la storia dell’Africa raccontata
dagli africani” (Evulochea, 2008) e per questo ha successo alla scala continentale, tanto da
essere doppiata, all’occasione, anche in francese (Onuzulike, 2007).
In Asia orientale, invece, una posizione di predominio spetta al Giappone, almeno
per quanto riguarda una produzione che nel mercato occidentale viene considerata di nicchia,
48
La cinematografia hindi presenta valori assai più vicini a quelli del mondo musulmano di quelli tipi della
produzione cinematografica occidentale, troppo carica di sessualità esplicita; inoltre, tocca argomenti, come la
tensione fra matrimoni combinati e matrimoni d’amore, che non appaiono nei film di Hollywood, ma
rappresentano problemi comuni tanto ai giovani indiani quanto a quelli nigeriani (dell’Agnese, 2009)
i cartoni animati (i cosiddetti anime)49. Come le produzioni bollywoodiane, che traggono le
proprie origini da un mix culturale fra letteratura romantica inglese, musical americano, teatro
parsi e poema epico hurdu, gli anime costituiscono un interessante prodotto di
transculturazione. I primi anime, infatti, sono nati per imitazione dalle grandi produzioni
disneyane. Tuttavia, a differenza di quelli statunitensi, che si rivolgono primariamente ai
bambini, i cartoni animati giapponesi sono destinati a pubblici diversi per età, cui si
indirizzano attraverso produzioni “specializzate”, mirate di volta in volta a bambini in età
prescolare, ad adolescenti di sesso maschile o femminile, agli adulti (Gomarasca, 2001).
Inoltre, se i cartoni animati statunitensi hanno un grandissimo successo nel mondo
occidentale, gli anime giapponesi dominano il mercato globale, coprendo il 60% di tutta la
produzione di cartoni animati planetaria. Dal punto di vista della produzione, il Giappone
mette in atto il ruolo di potenza regionale, in quanto, per contenere i costi, ha delocalizzato
alcune fasi di produzione ad aziende estere, soprattutto in Cina, Corea del Sud e Filippine.
Anche se esistono produzioni differenziate per il cinema, per gli home video e per la
televisione, il grande successo dei cartoni animati giapponesi, piuttosto che alla distribuzione
nelle sale cinematografiche, è stato legato, prima in Giappone, poi nel resto del mondo,
all’affermazione del mezzo televisivo. Anche in altri contesti, una buona capacità di
produzione di media, destinata ad avere successo in termini sovra-nazionali, è stata legata
soprattutto alle produzioni televisive. E’ il caso, per esempio delle cosiddette telenovelas
prodotte in grandi quantità da Paesi come Brasile, Messico, Argentina, Colombia e Venezuela,
e divenute, grazie al successo internazionale, una risorsa di esportazione. Nata in Brasile negli
anni Cinquanta, la telenovela è una serie televisiva a puntate, spesso imperniata su vicende
amorose e collocata in una ambientazione storica, che si sviluppa per un centinaio di puntate e
si differenzia dalla soap opera, di produzione statunitense, perché ha un finale chiuso e
prederminato (mentre la soap opera, aperta alle vicissitudini della audience, si sa come inizia
ma non come finisce e può andare in onda per vent’anni). Anche la telenovela è un prodotto di
portata regionale (in genere, è diffusa in America Latina), che riesce a raggiungere pubblici
molto distanti (come quelli europei), e persino globali, soprattutto in casi di particolare
successo50. A differenza di altri prodotti, tuttavia, la telenovela, oltre ad essere distribuita nella
versione originale e poi doppiata, si presta, a causa dei limitati costi di riproduzione, a
49
Il termine è ibrido come il prodotto stesso; deriva infatti da animēshon, la traslitterazione del termine inglese
animation.
50
La celebre La schiava Isaura, una produzione brasiliana del 1976, venne infatti distribuita in Cina, in Polonia,
in Unione Sovietica, in Ungheria, oltre che naturalmente in Europa occidentale e nel Regno Unito.
rifacimenti locali. Esistono così produzioni locali di telenovelas in contesti tanto differenti
quanto l’Italia, la Germania, le Filippine.
Per quanto riguarda il mondo arabo, la geografia della produzione di media vede
spiccare due grandi centri regionali, l’Egitto e l’Arabia saudita. In particolare, l’Egitto è
specializzato nella produzione di musal salat, fiction televisive molto apprezzate in tutta la
regione e attivamente promosse, sin dagli anni Sessanta del Novecento, al fine di creare uno
strumento politico-educativo per diffondere un certo sentimento di “arabismo” in Egitto prima
e nel resto del mondo arabo poi. Per questo, i temi delle fiction egiziane toccano aspetti della
vita contemporanea arabo-musulmana, ma anche temi storici ed educativi. I media sauditi
sono invece mirati prevalentemente ad offrire al pubblico regionale un punto di vista arabo,
contrastando in questo modo l’influenza “negativa” dei media provenienti dall’esterno (Della
Ratta, 2005). Il prodotto mediatico di punta di tutta la regione è rappresentato dal canale
satellitare di Al Jazeera, che ha sede in Qatar, che trasmette dal 1997 a livello locale e dal
2005, grazie ad una versione in lingua inglese, può essere recepito in tutto il mondo.
Tracciare il rapporto fra geopolitica e media, come si è visto, non è per nulla
semplice e non consente di seguire un percorso lineare. Inoltre, il panorama della
comunicazione di massa, da una quindicina di anni a questa parte, è sconvolto dall’avvento di
nuovi media, che parcellizzano l’ascolto e nello stesso tempo moltiplicano le possibilità di
trasmissione, aprendo una strada che sembra potenzialmente destinata a condurre alla rottura
del monopolio informativo tradizionale. Soprattutto a seguito dell’affermazione dell’ambiente
informatico 2.0, Internet costituisce infatti una sorta di “spazio bianco” all’interno del quale a
tutti, o, per essere più precisi, a tutti coloro che hanno accesso ad un computer e hanno le
capacità tecniche per farlo, è offerta la possibilità di comunicare con una pluralità di
destinatari indistinti, lontani spazialmente e sconosciuti fra loro (anche se nelle chat ci si
illude di incontrarsi). Inoltre, la rapidità della comunicazione e la possibilità da parte di tutti (o
quasi tutti) di accedere alla rete mettere in discussione non solo il ruolo predominante dei
mezzi di comunicazione tradizionali, ma anche le loro regole: la selezione e la qualità delle
notizie non dipendono infatti più, esclusivamente, da un esercizio di controllo dall’alto, ma
sono sottoposte ad un controllo orizzontale, capace di smentire rapidamente informazioni
fasulle e framing troppo tendenziosi.
I nuovi mezzi di comunicazione mettono dunque in discussione “l’inevitabilità degli
orientamenti della globalizzazione capitalista” (Castells, 2009, p. 432 ed. it.), da un lato
perché forniscono piattaforme alternative di informazione (come Indymedia, il network di
giornalisti indipendenti, o la miriade di blog dove è possibile fare/trovare quello che viene
definito “giornalismo partecipativo”), dall’altro perché danno spazio ad istanze geopolitiche
lontane da quelle che usualmente interessano i media legati ai grandi centri. A questo
proposito, si può citare a titolo di esempio il caso della rivoluzione non violenta del Chiapas,
che grazie al Web ha raccolto una solidarietà planetaria, o quello più recente dell’Iran, dove
social network come Twitter e Facebook hanno contribuito a rompere la censura imposta sulle
notizie relative alle manifestazioni di protesta seguite alle elezioni presidenziali del 2009.
Ovviamente, grazie alla libertà di accesso, Internet fornisce spazi alla circolazione di idee di
ogni tipo; consente l’affermazione di nuovi valori religiosi, rendendo possibile la nascita di
luoghi di culto virtuali, dove si svolgono rituali online, possono essere rivolti quesiti di ordine
spirituale, ci si scambiano pareri e si prega in forma collegiale (anche se la comunicazione è
solo online); ma apre anche la porta a siti ultra-razzisti o estremisti, dove nuovi predicatori di
ogni sorta interagiscono tramite il computer con i loro adepti (e giungono addirittura a
diramare rivendicazioni di attentati o a reclutare kamikaze).
Nello stesso tempo, Internet offre ai consumatori la possibilità di differenziare il
consumo, rendendo più democratico anche il rapporto fra cultura popolare e audience.
Attraverso la ricezione in streaming dei prodotti televisivi, o siti come YouTube51, che
consentono di inserire e di guardare ciò che si vuole, permette infatti non solo la
frammentazione del pubblico, che guarda ciò che vuole quando vuole, ma anche
l’affermazione di contenuti simbolici e di personaggi altrimenti esclusi dai circuiti mediatici
ufficiali.
Per queste straordinarie potenzialità, i nuovi media sono stati definiti da molti come
lo spazio mediatico del futuro, uno spazio dove possono trovare voce anche le minoranze non
rappresentate e i popoli indigeni oltraggiati dagli Stati centrali. Tuttavia, anche i nuovi media
soffrono di alcune limitazioni. Innanzitutto, l’accesso alle informazioni non è sempre
garantito a chi ha l’accesso ai computer, e viceversa, e ciò impedisce che il controllo
orizzontale sia davvero efficace; la ribellione del Chiapas, per esempio, ha trovato spazio sul
Web perché i suoi leader erano in contatto con organizzazioni internazionali capaci di attivare
51
Anche gli spazi apparentemente destinati alla libera comunicazione degli individui non sono tuttavia esenti da
operazioni di propaganda; il meccanismo del cosiddetto astroturfing (un gioco di parole che fa riferimento ad
una marca di erba artificiale, l’Astro Turf, in opposizione all’erba spontanea, grass root), per esempio, è una
sorta di black propaganda che prevede l’uso di ambiti dove la comunicazione è apparentante spontanea (come
Internet), per far filtrare significati e messaggi pilotati fingendo che siano il frutto di “movimenti dal basso”.
i contatti necessari, mentre altri conflitti, come la lotta per l’indipendenza dell’isola di
Bougainville, a Papua New Guinea, sono destinati a rimanere totalmente ignorati anche da
Internet a causa della totale assenza di connessione con il mondo occidentale. In secondo
luogo, anche chi può avere adito direttamente alle informazioni e nello stesso tempo ha la
possibilità di comunicarle, spesso non è capace di liberarsi da quelle interpretazioni del
mondo date-per-scontate che articolano il discorso geopolitico in cui lui stesso è sommerso e
pertanto non riesce a vedere interpretazioni dei fatti diverse da quelle egemoniche (cosicché,
invece di attivare un contro-framing, anche le voci dal basso contribuiscono a rafforzare
quello fornito dai media mainstream).
Altre limitazioni nei confronti di una circolazione di informazioni realmente
orizzontale e partecipata derivano poi dal fatto che gran parte di ciò che viene inserito in rete è
filtrato da motori di ricerca globalizzati, come sono globali i grandi media tradizionali, e
pertanto risente della supremazia della lingua inglese, che altera la portata effettivamente
democratica di Internet, mantenendo una inesorabile egemonia anglosassone sui contenuti del
Web. Infine, la democrazia globale che dovrebbe essere garantita dall’accesso alla rete viene
talora messa in crisi dagli interventi di censura (come è avvenuto in Iran, e come avviene in
Cina).
Anche se non vi è una censura diretta, vi sono poi in molti casi ostacoli indiretti, ma
altrettanto rilevanti, che impediscono la fruizione di Internet. Buona parte del pianeta, infatti,
soffre ancora in modo vistoso del cosiddetto digital divide, che vede sempre più vicini e
connessi coloro che hanno effettivamente accesso alla rete, e sempre più lontani e disconnessi
quelli che alla rete non attingono. Il differenziale è innanzitutto presente in termini spaziali: è
noto che la copertura non è omogenea nel mondo, come non lo è neppure per quanto riguarda
il territorio italiano, ma non è ugualmente distribuito neppure l’accesso alle linee (telefoniche
o Wi FI) che connettono alla rete. Un chiaro divide si manifesta poi in relazione
all’appartenenza sociale, dato che persino all’interno di una città come New York, che può
essere considerata la capitale mondiale delle comunicazioni e anche delle connessioni via
Internet, esistono “buchi neri” dove accostarsi ad un computer è praticamente impossibile.
Anche il genere è un fattore discriminante, dato che in molti contesti gli uomini hanno più
facilità di accesso delle donne, come rappresenta un fattore discriminante l’età: infatti i
giovani sono, in media, più abituati ad usare la rete dei meno giovani. Perciò, se è vero che
Internet aiuta a frantumare il potere dei media tradizionali, perché raccoglie la voce di tutti, è
altrettanto vero che, nel momento attuale, alcuni continuano ad avere una voce molto più forte
degli altri.
8.12 Media e geopolitica: nuove relazioni di potere o nuovi mezzi e vecchie relazioni?