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Antonio Quarta

SUL SENSO DELLA STORIA NELLA CRISI DEL MODERNO


Appunti di filosofia contemporanea

1. Alla fine degli anni Sessanta del Novecento si afferma nella cultura
filosofica, ma anche artistica e letteraria, uno ‘stile di pensiero’ che ha
conosciuto forme di consenso entusiastico, spesso spinte fino all’infatua-
zione che, al di là di certe banalizzazioni e di cedimenti alle mode, espri-
me uno spirito del tempo, efficacemente definito come «spirito del post»,
e post-moderna è stata considerata l’aria che da allora abbiamo comincia-
to a respirare, un’aria di opposizione al moderno come epoca o al moder-
nismo come stile, un’atmosfera caratterizzata dall’esplosione della
Modernità, ormai disintegrata in frammenti autonomi che nessun princi-
pio unificante riesce a tenere insieme. Daniel Bell annuncia la nascita
della società post-industriale, Ralf Dahrendorf parla di società post-capi-
talistica, Marshall McLuhan delinea i caratteri dell’uomo post-alfabetico;
non manca chi cerca di cogliere il cambiamento della scena religiosa come
una trilogia di ‘post’: post-puritana, post-protestante, post-cristiana.
Qualche studioso ha ironicamente commentato: siamo di fronte ad una
«vera sparatoria»1 che annuncia la fine di tutte le cose; c’è chi ha sottoli-
neato, in una forma piú profonda e sofferta, il pathos della fine che domi-
na il mondo contemporaneo, l’avvertimento di un’indiscutibile fine, non
del mondo certo, bensì di un secolare modo di viverlo, di pensarlo, di
governarlo2.
Nel 1979 il sociologo francese François Lyotard chiama questa situa-
zione «condizione post-moderna» in un libro con un sottotitolo significa-
tivo e illuminante: Rapporto sul sapere, la cui sottesa ipotesi di lavoro è
che «il sapere cambi di statuto nel momento in cui le società entrano nel-
l’età detta post-industriale e la cultura nell’età detta post-moderna»3.
Questa età si caratterizza come un tempo dominato dall’«incredulità nei
confronti delle metanarrazioni», dalla diffidenza verso i pensieri totaliz-
zanti, come un tempo caotico nel quale non è piú possibile pensare a un

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linguaggio o a una teoria totali, un tempo nel quale non è piú concesso
ricomporre universi che sono definitivamente esplosi e nel quale sono pos-
sibili solo teorie valide localmente, giochi linguistici, formazioni discorsi-
ve parziali. Oggi – scrive F. D’Agostini - «i grandi discorsi legittimanti di
cui si è servito il sapere scientifico nella modernità, i due “grandi raccon-
ti” [quello speculativo di tipo idealistico- hegeliano e quello emancipati-
vo, tipico della tradizione che dall’Illuminismo porta al marxismo] che
giustificavano le procedure della scienza e della conoscenza, hanno [...]
perso ogni credibilità, si è anzi persa la stessa istanza della legittimazione
in generale»4.
L’esplosione della modernità viene a configurarsi come la crisi radicale
dell’idea di eliminare delle zone d’ombra dalla vita e dalla mente dell’uo-
mo: non la Ragione, non la Storia, né lo Stato, né il Partito sono in grado
di proporsi come centri di riunificazione e reintegrazione dei frammenti
della modernità. La frammentarietà va invece riconosciuta, come va rico-
nosciuta l’incomunicabilità (ontologica) delle parti di cui è costituita la
realtà. Con il fallimento d’ogni progetto d’emancipazione, il post-moder-
no diventa la spia di una dissociazione intervenuta tra modernità e moder-
nizzazione, la cui corrispondenza aveva caratterizzato per alcuni secoli la
storia europea e mondiale, in cui l’industrializzazione, la democratizza-
zione e la formazione degli Stati nazionali si presentavano come tre aspet-
ti interdipendenti di uno stesso processo generale. Il legame indissolubile
tra crescita economica, libertà politica e felicità individuale, che costitui-
va il postulato fondamentale del secolo dei Lumi, si disarticola: alle dina-
miche universalistiche si sostituiscono le riscoperte delle nazionalità, delle
tradizioni etniche, delle piccole patrie, delle “comunità di sangue e di
suolo”, “ancoraggi di affettività”5, forme di ricerca di una nuova identità
da parte degli esclusi dal sistema della produzione e del consumo, dal
potere sempre piú anonimo degli apparati con il loro ruolo pervasivo sulla
vita del soggetto. Nella società programmata – scrive A. Touraine – l’alie-
nazione assume forme nuove: «L’uomo alienato è quello che non ha altro
rapporto con gli orientamenti sociali e culturali della sua società all’infuori
di quello che gli viene riconosciuto dalla classe dirigente come compati-
bile con il mantenimento del suo dominio. L’alienazione è dunque la ridu-

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zione del conflitto sociale attraverso il mezzo di una partecipazione dipen-


dente. [...] La nostra società è una società dell’alienazione non perché
riduca alla miseria o imponga delle costrizioni poliziesche, ma perché
seduce, manipola e incorpora»6.
Alla scomposizione del soggetto si accompagnano l’interruzione della
continuità del tempo, il crollo verticale della memoria storica, l’annulla-
mento dello spazio: uno scenario dominato dalla produzione non di merci
ma di segni diventati merci, un regno di simulacri cosí perfetto da mette-
re in dubbio la validità degli originali. «Tutti i grandi criteri umanistici del
valore – scrive J. Baudrillard – quelli di tutta una civiltà del giudizio mora-
le, estetico, pratico, svaniscono nel nostro sistema di immagini e di segni.
Tutto diventa indeciso, è l’effetto caratteristico del dominio del codice che
poggia ovunque sul principio della neutralizzazione e dell’indifferenza. È
questo il bordello generalizzato del capitale, non bordello di prostituzione,
ma bordello di sostituzione e di intercambiabilità»7.
In una realtà cosí frantumata, polverizzata, con il massacro della memo-
ria provocato dai mezzi di comunicazione di massa, con l’espropriazione
della soggettività da parte dei consumi, non sarebbe piú possibile esperire
un mondo della vita né sarebbe possibile raccontarla. Nell’orizzonte epi-
stemologico dominato da una radicale contingenza, dalla crisi della rap-
presentabilità del mondo, gli uomini non avrebbero piú a disposizione un
vocabolario «decisivo» per descrivere la realtà, né un punto di vista ogget-
tivo dal quale giudicarla né tanto meno un punto di vista superiore «verso
cui essere responsabili o di cui poter magari infrangere i precetti»8.
L’unico racconto possibile sarebbe quello dell’impossibilità di un raccon-
to del mondo della vita, che oggi non esiste piú, un racconto che si svi-
luppa dalla nostalgia per un mondo umano in cui era possibile discorrere,
accedere alla dimensione umana dei parlanti. Lo stesso inguaribile scetti-
cismo investe la possibilità di costruire «metanarrazioni», grands récits,
diagnosi storiche persuasive. Questo scetticismo sarebbe l’inevitabile pro-
dotto della crisi delle filosofie della storia che nel Novecento si sarebbe
consumata in modo irreversibile.
Le filosofie della storia, specialmente quelle legate all’idea di progres-
so, sono definitivamente tramontate. Lyotard, caposcuola del post-moder-

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nismo, recita il definitivo De profundis di quest’idea che aveva espresso il


senso piú profondo della modernità, che aveva indicato la direzione del
suo inarrestabile cammino. Il sapere nelle società informatizzate è domi-
nato da una “discronia generale” che rende problematiche le costruzioni di
quadri complessivi e richiede descrizioni solo di tipo congetturale: «La
funzione narrativa perde i suoi funtori, i grandi eroi, i grandi pericoli, i
grandi peripli ed i grandi fini. Essa si disperde in una nebulosa di elemen-
ti linguistici narrativi, ma anche denotativi, prescrittivi, descrittivi, ecc.,
ognuno dei quali veicola delle valenze pragmatiche sui generis. Ognuno
di noi vive al crocevia di molti di tali elementi. Noi non formiamo delle
combinazioni linguistiche necessariamente stabili, né le loro proprietà
sono necessariamente comunicabili»9.
J. Chesneux osserva che con la modernità «la storia dell’umanità è forse
giunta al suo punto finale, all’arresto dello sviluppo, alla ripetizione per-
petua dei suoi stessi modelli» e che, nonostante le sue pretese di universa-
lità, si è risolta in un «fallimento»10. Questa conflagrazione dell’universo
moderno ha prodotto una realtà frantumata, che non può essere piú ricom-
posta dai tradizionali centri di integrazione, e una cultura non piú model-
lata su forme sistematiche del sapere ma su assemblaggi di parti e sulla
raccolta incoerente di materiali eterogenei.
Il post-moderno viene cosí a configurarsi come «l’enfatizzazione della
parte volatile, caduca, mobile, effimera, insita nella modernità: quello che
si è perduto è la parte di eterno, il nucleo fisso, che pure era contenuto
nella famosa definizione di Baudelaire secondo la quale il moderno è la
presenza dell’eterno nell’istante»11.

2. Il progresso come costruzione intellettuale aveva trovato nella moder-


nità il suo terreno piú fertile; l’idea di progresso, pur essendo localizzata,
come profezia «europea», ha mostrato un’irresistibile tendenza all’espan-
sione, all’universalizzazione. Questa «profezia» ha svolto un ruolo decisi-
vo nell’orientare l’azione dell’uomo occidentale, secondo il principio
della «profezia che si autoadempie».
La saldatura tra fede nel progresso e spirito positivo consente a un auto-
re come Comte di pensare al lavoro scientifico come la base fondamenta-

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le per riorganizzare la società, per realizzare un ordine progressivo o un


progresso ordinato dell’uomo avente come fine il miglioramento della
propria natura, individuale e collettiva.
Nella prospettiva storica che Comte prefigura, la civiltà moderna deve
sfociare in una società solidale, collaborante, una società che ha spezzato
le barriere degli egoismi e dei nazionalismi. Una società nella quale è
scomparso lo spettro dell’odio ideologico, della guerra, nella quale la divi-
sione razionale del lavoro, la ripartizione degli uffici, le competenze spe-
cialistiche non contraddicono la fondamentale unità d’intenti, né minac-
ciano la coesione dei suoi membri. Le specializzazioni individuali, come
quelle “nazionali”, la separazione sempre piú grande sia tra individuo e
individuo che tra popolo e popolo costituiscono il mezzo generale del per-
fezionamento della specie umana; la potenza generata dalla unione sacra
di scienza, tecnica e industria, avrebbe moltiplicato le risorse (materiali e
intellettuali) e soddisfatto finalmente i bisogni del genere umano unifica-
to da una logica dello sviluppo destinata ad irraggiarsi dall’Europa al resto
del mondo.
Guerre, lotte religiose, politiche e sociali sarebbero scomparse dalla sto-
ria del mondo per lasciare il posto alla moltiplicazione della ricchezza che
avrebbe reso inutili le lotte tra le classi e tra gli stati. Il mito del progres-
so materiale «avrebbe trasformato, una volta per tutte, la storia del genere
umano come storia di tante miserie, limitazioni e sofferenze, in storia
senza violenza e di crescente benessere»12.
Questa idea di progresso, enfatizzata dal positivismo, diventata religio-
ne, attraversa il secolo XIX e costituisce il filo conduttore di una cultura
che crede nell’uomo conquistatore e nell’impresa di trasformazione della
natura e che finisce per non dipendere neppure dalla volontà individuale
ma da una cieca e ineluttabile disposizione della specie. Non si può capi-
re il pensiero di questo secolo se non si vede come uno “Spirito del
Tempo” avvolga e unifichi universi di sapere apparentemente lontani,
come, ad esempio, l’universo di Comte e quello di Hegel.
La storia, per Hegel, sarebbe illeggibile, incomprensibile se non vi ope-
rasse la ragione; alla base della storia universale c’è uno scopo finale; l’ap-
parente casualità e disordine degli eventi storici nascondono una necessi-

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tà intrinseca, quella dello sviluppo dello «spirito del mondo» che procede
attraverso i singoli «spiriti dei popoli» verso un grado sempre piú elevato
di autocoscienza e libertà: «Bisogna portare nella storia la fede e il pen-
siero che il mondo del volere non è rimesso nelle mani del caso. Che nelle
contingenze dei popoli elemento dominante sia un fine ultimo, che nella
storia universale vi sia una ragione – e non la ragione di un soggetto par-
ticolare, ma la ragione divina, assoluta – è una verità che presupponiamo;
sua prova è la trattazione stessa della storia: essa è l’immagine e l’atto
della ragione»13.
La filosofia della storia si risolve cosí in teodicea, in conoscenza e giu-
stificazione di Dio nel suo svolgersi attraverso la storia universale.
Commenta il Fetscher: «Hegel sa che la storia del mondo non è un idillio,
e trova espressioni efficaci per significare tutto il bisogno, il dolore, la
miseria del mondo, ma rimane convinto che nel processo storico univer-
sale si sia realizzato, e continui a realizzarsi un risultato razionale. [...] La
storia è un enorme ‘mattatoio’ (Schlachtbank): non c’è considerazione
contemplativa e distaccata che possa mutare questo fatto. Ciò non di meno
Hegel crede di poter cogliere, in ogni sciagura, in ogni dolore, il senso e il
fine dello sviluppo storico. Solo cosí lo spirito universale è giustificato, la
ragione (del singolo) conciliata con la realtà (della storia)»14.
Se la legge universale della storia è il progresso verso la libertà, per rea-
lizzarsi richiede l’autocoscienza della libertà, la capacità dell’uomo di
comprendere l’interesse e la direzione della ragione. Tutto ciò avviene
spontaneamente? Gli individui sono sempre capaci di capire che l’autoco-
scienza della libertà è il vero movente delle loro azioni? Hegel è troppo
‘realista’ per non riconoscere che la maggioranza degli uomini bada ai
propri affari, persegue i propri interessi, che la coscienza piú diffusa è con-
dizionata da esigenze personali, da finalità particolari. Dinanzi al proces-
so storico – osserva Hegel – gli individui possono assumere due atteggia-
menti differenti: possono conformarsi allo spirito del tempo, contribuire
con la loro attività alla conservazione del corpo sociale, oppure possono
contrapporsi ad esso, incarnando princìpi spirituali superiori diventando
cosí strumenti per la costruzione di una nuova epoca storica.
Lo storicismo hegeliano è perciò strettamente legato ad un’idea di sto-

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ria come progresso, piú precisamente, ad un’idea di storia come progres-


siva liberazione dell’uomo: «Sostanza dello spirito è la libertà. È con ciò
indicato quale sia il fine dello spirito nel processo storico: è la libertà del
soggetto, è che esso abbia la sua coscienza e la sua moralità, che abbia per
sé fini universali da far valere, che il soggetto abbia valore infinito e che
acquisti coscienza di questo suo estremo valore. Questa realtà sostanziale
del fine dello spirito viene raggiunta attraverso la libertà di ognuno»15.
Per Hegel, dunque, non solo si può indicare il senso globale della storia,
la direzione del suo necessario sviluppo, ma si può affermare che l’esi-
stenza di ciascuno ha senso solo se collocata nel Senso della storia: una
sorta di bussola in base alla quale possiamo orientare la nostra esperienza
individuale, la nostra condotta, secondo quello che R. Bodei ha definito
«l’imperativo della sincronizzazione», in base al quale la coscienza indi-
viduale, storicizzandosi, si integra nel corpo della Storia del mondo, nei
grandi organismi collettivi che la proteggono e l’arricchiscono (lo Stato, la
Nazione, la Classe). La condizione fondamentale perché ciò si realizzi è
che «la coscienza accetti di sciogliersi in questo movimento storico»,
anche se ciò non avviene mai «senza residui, resistenze, velleità e sconfit-
te». Ponendosi dal punto di vista di Dio, di un orizzonte storico onnicom-
prensivo, l’esperienza dell’individuo si riscatta dalla sua parzialità, preca-
rietà e limitatezza e allarga le sue aspettative verso un quadro sempre piú
ampio che agisce come «una sorta di camera di compensazione per l’ac-
climatazione dell’individualità al mutamento e alla complessità del mondo
moderno»16.

3. Molte posizioni filosofiche del Novecento sembrano aver perso que-


sta bussola, anzi hanno messo in discussione l’idea stessa di bussola, la
possibilità stessa di “orientamento”, liquidando in vari modi e per varie
ragioni l’idea che la storia abbia un senso, un significato unitario, una con-
tinuità di sviluppo.
La filosofia, dopo Hegel, ha obiettato al filosofo tedesco che l’unica
condizione perché ci si possa collocare nel punto di vista dell’assoluto è
di supporre che l’uomo si possa identificare con il punto di vista di Dio.
Naturalmente ciascun individuo non è Dio, e ognuno ha interessi, passio-

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ni, preferenze che lo qualificano come individuo particolare; perciò è dif-


ficilissimo parlare del senso globale della storia, che diventa allora un con-
cetto di cui è meglio fare a meno: non c’è un senso globale della storia, e
in ogni caso, se c’è, non ne sappiamo nulla17.
Quanto al legame strettissimo che la cultura positivistica aveva affer-
mato tra scienza-tecnica e idea di progresso, la cultura del Novecento ha
riflettuto in modo, di volta in volta, amaro, sarcastico, paradossale sull’i-
dea di progresso come legge della storia. Farsa, mistificazione, inganno o
falsità: il progresso ha incarnato, da religione laica che era stato nella cul-
tura ottocentesca e che tale continuava ad essere per molti, tutte queste
figure. Nella migliore delle ipotesi poteva essere considerato un’illusione
ottica.
È questa l’interpretazione che, ad esempio, Spengler dà dell’idea di pro-
gresso18. Quando parla dell’Occidente come una forma di civiltà che ha
perduto ogni slancio vitale, svuotata nella ripetizione meccanica, nell’ar-
tificio, Spengler si riferisce all’organizzazione moderna del sociale, fon-
data su forme di potere oggettivo, su istituzioni indipendenti dagli indivi-
dui, portatori di bisogni e di progetti autonomi di vita. La riflessione spen-
gleriana sulla storia capovolge lo schema positivistico: alla fede nel pro-
gresso è subentrata la sua maledizione, allo schema dello sviluppo lineare
la concezione ciclica del tempo.
Quello schema di «decorso lineare» è semplicistico non soltanto per la
scansione del tempo (antichità, medio evo, età moderna), che è relativa al
nostro pensiero storico, ma anche rispetto allo spazio, al luogo dal quale
noi misuriamo le tappe di una civiltà. Il paesaggio dell’Europa occidenta-
le, scrive Spengler, «va a costituire il polo immobile (non si sa per quale
ragione, se non forse perché noi, autori di tale immagine della storia, abi-
tiamo proprio in Europa), polo intorno al quale millenni della storia piú
possente e civiltà immense e lontane graviterebbero»19.
Si tratta di un metodo d’interpretazione storica che Spengler definisce
“assurdo” perché pretende di dare una direzione, un senso alla storia sulla
base delle nostre convinzioni politiche, religiose e sociali, e soprattutto
imponendo a millenni di storia una misura assoluta, i valori della civiltà
occidentale, la sovranità della ragione, la libertà dei popoli, l’assoggetta-

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mento della natura, la pace mondiale e via discorrendo. E l’assurdità di


quest’interpretazione si accentua quando, dalla contingenza dell’oggi
ognuno ritiene di poter individuare gli inizi di una qualche «ulteriore evo-
luzione», lineare e meravigliosa, «non perché essa sia provata scientifica-
mente, ma solo perché corrisponde a quel che si desidera. Qui si pensa a
possibilità illimitate, mai ad una fine naturale; e partendo dalla situazione
del momento si va a costruire in modo affatto ingenuo una futura
evoluzione».
A chi pronosticava l’unificazione del genere umano, per opera della
scienza, fino alla costituzione della religione dell’Umanità, Spengler
oppone che «l’umanità non ha alcuno scopo, alcuna idea, alcun piano cosí
come non lo ha la specie delle farfalle o quella delle orchidee. Umanità è
un concetto zoologico o un vuoto nome»20.
In tutte le posizioni critiche verso l’idea di progresso, cadevano proprio
le qualificazioni, gli attributi che a quell’idea erano stati assegnati via via:
quello di essere cumulativo (cioè di non perdere niente per strada), quello
di essere universale (cioè di valere per tutti), quello di essere transdisci-
plinare (cioè di non valere in un solo settore).
Ma, a ben riflettere, l’analisi spengleriana della storia dell’Occidente,
pur contrapponendo l’idea di tramonto allo sviluppo fiducioso e ottimisti-
co della civiltà, conservava la logica interna di un processo necessario ed
ineluttabile. Non era la prima volta – come ha sottolineato Paolo Rossi –
che si assiste ad un moto pendolare tra modi di pensare opposti, ad una
sorta di mutuo scambio tra fedi progressiste e angosce apocalittiche21. E
ciò accade quando si vogliono rinserrare in un percorso unitario e preve-
dibile idee ed esperienze varie e molteplici sulla base di certezze specula-
tive che un serio lavoro storiografico mette costantemente in discussione.
Il cammino della storia – precisa Rossi con un richiamo a Musil – «non è
quello di una palla da biliardo che segue un’inflessibile legge causale;
somiglia piuttosto a quello di una nuvola, a quello di chi va bighellonan-
do per le strade, e qui è sviato da un’ombra, là da un gruppo di persone o
dallo spettacolo di una piazza barocca, e infine giunge in un luogo che non
conosceva e dove non desiderava andare»22.

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4. Il Novecento scopre (o riscopre?) che il progresso è discontinuo (cioè


dimentica molte acquisizioni e a volte torna indietro rispetto alle conqui-
ste fatte), che vale solo per alcuni (altri traggono dal progresso solo svan-
taggi, oppure semplicemente non ne sono toccati), che è qualcosa che
avviene (quando avviene) su scala locale.
Ma, soprattutto, il Novecento scopre che il progresso non è qualcosa di
dato, un processo oggettivo quantificabile, riconoscibile come tale ogni
volta che si riscontrino gli stessi dati ma un’interpretazione: condizioni
uguali possono essere percepite come un progresso o come un regresso
secondo i valori professati da un autore o da un gruppo (piú o meno
esteso).
Sono stati in molti, nel corso del Novecento, a sottolineare la maggiore
aderenza alla realtà di idee come regresso, declino, apocalisse.
Tra questi mi piace segnalare A. Asor Rosa che, in uno scritto dal titolo
Fuori dall’occidente, ovvero Ragionamento sull’Apocalissi, sostiene che
l’idea di progresso impedisce di tematizzare in modo adeguato l’approssi-
marsi dell’Apocalisse nel nostro mondo23. Lo sguardo apocalittico è dal-
l’autore ritenuto l’unico adeguato a leggere la gravità dell’impasse nella
quale l’Occidente si trova. Il mondo che si rivela è quello che, con il suo
«andare oltre ogni precedente perimetrazione politica e ideologica»24
rende vano e penoso il pensiero progressista. In questo mondo non c’è piú
bisogno di pensare, tanto la «macchina» funziona da sola; dell’hegeliana
e marxista filosofia della storia è rimasta solo la versione conservatrice
(«oggi si può soltanto pensare il reale come l’unico possibile»); la produ-
zione di beni è diventata l’orizzonte di ogni azione umana; si è realizzata
un’internazionalizzazione dei processi produttivi in cui «le Potenze vere
sono sempre piú sovrumane»; le opposizioni interne si sono «spappolate».
Insomma siamo di fronte a un grande passo indietro della storia, un ritor-
no al passato, come è accaduto molte altre volte: l’Occidente non ha piú
bisogno di giustificare le sue azioni di fronte alla storia, – come le diver-
se parti sue in conflitto fra loro si sono sempre sforzate di fare – perché,
non essendoci piú opposizioni, esso si autogiustifica. Ma, autogiustifican-
dosi, ed autoliberandosi conseguentemente e preventivamente da ogni
possibile accusa, non si potrebbe dire che l’Occidente, al culmine della

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propria storia, ritorna alle proprie origini preistoriche e si morde la coda?


Questo è il movimento che vediamo fargli in questo momento25.
Ma la globalizzazione, ha scritto di recente R. Esposito, è un processo
integrale e irreversibile: «Integrale nel senso che è la forma – non soltan-
to economica o tecnologica, ma anche logica e ontologica – che ha assun-
to oggi il mondo». Intesa in termini filosofici, mondializzazione significa
che «ogni punto del mondo è connesso in tempo reale ad ogni altro, (…)
che non è immaginabile nessun punto esterno al mondo». La mondializ-
zazione è, certo, un’epoca ma «si tratta di un’epoca che mette fine alla
stessa idea di sviluppo lineare delle epoche, che revoca in causa il concet-
to stesso di storia, la simultaneità degli eventi scardina ogni ordine di suc-
cessione tra il prima e il dopo. La mondializzazione è un diverso regime di
senso. Le forme di resistenza ad essa adoperano lo stesso linguaggio. Non
c’è un conflitto tra sistema e antisistema ma un conflitto al e prodotto dal-
l’unico sistema mondo. Sul piano dell’immagine: non esistono due rap-
presentazioni diverse e alternative ma una lotta per l’egemonia nell’unico
orizzonte rappresentativo possibile: quello mediatico. Quanto è accaduto
l’11 settembre non è estraneo alla dinamica globale ma è forse il punto piú
estremo raggiunto dalla freccia della globalizzazione»26.
In questa situazione apparirebbe insensato prefigurare scenari alternati-
vi alla forma globale che ha assunto il mondo: «Dalla globalizzazione (…)
non si esce, dal momento che essa non è un interno cui si possa contrap-
porre un esterno, ma esattamente l’abolizione della differenza tra interno
ed esterno, l’internazionalizzazione di ogni interno»27. Se i processi di
mutamento hanno questa dimensione inedita e inaudita, richiedono for-
mulazioni, chiavi di lettura, categorie interpretative del tutto nuove.
Non manca chi invita a diffidare degli approcci totalizzanti a processi
che sono aperti, imprevedibili, contraddittori e non soggiacciono a ferree
ed inesorabili leggi della storia. Si tratta di comprendere la globalizzazio-
ne attraverso il confronto con mondi diversi dal presente. Per queste ragio-
ni «la storia è quotidianamente sottoposta agli assalti di una cultura della
globalizzazione, la quale, sotto forma di “pensiero unico” mal si concilia
con quella, ai suoi occhi sempre pericolosamente distaccata dal presente e
immersa nelle alternative del passato o del futuro. Nello stesso tempo,

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però, la globalizzazione ha bisogno, per cosí dire, di quell’approccio sto-


rico che tende a rifiutare per sviluppare un’adeguata autocomprensione
critica»28. Al filosofo che voglia continuare a riflettere sulla storia si
richiede perciò un grande sforzo di radicalità. Il mutamento di senso
rispetto al passato è fortissimo. Il passaggio di fase, si è detto, assomiglia
a quello che avvenne dopo la caduta dell’Impero romano. Né si tratta di
un mutamento che investe solo le categorie della politica o dell’economia
ma a qualcosa che sta ancora prima e che riguarda la nostra esperienza in
tutti i suoi aspetti.
Una straordinaria e atipica testimone del Novecento, H. Arendt, aveva
esaminato il male oscuro del secolo, il suo profilo piú tragico, il suo punto
piú acuto di crisi. E aveva rivolto al secolo domande talmente radicali da
far esplodere le categorie tradizionali con cui fino ad allora si erano inda-
gati i fenomeni storico-politici. La Arendt era convinta che nell’universo
dell’uomo contemporaneo era intervenuta una cesura non piú rimargina-
bile, una novità assoluta che non poteva essere colta con gli strumenti col-
laudati di interpretazione e di critica. La pensatrice ebrea aveva toccato il
nervo scoperto della modernità, il banco di prova delle sue categorie poli-
tiche e giuridiche. Pensare e agire dopo Auschwitz è possibile a condizio-
ne che si prenda atto della crisi irreversibile della tradizione: «Non pos-
siamo piú permetterci il lusso di prendere quel che andava bene in passa-
to e chiamarlo semplicemente retaggio, di scartare il cattivo e considerar-
lo semplicemente un peso morto che il tempo provvederà da sé a seppel-
lire nell’oblìo. La corrente sotterranea della storia occidentale è finalmen-
te venuta alla superficie usurpando la dignità della nostra tradizione. Ecco
la realtà in cui viviamo»29.
La Arendt ammoniva a ricominciare a pensare senza balaustrate, senza
reti di protezione. In questo scenario cosí poco rassicurante, la storia come
valore e struttura di interpretazione della realtà sembra perdere ogni inte-
resse e credibilità. La storia non ha piú la funzione di connettere il presente
al passato né di interrogarsi sul futuro30. «Il tempo nuovo – ha scritto R.
Bodei – è un tempo che si stacca, anche nella periodizzazione che istitui-
sce, dalla continuità con il passato e dal sistema di aspettative rivolto al
futuro. Esso produce costitutivamente una lacuna di senso, una disconti-

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nuità che obbliga a riformulare in maniera incessante tutti i sistemi di rife-


rimento»31.
In questa situazione sospesa, in cui diventa difficile «tanto conservare
quanto innovare», dovremo limitarci a contemplare le catastrofi del senso,
la distruzione di ogni apparato concettuale, rassegnarci all’indecifrabilità
del mondo oppure possiamo ragionevolmente supporre «che è proprio
questo spazio vuoto che ha permesso alla modernità di procedere (attra-
verso un salutare oblìo del passato) alla costruzione di qualcosa di nuovo?
In altri termini il tempo nuovo non si basa su questo spazio aperto e reso
sgombro?»32.

NOTE

1 Cfr. L. SICHIROLLO, La fine di tutte le cose, in “Belfagor”, IL, fasc.III, 1994,


pp. 325-330.
2 C. MAGRIS, Utopia e disincanto. Storie, speranze e illusioni del moderno.
Saggi 1974-1988, Garzanti, Milano 1999, p. 7.
3 J.-F. LYOTARD, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, trad. it.,
Feltrinelli, Milano 1985, p. 9.
4 F. D’AGOSTINI, Breve storia della filosofia del Novecento. L’anomalia para-
digmatica, Einaudi, Torino 1999, pp. 270-271.
5 Cfr. J. LE GOFF, Storia e memoria, trad. it., Einaudi, Torino 1986.
6 A. TOURAINE, La società post-industriale (1969), trad. it., Il Mulino,
Bologna 1970, pp. 11-12.
7 J. BAUDRILLARD, L’échange symbilique et la mort, Gallimard, Paris 1976,
pp. 20-21; trad. it., Feltrinelli, Milano 1980 (3a ed.), p. 20.
8 R. RORTY, La filosofia dopo la filosofia, trad. it., Laterza, Bari 1989, p. 65.
9 F. LYOTARD, La condizione post-moderna, cit., p. 6.
10 J. CHESNEUX, Il vincolo planetario della modernità, in AA.VV., Moderno
postmoderno. Soggetto, tempo, sapere nella società attuale, a cura di G. Mari,
Feltrinelli, Milano 1987, pp. 52-53.
11 M. NACCI, Postmoderno, in La filosofia, diretta da P. Rossi, vol. IV Stili e
modelli teorici del Novecento, UTET, Torino 1995, p. 365.
12 M. SALVADORI, Progresso, in AA.VV., Alla ricerca della politica. Voci per
un dizionario, a cura di A. d’Orsi, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 172.
13 G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. it., vol. I La razio-
nalità della storia, La Nuova Italia, Firenze 1975 (8ª rist.), p. 9.
14 I. FETSCHER, Grandezza e limiti di Hegel, trad. it., Feltrinelli, Milano 1973

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Antonio Quarta

(ed. orig. 1971), p. 99.


15 G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., pp. 48-49.
16 R. BODEI, La storia senza senso, in Filosofia al presente, a cura di G.
Vattimo, Garzanti, Milano 1990, pp. 12-13.
17 Cfr. G. VATTIMO, Filosofia al presente, cit., pp. 9 ss.
18 O. SPENGLER, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia
della storia universale (1918-1922), trad. it., a cura di R. Calabrese Conte, M.
Cottone, F. Jesi, Longanesi, Milano 1978; cito dalla terza ristampa, Guanda, Parma
2002.
19 Ib., p. 33.
20 Ib., p. 40.
21 Cfr. P. ROSSI, Naufragi senza spettatore. L’idea di progresso, Il Mulino,
Bologna 1995.
22 R. MUSIL, L’uomo senza qualità, trad. it., Einaudi, Torino 1957, p. 349. La
citazione è ripresa dal saggio di Rossi cit., p. 19.
23 A. ASOR ROSA, Fuori dall’occidente, ovvero Ragionamento sull’Apocalissi,
Einaudi, Torino 1992. I temi contenuti in questo scritto sono stati ripresi e amplia-
ti dall’autore nel recente volume dal titolo La guerra. Sulle forme attuali della con-
vivenza umana, Einaudi, Torino 2002.
24 A. ASOR ROSA, Fuori dall’occidente…, cit., p. VIII.
25 Ib., p. 14.
26 R. ESPOSITO, T. NEGRI, S. VECA, Dialogo su impero e democrazia, in
“Micromega”, 5, 2001, pp. 115-117.
27 Ib., p. 17.
28 A. GIOVAGNOLI, Storia e globalizzazione, Laterza, Bari 2003, p. VIII.
29 H. ARENDT, Le origini del totalitarismo (1950), trad. it., Comunità, Torino
1999, p. LIV.
30 Cfr. R. BODEI, Progresso: la parabola di un’idea-forza, intervista di R.
Parascandolo, in “Lettera Internazionale”, XII, 48, 1996, pp. 25-29.
31 R. BODEI, Tradizione e modernità, in AA.VV., Moderno postmoderno,
cit., p. 32.
32 Ib.

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