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1. Alla fine degli anni Sessanta del Novecento si afferma nella cultura
filosofica, ma anche artistica e letteraria, uno ‘stile di pensiero’ che ha
conosciuto forme di consenso entusiastico, spesso spinte fino all’infatua-
zione che, al di là di certe banalizzazioni e di cedimenti alle mode, espri-
me uno spirito del tempo, efficacemente definito come «spirito del post»,
e post-moderna è stata considerata l’aria che da allora abbiamo comincia-
to a respirare, un’aria di opposizione al moderno come epoca o al moder-
nismo come stile, un’atmosfera caratterizzata dall’esplosione della
Modernità, ormai disintegrata in frammenti autonomi che nessun princi-
pio unificante riesce a tenere insieme. Daniel Bell annuncia la nascita
della società post-industriale, Ralf Dahrendorf parla di società post-capi-
talistica, Marshall McLuhan delinea i caratteri dell’uomo post-alfabetico;
non manca chi cerca di cogliere il cambiamento della scena religiosa come
una trilogia di ‘post’: post-puritana, post-protestante, post-cristiana.
Qualche studioso ha ironicamente commentato: siamo di fronte ad una
«vera sparatoria»1 che annuncia la fine di tutte le cose; c’è chi ha sottoli-
neato, in una forma piú profonda e sofferta, il pathos della fine che domi-
na il mondo contemporaneo, l’avvertimento di un’indiscutibile fine, non
del mondo certo, bensì di un secolare modo di viverlo, di pensarlo, di
governarlo2.
Nel 1979 il sociologo francese François Lyotard chiama questa situa-
zione «condizione post-moderna» in un libro con un sottotitolo significa-
tivo e illuminante: Rapporto sul sapere, la cui sottesa ipotesi di lavoro è
che «il sapere cambi di statuto nel momento in cui le società entrano nel-
l’età detta post-industriale e la cultura nell’età detta post-moderna»3.
Questa età si caratterizza come un tempo dominato dall’«incredulità nei
confronti delle metanarrazioni», dalla diffidenza verso i pensieri totaliz-
zanti, come un tempo caotico nel quale non è piú possibile pensare a un
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linguaggio o a una teoria totali, un tempo nel quale non è piú concesso
ricomporre universi che sono definitivamente esplosi e nel quale sono pos-
sibili solo teorie valide localmente, giochi linguistici, formazioni discorsi-
ve parziali. Oggi – scrive F. D’Agostini - «i grandi discorsi legittimanti di
cui si è servito il sapere scientifico nella modernità, i due “grandi raccon-
ti” [quello speculativo di tipo idealistico- hegeliano e quello emancipati-
vo, tipico della tradizione che dall’Illuminismo porta al marxismo] che
giustificavano le procedure della scienza e della conoscenza, hanno [...]
perso ogni credibilità, si è anzi persa la stessa istanza della legittimazione
in generale»4.
L’esplosione della modernità viene a configurarsi come la crisi radicale
dell’idea di eliminare delle zone d’ombra dalla vita e dalla mente dell’uo-
mo: non la Ragione, non la Storia, né lo Stato, né il Partito sono in grado
di proporsi come centri di riunificazione e reintegrazione dei frammenti
della modernità. La frammentarietà va invece riconosciuta, come va rico-
nosciuta l’incomunicabilità (ontologica) delle parti di cui è costituita la
realtà. Con il fallimento d’ogni progetto d’emancipazione, il post-moder-
no diventa la spia di una dissociazione intervenuta tra modernità e moder-
nizzazione, la cui corrispondenza aveva caratterizzato per alcuni secoli la
storia europea e mondiale, in cui l’industrializzazione, la democratizza-
zione e la formazione degli Stati nazionali si presentavano come tre aspet-
ti interdipendenti di uno stesso processo generale. Il legame indissolubile
tra crescita economica, libertà politica e felicità individuale, che costitui-
va il postulato fondamentale del secolo dei Lumi, si disarticola: alle dina-
miche universalistiche si sostituiscono le riscoperte delle nazionalità, delle
tradizioni etniche, delle piccole patrie, delle “comunità di sangue e di
suolo”, “ancoraggi di affettività”5, forme di ricerca di una nuova identità
da parte degli esclusi dal sistema della produzione e del consumo, dal
potere sempre piú anonimo degli apparati con il loro ruolo pervasivo sulla
vita del soggetto. Nella società programmata – scrive A. Touraine – l’alie-
nazione assume forme nuove: «L’uomo alienato è quello che non ha altro
rapporto con gli orientamenti sociali e culturali della sua società all’infuori
di quello che gli viene riconosciuto dalla classe dirigente come compati-
bile con il mantenimento del suo dominio. L’alienazione è dunque la ridu-
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tà intrinseca, quella dello sviluppo dello «spirito del mondo» che procede
attraverso i singoli «spiriti dei popoli» verso un grado sempre piú elevato
di autocoscienza e libertà: «Bisogna portare nella storia la fede e il pen-
siero che il mondo del volere non è rimesso nelle mani del caso. Che nelle
contingenze dei popoli elemento dominante sia un fine ultimo, che nella
storia universale vi sia una ragione – e non la ragione di un soggetto par-
ticolare, ma la ragione divina, assoluta – è una verità che presupponiamo;
sua prova è la trattazione stessa della storia: essa è l’immagine e l’atto
della ragione»13.
La filosofia della storia si risolve cosí in teodicea, in conoscenza e giu-
stificazione di Dio nel suo svolgersi attraverso la storia universale.
Commenta il Fetscher: «Hegel sa che la storia del mondo non è un idillio,
e trova espressioni efficaci per significare tutto il bisogno, il dolore, la
miseria del mondo, ma rimane convinto che nel processo storico univer-
sale si sia realizzato, e continui a realizzarsi un risultato razionale. [...] La
storia è un enorme ‘mattatoio’ (Schlachtbank): non c’è considerazione
contemplativa e distaccata che possa mutare questo fatto. Ciò non di meno
Hegel crede di poter cogliere, in ogni sciagura, in ogni dolore, il senso e il
fine dello sviluppo storico. Solo cosí lo spirito universale è giustificato, la
ragione (del singolo) conciliata con la realtà (della storia)»14.
Se la legge universale della storia è il progresso verso la libertà, per rea-
lizzarsi richiede l’autocoscienza della libertà, la capacità dell’uomo di
comprendere l’interesse e la direzione della ragione. Tutto ciò avviene
spontaneamente? Gli individui sono sempre capaci di capire che l’autoco-
scienza della libertà è il vero movente delle loro azioni? Hegel è troppo
‘realista’ per non riconoscere che la maggioranza degli uomini bada ai
propri affari, persegue i propri interessi, che la coscienza piú diffusa è con-
dizionata da esigenze personali, da finalità particolari. Dinanzi al proces-
so storico – osserva Hegel – gli individui possono assumere due atteggia-
menti differenti: possono conformarsi allo spirito del tempo, contribuire
con la loro attività alla conservazione del corpo sociale, oppure possono
contrapporsi ad esso, incarnando princìpi spirituali superiori diventando
cosí strumenti per la costruzione di una nuova epoca storica.
Lo storicismo hegeliano è perciò strettamente legato ad un’idea di sto-
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