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marino
1614
la lira
a cura di luana salvarani
TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI
Prodotto in Italia – UE
ISBN : 978-88-95925-42-4
INDICE
LIRA I
Dedica a Melchior Crescentio 3
Rime amorose 7
Rime marittime 48
Rime Boscherecce 77
Rime Heroiche 125
Rime Lugubri 161
Rime Morali 191
Rime Sacre 203
Rime Varie 223
LIRA II
Dedica a Tomaso Melchiori 236
Madriali, e canzoni 239
Note 693
L
a Lira del 1614 è forse, nella tradizione lirica italiana, il libro che ha
pagato più caro il proprio ruolo di creatore di una moda e di capo-
stipite di un’epoca. La varia provincia del marinismo, che iniziò a
estendersi fin dalle prime prove liriche del poeta e che all’altezza del suo
opus magnum era in piena fioritura, divenne poi causa perpetua del conti-
nuo fraintendimento in cui ha continuato a incappare l’opera del poeta.
Presentato volta volta come geniale o ridicolo, raffinato o immorale, ma
senza mai uscire dallo stretto perimetro del giudizio emunctae naris dei
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La ripresa quasi integrale delle Rime del 1602 nella Lira del 1614, con la so-
la esclusione dei componimenti di soggetto artistico confluiti nella Galeria,
permette al Marino un’operazione, pressoché unica per il suo tempo, di ri-
significazione totale di un testo già divenuto canonico (le Rime) tramite
l’aggiunta di una nuova sezione, che imposta un canone nuovo dichiarando
obsoleta l’estetica fondata dal testo di partenza. Il Marino che è stato defini-
to melico o post-manierista, l’inventore della seconda prattica lirica, che
fondeva la tradizione petrarchista e tassiana con l’alto gradiente mitologico
e metamorfico dell’egloga piscatoria e della favola pastorale meridionale
(dal Sannazzaro al Tansillo), si autodichiara scaduto, passé. Troppo veloce
corre la Storia, nel Seicento carico di smanie moderniste ed entusiasmi
hoggidiani. In dodici anni, dal 1602 (anno di nascita di Francesco Cavalli,
Giacomo Badoaro e Athanasius Kircher) al 1614 (in cui si riuniscono per
l’ultima volta, prima della Rivoluzione, gli Stati Generali della monarchia
francese) è avvenuta una transizione di gusto e di sensibilità che il Marino
avverte per primo e di cui per primo rende conto, aprendo ufficialmente la
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stagione del Ballet de cour, dell’Opera barocca libertina e fastosa, della pia-
nificazione urbana su larga scala, della scenografia teatrale macchinistica, e
in generale del “pensare in grande”.
Marino, di fronte alla sfida, parte dal dato, per così dire costitutivo,
dell’idioma lirico italiano primosecentesco, costituitosi per progressive ad-
dizioni lessicali e retoriche su una stabile base petrarchesca, e continua-
mente sottoposto al labor limae estenuante della “seconde main” di lessico-
grafi e trattatisti, dei fantasmi, periodicamente di ritorno, di immaginate
classicità e vagheggiate età dell’oro, a frenare ogni possibile autentica rivo-
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luzione. Come una solida architettura romanica rivestita nei secoli di affre-
schi e muri a stucco, intonaci e dorature, marmi e tele nei nuovissimi stili
d’ogni decennio, ma senza mai che la concezione generale dello spazio ne
venisse intaccata. Marino poteva arrivare con la ruspa, come Shakespeare e
Lutero, e col senno di poi l’avremmo amato ancora di più: ma il suo ingegno
mediterraneo gli suggeriva tutt’altra via, molto più sottilmente incisiva. Ma-
rino prende l’architettura vecchia e la fa volare. Invece di rinunciare alla
lingua lirica o farla a pezzi, ne espande gli strumenti a dismisura, con raffi-
natezza e distacco. I versi costruiti a contrasto diventano coppie di sonetti,
poi coppie di sezioni. La gradatio interna a un componimento diviene co-
struzione di molteplici pezzi, disposti in gradazione di intensità lessicale, o
di registro linguistico, verso l’alto o verso il basso. I finali perfettamente or-
chestrati, con accurate proporzioni tra “figure di parola” (gioco fonico) e “fi-
gure di pensiero” (gioco immaginativo), lasciano il posto a interi madrigali
o sonetti la cui unica funzione è richiamare, riassumere, alludere o contra-
stare a un concetto o a un’immagine magari comparsa tre o quattro pezzi
prima.
Ma questa del 1614 è un’arte di secondo grado, che non riesce più a vedere
quelle seduzioni senza il sorriso ironico che l’artista consumato riserva al
giovane talentuoso dalle soluzioni ingenue e un filo banali.
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luana salvarani
Marino non mette in discussione il primato della poesia amorosa come co-
dice lirico: le Rime sono aperte dalle Amorose, la Lira III dagli Amori; poe-
sie di genere amoroso occupano la prima metà della Lira II, “Madrigali e
canzoni” (la seconda metà è occupata da poesie sacre che però si pongono
come mera variatio, come riproposizione in colori scuri o a sanguigna dei
fasti sensuali delle precedenti). La riaffermazione del primato “amoroso”
serve al poeta da un lato per esercitare più largamente la propria piena pa-
dronanza degli strumenti del genere, e dall’altro per un più importante, sot-
tile messaggio: non è necessario gettar via un genere obsoleto, perché ogni
linguaggio può farsi latore di qualsiasi pensiero, per l’arte vera (...parla
dell’eccellente, non del goffo...) creatrice di un cosmo completo nel quale
tutto si corrisponde. Di conseguenza, anche il lessico della poesia amorosa è
sottoposto, già nelle Rime, a frequenti passaggi in cui il dissolvente ironico
ha la meglio sui più rodati meccanismi espressivi del genere. Impossibile
leggere questo elegante ‘madrigale in genere bucolico’, senza veder sfarfal-
lare continuamente – come su uno schermo mal regolato – l’immagine ele-
giaca del poeta pastorale, Orfeo-Pan sub tegmine fagi, e quella al tutto co-
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O CAPRA AVENTURATA,
A cui la mano, onde trïonfa Amore,
Preme le mamme, & a me preme il core;
Ben puoi dirti bëata...
Ecco dove si può arrivare, ci ammonisce Marino, col topos (tra lo sdilinqui-
to e l’erotomane) dell’innamorato pronto a trasformarsi in qualasiasi cosa
venga toccata dalle mani vagheggiate della bella. E sempre nelle Rime, ecco
l’ammonizione per i petrarchisti ostinati dietro la contemplazione della loro
candida cerva:
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Questo potere sta anche nello scandire il tempo interno del testo-cosmo:
una quarta dimensione, che il poeta eccellente sa curvare a proprio piaci-
mento, sfondando o contraendo quando necessario il continuum estenuante
del tempo “reale”, cronologico, allo stesso modo in cui metamorfosi (e re-
surrezioni) sfondano il limite del tempo biologico umano. Su questo piano il
Marino opera, in primo luogo, con le stesse dimensioni del Libro, che im-
pone tempi di lettura mastodontici e moltiplicati rispetto a qualsiasi canzo-
niere, e consente tuttavia la possibilità di accedervi da qualsiasi lato e di
percorrerlo nella direzione voluta, senza la tirannia biografica e cronologica
che rende unidirezionale l’attraversamento del capostipite petrarchesco. Ma
l’azione sul tempo del testo agisce anche a livello microstrutturale, per e-
sempio con l’abolizione (nel passaggio dalle Rime alla Lira) di strumenti
come la dittologia sinonimica e più in generale le terne di sostantivi o verbi
di significato analogo, oppure le tessere aggettivali più ovvie: tutto ciò che,
come ogni materiale sonoro troppo standard, fa scorrere la lettura e fa per-
dere al lettore la presa sul tempo interno del testo. Così viene trasformata la
seconda quartina del sonetto di lode alla penna di Bernardino Stefonio,
predicatore e tragediografo gesuita:
Nelle Rime il testo recitava: “L’una Apollo sostien, moue, et affrena, | Onde
per te men glorïosa, e bella”. La convenzionalità della terna sostien, move et
affrena, verbi dal senso diverso e senza una direzione (non c’è sequenza, né
logica né temporale, tra loro) non sfugge all’orecchio finissimo del Marino
1614, e meno che mai la debolezza della coppia glorïosa, e bella a fine verso,
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dove i due aggettivi finiscono per elidersi tra loro, e la dieresi prevedibile fa
lo stesso effetto delle troppe cadenze d’inganno nel giovane Mozart. Due
tocchi, e le ovvietà spariscono, mentre un raffinato enjambement (“Vena |
moue”) provvede a rallentare ulteriormente il tempo, e a manovrare la no-
stra attenzione, introducendo un gesto (teatrale, com’è giusto quando si
parla di un autore di tragedie sacre piene di effetti speciali) dove prima c’era
solo una sequenza di immagini concatenate secondo gli automatismi di un
genere.
Al controllo del tempo si aggiunge il controllo dei piani e dei registri del di-
scorso, quello che definiremmo, in lessico musicale, la strumentazione: un
certo enunciato melodico suonerà strappalacrime sul violoncello, ma paro-
dico sul trombone, e la distinzione dei due livelli è capitale per evitare i pe-
ricoli del “goffo”. L’opera di affinamento, ça va sans dire, riguarda anche e
soprattutto i modi del comico. Non è la stessa cosa, lodare un rampollo
d’illustre schiatta così:
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Questo parrebbe un possibile approdo anche per la Lira III, che in effetti
espande il ventaglio delle forme ben oltre il canone lirico (canzone, sonetto
e madrigale) includendo anche macchine versuali di maggior peso e impo-
nenza: idilli, prologhi tragici (come quello alla Filli di Sciro del Bonarelli), e
veri e propri poemetti, per poi concludere con due “cartelli di sfida” in prosa
e un Cavaliere della Rosa in ottave (chissà se c’erano seicentine nella bi-
blioteca di Hugo von Hofmannsthal...), che poi diverrà il celebre “elogio
della rosa” dell’Adone. La direzione, insomma, è indiscutibilmente verso il
Libro-mondo, il Gesamtkunstwerk, destinato a travalicare e ad annullare le
frontiere tra i generi e di conseguenza a delegittimare il medesimo genere
lirico.
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come solo può farlo una macchina mentale. Le “machine versatili” delle po-
esie della Lira III non affermano ma costantemente smentiscono loro stes-
se: oppure si rifrangono in una pluralità di significati, tutti convenzionali e
quindi tutti veri, tra i quali il lettore non è invitato a scegliere, neppure
provvisoriamente, bensì ad accettarli e a goderseli tutti, nella ricchezza della
loro varietà e contraddittorietà.
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Per capire come funziona una ‘serie’, ce ne sono alcune esemplari, come per
esempio quella dedicata al Sogno (nn. 43-48 degli Amori), composta da tre
sonetti in stile “aulico” e tre madrigali progressivamente più leggeri, chiusi
da un’allegra barzelletta su un marito cornuto. I tre sonetti appaiono ele-
ganti variazioni sul classico tema amoroso del “piacevole inganno”, cioè del
sogno che mette a portata di mano le bellezze di una donna altrimenti inac-
cessibili, ma già il n° 44 vira in chiave conoscitiva, con l’uso di locuzioni
precise in senso tecnico-aristotelico, come “il senso formi” (cioè “prendano
forma nel senso interno, come phantasmata ricavati dai segnali sensoria-
li”); e il n° 45 presenta la donna che compare in sogno come una guida sa-
pienziale, alla maniera della Beatrice della Vita Nova, che si rivolge al poeta
come “o mio fedele”, secondo il codice stilnovistico dei “fedeli d’amore” (di
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La testa del cinghiale che uccise Adone, appesa come trofeo, cade ferendo
Anchise (padre di Enea, e quindi capostipite della stirpe latina come esem-
pio di tutto il genere umano). Data l’equivalenza tra il sacrificio di Adone e
quello di Cristo, l’allusione al sacrificio eucaristico (e alla Messa cattolica
che lo ripropone) è evidente: quel sacrificio continua ad essere celebrato, e
non solo rammemorato come nella Messa luterana. La dichiarazione di or-
todossia religiosa non potrebbe essere fornita in un contesto più depistante;
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ridimensiona sùbito, pur senza negarle, le vaste orbite simboliche aperte dai
due madrigali che precedono.
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perché “non si butta via niente”. Il lettore “svegliato ed arguto” che percorra
tutto il libro si renderà invece conto che questa è la sezione più importante,
più propositiva di tutta la Lira III.
Già abbiamo visto con quale vertiginoso sesto grado di simbologie il Marino
apra la sezione, e con quale artificio d’alta gamma (i due finti, o veri, cartelli
di sfida per un torneo sabaudo) introduca il poemetto sul Cavaliere della
Rosa, che chiude il volume e ne addita i futuri sviluppi nell’Adone. Il poeta
che, in chiusa degli Amori (nella canzone Amore incostante, a Marcello
Sacchetti) si era presentato come nouel Camaleonte, cantore dell’instabilità
e della mutazione perenne, ora fa scendere il sipario, a specchio, come cam-
pione della Costanza e dei Fedeli d’Amore.
Solo un gioco? Se mai un giuoco-serio, come quello di Francesco Pona
quando, con lo pseudonimo parlante di Eureta Misoscolo, metteva in scena
nella Maschera Iatropolitica la guerra tra “Ceruello e Cuore Prencipi riua-
li”. Non più rivali, nel giuoco-serio del Marino, dove invece rappresentano
solo differenti modi di approccio a un sapere che non è dato una volta per
tutte, ma si costruisce man mano, scavandosi da solo il proprio alveo. Se-
condo Juan Huarte, il teorico cinquecentesco degli ingegni su base fisiologi-
co-galenica, l’ingegno capriccioso è l’unico in grado di produrre vera cono-
scenza, perché “a guisa di capra” si inerpica saltando su pendìci non battu-
te, lascia indietro chi lo insegue, è in grado, con un balzo di lato, di sorpren-
dere e percorrere le vie più inaspettate, tracciando i percorsi che gli “ingegni
pecorini” si accontenteranno di seguire, in coda al loro gregge. La descrizio-
ne si adatta perfettamente al messaggio dei Capricci mariniani. I quali, in-
fatti, chiudendo con l’allusione ai “Fedeli d’Amore” sorprendono (ancora
una volta) ricordandoci che le acrobazie di una mente brillante, di
un’instabilità e rapidità mercuriale, non esauriscono il percorso conoscitivo.
È necessaria la severità, la disciplina della fedeltà al testo, il che significa
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non solo non tradirne la lettera, ma prenderne sul serio tutti gli strati, quelli
ideati dall’autore e quelli ancora da scoprire (o da inventare).
XXIII
NOTA AL TESTO
La presente edizione è esemplata sulla Lira (Prima, Seconda e Terza Parte) secondo
l’edizione Ciotti del 1614:
Abbiamo escluso da questa edizione i testi non mariniani (le Poesie di diversi al
Cavalier Marino) e le Proposte e Risposte che chiudono le Rime, le une e le altre
destinate al volume finale di lettere e prose, in quanto elementi essenziali nella co-
struzione dell’immagine pubblica e della rete di rapporti politici e intellettuali del
Marino.
Per quanto riguarda la Lira I e II, che ripropongono le Rime del 1602 (con
l’esclusione dei testi confluiti nella Galeria), abbiamo segnalato in nota esclusiva-
mente le varianti più significative (interi versi o locuzioni cambiate) che presup-
pongono un intervento di riforma stilistica dell’autore rispetto alle Rime.
Per la Lira III, coerentemente con la nostra ipotesi che vede questa raccolta come
momento centrale dell’evoluzione poetica e intellettuale mariniana, abbiamo utiliz-
zato un tipo di commento discorsivo e non sistematico (impostato su serie e sezioni
più che sui singoli componimenti) da utilizzare occasionalmente come ausilio alla
XXIV
nota al testo
lettura, ma che possa soprattutto essere letto, anche da solo, come proposta critica
per l’interpretazione dei testi.
L’elemento più sorprendente della stampa del 1614 è la sua qualità: alla prova dei
fatti, la celebre lettera del Marino al Ciotti dove l’autore inveisce contro l’editore per
i “farfalloni” di questa stampa si manifesta – nel contesto del consapevole ruolo
pubblico delle lettere mariniane – come un’abile e arguta mossa pubblicitaria. Al di
là dell’aspetto estetico povero, comune a tutte le edizioni di poesia dell’editore ve-
neziano (tascabili e paperbacks dell’epoca, di larga diffusione), la stampa del 1614
conta un numero di refusi nella media e una interpunzione pressoché perfetta, e-
lementi che fanno pensare a un controllo diretto dell’autore sulle bozze.
Di conseguenza abbiamo utilizzato criteri decisamente conservativi, tanto più che
l’eccellente edizione curata da Maurice Slawinski per la RES offre già, a chi lo pre-
ferisse, un testo integrale garbatamente modernizzato.
Ci siamo ispirati alla prassi corrente dei paesi anglosassoni per i testi cinque-
secenteschi (citiamo a modello l’edizione di tutte le opere di John Donne, diretta da
Gary A. Stringer per la Indiana University Press, iniziata nel 1995 e ora giunta al
quinto volume pubblicato): conservare scrupolosamente, in tutte le sue particolari-
tà e oscillazioni, l’ortografia del tempo (incluse le grafie d’epoca per –u e –v, maiu-
scole, digrammi etimologici, etc.), e quando possibile anche l’interpunzione; evitare
l’utilizzo di segni sconosciuti alla prassi antica (< >, [ ]) che disturbano inutilmente
il lettore “non addetto ai lavori” (abbiamo aggiunto, tra i segni diacritici, solo le die-
resi e qualche volta i circonflessi, per aiutare a decifrare parole contratte). Il rispet-
to dell’interpunzione originale, di impostazione metrica e oratoria (basata sul pre-
supposto della lettura a voce alta) piuttosto che logico-sintattica in senso moderno,
facilita la scansione dei versi e, data la relativa brevità dei pezzi, non costituisce
quasi mai un serio ostacolo alla comprensione della lettera; si è intervenuti solo nei
rarissimi casi in cui ciò accadeva.
Abbiamo corretto i refusi evidenti e accolto alcune varianti non rilevanti senza dar-
ne segnalazione, in segno di rispetto per il tempo e per l’intelligenza del lettore.
XXV
CAPRICCI.
[1]
Per la Triaca.
QCompon
, de le cui polpe opra vitale
VESTA
medica man, Vipera ardente
Per le Libiche vie volò souente
Animata saëtta, e viuo strale.
Ma se più d’vna piaga aspra e mortale
Aperse già col velenoso dente,
Fatta hor noua d’Achille hasta pungente
Porta schermo al velen, salute al male.
Qui lo sguardo crudel talhor girate
O voi che vaghe sol de l’altrui sangue
Sempre sempre ferite, e non sanate.
E sìavi almen, di chi trafitto langue
Ad imparar pietà, Donne spietate,
Ne la scola d’Amor maëstro vn Angue.
[2]
Saette d’Amore velenose.
643
lira III
[3]
Venere con Anchise.
[4]
Fetonte morto.
[5]
Nido di Colombe in vn Lauro.
644
capricci
[6]
Nella Sconciatura
della Signora D. Veronica Spinola.
[7]
Ad vn orbo ammogliato.
[8]
Risposta.
645
lira III
[9]
Contro vn simulatore.
[10]
Contro l’Oro.
646
capricci
[11]
Contro l’Alchimia.
[11]
Nel medesimo suggetto
al Sig. Carlo Sigonio.
647
lira III
[12]
Al medesimo nel medesimo suggetto.
[12bis]
Risposta.
648
capricci
[13]
Contro vn Astrologo.
[14]
Per vna falsa voce sparsa d’vna archibugiata
in persona del Sig. Duca di Sauoia.
649
lira III
[15]
Loda Mugnaio, Cane donato dal Gran Duca di Toscana
al Sig. Gio. Carlo Doria.
[16]
Nel bando da Genoua
del medesimo Cane.
650
capricci
[17]
Quando l’Auttore entrò nell’Academia de’ Ricouerati di Padoua,
alludendo alla impresa di essa.
[18]
All’Academia degl’Intrepidi di Ferrara,
quando lo raccolsero nel loro numero.
651
lira III
[19]
Al Sig. Duca di Parma nell’essere ammesso
all’Accademia degli Innominati.
[20]
Per l’Academia degli Humoristi di Roma,
alludendo alla impresa.
652
capricci
[21]
Nell’essere aggregato
all’Academia degl’Insensati di Perugia.
[21bis]
Risposta del Sig. Filippo Massini
in nome dell’Academia.
653
654
capricci
[22]
Buone feste.
Al Sig. Lorenzo Cenami.
[23]
Buone feste.
Al S. Conte Guido Coccapani.
655
lira III
[24]
Buone feste.
Al Sig. Constantino Pinelli.
[25]
Buone feste.
Al Sig. Antonio Calbo.
656
capricci
[26]
Buone feste.
Al Sig. Alessandro Nappi.
[27]
Buone feste.
Al Sig. Gio. Battista Manso.
657
lira III
[28]
Buone feste.
Al Sig. Sebastiano Gigli.
[29]
Buone feste.
Al Sig. Giulio Cesare Bagnoli.
658
capricci
[30]
Buone feste.
Al Sig. Conte Rambaldo da Collalto.
[31]
Buone feste.
A Monsignor Giulio Strozzi.
659
lira III
[32]
Buone feste.
Al Signor Cardinal Doria.
[33]
Buone feste.
Al Signor Duca di Sauoia, dalla prigione.
660
capricci
[34]
Nel medesimo suggetto.
[35]
Nel medesimo suggetto.
661
lira III
[36]
Al medesimo.
[37]
Buone feste.
Al Sig. Conte Guido Villa.
662
capricci
[38]
[39]
Per la perdita de’ suoi scritti.
Al Signor Paolino Bernardini.
663
lira III
[40]
Dopo la liberatione.
Al Sig. Troilo Garzadoro.
[41]
Nella conualescenza d’vna infirmità.
Al Sig. Giuseppe Fontanella.
664
capricci
[42]
Al Sig. Crescentio Crescentij
nel ritorno di Terra S<anta>.
[43]
Essorta il Signor Marchese Carlo Pallauicino
a ritornare a Torino.
665
lira III
[44]
Di Torino.
A Mons. Scipione Pasquali.
[45]
Di Roma.
A Monsù Ranier.
666
capricci
[46]
Di Rauenna.
Al S. Caual. Andrea Barbazza.
[47]
Ripiglia il Sig. Giacomo Panzirolo,
che si sia dato allo studio delle Leggi.
667
lira III
[48]
Al Sig. Girolamo Preti.
[49]
Al Sig. Medico Amalteo.
668
capricci
[50]
Al Sig. Rafaello Rabbia.
669
670
capricci
[51]
LA NOTTE.
671
lira III
672
capricci
673
lira III
E la Terra fiorita
Apre ai parti odorati il ricco seno,
Emulator del mio stellante Aprile.
Altro di tempestoso
Qui non più veggio, o sento,
Che baleni d’Honore,
E fulmini d’Amore.
O miracol gentile, hor che non pote
Di diuina beltà forza infinita?
Tutto è vostra mercé, luci bëate.
Ne’ vostri archi pacifici e sereni
Splender si vede vn’iride benigna,
Tranquillatrice d’anime e di cori,
Non che di venti e d’onde.
O ma che raggio è quel, che mi saëtta?
Che fólgore, che lampo
Mi dà luce in vn punto, e mi fa cieca?
Ahi che seben di mille occhi gemmanti
Quasi immenso Pauon, roto la pompa,
Mancano tutti a sì sfrenato oggetto;
E vaga pur di vagheggiar sì chiaro
Paradiso di gratie e di bellezze,
Altrettanti ne bramo.
Ma veggio homai, che’l Sol Pittore eterno
Sorge dal mare a minïare il Cielo.
Et ecco già, che intinto
Il pennel dela luce
Ne’ color’ del’Aurora,
Mesce con vaghe tempre i lumi, e l’ombre;
E tratteggiando il Ciel con linee d’oro
Già parmi già, che di vermiglio e rancio
Habbia abbozzato in campo azzurro il giorno.
Già d’Eto e di Piroo,
Che m’anhelano a tergo,
Sento i sonori freni, odo i nitriti,
Onde fuggir conviemmi.
Ah non fuggo, ma seguo
Con regolato corso
Il tenor che mi volge,
E del sommo Motor gli ordini eterni.
Già non fuggo dal’Alba
Per inuidia, ch’io senta,
Che si fregi, e s’infiori.
E già non fuggo il Sole
Per vergogna, ch’io prenda,
Che mi segua, e mi scacci.
Fuggo fuggo da’ vostri
(Belle e candide fronti)
Serenissimi albori; e fuggo i vostri
(Occhi vaghi e leggiadri)
674
capricci
Lucidissimi ardori.
Non ch’a scorno io mi rechi
Di ceder vinta a quelle,
Onde il Sole abbagliato esser s’honora.
Ma non si vuol d’Amor romper le leggi,
Ché legge è pur d’Amore
Alternar di Natura
Le diuerse vicende, e’l mio ritorno
Non ritardar cotanto
A gente che di là forse m’aspetta.
Hor tu Sonno disgombra
Dal’altrui pigre ciglia;
E tu Silentio annoda
L’altrui garrule lingue, ond’hoggi il mondo
Qui taciturno ammiri
Di Thirsi e Filli, i duo ben nati amanti,
L’amorose fortune.
E voi figlie del’Aere e dela Luna,
Rigatrici de’ fiori e del’herbette,
Mattutine rugiade, homai chiudete
Le vostre vrne d’argento.
Non han più sete le campagne, & hanno
Assai bevuto i prati.
Volate Hore veloci, e lieuemente
Dela scala, ond’io poggio al’Orizonte
Siate preste a varcar l’vltimo grado.
Seguite pur seguite
O dela Dea di Cinto
Luminose compagne, al’armonia
Dele spere rotanti,
Su’l gran palco celeste i vostri balli.
E fra le liete danze
Sciogliendo alto concento
Dale musiche gole,
Cedete il lume, e date il loco al Sole.
675
lira III
[52]
AMANTE RVFFIANO.
676
capricci
677
lira III
678
capricci
679
680
capricci
[53]
DVELLO AMOROSO.
681
lira III
682
capricci
683
684
capricci
[54]
H ANNO fra loro così commune il campo le saëtte d’Amore, & l’armi di Marte, che
non così tosto nel mio natio paese mi fu dagli occhi di bella Donna ferito il
core, come io per trionfar della sua amata gratia armai di ferro la mano; & bramoso
di possedere con la morte di mille combattimenti la vita d’vna sola Guerriera, in
breue tempo fra rischi di crude & sanguinose Battaglie incatenando Regi, & soggio-
gando Regni, non solo con le mie vittorie l’amate bellezze agguagliai, ma il merito
di queste col merito di quelle soprauanzai. Onde posso ragioneuolmente vantarmi,
che maggior numero di nemici habbia môrto la mia formidabile spada, che turba
d’amanti impiagata l’altrui amabile sguardo. Ma non potendo io finalmente por
meta alle mie amorose ambitioni con la meta di sì gloriose operationi, intesi per
bocca della Fama che nelle belle & fortunate selue Alpine viuono non pur Caualieri
fra quanti n’habbia il mondo prodi & generosi, ma Dame fra quante ne miri il Sole
belle, & gratiose. Et particolarmente vna, laqual tanto quella che già mi vinse vince
in bellezza, quanto questi campioni quelli che già furono da me vinti vincono in
prodezza. Hora per acquistare incomparabile amore con incomparabile valore, qui
sopra l’ali de’ miei Grifi, ma più sopra quelle del mio ardimento mi son condotto.
Doue ascriuendo questo nuovo oggetto de’ miei nobili pensieri — ottimo infra i mi-
gliori, quasi luce che vinca le tenebre, & quasi dolcezza di Primauera che succeda
all’asprezza del Verno —, non a leggerezza d’animo, ma ad vna accortezza giudi-
ciosa, & ad vna costanza amorosa, voglio con tre colpi di lancia all’huomo armato
nel dì primo di Marzo sostenere, che in Amore
Venga pur’a prouar la fermezza della mia lancia chi non approua la fermezza della
mia fede; ch’io nel corso farò ben tosto altrui vedere, come poiché solo seppi così
bene cangiare, solo altresì saprò bene & costantemente amare, & fortemente ar-
meggiare.
685
lira III
686
capricci
[54bis]
C HE di regione così fredda, come è la Scithia, escano così calde fiamme amorose,
& che in vn animo, doue è tanto mancamento di lealtà, si ritroui tanta soprab-
bondanza d’orgoglio, non può recare altrui se non insolita marauiglia. Ma d’altra
parte né voi inconstantissimo Prencipe poteuate altronde venire, che da quell’inho-
spito paese, doue gentilezza non si conosce; né doueuate da altri animali esser por-
tato, che da vccelli, simulacri della vostra leggerezza. Veramente ben mostrate
d’esser solo d’aspre e rigide montagne Signore, poiché nel vostro rozo & seluaggio
petto gran parte della loro qualità ritenete; se non che quanto quelle d’oro & di
gemme sono ricche & feconde, tanto questo è sterile di fede, & pouero di costanza.
Et che hanno da fare i deserti degli Arimaspi, doue appena si degna d’arriuare il So-
le, con le contrade delitiose dell’Alpi, doue mille Soli risplendono? Temeraria è
l’impresa, pazza l’inchiesta, irragioneuole la querela; seben per sostenerla è da cre-
dere che non debba mancarvi core, percioché potendo voi a tanti diuersi amori dar
ricetto, douete certo hauerne più d’vno. Oltreché chi ha saputo trouar fermezza nel-
la instabilità, saprà anche rendere il timore coraggioso, la debolezza forte, & lo
scorno honoreuole. Ma se tale sarà il vostro ardire, quale è stato l’ardore; & se per
noi non sarà così volubile la Fortuna, come in voi è la natura: non men leggiero
speriamo che dobbiate essere nella fuga, che siate stato nella fedeltà; & poco più
saldo potrete mostrarvi insù gli arcioni di quel che vi habbiate fatto insù gli amori.
Hor poiché di cangiare così ispesso pensiero vi dilettate, non dourete di quest’altra
mutatione dolervi, cioè, che la vostra superbia sia abbassata, & il vostro valore ab-
battuto; & che le spoglie delle quali hauete in altra parte trionfato, habbiate qui a
lasciare per trofei del nostro trionfo. Forse continouando il progresso delle vostre
solite vicende, ritrouerete vn giorno altroue altri Caualieri men valorosi, che ceden-
dovi cancelleranno la nuova vergogna, & altre Donne più belle, che innamorandovi
salderanno la nuova ferita. Accettiamo con l’offerte conditioni l’appello, ma vi assi-
curiamo però della vita; perché non conuiene, che la nostra ROSA, fiore tinto del
sangue della madre d’Amore, resti macchiata di quello d’vn sì disleale Amante.
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lira III
[55]
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capricci
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note
CAPRICCI.
[1] Per la Triaca. Il sonetto gioca sul tema platonico del farmaco/veleno, della cura universa-
le ricavata dal veleno della vipera. Chiara ed esplicita insegna della tecnica dei Capricci, la
più progressiva delle sezioni della Lira: portare l’elisir mentale della sperimentazione attra-
verso il “veleno” della battuta e della bizzarria. • ne la scola d’Amor maëstro un Angue: al
primo livello di significato, semplicemente bizzarro (‘imparate ad amare dalla gelida e crude-
le vipera’) si sovrappone un secondo livello di lettura assai più forte: nella scuola d’Amore,
che (secondo l’ispirazione stilnovistica di tutto il libro) è la filosofia del vero sapiente, ma an-
che (secondo la lezione gnostica che si affermerà nell’Adone) coincide con l’autentico e celato
messaggio di Cristo, è il serpente, l’Avversario dell’Antico Testamento a divenire maestro.
Evidente allusione a un diverso, più esoterico e sapienziale cristianesimo.
[2-3] Saette d’Amore velenose – Venere con Anchise: coppia di madrigali che sviluppa, sotto
forma di ‘scena pastorale’ (anche Poussin, è ormai lezione vulgata, la scelse per veicolare i si-
gnificati simbolici se non occulti nel suo Et in Arcadia Ego), il nesso amore (sapienza)-
veleno. • Giacea dormendo Amor. Ben lungi dall’essere un quadretto idillico, la situazione è
di grande peso simbolico, come chiarisce il canto terzo dell’Adone, nel quale
all’innamoramento di Venere per Adone addormentato fa riscontro (dopo il celebre Elogio
della rosa, che chiuderà, nell’ambito di un poemetto, proprio questa sezione dei Capricci) la
rappresentazione allegorica delle quattro fontane che presiedono i quattro cortili del Palagio
d’Amore, con gradiente ‘neoplatonico’ crescente: quella di Nettuno, quella di Piramo e Tisbe,
quella di Salmace ed Ermafrodito e infine quella di Amore addormentato. • Andò per trattar
l’arco / Dïana: nemica giurata di Amore nel sistema allegorico dell’Adone, Diana qui raffigu-
ra una forma di sapere essoterico, banale: attingere alla faretra di Amore ‘semplicemente per
cacciare’; il che vale, utilizzare la complessità metaforica e simbolica della poesia ‘semplice-
mente per fare bei versi’. E la Serpe fugge. •• Del superbo Cinghiale il teschio horrendo: la
testa del cinghiale che uccise Adone, appesa come trofeo, cade ferendo Anchise (padre di E-
nea, e quindi ideale capostipite della stirpe latina). Data l’equivalenza tra il sacrificio di A-
done e quello di Cristo, l’allusione al tema dell’Eucaristia è fin troppo evidente: quel sacrifi-
cio continua ad essere celebrato anche senza una ‘vera’ uccisione. La situazione, palesemen-
te comica, rifrange tutta la scena in una ambigua chiave burlesca.
[4] Fetonte morto. Madrigale che costituisce una sorta di copia carbone di quello precedente
(a cui è legato da un’evidente analogia metrica e ritmica nell’attacco): il tema del sacrificio
ripetuto (e quindi della doppia salvezza) si ribalta in quello della ‘doppia morte’ di Fetonte.
Quanto alla comparsa dello sfortunato dio pagano di fronte al Caronte nella sua versione
dantesca, valga a ribadire per l’ennesima volta la continuità inscindibile tra paganesimo e
cristianesimo. Situazione tanto più bizzarra e significativa, dal momento che nella quinta se-
zione, Negromanti, & heretici, della Galeria, la figura di Fetonte è associata a Simon Mago
(son. 1) e a Giuliano l’Apostata (son. 4).
[5] Nido di Colombe in un Lauro. un altro farmaco/veleno, un altro rovesciamento di fun-
zioni: l’albero simbolo del rifiuto di Amore — il lauro in cui fu trasformata Dafne, che qui è
anche il lauro petrarchesco, simbolo di un’intera stagione dell’umanesimo — diventa riparo e
ricetto per le colombe di Venere (ma non è da escludersi l’allusione alle colombe che si ripa-
rano nei foraminibus petrae del Salmo).
[6] Nella Sconciatura della Signora D. Veronica Spinola. La ‘sconciatura’ è l’aborto.
L’argomento apparentemente incongruo si spiega ancora nella dinamica di rovesciamento —
per cui la morte dell’erede Spinola serve a preservare l’unicità solare della madre.
717
lira III
[7-8] Ad un Orbo ammogliato. Il gioco di allusioni salaci sull’uomo che non può vedere (né
controllare la moglie), ma la può toccare all’occorrenza, serve a porre la pietra miliare di
quello che sarà il sistema conoscitivo dell’Adone: la superiorità del tatto sulla vista. •
s’Argo... vna Vacca: Argo è l’essere dai cento occhi che risultò inefficace per far la guardia al-
la ninfa Io, amante di Giove trasformata in vacca. Evidente il valore comico del richiamo. ••
al difetto... supplisce l’intelletto: è conservata lo schema aristotelico della conoscenza (dai
sensi alla facoltà imaginativa, all’intelletto); il che avvalora ancora di più lo scarto successivo
verso il tatto. • proua... più certa: anche Aristotele sosteneva che i sensi non possono sba-
gliare, è semmai l’interpretazione intellettuale che ne viene data a essere ingannevole. Ma
qui il senso del tatto è posto inopinatamente al di sopra della stessa conoscenza intellettiva,
rispetto alla quale sa fornire dati più certi. Passaggio inedito, che capovolge tra l’altro la clas-
sica gerarchia tra i sensi (nella quale il tatto è il più imperfetto e la vista il più nobile).
[9] Contro un simulatore. Tema inconsueto nella lirica, coinvolge (con la scelta stessa del
soggetto) il tema della veridicità del linguaggio poetico, che utilizza la menzogna e l’artifcio
tra i suoi strumenti espressivi. Ma la sua è parola di verità, mentre il silentio può essere
mendace, se non vuole ricercare il vero. • Perfido adulator: apostrofe ritmata, librettistica
(sdrucciola + tronca), molto rara nel M. Con il consueto gioco di contrappunto, troviamo
qualcosa di simile solo nella Galeria, “Ritratti”, “Prencipi, Capitani ed Heroi”, 42, Orlando,
in un contesto ricco di suggerimenti comici (“Perfido traditor di Chiaramonte, / “Là nela rot-
ta dolorosa, quando” / [...] E fe’ la Fama alo scoppiar d’Orlando / Echo il suon dela tromba al
tuon del corno”). • noce bugiarda: tintura ricavata dal mallo di noce.
[10] Contro l’Oro. Breve tappa di uno dei percorsi mariniani preferiti: il riscontro economi-
co, la riconduzione materiale del tanto oro riversato, tra chiome e soli, nella lirica amorosa.
In questo madrigale il gioco è rigoroso, ai minimi termini, quasi da haiku: tra le due opposte
impressioni cromatiche, il brillìo dell’oro e la cupa oscurità della miniera. Questo materiale
tonale verrà ripreso e sviluppato nel monologo che precede il suicidio di Aurilla (nome dop-
piamente parlante, sul binomio petrarchesco “aura-auro”) in Ad. XVIII, (“La Morte”), 243-
245: “Oro malnato, del tuo pessim’uso | Preuide i danni il Cielo, e sene dolse, | E quasi in
stretto carcere, laggiuso | Nel cor de’ monti sepelir ti vôlse. |Chi fu, che la prigione, ou’eri
chiuso, | Homicida crudel, ruppe, e disciolse ? | [...] | Oh pestifero tôsco, oh morbo, oh mor-
te, | Ch’i più puri desir’ corrompi e guasti. |Ben’è ragion, se ne’ più cupi fondi
Quasi per tèma pallido t’ascondi!”. Ma nell’opera del Marino non manca mai un doppio co-
mico del personaggio tragico: e il doppio di Aurilla è La Ninfa avara della Sampogna, che
chiede all’amante, invece d’oro di eloquenza, la corresponsione di ben più concrete tariffe.
[11-13] Contro l’Alchimia. Al Sig. Carlo Sigonio. Contro un Astrologo. Serie di sonetti contro
le arti magiche e divinatorie: pezzi di bravura che in realtà fanno risaltare la parentela
dell’alchimista con Vulcano, il deus faber che rivelerà nell’Adone la sua posizione in cima al-
la gerarchia simbolica degli dèi pagani (come preciserà M.F. TRISTAN: v. supra, Amori, nota
al sonetto [27], Gelosia). I sonetti si trasformano allora in encomio per Carlo Sigonio,
l’erudito modenese autore di quelle Antichità Ateniesi in cui l’aveva preceduto Guillaume
Postel, e come lui dedito agli esperimenti alchemici, alla cabala cristiana, all’astrologia e alla
numerologia. Ma c’è anche un terzo livello di lettura, che si svela progressivamente per pale-
sarsi nel sonetto 12. (quello con la risposta del Sigonio): l’alchimia vale finché non cerca di
valere come legge esplicativa del mondo, che ne fissi la naturale motilità (“fermare il moto al
fuggitiuo argento”, 11 4, cioè rendere solido il mercurio, principio liquido e lunare, che assie-
me allo zolfo, principio solido e solare, è alla base di tutti gli elementi). La serie, nel suo in-
sieme, rivela da parte del Marino una conoscenza approfondita della terminologia e dei prin-
cipi dell’alchimia “panpsichica” cinquecentesca. • • [11] bionde zolle: i lingotti d’oro (il metal-
lo greggio da forgiare è detto zolla anche nell’Adone, descrizione della fucina di Vulcano, I
77) • il fòlle: il mantice. •• [12] seruo fugace: è lo spiritus mundi ficinano, oggetto, proprio
secondo il Ficino, della scienza alchemica: “servo” in quanto tramite tra l’anima mundi e il
corpus mundi, “fugace” in quanto inafferrabile e non ricondcibile alle leggi umane. È quindi
“la materia del Ciel” descritta con molta perizia dal Marino nel canto X dell’Adone, in perso-
na del dio Mercurio, alchimista, mago e ladro. Marino accetta anche l’identificazione operata
da Agrippa dello Spiritus Mundi con la Quintessenza alchemica (“Un fiore scelto, una so-
718
note
stanza quinta, | Da cui di pregio ogni materia è vinta”). Ma questo del “servo fugace” è anche
l’argomento con cui Giunone nega asilo a Psiche in fuga, perseguitata dall’ira di Venere: “Ma
per non consentir cosa che spiaccia | Ala motrice del gentil Pianeta, | Le nega albergo, e con
tal dir la scaccia, | Servo fugace ricettar si vieta” (Adone IV, 228). • ladro incantato: Orrilo,
il ladrone la cui invulnerabilità derivava da un capello, ucciso da Astolfo nel Canto XV
dell’Orlando Furioso (il “gran Cantor del Po” è ovviamente l’Ariosto). Qui Orrilo è allegori-
camente la Natura, inviolabile nei suoi misteri, invulnerabile all’insistenza analitica e mani-
polatrice dell’alchimista (per Sigonio, nella risposta, “La Mäestra che i contrari adegua”, ma-
estra dell’alchimista, cioè, nella ricerca dell’equilibrio originario). • Hor tu.... fiato: Sigonio
omaggia il Marino come principe degli alchimisti, cioè come l’unico che riuscirà, sotto l’egida
di Apollo, a troncare il capello fatato di Orrilo e a svelare i segreti della Natura. Ma le due
terzine rimangono poco chiare, anche per l’obbligo della risposta per le rime, a cui il Sigonio
si adegua nel modo tecnicamente più difficile (mantenendo tutte le parole-rima). • [13] an-
gusto oricalco: l’astrolabio (non il cannocchiale, dal momento che Marino stesso ne attribui-
sce l’uso a Tolomeo, nella Galeria, “Huomini”, “Mathematici, & Astrologi”, 4: “Ciò che vasto
pensier capir non pote | Con angusto oricalco circoscrissi, | Misurator dele celesti rote”). An-
che qui, la critica all’astrologo è a doppio taglio: viene ripresa e sviluppata, con gli stessi ter-
mini, nell’Adone, da Venere, che vuole smentire le arti magiche e divinatorie di Mercurio
(“Spesso la notte infra i più ciechi ingegni, | Più del’altrui che del suo mal presago, | I moti
ad osseruar de’ nostri regni | Stassi Astrologo Egittio, Arabo Mago; |E figurando con più li-
nee e segni | Ogni casa celeste, et ogni imago, | L’immenso Ciel di tanti cerchi onusto | Vuol
misurar con oricalco angusto. || Giudica i casi, e del’altrui natale, | Mercenario indouin, cal-
cola il punto, | Né s’accorge talhor, miser !, da quale | Non preuisto accidente è souragiunto;
| E mentre cerca pur d’ogni fatale | Congiuntïon come si troua apunto | L’inflüenze esplorar
benigne o felle, | Quasi notturno can, latra ale stelle”). Ma nel poema saranno le amare divi-
nazioni di Mercurio ad avere ragione. • Il sonetto fu poi inteso dai marinisti nel suo senso
apparente: il verso sull’astrolabio, per esempio, è copiato alla lettera dal Fontanella nell’ode
a Padre Casoni, festeggiandone gli interessi astrologici “leciti” (“E gli arcani in mirar d'alma
Natura | Con angusto oricalco il ciel misura”).
[14-16] Serie di due sonetti e un madrigale di tema sabaudo. Con scelta strutturale consueta,
il Marino dà seguito, nel secondo e terzo testo, al tema del cane accennato in chiusa al sonet-
to Contro un Astrologo. •• [14] mirabil Tempio: il Tempio di Artemide ad Efeso, una delle
leggendarie “sette meraviglie”, distrutto dal fuoco appiccato dal pastore Erostrato in cerca
dei suoi 15 minuti di celebrità. • Il lauro trïonfal: quello che incorona imperatori e condottie-
ri, non il frivolo “lauro poetico”. L’uno e l’altro erano ritenuti invulnerabili dal fulmine: e
quindi il lauro che incoronava il Duca di Savoia distornò il fuoco dell’archibugiata.
[17-21] Serie di sonetti dedicate a diverse Accademie d’Italia: Padova, Ferrara, Parma, Roma,
Perugia. •• [17] L’Accademia dei Ricouerati riuniva l’ala “progressista” dei professori pado-
vani, e fu celebre per avere avuto tra i suoi primi membri Galileo e Cremonini. • hedre ser-
penti: “edere serpeggianti” (cfr. per es. PETRARCA, RVF 318, v. 8), tra le quali possono na-
scondersi infide Serpi (detrattori e nemici del Marino). •• [18] L’Accademia degli Intrepidi
fu fondata nel 1600, primo principe Carlo Cybo. • Cômpro: part.pass., “acquistato”. •• [19]
Accademia degli Innominati: fondata a Parma nel 1574 sotto Ottavio Farnese, era una sorta
di agenzia letteraria dei duchi; da cui la dedica mariniana a Ranuccio. • dal gelato... vermi-
glio: “dal Baltico al Mar Rosso”, cioè dall’Alpi alle Piramidi. •• [20] Accademia degli Humo-
risti: fondata nel 1600, raggiunse il massimo splendore all’epoca di Urbano VIII Barberini,
dopo il 1623. L’impresa era una nuvola che riversa pioggia sulle onde del mare: il madrigale
si rivolge a un ideale uditorio di donne, raccolte anch’essa in accademia. • ch’emula... sfavil-
la: “simile ai nostri occhi effonde lacrime [d’amore], accesa dai vostri occhi emette tuoni e
lampi”. Chiaro il gioco di parole su “Humoristi” in “humori stilla”. •• [21] Accademia degli
Insensati: fondata nel Cinquecento, di impostazione letteraria e classicista come quasi tutte
le accademie dell’Italia centrale, aveva tra i suoi membri più attivi il poeta e giurista Filippo
Massini, l’autore del sonetto di risposta al Marino. Il Massini raccolse i propri interventi ac-
cademici nelle Lettioni dell'Estatico Insensato, Perugia, 1588.
719
lira III
[22-38]. Buone feste. Una delle serie tematiche più lunghe dell’intera Lira, trasforma il tema
d’occasione per eccellenza (gli auguri di Capodanno a più o meno illustri personaggi di corte
e di chiesa) in un tour de force nell’arte della variazione e nel tema della circolarità del Tem-
po, caro al Marino “panpsichico” della Sampogna e dell’Adone. Il bastone pastorale è attri-
buto di Pan “Del biforme edificïo | Di mia mole corporea, | Mistura, che partecipa
|Del’huomo, e dela bestïa, | Non sai (credo) il misterïo. | Quest’animata statüa, | Merauiglio-
sa machina, | Del’Vniuerso è simbolo. [...] Dela macchiata Nèbride | La spoglia, ond’io ricò-
promi, | Alo stellato circolo | Corrisponde e confórmasi : | Il baston torto d’àcero, | Che nela
cima incùruasi, | Dimostra (se’l consideri) | L’anno, che del continouo | Si volge in se mede-
simo”. •• [22] fontana d’òr: la luce della conoscenza, metaforizzata in poesia nella “Fontana
d’Apollo” tema del Canto IX dell’Adone. •• [23] L’auersaria del Tempo, e dela Morte: la Fa-
ma. •• [24] Ha di ballo, PINEL, forma e sembianza | L’Anno... il ballo cui qui si allude è quel-
lo del “torchio” (Ad., XX 91), in cui una fiaccola accesa viene passata dall’uno all’altro parte-
cipante; perde il gioco colui che rimane, alla lettera, col cerino in mano, cioè che ha la fiacco-
la in mano quando si spegne. La spia testuale indica che il tema è sviluppato appunto nella
gara di ballo dell’ultimo canto del poema: avvicendamento di danze di diversi stili, ritmo e
velocità, “serie di tempi” che compone l’“inuisibil catena di Natura” (come si vedrà nel sonet-
to [37]). •• [25] Questa... Mobile Scena: altra immagine che troverà sviluppo nel canto V, 122
ss., dell’Adone: il teatro a scena girevole di Mercurio, dove viene rappresentata per Venere e
Adone la storia di Atteone; ma Adone si addormenta, e si perde il finale della storia, che con
la forza dell’exemplum (il sacrificio di Atteone, sbranato per aver voluto vedere e conoscere il
numinoso, sotto le sembianze di Diana) l’avrebbe forse sottratto al suo destino di morte. E
anche in questo sonetto: “Misero quei, che gli occhi al sonno abbassa”, e si perde gli inse-
gnamenti del gran theatro della vita. •• [26] augel Sabeo: la Fenice. •• [30] il Re del Cielo:
Gesù. •• [31] Stefano: santo Stefano Protomartire, la cui festa cade il 26 dicembre, il giorno
dopo Natale. •• [33-36] Al Signor Duca di Sauoia, dalla prigione. Sottosezione nella serie
“Buone Feste”: l’occasione degli auguri serve al poeta a deplorare la propria prigionia ed im-
plorare la grazia da Carlo Emanuele. •• [34] uva gentil, che venga a sciôrre...: il vino, me-
moria e simbolo del sacrificio di Cristo, è ricordato qui come uva: ristabilendo la connessio-
ne, tramite Dioniso, con le “figure” mitologiche di Cristo. •• [35] Vecchiarel dale spedite
piume: il Tempo. • Se sei padre del Vero...: Marino chiede al Tempo di farsi testimonio nella
sua innocenza, e di esporre il Vero, suo figlio (‘sferzato’, cioè ‘malmenato’ dai giudici iniqui),
agli occhi di tutti nella sua nudità, traendolo dall’oblio (“perché di Lethe il tuo sferzato parto
| Non traggi ignudo?”). •• [36] nouo Giasone: Tomaso Stigliani, il rivale del Marino alla corte
sabauda, autore del poema Il Mondo Nuovo e in quanto tale ideale seguace di Cristoforo Co-
lombo. Marino, va da sé, non scriverebbe mai “spiega sui legni... antenne alate”, se non per
legare per sempre al nome del rivale in poesia un’espressione ridicola quasi come
l’immortale verso del novo Giasone: “il Duce in man la verga hauer trouossi...” (in Ad., V,
140, “spiegar turgide vele antenne alate” descrive una flotta giocattolo: quella della nauma-
chia che fa da intermedio allo spettacolo messo in scena da Mercurio per Venere e Adone). •
altri tuoi cari e generosi pegni: gli altri poeti e artisti della corte sabauda. • il tuo felice TORO:
la città di Torino, “saettata” d’oro da Giove-Carlo Emanuello, in un innesto dei miti di Euro-
pa e di Danae. •• [37] Colui che’l tutto moue: l’espressione dantesca serve a segnalare che ci
troviamo nel campo della dichiarazione dottrinale (situata, com’è di consuetudine nel Mari-
no, nei contesti più dimessi e feriali). Qual’è la “dolce d’Amor legge e misura” che governa
l’Universo? Nessun telos diretto verso un fine ultimo salvifico o morale, ma la perfetta ciclici-
tà di un tempo variamente ritmato, irregolare e tuttavia sempre interconnesso, senza solu-
zioni di continuità: “Inuisibil catena è di Natura | Questa serie di tempi... tal... Ch’al estremo
de l’vn l’altro s’apprende” (con l’eco del celebre verso di Dante, Amor ch’al cor gentil ratto
s’apprende, e quindi della teoria d’Amore stilnovista). Non v’è spazio, in questo cosmo, per il
soprannaturale propriamente detto, né per l’evento singolare del miracolo: tutto sta
all’interno dell’invisibil catena di Natura, a cui colui che’l tutto moue non può fare altro che
adeguarsi, come ci insegnano le divinità pagane. La physis una volta creata procede autono-
mamente per legge interna (e “Dio s’accommoda alla Natura”, come scriveva già Juan Huar-
te nell’Essame degli ingegni). •• [38] Gigante African: Atlante.
720
note
[42] Dopo la liberatione. Rilasciato dalla prigione, il poeta ricorre ai tradizionali aneddoti,
narrati da Plinio il vecchio, della scoperta della porpora (la conchiglia del murice spezzata
dai denti di un cane mastino) e del pittore Protogene che, avendo scagliato in preda all’ira
una spugna su un dipinto dove non riusciva a raffigurare la bava alla bocca di un cane, ot-
tenne proprio l’effetto sperato (XXXV, 103): le disgrazie che colpiscono gli innocenti ne ac-
crescono fregio e valore. Non senza suggerire, al lettore “svegliato ed arguto”, l’immagine di
Carlo Emanuello come un cane mastino, o alla meglio come un artista in preda ad una crisi
isterica: immagini entrambe poco edificanti per un capo di Stato.
[43] Al Sig. Crescentio Crescentij nel ritorno di Terra Santa. Il cardinal Crescenzi, tra i più
importanti protettori del Marino, apparteneva a una delle più illustri famiglie della nobiltà
romana e papale. Le tre mezzelune (i “crescenti”, appunto, da cui i croissants che allietano la
colazione dei francesi) che ne costituiscono l’impresa rafforzano l’idea di un Crescenzi novel-
lo Goffredo di Buglione. • Lei non sol riuedrai nelle mie carte... : la Gierusalemme distrutta,
poemetto a cui Marino lavorava in quegli anni.
[45] Di Roma. A Monsù Ranier. Mathurin Régnier, poeta della Pléiade e fedele di Enrico IV,
caduto in disgrazia dopo la morte del sovrano, morì nel 1613 (ma non è detto che il poeta
fosse informato della scomparsa).
[46] Di Rauenna. La “città, anzi un deserto, che non l’habiterebbono i Zingari” della celebre,
esilarante lettera al Rondinelli, che si apre con la parola: “Fiutaculo”. Qui Ravenna è sempre
luogo di “vita afflitta, & egra” per il Marino, ma il tono assai più bilioso e amaro (“ristagna”,
“molle”, “negra” le parole chiave, in posizione di rima; il complesso delle rime rende fisica-
mente il senso dell’umidità malsana della città. • Infra’l Ronco e’l Monton... più di sangue
che d’acqua impingua, e bagna: alla confluenza fra i due fiumi si svolse la tremenda Batta-
glia di Ravenna, che oppose nel 1512 francesi ed estensi agli eserciti della Lega Santa, con
l’uso (allora pionieristico) dell’artiglieria pesante, facendo decine di migliaia di morti in tutti
gli schieramenti.
[47] Ripiglia il Sig. Giacomo Panzirolo, che si sia dato allo studio delle Leggi. • Quelle... Bi-
lance: le bilance d’Astrea (la “Vergine”), simbolo della Giustizia.
[48] Al Sig. Girolamo Preti. Marino dedica questo sonetto sul “Giardino d’Amore” a Girola-
mo Preti, che aveva lanciato con la celeberrima Salmace il genere, melico e suadente,
dell’idillio barocco “alla bolognese” (ripreso poi dal Marino nella Sampogna con molto mag-
gior impegno teorico e formale). La dedica vale da riconoscimento e anche da commiato dal
sistema melico-estetizzante del “marinismo”, verso la complessa architettura simbolica e
strutturale del Palagio d’Amore ritratto nell’Adone.
[50] Al Sig. Rafaello Rabbia. • E mentre d’Israël la strage scriuo: i quattro canti della Stra-
ge degli Innocenti. • duo Toscani illustri: impossibile stabilire se si tratta di Dante e Petrar-
ca, oppure di poeti più recenti. In ogni caso, al poeta moderno non resta, ormai raccolte e
consumate le “biade” del raccolto, che cogliere le rose e i ligustri, le bellezze disincarnate di
un linguaggio letterario ormai di secondo grado: è la consapevolezza strawinskiana
dell’inattualità e del riuso, che caratterizza il Marino dalla Lira 1614 in poi.
[51] La Notte. Questo Prologo alla Filli di Sciro del Bonarelli, “pezzo forte” del teatro pasto-
rale cinquecentesco, fa da ponte dallo stile lirico a quello più propriamente idillico. Nel mo-
nologo della Notte (“figliuola della Terra”) il poeta sperimenta il ricchissimo tessuto melodi-
co, fitto di assonanze, consonanze e rime interne, della Sampogna: tessuto che sotto la sedu-
zione sonora nasconde la soda severità dell’interpretazione mariniana del mito.
[53] Duello Amoroso. Ancora il racconto di una défaillance amatoria. Ritorna il tema della
serie [78-82] degli Amori, da Piacere imperfetto a Trastulli Estivi: racconti grotteschi di in-
successi di varia natura dell’amatore mediterraneo, nascondono sotto il piacere cameratesco
del doppio senso e del racconto delle proprie prestazioni, una corrosiva, fredda “messa a nu-
do” del rituale erotico come congegno di alienazione dell’amatore, costretto all’eterna ripeti-
zione della medesima performance. Niente a che vedere con la valenza conoscitiva dei cin-
que sensi, sistematizzata ed elaborata nell’Adone. Nella raccolta, la scelta di porre qui
l’esilarante poemetto vale come chiave di lettura dei testi successivi: Marino ci informa di
quanto sia da prendere sul serio la chiave amorosa dei cartelli di sfida successivi; e che, li-
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lira III
quidata ogni aura erotico-sentimentale, il loro vero significato si ponga a livello strutturale e
simbolico.
[54-55] Cartelli. A conclusione della raccolta, Marino attinge a un genere cortigiano che ben
raramente raggiunge la dignità della stampa: i “cartelli di sfida” composti dagli avversari dei
tornei o giostre, dove ogni cavaliere enunciava la propria identità fittizia e dichiarava i valori
o l’impresa, di solito anch’essa fittizia e non di rado bizzarra, per cui si batteva. I cartelli sono
descritti come opera, rispettivamente, di Lodovico d’Agliè e del Marino, anche se dalla prosa
appare molto probabile che siano entrambi di mano del Marino. In ogni caso, conta il fatto
che il poeta assuma per sé le parti del campione della Costanza, quando proprio a chiusura
degli “Amori”, qui nella Lira III, aveva posto la canzone-manifesto “Amore incostante”, a
Marcello Sacchetti. Ulteriore prova e ammonizione, se ce ne fosse ancora bisogno, che la ve-
ra sfida conoscitiva non si gioca a livello delle scelte e dei valori (di per sé irrilevanti ed inter-
cambiabili, come si addice a un linguaggio umano non in grado di penetrare oltre la superfi-
cie delle cose) bensì alla lettura di un sistema di corrispondenze molto più sotterraneo e per-
vasivo. E in questo caso la lectio magistralis mariniana, così importante da essere ripresa al
cuore del “poema grande”, elegge a tema la rosa, carica di simboli pagani, cristiani, mistici,
alchemici e (ça va sans dire) anche sessuali. Ma, giusta l’indicazione che ci viene dal comico
Duello amoroso che precede questo duello filosofico, questa vera e propria “disputa” sul filo
di lana delle definizioni, guai a scegliere, a orientare l’opzione sulla rosa mystica o sul sesso
della donna, sulla Venere Pandemia o sulla Venere Urania: tutti epifenomeni di un’energia
cosmica, della “invisibil catena di Natura” ben lungi dal rivelare le sue leggi.
[55] Il Cavalier della Rosa. Questo poemetto, a sviluppo del cartello di sfida che lo precede,
contiene quello che diverrà il celebre “Elogio della rosa” dell’Adone. Anche in questa prima
versione, l’elogio è alla rosa rossa: ovvero la rosa bianca resa vermiglia dal sangue di Venere
(“dal piè di Citherea fatta vermiglia”), o, nella lettura gnostica, la purezza dello Spirito (e la
verginità di Maria) resa rossa, incarnata dal Sangue di Cristo. Il riferimento rosacrociano del
titolo era all’ultima moda: la Fama Fraternitatis, primo “manifesto” rosacrociano, uscì nello
stesso 1614 (come appendice a un’edizione tedesca dei Ragguagli di Parnaso del Boccalini),
ma pare certo che circolasse già da qualche anno. Se il poeta avesse in mente eventuali allu-
sioni in tal senso, o attingesse esclusivamente a quel codice poetico cavalleresco (e sapienzia-
le) che risale almeno al Roman de la Rose, non è dato sapere. In ogni caso, nessuno dei rife-
rimenti, come sempre nel Marino, assurge allo status di verità privilegiata: tutti sono mani-
festazioni, transitorie e vitali, di una stessa physis nascosta che si lascia conoscere solo attra-
verso il mutamento, esperito da chi, nouel Camaleonte, sa essere continuamente cangiante e
assieme “campione di Costanza” nella ricerca della verità. Se esiste un “messaggio” di questo
libro, rivelato per speculum attraverso il gioco dell’artificio e dell’impermanenza, è questo.
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INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI