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giambattista

marino
1614
la lira
a cura di luana salvarani
TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

2012 © LA FINESTRA Editrice,


12, piazza Grazioli
38015 Lavis (TN) – Italia
fax +39 461 241800
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www.la-finestra.com

Prodotto in Italia – UE

ISBN : 978-88-95925-42-4
INDICE

La machina versatile (introduzione) V


Nota al testo XXIV

LIRA I
Dedica a Melchior Crescentio 3
Rime amorose 7
Rime marittime 48
Rime Boscherecce 77
Rime Heroiche 125
Rime Lugubri 161
Rime Morali 191
Rime Sacre 203
Rime Varie 223

LIRA II
Dedica a Tomaso Melchiori 236
Madriali, e canzoni 239

Varianti significative rispetto a Rime 1602 371

LIRA III 373


Dedica al Cardinale Doria 375
Honorato Claretti a chi legge 389
Amori 403
Lodi 499
Lagrime 547
Divotioni 575
Capricci 641

Note 693

Indice delle illustrazioni 724


LA MACHINA VERSATILE

La macchina di Anticitera, orologio astronomico archimedeo

L
a Lira del 1614 è forse, nella tradizione lirica italiana, il libro che ha
pagato più caro il proprio ruolo di creatore di una moda e di capo-
stipite di un’epoca. La varia provincia del marinismo, che iniziò a
estendersi fin dalle prime prove liriche del poeta e che all’altezza del suo
opus magnum era in piena fioritura, divenne poi causa perpetua del conti-
nuo fraintendimento in cui ha continuato a incappare l’opera del poeta.
Presentato volta volta come geniale o ridicolo, raffinato o immorale, ma
senza mai uscire dallo stretto perimetro del giudizio emunctae naris dei

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luana salvarani

cultori di “belle lettere”: con l’unico esito di disconoscere il progetto


dell’autore in termini compositivi e, più latamente, conoscitivi. Come un
grande cubo di Rubik, l’enigma-Lira non aveva certo bisogno, per essere ri-
composto, di uno sguardo estetico che continuasse improduttivamente a se-
lezionare e distinguere un (discutibile) grano da un (ancor più discutibile)
loglio, bensì di uno sguardo logico che afferrasse tutta la costruzione nel
suo insieme, senza scartare nulla, e cominciasse a far scorrere l’uno
sull’altro i vari piani, per comprenderne l’artificio e, come in ogni gioco, ri-
lanciare.

Il Marino non è marinista (a rigore il titolo spetterebbe al solo Busenello), e


ciò è tanto più vero per un testo come la Lira, perché è proprio il Marino li-
rico ad offrire i materiali più seducenti e i congegni più facilmente traduci-
bili in altri contesti, e di conseguenza (coll’evidente beneplacito dello stesso
poeta, che sapeva bene quanto su questo si fondasse la sua fama) offrirsi –
imitando il suo stesso metodo – al rampino, alla rete da pesca o al riuso
dell’infinita schiera degli imitatori. Metafore complesse, donne di bellezza
alternativa al canone petrarchista, oggetti da Wunderkammer, giochi di pa-
role anche sul nome dei committenti o dei potenziali mecenati: di tale og-
gettistica, mariniana o paramariniana e via via sempre più goffa, continua
ad affollarsi l’arte italiana per almeno un secolo e mezzo dopo il 1614, anno
d’uscita della Lira completa. Questo l’avevano già visto, e abbondantemente
deplorato, gli antichi critici di formazione idealistica, variamente (e non
sempre consapevolmente) riecheggiati dal paramarxismo d’accatto dei testi
scolastici fino a tutto gli anni Settanta del secolo scorso. Da almeno
trent’anni quelle riserve moralistiche e di gusto sono passate di moda, e una
vivace Barock-Renaissance ha riacceso l’interesse per le forme
dell’immaginario barocco, cogliendo finalmente (almeno nel campo della
pratica musicale e teatrale) l’imponente cambio di prospettiva, conoscitivo e
anche morale, promosso da quelle forme d’arte. Perché in questo i Padri

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la machina versatile

della Patria ci avevano preso: l’ingegnosità di un concetto ben costruito,


un’immagine sensuosa o brillante, gli ingranaggi ben oliati di una costru-
zione sonettistica perfetta, non hanno mai fatto girare il pensiero né mai
contribuito a nutrire una civiltà. E questo è tutto ciò che rimane, del Mari-
no, nel marinismo; e soprattutto ciò che rimane dopo il ferale passaggio at-
traverso l’abitudine, anche moderna, di leggere a sezioni, di antologizzare,
di analizzare il dettaglio fino a perdere i contorni della macrostruttura. Non
è nella curvatura di una metafora o in una variante ortografica che sta, che
si può leggere la ‘rivoluzione’ mariniana. È la struttura nel suo complesso a
fare la differenza. E, nel caso della Lira, non è certo una Canzone dei baci in
più o in meno a motivare la presenza pervasiva del testo nella storia lettera-
ria d’Europa: è il Libro intero il luogo dei significati, nella sua scansione e
nel suo gioco (asemantico, in quanto tale) di corrispondenze.

La ripresa quasi integrale delle Rime del 1602 nella Lira del 1614, con la so-
la esclusione dei componimenti di soggetto artistico confluiti nella Galeria,
permette al Marino un’operazione, pressoché unica per il suo tempo, di ri-
significazione totale di un testo già divenuto canonico (le Rime) tramite
l’aggiunta di una nuova sezione, che imposta un canone nuovo dichiarando
obsoleta l’estetica fondata dal testo di partenza. Il Marino che è stato defini-
to melico o post-manierista, l’inventore della seconda prattica lirica, che
fondeva la tradizione petrarchista e tassiana con l’alto gradiente mitologico
e metamorfico dell’egloga piscatoria e della favola pastorale meridionale
(dal Sannazzaro al Tansillo), si autodichiara scaduto, passé. Troppo veloce
corre la Storia, nel Seicento carico di smanie moderniste ed entusiasmi
hoggidiani. In dodici anni, dal 1602 (anno di nascita di Francesco Cavalli,
Giacomo Badoaro e Athanasius Kircher) al 1614 (in cui si riuniscono per
l’ultima volta, prima della Rivoluzione, gli Stati Generali della monarchia
francese) è avvenuta una transizione di gusto e di sensibilità che il Marino
avverte per primo e di cui per primo rende conto, aprendo ufficialmente la

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luana salvarani

stagione del Ballet de cour, dell’Opera barocca libertina e fastosa, della pia-
nificazione urbana su larga scala, della scenografia teatrale macchinistica, e
in generale del “pensare in grande”.

Non è più tempo di ossìmori e scarabàttoli, di umbratili madrigaletti a cin-


que voci, di anamòrfosi e metamorfosi “da camera”. L’illusionismo vale solo
se paramount e di massa, nel contesto di una pervasiva “opera d’arte tota-
le”; del resto il cosmo umano con i suoi complicati miti e riti, lo si andava
capendo finalmente, era il più grande teatro illusionistico della Galassia. E
le grandi monarchie cattoliche, dalla Francia alla Spagna a Roma, si affret-
tavano a spendere i soldi in cassa (tutti, ma proprio tutti) per dimostrare a
loro stesse e al mondo di avere pur qualcosa da dire, di fronte alla schiac-
ciante macchina culturale della Riforma. Ordate di gente oltretutto laborio-
sa, che all’improvviso legge, rappresenta, interpreta la Bibbia in inglese o in
tedesco, che crea “dal basso”, rifrangendo in meraviglia il sermo humilis e i
mille idiomi della strada, la lingua novissima delle Passioni o del teatro
shakespeariano. Marino, anche qui, è il primo (dopo il segnale, comico e ar-
rabbiato, del Candelajo bruniano) ad accorgersi dell’emergenza: che con i
sonettini eleganti non si entrava neppure in gara, e che il latino ciceroniano
(o senecano) come unica lingua di cultura ci avrebbe fatti scivolare piano
piano e senza fastidi, tra un domine magister e l’altro, nel terzomondo. Non
gli diedero ascolto, da cui gli esiti che ora si palesano “sotto gli occhi di tut-
ti”.

Marino, di fronte alla sfida, parte dal dato, per così dire costitutivo,
dell’idioma lirico italiano primosecentesco, costituitosi per progressive ad-
dizioni lessicali e retoriche su una stabile base petrarchesca, e continua-
mente sottoposto al labor limae estenuante della “seconde main” di lessico-
grafi e trattatisti, dei fantasmi, periodicamente di ritorno, di immaginate
classicità e vagheggiate età dell’oro, a frenare ogni possibile autentica rivo-

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la machina versatile

luzione. Come una solida architettura romanica rivestita nei secoli di affre-
schi e muri a stucco, intonaci e dorature, marmi e tele nei nuovissimi stili
d’ogni decennio, ma senza mai che la concezione generale dello spazio ne
venisse intaccata. Marino poteva arrivare con la ruspa, come Shakespeare e
Lutero, e col senno di poi l’avremmo amato ancora di più: ma il suo ingegno
mediterraneo gli suggeriva tutt’altra via, molto più sottilmente incisiva. Ma-
rino prende l’architettura vecchia e la fa volare. Invece di rinunciare alla
lingua lirica o farla a pezzi, ne espande gli strumenti a dismisura, con raffi-
natezza e distacco. I versi costruiti a contrasto diventano coppie di sonetti,
poi coppie di sezioni. La gradatio interna a un componimento diviene co-
struzione di molteplici pezzi, disposti in gradazione di intensità lessicale, o
di registro linguistico, verso l’alto o verso il basso. I finali perfettamente or-
chestrati, con accurate proporzioni tra “figure di parola” (gioco fonico) e “fi-
gure di pensiero” (gioco immaginativo), lasciano il posto a interi madrigali
o sonetti la cui unica funzione è richiamare, riassumere, alludere o contra-
stare a un concetto o a un’immagine magari comparsa tre o quattro pezzi
prima.

Ci vogliono grandi doti di freddezza per rinunciare a certe seduzioni espres-


sive, che nel primo Marino sgorgano con la stessa rotondità, economia e
perfezione delle soluzioni cadenzali del primo Monteverdi, esemplarmente
nelle Rime marittime:

Vedrai scherzar su per la riua amena


Il pesce con l’augel, l’ombra con l’onda.

Ma questa del 1614 è un’arte di secondo grado, che non riesce più a vedere
quelle seduzioni senza il sorriso ironico che l’artista consumato riserva al
giovane talentuoso dalle soluzioni ingenue e un filo banali.

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luana salvarani

Lo strumento del riuso antifrastico non è certo ignoto al primo Marino. La


sola idea di aprire le Rime Morali con un sonetto, il celebre Apre l’huomo
infelice, composto esclusivamente per mettere in scena, con un sogghigno,
il Re dei Luoghi Comuni:

Da la cuna a la tomba è vn breue passo

testimonia di un umorismo glaciale che pregusta, e se lo gusterà freddo,


freddissimo, il divertimento di osservare generazioni di interpreti cadere
nella trappola, e, fatti fessi dalla perfezione della maniera mariniana, pren-
dere sul serio questo acido divertissement.

Marino non mette in discussione il primato della poesia amorosa come co-
dice lirico: le Rime sono aperte dalle Amorose, la Lira III dagli Amori; poe-
sie di genere amoroso occupano la prima metà della Lira II, “Madrigali e
canzoni” (la seconda metà è occupata da poesie sacre che però si pongono
come mera variatio, come riproposizione in colori scuri o a sanguigna dei
fasti sensuali delle precedenti). La riaffermazione del primato “amoroso”
serve al poeta da un lato per esercitare più largamente la propria piena pa-
dronanza degli strumenti del genere, e dall’altro per un più importante, sot-
tile messaggio: non è necessario gettar via un genere obsoleto, perché ogni
linguaggio può farsi latore di qualsiasi pensiero, per l’arte vera (...parla
dell’eccellente, non del goffo...) creatrice di un cosmo completo nel quale
tutto si corrisponde. Di conseguenza, anche il lessico della poesia amorosa è
sottoposto, già nelle Rime, a frequenti passaggi in cui il dissolvente ironico
ha la meglio sui più rodati meccanismi espressivi del genere. Impossibile
leggere questo elegante ‘madrigale in genere bucolico’, senza veder sfarfal-
lare continuamente – come su uno schermo mal regolato – l’immagine ele-
giaca del poeta pastorale, Orfeo-Pan sub tegmine fagi, e quella al tutto co-

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la machina versatile

mica di un poeta-capra a quattro zampe, che invoca belando d’esser munto,


con strizzamenti forse neppure garbati, dalla bella mano della pastora:

O CAPRA AVENTURATA,
A cui la mano, onde trïonfa Amore,
Preme le mamme, & a me preme il core;
Ben puoi dirti bëata...

Ecco dove si può arrivare, ci ammonisce Marino, col topos (tra lo sdilinqui-
to e l’erotomane) dell’innamorato pronto a trasformarsi in qualasiasi cosa
venga toccata dalle mani vagheggiate della bella. E sempre nelle Rime, ecco
l’ammonizione per i petrarchisti ostinati dietro la contemplazione della loro
candida cerva:

BELLA CERVA, E FVGACE,


[...]
L’oro del tuo bel pelo
Inuidia il Sole in Cielo;
E Cinthia, hor che’l mio Sol di fior’ t’adorna,
Cangerebbe le sue con le tue corna.

Marino non avrebbe mai scritto un verso petrarchista ultraconvenzionale


come “invidia il Sole in Cielo”, se non per far esplodere il congegno comico
per cui il termine di paragone non è la luce spirituale di uno sguardo o una
casta chioma velata, bensì l’oro del tuo bel pelo, di dubbia collocazione
quando si passa dalla cerva alla donna. Per poi proporre al lettore, accumu-
lando paradossi, l’immagine di una luna-Cinthia che scambia le punte del
crescente con quelle in dotazione alla cerva, e in conclusione non più ‘casta
diva’, ma corbellata pastora con una selva di corna in testa. Sono meccani-
smi di straniamento metaforico progressivo, che possono finire in meravi-
glia o in piscem, il che è propriamente la stessa cosa. Perché è sufficiente la
deviazione, flagrante o sottile, dalla sequenza obbligata e quasi automatica
delle analogie, per produrre conoscenza. Ed è questo il meccanismo che ha
donato al primo Marino l’assoluto primato rispetto ai tanti (e bravissimi)

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luana salvarani

sonettisti manieristi del suo tempo, rispetto ai tanti coloristi e paesisti


dell’egloga “marittima” e “boschereccia”.

Ma Marino non si accontenta di distruggere dall’interno il codice lirico ma-


nierista (sia pure con il beau geste di costruire il massimo monumento di
quel codice, le Rime, nell’atto stesso del minarlo sottilmente). Il passo suc-
cessivo è l’impostazione strutturale di un’arte nuova, quella delle grandi
campiture e delle proporzioni multiple, realizzata nella Lira: sia con la ri-
presa e ricollocazione dei due libri delle Rime, sia con la scrittura della Ter-
za parte, interamente altra sul piano compositivo, quanto è ingannevol-
mente simile su quello tematico e dei materiali.

Il procedimento di riorganizzazione riguarda in primo luogo alcune impor-


tanti modifiche introdotte in alcuni testi delle Rime, all’atto di essere ripro-
posti nella Lira. È significativo che nel passaggio siano state introdotte solo
pochissime varianti importanti e tutte nella direzione di cui sopra, mentre
sono pochissime le varianti “migliorative” di poco momento (come quelle
che potrebbero derivare da un normale labor limae) e quasi tutte rivolte al-
la correzione di errori evidenti, venissero da erronea lettura del manoscritto
o da refusi tipografici. Il Marino insomma non propone, nella prima e se-
conda parte della Lira, un testo “riveduto e corretto” delle Rime. Il testo gli
va bene così com’è (sanzionato da dodici anni di riprese, imitazioni, utilizzi
in musica) e non intende affatto migliorarlo. Semplicemente, quando può,
lo modifica e ‘risignifica’ con forza, nel senso della nuova poetica. Ecco un
pezzo delle Rime nel testo nuovo proposto nella Lira:

NELA VIVA FONTANA


Dele lagrime mie la mano immerse,
E di torbido humor poi che m’asperse
La mia bella Dïana,
In nòua forma, e strana
Il corpo no, ma l’anima conuerse.

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la machina versatile

Empia, poi che ti mostri a me sì cruda,


Mòstrati ancora ignuda.

Il testo originale delle Rime 1602 concludeva così:

Empia, perche mostrarti a me sì cruda,


S’io non ti vidi ignuda?

L’autore interviene, tra tanti madrigali mitologici, su uno dedicato ad Atte-


one: mito caro al Marino maturo, a cui dedicherà uno tra i più potenti idilli
della Sampogna e diversi momenti dell’Adone. Interpretato in chiave cri-
stiana e gnostica, il “controbattesimo” di Diana sdegnata verso il giovane
che ha osato spiarla nuda (e così attingere a conoscenze proibite) vale da un
lato come cacciata dall’Eden e riconduzione alla ferinità afasica e indifesa;
dall’altro, come possibilità di esperire – sbranato e mangiato dai suoi stessi
cani – un sacrificio eucaristico collettivo, che replica quello di Cristo con il
suo valore salvifico. Significati che emergono con sempre maggiore fre-
quenza nei pezzi “mitologici” della Lira III. In questo contesto, è chiaro che
Marino non poteva accontentarsi del gioco arguto del madrigale originale,
dove l’analogia con Atteone serve solo a rivendicare (con il consueto stilema
della domanda finale) la mancata fruizione del corpo dell’amata.
Con la modifica il significato generale è lo stesso, ma tutta diversa
l’intonazione. Trasformata la civettuola domanda conclusiva in un freddo
imperativo, il corteggiamento si trasforma in resa dei conti. Il poeta non è
più l’amante respinto che si interroga. È il sapiente che conosce ed esige; e,
nella nuova versione, prende corpo il sospetto che il “controbattesimo” della
donna-Diana crudele, che ha trasformato non il corpo ma l’anima del tra-
sgressore-vittima, abbia eliminato ogni macchia di bontà per far emergere,
il minaccioso, il ferino, il numinoso del male allo stato puro. Ed ecco, come
nei film del ciclo di Alien, uscire dal ventre di un madrigaletto vezzoso una
bagatella inquietante: non per trasmettere “contenuto” alcuno, ma sempli-
cemente per mostrare il potere metamorfico della scrittura eccellente.

XIII
luana salvarani

Questo potere sta anche nello scandire il tempo interno del testo-cosmo:
una quarta dimensione, che il poeta eccellente sa curvare a proprio piaci-
mento, sfondando o contraendo quando necessario il continuum estenuante
del tempo “reale”, cronologico, allo stesso modo in cui metamorfosi (e re-
surrezioni) sfondano il limite del tempo biologico umano. Su questo piano il
Marino opera, in primo luogo, con le stesse dimensioni del Libro, che im-
pone tempi di lettura mastodontici e moltiplicati rispetto a qualsiasi canzo-
niere, e consente tuttavia la possibilità di accedervi da qualsiasi lato e di
percorrerlo nella direzione voluta, senza la tirannia biografica e cronologica
che rende unidirezionale l’attraversamento del capostipite petrarchesco. Ma
l’azione sul tempo del testo agisce anche a livello microstrutturale, per e-
sempio con l’abolizione (nel passaggio dalle Rime alla Lira) di strumenti
come la dittologia sinonimica e più in generale le terne di sostantivi o verbi
di significato analogo, oppure le tessere aggettivali più ovvie: tutto ciò che,
come ogni materiale sonoro troppo standard, fa scorrere la lettura e fa per-
dere al lettore la presa sul tempo interno del testo. Così viene trasformata la
seconda quartina del sonetto di lode alla penna di Bernardino Stefonio,
predicatore e tragediografo gesuita:

L’vna Apollo sostiene, e con tal vena


Moue, che già per te men chiara e bella
I dorati coturni a la nouella
Cede l’antica homai Tragica scena.

Nelle Rime il testo recitava: “L’una Apollo sostien, moue, et affrena, | Onde
per te men glorïosa, e bella”. La convenzionalità della terna sostien, move et
affrena, verbi dal senso diverso e senza una direzione (non c’è sequenza, né
logica né temporale, tra loro) non sfugge all’orecchio finissimo del Marino
1614, e meno che mai la debolezza della coppia glorïosa, e bella a fine verso,

XIV
la machina versatile

dove i due aggettivi finiscono per elidersi tra loro, e la dieresi prevedibile fa
lo stesso effetto delle troppe cadenze d’inganno nel giovane Mozart. Due
tocchi, e le ovvietà spariscono, mentre un raffinato enjambement (“Vena |
moue”) provvede a rallentare ulteriormente il tempo, e a manovrare la no-
stra attenzione, introducendo un gesto (teatrale, com’è giusto quando si
parla di un autore di tragedie sacre piene di effetti speciali) dove prima c’era
solo una sequenza di immagini concatenate secondo gli automatismi di un
genere.

Al controllo del tempo si aggiunge il controllo dei piani e dei registri del di-
scorso, quello che definiremmo, in lessico musicale, la strumentazione: un
certo enunciato melodico suonerà strappalacrime sul violoncello, ma paro-
dico sul trombone, e la distinzione dei due livelli è capitale per evitare i pe-
ricoli del “goffo”. L’opera di affinamento, ça va sans dire, riguarda anche e
soprattutto i modi del comico. Non è la stessa cosa, lodare un rampollo
d’illustre schiatta così:

O bennata, o bëata, altèra verga


(Rime)
oppure così:
Oh ben nato arboscel, bëata verga
(Lira).

Il doppiosenso rimane, e del resto è indispensabile, aderente com’è al con-


tenuto di qualsiasi encomio ancien régime (dove virilità guerriera e potenza
generativa vanno di pari passo): la revisione mariniana non va in direzione
aulica o estetizzante. Anzi, nella nuova versione, l’espressione bëata verga,
non più divisa dall’inciso, si staglia tranquillamente e coraggiosamente in
tutta la sua potenzialità comica, in tutto il suo ridicolo calcolato. Il proble-
ma della prima versione è la mancanza di economia: bennata e bëata, in
quella sequenza assonante e in quel contesto, vogliono dire più o meno la
stessa cosa, cioè nulla. E quanto all’altèra verga, a questo punto non diver-

XV
luana salvarani

te, ma suscita solo complessi di castrazione nel lettore. Viceversa, gesti e


immagini come questi, che il nuovo Marino elimina senza pietà, costitui-
scono il pane quotidiano di marinisti anche dei più illustri come Claudio
Achillini. Dove il goffo – inevitabile nel prelievo “marinistico” di singole
tecniche – incontra però una diversa ma personale capacità di farsi archi-
tettura del testo, e fonda un’estetica indipendente, chiara indicazione per
quello che sarà il frutto speculare, ma non tanto paradossale, di grandi ope-
re come la Lira o l’Adone: il Barocco romano. Dove il “pensare in grande”
mariniano, tutto astratto e d’ingegno, si fa materia pesante, marmo, acqua e
travertino, e scenografia non più per la sola mente ma senz’altro per i sensi.

Questo parrebbe un possibile approdo anche per la Lira III, che in effetti
espande il ventaglio delle forme ben oltre il canone lirico (canzone, sonetto
e madrigale) includendo anche macchine versuali di maggior peso e impo-
nenza: idilli, prologhi tragici (come quello alla Filli di Sciro del Bonarelli), e
veri e propri poemetti, per poi concludere con due “cartelli di sfida” in prosa
e un Cavaliere della Rosa in ottave (chissà se c’erano seicentine nella bi-
blioteca di Hugo von Hofmannsthal...), che poi diverrà il celebre “elogio
della rosa” dell’Adone. La direzione, insomma, è indiscutibilmente verso il
Libro-mondo, il Gesamtkunstwerk, destinato a travalicare e ad annullare le
frontiere tra i generi e di conseguenza a delegittimare il medesimo genere
lirico.

Eppure il Marino riesce, con un prodigio d’obliquità, ad evitare la trasfor-


mazione del Libro in Monumento, quella che verrà appunto realizzata dal
Barocco romano e superbamente interpretata dall’urbanistica e
dall’architettura barberiniana. I modelli interiori del poeta sono sempre le
“machine versatili” come quelle che descriverà nell’Adone, congegni mobili
e leggeri governati con agilità da Mercurio, scene girevoli o mappamondi
con macchina del tempo incorporata; oggetti in materiali futuribili senza at-
trito né cigolii, pronti a far correre i propri rotismi o a sparire in un baleno,

XVI
la machina versatile

come solo può farlo una macchina mentale. Le “machine versatili” delle po-
esie della Lira III non affermano ma costantemente smentiscono loro stes-
se: oppure si rifrangono in una pluralità di significati, tutti convenzionali e
quindi tutti veri, tra i quali il lettore non è invitato a scegliere, neppure
provvisoriamente, bensì ad accettarli e a goderseli tutti, nella ricchezza della
loro varietà e contraddittorietà.

L’artificio sarebbe anche innocuo se Marino non fosse, prima di tutto, un


poeta religioso, che legge la pervasiva presenza del divino in ogni manife-
stazione del mondo sensibile. Poeta religioso e (a un primo livello di lettura)
cattolico ortodosso, come rivelano le scelte scritturali delle Divotioni, che
riprendono i luoghi biblici più citati, anche dai decreti del Concilio di Tren-
to, negli attacchi teologici alla Riforma.
Il problema è che nella “machina versatile” mariniana l’ortodossia cattolica
non è che la forma assunta, in quel tempo e in quel luogo, da un divino che
volta volta si propone come paganesimo o cristianesimo; e dietro l’opzione
cattolica, per esempio, per il libero arbitrio invece che per la salvezza sola
fide dei luterani, essa nasconde senz’altro (e anzi rivela senza ambasce, ba-
sti pensare al sonetto [50] delle Divotioni) una lettura gnostica dei testi sa-
cri. Che fine faccia la primazia della Chiesa interprete è piuttosto chiaro. Gli
abilissimi cani da tartufo dell’Inquisizione scovarono il frutto proibito e col-
pirono, iniziando poi a diffondere (per neutralizzarlo meglio) l’immagine di
un Marino sensuale e superficiale, edonista pornografo e abile giocoliere di
parole, a cui si sono poi allegramente accodati, fino ai giorni nostri, inter-
preti d’ogni colore, e soprattutto idealisti e ‘laici’, che per salvare qualche
scena d’amore a Posillipo non hanno avuto problemi ad affondare tutto il
resto.

Per tenere costantemente in moto la “machina versatile” del Libro e assie-


me dare solidità alla sua struttura, Marino inventa, nella Lira III, le “serie”

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luana salvarani

nel senso con cui si impiegano nella composizione seriale o dodecafonica


(cioè intese non come meri raggruppamenti tematici, ma come sequenze
organizzate con una dinamica interna ben precisa). I blocchi dedicati ai Ba-
ci o alla Maddalena pentita c’erano anche nelle Rime, ma l’assemblaggio
dei pezzi appariva non programmato, oppure rispondeva esclusivamente a
ragioni estetiche semplici, come il climax retorico o il contrasto espressivo.
Nella Lira III, le “serie” graduano l’argomento, ne mostrano le diverse acce-
zioni, mettono in sillogismo due letture opposte per farne sgorgare una ter-
za, inaspettata.
E quando vi è progressione di tono, è sempre discendente: dal tragico al
comico, dal solenne al leggero, dal pathos tassiano alla risata liberatoria,
come per dispiegare ogni volta una precisa gerarchia gnoseologica che (co-
me sarà esplicito nell’Adone) prevede il primato dei sensi sull’intelletto, e,
nell’ambito dei cinque sensi, del tatto sulla vista. Lettura potenzialmente
eversiva eppure perfettamente inquadrabile, come premesse e come strut-
tura, nell’ortodossia aristotelica, secondo la quale i sensi non possono sba-
gliare, è l’intelletto a interpretare male i phantasmata. (Marino esplicita,
comunque, l’intera questione nel sonetto [10] delle Divotioni).

Per capire come funziona una ‘serie’, ce ne sono alcune esemplari, come per
esempio quella dedicata al Sogno (nn. 43-48 degli Amori), composta da tre
sonetti in stile “aulico” e tre madrigali progressivamente più leggeri, chiusi
da un’allegra barzelletta su un marito cornuto. I tre sonetti appaiono ele-
ganti variazioni sul classico tema amoroso del “piacevole inganno”, cioè del
sogno che mette a portata di mano le bellezze di una donna altrimenti inac-
cessibili, ma già il n° 44 vira in chiave conoscitiva, con l’uso di locuzioni
precise in senso tecnico-aristotelico, come “il senso formi” (cioè “prendano
forma nel senso interno, come phantasmata ricavati dai segnali sensoria-
li”); e il n° 45 presenta la donna che compare in sogno come una guida sa-
pienziale, alla maniera della Beatrice della Vita Nova, che si rivolge al poeta
come “o mio fedele”, secondo il codice stilnovistico dei “fedeli d’amore” (di

XVIII
la machina versatile

modi neostilnovistici, come rileveremo qua e là nel commento, è intessuta


tutta la Lira III); e tuttavia, perché non la prendiamo troppo sul serio, si la-
scia baciare. Il sogno è allora chiave di conoscenza, possibilità di diletti sen-
suali altrimenti proibiti, o solo angoscia per l’amante che si sveglia solo?
Tutte e tre le cose assieme, per la terna di madrigali che segue: il primo è
serissimo, d’alta maniera tassiana, seguìto immediatamente, a doccia scoz-
zese, da un pezzo di comicità spumeggiante, dove Marino diventa volta vol-
ta Giove o Diana, in una girandola di situazioni e posizioni etero ed omoses-
suali, fino alla beffarda metamorphosis interrupta finale, dove il poeta, di-
venuto toro come Giove per amare Europa, rimane lì a mezzo senza
l’oggetto della sua seduzione, propriamente “cornuto e mazziato”. Inne-
stando così il madrigale conclusivo della serie, dove il poeta invita la donna
a realizzare concretamente il sogno erotico (di corno era la porta da cui en-
travano i sogni veritieri):

Se vuoi ch’apieno egli verace sia,


Il geloso marito
Lascia schernito, e sì farà ritorno
Per la porta del corno.

E così tutto il solenne percorso gnoseologico finisce in barzelletta, perché (ci


ammonisce Marino) senza la versatilità del riso e del capovolgimento comi-
co non esiste vera conoscenza.

La “machina versatile” mariniana opera anche in senso inverso, cioè non


solo nella diffrazione dei significati di una medesima immagine, ma anche
nel saper collegare miti e racconti diversi come diverse manifestazioni del
medesimo contenuto simbolico. Per esempio nel dittico Saette d’Amore ve-
lenose – Venere con Anchise (nn. 2-3 dei Capricci), che sviluppa il tema
dell’ambigua proporzione amore - sapienza - veleno.

XIX
luana salvarani

Di strali inerme, e scârco


Giacea dormendo Amor tra’ mirti ombrosi,
Quando tra’ fiori Vipera serpente
Nela vòta faretra entrò repente...

La chiave simbolica di questo madrigale sarà svelata nel terzo canto


dell’Adone: Amore addormentato (come Adone quando scatta
l’innamoramento di Venere) è il soggetto della quarta (e più importante)
fontana tra quelle che presiedono i quattro cortili del Palagio d’Amore, con
gradiente ‘neoplatonico’ crescente: Nettuno, Piramo e Tisbe, Salmace ed
Ermafrodito e infine Amore addormentato. La Vipera, va da sé, è anche il
Serpente che suggerì di staccare un frutto dall’albero della Conoscenza. Ma
qui il percorso conoscitivo non si compie: Diana, nemica giurata di Amore
nel sistema allegorico dell’Adone, rappresenta un sapere essoterico, banale,
in grado solo di profanare un oggetto sacro come la faretra di Amore: per
cui la Vipera, portatrice del farmaco-veleno della conoscenza, fugge. Ma ec-
co il secondo tempo, cioè il madrigale successivo:

Mentre la bella Dea


Col genitor d’Enea prendea riposo
Sotto vn olmo frondoso,
Del superbo Cinghiale il teschio horrendo,
Che da’ rami pendea,
La fronte al bel garzon ferì cadendo.

La testa del cinghiale che uccise Adone, appesa come trofeo, cade ferendo
Anchise (padre di Enea, e quindi capostipite della stirpe latina come esem-
pio di tutto il genere umano). Data l’equivalenza tra il sacrificio di Adone e
quello di Cristo, l’allusione al sacrificio eucaristico (e alla Messa cattolica
che lo ripropone) è evidente: quel sacrificio continua ad essere celebrato, e
non solo rammemorato come nella Messa luterana. La dichiarazione di or-
todossia religiosa non potrebbe essere fornita in un contesto più depistante;

XX
la machina versatile

tanto più che la scena, palesemente comica con quell’Anchise messo ko in


piena azione, mescola di nuovo le carte non appena abbiamo messo a fuoco
una seria lettura allegorica del madrigale. E il Fetonte morto che segue, do-
ve il tema sacrificale della “doppia morte” diventa oggetto di burlesca tratta-
tiva tra l’antico pirata della strada e un Caronte più pigro di un barcaiolo di
Trastevere:

“Anzi conuien, che due volte mi porti


Per cagion di due morti
(A lui rispose il mal rettor del lume):
M’arse la fiamma, e mi sommerse il fiume.”

ridimensiona sùbito, pur senza negarle, le vaste orbite simboliche aperte dai
due madrigali che precedono.

L’allenamento al contrasto, la disattivazione di ogni scelta di campo apriori-


stica, e in definitiva la sfida costante al principio di non-contraddizione è
l’elemento fondamentale del modello conoscitivo proposto dalla Lira, il più
malinteso (o neppure contemplato) dal marinismo mainstream, che non
riesce quasi mai a uscire dal divertimento mezzo scandalizzato mezzo pic-
cante delle battutine da oratorio. Tra i pochi figli della lezione mariniana,
forse solo i francesi (forse proprio perché i più illegittimi) riuscirono bene
nel trarne i princìpi di un’arte nuova, amplificandone a dismisura le pro-
porzioni da symphonie funèbre et triomphale, e rinunciando del tutto a se-
guirlo sulla strada del comico, poco digeribile per l’esprit parigino. Una
strada invece esplicitata nella scelta mariniana di chiudere il Libro con la
sezione dei Capricci.

Anche qui, un congegno a doppia mandata: il lettore distratto, o colui che


percorre il solo indice, vi individuerà la solita sezione di rime estravaganti o
di soggetto leggero, accumulate senza ordine alla fine di ogni canzoniere
cinque-secentesco (come anche nelle Varie che chiudono le Rime del 1602),

XXI
luana salvarani

perché “non si butta via niente”. Il lettore “svegliato ed arguto” che percorra
tutto il libro si renderà invece conto che questa è la sezione più importante,
più propositiva di tutta la Lira III.

Già abbiamo visto con quale vertiginoso sesto grado di simbologie il Marino
apra la sezione, e con quale artificio d’alta gamma (i due finti, o veri, cartelli
di sfida per un torneo sabaudo) introduca il poemetto sul Cavaliere della
Rosa, che chiude il volume e ne addita i futuri sviluppi nell’Adone. Il poeta
che, in chiusa degli Amori (nella canzone Amore incostante, a Marcello
Sacchetti) si era presentato come nouel Camaleonte, cantore dell’instabilità
e della mutazione perenne, ora fa scendere il sipario, a specchio, come cam-
pione della Costanza e dei Fedeli d’Amore.
Solo un gioco? Se mai un giuoco-serio, come quello di Francesco Pona
quando, con lo pseudonimo parlante di Eureta Misoscolo, metteva in scena
nella Maschera Iatropolitica la guerra tra “Ceruello e Cuore Prencipi riua-
li”. Non più rivali, nel giuoco-serio del Marino, dove invece rappresentano
solo differenti modi di approccio a un sapere che non è dato una volta per
tutte, ma si costruisce man mano, scavandosi da solo il proprio alveo. Se-
condo Juan Huarte, il teorico cinquecentesco degli ingegni su base fisiologi-
co-galenica, l’ingegno capriccioso è l’unico in grado di produrre vera cono-
scenza, perché “a guisa di capra” si inerpica saltando su pendìci non battu-
te, lascia indietro chi lo insegue, è in grado, con un balzo di lato, di sorpren-
dere e percorrere le vie più inaspettate, tracciando i percorsi che gli “ingegni
pecorini” si accontenteranno di seguire, in coda al loro gregge. La descrizio-
ne si adatta perfettamente al messaggio dei Capricci mariniani. I quali, in-
fatti, chiudendo con l’allusione ai “Fedeli d’Amore” sorprendono (ancora
una volta) ricordandoci che le acrobazie di una mente brillante, di
un’instabilità e rapidità mercuriale, non esauriscono il percorso conoscitivo.
È necessaria la severità, la disciplina della fedeltà al testo, il che significa

XXII
la machina versatile

non solo non tradirne la lettera, ma prenderne sul serio tutti gli strati, quelli
ideati dall’autore e quelli ancora da scoprire (o da inventare).

Su questa traccia abbiamo eseguito la trascrizione del Libro, con le cautele e


la resistenza a intervenire di un filologo biblico, cogliendo il carattere sì pa-
gano e gnostico, “favoloso” e libertino, ma anche serio, scritturale, del rigo-
roso percorso di iniziazione (neo-stilnovista) che ci addita il panerotismo
mariniano. In fondo al quale sarà forse dato di manovrare in prima persona
la “machina versatile”; e divertirsi come matti, mescolando a piacimento
tempo e spazio, alla faccia di tutte le Rivelazioni.

XXIII
NOTA AL TESTO

La presente edizione è esemplata sulla Lira (Prima, Seconda e Terza Parte) secondo
l’edizione Ciotti del 1614:

LA LIRA, | RIME | DEL CAVALIER | MARINO. | Amorose, Marittime, Boscherecce, Heroi-


che, | Lugubri, Morali, Sacre, & Varie. | ALL’ILUSTRISSIMO, | & Reuerend. Monsig. |
MELCHIOR CRESCENTIO, | Cherico di Camera. | CON PRIVILEGI. | Nuouamente
dall’Autore | purgate, & corrette. | In Venetia, Appresso Gio: Batt: Ciotti, M.DC.XIIII. ||
RIME | DEL | CAVALIER | MARINO. | PARTE SECONDA. | Madriali, & Canzoni. |
ALL’ILLUSTRISSIMO | SIG. TOMASO MELCHIORI. | Con Priuilegio, & licenza de’ | Supe-
riori. | IN VENETIA, M DC XIIII. | Appresso Gio: Battista Ciotti. || DELLA | LIRA | DEL |
CAVALIER | MARINO. | PARTE TERZA. | Diuisa in | Amori, Lodi, | Lagrime, Diuotioni, | &
Capricci. | ALL’ILUSTRISSIMO, | & Reuerendiss. Sig. | CARD. DORIA, | Arciuesc. di Paler-
mo. | CON PRIVILEGI. | In Venetia, Appresso Gio: Batt: Ciotti, M.DC.XIIII. ||

Abbiamo escluso da questa edizione i testi non mariniani (le Poesie di diversi al
Cavalier Marino) e le Proposte e Risposte che chiudono le Rime, le une e le altre
destinate al volume finale di lettere e prose, in quanto elementi essenziali nella co-
struzione dell’immagine pubblica e della rete di rapporti politici e intellettuali del
Marino.

Per quanto riguarda la Lira I e II, che ripropongono le Rime del 1602 (con
l’esclusione dei testi confluiti nella Galeria), abbiamo segnalato in nota esclusiva-
mente le varianti più significative (interi versi o locuzioni cambiate) che presup-
pongono un intervento di riforma stilistica dell’autore rispetto alle Rime.

Per la Lira III, coerentemente con la nostra ipotesi che vede questa raccolta come
momento centrale dell’evoluzione poetica e intellettuale mariniana, abbiamo utiliz-
zato un tipo di commento discorsivo e non sistematico (impostato su serie e sezioni
più che sui singoli componimenti) da utilizzare occasionalmente come ausilio alla

XXIV
nota al testo

lettura, ma che possa soprattutto essere letto, anche da solo, come proposta critica
per l’interpretazione dei testi.

L’elemento più sorprendente della stampa del 1614 è la sua qualità: alla prova dei
fatti, la celebre lettera del Marino al Ciotti dove l’autore inveisce contro l’editore per
i “farfalloni” di questa stampa si manifesta – nel contesto del consapevole ruolo
pubblico delle lettere mariniane – come un’abile e arguta mossa pubblicitaria. Al di
là dell’aspetto estetico povero, comune a tutte le edizioni di poesia dell’editore ve-
neziano (tascabili e paperbacks dell’epoca, di larga diffusione), la stampa del 1614
conta un numero di refusi nella media e una interpunzione pressoché perfetta, e-
lementi che fanno pensare a un controllo diretto dell’autore sulle bozze.
Di conseguenza abbiamo utilizzato criteri decisamente conservativi, tanto più che
l’eccellente edizione curata da Maurice Slawinski per la RES offre già, a chi lo pre-
ferisse, un testo integrale garbatamente modernizzato.
Ci siamo ispirati alla prassi corrente dei paesi anglosassoni per i testi cinque-
secenteschi (citiamo a modello l’edizione di tutte le opere di John Donne, diretta da
Gary A. Stringer per la Indiana University Press, iniziata nel 1995 e ora giunta al
quinto volume pubblicato): conservare scrupolosamente, in tutte le sue particolari-
tà e oscillazioni, l’ortografia del tempo (incluse le grafie d’epoca per –u e –v, maiu-
scole, digrammi etimologici, etc.), e quando possibile anche l’interpunzione; evitare
l’utilizzo di segni sconosciuti alla prassi antica (< >, [ ]) che disturbano inutilmente
il lettore “non addetto ai lavori” (abbiamo aggiunto, tra i segni diacritici, solo le die-
resi e qualche volta i circonflessi, per aiutare a decifrare parole contratte). Il rispet-
to dell’interpunzione originale, di impostazione metrica e oratoria (basata sul pre-
supposto della lettura a voce alta) piuttosto che logico-sintattica in senso moderno,
facilita la scansione dei versi e, data la relativa brevità dei pezzi, non costituisce
quasi mai un serio ostacolo alla comprensione della lettera; si è intervenuti solo nei
rarissimi casi in cui ciò accadeva.
Abbiamo corretto i refusi evidenti e accolto alcune varianti non rilevanti senza dar-
ne segnalazione, in segno di rispetto per il tempo e per l’intelligenza del lettore.

XXV
CAPRICCI.
[1]
Per la Triaca.

QCompon
, de le cui polpe opra vitale
VESTA
medica man, Vipera ardente
Per le Libiche vie volò souente
Animata saëtta, e viuo strale.
Ma se più d’vna piaga aspra e mortale
Aperse già col velenoso dente,
Fatta hor noua d’Achille hasta pungente
Porta schermo al velen, salute al male.
Qui lo sguardo crudel talhor girate
O voi che vaghe sol de l’altrui sangue
Sempre sempre ferite, e non sanate.
E sìavi almen, di chi trafitto langue
Ad imparar pietà, Donne spietate,
Ne la scola d’Amor maëstro vn Angue.

[2]
Saette d’Amore velenose.

D i strali inerme, e scârco


Giacea dormendo Amor tra’ mirti ombrosi,
Quando tra’ fiori Vipera serpente
Nela vòta faretra entrò repente.
Andò per trattar l’arco
Dïana allhor del sonnacchioso Dio,
E la Serpe n’vscìo.
“Crudo fanciullo, o che tu vegghi, o posi
(Disse la Dea de’ boschi)
Han sempre l’armi tue veleni, e toschi.”

643
lira III

[3]
Venere con Anchise.

M entre la bella Dea


Col genitor d’Enea prendea riposo
Sotto vn olmo frondoso,
Del superbo Cinghiale il teschio horrendo,
Che da’ rami pendea,
La fronte al bel garzon ferì cadendo.
“Fera maluagia, e rea
(Disse allhor Citherea)
Così persegui i miei più cari amanti?
Il tuo furor m’vccise
Già, viuo, Adone: & hor, estinto, Anchise.”

[4]
Fetonte morto.

A l passo, oue si varca


La riua del’horribile Acheronte
Era giunto Fetonte,
Quando, “A te dunque dar deggio ricetto
Audace giouinetto
Nel picciol legno mio (disse Caronte),
Ch’arsa hai quasi quest’onda, e questa barca?”
“Anzi conuien, che due volte mi porti
Per cagion di due morti
(A lui rispose il mal rettor del lume):
M’arse la fiamma, e mi sommerse il fiume.”

[5]
Nido di Colombe in vn Lauro.

H or chi fia più che dica


D’Amor Dafni nemica?
Già cangiate le voglie ho co’ sembianti,
Né più tornar potendo a quel ch’io fui,
Piacemi almen nutrir gli amori altrui.
Ecco fra’ seggi ombrosi
Dele mie braccia ascosi
Dolci alternano i baci, e dolci i pianti
Dela madre d’Amor gli augelli amanti.

644
capricci

[6]
Nella Sconciatura
della Signora D. Veronica Spinola.

P erché disperso, e môrto


Habbia con parto acerbo & imperfetto
Il tuo nobil concêtto,
SPINOLA bella, intempestivo aborto,
Turbar non deui il bel ciglio sereno,
Né sciôrre al pianto il freno.
Ale bellezze eccelse e singolari
Forme simili o pari
Nel mondo hauer non lice:
In Cielo vn Sole, in terra vna Fenice.

[7]
Ad vn orbo ammogliato.

P oco senno facesti,


O tu che cieco amante
Sposo di bella Donna esser volesti.
S’Argo con luci tante
Vna Vacca a guardar non fu bastante,
Dimmi, come guardar potrai costei
Tu che senz’occhi sei?

[8]
Risposta.

C ieco son’io ma del’amato oggetto,


Che l’occhio orbo non vede,
Il pensier mi fa fede, & al difetto
Dela virtù visiua
Supplisce l’intelletto:
Dove il guardo non può, la mente arriua,
E s’altra proua Amor più certa chiede,
Quel ch’è tolto a la vista, al tatto crede.

645
lira III

[9]
Contro vn simulatore.

N o, che nulla cred’io di quanto fingi


Perfido adulator. Folle chi crede
A quel ch’ode da te, se quel che vede
Sol d’vn’ombra di vero orni, e depingi.
Tu di noce bugiarda il crin ti tingi,
L’occhio trauolgi, e moui obliquo il piede.
Giura che Gioue è in Ciel, non ti dò fede,
Mille inganni in vn detto accogli, e stringi.
Come creder si può, che sia verace
Quel che dentro nel cor celi ale genti,
Se quel che mostri fuor, tutto è fallace?
E chi vuoi che dia fede ai falsi accenti,
Se lo stesso silentio è in te mendace?
E se tacendo ancor tradisci, e menti?

[10]
Contro l’Oro.

O ro, amato metallo,


Se tanto amato sei, tra cupi fondi
Perché fugace e pallido t’ascondi?
Ti stai sotterra ascoso
Forse perché pauenti
L’insidie rie dele rapaci genti?
Perfido insidïoso,
Più tosto (credo) impallidisci, e fuggi
Dala luce serena,
Perché de’ falli tuoi temi la pena.

646
capricci

[11]
Contro l’Alchimia.

O sacra fame, che con studi tanti


Cerchi volgendo le fallaci carte
Del’oro il fonte, e fabricar per arte
La pietra Filosofica ti vanti,
E curua, e china al cauo vetro auanti,
Squallida e magra in solitaria parte
Irrìti nel carbon l’aure consparte
Dale bocche de’ mantici soffianti:
Semini in mar le tue speranze, e mieti
Ombre false d’error, ch’altro non hanno
Scopo, che’l nulla, i Chimici secreti.
Di quel vano sudor chiaro è l’inganno,
Ch’altrui pasce di fumo; e poco lieti
Son quegli acquisti, oue’l guadagno è danno.

[11]
Nel medesimo suggetto
al Sig. Carlo Sigonio.

E tu pur dunque al dolce inganno intento,


CARLO, il bianco metallo in bionde zolle
Cangiar credulo speri? e benché molle
Fermare il moto al fuggitiuo argento?
E temprando in calor tepido e lento
Dela fucina il fomite che bolle
Pendi tutto su l’opra, e folle, il fòlle
(Gonfio di vanità) gonfi di vento?
E’n schiera vai col vulgo auaro e stolto,
Ch’agguaglia al Sole il foco, e sogna mille
Magiche fole, in mill’errori auolto?
Ahi più che’l fumo alfin dagli occhi stille
Trarràtti il duolo; & haurai rosso il volto
Di vergogna viè più, che di fauille.

647
lira III

[12]
Al medesimo nel medesimo suggetto.

C ARLO, e che val seguir seruo fugace,


Vso a schernir qual’huom più scaltro il segua?
Com’altrui dar può mai pace, né tregua
Chi mai seco non ha tregua, né pace?
Suda, vigila, soffia; a la fornace,
Misurando il calor, le tempre adegua:
Dal chiuso vetro allhor più si dilegua,
Quando men la sua fè credi fallace.
Non leggesti, e non sai, qual ne descriua
Il gran Cantor del Po, ladro incantato
Che i membri adhor’adhor laceri vniua?
Tal si sparge, e rintègra, e se troncato
Non gli fia ’l crin, sempre averrà ch’ei viua.
Ma non basta a troncarlo arte, né fiato.

[12bis]
Risposta.

P rocuro (è ver) che di quel reo fugace


Questo lento mio piè la traccia segua.
Lo raggiungo, lo sfido; ei chiede tregua,
Io pur battaglia, e non vo’ seco pace.
Tratto il ferro, ch’vscì dela fornace
Dela Maëstra che i contrari adegua:
Ma dagli occhi veloce si dilegua
Qual nebbia estiva, il traditor fallace.
Hor tu, che tanto sai, fa’ che descriua
Co’ chiari raggi in qual parte è incantato
Quel Dio ch’al tuo natal per te gli vniua.
Che s’è nel crin, tu gliel vedrai troncato.
E chi fia poi cagion d’opra sì viua?
Il gran MARIN, d’Apollo anima e fiato.

648
capricci

[13]
Contro vn Astrologo.

T u pur la notte, d’osseruar sol vago


Del’humane fortune i corsi oscuri,
Vigilante del Fato Arbitro e Mago
Con angusto oricalco il Ciel misuri;
E’n picciol foglio poi più d’vna imago,
Più d’vn numero tuo segni, e figuri,
Linee, & angoli tiri, onde presago
Mille predìci altrui casi futuri.
Deh che mentre pensoso e taciturno
Spii se sorti ne deggia o liete o felle
Prometter Gioue, o minacciar Saturno,
Seguendo pur per queste fole e quelle
La traccia del destin, qual Can notturno
Forsennato Indouin latri ale stelle.

[14]
Per vna falsa voce sparsa d’vna archibugiata
in persona del Sig. Duca di Sauoia.

N é tanto cruda mai, né tanto ardita


Tanto al’Asia portò dolore e scempio
La fiamma, per cui cadde incenerita
La ricca mole del mirabil Tempio,
Quanto del ferro insidïoso & empio
La Barbara e sacrilega ferita,
Che tentò, di perfidia infame essempio,
Troncar lo stame alla più nobil vita.
Ma’l lauro trïonfal, quel lauro forse
Ch’Apollo no, ma vero Nume eterno
Segno d’impero, e di virtù, gli porse,
Sì come prende per natura a scherno
Il fulmine del Ciel, così ritorse
Dal buon capo rëal quel del’Inferno.

649
lira III

[15]
Loda Mugnaio, Cane donato dal Gran Duca di Toscana
al Sig. Gio. Carlo Doria.

Qvesto canuto Can, germoglio altero


De’ Mastini Brittanni, e de’ Toscani,
Strangolator de’ più feroci Alani,
Di fere alpestri espugnator guerriero,
CARLO, sì come tu Principe vero
Sei degli Heroi più chiari, e più sourani,
Così soura lo stuol de’ fidi Cani
Ottien lo scettro, e merita l’impero.
Cédangli pur di gloria il pregio eterno,
Non pur qual più fra noi latrò né morse,
Ma Sirio il Cielo, e Cerbero l’Inferno.
Poiché con tal custode Alcide forse
Sforzato non hauria l’vscio d’Auerno,
Né secure tra i poli andrebbon l’Orse.

[16]
Nel bando da Genoua
del medesimo Cane.

S cacciò l’eterno Gioue


Dala Città, dou’egli ha seggio e nido,
Quel can possente, e fido;
Perché fra tante proue
Non gli vsurpasse il saëttar temea,
Mentr’inuido il vedea
Esser lampo nel corso,
Tuon nel latrato, e fulmine nel morso.

650
capricci

[17]
Quando l’Auttore entrò nell’Academia de’ Ricouerati di Padoua,
alludendo alla impresa di essa.

I n quest’antro RICOVRO, oue s’asconde


Non Fauno, o Ninfa, e non Ciclopo, o Fera,
Ma Virtù, che non ha, lassa, né spera
Schermo più fido incontr’a Morte altronde.
Qui chiuso il dolce e chiaro fonte han l’onde,
In cui gloria si beue eterna, e vera.
Qui di Vergini Dee musica schiera,
In vece d’Eco, al’altrui suon risponde.
Non fra l’hedre serpenti empie qui vanno
Le Serpi intorno; anzi fra dritti allori
Sacri Cigni di Ciel nido vi fanno.
Sono i silentij oracoli canori,
Le sue tenebre rai; ch’esser non sanno
Doue Febo ha sua reggia ombre, & horrori.

[18]
All’Academia degl’Intrepidi di Ferrara,
quando lo raccolsero nel loro numero.

S ù sù INTREPIDI al’armi, alta disfida


A battaglia v’appella. Ecco la tromba
Dela Fama che chiara a voi rimbomba.
V’assecura il Valor, l’Honor vi guida.
La Morte, e’l Tempo, vdite là le strida,
L’vn batte il dente, e l’altra apre la tomba.
Di due falci in vn punto il colpo piomba,
Perch’vna il corpo, vn la memoria vccida.
Sudate, osate. Illustre è la contesa.
Da costor fragil carta al nome vostro
Più che incantato acciar, farà difesa.
Fian le penne le spade, e fia l’inchiostro
(Ecco anch’io son campion di tanta impresa)
Cômpro a prezzo di gloria il sangue vostro.

651
lira III

[19]
Al Sig. Duca di Parma nell’essere ammesso
all’Accademia degli Innominati.

C he scelto stuol di bianchi Cigni, e come


Degno ben dela Parma allieuo e figlio,
Sotto l’ombra, Signor, del tuo gran Giglio
Toglie a’ più chiari, INNOMINATO, il nome.
Questi degli honor’ tuoi le ricche some
Dal gelato portando al mar vermiglio,
T’involeran del Tempo al fero artiglio
Cinto d’allòr, non men che d’òr, le chiome.
Ma fra lor che poss’io? sdegnar non dêi
S’ami che augel di valle al Ciel sen’ vole,
Di spirare almen l’aura ai vanni miei.
Tu la colonna sol di questa mole,
Tu’l cor di questo corpo, e tu sol sei
Di questo Ciel l’Intelligenza, e’l Sole.

[20]
Per l’Academia degli Humoristi di Roma,
alludendo alla impresa.

Qvesta grauida Nube,


Ch’emula de’ nostr’occhi H VMORI STIlla,
Et accesa da’ vostri arde e sfavilla;
Già presta a saëttar fulmini e strali
Contro Morte immortali,
Se’n lei vi rivolgete,
Tosto Donne vedrete
Con chiaro lampo aprirsi, e chiaro suono.
Fia la gloria il balen, la fama il tuono.

652
capricci

[21]
Nell’essere aggregato
all’Academia degl’Insensati di Perugia.

C hi da terra mi leua? e chi d’alloro


Mi fregia il crin? qual’aura, o qual sostegno
Mi regge sì, ch’io di volar sia degno
Fra’ chiari spirti del bëato choro?
A sì dolce stromento, e sì canoro
Stridula corda di stemprato ingegno
Non bien conuiensi; & io non ben conuegno
Coruo tra’ Cigni, e piombo in mezo al’oro.
Ma poich’a tant’honor m’ha trâtto, e spinto
Di celeste fauor cortese aïta,
Al glorïoso volo eccomi accinto.
Forse, qual nube al Sol riluce vnita,
E fra viui carbon’ carbone estinto,
Haurò, fatto INSENSATO, e senso, e vita.

[21bis]
Risposta del Sig. Filippo Massini
in nome dell’Academia.

D esio d’honor t’inalza, e’l crin d’alloro


Febo ti cinge, & è ’l valor sostegno
Del tuo gran volo; onde poggiar se’ degno,
Decima Musa, al bel celeste choro.
Degli altri òrbe più chiaro e più canoro
A mover prende il tuo sublime ingegno;
Ond’ala cetra tua non ben conuegno,
Ch’ha d’argento le corde, il plettro d’oro.
E ben’a tant’honor t’ha trâtto, e spinto
Fauor diuino, e non terrena aïta;
Così’l mio stuol fosse a seguirti accinto:
Ché forse io teco a’ tuoi bei raggi vnita,
Al tuo moto, al tuo lume il quasi estinto
Nome raccenderei d’eterna vita.

653
654
capricci

[22]
Buone feste.
Al Sig. Lorenzo Cenami.

D ala fontana d’òr, che’n larga vena


Scaturisce dal Cielo, e riga il mondo,
E di lume tra noi viuo e fecondo
Sparge sì ricca e pretïosa piena,
Luce la più ridente, e più serena,
Giorno scelga il più lieto, e più giocondo,
E se ne fregi il crin dorato e biondo
Il Pianeta maggior, che’l dì rimena.
Quindi felice al mio CENAMI ei giri
L’anno nouel, che Giano hoggi disserra,
E con destr’occhio i suoi gran pregi ammiri.
Ma del’emulo illustre inuidia e guerra
Lo splendor non gli moua; e non s’adiri
Veder di gloria vn più bel Sole in terra.

[23]
Buone feste.
Al S. Conte Guido Coccapani.

A nno, che quasi serpe attorto intorno


Mordi te stesso, onde rinasci, e godi,
E sì col fine il tuo principio annodi
C’hai congiunto al partir sempre il ritorno:
E mentre ingordo pur di giorno in giorno
Con dente di diamante il tutto rodi,
Varïando stagion, cangiando modi
La Natura fai bella, e’l mondo adorno:
Dal mio buon GVIDO, il cui splendor t’indora,
Tòrca lunge, e declini amica sorte
Quel tuo morso mortal, ch’altrui diuora.
Indi cresca, indi viua, indi le porte
Gli apra del Tempio in cui Virtù s’honora
L’auersaria del Tempo, e dela Morte.

655
lira III

[24]
Buone feste.
Al Sig. Constantino Pinelli.

H a di ballo, PINEL, forma e sembianza


L’Anno, ch’al suon dela celeste mole
Rapido sì ch’anco il pensier’auanza
Sotto legge immortal volger si suole.
Seco sempre di girne han per vsanza
Con leggiadre vicende a trar carole
I mesi, e i giorni; e quasi face in danza
Portano in giro incatenato il Sole.
Folle chi consumando apoco apoco
La breue luce in fra pensier’ malsaggi
Viene in sua mano a terminare il gioco.
Di ciò non temi tu, ché de’ tuoi raggi
Viurà, morto il mortal, più chiaro il foco:
Tal traccia di splendor dietro ti traggi.

[25]
Buone feste.
Al Sig. Antonio Calbo.

D eh quante in forma ognor vana e mentita


CALBO varie apparenze a noi figura
Questa, nel cui rotar stato non dura,
Mobile Scena, che s’appella vita.
Che altro è il mondo, oimé, che colorita
Di diletto fallace, ombra, e pittura?
Spèngonsi i lumi, e dela nostra oscura
Tragedia alfin la fauola è compita.
Misero quei che gli occhi al sonno abbassa,
E del’hore fugaci il corso alterno
Spettator neghittoso, in otio passa.
Felice te, che prendi il Tempo a scherno,
Lo cui studio volarne hora non lassa,
Che non spenda i momenti in farti eterno.

656
capricci

[26]
Buone feste.
Al Sig. Alessandro Nappi.

H ieri al’Anno già vecchio e moribondo


NAPPI, si celebràr l’essequie estreme.
Hoggi, sì come suol frutto di seme,
Risorto il vede, e rimbambito il mondo.
Così nel suo vital rogo fecondo
L’vnico augel Sabeo palpita, e geme,
E di sé parto e genitore insieme
Congiunge al primo secolo il secondo.
Lasso, che farem noi deboli e frali,
Fra tante ordite solo a’ nostri danni
Vicende di sepolchri, e di natali?
Bëato o te, che con illustri affanni
Raggiugni al rotto fil fila immortali,
Imitator, ma vincitor degli Anni.

[27]
Buone feste.
Al Sig. Gio. Battista Manso.

E t eccoci del mese in su le soglie,


Ch’aperto al nouell’Anno il varco porge,
L’Anno, che mentre in termine s’accoglie,
Quasi indomito Anteo, cade, e risorge.
Oh nostra humanità. Chi non s’accorge
Che così, seben Morte il nodo scioglie,
Non vccide lo spirto, anzi lo scôrge
Là’ve poi torni a riuestir le spoglie?
MANSO, qual per innesto inciso germe
L’huom ripullula in vita; e vola come
Fuor di serico guscio alato verme.
Procuriam noi, se le terrene some
S’immortalano pur, quantunque inferme,
Suscitar con la penna ancóra il nome.

657
lira III

[28]
Buone feste.
Al Sig. Sebastiano Gigli.

H or che dura canicie imbianca i fiumi,


L’Anno ringiouenisce, e qual Serpente
Che rinoui la spoglia al Sol nascente,
Striscia al gran moto de’ celesti lumi.
Ma mentre in curui, e lùbrici volumi
Se medesmo ritorce, arrota il dente,
Da cui schermo non ha cosa viuente,
Ch’egli alfin non diuori, e non consumi.
Studi ognun con sudori e con fatiche
Schiuar suo morso; o col guerrier di Colco
Intenda a seminar l’armi nemiche.
Così GIGLI fai tu, saggio Bifolco,
Et oh che belle e ben’armate spiche
D’alta gloria immortal frutta il tuo solco.

[29]
Buone feste.
Al Sig. Giulio Cesare Bagnoli.

E cco dell’Anno rapido e fugace


Si disserra la porta, & ecco il porto,
Doue fra scogli e fra procelle è scôrto
Chi solca dela vita il mar fallace.
Giano, ch’armato già di ferro, e face
L’vn volto ne mostrò torbido e tôrto,
Volgendo hor l’altro ad accennar conforto,
Se guerra minacciò, promette pace.
Ne’ natali del Tempo ahi ch’apparecchia
Spesso Morte i feretri; e mentre in cuna
Pargoleggiano gli anni, il mondo invecchia.
Speri BAGNOLI pur sotto la Luna
Chïunque in tal varïetà si specchia
Dopo lungo penar destra fortuna.

658
capricci

[30]
Buone feste.
Al Sig. Conte Rambaldo da Collalto.

N asce insieme con l’Anno il Re del Cielo,


Perché come di quello è il giro eterno,
Così prende ancor questi il Tempo a scherno,
E’l varïar delo splendor di Delo.
E nasce allhor, che per rigor di gelo
Su le fredd’Alpi incanutisce il Verno,
Per auezzar fin dal bel sen materno
Ai duri affanni il suo corporeo velo,
Ma quei che sparge teneri vagiti
Mentre pouero panno in fasce il serra,
Son tuoi, Signor, misterïosi inuiti.
Ché se tra le fatiche il segui in guerra,
In pace e’n gloria ancor vuol che l’imìti,
L’alma eternando in Cielo, e’l nome’n terra.

[31]
Buone feste.
A Monsignor Giulio Strozzi.

L a gran rota del Ciel, mentre si volue,


Quasi carro che corra, e solchi i campi,
Dovunque de’ suoi giri il segno stampi
Trita i corpi mortali in poca polue.
E quei che’l tutto in cenere dissolue,
Di qual luce più chiara in terra auampi
I sereni splendori, e i viui lampi
Di nube eterna horribilmente involue.
Con la canuta età l’età fanciulla
Han communi i confin’. Quanto rimbomba
Di famoso tra noi, suanisce in nulla.
STROZZI, non odi tu la sacra tromba?
Chïunque appresta a Christo hoggi la culla,
Diman prepari a Stefano la tomba.

659
lira III

[32]
Buone feste.
Al Signor Cardinal Doria.

A pri, o bifronte Dio, liete e felici


Del nou’anno al gran DORIA hoggi le porte:
Tuo figlio è questi, egli per patria in sorte
Hebbe le tue Ligustiche pendici.
Sotto destro fauor di Cieli amici
Ergasi a gloria, e fortunato, e forte
Spieghi del vinto Tempo e dela Morte
Trïonfanti l’insegne, e vincitrici.
Del’altrui voglie a suo talento il freno
Volga, né del’Inuidia empia importuna
Morso l’offenda, o liuido veleno.
Goda, né per affanno o noia alcuna
Giamai languisca; o sol languisca almeno
Per oltraggio d’Amor, non di Fortuna.

[33]
Buone feste.
Al Signor Duca di Sauoia, dalla prigione.

P er questa penna misera fra quante,


Signor, nel volo tuo ne spieghi e spandi,
Quella che manca al portator, ti mandi
Salute e pace il circonciso Infante.
E faccia il nome tuo chiaro e sonante
Passar tra’ Regi più famosi, e grandi;
E che’l tuo scettro libero comandi
Dai lidi Hircani ai termini d’Atlante.
Ma poich’vso è vulgare, e si concede
In sì lieta stagion con humil suono
A’ pargoletti il dimandar mercede,
Questi che giace in culla, e siede in trono
Soura le stelle, in cortesia ti chiede
Del tuo fedel la libertate in dono.

660
capricci

[34]
Nel medesimo suggetto.

Quel celeste bambino, in cui fauille


Sì viue ardon d’Amor, che non abhorre,
Per non romper le leggi ei che scolpille,
Al marmoreo coltel se stesso esporre:
E mentre al taglio ingiurïoso in mille
Volontarî ruscelli il sangue corre,
Somiglia uva gentil, che venga a sciôrre
Dal torchio intatta generose stille.
Con quel balbo vagir, che mal distingue
Le note sue, con quel, però, per cui
Fansi faconde agli Orator’ le lingue,
Dice al gran CARLO, “Hor se di vita io fui
Prodigo a te, né in me pietà s’estingue,
Perché tu di pietà sei scarso altrui?”

[35]
Nel medesimo suggetto.

O Vecchiarel dale spedite piume,


Ch’agli stellanti cerchi adamantini
Quasi a volubil cote, il dente affini
Onde rodere il ferro hai per costume,
Horche’l più chiaro, e più fecondo lume
Dela meta dell’Anno in su i confini
Al gran Custode de’ serragli alpini
Porta felici le nouelle brume:
Se sei padre del Vero, e tu’l disserri
Puro ala luce, e qual feroce Parto
Ferisci, e fuggi, e con la fuga atterri;
Perché di Lethe il tuo sferzato parto
Non traggi ignudo? e’l carcer mio non sferri,
Ch’apre al corso del Sol lo spatio quarto?

661
lira III

[36]
Al medesimo.

D ale ricche del Tago arene aurate


D’aurate spoglie a dispogliare i regni
Di Bizantio e d’Algier, spiega su i legni
Il tuo nouo Giasone antenne alate.
Vanno ale piante di Virtù pregiate
Gli altri tuoi cari e generosi pegni,
Nouelli Alcidi, vccisi i mostri indegni,
A far di frutti d’òr prede honorate.
E tu d’vn nembo pretïoso, e biondo
L’amor d’Europa, il tuo felice TORO,
Saëtti a piena man, Gioue secondo.
Fatta Danae la Dora, vn secol d’oro
S’accoglie in grembo, e già s’indora il mondo.
Sol io tra’ ferri il tuo gran nume adoro.

[37]
Buone feste.
Al Sig. Conte Guido Villa.

C on bell’ordine e certo il tutto cura


Colui che’l tutto moue, e’l tutto intende.
Sotto dolce d’Amor legge e misura
Libra le cose, e l’Vniuerso appende.
Inuisibil catena è di Natura
Questa serie di tempi, in cui si stende
Tal di groppi tenaci aurea testura,
Ch’al estremo de l’vn l’altro s’apprende.
L’Anno, che’n sì bel serto è quasi Annello,
Che’n se stesso si giri, e si riuolga,
Hoggi torna a formar l’orbe nouello.
GVIDO, deh per pietà non mi si tolga,
Ch’almeno in questo dì, mentre di quello
Viene a stringersi il nodo, il mio si sciolga.

662
capricci

[38]

Nel medesimo suggetto.


A Mons. Girolamo Auendagno,
Cameriere di S. Santità.

G ià chiude il giro suo la rota eterna,


E così questa immensa e mobil palla,
Che’l Gigante African sostiene in spalla,
Il Motor de’ Motor’ volge, e gouerna.
Al varïar del’armonia superna,
Lo cui tenor non si distempra, o falla,
Guida i balli Fortuna, e mentre balla,
Vari ne’ vari moti i casi alterna.
Quanta turba languìa querula e mesta
AVENDAGNO, è già l’anno; et hor che riede
Al suo punto il gran cerchio, è vòlta in festa?
Danno a prò, gioia a duol sempre succede.
Io fui libero e lieto; & ecco in questa
Dolorosa prigione il Sol mi vede.

[39]
Per la perdita de’ suoi scritti.
Al Signor Paolino Bernardini.

S pirto meschin, cui fiera mano vltrice


Da’ legami vitali a forza scioglie,
Circondando sen’ va l’vrna infelice,
Dou’ha le fredde e lacerate spoglie.
Mesto Vsignuol, cui raquistar non lice
La prole sua ch’auara rete accoglie,
Intorno ala prigion gemendo dice,
“Chi la cara di me parte mi toglie?”
Io senza i parti miei vedouo augello,
Anzi senza la vita anima ignuda,
PAOLIN, con tal’ querele al Ciel fauello.
O mi renda Fortuna inuida e cruda
Il perduto mio bene, o me con quello
Vn sepolchro ricopra, vn carcer chiuda.

663
lira III

[40]
Dopo la liberatione.
Al Sig. Troilo Garzadoro.

C onca di belle porpore feconda


Ruppe col fero dente aspro Mastino;
Ma ne fe’ scaturir vivo rubino,
Che di lucide grane asperse l’onda.
Ferì con spugna di colori immonda
Pittor cruccioso il suo depinto lino;
Ma dell’arte il difetto in quel diuino
Magistero adempì sorte seconda.
E così d’huom maligno a Spirto egregio
Non nòce ira mortal. Sangue, che smalta
Innocente valor, gli aggiunge fregio.
TROILO, e spesso a Virtù, che va sempr’alta,
Nemico che procuri onta e dispregio,
Gioua co’ danni, e con l’insidie essalta.

[41]
Nella conualescenza d’vna infirmità.
Al Sig. Giuseppe Fontanella.

V scita fuor dele Tartaree porte


Superba, e preso in man l’arco fatale,
A scoccar venne in me colpo mortale
Intempestiua, insidïosa Morte.
Ma còlse apunto ou’era affissa a sorte
Amorosa saëtta infino al’ale.
Onde indietro tornò spuntato vn strale,
L’altro nel cor si concentrò più forte.
Così campai, GIVSEPPE, e la ferita
Che mi fêr duo begli occhi in mezo al core,
Contro piaga maggior mi porse aïta.
Ahi che fu certo industria, e parue errore.
Fe’ di Morte l’vfficio, e vôlse in vita
Per più farmi morir, tenermi Amore.

664
capricci

[42]
Al Sig. Crescentio Crescentij
nel ritorno di Terra S<anta>.

V edesti il monte, oue per noi morìo,


CRESCENTIO, il puro Agnel; baciasti il sasso,
Ch’albergo diè caliginoso e basso
Al velo incorrottibile di Dio.
Tempo ben fôra al tuo terren natìo
Da volger pronto homai l’animo, e’l passo;
Ché’n consolando ’l genitor già lasso
Non sarai certo peregrin men pio.
Del Giordan, che da lui t’inuola e parte,
Si lagna il Tebro; e Roma tua t’aspetta,
Che di sacre memorie ha pur gran parte.
Viènne, e se pur Gierusalem t’alletta,
Lei non sol riuedrai nele mie carte,
Ma del’eccesso suo l’alta vendetta.

[43]
Essorta il Signor Marchese Carlo Pallauicino
a ritornare a Torino.

C angia con l’Alpi i sette colli, e torna,


CARLO, ala patria tua, che n’è ben degna,
Dou’Amor viue, Honor trïonfa e regna,
Doue Valor con Maëstà soggiorna.
Fiume rëal, Città gentil, ch’adorna
Del gran Toro del Ciel la bella insegna;
E perché pur col Cielo a cozzar vegna,
L’vna il nome ne tien, l’altro le corna.
Toro felice, e glorïoso, doue
Siede quel Sol, che lucido e fecondo
Tanti fiori di gratie in terra pioue.
Se sostenne d’Europa il dolce pondo
Gioue già Toro, il Toro hor sostien Gioue,
Ch’illustra Europa, & innamora il mondo.

665
lira III

[44]
Di Torino.
A Mons. Scipione Pasquali.

T u SCIPIO al par de’ trïonfanti colli


E degli alti miracoli d’Egitto,
Che fêr del Tebro ala Città tragitto,
Il tuo valore ancor crescente estolli.
Io qui tra i poggi aprici, e i campi molli
Che la Dora circonda, egro, & afflitto
Nutrisco il cor da duro stral trafitto
Di cure insane, e di speranze folli.
Sospirata felice aria Latina,
Da cui lunge mi tien superba e ria
Donna, c’ha ben dal’Alpi anima alpina.
Così languisco; & è ragion che sia
(S’ou’egli nasce ho da morir) vicina
Alla cuna del Po la tomba mia.

[45]
Di Roma.
A Monsù Ranier.

M entre ch’a piè dela famosa Ardenna,


RANIER, cantando in dolce stil ti stai,
Ond’ad Arno, & a Sorga inuidia homai
Più non hanno a portar Durenza, e Senna;
E’n su l’altera e peregrina penna
Il gran nome d’HENRICO alzando vai
Sì presso al Ciel, che’l Ciel con chiari rai
Già di scolpirlo in fra le stelle accenna;
Io dietro al buon PERON su’l Tebro spendo
I giorni, e i passi; e i fior’, che dal tesoro
Piouon del dotto sen, men’ vo cogliendo.
Di questi, se corona altra che d’oro
Conuiensi a regio crin, fregio tessendo
Ala Donna de’ Galli il capo infioro.

666
capricci

[46]
Di Rauenna.
Al S. Caual. Andrea Barbazza.

B ARBAZZA, io mi son qui, doue ristagna


L’onda nel pian, che paludoso e molle
Infra’l Ronco e’l Monton le sacre zolle
Più di sangue che d’acqua impingua, e bagna.
Ma del mio cor che senza te si lagna
Non affrena già’l volo o selua, o colle;
Né da te, di cui solo avampa e bolle,
Tanto tratto di Ciel mai lo scompagna.
Qui però duro intoppo il piè ritiene,
Né mai luce di Sol, che non sia negra,
Porta l’hore per me poco serene.
Così passo la vita afflitta, & egra,
E così sempre fia, se’n te non viene
La metà di quest’alma a farsi intégra.

[47]
Ripiglia il Sig. Giacomo Panzirolo,
che si sia dato allo studio delle Leggi.

E t ecco di Permesso, e d’Hippocrène


L’armonia dolce, e’l mormorio sonoro
Con gli strepiti già del rauco fòro
PANZIROLO cangiar pur ti conuiene.
E quelle, che la Vergine sostiene,
Bilance, hoggi sol’vse a librar l’oro,
Sprezzar ti fan del’infecondo alloro
L’honorate immortali ombre serene.
E può d’Amor la dilettosa lira
Scoter dala tua man Rota inquïeta
Che, nouello Issïone, il vulgo aggira.
E chi tra’ Cigni ti mirò Poëta,
Hor tra’ Clïenti garruli ti mira
In palestra ciuil togato Atleta.

667
lira III

[48]
Al Sig. Girolamo Preti.

V enni al Giardin d’Amor, non d’altro adorno


Che d’herbe di speranze, e di desiri,
Di fronde di cordogli, e di martiri,
Il cui fiore, il cui frutto è danno, e scorno.
Ha d’affanno e di pena il muro intorno,
E vi scherzan per entro in mille giri
Acque di pianti, & aure di sospiri,
Inganno, e Crudeltà vi fan soggiorno.
N’è custode l’Orgoglio, e n’è cultrice
La Gelosia, che con mortal tormento
Spianta il mio ben da l’vltima radice.
Qui PRETI insanie a seminare intento
Al’ombra d’vn pensier poco felice
Zappo l’onda, aro il sasso, e mieto il vento.

[49]
Al Sig. Medico Amalteo.

D ite ala Donna ond’io sospiro inuano,


Saggio AMALTEO, che s’ella giace inferma,
In questa valle solitaria, & erma
Anch’io per lei d’Amor giaccio non sano.
Ditele, ch’a soffrir non le sia strano,
Poiché’l Fisico ancor taluolta inferma;
E ch’io quant’egro il cor, la voglia ho ferma,
Quanto presente humìl, fedel lontano.
Ditele, che se’n lei l’arsura ria
Prende dal gelo suo forza e virtute,
Cangi il suo mal con la salute mia.
Ditele, che tal cambio non rifiute.
Lasso, ma come ciò possibil fia,
Se chi viue lontan non ha salute?

668
capricci

[50]
Al Sig. Rafaello Rabbia.

R ABBIA, io men’vo lungo il Castalio riuo,


Qual già l’Hebrea famelica e mendìca,
Dietro ai Cultor’ del’eloquentia antica
Per lo campo Latino, e per l’Argiuo.
E mentre d’Israël la strage scriuo,
Altro frutto non ho di mia fatica,
Che qualche bella e pretïosa spica
Lor caduta di sen, raccôr furtivo.
Ma la mèsse miglior recide e rade
La falce sì de’ duo Toscani illustri,
C’homai poco per me n’auanza, o cade.
Pur men’andrò fra’ metidori industri
Dopo costor, se non arìste, e biade,
Solo cogliendo almen rose, e ligustri.

669
670
capricci

[51]
LA NOTTE.

Prologo nella Pastorale


del Sig. Conte Guidobaldo Bonarelli.

F ermate homai fermate,


Rapidi miei corsieri, il vostro volo
Tanto sol ch’io comprenda
Qual disusata è questa
Merauiglia terrena, e quale in terra
Viue virtù possente
In sì breu’hora a trasformare il mondo.
Godano pur più del’vsato intanto
Dela lampa dïurna il dolce lume
Gl’ignoti di sotterra
Popoli habitatori.
E voi dela mia Corte alate ancelle,
Famigliuola volante,
Sospendete, e librate
(Qual nel concêtto già fêste d’Alcide)
Su le terga d’Atlante
Del mio carro immortal gli assi, e le rote.
Né spiaccia al biondo Dio, che vi distingue,
Ch’ io ne’ partiti vffici
Del termine prescritto oltre il costume
Breue spatio m’vsurpi. Anch’egli vòlse,
Dela vittoria altrui
Cortese spettator, più che non debbe
Tenere a prò del generoso Hebreo
Fatto quasi scudiero, in man la face.
Dêe forse, Anime chiare,
Ala notitia vostra
Di me, sì come oscura è la sembianza,
Oscuro essere ancor lo stato, e’l nome.
Chïunque hauer desìa
Di mia conditïon piena contezza,
Questa bruna quadriga
Miri, e questi aurei fregi, e saprà poi
Quale, e quanta i’ mi sia. M’appelli il vulgo
D’incanti empia nutrice,
E d’errori, e d’horror’ madre infelice.

671
lira III

I’ mi son però quella


Genitrice de’ vezzi,
Sopitrice de’ mali,
Dispensiera de’ sogni,
Quïete vniuersal. Quella mi sono,
Gran Reïna del’ombre, alta Guerrera,
Che sotto la mia Duce,
Che guernita si mostra
D’inargentato arnese,
Esserciti di stelle intorno accampo,
E di tenebre armata il giorno vccido.
Indi del giorno vcciso
Su questo carro eccelso
Coronata di lumi
Per gli spatij del Ciel trïonfo altera.
Quella, ch’apro a’ mortali
Tra le miniere de’ Zafìri eterni
Di piròpi immortali ampi tesori;
E diviso vn sol foco in più fauille
D’vn Sol ne faccio mille.
Notte Notte, figliuola
Dela Terra son’io. Sagaci amanti,
Non rauisate voi forse colei
Che chiamaste souente
Secretaria fedel de’ vostri furti?
Quante volte v’accolsi
Sotto l’ombre cortesi, onde passaste
Celatamente ale bramate prede?
E voi giouani Donne
Quante occulte dolcezze
Dentro il mio fosco sen talhor prouaste?
Quante volte in virtù di questo mio
Placidissimo figlio,
Gemello dela Morte,
Dolce vita vi porsi? e con leggiadre
Imagini amorose
Appannandovi gli occhi, il Ciel v’apersi?
Cara a voi (s’io non erro) esser mi deggio
O magnanimi Heroi, se per me sola
Con caratteri d’òr segnate e scritte
Nel gran libro del Ciel l’anime illustri
Fra’ miei lucenti segni
Vivono immortalmente.
Quinci risplende aggiunto
Al drappel dele stelle
Con altri mille il domator de’ mostri.
Né sarò (quant’io creda) a voi men cara
Spettatrici amorose, a voi c’hauete
Le bellezze, e gli amori entro il bel viso,
S’io d’imitar m’ingegno

672
capricci

Ne’ miei lumi i vostr’occhi;


Et è la Dea più bella,
La stella ch’innamora,
Dele ministre mie l’vltima suora.
Hor da voi la cagion saver bram’io
D’accidente sì strano.
Che veggio? hor non è questa
La riviera di Sciro,
Doue rotto e battuto
Non senza alto destin piegò pur dianzi
Le sue lacere vele il legno Thrace?
Già vid’io (non è molto) il salso flutto
Orgoglioso e superbo
Contro i lidi del Ciel sì gonfio alzarsi,
C’homai potuto haurebbe
Co’ pesci, che di stelle hanno le scaglie,
Guizzar nel mar vicino
Il celeste Delfino.
Vidi pur’hora i lampi
Del’horride tempeste,
Corrieri ardenti, e spauentosi Araldi,
Con insegne di fiamma
Minacciar d’hor’in hor scorrendo a proua
Per l’ampia regïon l’Isola tutta
Battaglie senza fine
Di piogge, e di pruïne.
I tuoni strepitosi,
Trombe del’Vniuerso,
S’vdìan con rauca voce
Quinci e quindi portar per la confusa
Guerra degli elementi
Le disfide de’ venti.
E i turbini co’ nembi,
Procellosi guerrieri,
Vedeansi in fier düello
Ne’ gran campi del Ciel giostrando vrtarsi;
E da saëtte alate
Piouer sangue di gel nubbi piagate.
Chi fu (ditel mortali)
Che per noua dal Ciel gratia concessa
Potè di tai nemici in sé discordi
Sedar le risse, & amicargli in pace?
Chi mi rischiara il tenebroso volto?
Chi m’asciuga, e m’indora
Questo già d’aspre grandini e di nebbie
Pur’hora humido manto, oscuro crine?
E qual luce nouella
A cangiar qualità tutta mi sforza?
Ecco non più turbato
Ride il Ciel, ridon l’acque,

673
lira III

E la Terra fiorita
Apre ai parti odorati il ricco seno,
Emulator del mio stellante Aprile.
Altro di tempestoso
Qui non più veggio, o sento,
Che baleni d’Honore,
E fulmini d’Amore.
O miracol gentile, hor che non pote
Di diuina beltà forza infinita?
Tutto è vostra mercé, luci bëate.
Ne’ vostri archi pacifici e sereni
Splender si vede vn’iride benigna,
Tranquillatrice d’anime e di cori,
Non che di venti e d’onde.
O ma che raggio è quel, che mi saëtta?
Che fólgore, che lampo
Mi dà luce in vn punto, e mi fa cieca?
Ahi che seben di mille occhi gemmanti
Quasi immenso Pauon, roto la pompa,
Mancano tutti a sì sfrenato oggetto;
E vaga pur di vagheggiar sì chiaro
Paradiso di gratie e di bellezze,
Altrettanti ne bramo.
Ma veggio homai, che’l Sol Pittore eterno
Sorge dal mare a minïare il Cielo.
Et ecco già, che intinto
Il pennel dela luce
Ne’ color’ del’Aurora,
Mesce con vaghe tempre i lumi, e l’ombre;
E tratteggiando il Ciel con linee d’oro
Già parmi già, che di vermiglio e rancio
Habbia abbozzato in campo azzurro il giorno.
Già d’Eto e di Piroo,
Che m’anhelano a tergo,
Sento i sonori freni, odo i nitriti,
Onde fuggir conviemmi.
Ah non fuggo, ma seguo
Con regolato corso
Il tenor che mi volge,
E del sommo Motor gli ordini eterni.
Già non fuggo dal’Alba
Per inuidia, ch’io senta,
Che si fregi, e s’infiori.
E già non fuggo il Sole
Per vergogna, ch’io prenda,
Che mi segua, e mi scacci.
Fuggo fuggo da’ vostri
(Belle e candide fronti)
Serenissimi albori; e fuggo i vostri
(Occhi vaghi e leggiadri)

674
capricci

Lucidissimi ardori.
Non ch’a scorno io mi rechi
Di ceder vinta a quelle,
Onde il Sole abbagliato esser s’honora.
Ma non si vuol d’Amor romper le leggi,
Ché legge è pur d’Amore
Alternar di Natura
Le diuerse vicende, e’l mio ritorno
Non ritardar cotanto
A gente che di là forse m’aspetta.
Hor tu Sonno disgombra
Dal’altrui pigre ciglia;
E tu Silentio annoda
L’altrui garrule lingue, ond’hoggi il mondo
Qui taciturno ammiri
Di Thirsi e Filli, i duo ben nati amanti,
L’amorose fortune.
E voi figlie del’Aere e dela Luna,
Rigatrici de’ fiori e del’herbette,
Mattutine rugiade, homai chiudete
Le vostre vrne d’argento.
Non han più sete le campagne, & hanno
Assai bevuto i prati.
Volate Hore veloci, e lieuemente
Dela scala, ond’io poggio al’Orizonte
Siate preste a varcar l’vltimo grado.
Seguite pur seguite
O dela Dea di Cinto
Luminose compagne, al’armonia
Dele spere rotanti,
Su’l gran palco celeste i vostri balli.
E fra le liete danze
Sciogliendo alto concento
Dale musiche gole,
Cedete il lume, e date il loco al Sole.

675
lira III

[52]
AMANTE RVFFIANO.

Stanze composte a richiesta


del Sig. Giuseppe Fontanella.

S trane guise d’amar; d’amor fedele


Incredibile essempio, vltimo eccesso.
Dopo lungo adorar Donna crudele
Alfin d’amante suo son fatto messo;
E com’agnella il latte, o pecchia il mèle
Son costretto a portar, non a me stesso;
Anzi qual face in lochi oscuri e bui
Struggo me stesso per far luce altrui.
Infelice Orator, lusingo e prego,
Persüado pietà, dimando aïta,
Vn cor di quercia intenerisco e piego
Per dargli a posseder gloria infinita.
Mentre d’vn nouo amor l’historia spiego,
Cheggio la morte mia nel’altrui vita
Lasso, e dolente del non mio cordoglio
Per chi mi lega il cor la lingua scioglio.
Tutto in lei mi transformo in guisa ch’ella
Conta con la mia bocca i suoi tormenti;
Et io con mesta e querula fauella
Narro gli affanni miei ne’ suoi lamenti.
Chi m’insegna a parlar? qual fiera stella
Nele mie labra articola gli accenti
Sì che muto per me, per lei facondo,
Scopro il suo foco, e la mia fiamma ascondo?
Tremante il core al duro vfficio corre
Relator de’ suoi mali, e messaggiero,
E quant’ella m’impon s’ingegna esporre
Per disporre vn voler selvaggio, e fiero.
Né parole, o color’ fingere, o tôrre
M’è d’huopo altronde ad ingrandire il vero,
Ché per renderlo apien benigno e pio
Mi basta esprimer sol quel che sent’io.
Scendea talhor dagl’indorati scanni,
E risaliua ale stellanti rote
Araldo degli Dei, battendo i vanni
D’Atlante il facondissimo nipote.

676
capricci

Egli però fallace, e pien d’inganni


A me seruo lëal ceder ben pote.
Egli instabile, e lieue, io per vsanza
Scoglio son di fermezza, e di costanza.
Era di Gioue esploratrice e spia
L’Aquila, che scorrendo ogni confine
A recargli souente in Ciel venìa
Con l’attese nouelle, alte rapine.
Me per affari assai più dolci invia
Dea, c’ha sembianze in sé più che diuine;
Et io ministro sol de’ propri mali
In man le porgo i fulmini mortali.
Solea su l’ali il vago augel di Gnido
Portando auisi e riportando intorno
Partir dal Nilo, e da straniero lido
Far’al’alte Piramidi ritorno.
Io messaggio più semplice e più fido
Con saluti e risposte hor vado, hor torno.
La bella Donna mia tutto mi crede,
C’ho viè più che Colomba amore, e fede.
Se tu tanta eloquenza Amor mi detti,
Perch’io gli incendij altrui sì ben distingua,
Come come non so ne’ propri affetti
Spedir la voce, e liberar la lingua?
Perché quelle ragioni, e que’ concetti,
Ch’io sol per far ch’vn tant’ardor s’estingua
Porgendo ad vn crudel vo per costei,
Non ardisco per me porgere a lei?
Chi crederà, che pouerel non sano
A sanar sia possente egro che langue?
Com’esser può, che con trafitta mano
Curi piaga mortal Medico essangue?
E pur’è ver, che quel ch’io tento inuano
D’ottener con le lagrime, e col sangue,
E quella vita istessa, ond’io son priuo,
Altrui posso donare, e restar viuo.
Vidi fidato e mansüeto Cane
Benché magro e digiun, pur’humilmente
Quasi custode, al suo Signore il pane
Portare in bocca, e non segnarvi il dente.
Lessi tra l’ombre fuggitiue e vane
Tantalo seguitar cibo pendente,
E presso l’acque christalline e liete
Inaridir la sua schernita sete.
Lasso, & hor prouo in me simile stato,
Che del bell’Idol mio tratto gli amori.
Son secretario di quel core ingrato,
Son consiglier de’ suoi secreti ardori.

677
lira III

Del’amoroso, oimè, frutto sperato


Sento vicini i sospirati odori;
E mentr’io miro i fior’, fiuto le foglie,
Altri sel’gusta, e la mia mano il coglie.
Fabro sembr’io, ch’è di temprar costretto
Di sua man propria nel supplicio estremo
Ferro, che deue poi passargli il petto,
O lasciargli del capo il busto scêmo.
Quasi Giudice son, c’hauendo eretto
Per dar le leggi il tribunal supremo,
È condannato a proferire in esso
La sentenza mortal contro se stesso.
Detto è vulgare, e priuilegio antico,
Ch’oltraggio o pena ambasciador non porte;
Né legge è di sì Barbaro nemico,
Ch’innocente Corrier condanni a morte.
Ma dal costume vniuersal ch’io dico
Diuersa è ben la mia peruersa sorte,
Ch’andando a raccontar l’altrui tormento
Colpir senza mia colpa il cor mi sento.
Ingiustitia d’Amor, Tiranno auaro,
Da cui premio a ragion non si riceue.
La mercè dolce del mio pianto amaro
Dispensar senza merto a chi non deue,
Negar’a me dell’alimento caro
Necessario sostegno, aïta breue,
Per offerire in don tanta ventura
A chi non la conosce, e non la cura.
Così fiume tranquillo, o chiaro riuo,
Scarso ai vicini fior’ del bell’onda,
Porta il christallo suo liquido e viuo
Al’Ocëàn, che di tant’acque abbonda.
E mentre che veloce e fuggitiuo,
Senza rigarla mai, rade la sponda,
Secche e sterili intutto a lasciar viene
Le patrie piagge, e le natiue arene.
Dunque, auara beltà, dunque degg’io,
Prodigo dispensier del tuo tesoro,
Dissipator d’ogni guadagno mio,
Miseramente impouerir nel’Oro?
Deggio tôrre al famelico desio
L’ésca, ond’io viuo, e senza cui mi mòro,
Per pascer tal, che’n lauta mensa e grande
Satolla il ventre suo d’altre viuande?
Sì sì, segua che può; Pómmi ala proua,
Dispon cruda di me ciò che ti piace.
De’ tuoi chiusi pensieri esser mi gioua
Interprete fedel, nuntio verace.

678
capricci

Quel raro amor, che paragon non troua,


Farammi in ciò sollecito, e sagace.
Al tuo prò non ricuso, e non disdegno
Contro mestesso essercitar l’ingegno.
M’è legge il tuo voler, né fia giamai
Ch’io non vsi a piacerti ogni opra, ogni arte.
Ma se mezano, e messaggier mi fai,
Se de’ secreti tuoi mi scegli a parte,
Deh dammi almen, quando a portar mi dài
O cari doni, o suggellate carte,
Che come son del’ire, e dele paci,
Così sia ancora il portator de’ baci.
Deh quante volte ingannatore accorto
Con astutia leggiadra io ti direi,
“Vn dolce pegno del tuo ben ti porto,
Prendi l’anima sua ne’ baci miei.”
Oh di graue martìr scarso conforto,
E pur felice in tanto duol sarei,
Sol che con vn sospir potessi poi
Lasciar l’anima mia ne’ baci tuoi.
Felicissimo te, cui si concede
Colei, ch’a me si nega, accôrre in braccio.
Vinto di gratia sì, non già di fede,
Il tuo ben non inuidio, anzi il procaccio.
Ecco per lei, che ciò comanda e chiede,
De’ propri danni intercessor mi faccio.
Opra di queste mie labra infelici,
In cambio, oimè, di più söaui vffici.
Godi bëato, e fortunato apieno
Vsurpator de’ miei sudati acquisti.
Io la palma portai, tu del bel seno
La ricchissima spoglia a me rapisti.
Godi, e trïonfa pur, né di te meno
Godano i miei pensier’ mendìci e tristi,
Poich’anch’io (se non altro) almen mi godo
D’esser fatto Himeneo di sì bel nodo.
Dica chi vuol, ch’io non son vero amante,
Poiché l’amato ben perder non curo,
Anzi ad alma ritrosa e non curante
Devuto all’amor mio premio procuro.
Oh non più visto, e non vdito auante
D’incomparabil fè pegno securo.
Generoso amator, ch’ambisco, e bramo
Parer di non amar, perché tropp’amo.

679
680
capricci

[53]
DVELLO AMOROSO.

A mor, che meco a la notturna impresa


Per farmi alfin vittorïoso entrasti,
E l’infelice mia pigra contesa
Giudice insieme, e spettator mirasti,
Tu le vergogne mie conta e palesa,
Ch’io per me non ho stil, ch’a tanto basti,
Perché quello stupor, ch’al dolce assalto
Fe’ il cor di ghiaccio, hor fa la man di smalto.
Dilettosi contrasti, e lusinghieri,
Dolci risse d’Amor, guerre bëate.
La mia nemica et io fummo i guerrieri,
Fûro il campo e l’agon le piume amate,
Fûro i seni, e le braccia armi, e destrieri,
E fûr trombe le bocche innamorate,
Vezzi fûr l’ire, e fûr gli assalti audaci
Sguardi, accenti, sospir’, sorrisi, e baci.
Ma lasso, apena a battagliar condotto,
Apena vditi i bellicosi suoni,
Sento il zoppo corsier mancarmi sotto,
Cui nulla val sollecitar di sproni,
Sì che con passo vacillante, e rotto
Su la lizza tra via non m’abbandoni:
Quel corsier, che gagliardo in mille proue
Otto incontri talhor sostenne, e noue.
Meco la mia Guerreggiatrice a fronte
Superba entrando, e baldanzosa in giostra,
Fece con minacciarmi ingiurie & onte
Dele bellezze sue pomposa mostra.
Et io, che l’ire dianzi hauea sì pronte
(Ahi che scorno la guancia ancor m’inostra)
Campione imbelle, e senza polso, o moto
Corsi l’arringo in fallo, e l’hasta a vòto.
Pur con rabbia di sangue ingorda e vaga
La vezzosa Homicida affrontar vòlsi,
E per far larga e memorabil piaga
Ogni mia forza, ogni mio sforzo accolsi.
Ma come avinta allhor da virtù Maga
La man stupida ai colpi vnqua non sciolsi,
Anzi per doppio oltraggio, e doppia pena
Spuntossi il ferro, indebolì la lena.

681
lira III

Oh quante volte hauea già detto, oh quante,


“Deh l’hauess’io tra queste braccia stretta,
Ché pietoso nemico, e crudo amante,
Farei di mille stratij aspra vendetta.”
Ecco, che meco poi tutta tremante
In secreta magion l’hebbi soletta;
E pur non seppi (o me codardo e vile)
Tingere il ferro mio nel sangue hostile.
Ella a pugnar mi prouocò souente:
Care disfide, e desïate offese.
Più volte il brando rigido e pungente
Con la candida man mi strinse, e prese.
Dolcemente m’assalse, e dolcemente
M’avinse, e vinse in tenere contese;
E per scherno maggior, senz’altro scudo
M’offerse il fianco inerme, il seno ignudo.
Io volea dir (ma non seguìr gli accenti)
Vòlto ale luci amorosette e liete,
“Vostra vostra è la colpa, occhi nocenti,
Del’impresso rigor, ch’in me vedete.
Voi con saëtte lucide & ardenti
Al primo sguardo (oimè) môrto m’hauete.
Qual merauiglia, s’hor vi giaccio auante
Insensibil cadauere spirante?”
Ben per far proua del’estrema sorte
Due volte incontro a lei l’hasta vibrai,
E due volte incontrando il petto forte
O la punta si tòrse, o il colpo errai.
“Vita mia cara, ecco io ti sfido a morte,
Io vo’ morir, ma tu meco morrai.
Moriam moriam, poich’a morir n’invita
Dolce desio di rinnouar la vita.”
Dato haurìan queste note il senso ai marmi,
Fatto qual’huom più vil feroce, e franco.
Io, ch’orgoglioso pria solea vantarmi,
Tosto divenni allhor languido, e stanco.
Giacqui, gelai, tremai, mi cadder l’armi,
La forza con l’ardir mi venne manco,
Ond’huopo al fin mi fu per trouar scampo
Al’auersaria mia cedere il campo.
Piansi ben’io, ma che mi valse il pianto,
Se voi del pianger mio stelle rideste?
Empie Maghe d’Amor, con quale incanto
Il trïonfo di man voi mi toglieste?
Ma qual’incanto, o qual Magia può tanto,
Che più non possa Amor, Mago celeste?
Di me doler mi deggio, e non d’altrui,
Che per troppo spronar sì lento fui.

682
capricci

Tu spada dislëal, che’n questa mano


Ottuso arnese, e debile istromento,
C’hor che’l furor nemico è sì lontano
Misuri i colpi al’aria, e sfidi il vento,
Stàttene meco pur; stàttene inuano
Inutil peso, inhabile ornamento.
Spada malfida al’amorosa lutta,
Ch’vscisti fuor dela battaglia asciutta.

683
684
capricci

[54]

Cartello fatto dal Sig. Conte Lodouico d’Agliè


in persona del Sig. Duca di Nemurs,
mantenitore in vna giostra.

Altimauro Prencipe de’ Monti Arimaspi,


ai generosi Caualieri delle selue Alpine habitatori.

H ANNO fra loro così commune il campo le saëtte d’Amore, & l’armi di Marte, che
non così tosto nel mio natio paese mi fu dagli occhi di bella Donna ferito il
core, come io per trionfar della sua amata gratia armai di ferro la mano; & bramoso
di possedere con la morte di mille combattimenti la vita d’vna sola Guerriera, in
breue tempo fra rischi di crude & sanguinose Battaglie incatenando Regi, & soggio-
gando Regni, non solo con le mie vittorie l’amate bellezze agguagliai, ma il merito
di queste col merito di quelle soprauanzai. Onde posso ragioneuolmente vantarmi,
che maggior numero di nemici habbia môrto la mia formidabile spada, che turba
d’amanti impiagata l’altrui amabile sguardo. Ma non potendo io finalmente por
meta alle mie amorose ambitioni con la meta di sì gloriose operationi, intesi per
bocca della Fama che nelle belle & fortunate selue Alpine viuono non pur Caualieri
fra quanti n’habbia il mondo prodi & generosi, ma Dame fra quante ne miri il Sole
belle, & gratiose. Et particolarmente vna, laqual tanto quella che già mi vinse vince
in bellezza, quanto questi campioni quelli che già furono da me vinti vincono in
prodezza. Hora per acquistare incomparabile amore con incomparabile valore, qui
sopra l’ali de’ miei Grifi, ma più sopra quelle del mio ardimento mi son condotto.
Doue ascriuendo questo nuovo oggetto de’ miei nobili pensieri — ottimo infra i mi-
gliori, quasi luce che vinca le tenebre, & quasi dolcezza di Primauera che succeda
all’asprezza del Verno —, non a leggerezza d’animo, ma ad vna accortezza giudi-
ciosa, & ad vna costanza amorosa, voglio con tre colpi di lancia all’huomo armato
nel dì primo di Marzo sostenere, che in Amore

A chi si stima Amante, e Caualiero


Costanza è spesso il varïar pensiero.

Venga pur’a prouar la fermezza della mia lancia chi non approua la fermezza della
mia fede; ch’io nel corso farò ben tosto altrui vedere, come poiché solo seppi così
bene cangiare, solo altresì saprò bene & costantemente amare, & fortemente ar-
meggiare.

685
lira III

686
capricci

[54bis]

Risposta del Caualier Marino


in persona del Signor Duca di Sauoia
avventuriere.

I Caualieri della Rosa al Prencipe Altimauro,


campione della Incostanza.

C HE di regione così fredda, come è la Scithia, escano così calde fiamme amorose,
& che in vn animo, doue è tanto mancamento di lealtà, si ritroui tanta soprab-
bondanza d’orgoglio, non può recare altrui se non insolita marauiglia. Ma d’altra
parte né voi inconstantissimo Prencipe poteuate altronde venire, che da quell’inho-
spito paese, doue gentilezza non si conosce; né doueuate da altri animali esser por-
tato, che da vccelli, simulacri della vostra leggerezza. Veramente ben mostrate
d’esser solo d’aspre e rigide montagne Signore, poiché nel vostro rozo & seluaggio
petto gran parte della loro qualità ritenete; se non che quanto quelle d’oro & di
gemme sono ricche & feconde, tanto questo è sterile di fede, & pouero di costanza.
Et che hanno da fare i deserti degli Arimaspi, doue appena si degna d’arriuare il So-
le, con le contrade delitiose dell’Alpi, doue mille Soli risplendono? Temeraria è
l’impresa, pazza l’inchiesta, irragioneuole la querela; seben per sostenerla è da cre-
dere che non debba mancarvi core, percioché potendo voi a tanti diuersi amori dar
ricetto, douete certo hauerne più d’vno. Oltreché chi ha saputo trouar fermezza nel-
la instabilità, saprà anche rendere il timore coraggioso, la debolezza forte, & lo
scorno honoreuole. Ma se tale sarà il vostro ardire, quale è stato l’ardore; & se per
noi non sarà così volubile la Fortuna, come in voi è la natura: non men leggiero
speriamo che dobbiate essere nella fuga, che siate stato nella fedeltà; & poco più
saldo potrete mostrarvi insù gli arcioni di quel che vi habbiate fatto insù gli amori.
Hor poiché di cangiare così ispesso pensiero vi dilettate, non dourete di quest’altra
mutatione dolervi, cioè, che la vostra superbia sia abbassata, & il vostro valore ab-
battuto; & che le spoglie delle quali hauete in altra parte trionfato, habbiate qui a
lasciare per trofei del nostro trionfo. Forse continouando il progresso delle vostre
solite vicende, ritrouerete vn giorno altroue altri Caualieri men valorosi, che ceden-
dovi cancelleranno la nuova vergogna, & altre Donne più belle, che innamorandovi
salderanno la nuova ferita. Accettiamo con l’offerte conditioni l’appello, ma vi assi-
curiamo però della vita; perché non conuiene, che la nostra ROSA, fiore tinto del
sangue della madre d’Amore, resti macchiata di quello d’vn sì disleale Amante.

687
lira III

[55]

IL CAVALIER DELLA ROSA.

688
capricci

C h’io con la schiera mia famosa, e degna


Peregrinando di lontana parte
Cinto di Rose a guerreggiar ne vegna,
Caualier di Fauonio, e non di Marte,
Strano parrà; ma di sì bella insegna
Il lauoro gentil non è senz’arte;
Onde perché sia noto il mio pensiero
Del’historia amorosa apro il mistero.
Già la caliginosa aria notturna
Spogliaua l’ombre, e rivestìa i colori,
E col canestro vscita era, e con l’vrna
La condottrice de’ nouelli albori,
Dagli aurei vasi e dala mano eburna
Versando perle, e seminando fiori;
E precorreano, e prediceano il giorno
La stella innanzi, e gli augelletti intorno:
Quando là doue insu’l mattin s’indora
Il seren d’Orïente al primo raggio,
E donde i suoi corsier’ sferza l’Aurora
Con flagello di rose al gran vïaggio,
Rosa negli horti suoi còlta da Flora,
Rosa raccolta nel’eterno Maggio
Mista le cadde in quel fiorito nembo
I’ non so se dal crine, o pur dal grembo.
Et ecco (o nouo, e disusato mostro)
L’augel, c’ha nel sepolchro il suo natale,
Mentre a volo scorrea di lucid’ostro
Tutto rosato il Cielo Orïentale,
Ratto l’accolse, e nel purpureo rostro
A me portolla dibattendo l’ale.
Né già chiedea men bella apportatrice
La Fenice de’ fior’, che la Fenice.
O raro, o ricco, o pretïoso pegno,
Caro dono del Ciel, dolce rapina,
Sì come hai tu nela tua siepe il regno
Qual fior de’ fiori, e d’ogni fior Regina,
Così l’hai nel mio petto, e nel mio ingegno,
Così m’hai punto il cor d’acuta spina,
Così, mentr’io quasi tesor ti serbo,
Del tuo bel, del mio ben men’ vo superbo.

689
lira III

ROSA RISO D’AMOR, DEL CIEL FATTURA,


Dal piè di Citherea fatta vermiglia,
Pregio del mondo, e fregio di Natura,
Dela Terra e del Sol vergine figlia,
D’ogni ninfa e pastor delitia e cura,
Honor del’odorifera famiglia,
Tu tien’ d’ogni beltà le glorie prime,
Soura il vulgo de’ fior’ Donna sublime.
Quasi in bel trono Imperadrice altera,
Siedi colà su la natiua sponda.
Turba d’aure vezzosa e lusinghiera
Ti corteggia dintorno, e ti seconda.
E di guardie pungenti armata schiera
Ti difende pertutto, e ti circonda.
E tu fastosa del tuo regio vanto
Porti d’òr la corona, e d’ostro il manto.

690
capricci

Porpora de’ giardin’, pompa de’ prati,


Gemma di Primauera, occhio d’Aprile,
Di te le Gratie e gli Amoretti alati
Fan ghirlanda ala chioma, al sen monile.
Tu qualhor torna agli alimenti vsati
Ape leggiadra, o Zèfiro gentile,
Dài lor da bere in tazza di rubini
Rugiadosi licori, e mattutini.
Non superbisca ambitïoso il Sole
Di trïonfar fra le minori stelle,
Ch’ancor tu fra i ligustri, e le vïole
Scopri le pompe tue superbe e belle.
Tu sei con tue bellezze vniche e sole
Splendor di queste piagge, egli di quelle.
Egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,
Tu Sole in terra, & egli Rosa in Cielo.
Questo è quel Fior, che più d’ogni altro assai
Mi fa languir, né di languir mi doglio.
Altro amor, altro ardor non cheggio mai,
Altra diuisa, altro trofeo non voglio.
Per questo sol la man di ferro armai,
Per questo il cor di generoso orgoglio;
E sotto questo, al cui bel foco avampo,
Col mio nobil drappel ne vengo in campo.
Dica chi vuol, ch’è fior caduco e breue,
Biasmi chi vuol la sua fugace etade:
Dote, ch’al vento è nebbia, al Sole è neue,
Gloria, che tosto sorge, e tosto cade.
So che fredda stagion temer non deue
Questa nouella e singolar beltade,
Poiché senza curar brume o prüine
Fiorisce ancor fra queste balze alpine.
Hor tu de’ fieri esserciti Homicida,
Campion superbo, e Vantatore ardito,
Tu che ’l secondo amor con fede infida
Segui & essalti, e’l primo hai già tradito;
Guàrdati dala morte, onde ti sfida
L’auenturoso Auenturier Fiorito,
A cui conuien che ceda ogni valore,
Come cede ala Rosa ogni altro Fiore.

691
note

CAPRICCI.

[1] Per la Triaca. Il sonetto gioca sul tema platonico del farmaco/veleno, della cura universa-
le ricavata dal veleno della vipera. Chiara ed esplicita insegna della tecnica dei Capricci, la
più progressiva delle sezioni della Lira: portare l’elisir mentale della sperimentazione attra-
verso il “veleno” della battuta e della bizzarria. • ne la scola d’Amor maëstro un Angue: al
primo livello di significato, semplicemente bizzarro (‘imparate ad amare dalla gelida e crude-
le vipera’) si sovrappone un secondo livello di lettura assai più forte: nella scuola d’Amore,
che (secondo l’ispirazione stilnovistica di tutto il libro) è la filosofia del vero sapiente, ma an-
che (secondo la lezione gnostica che si affermerà nell’Adone) coincide con l’autentico e celato
messaggio di Cristo, è il serpente, l’Avversario dell’Antico Testamento a divenire maestro.
Evidente allusione a un diverso, più esoterico e sapienziale cristianesimo.
[2-3] Saette d’Amore velenose – Venere con Anchise: coppia di madrigali che sviluppa, sotto
forma di ‘scena pastorale’ (anche Poussin, è ormai lezione vulgata, la scelse per veicolare i si-
gnificati simbolici se non occulti nel suo Et in Arcadia Ego), il nesso amore (sapienza)-
veleno. • Giacea dormendo Amor. Ben lungi dall’essere un quadretto idillico, la situazione è
di grande peso simbolico, come chiarisce il canto terzo dell’Adone, nel quale
all’innamoramento di Venere per Adone addormentato fa riscontro (dopo il celebre Elogio
della rosa, che chiuderà, nell’ambito di un poemetto, proprio questa sezione dei Capricci) la
rappresentazione allegorica delle quattro fontane che presiedono i quattro cortili del Palagio
d’Amore, con gradiente ‘neoplatonico’ crescente: quella di Nettuno, quella di Piramo e Tisbe,
quella di Salmace ed Ermafrodito e infine quella di Amore addormentato. • Andò per trattar
l’arco / Dïana: nemica giurata di Amore nel sistema allegorico dell’Adone, Diana qui raffigu-
ra una forma di sapere essoterico, banale: attingere alla faretra di Amore ‘semplicemente per
cacciare’; il che vale, utilizzare la complessità metaforica e simbolica della poesia ‘semplice-
mente per fare bei versi’. E la Serpe fugge. •• Del superbo Cinghiale il teschio horrendo: la
testa del cinghiale che uccise Adone, appesa come trofeo, cade ferendo Anchise (padre di E-
nea, e quindi ideale capostipite della stirpe latina). Data l’equivalenza tra il sacrificio di A-
done e quello di Cristo, l’allusione al tema dell’Eucaristia è fin troppo evidente: quel sacrifi-
cio continua ad essere celebrato anche senza una ‘vera’ uccisione. La situazione, palesemen-
te comica, rifrange tutta la scena in una ambigua chiave burlesca.
[4] Fetonte morto. Madrigale che costituisce una sorta di copia carbone di quello precedente
(a cui è legato da un’evidente analogia metrica e ritmica nell’attacco): il tema del sacrificio
ripetuto (e quindi della doppia salvezza) si ribalta in quello della ‘doppia morte’ di Fetonte.
Quanto alla comparsa dello sfortunato dio pagano di fronte al Caronte nella sua versione
dantesca, valga a ribadire per l’ennesima volta la continuità inscindibile tra paganesimo e
cristianesimo. Situazione tanto più bizzarra e significativa, dal momento che nella quinta se-
zione, Negromanti, & heretici, della Galeria, la figura di Fetonte è associata a Simon Mago
(son. 1) e a Giuliano l’Apostata (son. 4).
[5] Nido di Colombe in un Lauro. un altro farmaco/veleno, un altro rovesciamento di fun-
zioni: l’albero simbolo del rifiuto di Amore — il lauro in cui fu trasformata Dafne, che qui è
anche il lauro petrarchesco, simbolo di un’intera stagione dell’umanesimo — diventa riparo e
ricetto per le colombe di Venere (ma non è da escludersi l’allusione alle colombe che si ripa-
rano nei foraminibus petrae del Salmo).
[6] Nella Sconciatura della Signora D. Veronica Spinola. La ‘sconciatura’ è l’aborto.
L’argomento apparentemente incongruo si spiega ancora nella dinamica di rovesciamento —
per cui la morte dell’erede Spinola serve a preservare l’unicità solare della madre.

717
lira III

[7-8] Ad un Orbo ammogliato. Il gioco di allusioni salaci sull’uomo che non può vedere (né
controllare la moglie), ma la può toccare all’occorrenza, serve a porre la pietra miliare di
quello che sarà il sistema conoscitivo dell’Adone: la superiorità del tatto sulla vista. •
s’Argo... vna Vacca: Argo è l’essere dai cento occhi che risultò inefficace per far la guardia al-
la ninfa Io, amante di Giove trasformata in vacca. Evidente il valore comico del richiamo. ••
al difetto... supplisce l’intelletto: è conservata lo schema aristotelico della conoscenza (dai
sensi alla facoltà imaginativa, all’intelletto); il che avvalora ancora di più lo scarto successivo
verso il tatto. • proua... più certa: anche Aristotele sosteneva che i sensi non possono sba-
gliare, è semmai l’interpretazione intellettuale che ne viene data a essere ingannevole. Ma
qui il senso del tatto è posto inopinatamente al di sopra della stessa conoscenza intellettiva,
rispetto alla quale sa fornire dati più certi. Passaggio inedito, che capovolge tra l’altro la clas-
sica gerarchia tra i sensi (nella quale il tatto è il più imperfetto e la vista il più nobile).
[9] Contro un simulatore. Tema inconsueto nella lirica, coinvolge (con la scelta stessa del
soggetto) il tema della veridicità del linguaggio poetico, che utilizza la menzogna e l’artifcio
tra i suoi strumenti espressivi. Ma la sua è parola di verità, mentre il silentio può essere
mendace, se non vuole ricercare il vero. • Perfido adulator: apostrofe ritmata, librettistica
(sdrucciola + tronca), molto rara nel M. Con il consueto gioco di contrappunto, troviamo
qualcosa di simile solo nella Galeria, “Ritratti”, “Prencipi, Capitani ed Heroi”, 42, Orlando,
in un contesto ricco di suggerimenti comici (“Perfido traditor di Chiaramonte, / “Là nela rot-
ta dolorosa, quando” / [...] E fe’ la Fama alo scoppiar d’Orlando / Echo il suon dela tromba al
tuon del corno”). • noce bugiarda: tintura ricavata dal mallo di noce.
[10] Contro l’Oro. Breve tappa di uno dei percorsi mariniani preferiti: il riscontro economi-
co, la riconduzione materiale del tanto oro riversato, tra chiome e soli, nella lirica amorosa.
In questo madrigale il gioco è rigoroso, ai minimi termini, quasi da haiku: tra le due opposte
impressioni cromatiche, il brillìo dell’oro e la cupa oscurità della miniera. Questo materiale
tonale verrà ripreso e sviluppato nel monologo che precede il suicidio di Aurilla (nome dop-
piamente parlante, sul binomio petrarchesco “aura-auro”) in Ad. XVIII, (“La Morte”), 243-
245: “Oro malnato, del tuo pessim’uso | Preuide i danni il Cielo, e sene dolse, | E quasi in
stretto carcere, laggiuso | Nel cor de’ monti sepelir ti vôlse. |Chi fu, che la prigione, ou’eri
chiuso, | Homicida crudel, ruppe, e disciolse ? | [...] | Oh pestifero tôsco, oh morbo, oh mor-
te, | Ch’i più puri desir’ corrompi e guasti. |Ben’è ragion, se ne’ più cupi fondi
Quasi per tèma pallido t’ascondi!”. Ma nell’opera del Marino non manca mai un doppio co-
mico del personaggio tragico: e il doppio di Aurilla è La Ninfa avara della Sampogna, che
chiede all’amante, invece d’oro di eloquenza, la corresponsione di ben più concrete tariffe.
[11-13] Contro l’Alchimia. Al Sig. Carlo Sigonio. Contro un Astrologo. Serie di sonetti contro
le arti magiche e divinatorie: pezzi di bravura che in realtà fanno risaltare la parentela
dell’alchimista con Vulcano, il deus faber che rivelerà nell’Adone la sua posizione in cima al-
la gerarchia simbolica degli dèi pagani (come preciserà M.F. TRISTAN: v. supra, Amori, nota
al sonetto [27], Gelosia). I sonetti si trasformano allora in encomio per Carlo Sigonio,
l’erudito modenese autore di quelle Antichità Ateniesi in cui l’aveva preceduto Guillaume
Postel, e come lui dedito agli esperimenti alchemici, alla cabala cristiana, all’astrologia e alla
numerologia. Ma c’è anche un terzo livello di lettura, che si svela progressivamente per pale-
sarsi nel sonetto 12. (quello con la risposta del Sigonio): l’alchimia vale finché non cerca di
valere come legge esplicativa del mondo, che ne fissi la naturale motilità (“fermare il moto al
fuggitiuo argento”, 11 4, cioè rendere solido il mercurio, principio liquido e lunare, che assie-
me allo zolfo, principio solido e solare, è alla base di tutti gli elementi). La serie, nel suo in-
sieme, rivela da parte del Marino una conoscenza approfondita della terminologia e dei prin-
cipi dell’alchimia “panpsichica” cinquecentesca. • • [11] bionde zolle: i lingotti d’oro (il metal-
lo greggio da forgiare è detto zolla anche nell’Adone, descrizione della fucina di Vulcano, I
77) • il fòlle: il mantice. •• [12] seruo fugace: è lo spiritus mundi ficinano, oggetto, proprio
secondo il Ficino, della scienza alchemica: “servo” in quanto tramite tra l’anima mundi e il
corpus mundi, “fugace” in quanto inafferrabile e non ricondcibile alle leggi umane. È quindi
“la materia del Ciel” descritta con molta perizia dal Marino nel canto X dell’Adone, in perso-
na del dio Mercurio, alchimista, mago e ladro. Marino accetta anche l’identificazione operata
da Agrippa dello Spiritus Mundi con la Quintessenza alchemica (“Un fiore scelto, una so-

718
note

stanza quinta, | Da cui di pregio ogni materia è vinta”). Ma questo del “servo fugace” è anche
l’argomento con cui Giunone nega asilo a Psiche in fuga, perseguitata dall’ira di Venere: “Ma
per non consentir cosa che spiaccia | Ala motrice del gentil Pianeta, | Le nega albergo, e con
tal dir la scaccia, | Servo fugace ricettar si vieta” (Adone IV, 228). • ladro incantato: Orrilo,
il ladrone la cui invulnerabilità derivava da un capello, ucciso da Astolfo nel Canto XV
dell’Orlando Furioso (il “gran Cantor del Po” è ovviamente l’Ariosto). Qui Orrilo è allegori-
camente la Natura, inviolabile nei suoi misteri, invulnerabile all’insistenza analitica e mani-
polatrice dell’alchimista (per Sigonio, nella risposta, “La Mäestra che i contrari adegua”, ma-
estra dell’alchimista, cioè, nella ricerca dell’equilibrio originario). • Hor tu.... fiato: Sigonio
omaggia il Marino come principe degli alchimisti, cioè come l’unico che riuscirà, sotto l’egida
di Apollo, a troncare il capello fatato di Orrilo e a svelare i segreti della Natura. Ma le due
terzine rimangono poco chiare, anche per l’obbligo della risposta per le rime, a cui il Sigonio
si adegua nel modo tecnicamente più difficile (mantenendo tutte le parole-rima). • [13] an-
gusto oricalco: l’astrolabio (non il cannocchiale, dal momento che Marino stesso ne attribui-
sce l’uso a Tolomeo, nella Galeria, “Huomini”, “Mathematici, & Astrologi”, 4: “Ciò che vasto
pensier capir non pote | Con angusto oricalco circoscrissi, | Misurator dele celesti rote”). An-
che qui, la critica all’astrologo è a doppio taglio: viene ripresa e sviluppata, con gli stessi ter-
mini, nell’Adone, da Venere, che vuole smentire le arti magiche e divinatorie di Mercurio
(“Spesso la notte infra i più ciechi ingegni, | Più del’altrui che del suo mal presago, | I moti
ad osseruar de’ nostri regni | Stassi Astrologo Egittio, Arabo Mago; |E figurando con più li-
nee e segni | Ogni casa celeste, et ogni imago, | L’immenso Ciel di tanti cerchi onusto | Vuol
misurar con oricalco angusto. || Giudica i casi, e del’altrui natale, | Mercenario indouin, cal-
cola il punto, | Né s’accorge talhor, miser !, da quale | Non preuisto accidente è souragiunto;
| E mentre cerca pur d’ogni fatale | Congiuntïon come si troua apunto | L’inflüenze esplorar
benigne o felle, | Quasi notturno can, latra ale stelle”). Ma nel poema saranno le amare divi-
nazioni di Mercurio ad avere ragione. • Il sonetto fu poi inteso dai marinisti nel suo senso
apparente: il verso sull’astrolabio, per esempio, è copiato alla lettera dal Fontanella nell’ode
a Padre Casoni, festeggiandone gli interessi astrologici “leciti” (“E gli arcani in mirar d'alma
Natura | Con angusto oricalco il ciel misura”).
[14-16] Serie di due sonetti e un madrigale di tema sabaudo. Con scelta strutturale consueta,
il Marino dà seguito, nel secondo e terzo testo, al tema del cane accennato in chiusa al sonet-
to Contro un Astrologo. •• [14] mirabil Tempio: il Tempio di Artemide ad Efeso, una delle
leggendarie “sette meraviglie”, distrutto dal fuoco appiccato dal pastore Erostrato in cerca
dei suoi 15 minuti di celebrità. • Il lauro trïonfal: quello che incorona imperatori e condottie-
ri, non il frivolo “lauro poetico”. L’uno e l’altro erano ritenuti invulnerabili dal fulmine: e
quindi il lauro che incoronava il Duca di Savoia distornò il fuoco dell’archibugiata.
[17-21] Serie di sonetti dedicate a diverse Accademie d’Italia: Padova, Ferrara, Parma, Roma,
Perugia. •• [17] L’Accademia dei Ricouerati riuniva l’ala “progressista” dei professori pado-
vani, e fu celebre per avere avuto tra i suoi primi membri Galileo e Cremonini. • hedre ser-
penti: “edere serpeggianti” (cfr. per es. PETRARCA, RVF 318, v. 8), tra le quali possono na-
scondersi infide Serpi (detrattori e nemici del Marino). •• [18] L’Accademia degli Intrepidi
fu fondata nel 1600, primo principe Carlo Cybo. • Cômpro: part.pass., “acquistato”. •• [19]
Accademia degli Innominati: fondata a Parma nel 1574 sotto Ottavio Farnese, era una sorta
di agenzia letteraria dei duchi; da cui la dedica mariniana a Ranuccio. • dal gelato... vermi-
glio: “dal Baltico al Mar Rosso”, cioè dall’Alpi alle Piramidi. •• [20] Accademia degli Humo-
risti: fondata nel 1600, raggiunse il massimo splendore all’epoca di Urbano VIII Barberini,
dopo il 1623. L’impresa era una nuvola che riversa pioggia sulle onde del mare: il madrigale
si rivolge a un ideale uditorio di donne, raccolte anch’essa in accademia. • ch’emula... sfavil-
la: “simile ai nostri occhi effonde lacrime [d’amore], accesa dai vostri occhi emette tuoni e
lampi”. Chiaro il gioco di parole su “Humoristi” in “humori stilla”. •• [21] Accademia degli
Insensati: fondata nel Cinquecento, di impostazione letteraria e classicista come quasi tutte
le accademie dell’Italia centrale, aveva tra i suoi membri più attivi il poeta e giurista Filippo
Massini, l’autore del sonetto di risposta al Marino. Il Massini raccolse i propri interventi ac-
cademici nelle Lettioni dell'Estatico Insensato, Perugia, 1588.

719
lira III

[22-38]. Buone feste. Una delle serie tematiche più lunghe dell’intera Lira, trasforma il tema
d’occasione per eccellenza (gli auguri di Capodanno a più o meno illustri personaggi di corte
e di chiesa) in un tour de force nell’arte della variazione e nel tema della circolarità del Tem-
po, caro al Marino “panpsichico” della Sampogna e dell’Adone. Il bastone pastorale è attri-
buto di Pan “Del biforme edificïo | Di mia mole corporea, | Mistura, che partecipa
|Del’huomo, e dela bestïa, | Non sai (credo) il misterïo. | Quest’animata statüa, | Merauiglio-
sa machina, | Del’Vniuerso è simbolo. [...] Dela macchiata Nèbride | La spoglia, ond’io ricò-
promi, | Alo stellato circolo | Corrisponde e confórmasi : | Il baston torto d’àcero, | Che nela
cima incùruasi, | Dimostra (se’l consideri) | L’anno, che del continouo | Si volge in se mede-
simo”. •• [22] fontana d’òr: la luce della conoscenza, metaforizzata in poesia nella “Fontana
d’Apollo” tema del Canto IX dell’Adone. •• [23] L’auersaria del Tempo, e dela Morte: la Fa-
ma. •• [24] Ha di ballo, PINEL, forma e sembianza | L’Anno... il ballo cui qui si allude è quel-
lo del “torchio” (Ad., XX 91), in cui una fiaccola accesa viene passata dall’uno all’altro parte-
cipante; perde il gioco colui che rimane, alla lettera, col cerino in mano, cioè che ha la fiacco-
la in mano quando si spegne. La spia testuale indica che il tema è sviluppato appunto nella
gara di ballo dell’ultimo canto del poema: avvicendamento di danze di diversi stili, ritmo e
velocità, “serie di tempi” che compone l’“inuisibil catena di Natura” (come si vedrà nel sonet-
to [37]). •• [25] Questa... Mobile Scena: altra immagine che troverà sviluppo nel canto V, 122
ss., dell’Adone: il teatro a scena girevole di Mercurio, dove viene rappresentata per Venere e
Adone la storia di Atteone; ma Adone si addormenta, e si perde il finale della storia, che con
la forza dell’exemplum (il sacrificio di Atteone, sbranato per aver voluto vedere e conoscere il
numinoso, sotto le sembianze di Diana) l’avrebbe forse sottratto al suo destino di morte. E
anche in questo sonetto: “Misero quei, che gli occhi al sonno abbassa”, e si perde gli inse-
gnamenti del gran theatro della vita. •• [26] augel Sabeo: la Fenice. •• [30] il Re del Cielo:
Gesù. •• [31] Stefano: santo Stefano Protomartire, la cui festa cade il 26 dicembre, il giorno
dopo Natale. •• [33-36] Al Signor Duca di Sauoia, dalla prigione. Sottosezione nella serie
“Buone Feste”: l’occasione degli auguri serve al poeta a deplorare la propria prigionia ed im-
plorare la grazia da Carlo Emanuele. •• [34] uva gentil, che venga a sciôrre...: il vino, me-
moria e simbolo del sacrificio di Cristo, è ricordato qui come uva: ristabilendo la connessio-
ne, tramite Dioniso, con le “figure” mitologiche di Cristo. •• [35] Vecchiarel dale spedite
piume: il Tempo. • Se sei padre del Vero...: Marino chiede al Tempo di farsi testimonio nella
sua innocenza, e di esporre il Vero, suo figlio (‘sferzato’, cioè ‘malmenato’ dai giudici iniqui),
agli occhi di tutti nella sua nudità, traendolo dall’oblio (“perché di Lethe il tuo sferzato parto
| Non traggi ignudo?”). •• [36] nouo Giasone: Tomaso Stigliani, il rivale del Marino alla corte
sabauda, autore del poema Il Mondo Nuovo e in quanto tale ideale seguace di Cristoforo Co-
lombo. Marino, va da sé, non scriverebbe mai “spiega sui legni... antenne alate”, se non per
legare per sempre al nome del rivale in poesia un’espressione ridicola quasi come
l’immortale verso del novo Giasone: “il Duce in man la verga hauer trouossi...” (in Ad., V,
140, “spiegar turgide vele antenne alate” descrive una flotta giocattolo: quella della nauma-
chia che fa da intermedio allo spettacolo messo in scena da Mercurio per Venere e Adone). •
altri tuoi cari e generosi pegni: gli altri poeti e artisti della corte sabauda. • il tuo felice TORO:
la città di Torino, “saettata” d’oro da Giove-Carlo Emanuello, in un innesto dei miti di Euro-
pa e di Danae. •• [37] Colui che’l tutto moue: l’espressione dantesca serve a segnalare che ci
troviamo nel campo della dichiarazione dottrinale (situata, com’è di consuetudine nel Mari-
no, nei contesti più dimessi e feriali). Qual’è la “dolce d’Amor legge e misura” che governa
l’Universo? Nessun telos diretto verso un fine ultimo salvifico o morale, ma la perfetta ciclici-
tà di un tempo variamente ritmato, irregolare e tuttavia sempre interconnesso, senza solu-
zioni di continuità: “Inuisibil catena è di Natura | Questa serie di tempi... tal... Ch’al estremo
de l’vn l’altro s’apprende” (con l’eco del celebre verso di Dante, Amor ch’al cor gentil ratto
s’apprende, e quindi della teoria d’Amore stilnovista). Non v’è spazio, in questo cosmo, per il
soprannaturale propriamente detto, né per l’evento singolare del miracolo: tutto sta
all’interno dell’invisibil catena di Natura, a cui colui che’l tutto moue non può fare altro che
adeguarsi, come ci insegnano le divinità pagane. La physis una volta creata procede autono-
mamente per legge interna (e “Dio s’accommoda alla Natura”, come scriveva già Juan Huar-
te nell’Essame degli ingegni). •• [38] Gigante African: Atlante.

720
note

[42] Dopo la liberatione. Rilasciato dalla prigione, il poeta ricorre ai tradizionali aneddoti,
narrati da Plinio il vecchio, della scoperta della porpora (la conchiglia del murice spezzata
dai denti di un cane mastino) e del pittore Protogene che, avendo scagliato in preda all’ira
una spugna su un dipinto dove non riusciva a raffigurare la bava alla bocca di un cane, ot-
tenne proprio l’effetto sperato (XXXV, 103): le disgrazie che colpiscono gli innocenti ne ac-
crescono fregio e valore. Non senza suggerire, al lettore “svegliato ed arguto”, l’immagine di
Carlo Emanuello come un cane mastino, o alla meglio come un artista in preda ad una crisi
isterica: immagini entrambe poco edificanti per un capo di Stato.
[43] Al Sig. Crescentio Crescentij nel ritorno di Terra Santa. Il cardinal Crescenzi, tra i più
importanti protettori del Marino, apparteneva a una delle più illustri famiglie della nobiltà
romana e papale. Le tre mezzelune (i “crescenti”, appunto, da cui i croissants che allietano la
colazione dei francesi) che ne costituiscono l’impresa rafforzano l’idea di un Crescenzi novel-
lo Goffredo di Buglione. • Lei non sol riuedrai nelle mie carte... : la Gierusalemme distrutta,
poemetto a cui Marino lavorava in quegli anni.
[45] Di Roma. A Monsù Ranier. Mathurin Régnier, poeta della Pléiade e fedele di Enrico IV,
caduto in disgrazia dopo la morte del sovrano, morì nel 1613 (ma non è detto che il poeta
fosse informato della scomparsa).
[46] Di Rauenna. La “città, anzi un deserto, che non l’habiterebbono i Zingari” della celebre,
esilarante lettera al Rondinelli, che si apre con la parola: “Fiutaculo”. Qui Ravenna è sempre
luogo di “vita afflitta, & egra” per il Marino, ma il tono assai più bilioso e amaro (“ristagna”,
“molle”, “negra” le parole chiave, in posizione di rima; il complesso delle rime rende fisica-
mente il senso dell’umidità malsana della città. • Infra’l Ronco e’l Monton... più di sangue
che d’acqua impingua, e bagna: alla confluenza fra i due fiumi si svolse la tremenda Batta-
glia di Ravenna, che oppose nel 1512 francesi ed estensi agli eserciti della Lega Santa, con
l’uso (allora pionieristico) dell’artiglieria pesante, facendo decine di migliaia di morti in tutti
gli schieramenti.
[47] Ripiglia il Sig. Giacomo Panzirolo, che si sia dato allo studio delle Leggi. • Quelle... Bi-
lance: le bilance d’Astrea (la “Vergine”), simbolo della Giustizia.
[48] Al Sig. Girolamo Preti. Marino dedica questo sonetto sul “Giardino d’Amore” a Girola-
mo Preti, che aveva lanciato con la celeberrima Salmace il genere, melico e suadente,
dell’idillio barocco “alla bolognese” (ripreso poi dal Marino nella Sampogna con molto mag-
gior impegno teorico e formale). La dedica vale da riconoscimento e anche da commiato dal
sistema melico-estetizzante del “marinismo”, verso la complessa architettura simbolica e
strutturale del Palagio d’Amore ritratto nell’Adone.
[50] Al Sig. Rafaello Rabbia. • E mentre d’Israël la strage scriuo: i quattro canti della Stra-
ge degli Innocenti. • duo Toscani illustri: impossibile stabilire se si tratta di Dante e Petrar-
ca, oppure di poeti più recenti. In ogni caso, al poeta moderno non resta, ormai raccolte e
consumate le “biade” del raccolto, che cogliere le rose e i ligustri, le bellezze disincarnate di
un linguaggio letterario ormai di secondo grado: è la consapevolezza strawinskiana
dell’inattualità e del riuso, che caratterizza il Marino dalla Lira 1614 in poi.
[51] La Notte. Questo Prologo alla Filli di Sciro del Bonarelli, “pezzo forte” del teatro pasto-
rale cinquecentesco, fa da ponte dallo stile lirico a quello più propriamente idillico. Nel mo-
nologo della Notte (“figliuola della Terra”) il poeta sperimenta il ricchissimo tessuto melodi-
co, fitto di assonanze, consonanze e rime interne, della Sampogna: tessuto che sotto la sedu-
zione sonora nasconde la soda severità dell’interpretazione mariniana del mito.
[53] Duello Amoroso. Ancora il racconto di una défaillance amatoria. Ritorna il tema della
serie [78-82] degli Amori, da Piacere imperfetto a Trastulli Estivi: racconti grotteschi di in-
successi di varia natura dell’amatore mediterraneo, nascondono sotto il piacere cameratesco
del doppio senso e del racconto delle proprie prestazioni, una corrosiva, fredda “messa a nu-
do” del rituale erotico come congegno di alienazione dell’amatore, costretto all’eterna ripeti-
zione della medesima performance. Niente a che vedere con la valenza conoscitiva dei cin-
que sensi, sistematizzata ed elaborata nell’Adone. Nella raccolta, la scelta di porre qui
l’esilarante poemetto vale come chiave di lettura dei testi successivi: Marino ci informa di
quanto sia da prendere sul serio la chiave amorosa dei cartelli di sfida successivi; e che, li-

721
lira III

quidata ogni aura erotico-sentimentale, il loro vero significato si ponga a livello strutturale e
simbolico.
[54-55] Cartelli. A conclusione della raccolta, Marino attinge a un genere cortigiano che ben
raramente raggiunge la dignità della stampa: i “cartelli di sfida” composti dagli avversari dei
tornei o giostre, dove ogni cavaliere enunciava la propria identità fittizia e dichiarava i valori
o l’impresa, di solito anch’essa fittizia e non di rado bizzarra, per cui si batteva. I cartelli sono
descritti come opera, rispettivamente, di Lodovico d’Agliè e del Marino, anche se dalla prosa
appare molto probabile che siano entrambi di mano del Marino. In ogni caso, conta il fatto
che il poeta assuma per sé le parti del campione della Costanza, quando proprio a chiusura
degli “Amori”, qui nella Lira III, aveva posto la canzone-manifesto “Amore incostante”, a
Marcello Sacchetti. Ulteriore prova e ammonizione, se ce ne fosse ancora bisogno, che la ve-
ra sfida conoscitiva non si gioca a livello delle scelte e dei valori (di per sé irrilevanti ed inter-
cambiabili, come si addice a un linguaggio umano non in grado di penetrare oltre la superfi-
cie delle cose) bensì alla lettura di un sistema di corrispondenze molto più sotterraneo e per-
vasivo. E in questo caso la lectio magistralis mariniana, così importante da essere ripresa al
cuore del “poema grande”, elegge a tema la rosa, carica di simboli pagani, cristiani, mistici,
alchemici e (ça va sans dire) anche sessuali. Ma, giusta l’indicazione che ci viene dal comico
Duello amoroso che precede questo duello filosofico, questa vera e propria “disputa” sul filo
di lana delle definizioni, guai a scegliere, a orientare l’opzione sulla rosa mystica o sul sesso
della donna, sulla Venere Pandemia o sulla Venere Urania: tutti epifenomeni di un’energia
cosmica, della “invisibil catena di Natura” ben lungi dal rivelare le sue leggi.
[55] Il Cavalier della Rosa. Questo poemetto, a sviluppo del cartello di sfida che lo precede,
contiene quello che diverrà il celebre “Elogio della rosa” dell’Adone. Anche in questa prima
versione, l’elogio è alla rosa rossa: ovvero la rosa bianca resa vermiglia dal sangue di Venere
(“dal piè di Citherea fatta vermiglia”), o, nella lettura gnostica, la purezza dello Spirito (e la
verginità di Maria) resa rossa, incarnata dal Sangue di Cristo. Il riferimento rosacrociano del
titolo era all’ultima moda: la Fama Fraternitatis, primo “manifesto” rosacrociano, uscì nello
stesso 1614 (come appendice a un’edizione tedesca dei Ragguagli di Parnaso del Boccalini),
ma pare certo che circolasse già da qualche anno. Se il poeta avesse in mente eventuali allu-
sioni in tal senso, o attingesse esclusivamente a quel codice poetico cavalleresco (e sapienzia-
le) che risale almeno al Roman de la Rose, non è dato sapere. In ogni caso, nessuno dei rife-
rimenti, come sempre nel Marino, assurge allo status di verità privilegiata: tutti sono mani-
festazioni, transitorie e vitali, di una stessa physis nascosta che si lascia conoscere solo attra-
verso il mutamento, esperito da chi, nouel Camaleonte, sa essere continuamente cangiante e
assieme “campione di Costanza” nella ricerca della verità. Se esiste un “messaggio” di questo
libro, rivelato per speculum attraverso il gioco dell’artificio e dell’impermanenza, è questo.

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INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

Le Corbusier, tavola A.1 dal Poème de l’angle droit (1955) cover


Jean Cocteau, Orphée à la lyre (1956) xxvi
Abraham Brueghel, Delfinium, rose, tulipani, garofani e gelsomini in un cestino (1660) 2
Hendrick Goltzius, Venere e Adone (1614) 8
François Perrier, Aci, Galatea, e Polifemo (1645-50) 49
Tiziano, La morte di Atteone (1562) 78
Miniatura medievale raffigurante Polifemo che spia Aci con Galatea 112
Caravaggio, Ritratto di Alof de Wignacourt 126
Giovan Battista Crespi detto il Cerano, Carlo Borromeo adora il Cristo morto di Varallo (1610) 162
Pieter Claesz, Stilleben mit Brief und Kerze (1625) 192
Procaccini, Morazzone, Crespi, Martirio delle Sante Rufina e Seconda (1625) 204
Jan Lievens, Allegoria dei cinque sensi (1622) 224
Ritratto di Kapsberger alla tiorba 234
Baci dai film: The Kiss, Edison (1896); Mogambo; Da qui all’eternità; Brockeback Mountain 248
Maestro del Ricciolo, Venere ferita dalle spine di una rosa (1532) 276
Rubens, Ero e Leandro (1605); Turner, The parting of Hero and Leander (1837) 290
Nicolas Régnier, Ero e Leandro 293
Greta Garbo interpreta Margherita malata in Margherita Gauthier di George Cukor (1936) 323
Caravaggio, Morte della Vergine (1604) 332
Guido Reni, Ritratto della madre (1610-15) 337
Pieter Lastman, Maria Maddalena con Cristo in Croce 347
Guido Cagnacci, Maddalena penitente 356
Jean Cocteau, Profil d’Orphée à la lyre (1960) 372
Apollo parnopios (copia da Fidia) 374
Scena da Le Roi danse, film di Gérard Corbiau (2000) 388
Annibale Carracci, Diana ed Endimione (1597-1600), 402
Domenico Fetti, ritratto di Claudio Monteverdi (1640) 405
Guido Cagnacci, Morte di Cleopatra (1660) 413
Rubens, “ciclo di Maria de’ Medici” (1621-1624), Fuga da Blois 418
John William Waterhouse, Eco e Narciso (1903) 481
Niklaus Stoecklin, Stillleben mit Kerze, Zündholzschachtel und totem Nachtfalter (1950) 485
Pietro da Cortona, ritratto di Marcello Sacchetti (1626) 494
Annibale Carracci, Trionfo di Bacco e Arianna (1600) 498
Ritratto di Margherita di Valois 526
Man Ray, Lacrime di vetro (1930) 546
Bronzino, Ritratto di Andrea Doria come Nettuno 548
Daniele Crespi, Digiuno di San Carlo Borromeo (1625) 574
Agostino Carracci, Paesaggio con Maddalena penitente (1598) 576
Valentin de Boulogne, Ultima cena (1625) 592
Paris Bordon, Cristo fra i dottori 596
Gregorio Fernández, Cristo yacente (1631) 604
Tommaso (detto Mao) Salini, Incoronazione di spine (1620 ca.) 606
Caravaggio, Flagellazione (1607), 608
Stefania Sandrelli nel film La Chiave, di Tinto Brass (1983) 622
Corpicrudi, AETERNITAS, studio per La Maddalena Penitente di Antonio Canova (1796), 2009 622
Guercino, Aurora (1621) 670
Claudia Cardinale e Marcello Mastroianni ne Il bell’Antonio, di Mauro Bolognini (1960) 683
Scene da Ballets de cour sabaudi, coreografie di Filippo d’Agliè 684-686
Miniatura dal Roman de la Rose 688
René Magritte, La Rose 690
Bartolomeo Bettera, Strumenti musicali (1680 ca.) 692

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