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DOPO IL LEVIATANO
G.fflRRAIIAO «DOPO IL
LEVIATANO1 GIAPPICHELLI
ED. (10)
eeaer3A
GIACOMO MARRAMAO
DOPO IL LEVIATANO
INDIVIDUO E COMUNITÀ
NELLA FILOSOFIA POLITICA
GIAPPICHELLI EDITORE TORINO
© Copyright 1995 G. GIAPPICHELLI EDITORE TORINO VIA PO,
21 TEL.: 011/81.27.623 FAX: 81.25.100
ISBN 8834841921
Composizione-. La Fotocomposizione Torino
Stampa-. Stampatre s.a.s. Torino
NESSUNA PARTE DI QUESTO VOLUME PUÒ ESSERE RIPRODOTTA IN QUALSIASI
FORMA A STAMPA, FOTOCOPIA, MICROFILM O ALTRI SISTEMI, SENZA IL PERMESSO
SCRITTO DELL'EDITORE.
Nel ricordo di Anna
Maria Battista
I
... the Multitude so united in one Versori, ìs called a
COMMONWEALTH, in latine CIVITAS. This is the
Generation of that great LEVIATHAN, or rather (to
speake more reverently) of that Mortali God, to wich wee
owe, under the Immortali God, our peace and defence.
Thomas Hobbes
Friedrich Nietzsche
\
I
X AVVERTENZA
AVVERTENZA
Questo libro raccoglie, in forma rielaborata e secondo un arti
colazione tematica, alcuni saggi e interventi precedentemente
apparsi in varie sedi italiane e straniere. Per quanto talora legati
a occasioni e momenti diversi, essi gravitano tutti attorno a un
unico nucleo: la metamorfosi dei "modelli di ordine" in età
moderna e contemporanea.
I testi erano apparsi, in precedente versione, nelle seguenti
sedi:
Parte introduttiva: Sezione B, in Filosofìa e democrazia, a cura
di D. Fiorot, Torino 1992, e in "Revista Internacional de Filosofia
Politica", a. I, n. 1, abril 1993;
Parte prima: cap. I, in "Laboratorio politico", 1993, n. 1, e, in
trad. castigliana, in X. PalaciosF. Jarauta (Eds.), Razón, Ètica y
Politica, Barcelona 1988, e in Pensar la Politica, a cura di M.
Rivero, Mexico 1990; cap. II, in Storia del marxismo, voi. IV,
Torino 1982; cap. Ili, ivi, voi. III/l, Torino 1980;
Parte seconda: cap. I, come saggio introduttivo all'ed. italiana di
F. Borkenau, La transizione dall'immagine feudale all'immagine
borghese del mondo, Bologna 1984; cap. II, in Lessico della
politica, a cura di G. Zaccaria, Roma 1987, e, in trad. castigliana,
in Illustración y Revolución ("Anales de la Catedra Francisco
Suarez", n. 29/1989); cap. Ili, in Effetto Foucault, a cura di P.A.
Rovatti, Milano 1986; cap. IV, come introduzione all'ed. italiana di
V. Volkoff, II re, Napoli 1989; cap. V, in E. FanoS. RodotàG.
Marramao (a cura di), Trasformazioni e crisi del Welfare State,
Bari 1983; cap. VI, come introduzione all'ed. italiana di N.
Luhmann, Come è possibile l'ordine sociale, RomaBari 1985;
Parte terza: cap. I, in G. Vattimo (a cura di), Filosofia '87,
RomaBari 1988 (e successivamente, con alcune modifiche, in
trad. inglese, francese, castigliana e catalana); cap. II, in "Reli
gioni e società", a. II (1987), n. 3; cap. Ili, in "Iride", a. I (1988),
n. 1; cap. IV, in Velocità. Tempo sociale e tempo umano, a cura di
M. ManzoniS. Scalpelli, Milano 1988, e poi, con progressive
integrazioni e modifiche, in "Paradigmi", a. VII (1990), n. 22, e in
Figure dell'individualità nella Francia tra Otto e Novecento, a
cura di M. DonzelliM.P. Fimiani, Genova 1993. La Sezione A
della Parte introduttiva è inedita.
Il volume documenta così una traccia di riflessione e di ricerca
su questioni di etica, filosofia politica e "storia concettuale", da me
portata avanti nell'arco di un quindicennio. E, in questo senso,
rappresenta anche un approfondimento e uno sviluppo di due miei
precedenti libri, ormai lontani nel tempo: II politico e le
trasformazioni, Bari 1979, e Potere e secolarizzazione, Roma 1983,
19852 (ed. tedesca riveduta e bibliograficamente aggiornata:
Macht und Sàkularisierung, Frankfurt am Main 1989).
Proprio al fine di mantenere questo carattere di "documento" e
di attestazione di un work in progress, ho resistito alla tentazione
di modificare o integrare i testi, limitandomi a una semplice
rielaborazione formale. Per dirla con il grande Montaigne:
J'adjouste, mais je ne corrige pas.
G.M.
ottobre 1994
X AVVERTENZA
PARTE INTRODUTTIVA DIMENSIONI
DELL'OLTRESTATO
SOMMARIO: Sezione A. Il Sovrano assente: la dottrina dello Stato come
"triste scienza". Sezione B. La democrazia, la comunità e i paradossi dell
universalismo.
SEZIONE A
IL SOVRANO ASSENTE: LA DOTTRINA DELLO STATO
COME "TRISTE SCIENZA"
SOMMARIO: 1. Melancholia politica I. 2. Melancholia politica IL 3. "Morte di
Dio" e 'nuovo politeismo".
1. Melancholia politica I
Ma non basta. Quando, nel secolo della rivoluzione scientifica,
questa "astrazione" si sincronizzerà ai tempi e agli stili di
un'indagine naturale che ha rotto definitivamente i ponti con
l'universalismo e il giusnaturalismo teocratico, risolvendo Dio in
mera "ipotesi di lavoro", verrà alla luce un'ulteriore, decisiva
implicazione che quelle condizioni restrittive racchiudevano: la
politica può darsi soltanto come funzione negativa, frontiera
invalicabile tra la "razionalità" e la "vita". Nella costruzione
hobbesiana, l'agire politico una volta trovato il suo punto di
massimo coagulo simbolico nel Covenant viene a coincidere con
un dispositivo tecnico teso a neutralizzare lo "stato di natura". Da
quel momento, tutti gli attributi dellapolitiké téchne vengono
legittimamente trasferiti al Leviatano, che diviene così l'esclusiva
fons et origo di ogni auctoritas e, attraverso di essa, di ogni lex:
«auctoritas, non veritas, facit legem».
Questa stilizzazione in chiave negativa, «tecniconeutrale», del
Leviatano situata sul delicato crinale della soglia tra giu
snaturalismo e positivismo giuridico, e pertanto destinata a
miglior sorte presso la tradizione "territoriale" del continente
europeo che non presso l'immaginario "oceanico" dell'insula
britannica sembrava rispondere, ad onta di ogni astrattezza
razionalistica, a un'esigenza fin troppo reale e concreta: il sistema
moderno degli Stati nato dalla pace di Westfalia (1648:
esattamente tre anni prima della pubblicazione della classica
opera hobbesiana) dovette definirsi in antitesi alle potestates
indirectae (dalla Chiesa alle "potenze" socioeconomiche, dagli
interessi alle corporazioni di "ceto") che, nella struttura in equi
librio dello Stàndestaat, si "rappresentavano" al Principe, costi
tuendo rispetto a quest'ultimo una polarità insopprimibile. Ed è
appunto il ritorno delle potestates indirectae dia ingenerare, nella
società contemporanea, l'entropia di quell'Artificial Man di cui lo
stesso Hobbes aveva a chiare lettere denunciato il carattere
pereunte: ad onta di ogni facies di onnipotenza, il nuovo
Leviathan è, in quanto umano prodotto, un «Dio mortale» e, in
quanto simbolo malefico, destinato a divenire oggetto di odio non
meno che di culto. Gioiello dello jus publicum europaeum, zenit
del «razionalismo occidentale», esso è una struttura solo in
apparenza minacciosa e possente: in realtà è un congegno delicato
e precario, un'utopia macchinale destinata ben presto ad
incrinarsi e ad infrangersi sotto la pressione di corpi "alieni"
rannicchiati nei suoi interstizi e protetti dai suoi dispositivi. Le
ripercussioni delle spinte egualitarie indotte dalla temperie illu
ministica e dalla rivoluzione francese hanno dapprima svuotato il
17 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
In una importante discussione con Ernst Jùnger sulF«antitesi
planetaria OrienteOccidente», Schmitt porta a compimento
un'orbita di riflessione avviata con i lavori hobbesiani degli anni
'30 (e la cui conclusione parrebbe già adombrata sia in Der Nomos
der Erde, sia nell'articolo redatto per il tricentenario del
Leviathan): l'enfasi sulla svolta in senso marittimo impressa
dall'Inghilterra al corso della storia mondiale acquista qui
connotati squisitamente descrittivi, del tutto scevri di
connotazioni assiologiche positive. È in questa temperie "oceanica"
e "nomade" che s'inseriscono movimenti e correnti nei cui
confronti il giurista di Plettenberg non nutre simpatia alcuna:
dalla rivoluzione industriale, all'economia politica classica (intesa
come «una sovrastruttura sociologica e concettuale di questo
primo stadio di una tecnica basata su un'esistenza marittima»), al
marxismo (inteso come «una continuazione di questa economia
politica classica»). Ma nell'odierna globale Zeit
10 scenario si presenta radicalmente mutato: l'attuale «duali
smo mondiale» non costituisce più una tensione bipolare, ma
una vera e propria antitesi «storicodialettica» tra terra e mare.
Di qui la «nuova domanda» circa il significato simbolico
dell'odierno «appello della storia». E l'inequivocabile risposta:
questo appello non è certamente più «identico a quello
dell'epoca in cui gli oceani si spalancarono». Vano sarebbe il
tentativo di dare all'«appello odierno» la vecchia risposta con
le sue prosecuzioni ulteriori: «le disperate, ulteriori spinte verso
11 cosmo di una tecnica inarrestabile, che hanno soltanto il
signi
ficato di fare dell'astro da noi abitato, la Terra, una nave spa
ziale». Il pericolo, in altri termini, è che gli uomini evitino la
nuova domanda, e il «nuovo rischio» che essa comporta,
restando prigionieri della Storia: «ritenendo di essere storici e
attenendosi a ciò che è stato vero in passato, gli uomini dimen
ticano che una verità storica è vera una volta sola».
Tutto bene. Salvo il fatto che la risposta prospettata da Sch
mitt nel corso della sua riflessione appare non già "inattuale" nel
senso nietzscheano dell'anticipazione di una verità che il "secolo"
non è ancora in grado di afferrarecomprendere quanto piuttosto
ancora più "vecchia" e superata dell'attualità stessa. Di qui il
sapore nostalgico del suo richiamo al fondamento «terraneo» di
ogni nomothesia, e il retrogusto minaccioso del suo rimando al
triplice legame con cui la terra tiene avvinto a sé il diritto:
celandolo dentro di sé, nella forma di ricompensa del lavoro;
mostrandolo in sé, in quanto confine e «recinzione»; recandolo su
20 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
2. Melancholia politica II
moltiplicazione di queste insorgenze è tale da destabilizzare ogni
centro e ogni Nomos: ogni «situazione di predominio stabile». Le
voci di questa diagnosi sono ampiamente note a chiunque abbia
una qualche dimestichezza con la discussione attuale sulla "crisi
della politica": divisioni trasversali della società, sovrapporsi
all'universalismo della cittadinanza dell'appartenenza a gruppi
diversi, crescente mobilità sociale, proliferare di "politiche della
differenza". Anche sotto questo profilo, la convergenza con
l'attuale riflessione politica europea di ascendenza "schmittiana"
appare sorprendente: mentre da un lato la politica in senso stretto
(ossia: la logica del sistema e del ceto politico) tende a divenire
sempre più "autoreferenziale" e svincolata dalla dinamica sociale,
dall'altro «associazione e dissociazione stanno subendo una
trasformazione tale che il politico risulta sempre più disperso, e
ad una più ampia partecipazione, nonché ad una crescente
estensione dello spazio di iniziativa politica, corrisponde un
indebolimento di tutte le istanze politiche, almeno per quanto
riguarda quelle protette».
La conclusione che l'apologetica "continentale" del politico evita
di trarre da questa interpretazione è che da essa dovrebbe
risultare necessariamente incrinato non solo il "modello giuridico
della sovranità", imperniato sull'equazione lineare (di matrice
hobbesiana e di derivazione giuspubblicistica) tra diritto e Stato,
ma la stessa definizione schmittiana del «criterio del politico»
come «grado di intensità di un'associazione o di una dissociazione
di uomini»: se è vero, infatti, che le «potestates indirectae
diventano sempre più forti», che la trama delle loro connessioni si
è infittita al punto che è impossibile venirne a capo con una
decisione "gordiana", ne consegue che il politico non è solo il luogo
in cui vengono prese decisioni, ma anche la dimensione simbolica
in cui si verificano i "giochi di reciprocità" e gli effetti secondari e
preterintenzionali dell'agire. Non a caso, le scienze sociali nel
tentativo di venire a capo dei nuovi problemi si sono viste
costrette ad approntare quella categoria del potereinfluenza che
si presenta oggi come nuova sfida non solo alla progettazione
moderna dello Statoapparato, ma allo stesso modello classico
dellapolitiké téchne: «Non è difficile vedere», scriveva anni fa
David Easton in una ricognizione sistemica della politica costretta
(per sottrarsi alle secche del comportamentismo e del fattualismo)
a ripartire proprio da Aristotele, «che la ricerca politica difetta
nelle sue conoscenze sostanziali e nella formulazione delle
intuizioni che pur essa possiede. A che cosa è dovuta questa
mancanza di progresso? Si è tentati di rispondere, forse con
qualche esagerazione: lo scienziato politico americano è nato
22 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
nuovo nome per democrazia, ne consegue a fortiori una frattura
epistemologica con la tipologia classica delle forme di governo: e
ciò non solo per la portata assiologia negativa che è bene non
dimenticarlo il termine "democrazia" aveva in Aristotele, ma a
causa piuttosto della rilevanza sostanziale che vi veniva ad
assumere una differenziazione tra "forme" simmetricamente
coordinata allo scarto qualitativo indotto dalla diversa latitudine
(o portata quantitativa) dei "soggetti" del potere ("uno", pochi",
"molti"). Il sistema politico democratico non si identifica per Dahl
sic et simpliciter con l'ampiezza della sua base di consenso: di cui,
come l'esperienza storica ci insegna, non difettano certo alcuni
regimi "totalitari". E neppure con il mero sviluppo di
un'opposizione: che può essere tanto radicale quanto scarsamente
incidente sulla forma di governo. Ma piuttosto con la capacità dei
governi di «soddisfare, in misura continuativa, le preferenze dei
cittadini, in un quadro di eguaglianza politica»: ossia, di
«"rispondere" completamente, o quasi, alle esigenze dei cittadini».
Le curiosità lessicali della definizione su cui è bene riflettere
sono sostanzialmente tre. In primo luogo, la "misura con
tinuativa": essa segnala quell'aspetto temporale della durata che,
per quanto ben nota e tradizionalmente presente alla riflessione
sul "governo misto" a cavallo tra antico e moderno (si pensi alla
rilettura machiavelliana del VI libro di Polibio), acquista qui una
declinazione del tutto nuova. In secondo luogo, l'accento sulle
"preferenze": indicatore di un'assunzione della terminologia
economica nell'ambito della scienza sociale e politica che, almeno
a partire da Weber (non solo, dunque, da Schumpeter
0 da Downs), non dovrebbe sorprendere più di tanto neanche
1più inguaribilmente nostalgici fra i teorici della politica "vete
roeuropei". In terzo luogo, il "quasi": esso segnala il carattere ten
denziale mai "perfetto", mai compiutamente realizzato della
forma democratica, contrassegnata da una tensione costante tra
ideale e realtà. Una sorta di «paragone ellittico», si sarebbe portati
a dire adottando una celebre espressione crociana (adozione, del
resto, tutt'altro che illegittima: in quanto Croce è un autore più
volte citato da Dahl, anche se non esattamente a questo pro
posito).
La tematica dello scarto e dell'approssimazione tendenziale tra
democrazia ideale e democrazia reale aveva tuttavia già trovato
una formulazione rigorosa in un importante saggio teorico che
Dahl stranamente non menziona: Vom Wesen und Wert der
Demokratie (1920; 19292) di Hans Kelsen. Nel giurista praghese, e
in altri cittadini di Cacania (di cui si tratterà ampiamente nel
25 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
che «tutti i regimi competitivi che sono riusciti a tenere in vita le
poliarchie nel corso del XX secolo hanno sviluppato esecutivi forti,
con un'accentuata capacità di agire». Constatazione di fatto cui fa
riscontro un'altrettanto inoppugnabile rilevazione teorica su
questo locus classicus dei sistemi rappresentativi: «Operando con
una teoria della democrazia rappresentativa che metta in luce
soprattutto la legittimità esclusiva dell'assemblea elettiva come il
rappresentante supremo della volontà popolare, i costituzionalisti
del XIX secolo incontrarono molte difficoltà al momento di fornire
all'esecutivo un'autorità indipendente». Per questa ragione, la
maggior parte delle poliarchie si è distaccata dal modello del
governo assembleare, che forma, assieme al «sistema
parlamentare bipartitico», uno dei «due modelli ideali della
democrazia rappresentativa». Dahl propende a favore della tesi
per cui sistemi pluripartitici fortemente frammentati (il
pluralismo estremo o polarizzato di Sartori) danno
ineluttabilmente luogo a coalizioni deboli e instabili: «Come il
modello assembleare è stato respinto praticamente da tutte le
poliarchie nel XX secolo, così il modello bipartitico classico non
può essere adottato con successo da paesi caratterizzati da
fratture subculturali, vale a dire dalla maggioranza di essi».
Di là delle soluzioni istituzionali che restano aperte e pro
blematiche ciò che importa qui sottolineare è il requisito di base
che contraddistingue in linea di principio la poliarchia dal modello
"egemonico": si dà propriamente "poliarchia" solo in presenza di
un sistema politico compatibile non solo con una dimensione
polimorfa di etnie, culture, religioni, ecc., ma anche con «un alto
grado di variabilità nelle credenze sull'autorità». Di conseguenza,
il modello poliarchico è in grado di contemplare sia il conflitto
aperto, sia la cooperazione o il compromesso. O meglio: di
assumere «il conflitto politico come elemento di cooperazione più
articolato». E tuttavia precisa Dahl quasi giocando d'anticipo
sulla prevedibile accusa di ottimismo non vi è alcuna garanzia né
ineluttabilità naturale che assicuri il passaggio dal modello
egemonico a quello poliarchico: «Non v'è dubbio che gli eventi di
questo secolo abbiano confermato la tesi che la democrazia non è
destinata a trionfare irresistibilmente su tutti gli ostacoli posti
lungo il suo cammino». La sola indicazione che la realtà ci fornisce
è che «la varietà delle circostanze in cui una poliarchia può
emergere è proprio una delle caratteristiche più chiare della scena
mondiale».
Lasciamo ora da parte i complessi risvolti politicoistituzionali
che una tale ibridazione di piano modellistico e piano pragmatico
solleva, per rivolgerci alla temperie culturale di cui la teoria della
27 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
poliarchia partecipa: una temperie alla quale come vedremo tra
poco sono tutt'altro che estranee le tematiche filosoficoteologiche
di quest'ultimo scorcio di secolo. Lo scenario delineato da Dahl
imperniato com'è sul distacco da tutti i modelli "monisti" e
rigidamente "nomocratici" di government viene a convergere con
altre diagnosi della civiltà contemporanea nel «minimo comune
denominatore della sensibilità moderna», costituito dalla
rappresentazione dell'Occidente come «sfera culturale esplosa» (D.
Miller). L'adozione del termine polyarchy trova, infatti, un
puntuale riscontro in altre analoghe tendenze del pensiero
"postmetafisico": nel senso e nell'essere «polimorfici» di cui
parlano, in ambito psicologico, Charles Baudouin e Norman O.
Brown; nella conoscenza e nella comunicazione «plurisignifìcante»
di Philip Wheelwright; nella «polisemia» del discorso immaginale
che definirebbe, per Ray Hart, la dimensione profonda delle nostre
espressioni culturali; nella irriducibile «plurietnia» che, secondo
Michael Novak, segmenterebbe la comunità; e, infine, nel
«multiverso» eticopolitico dei pragmatisti: per i quali la realtà
non esiste come «universo unitario», e somiglia piuttosto a una
repubblica federale che a una monarchia.
3. "Morte di Dio" e 'nuovo politeismo"
una "crisi", che richiede, nel senso più rigoroso e pregnante del
termine, una decisione. Ma ecco il passaggio saliente tale
decisione, benché venga fatta coincidere con l'assunzione piena del
nichilismo, non è una decisione "qualsiasi", "occasionale", un
romantico ludus globi fungibile a qualsivoglia contenuto. È,
piuttosto, una decisione eticamente condizionata. È la
conseguenza letteralmente radicale della percezione dell' «
acquiescenza volgarizzata dell'espressione morale moderna»:
maschera universalmente disponibile per «qualsiasi volto». In
quanto "sovvertitore" che diametralmente rovescia la forma
dell'enunciazione morale dell'Occidente, Nietzsche non è un
filosofo morale fra gli altri, ma, per dirla ancora con Maclntyre, «il
filosofo morale della nostra epoca». Ma la "decisione" non è solo
rovesciamento e sovvertimento. È anche distacco. E distacco
duplice. Distacco dall'uniformità razionalistica della connessione
dicolpa, fondamento del bisogno (pratico) di rassicurazione che
permea di sè lo stesso ideale (teoretico) di conoscenza: l'idea
scientificonaturale di "causa" non è per Nietzsche che una
proiezione ed estensione metaforica del suo originario significato
giuridicopenale. E distacco dall'uniformità etica di una Norma
impersonale e onniomologante: da una monocrazia, dunque, che
coincide perfettamente con una nomocrazia. Di qui la superiorità
e il "vantaggio" del politeismo rispetto non solo al monoteismo
d'impronta ebraicocristiana, ma a tutta una persistente
attitudine monoteistica che contrassegnerebbe Yepisteme
occidentale sin dai suoi esordi, a partire dall'ideale platonico di
stabilizzazione del linguaggio: «Che il singolo», si legge
nell'aforisma 143 di Die fróhliche Wissenschaft, «si eriga il suo
proprio ideale e derivi da esso la sua legge, le sue gioie e i suoi
diritti questa fino a oggi è stata considerata come la più
mostruosa di tutte le umane aberrazioni e come idolatria in sé: in
realtà quei pochi che osarono ciò, hanno sempre sentito la
necessità di una apologia davanti a se stessi, ed essa di solito
s'esprimeva in questi termini: "Non io! non io! ma un Dio
attraverso di me!" Fu nell'arte e nella forza mirabile di plasmare
dèi il politeismo che questo istinto potè disgravarsi, purificarsi,
giungere a perfezione, nobilitarsi [...] Il monoteismo, invece,
questa rigida conseguenza della dottrina di un uomo normativo e
unico la fede quindi in un dio normativo, accanto al quale non ci
sono che dèi falsi e bugiardi costituì forse il pericolo più grande
nel corso dell'umanità fino ad oggi [...] Nel politeismo era come
preformata la libertà di spirito e la multiforme spiritualità
dell'uomo: la forza di crearsi occhi nuovi e personali, sempre più
29 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
nuovi e personali: cosicché per l'uomo soltanto, in mezzo a tutti gli
animali, non esistono orizzonti e prospettive eterne».
Ovunque appare il prefisso "poli", siamo dunque per Nietzsche
in presenza di qualcosa di estremamente reale e concreto, che
incide nel profondo della nostra esistenza. Da quella frattura in
poi, il passaggio dall'astrazione alla vita costituirà un cammino
obbligato: nessun "astratto" potrà placidamente riposare nella sua
autoconsistenza logica senza dovere incessantemente misurarsi
con l'incolpevolezza del divenire (sulla natura "postistorica" di
questo passaggio non è il caso, per il momento, di pronunciarsi).
La multiformità della vita e la pluralità delle norme
rappresentano la costante di una Uberwelt, di un "oltremondo", al
cui volto è stata imposta la maschera di un'«unica e ultima
norma»: l'Uomo. Attitudine monoteistica e umanismo appaiono
qui saldate insieme in un vincolo indissolubile: essi formano, in
scenso proprio, un'unica e medesima struttura di pensiero.
Ma non è tutto. L'adozione del lemma "politeismo" allude
anche ad altro: a una condizione culturale, a una "situazione
spirituale del tempo", tale da esigere una motivazione di ordine
rigorosamente teologico (ben poco radicale sarebbe infatti
l'accezione del termine qualora si limitasse a suggerire blande
metafore o pallide analogie). Più precisamente: una motivazione
capace di delinearne i caratteri per rottura con la fisionomia della
condizione antropoteologica rispetto alla quale essa si presenta
come discontinua. Lungi dal configurare un presupposto, il
monoteismo appare come «rigida conseguenza della dottrina di un
uomo normativo e unico»: esso non è che il prodotto dell'umanismo
come «legge di ogni eticità». È riposta qui la radice del nesso tra la
dimensione metafisica (o ontoteologica) e quella culturale (o
antropostorica) che verrà configurandosi nell'accezione
nietzscheana di "nichilismo" (assimilabile non senza forzature al
significato che il termine verrà poi ad assumere nella filosofia di
Heidegger). Ed è precisamente tale nesso ad essere investito,
nell'aforisma 125, dal celebre apoftegma della "morte di Dio". Il
Dio di cui si parla in questo celeberrimo passo non è sic et
simpliciter il Dio unico del monoteismo. È il DioUno in quanto
deus otiosus che pigramente presiede all'Ordine immutabile del
mondo: allo svolgersi inerziale degli automatismi logici, al
reiterarsi delle astrazioni e dei progetti razionalicostruttivi che
hanno fino ad oggi plasmato la vita e la cultura dell'Occidente.
Proviamo, dunque, a rileggerlo per rivisualizzarne la scena alla
luce delle considerazioni finora svolte: «Dio è morto! Dio resta
morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli
assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più
30 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i
nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale
acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giuochi
sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la
grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare
dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un'azione
più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno,
in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai
siano state le storie fino ad oggi!».
Teniamo adesso ferme per un attimo le circostanze in cui
Nietzsche colloca il suo dirompente "annuncio". Il momento,
innanzitutto: intempestivo, "inattuale" («Vengo troppo presto»,
dichiarerà subito dopo «il folle»: «non è ancora il mio tempo»,
poiché «questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta
facendo il suo cammino»; poiché «il lume delle costellazioni vuole
tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute,
perché siano vedute e ascoltate» mentre quest'azione è, per ora,
astralmente lontana dalla vigile coscienza di coloro stessi «che
l'hanno compiuta»). E, dopo il momento, il luogo, il luogo in cui il
grido viene a cadere: orbene, questo luogo è il «mercato». Indizio
illuminante. In tutti i sensi: poiché, in apparenza, nulla vi è al
mondo di più trasparente delle relazioni di scambio, dei negotia
che incessantemente si svolgono tra gli uomini. E infatti: il
mercato è immerso nella «chiara luce del mattino». Eppure, il
«folle uomo» sente il bisogno di recarvisi con una lanterna accesa:
come ad indicare qualcosa che la translucida evidenza del giorno
non consente di scorgere. In cosa consiste, allora, questo
"qualcosa"? Ecco la domanda cruciale, senza porsi la quale non si
afferra il senso dell'annuncio nietzscheano della "morte di Dio". E
la risposta la ritroviamo leggendo fra le righe, frugando nelle
pieghe dell'aforisma, là dove esse ci segnalano attraverso il
paradosso di una lanterna accesa nella «chiara luce del mattino»
la logica di un'"attualità", di una "moderna" conformitàaltempo,
che fa tutt'uno con la connessionediaccecamento: ciò che proprio
il «mercato», l'illuminata evidenza diurna delle relazioni sociali,
non consente di scorgere è l'insostenibile gravità di un atto di cui
gli stessi autori, così "ovviamente" miscredenti (la folla del
mercato altro non era, infatti, che la moltitudine «di quelli che non
credevano in Dio»), rifiutano di farsi carico.
In questo aforisma troviamo così in nuce, come incapsulata,
tutta la drammatica ambivalenza del nesso che stringe l'annuncio
della "morte di Dio" e la nozione nietzscheana di politeismo. Ma
riprendiamo, alla luce degli elementi appena acquisiti, le fila del
ragionamento sopra avviato. Abbiamo dunque visto come
31 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
l'inattuale «Dio è morto» della Gaia scienza decreti il decesso di un
modo monoteistico di pensare Dio che faceva tutt uno con uno stile
monoteistico di comprensione e progettazione dell'essere umano. Si
tratta ora di verificare fino a che punto questo nesso (eticamente
condizionato) tra dimensione ontoteologica e dimensione antropo
storica non finisca per coinvolgere la stessa dimensione politica:
fino a che punto, cioè, sia lecito istituire un parallelismo tra morte
di Dio e morte del Leviatano. Gli odierni teorici del "nuovo
politeismo" non sembrano, al riguardo, sfiorati dal dubbio:
«L'annuncio della morte di Dio», ha scritto ad esempio David
Miller, «fu il necrologio di una norma inutile, unilaterale e
unidimensionale, propria di una civiltà che è stata
preminentemente monoteistica non solo nella sua religione, ma
nella sua politica, nella sua storia, nell'ordine sociale, nella sua
etica e nella sua psicologia». Ma vediamo, prima di passare al
vaglio questi esiti, di esaminare intanto il ruolo giocato dal
concetto di politeismo nella riflessione weberiana.
Altrettanto radicale che in Nietzsche e, se il termine non fosse
oggi ampiamente abusato, tragica l'assunzione in Weber del
«politeismo dei valori». A differenza delle coeve teorizzazioni
pragmatiste d'oltreoceano, la pluralità dei centri di valore non ha
qui un'attitudine armonizzante o conciliativa, non possiede alcuna
inclinazione naturale al compromesso e alla mediazione, non è
spinta da alcuna innata socievolezza dell'uomo a far quadrare il
cerchio con la formula magica dell'unitànelladiversità (dando
luogo a un assoluto "vitale" e "dinamico" ben più onnicomprensivo
dell'assoluto "meccanico" e "causale" del vecchio monismo). Gli
«antichi dèi», per quanto anch'essi soggetti a radicale disincanto,
per quanto «spogliati del loro fascino personale e perciò ridotti a
potenze impersonali», non recedono affatto dal loro inconciliabile
conflitto. E, in questa «eterna contesa», ciascuno di essi, lungi
daLTadattarsi ad occupare una nicchia nell'armonica architettura
di un Pantheon, pretende di essere elevato a unico centro
normativo dell'ordine sociale: all'immagine del pantheon
dovrebbe perciò a rigore subentrare quella, ben più congrua e
legittima, del pandaemonium. Tanto meno il politeismo può per
Weber significare, come in molte interpretazioni oggi correnti,
qualcosa di prossimo o identico al relativismo dei valori (secondo
l'equazione lineare: morte di Diofine delle ideologiepermutabilità
di ogni valore). Ogni essere umano è, in fatto di valori, «enoteista»:
non può venerare che un Dio alla volta. La compresenza di diversi
imperativi di valore nella stessa comunità (o addirittura in uno
stesso individuo) può bensì darsi: e, di fatto, spesso si dà. Ma
sempre nella forma della lacerazione o del conflitto.
32 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
monoteistica. La moltiplicazione dei nuovi dèi «centri di valore»,
«nuclei di pregio», secondo le suggestive definizioni di Niebuhr
insidia ormai da vicino T«anello d'oro» della religione monoteistica
mettendone a dura prova la tenuta. L'analisi si caratterizza
pertanto per un intimo nesso tra dimensione teologica e
dimensione socioculturale: «Tutto quello che [Niebuhr] dice sugli
"dèi"», ha osservato a questo proposito David Miller, «è
interpretato come se fosse collegato con i comportamenti umani
nell'ordine sociale. Gli "dèi" sono valori sociali, sono i principi
dell'essere in un mondo la cui caratteristica principale è concepita
in termini di gruppi umani impegnati in vari tipi di relazioni che
variano di volta in volta». Benché inoppugnabilmente connoti
l'epoca attuale, la temperie politeistica non costituisce tuttavia un
problema peculiare del Moderno, ma è piuttosto latente in tutte le
fasi della civiltà. Appoggiandosi alle tesi di Walter Lippmann,
Niebuhr scorge nella «fede sociale» il contrassegno perenne della
condizione umana: è proprio dell'uomo abbracciare un principio o
un valore rendendolo supremo entro la propria sfera. Ciò vale non
soltanto per le posizioni religiose, ma anche per quelle laiche e
atee radicali (anche l'ateismo è, a suo modo, una "fede"). Ed è
precisamente in questo senso, squisitamente weberiano, che i
valori di ciascun individuo sono per Lippmann
«incommensurabili»: crollati i fondamenti sostanziali su cui si
reggeva la pretesa di assolutezza dell'Ordine morale, non vi è più
«alcun punto di riferimento esterno in base al quale si possa
determinare il valore relativo di ideali in conflitto tra loro». Anche
se la cultura occidentale si è faticosamente modellata sul
monoteismo giudaicocristiano, conclude pertanto Niebuhr, «la
nostra religione naturale è politeistica». Ma, poiché l'odierno
pluralismo dei valori è caratterizzato da un assetto
irriducibilmente conflittuale (in cui «ogni dio [...] esige una
devozione assoluta e un rifiuto delle esigenze degli altri dèi»), ne
consegue che «la grande tragedia del politeismo» è quella di un
pólemos che mette ineluttabilmente capo dapprima alla
lacerazione interiore, poi all'isolamento, e infine al «vuoto
dell'assenza di significato».
La diagnosi del teologo americano si colloca così agli antipodi
di quella di Nietzsche: non è il monoteismo, ma la sua dis
soluzione politeistica, a condurre alla catastrofe del senso. Il solo
rimedio ipotizzabile nella situazione di progressivo svuotamento
in cui versa il nostro tempo potrebbe essere come Niebuhr era
venuto precisando in una celebre controversia con Eric Voegelin
un «monoteismo radicale» capace di rigenerare lo spirito del
cristianesimo primitivo, della religiosità altomedioevale,
34 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
dell'umanesimo rinascimentale e dell'etica puritana della Nuova
Inghilterra. Ed è curioso notare come una tale disposizione
d'animo si muovesse in rotta di collisione con le tematiche
politeistiche provenienti dal dibattito europeo entre les deux
guerres, ma approdate sull'altra sponda dell'Atlantico addirittura
al principio degli anni '70: è di questo periodo, infatti, l'edizione
americana (parziale) di Les Dieux (1934) di Alain (uno dei maestri
di Simone Weil) e di Le mauvais demiurge di Émile Cioran, che
appare con il sintomatico titolo The New Gods. Se all'opera di
Alain si deve la definizione degli dèi come «momenti dell'uomo» e
l'idea che ha poi trovato uno sviluppo originale nella Weil di un
«oltrepassamento» del cristianesimo attraverso il «sublime del
paganesimo», adi pamphlet di Cioran scaturiva invece non solo
una condanna di inequivocabile sapore nietzscheano del
monoteismo come «regresso», non solo l'affermazione dell'anima
come «naturalmente pagana», ma anche una contrapposizione
del tutto scevra di elementi valutativi tra il «politeismo implicito
(o inconscio)» della «democrazia liberale» e il «monoteismo
mascherato» di «ogni regime autoritario».
Che tali spunti, quantunque scorporati dal contesto di ori
2. G. MARRAMAO: Dopo il Leviatano.
gine, fossero destinati ad attecchire sul fertile terreno culturale
angloamericano, è documentato da numerosi e significativi
esempi. Approfondendo le tracce politeistiche presenti nelle
ricerche psicologiche di un autore "junghiano" come James Hil
lman e di un autore "freudiano" come Norman O. Brown, Vincent
Vycinas ha reintrodotto nelle sue opere il tema degli «dèi nascosti»
come chiave di accesso all'attuale epoca di «rivolgimenti
culturali», giungendo a declinare in senso "polimitico", o
pluralisticomitologico, la stessa filosofia heideggeriana (benché
l'ultimo Heidegger avesse, viceversa, qualificato l'epoca presente
come un interludio tra il tempo del nonpiù degli dèi fuggiti e il
tempo del nonancora del Dio che sta per venire). Stando, dunque,
alle attuali tendenze politeistiche, si tratterebbe in alternativa
all'«ermeneutica monoteistica» di «combinare una teoria de
centralizzata del Sé con una teoria decentralizzata della società»,
attivando un «pluralismo di parapolitiche».
Nella stessa temperie si collocano tanto la tematica del «poli
simbolico» di William C. Sheferd (che s'inserisce nella scia di
Brown) quanto quella dell'«uomo pluridimensionale» di James A.
Ogilvy (che intende proseguire il lavoro filosofico di Vycinas). È ad
Ogilvy che può esser fatta risalire la fortuna di quella
35 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
logici imperniato su un concetto di cesura radicale assai prossimo
a quello heideggeriano di "differenza ontologica".
A un tale risultato il grande iranista era pervenuto (cfr. Le
paradoxe du monothéisme, Paris 1981) ripensando, sulla scorta di
Mohyìddìn Ibn 'Arabi, la distinzione tra un tawhid teologico e un
tawhid ontologico: tra la «professione di fede» del monoteismo
essoterico (Non Deus nisi Deus, "Non c'è altro Dio all'infuori di
Dio") e quella del monoteismo esoterico ("Non c'è altro Essere
all'infuori di Dio"). La catastrofe originaria del monoteismo risale
alla confusione tra piano dell'essere (arabo wojud, latino esse,
greco elvai, tedesco das Sein) e piano dell'ente (mawjud, ens, <JV,
das Seiende). Tale confusione induce il monoteismo a far
coincidere Dio non già con l'Essere ma con l'Ens supremum,
facendone così un Superente. Di qui la "morte di Dio", che è in
realtà morte dell'Essere causata dal «monismo esistenziale»: dallo
scambio dell'unità dell'esse con una pseudounità dell'ens, per sua
essenza molteplice. Il monoteismo perisce così proprio all'apice del
suo trionfo: imponendosi come statodellecose, come «idolatria
metafisica». Risolvendo la questione di Dio nella definizione
dell'"Ente supremo", esso non fa che «scolpire un nuovo idolo
mettendolo al di sopra di quelli che condanna nel politeismo, la
cui natura stenta a comprendere». A questo primo paradosso del
monoteismo ne seguono altri due. Il secondo paradosso sta nel
fatto che il monoteismo può salvarsi solo attingendo secondo
l'insegnamento di Haydar Amolì, il maggiore dei discepoli sciiti di
Ibn 'Arabi al suo tawhid esoterico: solo costituendosi come
rigoroso teomonismo. Ma poiché anche questo livello è esposto al
rischio dei possibili equivoci in ordine al significato della parola
"essere", occorre scongiurare il pericolo instaurando un'«ontologia
integrale», in cui il piano del DioUno sia in grado di fondare, eo
ipso, il pluralismo degli enfia. Da questo terzo e ultimo paradosso
del monoteismo viene alla luce come Corbin, attraverso un
percorso squisitamente teologico (sia pure nel senso "altro",
irriducibilmente ostile alla dogmatica, della gnosi islamica o della
teosofia ismailitica), giunga a riproporre con straordinaria
intensità la questione della differenza ontologica. Soltanto una
teologia apofatica (o negativa) è in grado di venire a capo di quel
mistero dell'Essere, la cui rimozione metafisica sembra aver
condotto la teologia catafatica all'autoannientamento, e al
conseguente propagarsi nella civiltà occidentale di una "nihili
tudine" passiva. Solo una volta ripristinato il significato autentico
dell'esse come l'Uno che portaadessere ogni ens, sarà possibile
"salvare" simultaneamente le ragioni del monoteismo e quelle
del politeismo: in tal caso, infatti, l'unità dell'Essere corrisponderà
37 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
3. 1 x 1 x 1 x 1 , ecc., mentre l'unità degli enti sarà rappresentata
da 1 + 1 + 1 + 1, ecc. Sta qui il segreto di quella «perfetta
armonia» tra Uno e Molti, che appare alla «coscienza ingenua»
della metafisica solo nella forma del paradosso, e che può essere
colta solo lungo il crinale della differenza tra l'Uno che ponein
essere la molteplicità degli entia e l'Uno in quanto principio
ordinatore e vertice della serie. Ed è precisamente a questo
proposito che Corbin si avvale del commento al Parmenide di
Proclo: la differenza appena evocata si può esprimere sulla scorta
di quel celebre "commentario" anche come distinzione tra theótes
e theós. L'unicità è prerogativa esclusiva non di un theós, ma della
theótes: vera e propria deitas abscondita antecedente sia il theós
che i theói. Anziché escludere tutti gli altri dèi, la theótes richiede,
condiziona e garantisce la «pluralità dei theói», esattamente come
Tessere costituisce il presupposto della molteplicità degli enti. Il
Non Deus nisi Deus diviene così un Non Deus nisi Dii: non si dà
"divino", in altri termini, se non nella forma di «Dio degli Dèi»
(secondo un'espressione che Corbin mutua dal mistico iraniano del
XII secolo Shihàboddìn Yahyà Sohrawardi). In virtù del
discrimine così istituito tra piano "ontologico" e piano "ontico", il
teomonismo non esclude affatto, ma al contrario include in sé a
pieno titolo la rinascita degli dèi in quanto teofanie della theótes:
«Il teomonismo non professa [...] che TEssere divino è il solo ente,
bensì TessereUno, e proprio questa unitudine dell'essere fonda e
rende possibile la moltitudine delle sue epifanie, che sono gli
enti». La deitas abscondita aspira a rivelarsi, e non può rivelarsi
che, in un numero molteplice, anzi illimitato, di forme teofaniche
(da cui la «necessità dell'angelologia»). Talem eum vidi qualem
capere potui: è in questa funzione epifanica comune agli Dèi
Angeli di Proclo, ai dodici Imam del neoplatonismo sciita, alle
dieci Sefiroth della Cabala che si colloca la dimensione del
mundus imaginalis. Ma "immaginale" sente il bisogno di
precisare Corbin in una lettera a Miller «non va confuso con
l'immaginario». Esso è si, infatti, il luogo della «rinascita degli
Dèi». Ma questa rinascita non potrebbe averluogo senza il wojud
Dio che poneinessere ogni cosa. Motivo politeista e motivo teo
monista si richiamano Tun l'altro in un vincolo circolare che è, al
tempo stesso, una tensione reciproca: è in virtù della theótes che i
theói si danno; ma per converso è in virtù delle molteplici
teofanie che «il Dio degli gnostici non può mai morire, perché è
egli stesso (il luogo del)la rinascita degli Dèi e delle Dee». Ed è
nell'interstizio lasciato aperto da questa tensione che viene a
collocarsi, appunto, il mundus imaginalis. La sua dimensione è
propriamente outopica: poiché esso esprime non già un tópos, un
38 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
"luogo", quanto piuttosto lo stesso averluogo della manifestazione
del molteplice.
Sarebbe interessante alla luce di questa rassegna vagliare il
coefficiente di originalità di alcuni dei contributi filosofici e
teologici oggi in voga. E certo risulterebbe appassionante andare a
verificare in che misura la distinzione e calibratura reciproca dei
due "piani" operata da Corbin sia in realtà rivelatrice di un
dispositivo "archetipico" puntualmente ricontrabile perlomeno
come scena influente anche in ambiti in apparenza
39 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
remoti: dalla teologia politica del "doppio corpo" regale al pattern
magico della stessa formula giuridica (con la sua virtualità di
tenere insieme l'Uno e i Molti, unità dell'ordinamento e pluralità
delle sue manifestazioni normative). Ma un tale sondaggio per
fin troppo ovvie ragioni cade al di fuori dell'orbita discorsiva di
questo libro.
Ciò che, per il momento, mette conto segnalare è che la pro
blematica di Corbin può essere facilmente equivocata qualora la si
assuma espungendo o smorzando il rigore delle premesse, sopra
rapidamente schizzate solo dal versante degli esiti: la
liberazione dal "blocco totalitario" del monoteismo e delle sue
forme secolari. Ma per questa via il tema dell'"immaginale" finisce
ineluttabilmente per smarrire la propria radicalità (antiteologica
e per tradursi in una sorta di ermeneutica decostruzionistica
imperniata sulla categoria di immaginazione etica: «Mi
piacerebbe immaginare», esclama molto significativamente
Miller, «che la prospettiva politeistica producesse piuttosto
mythos dall'ethos invece che sistemi morali a partire dai miti
classici».
È un buon esempio di quanto si diceva. E, insieme, un docu
mento eloquente dell'odierna temperie politeistica: di cui pas
seremo ora a trattare i risvolti più propriamente eticopolitici.
SEZIONE B
LA DEMOCRAZIA, LA COMUNITÀ E I PARADOSSI
DELL'UNIVERSALISMO
1. Trasparenza democratica e opacità delle differenze
insieme, in produttiva tensione, questi due aspetti rappresenta la
sola chance di credibilità e di rilancio della democrazia
contemporanea.
Si sarebbe a questo punto portati a chiudere il discorso ricor
rendo alla vecchia, ma pur sempre valida esortazione: Hic Rho
dus, hic salta! Ma è consigliabile non precipitarsi. Poiché quanto
si è finora detto non è che il prologo in cielo del nostro problema.
2. Il ritorno della comunità
Se vogliamo tentare un'approssimazione adeguata al problema,
se non vogliamo restare irretiti dagli scenari appena delineati,
dobbiamo accuratamente evitare due atteggiamenti, insieme
sterili e rischiosi. Dobbiamo, in primo luogo, bandire dai nostri
discorsi le "sentenze da premio Nobel": vale a dire, quelle formule
generiche che il linguaggio della politica (ancora fermo a canoni
ottocenteschi, ad onta delle rivoluzioni che in questo secolo hanno
investito, dall'arte alla scienza, le forme espressive e il modo
stesso di guardare all'esperienza) sembra avere perniciosamente
trasmesso anche agli "intellettuali" chiamati a pronunciarsi su
tutto. L'archetipo di queste sentenze è rappresentato,
naturalmente, dalla sconvolgente "scoperta" che la situazione
attuale dell'Umanità è segnata dall'alternativa tra grandi pericoli
e grandi potenzialità future.
In altre parole, e più specificamente, si tratta di evitare il
"doppio" perverso del postmoderno: la sua oscillazione pendolare
tra un'ermeneutica dell'euforia (pensiero debole, teoria dei
simulacri, et similia) e un'euristica della paura (atteggiamento
comune al suo versante "nero": dallaposthistoire di Arnold Gehlen
allo stesso "principioresponsabilità" di Hans Jonas). Ma, d'altra
parte, dobbiamo anche evitare di allestire ogni volta un nostro
"divano occidentaleorientale" (ricordate il Westòstlicher Diwan
del vecchio Goethe?), sproloquiando qualche ennesima (e in realtà
andiliuviana) "trovata" sui rapporti OrienteOccidente.
Cerchiamo allora di afferrare il toro per le corna (nella spe
ranza che non sia, invece, proprio lui, il toro, ad incornarci):
l'Occidente si presenta oggi come una sfera culturale esplosa. E
l'esplosione, di cui ci troviamo adesso ad amministrare i fram
menti, si è prodotta non malgrado, ma in conseguenza dell'appa
rente vittoria del suo modello su scala globale. Cosa caratterizza,
allora, la "situazione spirituale" del nostro tempo? L'imposizione
omologante dei parametri occidentali sotto ogni cielo e su tutte le
LA DEMOCRAZIA, LA COMUNITÀ E I PARADOSSI 44
culture? Non questo, a mio avviso. O almeno: solo in parte questo.
Siamo piuttosto in presenza di un nodo nevralgico, che va qui
segnalato andando davvero, una volta tanto, controcorrente
rispetto alla discordia concors di tutti quegli intellettuali,
"apocalittici" o "integrati", i quali, dall'interno dell'Occidente, si
limitano a salutare trionfalisticamente la (presunta) affermazione
sull'intero orbe terraqueo del Modello Occidentale oppure a
blaterare disfattisticamente contro l'Omologazione Universale che
esso avrebbe indotto, senza accorgersi che da tempo ormai il
bastone è stato piegato in un verso diametralmente opposto a
quello dell'universalismo.
La temperie che minaccia di segnare questo scorcio di fine
secolo è rappresentata da una ribellione sempre più estesa ed
intensa nei confronti del modello universalistico occidentale. Mi
riferisco per chi non l'avesse ancora afferrato alla battaglia dei
communitarians americani nei confronti non solo dell'ideologia,
ma dello stesso patto democratico. Si tratta di un fenomeno assai
più sottile e insidioso del "tribalismo" nazionalistico e
subnazionalistico che sta dilaniando il continente europeo a
partire dal crollo del muro e dal successivo sgretolamento
dell'impero sovietico. La battaglia dei "neocomunitari" ha infatti
un segno socioculturale prima ancora che direttamente politico. E
per questo essa minaccia di attecchire in gruppi etnici e strati
della popolazione tradizionalmente indifferenti alle vicende della
politique politicienne. Per questi fondamentalismi "indigeni"
dell'Occidente le istituzioni dell'universalismo rappresentano il
regno del "grande freddo" (del Big Chili), perché
irrimediabilmente segnate da una fisiologica neutralità e "apatia"
nei confronti delle differenze: nei confronti, cioè, di quei vincoli
solidaristici che possono darsi non tra individui atomisticamente
separati (secondo lo schema del "contratto sociale" da Hobbes in
poi), ma tra soggetti concreti culturalmente affini. Si cominciano
così a delineare i profili inquietanti della sfida "comunitarista".
Etnocentrico, nella sua prospettiva, non è soltanto il dispo
sitivo strategicostrumentale dell'universalismo (le tecniche, le
convenzioni, le regole formali della democrazia), ma anche la sua
"ragione comunicativa": ossia lo stesso ideale del dialogo
razionale. La persuasione viene in altri termini percepita come
una forma incivilita del modello di conversione del "barbaro" e
dell'"infedele": una forma essenzialmente rivolta alla neutraliz
zazione di ogni "alterità" culturale. In secondo luogo, l'insistenza
sulla concretezza delle forme di vita tende a ricondurre entro
l'alveo delle specificità culturali il tema della solidarietà e dei
valori condivisi.
45 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
b) Veniamo ora ai paradossi inerenti alla dinamica e alla spe
rimentazione storica dei principi dell'universalismo. Per afferrarli,
dobbiamo riprendere e approfondire un tema che era chiaro allo
sguardo disincantato di un Tocqueville o di un Weber, ma anche
all'occhio "infernale", spietatamente demistificante, del vecchio
Marx: il processo della modernità capitalistica costituisce un
evento unico, assolutamente eccezionale, nel contesto delle società
umane, proprio perché si realizza attraverso un rivoluzionamento
dei valori e una radicale rottura dei vincoli comunitari che
facevano consistere le cerchie di vita tradizionali.
L'affermarsi dell'universalismo moderno viene così a coincidere
con l'esperienza dell'universale sradicamento. Ma questa
esperienza altro non è che l'effetto del dispiegarsi del presupposto
culturale dell'universalismo: del suo nucleo irriducibilmente
individualistico. È il "modello individualista" dunque, e non (per
LA DEMOCRAZIA, LA COMUNITÀ E I PARADOSSI 48
Il primo di questi fenomeni storici è rappresentato dallo sfo
ciare del determinismo latente nell'idea di "legge di movimento"
(aspetto che in Marx convive e cospira con le radicali premesse
individualistiche) nella feticizzazione del Collettivo: per questa via
si è prodotta con tutte le alterazioni e legittimazioni "ortodosse"
della dottrina la tragica esperienza del comunismo reale. Il
secondo fenomeno è costituito invece dall'affiorare di
controtendenze o zone di resistenza all'universalismo, che con
sistono nel rivendicare l'autonomia irriducibile di soggetti par
ziali, siano essi reali o mitologicamente costruiti: razza, etnia,
Volk. Sarebbe davvero interessante, a questo proposito, analizzare
le varie manipolazioni cui è andato soggetto nel nostro secolo il
concetto di "popolo": e troveremmo certo impreviste e inquietanti
collusioni tra "destra" e "sinistra". Ma credo che, ancora una volta,
abbia ragione un antropologo come Dumont (a differenza di tanti
scienziati della politica), nell'affermare (Essais sur
l'individualisme, Paris 1983) che il totalitarismo contemporaneo
non è affatto un'"aberrazione" o un "evento eccezionale"
eccezione che confermerebbe la norma delle nostre "magnifiche
sorti e progressive" ma una creatura partorita dalle viscere
dell'universalismo individualista: benché lo rovesci
diametralmente di segno, affidando a una Identità o Feticcio
collettivo le prerogative (individualistiche) della volontà di
potenza e di dominio sul mondo. Non è certo per incidente che
proprio dall'analisi della dinamica delle masse nel nostro secolo
sia emersa l'esigenza di scavare nel "cuore di tenebra" dell'Occi
dente, per portarne alla luce gli elementi costitutivi. Senonché e
vengo con questo al punto più delicato della mia argomentazione
affrontare il problema in questi termini vuol dire inevitabilmente
imbattersi nei limiti di un approccio di tipo razionalistico
utilitaristico ai fenomeni sociali.
4. Etiche in conflitto
1. per ogni quesito autentico c'è un'unica risposta corretta, che
esclude tutte le altre come erronee, nonvere: non c'è inter
rogativo, purché formulato con chiarezza logica, al quale si pos
sano dare due risposte diverse che siano entrambe corrette (e va
da sé che, se non esiste risposta corretta, il quesito è da ritenersi
inautentico);
2. esiste, sempre e comunque, un metodo per trovare le rispo
ste logicamente giuste;
3. tutte le risposte corrette devono essere compatibili fra loro.
5. Democrazia e universale sradicamento
une alle altre come autoconsistenze insulari o come monadi senza
porte né finestre. La globalizzazione del mondo determinatasi con
il crollo dei muri tra Est e Ovest ci ha improvvisamente proiettati
contro una parete talmente vasta da non riuscire a distinguerne i
contorni. E i contorni sono quelli di un problema così macroscopico
da passare inosservato: un effettivo confronto tra le grandi culture
del pianeta non è ancora avvenuto. Questo confronto è in procinto
di imporsi come un'urgenza assoluta, nel momento in cui le
democrazie occidentali ereditano nel proprio seno componenti
sempre più attive e cospicue di altri contesti culturali.
Tutto ciò si verifica in presenza di una soglia critica: una soglia
che abbiamo appena silenziosamente varcato, quasi senza
avvedercene, e che coinvolge in modo radicale la stessa idea di
"natura" alla quale eravamo abituati (e sulla quale avevamo
costituito, a partire dall'età moderna, i nostri Ordini politici e
Contratti sociali). La natura era stata finora concepita dalla cul
tura occidentale essenzialmente in due modi: natura come "tem
pio", cosmo ordinato e contenitore invalicabile di eventi che
ciclicamente si succedevano (secondo l'accezione classica, dalla
civiltà grecoromana fino all'epoca medioevale); natura come
"laboratorio", sezione dell'universo fisico ritagliabile per gli
esperimenti (secondo un'accezione invalsa dalla rivoluzione
scientifica del Seicento a tutta l'epoca industriale). Oggi vediamo
emergere una nuova idea, in virtù della quale i confini stessi tra
natura e artificio tendono a sbiadirsi: la natura come "codice"
(idea nuovissima, postmoderna se si vuole, ma al tempo stesso
antichissima: essa evoca infatti il tradizionale tema, ermetico e
cabalistico, della cifra e della decifrazione). E a partire di qui che
dobbiamo ripensare, attraverso e oltre la cultura ambientalista o
ecologista, la stessa idea di contratto (che originariamente
postulava la natura come uno "stato", un presupposto
immodificabile su cui erigere l'artificio statuale: il "Dio mortale", il
"grande e onnipotente" Leviatano). Ed è da questa prospettiva che
occorre rilanciare la sfida dell'universalismo prospettando un
nuovo ventaglio di possibili per il destino della specie sul pianeta.
Quale compito spetta allora su questo sfondo a dir poco
"perturbante" alla democrazia? Innanzitutto essa deve farsi
carico della radicale trasformazione che ha investito alcuni dei
problemichiave con i quali si era storicamente misurata: a partire
dal tema dello sfruttamento, che oggi tende sempre più a
risolversi in quello dell'emarginazione. Ma lo stesso fenomeno
dell'emarginazione non può più essere visualizzato nei termini
classici, poiché viene ormai direttamente a coinvolgere la
dimensione criticoculturale. Nel corso di una recente riflessione
55 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
attentamente vagliato le "ragioni" di un Durkheim o di un Mauss,
oltre che (last but not least...) del vecchio Sigmund Freud?
In secondo luogo, il tema del "sacro": ineludibile costante del
potere e del legame sociale, una volta che si assuma la società
come un complesso simbolico, e dunque come qualcosa di più o di
altro dalla semplice somma degli individui che la compongono.
Anche a chi non sia disposto ad abbracciare la nozione radicale di
"sociologia sacra" affacciata negli anni trenta dal Collège de
Sociologie di Georges Bataille e Roger Caillois, sarà difficile non
convenire con Clifford Geertz sull'asserzione che «una società
interamente desacralizzata sarebbe una società completamente
depoliticizzata». Ma se il motivo del sacro si identifica con quello
della persistenza dei rituali e dei modelli iterativi che presiedono
ai meccanismi di identificazione simbolica (sulla cui rilevanza per
la teoria democratica si è acutamente soffermato, negli anni
passati, anche un sociologo come Alessandro Pizzorno), ne
consegue un'altra esigenza: quella di una revisione radicale dei
concetti di "secolarizzazione" e "razionalismo occidentale" quali si
trovano elaborati nella grande indagine comparativa di Max
Weber. La secolarizzazione, in altri termini, non comporta una
lineare "desacralizzazione"; così come la crisi delle cosiddette
"centralità" (dal SoggettoPopolo al SoggettoStato) non induce
necessariamente un attenuazione o un indebolimento dei
meccanismi di identificazione simbolica. Valga qui per tutte
l'analisi dell'interscambio simbolico tra auctoritas religiosa e
potestas politica svolta da Marc Bloch in quell'autentico gioiello
della storiografia del '900 che sono Les rois thaumaturges (1924):
il plurisecolare conflitto tra i due poteri non mette capo a una
differenziazione lineare. Ma piuttosto a un gioco di specchi in cui
l'uno tende ad assumere le prerogative dell'altro: la Chiesa si
"statalizza" (assumendo i caratteri della centralizzazione e
razionalizzazione burocratica) e lo Stato si "ecclesiasticizza"
(incrementando le proprie caratteristiche sacrali e ritualizzando
le proprie procedure).
In terzo luogo, il pattern miticorituale della sovranità: tema
emergente dalle ricerche etnologiche coordinate da Hooke al
principio degli anni trenta, e documentate dalle raccolte Myth
and Ritual (1933) e The Labyrinth (1935). La rilevanza di queste
indagini non consiste soltanto nell'evidenziare (alcuni decenni
prima di Michel Foucault) la persistenza del complesso mitico
rituale indipendentemente dall'esistenza o meno di un Centro
sovrano topologicamente identificabile e visibile, ma piuttosto
nell'infrangere quel "disprezzo per il rituale" in cui Mary Douglas
scorge uno dei contrassegni negativi della teoria sociale
57 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
Vengo così, in conclusione, all'altro punto più squisitamente
teorico tralasciato dalla diagnosi di Isaiah Berlin. Il punto
investe (ii) la questione relativa a quello che per riprendere
Robert Dahl potremmo chiamare il "concetto ombra" della
democrazia. Esso consiste non già in un "oltrepassamento" in
chiave relativistica o pluralistica del suo statuto metafisico
sostanziale, quanto piuttosto in un'attivazione del suo risvolto
antimetafisico, in grado di sottrarsi alla morsa costituita dal
dilemma teorico tra ì'apriori fattuale dei comunitaristi e ì'apriori
trascendentale evocato dalla "comunità della comunicazione"
(Kommunikationsgemeinschaft) di KarlOtto Apel e dallo stesso
"agire comunicativo" (kommunikatives Handeln) di Jùrgen
Habermas. Se è vero che la vocazione della democrazia, in quanto
istituzione politicoculturale tipica dell'Occidente, è data
59 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
come ben sapevano Tocqueville, Marx e Weber dalla cifra dello
sradicamento, la sua definizione più congrua sarà quella di luogo
comune dello sradicamento. Solo a partire di qui da questo
recupero che è anche un ripensamento alternativo del potenziale
della tradizione si apre la possibilità di un confronto con le
"alterità" culturali in grado di sfuggire agli opposti e speculari
rischi dell'universalismo egemonico e del relativismo. La
democrazia e solo la democrazia può chiamarsi a pieno titolo
comunità paradossale: comunità dei senzacomunità. Non
malgrado, ma proprio in virtù delle sue regole formali che,
limitando la tàxis, la sfera di esercizio del potere, garantiscono
l'autonomo svolgimento delle sfere di vita. La democrazia è
sempre "advenire", proprio perché non sacrifica mai all'utopia di
una trasparenza assoluta l'opacità della frizione e del conflitto. La
democrazia non gode di un clima temperato, né di una luce
perpetua e uniforme, proprio perché si nutre di quella passione
del disincanto che tiene uniti in una tensione irresolubile il
rigore della forma e la disponibilità ad accogliere "ospiti inattesi".
Per questo essa sa che precipiterebbe in rovina se dimenticasse
anche solo per un istante il solo presupposto che la tiene in vita: il
totum è il totem.
PARTE PRIMA
VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Ri C E R C H E
1. Gioco di specchi
anche sussumere) la «frattura datori di lavoro/prestatori d'opera
(la frattura di classe)» con la frattura establishment/anti
establishment?
Sono proprio questi interrogativi che ci inducono a proble
matizzare l'uso della categoria di postpolitico. La sua efficacia
sta, a ben guardare, non solo nel segnalare la natura irreversibile
delle nuove forme di identità collettiva, ma soprattutto nel porle
in un nesso logicostorico consequenziale con un intero ciclo della
politica occidentale. Nel vederle cioè come effetti di un lungo
processo di politicizzazione della società che coincide con la
parabola dello «Stato del benessere»: sotto questa angolatura
prospettica, il postpolitico non è soltanto ciò che "viene dopo"
l'intervento politico del Welfare, ma indica anche lo stato di
ipersensibilità di un sociale che percepisce le forme della politica
tradizionale come un déjàvu, un percorso già esperito e nella
sua logica di fondo già consumato. Il che non toglie,
evidentemente, che questa acquisita consapevolezza possa trovare
forme puntuali di raccordo con il politico istituzionalmente e
professionalmente inteso, allo stesso modo in cui la nuova frattura
"culturale", che taglia trasversalmente tutti gli schieramenti
classici della società industriale, dovrà trovare una qualche forma
di combinazione con la persistente divisione di "classe". Ma è
appunto per questa ragione che il discorso deve ritornare, ancora
una volta, sulla politica, o meglio: sulla logica delle interrelazioni
"ambientali" che condizionano la politica (e il "fare politica") nelle
democrazie industriali.
È in conformità a questo ordine di problemi non solo, dunque,
per una comprensibile ripulsa verso l'orgia dei «post» che
caratterizza la cultura (in particolare italiana e francese) di questi
anni che si è preferita alla categoria di postpolitico che pure
noi stessi avevamo proposta, in sordina, in alcuni precedenti
lavori (Marramao 1980 e 1983) un'altra chiave di lettura, che
riassumiamo nel concetto di metapolitica. Con questo termine
intendiamo non tanto una neosintesi del politico una sorta di
"superpolitica" , quanto piuttosto l'esigenza di concettualizzare
un campo semantico dal profilo ancipite, che accentua e traduce a
un livello di maggiore complessità la "dualità" connaturata al
moderno concetto di "politico". La problematica sottesa alla
categoria di metapolitica implica: in primo luogo, che il dispositivo
ermeneutico per catturare le odierne condizioni di praticabilità
della politica deve indirizzarsi verso dati obliqui, verso aree che,
secondo la topologia classica, si presentano come remote o
eccentriche rispetto alle nomenclature politiche tradizionali; in
secondo luogo, che per decifrare la potenziale rilevanza politica di
questi ambiti occorre tentare di dar forma ai reticoli simbolici
67 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
interessante la crisi dei movimenti, che è stata invece precipitosa
e non discussa affatto» (Rossanda 1983, 137). L'approfondimento
di questo aspetto rappresenta, senza ombra di dubbio, un pas
saggio decisivo dell'analisi. Ma come può esso darsi realmente
senza uscir fuori dal gioco di specchi tra politicaistituzione e
politicamovimento ?
La dinamica di secolarizzazione stilizzata da Germani sul
versante sociologico dei processi di modernizzazione ha un suo
preciso contrappunto anche nell'ambito della teoria politica. Nella
concezione funzionale della politica come dispositivo di risposta a
"problemi" sempre più pressanti che provengono dall'"ambiente"
si è definitivamente maturato il distacco non solo dalla concezione
classica della TTOXITIKT] KOLVCOVLCL che postulava una unità "naturale"
di dominio politico e società nella polis (Riedel 1975) , ma anche
dall'idea moderna dello Statomacchina: «Il legame fondamentale
tra le due valenze del concetto di "politico" è quello della
concezione del sistema collettivo di conseguimento dei fini, cioè
della tendenza di un sistema di azione a mutare la relazione tra il
sistema stesso e certe caratteristiche del suo ambiente in
direzione di una più piena soddisfazione delle necessità funzionali
del sistema, che grosso modo corrisponde alla perdita di "tensione"
tra il sistema e l'ambiente riguardo agli aspetti rilevanti. Il pieno
conseguimento di un sistema di fini costituirebbe dunque un
punto di equilibrio in cui cesserebbero le tensioni per il suo
raggiungimento» (Parsons 1969, 584).
È importante sottolineare quelli che a me paiono i tre momenti
salienti di questa ridefinizione parsonsiana del concetto di
"politico" (che trapasseranno pressoché integralmente nell'opera
di Luhmann). In primo luogo, la particolare accezione che viene
ad assumere il concetto di "ambiente", che in quanto inclusivo
dei sistemi culturali cui gli individui fanno riferimento rimanda
implicitamente al problema della secolarizzazione: «noi
concepiamo l'ambiente di un sistema sociale come comprensivo
non solo dell'ambiente fisico e degli altri sistemi sociali come le
"nazioni" ma anche degli organismi e delle personalità dei suoi
membri, e dei sistemi culturali rilevanti». In secondo luogo, il
"comportamento" strettamente "reattivo" quasi da variabile
dipendente che il "politico", come sistema collettivo di
conseguimento dei fini, viene ad assumere rispetto alle spinte
secolarizzanti dell'ambiente (che si presenta così come una
riformulazione sostanziale tanto della nozione hobbesiana di
"stato di natura", quanto di quella weberiana di "razionalità
materiale"): «Ne consegue che un problema di conseguimento dei
fini per il sistema sociale, cioè, nel nostro senso analitico, un
problema politico, può sorgere ogni qual volta si presenti questo
L'ENTROPIA DEL LEVIATANO 70
tipo di tensione nel sistema di relazioni ambientali, sia riguardo
alle varie parti del sistema, sia riguardo alle caratteristiche del
suo ambiente». In terzo luogo, la qualifica del "politico" non già
come funzione di gruppi o agglomerato di individui, ma come
«sistema di azione» (Parsons 1969, 584585). Quest'ultimo aspetto
ci conduce direttamente a un'ulteriore articolazione del discorso:
quella relativa all'opposizione tra teoria del sistema e teoria
dell'azione come antitesi tuttora costitutiva del discorso
sociologico intorno ai movimenti.
2. Attore e sistema: un'alternativa?
Prendiamo ad esempio un recente saggio di Alain Touraine, dal
titolo che, nel corso della lettura, si rivelerà programmatico
Une sociologie sans société (1981). Il saggio è significativo, in linea
generale, in quanto rappresenta al tempo stesso una sorta di
bilancio ideale della ricerca svolta dall'autore nell'arco di oltre un
ventennio e una sua autointerpretazione e sistemazione teorica in
rapporto ai diversi indirizzi presenti nel campo delle scienze
sociali. E rispetto al discorso che stiamo portando avanti in
quanto ci esibisce l'esatto rovescio dello schema interpretativo
delle concezioni funzionaliste e sistemiche sui problemi sempre
più acuti posti all'ordine politico dall'aumento del tasso di
contingenza "ambientale". La pressione crescente esercitata da
quella dinamica del mutamento socioculturale che queste teorie
esorcizzano, trasfigurandola nel concetto di "ambiente", ha
portato sul piano scientifico alla dissoluzione dei modelli
macrosociologici che hanno dominato fino agli anni '60 lo scenario
delle scienze sociali: quei modelli che da Durkheim a Parsons
avevano fondato l'idea di società attraverso un "assemblaggio" dei
concetti di istituzione e di evoluzione. La dissoluzione di questi
modelli e dell'idea di società che essi avevano costruito comporta
per la sociologia una drastica perdita di oggetto e,
conseguentemente, di identità. Il vuoto lasciato aperto da questa
perdita può essere colmato, secondo Touraine, solo facendo leva
sull'opposizione tra teoria del sistema (che domina le sociologie
ottocentesche, da Comte a Marx, e concepisce il fenomeno sociale
in termini di leggi e di meccanismi oggettivi da cui gli individui
sarebbero metadeterminati e "vissuti") e teoria dell'azione (che, a
partire da Weber, pone alla base del fenomeno sociale la logica
dell'agire): tra «sociologia delle istituzioni, vale a dire del sistema»
e «sociologia del cambiamento, vale a dire degli attori» (Touraine
71 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
1981, 7). A partire da questa opposizione che viene di fatto ad
assumere un carattere assiomatico («tra Durkheim e Weber non
esiste quasi comunicazione alcuna») , Touraine propone una rico
stituzione dell'«unità del campo sociologico» a partire dai tre
«concetti principali» di azione, rapporti sociali e movimenti
sociali. Si tratta, tuttavia, di una «sociologia senza società», che
non postula mai un sistema o un ordine stabilito, ma lo vede
sempre come prodotto di un'azione e di un cambiamento costanti.
I movimenti sociali sono, appunto, gli attori collettivi che operano
questa «produzione della società», creando i rapporti sociali.
Cerchiamo di passare rapidamente al vaglio i postulati che
reggono l'argomentazione di Touraine.
Innanzitutto, l'antinomia perentoriamente dichiarata tra teoria
del sistema e teoria dell'azione. Se una tale contrapposizione può
essere ritenuta legittima in rapporto alle sociologie ottocentesche
(ma anche in questo caso essa andrebbe ulteriormente motivata e
problematizzata), appare invece difficilmente sostenibile rispetto
agli sviluppi del pensiero sociologico del nostro secolo: com'è
costruito, infatti, il concetto di sistema sociale in Parsons se non
come un derivato e uno sviluppo logico della teoria weberiana
dell'azione? Derivazione e sviluppo che potranno essere certo
contestati nel merito. Ma non al punto da eludere il problema
epistemologico costituito dal fatto che i paradigmi funzionalisti e
sistemici contemporanei non pongono più il problema dell'ordine a
partire da "leggi di movimento" che regolano il funzionamento del
"corpo sociale", bensì a partire proprio da quel problema della
razionalità dell'agire che Touraine vorrebbe diametralmente
contrapposto al "paesaggio lunare" raffigurato dalla teoria
parsonsiana. Il fatto che Parsons si sia occupato in misura molto
minore di Weber degli attori collettivi potrà essere pure
legittimamente imputato oltre che al più esiguo spessore storico
della sua ricerca a una propensione ideologica soggettiva (che
indubbiamente condiziona in modo pesante la sua reimpostazione
del «problema hobbesiano dell'ordine»). Ma non esclude affatto la
possibilità di un'analisi "sistemica" degli stessi movimenti,
condotta sulla base di un uso rigoroso dello strumentario offerto
dalla teoria dell'azione.
In secondo luogo, il postulato su cui si regge l'assegnazione del
primato all'azione collettiva dei movimenti. Non si tratta, a questo
riguardo, di rivolgere a Touraine una generica quanto inoffensiva
accusa di parzialità, per il fatto di privilegiare i movimenti a
discapito delle istituzioni, il mutamento a discapito della
persistenza. Egli, infatti, non rinuncia a una prospettiva in certo
qual modo "sintetica" (benché si tratti di una sintesi fatta di
"intersecazioni" piuttosto che di sistematiche costruite con il
L'ENTROPIA DEL LEVIATANO 72
criterio delle scatole cinesi). L'aporia del discorso di Touraine non
risiede in una presunta, o genericamente intesa, parzialità di
ottica, ma propriamente nel presupposto su cui si regge tutta la
sua proposta di rifondazione della sociologia come conoscenza
delle logiche che regolano la produzione delle «situazioni sociali»:
il postulato "bergsoniano" del carattere creativo dell'agire
collettivo del movimento, vera e propria fonte produttrice dei
«rapporti sociali». La centralità che viene ad assumere la nozione
di "rapporti sociali" neli'impostazione del sociologo francese non
deve, dunque, trarre in inganno: questa centralità che consegue
dal dissolvimento dell'idea di società può darsi solo «a condizione
di contrapporre nella maniera più esplicita il nuovo concetto di
rapporti sociali al vecchio concetto di relazione sociale» (Touraine
1981, 10). La frattura epistemologica che intercorre tra queste
due nozioni è infatti la stessa che il sociologo francese istituisce
tra azione e sistema, mutamento e ordine. In quegli attori collet
tivi per antonomasia che sono i movimenti s'incarna non solo
un'attività trasformatrice, ma più precisamente un'«azione
creatrice». Il loro agire non è dell'ordine della npà£is ma piuttosto
dell'ordine della JTOÌT\GIS.
Touraine non sembra avvedersi delle implicazioni racchiuse in
queste premesse assiomatiche: proprio la sottolineatura
dell'aspetto "autopoietico" dei movimenti sociali chiama in causa
la necessità di una loro analisi in chiave simbolica e sistemica; per
cui, anche una volta ammesso (e non concesso) questo carattere
naturaliter creativo dell'azione collettiva, non vi è ragione alcuna
per escludere un'analisi simbolica del funzionamento delle stesse
strutture codificate della società. Detto in breve, l'analisi
sistemica acquista valore solo quando viene assunta nel suo
caratteristico intreccio con l'analisi simbolica: di conseguenza,
come può darsi la possibilità di analizzare un movimento
collettivo in termini di "sistema", così può darsi per converso la
possibilità di analizzare il sistema sociale in chiave simbolica,
come movimento circolare e flusso «autopoietico»
(Maturana/Varela, 1980). Per il binomio movimentoistituzione,
vale pertanto quanto sostenuto di recente da Luhmann a
proposito della falsa antinomia di ordine e conflitto: «[...] una
controversia impostata in modo errato, che ha tentato di servirsi
della teoria del conflitto o anche della teoria dei giochi per
contrapporle alla teoria dei sistemi, ha fallito in pieno i suoi
intenti. Ciò vale in modo particolare quando i teorici del conflitto
rimproverano ai teorici dei sistemi di dare troppo peso
all'integrazione, o addirittura alla coercizione. Proprio i conflitti
sono sistemi sociali estremamente integrati, dal comportamento
quasi coercitivo. [...] Quando i teorici del conflitto attribuiscono
73 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
3. Strategia e comunicazione
matica della contrattazione che assegnerebbe ai due campi quello
che ciascuno può razionalmente, in modo tale che essi non
abbiano che da prendere atto insieme di questa soluzione logica»
(Schelling 1960, 107 e 134). La compiuta razionalizzazione pre
sente in questa "violenza diplomatizzata", che è però anche una
"diplomazia della violenza", sta nel fatto che gli attori non agi
scono più soltanto mediante ma per il calcolo politico che li orga
nizza: il quale finisce così per determinare non solo lo scopo
(Zweck) ma anche il fine (Ziel) dell'azione strategica.
Il meccanismo simbolico della dissuasione latente in questa
"solidarietà competitiva" potrebbe, già di per sé, spingere ad
avanzare l'ipotesi della rilevanza sistemica del concetto di agire
strategico: del suo potenziale carattere di strumento ermeneutico
in grado di dar conto del funzionamento dei sistemi complessi
contemporanei; delle peculiari interrelazioni che ivi si stabiliscono
tra gli "attori collettivi" (concetto che, in un'accezione rigorosa,
dovrebbe indicare non solo i movimenti ma anche i partiti e le
istituzioni); dell'intreccio inestricabile di aspetti cooperativi e
conflittuali, comunicativi e strumentali, da cui la loro azione è
costituita.
Abbiamo così considerato un tipico caso in cui la rilevanza
sistemica procede di pari passo con la rilevanza simbolica. E
abbiamo visto come questa combinazione sia tale da sottoporre a
tensione le pretese euristiche del paradigma utilitaristico.
Vedremo adesso come questo aspetto si evidenzi ulteriormente in
rapporto a un'altra questione squisitamente metapolitica: quella
dell'identità (e dell'identificazione).
4. L'altro lato dello specchio
Il paradigma neoutilitarista in politica che si autointerpreta
come «teoria economica della democrazia» implica, secondo la
classica definizione di Downs, che «se un osservatore teorico
conosce i fini di un attore, può predire le azioni che verranno
condotte per conseguirli nel modo seguente: 1) calcolando la via
più ragionevole che ha quell'attore per il conseguimento di quei
fini, e 2) assumendo che quella via verrà effettivamente scelta
perché quell'attore è razionale» (Downs 1957, 4). In un importante
saggio, Alessandro Pizzorno ha sottoposto questa teoria a una
critica serrata e rigorosa, che si rivela tanto più efficace, in quanto
si discosta dalle facili ritorsioni ideologiche (come, ad esempio,
quelle che si limitano a riprendere la critica marxiana alle
77 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
5. Società polimorfa, o della sovranità introvabile
partenza: basti solo pensare all'idea di conflitto come cessazione di
uno stato di crisi e incertezza soggettiva, in quanto stabilizzazione
delle aspettative attraverso l'individuazione del "nemico"). Mentre
gli ultimi sviluppi della ricerca di Freund tendono a portare alle
estreme conseguenze la distinzione tra "politico" e "statuale", nel
senso di una politique éclatée, vale a dire di una tendenziale
coincidenza tra conflitto diffuso e generalizzazione di
comportamenti improntati alla logica strategica dell'amico/nemico
(Freund 1983), la traiettoria d'indagine luhmanniana propone un
modello restrittivo della politica proprio nel momento in cui si
evolve teoricamente nel senso della recezione del tema della
instabilità e del conseguente distacco dal paradigma
dell'equilibrio come fondamento della stabilità dell'ordine: l'ordine
appare sempre più come prodotto di un'instabilità permanente.
Vediamo ora più da vicino come si presentano questi due corni
del discorso. È singolare, intanto, notare come un teorico dei
sistemi quale è Luhmann enfatizzi il carattere acentrato di una
società complessa che nel corso del suo processo di seco
larizzazione ha visto dissolversi tutte le tradizionali impalcature
gerarchiche, in modo non dissimile dai contemporanei sociologi
dei movimenti e dell'azione collettiva: la società odierna è «una
società senza vertice e senza centro. La società non è più
rappresentata nella società da un proprio, per così dire
genuinamente sociale, sottosistema. Nella storia dei sistemi
sociali del vecchio mondo era proprio questa la funzione della
nobiltà: essere le maiores partes. L'etica della nobiltà ne teneva
conto, e religione e politica [...] concorrevano al primato
dell'ordinamento sociale. La società era considerata come societas
civilis e come corpus Chris ti. Le condizioni strutturali di questo
rappresentarsi di tutto nel tutto risiedono, tuttavia, in una
differenziazione sistemica stratificata gerarchicamente e sono
scomparse con questa. La società moderna è un sistema senza
portavoce e senza rappresentanza interna. Proprio per questo i
suoi valori di base diventano ideologie. Invano si cerca all'interno
dei sistemi funzionali della società un a priori, e persino invano si
annuncia il tramonto della cultura e la crisi di legittimazione. Si
tratta di un fenomeno strutturalmente condizionato dalle
condizioni della complessità e dalla di volta in volta
funzionalmente specifica capacità di prestazione della moderna
società» (Luhmann 1981, 55). Una parte consistente della teoria
politica ottonovecentesca ha tentato, da versanti filosofici e
politici molto diversi da Hegel a Treitschke, da Leo Strauss a
Hannah Arendt , di opporsi ideologicamente a questa linea di
tendenza e di ripristinare lo Stato e la politica come centri di
controllo, eticamente responsabilizzati, della società. Contro
L'ENTROPIA DEL LEVIATANO 80
l'illusione coltivata dalla "filosofia della polis" e dalla tendenza
alla "riabilitazione della filosofia pratica" di un ritorno al
concetto greco, platonico e aristotelico, di politica, la questione di
fondo di un orientamento teoricopolitico che voglia essere al
passo con le trasformazioni in atto è «se si possa tollerare l'idea di
una società senza centro e proprio in ciò vedere le condizioni per
una politica capace di democrazia» (Luhmann 1981, 56).
L'altro lato del discorso di Luhmann investe l'oggetto, non solo
diagnostico ma anche propositivo, della forma politica adeguata a
risolvere i problemi posti dall'impasse in cui si è venuto a trovare
lo "Stato del benessere". La proposta di una politica intesa in
senso non più espansivo ma restrittivo dipende direttamente
dall'analisi storicosistemica del Welfare State. Lo Stato sociale
producendo un'inclusione della popolazione nel circolo dispositivo
della politica ha prodotto un'alterazione profonda del
meccanismo di differenziazione funzionale: non si può infatti
«centrare sulla politica una società funzionalmente differenziata
senza distruggerla» (Luhmann 1981, 56). Erede dell'ideologia del
connubio salvifico tra Stato e progresso, il Welfare ha identificato
la realizzazione della democrazia con «la fine della limitazione ai
compiti dello Stato». Ne è così derivato un processo di «inclusione
sempre crescente dei bisogni e degli interessi della popolazione
nell'ambito dei possibili temi politici». Ciò ha finito per far
convergere sulla politica tutta una serie di pretese sollecitate
dall'iniziativa dello Stato, ma che in una società complessa e
altamente differenziata non possono essere interamente
soddisfatte in sede politica. Lo "Stato del benessere" non è per
Luhmann in grado di far fronte al sovraccarico del sistema politico
determinato dall'inflazione delle pretese in quanto esso, a
differenza dello Stato di diritto, non è che un assemblaggio di
pratiche "intervenzioniste" che si sommano cumulativamente
senza alcun criterio di formalizzazione costituzionale. Proprio a
causa del suo carattere di Costituzione materiale (non
formalizzabile, del resto, senza produrre pericolose alterazioni del
sistema della differenziazione funzionale: "Stato sociale' non è
forse un ossimoro?) il Welfare State può operare solo attraverso
nix feedback positivo, mai attraverso un feedback negativo. In
altri termini: esso produce complessità senza al tempo stesso
essere in grado di predisporre filtri selettivi atti a "ridurla" o a
controllarla. La soluzione della crisi che così si viene a prospettare
può darsi, si diceva, per Luhmann solo se si rompe
definitivamente con la «concezione politica espansiva» che sta alla
base dell'ideologia «veteroeuropea» dello Statodelbenessere, per
la quale «la politica sarebbe l'ultimo destinatario di tutti i
problemi che restano irrisolti, sarebbe una sorta di vertice
81 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
elidono fra di loro, si sovrappongono e si trovano infine di fronte a
un detentore ultimo di potere che o decide in maniera arbitraria a
costo di schiacciare gli altri o rischia il soffocamento per ingorgo»
(NoraMine 1975, 125). Le difficoltà di usare il paradigma
sistemico di Luhmann per un rilancio delle idee di
Programmazione e di Riforma come ha tentato di fare, per altro
egregiamente, Giorgio Ruffolo (1980) risiedono nella semplice ma
fondamentale circostanza che quell'approccio non comporta
soltanto un "disincantamento" dell'idea di rivoluzione, ma della
stessa idea di riforma come figura sintetica del cambiamento.
Sotto questo profilo, la rigorosa delimitazione luhmanniana
dell'ambito del "politico" non si discosta molto dalle posizioni
sostenute dai teorici dei movimenti sociali: «un sistema sociale
non è mai sovrano. È situato in una società, dunque non in una
unità politica, ma in un sistema di produzione, di forze e rapporti
sociali [...]; lo Stato non appare più come il campo dei principi, dei
discorsi e del bene comune, e diviene soprattutto [...] il luogo di
negoziati tra forze sociali» (Touraine 1974, 102103).
Se una differenza va individuata tra l'odierno approccio
"movimentista" e quello "sistemico" (tra teoria dell'azione e teoria
del sistema) quali appaiono emblematicamente rappresentati
dalle attuali posizioni di Touraine e di Luhmann essa non è,
dunque, da ricercare nel concetto e nello spazio della politica. A
questo riguardo, anzi, i due approcci convergono perfettamente
nella descrizione di un sistema ormai incomprensibile «con le
vecchie teorie della tradizione politica orientate al dominio»: e che,
soprattutto, «non può essere più sufficientemente criticato tramite
esse» (Luhmann 1981, 77). La differenza risiede, piuttosto, in una
diversa «assunzione di valore», che si traduce nell'opposta
accentuazione dell'istituzione e del movimento: della "persistenza"
e del "cambiamento". Ma, in questo caso, l'opposizione finisce per
dar luogo a un gioco di specchi. Se, infatti, il discorso di Touraine
ad onta di tutte le avvertenze a non scollare la dinamica dei
movimenti dai sistemi di rapporti sociali che essi "producono"
tradisce pressoché costantemente una propensione a contrapporre
la "vita" alle "forme", il costituente al costituito, Gurvitch a
Parsons, il discorso di Luhmann appare, dal canto suo,
irriducibilmente restio a qualsivoglia tentativo di trattare i
problemi dell'"ambiente" se non definendoli ex negativo per
rapporto alle questioni che essi pongono al "sistema". La
specularità delle premesse si replica puntualmente anche sul
versante delle conseguenze di queste opposte "propensioni": da un
lato, la prospettiva teorica di Touraine si preclude la possibilità di
analizzare quelle "reiterabilità", quelle "coazioni a ripetere"
proprie dell'intersoggettività condensata, che nella loro qualità
83 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
di strutture simboliche, prima ancora che di istituzioni e ordina
menti coattivi\esteriori operano come componente costitutiva (e
non già come pera figura degenerativa) all'interno degli stessi
"movimenti"; dall'altro, la prospettiva di Luhmann si ostina
assiomaticamente ad escludere la possibilità di un'analisi "siste
mica" dei fattori di mutamento neutralizzati nella nozione di
ambiente, anche nel momento in cui è costretta a riconoscere che
«l'ambiente comincia a diventare fattore centrale del futuro»
(Luhmann 1981, 56).
L'esigenza di un'analisi degli sconvolgimenti intervenuti
nell'ultimo periodo nelle strutture simboliche della complessità
"ambientale" nasce dal fatto che, a partire dagli anni '70, hanno
imboccato una rotta di collisione due diversi ordini critici del
mutamento: la crisi generata dall'incremento cumulativo dei
processi di differenziazione funzionale e quella risultante dal fatto
che le politiche espansive di sviluppo e di modernizzazione sono
venute rapidamente approssimandosi a una soglia critica. Tra
questi due aspetti tende ora a stabilirsi lo stesso legame di
reciprocità che intercorre tra complessità e semplificazione.
Bloccata dal postulato apodittico del carattere meramente
quantitativoincrementale della complessità, la teoria sociologica
dei sistemi non tiene adeguatamente in conto che la complessità
ha sempre un valore relativo e, di conseguenza, esprime sempre
una certa "qualità" della relazione che essa instaura: non soltanto,
dunque, quello che per un verso si presenta come processo di
complessificazione dovrà necessariamente apparire per un altro
come processo di semplificazione (una complessità come valore
assoluto non ha, evidentemente, senso e coincide perfettamente
con la semplicità assoluta); ma entrambi questi aspetti devono
assumere una caratterizzazione qualitativa precisa. È, pertanto,
ipotizzabile che il processo "complessificante" della
differenziazione funzionale trovi oggi il suo risvolto
"semplificante" proprio nel fatto che esso favorisce (attraverso il
generalizzarsi dell'informazione e della comunicazione) il
costituirsi di una soglia di resistenza criticoculturale al modello e
alla prassi dominante dell'industrialismo.
Quest'aspetto comporta delle conseguenze decisive per
T'ambiente" e per le prospettive di un'analisi delle trasformazioni
intervenute nella sua struttura simbolica (che è poi quella che
aveva trovato la propria sistemazione weltanschaulich,
"ideologica", nel concetto di Modernità): analisi che come ho
tentato di argomentare in altra sede (Marramao 1983) dovrebbe
percorrere una duplice traiettoria, affrontando sia il tema dei
social limits to growth (Hirsch 1976), sia quello dell'inversione
intervenuta oggi nel rapporto tra «spazio di esperienza» e
L'ENTROPIA DEL LEVIATANO 84
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CAPITOLO SECONDO
POLITICA E COMPLESSITÀ: LO "STATO
POSTMODERNO" COME CATEGORIA E COME
PROBLEMA TEORICO
blemi di periodizzazione storica: non è un caso che la rinnovata
strategia dell'attenzione verso la cosiddetta "questione isti
tuzionale" sia emersa in concomitanza con una crescita e una
rapida moltiplicazione degli studi sulla storia dello Stato
moderno, la maggior parte dei quali tendono a partire da
approcci culturali, disciplinari e metodologici molto diversi a
delinearne la vicenda, dalla genesi e formazione all'attuale fase di
smantellamento del Welfare, come una parabola unitaria.
1. Crisi di legittimazione e teoria dello Stato: il problema
dell'"ingovernabilità "
formazioni sociali); sul piano dell'analisi storica, le epoche di crisi
o le fasi "critiche" del ciclo vengono studiate come periodi positivi
di produzione di nuovi assetti, e non soltanto come periodi di
declino, di blocco, oppure di dispersione. Per esprimerci in termini
insieme più tecnici e più sintetici: la crisi non è sempre e neces
sariamente la premessa o la causa delle innovazioni, ma ne è
spesso la conseguenza o addirittura l'effetto.
Il secondo interrogativo investe il problema relativo alla stessa
utilizzabilità del concetto di Stato, a fronte del processo di
crescente differenziazione e complessificazione del processo
politicoamministrativo: per alcune interpretazioni si tratta di
trasferire il baricentro del discorso ad un ambito relazionale più
ampio di quello tradizionalmente abbracciato dal termine Stato
(quale, ad esempio, la nozione di "sistema politico"); per altre si
tratta invece di afferrare il fenomeno del venir meno delle
configurazioni classiche, "sintetiche", dell'autorità politica come
indicatore di una tendenza storica, o addirittura epocale, di crisi
dello Stato moderno: la fase attuale rappresenterebbe così una
dinamica dissolutiva in cui il Leviatano compirebbe a ritroso nel
senso della destrutturazione le tappe della sua genesi e
costituzione (e in cui, pertanto, si troverebbero pericolosamente
"liberati" poteri e conflitti corporativi).
La simultanea rimessa in questione delle nozioni di crisi e di
Stato familiari, e in un certo senso consustanziali, alle due
maggiori tradizioni di pensiero politico e sociale dell'ultimo secolo
liberalismo e marxismo viene oggi assunta, dalle punte più
critiche e avvertite della ricerca contemporanea, come il logico
precipitato di una crisi dalle modalità singolari e inedite, che i
paradigmi più blasonati e consolidati provenienti da quelle
tradizioni riescono nel migliore dei casi a descrivere, ma non a
diagnosticare.
In un saggio giustamente famoso, Claus Offe analizzando le
diverse teorie sulla crisi e 1'"ingovernabilità" che affollano lo
scenario della discussione internazionale a partire dal 1974 ha
notato le sorprendenti "affinità strutturali" che ormai intercorrono
tra interpretazioni neoconservatrici e interpretazioni di sinistra
della fase attuale. Dal confronto si evidenzia non solo
la mutata collocazione sociopolitica delle visioni macrosocio
logiche e politologiche della crisi nel loro insieme, ma soprattutto
la tendenza della critica neoconservatrice ad assumere in proprio
quel concetto di "crisi strutturale" che un tempo era appannaggio
esclusivo dei marxisti1. Non si tratterebbe tanto di un caso di
1
Cfr. C. OFFE, «Unregierbarkeit». Zur Renaissance konservativer Krisentheorien, in J.
HABERMAS (a cura di), Stichworte zur «Geìstigen Situation der Zeit», voi. I: Natìon una
Republik, Frankfurt am Main 1979, p. 295 (trad. it. in C. DONOLOF. FICHERA, II
governo debole. Forine e limiti della razionalità politica, Bari 1981, p. 108).
2
Cfr. C. KOCHW.D. NARR, Kris e oder das falsche Prìnzip Hoffnung, in
«Leviathan», 1976, n. 4, pp. 291327.
3
Cfr. The Crisis of Democracy. Report on the Govemability of Democracies to the
Trilateral Commission, New York 1975 (trad. it. Milano 1977, p. 15).
91 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
usurpazione, ma piuttosto della logica conseguenza della tendenza
inerziale e stagnazionistica della cultura marxista, che come
avevano notato già nel 1976 C. Koch e W.D. Narr 2 avrebbe
routinizzato la ricerca (concettuale ed empirica) sulla crisi in una
scolastica amministrazione di apparati categoriali. Questa
introiezione dello statuto concettuale della teoria marxista della
crisi renderebbe, a giudizio di Offe, gli scenari elaborati dai
neoconservatori assai più resistenti alla "critica dell'ideologia; di
quanto non lo fossero, negli anni '20, le "false apocalissi" à la
Spengler. Dietro la facciata esteriore e più banalmente
pubblicistica di una coscienza borghese che sparge ovunque
considerazioni catastrofiche su se stessa (il "tramonto
dell'Occidente" era stato, d'altronde, evocato sia pure come
spauracchio dallo stesso Brzezinski nella nota introduttiva al
famoso rapporto della Commissione trilaterale 3) si fa avanti un
approccio che, lasciate ormai cadere come inutile zavorra le visioni
ottimisticoapologetiche in voga negli anni del boom postbellico,
muove dal riconoscimento del conflitto come dato permanente e
insopprimibile che altera gli equilibri delle società industriali
sviluppate, minacciandone costantemente i principi di
organizzazione e di ordine. Mentre dunque per Offe le teorie
marxiste della crisi continuano parassitariamente ad ammi
nistrare vecchi schemi concettuali che girano ormai a vuoto, a
migliaia di piedi di altitudine dalle reali dinamiche di trasfor
mazione che investono i sistemi industriali contemporanei, il
nuovo approccio emergente nel campo delle teorie "borghesi"
allarga gli orizzonti della ricerca dal terreno delle "contraddizioni
strutturali" e dei "rapporti di lavoro salariato" a quello
dell'intreccio, sempre più intricato, tra ambito socioeconomico e
ambito politicoistituzionale: intreccio che caratterizza, in misura
e forma diverse, tutte le odierne democrazie di massa. Il problema
della Unregierbarkeit, dell'ingovernabilità, si configura dunque in
questo approccio come crisi della forma democratica, e del
complesso delle istituzioni democratiche, in società caratterizzate
da un alto tasso di conflittualità diffusa: «Ciò che i marxisti
mettono erroneamente nel conto dell'economia capitalistica»,
scrive significativamente Samuel Huntington, «è in realtà un
risultato del processo politico democratico» 4. A queste analisi le
posizioni marxiste rispondono in modo per lo più difensivo,
sottolineando la logica degli interessi economici dominanti, da cui
dipenderebbero in ultima analisi paradossi della democrazia: ma
in tal modo esse finiscono per lasciare in ombra proprio quegli
aspetti più propriamente politici e istituzionali della crisi che
appaiono refrattari ad una "deviazione logica" dai meccanismi
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 92
economici della crisi, e la cui mancata comprensione appare come
una delle principali ragioni dello stallo teorico del marxismo
contemporaneo.
La propensione difensiva tradisce dunque una pericolosa ten
denza alla subalternità e all'arroccamento della teoria marxista
davanti a problemi che investono non solo singoli aspetti empirici,
ma la stessa forma teorica mutuata dalla tradizione (e,
segnatamente, il connubio che in essa veniva a instaurarsi tra
tematica della crisi e tematica dello Stato). Di qui una prima
avvertenza, di natura metodologica, proveniente dal saggio di
Offe: la critica non si rafforza se si esorcizzano le "ragioni" rac
chiuse nella posizione del contendente (anche, anzi soprattutto,
quando questo contendente si configura come avversario), ma solo
se si viene a capo del nuovo livello problematico da essa investito.
Stando a queste premesse, il teorema della governabilità viene
ad assumere, nell'analisi di Offe, una vera e propria configura
zione paradigmatica, riconducibile al comune denominatore
4
S.P. HUNTINGTON, The United States, in The Crisis of Democracy cit., p. 75.
93 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
della crisi da "sovraccarico". La tesi fondamentale enunciata dal
paradigma imputa l'organica impotenza dello Stato nelle demo
crazie occidentali a un'incapacità di fronteggiare la pressione delle
aspettative eccedenti (termini come "eccesso", "eccedenza", ecc.,
indicano il gap che, in condizioni di concorrenza partitica, si
produce tra volume delle esigenze e rigidità dell'offerta).
All'interno del paradigma si situa un ampio ventaglio di terapie,
ordinabile tuttavia secondo due varianti strategiche principali: a)
strategia di riduzione della domanda, tendente a diminuire il
sovraccarico del sistema politicoamministrativo; b ) strategie di
potenziamento delle capacità di prestazionecontrollo del sistema
politicoamministrativo. Queste varianti principali (corrispondenti
ai due lati diagnostici del paradigma: a seconda che si guardi
dalla prospettiva della domanda, o consenso, oppure da quella
dell'offerta, o decisione) comprendono a loro volta delle sottova
rianti terapeutiche formalizzabili (con una schematizzazione
ulteriore rispetto all'analisi di Offe) nel modo seguente:
5
C. OFFE, «Unregierbarkeìt», trad. it. cit., p. 122.
95 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
In secondo luogo, abbiamo invece un'incongruenza di livello più
profondo: inerente cioè al modo in cui il paradigma del
l'ingovernabilità è costruito. A giudizio di Offe, infatti, ad esso
manca sempre per restare nell'ambito della metafora medica il
momento dell'eziologia: la spiegazione delle cause da cui si origina
il fenomeno dell'ingovernabilità. Per questa stessa ragione il
paradigma non è in grado di produrre una vera e propria teoria:
«Nell'immagine conservatrice del mondo, la "crisi di ingo
vernabilità" è un incidente imprevisto, di fronte al quale devono
essere abbandonate le vie troppo complesse della modernizzazione
politica e occorre far riacquistare valore a principi d'ordine non
politico come la famiglia, la proprietà, la prestazione, la scienza» 6.
L'apparente persuasività delle strategie di decentramento e di
"destatalizzazione" e in particolare del loro sostegno dottrinale:
le teorie di Friedman sul ripristino dei meccanismi di mercato e
sulla soluzione della crisi politica "per alleggerimento", attraverso
la deviazione spoliticizzante delle domande dallo Stato al mercato
è dunque dovuta al fatto, rilevato con perspicacia da C.B.
Macpherson7, che essa cela abilmente, sotto un livello descrittivo
particolarmente agguerrito e probante, l'incongruenza di secondo
grado di cui si diceva: quella che Offe definisce come incapacità di
trascorrere dal piano descrittivo al piano diagnostico vero e
proprio. La carenza di spiegazione eziologica è dovuta alla
circostanza che al Weltbild, all'immagine del mondo, del
neoconservatorismo riesce inafferrabile «il decisivo "difetto di
costruzione" dei sistemi sociali che soffrono dei sintomi di
ingovernabilità»8. L'individuazione di questo "difetto" è vista da
Offe come la conditio sine qua non, oltre che «per prognosticare
l'insuccesso delle strategie di risanamento che si dispiegano sotto i
nostri occhi», per «replicare teoricamente (e non solo politica
mente) ai teorici dell'ingovernabilità e alle loro concezioni prag
matiche» 9. L'errore di costruzione, che rimane occultato al para
digma dell'ingovernabilità, è definito da Offe in termini che, in
6
Ivi, p. 123.
Cfr. C.B. MACPHERSON, The Life and Times of Liberal Democracy, Oxford 1977
7
(trad. it. Milano 1980).
8
C. OFFE, «Unregierbarkeit», trad. it. cit., p. 124.
9
Ibidem.
96 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
un certo senso, richiamano la già ricordata critica di Macpherson
(ma anche di altri, come ad esempio J. Goldthorpe) a Friedman:
la dottrina di quest ultimo riposa sull'ignoranza delle differenze
che distinguono il mercato del lavoro da tutti gli altri mercati.
Rispetto a queste critiche Offe opera addirittura un aggancio tra
struttura dicotomica (che egli enuncia, al pari di Habermas, in
termini di "contraddizione") del mercato del lavoro e eziologia
dell'ingovernabilità: le cause da cui si origina la patologia
dell'ingovernabilità vanno, in definitiva, ricercate nel carattere
particolare della merce forzalavoro e, conseguentemente, nella
struttura contraddittoria che attraverserebbe l'intero mercato del
lavoro e i tentativi di ristrutturarlo e governarlo.
In base a questo assunto, l'ingovernabilità viene intesa come
"caso" che s'inserisce coerentemente nel quadro di una «patologia
generale dei sistemi sociali», la quale tuttavia riceve una
declinazione affatto peculiare nelle società industriali capitali
stiche. Ogni sistema, per riprodursi, deve trovare una forma
strutturalmente e storicamente determinata di compatibilità tra
l'aspetto "oggettivo" delle strutture e dei nessi funzionali e quello
"soggettivo" dell'agire normativo e dotato di senso dei suoi mem
bri: tra regolarità che s'impongono indipendentemente o al di
sopra dei soggetti e regolenorme, di azione o di comportamento,
effettivamente seguite dagli individui. Questo dualismo si esprime
nella distinzione tra "integrazione sistemica" e "integrazione
sociale". La compatibilità tra le due forme di integrazione può
essere realizzata secondo due modalità che Offe stesso definisce,
weberianamente, "idealtipiche": o attraverso fasce protettive che
rendano le strutture e le leggi funzionali completamente
impermeabili alle perturbazioni provenienti dal contesto
ambientale dell'agire; oppure attraverso la possibilità che i
sistemi determinino le loro stesse condizioni strutturali di fun
zionamento mediante l'agire normativo dotato di senso. In
entrambi questi casi, e in modi antitetici, gli effetti della discre
panza tra i due tipi di integrazione sono ovviati, e la "governa
bilità" assicurata. "Ingovernabili" diventano invece i sistemi
sociali nei casi designati da un'altra alternativa "idealtipica":
quando attraverso le regole seguite dagli attori si violano le leggi
di funzionamento del sistema; oppure, quando l'agire dei soggetti
avviene in forme che impediscono o addirittura bloccano il
funzionamento delle leggi e dei vincoli strutturali.
Definito così il contesto generale della governabilità come
problema strutturale di tutte le forme sociali, la peculiarità della
società industriali capitalistiche viene individuata in una mec
canica paradossale: esse perseguono infatti contemporaneamente
97 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Le società capitalistiche si distinguono da tutte le altre non per il problema
della loro riproduzione: di rendere compatibile l'integrazione sociale e
l'integrazione sistemica, ma per il fatto che esse elaborano questo problema
fondamentale di tutte le società in modo da prendere contemporaneamente
due strade mutuamente esclusive: la differenziazione o privatizzazione della
produzione e nello stesso tempo la sua socializzazione e politicizzazione 10.
Per un verso, infatti, il tratto caratterizzante della formazione
sociale capitalistica è dato da quella «neutralizzazione politico
normativa della sfera della produzione» che trova il suo spazio di
rappresentazione nella formamercato: con questo sganciamento
della produzione materiale dai meccanismi politici
tradizionalmente vincolanti, gli "interessi", per usare una celebre
formula di Hirschman, subentrano alle "passioni". Per l'altro
verso, però, il fenomeno di secolarizzazione che questa
neutralizzazionespoliticizzazione dell'ambito economicopro
duttivo induce (relativizzazione, prima, erosione, poi, dei vincoli
normativi tradizionali costitutivi della genesi del capitalismo)
chiama in causa la necessità di nervature istituzionali capaci di
garantire non solo le condizioni generali di funzionamento del
mercato, ma anche poiché il meccanismo può funzionare solo
grazie e attraverso l'agire di coloro che vi sono inseriti: di quella
che Marx chiamava la «forzalavoro viva» il carattere di
"disciplinamento" della sfera produttiva. Negli sviluppi storici
della formazione sociale industrialecapitalistica la logica della
razionalizzazione e del disciplinamento funge da complemento e
insieme da contraltare alla logica della hidden hand. La
reintroduzione di elementi di istituzionalizzazione rappresenta
per la dinamica capitalistica una necessità vitale. Ma, al tempo
10
Ivi, p. 127.
stesso, anche il rischio di una violazione del codice genetico
originario e di una conseguente perdita di identità. La radice del
paradosso sta per Offe in quel particolare carattere della merce
forzalavoro (e in quel particolare connotato che contraddistingue
il mercato del lavoro da tutti gli altri mercati), per cui in essa
integrazione sistemica e integrazione sociale ("funzionare" e
"agire") si trovano inestricabilmente intrecciate: e ciò per la
semplice ma fondamentale ragione che l'inerenza alla forzalavoro
del momento della soggettività rappresenta un fattore ineludibile
98 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
11
Ibidem.
12
Ibidem.
99 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
dei loro membri con le condizioni di funzionamento sistemico a cui
essi sono soggetti» 13. Una volta venute meno le circostanze
favorevoli che avevano dato luogo al "periodo di prosperità", gli
effetti dell'ingovernabilità hanno cominciato a manifestarsi in
tutto il loro peso strutturale. Ma l'eziologia del fenomeno è
individuabile proprio in quella tendenza al neutralizzarsi reci
proco delle due logiche che rimanda a sua volta all'errore di
costruzione della formazione capitalistica: la coazione a ripetere la
simultaneità dei due modi idealtipici di integrazione.
Con questo schema che riprende nei punti sostanziali, ma
sviluppa e innova in aspetti non secondari, precedenti lavori suoi
e di Habermas sulle condizioni di legittimazione, di riproduzione e
di crisi dello Stato nel "tardo capitalismo" (Spàtkapitalismus)
Offe ripropone la necessità di una teoria della crisi dotata di uno
statuto teorico in senso forte, ma al tempo stesso capace di
colmare la discrepanza che i paradigmi liberali e marxisti della
crisi opposti negli intenti, ma singolarmente simmetrici nei
costrutti hanno accusato negli ultimi decenni rispetto alla
problematica istituzionale e di teoria politica in genere.
L'aggancio "eziologico" operato da Offe tra l'incapacità dei sistemi
capitalistici di realizzare il cosiddetto "obiettivo eufunzionale"
ossia il coordinamento tra le due strategie logicamente
escludentisi e lo schema "contraddittorio" inerente alla merce
forzalavoro ci indurrebbe a collocare anche questa sua ultima
proposta nel grande solco delle teorie marxiste della crisi, se non
altro per la persistenza della metodologia "essenzialistica", che
ricava la diagnosi dell'esito "critico" risalendo la catena delle
determinazioni causali. Tuttavia questa spiegazione viene ad
assumere una codificazione complessa, difficilmente riconducibile
al modello della deduzione monolineare. In sostanza, la posizione
di Offe si tiene in equilibrio tra due esigenze in sé eterogenee: per
un verso, non intende rinunciare all'idea di crisi come problema
teorico (nel senso classico, marxiano, della spiegazione causale a
partire da un nucleo dicotomico originario); per l'altro, questa
stessa "spiegazione" deve oggi tener conto di un numero di
variabili enormemente maggiore di quello ipotizzabile al tempo di
Marx, e dunque integrare nel proprio orizzonte categorie e
strumenti provenienti da altri codici o paradigmi: in specie
secondo la scelta di Offe, ma anche dell'ultimo Habermas 14 quelli
offerti dalle teoriche funzionaliste e sistemiche. In un passaggio
centrale del saggio sulla ingovernabilità Offe enuncia in termini
molto netti una direttrice di revisione della "teoria della crisi" che,
in condizioni evidentemente molto diverse, era stata tracciata in
campo marxista dalla celebre riflessione critica di Gramsci del
'26:
oggi sappiamo che le crisi economiche non favoriscono soltanto (sebbene
certo anche) motivi di una opposizione di principio, ma anche la disponibilità
all'adattamento e all'integrazione. Altrettanto problematico è sapere se una sia
3
Ibidem.
100 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
pur grave radicalizzazione delle richieste, l'aumento delle domande, una sia
pur drastica demotivazione possano davvero bloccare seriamente il
funzionamento del meccanismo di accumulazione15.
Non riescono a fornire una risposta esauriente a questo pro
blema né il modello concettuale delle teorie oggettivistiche (del
tipo: «difficoltà di valorizzazione che si acutizzano sempre di più»),
né quello delle teorie soggettivistiche della crisi (del tipo:
«coscienza critica del sistema che si diffonde sempre di più»). Né,
ancora, quello che potrebbe risultare da una loro interazione o
"sintesi": poiché essi danno ragione di questo o quell'aspetto, di
questa o quella congiuntura storica, ma non della «struttura del
sistema capitalistico nel suo insieme» 16. Per il modo monocausale
in cui sono costruiti, i paradigmi soggiacenti alle teorie