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DOPO IL LEVIATANO
G.fflRRAIIAO «DOPO IL
LEVIATANO1 GIAPPICHELLI
ED. (10)
eeaer3A
GIACOMO MARRAMAO
DOPO IL LEVIATANO
INDIVIDUO E COMUNITÀ
NELLA FILOSOFIA POLITICA
GIAPPICHELLI EDITORE TORINO
© Copyright 1995 G. GIAPPICHELLI EDITORE TORINO VIA PO,
21 TEL.: 011/81.27.623 FAX: 81.25.100
ISBN 8834841921
Composizione-. La Fotocomposizione Torino
Stampa-. Stampatre s.a.s. Torino
NESSUNA PARTE DI QUESTO VOLUME PUÒ ESSERE RIPRODOTTA IN QUALSIASI
FORMA A STAMPA, FOTOCOPIA, MICROFILM O ALTRI SISTEMI, SENZA IL PERMESSO
SCRITTO DELL'EDITORE.
Nel ricordo di Anna
Maria Battista
I
... the Multitude so united in one Versori, ìs called a
COMMONWEALTH, in latine CIVITAS. This is the
Generation of that great LEVIATHAN, or rather (to
speake more reverently) of that Mortali God, to wich wee
owe, under the Immortali God, our peace and defence.
Thomas Hobbes
Friedrich Nietzsche
\
I
X AVVERTENZA
AVVERTENZA
Questo libro raccoglie, in forma rielaborata e secondo un arti
colazione tematica, alcuni saggi e interventi precedentemente
apparsi in varie sedi italiane e straniere. Per quanto talora legati
a occasioni e momenti diversi, essi gravitano tutti attorno a un
unico nucleo: la metamorfosi dei "modelli di ordine" in età
moderna e contemporanea.
I testi erano apparsi, in precedente versione, nelle seguenti
sedi:
Parte introduttiva: Sezione B, in Filosofìa e democrazia, a cura
di D. Fiorot, Torino 1992, e in "Revista Internacional de Filosofia
Politica", a. I, n. 1, abril 1993;
Parte prima: cap. I, in "Laboratorio politico", 1993, n. 1, e, in
trad. castigliana, in X. PalaciosF. Jarauta (Eds.), Razón, Ètica y
Politica, Barcelona 1988, e in Pensar la Politica, a cura di M.
Rivero, Mexico 1990; cap. II, in Storia del marxismo, voi. IV,
Torino 1982; cap. Ili, ivi, voi. III/l, Torino 1980;
Parte seconda: cap. I, come saggio introduttivo all'ed. italiana di
F. Borkenau, La transizione dall'immagine feudale all'immagine
borghese del mondo, Bologna 1984; cap. II, in Lessico della
politica, a cura di G. Zaccaria, Roma 1987, e, in trad. castigliana,
in Illustración y Revolución ("Anales de la Catedra Francisco
Suarez", n. 29/1989); cap. Ili, in Effetto Foucault, a cura di P.A.
Rovatti, Milano 1986; cap. IV, come introduzione all'ed. italiana di
V. Volkoff, II re, Napoli 1989; cap. V, in E. FanoS. RodotàG.
Marramao (a cura di), Trasformazioni e crisi del Welfare State,
Bari 1983; cap. VI, come introduzione all'ed. italiana di N.
Luhmann, Come è possibile l'ordine sociale, RomaBari 1985;
Parte terza: cap. I, in G. Vattimo (a cura di), Filosofia '87,
RomaBari 1988 (e successivamente, con alcune modifiche, in
trad. inglese, francese, castigliana e catalana); cap. II, in "Reli
gioni e società", a. II (1987), n. 3; cap. Ili, in "Iride", a. I (1988),
n. 1; cap. IV, in Velocità. Tempo sociale e tempo umano, a cura di
M. ManzoniS. Scalpelli, Milano 1988, e poi, con progressive
integrazioni e modifiche, in "Paradigmi", a. VII (1990), n. 22, e in
Figure dell'individualità nella Francia tra Otto e Novecento, a
cura di M. DonzelliM.P. Fimiani, Genova 1993. La Sezione A
della Parte introduttiva è inedita.
Il volume documenta così una traccia di riflessione e di ricerca
su questioni di etica, filosofia politica e "storia concettuale", da me
portata avanti nell'arco di un quindicennio. E, in questo senso,
rappresenta anche un approfondimento e uno sviluppo di due miei
precedenti libri, ormai lontani nel tempo: II politico e le
trasformazioni, Bari 1979, e Potere e secolarizzazione, Roma 1983,
19852 (ed. tedesca riveduta e bibliograficamente aggiornata:
Macht und Sàkularisierung, Frankfurt am Main 1989).
Proprio al fine di mantenere questo carattere di "documento" e
di attestazione di un work in progress, ho resistito alla tentazione
di modificare o integrare i testi, limitandomi a una semplice
rielaborazione formale. Per dirla con il grande Montaigne:
J'adjouste, mais je ne corrige pas.
G.M.
ottobre 1994
X AVVERTENZA
PARTE INTRODUTTIVA DIMENSIONI
DELL'OLTRESTATO
SOMMARIO: Sezione A. Il Sovrano assente: la dottrina dello Stato come
"triste scienza". Sezione B. La democrazia, la comunità e i paradossi dell
universalismo.
SEZIONE A
IL SOVRANO ASSENTE: LA DOTTRINA DELLO STATO
COME "TRISTE SCIENZA"
SOMMARIO: 1. Melancholia politica I. 2. Melancholia politica IL 3. "Morte di
Dio" e 'nuovo politeismo".
1. Melancholia politica I
Ma non basta. Quando, nel secolo della rivoluzione scientifica,
questa "astrazione" si sincronizzerà ai tempi e agli stili di
un'indagine naturale che ha rotto definitivamente i ponti con
l'universalismo e il giusnaturalismo teocratico, risolvendo Dio in
mera "ipotesi di lavoro", verrà alla luce un'ulteriore, decisiva
implicazione che quelle condizioni restrittive racchiudevano: la
politica può darsi soltanto come funzione negativa, frontiera
invalicabile tra la "razionalità" e la "vita". Nella costruzione
hobbesiana, l'agire politico una volta trovato il suo punto di
massimo coagulo simbolico nel Covenant viene a coincidere con
un dispositivo tecnico teso a neutralizzare lo "stato di natura". Da
quel momento, tutti gli attributi dellapolitiké téchne vengono
legittimamente trasferiti al Leviatano, che diviene così l'esclusiva
fons et origo di ogni auctoritas e, attraverso di essa, di ogni lex:
«auctoritas, non veritas, facit legem».
Questa stilizzazione in chiave negativa, «tecniconeutrale», del
Leviatano situata sul delicato crinale della soglia tra giu
snaturalismo e positivismo giuridico, e pertanto destinata a
miglior sorte presso la tradizione "territoriale" del continente
europeo che non presso l'immaginario "oceanico" dell'insula
britannica sembrava rispondere, ad onta di ogni astrattezza
razionalistica, a un'esigenza fin troppo reale e concreta: il sistema
moderno degli Stati nato dalla pace di Westfalia (1648:
esattamente tre anni prima della pubblicazione della classica
opera hobbesiana) dovette definirsi in antitesi alle potestates
indirectae (dalla Chiesa alle "potenze" socioeconomiche, dagli
interessi alle corporazioni di "ceto") che, nella struttura in equi
librio dello Stàndestaat, si "rappresentavano" al Principe, costi
tuendo rispetto a quest'ultimo una polarità insopprimibile. Ed è
appunto il ritorno delle potestates indirectae dia ingenerare, nella
società contemporanea, l'entropia di quell'Artificial Man di cui lo
stesso Hobbes aveva a chiare lettere denunciato il carattere
pereunte: ad onta di ogni facies di onnipotenza, il nuovo
Leviathan è, in quanto umano prodotto, un «Dio mortale» e, in
quanto simbolo malefico, destinato a divenire oggetto di odio non
meno che di culto. Gioiello dello jus publicum europaeum, zenit
del «razionalismo occidentale», esso è una struttura solo in
apparenza minacciosa e possente: in realtà è un congegno delicato
e precario, un'utopia macchinale destinata ben presto ad
incrinarsi e ad infrangersi sotto la pressione di corpi "alieni"
rannicchiati nei suoi interstizi e protetti dai suoi dispositivi. Le
ripercussioni delle spinte egualitarie indotte dalla temperie illu
ministica e dalla rivoluzione francese hanno dapprima svuotato il
17 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
In una importante discussione con Ernst Jùnger sulF«antitesi
planetaria OrienteOccidente», Schmitt porta a compimento
un'orbita di riflessione avviata con i lavori hobbesiani degli anni
'30 (e la cui conclusione parrebbe già adombrata sia in Der Nomos
der Erde, sia nell'articolo redatto per il tricentenario del
Leviathan): l'enfasi sulla svolta in senso marittimo impressa
dall'Inghilterra al corso della storia mondiale acquista qui
connotati squisitamente descrittivi, del tutto scevri di
connotazioni assiologiche positive. È in questa temperie "oceanica"
e "nomade" che s'inseriscono movimenti e correnti nei cui
confronti il giurista di Plettenberg non nutre simpatia alcuna:
dalla rivoluzione industriale, all'economia politica classica (intesa
come «una sovrastruttura sociologica e concettuale di questo
primo stadio di una tecnica basata su un'esistenza marittima»), al
marxismo (inteso come «una continuazione di questa economia
politica classica»). Ma nell'odierna globale Zeit
10 scenario si presenta radicalmente mutato: l'attuale «duali
smo mondiale» non costituisce più una tensione bipolare, ma
una vera e propria antitesi «storicodialettica» tra terra e mare.
Di qui la «nuova domanda» circa il significato simbolico
dell'odierno «appello della storia». E l'inequivocabile risposta:
questo appello non è certamente più «identico a quello
dell'epoca in cui gli oceani si spalancarono». Vano sarebbe il
tentativo di dare all'«appello odierno» la vecchia risposta con
le sue prosecuzioni ulteriori: «le disperate, ulteriori spinte verso
11 cosmo di una tecnica inarrestabile, che hanno soltanto il
signi
ficato di fare dell'astro da noi abitato, la Terra, una nave spa
ziale». Il pericolo, in altri termini, è che gli uomini evitino la
nuova domanda, e il «nuovo rischio» che essa comporta,
restando prigionieri della Storia: «ritenendo di essere storici e
attenendosi a ciò che è stato vero in passato, gli uomini dimen
ticano che una verità storica è vera una volta sola».
Tutto bene. Salvo il fatto che la risposta prospettata da Sch
mitt nel corso della sua riflessione appare non già "inattuale" nel
senso nietzscheano dell'anticipazione di una verità che il "secolo"
non è ancora in grado di afferrarecomprendere quanto piuttosto
ancora più "vecchia" e superata dell'attualità stessa. Di qui il
sapore nostalgico del suo richiamo al fondamento «terraneo» di
ogni nomothesia, e il retrogusto minaccioso del suo rimando al
triplice legame con cui la terra tiene avvinto a sé il diritto:
celandolo dentro di sé, nella forma di ricompensa del lavoro;
mostrandolo in sé, in quanto confine e «recinzione»; recandolo su
20 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
2. Melancholia politica II
moltiplicazione di queste insorgenze è tale da destabilizzare ogni
centro e ogni Nomos: ogni «situazione di predominio stabile». Le
voci di questa diagnosi sono ampiamente note a chiunque abbia
una qualche dimestichezza con la discussione attuale sulla "crisi
della politica": divisioni trasversali della società, sovrapporsi
all'universalismo della cittadinanza dell'appartenenza a gruppi
diversi, crescente mobilità sociale, proliferare di "politiche della
differenza". Anche sotto questo profilo, la convergenza con
l'attuale riflessione politica europea di ascendenza "schmittiana"
appare sorprendente: mentre da un lato la politica in senso stretto
(ossia: la logica del sistema e del ceto politico) tende a divenire
sempre più "autoreferenziale" e svincolata dalla dinamica sociale,
dall'altro «associazione e dissociazione stanno subendo una
trasformazione tale che il politico risulta sempre più disperso, e
ad una più ampia partecipazione, nonché ad una crescente
estensione dello spazio di iniziativa politica, corrisponde un
indebolimento di tutte le istanze politiche, almeno per quanto
riguarda quelle protette».
La conclusione che l'apologetica "continentale" del politico evita
di trarre da questa interpretazione è che da essa dovrebbe
risultare necessariamente incrinato non solo il "modello giuridico
della sovranità", imperniato sull'equazione lineare (di matrice
hobbesiana e di derivazione giuspubblicistica) tra diritto e Stato,
ma la stessa definizione schmittiana del «criterio del politico»
come «grado di intensità di un'associazione o di una dissociazione
di uomini»: se è vero, infatti, che le «potestates indirectae
diventano sempre più forti», che la trama delle loro connessioni si
è infittita al punto che è impossibile venirne a capo con una
decisione "gordiana", ne consegue che il politico non è solo il luogo
in cui vengono prese decisioni, ma anche la dimensione simbolica
in cui si verificano i "giochi di reciprocità" e gli effetti secondari e
preterintenzionali dell'agire. Non a caso, le scienze sociali nel
tentativo di venire a capo dei nuovi problemi si sono viste
costrette ad approntare quella categoria del potereinfluenza che
si presenta oggi come nuova sfida non solo alla progettazione
moderna dello Statoapparato, ma allo stesso modello classico
dellapolitiké téchne: «Non è difficile vedere», scriveva anni fa
David Easton in una ricognizione sistemica della politica costretta
(per sottrarsi alle secche del comportamentismo e del fattualismo)
a ripartire proprio da Aristotele, «che la ricerca politica difetta
nelle sue conoscenze sostanziali e nella formulazione delle
intuizioni che pur essa possiede. A che cosa è dovuta questa
mancanza di progresso? Si è tentati di rispondere, forse con
qualche esagerazione: lo scienziato politico americano è nato
22 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
nuovo nome per democrazia, ne consegue a fortiori una frattura
epistemologica con la tipologia classica delle forme di governo: e
ciò non solo per la portata assiologia negativa che è bene non
dimenticarlo il termine "democrazia" aveva in Aristotele, ma a
causa piuttosto della rilevanza sostanziale che vi veniva ad
assumere una differenziazione tra "forme" simmetricamente
coordinata allo scarto qualitativo indotto dalla diversa latitudine
(o portata quantitativa) dei "soggetti" del potere ("uno", pochi",
"molti"). Il sistema politico democratico non si identifica per Dahl
sic et simpliciter con l'ampiezza della sua base di consenso: di cui,
come l'esperienza storica ci insegna, non difettano certo alcuni
regimi "totalitari". E neppure con il mero sviluppo di
un'opposizione: che può essere tanto radicale quanto scarsamente
incidente sulla forma di governo. Ma piuttosto con la capacità dei
governi di «soddisfare, in misura continuativa, le preferenze dei
cittadini, in un quadro di eguaglianza politica»: ossia, di
«"rispondere" completamente, o quasi, alle esigenze dei cittadini».
Le curiosità lessicali della definizione su cui è bene riflettere
sono sostanzialmente tre. In primo luogo, la "misura con
tinuativa": essa segnala quell'aspetto temporale della durata che,
per quanto ben nota e tradizionalmente presente alla riflessione
sul "governo misto" a cavallo tra antico e moderno (si pensi alla
rilettura machiavelliana del VI libro di Polibio), acquista qui una
declinazione del tutto nuova. In secondo luogo, l'accento sulle
"preferenze": indicatore di un'assunzione della terminologia
economica nell'ambito della scienza sociale e politica che, almeno
a partire da Weber (non solo, dunque, da Schumpeter
0 da Downs), non dovrebbe sorprendere più di tanto neanche
1più inguaribilmente nostalgici fra i teorici della politica "vete
roeuropei". In terzo luogo, il "quasi": esso segnala il carattere ten
denziale mai "perfetto", mai compiutamente realizzato della
forma democratica, contrassegnata da una tensione costante tra
ideale e realtà. Una sorta di «paragone ellittico», si sarebbe portati
a dire adottando una celebre espressione crociana (adozione, del
resto, tutt'altro che illegittima: in quanto Croce è un autore più
volte citato da Dahl, anche se non esattamente a questo pro
posito).
La tematica dello scarto e dell'approssimazione tendenziale tra
democrazia ideale e democrazia reale aveva tuttavia già trovato
una formulazione rigorosa in un importante saggio teorico che
Dahl stranamente non menziona: Vom Wesen und Wert der
Demokratie (1920; 19292) di Hans Kelsen. Nel giurista praghese, e
in altri cittadini di Cacania (di cui si tratterà ampiamente nel
25 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
che «tutti i regimi competitivi che sono riusciti a tenere in vita le
poliarchie nel corso del XX secolo hanno sviluppato esecutivi forti,
con un'accentuata capacità di agire». Constatazione di fatto cui fa
riscontro un'altrettanto inoppugnabile rilevazione teorica su
questo locus classicus dei sistemi rappresentativi: «Operando con
una teoria della democrazia rappresentativa che metta in luce
soprattutto la legittimità esclusiva dell'assemblea elettiva come il
rappresentante supremo della volontà popolare, i costituzionalisti
del XIX secolo incontrarono molte difficoltà al momento di fornire
all'esecutivo un'autorità indipendente». Per questa ragione, la
maggior parte delle poliarchie si è distaccata dal modello del
governo assembleare, che forma, assieme al «sistema
parlamentare bipartitico», uno dei «due modelli ideali della
democrazia rappresentativa». Dahl propende a favore della tesi
per cui sistemi pluripartitici fortemente frammentati (il
pluralismo estremo o polarizzato di Sartori) danno
ineluttabilmente luogo a coalizioni deboli e instabili: «Come il
modello assembleare è stato respinto praticamente da tutte le
poliarchie nel XX secolo, così il modello bipartitico classico non
può essere adottato con successo da paesi caratterizzati da
fratture subculturali, vale a dire dalla maggioranza di essi».
Di là delle soluzioni istituzionali che restano aperte e pro
blematiche ciò che importa qui sottolineare è il requisito di base
che contraddistingue in linea di principio la poliarchia dal modello
"egemonico": si dà propriamente "poliarchia" solo in presenza di
un sistema politico compatibile non solo con una dimensione
polimorfa di etnie, culture, religioni, ecc., ma anche con «un alto
grado di variabilità nelle credenze sull'autorità». Di conseguenza,
il modello poliarchico è in grado di contemplare sia il conflitto
aperto, sia la cooperazione o il compromesso. O meglio: di
assumere «il conflitto politico come elemento di cooperazione più
articolato». E tuttavia precisa Dahl quasi giocando d'anticipo
sulla prevedibile accusa di ottimismo non vi è alcuna garanzia né
ineluttabilità naturale che assicuri il passaggio dal modello
egemonico a quello poliarchico: «Non v'è dubbio che gli eventi di
questo secolo abbiano confermato la tesi che la democrazia non è
destinata a trionfare irresistibilmente su tutti gli ostacoli posti
lungo il suo cammino». La sola indicazione che la realtà ci fornisce
è che «la varietà delle circostanze in cui una poliarchia può
emergere è proprio una delle caratteristiche più chiare della scena
mondiale».
Lasciamo ora da parte i complessi risvolti politicoistituzionali
che una tale ibridazione di piano modellistico e piano pragmatico
solleva, per rivolgerci alla temperie culturale di cui la teoria della
27 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
poliarchia partecipa: una temperie alla quale come vedremo tra
poco sono tutt'altro che estranee le tematiche filosoficoteologiche
di quest'ultimo scorcio di secolo. Lo scenario delineato da Dahl
imperniato com'è sul distacco da tutti i modelli "monisti" e
rigidamente "nomocratici" di government viene a convergere con
altre diagnosi della civiltà contemporanea nel «minimo comune
denominatore della sensibilità moderna», costituito dalla
rappresentazione dell'Occidente come «sfera culturale esplosa» (D.
Miller). L'adozione del termine polyarchy trova, infatti, un
puntuale riscontro in altre analoghe tendenze del pensiero
"postmetafisico": nel senso e nell'essere «polimorfici» di cui
parlano, in ambito psicologico, Charles Baudouin e Norman O.
Brown; nella conoscenza e nella comunicazione «plurisignifìcante»
di Philip Wheelwright; nella «polisemia» del discorso immaginale
che definirebbe, per Ray Hart, la dimensione profonda delle nostre
espressioni culturali; nella irriducibile «plurietnia» che, secondo
Michael Novak, segmenterebbe la comunità; e, infine, nel
«multiverso» eticopolitico dei pragmatisti: per i quali la realtà
non esiste come «universo unitario», e somiglia piuttosto a una
repubblica federale che a una monarchia.
3. "Morte di Dio" e 'nuovo politeismo"
una "crisi", che richiede, nel senso più rigoroso e pregnante del
termine, una decisione. Ma ecco il passaggio saliente tale
decisione, benché venga fatta coincidere con l'assunzione piena del
nichilismo, non è una decisione "qualsiasi", "occasionale", un
romantico ludus globi fungibile a qualsivoglia contenuto. È,
piuttosto, una decisione eticamente condizionata. È la
conseguenza letteralmente radicale della percezione dell' «
acquiescenza volgarizzata dell'espressione morale moderna»:
maschera universalmente disponibile per «qualsiasi volto». In
quanto "sovvertitore" che diametralmente rovescia la forma
dell'enunciazione morale dell'Occidente, Nietzsche non è un
filosofo morale fra gli altri, ma, per dirla ancora con Maclntyre, «il
filosofo morale della nostra epoca». Ma la "decisione" non è solo
rovesciamento e sovvertimento. È anche distacco. E distacco
duplice. Distacco dall'uniformità razionalistica della connessione
dicolpa, fondamento del bisogno (pratico) di rassicurazione che
permea di sè lo stesso ideale (teoretico) di conoscenza: l'idea
scientificonaturale di "causa" non è per Nietzsche che una
proiezione ed estensione metaforica del suo originario significato
giuridicopenale. E distacco dall'uniformità etica di una Norma
impersonale e onniomologante: da una monocrazia, dunque, che
coincide perfettamente con una nomocrazia. Di qui la superiorità
e il "vantaggio" del politeismo rispetto non solo al monoteismo
d'impronta ebraicocristiana, ma a tutta una persistente
attitudine monoteistica che contrassegnerebbe Yepisteme
occidentale sin dai suoi esordi, a partire dall'ideale platonico di
stabilizzazione del linguaggio: «Che il singolo», si legge
nell'aforisma 143 di Die fróhliche Wissenschaft, «si eriga il suo
proprio ideale e derivi da esso la sua legge, le sue gioie e i suoi
diritti questa fino a oggi è stata considerata come la più
mostruosa di tutte le umane aberrazioni e come idolatria in sé: in
realtà quei pochi che osarono ciò, hanno sempre sentito la
necessità di una apologia davanti a se stessi, ed essa di solito
s'esprimeva in questi termini: "Non io! non io! ma un Dio
attraverso di me!" Fu nell'arte e nella forza mirabile di plasmare
dèi il politeismo che questo istinto potè disgravarsi, purificarsi,
giungere a perfezione, nobilitarsi [...] Il monoteismo, invece,
questa rigida conseguenza della dottrina di un uomo normativo e
unico la fede quindi in un dio normativo, accanto al quale non ci
sono che dèi falsi e bugiardi costituì forse il pericolo più grande
nel corso dell'umanità fino ad oggi [...] Nel politeismo era come
preformata la libertà di spirito e la multiforme spiritualità
dell'uomo: la forza di crearsi occhi nuovi e personali, sempre più
29 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
nuovi e personali: cosicché per l'uomo soltanto, in mezzo a tutti gli
animali, non esistono orizzonti e prospettive eterne».
Ovunque appare il prefisso "poli", siamo dunque per Nietzsche
in presenza di qualcosa di estremamente reale e concreto, che
incide nel profondo della nostra esistenza. Da quella frattura in
poi, il passaggio dall'astrazione alla vita costituirà un cammino
obbligato: nessun "astratto" potrà placidamente riposare nella sua
autoconsistenza logica senza dovere incessantemente misurarsi
con l'incolpevolezza del divenire (sulla natura "postistorica" di
questo passaggio non è il caso, per il momento, di pronunciarsi).
La multiformità della vita e la pluralità delle norme
rappresentano la costante di una Uberwelt, di un "oltremondo", al
cui volto è stata imposta la maschera di un'«unica e ultima
norma»: l'Uomo. Attitudine monoteistica e umanismo appaiono
qui saldate insieme in un vincolo indissolubile: essi formano, in
scenso proprio, un'unica e medesima struttura di pensiero.
Ma non è tutto. L'adozione del lemma "politeismo" allude
anche ad altro: a una condizione culturale, a una "situazione
spirituale del tempo", tale da esigere una motivazione di ordine
rigorosamente teologico (ben poco radicale sarebbe infatti
l'accezione del termine qualora si limitasse a suggerire blande
metafore o pallide analogie). Più precisamente: una motivazione
capace di delinearne i caratteri per rottura con la fisionomia della
condizione antropoteologica rispetto alla quale essa si presenta
come discontinua. Lungi dal configurare un presupposto, il
monoteismo appare come «rigida conseguenza della dottrina di un
uomo normativo e unico»: esso non è che il prodotto dell'umanismo
come «legge di ogni eticità». È riposta qui la radice del nesso tra la
dimensione metafisica (o ontoteologica) e quella culturale (o
antropostorica) che verrà configurandosi nell'accezione
nietzscheana di "nichilismo" (assimilabile non senza forzature al
significato che il termine verrà poi ad assumere nella filosofia di
Heidegger). Ed è precisamente tale nesso ad essere investito,
nell'aforisma 125, dal celebre apoftegma della "morte di Dio". Il
Dio di cui si parla in questo celeberrimo passo non è sic et
simpliciter il Dio unico del monoteismo. È il DioUno in quanto
deus otiosus che pigramente presiede all'Ordine immutabile del
mondo: allo svolgersi inerziale degli automatismi logici, al
reiterarsi delle astrazioni e dei progetti razionalicostruttivi che
hanno fino ad oggi plasmato la vita e la cultura dell'Occidente.
Proviamo, dunque, a rileggerlo per rivisualizzarne la scena alla
luce delle considerazioni finora svolte: «Dio è morto! Dio resta
morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli
assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più
30 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i
nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale
acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giuochi
sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la
grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare
dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un'azione
più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno,
in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai
siano state le storie fino ad oggi!».
Teniamo adesso ferme per un attimo le circostanze in cui
Nietzsche colloca il suo dirompente "annuncio". Il momento,
innanzitutto: intempestivo, "inattuale" («Vengo troppo presto»,
dichiarerà subito dopo «il folle»: «non è ancora il mio tempo»,
poiché «questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta
facendo il suo cammino»; poiché «il lume delle costellazioni vuole
tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute,
perché siano vedute e ascoltate» mentre quest'azione è, per ora,
astralmente lontana dalla vigile coscienza di coloro stessi «che
l'hanno compiuta»). E, dopo il momento, il luogo, il luogo in cui il
grido viene a cadere: orbene, questo luogo è il «mercato». Indizio
illuminante. In tutti i sensi: poiché, in apparenza, nulla vi è al
mondo di più trasparente delle relazioni di scambio, dei negotia
che incessantemente si svolgono tra gli uomini. E infatti: il
mercato è immerso nella «chiara luce del mattino». Eppure, il
«folle uomo» sente il bisogno di recarvisi con una lanterna accesa:
come ad indicare qualcosa che la translucida evidenza del giorno
non consente di scorgere. In cosa consiste, allora, questo
"qualcosa"? Ecco la domanda cruciale, senza porsi la quale non si
afferra il senso dell'annuncio nietzscheano della "morte di Dio". E
la risposta la ritroviamo leggendo fra le righe, frugando nelle
pieghe dell'aforisma, là dove esse ci segnalano attraverso il
paradosso di una lanterna accesa nella «chiara luce del mattino»
la logica di un'"attualità", di una "moderna" conformitàaltempo,
che fa tutt'uno con la connessionediaccecamento: ciò che proprio
il «mercato», l'illuminata evidenza diurna delle relazioni sociali,
non consente di scorgere è l'insostenibile gravità di un atto di cui
gli stessi autori, così "ovviamente" miscredenti (la folla del
mercato altro non era, infatti, che la moltitudine «di quelli che non
credevano in Dio»), rifiutano di farsi carico.
In questo aforisma troviamo così in nuce, come incapsulata,
tutta la drammatica ambivalenza del nesso che stringe l'annuncio
della "morte di Dio" e la nozione nietzscheana di politeismo. Ma
riprendiamo, alla luce degli elementi appena acquisiti, le fila del
ragionamento sopra avviato. Abbiamo dunque visto come
31 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
l'inattuale «Dio è morto» della Gaia scienza decreti il decesso di un
modo monoteistico di pensare Dio che faceva tutt uno con uno stile
monoteistico di comprensione e progettazione dell'essere umano. Si
tratta ora di verificare fino a che punto questo nesso (eticamente
condizionato) tra dimensione ontoteologica e dimensione antropo
storica non finisca per coinvolgere la stessa dimensione politica:
fino a che punto, cioè, sia lecito istituire un parallelismo tra morte
di Dio e morte del Leviatano. Gli odierni teorici del "nuovo
politeismo" non sembrano, al riguardo, sfiorati dal dubbio:
«L'annuncio della morte di Dio», ha scritto ad esempio David
Miller, «fu il necrologio di una norma inutile, unilaterale e
unidimensionale, propria di una civiltà che è stata
preminentemente monoteistica non solo nella sua religione, ma
nella sua politica, nella sua storia, nell'ordine sociale, nella sua
etica e nella sua psicologia». Ma vediamo, prima di passare al
vaglio questi esiti, di esaminare intanto il ruolo giocato dal
concetto di politeismo nella riflessione weberiana.
Altrettanto radicale che in Nietzsche e, se il termine non fosse
oggi ampiamente abusato, tragica l'assunzione in Weber del
«politeismo dei valori». A differenza delle coeve teorizzazioni
pragmatiste d'oltreoceano, la pluralità dei centri di valore non ha
qui un'attitudine armonizzante o conciliativa, non possiede alcuna
inclinazione naturale al compromesso e alla mediazione, non è
spinta da alcuna innata socievolezza dell'uomo a far quadrare il
cerchio con la formula magica dell'unitànelladiversità (dando
luogo a un assoluto "vitale" e "dinamico" ben più onnicomprensivo
dell'assoluto "meccanico" e "causale" del vecchio monismo). Gli
«antichi dèi», per quanto anch'essi soggetti a radicale disincanto,
per quanto «spogliati del loro fascino personale e perciò ridotti a
potenze impersonali», non recedono affatto dal loro inconciliabile
conflitto. E, in questa «eterna contesa», ciascuno di essi, lungi
daLTadattarsi ad occupare una nicchia nell'armonica architettura
di un Pantheon, pretende di essere elevato a unico centro
normativo dell'ordine sociale: all'immagine del pantheon
dovrebbe perciò a rigore subentrare quella, ben più congrua e
legittima, del pandaemonium. Tanto meno il politeismo può per
Weber significare, come in molte interpretazioni oggi correnti,
qualcosa di prossimo o identico al relativismo dei valori (secondo
l'equazione lineare: morte di Diofine delle ideologiepermutabilità
di ogni valore). Ogni essere umano è, in fatto di valori, «enoteista»:
non può venerare che un Dio alla volta. La compresenza di diversi
imperativi di valore nella stessa comunità (o addirittura in uno
stesso individuo) può bensì darsi: e, di fatto, spesso si dà. Ma
sempre nella forma della lacerazione o del conflitto.
32 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
monoteistica. La moltiplicazione dei nuovi dèi «centri di valore»,
«nuclei di pregio», secondo le suggestive definizioni di Niebuhr
insidia ormai da vicino T«anello d'oro» della religione monoteistica
mettendone a dura prova la tenuta. L'analisi si caratterizza
pertanto per un intimo nesso tra dimensione teologica e
dimensione socioculturale: «Tutto quello che [Niebuhr] dice sugli
"dèi"», ha osservato a questo proposito David Miller, «è
interpretato come se fosse collegato con i comportamenti umani
nell'ordine sociale. Gli "dèi" sono valori sociali, sono i principi
dell'essere in un mondo la cui caratteristica principale è concepita
in termini di gruppi umani impegnati in vari tipi di relazioni che
variano di volta in volta». Benché inoppugnabilmente connoti
l'epoca attuale, la temperie politeistica non costituisce tuttavia un
problema peculiare del Moderno, ma è piuttosto latente in tutte le
fasi della civiltà. Appoggiandosi alle tesi di Walter Lippmann,
Niebuhr scorge nella «fede sociale» il contrassegno perenne della
condizione umana: è proprio dell'uomo abbracciare un principio o
un valore rendendolo supremo entro la propria sfera. Ciò vale non
soltanto per le posizioni religiose, ma anche per quelle laiche e
atee radicali (anche l'ateismo è, a suo modo, una "fede"). Ed è
precisamente in questo senso, squisitamente weberiano, che i
valori di ciascun individuo sono per Lippmann
«incommensurabili»: crollati i fondamenti sostanziali su cui si
reggeva la pretesa di assolutezza dell'Ordine morale, non vi è più
«alcun punto di riferimento esterno in base al quale si possa
determinare il valore relativo di ideali in conflitto tra loro». Anche
se la cultura occidentale si è faticosamente modellata sul
monoteismo giudaicocristiano, conclude pertanto Niebuhr, «la
nostra religione naturale è politeistica». Ma, poiché l'odierno
pluralismo dei valori è caratterizzato da un assetto
irriducibilmente conflittuale (in cui «ogni dio [...] esige una
devozione assoluta e un rifiuto delle esigenze degli altri dèi»), ne
consegue che «la grande tragedia del politeismo» è quella di un
pólemos che mette ineluttabilmente capo dapprima alla
lacerazione interiore, poi all'isolamento, e infine al «vuoto
dell'assenza di significato».
La diagnosi del teologo americano si colloca così agli antipodi
di quella di Nietzsche: non è il monoteismo, ma la sua dis
soluzione politeistica, a condurre alla catastrofe del senso. Il solo
rimedio ipotizzabile nella situazione di progressivo svuotamento
in cui versa il nostro tempo potrebbe essere come Niebuhr era
venuto precisando in una celebre controversia con Eric Voegelin
un «monoteismo radicale» capace di rigenerare lo spirito del
cristianesimo primitivo, della religiosità altomedioevale,
34 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
dell'umanesimo rinascimentale e dell'etica puritana della Nuova
Inghilterra. Ed è curioso notare come una tale disposizione
d'animo si muovesse in rotta di collisione con le tematiche
politeistiche provenienti dal dibattito europeo entre les deux
guerres, ma approdate sull'altra sponda dell'Atlantico addirittura
al principio degli anni '70: è di questo periodo, infatti, l'edizione
americana (parziale) di Les Dieux (1934) di Alain (uno dei maestri
di Simone Weil) e di Le mauvais demiurge di Émile Cioran, che
appare con il sintomatico titolo The New Gods. Se all'opera di
Alain si deve la definizione degli dèi come «momenti dell'uomo» e
l'idea che ha poi trovato uno sviluppo originale nella Weil di un
«oltrepassamento» del cristianesimo attraverso il «sublime del
paganesimo», adi pamphlet di Cioran scaturiva invece non solo
una condanna di inequivocabile sapore nietzscheano del
monoteismo come «regresso», non solo l'affermazione dell'anima
come «naturalmente pagana», ma anche una contrapposizione
del tutto scevra di elementi valutativi tra il «politeismo implicito
(o inconscio)» della «democrazia liberale» e il «monoteismo
mascherato» di «ogni regime autoritario».
Che tali spunti, quantunque scorporati dal contesto di ori
2. G. MARRAMAO: Dopo il Leviatano.
gine, fossero destinati ad attecchire sul fertile terreno culturale
angloamericano, è documentato da numerosi e significativi
esempi. Approfondendo le tracce politeistiche presenti nelle
ricerche psicologiche di un autore "junghiano" come James Hil
lman e di un autore "freudiano" come Norman O. Brown, Vincent
Vycinas ha reintrodotto nelle sue opere il tema degli «dèi nascosti»
come chiave di accesso all'attuale epoca di «rivolgimenti
culturali», giungendo a declinare in senso "polimitico", o
pluralisticomitologico, la stessa filosofia heideggeriana (benché
l'ultimo Heidegger avesse, viceversa, qualificato l'epoca presente
come un interludio tra il tempo del nonpiù degli dèi fuggiti e il
tempo del nonancora del Dio che sta per venire). Stando, dunque,
alle attuali tendenze politeistiche, si tratterebbe in alternativa
all'«ermeneutica monoteistica» di «combinare una teoria de
centralizzata del Sé con una teoria decentralizzata della società»,
attivando un «pluralismo di parapolitiche».
Nella stessa temperie si collocano tanto la tematica del «poli
simbolico» di William C. Sheferd (che s'inserisce nella scia di
Brown) quanto quella dell'«uomo pluridimensionale» di James A.
Ogilvy (che intende proseguire il lavoro filosofico di Vycinas). È ad
Ogilvy che può esser fatta risalire la fortuna di quella
35 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
logici imperniato su un concetto di cesura radicale assai prossimo
a quello heideggeriano di "differenza ontologica".
A un tale risultato il grande iranista era pervenuto (cfr. Le
paradoxe du monothéisme, Paris 1981) ripensando, sulla scorta di
Mohyìddìn Ibn 'Arabi, la distinzione tra un tawhid teologico e un
tawhid ontologico: tra la «professione di fede» del monoteismo
essoterico (Non Deus nisi Deus, "Non c'è altro Dio all'infuori di
Dio") e quella del monoteismo esoterico ("Non c'è altro Essere
all'infuori di Dio"). La catastrofe originaria del monoteismo risale
alla confusione tra piano dell'essere (arabo wojud, latino esse,
greco elvai, tedesco das Sein) e piano dell'ente (mawjud, ens, <JV,
das Seiende). Tale confusione induce il monoteismo a far
coincidere Dio non già con l'Essere ma con l'Ens supremum,
facendone così un Superente. Di qui la "morte di Dio", che è in
realtà morte dell'Essere causata dal «monismo esistenziale»: dallo
scambio dell'unità dell'esse con una pseudounità dell'ens, per sua
essenza molteplice. Il monoteismo perisce così proprio all'apice del
suo trionfo: imponendosi come statodellecose, come «idolatria
metafisica». Risolvendo la questione di Dio nella definizione
dell'"Ente supremo", esso non fa che «scolpire un nuovo idolo
mettendolo al di sopra di quelli che condanna nel politeismo, la
cui natura stenta a comprendere». A questo primo paradosso del
monoteismo ne seguono altri due. Il secondo paradosso sta nel
fatto che il monoteismo può salvarsi solo attingendo secondo
l'insegnamento di Haydar Amolì, il maggiore dei discepoli sciiti di
Ibn 'Arabi al suo tawhid esoterico: solo costituendosi come
rigoroso teomonismo. Ma poiché anche questo livello è esposto al
rischio dei possibili equivoci in ordine al significato della parola
"essere", occorre scongiurare il pericolo instaurando un'«ontologia
integrale», in cui il piano del DioUno sia in grado di fondare, eo
ipso, il pluralismo degli enfia. Da questo terzo e ultimo paradosso
del monoteismo viene alla luce come Corbin, attraverso un
percorso squisitamente teologico (sia pure nel senso "altro",
irriducibilmente ostile alla dogmatica, della gnosi islamica o della
teosofia ismailitica), giunga a riproporre con straordinaria
intensità la questione della differenza ontologica. Soltanto una
teologia apofatica (o negativa) è in grado di venire a capo di quel
mistero dell'Essere, la cui rimozione metafisica sembra aver
condotto la teologia catafatica all'autoannientamento, e al
conseguente propagarsi nella civiltà occidentale di una "nihili
tudine" passiva. Solo una volta ripristinato il significato autentico
dell'esse come l'Uno che portaadessere ogni ens, sarà possibile
"salvare" simultaneamente le ragioni del monoteismo e quelle
del politeismo: in tal caso, infatti, l'unità dell'Essere corrisponderà
37 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
3. 1 x 1 x 1 x 1 , ecc., mentre l'unità degli enti sarà rappresentata
da 1 + 1 + 1 + 1, ecc. Sta qui il segreto di quella «perfetta
armonia» tra Uno e Molti, che appare alla «coscienza ingenua»
della metafisica solo nella forma del paradosso, e che può essere
colta solo lungo il crinale della differenza tra l'Uno che ponein
essere la molteplicità degli entia e l'Uno in quanto principio
ordinatore e vertice della serie. Ed è precisamente a questo
proposito che Corbin si avvale del commento al Parmenide di
Proclo: la differenza appena evocata si può esprimere sulla scorta
di quel celebre "commentario" anche come distinzione tra theótes
e theós. L'unicità è prerogativa esclusiva non di un theós, ma della
theótes: vera e propria deitas abscondita antecedente sia il theós
che i theói. Anziché escludere tutti gli altri dèi, la theótes richiede,
condiziona e garantisce la «pluralità dei theói», esattamente come
Tessere costituisce il presupposto della molteplicità degli enti. Il
Non Deus nisi Deus diviene così un Non Deus nisi Dii: non si dà
"divino", in altri termini, se non nella forma di «Dio degli Dèi»
(secondo un'espressione che Corbin mutua dal mistico iraniano del
XII secolo Shihàboddìn Yahyà Sohrawardi). In virtù del
discrimine così istituito tra piano "ontologico" e piano "ontico", il
teomonismo non esclude affatto, ma al contrario include in sé a
pieno titolo la rinascita degli dèi in quanto teofanie della theótes:
«Il teomonismo non professa [...] che TEssere divino è il solo ente,
bensì TessereUno, e proprio questa unitudine dell'essere fonda e
rende possibile la moltitudine delle sue epifanie, che sono gli
enti». La deitas abscondita aspira a rivelarsi, e non può rivelarsi
che, in un numero molteplice, anzi illimitato, di forme teofaniche
(da cui la «necessità dell'angelologia»). Talem eum vidi qualem
capere potui: è in questa funzione epifanica comune agli Dèi
Angeli di Proclo, ai dodici Imam del neoplatonismo sciita, alle
dieci Sefiroth della Cabala che si colloca la dimensione del
mundus imaginalis. Ma "immaginale" sente il bisogno di
precisare Corbin in una lettera a Miller «non va confuso con
l'immaginario». Esso è si, infatti, il luogo della «rinascita degli
Dèi». Ma questa rinascita non potrebbe averluogo senza il wojud
Dio che poneinessere ogni cosa. Motivo politeista e motivo teo
monista si richiamano Tun l'altro in un vincolo circolare che è, al
tempo stesso, una tensione reciproca: è in virtù della theótes che i
theói si danno; ma per converso è in virtù delle molteplici
teofanie che «il Dio degli gnostici non può mai morire, perché è
egli stesso (il luogo del)la rinascita degli Dèi e delle Dee». Ed è
nell'interstizio lasciato aperto da questa tensione che viene a
collocarsi, appunto, il mundus imaginalis. La sua dimensione è
propriamente outopica: poiché esso esprime non già un tópos, un
38 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
"luogo", quanto piuttosto lo stesso averluogo della manifestazione
del molteplice.
Sarebbe interessante alla luce di questa rassegna vagliare il
coefficiente di originalità di alcuni dei contributi filosofici e
teologici oggi in voga. E certo risulterebbe appassionante andare a
verificare in che misura la distinzione e calibratura reciproca dei
due "piani" operata da Corbin sia in realtà rivelatrice di un
dispositivo "archetipico" puntualmente ricontrabile perlomeno
come scena influente anche in ambiti in apparenza
39 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
remoti: dalla teologia politica del "doppio corpo" regale al pattern
magico della stessa formula giuridica (con la sua virtualità di
tenere insieme l'Uno e i Molti, unità dell'ordinamento e pluralità
delle sue manifestazioni normative). Ma un tale sondaggio per
fin troppo ovvie ragioni cade al di fuori dell'orbita discorsiva di
questo libro.
Ciò che, per il momento, mette conto segnalare è che la pro
blematica di Corbin può essere facilmente equivocata qualora la si
assuma espungendo o smorzando il rigore delle premesse, sopra
rapidamente schizzate solo dal versante degli esiti: la
liberazione dal "blocco totalitario" del monoteismo e delle sue
forme secolari. Ma per questa via il tema dell'"immaginale" finisce
ineluttabilmente per smarrire la propria radicalità (antiteologica
e per tradursi in una sorta di ermeneutica decostruzionistica
imperniata sulla categoria di immaginazione etica: «Mi
piacerebbe immaginare», esclama molto significativamente
Miller, «che la prospettiva politeistica producesse piuttosto
mythos dall'ethos invece che sistemi morali a partire dai miti
classici».
È un buon esempio di quanto si diceva. E, insieme, un docu
mento eloquente dell'odierna temperie politeistica: di cui pas
seremo ora a trattare i risvolti più propriamente eticopolitici.
SEZIONE B
LA DEMOCRAZIA, LA COMUNITÀ E I PARADOSSI
DELL'UNIVERSALISMO
1. Trasparenza democratica e opacità delle differenze
insieme, in produttiva tensione, questi due aspetti rappresenta la
sola chance di credibilità e di rilancio della democrazia
contemporanea.
Si sarebbe a questo punto portati a chiudere il discorso ricor
rendo alla vecchia, ma pur sempre valida esortazione: Hic Rho
dus, hic salta! Ma è consigliabile non precipitarsi. Poiché quanto
si è finora detto non è che il prologo in cielo del nostro problema.
2. Il ritorno della comunità
Se vogliamo tentare un'approssimazione adeguata al problema,
se non vogliamo restare irretiti dagli scenari appena delineati,
dobbiamo accuratamente evitare due atteggiamenti, insieme
sterili e rischiosi. Dobbiamo, in primo luogo, bandire dai nostri
discorsi le "sentenze da premio Nobel": vale a dire, quelle formule
generiche che il linguaggio della politica (ancora fermo a canoni
ottocenteschi, ad onta delle rivoluzioni che in questo secolo hanno
investito, dall'arte alla scienza, le forme espressive e il modo
stesso di guardare all'esperienza) sembra avere perniciosamente
trasmesso anche agli "intellettuali" chiamati a pronunciarsi su
tutto. L'archetipo di queste sentenze è rappresentato,
naturalmente, dalla sconvolgente "scoperta" che la situazione
attuale dell'Umanità è segnata dall'alternativa tra grandi pericoli
e grandi potenzialità future.
In altre parole, e più specificamente, si tratta di evitare il
"doppio" perverso del postmoderno: la sua oscillazione pendolare
tra un'ermeneutica dell'euforia (pensiero debole, teoria dei
simulacri, et similia) e un'euristica della paura (atteggiamento
comune al suo versante "nero": dallaposthistoire di Arnold Gehlen
allo stesso "principioresponsabilità" di Hans Jonas). Ma, d'altra
parte, dobbiamo anche evitare di allestire ogni volta un nostro
"divano occidentaleorientale" (ricordate il Westòstlicher Diwan
del vecchio Goethe?), sproloquiando qualche ennesima (e in realtà
andiliuviana) "trovata" sui rapporti OrienteOccidente.
Cerchiamo allora di afferrare il toro per le corna (nella spe
ranza che non sia, invece, proprio lui, il toro, ad incornarci):
l'Occidente si presenta oggi come una sfera culturale esplosa. E
l'esplosione, di cui ci troviamo adesso ad amministrare i fram
menti, si è prodotta non malgrado, ma in conseguenza dell'appa
rente vittoria del suo modello su scala globale. Cosa caratterizza,
allora, la "situazione spirituale" del nostro tempo? L'imposizione
omologante dei parametri occidentali sotto ogni cielo e su tutte le
LA DEMOCRAZIA, LA COMUNITÀ E I PARADOSSI 44
culture? Non questo, a mio avviso. O almeno: solo in parte questo.
Siamo piuttosto in presenza di un nodo nevralgico, che va qui
segnalato andando davvero, una volta tanto, controcorrente
rispetto alla discordia concors di tutti quegli intellettuali,
"apocalittici" o "integrati", i quali, dall'interno dell'Occidente, si
limitano a salutare trionfalisticamente la (presunta) affermazione
sull'intero orbe terraqueo del Modello Occidentale oppure a
blaterare disfattisticamente contro l'Omologazione Universale che
esso avrebbe indotto, senza accorgersi che da tempo ormai il
bastone è stato piegato in un verso diametralmente opposto a
quello dell'universalismo.
La temperie che minaccia di segnare questo scorcio di fine
secolo è rappresentata da una ribellione sempre più estesa ed
intensa nei confronti del modello universalistico occidentale. Mi
riferisco per chi non l'avesse ancora afferrato alla battaglia dei
communitarians americani nei confronti non solo dell'ideologia,
ma dello stesso patto democratico. Si tratta di un fenomeno assai
più sottile e insidioso del "tribalismo" nazionalistico e
subnazionalistico che sta dilaniando il continente europeo a
partire dal crollo del muro e dal successivo sgretolamento
dell'impero sovietico. La battaglia dei "neocomunitari" ha infatti
un segno socioculturale prima ancora che direttamente politico. E
per questo essa minaccia di attecchire in gruppi etnici e strati
della popolazione tradizionalmente indifferenti alle vicende della
politique politicienne. Per questi fondamentalismi "indigeni"
dell'Occidente le istituzioni dell'universalismo rappresentano il
regno del "grande freddo" (del Big Chili), perché
irrimediabilmente segnate da una fisiologica neutralità e "apatia"
nei confronti delle differenze: nei confronti, cioè, di quei vincoli
solidaristici che possono darsi non tra individui atomisticamente
separati (secondo lo schema del "contratto sociale" da Hobbes in
poi), ma tra soggetti concreti culturalmente affini. Si cominciano
così a delineare i profili inquietanti della sfida "comunitarista".
Etnocentrico, nella sua prospettiva, non è soltanto il dispo
sitivo strategicostrumentale dell'universalismo (le tecniche, le
convenzioni, le regole formali della democrazia), ma anche la sua
"ragione comunicativa": ossia lo stesso ideale del dialogo
razionale. La persuasione viene in altri termini percepita come
una forma incivilita del modello di conversione del "barbaro" e
dell'"infedele": una forma essenzialmente rivolta alla neutraliz
zazione di ogni "alterità" culturale. In secondo luogo, l'insistenza
sulla concretezza delle forme di vita tende a ricondurre entro
l'alveo delle specificità culturali il tema della solidarietà e dei
valori condivisi.
45 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
b) Veniamo ora ai paradossi inerenti alla dinamica e alla spe
rimentazione storica dei principi dell'universalismo. Per afferrarli,
dobbiamo riprendere e approfondire un tema che era chiaro allo
sguardo disincantato di un Tocqueville o di un Weber, ma anche
all'occhio "infernale", spietatamente demistificante, del vecchio
Marx: il processo della modernità capitalistica costituisce un
evento unico, assolutamente eccezionale, nel contesto delle società
umane, proprio perché si realizza attraverso un rivoluzionamento
dei valori e una radicale rottura dei vincoli comunitari che
facevano consistere le cerchie di vita tradizionali.
L'affermarsi dell'universalismo moderno viene così a coincidere
con l'esperienza dell'universale sradicamento. Ma questa
esperienza altro non è che l'effetto del dispiegarsi del presupposto
culturale dell'universalismo: del suo nucleo irriducibilmente
individualistico. È il "modello individualista" dunque, e non (per
LA DEMOCRAZIA, LA COMUNITÀ E I PARADOSSI 48
Il primo di questi fenomeni storici è rappresentato dallo sfo
ciare del determinismo latente nell'idea di "legge di movimento"
(aspetto che in Marx convive e cospira con le radicali premesse
individualistiche) nella feticizzazione del Collettivo: per questa via
si è prodotta con tutte le alterazioni e legittimazioni "ortodosse"
della dottrina la tragica esperienza del comunismo reale. Il
secondo fenomeno è costituito invece dall'affiorare di
controtendenze o zone di resistenza all'universalismo, che con
sistono nel rivendicare l'autonomia irriducibile di soggetti par
ziali, siano essi reali o mitologicamente costruiti: razza, etnia,
Volk. Sarebbe davvero interessante, a questo proposito, analizzare
le varie manipolazioni cui è andato soggetto nel nostro secolo il
concetto di "popolo": e troveremmo certo impreviste e inquietanti
collusioni tra "destra" e "sinistra". Ma credo che, ancora una volta,
abbia ragione un antropologo come Dumont (a differenza di tanti
scienziati della politica), nell'affermare (Essais sur
l'individualisme, Paris 1983) che il totalitarismo contemporaneo
non è affatto un'"aberrazione" o un "evento eccezionale"
eccezione che confermerebbe la norma delle nostre "magnifiche
sorti e progressive" ma una creatura partorita dalle viscere
dell'universalismo individualista: benché lo rovesci
diametralmente di segno, affidando a una Identità o Feticcio
collettivo le prerogative (individualistiche) della volontà di
potenza e di dominio sul mondo. Non è certo per incidente che
proprio dall'analisi della dinamica delle masse nel nostro secolo
sia emersa l'esigenza di scavare nel "cuore di tenebra" dell'Occi
dente, per portarne alla luce gli elementi costitutivi. Senonché e
vengo con questo al punto più delicato della mia argomentazione
affrontare il problema in questi termini vuol dire inevitabilmente
imbattersi nei limiti di un approccio di tipo razionalistico
utilitaristico ai fenomeni sociali.
4. Etiche in conflitto
1. per ogni quesito autentico c'è un'unica risposta corretta, che
esclude tutte le altre come erronee, nonvere: non c'è inter
rogativo, purché formulato con chiarezza logica, al quale si pos
sano dare due risposte diverse che siano entrambe corrette (e va
da sé che, se non esiste risposta corretta, il quesito è da ritenersi
inautentico);
2. esiste, sempre e comunque, un metodo per trovare le rispo
ste logicamente giuste;
3. tutte le risposte corrette devono essere compatibili fra loro.
5. Democrazia e universale sradicamento
une alle altre come autoconsistenze insulari o come monadi senza
porte né finestre. La globalizzazione del mondo determinatasi con
il crollo dei muri tra Est e Ovest ci ha improvvisamente proiettati
contro una parete talmente vasta da non riuscire a distinguerne i
contorni. E i contorni sono quelli di un problema così macroscopico
da passare inosservato: un effettivo confronto tra le grandi culture
del pianeta non è ancora avvenuto. Questo confronto è in procinto
di imporsi come un'urgenza assoluta, nel momento in cui le
democrazie occidentali ereditano nel proprio seno componenti
sempre più attive e cospicue di altri contesti culturali.
Tutto ciò si verifica in presenza di una soglia critica: una soglia
che abbiamo appena silenziosamente varcato, quasi senza
avvedercene, e che coinvolge in modo radicale la stessa idea di
"natura" alla quale eravamo abituati (e sulla quale avevamo
costituito, a partire dall'età moderna, i nostri Ordini politici e
Contratti sociali). La natura era stata finora concepita dalla cul
tura occidentale essenzialmente in due modi: natura come "tem
pio", cosmo ordinato e contenitore invalicabile di eventi che
ciclicamente si succedevano (secondo l'accezione classica, dalla
civiltà grecoromana fino all'epoca medioevale); natura come
"laboratorio", sezione dell'universo fisico ritagliabile per gli
esperimenti (secondo un'accezione invalsa dalla rivoluzione
scientifica del Seicento a tutta l'epoca industriale). Oggi vediamo
emergere una nuova idea, in virtù della quale i confini stessi tra
natura e artificio tendono a sbiadirsi: la natura come "codice"
(idea nuovissima, postmoderna se si vuole, ma al tempo stesso
antichissima: essa evoca infatti il tradizionale tema, ermetico e
cabalistico, della cifra e della decifrazione). E a partire di qui che
dobbiamo ripensare, attraverso e oltre la cultura ambientalista o
ecologista, la stessa idea di contratto (che originariamente
postulava la natura come uno "stato", un presupposto
immodificabile su cui erigere l'artificio statuale: il "Dio mortale", il
"grande e onnipotente" Leviatano). Ed è da questa prospettiva che
occorre rilanciare la sfida dell'universalismo prospettando un
nuovo ventaglio di possibili per il destino della specie sul pianeta.
Quale compito spetta allora su questo sfondo a dir poco
"perturbante" alla democrazia? Innanzitutto essa deve farsi
carico della radicale trasformazione che ha investito alcuni dei
problemichiave con i quali si era storicamente misurata: a partire
dal tema dello sfruttamento, che oggi tende sempre più a
risolversi in quello dell'emarginazione. Ma lo stesso fenomeno
dell'emarginazione non può più essere visualizzato nei termini
classici, poiché viene ormai direttamente a coinvolgere la
dimensione criticoculturale. Nel corso di una recente riflessione
55 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
attentamente vagliato le "ragioni" di un Durkheim o di un Mauss,
oltre che (last but not least...) del vecchio Sigmund Freud?
In secondo luogo, il tema del "sacro": ineludibile costante del
potere e del legame sociale, una volta che si assuma la società
come un complesso simbolico, e dunque come qualcosa di più o di
altro dalla semplice somma degli individui che la compongono.
Anche a chi non sia disposto ad abbracciare la nozione radicale di
"sociologia sacra" affacciata negli anni trenta dal Collège de
Sociologie di Georges Bataille e Roger Caillois, sarà difficile non
convenire con Clifford Geertz sull'asserzione che «una società
interamente desacralizzata sarebbe una società completamente
depoliticizzata». Ma se il motivo del sacro si identifica con quello
della persistenza dei rituali e dei modelli iterativi che presiedono
ai meccanismi di identificazione simbolica (sulla cui rilevanza per
la teoria democratica si è acutamente soffermato, negli anni
passati, anche un sociologo come Alessandro Pizzorno), ne
consegue un'altra esigenza: quella di una revisione radicale dei
concetti di "secolarizzazione" e "razionalismo occidentale" quali si
trovano elaborati nella grande indagine comparativa di Max
Weber. La secolarizzazione, in altri termini, non comporta una
lineare "desacralizzazione"; così come la crisi delle cosiddette
"centralità" (dal SoggettoPopolo al SoggettoStato) non induce
necessariamente un attenuazione o un indebolimento dei
meccanismi di identificazione simbolica. Valga qui per tutte
l'analisi dell'interscambio simbolico tra auctoritas religiosa e
potestas politica svolta da Marc Bloch in quell'autentico gioiello
della storiografia del '900 che sono Les rois thaumaturges (1924):
il plurisecolare conflitto tra i due poteri non mette capo a una
differenziazione lineare. Ma piuttosto a un gioco di specchi in cui
l'uno tende ad assumere le prerogative dell'altro: la Chiesa si
"statalizza" (assumendo i caratteri della centralizzazione e
razionalizzazione burocratica) e lo Stato si "ecclesiasticizza"
(incrementando le proprie caratteristiche sacrali e ritualizzando
le proprie procedure).
In terzo luogo, il pattern miticorituale della sovranità: tema
emergente dalle ricerche etnologiche coordinate da Hooke al
principio degli anni trenta, e documentate dalle raccolte Myth
and Ritual (1933) e The Labyrinth (1935). La rilevanza di queste
indagini non consiste soltanto nell'evidenziare (alcuni decenni
prima di Michel Foucault) la persistenza del complesso mitico
rituale indipendentemente dall'esistenza o meno di un Centro
sovrano topologicamente identificabile e visibile, ma piuttosto
nell'infrangere quel "disprezzo per il rituale" in cui Mary Douglas
scorge uno dei contrassegni negativi della teoria sociale
57 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
Vengo così, in conclusione, all'altro punto più squisitamente
teorico tralasciato dalla diagnosi di Isaiah Berlin. Il punto
investe (ii) la questione relativa a quello che per riprendere
Robert Dahl potremmo chiamare il "concetto ombra" della
democrazia. Esso consiste non già in un "oltrepassamento" in
chiave relativistica o pluralistica del suo statuto metafisico
sostanziale, quanto piuttosto in un'attivazione del suo risvolto
antimetafisico, in grado di sottrarsi alla morsa costituita dal
dilemma teorico tra ì'apriori fattuale dei comunitaristi e ì'apriori
trascendentale evocato dalla "comunità della comunicazione"
(Kommunikationsgemeinschaft) di KarlOtto Apel e dallo stesso
"agire comunicativo" (kommunikatives Handeln) di Jùrgen
Habermas. Se è vero che la vocazione della democrazia, in quanto
istituzione politicoculturale tipica dell'Occidente, è data
59 DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
come ben sapevano Tocqueville, Marx e Weber dalla cifra dello
sradicamento, la sua definizione più congrua sarà quella di luogo
comune dello sradicamento. Solo a partire di qui da questo
recupero che è anche un ripensamento alternativo del potenziale
della tradizione si apre la possibilità di un confronto con le
"alterità" culturali in grado di sfuggire agli opposti e speculari
rischi dell'universalismo egemonico e del relativismo. La
democrazia e solo la democrazia può chiamarsi a pieno titolo
comunità paradossale: comunità dei senzacomunità. Non
malgrado, ma proprio in virtù delle sue regole formali che,
limitando la tàxis, la sfera di esercizio del potere, garantiscono
l'autonomo svolgimento delle sfere di vita. La democrazia è
sempre "advenire", proprio perché non sacrifica mai all'utopia di
una trasparenza assoluta l'opacità della frizione e del conflitto. La
democrazia non gode di un clima temperato, né di una luce
perpetua e uniforme, proprio perché si nutre di quella passione
del disincanto che tiene uniti in una tensione irresolubile il
rigore della forma e la disponibilità ad accogliere "ospiti inattesi".
Per questo essa sa che precipiterebbe in rovina se dimenticasse
anche solo per un istante il solo presupposto che la tiene in vita: il
totum è il totem.
PARTE PRIMA
VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Ri C E R C H E
1. Gioco di specchi
anche sussumere) la «frattura datori di lavoro/prestatori d'opera
(la frattura di classe)» con la frattura establishment/anti
establishment?
Sono proprio questi interrogativi che ci inducono a proble
matizzare l'uso della categoria di postpolitico. La sua efficacia
sta, a ben guardare, non solo nel segnalare la natura irreversibile
delle nuove forme di identità collettiva, ma soprattutto nel porle
in un nesso logicostorico consequenziale con un intero ciclo della
politica occidentale. Nel vederle cioè come effetti di un lungo
processo di politicizzazione della società che coincide con la
parabola dello «Stato del benessere»: sotto questa angolatura
prospettica, il postpolitico non è soltanto ciò che "viene dopo"
l'intervento politico del Welfare, ma indica anche lo stato di
ipersensibilità di un sociale che percepisce le forme della politica
tradizionale come un déjàvu, un percorso già esperito e nella
sua logica di fondo già consumato. Il che non toglie,
evidentemente, che questa acquisita consapevolezza possa trovare
forme puntuali di raccordo con il politico istituzionalmente e
professionalmente inteso, allo stesso modo in cui la nuova frattura
"culturale", che taglia trasversalmente tutti gli schieramenti
classici della società industriale, dovrà trovare una qualche forma
di combinazione con la persistente divisione di "classe". Ma è
appunto per questa ragione che il discorso deve ritornare, ancora
una volta, sulla politica, o meglio: sulla logica delle interrelazioni
"ambientali" che condizionano la politica (e il "fare politica") nelle
democrazie industriali.
È in conformità a questo ordine di problemi non solo, dunque,
per una comprensibile ripulsa verso l'orgia dei «post» che
caratterizza la cultura (in particolare italiana e francese) di questi
anni che si è preferita alla categoria di postpolitico che pure
noi stessi avevamo proposta, in sordina, in alcuni precedenti
lavori (Marramao 1980 e 1983) un'altra chiave di lettura, che
riassumiamo nel concetto di metapolitica. Con questo termine
intendiamo non tanto una neosintesi del politico una sorta di
"superpolitica" , quanto piuttosto l'esigenza di concettualizzare
un campo semantico dal profilo ancipite, che accentua e traduce a
un livello di maggiore complessità la "dualità" connaturata al
moderno concetto di "politico". La problematica sottesa alla
categoria di metapolitica implica: in primo luogo, che il dispositivo
ermeneutico per catturare le odierne condizioni di praticabilità
della politica deve indirizzarsi verso dati obliqui, verso aree che,
secondo la topologia classica, si presentano come remote o
eccentriche rispetto alle nomenclature politiche tradizionali; in
secondo luogo, che per decifrare la potenziale rilevanza politica di
questi ambiti occorre tentare di dar forma ai reticoli simbolici
67 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
interessante la crisi dei movimenti, che è stata invece precipitosa
e non discussa affatto» (Rossanda 1983, 137). L'approfondimento
di questo aspetto rappresenta, senza ombra di dubbio, un pas
saggio decisivo dell'analisi. Ma come può esso darsi realmente
senza uscir fuori dal gioco di specchi tra politicaistituzione e
politicamovimento ?
La dinamica di secolarizzazione stilizzata da Germani sul
versante sociologico dei processi di modernizzazione ha un suo
preciso contrappunto anche nell'ambito della teoria politica. Nella
concezione funzionale della politica come dispositivo di risposta a
"problemi" sempre più pressanti che provengono dall'"ambiente"
si è definitivamente maturato il distacco non solo dalla concezione
classica della TTOXITIKT] KOLVCOVLCL che postulava una unità "naturale"
di dominio politico e società nella polis (Riedel 1975) , ma anche
dall'idea moderna dello Statomacchina: «Il legame fondamentale
tra le due valenze del concetto di "politico" è quello della
concezione del sistema collettivo di conseguimento dei fini, cioè
della tendenza di un sistema di azione a mutare la relazione tra il
sistema stesso e certe caratteristiche del suo ambiente in
direzione di una più piena soddisfazione delle necessità funzionali
del sistema, che grosso modo corrisponde alla perdita di "tensione"
tra il sistema e l'ambiente riguardo agli aspetti rilevanti. Il pieno
conseguimento di un sistema di fini costituirebbe dunque un
punto di equilibrio in cui cesserebbero le tensioni per il suo
raggiungimento» (Parsons 1969, 584).
È importante sottolineare quelli che a me paiono i tre momenti
salienti di questa ridefinizione parsonsiana del concetto di
"politico" (che trapasseranno pressoché integralmente nell'opera
di Luhmann). In primo luogo, la particolare accezione che viene
ad assumere il concetto di "ambiente", che in quanto inclusivo
dei sistemi culturali cui gli individui fanno riferimento rimanda
implicitamente al problema della secolarizzazione: «noi
concepiamo l'ambiente di un sistema sociale come comprensivo
non solo dell'ambiente fisico e degli altri sistemi sociali come le
"nazioni" ma anche degli organismi e delle personalità dei suoi
membri, e dei sistemi culturali rilevanti». In secondo luogo, il
"comportamento" strettamente "reattivo" quasi da variabile
dipendente che il "politico", come sistema collettivo di
conseguimento dei fini, viene ad assumere rispetto alle spinte
secolarizzanti dell'ambiente (che si presenta così come una
riformulazione sostanziale tanto della nozione hobbesiana di
"stato di natura", quanto di quella weberiana di "razionalità
materiale"): «Ne consegue che un problema di conseguimento dei
fini per il sistema sociale, cioè, nel nostro senso analitico, un
problema politico, può sorgere ogni qual volta si presenti questo
L'ENTROPIA DEL LEVIATANO 70
tipo di tensione nel sistema di relazioni ambientali, sia riguardo
alle varie parti del sistema, sia riguardo alle caratteristiche del
suo ambiente». In terzo luogo, la qualifica del "politico" non già
come funzione di gruppi o agglomerato di individui, ma come
«sistema di azione» (Parsons 1969, 584585). Quest'ultimo aspetto
ci conduce direttamente a un'ulteriore articolazione del discorso:
quella relativa all'opposizione tra teoria del sistema e teoria
dell'azione come antitesi tuttora costitutiva del discorso
sociologico intorno ai movimenti.
2. Attore e sistema: un'alternativa?
Prendiamo ad esempio un recente saggio di Alain Touraine, dal
titolo che, nel corso della lettura, si rivelerà programmatico
Une sociologie sans société (1981). Il saggio è significativo, in linea
generale, in quanto rappresenta al tempo stesso una sorta di
bilancio ideale della ricerca svolta dall'autore nell'arco di oltre un
ventennio e una sua autointerpretazione e sistemazione teorica in
rapporto ai diversi indirizzi presenti nel campo delle scienze
sociali. E rispetto al discorso che stiamo portando avanti in
quanto ci esibisce l'esatto rovescio dello schema interpretativo
delle concezioni funzionaliste e sistemiche sui problemi sempre
più acuti posti all'ordine politico dall'aumento del tasso di
contingenza "ambientale". La pressione crescente esercitata da
quella dinamica del mutamento socioculturale che queste teorie
esorcizzano, trasfigurandola nel concetto di "ambiente", ha
portato sul piano scientifico alla dissoluzione dei modelli
macrosociologici che hanno dominato fino agli anni '60 lo scenario
delle scienze sociali: quei modelli che da Durkheim a Parsons
avevano fondato l'idea di società attraverso un "assemblaggio" dei
concetti di istituzione e di evoluzione. La dissoluzione di questi
modelli e dell'idea di società che essi avevano costruito comporta
per la sociologia una drastica perdita di oggetto e,
conseguentemente, di identità. Il vuoto lasciato aperto da questa
perdita può essere colmato, secondo Touraine, solo facendo leva
sull'opposizione tra teoria del sistema (che domina le sociologie
ottocentesche, da Comte a Marx, e concepisce il fenomeno sociale
in termini di leggi e di meccanismi oggettivi da cui gli individui
sarebbero metadeterminati e "vissuti") e teoria dell'azione (che, a
partire da Weber, pone alla base del fenomeno sociale la logica
dell'agire): tra «sociologia delle istituzioni, vale a dire del sistema»
e «sociologia del cambiamento, vale a dire degli attori» (Touraine
71 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
1981, 7). A partire da questa opposizione che viene di fatto ad
assumere un carattere assiomatico («tra Durkheim e Weber non
esiste quasi comunicazione alcuna») , Touraine propone una rico
stituzione dell'«unità del campo sociologico» a partire dai tre
«concetti principali» di azione, rapporti sociali e movimenti
sociali. Si tratta, tuttavia, di una «sociologia senza società», che
non postula mai un sistema o un ordine stabilito, ma lo vede
sempre come prodotto di un'azione e di un cambiamento costanti.
I movimenti sociali sono, appunto, gli attori collettivi che operano
questa «produzione della società», creando i rapporti sociali.
Cerchiamo di passare rapidamente al vaglio i postulati che
reggono l'argomentazione di Touraine.
Innanzitutto, l'antinomia perentoriamente dichiarata tra teoria
del sistema e teoria dell'azione. Se una tale contrapposizione può
essere ritenuta legittima in rapporto alle sociologie ottocentesche
(ma anche in questo caso essa andrebbe ulteriormente motivata e
problematizzata), appare invece difficilmente sostenibile rispetto
agli sviluppi del pensiero sociologico del nostro secolo: com'è
costruito, infatti, il concetto di sistema sociale in Parsons se non
come un derivato e uno sviluppo logico della teoria weberiana
dell'azione? Derivazione e sviluppo che potranno essere certo
contestati nel merito. Ma non al punto da eludere il problema
epistemologico costituito dal fatto che i paradigmi funzionalisti e
sistemici contemporanei non pongono più il problema dell'ordine a
partire da "leggi di movimento" che regolano il funzionamento del
"corpo sociale", bensì a partire proprio da quel problema della
razionalità dell'agire che Touraine vorrebbe diametralmente
contrapposto al "paesaggio lunare" raffigurato dalla teoria
parsonsiana. Il fatto che Parsons si sia occupato in misura molto
minore di Weber degli attori collettivi potrà essere pure
legittimamente imputato oltre che al più esiguo spessore storico
della sua ricerca a una propensione ideologica soggettiva (che
indubbiamente condiziona in modo pesante la sua reimpostazione
del «problema hobbesiano dell'ordine»). Ma non esclude affatto la
possibilità di un'analisi "sistemica" degli stessi movimenti,
condotta sulla base di un uso rigoroso dello strumentario offerto
dalla teoria dell'azione.
In secondo luogo, il postulato su cui si regge l'assegnazione del
primato all'azione collettiva dei movimenti. Non si tratta, a questo
riguardo, di rivolgere a Touraine una generica quanto inoffensiva
accusa di parzialità, per il fatto di privilegiare i movimenti a
discapito delle istituzioni, il mutamento a discapito della
persistenza. Egli, infatti, non rinuncia a una prospettiva in certo
qual modo "sintetica" (benché si tratti di una sintesi fatta di
"intersecazioni" piuttosto che di sistematiche costruite con il
L'ENTROPIA DEL LEVIATANO 72
criterio delle scatole cinesi). L'aporia del discorso di Touraine non
risiede in una presunta, o genericamente intesa, parzialità di
ottica, ma propriamente nel presupposto su cui si regge tutta la
sua proposta di rifondazione della sociologia come conoscenza
delle logiche che regolano la produzione delle «situazioni sociali»:
il postulato "bergsoniano" del carattere creativo dell'agire
collettivo del movimento, vera e propria fonte produttrice dei
«rapporti sociali». La centralità che viene ad assumere la nozione
di "rapporti sociali" neli'impostazione del sociologo francese non
deve, dunque, trarre in inganno: questa centralità che consegue
dal dissolvimento dell'idea di società può darsi solo «a condizione
di contrapporre nella maniera più esplicita il nuovo concetto di
rapporti sociali al vecchio concetto di relazione sociale» (Touraine
1981, 10). La frattura epistemologica che intercorre tra queste
due nozioni è infatti la stessa che il sociologo francese istituisce
tra azione e sistema, mutamento e ordine. In quegli attori collet
tivi per antonomasia che sono i movimenti s'incarna non solo
un'attività trasformatrice, ma più precisamente un'«azione
creatrice». Il loro agire non è dell'ordine della npà£is ma piuttosto
dell'ordine della JTOÌT\GIS.
Touraine non sembra avvedersi delle implicazioni racchiuse in
queste premesse assiomatiche: proprio la sottolineatura
dell'aspetto "autopoietico" dei movimenti sociali chiama in causa
la necessità di una loro analisi in chiave simbolica e sistemica; per
cui, anche una volta ammesso (e non concesso) questo carattere
naturaliter creativo dell'azione collettiva, non vi è ragione alcuna
per escludere un'analisi simbolica del funzionamento delle stesse
strutture codificate della società. Detto in breve, l'analisi
sistemica acquista valore solo quando viene assunta nel suo
caratteristico intreccio con l'analisi simbolica: di conseguenza,
come può darsi la possibilità di analizzare un movimento
collettivo in termini di "sistema", così può darsi per converso la
possibilità di analizzare il sistema sociale in chiave simbolica,
come movimento circolare e flusso «autopoietico»
(Maturana/Varela, 1980). Per il binomio movimentoistituzione,
vale pertanto quanto sostenuto di recente da Luhmann a
proposito della falsa antinomia di ordine e conflitto: «[...] una
controversia impostata in modo errato, che ha tentato di servirsi
della teoria del conflitto o anche della teoria dei giochi per
contrapporle alla teoria dei sistemi, ha fallito in pieno i suoi
intenti. Ciò vale in modo particolare quando i teorici del conflitto
rimproverano ai teorici dei sistemi di dare troppo peso
all'integrazione, o addirittura alla coercizione. Proprio i conflitti
sono sistemi sociali estremamente integrati, dal comportamento
quasi coercitivo. [...] Quando i teorici del conflitto attribuiscono
73 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
3. Strategia e comunicazione
matica della contrattazione che assegnerebbe ai due campi quello
che ciascuno può razionalmente, in modo tale che essi non
abbiano che da prendere atto insieme di questa soluzione logica»
(Schelling 1960, 107 e 134). La compiuta razionalizzazione pre
sente in questa "violenza diplomatizzata", che è però anche una
"diplomazia della violenza", sta nel fatto che gli attori non agi
scono più soltanto mediante ma per il calcolo politico che li orga
nizza: il quale finisce così per determinare non solo lo scopo
(Zweck) ma anche il fine (Ziel) dell'azione strategica.
Il meccanismo simbolico della dissuasione latente in questa
"solidarietà competitiva" potrebbe, già di per sé, spingere ad
avanzare l'ipotesi della rilevanza sistemica del concetto di agire
strategico: del suo potenziale carattere di strumento ermeneutico
in grado di dar conto del funzionamento dei sistemi complessi
contemporanei; delle peculiari interrelazioni che ivi si stabiliscono
tra gli "attori collettivi" (concetto che, in un'accezione rigorosa,
dovrebbe indicare non solo i movimenti ma anche i partiti e le
istituzioni); dell'intreccio inestricabile di aspetti cooperativi e
conflittuali, comunicativi e strumentali, da cui la loro azione è
costituita.
Abbiamo così considerato un tipico caso in cui la rilevanza
sistemica procede di pari passo con la rilevanza simbolica. E
abbiamo visto come questa combinazione sia tale da sottoporre a
tensione le pretese euristiche del paradigma utilitaristico.
Vedremo adesso come questo aspetto si evidenzi ulteriormente in
rapporto a un'altra questione squisitamente metapolitica: quella
dell'identità (e dell'identificazione).
4. L'altro lato dello specchio
Il paradigma neoutilitarista in politica che si autointerpreta
come «teoria economica della democrazia» implica, secondo la
classica definizione di Downs, che «se un osservatore teorico
conosce i fini di un attore, può predire le azioni che verranno
condotte per conseguirli nel modo seguente: 1) calcolando la via
più ragionevole che ha quell'attore per il conseguimento di quei
fini, e 2) assumendo che quella via verrà effettivamente scelta
perché quell'attore è razionale» (Downs 1957, 4). In un importante
saggio, Alessandro Pizzorno ha sottoposto questa teoria a una
critica serrata e rigorosa, che si rivela tanto più efficace, in quanto
si discosta dalle facili ritorsioni ideologiche (come, ad esempio,
quelle che si limitano a riprendere la critica marxiana alle
77 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
5. Società polimorfa, o della sovranità introvabile
partenza: basti solo pensare all'idea di conflitto come cessazione di
uno stato di crisi e incertezza soggettiva, in quanto stabilizzazione
delle aspettative attraverso l'individuazione del "nemico"). Mentre
gli ultimi sviluppi della ricerca di Freund tendono a portare alle
estreme conseguenze la distinzione tra "politico" e "statuale", nel
senso di una politique éclatée, vale a dire di una tendenziale
coincidenza tra conflitto diffuso e generalizzazione di
comportamenti improntati alla logica strategica dell'amico/nemico
(Freund 1983), la traiettoria d'indagine luhmanniana propone un
modello restrittivo della politica proprio nel momento in cui si
evolve teoricamente nel senso della recezione del tema della
instabilità e del conseguente distacco dal paradigma
dell'equilibrio come fondamento della stabilità dell'ordine: l'ordine
appare sempre più come prodotto di un'instabilità permanente.
Vediamo ora più da vicino come si presentano questi due corni
del discorso. È singolare, intanto, notare come un teorico dei
sistemi quale è Luhmann enfatizzi il carattere acentrato di una
società complessa che nel corso del suo processo di seco
larizzazione ha visto dissolversi tutte le tradizionali impalcature
gerarchiche, in modo non dissimile dai contemporanei sociologi
dei movimenti e dell'azione collettiva: la società odierna è «una
società senza vertice e senza centro. La società non è più
rappresentata nella società da un proprio, per così dire
genuinamente sociale, sottosistema. Nella storia dei sistemi
sociali del vecchio mondo era proprio questa la funzione della
nobiltà: essere le maiores partes. L'etica della nobiltà ne teneva
conto, e religione e politica [...] concorrevano al primato
dell'ordinamento sociale. La società era considerata come societas
civilis e come corpus Chris ti. Le condizioni strutturali di questo
rappresentarsi di tutto nel tutto risiedono, tuttavia, in una
differenziazione sistemica stratificata gerarchicamente e sono
scomparse con questa. La società moderna è un sistema senza
portavoce e senza rappresentanza interna. Proprio per questo i
suoi valori di base diventano ideologie. Invano si cerca all'interno
dei sistemi funzionali della società un a priori, e persino invano si
annuncia il tramonto della cultura e la crisi di legittimazione. Si
tratta di un fenomeno strutturalmente condizionato dalle
condizioni della complessità e dalla di volta in volta
funzionalmente specifica capacità di prestazione della moderna
società» (Luhmann 1981, 55). Una parte consistente della teoria
politica ottonovecentesca ha tentato, da versanti filosofici e
politici molto diversi da Hegel a Treitschke, da Leo Strauss a
Hannah Arendt , di opporsi ideologicamente a questa linea di
tendenza e di ripristinare lo Stato e la politica come centri di
controllo, eticamente responsabilizzati, della società. Contro
L'ENTROPIA DEL LEVIATANO 80
l'illusione coltivata dalla "filosofia della polis" e dalla tendenza
alla "riabilitazione della filosofia pratica" di un ritorno al
concetto greco, platonico e aristotelico, di politica, la questione di
fondo di un orientamento teoricopolitico che voglia essere al
passo con le trasformazioni in atto è «se si possa tollerare l'idea di
una società senza centro e proprio in ciò vedere le condizioni per
una politica capace di democrazia» (Luhmann 1981, 56).
L'altro lato del discorso di Luhmann investe l'oggetto, non solo
diagnostico ma anche propositivo, della forma politica adeguata a
risolvere i problemi posti dall'impasse in cui si è venuto a trovare
lo "Stato del benessere". La proposta di una politica intesa in
senso non più espansivo ma restrittivo dipende direttamente
dall'analisi storicosistemica del Welfare State. Lo Stato sociale
producendo un'inclusione della popolazione nel circolo dispositivo
della politica ha prodotto un'alterazione profonda del
meccanismo di differenziazione funzionale: non si può infatti
«centrare sulla politica una società funzionalmente differenziata
senza distruggerla» (Luhmann 1981, 56). Erede dell'ideologia del
connubio salvifico tra Stato e progresso, il Welfare ha identificato
la realizzazione della democrazia con «la fine della limitazione ai
compiti dello Stato». Ne è così derivato un processo di «inclusione
sempre crescente dei bisogni e degli interessi della popolazione
nell'ambito dei possibili temi politici». Ciò ha finito per far
convergere sulla politica tutta una serie di pretese sollecitate
dall'iniziativa dello Stato, ma che in una società complessa e
altamente differenziata non possono essere interamente
soddisfatte in sede politica. Lo "Stato del benessere" non è per
Luhmann in grado di far fronte al sovraccarico del sistema politico
determinato dall'inflazione delle pretese in quanto esso, a
differenza dello Stato di diritto, non è che un assemblaggio di
pratiche "intervenzioniste" che si sommano cumulativamente
senza alcun criterio di formalizzazione costituzionale. Proprio a
causa del suo carattere di Costituzione materiale (non
formalizzabile, del resto, senza produrre pericolose alterazioni del
sistema della differenziazione funzionale: "Stato sociale' non è
forse un ossimoro?) il Welfare State può operare solo attraverso
nix feedback positivo, mai attraverso un feedback negativo. In
altri termini: esso produce complessità senza al tempo stesso
essere in grado di predisporre filtri selettivi atti a "ridurla" o a
controllarla. La soluzione della crisi che così si viene a prospettare
può darsi, si diceva, per Luhmann solo se si rompe
definitivamente con la «concezione politica espansiva» che sta alla
base dell'ideologia «veteroeuropea» dello Statodelbenessere, per
la quale «la politica sarebbe l'ultimo destinatario di tutti i
problemi che restano irrisolti, sarebbe una sorta di vertice
81 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
elidono fra di loro, si sovrappongono e si trovano infine di fronte a
un detentore ultimo di potere che o decide in maniera arbitraria a
costo di schiacciare gli altri o rischia il soffocamento per ingorgo»
(NoraMine 1975, 125). Le difficoltà di usare il paradigma
sistemico di Luhmann per un rilancio delle idee di
Programmazione e di Riforma come ha tentato di fare, per altro
egregiamente, Giorgio Ruffolo (1980) risiedono nella semplice ma
fondamentale circostanza che quell'approccio non comporta
soltanto un "disincantamento" dell'idea di rivoluzione, ma della
stessa idea di riforma come figura sintetica del cambiamento.
Sotto questo profilo, la rigorosa delimitazione luhmanniana
dell'ambito del "politico" non si discosta molto dalle posizioni
sostenute dai teorici dei movimenti sociali: «un sistema sociale
non è mai sovrano. È situato in una società, dunque non in una
unità politica, ma in un sistema di produzione, di forze e rapporti
sociali [...]; lo Stato non appare più come il campo dei principi, dei
discorsi e del bene comune, e diviene soprattutto [...] il luogo di
negoziati tra forze sociali» (Touraine 1974, 102103).
Se una differenza va individuata tra l'odierno approccio
"movimentista" e quello "sistemico" (tra teoria dell'azione e teoria
del sistema) quali appaiono emblematicamente rappresentati
dalle attuali posizioni di Touraine e di Luhmann essa non è,
dunque, da ricercare nel concetto e nello spazio della politica. A
questo riguardo, anzi, i due approcci convergono perfettamente
nella descrizione di un sistema ormai incomprensibile «con le
vecchie teorie della tradizione politica orientate al dominio»: e che,
soprattutto, «non può essere più sufficientemente criticato tramite
esse» (Luhmann 1981, 77). La differenza risiede, piuttosto, in una
diversa «assunzione di valore», che si traduce nell'opposta
accentuazione dell'istituzione e del movimento: della "persistenza"
e del "cambiamento". Ma, in questo caso, l'opposizione finisce per
dar luogo a un gioco di specchi. Se, infatti, il discorso di Touraine
ad onta di tutte le avvertenze a non scollare la dinamica dei
movimenti dai sistemi di rapporti sociali che essi "producono"
tradisce pressoché costantemente una propensione a contrapporre
la "vita" alle "forme", il costituente al costituito, Gurvitch a
Parsons, il discorso di Luhmann appare, dal canto suo,
irriducibilmente restio a qualsivoglia tentativo di trattare i
problemi dell'"ambiente" se non definendoli ex negativo per
rapporto alle questioni che essi pongono al "sistema". La
specularità delle premesse si replica puntualmente anche sul
versante delle conseguenze di queste opposte "propensioni": da un
lato, la prospettiva teorica di Touraine si preclude la possibilità di
analizzare quelle "reiterabilità", quelle "coazioni a ripetere"
proprie dell'intersoggettività condensata, che nella loro qualità
83 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
di strutture simboliche, prima ancora che di istituzioni e ordina
menti coattivi\esteriori operano come componente costitutiva (e
non già come pera figura degenerativa) all'interno degli stessi
"movimenti"; dall'altro, la prospettiva di Luhmann si ostina
assiomaticamente ad escludere la possibilità di un'analisi "siste
mica" dei fattori di mutamento neutralizzati nella nozione di
ambiente, anche nel momento in cui è costretta a riconoscere che
«l'ambiente comincia a diventare fattore centrale del futuro»
(Luhmann 1981, 56).
L'esigenza di un'analisi degli sconvolgimenti intervenuti
nell'ultimo periodo nelle strutture simboliche della complessità
"ambientale" nasce dal fatto che, a partire dagli anni '70, hanno
imboccato una rotta di collisione due diversi ordini critici del
mutamento: la crisi generata dall'incremento cumulativo dei
processi di differenziazione funzionale e quella risultante dal fatto
che le politiche espansive di sviluppo e di modernizzazione sono
venute rapidamente approssimandosi a una soglia critica. Tra
questi due aspetti tende ora a stabilirsi lo stesso legame di
reciprocità che intercorre tra complessità e semplificazione.
Bloccata dal postulato apodittico del carattere meramente
quantitativoincrementale della complessità, la teoria sociologica
dei sistemi non tiene adeguatamente in conto che la complessità
ha sempre un valore relativo e, di conseguenza, esprime sempre
una certa "qualità" della relazione che essa instaura: non soltanto,
dunque, quello che per un verso si presenta come processo di
complessificazione dovrà necessariamente apparire per un altro
come processo di semplificazione (una complessità come valore
assoluto non ha, evidentemente, senso e coincide perfettamente
con la semplicità assoluta); ma entrambi questi aspetti devono
assumere una caratterizzazione qualitativa precisa. È, pertanto,
ipotizzabile che il processo "complessificante" della
differenziazione funzionale trovi oggi il suo risvolto
"semplificante" proprio nel fatto che esso favorisce (attraverso il
generalizzarsi dell'informazione e della comunicazione) il
costituirsi di una soglia di resistenza criticoculturale al modello e
alla prassi dominante dell'industrialismo.
Quest'aspetto comporta delle conseguenze decisive per
T'ambiente" e per le prospettive di un'analisi delle trasformazioni
intervenute nella sua struttura simbolica (che è poi quella che
aveva trovato la propria sistemazione weltanschaulich,
"ideologica", nel concetto di Modernità): analisi che come ho
tentato di argomentare in altra sede (Marramao 1983) dovrebbe
percorrere una duplice traiettoria, affrontando sia il tema dei
social limits to growth (Hirsch 1976), sia quello dell'inversione
intervenuta oggi nel rapporto tra «spazio di esperienza» e
L'ENTROPIA DEL LEVIATANO 84
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CAPITOLO SECONDO
POLITICA E COMPLESSITÀ: LO "STATO
POSTMODERNO" COME CATEGORIA E COME
PROBLEMA TEORICO
blemi di periodizzazione storica: non è un caso che la rinnovata
strategia dell'attenzione verso la cosiddetta "questione isti
tuzionale" sia emersa in concomitanza con una crescita e una
rapida moltiplicazione degli studi sulla storia dello Stato
moderno, la maggior parte dei quali tendono a partire da
approcci culturali, disciplinari e metodologici molto diversi a
delinearne la vicenda, dalla genesi e formazione all'attuale fase di
smantellamento del Welfare, come una parabola unitaria.
1. Crisi di legittimazione e teoria dello Stato: il problema
dell'"ingovernabilità "
formazioni sociali); sul piano dell'analisi storica, le epoche di crisi
o le fasi "critiche" del ciclo vengono studiate come periodi positivi
di produzione di nuovi assetti, e non soltanto come periodi di
declino, di blocco, oppure di dispersione. Per esprimerci in termini
insieme più tecnici e più sintetici: la crisi non è sempre e neces
sariamente la premessa o la causa delle innovazioni, ma ne è
spesso la conseguenza o addirittura l'effetto.
Il secondo interrogativo investe il problema relativo alla stessa
utilizzabilità del concetto di Stato, a fronte del processo di
crescente differenziazione e complessificazione del processo
politicoamministrativo: per alcune interpretazioni si tratta di
trasferire il baricentro del discorso ad un ambito relazionale più
ampio di quello tradizionalmente abbracciato dal termine Stato
(quale, ad esempio, la nozione di "sistema politico"); per altre si
tratta invece di afferrare il fenomeno del venir meno delle
configurazioni classiche, "sintetiche", dell'autorità politica come
indicatore di una tendenza storica, o addirittura epocale, di crisi
dello Stato moderno: la fase attuale rappresenterebbe così una
dinamica dissolutiva in cui il Leviatano compirebbe a ritroso nel
senso della destrutturazione le tappe della sua genesi e
costituzione (e in cui, pertanto, si troverebbero pericolosamente
"liberati" poteri e conflitti corporativi).
La simultanea rimessa in questione delle nozioni di crisi e di
Stato familiari, e in un certo senso consustanziali, alle due
maggiori tradizioni di pensiero politico e sociale dell'ultimo secolo
liberalismo e marxismo viene oggi assunta, dalle punte più
critiche e avvertite della ricerca contemporanea, come il logico
precipitato di una crisi dalle modalità singolari e inedite, che i
paradigmi più blasonati e consolidati provenienti da quelle
tradizioni riescono nel migliore dei casi a descrivere, ma non a
diagnosticare.
In un saggio giustamente famoso, Claus Offe analizzando le
diverse teorie sulla crisi e 1'"ingovernabilità" che affollano lo
scenario della discussione internazionale a partire dal 1974 ha
notato le sorprendenti "affinità strutturali" che ormai intercorrono
tra interpretazioni neoconservatrici e interpretazioni di sinistra
della fase attuale. Dal confronto si evidenzia non solo
la mutata collocazione sociopolitica delle visioni macrosocio
logiche e politologiche della crisi nel loro insieme, ma soprattutto
la tendenza della critica neoconservatrice ad assumere in proprio
quel concetto di "crisi strutturale" che un tempo era appannaggio
esclusivo dei marxisti1. Non si tratterebbe tanto di un caso di
1
Cfr. C. OFFE, «Unregierbarkeit». Zur Renaissance konservativer Krisentheorien, in J.
HABERMAS (a cura di), Stichworte zur «Geìstigen Situation der Zeit», voi. I: Natìon una
Republik, Frankfurt am Main 1979, p. 295 (trad. it. in C. DONOLOF. FICHERA, II
governo debole. Forine e limiti della razionalità politica, Bari 1981, p. 108).
2
Cfr. C. KOCHW.D. NARR, Kris e oder das falsche Prìnzip Hoffnung, in
«Leviathan», 1976, n. 4, pp. 291327.
3
Cfr. The Crisis of Democracy. Report on the Govemability of Democracies to the
Trilateral Commission, New York 1975 (trad. it. Milano 1977, p. 15).
91 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
usurpazione, ma piuttosto della logica conseguenza della tendenza
inerziale e stagnazionistica della cultura marxista, che come
avevano notato già nel 1976 C. Koch e W.D. Narr 2 avrebbe
routinizzato la ricerca (concettuale ed empirica) sulla crisi in una
scolastica amministrazione di apparati categoriali. Questa
introiezione dello statuto concettuale della teoria marxista della
crisi renderebbe, a giudizio di Offe, gli scenari elaborati dai
neoconservatori assai più resistenti alla "critica dell'ideologia; di
quanto non lo fossero, negli anni '20, le "false apocalissi" à la
Spengler. Dietro la facciata esteriore e più banalmente
pubblicistica di una coscienza borghese che sparge ovunque
considerazioni catastrofiche su se stessa (il "tramonto
dell'Occidente" era stato, d'altronde, evocato sia pure come
spauracchio dallo stesso Brzezinski nella nota introduttiva al
famoso rapporto della Commissione trilaterale 3) si fa avanti un
approccio che, lasciate ormai cadere come inutile zavorra le visioni
ottimisticoapologetiche in voga negli anni del boom postbellico,
muove dal riconoscimento del conflitto come dato permanente e
insopprimibile che altera gli equilibri delle società industriali
sviluppate, minacciandone costantemente i principi di
organizzazione e di ordine. Mentre dunque per Offe le teorie
marxiste della crisi continuano parassitariamente ad ammi
nistrare vecchi schemi concettuali che girano ormai a vuoto, a
migliaia di piedi di altitudine dalle reali dinamiche di trasfor
mazione che investono i sistemi industriali contemporanei, il
nuovo approccio emergente nel campo delle teorie "borghesi"
allarga gli orizzonti della ricerca dal terreno delle "contraddizioni
strutturali" e dei "rapporti di lavoro salariato" a quello
dell'intreccio, sempre più intricato, tra ambito socioeconomico e
ambito politicoistituzionale: intreccio che caratterizza, in misura
e forma diverse, tutte le odierne democrazie di massa. Il problema
della Unregierbarkeit, dell'ingovernabilità, si configura dunque in
questo approccio come crisi della forma democratica, e del
complesso delle istituzioni democratiche, in società caratterizzate
da un alto tasso di conflittualità diffusa: «Ciò che i marxisti
mettono erroneamente nel conto dell'economia capitalistica»,
scrive significativamente Samuel Huntington, «è in realtà un
risultato del processo politico democratico» 4. A queste analisi le
posizioni marxiste rispondono in modo per lo più difensivo,
sottolineando la logica degli interessi economici dominanti, da cui
dipenderebbero in ultima analisi paradossi della democrazia: ma
in tal modo esse finiscono per lasciare in ombra proprio quegli
aspetti più propriamente politici e istituzionali della crisi che
appaiono refrattari ad una "deviazione logica" dai meccanismi
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 92
economici della crisi, e la cui mancata comprensione appare come
una delle principali ragioni dello stallo teorico del marxismo
contemporaneo.
La propensione difensiva tradisce dunque una pericolosa ten
denza alla subalternità e all'arroccamento della teoria marxista
davanti a problemi che investono non solo singoli aspetti empirici,
ma la stessa forma teorica mutuata dalla tradizione (e,
segnatamente, il connubio che in essa veniva a instaurarsi tra
tematica della crisi e tematica dello Stato). Di qui una prima
avvertenza, di natura metodologica, proveniente dal saggio di
Offe: la critica non si rafforza se si esorcizzano le "ragioni" rac
chiuse nella posizione del contendente (anche, anzi soprattutto,
quando questo contendente si configura come avversario), ma solo
se si viene a capo del nuovo livello problematico da essa investito.
Stando a queste premesse, il teorema della governabilità viene
ad assumere, nell'analisi di Offe, una vera e propria configura
zione paradigmatica, riconducibile al comune denominatore
4
S.P. HUNTINGTON, The United States, in The Crisis of Democracy cit., p. 75.
93 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
della crisi da "sovraccarico". La tesi fondamentale enunciata dal
paradigma imputa l'organica impotenza dello Stato nelle demo
crazie occidentali a un'incapacità di fronteggiare la pressione delle
aspettative eccedenti (termini come "eccesso", "eccedenza", ecc.,
indicano il gap che, in condizioni di concorrenza partitica, si
produce tra volume delle esigenze e rigidità dell'offerta).
All'interno del paradigma si situa un ampio ventaglio di terapie,
ordinabile tuttavia secondo due varianti strategiche principali: a)
strategia di riduzione della domanda, tendente a diminuire il
sovraccarico del sistema politicoamministrativo; b ) strategie di
potenziamento delle capacità di prestazionecontrollo del sistema
politicoamministrativo. Queste varianti principali (corrispondenti
ai due lati diagnostici del paradigma: a seconda che si guardi
dalla prospettiva della domanda, o consenso, oppure da quella
dell'offerta, o decisione) comprendono a loro volta delle sottova
rianti terapeutiche formalizzabili (con una schematizzazione
ulteriore rispetto all'analisi di Offe) nel modo seguente:
5
C. OFFE, «Unregierbarkeìt», trad. it. cit., p. 122.
95 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
In secondo luogo, abbiamo invece un'incongruenza di livello più
profondo: inerente cioè al modo in cui il paradigma del
l'ingovernabilità è costruito. A giudizio di Offe, infatti, ad esso
manca sempre per restare nell'ambito della metafora medica il
momento dell'eziologia: la spiegazione delle cause da cui si origina
il fenomeno dell'ingovernabilità. Per questa stessa ragione il
paradigma non è in grado di produrre una vera e propria teoria:
«Nell'immagine conservatrice del mondo, la "crisi di ingo
vernabilità" è un incidente imprevisto, di fronte al quale devono
essere abbandonate le vie troppo complesse della modernizzazione
politica e occorre far riacquistare valore a principi d'ordine non
politico come la famiglia, la proprietà, la prestazione, la scienza» 6.
L'apparente persuasività delle strategie di decentramento e di
"destatalizzazione" e in particolare del loro sostegno dottrinale:
le teorie di Friedman sul ripristino dei meccanismi di mercato e
sulla soluzione della crisi politica "per alleggerimento", attraverso
la deviazione spoliticizzante delle domande dallo Stato al mercato
è dunque dovuta al fatto, rilevato con perspicacia da C.B.
Macpherson7, che essa cela abilmente, sotto un livello descrittivo
particolarmente agguerrito e probante, l'incongruenza di secondo
grado di cui si diceva: quella che Offe definisce come incapacità di
trascorrere dal piano descrittivo al piano diagnostico vero e
proprio. La carenza di spiegazione eziologica è dovuta alla
circostanza che al Weltbild, all'immagine del mondo, del
neoconservatorismo riesce inafferrabile «il decisivo "difetto di
costruzione" dei sistemi sociali che soffrono dei sintomi di
ingovernabilità»8. L'individuazione di questo "difetto" è vista da
Offe come la conditio sine qua non, oltre che «per prognosticare
l'insuccesso delle strategie di risanamento che si dispiegano sotto i
nostri occhi», per «replicare teoricamente (e non solo politica
mente) ai teorici dell'ingovernabilità e alle loro concezioni prag
matiche» 9. L'errore di costruzione, che rimane occultato al para
digma dell'ingovernabilità, è definito da Offe in termini che, in
6
Ivi, p. 123.
Cfr. C.B. MACPHERSON, The Life and Times of Liberal Democracy, Oxford 1977
7
(trad. it. Milano 1980).
8
C. OFFE, «Unregierbarkeit», trad. it. cit., p. 124.
9
Ibidem.
96 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
un certo senso, richiamano la già ricordata critica di Macpherson
(ma anche di altri, come ad esempio J. Goldthorpe) a Friedman:
la dottrina di quest ultimo riposa sull'ignoranza delle differenze
che distinguono il mercato del lavoro da tutti gli altri mercati.
Rispetto a queste critiche Offe opera addirittura un aggancio tra
struttura dicotomica (che egli enuncia, al pari di Habermas, in
termini di "contraddizione") del mercato del lavoro e eziologia
dell'ingovernabilità: le cause da cui si origina la patologia
dell'ingovernabilità vanno, in definitiva, ricercate nel carattere
particolare della merce forzalavoro e, conseguentemente, nella
struttura contraddittoria che attraverserebbe l'intero mercato del
lavoro e i tentativi di ristrutturarlo e governarlo.
In base a questo assunto, l'ingovernabilità viene intesa come
"caso" che s'inserisce coerentemente nel quadro di una «patologia
generale dei sistemi sociali», la quale tuttavia riceve una
declinazione affatto peculiare nelle società industriali capitali
stiche. Ogni sistema, per riprodursi, deve trovare una forma
strutturalmente e storicamente determinata di compatibilità tra
l'aspetto "oggettivo" delle strutture e dei nessi funzionali e quello
"soggettivo" dell'agire normativo e dotato di senso dei suoi mem
bri: tra regolarità che s'impongono indipendentemente o al di
sopra dei soggetti e regolenorme, di azione o di comportamento,
effettivamente seguite dagli individui. Questo dualismo si esprime
nella distinzione tra "integrazione sistemica" e "integrazione
sociale". La compatibilità tra le due forme di integrazione può
essere realizzata secondo due modalità che Offe stesso definisce,
weberianamente, "idealtipiche": o attraverso fasce protettive che
rendano le strutture e le leggi funzionali completamente
impermeabili alle perturbazioni provenienti dal contesto
ambientale dell'agire; oppure attraverso la possibilità che i
sistemi determinino le loro stesse condizioni strutturali di fun
zionamento mediante l'agire normativo dotato di senso. In
entrambi questi casi, e in modi antitetici, gli effetti della discre
panza tra i due tipi di integrazione sono ovviati, e la "governa
bilità" assicurata. "Ingovernabili" diventano invece i sistemi
sociali nei casi designati da un'altra alternativa "idealtipica":
quando attraverso le regole seguite dagli attori si violano le leggi
di funzionamento del sistema; oppure, quando l'agire dei soggetti
avviene in forme che impediscono o addirittura bloccano il
funzionamento delle leggi e dei vincoli strutturali.
Definito così il contesto generale della governabilità come
problema strutturale di tutte le forme sociali, la peculiarità della
società industriali capitalistiche viene individuata in una mec
canica paradossale: esse perseguono infatti contemporaneamente
97 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Le società capitalistiche si distinguono da tutte le altre non per il problema
della loro riproduzione: di rendere compatibile l'integrazione sociale e
l'integrazione sistemica, ma per il fatto che esse elaborano questo problema
fondamentale di tutte le società in modo da prendere contemporaneamente
due strade mutuamente esclusive: la differenziazione o privatizzazione della
produzione e nello stesso tempo la sua socializzazione e politicizzazione 10.
Per un verso, infatti, il tratto caratterizzante della formazione
sociale capitalistica è dato da quella «neutralizzazione politico
normativa della sfera della produzione» che trova il suo spazio di
rappresentazione nella formamercato: con questo sganciamento
della produzione materiale dai meccanismi politici
tradizionalmente vincolanti, gli "interessi", per usare una celebre
formula di Hirschman, subentrano alle "passioni". Per l'altro
verso, però, il fenomeno di secolarizzazione che questa
neutralizzazionespoliticizzazione dell'ambito economicopro
duttivo induce (relativizzazione, prima, erosione, poi, dei vincoli
normativi tradizionali costitutivi della genesi del capitalismo)
chiama in causa la necessità di nervature istituzionali capaci di
garantire non solo le condizioni generali di funzionamento del
mercato, ma anche poiché il meccanismo può funzionare solo
grazie e attraverso l'agire di coloro che vi sono inseriti: di quella
che Marx chiamava la «forzalavoro viva» il carattere di
"disciplinamento" della sfera produttiva. Negli sviluppi storici
della formazione sociale industrialecapitalistica la logica della
razionalizzazione e del disciplinamento funge da complemento e
insieme da contraltare alla logica della hidden hand. La
reintroduzione di elementi di istituzionalizzazione rappresenta
per la dinamica capitalistica una necessità vitale. Ma, al tempo
10
Ivi, p. 127.
stesso, anche il rischio di una violazione del codice genetico
originario e di una conseguente perdita di identità. La radice del
paradosso sta per Offe in quel particolare carattere della merce
forzalavoro (e in quel particolare connotato che contraddistingue
il mercato del lavoro da tutti gli altri mercati), per cui in essa
integrazione sistemica e integrazione sociale ("funzionare" e
"agire") si trovano inestricabilmente intrecciate: e ciò per la
semplice ma fondamentale ragione che l'inerenza alla forzalavoro
del momento della soggettività rappresenta un fattore ineludibile
98 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
11
Ibidem.
12
Ibidem.
99 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
dei loro membri con le condizioni di funzionamento sistemico a cui
essi sono soggetti» 13. Una volta venute meno le circostanze
favorevoli che avevano dato luogo al "periodo di prosperità", gli
effetti dell'ingovernabilità hanno cominciato a manifestarsi in
tutto il loro peso strutturale. Ma l'eziologia del fenomeno è
individuabile proprio in quella tendenza al neutralizzarsi reci
proco delle due logiche che rimanda a sua volta all'errore di
costruzione della formazione capitalistica: la coazione a ripetere la
simultaneità dei due modi idealtipici di integrazione.
Con questo schema che riprende nei punti sostanziali, ma
sviluppa e innova in aspetti non secondari, precedenti lavori suoi
e di Habermas sulle condizioni di legittimazione, di riproduzione e
di crisi dello Stato nel "tardo capitalismo" (Spàtkapitalismus)
Offe ripropone la necessità di una teoria della crisi dotata di uno
statuto teorico in senso forte, ma al tempo stesso capace di
colmare la discrepanza che i paradigmi liberali e marxisti della
crisi opposti negli intenti, ma singolarmente simmetrici nei
costrutti hanno accusato negli ultimi decenni rispetto alla
problematica istituzionale e di teoria politica in genere.
L'aggancio "eziologico" operato da Offe tra l'incapacità dei sistemi
capitalistici di realizzare il cosiddetto "obiettivo eufunzionale"
ossia il coordinamento tra le due strategie logicamente
escludentisi e lo schema "contraddittorio" inerente alla merce
forzalavoro ci indurrebbe a collocare anche questa sua ultima
proposta nel grande solco delle teorie marxiste della crisi, se non
altro per la persistenza della metodologia "essenzialistica", che
ricava la diagnosi dell'esito "critico" risalendo la catena delle
determinazioni causali. Tuttavia questa spiegazione viene ad
assumere una codificazione complessa, difficilmente riconducibile
al modello della deduzione monolineare. In sostanza, la posizione
di Offe si tiene in equilibrio tra due esigenze in sé eterogenee: per
un verso, non intende rinunciare all'idea di crisi come problema
teorico (nel senso classico, marxiano, della spiegazione causale a
partire da un nucleo dicotomico originario); per l'altro, questa
stessa "spiegazione" deve oggi tener conto di un numero di
variabili enormemente maggiore di quello ipotizzabile al tempo di
Marx, e dunque integrare nel proprio orizzonte categorie e
strumenti provenienti da altri codici o paradigmi: in specie
secondo la scelta di Offe, ma anche dell'ultimo Habermas 14 quelli
offerti dalle teoriche funzionaliste e sistemiche. In un passaggio
centrale del saggio sulla ingovernabilità Offe enuncia in termini
molto netti una direttrice di revisione della "teoria della crisi" che,
in condizioni evidentemente molto diverse, era stata tracciata in
campo marxista dalla celebre riflessione critica di Gramsci del
'26:
oggi sappiamo che le crisi economiche non favoriscono soltanto (sebbene
certo anche) motivi di una opposizione di principio, ma anche la disponibilità
all'adattamento e all'integrazione. Altrettanto problematico è sapere se una sia
3
Ibidem.
100 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
pur grave radicalizzazione delle richieste, l'aumento delle domande, una sia
pur drastica demotivazione possano davvero bloccare seriamente il
funzionamento del meccanismo di accumulazione15.
Non riescono a fornire una risposta esauriente a questo pro
blema né il modello concettuale delle teorie oggettivistiche (del
tipo: «difficoltà di valorizzazione che si acutizzano sempre di più»),
né quello delle teorie soggettivistiche della crisi (del tipo:
«coscienza critica del sistema che si diffonde sempre di più»). Né,
ancora, quello che potrebbe risultare da una loro interazione o
"sintesi": poiché essi danno ragione di questo o quell'aspetto, di
questa o quella congiuntura storica, ma non della «struttura del
sistema capitalistico nel suo insieme» 16. Per il modo monocausale
in cui sono costruiti, i paradigmi soggiacenti alle teorie
oggettivistiche e soggettivistiche della crisi non sono in grado di
rendere «adeguatamente conto della elasticità dei vari
sottosistemi» 17.
Nel momento stesso in cui ripropone la necessità dell'adozione
integrativa dell'ottica sistemica (segnalata dal ricorso costante
nel lavoro di Offe, ancor più accentuatamente che in quello di
Habermas al codice della "differenziazione funzionale" e della
complessità come relazionalità e interazione tra i
14
Ci riferiamo in particolare al saggio introduttivo al già citato volume col
lettaneo Stichworte zur «Geistigen Situation der Zeit» e all'opera che pare
costituire fino ad oggi la summa delle ricerche havermasiane Theorie des
kommunikativen Handelns, 2 voli., Frankfurt am Main 1981.
15
C. OFFE, «Unregierbarkeit», trad. it. cit., pp. 12425.
16
Ivi, p. 125.
3
Ibidem.
101 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
18
Frankfurt am Main 1972.
19
Frankfurt am Main 1973.
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO"
102
2. Le categorie del politico nella tradizione postmarxista: cronaca
di un naufragio
Abbiamo visto come nel saggio sulla ingovernabilità Offe pur
continuando a sostenere la necessità di una teoria della crisi nel
senso della individuazione del meccanismo causale, di
quell'eziologia di cui i teoremi dell'ingovernabilità sarebbero
assolutamente carenti consideri improponibile, almeno allo stato
attuale della ricerca, la pretesa, da parte di tutte le concezioni che
si contendono il campo della discussione, di produrre un modello
unico e complessivo di spiegazione della crisi. Resta da chiedersi
se la sua proposta di integrazione tra codici diversi fondata su
un'ampia base di riflessione sociologicofilosofica da Habermas in
Theorie des kommunikativen Handelns rappresenti una misura
transitoria ("in attesa" di una nuova, più comprensiva sintesi)
oppure la ratifica definitiva di uno stato di necessità: un invito ad
accogliere, facendoli mutuamente interagire, più punti di vista
come logica conseguenza della dissoluzione in questo senso
inevitabile, e dunque liberatoria di tutti i "grandi sistemi", di
tutti i modelli macrosociologici di comprensione della dinamica
sociale contemporanea.
A giudicare dagli ultimi lavori, Offe appare propenso a far
cadere il programma complessivo di "terza via" teorica enunciato
nel suo libro del 1972. Nella denominazione forse fin troppo
schematica di "terza via" assumiamo la problematica allora deli
mitata da Offe grazie a una doppia demarcazione: da un lato,
rispetto al dibattito marxista tedesco sulla "deduzione" {Ablei
tung) della formaStato dall'apparato concettuale di una critica
dell'economia politica finalmente restituita (dopo decenni di
riduzioni e deformazioni) al suo statuto originario; dall'altro,
rispetto al metodo della comparative politics, che frantuma il
concetto di capitalismo in una moltitudine (sostanzialmente
irrelata) di specificità nazionali. Della prima unilateralità
improntata, secondo Offe, a un oggettivismo categoriale che si
sottrae a ogni verifica storica o empirica in genere sarebbero
responsabili tutte quelle posizioni che ancorano la propria critica
a un «concetto di tipo deduttivo» della crisi e della «classe
rivoluzionaria»: un tale metodo, che si colloca solo apparente
mente nel solco deU'"ortodossia" marxista, eleva in realtà a pre
messa teorica ciò che andrebbe prima dimostrato, vale a dire il
carattere classista degli apparati del dominio politico e del
principio di organizzazione che li regge; e assegnando un ruolo
103 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
costituzione nonpolitica del potere sociale di fatto (della Macht o
"potenza") mediante l'approvazione privata del plusvalore non si è
mai riprodotta con mezzi capitalistici, ma ha richiesto funzioni
statali di integrazione degli "automatismi" di mercato, a loro volta
non subordinate, ma "relativamente" autonomizzate dalla logica
di mercato stessa. In breve la Macht, la potenza o potere di fatto,
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO"
104
a) Il primo paradigma afferma in modo non necessariamente
rigido o schematico il carattere in ultima istanza strumentale
dei rapporti intercorrenti tra apparato di Stato e classi (o frazioni
di classe) socioeconomicamente dominanti. Per "strumentalità"
non si intende qui il rapporto mezzoscopo (poiché sotto il profilo
di un tale rapporto a meno di non abbracciare una posizione
"statolatra" lo Stato non può che essere uno strumento, mai un
"fine in sé"). Si vuole piuttosto designare la dipendenza che viene
ad istituirsi tra sfera politica e classe o gruppo dominante
nell'ambito delle relazioni economicosociali. Su questo paradigma
si fondano tutte le strategie più o meno esplicitamente
statalistiche di transizione al socialismo: emblematica, sotto
questo profilo, la Stamokaptheorie (o teoria del capitalismo
monopolistico di Stato), che riattualizza l'assunto centrale della
concezione dello Statostrumento sotto la forma della «fusione di
Stato e monopoli». Nei teorici dello
Stamokap, la contraddizione tende a configurarsi come potenziale
divaricazione antagonistica tra le "funzioni pubbliche" dello Stato
e la sua strumentalizzazione a fini "privati" o "corporativi" da
parte dei «gruppi monopolistici più potenti»22.
b ) Il secondo paradigma muove invece dalla celebre definizione
engelsiana dello Stato come «capitalista collettivo ideale». Ma per
investirla di una radicale revisione storicostrutturale, espressa
dalla sostituzione dell'aggettivo ideale con l'aggettivo reale.
105 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Entrambe queste concezioni riproducono il teorema economico
della crisi in una forma impura, revisionata e talora anche
eclettica. La stessa teoria del capitalismo monopolistico di Stato
prende avvio dall'assunto che il contesto originario della ripro
duzione capitalistica è stato profondamente alterato dall'inter
ventismo statale: la continuità della produzione di plusvalore
verrebbe ormai assicurata "distaccando" sia pure parzialmente
dal meccanismo di mercato le decisioni sugli investimenti. La
reductio ad unum, operata dai teorici del «cervello capitalistico
collettivo» mediante una sostanzializzazionepersonificazione del
concetto di Gesamtkapitalist, avviene nei teorici dello Stamokap
22
Sulle teorie dello Stamokap, cfr. E. ALTVATER, La teoria del capitalismo
monopolistico di Stato e le nuove forme di socializzazione capitalistica, in Storia del
marxismoEinaudi, IV, Torino 1982, pp. 649699.
Nei confronti di questa prospettiva teorica, Habermas solleva
due obiezioni: 1) in primo luogo, non si dà la possibilità di
«fondare empiricamente l'ipotesi che l'apparato statale, quali che
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO"
106
siano gli interessi che rappresenta, sia in condizione di pianificare
attivamente, di sviluppare e attuare una strategia economica
centralizzata»; 2) in secondo luogo, è altrettanto impossibile
«dimostrare empiricamente l'ipotesi che lo Stato operi come
agente dei monopolisti unificati»23. Così come i teoremi dello
"Stato autoritario", dello "Statopiano", ecc., misconoscono al pari
delle teorie della tecnocrazia i limiti di razionalità della
pianificazione amministrativa statale di fronte alla molteplicità
degli interessi parziali organizzati, allo stesso modo la concezione
dello Stamokap sopravvaluta al pari delle teorie elitiste
«l'importanza dei contatti personali e delle norme dirette per
l'azione»24.
Habermas sembra dunque propenso ad accogliere come del
resto anche Offe la proposta di sostituzione del criterio della
causalità/dipendenza con quello della funzionalità avanzata dal
teorema dell'autonomia relativa. Anche a quest'ultimo viene
tuttavia rivolta, per quanto implicitamente, una obiezione
decisiva: la mancata periodizzazione delle diverse fasi di sviluppo
del sistema capitalistico, con il conseguente rischio di stilizzare lo
Stato bonapartista come una sorta di invariante del "politico"
borghese.
È importante sottolineare il valore che viene qui ad assumere
la periodizzazione: periodizzare significa, infatti, cogliere i
mutamenti di forma della crisi e del valore posizionale del
"politico" nell'evoluzione del modo di produzione capitalistico.
L'emergere del problema dello Stato come problema cruciale è
comprensibile solo da una prospettiva teorica capace di fare
Passeremo adesso ad analizzare in primo luogo la proposta di
rifondazione metodologica, per poi affrontare la periodizzazione
(e, dunque, la teoria dell'evoluzione) ad essa sottesa. Faremo
quindi emergere il complesso rapporto di continuità/rottura che
questo programma "ricostruttivo" intrattiene con le tematiche
originarie della Scuola di Francoforte.
3. Struttura, evoluzione e mutamento di forma: il "Weber
dimezzato" della Scuola di Francoforte
Si è visto precedentemente come la proposta teorica avanzata
da Offe nel libro del '72 si tenga in un difficile equilibrio tra due
poli: da un lato, infatti, egli dichiara che «il ricorso all'analisi
marxiana del capitalismo contemporaneo non è in grado di
spiegare o anche solo di ordinare teoricamente tutti i fenomeno
delle formazioni "tardocapitalistiche"»; dall'altro aggiunge però
che «tanto meno le scienze sociali stabilite, in particolare le
scienze politiche, sono oggi in grado di porre la questione
fondamentale, affrontata da Marx, delle leggi di movimento del
capitale e della struttura sociale determinata del suo movimento,
e ancor meno di trovare una risposta a tali problemi». La
definizione teorica dei «sistemi sociali "occidentali" altamente
industrializzati» chiama dunque in causa tre ordini di problemi:
1) in base a quali criteri e dati fattuali essi possano definirsi
ancora capitalistici; 2) il significato del termine "tardocapitalismo"
{Spdtkapitalismus)] 3) la motivazione del rifiuto di tipologie
generali o categorie idealtipiche diffuse soprattutto nell'area
anglosassone del tipo "società postindustriale", "società post
moderna", "società tecnotronica", e simili25.
Criterio di individuazione del capitalismo non è quello che Offe
un po' sbrigativamente definisce l'indicatore "statico" della
proprietà, ma il «modo di disposizione concreto e tipico» 26: modo
che nei sistemi sociali odierni include anche il programma
istituzionalizzato concernente le opzioni strategiche dominanti. Il
concetto non rappresenta pertanto l'indice generale descrittivo di
una data struttura sociale, bensì la logica endogena di un
determinato modello di sviluppo. Questa precisazione pone in
rilievo il fatto che alla base dell'analisi di Offe opera una specifica
interpretazione del trend caratterizzante la dinamica strutturale
della formazione sociale capitalistica, intitolata alla tesi del
»mutamento di funzione dell'imprenditore». La lettura della logica
25
Cfr. C. OFFE, Spàtkapitalismus, trad. it. cit, p. 18.
26
Ibidem.
27
Sul concetto di "capitalismo organizzato" in Hilferding si veda H. A. WINK
LER, Eirdeitende Bemerkungen zu Hilferdings Theorie des Organisierten Kapita
lismus, in AA.W., Organisierter Kapitalismus, Gòttingen 1974, pp. 918.
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO"
108
Il nostro approccio individua la contraddizione fondamentale delle società
capitalistiche nel contrasto tra l'estensione inconsapevole (al di là delle
intenzioni, solo di fatto) dei rapporti di interdipendenza all'interno del processo
di socializzazione da un lato, e, dall'altro, la mancanza di una organizzazione e
di una pianificazione consapevoli di questo processo36.
33
Ivi, p. 25.
34
Ivi, p. 24.
35
Ibidem.
36
Ivi, p. 21.
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO"
110
Pur ritenendo filologicamente e teoricamente corretta la deli
mitazione epistemologica del concetto di "capitalismo" modellato
sulla critica marxiana dalle accezioni fornitene dai "classici" come
dai "neoclassici" (né l'"uso" dei mezzi di produzione, né il
predominio e la libertà d'azione dell'imprenditore singolo, né la
forma del "mercato anonimo" costituiscono infatti criteri autonomi
per definire in modo adeguato la formazione sociale capitalistica),
Offe rileva la scarsa produttività per uno sviluppo originale e
creativo del complesso teorico ereditato da Marx di «definire il
capitalismo unicamente sulla base della logica di movimento o
della "totalità del processo"» 38. L'apparato categoriale è, detto in
breve, condannato alla sterilità se non è in grado di darsi
strutture analiticooperative: di produrre, cioè, concrete ricerche
sociali. Come è fondamentale alla definizione dello status
epistemologico della teoria marxiana la distinzione tra logico e
storico, altrettanto fondamentale è per una "teoria del
capitalismo" realizzare l'intreccio tra categorie logiche e categorie
sociologiche. È una tale distinzione a sorreggere la critica che Offe
rivolge alle interpretazioni strutturalistiche di Marx:
l'identificazione o il tacito scambio che esse (Offe si riferisce
segnatamente alla posizione di Godelier) instaurano tra piano
logico e piano sociologico fa sì che il problema della contraddizione
venga ridotto a problema di "compatibilità funzionale" fra
strutture, senza che si riesca mai ad individuare i portatori e gli
agenti dell'antagonismo sociale. Una barocca combinatoria viene
così a surrogare il faticoso lavoro di scomposizione analitica e di
ricerca storicosociologica, volto a illuminare le specifiche forme di
costituzione degli attori (classi e gruppi sociali) e gli specifici, e
37
Ibidem.
38
Ivi, p. 26.
111 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
L'esito di questa critica l'impossibilità di dedurre dalle leggi
dinamiche evolutive (Bewegungsgesetze) il giudizio su una situa
zione fattuale o la prognosi su uno stato futuro sottende la
valutazione fornita da Offe dei diversi approcci marxisti al pro
blema dello Stato. Il difficile equilibrio della posizione di Offe si
manifesta con evidenza tutta particolare proprio su questo
terreno. Le impostazioni marxiste si ritrovano sotto un minimo
39
Ivi, p. 28.
comun denominatore: l'assunzione del carattere di classe dello
Stato. Questa assunzione, secondo Offe, non deve essere rifiutata
ma fortemente problematizzata. Pur rigettando la tesi dello Stato
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO"
112
esterno, traducendo il problema della logica specifica del potere
politico nel concetto meccanico di influenza. Nessuna delle due
teorie s'interroga sul tipo e sul grado di razionalità inerente allo
Stato in quanto artefatto storico della borghesia capitalistica.
Limitandosi a studiare «le condizioni esterne che attribuiscono ai
113 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Se questo è il livello critico del discorso, ancora più complesso
si presenta il versante propositivo delle interpretazioni di Haber
mas e Offe. Scartate le soluzioni di tipo funzionalstrutturalista
inclini a fare del bonapartismo una sorta di invariante paradig
matica dello Stato borghese (è una linea variamente rappresen
tata all'intèrno di ambedue le tradizioni storiche del marxismo,
che trova un fecondo campo di applicazione nell'analisi del fasci
smo basti fare i nomi di Thalheimer, Stawar, Bauer, o degli
stessi Gramsci e Trockij ma che assume tuttavia la curvatura
teorica funzionalstrutturale, attraverso una consapevole rece
zione di Parsons, solo con l'althusserismo "riadattato" di Nicos
Poulantzas43), la sola possibile definizione dello Stato capitalistico
è quella che muove dalla dinamica della forma di merce e dalle
sue trasformazioni storicosistematiche. L'intreccio tra i due lati
storico e sistematico è fondamentale per comprendere il senso
42
C. OFFE, KLassenherrschaft und politisches System, trad. it. cit., p. 126.
43
Si veda come esempio la conclusione radicale cui Nicos Poulantzas per
viene nel saggio The Problem of the Capitalist State, in «New Left Review»,
1969, n. 58, p. 73: «it can be said that the capitalist State best serves the inte
rests of the capitalist class only when the members of this class do not parti
cipate directly in the State apparatus, that is to say when ruling class is not
the politically goveming class». E interessante notare seguendo un acuto
rilievo di G. Therborn (What Does the Ruling Class Do When it Rules?, Lon
don 1978 [trad. it. Roma 1981, p. 173]) come Offe sostenga una posizione
analoga a quella di Poulantzas (rilevabile soprattutto in Pouvoir politique et
classes sociales e in Fascisme et dictature) relativamente alla questione dell'inte
resse di classe (e come, pertanto, si imbatta nella stessa difficoltà di conferire
a questo concetto un preciso significato empirico).
della proposta di Habermas e Offe di un passaggio dall'economia
politica alla sociologia (o meglio, a una scienza sociale e politica,
intesa in senso criticomaterialistico). L'incontro tra le
costellazioni categoriali del marxismo e delle Sozialwissenschaf
ten avviene sì come del resto in altre prospettive neomarxiste
contemporanee in ossequio alla convenienzaproduttività del
confronto tra le due rilevanti tradizioni di critica del paradigma
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO"
114
Non è qui il caso di ricordare i fili conduttori dell'analisi della
società di massa svolte dalla Scuola di Francoforte, e tantomeno
di ribadirne la portata innovativa nell'ambito della cultura di
sinistra (marxista e non): soprattutto per la straordinaria capa
cità che quelle analisi ebbero di avvalersi di una spregiudicata e
al contempo rigorosa strumentazione interdisciplinare. Tuttavia,
ad onta di questa apertura culturale e disciplinare, la piattaforma
teorica che caratterizza la linea maggioritaria della Teoria critica
(quale si viene a costituire nella ricerca e nel dibattito degli anni
'30 e '40) è improntata ad un'ortodossia marxista che potremmo
definire "congelata": mantenuta come in ibernazione. Se
prendiamo ad esempio i modelli di analisi delineati in Autoritàrer
Staat di Max Horkheimer o in State Capitalism di Friedrich
Pollock, si nota come in essi sia visibile malgrado l'indiscutibile
esigenza di integrare il quadro concettuale marxista con quelli che
oggi si chiamerebbero "paradigmi concorrenti", allo scopo di
adeguarlo alla morfologia del "nuovo ordine" un singolare
aspetto aporetico: l'essenzialismo marxiano e la sua dottrina delle
'leggi di natura sociali" non vengono mai messi veramente in
discussione (lo stesso Adorno, del resto, in pieni anni '60,
dichiarerà ancora valide le teorie marxiane del valore e delle
classi44). La controtendenza dello
44
Cfr. TH.W. ADORNO, È superato Marx?, in AA.W., Marx vivo, Milano 1969, pp.
1935. Per questa interpretazione della Scuola di Francoforte mi permetto di
rinviare a G. MARRAMAO, Il politico e le trasformazioni, Bari 1979, pp. 36 ss., 193 ss.
45
M. HORKHEIMER, Autoritàter Staat (1942), in ID., Gesellschaft im Ubergang,
Frankfurt am Main 1972 (trad. it. Torino 1979, p. 9)
115 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Sotto questo profilo, la Kritische Theorie con la sua immagine
della transizione al nuovo ordine autoritario vista sotto il segno
non già di una crescita, ma piuttosto di un decremento di
complessità partecipa della stessa temperie culturale di quelle
analisi (alcune di provenienza socialdemocratica) che da
Mannheim a Lederer e (con sensibili differenze) Hannah Arendt
connettono il fenomeno del totalitarismo alla disgregazione del
46
Cfr. K. MANNHEIM, Ideologie und Utopie, Bonn 1929 (trad. it. Bologna
1957); ID., Mensch und Gesellschaft im Zeitalterdes Umhaus, Leiden 1935 (trad.
it. Milano 1959); E. LEDERER, State of the Masses, New York 1940; H. ARENDT,
The Origins of Totalitarianism, New York 1951 (trad. it. Milano 1967). Per una
lucida e puntuale rassegna dei dibattiti su totalitarismo e società di massa, si
veda E. SACCOMANI, Le interpretazioni sociologiche del fascismo, Torino 1977,
pp. 37 ss.
47
L. FEBVRE, De l'Etat historique à l'Etat vivant, in Encyclopédie Frangaise,
tomo X, Paris 1935, pp. 115 (trad. it. in R. RUFFILLI [a cura di], Crisi dello
Stato e storiografia contemporanea, Bologna 1979). Si comprende, così, Tinte
resse che poteva rivestire per Febvre l'analisi del processo costitutivo della
politica e della scienza moderna, condotta nel 1934 da F. Borkenau (su cui
vedasi ultra, Parte Seconda, cap. I).
48
Cfr. K. SONTHEIMER, Der Tatkreis, in AA.W., Von Weimar zu Hitler 1930
1933, a cura di G. Jasper, KòlnBerlin 1968.
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO"
116
Tra queste analisi e quelle della Scuola di Francoforte, nono
stante numerose analogie esteriori, intercorre tuttavia una dif
ferenza fondamentale. Nella linea HorkheimerPollockAdorno,
l'affermarsi di uno schema unidimensionale, pur presentandosi
come una sottolineatura dell'autonomia dello Stato, rappresenta
in realtà il derivato di una cogente logica di dominio che
scaturisce dalla "sostanza" stessa del rapporto sociale fondato
sulla forma di merce. Nelle analisi del Tatkreis e di SohnRethel si
insiste invece con accenti e esiti molto diversi sui processi
49
La principale opera di SohnRethel è Geistige und kórperliche Arbeit,
Frankfurt am Main 1970 [trad. it. condotta sulla seconda edizione, riveduta
e ampliata, del 1972 Milano 1977]. Ma fondamentale è anche, soprattutto
per un'applicazione storica della sua tesi, il libro sul nazismo: Okonomie und
KLassenstruktur des deutschen Faschismus, Frankfurt am Main 1973 (trad. it.
Bari 1978).
50
F. FRIED, La fine del capitalismo, Milano 1932, p. 211. La tesi Mediana
dell'estinzione tecnologica del capitalismo industri alista che s'inserisce nella
temperie della "Konservative Revolution", ossia in un ambito tematico già in
parte perimetrato da Sombart, Simmel e dallo Spengler di Preussentum und
Sozicdismus fornisce gli incunaboli di quelle tesi del postindustriale che diver
ranno celebri nel dopoguerra attraverso i lavori di Daniel Bell e Alain Tou
raine. Che un'anticipazione così lucida e precoce di queste tesi a noi vicine si
sia generata negli ambienti della cultura di destra è una circostanza su cui
varrebbe la pena di riflettere.
51
Cfr. ibidem, pp. 20913; A. SOHNRETHEL, Okonomie und KLassenstruktur
des deutschen Faschismus, trad. it. cit., pp. 41 ss.
118 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
che mettono irreversibilmente in crisi il valore di scambio come
funzione egemone, come funzione di «sintesi sociale»52.
Questo aspetto ci avvicina maggiormente all'esigenza teorica
avanzata da Habermas, cui va assegnato il merito di avere
infranto l'ortodossia congelata della tradizione francofortese,
rimettendo in primis in discussione la validità della teoria del
valore. Al di là di ogni meccanica combinatoria di tendenza
fondamentale e controtendenze, la storia del capitalismo va letta
come una dinamica di trasformazione specifica dei rapporti di
produzione (e, con essi, del grado di razionalità interna che ne
governa l'organizzazione e riproduzione). La «trasformazione dei
rapporti di produzione»53 nel tardo capitalismo contemporaneo è
caratterizzabile secondo tre aspetti principali: 1) una forma
modificata della produzione di plusvalore; 2) una struttura
salariale parapolitica che esprime un compromesso di classe; 3) il
crescente fabbisogno di legittimazione del sistema politico (che fa
entrare in gioco rivendicazioni orientate a valori d'uso).
Contestualmente, l'analisi dello Stato nel capitalismo organizzato
non può essere per Habermas che un'analisi di mutamenti di
forma. A definire la morfologia contemporanea della crisi non
basta più come nella fase protocapitalistica l'organizzazione di
un piano di adeguazione tra livello dinamicoanalitico e livello
staticodescrittivo, ma occorre piuttosto individuare il ruolo
specifico cui assolve il sistema politico e le modalità in cui esso
concorre a determinare una dimensione del conflitto sociale e un
funzionamento degli stessi meccanismi economici diversi da quelli
che si manifestavano nella fase liberoconcorrenziale. La
trasformazione dei rapporti di produzione induce, in ultima
analisi, una dislocazione del baricentro della crisi. Chiare, a
questo proposito, le formulazioni rinvenibili in
Legitimationsprobleme im Spdtkapitalismus: «Nel corso dello
sviluppo capitalistico il sistema politico ha spostato le sue
frontiere facendole avanzare non solo nel sistema economico, ma
anche in quello socioculturale»54. L'effetto di questo spostamento
sta nel fatto che «la crisi di razionalità ... prende il posto della crisi
economica», e che, di conseguenza, «la logica dei problemi di
Cfr. A. SOHNRETHEL, Geistige und kòrperliche Arbeit, trad. it. cit., pp. 132
52
62.
119 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
54
Ivi, p. 53.
55
Ibidem.
56
Ibidem.
62.
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 120
dica e rapporti di produzione. Mentre nel sistema feudale dove
vigeva la forma del diritto diseguale, che rispecchiava fedelmente
le diseguaglianze reali i rapporti di produzione avevano una
rilevanza immediatamente politica, nel capitalismo essi vengono
invece spoliticizzati, dal momento che il potere non viene più
esercitato nella forma della dipendenza politica, ma attraverso la
mediazione del calore di scambio e della sua immagine speculare,
la forma del "diritto eguale": «Nella società borghese liberale la
legittimazione del dominio è dedotta dalla legittimazione del
mercato, ossia dalla "giustizia" dello scambio di equivalenti
presente nel rapporto di scambio»57.
Mediante questa argomentazione, Habermas legittima sto
ricamente anche la deduzione marxiana della teoria della crisi e
della critica della politica dalla specularità di forma giuridica e
forma di merce: Marx si legge infatti in Technik und Wis
senschaft ah Ideologie «ha compiuto la critica dell'ideologia
borghese sotto forma di economia politica: la sua teoria del lavoro
come fonte del valore distrusse l'apparenza della libertà, con la
quale l'istituto giuridico del libero contratto di lavoro aveva reso
irriconoscibile il rapporto di potere sociale sottostante al rapporto
di lavoro salariato»58. E, in Erkenntnis und Interesse, Habermas
ritorna su questo tema con chiarezza ancora maggiore:
Marx analizza una forma di società che istituzionalizza l'antagonismo delle
classi non più nella forma di una dipendenza immediatamente politica e di
potere sociale, ma nell'istituto del libero contratto di lavoro che imprime la
forma di merce all'attività produttiva. Questa forma di merce è un'apparenza
oggettiva poiché rende irriconoscibile ad entrambe le parti, ai capitalisti come
ai salariati, l'oggetto del loro conflitto e restringe la loro comunicazione. La
forma di merce del lavoro è ideologia poiché allo stesso tempo nasconde ed
esprime l'oppressione di un rapporto dialogico privo di costri
59
zione .
57
J. HABERMAS, Erkenntnis und Interesse, Frankfurt arn Main 1968 (trad.
it. Bari 1970, p. 174).
58
ID., Technik und Wissensschaft als Ideologie, Frankfurt am Main 1968
(trad. it. in ID., Teoria e prassi nella società tecnologica, a cura di Carlo Donolo,
Bari 1969, p. 213).
59
ID., Erkenntnis und Interesse, trad. it. cit., p. 63.
Con la crisi degli automatismi di mercato s'incrina irrever
sibilmente la legittimazione del potere borghese mediata dalla
60
Cfr. ID., Bedingungen filr cine Revolutionierung spàtkapitalistischer Gesel
Ischaftssysterne (1968), in AA.W., Marx und die Revolution, Frankfurt am Main
1970, pp. 3021.
61
Cfr. A. SOHNRETHEL, Okonomie und KLassenstruktur des deutschen Faschi
smus, trad. it. cit., pp. 147 ss. Può essere forse di un certo interesse ricordare
che SohnRethel si era laureato nel 1928 a Heidelberg con Emil Lederer, discu
tendo una tesi di dottorato di "epistemologia economica" che si ricollegava
direttamente ai lavori di Schumpeter. La dissertazione venne poi pubblicata
con il titolo Von der Analytik des Wirtschaftens zur Theorie der Volkswirtschaft,
Emsdetten 1936.
121 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
interessi di questo o quel gruppo socioeconomico, ma piuttosto nel
porsi come tutore e garante degli "interessi comuni" di tutti i
membri di una «società di classe capitalistica» 63. La funzione cui è
chiamata ad assolvere ogni strategia statale caratterizzata in
senso capitalistico è di creare le condizioni perché ogni "cittadino"
sia immesso nella relazione di scambio.
versalizzare la forma di merce, come unica condizione di stabilità
delle due componenti fondamentali (o strutture parziali,
Teilstrukturen) della società capitalistica: la "politica" e ^eco
nomia".
Il passaggio allo Stato "intervenzionista" è dunque reso
necessario dalla «perdurante tendenza, che emerge apertamente
sul piano storico e su quello empirico della dinamica dello svi
luppo capitalistico, alla paralisi della "commerciabilità" del valore
e dunque alla interruzione della relazione di scambio» 64.
Giustamente Offe aveva sottolineato a questo proposito come i
teoremi elaborati dal "neomarxismo" (ossia dal marxismo "revi
sionato", fin dai primi decenni del secolo, dalla lezione del
neokantismo, di Mach e dei neoclassici, di cui si tratterà nel
prossimo capitolo) nel tentativo di fornire una spiegazione con
vincente della perdita di funzionalità del meccanismo equili
bratore spontaneo fossero stati vari e controversi. È una disparità
di opzioni e di approcci che si riproduce, quasi insensibilmente,
anche nel marxismo del secondo dopoguerra. A con
Cfr. ivi, pp. 37 ss. Ivi,
p. 39.
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 124
ferma dell'osservazione di Offe si potrebbe citare, da parte nostra,
per un verso la tesi sostenuta da Baran e Sweezy in Monopoly
Capital 65, imperniata sull'assunto dell'inadeguatezza del mercato
a recepire il flusso dei profitti provocato dalla concentrazione
monopolitistica; per l'altro quella di Alfred SohnRethel, il quale
muovendo da un'analisi del processo di razionalizzazione e
massificazione della produzione sorprendentemente affine, come
abbiamo visto, a quella di Ferdinand Fried e del Tatkreis spiega
la crisi della funzione riequilibratrice dello scambio con la
crescente differenziazione tra le varie branche (spesso interne alla
stessa grande impresa razionalizzata) da cui si origina a causa
dell'incremento della quota di capitale fisso investito nella
produzione una sempre più accentuata specializzazione e una
sempre minore flessibilità e capacità di adattamento in altri
settori.
Qualunque sia l'interpretazione che s'intende abbracciare (e al
riguardo né Habermas né Offe entrano granché nel merito), resta
incontrovertibile un dato di fatto: la grande crisi ha fatto crollare
anche "in campo borghese" la tradizionale fiducia nell'efficacia
dell'autoregolazione spontanea del mercato. Al punto che neppure
i liberali più ortodossi sono ormai disposti a dar credito alle
aspettative di reintegrazione automatica delle unità di valore
espulse.
Il compito dello Stato politico capitalistico è dunque, come
abbiamo visto, quello di massimizzare sia per il capitale che per la
forzalavoro le possibilità di ingresso nella relazione di scambio.
E, in virtù del passaggio da un'azione negativa a un'azione
positiva che questa massimizzazione comporta, la politica statale
viene oggi «purificata in modo metodico tanto dei residui di
concezioni feudali quanto delle restrizioni ideologiche dei
programmi e delle ricette liberali» 66. Il "nuovo corso", tuttavia,
lungi daireliminare le disfunzioni, le rende addirittura organiche.
Come risponde allora lo Stato al problema strutturale costi
tuito dalla paralisi dei meccanismi di scambio? Scartata, per che
rivelatasi irrimediabilmente inefficace e "antiquata", l'ipotesi
neoliberista di un ripristino puro e semplice dei meccanismi
65
New York 1966 (trad. it. Torino 1968). Per la critica di SohnRethel alle
tesi di Baran e Sweezy si veda Die òkonomische Doppelnatur des Spdtkapitali
smus cit., pp. 16 ss.
66
C OFFEV. RONGE, Thesen, trad. it. cit., p. 42.
riequilibratori, non resta altra alternativa che puntellare
mediante sussidi le unità di valore che non riescono a mantenersi
nella relazione di scambio. Di qui l'adozione di metodi di
"assistenza" statale per risolvere il problema delle unità di valore
"demercificate". A questo proposito Offe e Ronge tendono ad
125 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
67
Ivi, p. 44.
68
Ivi, p. 47.
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 126
69
Ivi, p. 48.
70
D. ZOLO, Introduzione a OFFE, LO Stato nel capitalismo maturo, cit., p. 8.
5. G. MARRAMAO: Dopo il Leviatano.
127 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
sé, una "tendenza al crollo". E tuttavia questa contraddizione strutturale può
certo divenire, sul piano ideologico, il punto di coagulo dei conflitti sociali e
delle lotte politiche, l'inizio del superamento della forma di merce come
principio di organizzazione del processo di riproduzione sociale 71.
Come si è detto in precedenza a proposito di Habermas nella
cui riflessione questa scollatura si evidenzia nella proposta della
razionalità criticodiscorsiva della "sfera pubblica"
(Òffentlichkeit), la cui unica possibilità è quella di sfruttare gli
interstizi di comunicazione ancora liberidadominio non si ha
qui a che fare soltanto con il riemergere di un'antica aporia
teorica, ma soprattutto con un inquadramento storico inadeguato
e deformante del passaggio dal capitalismo concorrenziale al
capitalismo organizzato. Esso viene infatti concettualizzato come
transizione da un generico sistema del "mercato autoregolato" a
un altrettanto generico "Stato intervenzionista". Il margine di
indeterminatezza di questo schema ermeneuticostorico è
talmente ampio da risultare, agli effetti praticoanalitici,
mistificante: e poco importa che, ad avallo della tesi, venga
restituita una copia rilevante di osservazioni empiriche.
Il limite teorico dell'identificazione "francofortese" del capi
talismo come sistema di mercato "spoliticizzato" si presenta anche
come limite storicopolitico dell'analisi. Il mercato capitalistico,
infatti, non è mai stato "invertebrato". Non è mai stato in senso
proprio un "ordinamento impolitico" (come sostiene Habermas in
Technik und Wissenschaft ah Ideologie 72), proprio in quanto esso
ha sempre storicamente rappresentato nella società moderna, la
forma di "neutralizzazione" del conflitto propria di una fase
determinata dell'egemonia borghese. Nella varietà delle sue
concrezioni storiche e al di là delle rappresentazioni ideologiche
il mercato si è sempre configurato come la risultante di
determinati rapporti di potere fra soggetti diversi: i quali, nella
71
OFFERONGE, Thesen, trad. it. cit., p. 51.
72
Cfr. J. HABERMAS, Technik una Wissenschaft als Ideologie, trad. it. cit., p.
215.
loro reciproca conflittualità, intenzionavano politicamente le
relazioni astratte dello scambio. A rendere la periodizzazione
meno netta e lineare di quanto non risulti dallo schizzo
habermasiano concorre anche a prescindere da questa
considerazione di carattere generale una circostanza storica
determinata, e tuttavia rilevantissima per la comprensione del
mondo in cui viviamo: negli ultimi decenni del secolo scorso, a
partire dalla Grande Depressione, si affacciano sul sistema di
mercato di quasi tutti i paesi capitalistici nuove potestates indi
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 128
rectae: nuove figure e soggetti collettivi (konzern, monopoli, sin
dacati, associazioni) che condizionano, e in larga misura alterano
e trasformano, le precedenti simmetrie e "regole del gioco" sulle
quali si fondava il funzionamento del potere politico. Le spinte che
portano all'affermazione, nella maggioranza degli Stati
industriali, del suffragio universale non sono che gli indicatori
sociali di questo trend di trasformazione delle società
capitalistiche.
5. G. MARRAMAO: Dopo il Leviatano.
129 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
4. Excursus 1. Corporatismo e democrazia collettiva: Neumann e
Fraenkel
Nel saggio del 1937Der Funktionswandeldes Gesetzes imRecht
der bùrgerlichen Gesellschaft, Franz Neumann svolge una critica
radicale delle false periodizzazioni alimentate da quella «critica
fascista e socialriformista» che saluta l'epoca presente come
l'epoca dello Stato: epoca che segnerebbe una netta soluzione di
continuità rispetto alla precedente fase liberale. Le due critiche si
trovano accomunate nel considerare lo Stato liberale come uno
Stato "negativo": entrambe accettano cioè incoraggiate in ciò
dalla stessa ideologia liberale la nota definizione lassalliana
dello Stato liberale come "guardiano notturno" 74. «Si cadrebbe però
vittime di un errore in sede storica, osserva Neumann, se si
dovesse equiparare "negatività" e "debolezza"»75. Lo Stato liberale,
infatti, «è sempre stato tanto forte quanto richiedevano la
situazione politica e sociale e gli interessi della società»76.
73
Si veda la rigorosa ricostruzione delle tesi weberiane svolta da Wolfgang
Schluchter in Die Entwicklung des okzidentcden Rationalismus , Tùbingen 1979.
Spunti importanti anche nella raccolta dei suoi saggi Rationalismus der Welt
beherrschung. Studien zu Max Weber, Frankfurt am Main 1980.
74
Cfr. F. NEUMANN, Der Funktionswandel des Gesetzes im Recht der bùrger
lichen Gesellschaft, in «Zeitschrift fur Sozialforschung», VI, 1937, pp. 542 ss.
(trad. it. in ID., LO Stato democratico e lo Stato autoritario, Bologna 1973, pp.
245 ss.).
Semplicemente, esso ha espresso la sua forza solo in quelle aree
nelle quali doveva essere forte, per le quali la forza era richiesta:
ha condotto guerre per difendere o estendere le proprie frontiere;
ha protetto i propri investimenti e mercati con l'aiuto di potenti
flotte; ha schiacciato scioperi e ristabilito "pace e ordine" usando
la forza coercitiva interna della polizia. L'approccio di Neumann
non nega lo stesso titolo del saggio sta d'altronde a testimoniarlo
l'esigenza di considerare le vicende dello Stato capitalistico
contemporaneo attraverso la chiave di lettura del «mutamento di
forma e di funzione». Solo che l'operazione teorica non può basarsi
su una periodizzazione storica arbitraria, poiché quest'ultima
finirebbe col pregiudicare la stessa attendibilità ed efficacia
dell'impianto categoriale: occorre invece indagare la metamorfosi
della politica borghese e in particolare dei rapporti che in essa di
volta in volta si sono costituiti tra Stato e diritto muovendo dalla
constatazione storica della funzionalità dell'assetto e della forma
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 130
Ibidem.
Ibidem.
5. G. MARRAMAO: Dopo il Leviatano.
78
Ibidem.
79
Ivi, p. 273.
131 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Weimar rappresenta un caso eclatante di mutamento di forma di
un sistema sociale capitalistico sviluppato, tale da sottoporre a
tensione sia lo schema liberale tradizionale sia quello marxista
classico (esso richiede infatti uno sforzo di individuazione della
specificità della struttura politica e della sua evoluzione interna);
2) una considerazione storicocomparativa, per la quale il tipo di
"razionalità" di quel sistema andava assunto non solo in senso
genericamente strutturale (ossia sotto il mero profilo della
"prevedibilità") ma anche in senso "prettamente sociale": a
differenza dell'Inghilterra, dove l'esistenza di una razionalità in
difesa dello statu quo era garantita da uno «sviluppo del tutto
inadeguato delle leggi a tutela dei poveri», nella prima repubblica
tedesca «i vantaggi della razionalità della legge andavano a
beneficio della classe lavoratrice» 79;
3) una considerazione in chiave di teoria e storia costituzionale,
che individua la peculiarità del sistema weimariano nella
relazione biunivoca tra compromesso politico e formacontratto:
l'incidenza del "politico" sul "sociale" si esplica nella rilevanza
specifica che vengono ad assumere le relazioni contrattuali come
fattori di rimodellamento della società della stratificazione e del
conflitto sociale.
84
Si rinvia ai contributi e ai dibattiti ospitati nel corso degli anni 70 da
riviste come «Leviathan», «Gesellschaft», «Politische Vierteljahresschrift»,
5. G. MARRAMAO: Dopo il Leviatano.
«Kòlner Zeitschrift fur Soziologie und Sozialpsychologie», ecc.
85
Si vedano a questo proposito le osservazioni di G.E. RUSCONI, La «Kol
lektive Demokratie» di Fraenkel e il corporatismo contemporaneo, in «Giornale
di diritto del lavoro e di relazioni industriali», 1980, n. 8, pp. 59399.
133 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
tuzione, ma si ponevano piuttosto come fattori di crisi, di discon
tinuità e di blocco tendenziale del sistema politico.
Al di là, dunque, dell'enfasi ottimistica che vi si può legittima
mente ravvisare, il concetto di democrazia collettiva rimandava
alla faccia socioistituzionale della linea di tendenza stilizzata nel
'27 da Hilferding sotto la categoria di "capitalismo organizzato".
Più precisamente, l'aggettivo indicava un punto di passaggio cru
ciale della dinamica evolutiva: sulla questione del "corporatismo"
dei corpi intermedi tra individui e Stato si gioca il destino della
democrazia nella società postliberale. Il saggio di Fraenkel è di
estrema utilità proprio in quanto indica come allora fosse un dato
culturale acquisito della sinistra weimariana un aspetto che oggi
sembra invece essere andato smarrito, e che occorre costante
mente riproporre come esigenza: la necessità di non caricare la
tematica del "corporatismo" (e termini quali "corporatista" o "cor
porativo") di una portata assiologica negativa, di disvalore, e di
vedervi invece un momento storicostrutturale oggettivo di com
plicazione attraverso il passaggio da una dinamica di contrat
tazione individuale a una collettiva dei meccanismi di rappre
sentanza "classici" (quelli, cioè, contemplati dalla tradizione libe
rale del rute oflaw e da quella dello Stato di diritto). Storicamente,
è possibile parlare di "democrazia collettiva" dal momento in cui
alla formazione delle decisioni politiche concorre istituzional
mente non solo la somma delle singole volontà degli elettori, ma
anche e soprattutto la rappresentanza di organizzazioni collettive.
Questa dinamica è alla base di un fenomeno decisivo, che per
Fraenkel assume un valore caratterizzante rispetto al momento
storico: quello che egli definisce «mutamento di funzione del
parlamento»86. Benché nella Costituzione di Weimar permanga
«l'idea dominante e di principio che il parlamento è organo
supremo e permanente dello Stato»87, esso non possiede più di
fatto centralità:
In un analisi retrospettiva di dieci anni di applicazione della Costituzione
di Weimar non si può fare a meno di ricordare che l'aspettativa dei padri della
Costituzione, secóndo cui il parlamento avrebbe dovuto essere il centro di
formazione della volontà dello Stato, il motore dell'attività dello Stato, non si è
realizzata nel modo che lasciavano prevedere i lavori stessi della costituente88.
86
E. FRAENKEL, Kollektive Demokratìe, trad. it. cit., p. 92.
87
Ivi, p. 90.
88
Ibidem.
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 134
89
Ibidem.
90
Ivi, p. 91.
91
Fondamentale, in questo senso, la polemica tra Luhmann e Naschold su
«complessità e democrazia»: F. NASCHOLD, Komplexitàt und Demokratie, in «Poli
tisene Vierteljahresscrmft», 1968, pp. 494 ss.; N. LUHMANN, Komplexitàt und Demok
ratie, ivi, 1969, pp. 314 ss. (la critica di Luhmann, successivamente raccolta in
Politisene Planung, Opladen 1971, si può ora leggere in traduzione italiana in ID.,
Stato di diritto e sistema sociale, Napoli 1978, pp. 65 ss.; la replica di Naschold è
uscita sempre sulla «Politische Vierteljahresschrift», 1969, pp. 326 ss.).
Vi è tuttavia, nell'impostazione data da Fraenkel al problema
della crisi della rappresentanza, uno spunto che non solo tra
scende i termini dell'approccio kelseniano, ma tende anche a
5. G. MARRAMAO: Dopo il Leviatano.
135 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
situarsi oltre il modo in cui Weber aveva affrontato la questione dei
rapporti tra parlamento e governo. Tra i due termini non
intercorre più un rapporto di dualità, ma piuttosto di vettorialità,
di spostamento del baricentro decisionale dal primo verso il
secondo: «Col venir meno del dualismo parlamentogoverno, il
parlamento ha perso quella funzione di stimolo che lo rendeva,
agli occhi delle grandi masse, il centro del loro interesse politico»
92
. Questo fenomeno è afferrabile concettualmente solo se si
assume in senso forte paradigmatico la crisi che investe quella
nozione di «rappresentanza politica» (politische Repràsentation) che lo
Stato moderno ha ereditato, per le modalità storiche specifiche
che hanno presieduto alla sua genesi e formazione, dalla
tradizione dello Stàndestaat. Il paradosso della crisi della
rappresentanza è individuato da Fraenkel in modo lucido e
sintetico:
Il parlamento rappresenta certamente tutt'ora il popolo. Ma esso non è più
rappresentante del popolo in termini di perfetta corrispondenza. Infatti, un
rapporto di rappresentanza del popolo è possibile solo quando c'è una
controparte del rappresentato. Naturale controparte del parlamento è il
governo. Ma come possono Hermann Mùller o Gustav Stresemann, come
dirigenti di gruppi parlamentari, rappresentare se stessi contro Hermann
Mùller, cancelliere del Reich, e Gustav Stresemann, ministro degli esteri? 93.
L'aspetto forse più rilevante dell'analisi di Fraenkel sta proprio
nello sforzo di saldare questo ordine di considerazioni circa
l'aspetto paradigmatico della crisi di rappresentanza con lo
straordinario campo di sperimentazione offerto dalle modifiche
intervenute di fatto nell'operare della costituzione weimariana. La
valenza tipica di quest'ultima consisteva in un gioco di checks and
balances in cui, nelle intenzioni dei «padri della costituzione», il
potere assegnato alla struttura burocraticoamministrativa e
quello attribuito, attraverso il famoso articolo 48 della
Costituzione, al Reichspràsident avrebbero dovuto
92
È. FRAENKEL, Kollektive Demokratie, trad. it. cit., p. 92.
93
Ivi, pp. 9192.
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 136
secondo una tendenza che Cari Schmitt nella Verfassungslehre
94
ricondusse correttamente alla tradizione tedesca dello Stato di
diritto (che intende il principio di legalità come un dispositivo di
controllo preventivo e di freno del principio democratico) fungere
da garanzie tendenti ad impedire che la sovranità del parlamento
si convertisse in una «dittatura del parlamento»95. Il ricorso
aLTistituto della presidenza a suffragio diretto auspicato, com'è
noto, da Max Weber, e rispondente all'intento ambizioso di
integrare la storia costituzionale europea con l'esperienza
americana avrebbe dunque dovuto, in linea di principio,
«temperare le potenziali spinte centrifughe o "totalitarie" della
democrazia parlamentare» 96. Ma l'evoluzione del sistema politico
giuridico weimariano dette luogo a sviluppi apertamente
contrastanti con queste aspettative: il fenomeno della progressiva
trasformazione della dipendenza giuridica del governo dal
parlamento in subordinazione politica del parlamento alla
burocrazia risultò infatti non solo imprevista ma addirittura
incomprensibile all'«ispirazione fondamentalmente razionalistica»
che aveva permeato i lavori preparatori della carta costituzionale.
Razionalistica è, secondo un'accezione allora largamente invalsa,
l'impostazione legata all'equazione di razionalità formale (nel
senso weberiano) e legalità. È alla luce di essa, per Fraenkel, che
è possibile «spiegare la sopravvalutazione, operata dalla
Costituzione di Weimar, dell'autorità della legge, oltre che del
potere legislativo» 97.
Il limite del formalismo sta per Fraenkel nella sua incapacità
di cogliere la novità strutturale dei fattori che scompaginano il
quadro dell'equilibrio dei poteri originariamente intenzionato
dalla carta costituzionale. Novità che è invece colta, a suo modo (e
comunque in termini difficilmente omologabili a quelli della
vecchia tradizione reazionaria), dal fascismo: «È significativo a
tale riguardo il fatto che la costituzione dello
94
Cfr. C. SCHMITT, Verfassungslehre, Berlin 1928, pp. 201 ss.
95
E. FRAENKEL, Kollektive Demokratie, trad. it. cit., p. 89.
96
A. BOLAFFI, Introduzione a O. KIRCHHEIMER, Costituzione senza sovrano.
Saggi di teoria politica e costituzionale, Bari 1982, p. LXXXIII. Al saggio intro
duttivo di Bolaffi si rimanda anche, in generale, per una documentatissima
ricostruzione del dibattito sulla Costituzione di Weimar.
Stato fascista italiano, la quale si oppone consapevolmente all'idea
razionalistica di costituzione, propria di Weimar, pone al primo
gradino del sistema statale non il legislativo, ma l'esecutivo» 98. La
crucialità del momento dell'esecutivo su cui Fraenkel insisterà
98
Ibidem.
99
Cfr. H. HELLER, Ziele und Grenzen einer deutschen Verfassungsreform, in
«Neue Blàtter fiir den Sozialismus. Zeitschrift fiir geistige und politisene Gestal
tung», 1931, n. 2, pp. 576 ss.; O. KIRCHHEIMER, Die Verfassungsreform, in «Die
Arbeit», IX, 1932, n. 12 (trad. it. in ID., Costituzione senza sovrano cit., pp. 172
ss.).97 Per una
E. F ricostruzione del contesto del dibattito sulla riforma costituzio
RAENKEL, Kollektive Demokratie, trad. it. cit., p. 93.
nale si veda la prefazione di Fraenkel a Zur Soziologie der KLassenjustiz und
Aufsàtze zur Verfassungskrise 19311932, Darmstadt 1968, come pure la rac
colta Reformismus und Pluralismus, Hamburg 1973.
100
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 137
negli anni successivi, fino alla proposta di riforma costituzionale
avanzata nel '32, sulla quale interverranno decisamente Hermann
Heller e Otto Kirchheimer 99 va affermata proprio in una
prospettiva tesa a riqualificare l'istituto parlamentare,
sottraendolo alla tendenza (altrimenti inevitabile) alla graduale
perdita di centralità. Questo aspetto relativo alla necessità di una
doppia e simultanea riqualificazione dell'esecutivo e del
parlamento non è presente nel saggio del '29: ancora fiducioso
nella possibilità di risolvere positivamente il problema strutturale
della governabilità con un'espansione del partecipazionismo
istituzionale che finirà per arenarsi nelle secche di quello che è
stato chiamato, di volta in volta, "contrattualismo bloccato" o
"compromesso neutralizzante. Ma è tuttavia potenzialmente
racchiuso nel collegamento ivi istituito tra la persistenza della
posizione difensivistica e in ultima analisi conservatrice dei
"razionalisti" ad oltranza e lo «spostamento di potere dal
legislativo al giudiziario» 10°. Lo svuotamento delle istituzioni
rappresentative e in primis dell'istituto della rappresentanza
universale territoriale si produce ad opera di un potere
giurisdizionale che ha talmente esteso il proprio raggio
d'intervento da non porsi più come un semplice esecutore della
volontà della legge, ma piuttosto come una vera e propria autorità
decisionale autonoma che «tende sempre più a considerare le
norme positive come un fastidioso imbrigliamento della propria
attività» 101.
97
E. FRAENKEL, Kollektive Demokratie, trad. it. cit., p. 93.
139 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
108
E. FRAENKEL, Kollektive Demokratie, trad. it. cit., p. 95.
140 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
111
Ivi, p. 98.
112
Ivi, p. 100.
113
Ivi, p. 102.
108
E. FRAENKEL, Kollektive Demokratie, trad. it. cit., p. 95.
141 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Stato» 114. In un altro luogo, il testo di Fraenkel si tradisce ancora
più scopertamente, individuando il tratto caratterizzante della
democrazia collettiva nella cristallizzazione istituzionale delle
organizzazioni:
Le organizzazioni liberamente costituite si cristallizzano in misura sempre
maggiore in fattori di integrazione della vita statale, sono mezzi funzionali di
integrazione dello Stato ... Il loro campo di intervento è l'amministrazione e,
parzialmente, la giustizia; ma quanto più lo Stato cessa di vivere nella
prospettiva liberale, quanto più esso si trasforma in uno "Stato del benessere",
tanto più viene accettata da larghe masse la preminenza dell'esecutivo, tanto
più le organizzazioni, che sono inserite nel potere esecutivo, assurgono a
simbolo di una costante ricostruzione e neoriproduzione dell'intero organismo
statale115.
5. Excursus 2. La "Constitutional Crisis": Neumann e Laski
locare l'individuo, nelle sue associazioni liberamente costituite, in
opposizione al potere statale centrale:
Alla base del principio pluralista v era il disagio dell'individuo, inerme di
fronte a una macchina statale strapotente. Man mano che la vita diviene
sempre più complessa e le funzioni dello Stato si moltiplicano, l'individuo
isolato accresce la sua protesta contro il suo abbandono a forze che non può
comprendere né controllare. Egli aderisce così a organizzazioni indipendenti.
Affidando funzioni amministrative decisive a questi organismi privati, i
pluralisti speravano di raggiungere due scopi: colmare il divario fra lo Stato e
l'individuo, e dare una base concreta all'identità democratica fra governanti e
governati. Nonché di raggiungere il massimo di efficienza assegnando funzioni
amministrative a organizzazioni competenti116.
116
F. NEUMANN, Behemoth. The Structure and Practice of National Socia
lismi, New York 1942 (trad. it. Milano 1977, p. 33).
117
Ivi, p. 33.
143 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Accade così che quella stessa unità, che era stata destituita di
fondamento (e bollata come mera funzione giuridica) riguardo alla
teoria della sovranità, venga di fatto riproposta sotto la forma del
postulato dell'armonia (condizione dell'integrazione funzionale).
Perché la pratica di negoziazione sia possibile, deve darsi «una
base comune di intesa fra i vari gruppi sociali: la società,
insomma, deve essere fondamentalmente armoniosa. Ma poiché,
di fatto, la società è antagonistica, la dottrina pluralista prima o
poi viene a cadere».
Queste considerazioni critiche di Neumann rappresentano il
punto d'approdo di un decennio di ricerca che, nel corso degli anni
'30, si era incontrata con un altro importante tracciato di
considerazione critica (o meglio: autocritica) della teoria plu
ralista: quella svolta di Harold J. Laski. L'incontro tra Laski e
Neumann, che risale al soggiorno inglese di quest'ultimo (1933
36), avviene proprio nel momento in cui l'intellettuale laburista
sta portando a compimento un radicale processo di revisione
teorica che lo aveva portato a criticare prima i postulati del
pluralismo di matrice ghildista, poi quelli del fabianesimo, e
infine ad impostare la questione dei rapporti democraziacapi
talismo alla luce di un'idea di antagonismo sociale e di crisi
politica aperta a una recezione critica del marxismo118.
Il sodalizio tra due figure intellettuali così diverse per pro
venienza e tradizione teorica, ma unificate dalla comune riso
luzione a porre al centro del proprio lavoro il problema delle
condizioni di funzionamento e di sviluppo della democrazia,
costituisce un momento rilevante, benché finora pressoché
ignorato119, dei rapporti tra marxismo e teoria politica in questo
secolo. La svolta maturata da Laski tra il 1927 e il 1933 svolta
che è stata vista ufficialmente come un passaggio al marxismo e
118
Cfr. H. DEANE, The Politicai Ideas of Harold L Laski, New York 1955.
Sostanzialmente continuiste le interpretazioni degli sviluppi del pensiero
laskiano fornite da C HAWKINS, Harold 7. Laski A Preliminary Analysis, in «Poli
ticai Science Quarterly», LXV, 1950; J.C. REES, La teoria politica di Harold
Laski, in «Il Politico», 1951, n. 3; e E. SCIACCA, Alcune osservazioni sul pensiero
di Harold Laski, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», XXXVIII,
1961. Molto accurata e precisa nella caratterizzazione delle diverse fasi è invece
la ricerca di C PALAZZOLO, La libertà alla prova. Stato e società in Laski, Pisa
1979.
119
Lo stesso Alfons Sòllner, lo studioso tedesco cui va il merito di avere
maggiormente contribuito alla conoscenza dell'opera di Neumann, dedica nei
suoi lavori scarsi cenni al versante Laski della comparazione, per il quale si
appoggia al volume di Deane: cfr. A. SOLLNER, Geschichte und Herrschaft, Frank
Il principale punto di convergenza con la riflessione di Franz
Neumann (che si era anch'essa decisamente rivolta all'analisi
delle cause che avevano innescato il meccanismo della crisi wei
mariana) va tuttavia ben oltre la generalità di un mero interesse
metodologico a intrecciare gli apporti del metodo marxista con
quelli del metodo della politicai science: esso va ricercato, più
specificamente, nella comune attitudine ad assumere il punto di
vista marxista sulla società antagonistica all'interno di una
prospettiva che continua a privilegiare fortemente l'aspetto poli
tico e costituzionale di una crisi che appare ad entrambi crisi di
passaggio ad un assetto postliberale del sistema sociale. Sia in
Laski che in Neumann, il richiamo alla costellazione categoriale
della lotta di classe e dell'antagonismo non coincide mai con
l'assunzione di una dogmatica, ma piuttosto con l'esigenza di
individuare nella constitutional crisis un campo oggettuale in cui
le tematiche della scienza politica s'incrocino con le categorie
critiche del marxismo122.
furt am Main 1979, pp. 96 ss.; ID., Franz L. Neumann Skizzen zu einer intellektuellen
und politischen Biographie, introduzione a F. NEUMANN, Wirtschaft, Staat, Demokratie.
Aufsàtze 19301954, Frankfurt am Main 1978. Per converso nessuna delle
monografie su Laski fa menzione alcuna di Neumann (neppure quella recente e
per il resto ben documentata di C. Palazzolo).
120
Cfr. H.J. LASKI, Authority in the Moderni State, New HavenLondon
1919; ID., The Foundations of Sovereignty and Other Essays (1921), Freeport
1968.
121
ID., A Grammar of Politics (1925), London 1948.
La persistenza del rilievo assegnato al momento politico della
crisi testimonia, per quanto riguarda Laski, come nella cosiddetta
«svolta marxista» degli anni '30 non fossero andate disperse le
acquisizioni analitiche di fondo della fase precedente: quella del
superamento dei presupposti antistatalistici del pluralismo
ghildista.
117
Ivi, p. 33.
145 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
La fase "fabiana" di Laski, emnlematicamente rappresentata
dal volume A Grammar of Politics (opera cui l'autore attese dopo il suo
importante soggiorno negli Stati Uniti), si caratterizza infatti per
una presa di distanze dall'idea ghildista di democrazia funzionale
e dall'ingenua critica al "burocratismo" e ali'"efficientismo" che la
sorreggeva (critica che, fino al principio degli anni '20, lo trova in
sintonia con Cole, sulla scorta della recezione della
Genossenschaftstheorie di Gierke operata da Maitland e Figgis) .
123
125
Cfr. ivi., pp. 247 ss. È curioso notare come, in un'opera pure ricca di
spunti felici, Rainer Eisfeld tratti disinvoltamente A Grammar of Politics come
un'opera "pluralista": cfr. Pluralismus zwischen Liberalismus und Sozialismus,
Stuttgart 1972 (trad. it. Bologna 1976).
126
Cfr. HJ. LASKI, The Recovery of Citizenship, in ID., The Dangers of Ohe
dience & Other Essays (1930), New York 1968, p. 67.
127
Cfr. ivi, p. 87; ID., A Grammar of Politics cit., pp. 38 e 105.
matico del pluralismo con un approccio al problema che risulta
paradossalmente di stampo continentale: il vero pluralismo è
quello delle istituzioni dentro lo Stato (che appare così come la
sola autentica sintesi di freedom e authority). Se per un verso questo
esito della critica laskiana al pluralism consentiva un'acquisizione
complessa e non riduttiva dell'ambito politicostatuale, per l'altro
esso mostrava un aspetto fortemente problematico. Esso era
ravvisabile nell'emergere di una teoria della programmazione e
dell'interventismo statale concepiti in opposizione diametrale
alla funzione "ostruzionistica" (in senso greeniano) 128 del laissez
faire che si agganciava al gradualismo ottimistico proprio della
posizione fabiana, e al tempo stesso appariva affine alle coeve
posizioni di Rudolf Hilferding sul "capitalismo organizzato". Sotto
questo profilo, il fabianesimo di Laski fortemente influenzato
dalle tematiche portate avanti in quegli anni da Tawney, da
Hobhouse e dai Webb pare assumere, come ha felicemente notato
un suo biografo, le sembianze di un «benthamismo socializzato»
129
. Lo Stato assunto nell'equazione, prettamente fabiana, con
128
Cfr. T.H. GREEN, Lectures in the Principles of Politicai Obligation, in ID.,
Works, a cura di R.L. Nettleship, voi. II, London 1885 (trad. it. Catania 1973,
in specie p.
117 117 [dove s'istituisce una relazione diretta tra azione statale e fine
Ivi, p. 33.
del common good~\).
129
H. DEANE, The Politicai Ideas of Harold J. Laski cit., p. 8.
130
J.R. MACDONALD, Socialism and Society, London 1908, p. 12.
147 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
La svolta operata da Laski al principio degli anni '30 a par
tire da Liberty in the Modem State e da An Introduction to Politics
132
nasce da un'insoddisfazione nei confronti dell'idea statalistica
di compromesso come tecnica di social change mediata
politicamente. Questa insoddisfazione non ha soltanto un'origine
teorica, ma è fortemente condizionata dall'esperienza storica di
quegli anni: dalla sconfitta del Labour Party alle elezioni del '31
(che ha come conseguenza l'uscita di consistenti gruppi intel
lettuali)133 ai tragici esiti della crisi tedesca e austriaca. Ritenendo
fallita, perché troppo armonicistica e ottimistica, la piattaforma di
"compromesso" tra liberalismo e socialismo tentata in A
Grammar of Politics, Laski si era così avviato autonomamente
verso una conclusione analoga a quella di alcuni giuristi e
politologi socialdemocratici weimariani: ogni "dottrina del
l'integrazione" (Integrationslehre) è minacciata dall'antagonismo,
la cui dinamica conflittuale sembra evolversi in un senso molto
distante dall'immagine fabiana del "buon governo". L'aspetto
"funzionale" della riflessione sembra qui deperire a vantaggio di
quello giuridicoeconomico e giuridicopolitico: al di là del grado
maggiore o minore di razionalizzazione del dominio di classe (vale
a dire di separazione tra titolo proprietario e gestione dei mezzi di
131
Nel corso di questi anni, del resto, intercorrono stretti rapporti perso
nali, intellettuali e politici tra Laski e Tawney, al quale dedicherà nel '30 la
raccolta The Dangers of Ohedience & Other Essays.
132
HJ. LASKI, Liberty in the Modem State, London 1930 (trad. it. Bari 1931);
ID., An Introduction to Politics (1931), London 1971.
133
Cfr. G.D.H. COLE, La Gran Bretagna negli anni trenta, in ID., Storia del
pensiero socialista, voi. V: Socialismo e fascismo, Bari 1968, pp. 74 ss.
134
Significativa, sotto questo profilo, la radicale revisione cui l'utilitarismo
utilitaristico benthamiano è sottoposto da Laski nel saggio Machiavelli and the
Present Time, in The Dangers of Ohedience cit. Di questo processo di revisione
della razionalità massimizzante offre una testimonianza anche il carteggio con
Holmes: cfr. HolmesLaski Letters. The Correspondance of mr lustice Holmes
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 148
produzione), ogni qualvolta la struttura proprietaria è minacciata
dallo scontro sociale e dalla crisi politica, i margini di mediazione
e di manovra si restringono drasticamente, pregiudicando
l'agibilità stessa del peaceful change 134.
Malgrado il pessimismo dichiarato a proposito dell'idea labu
rista di un passaggio senza rotture dallo Stato di diritto allo Stato
sociale (idea fondata a suo avviso sul metodo illusorio della
persuasione e della "resa spontanea" della classe capitalistica),
Laski si tiene tuttavia ben discosto dal radicalismo di uno
Strachey135, affermando un'idea di revolution by consent che
continua a valorizzare fortemente quell'attenzione al livello
politicoistituzionale che costituisce l'acquisizione più importante
del periodo fabiano. In effetti, come è stato molto opportunamente
notato, allo stesso modo in cui, dopo le opere di riconsiderazione
del marxismo del periodo 192227 (dal Karl Marx a
Communism)136, viene operato un netto distacco da Proudhon,
precedentemente elogiato come profeta dell'autogestione e della
sintesi creativa di liberismo e socialismo, e valorizzato il
contributo scientifico del Marx analista della società industriale e
studioso dei meccanismi di funzionamento del capitalismo, così,
dopo A Grammar of Politics, non è più consentito eludere o
trascurare la funzione specifica svolta dal governo politico «nella
disciplina delle relazioni sociali» 137.
Nel libro del '33 Democracy in Crisisì3S, la crisi della forma
democratica è individuata a livello dell'autorità. Essa appare
quindi come crisi di quei valoriprescrizioni senza i quali l'equi
librio tra coercizione e consenso viene irrevocabilmente ad
incrinarsi:
117
Ivi, p. 33.
149 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
proprio fine. La gran massa del popolo oggi, come al tempo di Burke, non ha
interesse a fabbricare il disordine. La mancanza di rispetto verso l'autorità non
è dovuta a qualche improvviso scoppio di entusiasmo per l'anarchia; essa trova
la sua radice nell'esser venuta meno la fede nei principi per i quali l'autorità
era stata organizzata nella società capitalistica139'.
La correlazione qui stabilita da Laski tra crisi politica e crisi
dei valoriobiettivi propri della democrazia capitalistica (intesa
come democrazia acquisitiva) implicava l'aggancio a un ulteriore
livello teorico del discorso: il livello della critica e della crisi di
quella "razionalità benthamiana" che nel periodo fabiano fungeva
ancora da piattaforma di conversione del liberalismo in
socialismo. Il distacco da questo postulato e dalle relative ipotesi
armonizzanti è, del resto, ampiamente documentato dall'opera del
1935 The State in Theory and Practice 140'. Qui il punto d'approdo del
lungo itinerario autocritico di Laski trova una significativa
espressione nell'abbandono definitivo sia della dottrina
utilitarista sia di quella tendenza riformatrice dell'idealismo
oxoniense che risponde al nome di Green, e che tanta parte aveva
avuto nonostante le polemiche nella sua formazione
intellettuale. Con la sua tendenza a recuperare l'istanza
garantista in una sorta di neosintesi di filosofia idealistica e libe
ralismo, Green si era posto infatti nel dibattito anglosassone come
un teorico del passaggio dallo Stato di diritto allo Stato sociale 141.
Questa metamorfosi non appare invece più a Laski come il frutto
di una regolarità evolutiva poggiante su una misteriosa legge
dell'armonia sociale, ma piuttosto come un effetto della
combinazionetensione tra spinta antagonistica e reazione della
logica capitalistica, che intenziona la propria sopravvivenza
attraverso una rigorosa «organizzazione della scarsità» 142.
139
Ivi, p. 130.
140
ID., The State in Theory and Practive, London 1935.
141
Cfr. E. BARKER, Politicai Tliought in England 18481914 (1915), London
19473.
142
H.J. LASKI, Reason and Civilization. An Essay in Historical Analysis , Lon
don 1944, p. 47.
La stessa democrazia politica non è che l'effetto del campo di
tensione che si è venuto configurando tra tendenza e contro
tendenza: essa rappresenta pertanto secondo una tesi che era
stata già molti anni prima enunciata da Kelsen e, in una decli
nazione diversa, dai teorici austromarxisti «il prezzo che nella
civiltà occidentale la classe media ha dovuto pagare per acquisire
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 150
il consenso delle masse nella sua lotta per il potere con l'ari
stocrazia feudale» 143.
Queste considerazioni, tratte da uno scritto del 1943, erano
state del resto già ampiamente anticipate in Democracy in Cri
sis. La democrazia politica (che Laski, secondo una tradizione
terminologica cara ai teorici del guild socialism, continua a chia
mare "democrazia capitalistica") ha rappresentato la forma di
Stato idonea a garantire e riprodurre la preminenza di quelle
"classi medie" che sono state condotte al potere dalla rivoluzione
industriale. Essa ha rappresentato una struttura stabile fino a
quando non sono insorti i movimenti egualitari che puntavano
all'obiettivo del suffragio universale. Non scorgendo che dietro
questa insorgenza si celava «una nuova lotta per il potere», le
classi dominanti concedettero a tutti i cittadini una porzione
dell'autorità politica «sul presupposto non dichiarato che
l'eguaglianza compresa nell'ideale democratico non cercherebbe di
invadere la sfera economica» 144. Ma un siffatto presupposto non
poteva essere mantenuto, per il semplice ma decisivo fatto che
nella dinamica innescata dalla stessa democrazia politica è insita
la tendenza all'abolizione dei privilegi di ogni ordine, e una tale
abrogazione può essere differita solo fino a quando le conquiste
del regime parlamentare siano tali da offrire alle masse un
miglioramento costante del loro tenore di vita. L'origine lontana
della crisi, «il centro del malaise della democrazia
rappresentativa» sta, dunque, per Laski, nel fatto che i capi
politici non sono stati in grado di soddisfare le richieste ad essi
rivolte. E ciò per una ragione strutturale:
il sistema si trovava di fronte al dilemma che proprio quando i suoi processi
produttivi erano allo zenit del loro potere esso era
143
ID., Reflections on the Revolution of Our Time (1943), London 1968, p.
144
ID., Democracy in Crisis, trad. it. cit., p. 43.
117
Ivi, p. 33.
151 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
«adattare le sue forme sociali alle nuove condizioni», di superare
cioè quella ratio massimizzante che si esprime nella "personatipo"
dell'uomo d'affari: figura per la quale «ogni forma di attività ha
come punto di riferimento la misura del profitto» 146. Dalla
struttura "dilemmatica" della democrazia politica e dalla crisi di
razionalità (e di valori) che la investono Laski ricava dunque
quell'analisi della logica specifica della crisi politica, e insieme
della complessità delle sue interrelazioni con gli altri livelli della
crisi e del "mutamento di funzione", incentrata sull'ambiguità
della categoria e dell'istituto della rappresentanza, che lo accosta
sensibilmente agli sviluppi della riflessione di Neumann.
È significativo che uno dei documenti più interessanti e fino a
pochi anni fa praticamente sconosciuti dell'incontro tra Laski e
Neumann sia costituito proprio dalla dissertazione che il secondo
discusse, sotto la guida e la presentazione del primo, nel 1936
presso la London School of Economics and Politicai Science. Il
lavoro, che reca il titolo The Governance of the Rule of Law (e che nella
versione originale si trova tuttora allo stato di dattiloscritto) 147,
costituisce l'ampia base di ricerca empirica, ricostruzione storico
critica e sistemazione categoriale i cui risultati si trovano
condensati nel saggio sui Mutamenti della funzione della legge nella società
borghese. Fondamentale, in questa dissertazione, è non solo
l'indagine storicocomparativa sugli sviluppi della tradizione
anglosassone del rule oflaw e di quella continentale del Rechtsstaat
145
Ivi, p. 44.
146
Ivi, p. 45.
147
II lavoro è stato finora pubblicato solo in Germania (F. NEUMANN, Die
Herrschaft des Gesetzes, Frankfurt am Main 1980). Significativo dello stesso
periodo il saggio Zur marxistischen Staatstheorie, in «Zeitschrift fur Soziali
smus», II, 1935, pp. 86572 (sotto lo pseudonimo di Leopold Franz); ora in F.
NEUMANN, Wirtschaft, Staat, Demokratie cit., pp. 134 ss.
intese come varianti interne a una vicenda di trasformazione
dello Stato caratterizzata dalla costante compresenza di diritto e
forza, "razionalità" e "coercizione" , ma soprattutto quella
distinzione tra le tre grandi fasi storiche del compromesso politico
(quella liberale, quella del capitalismo organizzato e quella del
fascismo) che molto avrebbe influito sul dibattito successivo.
Tanto l'ultima parte della dissertazione quanto il saggio del 1937
ruotano attorno a due punti cari alla riflessione laskiana dello
stesso periodo.
nella sfera del diritto pubblico come in quella del diritto privato il
contratto è necessariamente creatore di potere. In altre parole, il sistema
contrattuale anche nella sfera politica contiene in sé gli elementi della propria
distruzione. Quei fautori del pluralismo che vorrebbero realizzare lo "Stato del
popolo" mediante la limitazione del ruolo indipendente della burocrazia,
dell'esercito e della polizia e la conclusione di accordi tra associazioni
volontarie, in realtà finiscono con l'accrescere il potere della burocrazia e
ridurre il peso politico e sociale delle associazioni volontarie, rafforzando così
quelle tendenze che portano verso lo Stato autoritario148.
In secondo luogo, il carattere paradigmatico dell'analisi della
constitutional crisis weimariana come anatomia esemplare della crisi
della forma democraticorappresentativa:
6. Equilibrio, compromesso politico e "dittatura senza sovrano": la
politologia critica di Kirchheimer
117
Ivi, p. 33.
153 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
149
Ivi, p. 280.
150
Ivi, p. 283.
151
Ivi, p. 281.
152
O. KIRCHHEIMER, Changes in the Structure of Politicai Compromise, in
«Studies in Philosophy and Social Science» (= «Zeitschrift fur Sozialfor
schung»), IX, 1941, pp. 26489 (trad. it. in AA.W., Tecnologia e potere nelle
società postliberali, Introduzione e cura di Giacomo Marramao, Napoli 1981,
pp. 10336).
sviluppato in anni recenti dal lavoro teorico di Nicos Poulantzas a
sostegno di una rinnovata analisi marxista dello Stato capi
talistico, era stato più ampiamente evidenziato da quelle inter
pretazioni che all'interno della socialdemocrazia come pure dello
stesso movimento comunista erano partite dall'analogia tra
bonapartismo e fascismo (e dunque dall'ipotesi dell'applicabilità
ai regimi fascisti e all'autoritarismo di massa in genere del
modello analitico approntato da Marx in opere come Il 18 brumaio e
Le lotte di classe in Francia): adi Thalheimer a Stawar, da Gramsci a
Trockij, da Otto Bauer a Richard Lòwenthal. La novità stava
piuttosto altrove: nel portare alla luce, mediante un'anatomia
spietata della struttura economica e di potere del regime, l'assetto
costituzionalmente conflittuale delle relazioni tra i quattro gruppi
di pressione che condividevano il controllo dello Stato: industria,
esercito, burocrazia statale e partito. Il tratto innovativo e
dirimente dell'approccio ermeneutico neumanniano consisteva
dunque nella demistificazione del carattere ideologico
dell'immagine di ordine e di pianificazione razionale che il
nazismo tendeva a dare di se stesso: nello svelare come neppure
una società terroristica e repressiva come quella nazista fosse in
grado di realizzare un dominio totale, espungendo dal proprio
sistema politico l'assetto pluralisticoconflittuale che tutte le
soluzioni statuali successive alla grande crisi avevano ereditato
dalla società di massa prodotta dalla razionalizzazione degli anni
'20.
Tuttavia, se in questo dirompente effetto di demistificazione e
di disincanto stava l'incontrovertibile risultato dell'analisi con
dotta nel Behemoth, non meno vistoso appariva un aspetto apo
retico ad esso inestricabilmente inerente, e visibile nella defi
nizione del nazionalsocialismo come "nonStato", come regno del
"caos" e dell'"anarchia" (in conformità, appunto, alla simbologia
biblica di Leviathan e Behemot ripresa da Hobbes) 155. La difficoltà
di operare un'organica saldatura tra le categorie della critica
economica marxista e quelle weberiane del potere, tra analisi di
classe e teoria delle élites, conduce Neumann a un'aporia opposta
benché, in certo qual modo, speculare a quella in cui si erano
imbattute le analisi dello Stato autoritario condotte da
Horkheimer e Pollock. Egli è sì capace di mettere a nudo e
descrivere con rara lucidità e perspicacia le contraddizioni interne
e i conflitti tra i corpi dominanti. Ma non è in grado di spiegare
quale sia la logica l'intima "razionalità" che li tiene uniti,
consentendo così la riproduzione del sistema di potere. Una spia
di questa difficoltà di saldatura è la definizione del sistema
117
Ivi, p. 33.
F. NEUMANN, Behemoth, trad. it. cit., pp. 416 ss.
155 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Il saggio di Kirchheimer rappresenta, appunto, un tentativo di
superare questa aporia, trovando un criterio di saldatura tra
analisi di classe e rappresentazione teorica dei mutamenti inter
venuti nella sfera del government. Ciò permette di inquadrare il
"caso" del nazionalsocialismo all'interno delle trasformazioni
storiche che, nel corso della democrazia di massa, hanno modi
ficato profondamente le relazioni intercorrenti tra potere e con
flitto, forma politica e società, e, con esse, lo stesso indice delle
variazioni di questa dinamica e del rapporto tra ceti rappresentati
e ceti esclusi dalla rappresentanza: la struttura del compromesso
politico.
Nella sua analisi Kirchheimer muove dall'assunto dell'esi
stenza di uno «stretto rapporto tra compromesso politico e governo
delle società industriali evolute» 157. E, nel corso del saggio, egli
ripropone la correlazione in forma ancora più generale e quasi
assiomatica, affermando che il compromesso è proprio di «ogni
società che possieda un alto grado di stratificazione sociale». In
base a questo assunto egli interpreta in termini di crescita di
complessità le metamorfosi della struttura del compromesso
156
Cfr. G. STOLLBERG, Der vierkòpfige Behemoth. Franz Neumann und die
moderne Auffassung vom pluralistischen Herrschaftssystem des Faschismus, in
«Gesellschaft. Beitràge zur Marxschen Theorie», 1976, n. 6, p. 100.
157
O. KIRCHHEIMER, Changes in the Structure of Politicai Compromise, trad.
it. cit., p. 103. Avvertiamo il lettore che le citazioni di Kirchheimer che seguono
sono tratte, salvo indicazioni diverse, da questo saggio.
corrispondenti alle tre forme politiche che hanno caratterizzato la
storia costituzionale europea:
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 156
1) il sistema rappresentativo liberale: in cui il compromesso politico è
costituito dal complesso degli accordi di lavoro tra rappresentanti
parlamentari e tra questi e il governo (asse parlamentogoverno);
2) la democrazia di massa: nella quale il compromesso si presenta
come un sistema di accordi tra associazioni volontarie (ed è qui
interessante notare che Kirchheimer data in modo molto preciso
l'inizio dell epoca della mass democracy: intorno al 191011);
3) il fascismo: dove il compromesso consiste nella struttura
pattizia «con cui i capi dei ceti più coercitivi distribuiscono potere
e compensi».
117
Ivi, p. 33.
157 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
compiuta nei paesi più apertamente autoritari».
È importante non perdere di vista il ruolo strategico giocato da
questa affermazione nell'economia complessiva del discorso
kirchheimeriano: è, infatti, per questa via che il caso della Ger
mania nazista viene inserito nel quadro delle trasformazioni
strutturali del compromesso politico. Queste stesse metamorfosi
non possono tuttavia essere interpretate nel senso di un passaggio
(sostanzialmente lineare) da un omogeneo potere indiretto a un
altrettanto omogeneo e acontraddittorio potere diretto (come
sostengono, in una paradossale simmetria degli opposti, apologeti
e critici irriducibili dei regimi fascisti).
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 158
revisione sta nel fatto che il compromesso non viene più stipulato
tra singoli individui, ma tra gruppi: la sua funzione starebbe
117
Ivi, p. 33.
159 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
159
Cfr. E. BURKE, Collected Works, Boston 1977, voi. Ili, pp. 485 ss.
H. SPENCER, The Study of Sociology, New York 1874 (il rapporto tra
160
compromesso e società complesse è istituito a p. 396).
161
Cfr. J. MORLEY, On Compromise, London 18772, p. 209.
162
Oxford 19482 (trad. it. Milano 1946).
Max Adler, nella sua diagnosi della Costituzione weimariana
come Verfassung ohne Entscheidung, «Costituzione senza
decisione» 163) «una delle forme più estreme» nella teoria di Otto
Bauer (con la quale aveva vivacemente polemizzato, nel '30,
quello stesso Arkadij Gurland che appare in questi anni come
uno dei protagonisti del dibattito interno ah'Institute of Social
Research)164.
La traiettoria teorica delineata dal dibattito tra Kelsen e gli
"austromarxisti" acquista per Kirchheimer una vera e propria
portata riflessiva rispetto a una dinamica di sviluppo entro cui «la
sfera del compromesso si espandeva con la transizione del
capitalismo concorrenziale al capitalismo monopolistico». Il pas
saggio dal compromesso tra individui (conforme all'idea di "società
competitiva" propria dell'ordinamento liberale) al compromesso
tra gruppi d'interesse si configura come uno slittamento dal piano
del garantismo individuale a quello del garantismo corporativo.
Tale slittamento comporta come conseguenza la distruzione delle
forme di associazione personalizzate e il sorgere di «un'intricata
intelaiatura di accordi lavorativi tra i monopoli che uscivano
vincitori dall'era liberale». Al compromesso quotidiano che, nella
società liberale, il rappresentante parlamentare stipulava con i
suoi colleghi e con il governo, è subentrato il «compromesso tra
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 160
Il peculiare trend che caratterizza gli sviluppi della democrazia
di massa l'assorbimento tendenzialmente totale dei diritti
individuali nei diritti di gruppo raggiunge la sua forma estrema
allorché «il sempre più effettivo asservimento al diktat di un
117
Ivi, p. 33.
161 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
gruppo dominato dal monopolio» si trasforma in «un asservimento
legalizzato». Adottando un'espressione ben nota alla storia
costituzionale tedesca, è possibile definire lo status dei diversi
gruppi d'interesse in Germania dal loro grado di appropriazione
del privilegium de non appellando, vale a dire: dalla misura in cui essi
sono riusciti a conquistare il privilegio di privare il singolo
individuo facente parte del gruppo della facoltà di appellarsi a
organismi esterni per salvaguardare i propri diritti individuali
contro le decisioni del gruppo stesso. Questo aspetto era stato
svolto ampiamente da Kirchheimer in altri lavori dal carattere
più spiccatamente specialistico: il capitolo sulle «nuove tendenze
nella politica penale durante il fascismo», da lui scritto ad
integrazione della ricerca di Georg Rusche, Punìshment and Social
Structure, e i saggi Criminal Law in National Socialist Germany e The Legai
Order of National Socialism, entrambi apparsi negli «Studies in
Philosophy and Social Science» (prosecuzione in lingua inglese
della «Zeitschrift fur Sozialforschung»)166. In questi lavori si
evidenzia come la dottrina giuridica nazista avesse sì superato la
vecchia separazione liberale fra settore privato e settore pubblico:
ma al prezzo della liquidazione del primo. Solo in alcuni ambiti
come la legislazione antisemitica e le misure a favore
dell'incremento demografico era stata perseguita nei fatti la
politica "concreta" promessa dagli slogan propagandistici del
regime, mentre in altri settori, come l'agricoltura, si era data via
libera (ad onta della retorica del Blut und Boden) alle esigenze di
modernizzazione.
La tendenza di fondo dei mutamenti di forma della legge sotto
il nazionalsocialismo era dunque bensì improntata a un criterio di
"razionalità". Ma questo criterio non era tanto quello della
razionalità formalelegale: era piuttosto quello della razionalità
funzionale, tecnologica, su cui tanto aveva insistito Marcuse nel
suo intervento al dibattito dell'Institute of Social Research 167. A
questa puntualizzazione occorre aggiungere che per Kirchheimer
la nozione di razionalità non allude affatto in questo caso all'idea
di un piano onnicomprensivo e universalmente applicabile, ma
piuttosto alla riduzione senza residui del "privato" al "pubblico":
"razionalità" significa soltanto che l'intero apparato del diritto
viene posto direttamente al servizio delle corporazioni che si
ripartiscono il potere. Una volta individuato nei mutamenti della
forma giuridica (e nella subordinazione funzionale del concetto
166
Cfr. G. RUSCHE0. KIRCHHEIMER, Punìshment and Social Structure, New
York 1939 (trad. it. Bologna 1978); 0. KIRCHHEIMER, Criminal Law in National
Socialist Germany, in «Studies in Philosophy and Social Science», Vili, 1939,
pp. 44463; ID., The Legai Order of National Socialism, ivi, IX, 1941, pp. 456
75 (trad. it. in AA.W., Tecnologia epotere nelle società postliberali cit., pp. 193
219). Si avverte il lettore che tutte le prossime citazioni di Kirchheimer sono
tratte da quest'ultimo saggio.
167
H. MARCUSE, Some Social Implications of Modem Technology, in «Stu
dies in Philosophy and Social Science», IX, 1941, pp. 41439 (trad. it. in AA.W.,
Tecnologia e potere nelle società postliberali cit., pp. 13770). Per una inter
pretazione dei rapporti tra razionalità normativa e razionalità politicodeci
sionale nel fascismo, diversa sia da quella di Neumann e Kirchheimer che da
quella di Marcuse, si veda E. FRAENKEL, The Dual State, New York 1940.
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 162
razionale di legge ai meccanismi di decisione politica) il punto
limite della ratio strumentale il punto in cui la weberiana
«razionalità rispetto allo scopo» si converte nel suo contrario:
nell'arbitrio e nell'assenza di regole , Kirchheimer reintroduce il
tema neumanniano del conflitto tra i gruppi di pressione
dominanti come elemento di demistificazione dell'assunto
ideologico che sta a fondamento della «teoria costituzionale
ufficiale»: ad essa (e qui egli allude evidentemente, benché non lo
citi, a Cari Schmitt) «non dispiace considerare il rapporto tra
Stato e partito come un rapporto tra un sistema squisitamente
tecnico e un movimento politico, in cui il primo si attiene alle
direttive del secondo, che si ritiene essere espressione della vita e
della volontà della Nazione». In realtà il partito, lungi dal
costituire «un'unità indissolubile», svolge una duplice funzione: da
un lato esso rappresenta, in un certo senso, «l'erede dei partiti di
massa esistiti nell'era della democrazia di massa»; dall'altro
funziona invece, nel suo intreccio con la burocrazia di Stato, come
«un organo di dominio di massa». Il partito non si limita cioè ad
operare come "strumento" di determinati interessi di classe, né ad
andare incontro alle rivendicazioni dei suoi membri o sostenitori
(che formano, tra l'altro, un seguito estremamente eterogeneo),
«ma incorpora anche nella sua struttura la concezione di un nuovo
ordine politico». L'eterogeneità sociale della sua base di consenso
fa sì che esso debba costantemente porre l'accento sugli «elementi
puramente politici del nuovo ordine rispetto alla base economica»,
atteggiandosi in forma ideologicopropagandistica proprio per
«non scomporre e dissociare il suo seguito in componenti sociali
separate». Questa caratteristica spiega perché proprio nel partito
si riproducano le contraddizioni più acute e significative del
regime: «Anche se il rapporto tra partito e burocrazia può dar vita
a pompose dispute giurisdizionali, non è qui che ritroviamo i
conflitti più profondamente radicati, ma nella struttura dello
stesso partito».
Il «pattern permanente» che qui emerge segnala un dualismo di
rappresentanza nella struttura del partito: alcuni settori di que
sto e della burocrazia statale «fungono da cinghia di trasmis
sione» per i gruppi più forti e capaci di dar voce autonomamente
ai propri diritti; altri, e precisamente" quelli che esercitano le
Betreuungsfunktionen, le funzioni assistenziali di «organi di custodia
delle masse», «rappresentano il nonrappresentato». Sulla base
del diagramma, così puntualmente disegnato, delle relazioni
intercorrenti tra indice delle variazioni strutturali del
compromesso politico, mutamenti della forma giuridica (e dei
117
Ivi, p. 33.
163 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
7.1 confini della razionalità politica: una polemica con Habermas e Offe
Le analisi svolte nel periodo fra le due guerre dai politologi di
provenienza weimariana sembrano, dunque, affrontare (ad un
livello e con uno strumentario analitico adeguato alla loro epoca)
lo stesso problema di Habermas e Offe. Ma ponendo l'enfasi
proprio su quegli aspetti del discorso di questi ultimi che, in un
bilancio complessivo, risultano più carenti. Anche in Habermas e
Offe, la ricognizione del piano storico dei mutamenti di forma e di
zione del Behemoth in rapporto agli sviluppi attuali del dibattito sul fascismo si
rimanda a G. SCHAFER, «Behemoth» und die heutige Faschismusdiskussion, poscritto
all'edizione tedesca del Behemoth, Kòln 1976.
169
Cfr. F. NEUMANN, Der Funktionswandel des Gesetzes, trad. it. cit., pp. 291
funzione delle strutture istituzionalmente qualificanti gioca un
ruolo centrale nel programma di «ricostruzione del materialismo
storico» 170 e di conversione, all'interno di esso, del paradigma
della critica dell'economia politica con quelli delle scienze sociali e
politiche. Anche nelle loro analisi il processo di passaggio
dall'assetto liberaldemocratico a quello del capitalismo
organizzato e della democrazia di massa si caratterizza attraverso
una crescente complessificazione del sistema sociale. Tuttavia la
117
Ivi, p. 33.
165 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
"complessità sociale" viene ad assumere qui un significato diverso
da quello proprio della tradizione marxista e dello stesso
marxismo revisionato degli anni '2030. Essa non designa infatti
tanto l'aspetto della complicazione della stratificazione di classe
(aspetto d'altronde segnalato con forza nell'ambito della
discussione marxista sin dalla BernsteinDehatte), quanto piuttosto
l'aspetto della differenziazione tra le diverse forme dell'agire:
secondo una linea di ricerca che da Weber, a Parsons, a
Luhmann consuma fino in fondo la rottura con la tradizione
classica di origine aristotelica che, raccogliendosi attorno alla
metafora della societàorganismo, postula un rapporto organico
partetutto. In sostanza, l'individuo non rappresenta più la cellula
della società. E la struttura costitutiva del legame sociale non è
più data dal rapporto individuosocietà, bensì dal nesso di
razionalità e forme dell'agire171. Questo privilegiamento del piano
formaleastratto della razionalità e delle sue metamorfosi che in
Habermas e Offe si qualifica per un continuo interscambio con il
codice sistemico della differenziazione funzionale non è tuttavia
privo di conseguenze. E ciò in un duplice senso, che possiamo per
comodità espositiva enunciare distinguendo il lato debole dal lato
forte dei loro approcci.
alla riflessione neumanniana (e kirchheimeriana) degli anni '30:
l'aspetto, cioè, per cui la tendenza pluralisticocorporatista che i
sistemi politici successivi al '29 introiettano, non costituisce
affatto il semplice epifenomeno di una contraddizione
antagonistica nascosta o latente, ma è piuttosto una delle
espressioni peculiari del conflitto nell'odierna "società
postindustriale". La questione della rilevanza dei conflitti
intersettoriali per la stessa tematica della crisi della razionalità
sembra pertanto sfuggire ai modelli di Habermas e Offe (come
d'altronde al paradigma keynesiano, per le modalità storiche in
cui esso ha operato: privilegiando nettamente l'aspetto
macroeconomico a discapito di quello microeconomico). Con la
differenza fondamentale che in essi l'innesto del codice della
teoria dei sistemi (basato sulla coppia complessitàriduzione)
finisce per operare nel senso di un riflusso teorico di sapore
"neoclassico" (sia pure di un neoclassico "riformato")173.
Anche sotto questo profilo le analisi di Habermas e Offe risultano
problematiche. Esse riescono senza dubbio a svolgere da un lato
una funzione innovativa: inaugurando in campo marxista una
172
La critica di decisionismo è rivolta da Habermas a Offe in conclusione
di Legitimationsprobleme im Spdtkapitalismus , trad. it. cit., pp. 15959.
173
Come ho cercato di dimostrare più ampiamente altrove (Il politico e le
trasformazioni cit.), Habermas e Offe riprendono, con una strumentazione ana
litica estremamente più sofisticata, alcuni dei tratti caratterizzanti del marxi
smo "revisionato" (che poi è il marxismo più interessante e vitale) del periodo
fra le due guerre.
considerazione dell'operare specifico del potere politico
improntata al criterio della differenziazione funzionale, e distin
guendo così i tratti peculiari dello "scambio politico" versus l'intera
gamma delle varianti di quella «teoria economica della
democrazia» che ha la sua paternità legittima nelle note tesi di
Schumpeter e le sue prosecuzioni nelel tesi di Buchanan, Tullock
e Downs, ispirate alla microeconomia marginalista174, in quelle di
Huntington, ispirate alla teoria dello sviluppo economico 175, o
ancora in quelle liberali sofisticate di Hernes e Coleman176. Ma,
d'altro canto, s'imbattono in un'aporia analoga a quella inerente
alla revisione "neoclassica" del marxismo socialdemocratico
tentata da Hilferding (autore cui essi sembrano ispirarsi ben oltre
i richiami espliciti) negli anni '20: la compresenza di una "cattiva"
autonomia del politico con una visione strutturalfunzionale del
rapporto Statoeconomia. Il luogo in cui questo aspetto aporetico
prende forma e si evidenzia è dato dalla definizione del sistema
politico come filtro istituzionale selettivo delle domande e delle
tendenze del conflitto sociale funzionali agli interessi capitalistici
117
Ivi, p. 33.
167 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
complessivi. È qui che viene a profilarsi il rischio in cui incorre la
riformulazione delle categorie della critica dell'economia politica
per il medium del codice sistemico. Rischio duplice e simultaneo: di
autonomizzare l'ambito delle strutture legittimanti e di porlo, al
tempo stesso, in un rapporto di interdipendenza diretta con il
"bisogno di valorizzazione" e gli imperativi della riproduzione
sociale. La cogenza della determinazione permane anche quando
le necessità di mantenimento dell'equilibrio e del controllo sociale
costringono ad adottare misure che appaiono orientate in senso
esattamente inverso: come nel caso delle prestazioni regolati ve
che producono "valori d'uso".
Sostenere che lo Stato operi con registri opposti per reagire allo
stesso meccanismo significa, in ultima analisi, ribadirne la stretta
dipendenza logicostrutturale dalle 'leggi" della relazione di
174
Cfr. J. BUCHANANG. TULLOCK, The Calculus of Conserti, Michigan 1962;
A. DOWNS, An Economie Theory of Democracy, New York 1957.
Cfr. S. HUNTINGTON, Politicai Or der in Changing Societies, New Haven
175
1968 (trad. it. Milano 1975).
176
Cfr. G. HERNES, Makt og avmakt, Oslo 1975; J. COLEMAN, The Mathema
tics of Collective Action, London 1973.
scambio e dalle loro disfunzioni. Se è da queste ultime che si
genera il meccanismo di coazione all'intervento regolativo
dell'amministrazione statale, ciò vuol dire che la contraddizione
logica del sistema capitalistico, di cui Habermas e Offe continuano
a parlare, non ha in realtà sede, neanche nella sua fase "tarda" o
"matura", nello Stato, ma soltanto nella sfera dello scambio.
Autonomia del politico e sua dipendenza assoluta vengono così
paradossalmente a coincidere, o meglio a rappresentare le due
facce di un'unica aporia: e il richiamo alla "complessità sociale"
rischia pertanto di fungere da rimando empirico completamente
scollato dalla forma teorica del discorso177.
Habermas e Offe non riescono a fornire risposta a una questione
cruciale: come mai la mediazione politica riesce a filtrare la
«borsa degli interessi pluralistici» senza restare investita dal
conflitto tra le "corporazioni"179? Eludendo il problema del
carattere non epifenomenico, ma morfologicamente rilevante, del
processo storico di pluralizzazione dell'interesse di classe in un
agglomerato di interessi eterocliti ricomponibili soltanto
congiunturalmente, in equilibri costantemente precari, la teoria
del «filtro selettivo istituzionale» rischia al pari delle versioni più
riduttivamente neoclassiche e armonizzanti dello
117
Ivi, p. 33.
169 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Si radica qui la differenza specifica tra il quadro teorico aperto
dalla rivoluzione keynesiana che attende ancora una risposta
adeguata da parte dei "paradigmi concorrenti" e i tentativi vec
chi e nuovi di rifondazione neoclassica o funzionalisticosistemica
del marxismo. In questi modelli marxisti "revisionati" lo Stato
interviene sempre ex post per riparare alle disfunzioni e agli
squilibri che la crisi del meccanismo di scambio autonomamente
produrrebbe, e interviene ex ante solo in funzione
"negativa", per vanificare la possibilità di formazione di interessi
"generalizzabili". La cesura epistemologica keynesiana individua,
per converso, lo spazio di un mutamento di funzione e di struttura
dello Stato con maggiore chiarezza e incisività di quanto non
avvenga in qualunque altro teorico della «rivoluzione degli anni
'30», Schumpeter compreso. La teoria keynesiana possiede infatti
un aspetto politicoprescrittivo che è assente dalla problematica
schumpeteriana: dove il governo della crisi si presenta come un
momento interno alla "normalità" della crisi stessa e il
riaggiustamento ha un carattere assolutamente endogeno, non
influenzabile dall'intervento pubblico. Il governo politico della
crisi non può avere un'autonomia neanche relativa: la sola
autonomia è quella del ciclo. Non a caso emerge qui in
Schumpeter una sorta di «sezione orizzontale del programma
critico» 18°, rappresentata dal continuum logicostorico dell'azione
generale economica, in cui viene ritagliato un ambito (sia pur
limitato) di operatività per il paradigma neoclassico. Nel
sottolineare questa frattura profonda che, dietro «l'apparente
uniformità di vedute», divide Keynes e Schumpeter, è doveroso
tuttavia ricordare come ha fatto, del resto, lucidamente Augusto
Graziani181 che Schumpeter si è rivelato più lungimirante di
Keynes nelle sue prognosi. Egli è infatti l'autore che, assieme a
Michal Kalecki, ha saputo cogliere con maggiore acutezza gli
effetti politici del modello keynesiano: vale a dire, quelle
controtendenze politiche della classe imprenditoriale al pieno
impiego, che segnano il passaggio storico dal ciclo economico al
"ciclo politico" e dislocano l'asse dell'antagonismo verso il rapporto
piena occupazionestabilità (controllo) sociale182.
Il discorso ritorna allora dalla polarità descrittiva Statoeco
nomia ai "soggetti" e "fattori" critici che determinano con le loro
intenzionalità conflittuali la dinamica del mutamento sociale.
Paradossalmente, è proprio dalla prospettiva odierna del cosid
detto «declino del Welfare State» e della cosiddetta «crisi delle
politiche keynesiane» (crisi che si caratterizza per la crescente
difficoltà ad osservare il prerequisito delle politiche d'intervento
180
Cfr. D. GIVA, Storia dell'analisi economica e teoria dello sviluppo. Note
su Schumpeter, in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», XI, 1977, p. 50.
181
Cfr. A. GRAZIANI, Introduzione a J.A. SCHUMPETER, Il processo capitali
stico. Cicli economici, Milano 1977, p. 24.
182 per qUesta lettura storicocritica di Kalecki rinvio a F. DE FELICEG. MAR
RAMAOM. TRONTIL. VILLARI, Stato e capitalismo negli anni trenta, Roma 1979.
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 170
183
Sul significato «paradigmatico» della crisi delle politiche keynesiane si
veda il fondamentale contributo di E. TARANTELLA II ruolo economico del sin
dacato. Il caso italiano, Bari 1978.
184
Si veda la pregnante ricostruzione dei profili di questo concetto in G.E.
RUSCONI, Scambio politico, in «Laboratorio politico», 1981, n. 2, pp. 65 ss.; ora
in ID., Scambio, minaccia, decisione, Bologna 1984, pp. 19 ss.
b) un'avvertenza di ordine teorico, volta a distinguere l'accezione
critica del concetto da quella irriflessa e "neutralizzante": per
quest'ultima, infatti, è sempre valida l'obiezione risalente non
117
Ivi, p. 33.
171 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
solo a Marx, ma anche alla grande teoria sociale di questo secolo,
da Weber a Keynes che dietro la relazione politica di scambio
(come del resto dietro il mercato economico) operano comunque
potestates, soggetti individuali o collettivi che esprimono rapporti e
proiezioni di potere, e pertanto inducono nel rapporto sociale
effetti di squilibrio e di instabilità permanenti.
Cfr. N. LUHMANN, Macht, Stuttgart 1975 (trad. it. Milano 1979, p. 7).
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 172
il potere cessa definitivamente di essere un fenomeno transitivo,
per trasformarsi pienamente in un processo relazionalefunzio
nale, ne consegue che il rapporto di potere non può più rispondere
a una logica di trasmissione verticale e monocausale.
In un saggio del 1974 dedicato al problema dei limiti della
razionalità amministrativa186, Offe muove da un assunto identico
a quello da cui era partito Luhmann in un suo lavoro di dieci anni
prima (ricavandone tuttavia conclusioni diverse): l'assunto per cui
il macchinismo burocraticoamministrativo non può più essere
inteso, weberianamente, come «il modo formalmente più razionale
di esercizio del potere» 187. In quel saggio del '64 Luhmann aveva
affermato che la correlazione in parallelo istituita da Weber tra
schema di scopo e struttura gerarchica di comando riposava su
una premessa tipica della concezione classica della razionalità:
che esistesse cioè solo «una forma giusta idealtipica e ottimale di
razionalità interna del sistema», e che la sua realizzazione ed
estensione all'intera società dovesse comportare meccanicamente
l'instaurazione di «un rapporto armonico con l'ambiente» 188. Ma
un sistema regolato da un tale dispositivo di razionalità si
traduce, di fatto, in un'utopia macchinale: un sistemamacchina che,
per poter funzionare, presuppone «un ambiente univocamente
modellato» e che, secondo il modello del pensiero ontologico, può
accettare di volta in volta solo una condizione di esistenza (esclu
dendo automaticametne tutte le altre). Il limite di un tale sistema
sta dunque nel fatto che ai mutamenti dell'ambiente esso può
reagire soltanto «in un modo unico e quindi sempre prevedibile»
189
.
Analogamente, Offe sostiene che Weber ha potuto in tanto
operare questa correlazione biunivoca tra burocrazia e principio
della razionalità formalelegale, in quanto ha assolutizzato un
modello di razionalità riposante «sulla totale disgiunzione tra le
186
Cfr. C. OFFE, Rationalitdtskriterien und Funktionsprobleme politisch
administrativen Handelns, in «Leviathan», 1974, n. 3 (trad. it. in AA.W., Le
trasformazioni dello Stato, Firenze 1980, pp. 70 ss.).
La celebre affermazione di Weber {Economia e società, voi. I, Milano
187
1968, p. 217) è riportata da C. OFFE, Rationalitdtskriterien, trad. it. cit., p. 95.
188
Cfr. N. LUHMANN, ZweckHerrschaftSystem. Grundbegriffe und Pràmis
sen Max Webers, in «Der Staat», III, 1964, pp. 129; poi in ID., Politische Pla
nung cit. (trad. it. in ID., Stato di diritto e sistema sociale cit., pp. 173 ss.). Le
citazioni sopra riportate sono a p. 178.
premesse dell'azione, da una parte, e l'apparato esecutivo
dall'altra» 190. Ma oltre alla «razionalità che consiste
nell'applicazione di regole astratte, propria di un modello di
azione», esiste anche un altro criterio di razionalità: quello della
razionalità funzionale, che si misura in base al grado di
corrispondenza «alle esigenze funzionali e ai bisogni di una società
189
Ivi, p. 201.
173 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
capitalistica industriale altamente sviluppata, il soddisfacimento
dei quali è compito dell'amministrazione statale» 191. Il limite di
Weber sta dunque, per Offe, nel non aver distinto questi due
diversi criteri di razionalità, fondando invece un continuum
concettuale tra razionalità dell'agire burocratico e processo
storicomondiale di razionalizzazione. D'altra parte non è neppure
ipotizzabile un'armonizzazione dei due criteri che Offe definisce
anche come concetto "burocraticosociologico" (dipendenza
dell'azione burocratica da norme generali) e concetto "politico
scientifico" di razionalità (rapporto tra prestazione dei sistemi e
richieste funzionali dell'ambiente sociale) , in quanto «nelle
condizioni dello Stato capitalistico assistenziale sviluppato» la
razionalità burocratica non solo non garantisce ma addirittura
ostacola la razionalità politica192.
190
C. OFFE, RationaUtàtskriterien, trad. it. cit., p. 97.
191
Ibidem.
192
Ivi, p. 98.
193
Cfr. ivi, p. 97.
194
Cfr. N. LUHMANN, Zweckbegriffund Systemrationalitàt, Frankfurt am Main
19732, pp. 55 ss.
di fronte una situazione nella quale l'esecuzione dei piani e delle
funzioni statali non può essere compiuta da lei sola, ma piuttosto
devono partecipare, con funzione esecutiva, il singolo cittadino e le
sue organizzazioni sociali» 199. Il «modello strutturale della politica
amministrativa dello Stato sociale» rovescia pertanto
diametralmente non solo il criterio weberiano dell'agire
burocratico (poiché adesso le premesse dell'azione, in base alle
quali l'agire amministrativo si razionalizza, sono obiettivi concreti
e determinati) 200, ma anche lo schema classico dei rapporti tra
decisionmaking ed esecuzione amministrativa. Ciò finisce però per
provocare una divaricazione, un dualismo tendenzialmente
antagonistico nell'operare dell'amministrazione stessa,
limitandone progressivamente i caratteri di razionalità: si
produce, cioè, una «sproporzione tra struttura interna e rapporto
con l'ambiente», tra "struttura" e "funzione"201. Questa
contraddizione non può essere risanata
202
Ivi, p. 99.
203
Ivi, p. 114.
204
Ivi, p. 99.
205
Ibidem.
POLITICA E COMPLESSITÀ: "LO STATO POSTMODERNO" 176
189
206 Ivi, p. 201.
Ivi, pp. 11213.
CAPITOLO TERZO
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN
E LA VIENNA DI BAUER
SOMMARIO: 1. Tradizione e innovazione. 2. Metamorfosi dell'austromarxismo.
3. Alle origini del "modello consociativo": Stato pluriclasse e governo di
coalizione. 4. Dalla "grande Vienna", alla "Vienna rossa". 5. Democrazia
sostanziale versus "democrazia senza qualità": la controversia con Hans Kelsen.
1. Tradizione e innovazione
1
Cfr. 0. LEICHTER, Otto Bauer. Tragèdie oder Triumph, Wien 1970, pp. 163 ss.
Avvertiamo subito che ci limiteremo a citare i testi e le fonti documentarie
strettamente funzionali all'esposizione. Per ulteriori informazioni e dati
bibliografici, oltre che per un inquadramento complessivo dell'opera di Bauer e
della teoria austromarxista in genere, rimandiamo ai nostri lavori: Austromarxismo
e socialismo di sinistra fra le dvie guerre, Milano 1977 (II ed. 1980) e II politico e le
trasformazioni. Critica del capitalismo e ideologie della crisi tra anni venti e anni trenta, Bari
1979.
2
V. ADLER, Briefwechsel mit August Bebel und Karl Kautsky, a cura di F. Adler,
Wien 1954, p. 646.
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E LA VIENNA DI BAUER 178
voce di un Bauer ritornato «sovversivo», puntualmente registrata
dai rapporti di polizia sulla sua attività e i suoi scritti (che in quei
mesi apparvero quasi tutti sotto pseudonimo, essendo egli ancora
in servizio militare, e come tale destinato a una sezione del
Ministero della Guerra), si diffuse in rapido volger di tempo anche
negli ambienti diplomatici europei: al punto che un comunicato
dell'ambasciata tedesca a Vienna del 24 gennaio 1918 indicava in
Bauer qualificato addirittura «emissario di Trockij» il
fomentatore dell'ondata di scioperi che, partita dalle fabbriche di
Wiener Neustadt, si stava espandendo anche ad altre regioni
dell'Impero3.
In realtà, benché Bauer avesse avuto in precedenza contatti
con Trockij e con Rjazanov, la sua posizione politica aderiva come
aveva d'altronde già chiarito egli stesso in una lettera a Kautsky
del 28 settembre 1917 a quella espressa dal "centro marxista" di
Martov; in particolare si era legato a Fèdor Dan (più tardi suo
stretto collaboratore nell'ala sinistra dell'Internazionale operaia
socialista) e a sua moglie Lydia Ossipovna (sorella di Martov),
presso i quali aveva soggiornato diverse settimane prima del
rientro a Vienna4.
Da questa lettera prendeva avvio un'analisi della rivoluzione
russa che per quanto destinata, negli anni successivi, a essere
sottoposta a emendamenti e a revisioni sostanziali conteneva già
3
Cfr. Il rapporto dell'ambasciata tedesca a Vienna, n. 24, 24 gennaio 1916, cit.
in 0. LEICHTER, Otto Bauer cit., p. 116.
4
Cfr. ivi, p. 164.
5
KautskyNachlass, Internationaal Instituut voor Sociale Geschiedenis,
Amsterdam (d'ora in avanti IISG), D.IL500.
in embrione quell'atteggiamento positivo di fondo che si delineerà
in termini di sempre più accentuato contrasto con la posizione
kautskiana: «Le conquiste sociali della rivoluzione sono enormi.
179 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Andrebbe spiegato soprattutto alla democrazia francese e inglese
cosa possono significare per la democratizzazione dell'Europa la
vittoria o la sconfitta della rivoluzione russa» 6. La "devianza" di
tale impostazione dalla linea di valutazione prevalente all'interno
della socialdemocrazia europea è di un'evidenza palmare. Ma
almeno altrettanto evidente è la consapevolezza, in Bauer, del
contrasto che così si apriva: per cui l'auspicio, da lui formulato
nella lettera, che la sua posizione trovasse in Kautsky pieno
consenso e potesse costituire la base per una proficua
collaborazione politica, sembra assumere il carattere di
preoccupata sollecitazione e, insieme, di ricercata diplomazia 7. Le
condizioni politiche interne e internazionali, d'altronde, erano
troppo tese e drammatiche perché fosse possibile proseguire sulla
linea di composizione formale delle divergenze, che aveva
caratterizzato i rapporti tra socialdemocratici austriaci e
socialdemocratici tedeschi prima della guerra.
6
Ibidem.
7
Ibidem. Si veda anche KautskyNachlas, IISG, D.11.503 (lettera del 4 gennaio
1918).
8
H. WEBER [0. BAUER], Die russische Revolution und das europàische Proletariat,
Wien 1917, ora in O. BAUER, Werkausgabe, voi. II, Wien 1976, pp. 39 ss.
grandi scioperi operai di gennaio e il precipitare del processo di
sfaldamento dello Stato asburgico con l'esplosione definitiva delle
tendenze autonomistiche in seno alle diverse nazionalità10. Non è
certo un caso se gli sviluppi dell'analisi del leninismo e della
rivoluzione d'Ottobre procedono, in Bauer, in stretta
concomitanza con il maturare di una drastica rottura con la
soluzione federalistica del problema delle nazionalità,
tradizionalmente sostenuta a partire dal momento in cui essa
venne adottata come programma ufficiale al Congresso di Brùnn
(Brno) del 1899. E dagli effetti della svolta si produce una
sostanziale revisione della sua stessa teoria delle nazionalità,
quale si trova formulata nel più importante dei suoi scritti
d'anteguerra: Die Nationalitàtenfrage und die Sozicddemokratie
n
.
La sci a ndo per il momento da pa rte q uesto a spetto,
di cru ci al e importa nza per comprendere l a sv ol ta dell a
soci a l demo cra zia austri a ca nel pa ssa g gi o dell 'I mpero
a i pri mi anni di vi ta del la Repub bl i ca , v a subi to
sottoli nea to che i fa ttori ri v ol uzi o na ri innesca ti dal l a
ri v ol uzi one d'O ttob re non fung ono da ca usa effi ci ente
o da detona tore, ma pi uttosto da mol ti pli ca tore di
tendenze pol i ti che gi à i n atto al l 'i nterno del pa rti to
a ustri a co. Al l orch é Ba uer fa ri torno a Vi enna, i
presup posti dell a sv ol ta sono in b uona mi sura g i à
da ti : i l suo meri to sta r à nel sa perl i "a mmi ni stra re" e
pi l ota re v erso un esito pol i ti co org a ni zza ti v o
fa v orev ol e al la si ni stra (l ung o una tra i ettoria ,
dunq ue, a ssai di v ersa da q uel la seg ui ta dal l a
soci a l democra zi a tedesca ). Esa t ta mente due a nni
pri ma (2 1 ottob re 1 91 6 ), i nfa tti , i l cel eb re "g esto" di
9
Ivi, p. 40.
10
Cfr. in proposito R. NECK, Arbeiterschaft und Staat im ersten Weltkrieg
19141918, Wien 1964.
11
In «MarxStudien», voi. II, Wien 1907, ora in 0. BAUER, Werkausgabe cit.,
voi. I, pp. 49 ss.
F ri edri ch Adl er (che av ev a fredda to con q ua ttro col pi
di ri v ol tell a i l conte St ùrg kh, presi dente del Consi g li o
del l 'I mpero a sb urg i co e pri nci pa l e responsa b i l e dell a
dra sti ca sv ol ta a utori ta ri a a vv ia ta nel l ug li o 1 91 4 con
l o sci og li mento del Pa rla mento) av eva b rusca mente
ri a perto nel l 'a rea soci a l demo cra ti ca il di ba tti to sull a
g uerra e sul l 'i nterna zi onal i smo, ri la n ci a ndo
a ll 'i nterno del pa rti to a ustria co un'opposi zi one di si ni
181 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
zimmerwaldiani con il Manifesto degli internazionalisti d'Austria
agli internazionalisti di tutti i paesi che suscitò una notevole eco
nel movimento operaio internazionale e venne riprodotto
contemporaneamente su diversi giornali , per ribadirla con forza
Tanno successivo alla Reichskonferenz della socialdemocrazia
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E LA VIENNA DI BAUER 182
austriaca (2527 marzo 1916)ló. In questa occasione nella quale la
sinistra usciva per la prima volta allo scoperto con una
piattaforma autonomamente definita Friedrich Adler prese la
parola contro la politica "socialpatriottica" perseguita dal padre
(che ancora rimaneva il leader indiscusso del partito) e polemizzò
violentemente con Karl Renner, la cui linea puntava a un
recupero, entro un processo di "democratizzazione", della cornice
plurinazionale dello Stato asburgico17. Nonostante la portata dello
sforzo, la Reichskonferenz si concluse per la sinistra con un
insuccesso. E proprio da tale insuccesso, e dal naufragio dei
successivi tentativi compiuti dalla sinistra con appelli rivolti
all'indirizzo del partito e del Bureau socialista internazionale,
Adler trasse il convincimento della necessità di un gesto
clamoroso ed esemplare capace di infrangere la passività e la
sclerosi di un partito che si era pericolosamente distaccato dalle
masse in un momento in cui queste erano costrette a subire,
accanto ai sacrifici provocati dalla guerra, il peso di una feroce
repressione poliziesca.
La vasta eco suscitata dal gesto di Adler nel movimento ope
raio internazionale, le innumerevoli polemiche che ne seguirono
sul "terrorismo politico" e sulle condizioni di legittimità del ricorso
ad esso in situazione critica, sono cose ormai fin troppo note e
studiate perché occorra ancora soffermarvisi18. Ciò che, invece,
mette contro sottolineare è che l'autentico momento di svolta fu
rappresentato, ancor più che dal gesto in sé, dalla celebre
autodifesa al processo (1819 maggio 1917), che venne a
intrecciarsi con una fase di grande espansione degli scioperi di
massa scoppiati in Austria alla notizia dell'abbattimento dello
16
Cfr. L. BRUGEL, Geschichte cit., pp. 253 ss.
17
Cfr. R.A. KANN, Karl Renner (december 14. 1870 december 31. 1950), in
«Journal of Modem History», 1951, pp. 244 ss.; J. HANNAK, Karl Renner und
seine Zeit, Wien 1965.
18
Si veda al riguardo E. COLLOTTI, Introduzione cit.
Stato zarista da parte della rivoluzione di Febbraio 19. Da quel
momento Friedrich Adler era diventato per la classe operaia
austriaca il simbolo della lotta contro l'assolutismo e la
degenerazione socialsciovinista del partito. Il suo nome venne così
affiancato di frequente a quello di Karl Liebknecht e, nei volantini
diffusi dagli operai durante i grandi scioperi di gennaio, fra le
varie rivendicazioni figurava anche la sua liberazione immediata.
Questa sarebbe venuta soltanto il 2 novembre 1918, alla vigilia
183 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
della proclamazione della Repubblica, mentre la pena di morte gli
era stata commutata dalla Suprema corte di giustizia in diciotto
anni di penitenziario già nel settembre dell'anno precedente: ed
era stato come l'estremo tentativo di un potere imperiale
disperatamente proteso dopo la rivoluzione di Febbraio e
l'entrata in guerra degli Stati Uniti a scongiurare il crollo 20.
L'importanza del gesto di Adler e delle sue conseguenze poli
tiche si misura tuttavia soprattutto in rapporto alla vicenda
interna della socialdemocrazia austriaca. Il suo effetto immediato
fu, infatti, il potenziamento dell'opposizione di sinistra, la quale
potè così prender parte alla III Conferenza del movimento di
Zimmerwald, tenutasi a Stoccolma il 5 settembre 1917. Quando,
pochi giorni dopo, Bauer fece ritorno a Vienna, trovò già in larga
misura preparato il terreno sul quale eserciterà la propria
iniziativa politica a favore della sinistra, redigendone subito la
dichiarazione programmatica al congresso del partito (1924
settembre)21.
L'apporto di Bauer si rivelerà presto decisivo, grazie alla tat
tica unitaria da lui adottata nei confronti della direzione del
partito. Come testimonia una lettera di Robert Danneberg a
Kautsky del 15 aprile 191822, Bauer riuscì a sfruttare politica
mente il processo di radicalizzazione delle lotte operaie dopo la
rivoluzione d'Ottobre per imprimere una decisiva spinta in avanti
agli equilibri politici interni del partito: convincendo la sinistra a
non costituirsi in frazione organizzata contrapposta alla
19
Cfr. R. NECK, Arbeiterschaft und Staat cit., pp. 31920.
20
Cfr. E. COLLOTTI, Introduzione cit., p. 55.
21
Cfr. L. BRUGEL, Geschichte cit., pp. 31112.
22
KautskyNachlass, IISG, D.VII.319. .
direzione, riuscì alla morte di Victor Adler (avvenuta pochi giorni
prima della proclamazione della Repubblica) ad assumere la
guida del partito. Questo passaggio di direzione politica, oltre a
evitare alla socialdemocrazia austriaca le lacerazioni e le scissioni
che travagliarono la socialdemocrazia tedesca, è all'origine della
profonda diversità di linea, di composizione e di quadro dei
rapporti di forza interni che intercorre tra il movimento operaio
austriaco e quello weimariano.
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E LA VIENNA DI BAUER 184
Particolare significato assumono, sotto questo profilo, i termini
nei quali Bauer condusse la polemica con Béla Kun che allora
presiedeva la Repubblica dei consigli di Ungheria in occasione
del fallito tentativo di putsch del 15 giugno 1919:
185 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Io credo scriveva Bauer il giorno immediatamente successivo al tragico
esisto della sortita insurrezionale, in una lettera inviata a Béla Kun
attraverso Robert Danneberg che noi ci troviamo nella prima o nella seconda
fase della rivoluzione mondiale. Questa però io me la configuro assai meno
lineare e molto più faticosa, complicata, multiforme e differenziata a seconda
del tempo e del luogo, di quanto non se la immagini la maggior parte dei
Vostri amici più stretti: e qui sta la radice delle nostre divergenze tattiche27.
Staatssekretàrs, Dr. Otto Bauer, 191819, Folder IXb: Ungarn und varia.
28
Bolschewismus oder Sozialdemokratie?, Wien 1920, ora in O. BAUER,
Verkausgabe cit., voi. II, pp. 223 ss.
A differenza di Kautsky, Bauer rifugge dall'applicazione mec
canica dello schema di relazione forze produttiverapporti di
produzione propria di quei teorici socialdemocratici che si limi
tavano a etichettare la rivoluzione d'Ottobre come un parto pre
maturo senza lunghe prospettive di vita. Il partito di Lenin è per
lui un «partito indubbiamente rivoluzionario e indubbiamente
socialista»29. Per una valutazione critica delle sue concezioni e
delle sue scelte pratiche occorre liberarsi del fardello dottrinario
del marxismo secondinternazionalista, introducendo un criterio di
analisi differenziale del «processo» rivoluzionario. L'indicazione
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E LA VIENNA DI BAUER 186
Vi è tuttavia un ulteriore aspetto che merita di essere sotto
lineato. Alla base del parallelo, per più rispetti discutibile, che
Bauer (e, analogamente, Friedrich Adler, Dan e Abramovic 32)
aveva instaurato tra bolscevichi e giacobini stava un assunto che
spingeva a problematizzare dal di dentro le nozioni di democrazia
e di via democratica: la distinzione tra elemento politico ed
elemento sociale del processo rivoluzionario. Il parallelo con la
rivoluzione francese dell'89, in contrapposizione a quella
"puramente politica" (e quindi borghese) del '48, viene evocato da
Bauer per definire la rivoluzione russa una rivoluzione sociale, di
contro al carattere politico della rivoluzione tedesca e austriaca, e
per giungere quindi alla conclusione che la dittatura del
proletariato instaurata da Lenin non rappresenta un
187 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
superamento o una soppressione irreversibile, bensì una fase di
sviluppo verso la democrazia33.
Se nel corso dell'analisi condotta in Bolscevismo o socialde
mocrazia? egli aveva ipotizzato la possibilità che la Russia sovie
tica approdasse a «forme sociali miste che la nostra scienza,
risultante da un processo di astrazione operato sulla base delle
esperienze del passato, non è ancora in grado di classificare»,
nelle opere successive questa previsione troverà un costante
ancoraggio nel postulato della riformabilità del sistema sovietico
in quanto sistema socioeconomico centralmente pianificato, e,
pertanto, nell'auspicio (che costituirà anche uno dei principali
obiettivi della sua battaglia internazionalista per il fronte unico)
che l'Unione Sovietica riuscisse gradualmente a eliminare le
forme di "statalismo" e di "socialismo dispotico" attorno alle quali
tendeva inesorabilmente a coagularsi la fase di assestamento del
processo di trasformazione34.
31
Cfr. Der Weg zum Sozicdismus, Wien 1919, ora in 0. BAUER, Werkausgabe
cit., voi. II, pp. 91 ss. (trad. it. Città di Castello 1920).
32
Cfr. in proposito M.L. SALVADOR!, Kautsky e la rivoluzione socialista 1880
1938, Milano 1976, pp. 272 ss.
33
Cfr. 0. BAUER, Bolscevismo o socialdemocrazia?, in G. MARRAMAO, Austro
marxismo cit., pp. 174 ss.
34
Cfr. ivi, p. 180.
Se la previsioneauspicio di una democratizzazione del sistema
di potere sovietico, intesa secondo uno schema interpretativo
riscontrabile, oltre che in Dan e Abramovic, nello stesso Trockij
come semplice adeguamento della sovrastruttura politica a una
struttura tendenzialmente socialista, peccava di "sociologismo",
nondimeno essa rivelava lo sforzo di superare alcuni pesanti
limiti ideologicodottrinari dell'approccio di Kautsky. Questi,
muovendo sin dal suo scritto del 1918, Die Diktatur del
Proletariats, dal presupposto che «non esiste socialismo senza
democrazia»35, era arrivato nel 1921 a conclusione della sua
celebre polemica con Trockij36 a chiudere definitivamente il
discorso sull'esperienza bolscevica, bollandola come irriformabile
dittatura antisocialista. Indipendentemente da ogni valutazione
di merito, non va dimenticato che questo atteggiamento di
preclusione di Kautsky si era già compiutamente delineato
quando ancora le vicende interne alla Russia sovietica e al campo
comunista europeo in formazione presentavano una mobilità, una
apertura conflittuale e una ricchezza di dibattito che verranno
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E LA VIENNA DI BAUER 188
smo. Mentre Bauer, infatti, nella sua opera del 1931, Rationali
sierungFehlrationalisierung 40 (inizialmente concepita come
primo volume di un ampio lavoro che avrebbe dovuto abbracciare
le trasformazioni del capitalismo e del socialismo dopo la guerra
mondiale), approfondirà e sottoporrà a parziale revisione la
propria interpretazione, prendendo atto del consolidamento
dell'economia sovietica (che smentiva tutte le previsioni fatte
negli anni '20 dai critici liberalborghesi come dai teorici
socialdemocratici), Kautsky continuerà a dichiararsi convinto «sia
dell'inevitabilità che della utilità del crollo del bolscevismo»41.
2. Metamorfosi delVaustrornarxismo
attraverso organi teorici autonomi fondando nel 1904 le "Marx
Studien" e nel 1907 "Der Kampf" , esso intende con tale
operazione distinguersi nettamente dall'impostazione kautskiana
del nesso teoriamovimento, assumendo come base di partenza il
postulato "revisionista" della nonidentità di marxismo e
socialismo. Sarà Bauer stesso, in quel denso e commosso bilancio
dell'esperienza politicoculturale delTaustromarxismo che è
rappresentato dal necrologio di Max Adler, a indicare nella
BernsteinDebatte il fattore propulsivo che dette avvio alla for
mazione della «giovane scuola marxiana di Vienna», la quale da
Max Adler a Gustav Eckstein, da Rudolf Hilferding a Karl Renner
«si trovava più vicina ai filoni culturali del tempo di quanto non
lo fosse la precedente generazione marxista dei Kautsky, dei
Mehring, dei Lafargue e dei Plechanov» 46.
46
0. BAUER, Max Adler. Ein Beitrag zur Geschichte des «Austromarxismus»,
in «Der Kampf», IV, Praha 1937, p. 297.
47
«MarxStudien», voi. I, 1904, pp. VIIVIII.
48
C. SCHMIDT, Neuere Schriften von und ilber Karl Marx, in «Archiv fiir
Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», voi. XX, 1905, p. 397.
49
Cfr. al riguardo soprattutto M. ADLER, Kausalitàt und Teleologie im Streite
um die Wissenschaft, in «MarxStudien», voi. TV, Wien 1904 (trad. it. Bari 1976,
con introduzione di R. Racinaro).
191 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
che di qui viene fatta discendere alla concezione monolineare delle
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E LA VIENNA DI BAUER 192
"leggi di tendenza storiche", è alla base della reinterpretazione del
problema degli intellettuali e della stessa visione del rapporto tra
forme dello sviluppo capitalistico e ruolo dello Stato.
La sensibilità per questi problemi era profondamente radicata
nel partito austriaco, per il confronto a tutto campo che lo aveva
visto impegnato sin dalla nascita con i problemi dello Stato
asburgico: l'unificazione tra "moderati" e "radicali" sancita dalla
dichiarazione dei principi approvata a Hainfeld aveva fatto del
partito la prima organizzazione capace di abbracciare l'intera
struttura plurinazionale dell'Impero 52. L'assiduo commercio con la
questione delle nazionalità e l'esistenza di un gruppo dirigente
formato in massima parte da un'intelligencija ebraica di cultura
mitteleuropea rappresentano, già negli anni '90, i due principali
tratti distintivi della socialdemocrazia austriaca rispetto alla
socialdemocrazia tedesca. Diversi gruppi intellettuali provenienti
dalla media borghesia colta si erano raccolti sin dal 1886 (prima
dello stesso Congresso di Hainfeld) attorno al settimanale "Die
Gleichheit" fondato da Victor Adler, e, a partire dal 1895, attorno
alla "ArbeiterZeitung". Victor Adler, medico di professione e
amico di Sigmund Freud (con il quale si era anche battuto in
duello da giovane), era un transfuga del liberalismo, al pari degli
altri leader carismatici che guidavano i raggruppamenti politici
più attivi al volgere del secolo: dal cristianosociale Karl Lueger
(che divenne celebre come borgomastro di Vienna) al
pangermanista Georg Ritter von Schònerer al sionista Theodor
Herzl. Se la defezione di questi intellettuali è dovuta al fallimento
del liberalismo asburgico, che si rivelò incapace di governare i
problemi della crescita urbana e di rivolgersi con efficacia agli
interessi emergenti da una società industriale che la rivoluzione
tecnologica di fine secolo aveva fatto crescere rapidamente in un
contesto agrario e piccoloborghese, per converso la forza che si
dimostrò capace di affrontare, almeno per una fase,
costruttivamente i problemi lasciati insoluti o addirittura
moltiplicati e inaspriti da quel tentativo abortito, fu proprio la
socialdemocrazia. La sua sensibilità per le problematiche della
52
Cfr. H. MOMMSEN, Die Sozialdemokratie und die Nationalitàtenfrage im
Habsburgischen Vielvòlkerstaat 18671907, Wien 1963.
Che la maggiore intensità e ampiezza di rapporti con il "mul
tiverso" delle nuove competenze intellettuali che contraddistingue
la socialdemocrazia austriaca rispetto alla socialdemocrazia
tedesca non potesse alla lunga mancare di incidere anche su
aspetti non secondari delle rispettive visioni teoricopolitiche, era
apparso chiaro sin dal dibattito sulla revisione del programma di
Hainfeld, avviato in preparazione del Congresso di Vienna del
Cfr. E.J. HOBSBAWM, La cultura europea cit., p. 80. Ibidem.
1901. Era stato proprio Victor Adler, in apertura di dibattito, a
prendere le distanze dalla teoria catastrofica deirimmiserimento
crescente (Verelendungstheorie), polemizzando con quanti la
concepivano come "legge bronzea" anziché come "tendenza". Ma, a
fronte della tendenza, andava per Adler messa in conto la
controtendenza costituita dal movimento operaio organizzato che
si oppone con la sua volontà attiva all'oggettività della "legge di
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E LA VIENNA DI BAUER 194
movimento": la tendenza all'immiserimento incontrerebbe, così, il
proprio ostacolo proprio nella soggettività politica del
proletariato55.
La posizione di Victor Adler che trova riscontro nell'impor
tante modifica apportata dal congresso al programma di Hainfeld,
sopprimendo il passo sull'"immiserimento crescente" ed
emendando in modo sostanziale quello relativo al concetto di
"necessità storica"56 si poneva in continuità con l'atteggiamento
duttile manifestato due anni prima nella recensione ai Presup
posti del socialismo di Bernstein (e i cui sviluppi possono,
d'altronde, essere agevolmente percorsi attraverso l'epistolario)57.
Un'analoga duttilità, non scevra di elementi di diplomazia,
caratterizza l'atteggiamento di Bauer nella delicata fase di fon
dazione e di avviamento di "Der Kampf": rivista che si poneva
nonostante tutte le sue assicurazioni di complementarità nel
quadro di una comune ricerca presenti nelle lettere a Kautsky di
questo periodo58 in concorrenza diretta con la "Neue Zeit".
Tuttavia, malgrado lo "spirito unitario" che Bauer condivideva con
la tradizione del partito austriaco, egli non potè fare a meno di
porre pubblicamente sul tappeto i termini di un sostanziale
dissenso allorché Kautsky, nel 1909, espose in termini compiuti la
propria visione della fase e della strategia.
tembre 1901.
56
Cfr. Protokoll ilber die Verhandlungen des Gesamtparteitages des Sozial
demokratischen Arbeiterpartei Osterreichs, Abgehalten zu Wien vom 2. bis 6.
November 1901, p. 52; si veda anche p. 101.
57
V. ADLER, Bernsteins Theorie und Taktik, in «ArbeiterZeitung», 2 aprile
1899. Cfr. inoltre ID., Briefwechsel cit., pp. 267 e 29798.
58
Cfr. KautskyNachlass, IISG, D.II.476 e 477.
Nel recensire La via al potere sulla rivista59, Bauer, pur acco
gliendo le conclusioni "gradualistiche" dell'analisi kautskiana, ne
respingeva con decisione il presupposto teorico che pretendeva di
fondare la politica del movimento operaio sulla inevitabilità del
radicalizzarsi degli interessi economici immediati delle classi
antagonistiche:
Proprio perché consideriamo giusto il risultato a cui perviene la ricerca
kautskiana sulla "via al potere", ci sembra pericoloso appoggiarne la
195 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
dimostrazione su presupposti errati o assai precari. Noi non crediamo che il
proletariato diventi maturo per sferrare la lotta decisiva per il potere solo
quando esso non può più conquistare nessun successo parziale sotto il dominio
borghese. Al contrario!60.
In termini pressoché identici Bauer si sarebbe espresso subito
dopo in una lettera a Kautsky del 26 aprile 1909:
63
0. BAUER, Der Weg zur Macht cit., p. 342.
64
Ibidem.
65
Cfr. O. BAUER., Die Teuerung. Eine Enfuhrung in die Wirtschaftspolitik der
Sozicddemokratie, Wien 1910, ora in ID., Werkausgabe cit., voi. I, pp. 643 ss. Si
veda in proposito il saggio di E. ALTVATER, II capitalismo si organizza: il dibat
tito marxista dalla guerra mondiale alla crisi del 29, in Storia del marxismo, voi.
m/1, Torino 1980, pp. 819 ss.
di Bauer con Kautsky, che chiama direttamente in causa un altro
tema centrale dell'austromarxismo anteguerra: quello del
rapporto intellettualisocialismo. Il senso della critica baueriana
non si afferra se non nel contesto della reimpostazione generale di
quel tema che gli austromarxisti, e in primo luogo Max Adler,
erano venuti operando proprio in questa fase. E dell'anno
successivo, infatti, l'opuscolo di Max Adler Der Sozialismus und
die Intellektuellen 66, in cui con un ribaltamento diametrale
dell'economicismo kautskiano, che risolveva la questione
dell'intelligencija scientifica in un'analisi della proletarizzazione
del ceto intellettuale e dunque in una sociologia dell'espansione
quantitativa dell'organizzazione l'accento fondamentale verteva
sulla specificità del ruolo politico dell'intellettuale in quanto
"portatore di scienza". Nella stessa direzione si muove la polemica
66
Wien 1910 (trad. it. in M. ADLER, II socialismo e gli intellettuali, a cura di L.
Paggi, Bari 1974).
197 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Non è stata la grande catastrofe geologica a cambiare l'aspetto della terra;
sono le piccole rivoluzioni all'interno degli atomi, impercettibili ed invisibili
anche al microscopio, che trasformano il mondo e creano l'energia che si
scatena poi un giorno, dando luogo ad una catastrofe geologica. Il piccolo,
l'impercettibile, ciò che noi definiamo lavoro minuto: questo è l'autentico
lavoro rivoluzionario67.
3. Alle origini del "modello consociativo": Stato pluriclasse e
governo di coalizione
È Bauer stesso, d'altronde, a suggerire questa chiave di lettura
della «storia dell'austromarxismo» nel già ricordato necrologio di
Max Adler del '37. In primo luogo, egli tende a sottolineare il
carattere eminentemente politico del lavoro di ricomposizione
filosofica svolto dal gruppo austromarxista, e in particolare da
Max Adler, nei primi anni del secolo: a differenza di una larga
fascia di intellettuali e dirigenti socialisti da Conrad Schmidt a
Staudinger, da Vorlànder a Kurt Eisner, fino allo stesso Bernstein
Adler si oppose fermamente a ogni appiattimento pragmatico ed
evoluzionistico della politica del movimento operaio: «non accolse
il neokantismo per combinarlo ecletticamente, come i revisionisti,
con il marxismo, bensì per difendere, proprio con gli strumenti
della critica kantiana della conoscenza, la scienza sociale
marxista da ogni annacquamento revisionistico, separandola
nettamente da qualsivoglia fondazione etica del socialismo»71. In
secondo luogo, Bauer individua però il momento della cesura
politica vera e propria nel periodo della guerra e della rivoluzione:
«la guerra e la rivoluzione avrebbero ... più tardi frantumato la
71
O. BAUER, Max Adler cit., p. 299.
comunità spirituale (Geistesgemeinschaft) della scuola
"austromarxista" di allora: nel periodo 191418 Renner e
Hilferding imboccheranno vie diverse da quella di Max Adler» 72.
Se, dunque, già nel primo decennio del secolo l'austromarxismo si
configura come un complesso teorico e analitico irriducibile a
mera variante di quello che impropriamente è stato chiamato
"kautskismo" delineando un ricco e articolato contesto culturale
che, per essere colto nella sua originalità richiede un'analisi non
schematica del cosiddetto «marxismo della II Internazionale»,
capace di dissolvere la maggior parte dei pregiudizi politici e
storiografici tradizionali e aperta alla comprensione delle sue
interne multiformità e diversificazioni regionali73 , è solo a
partire dal '14 che esso viene ad assumere una precisa fisionomia
politica: nel momento in cui deve misurarsi con gli scottanti
problemi posti alla socialdemocrazia europea dalla teoria e dalla
prassi del leninismo e, all'indomani del crollo dell'Impero, con i
compiti del governo dell'economia e della direzione dello Stato.
Non a caso come ricorda ancora Bauer in un articolo uscito
anonimo nel 192774 è proprio alla vigilia della guerra che, negli
ambienti della borghesia mitteleuropea, s'incomincia a parlare di
«austromarxismo» come di una pericolosa tendenza intermedia
tra la socialdemocrazia riformista e il bolscevismo.
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E LA VIENNA DI BAUER 200
75
O. BAUER, Die Voraussetzungen der Internationale, in «Der Kampf», XI,
1918, p. 9.
76 per gjj sviluppi della concezione di Renner da Staat und Naion (Wien
1899) alla guerra si veda A. AGNELLI, Questione nazionale e socialismo, Bolo
gna 1969, pp. 50 ss.
77
0. BAUER, Die Nationalìtàtenfrage cit., pp. 215 ss., ora in ID., Werkausgabe
cit., voi. I, pp. 270 ss.
esposizione storica della genesi e dello sviluppo delle nazioni non
è stata rettificata dagli avvenimenti e dalle indagini successive,
ma solo confermata»: il «risveglio delle nazioni senza storia», che
egli aveva descritto come «uno dei più importanti fenomeni
concomitanti del moderno sviluppo economico e sociale», si era
rivelato infatti «una delle forze rivoluzionarie della nostra
epoca»82.
Neanche in questa prima fase, dunque, Bauer aveva condiviso
l'entusiasmo per il "mito asburgico" di uno Stato plurinazionale
come luogo di armonica composizione dei conflitti. Entusiasmo
che restò invece a lungo radicato in Renner, il quale nel 1918
polemizzava con l'identificazione, istituita da Friedrich Meinecke,
di volontà politica e «volontà di costituire la nazione territoriale»
ossia con quella idea della volontà nazionale come Wille zum
Staat, di cui parlerà più tardi Hermann Heller , arrivando a
liquidare il principio di autodecisione delle nazioni come utopia
quarantottesca83. A questi temi, già fortemente marcati nello
scritto del 1914, Die Nation ah Rechtsidee und die Internationale
84
, si accompagnava l'accentuato rilievo conferito al tema dello
Stato come istanza di "gestione generale" della società
progressivamente autonomizzata dagli interessi "particolari" di
classe. Contro questa linea interpretativa delle trasformazioni
prodotte dalla guerra nella struttura e nella funzione dello Stato
tema centrale di tutta quella Kriegsliteratur che, da Troeltsch a
Plenge, da Sombart a Scheler, avrebbe investito delle sue
problematiche i grandi dibattiti degli anni successivi sulla
democrazia e sulla crisi del parlamentarismo polemizzarono
vivacemente Max Adler e lo stesso Kautsky 85. Quest'ultimo parlò
addirittura di «marxismo di guerra»86, riferendosi alle tesi
contenute nel libro del 1917, Marxismus, Krieg und
Internationale: dove Renner, portando alle estreme conseguenze
la logica del suo discorso, aveva affermato che la vera
Selbstbestimmung, l'autodeterminazione che realizza la «massima
autarchia» e «unità armonica» può essere soltanto quella dello
82
O. BAUER, Die Nationalitàtenfrage und die Sozicddemokratie, 2a ed., Wien
1924, p. XI, ora in ID., Werkausgabe cit., voi. I, p. 53.
83
Cfr. J. DROZ, L'Europe centrale. Evolution historique de l'idée de «Mitte
leuropei», Paris 1960, pp. 18284.
84
K. RENNER, Die Nation ah Rechtsidee und die Internationale, Wien 1914,
pp. 1012.
85
Cfr. ID., Zur Krise des Sozialismus, in «Der Kampf», LX, 1916, pp. 8797;
M. ADLER, Proletarische oder biirgerliche Staatsideologie, ivi, pp. 129 ss. Sulla
Kriegsliteratur si veda L. CANFORA, Intellettuali in Germania tra reazione e rivo
luzione, Bari 1979 e ID., Ideologie del classicismo , Torino 1980.
86
K. KAUTSKY, Kriegsmarxismus, in «MarxStudien», voi. I, Wien 1918, pp.
121 ss. (e si vedano in proposito le considerazioni di R. RACINARO nell'intro
duzione a M. ADLER, La concezione dello Stato nel marxismo, Bari 1979, p.
XXXI).
203 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Stato. A fondamento di questa affermazione stava tuttavia una
chiave interpretativa delle gigantesche trasformazioni del periodo
bellico (che Renner avrebbe ulteriormente sviluppato nel corso
degli anni '20), per la quale la posta in gioco della lotta di classe
nel capitalismo organizzato si esprimerebbe nel crescente
antagonismo tra l'economia, che continua a servire gli interessi
della classe capitalistica, e lo Stato che, accollandosi sempre più
compiti di amministrazione sociale, serve in modo sempre più
predominante il proletariato87.
In Die Nationalitàtenfrage troviamo accanto agli spunti ana
litici che spiegano la successiva rottura con queste posizioni quel
tema del "comune destino" di Òsterreichertum e Deutschtum che
è alla base dell'esito più clamoroso cui Bauer perviene alla fine
della guerra: la proposta di Anschluss della Repubblica austriaca
alla Germania. Alla base dell'obiettivo dell'annessione per il
quale Bauer si batté strenuamente per tutto il breve ma intenso
periodo in cui tenne il ministero degli Esteri non vi era soltanto
l'illusione di rinverdire il sogno bebeliano di una Grossdeutsche
Republik democraticopopolare, che superasse la grande divisione
storica della nazione tedesca tra Asburgo e Hohenzollern. Vi
erano anche, come è stato da più parti già osservato, delle
pressanti ragioni economiche, connesse alla posizione di netta
inferiorità in cui veniva a trovarsi la piccola Austria nel contesto
del mercato mondiale: le più importanti strutture industriali
dell'Impero si trovavano infatti dislocate al di fuori del territorio
di lingua tedesca, mentre la maggior parte della sua produzione
agricola era fornita dall'Ungheria; inoltre, la giovane Repubblica
si trovava a ereditare un enorme settore terziario che era
cresciuto a supporto di un grande capitale operante su scala
mitteleuropea, e che adesso si presentava pletorico e difficilmente
convertibile88. Ma, a parte le ragioni eco
87
K. RENNER, Marxismus, Krieg und Internationale, Wien 1917, p. 27.
Si veda al riguardo, oltre all'ancora valido lavoro di C.A. GULICK, Austria
88
from Habsburg to Hitler, 2 voli., BerkeleyLos Angeles 1948, A.D. Low, Die
Anschlussbewegung in Osterreich und Deutschland, 19181919, und die Pariser
Friedenskonferenz, Wien 1975, e H. HAAS, Otto Bauer und der Anschluss, in
Sozialdemokratie und «Anschluss», a cura di H. Konrad, Schriftenreihe des
Ludwig BoltzmannInstituts fur Geschichte der Arbeiterbewerung, 9, Wien
1978, pp. 3644.
nomiche, dietro il progetto àiAnschluss di Bauer vi era, a nostro
giudizio, anche una forte motivazione politica. Con ogni pro
89
Cfr. 0. BAUER, Acht Moriate auswàrtiger Politik, Rede, gehalten am 29. Juli
1919, Wien 1919, ora in LD., Werkausgabe cit., voi. II, pp. 187 ss. Si veda inol
tre CA. GULICK, Austria cit., voi. II, pp. 1364 ss.
90
Cfr. S. MILLER, Das Ringen um «die einzige grossdeutsche Republik». Sozial
demokratie in Òsterreich und im Deutschen Reich zur Anschlussfrage 1918/19,
in «Archiv fur Sozialgeschichte», 1971, n. 11, pp. 167.
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E LA VIENNA DI BAUER 204
babilità, Bauer sperava di arrivare, attraverso l'annessione, a un
partito socialdemocratico unitario che riunisse in sé la grande
tradizione e forza di massa operaia della socialdemocrazia tedesca
con la complessa visione teoricopolitica dell'"intelligenza
marxista" austriaca. Tale supposizione sembrerebbe ricevere
conferma dal fatto che la politica estera perseguita da Bauer con
tenacia e vigore dal novembre 1918 al maggio 1919 non fu
avversata solo dall'Intesa, ma anche dal governo
socialdemocratico moderato della Germania di Weimar.
Attraverso i documenti di archivio è possibile infatti ricostruire
come egli si fosse servito, durante il periodo del suo ministero, di
tutti i mezzi diplomatici nel vano tentativo di conquistare il
governo tedesco alla causa dell'annessione89. L'ostilità
manifestata proprio da Scheidemann verso il progetto di Bauer è
sintomatica di quanto forte fosse la diffidenza politica della
socialdemocrazia maggioritaria nei confronti di quelli che allora
cominciavano ad esser chiamati (con una precisa intenzione
polemica) "austromarxisti" : i quali, d'altronde, non avevano
nascosto, sin dagli anni della guerra, le loro simpatie per i
socialdemocratici indipendenti (nel gennaio 1918, al I Congresso
dei consigli operai tedeschi, la delegazione austriaca, guidata dal
noto esponente della sinistra Robert Danneberg che avrebbe
svolto una funzione di grande rilievo nell'amministrazione della
"Vienna rossa" , aveva fatto blocco con quella della Uspd); così
come non avevano lesinato critiche talvolta anche durissime
(come nel caso di Friedrich Adler nella sua autodifesa al processo
e di Max Adler e dello stesso Bauer negli scritti e interventi di
quegli anni) ai "maggioritari" della Mspd, che presiedevano
appunto con Scheidemann la coalizione governativa da loro
formata con il partito cattolico del Zentrum e la Demokratische
Partei90.
Qualunque giudizio si voglia dare del progetto di Anschluss, è
indubbio che il suo fallimento produsse proprio la situazione che
Bauer aveva tentato con la sua politica di scongiurare: un partito
socialdemocratico costretto a gestire il drammatico isolamento
dell'Austria tedesca, aggravato dall'anomalia di una capitale, la
cui pachidermica struttura terziaria si era venuta a trovare priva
del referente dei poli industriali e che purtuttavia continuava a
costituire un elemento condizionante per la pregnanza della
propria tradizione e per la concentrazione di un blocco operaio
aderente nella sua stragrande maggioranza alla politica del
205 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
degli operai e impiegati d'azienda (rappresentati dai sindacati), a
quelli dei consumatori (rappresentati dalle cooperative di
consumo) , senza affrontare di petto la questione principale:
quella relativa ai finanziamenti dei progetti di esproprio
dell'industria e di municipalizzazione dell'edilizia98.
100
O, BAUER, Die òsterreichische Revolution, Wien 1923, p. 166, ora in ID.,
Werkausgabe cit., voi. II, pp. 489 ss.
101
I. SCHUMPETER, Sozialistische Mòglichkeiten cit., p. 356 (e si veda al
riguardo R. RACINARO, Introduzione a H. KELSEN, Socialismo e Stato, Bari 1978,
pp. XCIII ss.).
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E LA VIENNA DI BAUER 208
Stato alla municipalità della capitale non può essere visto sol
tanto come il frutto spontaneo di una necessità oggettiva: esso è
anche il risultato di una scelta. Subito dopo il fallimento della
coalizione Schumpeter aveva individuato nel superamento gra
duale dell'anomalia costituita dal "problema Vienna", attraverso
un progressivo decentramento delle strutture finanziarie e ter
ziarie volto a livellare la vistosa sproporzione rispetto al resto del
paese, «il compito della politica austriaca, il solo che [andasse]
preso seriamente e dinanzi al quale ... ogni altro compito
passa[va] completamente in secondo piano» 101. L'opzione della
socialdemocrazia austriaca sarebbe andata in senso esattamente
inverso a questa realistica e lungimirante indicazione,
proponendosi di assumere Vienna a modello ed emblema di quella
nuova qualità del lavoro e dei rapporti sociali auspicata nelle
linee programmatiche del "piano di socializzazione" di Bauer.
Scegliendo di esaltare l'isolamento e la distanza culturale della
capitale grazie anche alla larga autonomia conferita al suo
Landrat dalla Costituzione del 1920 (alla cui redazione contribuì
in misura rilevante Hans Kelsen) la politica austromarxista
sarebbe incorsa nel paradosso di gestire anacronisticamente la
perdita d'identità di Vienna mediante la sua trasformazione in
grande macchina filantropica e pedagogica. Una macchina
certamente suggestiva nelle sue forme esteriori, ma in realtà
funzionale alla salvaguardia e alla legittimazione di un'economia
capitalistica essenzialmente statica102.
4. Dalla «grande Vienna» alla «Vienna rossa»
Il contesto sopra delineato e la contemporanea parabola dell' «
Internazionale due e mezzo» 103 dovrebbero costituire i punti di
102
Si veda al riguardo C.A. GULICK, Austria cit., pp. 407 ss., nonché i con
tributi sulla «Vienna rossa» di M. TAFURI, Austromarxismo e città. Das rote
Wien, in «Contropiano», 1971, n. 2, e soprattutto, «Das rote Wien». Politica e
forma della resistenza nella Vienna socialista 19191933, in Vienna rossa, Milano
1980.
103 per ja trattazione di questo tema rimando a G. MARRAMAO, Austro
marxismo cit., pp. 58 ss.
104
Un acuto ed equilibrato bilancio della nuova recezione dell'austromarxi
smo si trova in una conferenza tenuta da Franz Marek poco prima della sua
morte, e adesso stampata, con il titolo Renaissance des Austromarxismus, in
«Der Kreidekreis», Bozen 197980, pp. 28.
105
K. NOVY, «Sozialisierung von unten» Uberlegungen zur vergessenen
Gemeinwirtschaftsbewegung im «Roten Wien» 1918 bis 1934, Aachen 1978; P.
GORSEN, Zur Dialektik des Funktionalismus beute. Das Beispiel des kommuna
len Wohmingsbau im Wien der zwanziger Jahre, in J. HABERMAS (a cura di), Sti
chworte zur «Geistigen Situation der Zeit», 2 voli., Frankfurt am Main 1979,
^vol. II: Politik und Kultur, pp. 688705.
209 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
riferimento fondamentali per ogni analisi che intenda sottrarsi al
rischio opposto, ma speculare, a quello in cui incorrono le
liquidazioni pregiudiziali della teoria e della prassi
dell'austromarxismo come piatto "riformismo" camuffato da
"rivoluzionarismo verbale" e da una raffinata quanto mistificante
attrezzatura culturale: il rischio, intendo, di una sua apologetica
riscoperta e riattualizzazione104. Questa avvertenza critica ci è
suggerita, tra gli altri, dai recenti, e peraltro assai ben
documentati, contributi di Klaus Novy e di Peter Gorsen, dedicati
rispettivamente alla politica sociale e allo sfondo culturale della
politica edilizia della "Vienna rossa" 105. Entrambi questi autori,
dal giusto rilievo dell'originalità di questa esperienza, tendono a
trascorrere a una sua astorica riproposizione come modello ancora
attuale, o addirittura anticipatore di esperienze politiche e
amministrative dei giorni nostri106. Per Gorsen anche la politica
edilizia della "Vienna rossa" esprimerebbe quell'opzione a favore
di una «terza via» in cui consisterebbe l'odierna attualità e
ricchezza d'insegnamenti dell'austromarxismo: una sorta di terza
via architettonica tra modernismo e tradizionalismo, monotonia
ed espressività, Neue Sachlichkeit e ornamentalismo107. La
soluzione architettonica prevalsa nella "Vienna rossa" avrebbe,
rispetto all'avanguardismo funzionalista dei Le Corbusier, dei
Gropius e del Deutscher Werkbund e rispetto all'essenzialità da
Loos astrattamente attribuita alla mentalità del "ceto medio", il
vantaggio di adattarsi alla reale contraddittorietà delle forme di
coscienza investite dai processi di modernizzazione e alla
complessità che caratterizza le forme di socializzazione operaie,
colte nel loro rapporto con le radici comunitarie del Mittelstand.
Nel suo eclettismo e nella sua incoerenza, essa rifletterebbe così
quella "sincronia dell'asincronico" su cui tanto avrebbero insistito
Bloch e Kracauer108. Espressione della compresenza
contraddittoria di vecchio e nuovo, nostalgia comunitaria
dell'ornamento e desiderio di innovazione e di semplicità,
l'architettura della "Vienna rossa" misconosciuta, non a caso,
tanto dai critici borghesi che da quelli sovietomarxisti si
presenterebbe, a giudizio di Gorsen, più realistica, più concreta,
più aderente al tempo storico della «coscienza di classe», e, in
definitiva, «più umana» del razionalismo funzionalista che,
secondo un classico meccanismo di rimozione, presuppone
astrattamente l'avvenuto superamento delle forme di
socializzazione e di vita «preindustriali» 109.
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E LA VIENNA DI BAUER 210
Fin qui Gorsen. Non vi è dubbio che si tratti di un'interpre
tazione suggestiva: di una chiave di lettura idonea a catturare
importanti, e spesso trascurati, punti di intersezione tra i diversi
livelli d'intervento della politica austromarxista. A ben guardare,
106
Cfr. K. NOVY, Volkswohnpalàste im roten Wien, in «StadtRevue Kòln»,
1977, n. 10, p. 38.
107
Cfr. P. GORSEN, Zur Dialektik cit., p. 690.
108
E. BLOCH, Erbschaft dieser Zeit, Zùrich 1935, ora in ID., Gesamtausgabe,
voi. IV, Frankfurt am Main 1962; S. KRACAUER, Die Angestellten (1929), in ID.,
Schriften, voi. I, Frankfurt am Main 1971 (trad. it. Torino 1980).
109
P. GORSEN, Zur Dialektik cit., pp. 7012.
tuttavia, questo approccio riproduce, entro un ambito di
considerazione specifico, una vistosa aporia riscontrabile anche in
altre ricostruzioni eccessivamente ripropositive e "sintetiche"
dell'esperimento viennese: oltre a passare sotto silenzio una cir
costanza che da sola potrebbe invalidarla ossia le notevoli dif
ficoltà che la politica socialdemocratica austriaca incontrò proprio
con il "ceto medio" , questa ipotesi finisce per fornire una
motivazione debole della sconfitta, per ricondurla, cioè, o a
insormontabili ostacoli oggettivi o a "errori" squisitamente sog
gettivi. Parlare di "terza via" a proposito dell'austromarxismo nel
periodo fra le due guerre può avere, pertanto, un senso solo in
quanto si voglia riportare alla luce un patrimonio di riflessioni e
di politiche lasciato in ombra dalle due tradizioni maggioritarie
del movimento operaio: sotto questo profilo, il ritardo con cui si è
iniziato a studiare l'austromarxismo fuori dei pregiudizi è senza
dubbio una spia della permanenza di cospicue zone di opacità sia
in campo comunista (o postcomunista) che in campo
socialdemocratico. L'uso dell'espressione non può, tuttavia, non
essere al tempo stesso condizionato dal riferimento a un tentativo
storicamente esperito e sfociato in un esito tragicamente
fallimentare: esso può dunque legittimamente rinviare solo a un
groviglio di problemi drammaticamente aperti non certo a
presunte "soluzioni". Ed è proprio nella sua contraddittorietà che
ha un senso oggi assumere a oggetto di studio la complessa rete di
interdipendenze, la fitta ragnatela di rimandi reciproci che collega
gli sviluppi della teoria politica dell'austromarxismo alle
trasformazioni dell'ambiente culturale nel passaggio dalla
"grande Vienna" alla "Vienna rossa".
110
Die Auflósung des Austromarxismus, in «Unter dem Banner des Marxi
smus», I, 192526, pp. 474557; II, 1928, pp. 7683.
211 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
logo serrato i cui sviluppi appaiono particolarmente significativi
proprio nel campo della teoria politica. Contrariamente a quanto
scrisse allora August Thalheimer no, questo periodo non coincise
affatto con la «dissoluzione dell'austromarxismo», bensì con la
fase più intensa della sua riflessione sul problema del rapporto
Statodemocrazia e della sua più estesa influenza all'interno del
movimento operaio europeo.
111
K. RADEK, Theorie und Praxis cit., p. 4.
112
Ivi, p. 46.
113
Tesi del IV Congresso sulla tattica del Comintern (5 dicembre 1922), in
A. AGOSTI, La Terza Internazionale. Storia documentaria, Roma 1979; voi. I, 2,
Roma 1974, in specie p. 644.
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E LA VIENNA DI BAUER 212
La correzione principale investiva la teoria dei «fattori sociali
di potere» delineata in Boscevismo o socialdemocrazia? 114. Abbiamo già
accennato in precedenza come in quest'opera Bauer avesse
abbozzato sia pure in modo ancora vago e impreciso una traccia
di elaborazione politica intermedia tra Tipostasi kautskiana della
democrazia e il "modello soviettista" di Lenin. La conclusione cui
egli era pervenuto seguendo questa traccia era solo
apparentemente affine a quella di Kautsky. L'esito
dell'argomentazione baueriana era, infatti, fortemente
relativizzato ai paesi dell'Europa occidentale, e pertanto non
stava in contraddizione con l'affermazione della pluralità delle vie
al socialismo cui sarebbe approdato l'anno successivo. L'entità dei
processi di trasformazione attraversati dall'economia capitalistica
nell'Occidente europeo escludeva, per Bauer, la possibilità di
perseguire con successo una via rivoluzionaria intesa nella forma
della rottura violenta: di conseguenza, l'autentica via
rivoluzionaria doveva in questi paesi dimostrarsi capace di
pilotare il passaggio a un nuovo ordine socioeconomico senza
spezzare la continuità del meccanismo produttivo e statale pena
l'avventuristica esposizione ai contraccolpi reazionari (come
insegnava il tragico epilogo delle Repubbliche consiliari di
Ungheria e di Baviera).
I passaggi analitici attraverso i quali Bauer era giunto a que
sto risultato presentano concomitanze non episodiche con la linea
di ricerca che Hilferding stava contemporaneamente conducendo
sui caratteri del "capitalismo organizzato", le cui radici teoriche
affondavano anche nell'impostazione antimeccanicistica, e
tendenzialmente antieconomicistica, con cui l'austromarxismo
aveva affrontato prima della guerra il problema del rapporto tra
sviluppo capitalistico e politica del movimento operaio:
sensibilmente diversa era tuttavia, come si vedrà più innanzi, la
funzione assegnata da Bauer al momento politicoistituzionale,
nel suo rapporto interattivo con le trasformazioni sociali. Il rifiuto
dei modelli consiliari "puri" propri del radikaler Utopismus
rappresentato dai Dàumig e dai Mùller in Germania, dai Gorter
in Olanda veniva motivato con il fatto che la dittatura dei
consigli, rendendo d un colpo impossibile la direzione capitalistica
Cfr. trad. it. in G. MARRAMAO, Austromarxismo cit., pp. 219 ss.
dell'impresa, determinava in tutti i settori produttivi un'anarchia
che doveva poi essere soppressa (a causa non solo dei contraccolpi
e delle disfunzioni che si producevano nel tessuto delle
interdipendenze tecnicoorganizzative e nella divisione del lavoro
tra i diversi settori economici, ma anche degli effetti centrifughi di
213 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
insubordinazione sociale che ssa induceva) da un potere statale la
cui dinamica finiva per diventare incontrollabile e
inevitabilmente coercitiva.
Rivoluzione effettiva è dunque, nei paesi capitalistici ad alto
tasso di "razionalizzazione", solo quella che riesce a salvaguardare
la continuità del processo sociale di produzione e di circolazione e
che senza affidare le proprie sorti a un mitico "controllo operaio"
o a una brusca statalizzazione globale si dimostra capace di
imboccare la via di una «trasformazione pianificata, sistematica»,
in cui l'espropriazione graduale si concentri in primo luogo sui
settori chiave della produzione e del commercio e l'espulsione e
l'isolamento delle funzioni del singolo imprenditore avvenga in
continuità con le condizioni già poste dallo sviluppo.
La forma politica adeguata di questo processo che vede il
conflitto industriale svolgersi nell'ambito di una stratificazione
sociale resa complessa dalla crescente importanza del ruolo svolto
da figure intermedie come i manager (i Wirtschaftsfuhrer), i tecnici,
gli impiegati, i "lavoratori intellettuali" è per l'appunto la
democrazia. Per fondare la correlazione tra forma democratica e
razionalizzazione equilibrata, Bauer introduceva la nozione di
«fattori sociali di potere» di una classe, distinguendola
formalmente da quella reciproca e complementare di
«strumenti materiali di potere»: i primi consistono nella forza
numerica e organizzativa di una classe, nei suoi strumenti di
potere economici e nella sua forza d'attrazione ideologica e di
orientamento culturale non solo rispetto ai membri della propria
classe, ma anche rispetto a quelli di altre classi; i secondi
consistono invece nella forza materiale (ossia nel potenziale
quantitativo e qualitativo di lotta) e nell'organizzazione armata
della classe. La democrazia è quella forma di governo nella quale
le funzioni dello Stato sono determinate esclusivamente dai
fattori sociali di potere, senza che l'impiego degli strumenti
materiali intervenga in alcun modo a turbare questo equilibrio:
nello Stato democratico la "volontà generale" si configura, per
tanto, come la risultante spontanea dei fattori sociali di potere.
Bauer doveva presto avvedersi delle aporie e incongruenze
implicite in questa sua teoria dei fattori sociali di potere, aspra
mente criticata da Lenin al II Congresso delllnternazionale
comunista115. Se per un verso, infatti, essa esprimeva una visione
della democrazia tesa a travalicare gli steccati di una
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E LA VIENNA DI BAUER 214
postazioni democraticoautogestionali create dalla classe operaia
nel biennio 191819. Ma in questa relativizzazione storica della
nozione di Gleichgewichtszustand sta appunto il tratto distintivo della
problematica baueriana rispetto a precedenti e contemporanee
formulazioni di questo concetto in ambito marxista116.
Nell'accezione engelsiana dell'Origina della famiglia, la situa
zione di equilibrio è riferita al periodo storico della nascita della
monarchia assoluta, e cioè a una fase caratterizzata dalla coe
sistenza di rapporti di produzione feudali e rapporti di produzione
borghesi: essa si configura pertanto come equilibrio tra borghesia
e ceti dominanti tradizionali. Il concetto si ripresenta anche nelle
opere storicopolitiche di Marx, dove sta parimenti a indicare una
situazione di stallo della lotta di classe, da cui si origina il
fenomeno del bonapartismo. Ma, mentre in ambedue questi casi
storici lo Stato si era autonomizzato come «potere indipendente»
{selbstàndige Macht) che assoggettava a sé tutte le classi, nella
situazione specifica della democrazia austriaca le classi si trovano
di fatto «a dover condividere il potere statale» 117. L'innovazione
fondamentale introdotta da Bauer nell'uso di questa nozione
rispetto all'originario contesto marxengelsiano consiste pertanto
nella sua stretta correlazione con il processo di crescita politica
che, favorito e accelerato dalla guerra, ha infranto la tradizionale
omogeneità di classe dello Stato, portando i partiti operai a
partecipare a governi di coalizione.
116
Cfr. 0. BAUER, Die òsterreichische Revolution cit., pp. 196 ss.
117
Ivi, pp. 24344.
Non sarebbe difficile rintracciare i molteplici addentellati,
anche terminologici, che connettono questi sviluppi della rifles
sione teorica di Bauer a coeve revisioni intraprese da altri intel
lettuali socialdemocratici. Estrapolarli dal contesto significhe
rebbe però inevitabilmente smarrire delle differenze sostanziali.
Anche Kautsky, in quegli anni, fonda la sua tesi dell'inevitabilità
del governo di coalizione attraverso la chiave di lettura dello
"stato di equilibrio"118. Ma, mentre in Kautsky esso si configura
come una denotazione adeguata dell'intera fase storica di tran
sizione allo «Stato del futuro» (Zukunfts staat) sostituendo così a
pieno titolo la nozione di "dittatura del proletariato" , per Bauer
caratterizza invece una situazione intrinsecamente irrisolta,
dall'assetto labile e provvisorio, e pertanto foriera di drammatici
sviluppi. È precisamente in questa accezione che Bauer istituisce
una correlazione biunivoca tra nozione di "equilibrio" e concetto di
Volksrepublik: intendendo con esso connotare non già un
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E LA VIENNA DI BAUER 216
118
Cfr. K. KAUTSKY, Die proletarische Revolution und ihr Programm, Berlin
1922, pp. 1056.
119
O. BAUER, Die òsterreichische Revolution cit., p. 244.
H. KELSEN, Otto Bauerspolitisene Theorien, in «Der Kampf», XVII, 1924,
120
pp. 50 ss.
del concetto di «equilibrio delle forze di classe» alla Repubblica
austriaca del periodo 191922. Riprendendo ma in parte anche
precisando e sviluppando le tesi formulate quattro anni prima in
Sozialismus und Staat (e con le quali aveva vivacemente
121
121
Leipzig 1920 (trad. it. cit.).
122
In «MarxStudien», IV, Wien 1922, n. 2 (trad. it. cit.).
123
H. KELSEN, Otto Bauers politische Theorien cit., p. 56.
124
Ivi, p. 51.
125
Ivi, p. 55.
217 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
politischen Theorie des Marxismus , che riprende (talvolta addirittura
130
131
Ivi, pp. 21718.
132
Ivi, p. 216.
133
Sugli sviluppi della teoria del 'capitalismo organizzato" in Hilferding si veda
soprattutto W. GOTTSCHALCH, Strukturverànderungen der Gesellschaft und
politisches Handeln in der Lehre von Rudolf Hilferding, WestBerlin 1962, pp. 189
ss. Inoltre H.A. WINKLER, Einleitende Bemerkungen zu Hilferdings Theorie des
Organizierten Kapitalismus, in AA.W., Organisierter Kapitalismus, Gòttingen
1974, pp. 918; G.E. RUSCONI, La crisi di Weimar cit.; E. ALTVATER, Il capitalismo
si organizza cit.
219 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Il nuovo quadro di relazioni interattive si esprime per il neo
marxismo socialdemocratico degli anni '20 non diversamente che
per Kelsen come passaggio dalla "necessità" alla "possibilità":
l'attuazione dello Endziel, della prospettiva socialista, non è
garantita da alcuna necessità, ma è soltanto possibile. La
"legalità" o "conformità a legge" (Gesetzmàssigkeit) dello sviluppo
economico produce, con l'avvento del capitalismo organizzato
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E LA VIENNA DI BAUER 220
della lassalliana "leva del socialismo" filtrata attraverso la lettura
kelseniana di Weber, lo "Stato democratico" appare, al tempo
stesso, strumento e involucro formale ("garantista") della
transizione. Rispetto all'«epoca di Max Weber», che è stata
«l'epoca della socializzazione della produzione», i compiti attuali
del movimento operaio consistono nel'estensione di questo
processo alla sfera della circolazione139. Il limite del capitalismo
organizzato sta nel dar luogo a unità economiche "razionalizzate"
che sono società soltanto de facto, ma non de jure. Se l'esistenza di
fasce di società dirette e controllate dalla nuova intelligencija
tecnicoscientifica fa crollare tutte le obiezioni libero
concorrenziali al socialismo dimostrando come sia lo stesso
capitalismo che, con il dispiegarsi della "razionalità" in esso
implicita, emargina dal processo economico la figura del singolo
imprenditore, ciò non deve tuttavia far perdere di vista la
distanza che separa questo stato di fatto dal de jure: dallo Stato di
diritto. Colmare questa distanza è appunto il compito della
socializzazione. E la transizione altro non è che il periodo di
riforme graduali che sarà necessario a coprirla140.
La problematica sviluppata da Renner negli anni '20 è diffi
138
Cfr. J.A. SCHUMPETER, Capitalìsm, Socialism and Democracy, New York
1942 (trad. it. Milano 1967).
139
K. RENNER, Die Wirtschaft ah Gesamtprozess und die Sozialisierung, Wien
1924, p. 369.
140
Cfr. ivi, pp. 370 ss.
cile da comprendere fuori dal riferimento al contesto culturale di
quella "Vienna rossa" in cui si erano svolte le famose polemiche su
economia di mercato e pianificazione accese dal "manifesto
liberale" di von Mises e le discussioni sull'economia di guerra
come grande laboratorio del "capitalismo organizzato" e sul
calcolo economico in una società socialista che Otto Neurath
aveva portato addirittura dentro il consiglio operaio di Monaco di
Baviera. Ed erano quegli stessi assi di riferimento culturale
come Kelsen aveva acutamente rilevato a fornire le basi di
ancoraggio dell'aggiornamento baueriano della teoria
dell'«equilibrio delle forze di classe», malgrado la marcata diver
genza dalle conclusioni politiche di Renner. La parte teoricamente
più significativa della risposta di Bauer a Kelsen quella relativa
alla critica del «marxismo volgare» (Vulgàrmarxismus) ha come suo
141
0. BAUER, Das Gleichgewicht der Klassenkràfte, in «Der Kampf», XVII,
1924, pp. 57 ss., ora in AA.W., Austromarxismus cit., p. 90.
142
Die Geschichte eines Buches, in «Die Neue Zeit», XXVI, voi. I, 1907
1908, pp. 23 ss.
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E LA VIENNA DI BAUER 222
retroterra di riferimento culturale l'epistemologia di Ernst Mach e
la sua sostituzione dei concetti di causa e di sostanza con il
concetto di relazione funzionale. La critica di Kelsen colpisce al
cuore soltanto il Vulgàrmarxismus, che opera una reductio del
complesso categoriale marxiano agli «assiomi generali», i quali,
«estrapolati dal loro contesto storicosistematico», vengono da esso
«affastellati» e «dogmatizzati» 141. Uno di questi "assiomi" è
appunto quello dello Stato come strumento della dittatura di
classe, che, propagatosi con la vulgata (resa storicamente
necessaria come Bauer aveva già sottolineato in un lontano
articolo del 1907 sul Capitale 142 dall'esigenza di trasmettere alle
masse in lotta lo scheletro delle teorie marxengelsiane), viene
identificato dai critici borghesi (che puntano secondo
l'espressione che Bauer adopererà più tardi nel necrologio di Max
Adler a entrevolutionieren, a «derivoluzionare», il movimento
operaio) come la sola proposizione che il marxismo abbia saputo
emettere intorno alla natura e alla dinamica dello Stato moderno.
L'efficacia del marxismo critico nei confronti del "marxismo
volgare" sta invece nella capacità di relativizzare gli assiomi alla
realtà attraverso YAnnàherungsverfahren, vale a dire mediante quel
"metodo dell'approssimazione" o
L'approdo di Bauer al machismo era avvenuto, dopo un breve
periodo di adesione al neokantismo (attestato dall'articolo del
1906 Marxismus und Ethik 144), negli anni della guerra, forse sotto
l'influenza di Friedrich Adler (che in un suo libro del '18 aveva
tentato una fusione delle teorie di Mach con il marxismo,
riprendendo la polemica del '10 con Mehring 145), ma probabil
mente anche in seguito ai contatti con l'ambiente culturale men
223 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
scevico presi durante la prigionia in Russia: è a questo periodo,
d'altronde, che risale la prima stesura di Das Weltbild des Kapi
talismus, uno scritto che risente fortemente dell'influsso delle teorie
machiane. Le possibilità di un uso in chiave teoricopolitica del
machismo in funzione critica verso un'idea meccanicistica del
materialismo storico, inteso come fabbrica di leggi universali, era
stata già indicata da Gustav Eckstein (un altro intellettuale di
spicco del gruppo austromarxista, morto in guerra) in Der
Marxismus in der Praxis:
Come dice Mach, compito della scienza è di sintetizzare nella forma più
ridotta le esperienze umane, così da risparmiare agli uomini ulteriori cattive
esperienze. Ma la scienza non potrà mai sostituirsi del tutto all'esperienza
individuale: il singolo può infatti venire raggiunto soltanto da quelle
conoscenze scientifiche a cui le sue esperienze l'hanno predisposto. Ciò vale
143
O. BAUER, Das Gleichgewicht der KLassenkràfte cit., p. 88 (la citazione si
riferisce a Die Mechanik di Ernst Mach [trad. it. Torino 1977]).
144
In «Die Neue Zeit», XXIV, voi. II, 1905906, pp. 48599.
F. ADLER, Ernst Machs tìberwindung des mechanischen Materialismus,
145
Wien 1918 (trad. it. a cura di Antimo Negri, Roma 1978).
anche per il marxismo e per la sua politica146.
tensione situato tra gli "assiomi generali" e i "fatti" è la sola via
per raggiungere tale obiettivo. Di conseguenza lo stesso "stato di
equilibrio" non deve essere soltanto formulato nei termini di una
teoria generale da giustapporre di volta in volta meccanicamente
ai diversi casi concreti ma piuttosto predicato negli aspetti
particolari che esso assume nella fase odierna147.
L'espressione peculiare del Gleichgewichtzustand nell'attuale epoca
storica è per Bauer la crisi della democrazia formale, puramente
rappresentativa. Ma, se la «crisi del parlamentarismo tradizionale
è una forma di manifestazione dell'equilibrio delle forze di classe»
148
, ne consegue che quest'ultimo non ha luogo necessariamente in
presenza di un governo di coalizione, ma è anzi indipendente dalla
sua «forma di espressione politica»:
146
G. ECKSTEIN, Der Marxismus in der Praxis cit., p. 42.
147
O. BAUER, Das Gleichgewicht der Klassenkràfte cit., pp. 8890.
148
Ivi, p. 91.
Una tale spartizione del potere di Stato tra le classi può sussistere sotto un
governo di coalizione (come in Austria dall'autunno 1919 all'autunno 1920),
ma anche sotto governi borghesi (come in Austria sotto i governi Mayr e
Schober) oppure sotto governi socialisti (come in Svezia sotto Branting o forse
prossimamente in Inghilterra sotto un governo operaio). D'altra parte abbiamo
visto anche governi di coalizione che non erano espressione di un reale equili
brio delle forze di classe, come ad esempio il secondo governo Stresemann in
Germania o l'attuale governo di coalizione in Cecoslovacchia 149'.
Ma la metamorfosi dell'influenza delle teorie di Mach nel
passaggio dalla "grande Vienna" alla "Vienna rossa" si accom
pagna a un paradosso. Il machismo che feconda i dibattiti delle
149
Ivi, p. 87.
150
Ibidem.
151 per l'influenza di Mach e Pearson su Kelsen si veda R. RACINARO, Intro
duzione a H. KELSEN, Socialismo e Stato cit., pp. XII ss.
152
Cfr. H. KELSEN, Die philosophischen Grundlagen der Naturrechtslehre und
der Rechtspositivismus (Vortràge von der KantGesellschaft), Charlottenburg
1928 (trad. it. in appendice a Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano
1952).
153
K. RENNER, Der taktische Streit, in «Der Kampf», XII, 1918, p. 24.
scienze sociali e favorisce il superamento della vecchia dottrina
secondinternazionalista da parte delle nuove elaborazioni poli
tiche che fioriscono in campo socialdemocratico è un machismo
arretrato rispetto agli sviluppi dell'epistemologia tra le due
guerre: è il machismo del Wiener Kreis e del Verein "Ernst Mach",
fondato alle soglie degli anni '20 da Otto Neurath 154. Prevale in
tutti questi filoni d'indagine, all'interno come all'esterno del
marxismo, un'idea "rappresentazionale" dell'astrazione
scientifica, che postula una simmetria, una corrispondenza, e
quindi un discrimine puramente quantitativo tra dati reali e dati
psichici, rappresentazioni generali e "fatti": anche per Bauer,
come si è visto, gli assiomi riproducono la realtà empirica,
quantunque in misura semplificata. Otto Neurath, sotto questo
profilo, non è che l'indice di un fenomeno più generale di
accostamento di ampie fasce dell'intellettualità viennese al
socialismo a partire dagli anni della guerra (fenomeno, d'altronde,
documentato dalle autobiografie di Popper e di Carnap) 155.
L'attività di Neurath fu l'elemento catalizzante che, al principio
degli anni '20, trasformò in movimento filosofico ufficiale il
fermento di idee e di ricerche che si era spontaneamente formato
a Vienna attorno a Moritz Schlick, il quale nel 1922 era
subentrato a Mach nella direzione della cattedra di filosofia delle
scienze induttive.
In netto contrasto con l'assunto "fisicalista" retrostante l'idea
della «corrispondenza tra il linguaggio significante e la realtà
sensibile» (per cui le asserzioni del linguaggio significante «sono
154
Cfr. J.T. BLACKMORE, Ernst Mach. His Work, Life and Influence, Berke
leyLos AngelesLondon 1972, in specie pp. 186 ss. e 235 ss. All'ambiente cul
turale attorno all'austro marxismo è dedicato un capitolo della storia sociale
degli intellettuali austriaci dal 1848 all'occupazione nazista di W.M. JOHNSTON,
The Austrian Mind. An Intellectual and Social History 18481938, BerkeleyLos
AngelesLondon 1972, pp. 98 ss.
155
K. POPPER, La ricerca non ha fine, Roma 1976; R. CARNAP, Tolleranza e
logica, Milano 1978.
156
F. BARONE, Introduzione a O. NEURATH, II Circolo di Vienna e l'avvenire
dell'empirismo logico, Roma 1977, p. 31.
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E LA VIENNA DI BAUER 226
riducibili ad esperienze vissute, a dati immediati di senso» 156) è il
fronte più avanzato della cultura viennese: la linea ideale
che congiunge Kraus, Loos e Schònberg. Vi è uno stretto rapporto
tra lo Schònberg che riprende la nozione krausiana di "fantasia"
fons et origo della creatività, ma solo a condizione che attraversi una
ferrea disciplina logica e una tecnica rigorosa e scorge il
momento fondamentale neLTarticolazione logica interna della
musica, e non già nell'effetto del suono, nella trovata decorativa,
nella mozione dei sentimenti di chi ascolta, e il Loos che, alleato
dei "quadri neri" di Kokoschka contro il "terrore dello stile", si
rifiuta di concedere alcunché ai "gusti" del pubblico 157. In questo
fronte culturale si riconosce anche Wittgenstein, che, a differenza
di quanto comunemente si crede sulla scorta di superficiali
ricostruzioni d'ambiente, non segue la linea di Mach bensì quella
di autori tuttora poco considerati (malgrado Cassirer) come Hertz
e Boltzmann158: ìeDarstellungen non sono più, per Wittgenstein, le
rappresentazioni machiane, ma costruzioni scientifiche, modelli
matematici internamente rigorosi, regole del gioco per conoscere e
governare la realtà nei limiti del possibile, senza alcuna armonia
prestabilita che le componga con esse. I simboli non sono più copie
o nomi di sensazioniesperienze reali, poiché il loro fondamento
non è psicologicodescrittivo, ma logicomatematico159. Fedele a
questa linea di critica del rappresentazionismo e dell'estetismo
Wittgenstein rimane anche quando trascorre all'analisi funzionale
dei termini, alla teoria della funzionalità dei termini e dei loro
giochi alle "forme di vita". È corretta dunque anche alla luce di
una ricostruzione "ambientale" l'interpretazione di chi scorge nel
passaggio dal "primo" al "secondo" Wittgenstein non una cesura
ma «una traslazione da un punto all'altro di un sistema, intorno
ad un medesimo centro: una traslazione in cui qualcosa va
perduto per salvare qualcos'altro che nel nuovo orizzonte trova la
sua sede più appropriata» 16°. La stessa
157
Cfr. al riguardo R. CALASSO, Una muraglia cinese, Introduzione a K. KRAUS,
Detti e contraddetti, Milano 1972, pp. 18 ss.
158
Cfr. A. JANIKS. TOULMIN, Wittgenstein S Vienna (trad. it. Milano 1975),
ma soprattutto le considerazioni svolte da M. CACCIARI nel saggio La Vienna di
Wittgenstein, in «Nuova corrente», 1977, n. 7273, pp. 59 ss., e successivamente
riprese in Dallo Steinhof. Prospettive viennesi delprimo Novecento, Milano 1980.
159
Cfr. A. JANIKS. TOULMIN, Wittgenstein's Vienna cit., pp. 14147.
160 TRINCHERÒ, Introduzione a L. WITTGENSTEIN, Osservazioni sopra i fon
damenti della matematica, Torino, p. XXIX.
227 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Quando riproduce un determinato caso concreto, è arte; quando stabilisce
leggi che derivano per astrazione l'universale da una molteplicità di casi
concreti, è scienza. Il lavoro artistico si serve consapevolmente o
inconsapevolmente di leggi, ma l'opera d'arte costruita non contiene alcuna
formulazione di leggi. Il rapporto tra l'opera d'arte e l'astrazione scientifica
viene ristabilito solo attraverso commenti che fanno vedere la legge generale
nel caso concreto163.
5. Democrazia sostanziale versus «democrazia senza qualità»: la controversia
con Hans Kelsen
229 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
Nell'opuscolo Der Kampf um die Macht importante per la compiuta
delineazione che esso contiene della politica di alleanze della
socialdemocrazia austriaca Bauer sembra mutare radicalmente
la propria previsione: la sua prospettiva volge infatti nel senso di
un atteggiamento ottimistico che appare in netto contrasto con la
drammatica problematicità delle analisi svolte in Die òsterreichische
Revolution e nella replica alle critiche di Kelsen. Il radicalizzarsi del
confronto tra i due blocchi contrapposti della socialdemocrazia e
dei "partiti borghesi" viene visto non più soltanto come una
minaccia, ma soprattutto come un fattore di accelerazione del
passaggio decisivo alla presa del potere: «Adesso la lotta non
riguarda più delle misure e delle riforme isolate: oggi la lotta
concerne la totalità, concerne il potere. Ed il potere ci è così vicino
che possiamo quasi toccarlo» 166.
Qual è la ragione del mutato atteggiamento di Bauer? Essa
non va ricercata soltanto nel successo alle elezioni dell'ottobre del
'23 (dove la socialdemocrazia austriaca aveva visto aumentare in
modo cospicuo i propri suffragi rispetto alle elezioni del '20,
portandosi a 1.311.882 voti contro il 1.494.298 dei cristianosociali
e i 419.274 dei fautori dei pantedeschi e dell'unione agraria), ma
soprattutto nell'affermazione della legge per la protezione degli
inquilini con cui la municipalità viennese aveva risposto
efficacemente al contrattacco dei proprietari ai sistemi di
requisizione167. Il successo ottenuto con questa importante
conquista legislativa che rappresentava il provvedimento più
radicalmente antiliberista nel settore in tutta l'Europa del primo
dopoguerra sembrò rafforzare lo splendido isolamento della
"Vienna rossa", conferendole un significato, più che emblematico,
166
O. BAUER, Der Kampf um die Macht, Wien 1924, ora in ID., Werkausgabe
cit., voi. II, pp. 935 ss. (trad. it. in G. MARRAMAO, Austromarxismo cit., p. 256).
167
CA. GULICK, Austria cit.; M. TAFURI, «Das rote Wien» cit., pp. 14 ss.
di vera e propria avanguardia. In un articolo sulla "Weltbùhne",
Ernst Toller rende con grande efficacia lo scalpore allora suscitato
dall'esperienza viennese, riportando l'allarmato commento di un
industriale austriaco, suo occasionale compagno di viaggio sul
treno ViennaBerlino:
quarta domestica e il mio autista. Pensi: per la prima domestica debbo pagare
50 scellini di imposta, per la seconda 150, per la terza 600, per la quarta 1200.
Ciò è intollerabile. Vienna degenera. I proprietari dei locali notturni hanno
dichiarato che chiuderanno, se Breitner non aprirà gli occhi. Uno dei miei
amici, proprietario di un locale notturno, mi racconta che una bottiglia di
spumante francese costa 8 scellini. Si aggiungano 16 scellini di dogana: su
questi 24 scellini Breitner preleva il 60 per cento per le imposte comunali».
Anch'io consideravo qualche tempo fa l'operato del consiglio comunale
viennese a forte maggioranza socialista, e i risultati concreti che potevo
osservare distruggevano con meravigliosa forza il senso di depressione che
ogni socialista radicale tedesco porta dentro di sé. Ciò spiega perché il partito
comunista austriaco non ha seguito. I radicali qui restano nel partito
socialista. Solo la Russia opera culturalmente al medesimo livello 168.
Ma è proprio da questo splendido isolamento che comincia a
prodursi quella sorta di "illusione ottica" che induce Bauer e la
dirigenza del partito a convincersi della possibilità di un pro
gressivo e inesorabile sfondamento nel sociale a partire dal saldo
punto d'appoggio delle "rocche rosse" viennesi: «In pochi anni
scriveva ancora in Der Kampf um die Macht potrà essere
abbattuto il dominio della grande borghesia, e il potere repub
blicano potrà passare nelle mani della classe operaia» 169. L'illu
168
E. TOLLER, Das sozìalistische Wien, in «Die Weltbùhne», XXIII, n. 11,
1927, p. 407 (trad. it. in appendice a Vienna rossa cit., p. 231).
169
O. BAUER, Der Kampf um die Macht (trad. it. p. 254).
231 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
sione ottica produce una drammatica accentuazione delle aporie
racchiuse nell'impostazione generale degli anni precedenti, dando
luogo a un duplice esito: la disarticolazione strategica dell'analisi
dei paradossi della democrazia in una logica di blocchi
contrapposti; lo smarrimento del carattere dinamico
dell'intervento politicostatuale (concertato dall'abile politica del
cancelliere cristianosociale Ignaz Seipel) su quegli «strati sociali
intermedi», la cui conquista Bauer considerava decisiva per
risolvere a favore della socialdemocrazia l'equilibrio delle forze di
classe. Ma vediamo di analizzare, sia pure molto sinteticamente,
questi due aspetti.
Abbiamo visto in precedenza i passaggi teorici attraverso i
quali Bauer arriva a individuare l'espressione peculiare dello
"stato di equilibrio", nell'attuale epoca storica, nella crisi del
parlamentarismo. Ma proprio l'esigenza di integrazione delle
istanze di democrazia rappresentativa con alcune istanze di
"democrazia funzionale" (o industriale), nel quadro di una visione
non ingenuamente evolutiva o lineare dello sviluppo della forma
democratica, per quanto gli consenta di sottrarsi agli evidenti
rischi di ricaduta nello statalismo impliciti in una posizione come
quella di Renner, implica tuttavia problemi non meno ardui.
L'accentuazione degli aspetti di "organicismo culturale
indutriale" perculiare a tutta una tradizione di pensiero tedesca è
infatti presente proprio in quegli autori che sottolineano la crisi
del parlamentarismo: in questo senso, la concezione baueriana si
imbatte nelle stesse difficoltà di fronte alle quali fece naufragio il
grande pensiero democratico o neoliberale della Repubblica di
Weimar: da Rathenau a Troeltsch a Meinecke. Tale limite non
può essere tuttavia semplicisticamente ricondotto alla
permanenza (o al ricorso) del tema della Gemeinschaft: della
comunità intesa come società organica (contro il carattere
artificialemeccanico della Gesellschaft). In primo luogo, infatti, i
temi della Gemeinschaft e del Volksstaat non coincidono, anche se si
presentano sovente intrecciati. In secondo luogo, il ricorrere del
tema della comunità o del Gemeinwesen non comporta di per sé
implicazioni organicistiche, dal momento che compare anche in
un autore estremamente vigile e aspramente critico verso
l'organicismo come Hans Kelsen. Non è indifferente, quindi, la
portata di una distinzione che serpeggia nel dibattito tedesco
austriaco degli anni
'20: la distinzione tra un'accezione formalgiuridica della
"comunità" (Rechtsgemeinschaft) e una demonazionale (Volk
sgemeinschaft). In Hilferding e in Renner, ad esempio, le tematiche
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E 232
LA
VIENNA DI BAUER
Il corpo legislativo scriveva Renner già nel 1901 è l'organo unitario più
eminente dello Stato moderno ed una sua disarticolazione sarebbe un peccato
mortale contro l'organo stesso... Nel risultato della decisione unitaria sta la
funzione essenziale del Parlamento... Ma questa decisione coagula gli interessi
contrapposti in un interesse medio generale che spesso non coincide affatto con
gli interessi di nessun singolo partito. Ogni maggioranza parlamentare poggia
in sé già su di un compromesso con la minoranza, cui essa deve rendere il
compromesso almeno passivamente accettabile. Chiunque veda questa
ricomposizione di interessi e ne riconosca la funzione essenziale non mancherà
di individuare l'errore fondamentale della cosiddetta rappresentanza di
interessi, del sistema per classi. Per questo sistema, infatti, il compito
principale consiste nel mettere a nudo tutti gli interessi contrapposti cosa che
peraltro riesce assai raramente fino al punto di distruggere o di limitare
fortemente la possibilità di arrivare alla decisione unitaria170.
Le riflessioni di Hilferding e di Renner hanno il vantaggio di
operare un netto e definitivo distacco dal giusnaturalismo ancora
presente in quel marxismo che «idolatra le leggi di natura» e
impedisce di «analizzare la società come un sistema che ha il suo
fulcro nel diritto e nello Stato» 171 : ragion per cui esse si configu
rano nel dopoguerra come piattaforme teoriche non assimilabili
all'"attendismo rivoluzionario" secondinternazionalista. Malgrado
ciò esse finiscono tuttavia per concepire lo Stato democratico come
un soggetto sintetico, accogliendo l'equazione kelseniana di diritto
e Stato (con la riduzione, in essa implicita, del tema weberiano
Il tratto distintivo della concezione di Bauer si evidenzia pro
prio attraverso la polemica con questa duplice curvatura del
weberismo "depoliticizzato" di Renner e di Hilferding: la reductio
dello Stato a sintesi formalisticoistituzionale (della legittimità
alla legalità) e l'illusione della socializzazione come equi
libramento stabile e tendenzialmente aconflittuale delle forze
sociali. L'elemento di maggiore interesse della posizione baue
riana non va dunque, a nostro avviso, rintracciato nella soluzione
combinatoria che sta alla base del suo modello di democrazia e di
Sozicdisierung. Ma piuttosto nel suo tentativo di coniugarlo, almeno
a partire dal '23, con un'ipotesi conflittualista. La tematica
baueriana della "democrazia funzionale" risente infatti
dell'influenza del gildismo britannico (rappresentato
segnatamente dalla teoria "pluralista" di Cole, Laski e Stafford
Cripps) non meno delle elaborazioni di Hilferding che nel '21
aveva introdotto il libro di Cole sull'« autogestione nell'industria»
172
e dello stesso Renner, il quale tendeva a sottolineare la
compatibilità della propria concezione con la dottrina pluralista
del Guild Socialism:
Lo Stato è solo un gruppo sociale accanto agli altri. Fin qui il socialismo
delle gilde ha senz'altro ragione. Tuttavia il gruppo "Stato" mi sembra si
distingua da tutti gli altri, poiché la sua funzione è proprio quella di
ricomporre e riequilibrare la molteplicità dei gruppi in lotta fra loro173.
È attraverso la critica all'illusione di stabilità dell'"equilibrio
democratico" illusione che la sinistra austromarxista vedrà
ufficialmente ratificata nei deliberati del Congresso di Kiel della
Spd che viene ad assumere in questi anni una posizione di
assoluta centralità un altro tema curciale: la questione del rap
porto democraziadittatura.
La sistemazione teorica di questo rapporto fu opera di Max
Adler, le cui tesi costituirono un punto di riferimento fonda
mentale del dibattito congressuale del '26. Motivo conduttore
dell'impostazione adleriana era la distinzione tra "democrazia
politica" e "democrazia sociale": mentre la prima, e in genere
«tutte le altre forme che vengono designate come democratiche»,
rappresenta (in quanto muove dal presupposto liberale
dell'atomizzazione della società in individui astratti) la costi
tuzione formale di una "volontà generale" in funzione degli inte
ressi particolari di una classe che domina sulle altre, e pertanto
una forma di dittatura, la seconda viene a coincidere con la
democrazia reale, attuabile nella sua pienezza soltanto in una
società senza classi. Ragion per cui la democrazia politica, così
come è stata una delle forme in cui si è storicamente esercitata la
dittatura borghese, può essere anche una delle forme di esercizio
della dittatura del proletariato: la «sostituzione della dittatura
borghese con la dittatura proletaria», dunque, non deve
necessariamente aver luogo nella forma della dittatura aperta del
174
Cfr. soprattutto W. RATHENAU, Sozicdisierung und kein Ende (1919), in
Gesammelte Schriften, voi. VI: Schriften aus Krìegs und Nachkriegzueit, Berlin
1929, pp. 21743 (trad. it. in M. CACCIARI, Walther Rathenau e il suo ambiente,
Bari 1979, pp. 87 ss.).
175
Cfr. M. CACCIARI, Walther Rathenau cit., pp. 6567.
bolscevismo, ma può svolgersi anche (e questa è per Adler la
strategia di transizione adeguata ai paesi ad avanzato sviluppo
capitalistico) «nelle forme della democrazia politica» 176.
Ma il paradosso della "custodia della Costituzione" con mezzi
completamente extraparlamentari ed extraistituzionali non
poteva non portare a un progressivo arretramento di quella che si
presentava come una linea di mera difesa dell'"ordine repub
blicano" fino al totale immobilismo del "blocco operaio", esaltato
dall'ideologia dell'uomo nuovo e dell'autosufficienza delle forme
proletarie di socializzazione. La socialdemocrazia austriaca si
182
Cfr. Der Kampf um die Macht, trad. it. cit., pp. 250 ss. (relative al capi
tolo su Democrazia e violenza armata).
183
Rimando per questi autori al mio libro II politico e le trasformazioni cit.,
e, per i rapporti tra socialdemocrazia e intellettuali della Hochschule fur Poli
tile di Berlino, alla mia introduzione a W. ABENDROTH, Socialismo e marxismo
da Weimar alla Germania Federale, Firenze 1978.
184 programm der Sozialdemokratischen Arbeiterpartei Deutschòsterreichs,
beschlossen vom Parteitag zu Linz am 3. November 1926, ora in AA.W, Austro
marxismus cit., p. 384.
sorreggeva i discorsi, al Consiglio comunale di Vienna o in Par
lamento (particolarmente suggestivi quelli di Bauer), contro la
"parassitaria" rendita fondiaria urbana e a favore del capitale
produttivo: a questa linea di austerità si atteneva rigorosamente
la strategia tributaria di Karl Seitz (il popolarissimo borgomastro
di Vienna) che, per quanto colpisse spietatamente gli investimenti
speculativi, comprimeva massicciamente i consumi 185.
Cfr. CA. GULICK, Austria cit., pp. 499 ss.
cristianosociali riuscirono a far breccia nel blocco di alleanze
socialdemocratico, e, a partire dal '27, usarono sempre più
spregiudicatamente le organizzazioni paramilitari reazionarie dei
Frontkàmpfer e delle Heimwehren per innescare un processo di
ristrutturazione autoritaria dello Stato186.
Un'analisi intrecciata degli sviluppi teorici e della politica pra
tica dell'austromarxismo negli anni '20 consente di sottrarsi alla
spiegazione semplicistica per cui l'austromarxismo avrebbe
coperto con raffinate teorizzazioni una pratica rinunciataria e
opportunistica, e al tempo stesso di far luce sulle ragioni di un
fallimento che a prima vista si presenta come il frutto di opzioni
pratiche opposte a quelle "istituzionaliste" della Spd weimariana.
La "terza via" teoricamente prospettata dall'austromarxismo si
traduce nei fatti in una tragedia della nonscelta, mediata da un
recupero surrettizio della visione dicotomica (a onta dell'enfasi
posta da Bauer sul ruolo dei "ceti medi") all'interno di una logica
del "blocco contro blocco" che si svolge tutta nell'ambito del
"sociale", mentre l'avversario si organizza a partire dallo Stato.
A partire dal Congresso di Linz, le analisi di Bauer e di Max
Adler conosceranno una notevole fortuna all'interno del socia
lismo tedesco ed europeo, influenzando rispettivamente il dibat
Cfr. C. REIMANN, ZU Grò SS fùr Ósterreich. Seìpel und Bauer im Kampf um
186
die Erste Republik, Wien 1968, pp. 350 ss.
187
Rimando per questo aspetto al mio libro Austromarxismo cit., pp. 98 ss.
Cfr. O. BAUER, Kapitalismus und Sozicdismus cit.; Protokoll des Sozial
188
demokratischen Parteitages, abgehalten vom 13. bis 15. November 1932 in Wien,
Wien 1932, pp. 34ss.; Mach der deutschen Katastrophe, Die Beschlusse der inter
nationalen Konferenz der S.A.I. in Paris, August 1933, und die Rede des Beri
chterstatters Otto Bauer, Zùrich 1933.
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E 238
LA
VIENNA DI BAUER
tito "pianista" e il Linkssozialismus 187 . Ma esse non faranno che
riprodurre in termini sempre più intensi e drammatici le aporie
sopra analizzate. Se, infatti, le tappe più significative della
riflessione di Bauer fino alla sconfitta (il volume del '31 Ratio
nalisierungFehlrationalisierung, le relazioni del '32 al Congresso
della socialdemocrazia austriaca e del '33 al Congresso del
l'Internazionale socialista)188 ripropongono l'idea neoclassica del
piano come "razionalizzazione equilibrata" e la strategia di difesa
della democrazia contro il fascismo in termini di pure alleanze
sociali, Adler dal canto suo approda (nel tentativo di fornire un
organico statuto teorico al "socialismo di sinistra" rilanciato negli
anni della crisi da Paul Levi e dal gruppo berlinese di "Klas
senkampf") a una riassunzione surrettizia della teoria catastrofica
(nel senso della più comune versione sottoconsumistica) e a un
irrigidimento propagandisticodottrinario dello Endziel189. In
assenza di un'analisi della nuova composizione del blocco
dominante prodotta dai processi di trasformazione del "capita
lismo organizzato" (lacuna che Bauer colmerà parzialmente solo
dopo la sconfitta, nella suggestiva interpretazione del fascismo
contenuta in Zwischen zwei Weltkriegen?190), la disamina strut
turale dei meccanismi che mettono in crisi il "parlamentarismo"
tende a risolversi in una moralistica denuncia degli «errori del
riformismo» e in una critica puramente negativa dei limiti della
"democrazia formale". A entrambi viene drasticamente con
trapposta l'irriducibile opposizione ideale della Gegengesell
schaft, della controsocietà operaiocomunitaria assediata nelle
"rocche rosse" viennesi: pesante retaggio subculturale che la
socialdemocrazia austriaca al pari di quella weimariana eredita
dall'"integrazione negativa"191 del periodo anteguerra, e che
nell'austromarxismo appare come vistoso correlato organizzativo
di una "teoria della pausa".
Alla disarticolazione di "sociale" e "politico" che caratterizza, su
sponde opposte, le opzioni tattiche dei due maggiori partiti
socialdemocratici europei del tempo, fa riscontro un contrattacco
capitalistico che, facendo leva sugli apparati di potere, da esso
saldamente controllati a partire dal 192324, organizza come in
Austria il consenso antioperaio del "ceto medio" e della piccola
borghesia agraria o, giocando su un dispositivo mobile di alleanze
189
Cfr. M. ADLER, Die soziale Revolution, in AA.W., Die Krìse des Kapitali
smus und die Aufgaben der Arbeiterklasse, Berlin [1931], p. 141.
190
Bratislava 1936, ora in O. BAUER, Werkausgabe, voi. IV, pp. 49 ss. (trad.
it. Torino 1979: cfr. in specie le pp. 105 ss., e si veda al riguardo l'ampia intro
duzione di Enzo Collotti). Inoltre, G. BOTZ, AustroMarxist Interpretation of
Fascism, in «Journal of Contemporary History», II, 1976, pp. 12956.
191
Riprendo questa espressione da D. GROH, Negative Integration und revo
lutionàrer Attentismus, FrankfurtBerlinWien 1973.
192
Cfr. C.S. MAIER, Recasting Bourgeois Europe, Princeton 1975 (trad. it.
Bari 1979).
239 VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
193
Behemoth. The Structure and Practice of National Socialism, Toronto
New YorkLondon 1942 (trad. it. Milano 1977, con un'introduzione di Enzo
Collotti), p. 51.
194
Sul WtbPlan cfr., oltre a G.E. RUSCONI, La crisi di Weimar cit., L. VALIANI,
La sinistra socialista nella crisi finale della repubblica di Weimar, in «Rivista
storica italiana», 1970, n. 3, pp. 704 ss.
195
Cfr. G. BOTZ, Gewalt und politischgesellschaftlicher Konflikt in der Ersten
Republik (19181933), in «Ósterreichische Zeitschrift fur Politikwissenschaft»,
IV, 1975, n. 4, pp. 51134.
196
O. BAUER, Zwischen zwei Weltkriegen? cit., p. 350.
PARTE SECONDA
MODELLI DI ORDINE
IMMAGINI E CONCETTI
SOMMARIO: I. Imago mundi e ordine politico. II. Sovranità: per una storia
critica del concetto. III. L'ossessione della sovranità: per una metacritica
del concetto di potere in Michel Foucault. A. Il pattern miticorituale
della sovranità. Postilla antropologicopolitica. IV. Metafore della
regalità: macchina, corpo, persona. V. Stato sociale: un ossimoro? VI. La
sovranità dissolta. A confronto con Niklas Luhmann.
CAPITOLO PRIMO IMAGO MUNDI E
ORDINE POLITICO
1. L'indagine dei presupposti
Nel 1934 Lucien Febvre pubblicava sulle «Annales d'Histoire
Économique et Sociale» un ampia nota dedicata a un libro che egli
non esitava a definire «une puissante fresque d'histoire intel
lectuelle, baignant longuement dans l'histoire sociale d'une epo
que encore mal connue, plus mal comprise et, cependant, d'une
importance capitale pour l'histoire generale de la pensée
moderne»1. L'opera in questione era Der Ubergang vom feudalen
zum biirgerlichen Weltbild. Studien zur Geschichte der Philo
sophie der Manufakturperiode di Franz Borkenau: appena uscita
a Parigi, ma in lingua tedesca, per i tipi di Felix Alcan come
quarto volume delle Schriften del francofortese Institut fur
Sozialforschung, costretto a riparare in Francia in seguito
all'avvento del nazionalsocialismo2.
1
L. FEBVRE, Fondations économiques, superstructure phUosophique: une synthèse, in
«Annales d'Histoire économique et sociale», VI, 1934, p. 373 (ora in ID., Pour une
Histoire a pari entière, Paris 1962, p. 749).
2
Ed. it. a cura di G. MARRAMAO, La transizione dall'immagine feudale all'immagine
borghese del mondo, Bologna 1984. F. BORKENAU (19001957) era nato a Vienna da
una famiglia di origine ebraica. A contatto con l'ambiente viennese, acquisisce
precocemente quell'attitudine a fare interagire tematiche disciplinari diverse che
caratterizza il clima culturale della finis Austriae: partecipa infatti giovanissimo
alla Jugendkultur di Siegfried Bernfeld, noto per la
9. G. MARRAMAO: Dopo il Leviatano.
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 244
Malgrado un accoglienza così precoce e largamente favorevole,
il libro avrebbe conosciuto negli anni successivi una singolare
sfortuna, destinata a durare salvo pochissime eccezioni fino a
sua ricerca di una sintesi tra psicoanalisi freudiana e austromarxismo. Questi
primi anni di formazione politicointellettuale lasceranno un'impronta durevole su
B., il quale nel 1938 pubblicherà, subito dopo ì'Anschluss, un volume interamente
dedicato alla parabola austriaca, dal declino dell'impero asburgico alla tragica
vicenda della Prima Repubblica, con un titolo {Austria and after?, London 1938) che
ricalca deliberatamente quello di un saggio in cui un intellettuale tedesco,
anch'egli teorico e militante politico Otto Kirchheimer aveva tracciato un amaro
bilancio degli anni della Repubblica di Weimar (Weimar und danni, Berlin 1930; ora
in trad. it. nel volume di scritti kirchheimeriani, a cura di A. BOLAFFI, Costituzione
senza sovrano, Bari 1982, pp. 4583). A mantenere vivi i legami di B. con la cultura
viennese e con l'ambiente austromarxista contribuirono non poco i suoi rapporti
con Cari Griinberg, professore di economia politica a Vienna e fondatore del celebre
«Archiv fiir die Geschichte des Sozialismus und der Arbeiterbewegung» (1911
1930), attorno a cui si raccolse la parte più viva e cospicua dell'intellettualità
socialista e democratica europea del tempo: da K. Kautsky a E. Bernstein, da L.
von Bortkiewicz a E. Lederer, da G. Lukàcs a K. Korsch, da M. Adler a H. Kelsen,
da R. Mondolfo a G. Eckstein, da G. Mayer a R. Michels, da M. Nettlau a D.
Rjazanov, da K.A. Wittfogel a H. Grossmann, fino ai due uominiguida della futura
"Scuola di Francoforte", F. Pollock e M. Horkheimer (il giovane B. collaborò al
GriinbergArchiv con delle recensioni). Questi rapporti costituiscono una
circostanza di tutto rilievo per la biografia intellettuale di B.: se è vero come ha
sostenuto anche Martin Jay che la sua successiva assunzione nei ranghi
dell'Institut fiir Sozialforschung (diretto dal 1924 al 1927 dallo stesso Griinberg e
successivamente da Horkheimer) dipese dal fatto che egli era "one of Griinberg's
protégés" (Jhe Dialectical Imagination. A History of the Frankfurt School and the Institute of
Social Research 19231950, BostonToronto 1973, p. 16; trad. it., L'immaginazione
dialettica, Torino 1979, p. 21). Concluso il Gymnasium a Vienna, si iscrive
all'Università di Lipsia, dove in un ambiente influenzato dall'insegnamento
storico di Walter Goetz, direttore della PropylàenWeltgeschichte, ma in cui era
ancora vivo il magistero di Karl Lamprecht discute nel '24 con Alfred Doren una
tesi di dottorato sul modello di "storia universale" contenuto in quella grande opera
collettiva del XVIII secolo che è la Universa! History of the World from the earliest
Account of Times to the Present (Leipzig 1924 dts. di 218 pp.). Anche questo interesse
per il tema della Weltgeschichte si manterrà costante nel successivo iter intellettuale
di B., sia pure entro una impostazione sempre più propensa a far proprie la
comparatistica toynbeeana delle "civiltà" e la problematica spengleriana del "ciclo
delle culture" (Spengler weitergedacht. Eine Antwort an scine Kritiker, in «Der Monat»,
VII, 87, 1955, pp. 4647; Toynbee and the culture Cycle. His "Study of History", in
«Commentary», XXI, 1, 1956, pp. 239249). Nel periodo universitario, B. era
entrato in contatto con il Partito comunista di Germania (KPD), alla cui orga
nizzazione giovanile (Kommunistischer Jugendverband) si era iscritto nel
dicembre 1921, aderendo quasi immediatamente a quell'ala sinistra, attratta dalla
"teoria dell'offensiva" propugnata dalla frazione FischerMaslow, che raccoglieva
come ricorda un testimone diretto di quelle vicende (W. ABENDROTH, Ein Leben in
der Arbeiterbewegung, Frankfurt am Main 1976, p. 44) accanto a Linksradikalen come
Karl Korsch e Eugen Epstein, diversi rappresentanti della jùdische Intelligenz (da
Werner Scholem a Richard Lòwenthal a Kurt Man
tempi recenti. Al punto che lo stesso Febvre, discutendo esat
245 MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E CONCETTI
delbaum, che diverrà anch'egli un collaboratore dellTnstitut fiir Sozialforschung).
Ma la militanza comunista di B. e dei suoi compagni dell'intellettua lità ebraica,
dopo la prima fase di entusiasmo, sarebbe progressivamente declinata con
l'imporsi della linea della "bolscevizzazione". Dopo aver collaborato nell'ambito
del Comintern prima al centro di politica internazionale diretto da Eugen Varga,
poi al Westeuropàisches Bùro di Dimitrij Manuilskij (192829), alla fine del '29,
con l'avvento della cosiddetta "svolta di sinistra", B. rompe con il partito, aderendo
alla KPDOpposition di Heinrich Brandler e August Thalheimer, per entrare
successivamente in contatto attraverso Richard Lòwenthal con il gruppo "Neu
Beginnen" e collaborare sotto pseudonimo alla rivista politica dell'emigrazione
socialista, la "Zeitschrift fiir Sozialismus" (la parabola di questi gruppi politico
intellettuali si trova documentata in importanti ricerche, come quelle di: K.H.
TJADEN, Struktur und Funktion der "KPDOpposition" (KPO). Eine organisations
soziologische Untersuchung zur "RechtsOpposition" im deutschen Kommunismus
zur Zeit der Weimarer Republik, Meisenheim am Gian 1964; H. DRECHSLER, Die
Sozicdistische Arbeiterpartei Deutschlands (SAPD). Ein Beitrag zur Geschichte
der deutschen Arbeiterbewegung am Ende der Weimarer Republik, Meisenheim am
Gian 1965; O. IHLAU, Die roten Kàmpfer. Ein Beitrag zur Geschichte der
Arbeiterbewegung in der Weimarer Republik und im Dritten Reich, Meisenheim
am Gian 1969). La delusione politica e il conseguente distacco dalla KPD
coincidono per B. con l'avvicinamento al gruppo dell'Institut fiir Sozialforschung,
all'interno del quale venivano maturando quelle ricerche intorno alle forme di
produzione e alla "storia della società borghese" che avrebbero di lì a poco dato i
loro frutti, sul piano storico economico, con i lavori di K.A. Wittfogel sui rapporti
tra "economia e società" in Cina e di F. Pollock sul passaggio dal capitalismo
liberoconcorrenziale al "capitalismo organizzato" (ora in trad. it. nell'antologia
Teoria e prassi dell'economia di piano, a cura di Giacomo Marramao, Bari 1973);
sul piano della storia dei modelli giuridicopolitici, con i saggi di Franz Neumann e
Otto Kirchheimer; sul piano della ricognizione sociologicostorica delle formazioni
"ideologiche", appunto, con l'opera di B., Der Ubergang vom feudalen zum
burgerlichen Weltbild. Il nucleo centrale del volume era stato già anticipato da B.
nella prima annata della "Zeitschrift fiir Sozialforschung" (1932), con il titolo Zur
Soziologie des mechanistischen Weltbildes. Le tesi contenute nel libro non trovano
tuttavia un'accoglienza particolarmente favorevole da parte della maggioranza dei
membri dell'Istituto (Horkheimer e Pollock in specie) e vengono aspramente
contestate da Grossmann l'anno successivo alla sua uscita (Die gesellschaftlichen
Grundlagen der mechanistischen PhiloSophie und die Manufaktur, in «Zeitschrift
fiir Sozialforschung», IV, 1935, pp. 161231: questo testo unitamente al saggio di
B. del '32 e alle pp. VXII e 114 di Der Ubergang si può leggere in trad. it. nel
volume, curato da P. SCHIERA, Manifattura, società borghese, ideologia, Roma
1978). Dopo questa polemica, i rapporti tra B. e l'Istituto possono considerarsi
esauriti (se si eccettua la sua collaborazione alle Studien iiber Autoritàt und
Familie, a cura di Max Horkheimer, Paris 1936, con un saggio su «Autorità e
morale sessuale nel libero movimento giovanile borghese», scritto con lo
pseudonimo di Fritz Jungmann; trad. it., Studi sull'autorità e la famiglia, Torino
1974, pp. 529573). Con l'avvento del nazionalsocialismo, infatti, B. segue una
sorte diversa da quella degli intellettuali nell'Institut fiir Sozialforschung,
emigrando come in quegli anni fece tamente dieci anni dopo gli sviluppi
della ricerca francese intorno al nesso tra formazione del pensiero
moderno e «naissance du
il solo Franz Neumann prima di trasferirsi in USA (anch'egli, non a caso, col
laboratore, come B., della "Zeitschrift fiir Sozialismus", con lo pseudonimo di
Leopold Franz) a Londra (dopo brevi soggiorni a Parigi e a Panama, presso la cui
Università ottenne un posto nell'anno accademico 193536 per interessamento di
Malinowski). A partire da questo momento, B. accentua il suo interesse per la
teoria sociale e politica, dedicandosi a studi di storia e di politica internazionale ai
quali soprattutto deve la sua notorietà, anche a causa della caduta nell'oblio di
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 246
^atipicità del metodo, in effetti, spiega meglio di ogni altro fattore
la diffusa incomprensione o indifferenza comune ad indirizzi
culturali estremamente diversificati per un'opera accolta con
scarsa indulgenza dallo stesso entourage d'origine5. Nella breve
premessa a Der Ubergang, Max Horkheimer tendeva infatti a
precisare che l'autore si assumeva per intero la responsabilità dei
«metodi e dei risultati» 6 della ricerca: puntualizzazione
preventiva che lasciava trasparire con tutta evidenza quelle
perplessità sostanziali nei confronti del libro che erano presenti
all'interno della componente maggioritaria dell'Istituto e che si
sarebbero esplicitate l'anno seguente con la pubblicazione
5
Sulla questione, oltre a quanto già osservato alla n. 2, si veda M. JAY, op. cit,
pp. 1618 (trad. it. cit., pp. 2123).
6
Cfr. M. HORKHEIMER, Vorbemerkung des Herausgebers, in F. BORKENAU, Der
Ubergang vom feudalen zum burgerlichen Weltbild, Paris 1934 (ristampe, Darm
stadt, 1971 e 1976) p. V (trad. it. cit., p. 2). Si avverte che d'ora in avanti adot
teremo, in nota, le seguenti sigle: Der Ubergang = U; F. BORKENAU, Zum Soziolo
gie des mechanistischen Weltbildes, in «Zeitschrift fur Sozialforschung», I, 1932,
pp. 311335 = S; H. GROSSMANN, Die gesellschafdichen Grundlagen der mechani
stischen Philosophie und die Manufaktur, in «Zeitschrift fiir Sozialforschung», IV,
1935, pp. 161231 = G; F. BORKENAUH. GROSSMANNA. NEGRI, Manifattura,
società borghese, ideologia, a cura di P. Schiera, Roma 1978 = M.
7
Sul significato teorico di questa polemica per Grossmann cfr. le sue let tere a
Paul Mattick, in appendice a H. GROSSMANN, Marx, die klassische Natio
nalòkonomie und das Problem der Dynamik, Frankfurt am Main 1969, in specie
pp. 107111 (trad. it., Marx, l'economia politica classica e il problema della
dinamica, Bari 1971, pp. 141146).
8
Cfr. L. GOLDMANN, Le Dieu cache. Etudes sur la vision tragique dans les
Pensées de Pascal et dans le théatre de Racine, Paris 1955 (trad. it., Pascal e
Racine, Milano 1961, specialmente le pp. 153 ss., dedicate a «Giansenismo e
noblesse de robe», che sembrano riproporre una tesi già chiaramente delineata da
Borkenau, che tuttavia non viene mai menzionato). Sulla tesi dei rapporti tra
Pascal e la noblesse de robe e sul retaggio giansenista della sua opposizione
"tragica" allo sviluppo politico dell'assolutismo, si ritornerà più avanti.
9
G. LICHTHEIM, The Concept of Ideology and other Essays, New York 1967, p.
279. Il richiamo a questa affermazione di Lichtheim si trova in M. JAY, op.
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 248
dell'ampia e dettagliata critica di Henryk Grossmann 7. In questa
ostilità dell'Istituto, e nel suo conseguente disimpegno da
qualsiasi attività volta a promuovere la diffusione del libro o a
sollecitarne la recezione, George Lichtheim nell'istituire un
parallelo con Le Dieu cache di Lucien Goldmann8 ha ritenuto di
scorgere una chiusura preconcetta, dettata da motivazioni
prescientifiche, e ha parlato di Der Ubergang come di un «infairly
neglected work» 9. Più sobriamente e opportunamente, invece,
Pierangelo Schiera ha posto in evidenza come il bersaglio
polemico di Horkheimer investisse specificamente il metodo: per
cui la riserva da lui espressa finiva, in sostanza, per suggerire
una «distinzione (...) fra metodo usato e tema d'indagine» che
trovava «ragioni solide all'interno del gruppo di Francoforte» 10.
Nel momento stesso in cui scaricava su Borkenau l'intero peso dei
metodi e dei risultati, Horkheimer, che in quegli anni perseguiva
ancora il programma da cui si sarebbe successivamente
distaccato di una SozicdphiloSophie materialistica, rivendicava
all'intero Istituto l'interesse di fondo al tema del nesso
intercorrente tra «economia» (Wirtschaft) e geistige Kultur: ovvero
adottando una terminologia a noi più prossima tra "cultura
materiale" e "cultura intellettuale".
L'affermazione che abbiamo appena fatto della crucialità del
profilo metodico ai fini di una corretta valutazione dell'opera di
Borkenau potrebbe tuttavia risultare, prima ancora che insuf
ficiente, fuorviante se non si procedesse ad illustrarne in modo
più circostanziato il senso. Si cadrebbe infatti in errore se si
pensasse di poter identificare il metodo di Borkenau in un
uniforme "punto di vista" o in una stabilmente acquisita "posi
zione". Di qui l'indubbio fascino del libro. Ma anche l'altrettanto
indubbia difficoltà di imboccarne la via maestra scegliendo una
sola entrata. Tale difficoltà era stata perfettamente intuita da
Febvre quando parlava di un testo arduo non solo per il suo lin
guaggio denso e per il suo stile «vif et souvent nerveux» 11, ma
soprattutto per l'impossibilità di riassumerlo sotto un'angolazione
univoca o di coglierlo, per così dire, sotto un unico colpo di
riflettore. E ciò per una ragione semplice quanto decisiva:
l'originalità del procedimento adottato da Borkenau non stava già
in una opzione teorica particolare o nel far capo alla costanza di
un qualche "referente", ma piuttosto nella capacità di fare reagire
chimicamente modelli interpretativi e analitici fra loro molto
distanti (vuoi tematicamente, vuoi disciplinarmente), senza mai
scadere in un sincretismo arbitrario o in un eclettismo barocco. La
peculiare identità del metodo risulta così tutta giocata sulla
ca., p. 306, n. 45 (trad. it. cit., p. 57, n. 45). Il giudizio positivo sull'opera di
Borkenau è ribadito da Lichtheim anche in Europe of the Twentieth Century,
London 1972; trad. it., L'Europa del Novecento, Bari 1973, p. 287.
10
P. SCHIERA, Introduzione a M, p. 9.
11
L. FEBVRE, Fondations cit., p. 369 (= Pour une Histoire cit., p. 742).
249 MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E CONCETTI
personalissima capacità dell'autore di tenere insieme spezzoni e
frammenti provenienti da contesti storiografici e filosofici diversi,
componendoli come tessere di un mosaico tanto variopinto e
multiforme quanto lacunoso e costellato di vuoti: ed è proprio
dalle brecce lasciate aperte, dai riverberi irregolari che da esse si
producono, che è dato riconoscere le mutevoli fisionomie
dell'"oggetto reale" a cui mira il reticolo metodico delle
corrispondenze. Detto in altri termini: l'esposizione di Borkenau
esposizione che persegue un intento non meramente descrittivo,
ma esplicativo e ricostruttivo perviene ai suoi risultati più
significativi non malgrado, ma proprio grazie alle sue lacune. Come
ancora Febvre aveva intuito, essa è particolarmente ricca di
stimoli proprio là dove si presenta forse inconsapevolmente, e
magari contro le stesse intenzioni dell'autore come un nonfinito,
un torso, un work in progress: né si può trascurare che il più pronto e
positivo apprezzamento di Der Ubergang fosse venuto da uno storico
che proprio in quegli anni aveva sollevato il problema del pauroso
ritardo dei tradizionali strumenti storiografici di "comprensione"
della civilisation, ponendo con estrema lucidità l'esigenza di
un'archeologia della modernità imperniata sul sondaggio
scrupoloso dell'evoluzione dei terminichiave e dei "gruppi d'idee"
attorno ai quali si struttura la vicenda della società occidentale12.
2. "Disincanto del mondo" e "disanimazione della natura"
Se volessimo enucleare la tesi centrale del lavoro di Borkenau
nei limiti in cui una tale operazione è lecita per un lavoro in
realtà strutturato in una pluralità di baricentri mobili dovremmo
indicarla nella definizione della filosofia meccanicistica come
12
Cfr. al riguardo L. FEBVRE, Civilisation: évolution d'un mot et d'un group
d'idée (1930), ora in ID., Pour une Histoire à part entière cit. (trad. it. in Problemi
di metodo storico, Torino 1966, pp. 645). L'esigenza è ripresa anche da E.
BENVENISTE, Civilisation. Contribution à l'histoire du mot, in Hommage à Lucien
Febvre, Paris 1954 (trad. it. in Problemi di linguistica generale, Milano 1971, pp.
401413). Va qui notato come la stima di Febvre nei confronti di Borkenau sia
verificabile anche dalla collaborazione di quest'ultimo alle «Annales» con due
articoli: Fascisme et Syndacalisme (VI, 1934, pp. 337350); La crise des partis
socialistes dans l'Europe contemporaine (VII, 1935, pp. 337352).
13
Questa visione tragica trova per Borkenau la sua espressione più alta in
Pascal, che dell'«epoca della manifattura» coglierebbe tutta l'intima contrad
dittorietà. Cfr. il relativo capitolo in U (trad. it. cit., pp. 473 ss.).
logica interna alle opzioni appena esaminate. Già questo aspetto
basterebbe da solo a motivare l'interesse ancor attuale del libro:
soprattutto alla luce delle reinterpretazioni e, spesso, radicali
14
A.N. WHITEHEAD, Science and Modem World, New York 1925.
E.A. BURTT, The Metaphysical Foundations of Modem Physical Science,
15
New York 1926.
16
J.H. RANDALL, The Making of the Modem Mind, Boston 1926.
17
A.O. LOVEJOY, The Great Chain ofBeing, Cambridge Mass. 1936 (trad. it.,
La grande catena dell'essere, Milano 1966).
18
A. KOYRÉ, Études galiléennes, Paris 1939 (trad. it., Studi galileiani, Torino
1976).
19
A. KOYRÉ, From the Closed World to the Infinite Universe, Baltimore 1957
(trad. it., Dal mondo chiuso all'universo infinito, Milano 1970, p. 10).
251 MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E CONCETTI
20
Ibidem.
21
Ivi, p. 11.
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 252
dell'intreccio tra immagine matematicomeccanicistica del mondo
e filosofia moderna orientata, a partire da Descartes, in senso
gnoseologico è un metodo che, per ciò stesso, deve rifiutarsi di
soggiacere alla forma dominante di "autocomprensione" ideologica
delT'èra borghese", che postula una dicotomia tra Welt und
Lebensanschauung (intuizione della vita e del mondo), intesa come
ambito della soggettività, e "scienza esatta della natura", intesa
come ambito dell'oggettività24.
Solo l'intreccio tra questi due lati che l'ideologia dei moderni ha
ipostatizzato in chiave dicotomica consente, per Borkenau, la
ricostruzione non meramente denotativa e anonima, ma
22
Ibidem.
23
Ibidem. Va qui ricordato che Koyré collaborò alla «Zeitschrift fur
Sozialforschung» con una nota su La sociologie frangaise contemporaine (V,
1936, pp. 260264), dedicata allo studio sul tema di C. Bouglé.
24
Cfr. U, p. V (trad. it. cit., p. 3).
esplicativa e concettualmente guarnita, del Weltbild. E in effetti
l'andamento di Der Ubergang consiste per l'appunto in un gioco di
passaggi continui fra tre livelli ad un tempo distinti e
intercomunicanti del discorso: quello dell'"immagine del mondo",
quello della "concezione filosofica del mondo" e quello della
"scienza esatta della natura". In questo senso, il libro non
persegue affatto o almeno non esclusivamente un obiettivo
storiografico. Piuttosto, esso mira a fornire «una tipologia della
concezione borghese del mondo» (eine Typologie der burgerlichen
Weltanschauung) sulla scorta dei «grandi sistemi filosofici del
16301660»25. Ma, nonostante questo privilegiamento
dell'osservatorio seicentesco nonostante che l'ambizione
principale dell'opera sia quella di gettar luce sul «carattere
generale del XVII secolo» , Borkenau non intende affatto scindere
il risultato dal processo che lo ha costituito, il precipitato
"sistematico" dalla storia o preistoria che lo ha prodotto. La sua
«sociologia dell'immagine del mondo meccanicistica» così
intitolava Borkenau nel '32, sulle pagine della "Zeitschrift fiir
Sozialforschung", la sua anticipazione riassuntiva dei risultati
della propria ricerca non vuole rinunciare, in altri termini, a
trasmettere il senso della profondità di campo storica dei
problemi affrontati dalla ricostruzione tipologica. È questa la
seria ragione per cui larga parte del libro è dedicata al lungo non
perché graduale, ma perché internamente travagliato processo di
destrutturazione del cosmo medioevale: dalla scolastica ai grandi
sistemi della filosofiascienza meccanicistica, passando per il
grande crocevia del XVI secolo, esaminato non solo mediante una
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 254
statica galleria di ritratti delle personalità eminenti, ma
attraverso un intreccio dinamico di problematiche, correnti ideali
e movimenti. La "transizione" si presenta così, più che come una
successione di tranquille opzioni evolutive, come un susseguirsi di
svolte (non solo in avanti, ma talvolta anche all'indietro)
determinate da scelte drammatiche: come una serie di "decisioni'
etiche e filosofiche risultanti da violenti conflitti tra strati sociali
portatori di visioni del mondo reciprocamente escludentesi.
3. Tra Mach e Cassirer
Borkenau presenta il "nuovo" approccio come un'applicazione
del metodo del materialismo storico ai campi della filosofia, della
scienza e delle ideologie politiche e sociali. In realtà il modello di
Marx viene filtrato non solo attraverso la tematica lukàcsiana
della "reificazione", ma anche attraverso una pluralità di apporti
culturali che, nella loro interazione reciproca, finiscono per
conferire al libro quel caratteristico tratto multidisciplinare che
aveva così favorevolmente impressionato Lucien Febvre. Alle
spalle della recezione di Marx recezione che proprio negli anni
precedenti l'uscita di Der Ubergang aveva ricevuto uno
straordinario stimolo per opera di Rjazanov e del "MarxEngels
Archiv" da lui diretto26 agiscono su Borkenau problematiche e
modelli culturali di provenienza diversa: sul piano storico e
metodologico, il grande dibattito sulla genesi e lo "spirito" del
capitalismo e sul "tipo" di razionalità ad esso propria, avviato
dalle ricerche di Max Weber, Werner Sombart e Lujo Brentano 27;
sul piano dell'analisi della Weltanschauung moderna e delle sue
trasformazioni, le ricognizioni di Wilhelm Dilthey, Max Scheler e
dello stesso Horkheimer28; sul piano filosoficopolitico e
dogmengeschichtlich, i contributi di Otto von Gierke, Cari
26
Borkenau recensisce il MarxEngelsArchiv già sul GriinbergArchiv: e si
tratta del suo primo lavoro a stampa. Cfr. «Archiv fur die Geschichte des Sozia
lismus und der Arbeiterbewegung», XV, 1930, pp. 311313.
27
Cfr. M. WEBER, Die protestantische Ethik und der "Geist" des Kapitalismus
(190405) e Die protestantischen Sekten und der Geist des Kapitalismus (1906),
successivamente raccolti nei Gesammelte Aufsàtze zur Religionssoziologie, 3 voli.,
Tiibingen 192021 (trad. it. in Sociologia della religione, 2 voli., a cura di P. Rossi,
Milano 1981); W. SOMBART, Der moderne Kapitalismus, 2 voli., MiinchenLeipzig
1902 (trad. it. parziale condotta sulla II ed. riveduta del 1916 Il capitalismo
moderno, Torino 1967); L. BRENTANO, Der wvrtschaftende Mensch in der Geschi
chte, Leipzig 1923 (trad. it. parziale, Le origini del capitalismo, Firenze 1954). Il
dibattito ha avuto, come noto, uno sviluppo nel mondo anglosassone grazie
soprattutto ai lavori di R.H. TAWNEY, Religion and the Rise of Capitalism, New
York 1926 (trad. it. in Opere, & cura di F. Ferrarotti, Torino 1975, pp. 233528).
28
Cfr. W. DILTHEY, Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renais
sance und Reformation (18911904), ora in ID., Gesammelte Schriften, II hrsg.
von G. Misch, LeipzigBerlin 1914 (trad. it., L'analisi dell'uomo e l'intuizione
della natura, Firenze 1927); M. SCHELER, Die Stellung des Menschen im Kosmos
(1927), ora in ID., Gesammelte Werke, IX, BerlinMùnchen 1976 (trad. it., La
posizione dell'uomo nel cosmo e altri saggi, Milano 1970); M. HORKHEIMER,
Anfànge der biXrgerlichen GeschichtsphiloSophie, Stuttgart 1930 (trad. it., Gli
inizi della filosofia borghese della storia, Torino 1978).
255 MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E CONCETTI
Schmitt, Ernst Troeltsch e Friedrich Meinecke 29; sul piano della
storia della scienza, le ricerche di Karl Lasswitz, Pierre Duhem e
Alexandre Koyré30; sul piano epistemologico e gnoseocritico, i
lavori di Ernst Mach e Ernst Cassirer31.
HamburgLeipzig 1890; P. DUHEM, Les origines de la statique, 2 voli., Paris 1905
1906; A. KOYRÉ, Essai sur l'idée de Dieu et les preuves de son existence chez
Descartes, Paris 1922 (citato a volte da Borkenau con il titolo dell'ed. tedesca:
Descartes und die Scholastìk).
31
Cfr. E. MACH, Die Mechanik in ihrer Entwicklung historischkritisch dar
gestellt, Leipzig 19127 (trad. it., La meccanica nel suo sviluppo storicocritico,
Torino 1969); E. CASSIRER, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wis
senschaft der neueren Zeit, IIII, Berlin 19061920; IV, Stuttgart 1957 (trad. it.,
Storia della filosofia moderna, 4 voli., Torino 19521958).
Cfr. E. J. DIJKSTERHUIS, The Mechanization of the World Picture, Oxford
32
anni nel mondo di lingua tedesca, per dimostrarne le consonanze
anche terminologiche con questa impostazione di Borkenau: a
partire dal raffronto più comodo e ravvicinato con gli scritti di
Zilsel e con le riflessioni horkheimeriane «sulla scienza e la
crisi»35. Anche in questo caso, però, limitare la comparazione agli
orientamenti culturali presenti nel pur ricchissimo mondo tedesco
della Zwischenkriegszeit avrebbe una funzione riduttiva, perché
non ci farebbe cogliere l'ampiezza almeno europea del fenomeno
di scompaginamento degli approcci tradizionali. Per restare in
tema, ci basterà notare come la retroazione dei temi della critica
machiana ripresi da Cassirer36 (passaggio dal concettosostanza al
concettofunzione) e della rivoluzione einsteiniana sul campo
della riflessione filosofica e sociopolitica mettesse capo, tra l'altro,
a un'analogia diffusa tra la crisi novecentesca e la crisi che si
svolge tra XVI e XVII secolo. Facciamo soltanto due esempi,
prendendoli dal di fuori dell'ambito culturale germanico.
mondo moderno: «Quando scrivevo questo libro, nel periodo che
doveva concludersi con il cataclisma della guerra mondiale,
sentivo vivissima l'analogia fra la situazione rivoluzionaria del
XVI secolo e quella che cominciava ad agitare il nostro tempo.
Questa intuizione, che è presente in ogni pagina del volume, gli
conserva ancor oggi un'attualità profonda, perché quanto io
presagivo verso il 1930 si manifesta oggi con la più abbacinante
chiarezza» 38.
4. Lex naturalis: analogie e metafore
Per farsi un'idea delle direttrici e dei punti di fuga principali di
Der Ubergang, occorre enucleare dal tessuto di un'esposizione
sua inclinazione a ricondurre poi la creazione manifatturiera del
lavoro astratto alla "divisione del lavoro": incongruenza che gli
procurerà, come vedremo oltre, aspre critiche da parte di
Grossmann) di evitare le secche di una rigida impostazione
deterministica. La presa di distanze da tutte le interpretazioni
dogmatiche o economicistiche del marxismo costituisce una
preoccupazione costante di Borkenau e uno dei motivi di fondo del
suo lavoro. E proprio l'esatta consapevolezza di questo problema
che lo porta, infatti, a precisare che la «generalizzazione delle
problematiche emergenti dalla manifattura all'ambito dell'intero
sapere umano non si può spiegare in base alle esigenze del
processo tecnico di produzione, ma in base alle lotte di classe che
si collegano all'ascesa del nuovo modo di produzione» 50. Questo
privilegiamento della dimensione della "lotta di classe" (che
Borkenau considera in un senso non molto dissimile da Karl
Korsch comprensiva del livello della lotta tra raggruppamenti
politici o "partiti"51), consente una riformulazione e specificazione
ulteriore dell'interrogativo di partenza. La domanda da cui muove
la trattazione non è più ora semplicemente: come ha potuto il
meccanicismo divenire il Weltbild dell'epoca della manifattura?,
ma piuttosto: «Quale ruolo gioca la generalizzazione della
concezione manifatturiera nelle lotte di classe che producono la
nascita della società capitalistica?»52.
5. Le radici teologiche della nuova morale
Il metodo più idoneo allo scopo sembra a Borkenau la Begriff
sgeschichte, la "storia concettuale", del termine lex naturalis 54.
Anche in questo caso, egli pone un'esigenza largamente diffusa
nel dibattito di quegli anni. Ma anche in questo caso sarebbe
riduttivo e fuorviante limitare la comparazione alla Germania (o
addirittura fermarsi ai raffronti più agevoli e ravvicinati, come le
considerazioni svolte da Horkheimer nel 1930 su "diritto naturale
e ideologia"55). Che l'esigenza fosse ben presente anche ad altri
ambienti culturali, lo dimostra tanto per fare un esempio il
fatto che, in un'opera del 1933, Alfred North Whitehead aveva
sentito il bisogno di passare in ricognizione i diversi aspetti e
momenti del concetto di "legge di natura", distinguendo al suo
interno «quattro dottrine principali»: 1) la dottrina della legge
come immanente; 2) la dottrina della legge come imposta; 3) la
dottrina della legge come «osservato ordine di successione» {id est
come semplice descrizione); 4) la dottrina della legge come
interpretazione convenzionale56. Rispetto a queste "grandi
sintesi", tuttavia, l'esposizione di Der Ubergang persegue uno
scopo più circoscritto e puntualmente periodizzato: essa si
propone cioè di cogliere le metamorfosi del termine dalla
problematica di Tommaso d'Aquino che segna il momento del
passaggio da una società di tipo cetualeereditario a una società
cetualeprofessionale alla problematica rinascimentale (cui viene
annessa anche la tematica calvinista) e postrinascimentale (che
giunge a compimento con il Novum organum baconiano).
54
Per una messa a punto scientificamente aggiornata della questione, si
veda la voce Gesetz redatta da Rolf Grawert per il lessico dei Geschichtliche
Grundbegriffe, II, Stuttgart 1975, pp. 883922.
55
Cfr. M. HORKHEIMER, Die Anfànge cit. (trad. it. cit., pp. 2655).
56
Cfr. A.N. WHITEHEAD, Adventures ofldeas, New York 1933 (trad. it., Avven
ture di idee, Milano 1961, pp. 147156).
L'aspetto decisivo del collegamento che si ha a partire dal XIII
secolo tra l'idea dell'ordine sociale e la concezione dell'ordine
naturale consiste precisamente nell'accoppiamento dei concetti di
lex e di natura, fino ad allora concepiti in irriducibile antitesi
come principi del bene divino e del male carnale. Una tale
operazione appare a Borkenau socialmente funzionale, ossia
sovradeterminata dalle inderogabili esigenze poste dalla tendenza
al passaggio a un nuovo tipo di ordinamento sociopolitico: in
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 264
questo senso la nozione sintetica di lex naturalis la trasposizione
della dimensione della normatività allo spazio esterno del cosmo
servirebbe direttamente all'«apologia della società cetuale
professionale»57. Ma anche un tale riassetto della cosmologia
doveva presto rivelarsi inadeguato e provvisorio: incapace com'era
di fare da contenimento e da argine al processo di dissoluzione
dell'ordinamento tradizionalfeudale. Con l'avanzare di questo
processo, la nozione di "ordine morale" era infatti destinata a
perdere i suoi tratti "gerarchici", rendendo la dimensione
dell'ordine sempre più acuta e problematica, in quanto sempre
meno deducibile dall'ordine "evidente" dell'esistenza umana.
57
S, p. 314 (M, p. 18). Cfr. anche U, pp. 23 ss.
58
Ibidem. Cfr. anche U, pp. 40 ss.
265
MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E
CONCETTI
vre59, infatti, il mondo di Calvino è lo stesso di quello di Ficino: ma
visto con altri occhi. Per spiegare questa simmetria degli opposti,
Borkenau deve ancora una volta far ricorso al coté sociologico
della sua metodologia: la propensione apologeticoarmonizzante
della «filosofia del Rinascimento» (che egli interpreta in modo
sensibilmente diverso da un Cassirer 60) non sarebbe altro che
l'«ideologia del capitale monetario», il cui strato dominante
tenterebbe di sottrarsi alle conseguenze radicali del pessimismo
calvinista61. Senonché questo tentativo fallisce, in quanto
costretto a «rinunciare a ogni interpretazione significante della
società e a fondare le sue teorie armoniche dal solo punto di vista
dell'individuo perfetto» 62 il pensiero rinascimentale finirebbe per
avvicinarsi sempre più alla posizione calvinista. Se la «prima
tappa» di questa tendenza è rappresentata da Ficino, è con Vives
che si perviene all'idea dell'individuo perfetto, «liberato da ogni
vincolo sociale»63: l'unità di istinto e norma sembrerebbe
perfettamente ristabilita, e la natura che nella scolastica
occupava il grado inferiore nella scala gerarchica del mondo
diviene così l'ordine superiore rispetto al quale riferire e
giustificare la società umana come la condotta dei singoli.
Rovesciamento prospettico e inversione gerarchica sono
compiuti. Ma il punto decisivo sta ora nella priorità che viene
tendenzialmente assegnata alla gnoseologia, alla teoria della
conoscenza. Certo, questa si presenta ancora e continuerà a
presentarsi fino a Descartes e oltre come un «riflesso della
metafisica»64. Ma da Cusano a Vives, fino a Bodin e Campanella
(e, antiteticamente, nello stesso Machiavelli), il concetto di lex
naturalis esula gradualmente dalla teoresi, per acquistare
caratteri sempre più spiccatamente normativi. Corri
59
L. FEBVRE, Fondations cit., p. 370 (= Pour une Histoire cit., p. 745).
Ci riferiamo, evidentemente, a E. CASSIRER, Indìviduum und Kosmos in
60
der Philosophie der Renaissance (Studien der Bibliothek Warburg, X), Leipzig
Berlin 1927 (trad. it., Individuo e cosmo nella filo sofia del Rinascimento, Firenze
1937).
61
Cfr. S, pp. 315316 (M, p. 20).
62
S, p. 316 (M, p. 20).
63
S, p. 317 (M, p. 21). Il sondaggio di Borkenau investe così i temi della
cosiddetta CounterRenaissance: cfr. H. HAYDN, The CounterRenaissance, New
York 1950; trad. it. Il Controrinascimento, Bologna 1950, segnatamente pp.
209 ss.
spettivamente, il concetto di natura viene sempre meno correlato
alla nozione di "regolarità", alla quale si sostituiscono concetti
come providentia, fatum e fortuna 65. L'«apice» di questo sviluppo è
rappresentato per Borkenau, come si è in precedenza accennato,
dal Novum organum di Francis Bacon. È implicito in questa
formula che il programma baconiano costituisca «non già un
inizio, bensì il punto finale di un processo secolare» 66. Con esso il
64
Ibidem.
266
MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E
CONCETTI
6. L'antropologia negativa del covenant: il nodo Hobbes
65
Cfr. U, pp. 72 ss.; 80 ss. (trad. it. cit., pp. 79 ss.).
66
S, p. 318 (M, p. 22). Cfr. anche U, pp. 26 ss. (trad. it. cit., pp. 93 ss.).
67
Ibidem. Si veda in proposito l'importante lavoro di R.K. MERTON, Science,
Technology and Society in SeventeenthCentury England, in «Osiris», IV, 1938,
pp. 360632 (trad. it., Scienza, tecnologia e società nell'Inghilterra delXVII secolo,
Milano 1975); su cui cfr. anche P. Rossi, Francesco Bacone dalla magia alla
scienza, Bari 1957, p. 27.
dell'assolutismo principesco» 68 è, per Borkenau, Niccolò Ma
chiavelli. Con il Segretario fiorentino si afferma per la prima volta
la «stretta connessione tra la nuova forma di Stato e la nuova
concezione della natura umana e della moralità» 69, fondata
sull'implicita negazione della rilevanza della legge di natura nella
vita sociale. A differenza di Horkheimer, Borkenau non ritiene
che Machiavelli sia «il primo filosofo della storia dei tempi
moderni»70. La sua "grandezza" sta piuttosto, a suo avviso,
nell'aver assunto e autonomamente elaborato, al livello della
teoria politica, quello stesso nesso tra assolutismo e antropologia
pessimistica che, nel pensiero della Riforma, serviva a fondare la
68
Ibidem (M, p. 23).
69
S, pp. 318319 (M, p. 23). Cfr. U, pp. 100 ss. (trad. it. cit., pp. 106 ss.).
70
M. HORKHEIMER, Die Anfànge cit. (trad. it. cit., p. 26).
71
Cfr. O. VON GIERKE, lohannes Althusius und die Entwicklung der natur
rechtlichen
64 Staatstheorien (1880), Leipzig 19133 (trad. it., Giovanni Althusius
Ibidem.
e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche, Torino 1943, pp.
79 ss.); C. SCHMITT, Politische Theologie, trad. it. cit., pp. 35 ss. (dedicate a
Bodin).
72
S, p. 319 (M, p. 23).
267
MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E
CONCETTI
64
Ibidem.
268
MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E
CONCETTI
Malgrado questa formulazione giuridica, razionalizzata, del
inedito nella versione originale, di cui è però disponibile un'ed. tedesca: Die
Herrschaft des Gesetzes, Frankfurt am Main 1980, pp. 108 ss.).
75
F. NEUMANN, Angst und Politik, in «Recht und Saat», 1954; trad. it. in Lo
Stato democratico e lo Stato autoritario, Bologna 1973, pp. 130131.
la summa legibusque soluta potestas, con Bodin non si perviene
ancora alla «fondazione intramondana della sovranità» (in
nerweltliche Begrùndung der Souverànitàt)76, che si avrà in forma
compiuta soltanto con Hobbes: proprio in quanto a differenza di
Hobbes, saremmo portati ad aggiungere egli è incapace di fare
astrazione dalla congiuntura storicopolitica determinata, ed è
dunque costretto ad assumere la sovranità stessa come una
empirische Tatsache, come un mero dato di fatto empirico 77. Una
maggiore consapevolezza della portata metodicosistematica del
tema della sovranità è presente invece in Althusius. Benché
Borkenau lo definisca in contrasto con la tesi sostenuta da
Gierke in Johannes Althusius und die Entwicklung der natur
rechtlichen Staatstheorien 78 «non il teorico di una democrazia
astratta, ma piuttosto un energico rappresentante dell'asso
lutismo» 79, non può al tempo stesso fare a meno di marcarne la
discontinuità rispetto all'impostazione bodiniana: mentre Bodin
giustifica e razionalizza giuridicamente la posizione legittimista
intorno al potere sovrano, Althusius «non difende un potere
sovrano legittimo, bensì uno rivoluzionario che può trovare la sua
legittimazione solo nell'insediamento da parte del popolo» 80. In
questo senso, la grande novità del modello di politica althusiano
risiede nella correlazione non meramente giusnaturalistica, ma
metodicorazionalistica, che in esso si viene a instaurare tra le
due nozioni di "sovranità" e di "popolo". La portata
potenzialmente dirompente dell'innovazione è tuttavia
stemperata dal permanere di una sorta di struttura duale, dovuta
al tentativo di conciliare in un equilibrio, tuttavia, precario le
opposte esigenze della sovranità e dei diritti dell'uomo (intesi in
un'accezione filtrata dal calvinismo dei monarcomachi). Ideologo
del «cesarismo democratico» degli Orange, Althusius dopo avere
spianato la strada (a differenza del suo "contraltare" Grozio, «a
S, p. 319 (M, p. 23).
Cfr. ìbidem; v. anche U, p. 122 (trad. it. cit., p. 126). Cfr. 0.
64
Ibidem.
VON GIERKE, op. cit., pp. 135 ss.
S, p. 320 (M, p. 24). Cfr. U, pp. 122 ss. (trad. it. cit., pp. 127 ss.). Ibidem.
269
MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E
CONCETTI
torto considerato il fondatore della moderna dottrina dello Stato»)
alla «dottrina sociologica dello Stato di Hobbes» con la completa
positivizzazione della legge naturale finisce poi per evitare «le
conseguenze ultime di Hobbes» a causa dell;«unico residuo
giusnaturalistico del suo sistema: la sacralità dei contratti, che
deriva dalla fondazione calvinista del suo punto di vista» 81.
81
Ibidem.
82
Nel libro Borkenau dà infatti troppo disinvoltamente per scontata la
«trattazione filosofica della teoria dello Stato che conduce a Hobbes»: autore
che sarebbe inoltre a suo avviso, «oltre che sufficientemente noto, in larga
parte anche correttamente compreso» (t), p. X; trad. it. cit., p. 8). In realtà
l'esposizione risulta carente proprio nel collegamento tra la posizione di Bodin
e la fondazione hobbesiana della sovranità. Si veda in proposito R. SCHNUR,
Individualismus und Absolutismus, Berlin 1963; trad. it., Individualismo e asso
lutismo, Milano 1979 (volume che affronta alcuni aspetti della teoria politica
europea prima di Hobbes, ossia tra il 1600 e il 1640); L. D'AVACK, L'influenza
di Bodin sull'evoluzione del concetto di sovranità nell'Inghilterra dei primi del
'600, in «Storia e politica», XXII, 1983, 1, pp. 171.
83
S, p. 331 (M, p. 35).
84
64
Ibidem (M, p. 36).
Ibidem. 85
Cfr. S, pp. 333, 332 (M, pp. 37, 38).
86
S, p. 332 (M, p. 37).
87
S, p. 331 (M, p. 36).
270
MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E
CONCETTI
contenuto. L'aspetto formale dell'operazione è quello decisivo: in
quanto l'assolutismo hobbesiano non va inteso nel senso
paternalisticoautoritario del Wohlfahrtsstaat dello "Stato di
benessere" monopolista e indifferenziatamente interventista
bensì in senso giuridico formale. Sotto questo profilo, Hobbes è
un «pensatore rigorosamente borghese» (streng bùrgerlicher
Denker)84. Ma, al tempo stesso, egli è anche «il rappresentante di
una borghesia conservatrice», «l'ideologo della parte più pro
gredita della landed gentry» che punta a realizzare un «blocco
delle classi proprietarie» contro gli strati ribelli della manifattura
e del proletariato85. Il discorso sembrerebbe a questo punto
esaurito, se non fosse per il fatto che per Borkenau questa
ambivalenza storica della posizione hobbesiana si riflette
specularmente anche nella costruzione della sua teoria, tanto a
livello della filosofia naturale, quanto a livello della filosofia
politica. A livello della filosofia naturale, in quanto Hobbes non è
«né un puro empirista, né un puro razionalista»: separato dal
razionalismo puro per «la distinzione che egli introduce tra spazio
e corpo, e che tenta di superare con il concetto di conatus, [per] la
logica rigorosamente nominalistica e [per] il suo procedere da una
conoscenza sensibile»; dall'empirismo e dal sensismo, per «la sua
concezione strido sensu meccanicistica della natura», per «la
definizione del pensiero come calcolo e [per] il tentativo di
costruire una logica sinteticodeduttiva sulla base di premesse
nominalistiche»86. A livello della filosofia politica, in quanto
Hobbes, dopo aver preso le mosse dalla malvagità insita negli
istinti naturali, pretende poi di contrapporre ad essi, «in antitesi
dialettica» 87, un sistema razionale di norme dalla vigenza
assoluta e deducibile more geometrico. Il ribaltamento che qui si
produce tra base di partenza (la «tendenza naturale e illimitata al
potere» degli individui) e costruzione razionale del contratto
rappresenta per Borkenau un vero e proprio salto logico, indice a
sua volta dell'insuperabilità della contraddizione inerente al
modello: «Hobbes giunge alla conclusione che sia logicamente
assurda qualcosa (cioè la lotta fra i partiti) che invece è realmente
possibile» 88.
64
Ibidem.
272
MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E
CONCETTI
93
Ivi, p. 89. A dire il vero, tuttavia, Borkenau appare al riguardo assai più
avvertito di Macpherson nel segnalare che lo stato di natura hobbesiano «non
è un rispecchiamento meccanico della libera concorrenza», ma piuttosto il
prodotto di una «mescolanza dei caratteri della lotta concorrenziale con quelli
della lotta di classe» (ti, p. 463; trad. it. cit., p. 453). Resta comunque il fatto
che anche per Borkenau il punto di partenza di Hobbes rimane l'individuo
borghese, "concorrenziale", che costituirebbe il limite sociologico radicale della
sua impostazione. Per cui, alla fine, la "neutralizzazione" hobbesiana consi
sterebbe in una sorta di derubricazione della lotta di classe in «lotta concor
renziale, dove esistono solo interessi individuali». In questo limite starebbe
così anche la chiave della incomprensione di Hobbes per il carattere non indi
vidualistico, ma aggregativoclassista delle «lotte di partito».
94
C.B. MACPHERSON, Introduzione a T. HOBBES, Leviathan, Penguin Books
(Pelican Classics), 1968, p. 12.
95
Ivi, p. 38; corsivo nostro.
96
Cfr. N. BOBBIO, II modello giusnaturalistico, in N. BOBBIOM. BOVERO,
Società
e Stato nella filosofia politica moderna, Milano 1979, p. 105 n. La critica di Bob
bio a Macpherson la troviamo ribadita quasi negli stessi termini in La crisi della
democrazia e la lezione dei classici, in N. BOBBIOG. PONTARAS. VECA, Crisi della
democrazia e neocontrattualismo, Roma 1984, p. 12: dove si parla dell'«ingiu
stificata fortuna di una interpretazione del pensiero di Hobbes, secondo cui lo
stato di natura, che Hobbes definisce ripetutamente come "guerra di tutti con
tro tutti", è stato inteso non come la raffigurazione portata alle sue estreme
logica: dal presupposto ormai largamente diffuso tra gli inter
preti di Hobbes, da M.M. Goldsmith a R. Peters 97 del carattere
di condizione ipotetica e non storica dello "stato di natura" viene
infatti illegittimamente inferita la conclusione che il bellum
omnium in omnes altro non sarebbe che una metafora del mercato
liberoconcorrenziale. In tal modo, al problematico dato di
partenza storico della riflessione hobbesiana (la tragica
esperienza della guerra civile) finisce per sostituirsi un dato di
fatto sociologico. A questa contrazione del nucleo irriducibilmente
conseguenze della guerra civile, oppure dello stato di guerra permanente se pure
spesso latente fra gli stati sovrani, ma come una prefigurazione della società di
mercato». Per la fondazione teorica di questo discorso rimane fondamentale il
saggio Legge naturale e legge civile nella filosofia politica di Hobbes, in N. BOBBIO,
Da Hobbes a Marx, Napoli 1965, in specie pp. 4147.
97
Cfr. M.M. GOLDSMITH, Hobbes' Science of Politics, New York 1965; R.
PETERS, Hobbes, London 1967. Per questo aspetto, T. MAGRI, Saggio su Tho
mas Hobbes, Milano 1982, pp. 39 ss. (si veda in specie p. 49: dove si sollevano
fondate perplessità sulla tesi del "platonismo" di Hobbes, avanzata da LEO
STRAUSS, The Politicai Philosophy of Hobbes, Chicago 1963; trad. it. in ID., Che
cose la filosofia politica?, Urbino 1977, pp. 345 ss.).
98
Dell'opera tònnesiana, Thomas Hobbes. Leben undLehre (Stuttgart 19253),
del resto, Borkenau fa largo uso nel libro, come pure F. NEUMANN in Die Herr
schaft des Gesetzes cit., p. 128 ss.
99
T. PARSONS, The Structure of Social Action, New York 1937 (trad. it., La
struttura dell'azione sociale, Bologna 1962, pp. 121127).
64
Ibidem.
273
MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E
CONCETTI
besiano un'incongruenza analoga a quella riscontrata da Borke
nau, benché la formuli dentro un contesto categoriale radical
mente diverso da quello "classista" (comune a Borkenau stesso e,
con i dovuti distinguo, a Macpherson): al termine di raffronto
della "società borghese" o della "società mercantile possessiva" si
sostituisce qui lo sfondo costituito dal paradigma utilitarista di
razionalità come particolare tipo di «sistema dell'azione» 10°. Ciò
non impedisce, tuttavia, che l'argomentazione si presenti quasi
perfettamente isomorfa a quelle appena considerate. Anche qui,
infatti, lo «stato di natura come condizione di guerra di tutti
contro tutti» non fa che riflettere l'instabilità di «una società retta
esclusivamente da principi utulitaristici» 101, in cui si scontrano, in
una concorrenza priva di freni, uomini muniti di una razionalità
semplicemente massimizzante e individualistica, id est: individui
dotati di una razionalità a raggio limitato perché condizionata
dalle "passioni", dagli istinti prevaricatori della forza e della
frode. A partire di qui da questo circolo vizioso di passioni, lotta
per il potere e instabilità Hobbes ha il merito di porre («con
straordinaria precisione», gli riconosce Parsons) un problema che
rappresenta «la più importante difficoltà empirica del pensiero
utilitaristico» 102: il problema dell'ordine. Ma la soluzione che egli
prospetta, ossia «l'idea del contratto sociale», si presenta in realtà
come un lato logicamente sconnesso dal presupposto di partenza:
come potrebbe infatti pervenire alla consapevolezza comune
richiesta dalla razionalità (consensuale) del contratto una massa
amorfa e caotica di individui che non riescono costituzionalmente,
"per natura", a oltrepassare i confini di una razionalità a raggio
64
100
Ibidem.
Cfr. ivi, p. 124.
101
Ivi, p. 127.
102
Ivi, p. 124.
274
MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E
CONCETTI
64
Ibidem.
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 275
futuro impiego della forza e della frode» 103. Se si tiene presente
rincidenza esercitata sulla impostazione sociologica parsoniana da
Tònnies incidenza sottolineata con forza anche da Norbert Elias
neirintroduzione alla seconda edizione di Ubar den Prozess der
Zivilisation 104 si vedrà come i conti ritornino perfettamente. E si
scorgerà anche come il limite fondamentale di ogni reductio in
chiave sociologica della filosofia politica di Hobbes debba
necessariamente metter capo al misconoscimento della sua
essenziale portata normativa e alla sua derubricazione a mero
indicatore descrittivo di una situazione storica o di una struttura
sociale determinata: «Il pensiero di Hobbes è quasi totalmente
privo di caratteri normativi: non stabilisce alcuno schema ideale
di comportamento, ma semplicemente studia le condizioni ultime
della vita sociale» 105. Che Borkenau non si sottragga del tutto a
questo limite nonostante l'enfasi posta sulla discontinuità tra
Hobbes e i pensatori politici che lo precedono, Althusius compreso
, è un fatto incontrovertibile. Ma tale fatto non sminuisce certo
l'importanza di questa parte della sua trattazione: se non altro
perché i temi da essa evocati continuano come si è visto ad
occupare uno spazio cospicuo all'interno delle attuali
interpretazioni hobbesiane.
7. Etica protestante e morale gesuita
Non ci è possibile, in questa sede, soffermarci sugli altri tre
capitoli "monografici" del libro (dedicati rispettivamente a
Descartes, Gassendi e Pascal): non tanto perché le interpretazioni
in essi prospettate siano scontate o pacifiche, quanto piuttosto
perché i loro temi sono quasi tutti implicati (a differenza, appunto,
del capitolo hobbesiano) dall'argomentazione critica di Gros
smann, sulla quale ci soffermeremo tra breve. Prima di passare a
quest'ultimo punto, riteniamo invece opportuno svolgere delle
103
Ivi, p. 126.
104
Cfr. N. ELIAS, Uber den Prozess der Zivilisation, 2 voli., Bern 19692 (trad.
it., voi. I: La civiltà delle buone maniere, Bologna 1982, p. 14). L'opera di Elias
risale, com'è noto, agli anni '30; ed è significativo che Borkenau recensisca
entrambi i volumi all'atto della loro apparizione: cfr. «Sociological Review»,
XXX, 1938, pp. 308311 (recens. del I voi); ivi, XXXI, 1939 (recens. del II voi.).
rapide considerazioni sul modo in cui Borkenau si atteggia nei
confronti della lunga querelle sull'etica del capitalismo e sul nesso,
ad essa correlato, di "nuova teologia" e "nuova antropologia".
105
T. PARSONS, op. cit., p. 121.
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 276
Prima facie, l'analisi borkenauiana sembra ricalcare le tesi di
Max Weber: e di queste in realtà assume, almeno in larga parte, il
lato descrittivo. L'etica calvinista viene cioè rappresentata come
l'etica capitalistica per eccellenza: «All'inizio del Seicento il
calvinismo è diventato la confessione di banchieri, borghesi della
manifattura e operai dell'industria. Gli strati nobiliari si
dissociano» 106. In realtà, questa affermazione di partenza intro
duce un ordine di argomentazioni che tende invece a prendere le
distanze dalla problematica weberiana e a circoscrivere note
volmente la funzione svolta dal calvinismo nel processo di genesi
della società borghese moderna. Innanzitutto, la tesi di Borkenau
non si concentra tanto sul dogma della predestinazione, quanto
piuttosto sulla dottrina dell'abissale corruzione dell'uomo: «A noi
sembra, al contrario di Max Weber, che il dogma della
predestinazione rivesta un'importanza minore della dottrina della
abissale corruzione dell'uomo, che nel calvinismo, a differenza che
nel luteranesimo, non è attenuata dalla possibilità della
redenzione attraverso la grazia» 107. La valutazione del calvinismo
viene così subordinata da Borkenau al punto di vista che fa da
ideaguida alla parte centrale della sua trattazione, costituendo la
vera e propria spina dorsale del libro nel suo insieme: quello
relativo alle conseguenze teologiche e morali della visione
"pessimistica" del mondo. In secondo luogo, rapportata ai temi
della discussione su "protestantesimo e capitalismo" che si era
svolta nella prima decade del secolo sull'"Archiv fiir
Sozialwissenschaft und Sozialpolitik" e sull'"Internationale
Wochenschrift fiir Wissenschaft, Kunst und Technik" (con inter
venti di H.K. Fischer, F. Rachfahl e E. Troeltsch, e con ben quat
tro "anticritiche" dello stesso Weber) 108, la tesi borkenauiana
suona con un timbro deliberatamente provocatorio: non sono le
soluzioni etiche più radicali come appunto quella calvinista ad
106
S, pp. 321322 (M, p. 26).
107
Ibidem.
108
Gli atti di questa importante discussione si trovano ora raccolti in M.
WEBER, Die protestantìsche Ethik, II (Kritiken und Antikritiken), a cura di J.
Winckelmann, MunchenHamburg 1968.
avere contribuito in modo determinante alla "formazione" del
Weltbild borghese, ma al contrario quelle che perseguivano una
soluzione intermedia, in un certo senso "mediatrice", anche se non
necessariamente conciliativa e adattiva. Accettando la vita
moderna così com'era, senza discuterne i principi e presentirne le
contraddizioni di fondo, il calvinismo non ha per Borkenau
favorito lo sviluppo di un sistema filosofico indipendente dal
sistema religioso, dimostrandosi incapace per il suo
atteggiamento meramente negativo nei confronti di ogni
interpretazione universalistica del mondo di fondare una nuova
105
T. PARSONS, op. cit., p. 121.
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 277
109
Cfr. U, cap. III.
110
Cfr. ivi, cap. IV.
non trova poi di meglio che contrapporle «la modernità della
visione economica dei gesuiti» nl. La "rivalutazione" del gesuitismo
avviene, invece, in Borkenau in rapporto a una sua precisa
versione etica: il molinismo. Astraendo dal problema che aveva
fino ad allora costituito la base della teologia morale, l'etica
sviluppata da Molina, pur mancando della nozione di "ascesi
intramondana" (innerweltliche Askese), condivide con il calvinismo
la «concezione puramente positivistica della morale»: «nella
misura in cui nega sia la relazione tomista positiva dell'uomo con
il Bene supremo, sia quella negativa calvinista, Molina giunge
alla dottrina dell'indifferenza del volere che può liberamente
decidere in ogni direzione» 112. In questo equilibrio che è però
anche una tensione tra riduzione della morale a mera
normatività positiva e dottrina (necessariamente lassista)
dell'indifferenza del volere, sta il punto di forza del molinismo, che
più tardi sarà allargato da Gassendi, «consapevole seguace del
105
T. PARSONS, op. cit., p. 121.
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 278
molinismo», a sistema filosofico in senso proprio: questo punto di
forza risiede nel fatto che, «per la prima volta nel pensiero
moderno», si dà la possibilità di una «rigida separazione tra
necessità interna e necessità esterna», da cui direttamente
consegue la polemica con ogni visione teleologica della morale,
l'affermazione dell'ubiquitarietà della causa efficiente
(«puramente esterna nel mondo») e la dichiarazione del carattere
inesorabilmente contingente delle decisioni umane113.
105
T. PARSONS, op. cit., p. 121.
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 279
È in base ad essa che vengono misurati i successi e i fallimenti
dei diversi sistemi, dottrine, movimenti. È in base alle esigenze di
questo strato sociale determinante nella "transizione" proprio
per il suo carattere di «intermediario»116 che si dichiara con
sicurezza perentoria inadeguato, da un lato, il calvinismo, con il
suo radicale rigorismo pessimistico, ma, dall'altro, anche il
molinismo (malgrado la sua maggiore fruttuosità filosofica), a
causa della sua morale eccessivamente "lassista", che gli consente
di condividere con la sua controfigura libertina il ruolo di rap
presentante ideologico della nobiltà di corte117. È in base alle sue
istanze etiche indirizzate alla costruzione di una «moderna morale
di massa» (il cui più lucido interprete sarebbe, per Borke
1 1 4
t i , p. 170 (trad. it. cit., p. 173).
1 1 5
t i , p. 171 (trad. it. cit, p. 173).
116
Sulla funzione strategica svolta per Borkenau nella fase di transizione
dalle classi «intermédiaires et mitoyennes», si veda L. FEBVRE, Fondations cit.,
p. 372 (= Pour une Histoire cit., p. 744).
117
Cfr. t i , cap. TV, par. 8.
nau, Charron)118 che vengono stigmatizzati i limiti del neostoi
cismo di Lipsius e di du Vair, posto in auge nei drammi di Cor
neille119. Ma è proprio per tutte queste ragioni che è difficile sot
trarsi all'impressione che, lungi dal configurare un criterio d'indi
viduazione determinato ed efficace, la nozione di gentry funga
piuttosto da astratta funzione omologatrice: gentry è la nobiltà di
toga olandese e inglese, ma anche la noblesse de robe che si con
solida in Francia durante le guerre civili formando la spina dor
sale del partito bodiniano dei politiques e che nel 1604 afferma
l'ereditarietà degli uffici a suo tempo acquisiti con la sua ricchezza
120
; e ancora, per passare al piano delle "rappresentazioni
ideologiche": Hobbes è «l'ideologo della gentry nella rivoluzione
inglese» 121; Descartes è «una sorta di concentrato di tutti gli strati
importanti della borghesia francese, idealmente aggregati attorno
alla noblesse de robe» 122, ossia nell'accezione borkenauiana al
corrispettivo francese della gentry; lo stesso Pascal, quantunque
assegnato da Borkenau a un rango sociale più prossimo alla «bor
ghesia vera e propria» 123 che alla noblesse de robe, finisce per svol
118
È questa la ragione per la quale nel libro si dà più rilievo a Charron che
a Montaigne. Sul tema, A.M. BATTISTA, Alle orìgini del pensiero politico liber
tino. Montaigne e Charron, Milano 1966. Non è forse inutile ricordare che,
nell'importante saggio di Horkheimer, Montaigne und die Funktion der Ske
psis (in «Zeitschrift fur Sozialforschung», VII, 1938, pp. 152; trad. it. in Teo
rìa crìtica cit., II, pp. 196253), il libro di Borkenau non viene mai menzionato.
119
Cfr. U, pp. 180 ss. (trad. it. cit., pp. 182 ss.).
120
Cfr. lì, pp. 170 ss. (trad. it. cit., pp. 173 ss.).
121
S, p. 329 (M, p. 34).
122
U, p. 260 (trad. it. cit., p. 266).
123
ti, p. 483 (trad. it. cit., p. 473).
105
T. P
124 ARSONS
S, pp. , op. cit., p. 121.
334335 (M, 3940). Con questa enfatizzazione della "scissione"
abissale e della negative Dialektik, Borkenau sembra a tratti anticipare l'inter
pretazione in chiave gnostica di Pascal impostata da H. JONAS, in The Gnostic
Religion (1954), Boston 19632, pp. 337339.
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 280
gere in ultima analisi la funzione storica di ideologo della gentry,
distruggendo (in una combinazione esplosiva di Hobbes e
Machiavelli) gli ultimi residui di giusnaturalismo e portando così
a compimento la traiettoria del pessimismo nell'idea di un'abissale
lontananza tra progresso indefinito e limitatezza dell'uomo: vale a
dire nell'elevazione quasi nichilistica della "dialettica negativa" a
forma generale dell'esistenza umana124.
125
L. FEBVRE, Fondations cit., pp. 373374 (= Pour une Histoire cit., p. 750).
126
Ivi, p. 374 (= p. 751): dove l'obiezione coinvolge anche l'uso borke
nauiano del termine «feudale».
105
127 T. PARSONS, op. cit., p. 121.
G, pp. 224225 (trad. it. in M, pp. 124125).
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 281
8. Razionalismo e società borghese
La radicalità dell'approccio critico di Grossmann si rileva dal
fatto che esso, al di là delle numerose obiezioni specifiche, mira a
destituire di fondamento innanzitutto il metodo con cui il libro è
"costruito": «Il metodo di Borkenau si presenta (...) sotto aspetti
proteiformi, sottoposto a continue metamorfosi» 130. È questa
insofferenza generale per il metodo che fa da guida e sostegno
all'interno andamento della polemica. Andamento, come si è detto,
irregolare, che si disperde sovente in disgressioni su aspetti
particolari; ma che proveremo tuttavia a sintetizzare,
129
Un solo esempio: una rivista, pure assai aperta e sensibile al rinnova
mento teorico, come «Der Kampf», dopo aver ignorato il libro di Borkenau,
recensisce elogiativamente il saggio di Grossmann. Cfr. Ili (serie dell'emigra
zione), 1936, pp. 257260 (nota siglata l.d., con il titolo Kapitalismus und mecha
nistische Naturwissenschaft). Il tentativo grossmanniano viene qui addirittura
salutato come un vero e proprio «modello di applicazione del materialismo
storico» (p. 260). Un atteggiamento più differenziato sarà invece tenuto, più
tardi, da altri studiosi: si vedano soprattutto le opere già citate di L. Kofler,
P. Bulthaup e R. zur Lippe, nonché A. SOHNRETHEL, Geistige und kòrperliche
Arbeit, Frankfurt am Main 1970 (trad. it., Lavoro intellettuale e lavoro manuale,
Milano 1977, p. 66 ss.).
distinguendo tre livelli che nell'esposizione si trovano intrecciati o
addirittura mescolati insieme. Due di essi compongono insieme
la pars destruens, l'altro la pars construens del ragionamento. I
primi due punti riguardano, pertanto, il duplice ordine di
obiezioni che Grossmann rivolge a Borkenau: a) Borkenau
opererebbe sulla base di un'accezione rigidamente univoca della
categoria di "manifattura"; b) la nozione di "transizione" sarebbe
105
T. PARSONS, op. cit., p. 121.
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 282
in Borkenau una «vuota generalizzazione», inidonea a individuare
realisticamente le diverse fasi di sviluppo della manifattura. In
secondo luogo, relativamente alla pars construens: c) Grossmann
prospetta quale contraltare alla critica del disegno di Borkenau
la sua interpretazione storica dei rapporti tra meccanicismo e
manifattura. Passiamo, dunque, all'analisi puntuale dei tre
aspetti.
a) In Borkenau vi sarebbe una sorta di armonia prestabilita tra
"pensiero manifatturiero" e "borghesia manifatturiera", poggiante
sulla presunzione di assoluta uniformità e costanza della nozione
di "manifattura": la manifattura sopprimerebbe la qualificazione
del lavoro attraverso la sostituzione dell'artigiano qualificato
professionale (retaggio dell'ordinamento tardofeudale) con
l'operaio qualificato, il cui lavoro consisterebbe nell'esecuzione di
interventi manuali semplici131. In realtà per Grossmann il
lavoro manifatturiero, lungi dal basarsi sulla nonqualifica, ha
sempre avuto un «carattere qualificato»: il che ha reso impossibile
«che da esso potesse venire l'impulso alla formazione di quel
lavoro "astratto", "umano" in genere, che costituisce le basi della
meccanica» 132. In questo senso l'adesione borkenauiana all'analisi
di Marx sarebbe puramente retorica e declamatoria, finendo per
dimostrare l'esatto contrario di ciò che Marx intendeva: ossia che
il lavoro avrebbe eliminato la qualificazione, anziché restare
"individuale", "soggettivo", e pertanto sottratto alla possibilità di
un'analisi veramente scientifica, condotta con «metodi
quantitativi» 133. Questa obiezione serve a Grossmann per
131
S, pp. 182183 (M, p. 85). Per una discussione italiana di questa pole
mica si veda V. DINI, Storia, ideologìa, soggettività. Note su un dibattito degli
anni Trenta, in «Critica del diritto», V, 1979, 14, pp. 7179, nonché la recen
sione di G. Pasqualotto a M, in «Belfagor», XXIV, 1979, 2, pp. 239243.
132
Cfr. G, pp. 190191 (M, pp. 9293).
destituire di fondamento la connessione istituita da Borkenau tra
"epoca della manifattura", da una parte, e filosofia e scienza
meccanicistica, dall'altra: il lavoro manifatturiero non era adatto
"per principio" a costituire le basi della meccanica scientifica, in
quanto «il carattere più importante di ogni lavoro meccanico è la
sua omogeneità; il lavoro eseguito è qualitativamente sempre
identico e soltanto quantitativamente diverso, ragion per cui le
differenze di quantità sono esattamente misurabili» 134. La stessa
lettura borkenauiana dell'opera di Descartes risulterebbe, sotto
questo profilo, completamente falsata: non a caso verrebbe,
quindi, ignorato il Traité de la Mécanique del 1637, che
105
T. PARSONS, op. cit., p. 121.
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 283
b) A Borkenau sarebbero «sfuggite le diverse tappe di sviluppo
della manifattura» (dalla manifattura "cooperativa" a quella
"eterogenea", da quella "organica" a quella "complessiva") 136 per il
semplice fatto che egli è rimasto «prigioniero di generalizzazioni»:
la «vuota formula dell'influsso devastante dell'irrompente
"capitalismo monetario e commerciale" (Geldund Handelskapital)
sull'ordine feudale armonico e gerarchizzato» lo solleverebbe, così,
dal gravoso compito di spiegare «fenomeni che solo attraverso
un'analisi precisa di complicati complessi di fatti della vita
materiale possono essere resi comprensibili» 137. Questa "cattiva"
astrazione starebbe alla base della visione "idilliaca" e
"gradualistica" della transizione offerta da Borkenau, la cui
«descrizione generica» verrebbe in realtà mutuata non tanto dal
Marx del Capitale, quanto piuttosto dal privilegiamento
133
G, p. 190 (M, p. 93). Per un raffronto con la trattazione della manifat
tura in Marx si veda il cap. XLT del primo libro del Capitale (Das Kapital, Bd.
1, in MEW, XXIII, pp. 356 ss.; trad. it., Il capitale, I, Roma, 19706, pp. 379 ss.).
Celebre l'affermazione di Marx su Descartes nel capitolo successivo: per la
quale il razionalista francese con la sua concezione panmacchinistica, che
lo porta a considerare tutti gli esseri animati come machines «sieht mit den
Augen der Manufakturperiode», «vede con gli occhi del periodo manifattu
riero» (ivi, p. 411 n.; trad. it. cit., p. 433 n.).
134
G, p. 190 (M, p. 93).
135
Ibidem.
136
G, pp. 183184 (M, pp. 8687).
dell'aspetto della "divisione del lavoro" operato da Adam Smith
nel primo capitolo di The Wealth of Nations 138: «la storia ha un
decorso così graduale, come appare in Borkenau? Le singole tappe
del processo si succedono realmente una dopo l'altra, in modo tale
che di volta in volta si possa parlare della concezione della
scolastica, del Rinascimento e dell'evo moderno come di concetti
inequivocabili? E non vi sono anche all'interno dello sviluppo delle
regressioni spesso di durata secolare che sono davvero da
prendere in considerazione e da spiegare? Ma come sorgono dubbi
circa la successione, così ne sorgono anche circa la compresenza
temporale: non esistono in ogni periodo, ad esempio nella
scolastica, diverse concezioni del mondo, per cui il compito del
ricercatore si complica? Non ha egli anche il compito di spiegare
queste concezioni coesistenti? Non è probabile che queste visioni
del mondo siano altrettanto differenziate dei rispettivi contesti
sociali? E ancora: non dobbiamo anche ammettere che lo sviluppo
delle singole discipline non procede nello stesso modo?»139.
105
T. PARSONS, op. cit., p. 121.
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 284
138 Qfr j± SMITH, Art Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of
Nations (17895), 2 voli., London 1961 (trad. it., Indagine sulla natura e le cause
della ricchezza delle nazioni, Milano 1973, pp. 925).
139
G, p. 165 (M, p. 69).
140
G, p. 166 (M, p. 70).
141
Cfr. P. DUHEM, op. cit.; G. SÉAILLES, Léonard de Vinci, L'artiste et le savant,
Paris 1906.
cominci con Leonardo da Vinci già alla fine del XV secolo è
accettato da 50 anni dalla maggior parte dei più eminenti ricer
catori» 142. A questo punto, però, l'argomentazione si complica
enormemente, e tra le diverse pieghe dell'analisi affiora una
sempre più vistosa contraddizione. Per un verso, infatti, Gros
smann punta come si è visto passando in rassegna le sue obie
zioni a un'estrema specificazione del concetto di "lavoro astratto",
che egli tende a correlare esclusivamente al sistema strido sensu
capitalistico di produzione proprio della fase della grande
industria, e dunque a sganciarlo nettamente dalla storia della
manifattura. Per Valtro, invece, egli appare propenso ad ampliare
l'estensione diacronica dello sviluppo capitalistico stesso,
retrodatandolo drasticamente rispetto a quanto non avesse fatto
lo stesso Borkenau e collocandolo nei traffici mercantili del
Mediterraneo del XIVXV secolo: da cui l'affermazione che
Borkenau avrebbe trascurato «tre secoli di sviluppo capitalistico
nell'Europa occidentale» 143. Gli argomenti che egli adduce a
questo riguardo in polemica sia con «l'erronea interpretazione
della teoria marxiana fornita da Sombart, con la quale questi
presenta la manifattura come il primo grado dell'impresa
capitalistica» 144, sia con la tesi weberiana del ceto calvinista come
142
G, p. 171 (M, p. 75).
143
G, p. 172 (M, p. 76; corsivo nostro).
144
G, p. 174 (M, p. 77). La tesi di Sombart a cui si riferisce Grossmann si
trova in Der moderne Kapitalismus cit., trad. it. cit., pp. 309 ss. Qui Grossmann,
tuttavia,
105
non vede che la tesi sombartiana dipendeva a sua volta dalla tesi di
Ferdinand T. P ARSONS , op. cit., p. 121.
Tònnies, per cui la formazione della società moderna coinciderebbe
con il processo della sua "progressiva meccanizzazione" (tesi alla quale non
è, evidentemente, estraneo Borkenau). Anche Sombart, del resto, in questa
stessa opera, parla della «genialità» di questo insegnamento tònnesiano (cfr.
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 285
Tràger del capitalismo ascendente sono sostanzialmente due: la
precedenza storica del sistema dell'industria a domicilio
centralizzata (o Verlagssystem) rispetto alla manifattura;
l'apparizione precoce del sistema della contabilità a partita doppia
nell'Italia del '300'400 («il paese allora capitalisticamente
conduttore»)145. Ma questi due argomenti si reggono in base ad
altrettanti postulati di partenza che sono, a ben guardare,
tutt'altro che scontati: il primo presuppone infatti che il modo di
produzione specificamente capitalistico si sia affermato
effettivamente con la metamorfosi del mercante in imprenditore o
direttore di manifatture, aggirando cioè (secondo una tesi che
Grossmann ricava da Sée146, ma che è a tutt'oggi autorevolmente
sostenuta nell'ambito della storiografia francese) tutti i vincoli
costituiti dalle strutture in formazione degli Stati moderni, e
soprattutto senza alcuna promozione e assistenza da parte di
questi; il secondo riposa invece sul postulato di una assai
discutibile identificazione tra la comparsa di una tecnica, com'è
quella della contabilità esatta, e il configurarsi di una forma di
ratio del processo produttivo quale è implicita nella categoria di
"calcolabilità" 147 (per quanto intercorra infatti uno stretto
rapporto tra l'aspetto "tecnico" e quello "formale", perché una
tecnica venga a costituire l'ossatura di una forma di razionalità
produttiva e sociale occorrono numerosi passaggi e mediazioni).
146
H. SÉE, La France économique et sociale du XVIIF siede, Paris 1933.
147
Per il tema della "calcolabilità" in Weber è d'obbligo il rinvio a Wirt
schaft und Gesellschaft, Tùbingen 19564 (trad. it., Economia e società, 2
voli., a cura di P. Rossi, Milano 1961, cfr. in specie, I, pp. 161 ss.; II, pp.
402403).
148
105 Cfr. la lettera di H. Grossmann a P. Mattick del 21.VI. 1931, ora in appen
T. PARSONS, op. cit., p. 121.
dice a H. GROSSMANN, Marx, die klassische Nationalókonomie und das Problem
der Dynamik cit., p. 88 (trad. it. cit., p. 124).
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 286
9. Franz Borkenau e il dibattito sul Moderno
105
T. PARSONS, op. cit., p. 121.
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 287
Tracciare un bilancio conclusivo di questo libro è praticamente
impossibile, poiché richiederebbe la puntuale verifica che non
doveva, né evidentemente poteva, costituire lo scopo di questo
capitolo della tenuta dei singoli profili interpretativi che
Borkenau prospetta su momenti fondamentali del pensiero
tardomedievale, protomoderno e moderno. Ci limiteremo pertanto
a delle brevi osservazioni in margine a un'opera che come si spera
di aver lasciato intravedere lambisce interrogativi e nodi
tematici che, a distanza di mezzo secolo, appaiono ancora
attualissimi: in parte perché non hanno mai cessato di esserlo, in
parte perché tornati in auge con il riproporsi di quella querelle
intorno all'"origine" e all'"essenza" del Moderno che funge ormai
sempre più scopertamente da allegoria del dibattito sul destino
del mondo contemporaneo153. I temi di questo
152
Cfr. L. NEUREITHER [F. BORKENAU], Klassenbewusstsein, in «Zeitschrift
tur Sozialismus», I, 1934, pp. 153159; Noch einmal Klassenbewusstsein, ivi,
pp. 325329; Pareto, London 1936: in specie le pp. 106163, dedicate alla teo
ria delle élites. Sulla persistenza della chiave di lettura «elitista» nello sviluppo
successivo di Borkenau, si veda anche Der europaische Kommunismus (trad.
it. cit., p. 650): dove questa chiave è espressamente applicata anche al feno
meno del leninismo. Sul libro dedicato a Pareto si veda anche L. FEBVRE, Un
essay sur Pareto, in «Annales d'Histoire Économique et Sociale», X, 1938, pp.
280282; G. BUSINO, Introduction à une histoire de la sociologie de Pareto, in
«Revue éuropéenne de Science SocialeCahiers Vilfredo Pareto», 12, 1967, pp.
78; J.E. TASHJEAN, Borkenau on the Politicai Sociology of Pareto, ivi, 13, 1967,
pp. 163171; G. EISERMANN, L'influence de Vilfredo Pareto en Allemagne, in
«Revue éuropéenne de Science SocialeCahiers Vilfredo Pareto», 34, 1975, pp.
155173.
153
Mi riferisco al «grande ritorno» del tema della genesi del Moderno in
tutto il dibattito occidentale: da Alain Touraine a Daniel Bell, da Luhmann e
Habermas a Louis Dumont. Dibattito che sembra coinvolgere anche temi di
filosofia politica (oltre che di «filosofia della scienza»), in termini tuttavia non
molto distanti da quelli messi a fuoco da Ernst Troeltsch nel lontano 1907:
quando parlava di «una caratteristica ambivalenza dell'idea di Stato nel mondo
moderno, da cui derivano correnti di pensiero completamente diverse. Da un
lato, nella sua sovranità, esso è un principio di immanenza [...] è un principio
dibattito erano certo ben presenti a Borkenau. Ma il fatto che non
venga mai citato, neppure polemicamente, l'autore del Tramonto
dell'Occidente (ai cui temi egli si sarebbe invece accostato in una
fase successiva, riflettendo sulla "crisi dello Historismus")154,
appare in questo senso indicativo di una radicale alterità d'intenti:
l'obiettivo di Der Ubergang non è tanto quello di svelare un
del razionalismo. [...] Dall'altro lato, però, lo Stato moderno non riesce a dimen
ticare la sua origine dal processo di emancipazione dalla Chiesa, dal supremo
potere spiritualereligioso. Esso si è sottratto alla sua supremazia, ma ha dovuto
lasciar sussistere i suoi valori e le sue verità soprasensibili e universali; li ha
rimessi sì nelle loro sfere, ma non ha potuto né voluto sostituirli con la propria
essenza. Resta quindi nello Stato moderno un profondo sentimento della propria
insufficienza rispetto a questo mondo spirituale e della propria limitazione rispetto
alle cose esteriori e mondane» (Das Wesen des modernen Geistes, in Gesammelte
Schriften, IV, Tùbingen, 1925; trad. it. in L'essenza del mondo moderno, a cura di
105
T. PARSONS, op. cit., p. 121.
G. Cantillo, Napoli 1977, pp. 133134).
154
Cfr. F. BORKENAU, Drei Abhandlungen zur deutschen Geschichte, Frankfurt
am Main 1947, pp. 76110.
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 288
L'idea borkenauiana di "transizione" non allude dunque affatto
a una determinazione lineare, ma è costruita esattamente in
opposizione a un siffatto schema. Ragion per cui non si capisce
1981, p. 424.
156
Ibidem.
157
L. FEBVRE, Fondations cit., p. 372 (= Pour une Histoire cit., p. 748).
158
105 In effetti,
T. P in questo saggio, Bauer sostiene che il passaggio dall'«imma
ARSONS, op. cit., p. 121.
gine del mondo» feudale a quella borghese si produce gradualmente, «a poco
a poco» (allmàhlich): cfr. Der lebendige Marxismus. Festgabe zum 70. Geburt
stage von Karl Kautsky, Jena 1924, p. 408.
159
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 289
salvo essere poi messi in cortocircuito ogni qualvolta il loro incon
tro si renda necessario a spiegare una "svolta" o "passaggio" deter
minante. Questo carattere irrelato di schema "sociologico" e dise
gno di "storia delle idee" (e delle rappresentazioni ideologiche)
dipende da molteplici fattori. Le ragioni principali ci sembrano
essere tuttavia sostanzialmente due. In primo luogo, la mancata
utilizzazione (o forse semplicemente l'ignoranza), da parte di
Borkenau, di quei tentativi che proprio all'inizio degli anni '30
erano stati intrapresi per superare l'astratto specialismo della
Dogmengeschichte, saldando insieme l'analisi dei modelli di filo
sofia politica e giuridica con la "storia costituzionale e sociale":
basti semplicemente pensare a Otto Hintze, che tra il 1929 e il
1931 aveva già dedicato fondamentali saggi al problema dei rap
porti tra «economia e politica nell'epoca del capitalismo moderno»
(criticando l'impostazione sombartiana) e ai processi di
«trasformazione dello Stato» 160. In secondo luogo, l'assenza a dire
il vero singolare in un libro tutto imperniato sull'ipotesi del
meccanicismo come estensione metaforica all'intero universo della
methodus manifatturiera di un'analisi specifica dei rapporti tra
universo logico (e ideologico) dei terminiconcetti e universo delle
metafore. Lo studio di questi rapporti studio verso il quale
Borkenau avrebbe dovuto sentirsi sollecitato proprio per il suo
interesse alla migrazione di concetti da una disciplina all'altra
(vedi il caso della traslazione di parole come "legge" e "prova"
dalla scienza giuridica alla scienza naturale) si è oggi
enormemente intensificato, portando a una sempre più decisa
rivalutazione della funzione svolta dalle metafore nei più svariati
campi disciplinari: non solo nell'ambito della storia della filosofia e
della Kulturgeschichte (Ricoeur, Blumenberg)161, oppure in quello
Cfr. O. HINTZE, Wirtschaft und Politile im Zeitalter des modernen Kapitali
160
163
Cfr. R. BOYD, Metaphor and Theory Change; TH.S. KUHN, Metaphor in
Science: entrambi compresi nel volume collettaneo Metaphor and Thought, a
cura di A. Ortony, Cambridge, Mass. 1979 (trad. it., La metafora nella scienza,
Milano 1983).
164
Cfr. H. BLUMENBERG, op. cit.
165
R. BODEI, Introduzione a H. BLUMENBERG, La leggibilità nel mondo, Bolo
gna 1984, p. XXI. Per una collocazione di Giordano Bruno nella prospettiva
degli sviluppi della filosofia moderna all'interno di un approccio che, anche
se in modo assai diverso da quello di Borkenau, tende a rapportare dinami
camente nuclei teoretici e nuclei sociali nel processo genetico della "moder
nità" si veda N. BADALONI, La ragione signorile difronte all'immaginazione nella
prima metà del Settecento, in Storia d'Italia, III, Torino 1973, pp. 718 ss.
166
Cfr. J. BURY, The Idea of Progress. An Inquiry into its Origin and Growth,
London 1920 (trad. it., Storia dell'idea di progresso, Milano 1964, pp. 39 ss., 47
ss.); R. NISBET, History of the Idea of Progress, New York 1980, pp. 112115 e
119124. È noto, del resto, che lo stesso Copernico chiamava a sostegno dell'ipo
tesi eliocentrica l'autorità di Ermete Trismegisto: cfr. De Revolutionibus,
Norimbergae
168 1543,
S'intende il Riegl
pp. 910. Su
di Die questo tema,
spàtrómische così centrale (Wien
Kunstindustrie nei lavori
1901) della
e di
Yates, si vedano ora le considerazioni di P. Rossi, Tradizione ermetica e rivo
Das hollàndische Gruppenportràt (Wien 1931: ma la I ed. è del 1902).
luzione scientifica, in «Rivista di filosofia», 1, 1975, pp. 2056.
169
E. GOMBRICH, Norm and Form. Studies in the Art ofthe Renaissance, Lon
167
M. DVORAK, Kunstgeschichte als Geistesgeschichte, Mùnchen 1924.
don 1966 (trad. it., Norma e forma, Torino 1973, p. 151).
170
Cfr. E. CASSIRER, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, trad. it. cit., pp.
95 ss. (capitolo dedicato a «Il concetto di spazio e la geometria»).
171
Cfr. ivi, p. 149.
172
Cfr. E. PANOFSKY, Die Perspektive als «symbolische Form» («Vortràge der
Bibliothek
T. P ARSONS
105 Warburg», a cura di Fritz Saxl, Vortràge 19241925), LeipzigBer
, op. cit., p. 121.
lin 1927; trad. it., La prospettiva come forma simbolica, Milano 1961, p. 57 (ma
si veda anche l'introd. all'ed. it. di G.D. Neri, p. 14). Sul dibattito e sulle ricer
che di questi anni intorno alla Bibliothek Warburg cfr. E. GARIN, Introduzione
a F. SAXL, La storia delle immagini, Bari 1965, in specie pp. XXIXXII; dove si
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 291
luppato il lato più storicistico del "primo" Riegl 168, cristallizzandolo
in una sorta di «dogma hegeliano», come avrebbe più tardi notato
Ernst Gombrich: quello stesso "dogma" che alcuni allievi dello
stesso Dvorak avrebbero poi innestato sul telaio di una sedicente
"sociologia dell'arte", volgendo en materialiste la tesi per la quale
«tutte le tendenze artistiche devono necessariamente essere
interpretabili come manifestazioni del moto dialettico ascendente
dello spirito umano, che si manifesta in tutti gli aspetti di
un'epoca» 169. È sintomatico che Borkenau non citi, invece, mai
Panofsky, che in quegli stessi anni, partendo da Riegl e oltre
Riegl, aveva precisamente definito la nozione moderna di spazio
"prospettico", incontrandosi con le ricerche di Ernst Cassirer
intorno al significato dello spazio simbolico e ai suoi rapporti con
lo spazio geometrico170. Proprio nella fondamentale opera
cassireriana del 1910, Substanzbegriff und Funktionsbegriff,
troviamo infatti quell'idea della frattura tra spazio matematico,
tipico del Weltbild scientifico moderno, e spazio sensibile o
percettivo, che fonda il dominio di un continuum infinito e
omogeneo, annullante ogni differenza qualitativosensibile171. La
geniale intuizione di Panofsky stava precisamente nel ravvisare
una perfetta convergenza tra questo spazio geometrico, quale
viene teorizzato nella metafisica meccanicistica cartesiana, e lo
«spazio infinito, simboleggiato, in questo suo carattere, dalla
convergenza in un punto (ideale, benché realmente identificato
sulla tavola) delle linee di fuga dell'immagine», che era stato una
lenta conquista dell'arte rinascimentale172. L'assenza di ogni
riferimento ai lavori di Panof
105
T. PARSONS, op. cit., p. 121.
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 292
sky appare, dunque, in Borkenau sorprendente sia per l'evidente
connessione che essi avevano con le principali tematiche affron
tate in Der Ubergang, sia più empiricamente per il fatto che
Die Perspektive ah "symbolische Form" era stata recensita nel
1928 da H. Wieleitner173: autore al quale egli pure fa esplicito
richiamo nel libro, elogiandolo per il carattere «storicamente assai
avvertito» 174 dei suoi lavori sulla genesi della matematica
moderna.
È del tutto superfluo avvertire che queste ultime osservazioni
critiche non inficiano minimamente il valore d'insieme del libro:
anzi, proprio il fatto che esso ci solleciti a tali approfondimenti, ne
rivela, sia pure in controluce, la straordinaria attualità. Attualità
straordinaria, ma niente affatto miracolosa: se si pensa che
l'opera in questione è come si è tentato di illustrare in queste
pagine il prodotto di una delle più intense e drammatiche
stagioni intellettuali del nostro secolo.
174
U, p. Vili (trad. it. cit., p. 6).
I
CAPITOLO SECONDO
SOVRANITÀ: PER UNA STORIA
CRITICA DEL CONCETTO
1. Delimitazione semantica del tannine
lements" dello Stato dei ceti, alla sua formazione nella cosiddetta
"età dell'assolutismo'', al suo compimento "democratico". Le
definizioni di sovranità fornite nel XVI secolo da Jean Bodin, nel
XVII secolo da Thomas Hobbes e nel XVIII secolo da JeanJacques
Rousseau sembrano quasi emblematicamente marcare le tappe
salienti di questa vicenda.
1.1. Puissance absolue et perpétuelle: la versione giuridica di
Bodin
Per Bodin al quale dobbiamo, grazie ai suoi fondamentali Six
Livres de la République (1576), la prima definizione compiuta
della «summa legibusque soluta potestas» secondo le prerogative
summenzionate dell'assolutezza, della perpetuità e dell'indi
visibilità la sovranità consiste specificamente in una facoltà: la
«puissance de donner et casser la loy», il «potere di fare e di
abrogare le leggi». Il contrassegno per eccellenza della sovranità
in quanto «puissance absolue et perpétuelle d'une République» è
costituito, pertanto, dal potere legislativo. In questo vincolamento
del carattere assoluto (ma, come si vedrà, non "illimitato") della
«summa potestas» al momento della creazione (o abrogazione) del
diritto consiste la quintessenza di ogni versione giuridica della
sovranità, di cui l'opera di Bodin che fu un giurista nel senso più
stretto della parola rappresenta il prototipo.
1.2. Artificial man: la versione politica di Hobbes
A Hobbes si deve, invece, la versione politica della sovranità, la
cui origine è posta nella struttura pattizia del contratto libe
ramente stipulato tra individui: i quali per porre fine alla fisio
logica insecuritas indotta da uno stato di conflittualità endemica:
dalla «guerra di tutti contro tutti » unilateralmente decidono di
alienare tutti i propri diritti (meno uno: il diritto alla conservatio
vitae) «ad un uomo o ad un'assemblea di uomini». Benché Hobbes
sia comunemente indicato come il sistematore della dottrina della
sovranità propria dell'epoca dell'assolutismo, già nella sua opera
affiora con tutta evidenza lo sganciamento del carattere «assoluto»
del potere sovrano dal "soggetto" che lo detiene: questo potere
rimane infatti esclusivo e indivisibile indipendentemente dal fatto
che ne sia il portatore il Re
0 il Popolo, un monarca o un'Assemblea parlamentare. In
entrambi i casi abbiamo «la fondazione di quel grande Leviatano o
SOVRANITÀ: PER UNA STORIA CRITICA DEL CONCETTO 296
piuttosto, per parlare con più riverenza, di quel Dio mortale a cui,
al di sotto del Dio immortale, noi siamo debitori della nostra pace
e difesa».
Rispetto a Bodin, abbiamo qui un'ulteriore razionalizzazione
della «summa legibusque soluta potestas»: nel senso che
1 comandi imperativi del sovrano, a differenza che nel giurista
francese, non sono limitati né dalle leggi naturali impresse al
mondo dalla suprema autorità di Dio né dalle leggi fondamentali
(oggi diremmo: costituzionali) dello Stato come ad esempio la
legge della Corona, che stabilisce la successione al trono ma
soltanto da una razionalità formale (conformealloscopo), relativa
esclusivamente ai mezzi necessari «al mantenimento della pace e
all'aiuto reciproco contro i nemici esterni» (vedasi, al riguardo,
Leviathan [1951], XVIIXVIII).
1.3. Volonté generale: la versione etica di Rousseau
Il processo di razionalizzazione della sovranità trova, tuttavia,
la sua forma compiuta soltanto nell'opera di Rousseau: dove l'atto
di associazione costitutivo del "contratto" dà luogo a un vero e
proprio «io comune» dotato di una «volontà generale» interamente
espressiva delle singole volontà individuali e non riducibile alla
loro somma aritmetica (la «volontà di tutti»). La «persona
pubblica» che così si forma «prendeva una volta il nome di città, e
adesso quello di repubblica o di corpo politico, il quale è chiamato
dai suoi membri Stato quando è passivo, corpo politico sovrano
quando è attivo, potenza quando è posto in paragone con altri
simili. Quanto agli associati, questi prendono collettivamente il
nome ài popolo, e singolarmente si chiamano cittadini in quanto
partecipi dell'entità sovrana» (Contrat social [1762], 1, 6).
La formulazione rousseauiana della sovranità segna al tempo
stesso uno sviluppo e una distanza sia da quella di Bodin che da
quella di Hobbes. Rispetto alla formulazione di Bodin: in quanto
per Rousseau la sovranità può risiedere esclusivamente nel
popolo, ossia nel «corpo politico» che esprime la volonté g e n e r a l e
trascendente le volontà particolari; ragion per cui la sola forma di
Stato che possa dirsi propriamente assoluta è quella della
repubblica popolare (mentre per Bodin è indifferente all'essenza
della sovranità il fatto che essa risieda nel popolo, nel monarca o
nella classe degli «ottimati»). Rispetto alla formulazione di
Hobbes: in quanto la sovranità di Rousseau non possiede una
razionalità meramente formale (funzionale allo scopo ne cives ad
arma veniant), bensì una razionalità sostanziale; per cui lo Stato
297
MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E
CONCETTI
non è soltanto un ente collettivo, ma anche un «ente morale» la cui
eticità consiste nel carattere antiutilitario della sua azione.
Un ulteriore aspetto della concezione rousseauiana è dato dalla
distinzione tra titolarità ed esercizio del potere sovrano. Questa
distinzione che ha la sua lontana origine nel diritto e nella
teologia politica medioevali è tuttavia declinata in modo
sensibilmente diverso da Bodin e mette capo a un problemachiave
della moderna dottrina costituzionale: quello della distinzione tra
Stato e governo. Il fatto che la titolarità del potere sovrano risieda
indiscutibilmente nel popolo, non esclude che la «repubblica
popolare» possa essere governata in tre modi diversi: a seconda
che l'esercizio del potere (ossia il potere esecutivo) sia affidato
giusta la tripartizione classica, da Rousseau mai ripudiata, delle
forme di governo in monarchia, aristocrazia e democrazia a un
solo magistrato, a un gruppo ristretto di magistrati o al popolo
nella sua totalità. Benché, dunque, enfatizzi non meno di Bodin e
dello stesso Hobbes l'assioma della indivisibilità del potere
sovrano (al punto di dedicare ad esso uno specifico capitolo del
Contrat social, il secondo cap. del Libro II), Rousseau a
differenza dei suoi due grandi predecessori «non rifiuta la
categoria di governo misto perché la interpreta come divisione non
dello Stato [...], ma come divisione del governo» (N. Bobbio). Che il
governo sia diviso, non comporta, dunque, in nessun caso una
divisione della sovranità: la divisione del governo, anzi, è
circostanza tanto "normale" che nella storia, di fatto, «non esistono
governi semplici» {Contrat social, III, 7).
1.4. Legiintimus/legitimus: la versione sociologica di Weber
2. Sovranità come pseudoconcetto: la categoria di "disciplina
mento"
3. Maiestas realis e maiestas personalis: il "doppio corpo del Re"
4. Costituzionalismo e 'potere temperato"
Questa divisione non è soltanto alla base del dualismo tra le
due grandi tradizioni che si contendono il campo della teoria
politicogiuridica della modernità: quella dei paesi di civil law e
quella dei paesi di common law; quella dello jus publicum con
tinentale, che salda il concetto di "assolutezza" del potere
all'esclusiva vigenza del diritto positivo (per cui non vi è diritto o
ordinamento legittimo all'infuori di quello posto dalla potestà
sovrana dello Stato), e quella giusnaturalistica e pluralistica dei
301
MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E
CONCETTI
paesi anglosassoni, che vincola invece l'idea di legittimità alla vita
concreta delle associazioni e degli ordinamenti concreti, di cui il
diritto sarebbe la manifestazione libera e spontanea (non a caso il
"pluralism" ha, accanto alla versione liberaldemocratica, anche
una versione socialista, rappresentata nel '900 da autori come
G.D.H. Cole e HJ. Laski).
La diaspora tra giusnaturalismo e positivismo attraversa
anche la storia "interna" del diritto pubblico: sia in epoca illu
ministica (come dimostra l'idea rousseauiana di una razionalità
sostanziale dello Stato in quanto entità morale), sia nelle teorie di
"transizione" dei legisti francesi del XVI e XVII secolo, quali, ad
esempio, Charles Loyseau e Cardin Le Bret. Se per Bodin
l'onnipotenza legislativa del sovrano era limitata, oltre che dalla
legge divina e dalla legge naturale, dalle leggi fondamentali del
regno {in primis: dalla Legge della Corona) che gli imponevano di
osservare scrupolosamente la distinzione tra la sfera (pubblica)
dell'imperium e quella (privata) del dominium o dei rapporti di
proprietà, per Loyseau la sovranità è bensì un «culmine di
potenza», ma va tuttavia esercitata secondo giustizia e a
condizioni prestabilite; e, dal canto suo, Cardin Le Bret, benché
radicale sostenitore del carattere assoluto della potestas del re (è a
lui che dobbiamo la celebre definizione della sovranità come
«punto geometrico» indivisibile), prende le difese del diritto di
rimostranza delle Corti sovrane parlando di «felice impotenza» del
sovrano limitato nel suo arbitrio.
Lo sbocco di questa esigenza di compensazione tra il principio
della sovranità assoluta e quello dei limiti del potere è consistito,
nell'ambito della tradizione continentale, nel fare sia del Re che
del Popolo dei semplici organi o articolazioni dello Stato: in questa
direzione si colloca la celeberrima teoria della separazione dei
poteri formulata prima da Montesquieu (al quale dobbiamo anche
in Esprit des lois [1748], II, 1; III, 3, 4 la prima chiara
formulazione della repubblica democratica, che esercitò notevole
influenza sulla sintesi giacobina di sovranità e "virtù
repubblicana") e poi da Kant (il quale, affermando che al re spetta
il potere esecutivo mentre all'Assemblea popolare quello
legislativo, sgancia definitivamente il concetto di "costituzione
repubblicana" dalla tipologia classica delle forme di governo).
Lungo questa traiettoria viene a consolidarsi quel particolare
esito dello jus publicum europaeum che trova la propria
espressione dottrinale nello "Stato di diritto". Al riguardo va
osservato che questa espressione è tipica della tradizione giu
ridicopolitica tedesca. Usata già da Robert von Mohl prima della
rivoluzione del 1848, essa prende piede soprattutto nell'epoca
SOVRANITÀ: PER UNA STORIA CRITICA DEL CONCETTO 302
Il concetto di sovranità sembra così, alla conclusione di un
305 MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E CONCETTI
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
R. BENDI, Re o Popolo. Il potere e il mandato di governare, Milano 1980.
N. BOBBIO, La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero
politico, Torino 1976. F. BORKENAU, La transizione dall'immagine feudale
all'immagine
borghese del mondo, Bologna 1984.
F. GALASSO, I glossatori e la teoria della sovranità, Milano 1957.
B. DE JOUVENEL, La sovranità, Milano 1971.
M. GALIZIA, La teoria della sovranità dal Medioevo alla Rivoluzione
francese, Milano 1951. H. KELSEN, Das Problem der Souverànitàt und die
Theorie des
Vòikerrechts, Tùbingen 1920. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello
Stato, Milano 1952. H. KELSEN, La democrazia, Bologna 19814. H.J. LASKI, The
Foundations of Sovereignty, New York 1921.
G. POGGI, La vicenda dello Stato moderno, Bologna 1978.
C. SCHMITT, Le categorie del "politico", Bologna 1972.
C. SCHMITT, La dittatura, Bari 1975.
C. SCHMITT, Dottrina della Costituzione, Milano 1984. M.
WEBER, Economia e società, 2 voli., Milano 19743.
CAPITOLO TERZO
L'OSSESSIONE DELLA SOVRANITÀ: PER UNA
METACRITICA DEL CONCETTO DI POTERE IN
MICHEL FOUCAULT
SOMMARIO: 1. L'"impensato" della sovranità. 2. Il paradosso della decapitazione.
3. Il totem del contratto: Hobbes e Freud. 4.1 rituali della Urszene: Freud e
Wittgenstein. 5. Il complesso del sovrano.
1. L'"impensato" della sovranità
1
M. FOUCAULT, Microfisica del potere. Interventi politici, a cura di A. Fontana
P. Pasquino, Torino 1977, p. 15 (corsivi miei).
di intersezione tra l'archeologia del sapere e la microfisica del
potere, quale si esprime nel tema, squisitamente filosofico, dei
giochi di verità e del regime discorsivo degli enunciati. Coe
L'OSSESSIONE DELLA SOVRANITÀ
308
2. Il paradosso della decapitazione
che ridisegnano il perimetro del potere sulle rovine dei due prin
cipali bersagli polemici di Foucault: il soggettoidentità e il potere
merce. (Negare l'idea di un poteremerce significa negare il
concetto di potere come sostanza, bene alienabile: l'immagine del
potere trasmessa dal contrattualismo classico). In secondo luogo,
la sfida dei modelli giuridiconormativi formalizzati, che
costituiscono lo spazio del "formalismo" proprio attraverso la
critica alla sovranità come "maschera totemica". È paradossale
che questo lemma (e la conseguente critica alla dottrina classica
della sovranità) si ritrovi, nella sua espressione più netta e
incontrovertibile, in un luogo in cui stando al diagramma
foucaultiano non dovrebbe mai comparire: vale a dire nella
scienza giuridica, e per opera del giurista Hans Kelsen (di cui
sono del resto ben noti i complessi legami con la teoria e la
persona di Freud).
Ma ancora più decisivo è individuare dove si colloca il punto di
intersezione delle due sfide appena ricordate. Restando nella
metafora della decapitazione, esso sta nel dire: tagliate pure la
testa al re, ma a voi che la tagliate l'onere di indicarne l'equi
valente funzionale. Proprio qui va rintracciato il momento topico
di una sfida che tende a collocarsi al di là dell'antitesi
foucaultiana tra politicascambio e politicaconflitto. Il "sovrano"
viene traslitterato da Kelsen in Grundnorm, norma fondamentale
vuota di contenuto: assioma logico di chiusura/apertura di un
ordinamento che è, a sua volta, "mezzo di tecnica sociale",
strumento di governo del sociale. Per evidenti ragioni tematiche,
non possiamo qui entrare nel merito dei problemi filosofico
giuridici che le definizioni kelseniane comportano: in primis la
spinosa questione del rapporto tra validità e effettività
dell'ordinamento. Quel che conta, nell'economia del nostro
ragionamento, è l'effetto di radicale desostanzializzazione della
sovranità che una tale operazione teorica induce. "Sovrano" è, in
ultima istanza, l'ordinamento nel suo complesso, il suo logos come
regime interno del discorso: un regime enunciativoprescrittivo
che curva la sovranità a mera ipotesi logica e ad algido dispositivo
relazionale e funzionale2.
Si aprono a questo punto due possibili vie di critica a Foucault.
La prima che per quanto mi riguarda è ovvia e scarsamente
produttiva consiste nel denunciare l'evidente sottovalutazione
della forma giuridica riscontrabile nell'opera foucaultiana,
rammentando che il diritto non dice unicamente "no" ma anche
"sì": che esso non è sic et simpliciter divieto, mero apparato
negativorepressivo, ma anche forma costitutiva, produttrice di
L'OSSESSIONE DELLA SOVRANITÀ
310
soggetti, generatrice in quanto "terzità" rispetto a ogni dicotomia
originaria delle tipologie più complesse e più propriamente
sociali del conflitto, e così via. Critica giusta, sacrosanta. Ma, oltre
questo piano così generale dell'enunciazione, inservibile. La
seconda via, che ritengo più valida, è quella che mira invece ad
approfondire attraverso Foucault, grazie a Foucault, ma anche
oltre Foucault l'impensato della teoria della sovranità, andando
a scavare nel paradosso della decapitazione.
3. Il totem del contratto: Hobbes e Freud
Il discrimine tra i due ordini rappresenta il punto di svolta di
un lungo lavorio teorico che erode progressivamente il piedistallo
della maiestas e l'iconografìa del princeps imago Dei propria della
respublica Christiana 3. In questo processo, la figura del Principe
prende congedo come nell'incisionepresagio di Albrecht Dùrer
(1513, appena quattro anni precedente le 95 tesi di Lutero) II
cavaliere, la morte e il diavolo, il cui simbolismo ha fortemente
attratto l'attenzione di un Nietzsche e di un Thomas Mann dalla
città fortificata con alte torri e mura sicure per dirigersi verso una
landa scabra e scarnificata: la metafora del viaggio intrapreso
offre la cifra del passaggio da un'epoca caratterizzata dalla
securitas e dallo speculum principis (il dùreriano Fùrstenspiegel)
ai nuovi arcana imperii di un sovrano esposto alla totale deiezione
3
Si vedano a questo proposito le importanti considerazioni svolte da Anna
Maria Battista in Nascita della psicologia, Genova 1982, pp. 11 e ss.
311 MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E CONCETTI
nell'immanenza (simboleggiata dai due «orrendi compagni di viag
gio» del cavaliere). Dall'immagine del re taumaturgo, la cui forma
di autorità riposava sul «bene faciendum et male vitandum» si
passa così a un sovrano che, sospeso nel vuoto della contingenza,
«tiene in mano l'accadere storico come uno scettro» (avrete tutti
riconosciuto in questa citazione il cuore della rappresentazione
barocca del Sovrano ripresa da Benjamin neH'Ursprung des deut
schen Trauerspiels). Veniamo così al vero e proprio punto di par
tenza della dottrina strido sensu moderna della sovranità: la sto
ria, l'accadere storico non possiede una "grammatica generativa"
del bene e della giustizia, quale era rappresentata dalle iconogra
fie simbolicopontificali della regalità. La sola grammatica gene
rativa della storia è quella della guerra, della guerra civile come
guerra di religione: conflitto di valori assolutamente incomponi
bile se ci si lascia irretire dalla pura spontaneità del processo. Ma
se non vi è più grammatica generativa della giustizia, non vi è
neppure grammatica generativa della sovranità. La sovranità non
può essere allora che costruita, imposta come artificio, costituita
attorno alla convenzione contrattata della forza. E qui penso non
tanto al Leviathan, quanto piuttosto a quei luoghi del Behemoth
in cui Hobbes rappresenta il «panorama di ogni specie di ingiu
stizia e di folha in questa terra» che si sarebbe spalancato a
chiunque avesse «guardato il mondo e osservato le azioni degli
uomini» dalla cima della Montagna del diavolo.
Ma la teoria della sovranità non si fonda forse sulla finzione
astratta del contratto sociale? È l'obiezione che un foucaultiano di
stretta osservanza potrebbe a questo punto rivolgermi. Senonché
un rilievo siffatto non solo non è in grado di chiudere, ma in realtà
riapre la questione del "regime discorsivo" interno alla teoria della
sovranità. Il "modello giusnaturalistico"4 del contratto sociale
moderno replica, infatti, i caratteri originari mitici e teologici
della "maschera totemica" del Sovrano proprio in quanto la vera
radice di ogni idea di contratto è data da un simbolismo
spartitorio che culmina (e qui è decisiva la. forma del contratto
hobbesiano) non tanto con un accordo o uno scambio per così dire
"orizzontale" tra gli individui solidali (il Popolo) e il Sovrano,
bensì con un contratto tra i consociati a favore di terzi. Ora, è
proprio la tipologia del contratto a favore di terzi a fornire la
forma che riproduce l'ossessione originaria della sovranità come
maschera totemica.
L'OSSESSIONE DELLA SOVRANITÀ
312
L'espressione kelseniana "maschera totemica" rinvia, come si è
già accennato, direttamente all'analisi freudiana e, più spe
cificamente, al modo in cui Freud stigmatizza il "tabù del sovrano"
in Totem und Tabu 5. La domanda cruciale che Freud si pone
sulla base delle ricerche etnologiche di Frazer è, com'è noto, la
seguente: per quale ragione «l'atteggiamento emotivo
(Gefuhlseinstellung) verso i sovrani» contiene «una così intensa
quota inconscia di ostilità (Feindseligkeit)»?6 Per rispondere a
questo interrogativo, Freud introduce l'elemento di ambivalenza
originaria della sovranità (egli parla espressamente di «typische
Fall der ambivalenten Gefùhlseinstellung» 7): elemento
riconducibile a suo avviso anche genealogicamente8 all'idea del
4
Cfr. N. BOBBIO, Il modello giusnaturalistico, in N. BOBBIOM. BOVERO, Società e
Stato nella filosofia politica moderna, Milano 1979.
5
Le tesi sostenute in questo libro sono state, come noto, oggetto di numerose
critiche, al punto da divenire problematiche per lo stesso Freud. La rilettura che se
ne propone qui viene condotta, pertanto, in chiave simbolica (nel senso indicato da
L. WITTGENSTEIN, Conversazioni su Freud, in ID., Lezioni e conversazioni, Milano
1967, pp. 122 ss.). Va inoltre considerato che Totem und Tabu costituisce, insieme
a Jenseits des Lustprinzips (1920), un blocco venuto alla luce «quasi per eruzione
spontanea dal suo autore e proiettato al di là dei confini della scienza medico
psicologica» (Kerényi).
6
S. FREUD, Totem und Tabu, in ID., Gesammelte Werke (d'ora in avanti GW) IX,
p. 65.
potere come esperienza primaria dell'usurpazione 9. Nel "tabù del
sovrano" sono in gioco tutte le coordinate dell'autorità: dalla
proibizione, al desiderio che essa sollecita, alla trasgressione.
Eppure, benché siano in gioco tutti questi ingredienti, Freud è
costretto a riscontrare l'insufficienza del criterio di spiegazione in
base all'autorità paterna, proprio per i limiti intrinseci alla
dimensione ontogenetica del complesso del padre. Mi spiego
meglio.
Anche per Freud come, in un certo senso, per lo stesso Fou
cault vi è un'unica storia fondamentale, che potremmo chiamare,
sulla scorta di Ricoeur, «la storia del desiderio e dell'autorità» 10.
All'interno di questa storia assistiamo a una continua rotazione
del centro gravitazionale del fenomeno dell'autorità: la famiglia e i
costumi come morale effettiva di un gruppo, la tradizione,
l'insegnamento, il potere politico, il potere ecclesiastico, la
sanzione penale, le sanzioni sociali e così via. Ma, nonostante
questa rotazione, per afferrare le radici del rimosso (o, nella
7
Ivi, p. 63.
8
Qui sta evidentemente l'aspetto aporetico individuato da Wittgenstein,
inerente alla confusione tra Urszene e Ursache, "origine" e "causa" (intesa come
"evento iniziale" che inaugura una serie percorribile a ritroso). Un'aporia
riscontrabile, sia pure entro una diversa costellazione concettuale, nello stesso
Foucault.
9
Si rimanda al riguardo alle acute considerazioni di D. MAZZÙ, Usurpazione e
legittimazione, Messina 1984, pp. 102 ss.
10
P. RICOEUR, Dell'interpretazione. Saggio su Freud, Milano 1967, p. 204.
313 MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E CONCETTI
terminologia di Foucault, dell'"impensato") che dà luogo al tabù
della sovranità non è sufficiente indagare il desiderio nella sua
solitudine: occorre piuttosto indagarlo nella sua relazione
ambivalente con qualcosa che può costituirlo o dissolverlo, e che
pertanto lo problematizza radicalmente determinandolo nelle sue
origini e nel suo destino. E qui occorre osservare con attenzione la
scena primitiva che Freud introduce per spiegare la "maschera
totemica" del sovrano. Il messaggio che egli ci invia è,
adeguatamente decodificato e reinterpretato, il seguente: quella
scena primitiva in realtà non è primitiva affatto. Essa è piuttosto
una Urszene: la scena originaria di una soluzione che è già la
soluzione di un potere sociale e politico, che ha già in qualche
modo travalicato gli steccati elementari di un potere primordiale.
La Urszene non è dunque quella simboleggiata dalla figura del
padresacerdote o del padrere, ma quella fondata e mediata dalla
sua uccisione: «Un certo giorno i fratelli scacciati si riunirono,
abbatterono il padre e lo divorarono, ponendo fine così all'orda
paterna. Uniti essi osarono compiere ciò che sarebbe stato
impossibile all'individuo singolo»11. Che cos'è fondamentale in
questo passaggio? La definizione del carattere fraterno e non
paterno dell'energia che fonda l'autorità sovrana, anche se questa
autorità sovrana, attraverso la spartizione del corpo e il pasto,
assimila l'energia paterna. La moderna teoria della sovranità
assoluta (imperniata sulla summa legibusque soluta potestas)
"ripete" sul piano simbolico l'evento rappresentato da questa
scena originaria. Muovendo dal presupposto della decapitazione,
essa pone a proprio fondamento un potere già spartito. In un certo
senso, dunque, la ragione dei moderni conosce già alle sue origini,
nella sua prima formulazione compiuta, il potere diffuso.
4. / rituali della Urszene; Freud e Wittgenstein
Ma vi è un aspetto ancora più decisivo, celato dentro le pieghe
della trattazione freudiana sull'origine del totemismo e sulle sue
relazioni con l'esogamia. Qual è il nocciolo simbolico forte che si
nasconde dietro la ripetizione rituale del banchetto totemico?
Freud risponde: l'atmosfera di congiura. Prima ancora che dal
delitto, la realtà è stata trasformata dalla congiura, nel corso
della quale i figli, tramite la condanna a morte del padre, si sono
assunti l'essenza stessa del potere paterno: il diritto di vita e di
L'OSSESSIONE DELLA SOVRANITÀ
314
11
S. FREUD, GW, IX, p. 171 (corsivi miei).
M. FOUCAULT, Histoire de la sexualité, I: La volonté de savoir, Paris 1976,
12
p. 178. Si veda anche, a p. 177, il riferimento a Hobbes.
forme cooriginarie, il nuovo potere e il nuovo diritto, che traggono
alimento dalla forza nucleare del sentimento di colpa e dalla
nostalgia del padre: i due fondamenti afferma Freud di una
costituzione "finalmente sociale" e "finalmente politica". Su questa
base nasce l'accordo tra i consociati come patto retrospettivo col
padre in assenza della persona fisica del padre stesso, surrogata e
simboleggiata dal totem: «Morto, il padre divenne più forte di
quanto fosse stato da vivo: tutto si svolse nel modo che possiamo
misurare ancor oggi sul destino degli uomini» 13. Il simbolismo
della scena originaria si replica così alle soglie della filosofia
politica moderna. Contratto a favore di terzi, sulla premessa del
re decapitato. E possiamo aggiungere adesso "stato di natura"
hobbesiano come situazione simbolicamente assimilabile a quella
freudiana del dopoparricidio. Il problema che a questo punto si
pone è quello di risolvere l'aporia del primo diritto naturale: come
riuscire a fondare la sovranità, in termini rigorosamente
intramondani, davanti a una situazione che infrangendo ogni
gerarchia di valore si caratterizza per il diritto di tutti su tutto?
La chiave del problema sta nel momento topico dell'atto del
riunirsi: nella virtualità che questo atto si dimostri produttivo di
potere e diritto. Ma questo stesso riunirsi non è un riunirsi
qualsiasi, non è un mero raduno. Esso deve avere una sua ratio e
una sua cifra specifica, il cui segreto è depositato nel significato
etimologico di congiura. La congiura è, in senso stretto, una cum
juratio, un giuramento fatto insieme. Il significato riposto del
termine viene pertanto alla luce grazie alla sua derivazione adi jus.
Si pensi, del resto, all'espressione latina jusjurandum, che indica
l'atto del giuramento. L'idea di diritto entra così a costituire
l'anima della congiura, dell'aggregazione energetica che assimila e
trasforma l'energia paterna. Si tratta tuttavia non già di un
dirittosucuigiurare, ma di un dirittodagiurare 14. Differenza
formale, e tuttavia decisiva: essa pone infatti un discrimine
radicale tra diritto e giustizia, agganciando la realizzazione del
13
S. FREUD, GW, IX, p. 173.
14
Cfr. D. MAZZÙ, op. cit., pp. 122124.
315 MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E CONCETTI
5. Il complesso del sovrano
Le conclusioni, alle quali intendo ora avviarmi tirando le fila di
questa analisi, si possono provvisoriamente riassumere nell'invito
a comprendere simultaneamente due aspetti del "problema
dell'ordine" che spesso e volentieri vengono assunti isolatamente o
in contrapposizione reciproca: a) quello relativo alla complessità e
contingenza del potere e b ) quello relativo alla persistenza
15
S. FREUD, GW, IX, p. 176, Cfr. anche Leviathan, XVII e XX.
L'OSSESSIONE DELLA SOVRANITÀ
316
dell'ossessione della sovranità. Vediamo dunque questi aspetti più
da vicino.
a) La reinterpretazione in chiave simbolica della Urszene freu
diana del sovrano che ho inteso, wittgensteinianamente, come
«rappresentazione perspicua» (ubersichtliche Darstellung)16
anziché come Ursache, evento remoto in cui tutto è già da sempre
contenuto e da cui tutto si snoda spinge a considerare in termini
intensamente problematici il fenomeno dell'autorità quale si
configura nel Grande Anno, nell'AiónEvo della Zivilisation che
ha il suo sigillo nel parricidio. I grandi modelli di filosofia politica
della modernità non fanno che portare a compimento lo "spirito di
scissione" radicato nelle stesse premesse del razionalismo
occidentale. In questo senso, l'ambivalenza di atteggiamento nei
confronti del sovrano di cui parla Freud come del resto la
struttura bilaterale delle relazioni di poteresapere di cui parla
Foucault appare ben radicata nelle "cose stesse". Si pensi, ad
esempio, al modo in cui Freud, rappresentando i sintomi di questa
ambivalenza, fa emergere dai rituali della Urszene la "ragion
sufficiente" dell'etichetta di corte. Perché mai il sovrano che pure
è l'emblema dell'assolutezza e onnipotenza del potere ha bisogno
di essere protetto, già nella scena originaria, dalla cerchia
ristretta dei fedelissimi? Ancora una volta, la chiave del mistero
va rintracciata nella logica divisoria incapsulata nel simbolismo
della Herrschaft: se, infatti, il tratto saliente di questo simbolismo
è sempre quello della spartizione, della riunione di congiurati che
collettivamente decidono l'istituzione della maschera totemica, la
potestas sovrana non potrà che essere fisiologicamente precaria.
Essa dovrà venire, pertanto, di volta in volta legittimata in base
all'artificio dell'interesse generale. Il paradosso del sovrano
prigioniero e ostaggio dei suoi stessi sudditi non è, dunque, un
effetto dei processi disseminativi indotti dalla crisi del moderno
Leviatano, ma un tratto costitutivo sin dalle origini dell'autorità
in quanto autorità sociale e politica: «il cerimonialetabù dei re
(das Tabuzerimoniell der Kònige) è in apparenza la massima
venerazione e la massima assicurazione per loro, ma
propriamente è la punizione per tale elevazione, la vendetta che i
sudditi si prendono su di loro. Le esperienze che Sancho Pansa fa,
nel libro di Cervantes, come governatore della sua isola, gli fanno
Per l'analisi della Urszene cfr. L. WITTGENSTEIN, op. cit., p. 137.
evidentemente comprendere che questa concezione del
cerimoniale di corte è l'unica interpretazione calzante. E ben
317 MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E CONCETTI
possibile che riceveremmo ulteriori consensi se potessimo indurre
re e sovrani del nostro tempo a pronunciarsi in proposito» 17.
La "doppia contingenza" del potere (come la chiama Luhmann),
quale si manifesta con l'avanzare del processo di secolarizzazione
(che eleva la quota del momento "razionalelegale" a discapito
degli altri due momenti della tipologia weberiana dell'autorità:
quello tradizionale e quello carismatico), non fa che "ripetere" il
paradosso di questa ambivalenza originaria. Il paradosso appare,
anzi, in tutta la sua evidenza proprio nel momento in cui il potere
dispone della possibilità di veicolare il proprio simbolismo
attraverso il nuovo potenziale tecnologico della comunicazione. Il
potere diventa un medium. Ma lo spazio simbolico a cui questa
sua nuova metamorfosi dà luogo rimette in discussione
soprattutto alcune dicotomie lineari ereditate dall'"età classica"
(come, ad esempio, quella tra "obbligazione esterna" e "coscienza
interiore" o quella ancora sostenuta da un Habermas tra
"razionalità strategica" e "razionalità comunicativa"), non certo
1'"ambivalenza" e la dipendenza circolare. Queste ultime
s'intensificano anzi a tal punto da rendere patetico ogni tentativo
di tracciare una linea di demarcazione verticale tra soggetto e
oggetto del potere, "governanti" e "governati". Un potere che
funziona ad un tempo come "strategia" e come "comunicazione",
come "conflitto" e come "scambio", trova la propria ragion
sufficiente nella possibilità di differire continuamente il ricorso
alla violenza fisica come ricorso attuale. Il monopolio della forza
fisica legittima rimane bensì, weberianamente, la conditio sine
qua non della Herrschaft: ma il potere ha efficacia simbolica solo
se questo ricorso non diventa di fatto attuale, solo se esso rimane
sospeso a tempo indeterminato nella purezza e indeterminazione
del suo stato potenziale. In questo senso, il regime discorsivo del
potere nella sua "faccia interna" rispecchia alla perfezione quella
logica della "deterrenza" che caratterizza le relazioni esterne fra
gli Stati: una logica in cui l'intreccio di minaccia dissuasiva e
diplomazia comunicativa o mediatrice mette in scacco qualunque
ermeneutica monolineare polarizzata attorno agli indicatori
S. FREUD, GW, IX, p. 65.
17
statici del semplice "scambio" o del semplice "conflitto".
Ambivalenza e doppia contingenza, causalità circolare e deter
renza, sospensione e differimento: questi, dunque, i contrassegni
propri di un potere la cui produttività si estrinseca non tanto
L'OSSESSIONE DELLA SOVRANITÀ
318
18
Per questo aspetto rimando a G. MARRAMAO, Potere e secolarizzazione. Le
categorie del tempo, Roma, 1983, 19852.
19
Sul tema cfr. N. FUSINI, La passione dell'origine, Bari 1981, in specie pp.
149 ss.
b ) La logica del discorso mi conduce così all'altro polo di queste
osservazioni conclusive: quello relativo alla persistenza
dell'ossessione della sovranità. Se è vero che il Potere non è che
l'indicatore astratto di un reticolo di intersezioni energetiche e di
rapporti di forza strategicocomunicativi; se è vero che il suo
simbolismo tende a diventare sempre più "metaforico" (nel senso
rigoroso di una incessante traduzione dell'esperienza da una
forma in un'altra); se è vero che la decisione politica è costretta a
319 MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E CONCETTI
sospendersi o a differirsi costantemente perché mai continua a
riprodursi la "maschera totemica" del Sovrano? La sola risposta
che, al momento, mi sentirei di dare è quella che riconduce
Possessione nevrotica" della sovranità alla coazione, propria del
pensiero razionalizzante dell'Occidente, a ridurre il multiversum
z$universum, la pluralità all'unità. Wittgenstein aveva colto, a
questo proposito, come la Urszene sia influente anche nei modelli
logicomatematici più rigorosamente formalizzati e assiomatiz
zati: è proprio l'irretimento nella scena primitiva a condurre il
pensiero razionale all'idolatria della Ursache, creando l'illusione
che l'inferenza e la conclusione di un ragionamento logico siano
già previamente depositate in una sorta di supermeccanismo con
cettuale originario (il modus ponendo ponens di Russell: se è vero
p, e se p implica q, non resta che trarre la conclusione proprio
come si estraggono le monete da una macchina automatica che q
è vero). Non diversamente funzionano quei modelli formalizzati
che ritrascrivono il teorema del sovrano in termini rigorosamente
logicogiuridici: il totem non cessa di essere tale per il solo fatto di
assumere le sembianze dell'assioma.
Il problema in cui ci si viene così ad imbattere è quello del
vuoto di fondamento, o se si preferisce del nichilismo, degli ordi
namenti costruiti attorno alla nozione di sovranità o ai suoi equi
valenti funzionali (legge o norma fondamentale). Questo problema
fa tutt'uno con quello del paradosso del diritto moderno, quale è
stato individuato da Walter Benjamin in Zur Kritik der Gewalt 20:
il paradosso della corrispondenza biunivoca (o biiettiva) tra
diritto e violenza (ma Gewalt ha in tedesco anche il significato di
"forza", "potere"). La violenza ha due facce: non soltanto la faccia
20
Cfr. W. BENJAMIN, Per la critica della violenza, in ID., Angelus Novus, Torino
1962, pp. 1516. Sulla questione si vedano le notevoli considerazioni di E. RESTA,
L'ambiguo diritto, Milano 1984, pp. 1014.
cum) e di un logico come Georg Henrik von Wright: entrambi sono
pervenuti dopo tentativi pluridecennali di fondare logicamente il
nesso tra enunciati prescrittivi e azioni a una visione
"antirazionalista" o "nichilista" della relazione che le norme hanno
con la logica21. Nel caso specifico delle norme giuridiche ciò
significa che, una volta che si statuisce una norma, non vi è alcun
nesso logico consequenziale tra la sua statuizione e il fatto che
essa venga, nella realtà, osservata: e ciò per la semplice ma
fondamentale circostanza che l'osservanza o l'inosservanza di una
norma dipende in ogni caso da un atto giuridico, ossia da una
decisione individuale. Analogamente può dirsi per l'ordinamento
giuridico nel suo complesso: non vi è obbedienza senza decisione di
obbedire agli imperativi del diritto positivo. La contingenza
decisionisticonichilista tende dunque a spostare il proprio bari
centro dal paradosso (scontato) del "caso estremo" al paradosso
(meno ovvio, e tuttavia non meno inquietante) dei "casi normali".
Risuona così, alla fine del percorso, l'interrogativo radicale di
Foucault. Ma con una tonalità nuova, che il rovesciameto spe
culare della sua tesi ci consente adesso di captare meglio: perché
mai si riproduce la quadrettatura della sovranità? come mai
questa ossessione può replicarsi in nessi quotidiani e normali? in
virtù di che cosa le norme vengono obbedite o disobbedite?
Cfr. H. KELSEN, Allgemeine Theorie der Normen, Wien 1979 (trad. it., Torino
21
1985); G.H. VON WRIGHT, Practical Reason, Oxford 1983 (in specie il saggio
conclusivo su Nonne, verità e logica). Sulla questione si veda anche A. HÀGERSTRÒM,
Inquiries into the Nature of Law and Adorai, ed. by Karl Olivecrona, Uppsala
1953, p. 114.
A. IL PATTERN MITICORITUALE DELLA SOVRANITÀ.
POSTILLA ANTROPOLOGICOPOLITICA
SOMMARIO: 1. L'organismo vivente 2. L'anomalia del corpo 3. Corporation sole
e complexio oppositorum 4. I nomi del Re.
1. L'organismo vivente
lettore non si lasci ingannare dall'intitolazione di questo curioso
pamphlet, opera di un autore stilisticamente virtuoso, di sicuro
talento letterario. Il titolo originale, Du roi (Paris 1987; trad. it.,
i7 re, Napoli 1989), si presenta prima facie con sembianze assai
classiche. Ma non allude ad alcun trattatello De Monarchia.
Volkoff lo dichiara apertamente sin dalle battute iniziali: il suo
tema non è la monarchia, bensì la royauté. E in questa disso
ciazione tematica è depositata anche la chiave della sua tesi: se la
monarchia è, classicamente, una forma di governo (e precisamente
quella forma nella quale governa un solo uomo), dunque un
idealtipo, la regalità «non è in alcun modo un idea, ma una realtà
inseparabile dalle sue proprie coordinate storiche e geografiche».
Può piacere o non piacere ma, «come una montagna o una
meteora», non la si può discutere. Si può, semmai, contemplarla o
magari giudicarla: non farne oggetto di logiche diatribe.
Di qui un ulteriore, decisiva delimitazione: se la regalità non è
mera ipotesi o astrazione, non è neppure un freddo meccanismo.
La metafora che meglio l'esprime non ha i caratteri di glacialità
del Sistema, ma quelli della fluidità e del calore propri
dell'organismo vivente. Organismo costituito o, meglio ancora,
complesso organico di «corpi costituiti, tradizioni, leggi scritte e
non scritte, e soprattutto esseri umani immessi in un certo
ordine». Con questo preciso significato, la regalità viene a
rappresentare l'anima di una Costituzione concreta che essa pone
in essere, e che le conferisce di volta in volta una determinata
espressione e fisionomia.
Ma ciò che ha fisionomia è, di per sé, anche intrinsecamente
individuale. E, conseguentemente, delimitato. Mai assoluto. Lo
spazio dell'assoluto può essere, per Volkoff, solo quello indiffe
rente e indifferenziato dell'astrazione: di una sovranità mono
logicamente intesa che, per rapportarsi agli uomini, ha bisogno
preventivamente di azzerarne i connotati qualitativi o "idiosin
cratici", riducendoli ad atomi (non è forse quanto accade nello
schema hobbesiano del contratto?). In quanto organismo vivente,
la regalità è, invece, «limitata per antonomasia»: mentre la
monarchia può essere costituzionale, la regalità non può che
essere costituzionale, poiché «ha già in sé la propria costituzione».
Immaginare la reazione degli agguerriti portaparola del
neoilluminismo odierno al cospetto di simili affermazioni non è
certo esercizio di audace fantasia: puntualmente, essi indi
cheranno a dito per gridare allo scandalo o per irriderli i motivi
"organicistici", "romantici", "antimoderni" del libro di Volkoff
(salvo poi dimenticare che di quegli stessi motivi era
METAFORE DELLA REGALITÀ: MACCHINA, CORPO, PERSONA 328
abbondantemente permeato lo stesso "secolo dei lumi": che dire di
Diderot, del suo rifiuto del modello meccanicistico, incapace di dar
conto dei fenomeni vitali? e del suo ermetico, enigmatico articolo
"Royauté" sulYEncyclopédie?). A uno sguardo scevro di pregiudizi
non sarà difficile scorgere invece in queste premesse la felice
intuizione di alcune coordinate emerse dalle ricerche degli ultimi
decenni sul tema della regalità svolte negli ambiti
dell antropologia, della linguistica comparata, della storia delle
;
idee (e delle rappresentazioni collettive), della storia delle
religioni, e che risultano oggi imprescindibili proprio per la
prospettiva di una sistemazione teorica e di un approfondimento
filosofico del problema.
2. L'anomalia del colpo
La principale di queste coordinate, riassumibile nell'idea della
Corona come Corporation sole, trova la sua rappresentazione
compiuta nel motivo del «doppio corpo del Re», di cui Ernst H.
Kantorowicz, in un'opera per molti versi straordinaria, ha seguito
le «trasformazioni, implicazioni e irradiazioni» 1 nell'Inghilterra
elisabettiana, ponendo particolare attenzione al Richard II di
Shakespeare. La curiosa fortuna di questo libro (utilizzato fino ad
oggi soprattutto da anglisti e Kulturhistoriker, in misura minore
dalla storiografia politicogiuridica e in misura pressoché
irrilevante dai filosofi della politica) si spiega certo, in prima
istanza, con la resistenza inerziale esercitata da antichi steccati
disciplinari. Ma la si potrebbe con valide ragioni ricondurre anche
al condizionamento esercitato dalla stilizzazione moderna del
concetto giuridico di "sovranità", inteso come processo di
razionalizzazione lineare e di "secolarizzazione" progressiva2.
Proiettando sul piano storico concreto la cesura teorica
rappresentata dal contrattualismo di Hobbes (con un'enfasi
1
E.H. KANTOROWICZ, The King's Two Bodies. A Study in Mediaeval Politicai
Theology, Princeton 1957, p. IX.
2
Per una critica di questa prospettiva rinvio una volta per tutte al mio Potere
e secolarizzazione, Roma 19852.
3
Kantorowicz fa esplicito riferimento al celebre libro di Ernst Cassirer nella
prefazione a / due corpi del Re.
3. Corporation sole e complexio oppositorum
delegittimazione e di disordine (quali di fatto si verificavano nelle
fasi tribali o arcaiche dell'istituto della regalità8).
La regalità si presenta qui, dunque, come "finzione" deputata a
significare e a garantire la continuità di un ordinamento concreto.
Sarà bene tuttavia resistere alla tentazione di proiettare su di
essa i caratteri "convenzionali" cui ci ha assuefatti il razionalismo
moderno. La finzione di cui si parla è giova forse ripeterlo una
fictio mystica: lungi dal mortificare e rendere superflua la
dimensione naturale della corporeità, essa al contrario la
enfatizza. Se è vero che il corpo è finzione, corpus fictum, è
altrettanto vero che nessuna finzione della regalità può ambire ad
alcuna efficacia se non è in grado di incarnarsi in un corpo
visibile. Visibile e invisibile si trovano dunque implicati in un
plesso simbolico inestricabile. Certo: il re che muore rinasce ogni
volta identico, come la Fenice, in virtù del rimando all'immortalità
del body politic, al continuum inesauribile della Corona e delle
METAFORE DELLA REGALITÀ: MACCHINA, CORPO, PERSONA 332
8
Cfr. C.H. PERROT, Les AnyiNdenye et le pouvoir aux 18e et 19e siècles, Paris
1982, e, più,in generale, E.E. EVANSPRITCHARDM. FORTES (eds.), African Politicai
Systems, London 1940.
Ma ecco così emergere un altro nesso: quello che vincola l'umana
mortalità del re, il suo limite "diacronico", alla sua non
assolutezza, ossia al limite "sincronico" del suo operare nel cerchio
di quella Corona che non è astratto principio o valore ma "paese",
"patria" territorialmente definita, costituzione materiale e
concreta9. Tutti aspetti, per Volkoff, rimasti a lungo incompresi in
una cultura occidentale nelle cui vene scorre «una mal
amalgamata vena dualista» riconducibile al connubio «non sempre
felice» di filosofia greca e escatologia ebraica: avrebbe radice qui
quello sdoppiamento tra "alto" e "basso", spirito sublime e corpo
volgare, che ha finito per generare un malsano «angelismo
politico».
4. I nomi del Re
attrihué à la puissance royale particulièrement en Trance et en Angleterre (1924),
Paris 1961; trad. it., / re taumaturghi, con una pref. di Carlo Ginzburg e un
Ricordo di Marc Bloch di Lucien Febvre, Torino 1984, pp. 90 ss.
11
Questo motivo viene ripreso anche da KANTOROWICZ, op. cit., p. 193. Si
veda anche la voce Regalità (redatta da V. Valeri) in Enciclopedia Einaudi, XI,
Torino 1980, pp. 742 ss.
METAFORE DELLA REGALITÀ: MACCHINA, CORPO, PERSONA 334
Ma a questo punto dovrebbe aprirsi un discorso ben più radi
cale, sulla cui soglia preferiamo arrestarci.
12
E. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, II (Potere, diritto,
religione), Torino 1976, p. 291.
CAPITOLO QUINTO STATO SOCIALE:
UN OSSIMORO?
1. Sozialstaat e Welfare State
Nella sua accezione più ravvicinata, la categoria di "Statodei
benessere" (o Welfare State) sta ad indicare una forma di comu
nità civile nella quale l'ideale classico della "buona vita" è stato
assunto nuovamente a scopo politico: in ciò si fa risiedere, per
l'appunto, il tratto specifico e peculiare dello Stato del Welfare
rispetto all'ideale medievale di pax et iustitia e a quello mera
mente protezionisticogarantista dello Stato classico moderno,
vincolato alla condizionelimite della conservatio vitae. In questo
senso, l'idea del Welfare trasformando il "beneessere" da
parametro statico in obiettivo dinamico porterebbe a pieno
compimento il carattere di illimitata perfettibilità proprio della
moderna idea di progresso: «Welfare is of un limited scope»
Malgrado questa specificazione, la discussione teorica sullo
"Statodelbenessere" appare tuttavia a tutt'oggi largamente pre
giudicata da una incontrovertibile circostanza fattuale: la realtà
che quella categoria pretenderebbe di designare è ad onta di
tutti i tentativi finora da più parti (e con diseguali esiti) intrapresi
ben lontana dal possedere la relativa coerenza e articolazione
dottrinale di concetti scientificamente più blasonati e più
adeguatamente formalizzati, come in particolare quello di «Stato
1
La formulazione si trova in W.A. ROBSON, Welfare State and Welfare Society:
Illusion and Reality, London 1976, p. 174.
di diritto». A pregiudicare la plausibilità di un uso teoricamente
rigoroso di definizioni come quelle di Welfare State o di "Stato
sociale" concorre evidentemente un complesso di ragioni, le quali
vengono solitamente ricondotte soprattutto da parte di coloro che
impugnano queste espressioni, negandone ogni dignità
concettuale a un motivo fondamentale: esse si limiterebbero a
riflettere passivamente un processo storico di changing balance of
public and private power 2, nel corso del quale verrebbe ad
offuscarsi la distinzione tra Stato politico e società civile
costitutiva del moderno concetto di Stato (e ad esso
consustanziale). La stessa espressione di "Stato sociale"
tradirebbe così un intollerabile confusione tra i due ambiti del
"sociale" e del "politico", del "potere di fatto" e del "potere legit
timo", segnalando ora le tendenze prevaricatrici della politica che
caratterizzerebbero, nell'ultimo mezzo secolo, la storia dei paesi
industriali, ora la non meno inquietante permeabilità della sfera
politica alle pressioni crescenti della "domanda sociale".
I motivi appena indicati sono largamente presenti nelle attuali
discussioni sul tema, sia in campo sociopolitologico, sia in campo
giuridico e storicocostituzionale (per quest'ultimo, basti pensare
soltanto ai nomi di E. Forsthoff e E.W. Bòckenfòrde). Ragion per
cui in questo capitolo ci limiteremo a schizzare i contorni della
problematica teorica sottesa alle categorie di Welfare State e di
Sozialstaat, isolando innanzitutto le coordinate generali atte ad
individuarle. Il procedimento adottato sarà quello tipicoideale
della selezione ed enucleazione di alcuni indicatori storico
sistematici: procedimento che, se è l'unico legittimo (come aveva
già segnalato nel '31 Otto Hintze3) per la nozione di "Stato
moderno", dovrà valere a maggior titolo per quella di "Stato
sociale".
2
Cfr. A. SCHONFIELD, Modem Capitàlism. The Changing Balance of Public and
Private Power, LondonNew YorkToronto 1965.
3
Wesen und Wandìungdes modernen Staats, in «Sitzungsberichte der Preus
sischen Akademie der Wissenschaften», 1931, pp. 790810; ora in O. HINTZE,
Gesammelte Abhandlungen, Bd. I: Staat und Verfassung, hrsg. von G. Oestreich,
Gòttingen 19703, pp. 216241.
2. Statodelbenessere e Great Transformation
L'atto di nascita dello Stato sociale viene generalmente indi
viduato in quel processo che Karl Polanyi definì "grande tra
sformazione": vale a dire nel passaggio della società industriale
contemporanea da un ordinamento socioeconomico di tipo libero
concorrenziale a un ordinamento caratterizzato dall'interventismo
statale. La svolta cruciale e decisiva di questo passaggio che
porterebbe a compimento la lunga transizione da una società
tradizionale a base agricola a una società industriale di massa
sarebbe, secondo questa interpretazione storica, costituita dal
crollo del sistema internazionale retto dal gold standard. Il
meccanismo di questo sistema che aveva dominato per tutto il
secolo scorso, estendendosi fino al primo conflitto mondiale
prevedeva una limitata libertà d'intervento dello Stato, che agiva
sulle crisi congiunturali esclusivamente attraverso variazioni del
tasso di sconto in rapporto all'andamento della bilancia dei
pagamenti: ad esempio, aumentando il tasso di sconto in caso di
disavanzo, allo scopo di provocare una diminuzione dei prezzi e
degli investimenti e facilitare così le esportazioni (con il
simmetrico contenimento protezionistico delle importazioni).
Quando il crack del 1929 palesò definitivamente l'insufficienza
della manovra monetaria a influire nel senso dell'aumento di
investimenti e occupazione, si ebbe il crollo generalizzato del
sistema aureo, che portò di conseguenza alla crisi della concezione
"neutrale" della politica della Banca centrale.
Per afferrare tuttavia l'intera portata della trasformazione
verificatasi con la "grande crisi" non basta isolare, enfatizzandolo,
questo esito finale: in tal modo si finirebbe, infatti, per restringere
la novità costituita dall'intervento diretto dello Stato al solo
ambito economico. La più avvertita e recente indagine storica ha
teso piuttosto a differenziare i tempi della great transformation,
demitizzando la pretesa di una loro condensazione puntiforme nel
great crash. Contributi di diversa natura e orientamento
provenienti dalla storia ma anche dalle altre scienze sociali
convergono ormai neh'evidenziare come lo stesso "evento" del '29
non sia che la punta di un iceberg: un iceberg dalla base molto
vasta, le cui radici affondano nei processi formativi della società
di massa, acceleratisi a cavallo tra i due secoli. Gli indicatori di
questo processo sono, naturalmente, molteplici. Essi paiono
tuttavia riassumibili nella prospettiva di un discorso finalizzato
in senso precipuamente teorico e concettuale sotto due voci
fondamentali:
1) i processi di razionalizzazione del lavoro, che si diffondono in
concomitanza con l'espansione demografica e l'introduzione del
suffragio universale;
2) le profonde modifiche intervenute nella stratificazione sociale e
la conseguente costituzione di nuovi gruppi di interessi e
movimenti associativi.
Sono ben noti, ormai, anche in Italia i termini del dibattito
suscitato presso gli storici, i politologi e gli scienziati sociali
dall'opera di Charles S. Maier4, e in particolare dalla (controversa)
definizione di "corporatist pluralism" proposta dallo studioso
americano come chiave ermeneutica dell'assetto postliberale
dell'Europa del primo dopoguerra. Ma come si è visto nella
prima parte di questo libro già al principio degli anni '20 diversi
autori marxisti, e segnatamente Rudolf Hilferding, avevano
registrato il passaggio in atto da un capitalismo individualistico
concorrenziale a un "capitalismo organizzato" (organisìerter
Kapitalismus).
Il profilo interventista, e non più meramente garantista e
protezionista, dello Stato dopo la crisi del '29 appare, alla luce di
questo quadro (a completare il quale occorrerebbe però aggiungere
anche i rischi di instabilità sociale aggravati dalla nuova
situazione internazionale, determinatasi in seguito al
consolidamento del potere sovietico e alla sottrazione di un'area
cospicua del mercato mondiale all'influenza del capitalismo
occidentale), come una risposta su vasta scala a dinamiche di
trasformazione e di crisi che investivano non solo i meccanismi di
mercato ma anche e in particolar modo la dinamica del conflitto
sociale: con i connessi fenomeni patologici alienazione, anomia
diffusa, ecc. che erano stati studiati alle soglie del secolo da
grandi sociologi come Max Weber, Georg Simmel e Émile
Durkheim.
In quanto risposta a questa vasta gamma di mutamenti, il
complesso di "pratiche" compendiato nel concetto di Stato sociale
CH.S. MAIER, Recasting Bourgeois Europe, Princeton 1975 (trad. it., Bari
4
1979).
(e in quello ad esso affine quantunque non proprio identico di
Stato del benessere) è venuto ad assumere nei diversi modelli una
configurazione sempre più problematica: non solo in conseguenza
dell'estrema varietà dei "casi nazionali", ma soprattutto in razione
del fatto che, con la "societarizzazione" dello Stato, il "politico"
ossia la sfera pubblica delle istituzioni e della rappresentanza
universale ha finito per interiorizzare l'assetto conflittuale
ereditato dalla "società di massa" (con l'annessa dinamica di
scontro e di compromesso tra i "corpi intermedi"). Dal momento
che possiede ancor meno dell'espressione "Stato moderno" un
contenuto chiaro ed univoco, il tipo ideale che denominiamo Stato
sociale oppure (con le debite distinzioni) Stato del Welfare
costituisce un'astrazione plastica ricavata selettivamente da un
materiale sperimentale assai ampio e internamente molto
diversificato (soprattutto sotto il profilo di una comparazione tra
le diverse realtà nazionali o regionali). I caratteri distintivi di
questo Idealtypus possono essere ottenuti soltanto dall'intreccio
tra indicatori di ordine strutturale o sistemico e indicatori di
ordine storico. Occorre, in parole povere, tener conto
simultaneamente della "persistenza" come del "mutamento", delle
"costanti" come della "realtà processuale". Se, dunque, rispetto
agli indicatori del primo ordine può sembrare lecito parlare del
Welfare State come un vero e proprio "sistema" di relazioni indu
striali, (e non soltanto come un mero assemblaggio di tecniche e
pratiche di politica economica e di politica sociale), è necessario,
per l'altro verso (ossia rispetto agli indicatori del secondo ordine),
osservare un processo di crescente mobilità dei rapporti tra
politica ed economia, "Stato" e "mercato", e di costante muta
mento di quella che nel lessico sociologico odierno viene chiamata
"complessità sociale" (intendendo con questa espressione, ad un
tempo, la complicazione della stratificazione di classe o di ceto e la
moltiplicazione dei fattori di differenziazione funzionale dei ruoli
e delle competenze).
Ci troviamo così di fronte a una dinamica che da un lato si
coagula in costanti e persistenze strutturali, mentre dall'altro
prosegue e approfondisce gli effetti del movimento di moder
nizzazione e secolarizzazione aperto nel secolo scorso dalla rivo
luzione industriale. La trasformazione del capitalismo da eco
nomia di risparmio in economia di consumo, da mero sistema
contrattuale fondato sul calcolo utilitaristico costibenefici in
apparato tecnicorazionale che interviene e innova, ha finito per
dar luogo a effetti destabilizzanti, di cui è ancora difficile
prevedere le implicazioni future: introducendo variabili nuove
nella stratificazione sociale quella trasformazione ha prodotto
effetti di "catastrofe culturale" nei vincoli, nei privilegi di ceto e
nelle forme di vita quotidiane tradizionali. L'aspetto culturale
normativo del mutamento dei valori costituisce, pertanto, uno
degli attributi fondamentali di quello che, forse impropriamente, è
stato definito "Stato keynesiano": di quello Stato, cioè, che si
assume l'esercizio di una funzione direttiva nella "propensione al
consumo" valendosi della facoltà del ricorso allo strumento fiscale
e alla socializzazione degli investimenti.
3. Lo "Stato di giustizia' come filosofia politica del Welfare
5
L'importante opera neocontrattualista di John RAWLS, A Theory of Justice,
Cambridge, Mass. 1971 (trad. it., Milano 1982), rappresenta un tentativo di
sistemazione filosoficopolitica dello "Stato di giustizia' del Welfare: e in questo
senso andrebbe opportunamente "storicizzata".
2) l'istituzionalizzazione di una politica del lavoro volta a
tutelare i diritti dei lavoratori e a regolamentare giuridicamente i
conflitti di lavoro;
3) un livello di giustizia redistributiva tale da garantire a tutti
i cittadini un reddito minimo;
4) uno sviluppo adeguato del sistema pensionistico e previ
denziale, con particolare riguardo alle strutture pubbliche di
assistenza sanitaria;
5) l'espansione del settore terziario e dei servizi.
È diffusa la tesi rilanciata di recente, con l'ausilio di rinnovati
strumenti d'indagine, dalla nuova "storia sociale" tedesca secondo
cui il prototipo del Sozialstaat contemporaneo andrebbe ricercato
nella legislazione sociale bismarckiana che, varata tra il 1883 eil
1891, aveva fatto per la prima volta dello Stato il diretto
protagonista della politica sociale (solo in una fase successiva,
infatti, il movimento per l'assicurazione obbligatoria dei lavoratori
si sarebbe esteso anche ad altri paesi: come l'Austria, l'Italia e la
Francia). Proprio la sottolineatura di questa discendenza induce
tuttavia a sollevare una delle questioni centrali che si pongono a
chiunque voglia affrontare in tutta la sua complessità la vicenda
storica del Welfare State (e che viene ormai puntualmente
riproposta non solo dai critici ma dagli stessi apologeti dell'inter
ventismo statale e della "politica espansiva"): la questione con
cernente l'indipendenza relativa, o meglio la sincronia non neces
saria, tra allargamento delle funzioni assistenziali dello Stato
(con gli annessi apparati burocratici e di consenso) ed espansione
delle libertà e dei diritti civili. Importanti ricerche (come ad
esempio quella di Gino Germani 6, che ha esteso il concetto di
Stato sociale fino ad abbracciare alcune esperienze "populiste"
latinoamericane) hanno dimostrato come non sempre intercorra
un parallelismo ottimale tra sviluppi del garantismo sociale e
sviluppi del garantismo giuridico: e come anzi, in alcuni casi,
questi due aspetti si dispongano secondo un ordine dissimmetrico
o addirittura secondo una proporzionalità inversa. Per ritornare
all'esempio appena evocato, il riformismo sociale di Bismarck ci fa
6
Cfr. G. GERMANI, Sociologia della modernizzazione, Bari 1971; Autoritarismo,
fascismo e classi sociali, Bologna 1975; Democrazia e autoritarismo nella società
moderna, in «Storia contemporanea», a. XI, n. 2 , aprile 1980. (Questo scritto
postumo di Germani è stato ripreso da N. Bobbio nella sua relazione al Convegno
"Autoritarismo e democrazia nelle società contemporanee", Roma, 2628 novembre
1980).
assistere al fenomeno per cui, garantendo assistenza e previdenza
(sia assumendone in proprio le spese, sia imponendole ai datori di
lavoro), lo Stato aumenta i costi complessivi di produzione per
ricavarne vantaggi politici: sotto questo profilo, il "primato della
politica interna" non farebbe altro che evidenziare la convergenza
funzionale delle misure assistenziali e della "politica di potenza"
ai fini del controllo sociale e di una "pacificazione" intesa come
neutralizzazione del conflitto.
4. Stato di diritto e Stato sociale
5. La uCostituzione in senso materiale1 e la "deformalizzazione"
dello Stato
La tematica della discrasia tra Costituzione formale e Costi
tuzione materiale che è stata qui introdotta per segnalare l'in
tima interdipendenza tra questioni (non tutte fra loro coeve, e non
tutte recentissime) che circolano variamente nella letteratura
8
L'espressione teorica più importante di questo processo di "desostanzia
lizzazione" e convenzionalizzazione del concetto di democrazia è rappresentata,
com'è noto, dalla concezione kelseniana della "democrazia di compromesso". Cfr.
H. KELSEN, Vom Wesen und Wert der Demokratie, Tùbingen 19292 (trad. it. in ID., La
democrazia, Bologna 1981). Per questo tema si rimanda al cap. Ili della Parte
Prima
9
Si veda al riguardo G. MARRAMAOL. PAGGIA. PIZZORNO, La sovranità introvabile
del Welfare State, in «Politica ed economia», a. XIII, n. 7/8, luglioagosto 1982.
odierna (come ad esempio la "crisi di rappresentanza", la "crisi di
centralità" del parlamento, ecc.) sta ad indicare qualcosa di
analogo a quanto viene sottinteso in un'altra parolachiave del
dibattito delle scienze politiche e sociali di questi anni: la
"deformalizzazione" dello Stato. All'origine di questa problematica
sta l'esigenza di superare le interpretazioni ancora troppo lineari
della cosiddetta "crisi dello Stato sociale": assumano esse come
punto di partenza la dinamica economica (relazione causale
transitiva tra crisi fiscale e crisi di legittimazione) oppure quella
politica (crisi di governabilità, ovvero crisi del management della
crisi). Ad innescare il trend di deformalizzazione dello Stato
sarebbe, secondo questa ottica interpretativa, la rapida inflazione
delle pratiche formali di compromesso: dal momento che il
processo di policy decision sarebbe ormai il risultato di
contrattazioni altamente informali tra rappresentanti di "gruppi
strategici" (operanti sia in settori privati, sia in settori pubblici o
apparati di Stato), i luoghi di formazione delle politiche statali
verrebbero di conseguenza a spostarsi all'esterno delle istituzioni
che la teoria democratica tradizionalmente designava per queste
funzioni, producendo una mutazione altrettanto celere quanto
impercettibile dello "Stato di giustizia sociale" (mediatoregarante
del compromesso politico, e tuttavia mai riducibile a mero
registratore della "borsa degli interessi") in "Stato
neocorporativo".
10
Come si chiarisce da un lavoro più ampio dedicato da Luhmann alla
questione del Welfare (Politische Theorie im Wohlfahrtsstaat, MùnchenWien
1981), la contrapposizione che egli introduce tra Stato di diritto e Stato sociale
(motivata dal fatto che quest'ultimo sarebbe incapace di dar luogo a una autentica
teoria politica, in quanto operante secondo un procedimento che i cibernetici
denominano positive feedback) non è intesa nei termini di un ripristino di una
forma di Stato di tipo liberale, ma è al contrario giustificata con le esigenze di
mantenimento della differenziazione funzionale della sfera giuridica e politica
rispetto alla sfera socioeconomica. Da questo punto di vista, la teoria dei sistemi
autoreferenziali, sviluppata da Luhmann negli ultimi anni, rappresenta uno
sviluppo ulteriore della sua concezione della complessità infrasistemica nella
direzione di un'idea di sistema acentrato: «Nei sistemi differenziati non vi è alcun
luogo privilegiato (una sorta di centrale onnisciente) da cui l'intero sistema
inclusa la centrale stessa possa essere scrutato» (Politische Theorie im
Wohlfahrts staat cit., p. 50). La duttilità e polivalenza politica di queste formule
pregiudica fortemente la plausibilità della pretesa di affrontare le tesi
luhmanniane in chiave immediatamente praticopolemica. D'altro canto, tuttavia,
l'affermazione in termini sia concettuali che "terapeutici" dello Stato di diritto
versus lo Stato sociale rimanda direttamente a una certa tradizione del pensiero
giuridicopolitico tedesco di ascendenza schmittiana (si veda in proposito E.
FORSTHOFF, Rechtsstaat im Wandel, Stuttgart 1964; trad. it., Milano 1973).
347 MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E CONCETTI
LA SOVRANITÀ DISSOLTA. A CONFRONTO CON
NIKLAS LUHMANN*
SOMMARIO: 1. Sovranità politica: un "espediente tautologico"? 2. La deposizione
del modello classico 2.1. Questioni epistemologiche 2.2. Questioni
ermeneutiche 3. Semantica e struttura 4. Archeologia del Moderno e
inconscio dialettico 5. La nozione di Senso e l'elogio del "parassita".
1. Sovranità politica: un "espediente tautologico"?
La domanda che dà il titolo al saggio di Niklas Luhmann Wie
ist soziale Ordnung mòglich? ne costituisce anche l'intimo filo
conduttore. Il problema dell'ordine, tradizionale terreno di
convergenza tra metafisica (o ontoteologia) e giurisprudenza,
viene oggi a collocarsi lungo i bordi di un nodo nevralgico in cui si
producono non solo edificanti "intersezioni" ma veri e propri
conflitti di competenza disciplinari tra filosofia della politica,
scienza politica e sociologia.
* L'opera di Luhmann può considerarsi ormai nota in Italia non solo nei suoi
aspetti generali, ma anche in diversi suoi aspetti specifici. Al susseguirsi delle
ormai numerose traduzioni dei suoi scritti si è accompagnata inoltre una vasta e
diversificata recezione critica. In questo capitolo si lascerà pertanto sullo sfondo
l'esposizione e la discussione delle linee fondamentali della teoria luhmanniana,
che vengono date per presupposte, mentre ci si concentrerà sugli aspetti
epistemologici dell'«ordine»: questione cruciale che, nel testo qui esaminato (Wie
ist soziale Ordnung mòglich?, in Gesellschaftsstruktur und Semantik, voi. II,
Frankfurt am Main 1981 [trad. it., RomaBari 1985]), sembra collocarsi su una
sfumata linea di frontiera tra sociologia e filosofia della politica.
Per le stesse ragioni ho accuratamente evitato di ripetere le considerazioni e
osservazioni critiche generali sull'opera di Niklas Luhmann svolte da me stesso in
altre sedi, alle quali mi permetto di rinviare: Potere e secolarizzazione, Editori
Riuniti, Roma 19852; Lordine disincantato, ivi 19862.
LA SOVRANITÀ DISSOLTA. A CONFRONTO CON NIKLAS LUHMANN
350
2. La deposizione del modello classico
Per afferrare il senso in cui Luhmann intende il tratto diffe
renziale dell'impostazione specificamente sociologica del problema
dell'ordine, e la proposta in essa implicita di "detauto
logizzazione" dei modelli classici della filosofia politica, converrà
distinguere, con una cospicua dose di schematismo, due aspetti
della questione: a) un aspetto che definiremo epistemologico e b)
un aspetto che definiremo ermeneutico. I due aspetti si trovano,
benché assunti distintamente, operativamente interconnessi
nell'esposizione e, grazie alla loro "sinergia", risucchiati nell'orbita
di quella ricognizione semantica che Luhmann intende come
ricerca ausiliaria, se non addirittura complementare, ai
lineamenti di "teoria generale" tratteggiati nella sua recente opera
Soziale Systeme (1984).
2.1. Questioni epistemologiche
La delucidazione del primo aspetto richiede un'individuazione
più particolareggiata dei risvolti impliciti nella nozione di «pro
blematica» (Problemstellung). Tale nozione rappresenta per Luhmann
il criterio (nel senso letterale di operazione discriminante) che sta
alla base del processo di differenziazione della sociologia come di
tutti gli altri ambiti o sottosistemi interni al sistema sociale
LA SOVRANITÀ DISSOLTA. A CONFRONTO CON NIKLAS LUHMANN
352
motivi fondamentali, riconducibili a loro volta a due discriminanti
concettuali:
Ogni disciplina, ogni sottosistema, non si costituisce in base a un
ambito oggettuale topologicamente definito, ma in base a una
specifica Problemstellung: a una problematica costitutiva di cui la
formalizzazione teorica è variabile dipendente. È come se le
"cerchie" non fossero altro che modi di visualizzare e interrogare
lo stesso "oggetto": modi diversi di trattamento terapeutico di un
identico "soggetto". Ragion per cui è la stessa differenziazione ad
offrire la possibilità di un confronto tra queste molteplici
"modalità". Come altre versioni della teoria dei sistemi, anche
quella luhmanniana appare particolarmente motivata e arricchita
dal fenomeno della migrazione di concetti fra le differenti
discipline. Di qui l'attenzione agli aspetti «metadisciplinari»
(prima ancora che « interdisciplinari » ), l'insistenza sui momenti
di interazione o, per così dire, di "reazione chimica" tra le diverse
Problemstellungen, che la pone in stretta connessione con le ricerche
avviate negli ultimi anni in Germania intorno al lessico e alla
semantica dei Grundbegriffe: dei concetti fondamentali che
alimentano e "assillano" le diverse competenze specialistiche,
rimettendone costantemente in discussione le linee di frontiera di
volta in volta tracciate.
2.2. Questioni ermeneutiche
Se quelle che abbiamo appena schematicamente delineate sono
le premesse epistemologiche racchiuse nell'impostazione della
domanda «Come è possibile l'ordine sociale?», non meno rilevanti
sono i suoi risvolti più propriamente ermeneutici. Questi ultimi
sono riassumibili in una tesi che gioca un ruolo strategico non solo
nel saggio qui proposto, ma nell'intera produzione teorica di
Luhmann. La definiremo, molto sinteticamente: tesi
dell'improbabilità del normale. La connessione di questa tesi di
rilevanza, come si è detto, soprattutto ermeneutica con il livello
precedente è evidenziabile alla luce di due fondamentali ragioni:
A questo punto sarebbe letteralmente impossibile proseguire il
discorso senza approfondire le relazioni reciproche tra due termini
che vengono spesso adoperati non solo da fruitori profani della
teoria sistemica come sinonimi: differenziazione e complessità.
Luhmann istituisce certo una «connessione» (Zusammenhang) tra
complessità e differenziazione sistemica. Ma, a ben guardare,
proprio l'esigenza che un tale nesso venga istituito sta a indicare
che i due termini non vanno trattati come sinonimi (gleichsinnig).
Un sistema si definisce propriamente «complesso» quando non può
più collegare ciascuno dei suoi elementi con ciascun altro: quando
cioè per poter istituire relazioni tra i suoi elementi deve procedere
in modo selettivo. Esso si definisce invece «differenziato» quando
forma in se stesso «sistemi parziali» {Teilsysterne): quando cioè
replica al proprio interno la formazione del sistema, tracciandovi
linee di frontiera tra sistema e ambiente (interno). Solo così solo
riflettendo e replicando al proprio interno la differenza globale
sistema/ambiente (esterno) la Systemdifferenzierung diviene
«promotore di complessità e impulso alla costruzione di ordini
emergenti».
Si chiarisce per questa via il significato strategico svolto in
Luhmann dal concetto di differenziazione. Esso fa saltare il para
digma sistemico classico improntato a un modello di relazione
tuttoparti che faceva consistere il tutto di parti «come un edificio
consiste di pietre o un corpo di organi». La stessa distinzione dei
concetti di complessità e di differenziazione si pone così in netta
discontinuità rispetto agli «assunti di base» (Grundannahmen)
dei classici della sociologia. Questi avevano bensì inteso lo
sviluppo sociale come processo di differenziazione crescente e di
sviluppo dal più semplice al più complesso (segnando un'indubbia
conquista evolutiva rispetto a quelle filosofie della storia, esplicite
o camuffate, che ipotizzavano una traiettoria dal complesso al
semplice e un avvento graduale o dialettico di rapporti sociali
improntati alla trasparenza); ma avevano, tuttavia, comunque
ipotizzato un'idea di crescita continua e unilineare. L'ipotesi
contenutisticoermeneutica (inhaltliche Hypothese) da cui muove
LA SOVRANITÀ DISSOLTA. A CONFRONTO CON NIKLAS LUHMANN
356
Luhmann tende invece ora a privilegiare nettamente, rispetto al
momento dell'evoluzione o del progresso cumulativo, la forma che
il nesso specifico di differenziazione e complessità viene di volta in
volta a configurare: «la complessità che un sistema sociale può
raggiungere dipende dalla forma della sua differenziazione».
Benché le società riposino sempre sul «fondamento ultimo»
costituito dal simbolismo di azioni comunicative, esse non si
comportano nel corso della propria trasformazione secondo il
rigido modello teleologicocausale della razionalitàconformeallo
scopo: non si atteggiano, in altri termini come i Macrosoggetti
dalle sembianze antropomorfiche ipotizzati dalle filosofie
evoluzionistiche o dialettiche della storia. Per quanto influenti
possano diventare le «immagini del futuro» che una società si
forma, quest'ultima non si sviluppa intenzionando stati anticipati
che si cerca di raggiungere, ma in reazione all'incremento di
complessità indotto dalla sua trasformazione. Lo stesso principio
della differenziazione funzionale che contrassegna la forma della
differenziazione nelle società altamente modernizzate non va
inteso, in questo senso, come una rigida istanza pianificatrice che
possa essere istituzionalizzata e imposta a livello dell'intera
società: l'immagine dell'Ordine emblematicamente espressa dalla
nozione di
«piano» appare piuttosto a Luhmann come il retaggio di una fase
precedente deU'industrialismo, in cui vigeva un codice molto più
semplificato dei rapporti sociali. La problematicità della nozione
di ordine nella fase attuale dipende proprio dalla circostanza che
ogni ambito parziale, ogni sottosistema, ha al tempo stesso un
rapporto sempre proprio e del tutto particolare con il suo ambiente
interno alla società, e non tollera le tradizionali disposizioni
topologiche secondo i modelli geometrici del vertice e del centro:
«L'insieme dei rapporti sistema/ambiente non può più essere
aggregato su semplici formule opposizionali o gerarchiche come
sopra/sotto, nobile/comune, puro/impuro».
3. Semantica e struttura
La caratteristica impostazione data da Luhmann al tema della
«connessione» tra complessità e differenziazione sistemica è alla
base del suo spiccato interesse per la semantica (e in particolare
per le ricerche intorno alla «semantica dei tempi storici» avviate in
Germania da Reinhart Koselleck e dal lessico dei Geschichtliche
357 MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E CONCETTI
professionali) a una di tipo funzionale. Questa fa saltare il prin
cipio ordinativo della delimitazione topologica e gerarchica del
ruolo e dello status propria all'organizzazione sociale di tipo
stratificatorio, infrangendo il conformismo di un codice comu
nicativo modellato sullo schema di relazione alto/basso o cen
tro/periferia. Di qui l'unicità del caso europeo, quale risulta con
particolare evidenza dalla comparazione con la vicenda di tutte le
altre «culture»: la forma di organizzazione dei rapporti sociali
contrassegnata dalla differenziazione funzionale «si è realizzata
un'unica volta soltanto: nella società moderna che deriva
dall'Europa. A causa della sua forma di differenziazione, questa
società ha tratti unici nel loro genere e storicamente senza
confronti. Essa forma in ogni singolo caso un tipo per sé. Perciò si
può anche supporre, allora, che la sua semantica difficilmente
permette, muovendo da sé, confronti con l'autoesperienza di altre
società».
È per questa via che Luhmann istituisce una stretta con
nessione tra l'elevato tasso di improbabilità dell'ordine prodotto
dal Moderno e il carattere "paradossale" del processo di auto
costituzione del suo sistema e, all'interno di esso, delle differenti
"cerchie". Il paradosso non sta nella discontinuità, nell'eccezione,
ma nella Norma stessa. L'unico possibile accesso alla
comprensione della modernità è quello che si rivela capace di
guardare oltre gli idola theatri, oltre i TÓTTOL del senso comune, e di
cogliere non l'eccezionale o il grandioso, ma per l'appunto il
normale, il quotidiano, come intrinsecamente paradossale. Il
Moderno stabilizza relazioni sociali altamente improbabili con
ferendo ad esse la parvenza della "naturalezza". Forse è per que
sto che la riflessione di Luhmann sembra accogliere tutti quei
punti alti della tradizione anche metafisica, anche teologica del
pensiero occidentale in cui i paradossi rifulgono con adamantino
bagliore. Questi paradossi permangono tutti nella formulazione
delle Problemstellungen costitutive dei «sistemi parziali», per
quanto enunciati fuori da ogni pretesa sostanzialistica, vale a
dire: non nei termini dell'autofondazione ma in quelli
dell'autoreferenza, non nel senso della tautologia ma in quello
dell'"autologia". Questa persistenza si manifesta nella
nomenclatura delle "paradossie" che Luhmann ha già iniziato a
declinare nei suoi sondaggi regionali della costellazione
semantica: vi è una "paradossia" del diritto, le cui pretese di giu
stizia distributiva e di «isonomia» (termine che postula, come ha
notato Moses Finley in Politics in Ancient World, non solo
eguaglianza di tutti dinanzi alla legge ma anche eguaglianza di
tutti attraverso la legge) possono essere mantenute, cioè "nor
LA SOVRANITÀ DISSOLTA. A CONFRONTO CON NIKLAS LUHMANN
360
mate" e stabilizzate, solo in virtù dell'estrema asimmetria di una
violenza (Gewalt) implicita sia nella creazione sia nella con
servazione dell'ordinamento; una "paradossia" della morale, la cui
pretesa di porsi come collante delle relazioni sociali entra in
cortocircuito con il suo aspetto intrinsecamente polemogeno
(niente divide più la società del giudizio etico, mentre il legame
sociale sembra invece mantenersi solo grazie a scambi e com
promessi che rappresentano nella normalità dei casi una deroga o
una sospensione di quel giudizio: veri e propri marchingegni
amorali di integrazione e neutralizzazione del conflitto di valori);
una "paradossia" dell1 amore, reso possibile come sentimento solo
dalla stabilizzazione dei codici (aspetto, questo, precocemente
intuito dal genio di La Rochefoucauld).
4. Archeologia del Moderno e inconscio dialettico
specificarne le implicazioni ermeneutiche. L'aspetto cruciale che, a
nostro avviso, continua a restare in ombra è quello della rilevanza
specifica della questione dell'instabilità ai fini della costituzione
della problematica dell'ordine che, coerentemente svolta, dovrebbe
condurre a una critica "a monte" cioè in sede logica ed
epistemologica di nozioni come "equilibrio", "stabilità", o
"stabilizzazione evolutiva". È impossibile, in altri termini,
enucleare i potenziali risvolti interpretativi dell'interazione
ordineconflitto senza prendere decisamente partito sulla
questione implicata da una doppia associazione concettuale, il cui
imporsi viene sempre più pregiudicando le pretese di generalità
dell'approccio sistemico: l'associazione tra ordine e complessità e
quella tra entropia e disordine. Una volta equiparato (in base al
secondo principio della termodinamica) lo stato di entropia con lo
stato di disordine, ne deve conseguire necessariamente che lo
stato di ordine (ossia di complessità) è tanto più elevato quanto
più si allontana dalla situazione di equilibrio. Negli ultimi anni, la
suggestione esercitata nell'ambito delle scienze sociali di due
modelli (fra loro molto diversi sia per collocazione "disciplinare"
che per intenti e grado di astrazione) come quelli della «Teoria
delle catastrofi» di Thom e della teoria delle «strutture
dissipative» di Prigogine ha avuto l'effetto di moltiplicare «le
osservazioni sulla nascita dell'ordine e sul problema parallelo
dell'innovazione » che già sul finire degli anni Trenta erano
«talmente numerose da diventare banali», ma che tuttavia «non
smettono per questo di porre delicati problemi di interpretazione »
(Delattre). Per superare questo «lato enigmatico» del problema
senza approfondire il quale lo stesso concetto di ordine resta
inesorabilmente relegato a una formulazione imprecisa non vi
sono che due vie di uscita: o si relativizza il nesso di entropia e
disordine (secondo la soluzione proposta da J. Tonnelat nella sua
opera del 1978 su Thermodynamique et biologie) e giocando
sulla distinzione tra livello macroscopico e livello microscopico si
dichiara il carattere fittizio dell'antinomia tra genesi dell'ordine e
secondo principio della termodinamica; oppure si approfondisce il
«principio dell'ordine derivato dal caos» per rovesciare l'equazione
tra evoluzione ed entropia. Ora, proprio questa seconda strada ci
sembra obbligata, ponendoci nella prospettiva di Luhmann, se non
si vuole correre il rischio di svuotare di ogni determinatezza e
rigore le nozionicardine di ordine e complessità. Il principio
dell'ordine derivato dal caos, infatti, era «apparso (o riapparso?)
all'inizio del XIX secolo quasi surrettiziamente e in flagrante
opposizione al principio [...] che godeva fino ad allora di uno
statuto di evidenza razionale incontrastato»: quello secondo il
LA SOVRANITÀ DISSOLTA. A CONFRONTO CON NIKLAS LUHMANN
362
5. La nozione di Senso e Velogio del "parassita"
Il naturale svolgimento di questa aspetto ci riconduce al cuore
della concezione luhmanniana dei rapporti sistema/ambiente: la
nozione di senso. Cos'altro è infatti il senso o la «riduzione
sensiva di complessità» (sinnhafte Reduktion von Komplexitàt) se
non appello, rinvio all'Altro nelle forme della fattualità, della
temporalità e della socialità? Più analiticamente: cos'altro è il
363 MODELLI DI ORDINE. IMMAGINI E CONCETTI
senso se non rinvio ad altri contenuti di senso fattuali, a ciò che è
temporalmente distanziato e al modo in cui altre persone, vivendo
o agendo (praticando cioè le due forme in cui può aver luogo quella
riduzione di complessità che è insieme condizione dell'identità e
della differenza, dell'identico e del diverso: l'«esperire vivente» e
l'«agire»), si riferiscono alla stessa famiglia di simboli?
La problematica del senso che Luhmann mutua, com'è noto,
dalla fenomenologia husserliana e dalla sociologia fenomenologica
di Alfred Schùtz la troviamo riproposta puntualmente anche
nella parte finale del saggio da cui abbiamo preso le mosse. Il
senso viene qui definito come una sorta di riserva simbolica, senza
la quale l'emergenza di forme d'ordine sempre più ricche di presupposti
e quindi sempre più «artefatte» riuscirebbe assolutamente
incomprensibile. In quanto «eccedenza di possibilità»,
insopprimibile «ridondanza» rispetto a ogni sistema, esso
costituisce anche una vitale necessità evolutiva, la conditio sine qua
non di ogni innovazione e trasformazione degna di questo nome:
«Ogni passo successivo oltre la pura fatticità dell'Ora è una
selezione, al cui senso si accompagna il fatto che esso potrebbe
anche essere diversamente». Sotto questo profilo, il senso
rappresenta, con la carica di imprevedibilità e contingenza che
esso immette nel processo evolutivo delle forme di razionalità, sia
la chiave ultima dell'ordine, sia il tratto distintivo della condizione
umana: la condition humaine: inconstance, ennui, inquietude ...
La reimpostazione luhmanniana del "problema hobbesiano
dell'Ordine" possiede l'indubbio merito di prospettare molti dei
temi cui si è accennato come questioni aperte: e, di questi tempi,
ogni dichiarazione di prudenza va salutata come un indice
incontrovertibile di onestà e di rigore intellettuale. Prendendo
Luhmann in parola, mi limiterò pertanto, in conclusione, ad
accennare telegraficamente a due problemi (fra loro strettamente
interrelati) che si collocano a un livello di metainterrogazione,
vale a dire: di domanda sulla domanda «Com'è possibile l'ordine
sociale?».
Il primo riguarda la nozione di «riduzione di complessità»: se la
creazione di strutture di razionalità sistemica sempre più
«artefatte» non dà luogo a una progressione genericamente
cumulativa (e dunque entropica), ma al contrario produce un
incremento di proliferazione simbolica, perché allora escludere
assiomaticamente la possibilità di reperire un criterio di rile
vazione del tasso della complessità ambientale "esterna"? perché
escludere, cioè, che il «caos» sia in realtà interpretabile come
LA SOVRANITÀ DISSOLTA A CONFRONTO CON NIKLAS LUHMANN 364
PER UN'ETICA DEL PRESENTE
PROPOSTE
1. La secolarizzazione come "piano inclinato": i limiti della
interpretazione di Lowith
A partire dal tardo Medioevo emerge nella cultura occidentale
in concomitanza con l'opera dei glossatori1 un particolare modo
di concepire il mutamento politico. Questo modo consiste in una
ripresa e in un riadattamento del vecchio schema ciclico di Polibio
ed è mediato da una vera e propria riscoperta della Politica di
Aristotele. Il testo aristotelico «testo canonico di questa storia»,
secondo la definizione di Bobbio2 è il grande assente dalle
dispute "de civitate" della letteratura cristiana dei primi secoli:
esso viene infatti riscoperto soltanto sul finire del XIII secolo
(mentre per la riscoperta del De Republica di Cice
1 Per farsi un'idea dello stato delle ricerche su questi aspetti, si veda la voce
Herrschaft redatta da R. Koselleck (I, III.89), P. Moraw (II), H. Gunther (III. 13,
57), K.H. Ilting (III.4) e D. Hilger (iVLX) in Geschichtliche Grundbegriffe.
Historisches Lexicon zur politischsozialen Sprache in Deutschland, hrsg. von Otto
Brunner, Werner Conze und Reinhart Koselleck, Bd. 3 (HMe), Stuttgart 1982, pp.
1102, e la voce Revolution redatta da R. Koselleck (I, IVVII), Chr. Meier (II), J.
Fisch (IILl2b) e N. Bulst (IIL3) ivi, Bd.5 (ProSoz), Stuttgart 1984, pp. 653788.
2 N. BOBBIO, La teoria delle forine di governo nella storia del pensiero politico,
Torino 1976, p. 59.
369 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
3 Ibidem. Cfr. anche pp. 6066.
4 Cfr. H. RYFFEL, Metabolé Politeión: der Wandel der Staatsverfassungen, Bern
1949.
5 N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, I, 2, in ID., Tutte le
opere, Firenze 1971, p. 79. Su cui vedansi le puntuali osservazioni di G. SASSO,
Niccolò Machiavelli, Bologna 1980, pp. 442445.
6 A. MOMIGLIANO, Polybius'Reappearence in Western Europe, ora in ID., Essays in
Ancient and Modem Historiography, Oxford 1977, pp. 87 ss.
I
"IDOLA" DEL POSTMODERNO 370
Ma, di là da queste puntualizzazioni storiche preliminari, vi è
un problema teorico, che intendiamo adesso mettere a fuoco. Esso
ha radice nella concomitanza di cui si diceva all'inizio. Cosa
comporta questa concomitanza? Un fatto decisivo non solo sul
piano genetico, ma anche su quello più strettamente "dottrinale":
la contemporaneità della nascita del (moderno) concetto di
rivoluzione e del (moderno) concetto di sovranità. In parallelo con la
ripresa da parte dei glossatori del celebre frammento di Ulpiano
intorno alla «summa legibusque soluta potestas» e della formula
«rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator»
(lungo una traiettoria, non sempre continua, che giungerà a
coronamento con la teoria hobbesiana) 7, si fa luce, nel corpo delle
dottrine politicogiuridiche europee, uno schema del cambiamento
che ha all'incirca questa forma: oppressione, liberazione, contratto
sociale, lotta politica, nuova società. Questo processo assume
gradualmente i contorni di ciò che noi moderni chiamiamo, da due
secoli a questa parte, processo rivoluzionario. E, anche se il termine
rivoluzione (che consiste nella trasposizione del termine greco di
àiroKardaraGio) nell'accezione odierna di sovvertimento politico
ha un uso relativamente recente, non v'è dubbio che sin dall'epoca
rinascimentale il suo uso pragmatico tenda già a perforare lo
schermo della metafora astronomica e astrologica: benché ancora
con Machiavelli si parli di «cerchio» lungo il quale le repubbliche
«girano», non è difficile accorgersi che quel cerchio in realtà non si
chiude e che il movimento ha ormai introiettato una direzione in
avanti che già sembra alludere per più rispetti alla idea
cumulativa di Processo cui siamo abituati.
La storia implicita nello schema appena riportato non si narra,
però, in tutto il mondo. Non è uno schema universale comune a
tutte le civiltà, ma riguarda specificamente l'Occidente in quanto
erede di un'idea di tempo lineare, irreversibile e, dunque,
progressivamente "liberatorio", la cui origine risale alla con
cezione escatologica propria dell'ebraismo e del cristianesimo.
L'idea della concezione ebraicocristiana della "redenzione" come
chiave esplicativa della vicenda culturale assolutamente unica
dell'Occidente (e del destino egemonico di questa "unicità", la cui
potenza razionalizzatrice, capace di imporsi a tutte le altre
"culture", è letteralmente incomprensibile se la si disgiunge da
quella originaria energia interiore) risale, com'è noto, a Max
7 Cfr. per questi aspetti l'ancora valido libro di F. CALASSO, / glossatori e la teoria
della sovranità, Milano 19573, in specie p. 22. Si veda anche, supra, il cap. II della
Parte Seconda.
11 s. Mi preme avvertire per inciso che quanto segue vuole essere anche una
risposta, sia pure indiretta, alle critiche rivoltemi da Paolo Rossi in Le simili
tudini, le analogie, le articolazioni della natura, in «Intersezioni», a. IV (1984), n.
2, in specie pp. 243248 (ora in P. Rossi, / ragni e le formiche. Un'apologia della
storia della scienza, Bologna 1986, pp. 119126), dove accusa di genealogia
"coattiva" il mio summenzionato libro, e in "Idola" della modernità, in «Rivi
371 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
8 Per una ricostruzione del grande disegno teorico weberiano non si può che
rinviare al fondamentale W. SCHLUCHTER, Die Entwicklung des okzidentalen
Rationalismus, Tùbingen 1979 (ora anche in trad. it., Lo sviluppo del razionalismo
occidentale, Bologna 1987).
9 Di Lowith è uscita di recente in Germania, per i tipi dell'editore J.B. Metzler,
l'autobiografia Mein Lehen in Deutschland vor und nach 1933, Stuttgart 1986
(trad. it., La mia vita in Germania, Milano 1988).
10 Per una più ampia discussione delle tesi lòwithiane, mi permetto di rinviare al
mio Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, Roma 19852, pp.
I
"IDOLA" DEL POSTMODERNO 372
tologica e visione apocalittica in questo senso sono tutt'altro
che sinonimi. Ma per cogliere i loro tratti differenziali occorre
chiamare in causa un altra idea, alla quale l'idea di rivoluzione
appare strettamente imparentata: l'idea di Esodo. Lo schema
dell'esodo, grande archetipo religioso della "temporalità lineare"
(per fare esodo occorre uscire da un punto x verso un punto y:
occorre, in altri termini, andare verso ...), non ricollega forse
373 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
anch'esso l'immagine della "terra promessa" (immagine outopica
che adombra un movimento oucronico) all'idea del ripristino di
uno statu quo ante'? All'idea di revolutio, nel senso etimologico
letterale di restaurazione? Dunque: di "ciclo"? La Rivoluzione non
sarà allora sempre necessariamente concepita come una
rivoluzione secondo la Legge?
2. Alle origine della storia: l'Esodo come sinopsi del processo
rivoluzionario
11 Exodus and Revolution, New York 1985; trad. it., Esodo e rivoluzione, Milano
1986, p. 15. Le citazioni che seguono sono tratte, salvo altre indicazioni, da
quest'opera (la cui importanza è stata segnalata per la prima volta in Italia, e con
argomenti convincenti da BENIAMINO PLACIDO, E questo è l'Esodo che noi
vogliamo, in «La Repubblica», 4.1.1986).
I
"IDOLA" DEL POSTMODERNO 374
racconto realistico. E, come in ogni storia che si rispetti, vi è un
prima e un poi irrevocabile. Ossia: irriducibile a qualsivoglia
reversibilità, a qualsivoglia "cerchio magico" della mitologia. In
quanto «movimento nel senso letterale», in quanto «avanzamento
nello spazio e nel tempo», l'Esodo rappresenta dunque «la forma
originaria (o la formula) della storia progressiva».
Fin qui l'interpretazione di Walzer (avanzata in base a un'ana
lisi puntuale e diretta dell'Esodo, dei Numeri e del Deuteronomio
e su un'analisi indiretta, ossia condotta sulle traduzioni inglesi,
dei testi dei commentatori ebraici medioevali: dal Midrash
Rabbah al Mekilta DeRabbi Ishmael, dalle note di Rashi ai com
mentari di Nachmanides12 sembrerebbe ricalcare puntualmente
quella di Lowith, quasi intendesse corroborarne la genealogia
attraverso la disamina dettagliata dei principali TÓTTOL vete
rotestamentari: l'impianto narrativo del Libro dell'Esodo sarebbe
penetrato nella «nostra cultura politica» in ragione della
«centralità della Bibbia nel pensiero occidentale e della sua con
tinua rilettura». Ragion per cui, conclude Walzer, «il pensiero
dell'Esodo sembra essere sopravvissuto alla secolarizzazione della
teoria politica». Non solo l'impostazione, ma anche la conclusione
del ragionamento parrebbe, pertanto, confermare la sintonia con
l'interpretazione lòwithiana, per la quale la dinamica
secolarizzante, lungi dal costituire un processo dissolutivo "senza
resti" dei teologemi, si limiterebbe a dislocarne il baricentro nel
senso di una crescente sacralizzazione degli eventi del mondo
"profano".
In realtà la parvenza analogica suscitata da queste proposi
zioni generali è fuorviante e ingannevole. Ben altro, se non addi
rittura opposto, è l'obiettivo dell'autore. Egli mira infatti a dimo
strare che l'assunzione dell'Esodo all'interno di una visione
cosmica segnata dal movimento circolare che va dalla creazione (e
successiva caduta) alla redenzione finale si è prodotta in seguito
alla indebita trasposizione di quello schema narrativo in chiave
escatologica e apocalittica: il tempo lineare, introdotto in sede
storica (e non cosmologica) dal Libro dell'Esodo, verrebbe in tal
guisa assimilato alle escatologie tardoebraiche e protocristiane di
12 Sul testo biblico come prototipo narrativo e sui rapporti che in esso si
instaurano tra linguaggio, mito, metafora e tipologia la cultura anglosassone
possiede un eccezionale modello nelle ricerche di Northrop Frye (di cui si veda
soprattutto The Great Code. The Bihle and Literature, New York 1982; trad. it., Il
grande codice, Torino 1986). Curiosamente, però, Walzer sostiene che «il "codice"
di Frye [...] suggerisce un'architettura troppo elaborata» e sembra preferirgli le
«più "modeste" letture» di ROBERT ALTER, The Art ofBiblical Narrative, New York
1981.
375 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
13 «Noi giudichiamo la promessa di redenzione finale dalla prima promessa, fin
dal tempo in cui vivevamo esuli in Egitto» (S. GAON, Book of Doctrines and Beliefs,
in Three Jewish PhUosophers, Philadelphia 1960, pp. 168169).
14 Cit. in D. BIALE, Gershom Scholem: Kahhalah and CounterHistory, Cam
bridge, Mass. 1982, p. 100.
I
"IDOLA" DEL POSTMODERNO 376
rivoluzione. Ciò che per lui conta sopra ogni altra cosa è ribadire
la radicale eterogeneità tra l'Esodo biblico e le antiche leggende di
viaggi che comunque vada iniziano e terminano "a casa": dal
viaggio di Odisseo a Itaca al viaggio a Byblos in Fenicia del prete
egiziano dell'XI secolo WenAmon. Nella storia biblica, solo le ossa
di Giuseppe ritornano a Canaan. Per gli israeliti vivi la terra
promessa è una "nuova terra" dove non c'è nessuno a dar loro il
benvenuto.
Il Libro dell'Esodo conclude quindi lo studioso americano
realizza in tanto una decisa rottura con ogni narrazione cosmo
logica (mito dell'Eterno Ritorno), in quanto pone in opera una
narrazione storica. Sotto questo profilo, esso rappresenta anche la
quintessenza della narrazione biblica nel suo complesso, dove «gli
eventi storici accadono una sola volta e traggono pieno significato
da un sistema di interconnessioni fra il passato e il presente, e
non dalle corrispondenze gerarchiche del mito». È la storica
"virtuosità" dello schema narrativo dell'Esodo a fronte della
"viziosità" ciclica dell'Eterno Ritorno che consente a Walzer di
tradurlo in una sorta di modello politologico del mutamento:
Egittodesertoterra promessa, ossia i tre passaggi narrativi
dell'Esodo (iniziocentroconclusione), possono essere così
agevolmente tradotti nella triade problemalottasoluzione. Al
punto di indurlo a parlare di una «politica dell'Esodo» dal profilo
ancipite: «moderata e prudente», se paragonata al messianismo
politico; «rivoluzionaria», se comparata alla passività e alla
rassegnazione delle ideologie tradizionali.
Disegno pulito, quello di Walzer. E per di più impeccabilmente
eseguito. Residua tuttavia un problema, dall'autore stesso affac
ciato e mai più ripreso (et pour cause: dato che il suo svolgimento
avrebbe offuscato la saggezza "migliorista" della sua lettura
dell'Esodo): la forza dell'Esodo sta non tanto nell'inizio della sto
ria, quanto nella sua conclusione: la promessa divina. Ma la Pro
messa è anche l'agente primo, il motore dell'esodo stesso. Per cui
principio e fine fanno tutt'uno: si ricongiungono in un moto cir
colare la cui sede non è topologica o geografica, ma etica. Principio
e fine si situano al pari della Legge non in una iperurania e
remota trascendenza ma nella dimensione a noi prossima
dell'interiorità: «nella tua bocca e nel tuo cuore», come è detto nel
Deuteronomio (Dtn., 30:1114). L'Egitto non è solo lasciato alle
spalle. È anche rifiutato. Ossia: giudicato e condannato. E i
termini fondamentali di questo giudizio sono: oppressione e cor
ruzione. Ma che cos'è che rende possibile il giudizio se non la
Promessa? Nulla sarebbe la forza morale di quel giudizio senza
377 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
l'idea di una vita non più opprimente e non più corrotta: da cui
oppressione e corruzione siano definitivamente sradicate.
Non ha qui allora inizio unaltra storia, questa sì veramente
discontinua rispetto ai mitologemi classici dell'Eterno Ritorno?
Una storia in cui il Geschehen (il mero "accadere"), investito di
"senso" nella sua totalità e di significazione di "valore" fin dentro i
suoi particolari più trascurabili, diviene Geschichte? Una Storia in
cui l'intreccio di "linea" e "cerchio" si ripropone sul presupposto
del giudizio etico e della domanda di riscatto e di redenzione?
Così reimpostati i termini della questione, l'operazione che
culmina nella cifra della Entzauberung o della Entmythologisie
rung (del "disincanto" laico o della "demitologizzazione" teologica)
assumerà necessariamente profili più drammatici e, lette
ralmente, più radicali15. Essa si darà, cioè, non già nei termini di
una banale linea di demarcazione rispetto alle prospettive esca
tologiche o apocalittiche, bensì a partire da una revoca in que
stione che coinvolge, alle radici, il "futurismo" implicito nei
moderni concetti di Storia, Progresso e Rivoluzione. Teorici
"laici" della società e della politica come Max Weber e teologi
cristiani come Barth, Bultmann e Gogarten non hanno prodotto,
in questo senso, che delle coraggiose e possenti registrazioni di un
processo già avvenuto nelle "cose stesse: già "consumato" dalla
stessa dinamica della "secolarizzazione moderna". La radicalità e
serietà con cui questi autori prendono atto dell'avvenuto "disin
cantamento del mondo" sta, a ben guardare, nella lucida consa
pevolezza che le controfinalità (i cosiddetti "effetti perversi") del
Progresso non risiedono affatto in presunti fattori "esogeni" (in
ostacoli o variabili imprevedibili che il progetto moderno non era
stato in grado di visualizzare tempestivamente), ma affondano
piuttosto le proprie radici nella stessa struttura "monoteistica" del
Tempo Storico da cui traggono alimento tanto categorie "dal
profilo alto" come Rivoluzione o Liberazione, quanto categorie "dal
profilo basso" come incremento, crescita, miglioramento, ecc. Lo
scacco che coinvolge l'intero complesso di queste categorie,
formatesi nella grande temperie dell'illuminismo europeo, è
visibile nel proliferare degli ossimori più caratteristici del lessico
politico novecentesco: espressioni come "rivoluzione di destra" o
"rivoluzione conservatrice" non sono del resto recentissime, ma
risalgono, com'è noto, ai primi due decenni di questo secolo. Ed è
in questo stesso arco di anni che termini come progresso o
evoluzione finiscono per perdere la carica assiologia positiva che
15 Per un'analisi delle implicazioni radicali del "disincanto", in politica come in
teologia e in filosofia, si veda il prossimo capitolo.
I
"IDOLA" DEL POSTMODERNO 378
essi avevano all'origine, lasciando il posto a categorie neutre come
modernizzazione e sviluppo. Non è forse in virtù di questa
neutralizzazione che lo stesso Revolutionsbegriff viene a perdere i
propri tratti dirompenti e liberatori, per trasformarsi in fattore di
modernizzazione suscettibile di divenire oggetto di fredde analisi
quantitative o comparative?
Se tutto ciò rappresenta, sembra ombra di dubbio, l'esito
storicosociologico del "disincanto", occorre però aggiungere che
questo esito non ne esaurisce affatto la portata e le implicazioni
sul piano eticofilosofico. Dalla Entzauberung, intesa come
compimento della modernità, e dalla Entmythologisierung, intesa
come punto d'approdo del monoteismo secolarizzato, si sprigiona
infatti una nuova temperie, le cui implicazioni sono ben lontane
dall'essere state approfondite dalla nuova apologetica
postmoderna della "morte di Dio" e dai vari approcci
decostruzionisti o ermeneutici alle tematiche del Soggetto e del
Fondamento: la temperie politeistica.
3. "Politeismo" e conflitto dei valori: dal "Prinzip Hoffnung" al
"Prinzip Verantwortung"
16 Cfr. i saggi di D. MILLER (The New Polytheism) e di J. HILLMAN (Psychology:
Monotheistic or Polytheistic), ora raccolti in trad. it. in II nuovo politeismo, Milano
1983.
379 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
17 Cfr. M. WEBER, Scienza come professione, in ID., Il lavoro intellettuale come
professione, Torino 1966, p. 33. Tra gli studenti che assistettero alla conferenza vi
era anche Karl Lowith, come risulta dalla sua stessa testimonianza (cfr. Martin
Heidegger im Gespràch, hrsg.von Richard Wisser, FreiburgMùnchen 1970, pp.
3839).
18 M. WEBER, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, in ID., Sociologia
della religione, a cura di Pietro Rossi, Milano 1982, voi. I, p. 192 (dove si legge
anche inequivocabilmente: «il destino fece del mantello un gabbia d'acciaio»).
I
"IDOLA" DEL POSTMODERNO 380
19 Per questo aspetto resta fondamentale la diagnosi di Henry Corbin in Le
paradoxe du monothéisme, Paris 1981; trad. it., Il paradosso del monoteismo,
Casale Monferrato 1986, in specie le pp. 328 (corrispondenti al primo capitolo,
dedicato a «Il Diouno e le molteplici divinità»).
201 più significativi dei quali si trovano ora raccolti nel volume La fine della
modernità, Milano 1985 (cfr. soprattutto l'ultimo: Nichilismo e postmoderno in
filosofia).
21 G. VATTIMO, 77 (povero) diavolo e il buon Dio, in «Europeo», 21 marzo 1987, p.
7. Le citazioni seguenti si riferiscono, salvo indicazioni ulteriori, a questo articolo.
381 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
nozioni suddette dipendono da una «convenzione cartografica» che
le relativizza ai diversi linguaggi scientificodisciplinari). Sul
versante della fede, con la consapevolezza del «carattere
"mitologico" di molte pagine della Bibbia»: vale a dire,
aggiungiamo noi, con lo sganciamento dell'autentico nucleo
religioso (inerente alla problematica soteriologia) dagli apparati
dottrinali delle diverse teologie secolari.
Il modo in cui Vattimo mette a fuoco la «situazione spirituale
del tempo» (per evocare una celebre espressione adottata al
principio degli anni '30 da Karl Jaspers22) è, a nostro avviso,
corretto. Calzante è infatti la descrizione degli effetti del mono
teismo esploso come compresenza di vecchi detriti che riemergono
(e che la teologia ratzingeriana disinvoltamente utilizza: a partire
da quella riscoperta superstiziosa e apocalittica del "senso del
peccato" e della "credenza nel demonio" che una rigorosa teologia
della secolarizzazione dovrebbe annoverare tra i fenomeni più
tipici del "secolarismo"23) e quella «aspettativa diffusa nei
confronti della religione» che nulla ha propriamente da spartire
con inclinazioni neopagane. Il solo aspetto che non ci sentiamo di
condividere dell'analisi di Vattimo è quello implicito
nell'affermazione divenuta ormai uno slogan fin troppo diffuso
nel lessico intellettuale e pseudointellettuale di questi anni
della "leggerezza dell'essere" che risulterebbe dal messaggio
cristiano.
Senonché il dissenso su questo aspetto tocca un punto filo
soficoteologico niente affatto marginale, ma al contrario profondo
e decisivo. Esso si racchiude nella domanda: il cristianesimo ha
comportato un esonero o non piuttosto un nuovo, e in un certo
senso assoluto, carico di responsabilità della ragione umana nei
confronti dell'evento, e segnatamente di quell'Evento per
antonomasia che chiamiamo "mondo"? Se è vero che al centro del
messaggio cristiano «sta un Dio che non per finta, né per un
travestimento provvisorio a scopo pedagogico, ma sul serio e per
amore si è fatto uomo, cioè si è abbassato e ridotto»; se è vero che
è proprio il cristianesimo a togliere all'essere, «di cui la metafisica
22 K. JASPERS, Die geistige Situation der Zeit, Berlin 1931; trad. it., La situazione
spirituale del tempo, Roma 1982. L'espressione di Jaspers è stata emble
maticamente ripresa, in anni recenti, da Jùrgen Habermas nel volume collettaneo
di "bilancio" da lui curato, che costituisce il titolo n. 1000 della prestigiosa collana
«edition suhrkamp»: Stichworte zur "Geistigen Situation der Zeit", 2 tomi,
Frankfurt am Main 1979.
23 Per la distinzione tra "secolarizzazione" e "secolarismo" caratteristica della
teologia di Friedrich Gogarten si rinvia ancora una volta al nostro Potere e
secolarizzazione cit., pp. XVIIXXVL
I
"IDOLA" DEL POSTMODERNO 382
24 Sintomatico, in questo senso, il volume di M. CACCIARI, Icone della legge,
Milano 1985.
383 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
"vincoli oggettivi" 25. Ma per uscire dalle secche di un esito siffatto
(che solo un grossolano malinteso potrebbe scambiare per
"disincanto") non vi è che una strada: intendere il principio di
responsabilità in conformità al suo significato più profondo, che è
poi quello racchiuso nella sua etimologia. Vale a dire: come
capacità di rispondere fuori di ogni nozione astratta, formalistica
o trascendentale, della libertà e della decisione: quella propria dei
moderni, oggi sublimata in euforia del bricolage o
dell'immaginario "seduttivo" dai sacerdoti del postmoderno
all'interrogazione proveniente dalla "necessità" e dal "destino".
4. Libertà e Destino: dopo Hegel, oltre Heidegger
La querelle intorno alla secolarizzazione si è negli ultimi anni
trasferita sempre più decisamente dal piano delle dispute teo
logiche a quello della discussione filosofica. I termini del dibattito
in corso sono assai vari. Non è tuttavia illegittimo ricondurli a due
sensi fondamentali, che possono essere rispettivamente indicati
come significato "deiettivo" e significato "emancipativo" del
lemma "secolarizzazione".
Nel primo senso, la secolarizzazione sottintende una lettura
della storia (e della filosofia) occidentale in chiave di "decadenza",
di progressiva caduta dei nuclei metafisici forti, di inesorabile
«perdita del centro»26. Nel secondo senso, il termine
secolarizzazione adombra invece un processo non di mera perdita
o sottrazione di valore, ma al contrario di positiva liberazione di
nuovi ambiti di vita e di realtà, di nuove e imprevedibili chances
emancipative per il pensiero e l'agire umano.
Visti contestualmente, i due significati sembrano tuttavia dar
luogo a un doppio movimento. Più precisamente: a un movimento
la cui duplicità risulta da un diverso o opposto modo di guardare a
un unico e identico fenomeno. Entrambi i sensi, contestualizzati,
sembrano cioè sfociare nel medesimo risultato sul piano
25 È questa la "curvatura" che il principioresponsabilità assume, ad esempio, nel
pur interessante libro di H. JONAS, Das Prinzip Verantwortung, Frankfurt am
Main 1979 (di cui si veda soprattutto il capitolo conclusivo: «Von der Kritik der
Utopie zur Ethik der Verantwortung»).
26 Per un buon esempio di questa linea, si vedano le ricerche svolte, in ambito
estetico e storicoartistico, da H. SEDLMAYR, Verlust der Mitte, Salzburg 1948; trad.
it., Perdita del centro, Torino 1967 (questa edizione esce, significativamente, nella
collana «Documenti di cultura moderna» diretta da Augusto Del Noce ed Elémire
Zolla).
I
"IDOLA" DEL POSTMODERNO 384
descrittivo: il venir meno delle tradizionali strutture "centrate", il
crollo degli «immutabili» (per dirla con Emanuele Severino 27),
comporta un'irrevocabile crisi di statuto della filosofia teorica.
Alla declinazione di questa crisi attendono, con accentuazioni
diverse ma come risulta ad esempio dal volume a più voci
Filosofia '86, significativamente dedicato alla «Secolarizzazione
della filosofia» 28 in modi sostanzialmente convergenti, lo schema
diagnostico di Vattimo e quello più spiccatamente terapeutico di
Richard Rorty. Per il primo, la crisi di statuto della filosofia
tradizionale (una volta dissolti non solo i modelli della metafisica
ma anche i postulati della filosofia scientifica novecentesca: dai
dogmi dell'empirismo logico al rigido programma del
verificazionismo, con le annesse e connesse teorie
referenzialistiche del linguaggio) sembra dar luogo al proliferare
dell'attività storiografica come «esorcismo»29. Nel secondo quella
stessa crisi mette invece capo alla tesi dell'attività marginale
della filosofia e a una riabilitazione pragmaticoermeneutica del
sapere "dossastico" che si esprime nella formula di sapore
incontrovertibilmente anglosassone della «priorità della
democrazia sulla filosofia»30.
Senonché, proprio nel punto in cui i due sensi quello deiet
tivo e quello emancipativo di secolarizzazione sembrano con
vergere, essi tornano in realtà a configurarsi come sentieri che si
biforcano. La biforcazione ha infatti luogo a partire dal momento
in cui si cerca di stabilire non più in negativo, e
solodescrittivamente, bensì in positivo, ossia ermeneuticamente, il
significato di "secolarizzazione". A onor del vero, è lo stesso
Vattimo ad avvertire l'esigenza di una saldatura non pretestuosa
tra esperienza della fine della metafisica e possibilità di delineare
un compito "positivo" per la filosofia, capace di oltrepassare i
limiti degli approcci "negativistici" o "decostruzionistici". Ma è
proprio nella maniera di intendere la nuova positività del
pensiero che le opinioni tendono nel dibattito filosofico in corso e
nello stesso volume in questione nuovamente a "divorziare".
In Filosofia '86 (e, talvolta, nel cuore stesso dei singoli con
tributi) la funzione positiva della filosofia si presenta infatti
declinata in modi inesorabilmente antinomici: per un verso, essa
27 Della vasta produzione di Emanuele Severino si veda soprattutto Destino
della necessità, Milano 1980.
28 Cfr. G. VATTIMO (a cura di), Filosofia '86, RomaBari 1987.
29 Cfr. G. VATTIMO, Introduzione e Metafisica, violenza, secolarizzazione, in
Filosofia '86 cit., pp. Vili ss.; 89 ss.
30 Cfr. R. RORTY, La priorità della democrazia sulla filosofia, ivi, pp. 23 ss.
385 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
viene intesa nei termini di una concezione "procedurale" fondata
sulla reciprocità comunicativa di una razionalità elastica, non
apodittica, permeabile alla metafora; per l'altro, la "positività"
viene invece prospettata come chance di un pensiero capace di
porre interrogazioni radicali aprendo una breccia nella compatta
muraglia delle teologie secolari e delle "visioni del mondo" (o dei
paradigmi) che affollano l'immaginario religioso e scientifico
tecnologico della nostra epoca. Negli spunti più avvertiti del
dibattito, in cui viene a prender corpo questa rinnovata vocazione
radicale della filosofia, il significato deiettivo e quello
emancipativo della secolarizzazione assumono la forma di un
provvidenziale falso movimento 31. Per cui il solo modo autentico,
autenticamente radicale, di intendere la "libertà" del pensiero
dischiusa dalla dissoluzione degli schemi concettuali, edificanti o
salvifici, della tradizione consiste nel suo paradossale ribaltamento in
termini di "necessita' e di "destino". Il compito che così si apre al cospetto
del pensiero o meglio: alle spalle di esso è allora quello di una
rinuncia senza revoca a ogni "compito", a ogni costruzione, a ogni
edificante "modello culturale". Solo dalla rinuncia alla libertà
(illusoria) della Sinngebung, della "donazione di senso" di un
filosofare inteso come coazione incessante a costruire il "mondo"
dipingendolo con gessetti colorati, si apre la chancedi intendere il
pensiero a partire dalla dimensione del destino. Questa dimensione
può essere propria soltanto a quel pensare che si dimostra capace di
fare "attrito" come diceva Wittgenstein con la realtà: non già di
quel pensiero che si rapporta a quest'ultima come a un oggettoda
costruire, come a una "superficie liscia" priva di increspature e di
ostacoli32.
È così che l'idea di destino chiama in causa quella di necessità.
L'autentica "necessità del pensiero" non è la necessità posta dal
pensiero le relazioni che il pensiero oggettiva come "mondo" bensì
la necessità che dà da pensare: quell'attrito originario con la realtà
che spinge il pensare alle spalle, la "scena influente" che ogni
singolo in quanto tale, "gettato" nella vita concreta, si trova a
fronteggiare da solo, con la sua nuda forza e "potenza", una volta
svanite le «nuove figure moderne dell'angelo custode» ("io
trascendentale", "soggetto costitutivo di ogni possibile
esperienza", ecc.)33.
31 Particolarmente significativi, in questo senso, i contributi di S. GIVONE, Oltre
il cristianesimo secolarizzato, e di A.G. GARGANI, L'attrito del pensiero, ivi, pp. 109
ss.; 5 ss.
32Cfr. S. GIVONE, op. cit., pp. 111121; A.G. GARGANI, op. cit., p. 9.
33Cfr. A.G. GARGANI, op. cit., pp. 1820.
I
"IDOLA" DEL POSTMODERNO 386
Solo a partire di qui la filosofia, nell'era della scienza e della
tecnica, potrà fare ritorno a quell'enigma cui da millenni diamo il
nome di "esperienza": a quell'orizzonte che "ci circuisce da
lontano" e che rappresenta la trama eternamente inconclusa del
nostro destino.
Ma tutto ciò non richiede forse al pensiero una nuova atti
tudine positiva, capace di emanciparlo dalla passiva (e parassitaria)
economia della glossa e di proiettarlo, con tutti i rischi e le
potenzialità del caso, verso una nuova dimensione dopo Hegel,
oltre Heidegger?
387 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
CAPITOLO SECONDO
SACER/SANCTUS/SANCTIO SPAZIO DEL
POTERE E MORFOLOGIA DEL SACRO
1. "Auctoritas" e "potestas"
La nomenclatura giuridicopolitica dei singoli idiomi del ceppo
linguistico indoeuropeo è contrassegnata dalla compresenza di
due immagini: energia e spazio, violenza e perimetro. In greco,
non si dà vópos senza uopodema: spartizione e suddivisione
spaziale {yópos proviene infatti da vépeiv, "spartire"). Lo stesso
latino nemus, prima di assumere il significato profano di "bosco",
designava in origine uno spazio sacro delimitato da alberi. Ma se
l'idea di una stabile delimitazione spaziale è ben espressa da
entrambe le nozioni greche di giustizia, Qépis (che richiama altri
termini come Oecrpós, Oéats o anche il sanscrito dharma) e SLKTJ
(che anche per Parmenide tiene saldamente incardinato l'Essere,
non concedendogli né nascita né morte [DielsKranz,28,B.8]), o
dal riferimento alla linea retta comune ad alcuni termini
designanti il "diritto" (tight, droit, Recht), l'immagine del flusso e
della fonte energetica si annida invece come ha documentato,
nelle sue fondamentali ricerche, Franco Corderò nel latino jus.
Corrispondente al vedico yoh, esso adombra una "formula di
salvezza" di origine magicoreligiosa, che segnala la virtualità di
attingere a una riserva simbolica presupposta a ogni uopoOeota,
institutio o ordinamento spaziale (e un sintomo di tale genealogia
è ravvisabile nel verbo jurare, e soprattutto come si è visto in
precedenza [Parte
Seconda, cap. Ili] trattando della "scena influente" soggiacente
alla sovranità hobbesiana nel gerundivo jus jurandum).
La "doppia immagine" ritorna puntualmente nei momenti
costitutivi della simbologia del potere: qui il momento "regale", il
regnum (che consiste, appunto, nel "tracciare segni": per cui
l'espressione «rex regit regiones» significa alla lettera: «il segna
tore segna i segni»), ha a suo presupposto il momento "augurale",
I
"IDOLA" DEL POSTMODERNO 388
È proprio lo sganciamento del concetto di secolarizzazione da
quello "debole" di desacralizzazione (e il suo rinvio all'idea di una
rimozioneripetizione irriflessa dell'origine) a porre l'esigenza di
un riscatto semantico del termine "tradizione". O meglio: di una
nozione postistorica (da intendersi, ormai, nel senso di "trans
I
"IDOLA" DEL POSTMODERNO 390
2. Tradizione e tradimento
della tradizione, ha un significato analogo a quello di «ripetere»
(W. Bacher). E del resto, la stessa idea ficiniana della «renovatio»
come replica feconda della tradizione non è forse intrisa nel
profondo come ha dimostrato Eugenio Garin di elementi della
gnosi ebraica (oltre che di quella neoplatonica)?
3. "Demitizzazione" e duplicazione del Regno: l'impossibile teo
logia politica
L'energia che si sprigiona dal luogo originario della tradizione
non ha tuttavia i caratteri della yvcoms, ma quelli della irr CFTLS:
non è conoscenza, ma fede. Le stesse tradizioni «gnostiche»
tendono a privilegiare, nella trasmissione, la funzione della Voce e
della Parola rispetto a quella della Vista: in contrapposizione al
deoipelv, la TTÌGTIS non è un vedere, ma un udire, un udire
Yinvisibileincono scibile. Le schegge gnostiche raccolte e
tesaurizzate dalla teologia negativa rinnovano in questo senso
una gnosi protocristiana depurata dell'arsenale immaginifico dei
mitologemi (come ha notato Puech, più che una vera e propria
teologia, il corpus gnostico direttamente accessibile a partire dal
1972 grazie alla pubblicazione della Facsimile Edition dei 13
codici di NagHammadi configura un complesso di miti religiosi).
Negli stessi miti gnostici è comunque ravvisabile quella
caratteristica che Kerényi ha riscontrato anche a proposito di
altre mitologie a sfondo religioso: essi sono caratterizzati dal
binomio di vox e res, in luogo della connessioneseparazione di
nomen e res. Il fatto che la struttura originaria della trasmissione
religiosa avesse un carattere orale anziché scritto (ragion per cui
non si dovrebbe enfatizzare troppo il ruolo svolto dalle Sacre
Scritture prima della comparsa della «galassia Gutenberg»: con
buona pace di Hans Blumenberg e della sua solenne
retrodatazione alla Bibbia della metafora plastica del «libro del
mondo») non viene qui segnalato tanto per sottolineare il
carattere fluido, di ermeneutica vivente, delle prime tradizioni
religiose, quanto piuttosto per fissare i caratteri specifici del
rapporto di autorità che quelle tradizioni implicavano.
ILauctoritas su cui si basava il movimento di trasmissione ori
ginario riposava sul nesso di interdipendenza tra fede e affida
mento', la moTLs di Abramo era soprattutto emunah, fiducia. In
virtù di essa si costituisce una catena capace di ricreare l'evento
della fede in una forma che non è quella del progresso cumulativo,
I
"IDOLA" DEL POSTMODERNO 394
ma dell'excursus nella «città terrena»: quod a patribus acceperunt,
hoc filiis tradiderunt (Agostino). In quanto replica da parte dei
singoli dell'esperienza originaria di questo evento, la tradizione
costituisce, come ha osservato Barth, un dato non totalmente
sovrapponibile a quello della Scrittura. In essa si manifesta una
parolaevento che potrebbe essere assunta come originaria
(ancora una volta: non nel senso del Beginn o dell'Anfang, ma in
quello dell' Ursprung) anche da un'angolazione nonreligiosa:
quella del OavpdCciu, dello "stupore" originario per il fatto che il
mondo è. Stupore originario che non è né culturalmente definibile
né linguisticamente esprimibile, poiché sta wittgen
steinianamente a presupposto di ogni forma culturale e di ogni
costrutto linguistico. Se dunque la tradizione, in senso
strettamente religioso, è trasmissione dell'esperienza dell'inde
signabilità di Dio (quale si esplicita, ad esempio, nel De divinis
nominibus dello PseudoDionigi: anonymos), questa stessa parola
evento senza significato, ma tuttavia significativa, in cui consiste
il tradendum dell'escatologia giudaicocristiana, è esprimibile in
termini logici nel paradosso della domanda intorno al meaning of
meaning, al significato di significato.
Accanto alla "storia interna", esiste però anche una "storia
esterna" del rapporto tra i concetti di tradizione e autorità: essa
investe, più precisamente, la relazione che si viene a stabilire tra
Uberlieferung del nucleo soteriologico e potere mondano. Per
questa via, la problematica della tradizione non può evitare di
incrociarsi con quella della storia, e quindi con l'aporia dell'origine
del male.
La trasmissione della verità rivelata è la prima forma in cui si
presenta la storia la "narrazione" nella tradizione escatologica
occidentale. Questa forma è espressa da un termine ebraico:
masal (aramaico: mathla). Esso sta ad indicare il discorso
figurato: paragone, allegoria, simbolo, detto enigmatico. In una
mirabile analisi della forma narrativa neotestamentaria,
Joachim Jeremias ha osservato che il termine napar f3oÀrj ha nei
Vangeli il significato di paragone, simbolo: significato, dunque,
irriducibile al quadro delle figure della retorica greca se non al
prezzo di estraniarsi da quella Formgeschichte dalla quale non si
può prescindere per l'intelligenza della discontinuità tra mondo
classico e mondo cristiano. Ora, la napa/3oÀij si presenta
soprattutto nel Nuovo Testamento (ma la presenza di parabole
GZezc/zmsse è ravvisabile anche in diversi luoghi del Vecchio
Testamento) come figura della storia della tentazione.
Sarebbe proprio questa discontinuità a fondare per Jeremias il
tema ebraicocristiano della tradizione, in un senso escatologico
395 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
4. Ambiguità del sacer
1) Il primo di questi aspetti riguarda la rilevazione dei para
dossi inerenti al moderno concetto di «tempo storico». Enrico
Castelli ha notato al riguardo, in lavori importanti ma non sem
pre adeguatamente valorizzati, come la riflessione moderna sulla
storia non abbia mai problematizzato la nozione di «ieri», per il
semplice fatto che essa ha silenziosamente inglobato il significato
di storia nella tridimensionalità temporale agostiniana e nella sua
contrazione: con la differenza che il Moderno, rispetto al pensiero
che lo ha preceduto, ha da una parte estrapolato la "storicità"
dell'evento (ivi compreso l'evento della presa di coscienza della
storicità stessa della nostra esistenza), mentre dall'altra ha messo
tra parentesi la locuzione "eternità", facendola coincidere de facto
con il movimento storico stesso. Il drastico giudizio di Castelli
potrebbe essere parzialmente integrato con la considerazione che
397 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
le due più complesse e comprensive concezioni ottocentesche del
«processo storico» quella di Hegel e la «filosofia della praxis» di
Marx hanno appunto tentato di ovviare a questa contrazione
interpretando il divenire non come un tempo unilineare, come un
«tempo omogeneo e vuoto», ma come un composto stratificato di
persistenza e mutamento. Questa controobiezione integrativa
non toglie, tuttavia, il paradosso filosofico inerente ad entrambe le
operazioni: e se in Hegel questo paradosso si manifesta nella
grande eresia di un Assoluto (razionale) che diviene, in Marx esso
è ravvisabile nell'attribuzione alla npa^LC di tutte le prerogative
che la ontoteologia metafisica classica assegnava invece alla
TTOÌT\GLC, . Questa traslazione al contrario di quanto hanno
sostenuto, con intenzioni diverse, Augusto Del Noce e Biagio De
Giovanni nelle loro suggestive riletture della «filosofia della
praxis» non prova affatto la "classicità" di Marx, ma piuttosto la
profonda alterazione che egli ha introdotto nel "codice genetico"
della metafisica occidentale ascrivendo al TTpàrreivYe prerogative
della èvépyeia'. con la paradossale conseguenza di attribuire
potenza produttiva, ossia: potenza di verità (nel senso platonico e
aristotelico deìYdÀrjdeLa, disvelamento come produzione nella
presenza), a quell'espressione della "pratica" che la tradizione
classica assegnava alla regione empiricamente delimitata {èp
ireipia viene infatti da neipù), e contiene ad un tempo l'idea del
passaggio e del limite) dell'agire in base alla volizione o al
proponimento. L'interrogativo che una tale traslazione di
significato solleva è se essa non metta capo a un'attribuzione di
una funzione assoluta (di verità), e dunque onnirisolutrice, alla
dimensione storica; e, in seconda istanza, se pertanto
l'interpretazione marxiana della Praxis trasformatrice come
Soggetto della storia (ma, prima ancora di Marx, bisognerebbe
forse citare anche i Prolegomena zur Historiosophie di August
von Cieszkowski) non rientri in quella "infuturante" contrazione
del tempo storico che rappresenta uno degli aspetti più
squisitamente aporetici della visione moderna del «tempo storico».
In altri termini: se è vero che la riflessione più avanzata del
pensiero contemporaneo è quella che s'interroga non più sul
domani, quanto piuttosto sul significato del termine "domani" in
un tempo che sembra aver perduto l'"oggi", è legittimo chiedersi
fino a che punto le concezioni di Hegel e di Marx non siano esse
stesse componenti costitutive di quella dinamica culturale che ha
condotto alla «crisi del futuro».
2) Il secondo aspetto proficuamente investito da un'erme
neutica della tradizione improntata alla teologia negativa consiste
nella rilevazione della interdipendenza o contestualità di due
I
"IDOLA" DEL POSTMODERNO 398
Di qui il riaffacciarsi di interrogativi radicali sulla "natura" del
politico moderno, in termini non molto distanti da quelli
impostati, nel lontano 1907, da Troeltsch quando parlava di «una
caratteristica ambivalenza dell'idea di Stato nel mondo moderno,
da cui derivano correnti di pensiero completamente diverse. Da
un lato, nella sua sovranità, esso è un principio di immanenza
[...], è un principio del razionalismo [...]. Dall'altro lato, però, lo
Stato moderno non riesce a dimenticare la sua origine dal
processo di emancipazione dalla Chiesa, dal supremo potere
spiritualereligioso. Esso si è sì sottratto alla sua supremazia, ma
ha dovuto lasciar sussistere i suoi valori e le sue verità
soprasensibili e universali; li ha rimessi sì nelle loro sfere, ma non
hapotuto [...] sostituirli con la propria essenza. Resta quindi nello
Stato moderno un profondo sentimento della propria insufficienza
rispetto a questo mondo spirituale e della propria limitazione
rispetto alle cose esteriori e mondane» (Das Wesen des modernen
Geistes, GS, IV, p. 303, trad. it. in E. TROELTSCH, L'essenza del
mondo moderno, a cura di G. Cantillo, Napoli 1977, pp. 133134).
CAPITOLO TERZO
IL TACITO CODICE L'ECONOMIA
TEOLOGICA DEL SEGNO
1. Logos e graphé: una dieresi abissale
Scena prima (Socrate e Fedro):
E però chi pensa di affidare l'arte (réx^rj) alla scrittura e chi a sua volta
vi attinge nella lusinga di apprendere, grazie ad essa, qualcosa di chiaro e di
definito, è duna ingenuità senza pari e dimostra di ignorare l'oracolo di
Ammon, perché stima la scrittura qualcosa di più che un mezzo per
rammentare a chi già sa le cose trattate nello scritto. [...]
In realtà, caro Fedro, la scrittura (ypafiif) presenta questo difetto: è cosa
del tutto simile alla pittura. Sai bene che i prodotti della pittura si presentano
quasi fossero vivi. Ma prova a interrogarli: silenzio assoluto. Così pure le opere
scritte. L'impressione prima è che esse parlino come esseri pensanti. Ma, ove
tu rivolga loro qualche domanda di schiarimento di ciò che intendono, non ti
rispondono che una sola cosa, e sempre la stessa (Platone, Phaedr, 275d).
Scena seconda (Agostino e Ambrogio):
Sed cum legebat, oculi ducebantur per paginas et cor intellectum
rimabatur, vox autem et lingua quiescebant (Agostino, Conf. VI, 3,3).
Una dieresi abissale tiene scisse le due frasi sopra riportate.
Distanza teorica, innanzitutto: quella deh'incommensurabile
lontananza tra la svalutazione platonica della ypafirj termine
che significa, al pari di ypàppa, "scrittura" e "pittura" o disegno
(nel senso, ben intuito dal Derrida "grammatologo", di taglio,
incisione, divisione) e l'elogio agostiniano della "tacita lectio",
della reciproca implicazione (e complicità) di scrittura e lettura
nello spazio segreto e silente del "cor".
401 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
2. Re Lear e la "galassia Gutenberg"
La nuova scena è quella del grande "litigio di famiglia" rap
presentato da Shakespeare nel Re Lear e rappresentazione nella
rappresentazione della lettura che ne è stata fornita in quel
celeberrimo libro che è The Gutenberg Galaxy di Marshall
McLuhan. Rispetto a quest'ultimo, l'artificio vorrebbe fungere
incidentalmente anche da esempio di come la fortuna possa
nuocere alla comprensione di un'opera assai più di un insuccesso:
la focalizzazione pressoché esclusiva di un tema di evidenza così
macroscopica come quello del "villaggio globale" (con l'inevitabile
accessorio della critica ai suoi ben noti risvolti ottimistici) ha
lasciato negletto sullo sfondo lo spunto filosoficoantropologico
segreto di questo importante lavoro, che dista ormai da noi un
buon quarto di secolo.
Lo spunto segreto è dato, appunto, dal significato sottinteso
nella rappresentazioneinterpretazione del "litigio di famiglia"
indotto, alle soglie della modernità, dall'irruzione di un nuovo tipo
antropologicoculturale quello dell'"uomo tipografico" nel
tessuto comunicativo fondamentalmente orale della società
tradizionale. Quel litigio non è mera descrizione storica, ma
metafora del nostro presente: oggi ci avverte McLuhan siamo
403 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
a) La suggestione positiva che riteniamo di dover estrarre dalla
nostra reinterpretazione (la cui attitudine "maieutica" si dispone
qui, a dire il vero, in antitesi alle intenzioni di McLuhan) è data
dall'ideaguida per la quale le tecnologie non sono dei meri
strumenti, delle mere protesi, ma piuttosto dei linguaggi
costitutivi di veri e propri cosmi culturali. Come ogni linguaggio
che si rispetti, esse sono connotate da una potenza metaforica.
L'espressione va intesa in senso forte, non debole e generico:
"potenza metaforica" sta qui per virtualità di traduzione
dell'esperienza da una forma in un'altra. In senso eccellente una
tale potenza è incarnata, per la (fravraala alessandrina di Borges,
404
IL TACITO CODICE
dal Libro: il solo artificio tecnologico inventato dall'uomo che non
sia riconducibile a protesi di uno dei suoi organi al modo in cui,
ad esempio, cannocchiale o telescopio sono protesi dell'occhio e
radio o telefono protesi dell'orecchio. L'avvento di una nuova
tecnologia comporta sempre, di conseguenza, il privilegiamento di
un segmento dell'esperienza rispetto agli altri: l'acutizzazione di
un lato o aspetto del sensorium umano e la latenza di altri. Per
questa semplice ma decisiva ragione è impossibile ricondurre la
dinamica delle rivoluzioni tecnologiche alle ottiche ideologiche
tradizionali di "progresso" o "decadenza": mentre occorre,
piuttosto, di volta in volta individuare quali specifiche facoltà del
nostro sensorium siano state attivate e quali invece emarginate,
sacrificate o rese latenti.
b) llaspetto negativo è invece rappresentato dal modo in cui
McLuhan individua gli indicatori culturali differenziali della
"galassia Gutenberg", per un verso, e del "villaggio globale" con
temporaneo, per l'altro: ricondurre infatti la prima a uno spazio
prospettico connotato dal privilegiamento (anzi, dall'isolamento
ipnotico e ossessivo) del senso della vista (fino al paradosso
estremo di un vedere assoluto equipollente all'effetto di
accecamento, secondo la metafora del Re Lear) e il secondo a un
ritorno in grande del senso dell'udito nella comunicazione corale
di una sorta di agorà elettronica, non è infatti che la spia di un
carente approfondimento dello spartiacque fondamentale da cui è
scaturita la civiltà moderna.
3. Great Code e "tacita lectio"
Per evidenziare adeguatamente questo aspetto dobbiamo ora
far ritorno al secondo dei due testi da cui abbiamo preso le mosse:
a quel brano del libro VI delle Confessioni agostiniane già assunto
in contrapposizione paradigmatica al passo del Fedro platonico. A
questo brano (opportunamente evocato da Umberto Eco in una
importante conversazione con Eugenio Scalfari apparsa in
«Duemila/comunicazioni», suppl. de «la Repubblica», n. 273,
19.11.1986 ma già precedentemente fatto oggetto di sofisticata
analisi testuale nel volume di Maria Tasinato, L'occhio del
silenzio, Venezia 1986) intendiamo adesso rivolgerci come a un
momento topico capace di dare espressione compiuta al nucleo
centrale della nostra tesi.
La frase testimonia la sorpresa di Agostino al cospetto della
"tacita lectio" di Ambrogio: «Ma quando [Ambrogio] leggeva, gli
occhi eran condotti per le pagine e l'intimità della mente (cor) ne
scrutava (rimabatur: esplorava, solcava) il significato
405 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
(intellectum), voce e lingua invece stavano in riposo». Lo stupore
che porta Agostino a interrogarsi sulla straordinaria grandezza di
quell'uomo che egli vede «leggere tacitamente, e mai altrimenti»
(sic eum legentem vidimus tacite et aliter numquam) acquista qui
(per il contrasto suggerito con la prassi della lettura ad alta voce
propria di un'epoca ancora immersa nella cultura dell'oralità) il
valore di indicatore di una metamorfosi di immensa portata: di
una «rivoluzione microscopica» (secondo l'espressione di Eco) che
ha generato, molti secoli più tardi, una «mutazione culturale» di
rilievo macroscopico come quella che, alla metà del XV secolo, ha
consentito a partire dalla Bibbia di Gutenberg di diffondere la
civiltà ebraicocristiana del Grande Codice riproducendo i libri
«non più per mezzo di penne, ma col mirabile accordo di stampi e
di forme». Ma dove sta l'essenza di questa silent revolution che
sembra incapsulare in sé il significato profondo di tanti «laici» e
«mondani» sviluppi successivi delle tecnologie e dei codici della
comunicazione grafica: dalla "galassia Gutenberg" all'odierna
rivoluzione informatica e telematica?
Vi è qui un nesso stretto le cui implicazioni paradossali non ci
è dato, per fin troppo ovvie ragioni, approfondire in questa sede
tra interiorità della lettura (intesa come rapporto "privato",
assolutamente esclusivo, con il libro: come monopolio individuale
dell'interpretazione, della decifrazione del codice in esso
consegnato) e priorità del principio praticoattivo della m~ (JTIC,
(della fede in quanto facoltà di udire l'invisibile in virtù
dell'introiezione): nesso che si contrappone diametralmente alle
coordinate classiche rappresentate dalla conoscenza attraverso
la socializzazione del Logos e dal principio contemplativo del
OeojpeLu (della teoria in quanto «visione» o approdo all'«evidenza»
della Verità) e che costituisce la radice profonda di quella
Coscienza Morale che (come hanno ampiamente documentato
Reinhart Koselleck in Kritik und Krise e Jùrgen Habermas in
Strukturwandel der Òffentlichkeit) farà le sue prove in epoca
illuministica per esplodere a cielo aperto nel grande teatro della
Rivoluzione francese.
Su questo nesso come sulla cesura abissale che separa i due
ordini di discorso della classicità grecoromana e della modernità
di matrice giudaicocristiana anche riguardo alla questione del
Segno (oltre a quella del Tempo, sulla quale ci soffermeremo nel
prossimo capitolo) occorrerà ancora molto riflettere e molto
lavorare, se si vorrà venire a capo degli "stili di razionalità" di un
mondo che sembra sempre più modellarsi secondo il presagio di
Pascal: non vertici ma punti di fuga prospettici, non centri ma
sequenze lineari di momenti, non rigide strutture ma codici
flessibili di "perf ormatività".
406
IL TACITO CODICE
Ma se non ci si accontenterà del flebile immaginario delle varie
«antropologie del quotidiano» e «sociologie dell'emergenza» oggi in
voga (con i loro edificanti "politeismi" e "ritorni neopagani"), è a
quel momento topico che si dovrà riandare per rinvenire la radice
dell'odierna Sovranità del Codice e della Decifrazione: allo stupore
di Agostino per la lettura silenziosa di Ambrogio.
È lo stesso Platone, del resto, a fornire la riprova di questa tesi
allorché muove al dio Hermes l'accusa di aver provocato un
impoverimento di senso dell'essere in altri termini: una vera e
propria deflazione ontologica con l'invenzione di quella ypa<pr]
(di quel disegno, di quella cesura) che esonerava gli uomini dalla
memoria: dalla fatica (ma anche dalla peculiare esperienza) del
"rammentare". E infatti: l'ingresso di Hermesdio della scrittura
(padre dell'ermetica, piuttosto che dell'ermeneutica) non è forse
associato, presso i Greci, al calare del silenzio? E lo stupore di
Agostino non starà, allora, proprio nel con
407 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
statare la presenza di questo dio tanto inviso ai filosofi nella tacita
lectio del grande e pio Ambrogio?
SOMMARIO: 1. Aporie dell'attualità. 2. Paradossi del tempo. 3. Strani anelli.
4. Spiegazione e narrazione. 5. La temporalizzazione della "catena
dell'Essere". 6. Le istituzioni della contingenza. 7. L'arco, la freccia, il
campo. Dalla temporalità asimmetrica allo spaziotempo dell'esperienza.
1. Aporie dell'attualità
Un serio assillo urge alle spalle della recente, rinnovata for
tuna della "questione del tempo". Non vi è dubbio che tale que
stione formi sempre più consapevolmente il presupposto sog
giacente alla propensione "dromologica" che sembra sempre più
caratterizzare tutti gli schemi diagnostici della società contem
poranea che ci vengono oggi zelantemente prospettati: "velocità" e
"accelerazione" ne costituiscono infatti i lemmi ricorrenti.
E, tuttavia, è impossibile sottrarsi all'impressione che questo
ritorno in grande della Zeitfrage in tutte le "discipline" del sapere
(dalle scienze naturali a quelle della cultura) abbia trascinato con
sé un fardello fin troppo pesante di effetti negativi, ravvisabile
soprattutto nella sterminata moltitudine degli equivoci generati
dal diffondersi dei luoghi comuni: di tópoi, come si vedrà, niente
affatto recenti, ma ampiamente diffusi già nel "crinale di secolo"
tra Otto e Novecento.
34I temi del presente capitolo si trovano più ampiamente sviluppati in specie
per quanto concerne l'ultimo paragrafo nel mio volume Minima temporalia.
Tempo Spazio Esperienza, Il Saggiatore, Milano 1990.
15. G. MARRAMAO: Dopo il Leviatano.
409 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
fattoretempo parrebbe pertanto un inutile dispendio energetico,
un'operazione perfettamente disperata. È stata, del resto, proprio
la difficoltà di venire a capo sullo stesso terreno dell'analisi
empirica di alcuni problemi concernenti la dinamica di
mutamento della società industriale (e postindustriale) a
suggerire ai sociologi più sensibili, come ad esempio Alain
Touraine, uno spostamento (non solo di zona, ma anche di grado)
del fuoco tematico della propria indagine dal binomio ordine
conflitto alla ancora più basilare questione: «comment avonsnous
inventé la modernité?». Ma ascoltiamo per intero l'affermazione
del sociologo francese, tratta da un saggio del 1981
significativamente intitolato Une sociologie sans société: «La
question qui domine les sociétés industrielles n'est plus: comment
l'ordre social fonctionnetil? Mais: comment avonsnous inventé
la modernité? Pourquoi l'Europe occidentale estelle devenue le
berceau du progrès, de la revolution industrielle, de la conquète
de la nature par l'homme?» !.
Di fronte al mutamento prospettico operato da una sociologia
critica che, da alcuni anni a questa parte, ha iniziato a
confrontarsi seriamente ossia su un piano non astrattamente e
astrusamente metodologico con gli approcci neostrumentalisti,
neofunzionalisti e sistemici, aggredendo senza esitazione il tema
delle origini della Modernità europea, trovo francamente fuori
luogo (per non dire patetiche) certe pretese di superiorità o di
autoconsistenza insulare avanzate dalla filosofia. La rilevazione
dell'attitudine diffusa alla "chiacchiera" sul tempo, cui prima si
accennava, non può costituire un alibi per "buttar via il bambino
con l'acqua sporca", disconoscendo alcune importanti novità che
effettivamente hanno luogo in altre dimensioni della ricerca. E
poi: siamo proprio sicuri che la filosofia detenga oggi il copyright
dell'autentica definizione
1
«La domanda che domina le società industriali non è più: come funziona
l'ordine sociale? Bensì: come abbiamo inventato la modernità? Perché l'Europa
occidentale è diventata la culla del progresso, della rivoluzione industriale, della
conquista della natura da parte dell'uomo?».
di Tempo? Siamo davvero soddisfatti dell'equazione heideggeriana
tra il Sein e la Zeit, T'essere" e il "tempo"? Siamo proprio convinti
che essa rappresenti un "punto d'approdo", anziché l'avvio di una
riflessione tutt'altro che scontata e, soprattutto, tutt'altro che
esente da incongruità e aporie? A ben guardare, la stessa
celeberrima e citatissima frase che troviamo nel
quattordicesimo capitolo dell'XI libro delle Confessioni agostiniane
(«si nemo ex me quaerat, scio, si quaerenti explicare velim, nescio»)
411 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
dovrebbe fungere per noi assai più da moltiplicatore di incertezze
e di stimoli problematici, che non da rassicurante sostegno di
astratte equazioni: essa suona, infatti, piuttosto come una
dichiarazione di impossibilità che come fundamentum
inconcussum di una positiva definizione. Tanto è vero che
Edmund Husserl, nell'introdurre le sue lezioni sulla "coscienza
interna del tempo" dell'anno 1905, fa osservare come la ripresa
delle riflessioni contenute in quelle mirabili pagine debba
muovere da una lucida consapevolezza delle insormontabili
difficoltà racchiuse nella Zeitfrage, sulle quali Agostino si era
«affaticato fin quasi alla disperazione». L'aver rimosso o
dissimulato la paradossale fecondità della disperazione agosti
niana costituisce, viceversa, il motivo profondo per cui «in questa
materia i tempi moderni, tanto orgogliosi del proprio sapere, non
hanno eguagliato l'efficacia con cui la serietà di questo grande
pensatore aggredì il problema, né fatto progressi degni di nota».
2. Paradossi del tempo
Ma in cosa consiste, più specificamente, il paradosso implicito
nella "questione del tempo"? Sulla scia delle Confessioni, Husserl
risponde che essa risiede in una enigmatica compresenza di
naturalezza e innaturalezza, ovvietà e inesplicabilità. Detto
altrimenti: quella stessa esperienza del tempo che, sul piano del
vissuto, ci appare evidente ai limiti dell'ovvio, sul piano
dell'analisi delle componenti costitutive della sua "coscienza
interna" e della sua determinazione concettuale, sembra invece
porci ostacoli insormontabili. Ma leggiamo direttamente il passo
saliente dellIntroduzione husserliana alle Lezioni di Gottinga:
Naturalmente, cosa sia il tempo, lo sappiamo tutti: è la cosa più notoria di
questo mondo. Tuttavia, non appena facciamo il tentativo di renderci conto
della coscienza del tempo, di porre nel oro giusto rapporto il tempo obiettivo e
la coscienza soggettiva del tempo, di renderci comprensibile come l'obiettività
temporale, e quindi l'obiettività individuale in genere, possa costituirsi nella
coscienza soggettiva del tempo, anzi, non appena tentiamo di analizzare la
coscienza puramente soggettiva del tempo, l'importo fenomenologico dei vissuti
di tempo, ecco che ci avvolgiamo nelle più strane difficoltà, contraddizioni,
confusioni.
(che pure ne curò la pubblicazione della prima "mappa" quasi "al
seguito" di Sein und Zeit, sulT"Annuario" fenomenologico del
1928) per fissare alcuni interrogativi.
Interrogativi essenzialmente riconducibili a due distinti aspetti
problematici. Il primo di essi si connette a un avvertenza di ordine
generale: non si dà, in filosofia, alcuna "grammatica generativa"
della nozione di tempo. Questa è l'inesorabile conseguenza da
trarre ove si assuma in pieno la serietà della "disperazione"
agostiniana. In altri termini: se per filosofia si intende una
prestazione del pensiero volta alla definizione concettuale (e non
un'attitudine meramente impressionistica o evocativa), non si
dovrà concludere che essa è impotente a localizzare la scaturigine
del suo assillo più originario, che investe per l'appunto la natura
del tempo? Domanda cruciale, che tiene sullo sfondo un'altra "x",
un'altra grande incognita del pensiero occidentale (che invece
occupa il centro di riflessioni filosofiche "altre" rispetto alla
tradizione d'Occidente): il tema dell'esperienza e della sua
famiglia di significati.
Il secondo concerne invece, in senso più specifico, il ruolo lo
Stellenwert, o "valore posizionale", direbbero i tedeschi svolto dal
fattoretempo nella vicenda di quello che Max Weber chiama
Yokzidentaler Rationalismus. E a tale riguardo la "chiacchiera"
sociologica del secolo cela un complesso bagaglio problematico che
non merita certo lo scherno di tanti Filosofisacerdoti: per quanto
questa chiacchiera possa essere scaduta in insopportabile tiritera
di luoghi comuni, per quanto essa abbia potuto prendere le
sembianze di "infinito intrattenimento", sarebbe opportuno non
dimenticarsi che anche il theatrum philosophicum esibisce una
ragguardevole folla di idola. Mi rendo certo ben conto della
difficoltà di tenere una posizione filosofica come quella che mi
accingo ad enunciare. Ma perché mai occorre chiedersi
dovrebbe essere meno radicale una filosofia che, prendendo le
dovute distanze tanto dall'apologia "decostruzionistica" del dato o
dall'abbandono "debolista" alla deriva dell'esistente quanto dal
sovrano disprezzo "apocalittico" o "tragicista" della quotidianità, si
disponga "foucaultianamente" (ovverosia: reimpostando,
correggendo e sviluppando il discorso lasciato interrotto da
Foucault), ad «aprire la porta, spalancandola, alla chiacchiera di
lato»? Anziché «denunciare il grande oblio che avrebbe inaugurato
l'Occidente», come fanno ossessivamente il neoparmenidismo e
l'heideggerismo epigonico dei "postmoderni", un'opera di seria
filosofia dovrebbe oggi "disprezzare il disprezzo" disponendosi, con
pazienza archeologica, a mettere a nudo come osservava
Foucault presentando Différence et répétition di Deleuze tutta
413 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
3. Strani anelli
coefficiente marginale nel suo rovescio prospettivo: la rimozione
del Chronos, la coazione a neutralizzare la serie cronologica
rendendola perfettamente reversibile. Per questa decisiva ragione
tutti i modelli autoreferenziali tendono ad assumere una
configurazione paradossale: dal teorema di Godei al codice del
DNA, dall'insiemistica di Cantor al paradigma sistemico in
biologia (Bertalanffy) o in sociologia (Luhmann).
Ma in che cosa consiste precisamente il paradosso dell'auto
referenza? Per azzardare una risposta, comincerò con l'evocare
quella frase stupenda di Wittgenstein, che si trova nella prima
versione (1930) della Prefazione alle Philosophische Bemerkun
gen: «Ciò cui si può arrivare con una scala non mi interessa». Il
senso profondo dell'asserzione sta in ciò: se al luogo cui voglio
pervenire si potesse accedere solo salendo per una scala, solo
ascendendo per una piramide di proposizioni al cui vertice è
collocato un assioma, allora devo desistere dal raggiungerlo.
«Infatti», osserva ancora Wittgenstein, «dove debbo tendere
davvero, là devo in realtà già essere». I modelli autoreferenziali
sembrano idealmente replicare a questo appunto: e se, andando
su per la scala, noi scoprissimo che l'ultimo gradino della scala
stessa in realtà è il primo? Avremmo in tal caso l'immagine di
quello «strano anello d'eterna ghirlanda» con cui Douglas Hof
stadter, nel suo fin troppo fortunato Godei Escher, Bach, intende
raffigurarci la vertigine dell'autoreferenza. Ma come si è pervenuti
a questa dominanza del motoaluogo "anulare" in un'epoca che
sembra, in tutte le sue manifestazioni, esaltare la "dromomania",
l'ossessione della velocità?
Ancora una volta ci troviamo al cospetto di una domanda
cruciale, che i filosofi farebbero bene a non disdegnare per il
semplice fatto che i tentativi di risposta sono venuti, in questi
decenni, da altre "discipline", come la socioantropologia e la storia
sociale della mentalità. Nei miei lavori degli ultimi anni mi sono
visto costretto proprio per venire a capo di alcuni problemi strido
sensu filosofici a prendere atto dei risultati di indagini condotte
su dati impuri o "obliqui" rispetto alla meccanica concettuale cara
alla filosofia tradizionale: dalle immagini del mondo forgiate dal
senso comune agli stessi materiali artistici o letterari. D'altronde,
se metafore, analogie e similitudini formano ormai oggetto, e a
pieno diritto, della teoria e della storia della scienza, perché mai
dovrebbero essere espunte dalla "teoresi" filosofica? Il loro studio
appare, infatti, decisivo al fine di rintracciare continuità e
passaggi, scarti e differenze, che sfuggono non soltanto alla
tradizionale storia eticopolitica, ma alla stessa storia sociale, o ad
una storia delle mentalità che non tenga adeguatamente in conto
415 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
4. Spiegazione e narrazione
Per meglio illustrare il mio punto di vista, opererò una tem
poranea deviazione di rotta, puntualizzando alcuni aspetti meto
dologici assolutamente preliminari alla comprensione della que
stione "sostantiva" del tempo nella Neuzeit. Se è vero come ha
giustamente notato Alasdair Maclntyre in After Virtue (1981) —
che «la visione del mondo contemporanea è in misura predo
minante [...] una visione weberiana», è allora indispensabile che le
nostre idee relative a questa visione siano, per quanto è possibile,
sgombre da equivoci. Quali finalità si prefigge Max Weber,
quando, di fronte allo stallo del dibattito tedesco sul metodo delle
scienze storicosociali, riprospetta un modello di conoscenza retto
da una struttura nomotetica? Si tratta di una questione assai
meno remota dalla Zeitfrage di quanto non si creda: essa rimanda,
MODERNITÀ E ESPERIENZA DEL TEMPO 416
infatti, al ruolo che la scienza storica deve assegnare all;"evento"
rispetto alla "struttura". Ora, io non credo affatto che quello di
Weber fosse un intento "riduzionistico": né nel senso (anteriore)
del positivismo ottocentesco, né in quello (posteriore) del
neopositivismo del Wiener Kreis. Non credo, cioè, che la sua
intenzione fosse quella di un ripristino della tradizionale
supremazia gerarchica della deduzione e della spiegazione causale
a discapito dell'individualità "evenemenziale". Al contrario.
Stabilire un criterio rigoroso di "legiferazione" atto alla
rilevazione delle regolarità e delle reiterabilità rappresentava,
per lui, il solo modo non mistificante di distinguere ciò che è
"eventualità" e individualità effettivamente irriducibile da ciò che
non lo è o lo è solo per aspetti molto limitati e parziali. Il motivo
della scarsa fortuna avuta dal weberiano "discorso sul metodo"
all'interno delle discipline storiche (certo molto inferiore
all'influenza esercitata su altre scienze sociali, come la sociologia e
la politologia) risiede, a ben guardare, proprio in questo equivoco
di partenza. Ma quel che più importa è che il malinteso sembra
riverberarsi anche sui dibattiti più recenti: ivi compreso quello
relativo ai rapporti tra modello narrativo e modello esplicativo.
Sono, infatti, convinto che il rischio profilatosi in questa
discussione (che è venuta coinvolgendo, oltre alla storiografia,
anche altre discipline come la sociologia e la psicoanalisi) sia
quello di una riproposta, attraverso la coppia spiegazione
narrazione, della stessa dicotomia che era stata, fino a pochi anni
fa, prospettata tra sapere scientificodeduttivo (fondato sulla
potenza della ragione anatomica) e sapere semeioticoindiziario.
Più precisamente: il rischio consiste nello scambiare per
alternativa quella che, in realtà, è e nella storia dell'Occidente è
sempre stata una topologia. Questa topologia ha la sua costante
in una configurazione di tipo verticalegerarchico: ragion per cui
la distribuzione delle rispettive funzioni del sapere nomologico e
del sapere intuitivoindiziario è venuta a corrispondere a quella
tra profilo "alto" e profilo "basso" dello stesso sapere.
Anche questa tesi ovviamente, come tutte le semplificazioni,
non è in grado di fornire una rappresentazione adeguata della
realtà. È evidente, infatti, che la rilevazione di una costante nella
distribuzione topologica e gerarchica delle funzioni conoscitive
non può non lasciare impregiudicati i profili formali, le
articolazioni determinate che la questione assume sia sul piano
sincronico che su quello diacronico. Vale a dire: sia le particolari
caratteristiche strutturali dovute alla combinazione tra le diverse
componenti metodologiche che concorrono a determinare uno
"stile di razionalità", sia le specifiche discontinuità e cesure
417 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
diacroniche che solcano lo sviluppo del "razionalismo occidentale",
costituite da periodiche "revoche in dubbio" (si adotta
deliberatamente un eufemismo: si dovrebbe infatti propriamente
parlare di "sovvertimenti") del predominio del sapere nomologico
inferenziale. Queste "rivolte" hanno generalmente luogo nei
periodi di passaggio da un assetto sociopolitico dell'Ordine (e
socioculturale delle "discipline") a un altro: in quelle che vengono
convenzionalmente etichettate come "epoche di crisi e di
transizione". Ragion per cui non è possibile parlare di sviluppo del
razionalismo (o del nichilismo) occidentale se non nei termini di
una serie nonlineare di "selezioni". L'irenismo metodologico, che
caratterizza gran parte delle attuali ricostruzioni di storia della
scienza, ha spesso e volentieri dissimulato gli antefatti scabrosi di
queste "selezioni": risultato spesso costosissimo di violenti
conflitti tra opzioni culturali che sottendevano diverse o talora
opposte "immagini del mondo". Ed è un merito indiscutibile del
"disincanto" weberiano Tessere riuscito a tenere insieme la
crudezza della constatazione relativa al predominio nell'Occidente
moderno di una determinata forma di razionalità e l'ammissione
della pari dignità e dunque del carattere altrettanto "razionale"
di forme di conoscenza e d'agire diverse dalla Zweckrationalitàt.
Ma torniamo alla "posta in gioco" della querelle su "spiegazione"
e "narrazione". Per afferrare il nocciolo della questione dobbiamo
prima di tutto porci la domanda: come e perché si è giunti dalla
dicotomia spiegazionecomprensione, che aveva segnato il dibattito sino a
Weber e oltre, a quella spiegazionenarrazione? Come si è arrivati, cioè,
a porre la narrazione come polo opposizionale al modello
dell'esplicazione e last not least quanto è legittimo affermare che la
narrazione svolga funzioni antitetiche a (o sostanzialmente
diverse da) quelle della spiegazione causale? Per quanto gli
interrogativi appena sollevati non abbiano certo una portata
esclusivamente metodologica, è sugli aspetti di metodo che
conviene, ancora per un istante, insistere: per non trascinarsi
dietro spiacevoli equivoci o insidiose incomprensioni.
La questione del "tempo narrativo" come dimensione di tem
poralità autentica, di contro alla temporalità inautentica della
spiegazione causale (topos che comincia ad acquistare fortuna
anche in sociologia e in psicoanalisi), era stata affrontata ben
prima che arrivasse la provocazione di Lawrence Stone da
illustri epistemologi e filosofi analitici della storia come William
Dray, Arthur C. Danto e Hayden White. L'esigenza di fondo, che
animava le proposte di questi autori, era quella di superare le
secche in cui si era venuta ad arenare la visione "riduzionista" del
neopositivismo, prospettata dal Cari Gustav Hempel in un celebre
MODERNITÀ E ESPERIENZA DEL TEMPO 418
appena tre anni prima dell'uscita della Critica della ragion pura
di Kant!) era venuta in tal modo a significare un incessante e
"progrediente" sviluppo di energie praticoconoscitive in cui il
SoggettoUmanità si realizza ed emancipa (l'esaltazione della
Scienza operata da quell'altro modello "forte" di razionalità che è
rappresentato dal marxismo, si troverebbe quindi tutta dentro lo
schema di legittimazione illuministico: nell'ambito del quale si
limiterebbe a sostituire il SoggettoUmanità con il Soggetto
Proletariato, erede naturale del resto dell'universalismo
borghese). Lasciando ora da parte la critica da me svolta
ampiamente in altra sede alle conclusioni che Lyotard ritiene di
dover trarre da simili premesse, ciò che mette conto sottolineare è
che la narrazione può intanto adempiere alle sue funzioni
legittimanti, in quanto appare dotata, come e più della scienza, di
una straordinaria carica autoesplicativa, tale da non avere
bisogno di rimandare ad altro che all'efficacia probatoria
dell'intreccio. Per questa precisa ragione, non vedo francamente
come si possa contrapporre la narrazione al modello verticale
della spiegazione causale: la narrazione è quanto di più
arcaicamente e perentoriamente gerarchico si possa immaginare.
In Art and Illusion (1960) Ernst Gombrich aveva notato che la
forma narrativa della rappresentazione implica una coscienza
specificamente storica, in contrapposizione a quella mitica. In
realtà, la potenza simbolica della parola narrante, lungi dal con
trapporsi a quella del mito, appare tutta radicata nello scambio
sotterraneo tra Xóyoc: e /LLVOOC; che segna secondo la nota tesi di
Horkheimer e Adorno l'intero percorso dell'Aufklàrung
occidentale. Non per nulla il problema degli effetti scatenanti che
si producono nell'epoca della secolarizzazione, con il graduale ma
inesorabile sbocconcellarsi dei quadri normativi forniti dalle
"grandi sintesi", è già drammaticamente presente alla riflessione
di un Durkheim o di un Weber. Nel mondo disseminato e
"cacanico" della secolarizzazione la via della narrazione è
preclusa. Musil lo sapeva molto bene: non vi è sapienza narrativa
che sia più in grado di dar senso alla moltitudine eccentrica di
tranches de vie solcate dal contrasto tra la riechezza delle
Kreuzungen e delle Schneidungen degli "incroci" e delle
"intersecazioni" di eventi eterocliti, da una parte, e dall'altra
l'angustia delle nostre effettive possibilità di fare esperienze
"ricche di senso". Che cosa potrebbe mai "narrare" Musil? Quali
vie d'accesso agli "attraversamenti" che non si compongono mai
in "intrecci" potrebbe dischiudergli la Narrazione? Der Mann
ohne Eigenschaften è un romanzo "incompiuto". Et pour cause:
esso sancisce, infatti, con l'impossibilità del tempo narrativo,
421 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
5. La temporalizzazione della "catena dell'Essere"
E va da sé che i tratti salienti di questo processo non sono soltanto
quelli politicoistituzionali, costituiti dall'introiezione, da parte
dello Stato postrivoluzionario, della triade libertéégalité
fraternité come nuovo schema di legittimazione, ma anche quelli
più squisitamente etici e socioculturali: basti pensare alla
«purificazione dello spazio pubblico», di cui parla Alain Corbin
nella sua Storia sociale degli odori, che fornisce le condizioni e, in
un certo senso, i prerequisiti antropologici della saldatura tra
morale e public opinion così tipica delle democrazie industriali
contemporanee. Sta qui, beffardamente, il punto magico
d'intersezione tra "principio speranza" e "principio repressivo" in
cui si forgia la condizione moderna. Intersezione che, come aveva
precocemente intravisto Tocqueville, assume ai giorni nostri le
sembianze di una "massa critica", che dà luogo a un'opprimente
patologia del vivere: penso, soprattutto, a quelle pagine della
Démocratie en Amérique in cui si stigmatizza «la specie di
oppressione che minaccia i popoli democratici», un'oppressione di
cui sarebbe vano ricercare antecedenti nei nostri ricordi, e a
definire la quale non soccorrono più antiche parole come
"dispotismo" e "tirannide".
Ora, mentre in genere questa patologia viene affrontata "a
valle", per cui si parla di controfinalità o "effetti perversi" della
modernizzazione (termine spesso disinvoltamente adoperato come
sinonimo di Moderno), occorre compiere uno sforzo per cercare di
pensarla "a monte", penetrando il meccanismo che l'ha prodotta.
Ma è proprio a chi vuole far ciò che i paradossi del tempo si
rivelano ineludibili. Tale esigenza s'impone su un duplice piano: a )
su quello specifico, concernente il fenomeno della
"temporalizzazione" dello spazio storico, e b ) su quello generale, che
investe la questione della pur "epocale" delimitazione di campo
costituita dal "razionalismo occidentale" (weberianamente inteso)
o dal nichilismo (nietzscheanamente e con marcati distinguo
heideggerianamente inteso). Li considererò nell'ordine in cui li ho
appena enunciati, per poi tirare le fila dell'intera riflessione.
6. Le istituzioni della contingenza
e trasforma la catastrofe della storia in una trionfale «catena di
eventi», rappresenta il fattore che ha espropriato gli uomini non
solo del passato (ridotto a «immagine eterna», neutralizzato in
«patrimonio culturale») ma della stessa dimensione del futuro.
Benjamin avrebbe probabilmente sottoscritto la proposizione con
cui Raymond Queneau apre Un histoire modale: «I popoli felici non
hanno storia. La storia è la scienza dell'infelicità degli uomini».
Con la differenza che, per lui, la via d'accesso alla comprensione di
questa infelicità non può essere data da una mitopoiesi narrativa
(e, dunque, da un'«abdicazione neostoica alla coscienza storica», à
la Lowith) bensì da una rappresentazione ipermoderna, la cui chiave
concettuale si trova depositata proprio nell'ultima tesi, la
diciottesima: il fatto che la Torah vietasse agli ebrei di investigare
il futuro, istruendoli invece alla memoria, non vuol dire affatto
che il futuro diventasse per loro un «tempo omogeneo e vuoto». Al
contrario, ciò costituiva la sola condizione per rappresentarsi il
futuro come un tempo all'interno del quale «ogni secondo era la
piccola porta da cui poteva entrare Messia». Non è, forse,
depositato qui anche il motivo profondo della passione
benjaminiana per il barocco? Questa "passione" non è, in realtà,
che l'interfaccia della sua accanita ostilità nei confronti della
tirannide del metodo: alla memorizzazione coattiva e ordinata che per
un verso s'infutura, per l'altro riduce il passato a una galleria di
ritratti, egli oppone quel barocco che nei labirinti alessandrini
delle biblioteche ricerca le pieghe più sottili di una realtà
umbratile e dispersa, la cui molteplicità complica tutti i possibili
quadri sinottici. Il collezionismo barocco appare così metafora di
un Moderno attraversato da una tensione perenne come ha
notato Starobinski a proposito della celebre querelle sulla
"melanconia" tra il polo della tesaurizzazione e quello dell'invenzione:
anche nel senso di inventio retorica.
È un aspetto decisivo, che illumina in controluce il senso della
celeberrima, e fin troppo chiosata, sesta tesi. Quando Benjamin
ammonisce che «solo quello storico ha il dono di accendere nel
passato la favilla della speranza, che è penetrato dall'idea che
anche i morti non saranno al sicuro dal nemico se egli vince e
questo nemico non ha smesso di vincere», egli allude a una
prerogativa molto particolare di quello "storico": che non è né
quella di spiegare né quella di narrare, bensì quella di rappre
sentare. Solo quello storico che è capace di produrre la Darstellung
che "salva" l'evento dalla neutralizzazione operatane dalla
spiegazione e dalla narrazione solo quello storico è in grado di
svelare iìvolto di Giano che presiede alla patologia dei moderni, rendendo
visibile come Futurismus progressista e neutralizzazione del passato
427 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
7. L'arco, la freccia, il campo. Dalla temporalità asimmetrica allo
spaziotempo dell'esperienza
gioco" sembra essere semmai quella di un'alternativa radicale alla
dipendenza moderna dall'ossessione del tempo. E se la radice di
questa dipendenza risiede come si è precedentemente visto in
una unilateralizzazione e indebita estrapolazione della categoria
tempo, il détour può essere dato soltanto da una fondamentale
revoca in questione di un'intera tradizione filosofica che ci ha
abituati a considerare ovvia, senza alcun beneficio di inventario,
l'antitesi di tempo e spazio.
Sotto questo profilo, acquista per me un valore quasi simbolico
la differenza prospettica che intercorre, nel modo di impostare il
nesso esperienzatempo, tra Bergson e Baudelaire. Prima facie,
anche quest'ultimo sembra privilegiare la dimensione temporale:
la «vibrazione sensibile», che coinvolge all'unisono gli oggetti come
i pensieri, appare come una dinamica del vissuto protesa verso il
futuro. Per questa via la sua visione ha potuto essere
superficialmente assimilata a quelle di Bergson e di Proust. In
realtà, basta dar mano a una sinossi appena accurata tra la
componente poetica e quella saggistica della sua opera perché si
sfati come un miraggio l'equivoco latente in questa frettolosa
omologazione. A Baudelaire non interessa affatto stabilire
un'identità essenziale del tempo, ma piuttosto suggerire che la
profondità dello spazio fa tutt'uno con l'« allegoria della profondità
del tempo». Ma una tale contestualità è intanto possibile, in
quanto il tempo baudelairiano si è spogliato di tutte le sue
prerogative squisitamente temporali (successione, cambiamento,
discontinuità, irreversibilità) per assumere qualità propriamente
spaziali. Per il semplice fatto di costituire una dimensione reale
dell'esperienza umana, il tempo vissuto non può assolutamente darsi
indipendentemente dallo spazio. Ed essendosi in tal modo spazializzato il
tempo, tutta l'esperienza vissuta appare come spazializzata. Anzi:
identica allo spazio. Lo stesso tempo può rendersi propriamente
visibile, essere percepito ed esperito, solo come una delle dimensioni
dello spazio, che viene pertanto complessivamente a coincidere con
la stessa estensione dell'esistenza: «Giungendo a provare la
sensazione dello spazio», ha osservato Georges Poulet,
«Baudelaire perviene a provare la sensazione del tempo come la
medesima sensazione; bisogna intendere questo tempo nel senso
di Bergson, cioè tempo vissuto, con questa sola differenza, essenziale
però, che, per Baudelaire, il tempo vissuto non è il contrario, ma
la stessa cosa dello spazio. Nell'esperienza baudelairiana tempo
vissuto e spazio vissuto sono l'uno l'esatto analogo dell'altro».
Nulla di più lontano, dunque, da Bergson. Ma, al tempo stesso,
«nulla di più differente dalla visione retrospettiva di Proust,
sempre limitata, intermittente e frammentaria. Nei suoi momenti
429 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
in questo senso, di gran lunga la nozione di "tempo vissuto" di
Bergson: non più Spazio come morte del Tempo, estinzione della
sua fluente autenticità nel rigore esclusivo della misurazione
cronometrica, ma spazializzazione come conditio sine qua non per
poter fare esperienza, anche ai livelli più minimali e quotidiani, di
quanto ci accade. Come potremmo, infatti, esperire gli eventi della
nostra vita se non li collocassimo, non solo nella memoria o nella
prospezione del futuro, ma anche nel mentre che ci accadono,
all'interno di una scena? Se non fossimo capaci, non solo in stato di
sonno ma anche in stato di veglia, di sognarli? E cos'altro è il
sogno se non come per l'appunto c'insegna quel grande testo
iniziale (e iniziatico) del Novecento che è la Traumdeutung una
messinscena originaria: anteriore alla stessa costituzione
dell'identità, alla stessa distinzione tra "soggetto" e "oggetto" del
conoscere?
Per quanto sia indubbio che, quando Baudelaire parla della
coincidenza tra profondità dello spazio e profondità del tempo, nulla sia più
lontano dal suo pensiero dello spaziotempo scientifico o
cosmologico, ciò non toglie tuttavia che la sua prospettiva possa
trovare espressione adeguata solo attraverso il recupero di un'idea
"aionica" di tempo. E, se il motivo del "campo" e della sua
indeterminata cavità sembra idealmente allacciarsi a quel passo
del Timeo in cui si parla di Chronos come di un'icona dell'alcov, come
di un'«immagine mobile dell'eternità», il motivo del "numero"
sembra incontrarsi, in una misteriosa coincidenza, con la celebre
ipotesi del Parmenide in cui l'"istante" (o, più precisamente,
l'istantaneo, €£ai<f)vr\c) viene prospettato come una dimensione
soggiacente alla stessa divaricazione tra "tempo" ed "eternità":
«L'istante. Pare che istante significhi [...] ciò da cui qualche cosa
muove verso l'una o l'altra delle due condizioni opposte. Non vi è
un mutamento, infatti, che si inizi dalla quiete ancora immobile
né dal movimento ancora in moto, ma questa natura dell'istante è
qualche cosa di assurdo (dronoc:) che giace fra la quiete e il moto, al
di fuori di ogni tempo ...» (Parm., 156de).
D'altra parte, le acquisizioni della scienza contemporanea non
ci hanno forse segnalato che il piano di realtà costituitosi con
l'origine dell'evoluzione e delle forme vitali rappresenta la
risultante di un evento estremamente improbabile dentro un universo che
non è né attualmente né, forse, potenzialmente alla portata della
nostra mente? E perché mai, allora, 1'"istante" cosmico dovrebbe
essere meno "reale" di quella dimensione così angustamente
domestica in cui siamo abituati e costretti a vivere, e a cui
abbiamo dato l'appellativo di "tempo"?
431 PER UN'ETICA DEL PRESENTE
£ C I A Q G
INDICE
pag.
Avvertenza IX
PARTE INTRODUTTIVA
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
SEZIONE A
IL SOVRANO ASSENTE: LA DOTTRINA DELLO STATO COME "TRI
STE SCIENZA" 3
1. Melancholia politica I 3
2. Melancholia politica II 8
3. "Morte di Dio" e "nuovo politeismo" 16
SEZIONE B
LA DEMOCRAZIA, LA COMUNITÀ E I PARADOSSI DELL'UNIVERSA
LISMO 29
1. Trasparenza democratica e opacità delle differenze 29
2. Il ritorno della comunità 32
3. Cittadinanza e appartenenza 35
4. Etiche in conflitto 39
5. Democrazia e universale sradicamento 42
PARTE PRIMA
VERSO UN NUOVO POLICRATICUS
RICERCHE
CAPITOLO PRIMO
L'ENTROPIA DEL LEVIATANO. QUADRANTE METAPOLITICO 53
1. Gioco di specchi 53
2. Attore e sistema: un'alternativa? 60
3. Strategia e comunicazione 64
4. L'altro lato dello specchio 66
433 INDICE
pag.
5. Società polimorfa, o della sovranità 68 76
introvabile Riferimenti bibliografici
434 INDICE
CAPITOLO SECONDO
POLITICA E COMPLESSITÀ: LO "STATO POSTMODERNO" COME 79
CATEGORIA E COME PROBLEMA TEORICO
1. Crisi di legittimazione e teoria dello Stato: il problema
dell'"ingovernabilità" 80
2. Le categorie del politico nella tradizione postmarxista: cronaca
di un naufragio 93
3. Struttura, evoluzione e mutamento di forma: il "Weber
dimezzato" della Scuola di Francoforte 98
4. Excursus 1. Corporatismo e democrazia collettiva: Neumann e
Fraenkel 121
5. Excursus 2. La "Constitutional Crisis": Neumann e Laski 134
6. Equilibrio, compromesso politico e "dittatura senza sovrano":
la politologia critica di Kirchheimer 147
7.1 confini della razionalità politica: una polemica con Haber
mas e Offe 160
CAPITOLO TERZO
LA VIENNA DI WITTGENSTEIN E LA VIENNA DI BAUER 175
1. Tradizione e innovazione 175
2. Metamorfosi dell'austromarxismo 187
3. Alle origini del "modello consociativo": Stato pluriclasse e
governo di coalizione 198
4. Dalla «grande Vienna» alla «Vienna rossa» 209
5. Democrazia sostanziale versus «democrazia senza qualità»:
la controversia con Hans Kelsen 232
PARTE SECONDA
MODELLI DI ORDINE
IMMAGINI E CONCETTI
CAPITOLO PRIMO
IMAGO MUNDI E ORDINE POLITICO 247
1. L'indagine dei presupposti 247
INDICE
2. "Disincanto del mondo" e "disanimazione della natura"
3. Tra Mach e Cassirer
4. Lex naturalis: analogie e metafore
5. Le radici teologiche della nuova morale
6. L'antropologia negativa del covenant: il nodo Hobbes
7. Etica protestante e morale gesuita
8. Razionalismo e società borghese
9. Franz Borkenau e il dibattito sul Moderno
CAPITOLO SECONDO
SOVRANITÀ: PER UNA STORIA CRITICA DEL CONCETTO
1. Delimitazione semantica del termine
1.1. Puissance absolue et perpétuelle: la versione
giuridica di Bodin
1.2. Artificial man: la versione politica di Hobbes
1.3. Volonté generale: Idi versione etica di Rousseau
1.4. Legiintimus/legitimus: la versione sociologica di
Weber
2. Sovranità come pseudoconcetto: la categoria di
"disciplinamento"
3. Maiestas realis e maiestas personalis: il "doppio
corpo del Re"
4. Costituzionalismo e "potere temperato"
5. Decisione e norma: la deriva dello jus publicum
europaeum Riferimenti bibliografici
CAPITOLO TERZO
L'OSSESSIONE DELLA SOVRANITÀ: PER UNA METACRITICA DEL
CONCETTO DI POTERE IN MICHEL FOUCAULT
1. L'"impensato" della sovranità
2. Il paradosso della decapitazione
3. Il totem del contratto: Hobbes e Freud
4. I rituali della Urszene: Freud e Wittgenstein
5. Il complesso del sovrano
A. Il pattern miticorituale della sovranità. Postilla antro
pologicopolitica pag.
CAPITOLO QUARTO
METAFORE DELLA REGALITÀ: MACCHINA, CORPO, PERSONA 337
1. L'organismo vivente 337
2. L'anomalia del corpo 339
INDICE
3. Corporation sole e complexio oppositorum 341
4. I nomi del Re 344
CAPITOLO QUINTO
STATO SOCIALE: UN OSSIMORO? 347
1. Sozialstaat e Welfare State 347
2. Statodelbenessere e Great Transformation 349
3. Lo "Stato di giustizia" come filosofia politica del Welfare 352
4. Stato di diritto e Stato sociale 354
5. La "Costituzione in senso materiale" e la "deformalizzazione"
dello Stato 356
CAPITOLO SESTO
LA SOVRANITÀ DISSOLTA. A CONFRONTO CON NIKLAS
LUHMANN 3 61
1. Sovranità politica: un "espediente tautologico"?
361
2. La deposizione del modello classico
363
2.1.
Questioni epistemologiche
364
2.2.
Questioni ermeneutiche
366
3. Semantica e struttura
369
4. Archeologia del Moderno e inconscio dialettico
373
5. La nozione di Senso e l'elogio del "parassita"
375
PARTE TERZA
PER UN'ETICA DEL
PRESENTE
PROPOSTE
CAPITOLO PRIMO
INDICE
"IDOLA" DEL POSTMODERNO. SECOLARIZZAZIONE, ESODO, PO
LITEISMO
381
1. La secolarizzazione come "piano inclinato": i limiti della interpretazione
di Lowith
381
2. Alle origini della storia: l'Esodo come sinopsi del processo rivoluzionario
386
pa
g.
3. "Politeismo" e conflitto dei valori: dal "Prinzip Hoffnung"
al "Prinzip Verantwortung"
392
4. Libertà e Destino: dopo Hegel, oltre Heidegger
397
CAPITOLO SECONDO
SACER/SANCTUS/SANCTIO
SPAZIO DEL POTERE E MORFOLOGIA DEL SACRO
401
1. "Auctoritas" e "potestas"
401
2. Tradizione e tradimento
404
3. "Demitizzazione" e duplicazione del Regno: l'impossibile
teologia politica
407
4. Ambiguità del sacer
411
CAPITOLO TERZO
IL TACITO CODICE, UECONOMIA TEOLOGICA DEL SEGNO
415
1. Logos e graphé: una dieresi abissale
415
2. Re Lear e la "galassia Gutenberg"
417
3. Great Code e "tacita lectio"
420
CAPITOLO QUARTO
INDICE
MODERNITÀ E ESPERIENZA DEL TEMPO
423
1. Aporie dell'attualità
423
2. Paradossi del tempo
426
3. Strani anelli
428
4. Spiegazione e narrazione
431
5. La temporalizzazione della "catena dell'Essere"
437
6. Le istituzioni della contingenza
440
7. L'arco, la freccia, il campo. Dalla temporalità
asimmetrica
allo spaziotempo dell'esperienza
444
Finito di stampare nel mese di Gennaio
1995 nella Stampatre s.a.s. di Torino
e d i z i o n i GIAPPICHELLI To r i n o