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Cfr. Lassandari 2010, p. 11. Vedi in materia infra il paragrafo 4.1.

Cfr. Cass. 17.2.1953, in Previdenza e informazione, 1954, p. 64 ss., con nota di Salis.
Cfr. Crisafulli 1954, p. 67.
Si fa riferimento alle leggi 15 febbraio 1974, n. 36; 19 dicembre 1979, n. 648; 9 giugno 1999, n. 172.
Vedi Ballestrero 1979, p. 149.
Cfr. Bortone 1990, p. 17 e Izzi 2005, p. 71.
Propendono allora per una considerazione esemplificativa, quanto all’elenco di cui all’art. 4, l. n. 604 del
1966, Cessari 1967, p. 201; Pera 1967, p. 154; Persiani 1971, p. 674. A proposito invece dell’art. 15, l. n.
300 del 1970, cfr. Assanti 1972, p. 167; Ghezzi 1972, p. 209; Montuschi 1981, p. 24; Panzarani 1980, p.
20; Treu 1974, p. 30. Optano invece, sempre a proposito di quest’ultima norma, per una interpretazione
tassativa Bortone 1990, p. 25; Ghera 1975, p. 403; Triggiani 1979, p. 214. Quanto all’orientamento
dominante in giurisprudenza vedi infra il paragrafo successivo.
Sul licenziamento discriminatorio, successivamente ovvero a commento delle modificazioni dovute alla
legge n. 92 del 2012, cfr. Ballestrero 2012, p. 460; Barbera 2013; Bellocchi 2013; Calafà L 2012, p. 114;
Carinci F. 2013, p. 313; Carinci M.T., 2012, p. 555; Chieco 2014, p. 331; Guariso 2014; De Simone,
2012, p. 606; Marazza 2012, p. 827; Pasqualetto 2013; Tarquini 2013. In relazione invece all’art. 2 del d.
lgs. n. 23 del 2015 vedi Ballestrero 2016; Brino 2015; Carinci F. 2015, p. 69; Carinci M.T. 2015; Cester
2015, p. 32; Marazza 2015, p. 310 ss.; Musella 2015; Perulli 2015, p. 39; Pasqualetto 2015; Recchia
2015; Persiani 2015, p. 393; Scarpelli 2015, pp. 10 e 13; Speziale 2015, p. 21.
Vedi Barbera 2007; Bonardi 2011; Brino 2015, p. 96 ss.; M.T. Carinci 2015, p. 61; Cester 2015, p. 40;
Giubboni 2008 nonché 2015; Marazza 2015, p. 333; Riccardi 2015; Pasqualetto 2015, p. 64; Scarpelli
2015, p. 10; Voza 2015.
In dottrina vedi Montuschi, 1981, 43 ss., che tuttavia precisa come il motivo vada provato «non già
attraverso un esame degli interni e sommersi motivi soggettivi, ma attraverso un’indagine comparativa
che interessi probabilmente una pluralità di situazioni soggettive o di circostanze anche di fatto». Cfr.
pure Isemburg, 1984, 165 e Mazziotti, 1982, 195. In una prospettiva teorica diversa, che tuttavia continua
a valorizzare l’elemento della finalità perseguita in concreto, cfr. pure più recentemente Pessi 1994, p.
445. Contra Ghera, 1979, 348 ss.; Treu, 1974, 120 ss..
Cfr. Corazza 2007, p. 400; Lassandari 2007, p. 168 ss..
Secondo l’art. 1345 c.c. «il contratto è illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo
esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe»: ciò valendo pure per l’atto unilaterale e
pertanto il licenziamento, ai sensi dell’art. 1324 c.c. Ne deriva la nullità del contratto (e dell’atto), in
applicazione ora dell’art. 1418, comma 2, c.c..
Così Lassandari 2007, p. 164. Vedi pure, tra i molti, Scarponi 1989, p. 237 e più recentemente Barbera
2013, p. 160.
Vedi Alessi 1991, p. 196; Ballestrero 1991 e 1992, pp. 16 e 773; Barbera 1991 e 1994, pp. 219 e 55; De
Simone 2001 e 2003, pp. 123 e 731; Izzi 2005, p. 36; Lassandari 2010, p. 49; Mazziotti 1982, p. 193;
Scarponi 1992, p. 50; Vallebona 1989, p. 338. Cfr. inoltre pressoché tutti gli autori citati alla nota 8.
Valorizzano tuttavia anche da ultimo l’elemento soggettivo, a proposito in particolare del licenziamento
discriminatorio, Bellocchi 2003, p. 166 ss. e Carinci F. 2013, p. 320 ss. Cfr. pure Pessi 1994, p. 445 ss.
Vedi Ballestrero 2016; Carinci M.T. 2016, p. 720; Gottardi 2016, p. 729; Scarponi 2016, p. 455; Tarquini
2016, p. 737.
Cfr. C. App. Milano 20.5.2016, n. 579, che, riformando pure su questo specifico profilo T. Lodi
7.7.2014, n. 1558, ord., dedica al tema il solo seguente cenno: «atteso il carattere oggettivo che connota la
“discriminazione”». Vedi le note di Lassandari 2016 e Peruzzi 2016.
Cfr. Lassandari 2010, p. 331.
Cfr. Ventura 1984, p. 91 ss.
Così Izzi 2005, p. 130. Vedi pure Barbera 2013, p. 154; Lassandari 2010, p. 72.
Cfr. rispettivamente il testo dell’art. 4, par. 1, della direttiva 2000/43/CE, in materia di «parità di
trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica» nonché dell’art. 4, par. 1,
della direttiva 2000/78/CE, «che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro», dedicando in particolare attenzione alle discriminazioni in materia
di religione, convinzioni personali, handicap, età, orientamento sessuale.
Vedi pure M.T. Carinci 2016, p. 725.
E’ stato peraltro rilevato, probabilmente a ragione, come sia difficile immaginare quando ciò possa
avvenire, in relazione ad una discriminazione diretta, a proposito del licenziamento ed in riferimento al
fattore di genere: cfr. Carinci M.T. 2016, p. 726, n. 23.
Cfr. l’art. 2, par. 2, della direttiva 2000/43/CE nonché 2000/78/CE. Inoltre l’art. 2, par. 1, della direttiva
2006/54/CE.
Cfr. Chieco 2002, p. 91 e Lassandari 2010, p. 192. Vedi tuttavia pure Izzi 2005, p. 163.
Cfr. l’art. 25, d. lgs. n. 198 del 2006, quanto alla discriminazione di genere. Si veda però anche l’art. 43,
co. 2, lett. e, d. lgs. n. 286 del 1998, a proposito della razza, etnia, lingua, confessione religiosa,
cittadinanza. Sul permanente rilievo del d. lgs. n. 286 del 1998, dopo l’entrata in vigore dei dd. lgss. n.
215 e 216 del 2003, cfr. Aimo 2007, p. 53; Gottardi 2007, p. 6; Lassandari 2010, p. 85 ss.; Nappi 2005, p.
267.
Su cui cfr., più recentemente, Gottardi 2009 nonché Calafà, Nunin e Scarponi 2014.
Vedi Scarponi 2017.
Cfr. Lassandari 2016.
Vedi MT. Carinci 2015, p. 33.
Così Barbera 1991, p. 169 nonché Lassandari 2010, p. 41. Cfr. pure più recentemente Ballestrero 2016,
p. 240; Cester 2015, p. 34.
Vedi pure Guariso 2014, p. 353.
Cfr. l’art. 1, par. 3. Si indica qui, tra gli obiettivi dell’organizzazione, la promozione del rispetto «dei
diritti umani e delle libertà fondamentali di tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione».
L’art. 2 della Dichiarazione dispone che «Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà
enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso,
di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di
nascita o di altra condizione».
L’art. 2, par. 2, del primo Patto dispone che «Gli Stati parti del presente Patto si impegnano a garantire
che i diritti in esso enunciati verranno esercitati senza discriminazione alcuna, sia essa fondata sulla razza,
il colore, il sesso, la lingua, la religione, l’opinione politica o qualsiasi altra opinione, l’origine nazionale
o sociale, la condizione economica, la nascita o qualsiasi altra condizione». Sempre l’art. 2, par. 1, del
secondo Patto prevede che «Ciascuno degli Stati parti del presente Patto si impegna a rispettare ed a
garantire a tutti gli individui che si trovino sul suo territorio e siano sottoposti alla sua giurisdizione i
diritti riconosciuti nel presente Patto, senza distinzione alcuna, sia essa fondata sulla razza, il colore, il
sesso, la lingua, la religione, l’opinione politica o qualsiasi altra opinione, l’origine nazionale o sociale, la
condizione economica, la nascita o qualsiasi altra condizione».
L’art. 14 della Convenzione stabilisce che «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella
presente Convenzione deve essere assicurato senza distinzione di alcuna specie, come di sesso, di razza,
di colore, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale e sociale, di
appartenenza a una minoranza nazionale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione».
Così Vitta 1981, p. 21.
Si ricordano, tra gli Atti adottati dalle Nazioni Unite, la Convenzione internazionale sull’eliminazione di
ogni forma di discriminazione razziale del 21 dicembre 1965, concernente «ogni distinzione, esclusione,
restrizione preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale etnica»; la
Convenzione relativa allo status dei rifugiati, del 28 luglio 1951, nonché degli apolidi, del 28 settembre
1954; la Convenzione sui diritti politici della donna del 20 dicembre 1952 e soprattutto sull’eliminazione
di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna del 18 dicembre 1979; la Convenzione sui
diritti dei disabili del 13 dicembre 2006.
L’art. 1 della Convenzione dispone che «ai fini della presente convenzione, il termine ‘discriminazione’
comprende: a) ogni distinzione, esclusione o preferenza fondata sulla razza, il colore, il sesso, la
religione, l’opinione politica, la discendenza nazionale o l’origine sociale, che ha per effetto di negare o
di alterare l’uguaglianza di possibilità o di trattamento in materia d’impiego o di professione; b) ogni altra
distinzione, esclusione o preferenza che abbia per effetto di negare o di alterare l’uguaglianza di
possibilità o di trattamento in materia d’impiego o di professione, che potrà essere precisata dallo Stato
membro interessato sentite le organizzazioni rappresentative dei datori di lavoro e dei lavoratori, se ne
esistono, ed altri organismi appropriati».
Si ricorda che l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea ha esplicitamente attribuito alla Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea «lo stesso valore giuridico dei trattati». Gli articoli richiamati
costituiscono il Titolo III della Carta, denominato «Uguaglianza». L’art. 20, recante in rubrica
«Uguaglianza di fronte alla legge» dispone che «tutte le persone sono uguali davanti alla legge». Segue
l’art. 21, recante in rubrica «Non discriminazione», ove è sancito il divieto di «qualsiasi forma di
discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale,
le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di
qualsiasi altra natura, l’appartenenza a una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap,
l’età o le tendenze sessuali. Nell’ambito d’applicazione dei trattati e fatte salve disposizioni specifiche in
essi contenute è vietata qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità». Gli articoli seguenti recano in
rubrica «Diversità culturale, religiosa e linguistica» (art. 22); «Parità tra uomini e donne» (art. 23);
«Diritti del bambino» (art. 24); «Diritti degli anziani» (art. 25); «Inserimento dei disabili» (art. 26).
Sottolineano peraltro come l’elenco di fattori discriminatori individuato dall’art. 21 della Carta sia “non
esaustivo”, alla luce dell’impiego dell’espressione “in particolare”, Barbera 2013, p. 148 e Borrillo 2005,
p. 85.
Cfr. la clausola 4 degli Accordi quadro sul rapporto di lavoro a tempo parziale nonché a tempo
determinato, cui hanno dato attuazione le direttive 97/81/CE e 99/70/CE. Si veda inoltre l’art. 5 della
direttiva 2008/104/CE, quanto al lavoro tramite agenzia interinale. Vedi in materia gli articoli 7, 25 e 35
del d. lgs. n. 81 del 2015. Cfr. Borelli 2007; Chieco, 2004, p. 66.
Si veda l’art. 17 del d. lgs. n 81 del 2015, sul lavoro intermittente.
Cfr. De Simone 2001, p. 68 e Gragnoli, 1999, p. 289.
Secondo l’art. 10, co. 1 e 2, d. lgs. n. 276/2003, «E’ fatto divieto alle agenzie per il lavoro e agli altri
soggetti pubblici e privati autorizzati o accreditati di effettuare qualsivoglia indagine o comunque
trattamento di dati ovvero di preselezione di lavoratori, anche con il loro consenso, in base alle
convinzioni personali, alla affiliazione sindacale o politica, al credo religioso, al sesso, all’orientamento
sessuale, allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, alla età, all’handicap, alla razza,
all’origine etnica, al colore, alla ascendenza, all’origine nazionale, al gruppo linguistico, allo stato di
salute nonché ad eventuali controversie con i precedenti datori di lavoro, a meno che non si tratti di
caratteristiche che incidono sulle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa o che costituiscono un
requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa. E’ altresì fatto divieto
di trattare dati personali dei lavoratori che non siano strettamente attinenti alle loro attitudini professionali
e al loro inserimento lavorativo. Le disposizioni di cui al comma 1 non possono in ogni caso impedire ai
soggetti di cui al medesimo comma 1 di fornire specifici servizi o azioni mirate per assistere le categorie
di lavoratori svantaggiati nella ricerca di una occupazione».
L’art. 5, co. 5, di questa legislazione dispone che «l’accertata infezione da HIV non può costituire motivo
di discriminazione, in particolare … per l’accesso o il mantenimento dei posti di lavoro»: la norma è poi
stata dichiarata illegittima da C. cost. 23.5.1994, n. 218, in FI, 1995, I, c. 46, nella parte in cui non
prevede accertamenti sanitari per l’assenza di sieropositività, ove il prestatore debba svolgere attività che
comportino «un serio rischio di contagio» verso terzi. Cfr. Aimo 1996.
Secondo l’art. 4, co. 1, lett. d), d. lgs. n. 196 del 2003, costituiscono «dati sensibili, i dati personali idonei
a rivelare l’origine nazionale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni
politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico,
politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale». Non
vengono qui evidentemente menzionati i soli caratteri immediatamente percepibili e quindi non tutelabili
attraverso la riservatezza, quali ad es. il sesso od il colore della pelle. Cfr. Aimo, 2003 e Chieco, 2000.
Cfr. in materia, oltre agli autori citati alla nota 25, Ballestrero, 1994; Bellocchi 2003; De Simone 2001, p.
64; Dondi 2001, p. 83; Garofalo, Mc. Britton 2000, p. 504.
Mi permetto di rinviare a Lassandari 2010, p. 128. Qui preciso che «la divisione tra razze è …
prospettata sulla base di elementi identitari, suggestivi e nel contempo irrazionalistici, privi come tali di
oggettiva evidenza. Si tratta di distinzione non empiricamente percepibile né scientificamente sostenibile:
la razza appare in definitiva sintesi di caratteri ritenuti propri od alieni, secondo soggettiva idea che
ciascun componente del gruppo (dominante o minoritario) ha del medesimo. Per definirla si ha pertanto
bisogno di ulteriori elementi, come ad es. il colore della pelle, la lingua parlata, l’origine etnica, il rinvio
ai quali risulta tuttavia non sufficiente». Seguono elementi esplicativi ed argomentativi di tale assunto.
Rilevano Bell e Waddington 2003, p. 391, che un ostacolo significativo, rispetto al tentativo di stimare i
tassi di disoccupazione od occupazione delle «minoranze etniche», è stato «individuato nella mancanza di
consenso su chi sia appartenente ad una “minoranza etnica”».
Cfr. Lassandari 2010, p. 43. Qui si distingue con quanto invece avvenuto a proposito del principio di
eguaglianza.
Cfr. pure Ballestrero 2016, p. 237.
Si vedano i testi riportati nelle note 33, 34, 35, 38.
Cfr. la nota 43.
Nel senso che discipline scientifiche ovvero comuni canoni di conoscenza ne consentono
l’individuazione. Si rinvia a Lassandari 2010, p. 104. Cfr. Pure M.T. Carinci 2015, p. 40 ss.
Merita tuttavia una considerazione a parte l’ipotesi del licenziamento discriminatorio del lavoratore a
termine: assunto cioè ai sensi degli artt. 19 e ss. ma anche 4, 34 e 13, del d. lgs. n. 81 del 2015. In tal caso
appare più complesso, anche se non impossibile stando alla lettera del testo, prospettare l’ipotesi di
applicazione della reintegrazione, ai sensi dell’art. 18, co. 1, della legge n. 300 del 1970: disciplina che
conserverebbe rilievo per i lavoratori assunti anche in seguito, considerato che invece il d lgs. n. 23 del
2015 fa esplicito riferimento ai soli «assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato».
Risulta però molto difficile immaginare vicende di licenziamento discriminatorio del lavoratore a
termine, … connesse a tale condizione: cosicché il «principio di non discriminazione» del lavoratore a
termine, nei confronti del «lavoratore con contratto a tempo indeterminato», non pare in concreto
assumere rilievo a proposito del licenziamento. Salve smentite dalla realtà, come non di rado per la verità
accaduto.
Cfr. Lassandari 2010, p. 93.
Vedi Bavaro, D’Onghia 2016, p. 11; Ballestrero 2016, p. 244; Marazza 2015, p. 331, n. 7; Musella 2015,
p. 31; Persiani 2015, p. 395; Perulli 2015, p. 40; Speziale 2015, p. 23.
Cfr. M.T. Carinci 2015, p. 54 ss.; Cester 2015, p. 38 ss.; Musella 2015, p. 32; Pasqualetto 3025, p. 55.
Così M.T. Carinci 2015, p. 35. Cfr. già Ghezzi 1972, p. 213; Treu 1974, p. 33. Vedi pure Angiello 1979,
p. 70; Chieco 2014, p. 340; Isenburg 1984, p. 62; Pessi 1994, p. 445; Ventura 1984, p. 298. L’ulteriore
inferenza argomentativa, sempre dovuta a MT. Carinci, 2005, 2012 e 2015, secondo cui il licenziamento
discriminatorio debba invece essere assimilato al licenziamento privo di giustificazione, a sua volta
integrante secondo la studiosa una ipotesi di illiceità della causa, è rimasta invece isolata in dottrina.
La quale è peraltro a sua volta formalmente recuperabile, ove tuttavia emerga pure l’elemento soggettivo
nonché l’esclusività del fattore, alias (in questo caso) motivo. Cfr. pure Ballestrero 2016, p. 245.
Per una lettura in termini di alternativa delle opzioni ricostruttive vedi tuttavia M.T. Carinci 2015, p. 35
ss. Si ritiene invece che la fattispecie discriminatoria, la quale come tale «costituisce un sottosistema
normativo avente caratteri distintivi propri» (Barbera 2013, p. 148), possa ben rientrare, normalmente e
tipicamente ovvero anche occasionalmente, in ambiti classificatori normativi più ampi: a patto che si
tenga ferma la differenza tra diverse species nonché tra species e genus. In tale prospettiva la
configurazione ipotizzata non impedisce neanche di sottolineare come nell’occasione emerga (pure) un
inadempimento datoriale dell’obbligo sancito dall’art. 2087 c.c.: così Lassandari 2010. Vedi anche
Barbera 2013, p. 168; Del Punta 2006, p. 219; Nogler 2007, p. 610.

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