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IAPh Italia

Federica Castelli

Il pensiero politico di Nicole Loraux


Il pensiero politico di Nicole Loraux
Autrice: Federica Castelli
© 2016 IAPh Italia
via della Lungara, 19
00165 – Roma
Associazione Internazionale delle Filosofe
ISBN 978-88-909578-3-3
iaphitalia.org
redazione@iaphitalia.org
Prima edizione: maggio 2016
Immagine di copertina: Federica Castelli
Impaginazione: Nicoletta Stellino
Indice

Introduzione – Il politico diviso di Nicole Loraux

1. Pensare l’Altro, pensare l’altrove

1.1 Senza ringhiera


1.2 Tra la cité e la polis, Freud
1.3 La politica del mito
1.4 E dunque la politica. La divisione, il conflitto, l’oblio
1.5 Un passo in più. La donna e le fessure della Storia

2. L’Altro, la donna

2.1 L’alterità come dispositivo politico


2.2 Pensare la differenza sessuale ad Atene
2.3 Derealizzazioni
2.4 Ancora sulla derealizzazione

3. Il femminile come operatore politico

3.1. Soffrire come una donna, morire come un uomo. Il


corpo virile tra maschile e femminile
3.2 Tra Omero, Eracle e Platone
3.3 L’operatore femminile

4. Il Politico dell’oblio

4.1 Alle porte sia la guerra. Il fantasma del conflitto e


della divisione
4.2 Il Politico dell’oblio
4.3 Il femminile, il conflitto. La doppia negazione del
politico greco
4.4 Eris e il legame della divisione

Appendice – Atena. Il femminile non è una donna

1. Il femminile divino
2. Atena, dea civica par excellence

Bibliografia

L’autrice
Introduzione – Il politico diviso di Nicole
Loraux

Nel 2003, a pochi giorni dalla notizia della morte


prematura di Nicole Loraux, storica e antropologa
francese, il mondo accademico – e non solo – entrò in un
momento di involontaria vicinanza; in occasione della sua
scomparsa, infatti, non solo le riviste di taglio scientifico,
ma persino i quotidiani, sia italiani che francesi,
dedicarono pagine al ricordo dell’autrice. Tutti – autori
francesi e stranieri, storici, antropologi, filosofi,
antichisti, psicologi, studenti, lettori – si erano uniti, senza
volerlo, in un saluto collettivo, nel ricordo della direttrice
dell’École Des Hautes Études en Sciences Sociales a
Parigi, allieva di Vernant, erede di Gernet. Oggi,
nonostante gli anni di distanza, quel gesto comune di
ricordo e saluto è ancora perfettamente comprensibile. La
ricchezza del metodo, l’audacia del pensiero, il rifiuto
della prudente chiusura nello specialismo asettico e delle
categorizzazioni a compartimenti stagni, la passione
politica che contraddistinguono Nicole Loraux, infatti, non
possono che rimanere impresse nella memoria di chi ha
letto e studiato le sue pagine e risultare, nonostante il
passare del tempo, anno dopo anno, efficacemente attuali.
Le ricerche e gli studi di Nicole Loraux danno vita a un
pensiero dalla stringente attualità e dalla profonda
risonanza politica. Nonostante i suoi studi siano venuti a
concentrarsi su un periodo storico ben definito e collocato
a decisa distanza dalla contemporaneità, l’Atene del V
secolo, gli esiti delle ricerche e le posizioni teoriche che
l’autrice viene ad assumere si rivelano dirimenti anche in
contesti apparentemente inconciliabili rispetto all’Atene
classica – quali, a esempio, il mondo dell’economia e
della politica globale – e riescono a spingersi oltre, fino
ad assumere il valore di un pensiero all’altezza dei più
noti teorici della politica, con il pensiero dei quali
l’autrice entra costantemente in confronto diretto.
Nonostante la sua formazione sembri apparentemente
esulare dagli ambiti della filosofia politica, infatti, Nicole
Loraux elabora posizioni che richiamano, tra assonanze e
distanze, alcune delle teorie politiche più influenti della
modernità: Marx, Schmitt, Weil, Arendt e non solo; il
pensiero di Loraux entra in diretto contatto con le
maggiori riflessioni della politica del Novecento, senza
mai adagiarsi su una prospettiva in modo stabile o
acritico.
La riflessione sul politico sembra nascere naturalmente
dall’intersezione delle varie prospettive disciplinari e
metodologiche che l’autrice costantemente mette in gioco
all’interno delle sue ricerche; se, infatti, si volesse tentare
di individuare la caratteristica più evidente del pensiero
di Nicole Loraux, questa non potrebbe essere individuata
che nella spontanea irrequietezza del pensiero che
caratterizza ogni sua indagine e che rende ogni sua ricerca
unica nel suo genere. Senza mai adagiarsi su alcuna
disciplina accademica, Loraux descrive movimenti
ininterrotti tra la storia, l’antropologia, la psicologia, in
un approccio variegato e ricco in cui tutte le griglie di
comprensione predefinite, così come tutte le rigide
distinzioni accademiche, vengono oltrepassate e fatte
saltare. Ciò che consegue da questa particolare
impostazione è la totale impossibilità di definire Loraux
in modo univoco, impossibilità da cui deriva la ricchezza
di un pensiero che non riesce ad adagiarsi e ad appiattirsi
in nessun luogo predefinito della cultura. In tale
transdisciplinarietà, che polverizza ogni griglia
concettuale, Loraux riesce a sviluppare una pratica di
ricerca fine che dà luogo a un’analisi precisa e raffinata e
dal forte valore sia teorico che pratico. A partire da
questo gioco di saperi, prospettive, suggestioni, nasce un
pensiero vivo che riesce a porsi come leva politica nella
concretezza delle pratiche. Ma non dobbiamo anticipare.
Il movimento che porta il pensiero dell’autrice
dall’Atene classica fino all’attualità più vicina non si
compie, come per alcuni studiosi della scuola storica
tradizionale, in virtù del riconoscimento di un debito che
la modernità intratterrebbe con la dimensione originaria –
almeno in senso normativo – della classicità e della
democrazia ateniese in particolare ma, anzi, viene a
essere elaborato all’interno di una posizione che assegna
alla modernità una totale estraneità ermeneutica rispetto al
V secolo greco. Nell’affermazione “i greci sono altri”,
Loraux racchiude la propria prospettiva metodologica e la
posizione di tutto il panorama della generazione di storici
che, con lei, dagli anni Sessanta del Novecento in poi, ha
messo in atto un capovolgimento dei dogmi e dei canoni
della tradizione storica francese.
Volgendo il proprio sguardo oltre i canoni
dell’accademia e delle istituzioni storiche, Loraux rifiuta
di aggrapparsi a qualsiasi autorità della storiografia
tradizionale, procedendo in un percorso totalmente altro
rispetto alle voce istituzionali della polis. Lontana da
Tucidide, dal restringimento delle fonti storiche ai soli
documenti ufficiali, dal logos cristallino del discorso
civico, Nicole Loraux si addentra nella storia greca
indagando nei suoi recessi, esplorando i suoi non detti,
interrogando l’immaginario sociale. Nasce così un
pensiero mobile, agile, che sa disfarsi del dogma
dell’autorità e dai vincoli delle discipline accademiche;
un pensiero che è puro movimento.
Non esiste una cultura di riferimento precisa, una
griglia concettuale univoca per potersi accostare alle
pagine di Loraux. Ogni conoscenza dovrà essere posta in
relazione ad ambiti nuovi, a nuove informazioni; chi legge
le sue pagine si ritroverà immerso in una pluralità di
prospettive, arricchendo così il proprio sguardo e
liberando la propria mente da suddivisioni mute e
ingannevoli.
Contribuisce all’unicità del metodo dell’autrice anche
quella “doppia lettura” che fa sì che la riflessione sul
politico non si trovi mai a cadere nelle trappole di un
discorso neutro e astrattamente omogeneo, quel
radicamento nella differenza sessuale che porta la donna
al centro dell’analisi sull’ideologia civica ateniese,
mentre questa ne cancella invece l’esistenza. Contro il
pensiero dell’Uno, contro il soggetto unico, Loraux pensa
la differenza sessuale al cuore del politico greco. Chiave
interpretativa, in quanto elemento strutturale, dell’intera
tassonomia sociale, la differenza sessuale rende conto
degli spazi costitutivi del politico che le narrazioni
ufficiali e i resoconti storici lasciano in ombra per far
spazio al discorso unico dell’istituzione politica. In questo
modo, coniugando studio del politico e prospettiva di
genere, Loraux fuoriesce ancora una volta dalle griglie
istituzionali per indagarne i recessi con un’ottica altra.
Nella prospettiva dell’autrice, tenere in conto la
differenza sessuale permette l’accesso a numerose realtà
sociali che si perdono e soffocano nel discorso della
Città. Solo leggendo la storia a partire dalla messa a tema
della differenza si potrà cogliere il politico nella sua
realtà più profonda e nelle sue ambiguità costitutive.
Il pensiero neutro non esiste e così è per la politica,
sempre radicata in un due fondamentale. Al cuore del
pensiero di Nicole Loraux vi è la consapevolezza di una
dialettica irrinunciabile e non risolvibile che porta il
politico a costituirsi in un rapporto senza sintesi tra il sé e
l’altro. Le Même e l’Autre, al centro della riflessione
francese del secolo scorso, vengono ripensati dall’autrice
in modo nuovo, totalmente altro, in cui il politico greco è
polo dialettico in continuo rapporto con la propria
alterità.
I criteri fondamentali di individuazione del politico e
della cittadinanza in ambito greco vengono a essere
elaborati in una logica che sembra procedere sempre per
opposizioni, in cui l’identità del sé si acquisisce tramite la
messa a distanza di ciò che viene posto al di fuori dello
spazio civico. Saranno dunque la differenza sessuale,
l’autoctonia e lo status sociale a individuare il cittadino
come maschio, adulto, libero e autoctono, conferendo così
al politico una precisa connotazione. Sulla base di queste
polarizzazioni viene a definirsi un’immagine dello spazio
pubblico dai contorni netti e dalle caratteristiche
omogenee e unitarie. Il politico greco, infatti, nato dalla
dualità e dalla divisione, si costituisce nel discorso della
polis come logos autentico, unico e totalizzante. Senza
poterla mai negare – pena la perdita della propria identità
– il discorso civico esclude l’alterità mentre la Città –
costruzione identitaria, astratta, ideologicamente connotata
– fornisce un’immagine di sé come realtà unica, come
spazio omogeneo, senza resti e totale. Andres e kora,
uomini e suolo civico, si pongono come determinazioni
univoche della polis. Ciò che ne deriva è una vera e
propria ideologia dell’Uno civico, veicolata dalle
istituzioni e dal discorso ufficiale, che insinua le
rappresentazioni civiche fin dentro l’immaginario sociale
diffuso.
Tra la polis irenica che supera le divisioni e il conflitto
attraverso le proprie pratiche istituzionali, radicata nella
retorica dell’isonomia e dell’uguaglianza garantite
dall’autoctonia dei cittadini, e l’immagine totalitaria di
una città ideologica che tende a soffocare nella
derealizzazione ogni realtà non affine alla propria identità,
la distanza non potrebbe essere più marcata. Lontano dalle
rappresentazioni armoniche e razionali del corpo civico
ateniese, Loraux traccia i contorni di un politico
coercitivo e onnipervasivo, che annulla le differenze –
prima fra tutte la differenza sessuale – in una neutralità
indistinta, ponendosi come realtà univoca. In tale
prospettiva l’ideologia civica ateniese tende a mantenere
con tutti i mezzi l’immagine di unità e coesione costruita a
partire dal due, relegando nella sfera dell’antipolitico
tutte le narrazioni e i luoghi del discorso in cui l’immagine
della città una e in pace con se stessa viene messa in
discussione. Vi sono luoghi, poi, come il teatro, in cui la
messa a tema di ciò che la città respinge al di là dei
propri confini trova luogo di rappresentazione, tramite un
procedimento che ne depotenzia e neutralizza la carica
sovversiva, dislocandola, attraverso la scena, in uno
spazio e in un tempo lontani. In generale, si assiste nella
Città a una sistematica epurazione e negazione di tutto ciò
che può incrinare la rappresentazione politica del logos
razionale e unico riportando alla luce l’alterità sottesa
all’identificazione del politico. Il due viene costantemente
negato e obliato, sia come differenza sessuale,
rappresentata fisicamente e in modo tangibile dalla
presenza della donna nella Città, sia come stasis, la
divisione in fazioni all’interno del corpo civico, la presa
di posizione che spacca in due la Città durante la guerra
civile. La stasis, la guerra intestina, viene negata dal
discorso sull’autoctonia che assegna ai cittadini un legame
di fratellanza naturalizzato, difficilmente discutibile, che
destina il corpo civico nella sua interezza alla
riappacificazione. La stasis, come la donna, mette in crisi
il modello istituzionale; per questo essa viene descritta
come degenerazione, regressione allo stato prepolitico e
alla bestialità. Dal momento che il pensiero greco pensa
la violenza come sempre superata dall’istituzione delle
proprie pratiche politiche, che idealmente mettono
costantemente al riparo la polis da un ritorno della
divisione e dello scontro, la stasis rappresenta una
pericolosa messa in discussione dell’armonia che le
pratiche democratiche e l’isonomia dichiarano di
garantire all’interno del discorso ufficiale. Attuando vere
e proprie pratiche di oblio comandato e istituzionalizzato,
la Città difende la propria ideologia da ogni possibile
crisi. La guerra legittima, polemos, viene posta fuori dal
corpo civico, mentre la Città-una procede lentamente
attraverso le ere, in un tempo eterno di prosperità e pace.
La stasis è ritenuta estranea allo spazio politico, è una
calamità che colpisce la polis dal di fuori.
Allo stesso modo, la realtà sociale della donna viene
negata dal corpo civico attraverso pratiche di esclusione e
de-realizzazione che la privano di un nome e di una
consistenza politica. Presenza problematica in quanto
portatrice di un due inaggirabile – la differenza sessuale –
la donna viene integrata nello spazio politico
esclusivamente in funzione del suo ruolo riproduttivo, con
la quale viene fatta coincidere in quanto donna (di un)
ateniese. Attraverso il mito e le narrazioni, la donna perde
consistenza sociale e politica, rinchiusa in immagini che
legittimano la sua esclusione.
Ciò a cui il pensiero greco aspira è una dimensione
unitaria e armonica in cui tutte le esperienze di differenza
permangano come substrato silente, connotate in modo tale
che la loro materialità e la loro concretezza non possano
mettere in crisi il discorso neutrale. Tale è la logica che
porta l’uomo greco a riappropriarsi e a riassorbire le
differenze costitutive negando loro una realtà concreta.
Nel caso della donna, infatti, si assiste a una negazione
materiale che si accompagna, però, contemporaneamente,
a un continuo tentativo di riassorbimento e appropriazione
del femminile e dell’esperienza della donna. Mentre la
donna viene cancellata dal discorso, il femminile permane
sulla scena del politico, come caratteristica integrante
dell’uomo greco valoroso ed eroico, o del filosofo saggio
e in cerca della verità. Il politico greco integra il
femminile sganciandolo dalla donna, procedendo così a un
soffocamento totale della differenza sessuale
nell’omogeneità dello spazio politico. In tal senso,
l’ideologia civica ateniese trova compimento nella figura
della divinità eponima della Città, Atena, che
collocandosi oltre la differenza sessuale, integrando
maschile e femminile in un He Theòs – laddove il divino,
al maschile, sembra assumere tratti femminili solo in via
contingente nella personalità della dea – realizza l’ideale
di una politica completamente desessualizzata, sganciata
dalle fratture della divisione poiché al di là della
differenza costitutiva, quella tra un uomo e una donna.
Ciò che è sotteso allo studio del discorso politico
greco e dell’oblio che quest’ultimo destina alla divisione
è dunque la presa in analisi dei meccanismi di costruzione
di identità del politico e del suo rapporto con le
differenze; la scommessa implicita tra le pagine di Loraux
è quella di una politica che sappia tener conto dell’alterità
senza negarla, annullarla o riassorbirla, e che sia
consapevole della propria natura ambigua e del proprio
legame con il conflitto e con la divisione, soprattutto con
la divisione tra i sessi, tanto forte e implicita al politico
quanto il legame alla socialità e alla condivisione dello
spazio pubblico.
1. Pensare l’Altro, pensare l’altrove

1.1 Senza ringhiera

Vi è una sorta di resistenza che si incontra ogniqualvolta


si tenti di accostarsi a un testo di Nicole Loraux con la
mente fissa e irrigidita su quelle griglie precostituite che
gli anni di studio ci hanno insegnato ad applicare ai nostri
oggetti di ricerca; in un certo senso, ci si ritrova sperduti.
Il pensiero si trova costretto a saltare tutte le staccionate
delle categorie accademiche senza un attimo di respiro;
ogni disciplina sembra riversarsi in un’altra, il discorso
spazia attraverso tutte le delimitazioni con cui abbiamo
imparato a pensare. Chiunque voglia accostarsi alla ricca
produzione scientifica di Nicole Loraux dovrà tenere
conto di questa impossibilità, di questa ingombrante
difficoltà a inquadrare i suoi percorsi riflessivi all’interno
del rassicurante terreno delle certezze disciplinari e dovrà
saperla volgere in positivo, cogliendo la ricchezza
dell’approccio che tale impostazione riesce a originare.
Si dirà dunque che leggere un testo di Nicole Loraux sia,
per certi versi, una sorta di esperimento dell’altrove,
luogo di sperimentazione di quella fuoriuscita dai canoni
che tanto giova alla mente critica che cerca di cogliere
con lo sguardo la realtà nella pluralità di prospettive che
la compongono. Questa sensazione, definita dagli
interpreti di Loraux come “appagante inquietudine”,1
accompagna ogni lettura e sembra prendere le mosse
dall’insoddisfazione nei confronti dei dogmi e degli
automatismi che Nicole Loraux riconosce all’interno della
scuola storica tradizionale francese, da quel disagio che la
generazione di studiosi a cui Loraux appartiene ha tradotto
in rottura.2 Convinta della possibilità di dare nuova vita
alla disciplina storica attraverso un nuovo approccio che
sapesse produrre conoscenza e cultura diffusa nonostante
la propria natura strettamente istituzionale, Loraux
reinventa il proprio modo di accostarsi alla classicità
greca.
Il primo passo di questo allontanamento sta proprio
nella messa in discussione del procedimento storico e
della sua pretesa di obiettività, di aderenza senza resti al
reale. Nel suo Thucydide n’est pas un collègue,3 articolo
del 1980, Loraux pone in questione la prospettiva che,
sulla base di una rigida opposizione tra documenti
storiografici e testi letterari – ritenuti inutili da chi cerca
esclusivamente realia, dunque lasciati alla letteratura o
alla filosofia –, mette a distanza lo storico da ogni altro
ambito dello studio dell’antichità, rendendo lo scambio e
il dialogo tra le discipline impossibile.4 Una tale
incomunicabilità tra i testi e i documenti, spiega Loraux, è
impensabile in ottica greca – per la quale non vi è un
documento che non sia anche un testo per le generazioni a
venire e ogni testo è in se stesso strettamente correlato
agli avvenimenti storici e sociali della città – e non è altro
che un modo goffo per mascherare i limiti dell’approccio
positivistico che la scuola storica tenta di portare avanti.
Cosa significa essere una storica per Nicole Loraux?
Questa domanda, apparentemente superflua nel lavoro di
ricerca qui presentato, suggerisce un atteggiamento di
fronte alle discipline accademiche che in realtà illumina
ogni pagina di questo studio, costituendone la cornice di
senso. Essere una storica significa, innanzi tutto,
rinunciare alla definizione di storia, laddove questa sia
intesa come espressione nitida della sola realtà dei fatti;
significa allontanarsi dalla convinzione che il reale sia
trasparente; significa comprendere la complessità di una
realtà che è sempre fatta di contraddizioni, farsi carico
dell’impossibilità di un documento puro; dunque
rinunciare a Tucidide (“lo storico del vero”, così come
egli stesso si presenta al suo lettore: serio, affidabile,
razionale, scientifico – «in una parola, oggettivo»),5 al suo
rifiuto della poesia, del mito, al suo tentativo di
dissimulare il valore testuale di una narrazione che egli
stesso presenta come una testimonianza obiettiva.
Tucidide, figura greca dell’autorità nel campo della storia,
sia per gli antichi che per i moderni, va rimesso in
questione e la sua metodologia va indagata con occhio
critico. Non basta aderire, non basta citare, bisogna
continuare a cercare.
Essere una storica significa allora per Nicole Loraux
innanzi tutto rinunciare al prestigio dell’autorità e
addentrarsi nel progetto di una storia da inventare.
Lontano dalle certezze del positivismo, allo storico che
rifiuti l’impostazione metodologica tucididea non rimane
che indagare tra le pieghe della storia ufficiale, alla
ricerca di ciò che la narrazione “razionale” ha estromesso
soffocandolo nel testo. Si indagheranno allora gli stessi
documenti con spirito nuovo, alla ricerca dei silenzi, delle
omissioni e dei vuoti che li hanno nutriti.6 In
quest’operazione, sottolinea Loraux, risulterà pratica tanto
necessaria quanto benefica l’andare oltre tutti quei dogmi
e quelle autocensure a cui viene sottoposta una ricerca
storica, attraverso la reinvenzione di una pratica, quale
quella dell’anacronismo, assolutamente demonizzata dal
mondo della ricerca accademica.7 Considerato la bestia
nera dello storico, il peccato capitale contro il metodo,
l’anacronismo costituisce solitamente l’accusa più
infamante nei confronti di uno studio storico; quando però
per uno storico dell’antichità il presente si rivela
eccellente stimolo alla comprensione, il tabù
dell’anacronismo si rivela coercitivo e inibente. È così
che un’intera generazione di storici – cito solo Vernant,
Vidal-Naquet, Touvier, Darquier de Pellepoix – e con essa
Nicole Loraux, si è posta a distanza da un tale divieto,
laddove questo, espresso in forma dogmatica, si rivelava
paralizzante. Con Loraux la rimessa in gioco
dell’anacronismo controllato diviene reinvenzione della
distanza e della promessa d’alterità.8 L’indagine storica
così configurata trova il proprio fondamento
nell’assunzione di una totale estraneità nei confronti
dell’universo greco, un’estraneità che non è semplice
distanza temporale e culturale ma che è, innanzi tutto,
consapevolezza del fatto che, nonostante gli studi e le
ricerche, la Grecia non ha ancora consegnato il proprio
senso.
La storia, commenta Loraux, non ha ancora finito con i
greci. In questo senso, i greci sono altri.9 Essi sono altri
rispetto a noi, tanto quanto lo sono le altre culture oggetto
di studio nel mondo occidentale; anzi, commenta Loraux,
essi sono sotto questo punto di vista più altri degli altri.10
Nicole Loraux – e con lei tutta la generazione di studiosi
che a partire da Vernant pone alla base delle sue ricerche
la promessa d’alterità della grecità, vicina e radicalmente
lontana a un tempo11 – si colloca a distanza da tutte le
interpretazioni della Grecia classica tradizionali,
allontanandosi dalle posizioni secondo cui i greci, popolo
eletto, in pace, in perenne armonia con se stesso e padre
di tutte le istituzioni e forme di pensiero occidentali,
hanno contribuito a fondare univocamente e senza resti la
società attuale. Vittima di questa sovradeterminazione che
caratterizza buona parte degli studi sull’Atene classica e
che ne fa un archetipo dello Stato moderno, commenta
Nicole Loraux, è ad esempio il testo di Glotz, La Cité
grecque, in cui l’autore non mostra esitazioni
nell’aggiungere accanto ai valori democratici antichi di
libertà e uguaglianza anche il valore della fraternità
collocandosi, così, a un passo dal far derivare la
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dal
politico greco. «Non intendo accettare – commenta
l’autrice – come un dato il fatto che Atene fosse il luogo in
cui la democrazia è un tempo esistita allo stato puro, nella
perfetta coincidenza del sistema e del suo discorso».12
Anche quando si intravede il lato irrazionale al di sotto
dell’armonia del logos – si pensi ad esempio a un testo
come I greci e l’irrazionale di Dodds13 – la cultura greca
deve essere sganciata dall’impostazione diffusa che
sembra tendere a far discendere la modernità
dall’universo greco in una continuità temporale senza
deviazioni e senza perdite significative. «I greci: quelli
delle umanità classiche, “popolo eletto” di tutti i pensieri
occidentali sull’universale. Con quelli lì, sarebbe tempo
di farla finita. Procedendo a un’archeologia del mondo
occidentale, decostruendo tutte quelle identificazioni che
hanno reso questi altri gli stessi rispetto a noi».14
La Grecia va dunque fatta “uscire da se stessa”,15 in
una sovversione che ci allontani dai criteri interpretativi
del bello, della ragione, dell’armonia, vie tradizionali di
accesso alla civiltà greca che ne hanno schiacciato la
cultura sulla nostra. In virtù di questa alterità radicale, è
importante saper restituire alla cultura greca la sua parola.
Solo così la Grecia potrà rivelarsi nella sua specificità.
Questo approccio però, commenta Loraux, deve tenere
conto del fatto che un accesso senza mediazioni, diretto,
senza distorsioni, all’alterità greca è impossibile e che
per penetrare realmente le categorie greche in quanto
specificatamente greche è necessario che vi sia pure
qualcosa che ci leghi a loro. È alla luce di questa
consapevolezza che la pratica dell’anacronismo
controllato si rivela dirimente. «Andare verso il passato
con delle domande del presente per tornare verso il
presente»,16 assumendosi il rischio, al fine di mettere in
evidenza quelle discrepanze tra ciò che noi pensiamo
dell’antichità e la realtà dei suoi funzionamenti.
Avvicinarsi per mettere in risalto le distanze, laddove
l’apparente somiglianza di alcuni contenuti antichi con
quelli del presente contribuisce a mettere in atto, per un
certo modo di fare storia, un dislocamento nocivo. Tra
l’attuale e l’antico, con grande mobilità. «Bisogna saper
andare e venire, e sempre dislocarsi per procedere alle
necessarie distinzioni. In altri termini, nessuna
identificazione a senso unico è possibile a lungo […]».17
È a partire da questa posizione che, agli occhi dei suoi
interpreti, il programma di ricerca di Loraux verrà a
configurarsi come un «cogliere l’identico nel diverso, il
radicalmente altro nel familiare»,18 un percorso in cui la
nozione di confine – tra le discipline, tra le opposizioni
concettuali – viene a sfumare, portando la studiosa a
lavorare in turbolente zone di frontiera.
La fortissima vocazione filosofica delle sue ricerche,
l’interesse per le categorie vive del pensiero politico
greco, la ferma risoluzione a non chiudersi nelle celle
della propria disciplina hanno così portato i lavori di
Nicole Loraux a un taglio deciso con un certo tipo di
ricerca, proprio del mondo accademico istituzionale; un
gesto di rottura che le è valso l’isolamento, una profonda
diffidenza e una riluttanza tali da rendere impossibile
qualsiasi dialogo con alcuni dei propri colleghi grecisti.
2. Tra la cité e la polis, Freud

Solitamente, sostiene Loraux, esistono due modi di


avvicinarsi alla città greca: come storici, come
antropologi.19 La polemica sui confini disciplinari tra
questi due ambiti è antica quanto il loro oggetto di studio:
sono stati gli stessi greci, prima di chiunque altro, a
individuare il conflitto tra i due poli per pensare la
propria società.20 Nel primo caso, lo sguardo dello
studioso sarà tutto volto a quell’universo politico e
militare, fatto di leggi, di costituzioni, di racconti di
guerre, che si concentra sulla dimensione evenemenziale
dell’accadere. Nella cité dello storico, lo studioso trova
una storia già scritta – dagli storiografi antichi, dagli atti
ufficiali della politica, dal racconto degli eventi militari –
in cui ampi strati della società greca vengono passati sotto
silenzio – donne, stranieri, schiavi – e da cui viene
esclusa ogni dimensione della vita della città che non
rientri sotto la categoria di “evento” o di cui la “ragione
greca” non riesca a rendere conto. La polis degli
antropologi, invece, distanziandosi dalla temporalità
dell’evento, si inserisce nella ripetizione delle pratiche
sociali, in cui vi scopre l’uomo greco che, per pensare se
stesso, si trova di fronte alla necessità di assegnare un
posto all’alterità; l’antropologo dell’antichità scopre a sua
volta la dimensione fondante dell’altrove, in una lettura
della città in cui l’essenziale è ricollegare i margini al
centro, in cui l’altro – l’altro della politica, l’altro del
cittadino – si rivela dirimente. Ma, anche qui, rimane
consistente il rischio di passare sotto silenzio la varietà e
le diseguaglianze implicite nell’immaginario greco,
adombrandole in una violenta omogeneità. Arrestando il
fluire del tempo cittadino per soffermarsi sulle sue
pratiche, l’antropologo rischia di isolare un discorso sugli
altri, di cadere in generalizzazioni e tipizzazioni
inglobanti, violente rispetto alla specificità del soggetto, o
di ridurre la complessità dell’universo greco a rigide
coppie oppositive. La ricerca, per Loraux, è invece un
percorso fatto di pluralità, di divisioni, che rinuncia alle
visioni rassicuranti e inglobanti che rimandano alla città
greca come orizzonte unitario. È un premunirsi contro
l’Uno, contro l’uomo greco al singolare. Per pensare
l’antichità nella molteplicità delle realtà che la
compongono, spiega Loraux, è assolutamente necessario
allontanarsi da quel “prestigio dell’Uno” da cui discende
tanto l’idea di un discorso greco unitario quanto un
modello troppo omogeneo di città; occorre «tentare, per
quanto possa essere difficile, di prestare orecchio alla
polifonia delle voci e dei discorsi e alla ricca diversità
dell’ascolto […]».21
Lo storico del politico che voglia addentrarsi negli
angoli bui del pensiero e della storia greca dovrà dunque
evitare di schierarsi in questo antagonismo tra le
discipline, concentrandosi sull’immanenza della città
senza lasciarsi trasportare dalla lettura istituzionale
dell’universo greco. Il problema, commenta Loraux, non è
infatti quello di scegliere un campo contro l’altro, una
città contro l’altra (cosa che significherebbe ricadere
nella divisione greca); poiché la stessa città greca ha
saputo tener conto di entrambe le due rappresentazioni di
sé (a volte in una coesistenza pacifica, come in Erodoto)
la via più feconda di avviare uno studio sul mondo greco
sarà quella di «pensare storicamente la città degli
antropologi, ma soprattutto pensare da antropologi la città
degli storici».22 Sarà dunque un lavoro di frontiera tra le
costanti dell’antropologia e gli accadimenti della storia,
realizzato nelle torbide zone di sovrapposizione, in un
percorso rischioso in cui tutto è messo in circolazione. In
questo modo, pensando da antropologa il politico greco,
Nicole Loraux è stata capace di far parlare la città
prestando orecchio alla molteplicità delle sue voci,
mentre come storica seminava il dubbio nel modello
perfetto dell’ideologia civica.
La distanza dall’approccio storico tradizionale,
dunque, si consuma sui confini tra le discipline, alla
ricerca di una conoscenza che deborda dalle
concettualizzazioni rigide e di un sapere che il discorso
esplicito passa sotto silenzio, fatto di donne, stranieri,
schiavi. Lavorando nelle pieghe del politico storicizzato,
Loraux indaga una storia non detta, facendo proprie anche
le metodologie dell’ascolto psicanalitico, allontanandosi
così dalla scuola francese che vede nell’applicazione
delle categorie psicanalitiche alla realtà greca un
pericoloso anacronismo.23 Nella ricostruzione di questa
storia dei silenzi, filologia e psicanalisi appaiono a
Loraux strumenti complementari nel recupero di quegli
aspetti del reale che la storia ufficiale e la stessa
autorappresentazione irenica messa in atto dalla cultura
greca rende invisibili attraverso il depauperamento
ontologico; commentando il lavoro della studiosa,
Gabriele Pedullà individua con chiarezza il significato di
questa scelta metodologica: «Non basta, in altre parole,
segnare la lacuna e ripromettersi di colmarla attraverso
un’ipotesi adeguata […], ma occorre invece mettersi in
ascolto per decifrare quei non detti».24 Attraverso
l’indagine psicanalitica il lavoro di ricerca può proiettarsi
al di là delle censure, al di là dei vuoti, nel tentativo di far
riemergere il sommerso a partire dalle pochissime tracce
rimaste visibili. Loraux entra così in dialogo con Freud e
fa propria l’affermazione per cui «il difficile non è
eseguire l’atto, ma eliminarne le tracce».25 Alla ricerca
dei non detti della storia, l’autrice si richiama all’audacia
teorica di Totem e Tabù e dell’Uomo Mosè gettando così,
con Freud, un ponte tra popolo e individuo, tra psicologia
della massa e quella del soggetto, e rielaborando
categorie tipicamente freudiane quali quelle di rimozione,
transfert, analogia.

Rileggo spesso L’Uomo Mosè per comprendere il lavoro della


memoria politica di Atene, non per trarne schemi rigidi, ma per
esercitare il pensiero storiografico a trovarvi l’ispirazione di cui ha
bisogno per definire le proprie operazioni. Analogamente, diventa
possibile attribuire alla città ateniese rimozioni o dinieghi non in virtù
di un atto di adesione, ma grazie a un incontro. Per varie ragioni
l’adesione non è affar mio, fra l’altro perché «trattare i popoli come
un individuo nevrotico» porterebbe ad allegare la definizione ateniese
del politico al capitolo delle nevrosi. L’incontro invece si impone: va
preso atto del fatto che i greci stessi mi incitano a dare alla città una
memoria che assomiglia a quella di un individuo, giacché essi, forse
più di ogni altra cosa, hanno pensato, sotto la categoria del politico,
l’analogia della città con l’individuo.26

«Fare storiografia con Freud»,27 costituisce così il punto


di avvio per un nuovo modo di fare ricerca. Attraverso la
psicanalisi, è possibile penetrare la cultura classica fin
dentro il suo linguaggio, luogo fondamentale, in quanto
polifonico, di ogni ricerca che si prefigga lo studio del
rimosso. La lingua greca, difatti, è una lingua ambivalente,
irrimediabilmente segnata dalla proliferazione del senso
che corrode sotterraneamente la purezza del pensiero e
delle rappresentazioni, consentendoci così di esperire i
suoi altrove imperscrutabili.28 In particolare, a partire dal
lavoro sulla lingua e dall’assunzione del discorso greco
sulla donna come filo conduttore della sua ricerca, Loraux
viene ad articolare un nesso che lega corpo, sapere e
potere, ponendo in rapporto lo studio sul linguaggio
direttamente con l’interesse antropologico; attraverso tale
nesso, il corpo si pone come luogo sensibile in cui gli
eventi, mutati in segni, riescono ad articolarsi nella
molteplicità dei discorsi del linguaggio in cui esso si
manifesta.29

3. La politica del mito

Così connotata, la ricerca dell’Altro, operatore


fondamentale della politica greca – in quanto ciò che ne è
ufficialmente escluso ma che, riassorbito, continua ad
agire nel politico – non potrà arrestarsi al solo discorso
ufficiale della città, ai soli eventi narrati dagli storiografi
antichi. Per Nicole Loraux l’immaginario sociale non
rappresenta mai, in nessun caso, un discorso slegato dagli
accadimenti storici e dalla politica ufficiale; esso è
coinvolto nella realtà dei fatti e non è semplicemente
subordinabile alle azioni della politica contingente.30
Veicoli dell’autorappresentazione, i discorsi pubblici e le
orazioni funebri, presentano alla studiosa l’immagine
“ideologica” che la Città ha voluto dare a se stessa, al
proprio passato, al proprio presente, per orientare il
proprio futuro. Nicole Loraux intende guardare a questi
discorsi in controluce, per andare oltre il significato
manifesto e per rilevarne l’escluso. Indagando sui non
detti del discorso ufficiale, l’autrice non può che
segnalare come punto fondamentale della sua ricerca il
risalire direttamente alle visioni che informano l’identità
della città, attraverso uno studio che, come già accennato,
accanto alle normali fonti storiografiche sa tener conto dei
testi – letterari, narrativi, tragici, comici, epici – nutriti
anch’essi della stessa visione del mondo ma in cui la
compattezza del discorso ufficiale viene meno,
permettendo così alla storica Loraux di addentrarsi nelle
sue crepe. Alla ricerca delle zone d’ombra, Loraux si
immerge completamente nella mentalità greca,
indagandola fin nelle sue origini. Ed è qui, allora, che il
mito acquista la sua valenza storiografica.
Il mito, in particolar modo il racconto greco
dell’autoctonia, autorizza infatti la giustificazione
dell’identità della società e, cosa ancor più rilevante,
porta alla luce ciò che i suoi membri desiderano o
immaginano di essere. «Il mito racconta per la città
l’avvento della cultura, facendo nascere in ogni ateniese
la rappresentazione che meglio conviene dare agli altri:
quella di una polis “amata dagli dei”».31 La fondamentale
importanza della narrazione mitica in rapporto alla
struttura sociale era già stata messa in luce da Platone, che
nella Repubblica non esitava a definire il mito come la
prima realtà alla base di una polis, talmente necessaria
alla fondazione della città da essere più dirimente rispetto
all’atto fondamentale del porre delle leggi.32 Con il mito,
spiega l’autrice, vengono gettate le basi di una città
immaginaria; esse fondano non solo la storia originaria
della polis, ma ne costituiscono il kosmos e l’intera
cornice di senso.33

Mito significa una storia: […] una storia che gli Ateniesi
raccontavano a se stessi riguardo il loro sistema simbolico, ma per
nessun conto può essere ridotta esclusivamente a questo. Una storia
che procura piacere perché ci si può riconoscere in essa e anche, a
volte, perché in essa ci si scopre come qualcosa, se non di
sconosciuto, almeno di “diverso” da se stessi.34

Nonostante la riluttanza degli studi storici nelle università


francesi35 il mito si dimostra fonte storiografica preziosa,
in quanto narrazione che informa tutti i discorsi e tutti i
luoghi della polis. Il ricorso al mito, commenta l’autrice, è
stato spesso valorizzato dagli antropologi della Grecia,
che ne hanno sottolineato l’importanza in relazione e
contrasto alla “ragione greca”, creando così una
polarizzazione netta, in cui il mito viene considerato come
l’altro del discorso razionale, contraltare ufficiale del
logos cristallino. In questo senso, gli studi antropologici
hanno saputo sottolineare il ruolo della narrazione mitica
all’interno degli studi sull’antichità, intendendo il mito
come matrice d’intellegibilità della cultura greca.36 Con
l’avanzare del tempo e delle ricerche l’importanza
attribuita al ruolo del mito nell’interpretazione della
società antica è andata sbiadendosi, per essere infine
sostituita, presso alcuni studiosi, dallo studio della
rappresentazione iconografica e delle raffigurazioni
prodotte dall’antichità, aprendo così allo studio delle
immagini. Si è giunti così, nel panorama degli studi
antropologici sull’antica Grecia, alla ferma convinzione
che le rappresentazioni figurative possano fornire un
accesso privilegiato alle rappresentazioni mentali,
dispiegando l’immaginario civico. In questo spostamento,
Nicole Loraux rileva una una perdita essenziale. Indagare
la società greca oltre il logos attraverso le immagini
piuttosto che per mezzo del mito contribuisce a fornire
allo storico una rappresentazione della città
completamente avulsa dal suo orizzonte politico, «fuori
dal tempo delle battaglie e delle assemblee». Atene,
37

schiacciata su una narrazione che esclude il linguaggio


politico dalle proprie rappresentazioni, si riduce a essere
una società piatta, una città dipinta.38 Indagare il mito,
invece, contribuisce a svelare il politico greco. Il mito
infatti è onnipresente, in tutti i luoghi della città – per
questo mai neutrali –, in ogni rappresentazione. Ogni città
greca vive di miti.
Definendo la tassonomia dei ruoli sociali, stabilendo le
esclusioni e le opposizioni alla base dell’identità del
cittadino, il mito fonda l’ordine civico e ne costituisce la
cornice di riferimento, attraverso un andirivieni tra
presente civico e passato mitico e attraverso una costante
sovrapposizione di ripetizione e azione originale. I miti,
spiega Loraux riprendendo un’affermazione di Levi-
Strauss, non muoiono nel politicizzarsi, ma raccontano
anzi la città nella sua identità. Il mito è la
rappresentazione politica necessaria, che media tra l’idea
della città di Atene e i suoi cittadini39 e che fonda l’ordine
degli andres davanti a donne, schiavi e stranieri. Esso
incarna una precisa struttura della società e ne informa gli
atti politici e sociali. Accostarsi al mito all’interno della
propria indagine di storica significa dunque addentrarsi
nell’essenza del politico, delle sue esclusioni, del suo
rapporto con l’alterità.

4. E dunque la politica. La divisione, il conflitto,


l’oblio40

«Forte delle competenze dell’antropologia, questa storia


sarà quella del politico più che della politica, del
rapporto al potere nella sua temporalità piuttosto che la
sola evenemenzialità dei cambiamenti di capi e
costituzioni».41 Uno degli esiti più evidenti di questo
“lavoro sui bordi” è la consistenza e la ricchezza delle
ricerche di Nicole Loraux in una prospettiva filosofico-
politica. Nel suo andirivieni tra le diverse discipline
istituzionali, la riflessione di Loraux trova frequente
riscontro sul terreno del pensiero politico e della
filosofia, ambito con il quale la studiosa ha esplicitamente
cercato di confrontarsi.
Fin dalla prima pubblicazione dell’autrice, L’invention
d’Athènes del 1981, è possibile individuare il segno
evidente del legame che Nicole Loraux intrattiene con
l’ambito filosofico. Nel testo Loraux porta avanti
un’operazione di scompaginamento dell’immagine
convenzionale dell’antica Grecia attraverso un ricorso a
nozioni, come quelle di “ideologia” e di “falsa
coscienza”, che mostrano, secondo Pedullà, un debito
evidente nei confronti del pensiero marxista.42 L’orazione
funebre, su cui la ricerca dell’autrice si concentra, viene
presentata come il genere letterario che veicola
l’ideologia civica, raccontando ai cittadini di Atene il
passato, il presente, la loro stessa identità, attraverso
omissioni e silenzi che vanno a soffocare intere realtà
sociali, come le donne, i meteci, gli schiavi, ma non solo:
essa condanna al silenzio anche gli avvenimenti dolorosi
che hanno portato la città alla costituzione democratica
delle proprie istituzioni. Definita come “ideologia della
città” questa rappresentazione esemplare di se stessi,
Nicole Loraux si accinge a interrogarne i silenzi per dare
voce alle omissioni della storia ufficiale.
Da questo iniziale legame con il pensiero marxista, che
l’autrice saprà far proprio, reinventandolo e adattandolo
con non pochi accorgimenti metodologici alle proprie
esigenze di studiosa,43 si avvia quel costante dialogo con
il pensiero della politica che si rivela essere tratto
caratteristico delle opere di Nicole Loraux, e che, nella
messa in gioco attraverso il politico greco di parti
consistenti del politico occidentale, conferisce alle sue
ricerche un fascino e un valore ben al di là del gusto per
l’antichità.
In questo senso, di fondamentale importanza è la
centralità che la ricerca di Loraux attribuisce al ruolo del
conflitto all’interno del politico. A partire da una
connotazione del concetto di politica come piano
“inglobante”, tale da far saltare ogni tentativo di pensare
in opposizione il piano della realtà dei fatti e quello delle
ideologie, Nicole Loraux traccia le linee di un politico in
cui la contrapposizione assume un ruolo fondante e
originario, avvicinando così, per un verso, la propria
riflessione a quella di Carl Schmitt.44 Pur rifiutando l’idea
schmittiana di un politico preso tra le due categorie di
amico e nemico, Nicole Loraux sembra condividere con
Schmitt l’idea di una co-originarietà e coestensività di
conflitto e politico. I due pensieri sembrano infatti
concordi in parte sull’assunto secondo il quale il concetto
di politico in se stesso, così come tutti i termini a esso
connessi, comportano un legame con l’orizzonte polemico
dello scontro; le posizioni tendono però a configurarsi
come completamente opposte laddove per Schmitt la
guerra, coestensiva al politico, viene condotta verso un
nemico esterno da un’unità politica – lo Stato –, tranne nei
casi particolari di guerra civile in cui però il politico
tradizionale stesso viene a essere scompaginato, mentre
per Nicole Loraux la divisione e il conflitto rientrano
all’interno di ogni procedura del politico, sia essa stasis
interna che polemos. Il conflitto è per Loraux elemento
essenziale e connaturato all’idea stessa di politico, tanto
che il tentativo di rimozione di questo legame
ineliminabile che ella ravvisa nell’ideologia della città
greca non riesce a cancellarne le tracce stabilmente.
Ponendo estrema attenzione a non esaurire il conflitto
messo a tema da Nicole Loraux con il suo aspetto
esclusivamente violento, ed evitando ingenui slittamenti, è
possibile, mantenendo la riflessione ben salda su questa
posizione di precauzione, tentare di allargare un po’ lo
sguardo, fino ad Hannah Arendt, il confronto con la quale
torna spesso in queste pagine, e fino al pensiero di Simone
Weil. Leggendo Loraux, a volte il pensiero sembra
incontrare i termini della riflessione weiliana sull’origine
dalla politica e sull’esistenza della “forza”, descritta da
Weil come l’ aspetto violento intrinseco al piano del
politico e a tutti i rapporti di socialità.45 Per Weil, vi è una
logica comune a tutte le distruzioni e le guerre della storia
del mondo, una logica di violenza e forza che coincide
con la dimensione costitutiva della sfera politica. È così
che Simone Weil riconosce nella guerra e nel conflitto non
una cicatrice del tessuto politico, ma la sua trama più
originaria, il suo fondo ineliminabile. Trasferita nella
polis e non contrapposta a essa, polemos – trasformata in
stasis – ne rappresenta il nocciolo duro. Come
sottolineato da Roberto Esposito, in Weil si delinea
chiaramente una visione per cui la stasis è cuore stesso
della politica.46 Tra potere e dominio il legame è saldo e
originario, e il politico porta con sé una componente di
violenza e discordia che lo costituisce nel profondo.47 Su
questo punto, che costituisce tradizionalmente il punto di
fondamentale distanza tra il pensiero di Weil e quello
arendtiano, è possibile innestare un confronto che
sottolinei come questa distanza venga mantenuta rispetto
ad Arendt anche dalle tesi di Loraux. Per Arendt, infatti,
la dimensione politica, che viene a costituirsi attorno ai
concetti fondamentali dell’agorà omerica (incontro,
dialogo, peitho – persuasione) esclude la guerra e lo
scontro, realtà ritenute impolitiche per natura. La violenza
a esse legata, infatti, distrugge l’uguaglianza tra i membri
del corpo civico su cui la politica si fonda. Per Arendt
appare evidente come, sulla base di un movimento che
separa il combattimento dalla sfera militare e della
guerra, la polis costituisca l’agon sganciato dalla violenza
come componente essenziale del vivere in comune.48
Appare evidente come tale posizione si allontani da Weil,
per la quale il dominio e la violenza rimangono intrinseci
alla socialità anche laddove la guerra e il conflitto
vengano superati dalle istituzioni politiche, e da Loraux,
per la quale il conflitto si situa nel politico fin dentro le
sue istituzioni più democratiche.
I punti di contatto tra Loraux e Weil, non si esauriscono
sul tema del conflitto ma spaziano dalla valorizzazione di
una versione della storia greca fornita dalla tragedia alla
messa in luce di come nel conflitto e nella divisione
coestensivi al politico si celi il luogo esatto da cui
scaturisce l’armonia e l’unità delle parti, nella politica,
come in ogni altra esperienza umana.49 Contro Aristotele,
per il quale l’uomo è naturalmente sociale, e al di là della
centralità dell’oblio del conflitto caratteristica del
politico greco – che si distanzia, in questo, decisamente
dall’approccio moderno, in cui l’origine violenta del
politico è messa a tema e la politica trova la propria
coesione proprio nella rammemorazione del conflitto
originario –, Nicole Loraux lavora sui tentativi di
omissione della coestensività tra conflitto e politico e sui
non detti della polis; il fine è quello di giungere al cuore
di quell’ambivalenza del politico che il tentativo di oblio
del conflitto operato dalla società greca ha impedito
sinora di comprendere, fornendo così la possibilità di
realizzare finalmente una riflessione politica che sappia
essere pensiero del consenso tanto quanto del conflitto.
Sul tema del conflitto e del suo oblio viene a
consumarsi lo scarto tra la lettura del pensiero politico
greco avanzata da Nicole Loraux e l’interpretazione
proposta da Jacqueline de Romilly. Questa distanza
concettuale sembrerebbe essere in primo luogo definita da
una distanza generazionale nel campo degli studi storici,
che orienta lo sguardo delle due autrici in modo
nettamente differente. Alla base dell’approccio di
Jacqueline de Romilly, nata nel 1913 e dunque
appartenente alla generazione di storici precedente a
quella di Nicole Loraux, vi è l’idea di una Grecia unitaria,
armonica, sostanzialmente in pace con se stessa, in cui lo
spazio del politico è spazio di libertà e di interazione tra
pari; in un certo senso, lo stesso sfondo in cui verrà a
muoversi anche l’analisi arendtiana del politico greco. In
realtà, a voler esser più precisi, ad avvicinare il pensiero
di Arendt con la sua quasi contemporanea Romilly, e ad
allontanare così in modo irrimediabile entrambe le autrici
dalla generazione di studiosi in cui rientra Loraux, vi è
quella inclinazione a considerare il politico greco come
criterio concreto a cui richiamarsi in quanto moderni, in
una sorta di continuità temporale e concettuale che vede la
democrazia ateniese come origine e modello normativo
per il politico contemporaneo. Risulta evidente come tale
approccio risulti agli antipodi rispetto alla promessa di
alterità della generazione di storici dagli anni Sessanta in
poi.
Sul tema del conflitto, la differenza tra le autrici appare
evidente già dal titolo dell’opera di Jacqueline de
Romilly dedicata alla violenza nell’antichità greca. La
Grecia antica contro la violenza50 è, in un certo senso, un
titolo che parla da sé. Tralasciando la questione secondo
cui, per Romilly, la Grecia ha lasciato a noi moderni,
costretti a vivere in tempi particolarmente violenti,
preziosi insegnamenti su come combattere la violenza,
risulta di fondamentale importanza analizzare le visioni
delle due autrici sulla violenza nell’antichità alla luce
della categoria di oblio, fondamentale nella lettura di
Loraux.
A una Grecia armonica, tollerante, in cui il logos regna
sovrano, Loraux oppone una città in conflitto, in perenne
movimento, in cui nulla che non rispecchi l’ideologia
civica trova il proprio spazio se non in virtù di una sua
intrinseca ambiguità. Contrapponendosi all’idea di Grecia
come misura, Loraux rivela l’essenza conflittuale del
politico, radicando la divisione e lo scontro violento fin
nella sua essenza. Ciò che maggiormente caratterizza la
società greca è ai suoi occhi il tentativo di obliare tale
natura del politico, attraverso le operazioni ideologiche
portate avanti dal discorso ufficiale, che tendono a
ristabilire l’immagine del conflitto e della divisione, in
particolar modo dello scontro intestino, in un’immagine
unitaria della città in pace. Jacqueline de Romilly non
individua in questa idea di città un’operazione di tipo
ideologico, riconoscendola invece come espressione di
una naturale passione del cittadino ateniese verso la
propria città («un amore vibrante» per le proprie
istituzioni);51 descrive una città dall’essenza irenica,
consapevole dei propri “difetti” e disposta a ragionare sui
propri errori in maniera manifesta; una città in cui il
conflitto non viene mai obliato, ma sempre superato.
Questa visione accomuna Jaqueline de Romilly e Weil.
Simone Weil, infatti, nonostante riconosca la natura
imprescindibilmente conflittuale del politico, assegna ai
greci il merito esemplare di aver saputo riconoscere e
mettere a tema il predominio incontrastato della forza nel
mondo, ponendo così le basi per un suo superamento.
Persino i conflitti intestini, i più pericolosi per l’idea
civica della città una e in pace, vengono per Jaqueline De
Romilly superati attraverso un cosciente richiamo alla
concordia in cui il cittadino riconosce l’esistenza
dell’altro e la sua libertà.52 La distanza da Nicole Loraux
non potrebbe essere più evidente. Nell’affermazione per
cui «i greci antichi non hanno mai avuto la tendenza a
negare l’esistenza della violenza»53 si consuma tutta la sua
distanza dalla pratica politica dell’oblio descritta da
Loraux. La natura violenta degli uomini (attenzione, non
delle istituzioni) viene, secondo la studiosa, riconosciuta
e mostrata al fine di un suo superamento nel mondo della
politica. Infatti, stando all’interpretazione dell’autrice, la
violenza connaturata all’uomo viene risolta dalla società
greca attraverso tre operazioni legate al vivere in comune
del soggetto greco: la solidarietà umana (nominata anche
«ideale della dolcezza»), l’amore della vita e delle sue
bellezze, e l’attaccamento alle leggi della propria città.54
In virtù di questo «umanesimo greco»55 e di questo legame
con la giustizia – che per Loraux, come si vedrà, è invece
luogo privilegiato della divisione – il cittadino greco ha
saputo mettere a tema la violenza dell’uomo allo stato
bestiale per superarla nelle istituzioni del vivere in
comune. Mentre per Nicole Loraux il conflitto è il politico
e la stasis, la guerra intestina, è connaturata allo stesso
spazio civico, Jacqueline de Romilly interpreta la guerra
civile come un «rovescio del civismo» i cui accessi di
violenza vengono giustificati solo dalla posta in gioco
della lotta per l’appartenenza all’interno dello spazio
civico.56 Il politico è spazio di libertà e di uguaglianza,
garantito dalla legge, «un padrone i cui ordini non mutano
e vengono seguiti in virtù di una decisione presa da
tutti».57 Ma quando Jacqueline de Romilly giunge ad
affermare che «l’insaziabile desiderio di libertà fa
nascere sospetti, dà luogo a processi, ben presto susciterà
una guerra civile […]»,58 come non cogliere, in seno alla
visione irenica e armonica del politico presentata
dall’autrice, una evidente contraddizione? Se infatti un
eccesso di quella stessa libertà figlia della legge e
dell’isonomia porta in sé la possibilità della stasis, la
coerenza del ragionamento impone che se ne deduca che il
conflitto si trovi veramente al cuore della democrazia
come sua dimensione ineliminabile.
Un ulteriore elemento di riflessione circa le assonanze
e le distanze che il pensiero politico di Loraux viene a
registrare nei confronti dei pensatori e dei filosofi della
politica a lei contemporanei va rintracciato nella presa in
analisi dello spazio civico, inteso anche e soprattutto in
senso geometrico, che prende vita tra le pagine
dell’autrice. La questione dello spazio del politico, infatti,
rappresenta una delle chiavi di lettura fondamentali per
comprendere tutta la riflessione operata da Loraux; essa è
sullo sfondo, ma in silenzio organizza e predispone tutta la
ricerca dell’autrice. Lavorando su questa questione è
impossibile non rilevare un debito nei confronti del
lavoro di Maria Letizia Pelosi, la quale ha lavorato a un
confronto tra Loraux e la concezione arendtiana della
polis.59 Pelosi mette chiaramente in luce come la
concezione dello spazio del politico elaborata da Arendt
entri irrimediabilmente in conflitto con la struttura della
polis alla base della ricerca di Loraux, la quale propone
un modello ibrido di composizione del politico
necessariamente distante dalla rigida opposizione tra
oikos e polis individuata da Hannah Arendt in Vita
Activa.60 Nel testo del 1958, infatti, Arendt individua
come essenziale all’esistenza dell’organizzazione politica
la distinzione netta tra spazio pubblico e sfera privata,
ponendo questa opposizione alla base della realizzazione
dell’ideale di libertà nel contesto pubblico. «Secondo il
pensiero greco – leggiamo nel testo – la capacità degli
uomini di organizzarsi politicamente non solo è differente,
ma in diretto contrasto con l’associazione naturale che ha
il suo centro nella casa (oikia) e nella famiglia».61 Da un
lato lo spazio pubblico, luogo del discorso e dell’azione,
dall’altro l’aneu logou dello spazio spazio privato, luogo
senza voce, muto, in cui si obbedisce alla cieca necessità.
Lo spazio privato, spazio della privazione dalle facoltà
più alte e umane, precede l’ambito della politica e ne
rappresenta la condizione. Al suo interno, gli uomini si
aggregano per necessità; nel politico, gli uomini affrancati
dai propri bisogni si uniscono nello spazio della libertà.
Gli uomini, per l’appunto. Numerose sono state le critiche
mosse al testo arendtiano e al suo silenzio su ciò che il
discorso ufficiale della polis tralascia nell’ombra del
privato: lo schiavo, ma ancor più la donna che, posta
“naturalmente” nel silenzio del prepolitico, viene
totalmente dimenticata dagli studi arendtiani. In questo
senso, la divisione tra pubblico e privato messa in luce da
Hannah Arendt apparirebbe, per alcune interpreti, come
schiacciata su una visione strettamente patriarcale
dell’idea di libertà e su una totale negazione del
potenziale femminile di liberazione. Tali, ad esempio sono
state le critiche mosse al pensiero di Arendt da alcune
esponenti del pensiero femminista americano, in special
modo da Adrienne Rich62 e a Mary O’Brien,63 alle quali,
di converso, si sono contrapposte le letture di filosofe
come Terry Winant e Nancy Hartsock – le quali hanno
visto nel pensiero politico arendtiano una
reinterpretazione al “femminile”del modello omerico di
politica al maschile sulla base di una categoria, quale
quella di natalità, essenzialmente femminile – e la “terza
via” di Mary G. Dietz che, sulla base di una dislocazione
della coppia femminile/maschile dalla divisione
privato/pubblico alle categorie di animal laborans e
homo faber, mostra come l’azione, categoria centrale del
politico descritto da Arendt, risulti essere superiore a
entrambe le dimensioni, che la informano senza esaurirne
il senso.64
Pelosi pone la città pensata da Nicole Loraux a netta
distanza dalla rigidità dell’opposizione arendtiana,
mettendo in luce come Loraux ponga alla base del suo
discorso sul politico greco una realtà ibrida, in cui il
privato viene a porsi non come piano separato dallo
spazio pubblico, ma semplicemente escluso da esso,
laddove entra in gioco la pratica, tipicamente greca, di
consumare l’esclusione in un riassorbimento. Le
distinzioni sfumano, e l’escluso, in particolare il
femminile, entra a far parte della polis in quanto
riassorbito dal cittadino ateniese, non più come oscuro
aspetto del prepolitico ma come mescolanza in cui
convivono le differenze.
Analizzando le prospettive delle due autrici da un
punto di vista puramente descrittivo, è possibile rilevare
un’effettiva distanza. La distinzione tra gli ambiti del
pubblico e del privato, funzionale e fondante rispetto al
politico greco, è una distinzione che effettivamente ha
luogo nel pensiero classico. L’oratoria ufficiale, i discorsi
politici, non fanno che far leva su tale opposizione al fine
di creare un’immagine della società, costruita
sull’opposizione con l’altro della politica, che rafforzi la
rappresentazione idealizzata della propria identità di
polis. In questo senso, la lettura di Arendt viene a
mostrarsi come più che legittima, in quanto si inserisce a
pieno nel discorso greco sulla propria struttura politica.
Caratteristica del discorso arendtiano, però, sembra esser
stato quello di essersi concentrata su questo piano
“istituzionale” del discorso senza averne indagato i
recessi. Di contro, la peculiarità di Loraux sembra
rintracciabile, invece, proprio nella sua pratica di
immersione nel politico greco, addentrandosi
nell’immaginario classico alla ricerca di qualcosa che
vada oltre il discorso ufficiale, indagando il suo non detto,
ciò che ne viene escluso. Nicole Loraux perviene così a
una Grecia “nascosta”, in cui si schiude con chiarezza una
segreta intimità tra la polis e l’oikos, luogo fondamentale
delle rappresentazioni della città, non più posto al di fuori
del politico, ma riassorbito in esso.
Ma, ancor più che sul piano della descrizione dello
spazio del politico, va registrata tra le due autrici anche
una distanza consistente che porta Nicole Loraux a
interessarsi della differenza sessuale e a individuare nella
divisione tra i sessi un operatore del politico greco.
Hannah Arendt ebbe un rapporto a dir poco controverso
con il movimento femminista del suo tempo. Ai suoi occhi
il femminismo, allora connotato in modo molto più
pragmatico che teorico, appariva come un’ulteriore
tentativo di movimento ideologico, cosa che portò
l’autrice ad allontanarsene pubblicamente e a tralasciarne
i temi. Per alcune interpreti a noi contemporanee, tale
allontanamento trova le proprie ragioni proprio nella
connotazione plurale che Arendt assegna al piano della
politica; piano che, lontano dalla riduzione performativa a
identità statiche e univoche, dà invece origine a una
interazione di tipo innanzi tutto “agonistico”.65 Secondo
Bonnie Honig, per esempio, il silenzio arendtiano sulla
donna come soggetto politico risiederebbe proprio nel
rifiuto di una categoria di donna che implichi universalità
a discapito delle differenze concrete tra i singoli
individui.66 In realtà, spiega Honig, è proprio definendo
una scena plurale della polis in cui «gli attori non
agiscono in virtù di ciò che essi sono già, le loro azioni
non esprimono una identità stabile, a priori»67 e in cui
viene esclusa la donna in quanto identità predefinita,
schiacciata su un insieme di caratteristiche e capacità già
socialmente determinate, che si dispiega la portata del
valore del pensiero arendtiano per la riflessione
femminista contemporanea. Al silenzio delle pagine
arendtiane fa invece seguito una stagione tutta nuova della
riflessione sul femminile e sulle donne, che dagli anni
Sessanta in poi maturerà in forme di lotta e di riflessione
sulla differenza sessuale che coinvolgeranno intere
generazioni di studiose tra cui Nicole Loraux.

5. Un passo in più. La donna e le fessure della Storia


Nel momento in cui si decide di occuparsi dell’antichità
greca, fare storia pensando la differenza diviene un
compito arduo, se non rischioso. Per cercare le tracce del
femminile greco occorre infatti farsi audaci, assumendosi
il rischio dell’andare a fondo nei non detti della storia
senza appigliarsi a nessuna autorità storiografica. È quasi
impossibile, d’altronde, commenta Loraux, trovare uno
storico greco che si sia soffermato abbastanza sul
racconto del femminile; molto più semplice è trovare
storiografi che hanno manifestamente evitato il discorso.
Tucidide, che ha raccontato una storia tutta al maschile, è
un illustre esempio di questa tendenza. 68

Ci si ritroverà dunque davanti alla necessità di


rinunciare all’autorità e alla sicurezza dei documenti
storici e, in certo senso, rinunciare un po’ alla storia
stessa. Per indagare sul femminile e sulla donna greca
colta nella sua quotidiana concretezza, bisognerà lavorare
negli interstizi del discorso storico, senza soffermarsi
troppo su quelle “donne eccezionali”, di cui la storia
greca ha raccontato solo al fine di ristabilire il silenzio
della tassonomia sociale.

Non esiste infatti una figura più difficile da catturare, o una vita più
chiusa nel segreto della sua quotidianità, della figura e della vita della
donna greca senza storia, e il problema diventa ancora più scottante
quando si parla della città di Atene, come se, nella città che per altri
versi conosciamo meglio, nella città in cui il teatro tragico o comico
ha sempre dato ai personaggi femminili più di quanto spettasse loro,
l’universo delle donne fosse restato, forse più che altrove,
irrimediabilmente chiuso.69

In virtù di una cittadinanza “latente”, acquisita tramite il


matrimonio e giustificata attraverso la riproduzione, la
donna greca è una realtà percepibile solo in negativo, nel
confronto con la politicità dell’esistenza dell’uomo. La
città non ha nulla da dire nei riguardi della sua esistenza.
Immersa in un orizzonte in cui la realizzazione della vita
esemplare coincide con una silenziosa esistenza di sposa
e madre a fianco dell’uomo che vive la sua esistenza da
cittadino, la soggettività della donna greca viene a
consumarsi senza far rumore. La gloria di una donna
ateniese consiste nel non avere alcuna gloria.

Se devo accennare anche alla virtù femminile, per tutte quelle che
ormai sono vedove, una breve esortazione mi basterà per esprimere
ogni cosa: il non essere inferiori rispetto alla vostra natura vi darà
grande reputazione, così come se di voi si parlerà di meno tra gli
uomini, sia per la virtù che in biasimo.70

Vita muta, come prescritto dall’epitáphios di Pericle alle


vedove dei caduti in battaglia. Chiusa nel silenzio della
sophrosyne, virtù femminile per eccellenza e prescrizione
di anonimato, la concretezza della donna classica rimane
impalpabile, intrappolata in un racconto che si riferisce a
lei sempre e solo attraverso il racconto della vita di un
uomo e la descrizione della sua funzione civica di madre e
riproduttrice. «Per esprimere la gloria di una donna […]
non esiste altro oratore che il marito».71 Viene subito alla
mente Luce Irigaray,

[…] Sono tutte modalità d’interpretazione della funzione di donna


rigorosamente postulate dal proseguimento di una partita in cui la
donna si trova sempre iscritta senza mai aver cominciato a giocare.
Postra tra – almeno – due o due mezzi uomini. Cerniera che si
adatta ai loro scambi. Riserva (di) negatività su cui si sostiene
l’articolazione al loro passo in un progresso, in parte fasullo, verso il
controllo del potere. Del sapere. Nei quali lei non ha parte. Fuori
scena, fuori rappresentazione, fuori gioco, fuori io.72

Questo destino, di esser sempre detta da un racconto al


maschile sul maschile, tocca la donna greca in tutte le
accezioni, sia che si tratti dell’esistenza quotidiana e
silenziosa della donna comune che del racconto di una
vita straordinaria; la lente attraverso cui leggere queste
vite risulta essere sempre l’amato, il marito, il figlio,
l’uccisore. Come per dire che chi non è artefice della
storia, in qualche modo è destinato a subirla.73 Morto il
marito, la gloria della donna esemplare consiste nel
silenzio. Una donna non deve far parlare di sé, né in tono
di biasimo né in tono di elogio.
Chi cerca nella storia antica tracce dei rapporti di
genere deve fare i conti con la disponibilità
tremendamente limitata di documenti sulla donna greca, se
non addirittura con la loro assenza. Alla ricerca di vite
percepibili solo in filigrana74 dovrà evitare di lavorare
sulle cristallizzazioni del femminile che lo irrigidiscono
in un modello, tanto eccezionale quanto in fondo
ortodosso; dovrà trovare la forza di addentrarsi senza
riferimenti in quelle pieghe in cui la storia, quella ateniese
in particolare, colloca il femminile, alla ricerca di donne
che, al pari di ciò che l’artista femminista contemporanea
Valie Export rappresenta in alcune sue opere degli anni
’80, trovano il proprio spazio solo nelle fessure della
società.75
Nicole Loraux sembra dunque avvisarci: scavare nella
storia alla ricerca della differenza sessuale è
essenzialmente tenacia e sfida, un minuzioso lavoro fatto
nel buio dei coni d’ombra. Pensare la differenza in un
lavoro di ricerca incentrato sull’antichità greca è partire
dal noto, dalle rappresentazioni diffuse, e andare
incessantemente oltre, tracciando traiettorie multiple, alla
ricerca di una soggettività nascosta dal discorso ufficiale.

Note

1 L. Faranda, “Introduzione”, in N. Loraux, Nati dalla terra. Mito e politica


ad Atene, Meltemi, Roma 1998, p. 7.
2 Mi riferisco qui alla generazione di storici e antropologi della città greca che,
a partire dal testo di Vernant, Mythe et pensée chez les Grecs (Maspero,
Parigi 1965), si sono allontanati dai canoni della tradizione umanistica francese,
proponendo un ritorno alla cultura greca che sapesse metterne a tema l’alterità
radicale. Cfr. N. Loraux, La tragédie d’Athenes. La politique entre l’ombre
e l’utopie, Seuil, Paris, 2005, pp. 9-29.
3 N. Loraux, “Thucydide n’est pas un collègue”, Quaderni di Storia, n. 12,
1980, pp. 55-81.
4 Ibidem.
5 N. Loraux, “Thucidyde a écrit la Guerre du Péloponnèse”, Metis, n. 1, 1986,
cit., p. 140.
6 «Les omissions, les silences, les trous ne le sont que pour nous, qui ne
pensons pas l’histoire dans les mêmes termes que lui», N. Loraux, “Thucydide
n’est pas un collègue”, cit., p. 68.
7 N. Loraux, La tragédie d’Athènes, cit., p. 173-190.
8 Ivi, pp. 32-33.
9 Cfr. F. Giardini, “Le parole del contr’Uno. Nicole Loraux”, in Laura Sanò (a
cura di), Il destino di Prometeo. Razionalità, tecnica, conflitto, Il Poligrafo,
Padova 2009, pp. 213-232.
10 N. Loraux, La tragédie d’Athènes, cit., p. 14.
11 Ivi, pp. 12-17.
12 N. Loraux, The Invention of Athens. The Funeral Oration in the
Classical City, Zone Books, New York 2006, p. 34 (ed. or., L’invention
d’Athènes. Histoire de l’oraison funèbre dans la «cité classique», Éditions
EHESS-Mouton, Paris-La Haye 1981).
13 E.R. Dodds, I greci e l’irrazionale, Bur, Milano 2009 (ed. or. The Greeks
and the Irrational, University of California Press, Berkley and Los Angeles
1951).
14 N. Loraux, “La Grèce hors d’elle”, L’Homme, n. 1, vol. 20, 1980, cit., p.
105.
15 Ibidem.
16 N. Loraux, La tragédie d’Athènes, cit., p. 179.
17 Ivi, p. 185.
18 G. Pedullà, “Introduzione”, in N. Loraux, La città divisa. L’oblio nella
memoria di Atene, Neri Pozza, Vicenza 2006, cit., p. 20.
19 Cfr. N. Loraux, La città divisa, cit., pp. 63-69 (ed. or. La cité divisée.
L’oubli dans la mémoire d’Athènes, Éditions Payot & Rivages, Paris 1997).
20 Ivi, p. 97.
21 N. Loraux, La tragédie d’Athènes, cit., p. 27.
22 N. Loraux, La città divisa, cit., p. 114.
23 Ma, commenta Loraux «rifiutando delle nozioni per il fatto che siano state
prodotte nel contesto borghese della Vienna di fine diciannovesimo secolo, non
scelgono anche di obliare, inconsciamente o deliberatamente, che le
rappresentazioni che hanno presieduto alla scoperta freudiana sono, per una
parte consistente, eminentemente greche?», N. Loraux, La tragédie d’Athènes,
cit., p. 19.
24 G. Pedullà, “Introduzione”, cit., p. 14.
25 Cfr. S. Freud, L’Uomo Mosè, in S. Freud, Opere 1930-1938, Bollati
Boringhieri 1975, Torino (ed. or., Der Mann Moses und die monotheistische
Religion: Drei Abhandlungen, 1939).
26 N. Loraux, La città divisa, cit., p. 141.
27 Ivi, p. 140.
28 L. Faranda, “Introduzione”, cit., pp. 14-16.
29 Ivi, p. 15.
30 N. Loraux, The children of Athena. Athenian ideas about citizenship &
the division between the sexes, Princeton University Press, Princeton, 1993,
pp. 6-7 (ed. or., Les enfants d’Athèna. Idées athèniennes sur la citoyenneté
et la division des sexes, Maspero, Paris 1981).
31 N. Loraux, “Le mythe. Cités greques”, in Y. Bonnefoy (a cura di),
Dictionnaire des mythologies et des religions des sociétés traditionnelles
et du monde antique, Paris, 1981 Flammarion, vol. I, pp. 203-209.
32 Platone prende in considerazione come il mito dell’autoctonia strutturi e
informi la rappresentazione della città, “bella menzogna” sulla base della quale
viene fondata la stabilità della polis e l’idea della concordia e della fratellanza
nel corpo politico. Cfr. Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2006. 414
d-e.
33 Cfr. N. Loraux, “Le mythe”, cit.
34 N. Loraux, The children of Athena, cit., p. 235.
35 Ivi, pp. 4-5.
36 N. Loraux, La tragédie d’Athènes, cit., pp. 20-21.
37 N. Loraux, La città divisa, cit., p. 103.
38 Ibidem.
39 N. Loraux, Nati dalla terra. Mito e politica ad Atene, Meltemi, Roma
1998 (ed. or., Né de la Terre, Seuil, Paris 1996).
40 Per una lettura più approfondita del tema del conflitto e dell’oblio nella
polis, si veda il cap. 4.
41 N. Loraux, La tragédie d’Athènes, cit., p. 23.
42 G. Pedullà, “Introduzione”, cit., pp. 7-10.
43 Nicole Loraux è sempre stata molto attenta a evitare qualsiasi
sovradeterminazione dei testi e dei documenti alla luce di categorie
specificatamente moderne, che mettano in ombra la peculiarità del discorso
greco. In tale prospettiva, ad esempio, si può intendere la critica alla lettura del
concetto di stasis operata da Santo Mazzarino nelle sue opere, a detta di
Loraux troppo schiacciata sul concetto marxista di lotta di classe. Cfr. Loraux,
La tragédie d’Athènes, cit., pp. 161-171.
44 G. Pedullà, “Introduzione”, cit., pp. 47-52.
45 Cfr. S. Weil, La prima radice, SE, Milano, 1990 (ed. or., L’Enracinement.
Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, Gallimard,
Paris 1949).
46 R. Esposito, L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil?,
Donzelli, Roma 1996, p. 72.
47 Ivi, pp. 15-16.
48 Cfr. H. Arendt, Che cos’è la politica?, Einaudi, Torino 2006, pp. 63-96
(ed. or., Was ist Politik?, R. Piper GmbH & Co KG, Munchen 1993).
49 Per un approfondimento su questo tema cfr. cap. 4.
50 J. De Romilly, La Grecia antica contro la violenza, Il melangolo, Genova
2007 (ed. or., La Grèce antique contre la violence, Éditions de Fallois, Paris
2000).
51 Ivi, p. 119.
52 Ivi, pp. 165-166.
53 Ivi, p. 32.
54 Ivi, p. 103.
55 Ivi, p. 86.
56 J. de Romilly, La scoperta della libertà nella Grecia antica, Essedue
edizioni, Verona, 1991, p. 39 (ed. or., La Grèce antique à la découverte de la
libertè, Éditions de Fallois, Paris, 1989)
57 Ivi, p. 46.
58 Ivi, p. 143.
59 M.L. Pelosi, La separazione tra oikos e polis in una prospettiva di
genere, Università degli Studi di Napoli, Napoli, 2010, consultabile online.
60 H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 2004 (ed.or., The Human
Condition, The University of Chicago, 1958).
61 Ivi, p. 19.
62 A. Rich, 1979, On Lies, Secrets, and Silence: Selected prose 1966-1978,
Norton, New York,1979.
63 M. O’Brien, The Politics of Reproduction, Routledge and Kegan Paul,
Boston, 1981.
64 M.G. Dietz, “Feminist Receptions of Hannah Arendt”, in B. Honig (a cura
di), Feminist interpretations of Hannah Arendt, The Pennsylvania State
University Press, University Park, 1995, pp. 17-50.
65 Cfr. B. Honig, “Toward an Agonistic Feminism”, in B. Honig, (a cura di),
Feminist interpretations of Hannah Arendt, cit., pp. 135-166.
66 Ivi, p. 151.
67 Ivi, p. 141.
68 Cfr. N. Loraux, “Thucidyde a écrit la Guerre du Péloponnèse”, Metis, n. 1,
1986, pp. 139-161.
69 N. Loraux, “Qualche illustre sconosciuta”, in N. Loraux (a cura di), Grecia
al femminile, Laterza, Roma-Bari, 1993, p. X.
70 Discorso di Pericle in Tucidide, La guerra del Peloponneso (II, 45, 2)
citato in N. Loraux, “Aspasia, la straniera, l’intellettuale”,in Id. (a cura di),
Grecia al femminile, cit., p. 126.
71 N. Loraux, Come uccidere tragicamente una donna, Laterza, Bari 1988,
(ed. or., Façons tragiques de tuer une femme, Hachette, Paris 1985).
72 L. Irigaray, Speculum. Dell’altro in quanto donna, Feltrinelli, Milano,
2010, p. 17 (ed. or., Speculum. De l’autre femme, Éditions de Minuit, Paris,
1974).
73 N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 250
(ed. or., Les expériences de Tirésias. Le féminin et l’homme grec, Éditions
Gallimard, Paris 1989).
74 N. Loraux, “Qualche illustre sconosciuta”, cit., pp. VIII-XXXII e p. XXI.
75 Mi riferisco qui a opere come Dreieck mit Bogen, Dreieckundung II,
Kumetrie 2, Justizpalast (4) del 1982. Valie Export è un’artista multimediale
austriaca nata nel 1940. Le sue opere, tutte realizzate secondo un’ottica
femminista, comprendono installazioni, performances, cinema espanso,
fotografia, sculture, pubblicazioni. Per maggiori informazioni si rimanda al sito
valieexport.at.
2. L’Altro, la Donna

2.1 L’alterità come dispositivo politico

I famosi ateniesi, si dice, sono originari del luogo.


Sono un popolo che si è conservato puro.
Ai loro occhi avrò due torti, io:
figlio di uno straniero e bastardo.
(589-592)

In una città di purissima schiatta, lo straniero ha un bel


diventare cittadino,
la sua lingua resta quella di uno schiavo,
senza libertà di parola.
(673-675)

Mai uno straniero governi la città,


ma solo chi per natali appartiene
alla famiglia di Eretteo.
(1058-1060)76

Analizzando la società greca nella sua struttura è


impossibile non rendere conto di quelle zone di
esclusione e alterità di cui si compone lo spazio cittadino.
L’idea di corpo politico che la concezione della polis
sottende è infatti quella di uno spazio costruito attraverso
opposizioni nette tra il politico e ciò che esso esclude dai
propri ambiti, di ciò che riconosce come alieno, altro da
sé. Nella dialettica tra il politico e il suo “altro”, la città
crea la propria identità; nello spazio che li separa, essa si
costituisce in un rapporto di continuo riassorbimento e
messa a distanza. Tra il Medesimo e l’Altro, identità e
differenza, è possibile dunque cogliere le traiettorie che
rivelano un politico fondato su una differenza irriducibile,
su un due non ricomponibile, in cui il Sé trova se stesso
solo nel rapporto con l’alterità.77
Proponendo una riflessione circa la natura del politico
che viene a intersecare alcune delle questioni ontologiche
del rapporto identità/alterità, Nicole Loraux si inserisce
nel quadro della riflessione che ha accompagnato la
produzione intellettuale francese per quasi cinquanta anni,
in cui le Même e l’Autre rivestono il ruolo di protagonisti
assoluti nella dialettica costitutiva dell’identità. L’altro
risulta essere essenziale al Sé: nel pensiero, nella
politica, al di là dello spazio chiuso della città e della
sola storicità greca. Ciò che però rende unica la lettura di
Loraux è, anche stavolta, la sua capacità di tagliare in
parte i legami con le riflessioni che costituiscono lo
sfondo del suo pensiero, per aprire lo spazio a ulteriori
combinazioni e variazioni. Una rottura nella continuità.78
La Grecia si dimostra esempio paradigmatico di questo
movimento di costruzione del Sé in rapporto alla propria
alterità; in tale costruzione l’altro non può venir meno,
pena la perdita di consistenza dell’identità del Sé che si
costituisce nel rapporto con esso. In un rapporto così
connotato l’alterità non viene mai negata ma sempre
riassorbita nel medesimo, in un movimento continuo che
avvicina e separa i due termini della relazione. Difatti,
spiega Loraux, «Non esiste città greca che possa pensarsi
al di fuori di una qualche identificazione con il Sé. La
attesterebbe la ricorrenza dell’idea che i cittadini sono
per definizione uguali e intercambiabili tra loro, idea
nella quale i greci radicavano la propria rappresentazione
della città […]».79 La società greca pensa per opposizioni
e divisioni nette; su di esse viene a costituirsi una realtà
polarizzata, divisa in un versante buono e uno cattivo,
quello del Sé e del resto del mondo.80 È così che il mondo
greco costruisce la propria percezione di sé stesso, in un
continuo processo in cui l’alterità rimane costantemente il
paradigma per pensare la propria identità.
La città di Atene, la sua autorappresentazione, la
delimitazione dei suoi spazi fisici, si costituiscono in
questo incessante processo di identificazione e
differenziazione che rende possibile la nozione del Sé
solo attraverso il riconoscimento della sua coestensività
al proprio Altro. «Decisamente, – commenta l’autrice –
del sé, non vi è forse granché da dire, salvo capovolgere
quello che si dice dell’altro. Il che equivale a non potersi
definire che per via di negazione».81
L’autarchia del medesimo è impossibile. Perdendo
l’Altro, inglobandolo o eliminandolo completamente, il Sé
non potrebbe affermare la propria identità in alcun modo.
L’identità si fa con l’alterità; così la singolarità della città
viene a costituirsi su di una negazione che la rende
inafferrabile. È dunque, secondo Loraux, l’Altro che
lavora sul Sé e non l’opposto, come la tradizione
filosofica ci ha portato a volte a supporre. Ed è in questa
dialettica senza sintesi, in questo due senza reductio, che
il discorso dell’autoctonia fonda l’identità politica di
Atene nella messa a distanza della propria alterità: lo
schiavo, lo straniero, e, prima fra tutti, la donna.
La polis costruisce se stessa sull’opposizione,
lavorando sull’immaginario sociale attraverso la
narrazione di miti fondanti che giustifichino la sua realtà.
Fondamentale, in questo senso, risulta essere il mito
ateniese dell’autoctonia. Infatti, commenta Nicole Loraux,
«[…] per una collettività greca, niente vi è di più attuale
dell’origine, poiché nulla serve meglio agli interessi del
presente».82 Nell’autoctonia, la polis trova un modo per
mettere a tema la propria relazione tra sé e l’alterità,
costruendo divisioni assolute.
La leggenda narra di Erittonio, mitico antenato della
stirpe ateniese, nato da Gaia, Terra Madre resa fertile
dallo sperma del dio Efesto, mentre questi cercava di
possedere Atena, dea vergine per antonomasia. Nato da
Gaia, ma in seguito allevato Atena, dalla Parthenos che
per lui sarà madre, padre, nutrice ed educatore, Erittonio,
a cui viene riservato un posto d’onore in cima alla collina
sacra dell’Acropoli, fonda la stirpe ateniese, radicata
anch’essa nel proprio suolo di origine e celebrata nei
discorsi al Ceramico, il cimitero ufficiale della Città.83 Il
figlio della terra, i figli del suolo civico, «che, più che
una madre, è la terra dei loro padri».84
Da questa rappresentazione mitica la polis deriva il
proprio carattere democratico. Uguali per nascita e tutti
fratelli, i cittadini ateniesi sono tutti simili e
intercambiabili tra loro. L’eugeneia viene identificata con
la causa e la garanzia dell’ordine democratico esistente.
Radicati nel proprio suolo, che li ha generati, i cittadini
vantano un rapporto verticale con la propria Terra Madre;
a essa devono tutto, godendo tutti degli stessi diritti:
nessuno può infatti arrogarsi più potere rispetto al resto
del corpo politico. Parimenti, nessuno può tirarsi indietro
dall’esercizio di difesa della propria patria e delle
proprie istituzioni, sul campo di battaglia come in
assemblea.
L’autoctonia rappresenta il mito par excellence, sulla
base del quale la polis fornisce ai propri cittadini
un’immagine aristocratica dei propri membri, distinti da
tutti gli altri greci, dagli stranieri e dalle donne per la loro
origine esemplare. Da una parte, l’oikeîn del cittadino;
dall’altra, “l’abitare con”, proprio degli stranieri, ma che
include anche schiavi e donne.
Dal mito dell’autoctonia, la polis fa derivare
un’immagine di se stessa come realtà perenne, che sfida le
leggi della temporalità, radicando la democrazia nel
tempo originario e fornendo ai propri cittadini la certezza
di appartenere al modello di città più conforme al
pensiero greco, quello in cui ogni alterità viene esclusa.
La visione che discende direttamente da tali premesse è
quella di una comunità politica unita, radicata nell’Uno, in
cui tutti i membri del corpo civico sono fratelli legati a
una stessa madre e intercambiabili tra loro. Attraverso il
mito e i discorsi ufficiali, la città di Atene si presenta ai
propri figli come un’entità che li racchiude
completamente, a cui essi devono la propria nascita,
dunque la propria vita. In tale ipostatizzazione della
comunità, i discorsi ufficiali cristallizzano i propri
rapporti con l’alterità. Da Pericle a Iperide, il discorso
civico continua a essere animato dallo stesso postulato:
tra gli ateniesi e gli altri vi è una differenza irriducibile.
Vi fu però una fase delle istituzioni ateniesi in cui
questa rigida opposizione tra la politeia, la cittadinanza
piena del maschio ateniese, e l’alterità dello straniero
divenne secondaria.85 All’interno del progetto politico di
Clistene – tra i padri fondanti dell’ordine democratico (al
quale, però, la città destina un ricordo decisamente
flebile) – la rigida opposizione tra la polis come
univocamente definita dai propri andres e dalla kora – il
suolo civico – lascia spazio a un sorprendente processo di
allargamento della cittadinanza attraverso la
naturalizzazione di molti degli stranieri presenti nel suolo
civico, mostrando così un’apertura e un’integrazione
impensabili nel secolo successivo. Tra le ragioni di tale
apertura, commenta Loraux, è da tenere in considerazione
il fatto che ad Atene, reduce da stasis e dalla tirannia dei
Pisistradi, l’allargamento della cittadinanza potesse
essere considerato come momento non solo rassicurante,
ma anche strettamente identitario. In seguito all’inclusione
degli stranieri nel corpo civico, infatti, si procedette alla
definizione della cittadinanza una volta per tutte. Da quel
momento, spiega l’autrice, fu possibile per gli ateniesi
stabilire l’identità della città per sorvegliarne i confini in
una fase di chiusura ideologica e conservatorismo.
L’istituzione della democrazia tramite la riforma di
Clistene diviene la premessa, ideologica e non, della
futura supremazia ateniese.
He Polis. Sotto il nome di un’ipostatizzazione la città
di Atene perde le proprie caratteristiche contingenti e
diviene agli occhi dei suoi membri la Città, un’esistenza
autonoma, un’astrazione in cui si denota una realtà che
supera ogni gruppo umano e ogni concreta singolarità. Nel
discorso ufficiale, l’onnipresenza della polis la trasforma
in una entità specifica, nel cui nome ogni differenza reale
all’interno del suolo civico viene tralasciata. La Città ha
deciso, la Città ha fatto; dai testi ufficiali alle
rappresentazioni quotidiane la polis diviene soggetto, fino
al punto da poterle attribuire un’anima;86 essa è paradigma
e telos di ogni singolo cittadino, terreno per pensare
l’individuo «dal momento che essa, secondo una
concezione greca tradizionale, è ciò che dà senso a ogni
cosa».87
Primo motore immobile, fonte di ogni valore, la Città
celebrata dagli oratori e dal discorso civico ignora ogni
tensione, assorbendo la pluralità in una singolarità astratta
e sopprimendo ogni contraddizione e diversità del corpo
sociale. Attraverso un’ideologia che tende all’Uno, la
Città nega l’esistenza di ogni divisione e distinzione su cui
il corpo civico viene a fondarsi, denegandola.

Non contenti di identificare se stessi con Atene, gli ateniesi


inventarono Atene. L’esperienza ateniese della città non può esser
ridotta all’empirismo dell’esperienza politica così prontamente
attribuito ai greci; nella polis, nel senso in cui gli ateniesi del periodo
classico intendevano il termine, l’immaginario occupava un posto ben
più grande di quanto si crede solitamente.88

Nell’Atene del V secolo, l’autorappresentazione della


città conquista uno spazio e un luogo definito: l’orazione
funebre declamata nel Ceramico per i morti della Città è
momento ufficiale di celebrazione dell’ideologia ateniese.
Il discorso al Ceramico, dichiara Loraux, mantiene con
l’ideologia civica un rapporto osmotico che rende
impossibile limitare l’approccio al genere dell’elegia a
una lettura di tipo esclusivamente letterario. L’orazione
funebre non è un discorso autonomo, è il cuore della
celebrazione dell’immagine di Atene. Pratica
esclusivamente ateniese, laddove l’esclusività diviene
vanto, l’orazione funebre si rivela essere un discorso
autoreferenziale in cui la città che rende onore ai morti
riscopre se stessa come valore e come nomos. «Tra tutti i
greci solo gli ateniesi sanno come onorare il valore –
dichiara Demostene – solo loro nel mondo danno orazioni
funebri per i cittadini che sono morti per il loro paese».89
Il discorso nel Ceramico si occupa di inserire in un
quadro istituzionale la celebrazione dell’aretè dei
cittadini morti, a vantaggio della città intera. I morti di
Atene vengono celebrati in quanto ateniesi, liberi da
qualunque altro status che non sia quello del cittadino e da
qualunque riferimento personale alla propria vita
quotidiana, alla propria famiglia, al proprio deme. Tutti i
legami vengono oscurati, ogni differenza viene fatta
cadere. «Nel seppellire i propri morti […] la comunità
ateniese si appropria di loro per sempre».90 La Città
raccoglie per sé l’intera gloria dei propri caduti; in questo
modo, essa crea la propria unità.
L’orazione funebre, celebrando l’atemporalità
dell’idea di Atene al di sopra dei morti della storia
ateniese, rende possibile nell’universo civico conciliare il
tempo frammentato delle battaglie con l’orizzonte
paradigmatico e senza tempo della Città. Il tempo della
Città, il tempo dei cittadini, il tempo dei morti, si trovano
a coesistere in un unico discorso; l’esaltazione della Città
sovradetermina la dimensione presente, diluendo il senso
della temporalità in un aion ripetitivo, lasciando accedere
la polis a una dimensione senza tempo. Nonostante le
vicissitudini militari e gli avvenimenti della politica, la
Città rimane la stessa, una e identica attraverso le ere.
Nell’orazione funebre, l’immagine della polis agli occhi
dei cittadini non è quella di una continuità che si schiude
attraverso la storia, ma un’immagine ripetitiva, sempre
uguale a se stessa. «In questo modo – spiega Loraux –
l’orazione funebre assume la sua funzione educativa
ancorando la città in una temporalità senza
cambiamenti».91 L’autorappresentazione di Atene
intrattiene dunque un rapporto particolare con il tempo e il
suo fluire: non solo nell’orazione non è possibile
rinvenire una cronologia veritiera della storia ateniese e
delle gesta dei suoi caduti; non solo essa percepisce se
stessa al di là di qualsivoglia limite temporale, ma
esclude dalla storia ogni possibilità di cambiamento
entrando così, spiega l’autrice, in contraddizione con
l’intera esperienza greca del processo storico.92 Il
Menesseno platonico, nel prendersi gioco del discorso
civico ufficiale, rivela i pericoli della perdita di
concretezza che soggiace all’ipostatizzazione della città.93
Fuori dal tempo e fuori da qualsiasi riferimento alle
singolarità, sia dei caduti che dei cittadini riuniti al
Ceramico, l’elegia si trasforma in un momento di estasi
narcisistica, in cui la forza persuasiva del discorso si
tramuta in oblio della realtà più immediata.
Nata probabilmente nel 460 A.C., con la democrazia di
Clistene ed Efialte, l’istituzione dell’orazione funebre
trovò immediatamente una propria funzione ideologica
legandosi agli obiettivi della politica ateniese del tempo;
infatti Atene, dal 461 in guerra contro il resto della
Grecia, si trovava all’epoca coinvolta in una lotta per
l’egemonia, una battaglia ideologica contro il resto delle
altre polis che ammetteva ogni espediente. Per la politica
ideologica della città di Atene divenne fondamentale
presentare la democrazia ateniese, sia agli occhi dei suoi
cittadini che di tutto il resto della Grecia, come modello
ineguagliabile. Così, ad esempio, l’orazione funebre
assunse un ruolo decisivo nella guerra contro Sparta,
divenendo parte attiva nella macchina da guerra ateniese.
Puntando sulla propria presunta superiorità intellettuale e
sull’elogio del suolo civico che ha dato vita ai valorosi
cittadini morti per la propria terra, Atene combatteva nel
proprio cimitero civico tanto quanto sul campo di
battaglia.
La caratterizzazione ideologica del discorso funebre si
affievolirà gradualmente, di fronte ai primi insuccessi
militari. Nel quarto secolo, dopo la sconfitta del 404 e la
perdita dell’egemonia, si assiste a uno slittamento interno
al discorso funebre che porta l’orazione a spostarsi dal
tema dell’unicità della Città a quello di Atene come
simbolo di civilizzazione da imitare nell’impresa
panellenica. Per questo motivo, lungi dal ridurre il
discorso funebre alla sola funzione imperialistica,
questione che Loraux stessa rileva come controversa e
ambigua, gli epitaffi vanno letti nella loro doppia valenza,
come discorso rivolto alle altre città attraverso, innanzi
tutto, il consumo interno. La Città riuscì a coniugare
questa doppia destinazione attraverso una cerimonia in cui
l’Altro – lo straniero – assente in quanto avversario ma
presente alla celebrazione in quanto alleato, veniva
fortemente invitato a partecipare accanto al resto della
cittadinanza ateniese. Nei suoi confronti l’orazione
svolgeva un ruolo “militare”. Di questo ci parla Platone
quando, all’interno del Menesseno, ironicamente narra
per via socratica come nel discorso funebre l’esaltazione
della gloria di tutti gli ateniesi abbia reso persino lo
stesso Socrate pieno di valore agli occhi degli stranieri
accanto a lui. «Al di sotto della maschera democratica di
apertura – commenta Nicole Loraux – è abbastanza facile
rilevare un desiderio di impressionare gli stranieri,
alleati, amici, e reali o potenziali nemici».94 In questo
senso, il discorso funebre non mira tanto all’esaltazione
dell’impero ateniese in quanto tale, riducendosi a mera
propaganda imperialistica, ma celebra innanzi tutto
l’eccellenza di Atene, la sua essenza, prima ancora del
suo potere.
Lodare gli ateniesi caduti significa lodare Atene e tutti
i suoi cittadini, vivi o morti che siano. Celebrando un
modello di città conforme ai propri ideali, la polis
elabora una visione di sé a uso proprio e della propria
posterità che informa tutto il politico greco. Attraverso
l’elogio la comunità perviene alla propria gloria.
Nell’epitaffio l’alterità trova molteplici forme, giocando
sempre lo stesso ruolo: quello dell’inferiore, del
subordinato.
Attraverso l’orazione funebre la Città e i suoi cittadini
si rendono paradigmi. Dal momento che la guerra è un
affare tutto al maschile, la Città al Ceramico non lascia
spazio a nulla che non rientri nell’universo virile
dell’aretè e dell’andreia. Nelle cerimonie pubbliche non
vi è spazio per ciò che l’ideologia civica mette al bando:
il dolore, il lamento, la donna hanno un ruolo strettamente
limitato e controllato all’interno della funzione civica.95
Ogni epitaffio celebrato di fronte alla comunità riunita nel
Ceramico tenta di assolvere alla doppia funzione di
discorso didattico per i giovani ateniesi e di elogio
consolatorio per gli adulti che hanno perso i loro cari; in
questo senso, per assolvere a questa doppia finalità, il
discorso argina necessariamente tutti gli eccessi di dolore
legati al lutto, bandendo il threnos, la lamentazione, dal
proprio spazio celebrativo e tendendo sempre verso la
forma più pura della celebrazione. Contemporaneamente,
la democrazia ateniese elabora una visione di sé in cui la
Città racchiude ogni ruolo sociale: quello di madre,
padre, figlio, discendente, guardiano.96
He Polis, dunque, è soprattutto una realtà trascendente
ogni ruolo, ogni specificità, ogni connotazione concreta.
Trascende in primo luogo la distinzione fondamentale tra
maschile e femminile. La città di Atene, senza volto, senza
tempo, è anche e innanzi tutto al di là del genere.97
Nell’esclusione dall’orizzonte civico – strutturale per gli
schiavi, politica ma non sociale per la donna e lo
straniero98 – dell’altro dalla propria “purezza autoctona”,
Atene delimita i propri confini, il proprio spazio politico,
i luoghi fisici e simbolici all’interno dei quali la città si
autorappresenta. In questo movimento l’Altro viene
collocato ai bordi, esiliato, escluso, ma mai eliminato. Il
legame non può essere reciso, pena la perdita della
propria identità. La tentazione di un’annessione è grande e
costante, ma resa impossibile dalla stessa struttura del
rapporto.99 Allontanato ed esiliato, l’escluso ritorna
sempre. Sarà allora la tragedia a farsi carico di ciò che la
politica espelle dai propri luoghi, reintegrandolo nella
città.100 Il teatro tragico, commenta Nicole Loraux, è il
luogo in cui ciò che viene escluso dallo spazio civico
trova la propria messa a tema. Come l’assemblea
(ecclesia), anche lo spazio del teatro deborda al di fuori
dei limiti che la città, già dal periodo arcaico, assegna
alla vita pubblica; per questo motivo, nel V secolo, quasi
in un unico passo, le due realtà, l’assemblea e il teatro,
lasciano contemporaneamente lo spazio civico
dell’agorà, per installarsi rispettivamente sulla Pnice e ai
piedi dell’Acropoli. Realtà ambigua, spazio civico pronto
ad accogliere ciò che civico non è, il teatro si connota
così come luogo dell’antipolitico per eccellenza, nella
sua doppia accezione di altro dalla politica e di politico
altro, rispetto all’ideologia della Città.101

Per andare diritti all’essenziale, dirò che è antipolitico qualunque


comportamento che travisi, respinga o metta in pericolo,
coscientemente o meno, i requisiti e i divieti costitutivi dell’ideologia
della città, la quale fonda e nutre l’ideologia civica. Con «ideologia
della città» intendo essenzialmente l’idea che la città debba essere –
e quindi, per definizione, sia – una e in pace con se stessa.102

Ciò che il teatro mette in atto nell’universo civico non è


altro che la possibilità di un politico altro rispetto
all’idea civica di unità e consensualità. Quel che il teatro
e la tragedia mostrano in modo vivido è la possibilità di
un politico basato su quel “legame della divisione” che
rappresenta il cuore originario di ogni spazio condiviso,
quel cuore conflittuale che l’ideologia civica maschera
sotto le parole della concordia.103 La specificità
dell’universo tragico risiede nella sua prerogativa di
creare mescolanza laddove lo spazio civico crea
contrapposizioni. La tragedia è dunque il luogo dove
l’escluso e l’obliato trovano il proprio posto, siano essi la
donna, lo straniero, il lutto o il conflitto; il luogo dove
l’acclimatazione dell’Altro diviene possibile.104 Tutto ciò
ovviamente a una condizione ben precisa: volgere le
spalle al presente, dislocare la narrazione nello spazio e
nel tempo, porre una distanza ben precisa tra il Sé e
questo Altro che lo informa.
La tragedia riesce così a esprimere in un contesto
ufficiale e socialmente controllato quei concetti che il
discorso civico non potrebbe ammettere in alcun altro
contesto. In virtù dello spazio tragico, il non politico
viene dunque accolto nel politico; assimilato e
metabolizzato, esso può essere presente nell’universo
civico senza interferire con le rappresentazioni ufficiali.
Si prenda ad esempio in considerazione l’atteggiamento
civico di ostilità nei confronti del risentimento e del lutto,
specie se privato. La città depotenzia la seduzione
paralizzante del lutto attraverso due vie definite: la prima
strategia è quella della sublimazione politica, quella del
discorso ufficiale (unica istanza di immortalità concessa
ai defunti dallo spazio civico) che elogia pubblicamente i
morti della città regolando in realtà gli accessi di dolore
dei familiari, soprattutto delle donne;105 la seconda
strategia, è invece affidata al teatro e trova i propri
presupposti nell’oblio del lutto, che defluisce in lacrime
riservate a vicende lontane.106 In virtù della sua
dislocazione nello spazio e nel tempo, la tragedia
permette sulla scena il riconoscimento di un tratto comune
con l’alterità; al di là della cittadinanza l’Altro appare
sorprendentemente vicino in un contesto che, però, “non è
reale”. Per i cittadini diventa così possibile mettere a
tema l’alterità senza che la propria identità corra alcun
rischio e ritrovare nel dolore, nonostante essi siano
andres, una comunità con tutti gli anthropoi.107 Il discorso
civico, dunque, ha «bisogno di una distanza sufficiente per
vedere lo “stesso nell’ “altro” […]».108
Il teatro è per la città un luogo di importanza
fondamentale, poichè al suo interno trova la possibilità di
conciliare i due poli del politico che la compongono: da
una parte, la prescrizione della dimenticanza che connota
la prassi politica per eccellenza nell’universo greco;109
dall’altra, la messa in scena di quel lutto che risveglia la
memoria e di tutto ciò che resiste alla retorica civica.
Per mantenere la democrazia, la città ha dunque
bisogno di salvaguardare i propri confini, preservando gli
spazi del corpo civico tramite pratiche di sorveglianza ed
esclusione. In questo senso, nulla risulta essere più
dirimente della fondamentale equivalenza tra cittadinanza
e nascita per definire l’immagine del cittadino.

[…] La definizione del cittadino viene determinata in modo doppio:


dal suo stato di aner (uomo) e dalla sua filiazione ateniese. Questa
affermazione d’identità, ripetuta in due modi, ci conduce per prima
cosa a comprendere che pensare la città comporta necessariamente
l’assegnare un posto alla divisione dei sessi.110
È evidente come lo statuto di cittadino comporti nella sua
definizione anche una riflessione sull’ordine riproduttivo
della polis. In quanto uomo, egli definisce se stesso in
contrapposizione all’universo femminile e sulla base di
un’esclusione della donna; in quanto figlio di due genitori
ateniesi, egli viene definito attraverso l’ambito della
riproduzione, che è integrato nella città. Attraverso il mito
dell’autoctonia, tramite cui la figura della donna nella
città viene definita da uno spazio vuoto, l’uomo esclude
ogni riferimento al femminile dal proprio universo
mentale, realizzando così, momentaneamente, il desiderio
implicito di una società unica e omogenea; per mezzo
delle leggi della parentela, invece, egli viene come
riportato bruscamente alla realtà, in cui la riproduzione e
la differenza sessuale giocano un ruolo rilevante.111
«L’esclusione delle donne, la metà “paradossale” della
polis greca [è] un’esclusione che è necessaria e
impossibile nello stesso momento».112
La parentela e le leggi riproduttive rivelano
l’impossibilità di spingere l’uomo greco fin dove il suo
pensiero lo porterebbe, ossia all’esclusione totale della
componente femminile dalla polis. La società ateniese si
connota dunque come società in cui lo statuto del
cittadino, e con esso tutte le opposizioni fondamentali a
definirne gli spazi e l’identità, viene costruito sulla base
di una più fondamentale opposizione tra i sessi. Dalla
differenza sessuale, in altre parole, l’uomo definisce se
stesso in quanto membro del corpo civico; dalla
differenza sessuale, la città definisce l’opposizione vitale
tra la politica e tutto il resto.113 L’opposizione tra il
maschile e il femminile struttura la società ateniese.

2. Pensare la differenza sessuale ad Atene

La sessualità, in Grecia, fa politica. Nonostante il politico


non venga a esaurirsi completamente in un discorso sulla
sessualità, sulla base della differenza sessuale la città
innesta la distinzione tra ambito del politico e ciò che da
esso viene escluso, tracciando così i contorni della
propria identità. La differenza tra i sessi permette al
cittadino greco quel pensare per opposizioni su cui la
polis costruisce la propria unità. In virtù dell’opposizione
all’Altro – per esser più precisi, all’Altra – il cittadino
pensa se stesso e il proprio agire nella polis; per l’andres
della Città, pensare la differenza significa riflettere sulle
condizioni del politico. Sarebbe però errato e ingenuo
concludere che questo legame implicito tra sessualità e
politica venga messo a tema in modo limpido e manifesto.
Il pensiero greco pensa per opposizioni, costruisce la
propria identità a partire dalle distinzioni nette. A partire
da queste opposizioni, però, tale pensiero tende a
ricostituirsi, nell’ideologia civica, come un pensiero
dell’Uno, del logos puro. In questo modo la dialettica alla
base della percezione del Sé viene obliata per far posto
alla rappresentazione di un’unità senza resti, rimuovendo
da ogni rappresentazione la divisione irriducibile alla
base del politico. Così per il conflitto, così per l’alterità.
In misura ancora maggiore ciò avviene riguardo la
consapevolezza di uno spazio del politico creato a partire
dalla differenza sessuale.
La presenza della donna è per il pensiero greco una
realtà scomoda, poiché suggerisce l’impossibilità di
quella sintesi in unità a cui esso aspira, ricordando alla
Città l’imprescindibilità del due. L’apparizione della
donna nella storia dell’umanità segna, per la tradizione
mitica, la frattura che sancisce il definitivo distacco del
genere umano dalla divinità. Il periodo di prosperità
dell’età dell’oro, in cui gli uomini – e solo gli uomini –
potevano godere della vicinanza degli dei, sperimenta la
separazione di questi orizzonti – umano e divino – già
nella prima spartizione sacrificale operata da Prometeo
che, frodando gli dei, fonda così lo spazio della comunità
umana.114 Tale frattura, però, narra il mito, venne da allora
sempre superata attraverso il rituale sacrificale, che per
mezzo dell’immolazione agli dei ripristinava il legame
spezzato. Gli uomini e gli dei, seppur distanti, erano
ancora legati. Ma davanti a un Prometeo recidivo, che
aggira ancora una volta l’autorità divina rubando per
l’umanità il fuoco di cui Zeus l’aveva privata, il padre
degli dei sancisce irrimediabilmente l’allontanamento
degli uomini punendoli attraverso l’introduzione nella
sfera umana di una maledizione che ripagherà l’affronto:
la donna, «causa di tutti i mali».115 Nell’istante di questa
apparizione, gli uomini cessano di essere un’unità
indivisibile di anthropoi, affacciandosi così
definitivamente alla condizione umana ritrovandosi a
essere andres, metà di un umanità non più omogenea. La
donna, spiega Loraux, separa gli uomini da se stessi,
attraverso l’introduzione della sessualità, prima delle
asimmetrie tra il Sé e l’Altro. Attraverso la donna, la
dualità si insinua nella realtà, e la condizione umana si
ritrova irrimediabilmente radicata nella divisione. La
donna coincide con la scoperta di una condizione umana
irreparabilmente scissa, fondata sul due. Per un pensiero
civico che aspira all’unità, la differenza sessuale
rappresenta una dolorosa cicatrice. Nel discorso ufficiale
tale differenza deve essere normalizzata, obliata;
nell’ideologia della Città l’eccesso dell’Altro rispetto al
Sé deve essere inglobato nella solidissima tassonomia dei
ruoli e dei luoghi.
La realtà istituzionale si fonda sulla divisione ma si
stabilisce come ideologia dell’unità. In questa operazione,
lo spazio civico viene portato a coincidere interamente
con la componente maschile della società. Il discorso
della città è uno e uno soltanto, quello dell’andreia.
Nessuna ulteriore divisione è ammessa dal discorso
ufficiale. La città sono gli uomini.
In tale orizzonte interpretativo si inserisce, ad esempio,
il racconto della guerra contro le Amazzoni. Tale
narrazione assume il valore esemplare della vittoria
dell’ordine (maschile) sul capovolgimento del rapporto
tra valori e phusis femminile operato dalle Amazzoni,
donne guerriere. Nell’immaginario civico la natura
femminile viene inquadrata nei topoi dell’eloquenza che
attribuiscono alla donna l’immagine della creatura
indifesa, moglie o sorella destinata al matrimonio e che la
città ha il compito di difendere dagli oltraggi e dalla
violenza. In questo quadro la donna non possiede una
virtù, se non quella del suo silenzio: l’unica virtù è l’aretè
maschile. Vi sono due virtù opposte e separate in Atene,
che non coincidono e si oppongono.116 E mentre l’aretè
maschile consiste, nel celebre epitaffio di Pericle,
nell’andare sempre oltre la propria phusis, questa natura,
nel caso delle donne, deve essere intesa come norma da
cui non fuoriuscire.117 Le Amazzoni dunque, donne e
guerriere, rappresentano uno stravolgimento del rapporto
femminile natura-virtù; in tal senso la narrazione della
guerra e della loro sconfitta assume nell’immaginario
civico un valore squisitamente politico. Le donne
guerriere rappresentano per il pensiero greco
un’aberrazione inconciliabile: gunaikes nel corpo, si
appropriano indebitamente della virtù maschile del
coraggio. Attaccando Atene per brama di potere – che,
come si vedrà, caratterizza sempre il femminile agli occhi
del cittadino – le Amazzoni si scontrano con degli andres
agathoi, davanti ai quali il loro coraggio non può che
svanire, restituendole alla loro indole femminile. Punite
per essersi indebitamente appropriate del nome del
maschile, le Amazzoni perderanno il proprio nome,
estinguendosi.
La figura della donna ad Atene è una figura muta che
appare schiacciata su una tassonomia in cui non le viene
assegnato alcun altro ruolo che quello di sposa e madre
del cittadino ateniese. Colto dal punto di vista
dell’ideologia civica, il femminile risulta esaurito nella
maternità. La controversa presenza femminile all’interno
del genere umano viene giustificata dal pensiero civico
sulla base del ruolo di madre, che rende la donna una
maledizione necessaria, fondamentale alla sopravvivenza
della città attraverso le ere. Nonostante non esista una
cittadinanza ateniese al femminile, la maternità è ritenuta
un’attività civica. Mettere al mondo cittadini ateniesi è
un’imposta alla città che il femminile è chiamato a
versare.118 Divenendo madre, infatti, la donna adempie al
proprio ruolo nella società, garantendo la continuazione
della stirpe e del nome.
Il ventre della madre diviene luogo del futuro della
città, laddove partorire assume il significato univoco di
generare figli maschi da offrire alla polis; la nascita di
una figlia è di rado rappresentata nel discorso civico,
come se la città potesse prescindere dalle sue stesse
riproduttrici. La madre acquisisce uno status legale e
politico nella città solo indirettamente, in virtù del suo
ruolo materno. La donna produce andres, la donna
produce la Città; in virtù di questo telos, a cui la
soggettività femminile viene interamente ricondotta, la
donna è riammessa all’interno dell’immaginario civico
come silenziosa e ambivalente mediazione e controparte
del cittadino. La donna, così come l’universo dell’oikos, è
dunque esclusa dal politico, ma risulta necessaria alla
sopravvivenza dello stesso.
La donna, e con lei la differenza sessuale, è una realtà
scomoda perché impolitica: la sua inesistenza all’interno
dello spazio politico viene sanzionata dalla polis persino
attraverso la lingua. La donna di Atene, in quanto tale,
infatti, non ha un nome per dirsi. Ad Atene non esiste
alcuna traccia di un discorso sulla donna che ne evidenzi
la partecipazione alla vita della città. Nella lingua greca
non esistono “donne ateniesi”, ma esclusivamente “donne
di Atene”.119 Nella lingua civica non è possibile
rintracciare alcun modo per riferirsi alla componente
femminile se non tramite un segno di appartenenza che
priva il soggetto di ogni autonomia, assegnandolo a
qualcos’altro. In questo modo già nel linguaggio la donna
è caratterizzata come appartenente a qualcosa di diverso
da sé – alla città, ovviamente, ma anche al cittadino – nel
quadro di una legittimazione del femminile che si dà solo
nello spazio del matrimonio legittimo e della maternità.
La donna è, secondo Semonide, un essere privo di
logos: perciò, sulla base della distinzioni tra vivente
politico e animale propriamente detto elaborata da
Aristotele, la donna è costitutivamente impolitica. Tuttavia
le donne non rientrano tra le categorie dei soggetti non
politici, come gli schiavi, gli anziani e i bambini. In virtù
del loro ruolo riproduttivo esse assumono una posizione
liminare, come realtà non minacciosa perché non detta dal
discorso civico. Nella posizione liminare, asimmetrica,
della donna nei confronti dello spazio civico, nella sua
esclusione non lineare, è possibile dunque intravedere
quel movimento per cui l’alterità, messa fuori, esclusa,
allontanata da un universo omogeneo e coerente, torna a
manifestarsi.

3. Derealizzazioni

I processi di derealizzazione messi in atto dalla città


radicano la tassonomia sociale sottesa dall’ideologia
civica nell’immaginario diffuso della polis. L’operazione
di giustificazione dell’ordine esistente e dell’esclusione
della sfera femminile dallo spazio civico si svolge
attraverso la produzione, all’interno della narrazione
mitica e delle rappresentazioni fondanti dell’immaginario
sociale e della cultura cittadina, di immagini della donna
che ne lasciano sfumare la presenza concreta e che la
definiscono in negativo rispetto all’andres civico.

La pratica sociale e politica dei greci concede la parola ai soli


andres e, sullo sfondo del loro pensiero mitico si intuisce il rimpianto
che un giorno siano apparse le donne, il sogno di vivere e riprodursi
senza passare attraverso di esse.120

Attraverso il mito, dunque, l’eccesso femminile può


essere restituito alla “normalità” del politico. Guardiamo,
ancora una volta, al mito dell’autoctonia come primo
passo della costruzione sociale dell’immagine civica del
femminile e luogo della derealizzazione della donna. «La
donna è nata sotto il segno della diversità».121 Nata non da
una zolla ma da un blocco d’argilla, terra che si fa materia
docile, a differenza dei cittadini ateniesi la donna non
proviene dalla Terra: non godrà dunque dell’accesso al
corpo civico e la sua presenza nello spazio della città sarà
sempre segnata da ambivalenze. Inoltre, a differenza della
Madre, la donna non è la Terra. L’archetipo della donna
greca non è Gaia, non è Atena: è Pandora, donna fatta di
terra. Nata dalle mani di Efesto, fatta di argilla, la donna
si connota in primo luogo come essere artificiale,
involucro vuoto, pura esteriorità. Pandora è questo, e
molto altro ancora. Realizzata sul modello della
parthenos, essa è una donna perché assomiglia a una
donna. La donna non è che una copia di se stessa.
Come punizione all’affronto di Prometeo, Zeus
introduce Pandora tra gli uomini avviando la
“colonizzazione” dell’umanità da parte della “razza”
femminile, genos complementare e isolato rispetto al resto
dell’umanità. La donne vengono descritte dal mito esiodeo
come una razza a sé, un circuito chiuso, in cui la
riproduzione non contempla altro che la generazione di
altre donne. Scissiparietà e asimmetria, tali le
caratteristiche della razza delle donne, che per “natura”
sono inclini all’eccesso, poichè caratterizzate dalla
mancanza più assoluta.122 Non è difficile scorgere dietro a
una tale raffigurazione del femminile un’operazione volta
a liberare il campo della rappresentazione dal fantasma
della riproduzione attraverso l’unione dei sessi. Tale
narrazione finirà con l’informare tutta la cultura greca,
orientando persino la descrizione del processo
riproduttivo degli scritti biologici aristotelici. Al cittadino
ateniese viene contrapposto non un gruppo di donne
ateniesi, ma l’intera “razza” femminile, poiché le donne di
Atene non possono godere del nome della propria città.
L’autoctonia è connessa all’andreia, e a questa soltanto.
La raffigurazione esiodea stabilisce una comunità
civica chiusa e silenziosa, in cui la donna non trova il
proprio luogo se non come elemento aggiunto
artificialmente; ma non solo: affrontando la questione
della sessuazione e della nascita, il mito definisce i ruoli
sociali del padre e della madre. Senza dubbio, commenta
Loraux, «ci sono molti vantaggi nel narrare le origini di
Atene senza menzionare le donne».123 Nel mito
dell’autoctonia la riproduzione umana viene abbandonata
a favore di una maternità trascendente, quella di Gaia e di
Atena; la madre umana non compare e le ateniesi vengono
spossessate della loro funzione riproduttiva.

[...] Ciò che è opportuno sottrarre alle madri per emarginarle


dall’origine, è quella gravidanza e quella funzione riproduttiva che
tuttavia gli uomini greci attribuiscono loro, al tempo stesso come un
dono di natura e come il più civico dei doveri.124

All’origine vi è una sola madre e una nascita che,


prescindendo dall’unione dei sessi, esclude
simbolicamente tutte le madri. All’interno
dell’immaginario civico si delinea un controverso legame
tramite il quale il suolo civico, incarnato dalla Terra
Madre, viene a sostituirsi alla realtà plurale e umana delle
madri ateniesi. Attraverso l’identificazione dell’archè
assoluto con la terra di Atene, la donna esce totalmente di
scena.
«La lingua nega loro un nome, le istituzioni le
costringono nel loro ruolo materno, e la rappresentazione
ufficiale sembra provare a privarle di tutto, incluso il loro
stato di madri».125 Le donne “degli ateniesi” vengono a
essere spossessate del ruolo riproduttivo, unico attributo
della loro cittadinanza “latente”, che viene ricondotto al
suolo della città; questa dislocazione della maternità nella
trascendenza arriverà all’affermazione per cui «non la
Terra imita la donna nel concepire e nel partorire, ma la
donna la Terra».126 Tale opinione, contenuta nel
Menesseno platonico, nel tempo ha portato numerosi
storici e antropologi ad assumere la condensazione e lo
spostamento del ruolo materno nel trascendente come alla
base di tutte le metafore agricole utilizzate dalla società
greca per alludere al matrimonio e alla riproduzione.127
Sulla base dell’autorità attribuita alla figura di Platone,
l’origine delle metafore della vita sessuale e matrimoniale
greca, secondo le quali la donna è un campo da arare e
l’uomo è colui che pone il suo seme nel solco appena
creato, viene fatta risalire al rapporto di somiglianza e
imitazione che la donna viene ad avere con la Terra. Di
fronte all’unicità della Terra fertile, che attraverso un
parto solitario ha saputo produrre la stirpe ateniese,
l’attività riproduttiva degli esseri umani sembra essere
derivata per somiglianza. Questo nonostante la realtà della
riproduzione umana sia assillata dal fantasma della
sessuazione e dell’unione tra i sessi, che fa sì che nel
discorso civico l’immagine del suolo fertile venga
opposta alla rappresentazione della donna-solco,
addomesticata e civilizzata dall’attività coniugale. In tale
lettura si inserisce, ad esempio, l’affermazione di Vernant
per cui «la donna […] si identifica ora, nella sua funzione
procreatrice, con un campo»128 o le varie interpretazioni
che tendono a collegare la festa civica delle Tesmoforie
all’analogia tra il corpo femminile della moglie del
cittadino e il campo fertile da cui esso è originariamente
nato. In realtà, commenta Nicole Loraux, non vi è nel
Menesseno alcun riferimento al vocabolario agricolo, né
il discorso platonico vi allude a una qualche presenza
maschile, a un qualche “seminatore”, cosa che rende ben
più difficile dedurre dalla fonte platonica la legittimità
della lettura fornita dagli storici e dai lettori del testo. Nel
Menesseno tutto sembrerebbe far pensare a una effettiva
derivazione per somiglianza della maternità umana da
quella divina. Attraverso la precedenza attribuita da
Platone alla Terra nell’espressione gê te kai meter, si
direbbe che il filosofo intenda indicare esattamente un
rapporto di imitazione; in realtà, spiega l’autrice, è
doveroso tenere conto del fatto che, per Platone, ogni
imitazione sottende sempre una rivalità. È così allora che,
leggendo tra le righe, il discorso platonico diviene il
luogo privilegiato per rintracciare la segreta rivalità tra la
Terra e le donne, tra la Madre e le madri, per il
riconoscimento del ruolo di onnipotente donatrice di
vita.129
Una simile operazione, commenta Loraux, comporta
senza dubbio numerosi guadagni sul terreno del discorso
civico. Per Loraux sono essenzialmente tre le ipotesi circa
le motivazioni che possono spingere un uomo greco a
pensare la maternità umana come secondaria e mimetica
rispetto alla partenogenesi mitica. L’ipotesi più semplice
sottolinea come in un tale spostamento alla donna venga
assegnata una identità puramente corporea, semplice
ricettacolo dell’azione maschile che è invece l’unico e
vero attore dell’atto riproduttivo. In secondo luogo, nel far
derivare la maternità umana da quella divina, il pensiero
civico fornisce al cittadino la possibilità di pensare un
tempo delle origini privo dell’elemento femminile, che,
come già accennato, non rappresenta per il discorso
ufficiale altro che un fastidioso supplemento all’umanità.
La terza ipotesi sembra infine ricollegarsi con la
narrazione esiodea della nascita di Pandora: contrapposta
all’immagine di una Terra spontaneamente fertile e pronta
a dare vita ai cittadini di Atene prescindendo da qualsiasi
unione, canone naturale della riproduzione, la donna viene
mostrata come artificio, madre innaturale e “meccanica”,
sempre pronta, come sembrano ricordare le tragedie, a
mutarsi in assassina. Tale operazione – rintracciabile ad
esempio nell’affermazione dell’Ippolito euripideo per cui
la donna porta tra gli uomini contraffazione e
falsificazione di ogni realtà nonostante il credito che si
dovrebbe accordare al bel nome di madre – risulta
efficace allo scopo di normalizzare lo spettro della
riproduzione sessuata e della maternità della donna
dominandola attraverso l’immaginazione.
Il femminile, dunque, viene immaginato come diviso tra
la rappresentazione che la vuole artificiale, fatta di terra,
e l’immagine di una donna che imita la terra, la Madre,
indifferente e indifferenziata separata dalla pluralità delle
madri. Le donne non sono la madre, la Madre non è una
donna.

4. Ancora sulla derealizzazione

La città radica la propria tassonomia nelle


rappresentazioni dominanti dell’immaginario sociale. Il
mito, le narrazioni, tutto ciò che può fungere da supporto
all’ideologia civica, viene incanalato, utilizzato e
sorvegliato dal discorso ufficiale.
Il mito, l’epopea, la tragedia: esistono molti modi per
(non) parlare delle donne ad Atene. C’è Eschilo, ad
esempio, la sua Orestea e il suo racconto dell’oracolo di
Delfi. Nella tragedia è narrata la storia in quattro tappe
che descrive come Gaia, prima profetessa originaria,
abbia lasciato il proprio posto a sua figlia Temide, di
natura titanica, la quale a sua volta passò il potere a Febe,
anche lei figlia della Terra, e come questa infine lasciò
tutto il suo potere a Febo, il dio olimpico Apollo. Come
sottolinea Loraux, questa storia, che nel racconto affidato
alla Pizia descrive la successione di madre in figlia fino
alla sua conclusione (o compimento?) con Apollo, si
disloca su due piani temporali: il passato originario,
tempo femminile, e il presente di Apollo.130 A un tempo
originario connotato da un potere femminile fa seguito la
vittoria tutta al maschile dell’ordine olimpico: la vittoria
di Apollo, dietro la quale si cela la vittoria di Zeus, la
vittoria del Padre.
Assegnare un posto originario al potere femminile,
sottolinea Loraux, risulta essere il metodo più efficace per
negarlo nel presente, respingendone le pretese in anticipo.
Se c’è infatti una caratteristica che connota il genere
femminile agli occhi del cittadino greco, questa consiste
nel desiderare ardentemente ciò che di diritto spetta
all’uomo. La donna è desiderio di potere, tentativo di
usurpazione; un pensiero rassicurante perché almeno,
commenta Loraux, porta il femminile a parlare una lingua
comprensibile all’orecchio del cittadino.
Questo passaggio di potere da Febe a Febo viene
caratterizzato innanzi tutto come un passaggio del nome,
come a sottolineare l’intrinseco legame che lega il nome e
il potere. Il mito mostra in più punti come nei tempi remoti
fosse il femminile a dare il nome. Lasciando Delfi per
tornare ad Atene, Loraux rammenta il racconto mitico che
narra del nome della città. Ai tempi dell’eris divina, in
cui Poseidone e Atena si contendevano gli onori e il ruolo
di eponimo della città, le donne avevano uno statuto
politico e pieno diritto al voto. Quando la decisione del
nome della città fu messa ai voti, la situazione sembrava
inizialmente essere equamente distribuita: tutti gli uomini,
infatti, votarono per Poseidone, mentre tutte le donne
scelsero Atena. Determinante però, in questo senso,
risultò essere il numero delle donne nella città: per una
sola donna in più, infatti, i voti destinati ad Atena
superarono quelli maschili, decretando la sconfitta di
Poseidone. Il risarcimento dello sconfitto andò a diretto
scapito della componente civica femminile, la quale perse
la partecipazione al potere, nonché la facoltà di nominare
ed essere nominate. Il potere è, in fondo, questione di
nome. Da questa narrazione, trova sostanza l’esclusione
politica della donna e il silenzio attorno al suo ruolo
civico. Votando per Atena, le allora cittadine ateniesi
hanno decretato la propria sconfitta. Da quel momento
destinate al silenzio, esse hanno scontato la punizione per
aver scelto Atena, votando così per la causa del padre.131

[…] Quando l’uomo greco pensa al posto che spetta alle donne,
comincia con l’attribuire loro una potenza antica e primordiale: in
questo modo si potrà raccontare ancor meglio la loro sconfitta e
concedersi il lusso di negare in extremis la realtà. Sconfitta vittoriosa,
perché la fine giustifica il racconto e perché alla fine la città dei
maschi risulta radicata nell’ordine garantito da Zeus.132

In questo modo ogni rivendicazione femminile riguardo lo


spazio politico sembra essere negata in anticipo. La donna
è per la città moglie e madre, pura corporeità. Eppure, in
fin dei conti, nell’immaginario civico, la donna non
sembra coincidere nemmeno con il proprio corpo. Per
illustrare questo passaggio, Nicole Loraux indaga ancora
una volta l’immaginario dell’uomo greco e nella sua
cultura. Prima figura di questa derealizzazione della
corporeità femminile è Elena colei che, tutta corpo e
sensualità, è stata la causa di tutta la guerra di Troia;
quell’Elena che, come sottolinea Loraux, prima ancora
che essere il nome di un personaggio definito di una
narrazione, è il nome neutro dell’oggetto sessuale.133
Attraverso tutto il poema omerico dell’Iliade, mai alcuna
parola è riservata a Elena che non sia riferita alla sua
realtà corporea; nulla allude a un’identità oltre il
desiderio e la pura esteriorità (tratto, questo, che l’uomo
greco individua come pienamente femminile).134 Elena è
oggetto, pura sessualità. Ma chi ama Elena è condannato a
sperimentarne l’assenza: Elena fugge, è sempre distante,
immateriale quanto un fantasma. Come non vedere in
questa corporeità assente, commenta Loraux, il fantasma
della sessualità che assilla il pensiero dell’uomo greco?
Anche Atena, figura positiva dalla quale dedurre in
negativo la donna umana, sembra non aver diritto a una
corporeità tangibile, esperibile. Forse proprio in contrasto
alla problematica corporeità della donna umana e alla
troppo “femminile” dea Afrodite, Atena sembra essere
priva di corpo, segnata dal non essere. Il suo corpo
sembra coincidere con ciò che lo riveste: corazza, egida,
peplos; vedere la sua carne nuda sembra impossibile, un
semplice adynaton. Ecco il motivo per cui Tiresia, di
fronte al corpo nudo della dea, viene accecato in un
lampo: Tiresia ha visto l’impossibile.135 Atena, lo si vedrà
più avanti, rappresenta per l’uomo greco l’ideale del
femminile: è la parthenos sganciata dalla sessualità, al di
là della differenza sessuale, nata dal solo Padre di cui
esegue la legge. Per il pensiero greco, nulla di più
perfetto. Essa rappresenta la pienezza dell’esperienza del
femminile in un corpo sganciato dalla riproduzione e dalla
divisione sessuale. Come guerriera, figlia del Padre, il
femminile a servizio del patriarcato veglia sulla polis. Ma
su questo tema si ritornerà in maniera più approfondita
nell’appendice di questo lavoro. Per ora ci si accontenti
di constatare come un ulteriore processo derealizzante
messo in atto dall’immaginario antico consista
nell’elaborare un’immagine sempre in rapporto a
qualcos’altro, sempre come suo negativo. Si schiude così
un’ulteriore questione: cosa resta di tutta l’esperienza del
femminile che il pensiero greco non descrive in termini di
negazione e derealizzazione? Dove si collocano quegli
aspetti dell’esistenza delle donne che non entrano in
contraddizione con il pensiero greco?
Paradossale risposta trova quest’interrogazione. Il
resto del femminile si trova, infatti, nell’uomo greco.

È ormai dimostrato che la strategia greca per pensare la differenza


dei sessi è molto abile. Ma l’ampiezza dell’operazione che mira a
privare le donne del femminile è ancora meglio percepibile dalla
parte della rappresentazione delle donne. Nella città degli uomini le
vere donne sono soltanto le madri, ufficialmente rassicuranti per il
pensiero in quanto addomesticate dal matrimonio e rafforzate dalla
maternità. Ma sarebbe oltremodo ingenuo credere che
l’immaginazione degli andres si limitasse a questo. Indubbiamente ci
sono le rivendicazioni «politiche» delle madri in Aristofane, dopo tutto
assolutamente irreali, e la pratica istituzionale che protegge il politico
dai loro eccessi emozionali incontrollati – ad esempio nelle cerimonie
del lutto; soprattutto c’è lo spettrale ritorno periodico della Madre
che incute terrore, che alcuni postulano forse un po’ troppo
sistematicamente, ma che è espressa con chiarezza nelle figure
materne del mito e della religione […] e percepibile soprattutto nelle
operazioni narrative con le quali la potenza delle madri viene
postulata solo per meglio ridurla.136

Note

76 Euripide, “Ione”, in Euripide, Elena. Ione, Garzanti, Milano 1982.


77 F. Giardini, Le parole del contr’Uno, cit., pp. 213-232.
78 Ivi, p. 213.
79 N. Loraux, Nati dalla terra, cit., p. 92.
80 Ivi, p. 87.
81 Ivi, p. 105.
82 Ivi, p. 44.
83 N. Loraux, The children of Athena, cit., p. 42.
84 N. Loraux, Nati dalla terra, cit., p. 35.
85 N. Loraux, “Clistene e i nuovi caratteri della lotta politica”, in AA.VV., I
Greci. Storia Cultura Arte Società, vol. II, Una storia greca, t. I,
Formazione (fino al VI secolo A.C.), Einaudi, Torino 1996.
86 N. Loraux, La città divisa, cit., pp. 140-141.
87 Ivi, p. 146.
88 N. Loraux, The Invention of Athens, cit., p. 409.
89 Ivi, p. 25.
90 Ivi, p. 52.
91 Ivi, pp. 205-206.
92 Ivi, p. 204.
93 Platone, Menesseno, in F. Adorno (a cura di), Dialoghi politici, lettere,
Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1988.
94 N. Loraux, The Invention of Athens, cit., p. 123.
95 Cfr. N. Loraux, Le madri in lutto, Laterza, Roma-Bari 1991 (ed. or., Les
mères en deuil, Seuil, Paris 1990).
96 N. Loraux, The Invention of Athens, cit., p. 54.
97 Ivi, p. 357.
98 N. Loraux, Nati dalla terra, cit., p. 209.
99 «[...] Nella sua circolarità, il discorso autoctono è fragile perché ha per
definizione bisogno degli altri, non foss’altro che per rigettarli nel non-essere»,
Ivi, p. 91.
100 N. Loraux, La voce addolorata. Saggio sulla tragedia greca, Einaudi,
Torino, 2001, p. 25 (ed. or., La voix endeuillée. Essai sur la tragédie
grecque, Gallimard, Paris, 1999).
101 Ivi, p. 40.
102 Ivi, p. 46.
103 Si veda il cap. 4.
104 N. Loraux, La voce addolorata, cit., p. 85.
105 Cfr. N. Loraux, Le madri in lutto, cit.
106 N. Loraux, La voce addolorata, cit., p. 32.
107 Ivi, pp. 82-87.
108 Ivi, p. 89.
109 Si veda il cap. 4.
110 N. Loraux, The children of Athena, cit., p. 16.
111 Ivi, p. 17.
112 Ivi, p. 75.
113 Ivi, p. 19.
114 Cfr. N. Loraux, “La cité comme cuisine et comme partage. Note critique”,
Annales, Économies, Sociétés Civilisations, n. 4, 1981, pp. 614-622.
115 N. Loraux, Nati dalla terra, cit., pp. 28-29.
116 Da questa impostazione vedremo allontanarsi il Socrate platonico, che
attribuisce alla virtù un valore oltre il genere, al di là di differenze e opposizioni.
Cfr. N. Loraux, “Qualche illustre sconosciuta”, cit., pp. VIII-XXXII.
117 N. Loraux, The Invention of Athens, cit., p. 208.
118 N. Loraux, Le madri in lutto, cit.
119 N. Loraux, The children of Athena, cit., p. 19.
120 N. Loraux, Nati dalla terra, cit., p. 29.
121 N. Loraux, The children of Athena, cit., p. 91.
122 N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, cit., p. 274.
123 N. Loraux, The children of Athena, cit., p. 9.
124 N. Loraux, Nati dalla terra, cit., p. 149.
125 N. Loraux, The children of Athena, cit., p. 122.
126 Platone, Menesseno, 238a.
127 N. Loraux, Nati dalla terra, cit., p. 141.
128 J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i greci. Studi di psicologia storica,
Einaudi, Torino, 1970, p. 100 (ed.or., Mythe et Pensèe chez les Grecs. Etudes
de psychologie historique, François Maspero, Paris 1965).
129 N. Loraux, Nati dalla terra, cit., p. 147.
130 N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, cit., pp. 194-195.
131 Sulla figura di Atena come immagine della legge del padre, Cfr.
“Appendice”.
132 N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, cit., p. 201.
133 Ivi, p. 208.
134 Si pensi a Pandora e alla sua pura esteriorità di involucro d’argilla.
135 Ivi, pp. 227-245.
136 Ivi, p. 205.
3. Il femminile come operatore politico

3.1 Soffrire come una donna, morire come un uomo. Il


corpo virile tra maschile e femminile

Il gioco tra il Sé e l’Altro alla base del discorso della


polis si costruisce su opposizioni nette a partire dalle
quali l’identità del cittadino trova la propria definizione.
Nel capitolo precedente si è tentato di mettere in luce il
rapporto costitutivo che lega alterità e identità nella
definizione dello spazio politico. Sulla base
dell’opposizione e della distanza tra il politico e il suo
altro, l’ideale greco di cittadinanza viene a incarnarsi in
una figura ben precisa: l’uomo maschio, adulto, libero,
autoctono. In questo gioco del politico la differenza
sessuale assume per Nicole Loraux un ruolo assolutamente
dirimente. Si tratta dell’opposizione fondamentale in base
alla quale il politico greco si struttura e organizza il
proprio logos; la differenza tra i sessi, che deborda nel
pensiero greco – ma non solo – dal suo significato
fisiologico e biologico, viene investita di forti
significazioni sociali, divenendo il dato a partire dal
quale vengono stabilite la tassonomia e la struttura civica.
Nel motivo ricorrente che ci ricorda che «la Città sono
gli uomini» la donna perde consistenza, diviene il
fantasma ai bordi del politico che assicura – tramite la
riproduzione – e tormenta – per via della differenza che
immette al cuore del pensiero civico – la polis greca.
Soggetto negato all’interno della città, la donna viene
descritta sempre in negativo ed è sempre parlata da un
discorso al maschile. Questa derealizzazione tende a
sfumare man mano che dal discorso civico si procede
all’esplorazione e all’interrogazione di altri luoghi
dell’immaginario sociale. In tali ambiti le distinzioni
fondanti della cittadinanza – uomo/donna, schiavo/libero,
adulto/bambino, adulto/anziano, autoctono/straniero –
tendono a perdere il loro carattere di fissità e ad
articolarsi in maniera meno rigida. In questo modo, il
pensiero greco, il pensiero dell’uomo greco, pur negando
l’accesso alla politica e alla cittadinanza alle donne, cui
non spetta neanche la consistenza di un nome, dimostra
un’ambivalenza che confonde tutte le linee di confine.
Procedendo nel suo percorso all’interno
dell’immaginario civico della polis, Loraux rileva una
doppia tradizione, al di là dell’esclusione ideologica, in
cui le dimensioni del femminile e del corpo, altro grande
elemento escluso dalla narrazione ufficiale della polis,
tornano a farsi presenti in tutta la loro consistenza. La
donna, fatta coincidere con la riproduzione sessuata, è
tutta corpo, quello stesso corpo che i combattenti ateniesi
hanno abbandonato in nome dell’andreia. Questo
slittamento avviene su un piano del tutto particolare dal
momento che nel logos ufficiale il corpo non è mai
descritto né rappresentato: al Ceramico e nelle esortazioni
ufficiali, sotto le parole chiave di coraggio e virilità, la
città porta avanti una continua astrazione del combattente
e del caduto dal corpo dilaniato dai colpi nemici.137 A
seguito di questa esclusione dalla rappresentazione
ufficiale, il valore viene a essere sganciato dalla
corporeità del cittadino per divenire virilità astratta, che
si esprime interamente nelle istituzioni.138

L’aner esemplare è idealmente il modello della virilità. Ma quando


andreia non ha altro nome che quello di «coraggio», l’uomo-
cittadino, a forza di essere esemplare, conquista una sorta di
asessualità. […] Diciamo per lo meno che il modello d’uomo
finalmente libero dalla prigione carnale, quello esaltato dall’orazione
funebre ateniese, non ha corpo. Semplice base per comportamenti
civici, il sòma era un dono della città e la morte del soldato salda il
debito.139
Sull’assenza del corpo all’interno della narrazione civica
Loraux si sofferma lungamente in un prezioso articolo del
1997, pubblicato sulla rivista Metis con il titolo “Un
absent de l’Histoire?”.140 Nel testo, l’autrice pone in
rilievo il meccanismo ideologico in base al quale la
presenza corporea del cittadino viene ridotta dalla polis a
mera funzione del discorso civico, portando così il sòma
a perdere le proprie connotazioni corporee e materiali,
riducendolo a una mera astrazione la cui esistenza è
funzionale alla città. Il corpo è mero supporto della vita
cittadina: in tempo di pace esso è il sòma autarkes che
gode della dolcezza della vita nelle istituzioni; in guerra
esso è invece il pegno attraverso il quale realizzare la
propria cittadinanza.141 Puro segno del buon andamento
della norma civica, il corpo nell’istante del conflitto viene
cancellato in nome del suolo civico. Il buon
funzionamento della città sembra dipendere da questa
capacità di poter cancellare la propria identità corporea.
Sacrificando la propria carne nella violenza di una
battaglia, il cittadino assicura la vita della comunità e
innalza la gloria di Atene. In cambio, un’orazione funebre
e un monumento al Ceramico ricorderanno la vita e le
gesta dell’uomo morto per la polis.
Ma, commenta Loraux, cosa accade a quei corpi che
sono stati sacrificati per la patria ma che non sono caduti
per essa? Cosa accade ai feriti, scampati agli orrori della
guerra e di nuovo accolti all’interno del suolo civico? Di
loro, commenta Loraux, la città non fa mai parola. Non
sono menzionati, non sono onorati; forse proprio perché,
riflette Loraux, non sono morti per la città.142 «La città –
spiega – celebra il cittadino solo perché questo è morto;
solo allora esso mostra il valore e il merito che gli sono
attribuiti postumamente nella formula aner agathos
genomenos, che è ripetuta senza fine nell’epitaffio».143
L’ideologia della “bella morte” esclude i corpi feriti; essi
torneranno nel discorso civico solo nel momento in cui
alla guerra valorosa e maschile verrà a sostituirsi la lotta
fratricida e orrenda della stasis; lì il racconto degli storici
potrà infine soffermarsi sulle orribili ferite, sulle torture,
sulle mutilazioni inflitte al corpo del cittadino, ma solo
per far risaltare l’orrore di un conflitto che oppone tra di
loro membri di uno stesso corpo civico.144 Nel discorso
ufficiale e nell’orazione non vi è posto per quelle ferite
che mostrano la fragilità e la vulnerabilità del sòma
civico.145 L’Atene classica si pone in questo senso a una
decisa distanza dall’orizzonte culturale della Roma
repubblicana, in cui le ferite dei reduci divengono figure
della gloria di Roma.146 Come il corpo ferito, anche il
corpo malato viene neutralizzato dal logos della città.
Tanto quanto il corpo mutilato, esso rappresenta per la
polis l’impoliticità di una regressione del cittadino al
proprio sòma, alla propria identità singolare, portando
l’uomo politico a identificarsi non più con la totalità del
corpo civico e della comunità, ma con se stesso, radicato
nella propria presenza e nella propria interiorità
corporea.147 L’uomo di Atene realizza la propria essenza
virtuosa solo nella perdita del sé e della propria unicità
che rende possibile il sacrificio all’imperativo sociale
della morte per la comunità.148
Nella Grecia classica si agisce una totale negazione
del corpo del cittadino, un rifiuto che si condensa nella
figura dell’andreia esclusivamente intesa come morte in
guerra. Il corpo viene alienato, messo in pericolo e
sacrificato per la città in un movimento in cui questa ne
consuma l’essenza appropriandosi della carne del
cittadino come fosse un bene suo di diritto. L’uomo greco
non possiede il proprio corpo che è proprietà della
Madre, la terra dei padri che l’ha generato. Opacizzato
fino a perdere ogni contatto con la propria identità, il
corpo non coincide con l’individualità del cittadino e, in
quanto tale, è esperienza di pura impotenza.
In base a questa esclusione del corpo dall’esperienza
civica e alla sua caratterizzazione come pegno alla città, il
cittadino si ritrova privo di una dimensione corporea
della propria esistenza che la tradizione trasferisce
immediatamente sul femminile. La donna in quanto
riproduttrice e in quanto figura della differenza sessuale
diviene luogo dell’immaginario del corpo e della
sessualità, mentre il maschile, sotto il nome del coraggio,
svanisce nel suo essere esclusivamente genere. Al di là
delle rappresentazioni ufficiali gli uomini greci si
mostrano desiderosi di riappropriarsi del corpo che la
città nega loro; aspirando a esso, mettono in atto strategie
di avvicinamento e assorbimento di esperienze che la
tradizione assegna alle donne, e che dunque, per un uomo
greco, possono restituire quel corpo sottratto dalla
retorica della virilità.149 Da un lato, dunque, il discorso
istituzionale priva la donna di consistenza politica e quasi
di umanità; dall’altro, le rappresentazioni
dell’immaginario sociale si sganciano dall’opposizione
rigida e dalla negazione sulla via di un tentato
assorbimento del femminile nell’esperienza dell’uomo
greco. Il pensiero classico si trova così, spiega Loraux, di
fronte a una doppia tradizione. Mentre il pensiero civico
esalta un’andreia pura, intatta, e una virilità costruita
anche a partire dalla distanza dal femminile, è possibile
scorgere una tradizione altra: è questo il caso di quelle
immagini dell’uomo greco, come quelle dell’epopea e
della leggenda eroica, in cui la virilità è riservata solo a
colui che abbia saputo accogliere in sé il femminile,
dunque la corporeità. Questa seconda tradizione presenta
il modello del maschio virile come completato dalla
componente femminile, la quale contemporaneamente
sfuma e rafforza l’andreia. Da una parte, dunque,
l’orazione funebre e la Città, che postulano una perfetta
coincidenza tra l’uomo e la virilità, tra andres e andreia,
coincidenza che assume il valore di un dovere e di
un’imposta alla terra madre; dall’altra, l’Iliade e i poemi
omerici, le narrazioni eroiche, le gesta di Eracle e la
convivenza di maschile e femminile nell’eroe attraverso
un continuo scambio che rende ogni figura fluttuante e
complessa.
Nel pensiero greco l’esperienza del dolore sembra
connotarsi come puramente femminile, laddove il dolore
acuto e atroce del parto viene a caratterizzare l’idea della
donna, moglie e madre, molto più del godimento sessuale
proveniente dall’unione fisica. Odines, è il nome di
quest’esperienza dolorosa e indicibile che attende la
partoriente alla fine della sua gravidanza. Il dolore
femminile è il dolore lancinante della riproduzione,
dolore tanto acuto da avvicinarsi al piacere; dolore
necessario perché la donna realizzi la propria natura e
divenga, attraverso il suo pegno alla città, un essere
sociale compiuto; un dolore così profondo da suscitare
attrazione e fascino da parte dell’uomo greco, non soltanto
in virtù di un desiderio implicito che aspira a una
riproduzione completamente sganciata dalla differenza
sessuale e in cui si possa fare a meno della problematica
realtà della donna, ma soprattutto come momento di
rafforzamento dell’identità virile.150 Vi sono numerosi
segni che tendono a produrre un regime di scambio tra
l’immaginario dell’eroe ferito e quello della donna in
travaglio. Tra l’esperienza dolorosa del parto e quella
dell’eroe si instaura una segreta comunicazione che si
pone al di là dell’opposizione istituzionale che ad Atene
oppone “la bella morte” dell’oplita e tutte le altre morti,
le morti private, che non arrecano gloria alla polis e sono
dunque escluse dall’elogio e dal ricordo. Nell’elogio al
Ceramico, si è visto, il corpo dell’oplita così come
l’istante della sua morte perdono di rilevanza
nell’esaltazione delle gesta compiute in vita; la città
ricorda solo le imprese, solo la gloria e dimentica la
carne dilaniata dai nemici. Si assiste ad Atene, commenta
Loraux, a una sistematica eufemizzazione della morte in
tutte le sue forme, che avvolge nel silenzio qualunque
possibilità di accesso alla rappresentazione delle
modalità e dell’istante dell’uccisione.151 In tal senso,
all’interno delle necropoli ateniesi risulta impossibile
trovare allusioni ai momenti finali della vita di un morto,
anche nel caso di una morte privata, e la pietra narra solo
della vita del defunto. I casi in cui a questa regola viene
fatta eccezione e si procede alla rappresentazione del
decesso sulla stele funeraria sono, commenta Loraux,
esclusivamente due: la morte del soldato e la morte di una
puerpera.
Fenomeno non istituzionale, forse fatto prettamente
mentale: la guerra e il parto vengono concepiti come
simmetrici. Come nell’epopea, come l’uomo che acquista
la propria aretè nell’esperienza finale della propria morte
sul campo di battaglia, così la donna, in quanto
riproduttrice, assolve al proprio compito sociale
nell’istante del parto e in esso trova la propria
problematica e ambivalente aretè.152 Il legame tra l’oplita
e la madre sembra risuonare anche nelle parole che
descrivono l’atto riproduttivo: lochos, nome del parto,
risuona del significato bellico di “agguato” (come già in
Omero) e di “truppa armata”. Il parto dunque è
combattimento, in cui la donna rischia la vita per la Città
in atroci sofferenze, e in quanto tale sembra meritare, per
tutta la tradizione greca, l’appellativo di ponos, di
quell’impresa dolorosa che il maschio deve sopportare
perché sia un uomo. Il parto è prova virile, guerra al
femminile, in cui Artemide, protettrice del parto e del
nascituro, spesso si scaglia contro la madre, uccidendola
trascinandola in una guerra impari, di puro annullamento
senza gloria.153 Da una parte, dunque, uomini senza corpo,
caduti in guerra, che il Ceramico accoglie e celebra come
astrazioni; dall’altra la donna, colta dalla morte durante
l’atto tutto corporeo del parto.
L’elogio funebre, luogo per eccellenza dell’ideologia
della polis, incentrato sul paradigma della “bella morte”
oplitica disconosce la corporeità così come non assegna
alcun luogo alla celebrazione o al semplice ricordo delle
defunte della polis. Il sòma e la donna, problematici
rispetto all’ideologia civica, vengono esclusi dall’elogio
pubblico, per venire accolti, nuovamente, nel luogo civico
d’espressione dell’antipolitico, il teatro. La tragedia
infatti libera la morte al femminile dal silenzio del lutto
privato, assegnandole voce all’interno del discorso della
città.
La rappresentazione tragica della morte al femminile è
sempre violenta. A differenza della morte al maschile,
morte eroica e valorosa, ciò che la scena tragica mostra di
una morte al femminile è sempre l’onta del suicidio, il
disonore di una “morte senza forma” (askemon), che solo
la vergogna può provocare.154 Il suicidio, in quanto
opposto alla logica della “bella morte”, mai cercata e
sempre accettata, e diviene paradigma della morte
femminile. A partire dall’uguale possibilità di narrazione
all’interno del discorso tragico, si assiste nella polis a
un’ulteriore divisione dicotomica, che divide la morte in
un versante buono e un meno buono; procedimento tipico
della struttura del pensiero greco. Tale polarizzazione si
concretizza visivamente nella rappresentazione tragica
attraverso il ricorso a due differenti modi di suicidarsi, da
attribuire rispettivamente al femminile e al maschile.

E come se non esiste nell’immaginario dei greci un universo, se non


articolato intorno all’opposizione maschile/femminile, nel pensiero del
suicidio la divisione si attua fra corda e spada, continuamente messe
a confronto, continuamente in opposizione.155

Se da una parte, Thanatos, incarnazione della morte,


strappa cruentemente l’uomo greco dalla dimora terrena
per mezzo della spada, emblema del decesso virile,
dall’altra la donna muore quasi sempre per ankhòne,
impiccamento: una morte ingloriosa, che si riallaccia al
pensiero biologico della donna della Grecia del V secolo.
Nonostante il corpo della donna sia sempre solo
accennato dalle narrazioni, come nel caso del corpo di
Atena o della sessualità di Elena, e totalmente bandito dal
discorso ufficiale, la tragedia rimanda implicitamente alla
teoria ginecologica degli scritti medici e biologici del
periodo classico.156 Nel trattato ippocratico De eis quae
ad virgines spectant, spiega Nicole Loraux, il
collegamento tra la natura femminile e il suicidio tramite
l’ankhòne si fa esplicito a partire da una visione medica
che assegna al femminile un corpo concepito come
essenzialmente chiuso in se stesso, come una interiorità
protetta – laddove il corpo dell’uomo civico è pura
esteriorità –, seppur periodicamente aperto per via delle
leggi biologiche che impongono al corpo della donna di
sanguinare. Il pensiero medico dell’antichità classica
concepisce la donna come corpo cavo, compreso tra due
bocche simmetriche, la prima delle quali è chiusa dallo
stato temporaneo di partheneia e in seguito dalla
gravidanza. La verginità, in Grecia, ben lungi dall’esser
identificata con uno stato fisiologico – ed esser dunque
univocamente legata allo stato della membrana imenea
nella donna – è concepita essenzialmente come stato
simbolico, la cui metafora viene raccolta nell’immagine
del velo sulla sposa. La chiusura del corpo femminile
assume dunque un valore positivo, non solo per
l’associazione con il momento della gravidanza, in cui il
bambino è chiuso all’interno della madre; in realtà,
commenta Loraux, il corpo femminile viene
strategicamente chiuso dal pensiero greco al fine di negare
il corpo della donna in quanto effettivamente aperto,
spaccato. Pensare la parthenos come corpo chiuso
rappresenta per l’uomo greco la strategia per aggirare la
naturale “apertura” del corpo femminile, in cui si
condensa quella differenza costitutiva che porta tante
ambiguità e tante contraddizioni all’interno del pensiero
classico. In questo senso, si potrebbe aggiungere, risulta
interessante il fatto che la donna venga considerata come
socialmente compiuta solo nel momento in cui il suo
corpo viene di nuovo chiuso dallo stato di gravidanza. In
questo gioco la donna diviene luogo di alternanza tra
pieno e vuoto, chiuso e aperto. Al di fuori dei momenti in
cui il corpo femminile si apre per lasciar defluire il flusso
mestruale, il sangue della donna è pensato come
imprigionato nel corpo cavo della donna, che lo tiene in
sé, immobile, rendendolo meno sano e fornendogli un
caratteristico colore nero. Quando il corpo femminile
impedisce al sangue di defluire, questo si accumula,
soffocandosi nel corpo femminile, rendendo la donna folle
e desiderosa di impiccarsi. Oppressa dal basso, dal
sangue che preme attorno all’utero, la donna – un corpo
compreso tra due bocche, un condotto tra due aperture –
tenterà la via d’uscita verso l’alto, impiccandosi. Da tale
desiderio di ankhòne la donna potrà liberarsi solo nel
momento in cui lo scorrimento non venga più ostacolato;
dunque, la giovane dovrà esser subito data in sposa a
qualcuno. Il corpo della donna appare come una via di
passaggio fragilissima, in cui il rischio di un troppo pieno
malsano diviene spinta al suicidio o al sacrificio della
propria partheneia all’uomo, indicato nelle Supplici
eschilee come il “laceratore” (daìktor) proprio in virtù
della sua funzione.
La spada e la corda: morte pura e cruenta da un lato,
soffocamento e impiccagione dall’altro. Per una donna una
morte ingloriosa in cui non viene versato sangue; per
l’uomo, la scena cruenta del sangue che cola dalla ferita
mortale o da quella del nemico, sangue versato che
costituisce la virilità. Anche nel caso di un suicidio,
l’uomo si toglie la vita in maniera sempre virile; per la
donna, in realtà, esiste più di un modo di essere donna nel
suo suicidio: l’impiccamento e la morte cruenta tramite la
spada impropriamente sottratta alla morte maschile,
laddove la libertà di scelta del femminile rispetto al
maschile sembra ridursi, commenta Loraux, solo a una
libertà nella morte.157
In questa apparente libertà nella morte, in realtà, si
riproduce un’ulteriore polarizzazione del femminile in due
figure complementari, la sposa e la madre.
L’impiccamento è infatti associato al matrimonio e alla
donna sposata, mentre il suicidio cruento alla maternità. Si
riproduce così, anche nella morte femminile, un
rispecchiamento dei compiti sociali attribuiti alla donna
dalla tassonomia sociale classica, che trova nella
rappresentazione tragica la propria conferma.

Sempre abbastanza libere di uccidersi, non sono invece libere di


sottrarsi alle loro radici spaziali, e il profondo rifugio dove si danno la
morte è anche il simbolo della loro vita: una vita che acquista senso
al di fuori di esse, una vita che si realizza solo nelle istituzioni,
matrimonio, maternità, che legano le donne al mondo e alla vita
dell’uomo. Ed è a causa degli uomini che le donne muoiono.158

In entrambi i casi il luogo scelto dalla donna per togliersi


la vita ne conferma il ruolo sociale: la sposa che si
impicca e la madre suicida, infatti, vengono rappresentate
nella camera nuziale, nel thalamos, e nel lekhos, luogo
della procreazione. Qualunque sia la morte scelta, la
donna si toglie la vita in quel luogo civico che è il proprio
letto, portando alle estreme conseguenze l’istituzione
matrimoniale. La morte di una vergine, lontano
dall’orizzonte istituzionale del matrimonio con un
cittadino, si compie invece in un impietoso sacrificio,
laddove lo sgozzamento, commenta Loraux, rievoca l’idea
della deflorazione, legandosi all’idea di un matrimonio
con Ade e con la morte stessa. Nel sacrificio, infatti, la
vergine perde paradossalmente, assieme alla possibilità
futura di generare, anche la propria partheneia. L’idea del
matrimonio e della vita nuziale torna dunque anche
nell’immaginario tabù del sacrificio umano, in cui del
sangue di vergine viene versato per il bene della comunità
degli andres. Dunque, conclude Loraux su questo tema,
qualunque libertà venga offerta al femminile dal discorso
tragico, questo mantiene fino alla fine la divisione rigida
tra i sessi. La tragedia, che viola i canoni rigidi del
discorso civico, si ritrova a riprodurre, ancora una volta,
l’ordine civico da cui nasce, fungendo da luogo di
neutralizzazione e normalizzazione di ciò che l’ideologia
della polis esclude dai propri confini.
Chiusa questa parentesi sulle rappresentazioni della
morte nella tragedia, permeate dall’immaginario civico
della differenza sessuale, è possibile rintracciare con
maggiore chiarezza il movimento di appropriazione del
femminile per parte maschile che si consuma in alcune
figure dell’immaginario sociale greco. Il modello di
esperienza femminile presentato dalla tradizione è quello
del dolore, della follia, dell’amore e del parto. In base a
questa figura dell’immaginario gli uomini greci, persino
nel discorso filosofico di Platone, quando si tratta di
descrivere la sofferenza

[…] non cessano mai di imitare la donna in travaglio di parto,


scimmiottandola nel loro corpo o derivando da lei il linguaggio del
dolore. Il nome del travaglio del parto (odines) diventa così la
designazione generica della sofferenza lancinante […]. Il modello
della sofferenza è femminile: la sofferenza fisica delle donne serve
per esprimere il dolore morale.159

Nicole Loraux rintraccia nei testi omerici un legame


implicito tra la sfera dell’eroe e la donna, la quale porta
avanti, secondo l’autrice, un lavoro segreto all’interno del
testo, soprattutto all’interno dell’Iliade. Gli eroi omerici
soffrono i dolori di un corpo ferito, dolore lancinante,
odines, che il discorso ufficiale nega all’uomo.

3.2 Tra Omero, Eracle e Platone


Così come gli eroi dell’epopea, Eracle, il
«supermaschio»160 dell’immaginario civico, viene
descritto nella tragedia sofoclea come colto da una
sofferenza estrema per cui piange e grida, disperato, come
una donna, stremato dai folgoranti dolori della propria
malattia. Spasmo, delirio e fitte che stringono senza sosta i
fianchi: la sofferenza di Eracle è quella di un vero
travaglio.
Nelle odinai eraclee il femminile torna ad agire sul
corpo spezzato dell’eroe della virilità, che nel dolore
oltrepassa i propri limiti di uomo per soffrire come una
donna. Dolore, follia, strazio: queste le esperienze del
femminile che sembrano riversarsi nell’ideologia greca
del maschile. Ma non solo; accanto a queste dimensioni
tremende, che mettono alla prova la virilità dell’eroe e
del soldato nutrendola e arricchendola, compare
nell’epopea e nel racconto omerico un’ulteriore pezzo di
vissuto “femminile” – laddove il termine femminile
sembra costituirsi semplicemente come non-virilità,
anandreia –, la paura. Nel racconto dell’epopea, spiega
Loraux, non vi è un solo eroe che non abbia mai provato
l’esperienza della paura e che non venga considerato più
forte e più coraggioso proprio per aver ceduto
momentaneamente al terrore.161 Prova qualificante
dell’eroe, la paura dominata costituisce infatti la
consistenza del vero coraggio; il valore, spiega l’autrice,
si accompagna alla coscienza che la guerra e la paura
sono intimamente legate, che il terrore e il clamore della
battaglia sono destinate ad accompagnare la vita del
guerriero. La guerra svela l’intrinseca femminilità
dell’uomo, nella tenerezza delle carni dell’eroe pronte a
essere trafitte, nel dolore e nello strazio, nella sua paura.
Davanti alle rappresentazioni di uomini che muoiono,
come Eracle, per sofferenze simili a quelle delle donne,
viene messa in discussione la rappresentazione civica,
rinvenibile ad esempio in Senofonte, in base alla quale il
regime ozioso delle donne nella città viene contrapposto
lo sforzo virile che fa del maschio un uomo. La categoria
del ponos, della faticosa impresa virile, si complica e si
rovescia nel caso del travaglio femminile, al quale la città
destina la stessa parola. Parola solitamente iscritta
nell’essenza stessa dell’eroe, il ponos è dunque carico di
ambiguità. Eracle stesso assume, in virtù della
caratterizzazione come eroe del ponos, una componente
femminile che diverrà parte integrante e fondante della
propria eroicità.
Sarà dunque Eracle, eroe del ponos e prototipo del
maschio virile a portare in scena in tutta la sua
ambivalenza lo stretto e ambiguo rapporto della virilità
dell’uomo greco con quegli attributi e quei comportamenti
che la tradizione civica assegna al femminile. Eracle
invincibile, che piange prostrato di dolore; Eracle il
misogino, «campione della separazione dei sessi»,162 ma
schiavo delle donne – di cui è comunque il paladino – e
asservito al loro potere; Eracle dalla voracità anormale
che fa di lui principalmente un gastris – stomaco, ventre –
laddove la tradizione riserva lo stesso appellativo al
genere femminile come metafora dell’utero; Eracle che
indossa il peplos, abito femminile, regalo fattogli da
Atena il giorno in cui gli dei decisero di fare all’eroe doni
in relazione ai propri attributi; Eracle che schiavo presso
Onfale indossa abiti femminili, scambiando i suoi con
quelli della padrona. Eracle è tutto questo. Ideale del
maschio virile e contemporaneamente figura della
femminilità dell’uomo. Eroe dell’ambiguità e della
contraddizione, Eracle trae tutto dalle donne, persino la
propria virilità e la propria statura eroica. La femminilità
di Eracle è componente essenziale dell’eroe, che
contribuisce a mantenerlo nei limiti umani dell’andreia
civica. La componente femminile della virilità acuisce la
forza dell’eroe temperandola, conferendole
contemporaneamente equilibrio e un’impronta di
inevitabile ambiguità.
Osservando la polis nei suoi cambiamenti e nelle sue
evoluzioni culturali è possibile rinvenire tracce di questo
movimento di inclusione anche a seguito di quel
cambiamento culturale in cui al paradigma dell’eroe
omerico verrà a sostituirsi lentamente la figura del
filosofo, modello alternativo di virilità in cui fluiranno i
valori civici dell’andreia e l’intera ideologia civica.
L’ideologia civica viene combattuta dall’aner
philòsophos tramite l’inversione dei valori e la
sottrazione sistematica delle parole chiave della città,
procedimento chiaramente rinvenibile, ad esempio,
commenta Loraux, nel Fedone platonico.163 A differenza
dell’aner della tradizione oplitica ed eroica, il filosofo ha
un corpo, e questo non viene mai negato, nemmeno nella
decisione di liberarsi da esso. Nel Fedone, ad esempio,
Socrate non è che la propria anima, la propria psychè, ma
durante tutta la rappresentazione del dialogo, egli non
riesce a smettere di essere sempre e contemporaneamente
anche il proprio corpo.164 Nella descrizione della melète
thanàtou, l’esercitazione alla morte a cui il filosofo è più
volte invitato, l’anticipazione dello stato di morte viene
caratterizzata da una completa reversibilità del distacco
tra corpo e anima. Recita infatti il Fedone: «il corpo,
separatosi dall’anima, si è isolato in se stesso, e l’anima,
dal canto suo, separatasi dal corpo, si è isolata in se
stessa».165 Inoltre, nella stessa descrizione della
separazione, Platone non fa che ricorrere a un vocabolario
corporeo. «Bandire il corpo usando il corpo», commenta
l’autrice. In questo modo il corpo torna sulla scena del
discorso e, con esso, riappare il femminile.
Se nell’eros e nella riproduzione il corpo mortale è sentito al
femminile e se l’anima vive come il corpo, è perché nell’anima c’è
del corpo. E dunque, all’insaputa del filosofo, nella sua anima c’è una
donna che, come ricorda anche la Repubblica, prima di riposarsi dai
dolori del parto ha vagato come Io, incinta per opera di Zeus e
tormentata dal tafano che la insegue. Platone può anche vietare il
teatro ai suoi guardiani e proibire loro di imitare una donna, specie se
essa è «malata, innamorata o in travaglio di parto», ma la loro anima
di filosofi non li ha forse preceduti su questa strada?166

Reintroducendo il corpo nel racconto dell’esistenza


umana, la donna trova la via per ricomparire nel discorso,
sia nei dolori iniziatici del parto che la maieutica
socratica istituisce come metodo, che sul versante della
psyche, quando alla vista della bellezza, l’anima è
inebriata, impazzita o incinta.167 Attraverso un
spostamento metonimico del femminile all’interno
dell’anima umana, le caratteristiche dell’universo delle
donne divengono parte integrante e fondamentale
dell’immagine diffusa del filosofo.168 Il femminile viene
riassorbito dall’aner philosophos, scivolando
silenziosamente dal corpo della donna all’anima
dell’uomo.169
La metafora del femminile viene dunque spostata verso
l’aner e posta al servizio del maschile non solo dal
discorso sull’andreia e dal discorso eroico dell’epopea,
ma, in realtà, anche dal discorso filosofico. Appare allora
evidente come «il femminile senza donna» assuma la
funzione paradigmatica di metafora per qualunque
riflessione sull’uomo, compreso l’ambito più teoretico del
pensiero.170

La Pizia fa davvero parlare Apollo: ci guadagna a essere soltanto


uno strumento. Altre figure femminili si trasformano in allegorie,
come le Danaidi, delle quali i filosofi faranno l’emblema della nostra
anima sviata. Ma soprattutto Platone si servirà del corpo femminile
come della metafora più adatta a esprimere le avventure
dell’intelletto e della psychè: così, per tutto il dialogo del quale è
l’eponimo, Teeteto, l’apprendista filosofo in preda alle sofferenze del
parto, si sottomette alla maieutica di Socrate e, sul piano stesso del
linguaggio del filosofo, non è indifferente che l’anima turbata che
vede il bello sia detta «incinta». Piacevole da pensare, il corpo
femminile è anche utile per pensare, quando si è un uomo greco e
sotto il segno del logos apollineo.
Una lunga storia ha inizio.171

3. L’operatore femminile

L’uomo greco si costituisce dunque nel suo rapporto con il


femminile, sia nella messa a distanza e nell’opposizione
che in un movimento di appropriazione e scambio che si
insinua nella frattura costitutiva della differenza sessuale.
Nonostante la rappresentazione del sistema ideologico
della polis tenda a presentarsi come un unicum omogeneo,
chiaro e distinto, a partire da una rigida coincidenza dei
ruoli sociali con la divisione sessuale, nelle proprie
fratture e all’interno dei propri interstizi, la città mette in
atto pratiche di inclusione che non si esauriscono né nel
registro dell’inversione né in quello della mescolanza
degli opposti, ma che risultano piuttosto essere movimenti
di scambio continuo. Nonostante l’ideologia civica tenda
a isolare l’aner nella sua purezza mascolina, libero dal
corpo e da ogni contatto con l’universo del femminile, si
assiste a un progressivo offuscamento delle frontiere tra i
sessi in tutte le rappresentazioni concorrenti, ma
complementari, del politico come astrazione. La
differenza sessuale, dunque, pur rimanendo criterio di
intellegibilità, si traduce in una costante sperimentazione
della diversità, nel rovesciamento della rigida
distribuzione dei due sessi come risposta alla delusione
dell’uomo greco, allevato nel pensiero dell’Uno,
dell’esistenza della differenza sessuale. Utilizzando la
distinzione biologica del corpo femminile, l’uomo greco
ricorre a un utile strumento concettuale che tende a
sfumare in un’appropriazione del femminile da parte del
maschile, che da questo assorbimento sembra trarre il
potenziamento della propria virilità.172 Attraverso
l’inclusione dell’esperienza del femminile, l’uomo
acquista complessità, mentre la donna perde la propria
sostanza.
L’uomo greco, dunque, sembra vivere e compiere la
propria mascolinità non nel superamento senza resti
dell’universo femminile, ma nella continua esperienza
della sua contraddizione. In un movimento verso il
superamento della differenza sessuale, sempre agognato
dal pensiero greco che tende all’omogeneità della
reductio ad unum, l’opposizione tra i sessi che struttura il
mondo degli uomini viene fatta sfumare. Sulla base delle
messa a fuoco sulla differenza sessuale intesa come
operatore politico – dal momento che, se è vero che più di
un criterio viene messo in atto dall’Atene classica nel
determinare la propria identità, è pur sempre il femminile
e la differenza tra sessi, su complessi e molteplici piani, a
porsi all’incrocio del più alto numero di esclusioni – è
possibile dunque avere chiara dimostrazione del
movimento tra il Sé e l’Altro, in cui l’identità è sempre e
costantemente “lavorata” dalla propria alterità.173
Incorporazione e inglobamento del diverso, le pratiche
di inclusione da parte dell’alterità permettono alla città
l’uscita dalle opposizioni statiche. Il femminile, così come
la divisione sessuale, insidia le ripartizioni
dell’autorappresentazione e, al pari del conflitto e della
divisione intestina, riporta la realtà del due all’interno
della logica dogmatica dell’Uno civico ateniese.

Note
137 N. Loraux, The Invention of Athens, cit., pp. 148-149.
138 Cfr. N. Loraux, “Ferite di virilità”, in N. Loraux, Come uccidere
tragicamente una donna, Laterza, Bari 1988, pp. 96-97.
139 N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, cit., p. XVI.
140 Cfr. N. Loraux, “Un absent de l’histoire?”, Metis, n. 12, 1997, pp. 223-
267.
141 Ivi, p. 226.
142 Ivi, p. 232.
143 N. Loraux, The Invention of Athens, cit., p. 146,
144 Per un approfondimento circa il tema della stasis e del conflitto intestino, si
veda il cap. 4 di questo lavoro.
145 N. Loraux, “Un absent de l’histoire?”, cit., p. 233.
146 N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, cit., pp. 84-86.
147 N. Loraux, “Un absent de l’histoire?”, cit., p. 252.
148 N. Loraux, The Invention of Athens, cit., p. 153.
149 N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, cit., p. V.
150 Ivi, p. XVIII.
151 Cfr. N. Loraux, “Il corpo strangolato”, in Id., Come uccidere
tragicamente una donna, cit., pp. 72-73.
152 Si veda il cap. 2.
153 N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, cit., pp. 14-15.
154 N. Loraux, Come uccidere tragicamente una donna, cit., p. 11.
155 Ivi, p. 85.
156 Ivi, p. 62.
157 Ivi, p. 19.
158 Ivi, p. 25.
159 N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, cit., p. 19.
160 Ivi, pp. 118-146.
161 Ivi, p. 68.
162 Ivi, p.122.
163 Ivi, pp. 162-3.
164 Ivi, p. 170.
165 Platone, Fedone, La Scuola, Brescia, 1970, 64c., p. 33.
166 N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, cit., p. XXII.
167 Ivi, p. 150.
168 F. Giardini, Le parole del contr’Uno, cit., pp. 213-232.
169 N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, cit., p. XXI.
170 N. Loraux, “Prefazione”, in G. Sissa, La verginità in Grecia, Laterza,
Roma-Bari 1992, p. XIV (ed. or., Les corps virginal. La virginité féminine
en Grèce ancienne, J. Vrin, Paris 1987).
171 Ibidem.
172 N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, cit., p. 118.
173 F. Giardini, Le parole del contr’Uno, cit., pp. 213-232.
4. Il Politico dell’oblio

4.1 Alle porte sia la guerra. Il fantasma del conflitto e


della divisione

Prego che in questo paese


non s’oda il fragore
del Dissidio, goloso d’angoscia.
Non s’imbeva la polvere
di bruno sangue: spasimo
di vendetta – morte a saldo di morte –
a desolare la terra.
Festosa corrispondenza d’affetti,
in cara armonia d’intenti,
e, nell’odio, cuori che si fondono in uno.174
Nel corso di queste pagine si è già accennato alla
centralità della dimensione del conflitto e della divisione
all’interno degli studi sul politico greco portati avanti da
Nicole Loraux. Loraux, infatti, assegna all’indagine del
rapporto tra politica e conflitto un ruolo rilevante
all’interno della sua ricerca sull’antichità, evidenziando la
realtà di una differenza irriducibile nel cuore dell’Uno del
pensiero classico, della He Polis e dei suoi tentativi di
pensare il mondo come un kosmos ordinato e omogeneo. A
partire da questa centralità il pensiero di Loraux
scompone e ricompone gli universi già tracciati dalla
filosofia politica e dalle ricerche storiche. In un percorso
che non si adagia mai su linee già segnate, ma che ne
reinventa gli elementi costitutivi, Nicole Loraux ci parla
del conflitto, della divisione, del due e del suo legame
indissolubile con l’essenza del politico.
Nonostante i suoi studi sulla coestensività di conflitto e
politico si concentrino su un’epoca e su un luogo ben
precisi, l’Atene del V secolo, le categorie di pensiero di
Loraux nascono e trovano il proprio senso in un’orizzonte
temporale più generale, sganciato dalla localizzazione
precisa della città ateniese. Tale focalizzazione, però, si
rivela estremamente funzionale alla ricerca: osservando
tutta la storia dell’antichità con occhi da studiosa della
politica, mai, rileva l’autrice, le categorie del discorso
politico dell’Uno si sono manifestate nel mondo greco in
modo più netto e chiaro che nel V secolo, e mai le
distinzioni civiche e l’autorappresentazione che ne
discendono sono mai state così evidenti in una polis come
lo furono ad Atene. A partire dalla puntualità e dalla
nitidezza del pensiero dell’Uno all’interno del contesto
ateniese, il discorso di Nicole Loraux sembra riuscire a
distaccarsi dalla contestualizzazione stringente per
assumere un’estensione e un valore ben al di là della
ricerca storica tramutando uno studio sull’antichità
classica in un’opera politica dalle notevoli risonanze.
La scommessa politica che soggiace allo studio sul
conflitto e sulla divisione appare chiara alla stessa
autrice, che sottolinea l’estrema valenza di un pensiero
politico che sappia rendere conto della propria
componente conflittuale. Un politico che riuscisse a tenere
in considerazione il suo essere naturalmente legato al
conflitto sarebbe in grado, spiega Loraux, a farsi carico
della propria ambivalenza, del proprio legame con la
divisione, forte tanto quanto quello con la concordia e con
l’ideologia della fratellanza.
All’interno della tradizionale impostazione storica, la
città antica si articola su una doppia immagine, ricalcata
sulla rappresentazione civica al cuore dello stesso
pensiero politico greco: da un lato, la città in pace con se
stessa, chiusa al proprio interno da impalpabili trame di
concordia che legano tutti i cittadini in una stessa e unica
famiglia, retta dall’ordinato procedere delle istituzioni
civili; dall’altra, la città combattente impegnata in
sanguinose guerre contro le altre polis. Tale visione della
città greca, commenta Nicole Loraux, prendendo vita
all’interno della modalità classica di guardare allo spazio
politico, non riesce a rendere conto del ruolo costitutivo
che il conflitto assume all’interno della definizione greca
del politico stesso.175 Per procedere a una lettura del
politico che sappia andare oltre l’immagine precostituita
di una città unita e in pace con se stesa per rilevarne le
reali tensioni interne, è necessario, commenta Loraux,
innanzi tutto seminare il dubbio nelle certezze del
pensiero civico, in primo luogo nello spazio egualitario
del meson, per esporre la città a ciò che essa rifiuta in
nome della logica dell’Uno, a quelle divisioni che
fondano il politico nella misura stessa in cui lo
distruggono.176
Loraux si accosta allo studio del conflitto infrapolitico
classico allontandandosi dalle letture socioeconomiche
che caratterizzano le interpretazioni di alcuni studiosi
marxisti, in cui la stasis viene ridotta a conflitti
d’interesse economico. Nicole Loraux sceglie un piano di
lettura diverso, lontano dalle ipotesi economiche, in cui la
realtà del conflitto diviene luogo delle lotte e delle
rappresentazioni dei suoi stessi attori.177 Il ricorso alla
parola stasis, commenta Loraux, sembra essere
focalizzato, nel pensiero politico classico, più sulla presa
di posizione delle forze in lotta che sulla loro
determinazione sociale. L’economia, commenta l’autrice,
detiene ovviamente un posto importante all’interno
dell’analisi del conflitto ma, lungi dall’assegnare alla
divisione della città in due classi economiche il ruolo
dell’unica fonte e causa del conflitto, Loraux assegna alla
lettura economica un ruolo secondario e sussidiario
rispetto a un’analisi più propriamente “politica”.
Condividendo gli assunti del V libro della Politica di
Aristotele, Loraux sostiene che le cause della stasis siano
da ricercare tutte su un terreno politico, innanzi tutto nella
struttura egualitaria della città.178 La democrazia ateniese
costituisce la propria autorappresentazione sulla base di
un sistematico diniego della storicità concreta, cosa che
avviene in modo evidente nella sostituzione del mito
dell’autoctonia al contributo femminile alla riproduzione
della città ma che si mostra in modo ancora più manifesto
nella negazione sistematica di ogni divisione della
società, in primo luogo dei suoi conflitti reali e concreti.
Nel tentativo di costruire qualcosa di identico nel tempo
del molteplice, degli eventi storici e dei processi di
cambiamento, la politica greca trova la sua efficacia nel
rimuovere gli elementi di disturbo nell’aei civico, tempo
ripetitivo e perpetuo della città che si rinnova.
Alla ricerca del politico del conflitto, Loraux ci invita
a pensare il doppio senso delle parole. L’autrice scova le
tracce più profonde del pensiero della divisione nei
significati nascosti della lingua, nella grammatica,
nell’etimologia, svelando così i meccanismi che
soggiacciono alla logica dell’Uno. In questo senso risulta
dirimente interrogarsi persino sugli usi dei verbi che
indicano il conflitto, laddove il costante uso del riflessivo
(noi facciamo guerra a noi stessi) anziché del reciproco
(noi ci facciamo guerra a vicenda) del verbo stasiazo
rivela una profonda valenza ideologica. Così come accade
per il verbo stasiazo, il frequente ricorso del termine
riflessivo autos all’interno dei racconti di stasis non fa,
commenta Loraux, che mettere in rilievo la permanenza
del sé a se stesso, agli antipodi di ogni rapporto di alterità
all’interno del corpo civico. Come se, combattendosi tra
di loro, i cittadini non stessero combattendo altri che se
stessi.179 Allo stesso modo è nella lingua che, per Loraux,
viene alla luce quel legame nascosto che tiene assieme il
valore di stabilità e quello di disposizione ai temi della
lotta e della divisione, impressi segretamente al cuore del
conflitto. Tale legame viene a essere inscritto fin nella
doppia valenza dell’etimologia del termine che indica il
conflitto intestino. Stasis è infatti nome di azione derivato
da Histemi, il cui significato indica un movimento,
agitazione; ma in realtà, contemporaneamente, stasis è
anche la posizione, l’immobilità. Sotto tale nome
ambivalente sembrano ricadere a un tempo la fissità del
medesimo e l’esplosione della divisione in due, la
contraddizione del movimento e dell’arresto, come a
sottolineare la tensione emblematica tra il Sé e l’Altro nel
pensiero greco; il termine stasis ci conduce a pensare
contemporaneamente l’immobilità e l’insurrezione.180 La
stasis rappresenta per il discorso civico il paradigma
dell’ambivalenza, tra caos e ordine, movimento e quiete. I
due sensi della parola, apparentemente così lontani,
sembrano legarsi e implicarsi a vicenda nel momento in
cui il termine si sposta sul terreno del politico, come se la
guerra civile fosse stasis nella misura in cui dà luogo allo
scontro alla pari tra due metà della città, nel mezzo della
quale il conflitto si erge come una stele. Stasis è il nome
del dissidio come sedizione; è la fazione, la presa di
posizione che diviene divisione e che degenera in
conflitto. Sul piano del politico, la stasis si connota
anzitutto come idea di una presa di posizione, da cui
genera il movimento del due contro l’unità civica.
L’ortodossia civica pone la stasis in opposizione
diretta alla guerra “legittima” e gloriosa che la città
conduce al di fuori delle proprie mura – polemos –
paradigma di esemplarità civica. Polemos è la guerra
gloriosa che unisce i cittadini in un solo popolo di
combattenti pronti ad affrontare la “bella morte”, la morte
di chi muore per la propria terra senza tremare. In
opposizione a essa, stasis è invece il conflitto intestino,
cieco e sanguinoso; sono gli scontri nelle strade in cui la
furia omicida coinvolge anche le donne, dove tutto è
permesso e tutte le morti, anche le più orribili, trovano
spazio. La negazione del rapporto tra queste due
dimensioni del conflitto si rivela agli occhi dell’autrice un
luogo privilegiato di quel procedimento intellettuale che
vede l’ideologia alimentarsi di contrapposizioni frontali.
Come ogni divisione risulta essere funzionale al discorso
civico sull’unità della città, così attraverso la distinzione
tra stasis e polemos la città proietta il conflitto al proprio
esterno, permettendo così all’immaginario civico di
costruirsi l’immagine della città come un Uno. In virtù
dell’ideologia di una polis egualitaria e radicata nel
meson – «luogo geometrico di una vita politica senza
scosse»181 garantita dall’intercambiabilità dei cittadini
ateniesi, in linea di principio tutti simili tra loro – il
conflitto sembra sempre essere superato, e la città divisa
diviene impensabile. Il conflitto è posto all’esterno del
suolo civico, dove lo scontro diviene legittimo e
auspicabile: il politico, dunque, come città in pace, e la
guerra sia alle porte. Stasis e polemos tracciano una
distinzione tra uno spazio buono e uno negativo del
conflitto, tra un rischio assoluto e un’implicita
vocazione.182 Sullo sfondo si intravede l’immagine della
città in pace con se stessa, indivisibile, i cui membri
fratelli sono tutti legati da concordia e pace civile. Il
conflitto è posto al di fuori delle mura, sotto la protezione
di Atena, della Parthenos combattente che guida il popolo
nella battaglia, un popolo che Eschilo – nelle sue
Eumenidi – chiama stratos – esercito – come se il corpo
civico coincidesse con il compito di condurre battaglie e
far guerra al di fuori del suolo civico. Nelle Eumenidi la
stasis trova la propria messa a tema nella narrazione del
proliferare del crimine nella “famiglia”, termine che viene
a sovradeterminarsi fino a coincidere con la città stessa.
Le Erinni, figure funeste del Dissidio, incarnano quella
violenza cruenta che distrugge l’equilibrio e annega la
città nel sangue. La loro presenza nello spazio civico deve
essere scongiurata e il loro furore arginato; il Dissidio
deve esser cacciato fuori le mura, siano queste le mura di
Atene o quelle del santuario di Delfi, luogo iniziale della
tragedia. Per questo Apollo comanda loro:

Via, io vi comando! […] Non avete neppure diritto di sfiorare queste


mie mura: là restate, dove sono condanne che stroncano teste,
sfondano occhi, dove si tagliano gole, dove – a schiantarne la fertilità
– si annienta il vigore dei giovani, membra mozzate, sassate mortali,
gente a mugulare uno spasimo che non termina mai – le schiene
inchiodate sul palo.183

La tragedia, che si conclude con la trasformazione delle


Erinni in Benevole (Eumenidi), custodi della città, rivela
qualcosa di estremamente importante, poiché svela il
procedimento implicito per cui la componente conflittuale
della società deve essere sempre superata nelle pratiche
civiche della polis. Davanti al conflitto e alla divisione
intestina, la strategia greca è quella di uno schema
ripetitivo che descrive un movimento evolutivo dal
disordine verso l’ordine e che si conclude con la vittoria
del consenso e della concordia. In questo movimento
verso la concordia civica, la città viene descritta come
totalità. Nella tragedia eschilea, Atena suggella l’idea di
Città come Uno, nel momento in cui, installando il
tribunale dell’Aeropago sulla collina di Ares, invita la
polis intera ad apprendere le leggi che essa vi istituisce in
vista di una comunità unita, animata da un solo spirito.
Trattenere il flagello, rovesciando il furore nella
concordia: questa è la lezione alla base del testo di
Eschilo.

Non sfogatevi: attente, non architettate strage di frutti col vostro


sudare d’inferno, lame golose, spietate a colpire i germogli. Io vi
faccio solenne promessa: di avere sedi in questo paese e un sacro
cavo – come voi meritate. Assise presso gli altari, su lucidi troni,
godrete tributo d’onore dagli uomini di questa terra. […] Il prestigio
è salvo, o dee! Non siate spietate, non sfogatevi contro questo suolo,
non fatelo inerte allo sforzo dell’uomo. […] Tu non vibrare contro i
miei domini le cruente coti, squarcio di giovani petti, nel ribollire di
una sobria frenesia. Non attizzare – come fossero galli – non
piantare nel cuore dei miei uno spirito d’astio, sangue che lotta col
sangue fraterno. La guerra stia sulla soglia, non si risparmi con quelli
che smaniano gloria: ma escludo una rissa d’uccelli stretti nello
stesso pollaio. Questa è la scelta che ti posso offrire: il bene da fare,
il bene da ricevere, coperta di onori, parte viva di questa terra
benedetta dal cielo.184

Le Erinni divengono protettrici dello spazio civico e


istitutrici di legami. La comunità è così ipostatizzata,
diviene soggetto unico. Le ormai Benevole cantano inni
alla Città-una, che esse proteggono. Si delinea così una
topologia ben definita: tra un dentro pacificato e custodito
e un fuori votato al conflitto, non è contemplato alcun
interstizio, per nessun’altra cosa. Il dissidio viene posto
all’origine di una situazione ancora non politica e di
squilibrio, in una spaccatura che, una volta sanata, non
può che ripresentarsi sotto forma di disfunzione e di
malattia.
In questo modo, Atene fonda se stessa sulla base della
negazione di qualsiasi connaturalità tra conflitto e
politico. L’affronto che il conflitto e la divisione
rappresentano per il politico greco si traduce in una
doppia esclusione. Da una parte, il conflitto viene espulso
degli spazi civici; dall’altra la stasis viene esclusa
dall’umanità stessa, accostata a catastrofi naturali e a
flagelli pestilenziali. Allorché ne condanna la
coestensività al politico, la città è infatti costretta ad
assimilare la stasis a una malattia o a una sciagura esterna
alla polis, estrinseca alla sua natura consensuale e alle sue
pratiche politiche. Essa diviene allora maledizione,
fantasma che assilla la comunità dei cittadini dall’esterno,
che interrompe il tempo politico della città in pace. Ma,
commenta Loraux, essa è componente endemica della
città, figura infrapolitica dell’affrontamento. Nel pensiero
civico, la stasis diviene loimos, catastrofe che si abbatte
sull’umanità come un flagello; in casi più rari, essa viene
descritta come un processo di distruzione, una phtorà,
malattia nata dalle degenerazioni del politico
(introducendo così la temibile e scomoda sensazione che
in un certo senso la stasis nasca proprio a partire dal
suolo civico). Come in una malattia, il terribile viene
dall’esterno; come in una malattia, la stasis porta con sé
la catastrofe e la strage dei comportamenti civili, dei
valori etici e religiosi.185
Con la stasis il disordine fa irruzione nella polis. Tutti
i modelli vengono messi in crisi e con essi tutte le
certezze rassicuranti. La divisione del corpo politico in
due parti in lotta corrisponde nel pensiero dell’Uno civico
all’introduzione del caos all’interno della comunità, al
crollo e alla sovversione di tutti i valori civici e alla
regressione del cittadino oltre la propria umanità. Nel suo
racconto del conflitto intestino di Corcira, in La guerra
del Peloponneso, Tucidide sembra soffermarsi
lungamente sui capovolgimenti e sulle astute
risignificazioni subite dalla città in tempo di stasis:

Allora, dunque, le città furono in preda alle sedizioni. […] E l’usuale


valore che le parole avevano in rapporto all’oggetto fu mutato a
seconda della sua stima. Ché l’audacia dissennata fu considerata
ardire devoto alla causa dei congiurati, e la previdente cautela viltà
mascherata da un bel nome, e la moderazione un vanto del vile, e la
prudenza in ogni cosa essere oziosi in ogni cosa. L’essere follemente
audace fu considerato cosa degna del carattere dell’uomo, e il
riflettere per tentare un’impresa da una posizione di sicurezza un
ragionevole pretesto per rifiutare. E chi si adirava era persona fida in
ogni occasione, chi lo rimbeccava era sospetto.186

La stasis sembra mettere in atto una chiara manipolazione


dei valori attraverso la lingua, procedendo, attraverso la
decostruzione del logos civico, alla costruzione di un
nuovo discorso, snaturato. «Usare le stesse parole, ma
cambiare il rapporto di queste parole con le azioni»:187
ecco che la lingua del politico viene stravolta, in uno
scarto insanabile con la città. Il furore e la collera
sciolgono tutti i legami: quelli tra i significati, quelli tra
cittadini, quelli tra fratelli. Con il conflitto il disordine si
impadronisce della città: alla socialità positiva che
costituisce la vita in comune, all’intimità tra cittadini, si
sostituisce il legame tra faziosi, l’andreia philetairos, lo
snaturato rapporto tra congiurati presentato dalla retorica
come il surrogato dell’audacia virile che lega gli opliti sul
campo di battaglia. Cambiando di segno, tale vicinanza si
tramuta in semplice associazione per la morte.
Alla guerra che stringe la comunità politica in un
unicum, si sostituisce la stasis che distrugge la polis dal
suo interno, la violenza incontrollata che distrugge il
legame sociale. Allo sphage, sgozzamento sacrificale che
definisce la comunità civica al cospetto degli dei, creando
il corpo politico attraverso la vittima animale, si
sostituisce il massacro tra i cittadini, le gole recise per
puro odio. Sovvertendo il sacrificio che fonda la
condizione umana al cospetto del dio, la città torna a uno
stadio prepolitico, regredendo allo stato selvaggio di una
violenza incontrollata. In modo evidente ed esemplare
l’atrocità del conflitto intestino si condensa nell’immagine
dell’uccisione del padre da parte del figlio, scena orribile
che recide il legame familiare e rovescia i valori della
polis. Uccidere il figlio, uccidere il proprio fratello,
uccidendo così un proprio uguale, un altro se stesso; nella
stasis si spezzano i legami di sangue e si dissolve la
fratellanza tra i cittadini. La stasis è infatti questo:
l’orrore della regressione, l’inversione di ogni valore,
un’umanità non più umana, cristallizzati nell’immagine di
una comunità in lotta contro se stessa. La comunità
politica assume nel pensiero greco i tratti di un intreccio
sempre perfetto, in cui giorno dopo giorno è necessario
riannodare i legami che costituiscono quella concordia
senza la quale la città troverebbe la propria rovina. Fine
dell’Uno – in cui politica e ontologia si legano in modo
esplicito – e ritorno del molteplice: la catastrofe del
dispositivo di pensiero ateniese. La stasis perturba il
politico che si pensa come spazio unitario e omogeneo,
costituendo la catastrofe di un ordine che si pone come
universale e familiare.

4.2 Il Politico dell’oblio

Il politico greco si radica nella negazione della divisione


e del conflitto. Per preservare l’unità della comunità
civica dalla divisione, fondamento e fantasma del politico
ateniese, il discorso civico mette in atto numerose
strategie di difesa, dando vita a delle vere e proprie
pratiche di oblio. Il terrore della divisione, del due che
fonda la città, viene a tramutarsi in pratica reiterata e
istituzionalizzata, al punto che politikos diviene
l’aggettivo di «colui che è capace di dimenticare».
“Politico”, come il dio Poseidone che, sconfitto da Atena
nel suo tentativo di legarsi come eponimo al suolo civico
ateniese, abbandona ogni risentimento legato all’eris
divina – modello della stasis umana – divenendo
paradigma di esemplarità civica. Come Poseidone,
l’uomo politico deve saper obliare il male subito in nome
di una concordia più grande che permette l’ordine civico.
La paradigmaticità del racconto dell’eris divina è
rintracciabile nei numerosi atti civici che tendono a
scongiurare la stasis reale sulla base di un controverso
diniego del ricordo della disputa divina. Il dissidio tra gli
dei, che la città ricorda nel secondo giorno del mese di
boedremione, viene rimarcato nella memoria dei cittadini
attraverso un’interessante doppia negazione. La città,
infatti, dichiara tale ricorrenza ricordo funesto per il dio,
giorno vietato del calendario e passa così dal primo al
terzo giorno di boedremione. L’assenza sottolineata da
tale pratica riafferma la vicenda della divisione tra dei,
cementando nel cittadino ateniese il ricordo della vicenda
e del suo esito “politico”. Negando e affermando a un
tempo il dissidio e il suo superamento, la città scongiura
la stasis umana e innalza l’oblio a pratica civica. Dietro
alla eris divina non vi è più semplicemente la vittoria di
Atena e la sconfitta di Poseidone ma il conflitto in quanto
tale, con le sue implicazioni. Proteggendosi dal ricordo
della discordia tra gli dei, in realtà si protegge la città
dall’idea stessa della stasis. In modo ufficiale e
istituzionale la città nutre la vita politica di pratiche di
oblio volte a cancellare le cicatrici e gli schieramenti che
hanno portato la polis a sanguinare. Si dimenticano le
fazioni, le opposizioni, e per mezzo degli dei, davanti al
quale si giura l’oblio delle sventure, si trasforma il
conflitto in consensualità e unione. Come le Eumenidi che,
persuase da Atena, abbandonano il proprio furore per
diventare le protettrici della concordia cittadina, così gli
dei vengono chiamati a suggellare il giuramento di ogni
singolo cittadino, il quale si impegna a non ricordare, mai
più, in alcun modo, il conflitto che ha diviso la città.
Come se fosse necessario un intervento divino per portare
a termine la delicata operazione volta a disinnescare il
conflitto per poterlo poi insediare, una volta neutralizzato,
nel suolo civico.
In tale logica rientra l’ambiguità politica dell’amnistia
del 403 A.C., evento cruciale della storia ateniese.
Sconfitti i Trenta, Atene si prepara a restaurare la
democrazia. Lontano da ogni aspettativa, è indetta
un’amnistia da parte dei democratici in favore dei loro –
fino a poco prima – nemici; un’amnistia che li libera da
ogni accusa e crimine e che suggella l’unione dei cittadini
finalmente riuniti attraverso un giuramento solenne davanti
agli dei, in cui ciascuno si impegna alla concordia e
all’oblio del conflitto. Isolati alcuni dei colpevoli, vittime
espiatorie della riconciliazione, a tutti i cittadini fu
imposto un giuramento che li impegnava a non rievocare
le sventure. Tramite il giuramento, l’amnistia poté avere la
meglio sul risentimento, neutralizzandolo. Tutti i cittadini
furono così destinati a riconciliarsi; a tal fine, il divieto di
mnesikakein diveniva dirimente. Amnistia/Amnesia: un
legame tra riconciliazione e dimenticanza che si rivela già
nelle parole.

[...] La comunità conflittuale così strutturata sembra sia stata


pensata come finzione di un’origine sempre già superata – in
principio era il conflitto: poi venne la polis che, per i cittadini, istituì la
pace… Indefinitamente, l’amnistia non farebbe altro che ricostituire
la città contro le sventure recenti, si dice. O piuttosto: contro il
mythos dell’origine.188

Giurando di dimenticare il passato la città ateniese fonda


la propria esistenza politica su di una perdita di memoria.
Giuramento, figlio di Eris, dea del conflitto e della
discordia, è legato alla sua figura materna in modo
essenziale. In virtù di questo legame, il giuramento si
configura all’interno della città come prevenzione più
efficace contro la discordia; «nato dalla discordia, dunque
arma contro il conflitto».189 Nello spazio pubblico, la
pratica del giuramento si realizza sempre in relazione a
una situazione di dissidio, sia per prevenire che per porre
fine alla stasis; in virtù di tale pratica la polis tenta di
arginare il conflitto invocando gli dei che lo regolano. Il
giuramento dunque si fa carico di un’ostilità che annulla
attraverso le parole: i cittadini si impegnano a rinunciare
al ricordo di ogni male e di ogni sventura, poichè la
memoria del conflitto comporta il ricordo dell’odio. Si
instaura così un nesso inscindibile tra memoria e vendetta,
entrambi elementi da escludere dallo spazio civico e che,
senza alcuna sorpresa, finiscono con il legarsi con la
figura dell’esclusione per eccellenza, la donna.
La pratica politica della dimenticanza è ciò che per
Loraux contraddistingue il politico greco, ciò che consente
il discorso dell’Uno e dell’identità.190 In questo
procedimento intellettuale la città sembra negare se stessa,
negando il conflitto che la origina e che le conferisce
stabilità. La polis è il politico dimentico di se stesso,
«come se la memoria della città si fondasse sull’oblio del
politico in quanto tale».191 La città mette in atto pratiche di
controllo della memoria e di dimenticanza
istituzionalizzata, laddove l’oblio non è semplice assenza
irrimediabile ma, freudianamente, presenza fattasi assente
a se stessa,192 memoria rifiutata, «ma pur sempre
memoria».193 Fondando la memoria politica sull’oblio
della divisione, la città si nega in nome di un’ideologia
conciliatrice in cui tutto è Uno. Davanti al conflitto,
all’omicidio, al risentimento «la politica è fare come se
non fosse successo nulla».194 La stessa definizione di
politica fornita da Isocrate e Aristotele sembra andare in
una direzione decisamente simile, nel momento in cui essa
è individuata come ciò che comincia dove finisce la
vendetta. L’oblio assume il ruolo di valore civico. In
questo quadro, commenta l’autrice, va intesa la notizia
riportata da Plutarco circa l’altare dedicato a Lethe
(Oblio, figlio di Eris) costruito all’interno del santuario
più simbolico dell’Acropoli.
Nel proclamare a gran voce l’unità e la stabilità, la
città non solo rimuove il due irriducibile che la fonda, ma
dimentica anche i momenti costitutivi dell’esercizio del
potere legati alla divisione, ad esempio i momenti di voto
in assemblea, i processi e la sua stessa origine
democratica. Da una parte, infatti, lo sforzo costitutivo
alla dimenticanza si riversa sulla parola stessa che denota
l’ordinamento ateniese, la democrazia, portatrice al
proprio interno di un senso stridente con l’ideologia
civica. La parola kratos, difatti, alludendo a una vittoria e
al potere esercitato su una parte, riporta in vita una
distinzione tra il demos e la parte su cui il popolo esercita
la propria vittoria. Una parola ingombrante, il cui uso
costringe il corpo civico ad ammettere che nell’esercizio
del politico vi possa esser stata possibilità di divisione e
la conseguente vittoria di una parte sull’altra.
Rappresentando quella divisione di cui la città teme le
implicazioni, il nome del potere del popolo viene taciuto
ogni volta che ve ne sia la possibilità. Si assiste così,
paradossalmente, all’eclissarsi del termine democrazia in
favore del termine archè, nome del potere come potere
legittimo, o della descrizione della comunità come “Città”
– He Polis – , personificazione del corpo civico in un
soggetto unico. Politikos non è allora solo chi, come
Poseidone, è capace di dimenticare i mali subiti, ma anche
colui che sa obliare la propria vittoria.
Dietro all’oblio della stasis giace la consapevolezza
che il conflitto e la divisione siano connaturati alla città e
coestensivi a essa e che, anzi, contribuiscano a fondarne
la politica. Davanti a questa prossimità, i cittadini non
possono che tentare di negare a se stessi la realtà delle
proprie pratiche politiche. Si pensi, ad esempio, a quella
esperienza che maggiormente definisce la democrazia agli
occhi degli ateniesi e della posterità: il voto in assemblea.
L’espressione di un voto comporta necessariamente una
presa di posizione all’interno del corpo civico,
implicando così necessariamente una sua partizione in
schieramenti. «Votare – commenta Loraux – significa
accettare di separarsi».195 Accettare di prendere posizione
in assemblea equivale ad accettare la possibilità della
vittoria di una parte sull’altra; ecco dunque tornare in seno
al processo democratico lo spettro del kratos e della
divisione.

Il pensiero politico non accetta serenamente né che vi sia stata –


fosse pure limitatamente al momento del voto – una divisione
all’interno della città, né che la legge della maggioranza si arroghi
ogni valore. Alla prima forma di reticenza corrisponde la
rappresentazione delle «buone» decisioni come decisioni felici prese
all’unanimità; alla seconda la tentazione ricorrente di attribuire alle
assemblee umane una tendenza a dare la vittoria alla decisione
cattiva.196

In una agorà in cui troppo sembrano risuonare gli echi


dell’agon del campo di battaglia, ogni processo è
competizione e combattimento e ogni assemblea sembra
riprodurre nello spazio civico il paradigma del litigio.
Atena stessa, nelle Eumenidi, all’atto fondativo delle
pratiche di giustizia in virtù delle quali si viene ad
arginare l’iniquità per mezzo delle leggi, richiama alla
memoria civica la controversa vicinanza tra l’Aeropago e
Ares, dio della guerra, come a suggerire un’implicita
correlazione tra conflitto e giustizia.197 Vacilla così la
credenza civica per cui la stasis sarebbe stata eliminata
dalla città pacificata tramite la pratica del voto. Irretito
dalla constatazione della scomoda presenza del due al
cuore stesso della prassi democratica, il discorso civico
si ritrova ad affermare con pessimismo che in situazioni di
parità, il voto non può che premiare l’opinione peggiore,
negando così il valore stesso dell’assemblea. L’ideale,
per un greco, sarebbe dunque quello di assemblee che
votano all’unanimità, incarnando così nelle mani sollevate
la concordia dell’ideologia civica. La diffidenza greca
per le pratiche di giustizia si ritrova anche negli ambiti
che riproducono la presa di posizione del tribunale e
dell’assemblea. La stessa pratica socratica del dialogo,
apparentemente scambio tra uguali, viene denunciata come
oligarchica e dissimmetrica, poco vicina agli ideali della
democrazia.198 Platone non è certo il primo a criticare le
regole del dibattimento giuridico e, con esse, la pratica
socratica del dialogo, che rivolta contro se stessa
all’interno del Gorgia. Nel dialogo infatti si assiste a un
continuo riassorbimento della parola dell’altro da parte
del filosofo, didaskalos in posizione gerarchicamente più
elevata rispetto all’interlocutore. Per questo è la retorica,
e non il dialogo, la pratica discorsiva della città: essa è
logos democratico, poichè permette la piena esposizione
delle proprie argomentazioni e dunque una comprensione
più chiara da parte dell’uditorio.
Il voto porta con sé il rischio di partizioni contrapposte
e, con esso, riattualizza costantemente il fantasma della
stasis. Tra la stasis e il voto, così come tra stasis e dike,
vi è una sinistra affinità. La giustizia e le pratiche di voto
che dovrebbero garantire l’ordine civico da ogni
degenerazione faziosa e conflittuale, rimangono prese
nella logica della divisione. Ma Atene, preso atto della
realtà conflittuale della giustizia e del politico in generale,
tenta comunque di eluderne le implicazioni.199 Elusione
della divisione che, a volte, si tramuta in epurazione. Nel
462 A.C. il democratico Efialte intraprende un’azione
contro il tribunale aristocratico dell’Aeropago e la sua
eccessiva ingerenza nella vita politica cittadina. Efialte è
un personaggio chiave della storia ateniese: a lui può
esser fatta risalire l’istituzione della democrazia dal
momento che, sulla base di alcune affermazioni che
Loraux apprende dagli scritti erodotei, sembra aver
gettato le basi della politica di Clistene. Ciononostante,
Efialte viene ucciso e di lui, come delle cause della sua
morte, si perderanno ogni traccia nella memoria di Atene.
Attraverso quel che Loraux definisce «un lavoro metodico
di progressiva cancellazione dell’omicidio»200 se ne
perderà ogni traccia. Quale spiegazione si cela dietro un
omicidio e una cancellazione così paradossali? Stando
all’interpretazione di Nicole Loraux, il pericolo da
scongiurare attraverso l’uccisione di Efialte altri non è
che la divisione. Levatosi contro l’Aeropago, Efialte si è
scagliato contro parte della sua stessa comunità, come un
sedizioso, in un gesto che che facilmente avrebbe potuto
generare conflitto in città, aprendo alla stasis. Il conflitto
deve essere cancellato ad ogni costo. Efialte non deve
solo morire: il suo gesto deve essere obliato.
Alla ricerca di ciò che l’ideologia civica nega in nome
dell’Uno, occorre lavorare con l’assenza, con il rimosso e
il deliberatamente cancellato. Si dovrà fare esercizio di
contro-memoria. Il controllo sociale della memoria civica
assume forma decisamente esplicita nel caso della
rappresentazione teatrale della presa di Mileto portata in
scena da Frinico e vietata dalla città per aver trasgredito
al dovere civico di non rievocare le sventure.
L’interdizione della memoria è proclamata in modo
pubblico e solenne, divenendo paradigmatica. Il testo di
Frinico portando sulla scena avvenimenti recenti della
storia ateniese, toccava la città troppo da vicino
ricordandone le pesanti sconfitte. Si racconta che durante
la messa in scena l’intero pubblico scoppiò in lacrime,
colto da un eccesso di pathos che la vicinanza temporale
e spaziale degli eventi avevano contribuito ad accentuare.
Destati alla coscienza dei pericoli della rammemorazione,
i cittadini inflissero al poeta una multa di mille dracme e
ogni ulteriore rappresentazione dell’opera venne proibita.
Da quel momento le sofferenze portate in scena dalla
tragedia sarebbero state tali solo per i suoi personaggi.
Quel giorno, commenta Nicole Loraux, può esser definito
come «il giorno in cui la democrazia ateniese ha deciso di
porre un limite all’espressione del lutto nella tragedia»,201
imponendo alle successive rappresentazioni una
dislocazione spazio-temporale che rese impossibile ogni
immedesimazione. Quel giorno, all’inizio del V secolo, in
modo ufficiale e manifesto, venne a tutti proibito il
ricordo del cordoglio civico e si diede avvio a una
sorveglianza oculata della memoria cittadina.
Il mito dell’autoctonia tenta di arginare la stasis
tramite il richiamo alla fratellanza dei membri del corpo
civico, garanzia di riconciliazione e deterrente del
conflitto. Poiché, infatti, la famiglia viene pensata come
base essenziale alla vita in città, necessaria alla
sussistenza e sopravvivenza della polis, non potrebbe
esservi arma ideologica più potente contro il conflitto che
il richiamo alla parentela tra cittadini. In realtà, commenta
Loraux, il tema del rapporto simmetrico tra fratelli non
assicura nulla alla città e finisce spesso col rovesciare la
concordia prescritta dai legami familiari nel suo esatto
contrario, nella stasis emphylos in cui l’appartenenza si
ribalta in un legame sanguinante di parricidi e uccisioni
tra fratelli. «Fra gli adelphoi – infatti – il conflitto
sarebbe tanto naturale quanto l’amicizia».202 Il conflitto
nato all’interno della famiglia è anzi il conflitto più
terribile e sanguinoso, perché nella famiglia è riposta la
fonte di ogni valore civico.203 All’interno di un legame
civico pensato come consanguineità fraterna, la città è
portata a dimenticare la divisione ma, al tempo stesso, si
trova colta in un’insopprimibile ambiguità. Lo stesso
sangue che assicura il legame all’interno della parentela,
haima, si ribalta nell’assassinio senza mutare il proprio
nome, come se l’ambiguità del legame di sangue fosse
evidente fin dai suoi sintagmi.

È tempo di evocare la tradizione politica greca in cui, come nel


genere tragico, emphylos non esprime la parentela che su un fondo
di discordia e di sangue versato. È la stasis emphylos della poesia
arcaica, espressione formularia in cui è ben difficile decidere se la
famiglia sia evocata per ciò che essa effettivamente condivide con la
guerra civile o al contrario per meglio far risaltare lo scandalo di una
guerra in cui ci si affronta tra parenti.204

Tale ambigua vicinanza tra la stasis e la famiglia trova


spazio nell’orizzonte tragico, in cui ogni autore sembra
aver colto l’evidenza della loro connessione. Alla città
dunque non rimarrebbe che contenere l’una per prevenire
l’altra, mentre la scena tragica disloca il dissidio altrove.

4.3 Il femminile, il conflitto. La doppia negazione del


politico greco

Richiamo all’unità, terrore del conflitto. Attraverso


molteplici strategie la Città pone un veto al due che la
fonda e che l’assilla, obliando il fatto che la stasis è
connaturata al politico, così come il fatto che la differenza
sessuale fonda lo spazio dell’ordine civico e ne permette
la continuazione attraverso la riproduzione. Dietro al
richiamo politico alla fratellanza, argine e dispositivo di
controllo delle derive conflittuali del corpo civico, è
possibile ravvisare la messa in atto di una doppia
esclusione. In base allo stesso argomento – la famiglia
civica, luogo di eguali e fratelli nati dal suolo di Atene – è
possibile procedere all’esclusione non solo del conflitto
che minaccia l’ordine della polis – che il legame “di
sangue” tra i cittadini rende naturale e contro natura nel
medesimo istante –, ma anche della donna in quanto
portatrice della differenza che minaccia la Città.
Entrambi operatori differenziali del politico, il
femminile e il conflitto, sono coestensivi allo spazio
politico e contemporaneamente da esso esclusi. La stasis
e la donna sono negati, derealizzati, messi al bando dal
discorso. Senza alcuna sopresa, nel discorso ufficiale
della polis le due negazioni vengono fatte giocare l’una
sull’altra, in un binomio posto al servizio degli uomini e
della pace all’interno del suolo civico. «E di fatto, non
appena l’ordine civico si incrina, appaiono le donne».205
Nicole Loraux sottolinea il sottile legame «inevitabile e
sempre verificabile»206 che lega il conflitto al femminile
all’interno della retorica ufficiale. Tale legame è
estremamente interessante. Incrinata la logica dell’Uno
tramite la stasis, il pensiero non può non correre al luogo
della più radicale e immediata messa in discussione del
Medesimo, la differenza sessuale. Persino all’interno
dell’Iliade, per molti versi distante dalle regole e dalle
rappresentazioni ufficiali della Città, il legame tra il
femminile e la divisione appare evidente. Nell’Iliade,
infatti,
[…] Va ricordato che la stessa guerra, quando diventa uguale per le
due parti contendenti, può dipendere da una similitudine femminile,
quella – celebre – dell’«operaia sincera con la bilancia in mano».
Come se un’attività femminile potesse esprimere meglio di tante
altre quello che mette gli uni contro gli altri gli uomini in uno scontro
senza concessioni.207

Il discorso sul conflitto sfocia nel discorso sul femminile


che, al pari della stasis, porta disordine nella logica
unitaria. Polemos riguarda gli uomini, ripete il topos, e
non vi è posto altro che per gli uomini, a meno che non si
tratti di suscitare risa all’interno di una commedia come
nel caso della Lisistrata di Aristofane; stasis, invece,
chiama le donne direttamente in causa: la razza delle
donne, che ha diviso l’umanità in due, incontra così il
conflitto che spacca in due la città. Tale legame risale alle
narrazioni più antiche dell’orizzonte culturale greco: basti
pensare a Elena, incarnazione della eris, all’interno della
sanguinosa guerra di Troia; a Pandora, attraverso la quale
i mortali giungono in contatto con la drammatica figura di
Ponos, primo figlio di Eris. Nello stesso orizzonte si
muove il poeta Pindaro quando nomina la guerra civile
ricorrendo all’appellativo antìaneira (ostile agli andres),
altrove usato per caratterizzare il popolo delle Amazzoni.
Ma non solo. Vi sono numerose altre narrazioni
organizzate attorno all’idea che tra la lotta che divide la
città in due opposte fazioni e le donne come “metà della
città” vi sia un legame inaggirabile.
Nel racconto degli orrori della stasis di Corcira, pur
ponendo l’accento sulla violenza che la natura femminile
deve fare a se stessa per non perdere il proprio coraggio e
affrontare il tumulto, Tucidide ripropone l’identificazione
tra la guerra civile e il femminile.208 Sovvertendo ogni
regola, le donne combattono assieme ai cittadini, nel
tumulto e nel clamore, colpendo gli avversari con tegole
scagliate dai tetti. In un conflitto che non ha nulla a che
vedere con gli schemi e l’ordine della guerra oplitica, né
con la morte onorevole sul campo di battaglia, lo scontro
è portato avanti con armi improvvisate, non
convenzionali, in un conflitto degradante. Senza
esplicitare in modo manifesto questo nodo tanto funzionale
alla logica del politico greco, Tucidide propone
un’associazione molto sottile e sofisticata attraverso la
caratterizzazione della stasis come conflitto che intacca il
coraggio e la andreia su cui l’ordine civico si fonda. In
virtù del rivolgimento, di cui si è trattato nel paragrafo
precedente, che svaluta il senso ordinario della realtà
civica trasmutandone negativamente i valori, la stasis, la
lotta nella città, seppur avvenga tra andres, è un conflitto
che usurpa il nome dell’andreia, realizzando un tipo di
scontro che non ha nulla a che fare con il coraggio e la
virilità dell’uomo greco che lotta per la propria città.
L’andreia, fondamento tutto maschile del discorso civico,
è dunque la prima parola che la retorica sediziosa viene a
snaturare; una volta attaccata la virilità autentica, ecco che
il femminile fa irruzione.209 La guerra civile sarà allora
anandros, luogo della messa in discussione del senso
dell’andreia e del capovolgimento dei valori virili che
fondano lo spazio civico. La compostezza oplitica lascia
il posto alla strage nelle strade, alla confusione delle urla,
alle donne che combattono al fianco dei cittadini. La
morte in cui incorre il sedizioso è cruenta, senza gloria, un
corpo abbandonato sulle strade; è la morte che coglie
all’improvviso, di soppiatto; l’uccisore arriva alle spalle,
striscia nell’ombra o tra la polvere del tumulto. La bella
morte declamata al Ceramico non potrebbe essere più
lontano. L’andreia scompare nel sangue che scorre tra le
case, versato per mano dei propri fratelli, per fare posto a
una morte disonorevole, tutta femminile.
Nella stasis si uccide il concittadino, il fratello; ci si
allontana dall’affrontamento tra eserciti stranieri per
uccidersi l’un l’altro. L’assassinio del nemico diviene
assassinio dell’adelphos, attualizzando così quel tabù
dell’uccisione della propria stirpe che solo il teatro e la
narrazione non ufficiale riescono a rappresentare,
depositandolo sulle azioni di una donna. Per il pensiero
greco, infatti, il crimine in famiglia, l’uccisione della
propria stirpe, è gesto tipicamente femminile, all’interno
di una logica in cui l’assassinio della propria stirpe da
parte di una donna colpisce sempre la parte maschile, sia
essa quella del figlio o quella del marito.
In tal senso, spiega Loraux:

[…] nella tragedia, tra i sessi c’è una tensione viva e la donna che
raggiunge il pathos insorge sempre contro l’uomo. Conformemente
alla «razza delle donne» – che gli andres evocano quando vogliono
provare terrore e attrazione al tempo stesso –, la madre vive con sua
figlia in un circuito chiuso, ma la collera femminile è una minaccia
per il figlio maschio in quanto egli rappresenta il padre.210

In tal senso, si comprende l’eccezione rappresentata


dall’uccisione di Clitemnestra da parte di Oreste,
all’interno del racconto dell’Orestea, e il conseguente
castigo delle Erinni che esigono la punizione del
matricida, di colui che ha ucciso colei che lo ha generato.
L’uccisione del proprio sangue è crimine orrendo e contro
natura, un crimine da donna, il cui statuto rispetto alla
phusis umana è sempre problematico.
Vi è un ulteriore punto di coincidenza tra il femminile e
l’odio della stasis. Come è stato illustrato,
nell’immaginario civico, politikos è colui che sa obliare i
mali ricevuti in vista di un rinnovato legame di amicizia e
collaborazione all’interno dello spazio pubblico. La
divisione deve essere obliata, poichè il ricordo del torto
subito porta con sé il pericolo di ritorsioni, di vendetta, di
ulteriori spaccature dell’Uno civico. Il politico, abbiamo
visto, si fonda sull’oblio; la stasis, in quanto aberrazione
del politico, si ostina invece nella memoria dei sediziosi.
La memoria sembrerebbe dunque essere impolitica per
natura.

Indagando le rappresentazioni dell’immaginario


ateniese – fatta eccezione per il racconto omerico della
rabbia di Achille – Loraux ritrova la donna come figura
costante della memoria, ponendo così l’accento su ciò
che, nell’accezione del politico greco, contribuisce
ulteriormente a derealizzarne la figura nella comunità
civica, reiterando ancora una volta la sua esclusione. Il
rifiuto della dimenticanza, sia sulla scena tragica che
nell’immaginario civico, assegna alla donna il ruolo
antipolitico di una continua presenza a se stessi che
rischia di spaccare lo spazio politico tramite la rabbia e il
rancore, la ripetizione del lamento e il ricordo del lutto.211

Donde il rifiuto della memoria quando essa vorrebbe conservare la


traccia di un equilibrio spezzato: la città vuole vivere e perpetuarsi
senza discontinuità, è importante che i cittadini non si consumino in
lacrime.212

Da un lato, la politica ateniese che sembra costituirsi


come prassi dell’oblio; dall’altro, una memoria viva e
senza riposo, tormentata da eccessi di dolore e che,
tramutandosi in collera, minaccia l’ordine del politico. La
collera e il lutto che si alimentano nel ricordo delle
sventure si costituiscono in una ripetizione continua,
perenne presenza nel dolore, in un aei (sempre) che
sembra sfidare l’aei civico. È così che il cittadino
riconosce nella memoria un pericolo per lo spazio
politico, mentre la Città procede alla neutralizzazione del
ricordo.
La donna è figura del ricordo, della memoria, del
dolore che rischia di tramutarsi in menis; essa rappresenta
un eccesso rispetto alla norma del politico che rischia
sempre di portare la Città oltre la finzione dell’Uno, di
nuovo nella discordia, nel conflitto, di nuovo nella
divisione. Per questo la donna è antipolitica.
Come l’eccesso del femminile, come il conflitto e la
divisione, così la memoria può essere integrata nello
spazio della polis solo una volta neutralizzata e superata,
dopo aver incanalato il suo eccesso in pratiche
istituzionali che possano contenerne le implicazioni. La
vicenda della memoria colta nel suo legame con la madre,
reintegrata all’interno del suolo civico, neutralizzata fino
a diventare figura del politico, è ciò che soggiace
all’apparente dissonanza della presenza, nel cuore della
città, del tempio del Metròon, eretto dai cittadini in onore
della Madre (madre degli dei), luogo talmente civico da
esser destinato ad accogliere la sede dei buleti. Il
racconto della costruzione del tempio, tramandato
dall’imperatore Giuliano, narra di come questo fosse stato
costruito in onore della dea Madre al fine di placarne la
menis, l’ira devastante che aveva colto la divinità
all’uccisione – forse semplice esilio – del Gallo, suo
sacerdote, da parte degli ateniesi poco rispettosi. La dea,
abbandonata la sua ira, divenendo dunque “politica”,
prende posto all’interno del corpo civico; il suo tempio
diviene luogo di conservazione degli archivi pubblici di
Atene, proprio in virtù di quel legame intrinseco che lega
la figura materna alla memoria e alla scrittura. Nella
polis, infatti, il modello civico della donna coincide con il
suo legame con la riproduzione, laddove riprodurre
acquista un significato letterale di produzione di una copia
conforme all’originale paterno, senza che della donna
resti minima traccia sul figlio. Il pensiero riproduttivo
greco si configura come un processo esclusivamente
patrilineare, in cui la donna è semplice luogo materiale
all’interno del quale accogliere il seme maschile.
Rientrando perfettamente in quello che Irigaray in
Speculum definisce «il vecchio gioco le cui giravolte
sono leggibili lungo tutta la storia della filosofia»,213 il
pensiero greco attribuisce il ruolo di procreatore solo al
maschile, ri-produttore di un “pro-getto” in cui la donna
compare solamente come ricettacolo passivo, che riceve
il prodotto dall’uomo e lo riproduce fedelmente. Ogni
tratto somatico estraneo ai caratteri paterni verrà
considerato una deformazione, in una scala di valore che
pone agli estremi il figlio maschio somigliante al padre,
da un lato, e dall’altro, al basso della scala, al limite tra
l’umano e il mostruoso, la figlia che assomiglia alla
madre.214 Il momento del concepimento è dunque inteso
come atto di iscrizione dei caratteri paterni nella materia
femminile. «Ed ecco che il corpo femminile, con il suo
sesso a forma di delta, si fa tavoletta scrittoria (dèltos) a
uso dei maschi».215 All’interno di un simile quadro, risulta
evidente lo spostamento in virtù del quale il corpo della
madre, memoria indelebile del seme paterno, diviene
luogo sacro e sicuro, al cuore della polis, in cui
raccogliere le leggi scritte della Città.
Tale vicenda, commenta Loraux, mostra perfettamente
la prassi politica ateniese di asservire gli eccessi
femminili e ciò che, strettamente collegato a essi, tormenta
il kosmos civico, convertendoli in figure civiche.
Integrando la Madre e la memoria nello spazio civico, la
Città procede a scongiurare la terribile menis femminile
che, veicolata dal ricordo, minaccia gli uomini.

4.4 Eris e il legame della divisione


La comunità politica è luogo di legami ogni giorno
rinnovati dalla concordia civica, che garantisce l’ordine e
la pace anche a seguito del conflitto. La molteplicità del
reale viene sussunta nell’Uno civico, l’uno della pace,
dell’ordine e del legame. «Giorno dopo giorno, – spiega
Loraux – è necessario legare, annodare, tessere,
aggiustare la pace cittadina, perché la lacerazione è
sempre in agguato: al minimo allentamento del nodo, alla
minima falla del tessuto, ecco aprirsi la frattura che divide
la città».216 La città è dunque colta in questa incessante
opera di neutralizzazione della divisione e di ripristino
dei vincoli spezzati in un solo legame, solido e duraturo.
Attraversando il pensiero civico Loraux arriva alla
sorprendente scoperta che Eris, temibile e lugubre divinità
della divisione e del dissidio, è incorporata nello spazio
politico greco – esattamente come la Madre, come la
menis, come la memoria – in quantro creatrice di legami
civici. L’origine più potente di ogni legame sarebbe
dunque, commenta Loraux, nell’immaginario greco,
proprio quel dissidio e quella divisione che mette in
pericolo la città nella sua unità. Eris è il più potente dei
legami che fondano la politica, e in quanto tale essa deve
essere ripetutamente superata e e scongiurata tramite le
pratiche d’oblio civico e tramite il giuramento: tramite
Lethe ed Horkos, figli dell’oscura e tremenda, ma
essenziale, Eris.217 Attraverso il suo continuo superamento
il pensiero greco dissimula la dimensione conflittuale
originaria del politico, definendo lo spazio civico a
partire dalla riconciliazione, dal dissidio superato. Come
nel caso delle Eumenidi, il politico prende avvio dal
superamento di un conflitto. Occorre indagare il ruolo che
Eris e il dissidio vengono a svolgere all’interno del suolo
civico, chiedendosi come tale funzione di creazione di
legami trovi posto nella città una volta istituita la pratica
del giuramento e dell’oblio. Il conflitto, abbiamo visto,
torna sempre ad assillare lo spazio civico, sia nel suo
immaginario che nelle pratiche; la domanda dunque si
pone come immediata: nel suo periodico ricomparire, il
fantasma di Eris assolve ancora alla funzione “politica” di
istituzione del legame?
Nel mettere a tema il ruolo contemporaneamente
essenziale e deprecabile della divisione rispetto
all’ideologia prospettata dal discorso ufficiale e,
contemporaneamente, per illustrare l’ambivalenza della
posizione che Eris occupa rispetto all’immaginario
sociale, Loraux ricorre al frammento eracliteo sul kykeōn,
la bevanda dei misteri di Eleusi, che recita: «Anche il
kykeōn, si decompone, se non è agitato».218 La bevanda,
commenta Loraux, fatta di farina d’orzo e acqua, tende a
decomporsi in due strati netti. Occorrerà agitare
nuovamente il composto per creare di nuovo l’unità del
mescolamento. A questo va aggiunto, commenta l’autrice,
che per Eraclito la salvezza della città implica il
movimento.219 A partire da questi due argomenti Loraux
deriva due assunzioni fondamentali circa il pensiero greco
del conflitto. Da un lato, essi evidenziano come la stessa
concordia non abbia nulla di statico, dal momento che,
come la bevanda, la città si forma a partire dalla
mescolanza di cittadini di ogni sorta, la cui unità può esser
garantita solo dal movimento; dall’altra, il termine
eracliteo per indicare tale movimento fondamentale è eris,
«forse anche polemos».220 Il movimento pensato come
conflitto viene dunque posto alla base della concordia
civica; difficile allora, in questo caso, non tener conto del
significato ambivalente della parola stasis, parola del
conflitto in cui è inscritto a chiare lettere il movimento.
All’interno della città, dunque, se non vi è agitazione,
si produce divisione. Il conflitto è paradossalmente alla
base della concordia e dell’unità della Città dell’Uno.
Non solo dal conflitto – sul campo di battaglia come nelle
strade – una volta stabilizzato, nasce quel paradossale
sentimento che porta i combattenti ad avere qualcosa di
comune – come già rilevato dalla riflessione weiliana, che
individua nella contesa la relazione che lega i due
contendenti nell’unità di una medesima battaglia, tenendoli
in rapporto e implicandoli in un comune dolore221 –; esso
sembra anche porsi come garanzia civica dell’harmonia –
che, ricordiamo, racchiude in sé l’idea di due diverse
metà strette tra loro, in virtù della radice *ar-, espressione
di origine indoeuropea che indica, secondo Benveniste, lo
«stretto adattamento delle parti di un sistema»222 –
collante dell’orizzonte politico.
Nel cuore del politico greco, allora, Eris assume
l’ambivalente ruolo di primo motore. Appare così più
chiaro persino il singolare precetto della legge soloniana
che prevede e obbliga alla partecipazione e alla presa di
posizione nel caso di una stasis. Per l’incerto futuro, in
cui vi saranno senza dubbio conflitti e ulteriori divisioni,
Solone, pensatore del meson, traccia l’obbligo di prender
partito: «Colui che, nell’evenienza di una stasis in città,
non prenderà le armi né con l’una né con l’altra parte,
venga privato dei diritti e non partecipi più alla vita
cittadina».223 Nel tempo della comunità divisa, il prender
partito, il lottare per una causa, diviene dovere civico.
Nulla infatti è più lontano dai doveri civici che il
rimanere neutrali di fronte allo scontro; la neutralità
significa morte politica. Il fatto che la legge soloniana
ponga come dovere per il cittadino lo schierarsi nel
conflitto può apparire sconvolgente rispetto alla logica
dell’Uno che informa ogni discorso politico. Le ragioni
alla base della prescrizione di un comportamento di non
neutralità si trovano però inscritte nella logica dell’Uno
stessa. Come Loraux ha ben cura di porre in luce, ciò che
la legge soloniana e tutto il pensiero greco insegna a noi
moderni è il fatto esplicito di un coinvolgimento totale,
dell’intero corpo civile all’interno del conflitto. Pasa
polis: ecco tornare, al di là della divisione, un discorso
che parla di unità. «Benché sempre assimilata al due in
quanto divide, – commenta allora l’autrice – la guerra
civile produrrebbe l’uno a partire dal due, purché si tenga
presente che la frattura sta nel mezzo di quest’uno».224
L’Uno che trova la propria forma nel due, posto
all’origine del politico e nel politico stesso: ecco che il
conflitto si mostra nella più civica delle sue vesti,
denegata, ma sempre presente. Henri Van Effenterre, che
Loraux cita in esergo al suo capitolo sul legame della
divisione all’interno de La città divisa, rende chiaramente
l’ambivalenza del rapporto tra politico e conflitto, sempre
obliato eppure sempre presupposto dal pensiero greco:

Per indicare la sedizione, la rivoluzione nella città, i greci si


avvalgono del termine stasis, tratto da una radice che evoca
chiaramente le idee di fermezza, permanenza e stabilità. Come se da
loro la stasis fosse un’istituzione!225

Dal gioco dell’Uno e del due ecco costruirsi la politica.


Questo rapporto di complicità, in virtù del quale la
divisione in parti, anche nel vivo di un conflitto, riesce a
rendere di nuovo possibile il discorso dell’unità, si rivela
in modo esemplare nel modo in cui la Grecia pensa la
stasis nel momento vivo della lotta. A prescindere dalla
designazione particolare dei due partiti coinvolti nello
scontro, ogni formulazione della stasis viene a riferirsi
alle fazioni in modo da renderle in linea di principio
simili, se non uguali, fino a renderle due entità astratte e
intercambiabili tra loro, dunque presto ricomponibili in un
unicum. Nel racconto del conflitto è tipicamente greco
l’attribuire alle posizioni rivali un’unica lingua, le stesse
parole e identità così simmetriche da risultare
intercambiabili. Attraverso una simmetrizzazione
sistematica, il racconto della stasis assegna
comportamenti intercambiabili e una retorica unica a
entrambe le fazioni. Mentre, commenta Loraux, nel
raccontare un conflitto è per noi normale identificare e
distinguere le due fazioni, anche mediante il banale
ricorso alla polarizzazione “gli uni… gli altri”, i greci
ripetono lo stesso termine, heteroi… heteroi. Si giunge
così alla generalizzazione del conflitto, «come se questo
affrontamento di due gruppi nemici riguardasse senza resti
la totalità della città, impegnata in un’attività
completamente civica».226 Nulla distingue le fazioni
insorte e ciò che viene descritto sembra essere un
medesimo processo, raddoppiato tra le parti antagoniste,
in virtù della logica per cui è lo stesso corpo civico che,
spaccato a metà – esattamente a metà – entra in lotta con
se stesso.

Ma chi non vedrebbe che questa uguaglianza di vincitori e vinti è


ancora una maniera di ricostruire in modo fittizio, finanche nel
disastro, l’unità della città? Lo stesso, parlare di due gruppi
all’interno della stessa lingua, con le stesse parole, riporta a riunire
testualmente la comunità divisa.227

Descrivere l’altra fazione come simile a sé implica la


comprensione dell’altro, del nemico, già in uno schema di
unità, in cui la sua qualità di cittadino (e dunque di fratello
e membro dello stesso corpo civico) assume
un’importanza maggiore rispetto al suo essere avversario
e sedizioso.228 In quanto tutti cittadini, i sediziosi sono tutti
membri dello stesso corpo civico, a prescindere dal
conflitto. In quanto tali, nell’infuriare della lotta, essi non
faranno altro che agire in quel campo unico che è la città,
in cui tra il Sé e gli altri vi è un rapporto di uguaglianza e
di coincidenza nello “stesso”. Le due parti in conflitto,
che insorgono rapidamente nel cuore della città
spaccandola in due, ricreano una paradossale unità. «Dire
che vi è stasis significa porre al centro della città il
conflitto nella sua configurazione propria, quando, a furia
di essere innalzato in uno stesso movimento, il due si fa
uno».229
Diviene allora chiaro il ruolo del due nel gioco della
divisione. All’interno del corpo civico il conflitto viene
pensato in forme che ridispongono il gioco del Sé e
dell’Altro in una logica binaria, facilmente ricomponibile
in unità. Pensare la divisione secondo lo schema del due
mette al sicuro il pensiero civico dalle differenze
eterogenee a cui darebbe luogo una frattura in molteplici
unità. Il molteplice comporta infatti una diversità non
ricomponibile, poichè eterogenea. Tramite la frattura in
due, invece, il processo mentale di riunificazione appare
più facilmente realizzabile.
La città è dunque colta tra il terrore della divisione e il
fascino del due. Il termine stasis, ambiguo per definizione,
diviso tra movimento e posizione, perde ulteriormente di
chiarezza nei suoi rapporti con l’Uno civico, divenendo
complice del fantasma dell’indivisibilità. Nel gioco del
politico, l’Uno che nasce dal due e che torna a essere
sempre due, riprende quel movimento mai interrotto e mai
realizzato del sé e dell’altro che vivono implicandosi a
vicenda, in un rapporto di ambivalenze e mezzi
movimenti, in cui nulla si risolve in sintesi risolutive. Che
il pensiero civico accetti o meno l’idea della divisione al
cuore della città, vi è una manifesta affinità tra l’Uno
civico e il due che lo tormenta. Nonostante le pratiche di
oblio reiterate e il rigido controllo della memoria civica, i
greci hanno posto Eris e il conflitto all’origine, senza
connotarlo negativamente o positivamente, lasciandolo
emergere in tutta la sua ambivalenza. Da quel momento il
conflitto è stato sempre superato, negato, neutralizzato o
normalizzato, come ogni eccesso rispetto al politico; ma
continuamente esso è tornato ad assillare la città come un
fantasma, permettendo il rinnovamento di quei legami che
fondano e costituiscono lo spazio politico. Ogni discorso
dell’unità è informato da questo due che lo permette, e da
esso trae la propria forza. Come il femminile, il conflitto
getta le basi del discorso politico e la sua ideologia e
perennemente contribuisce a reiterarlo, attraverso le ere,
le generazioni.

Note

174 Eschilo, “Eumenidi”, in Id., Orestea, Garzanti, Milano, 1987, p. 152.


175 N. Loraux, La tragédie d’Athenes, cit.,p. 32.
176 N. Loraux, La città divisa, cit., p. 119.
177 N. Loraux, La tragédie d’Athènes, cit., p. 35.
178 Ivi, p. 37.
179 N. Loraux, “La main d’Antigone”, Mêtis, n. 1, 1986, p. 170.
180 N. Loraux, La tragédie d’Athènes, cit., p. 123.
181 N. Loraux, La città divisa, cit., p. 109.
182 Ivi, p. 81.
183 Eschilo, Eumenidi, cit., p. 123.
184 Ivi, p. 149.
185 N. Loraux, “Un absent de l’histoire?”, cit., p. 247.
186 Tucidide, La guerra del Peloponneso, Biblioteca Universale Rizzoli,
Milano 1985, III, 82, 2-5.
187 N. Loraux, La tragédie d’Athènes, cit., p. 88.
188 N. Loraux, La città divisa, cit., p. 244.
189 Ivi, p. 223.
190 N. Loraux, La voce addolorata, cit., p. 47.
191 N. Loraux, La città divisa, cit., p. 94.
192 Ivi, p. 232.
193 Ibidem.
194 Ivi, p. 242.
195 Ivi, p. 170.
196 Ivi, p. 109.
197 Cfr. Eschilo, Eumenidi, cit., p. 143.
198 Cfr. N. Loraux, “L’équité sans équilibre du dialogue”, in N. Loraux, C.
Miralles (a cura di), Figures de l’intellectuel en Grèce ancienne, Belin, Paris
1998, pp. 261-294.
199 N. Loraux, La città divisa, cit., p. 368.
200 Ivi, p. 135.
201 N. Loraux, La voce addolorata, cit., p. 73.
202 N. Loraux, La città divisa, cit., p. 310.
203 N. Loraux, “La guerra nella famiglia”, in Id., La città divisa, cit., p. 429
(ed. or., “La guerre dans la famille”, in Clio, n. 5, 1997, pp. 21-62).
204 N. Loraux, La main d’Antigone, cit., p. 179.
205 N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, cit., p. XXII.
206 Ivi, p. 260.
207 Ivi, p. 21.
208 Tucidide, La guerra del Peloponneso, 74, 1.
209 N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, cit., p. 264.
210 N. Loraux, Le madri in lutto, cit., p. 54.
211 N. Loraux, La voce addolorata, cit., pp. 56-57.
212 N. Loraux, Le madri in lutto, cit., p. 12.
213 L. Irigaray, Speculum. Dell’altro in quanto donna, cit., p. 13 (ed. or.,
Speculum. De l’autre femme, Éditions de Minuit, Paris 1974).
214 F. Héritier, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Laterza,
Roma-Bari, 1997, pp. 139-148 (ed. or., Masculin/Féminin. La pensée de la
différence, Éditions Odile Jacob, 1996).
215 N. Loraux, Le madri in lutto, cit., p. 74.
216 N. Loraux, La città divisa, cit., p. 160.
217 Ivi, p. 290.
218 Hraclit., b 125 dk, citato in N. Loraux, La città divisa, cit., p. 179.
219 Ivi, pp.180-181.
220 Ivi, p. 181.
221 Cfr. S. Weil, “L’Iliade ou le poème de la force”, in S. Weil, Œuvres,
Gallimard, Paris 1999.
222 É. Benveniste, Vocabulaire des institutions indo-éuropeennes, vol. II,
pp. 100-101, citato in N. Loraux, La città divisa, cit., p. 189.
223 Cfr. N. Loraux, La tragédie d’Athènes, cit., pp. 145-160.
224 N. Loraux, La città divisa, cit., p. 173.
225 H. van Effenterre, La cité grecque. Des origines à la défaite de
Marathon, Hachette, Paris, 1985, cit., p. 25.
226 N. Loraux, La tragédie d’Athènes, cit., p. 42.
227 Ivi, p. 47.
228 Ivi, p. 40.
229 N. Loraux, La città divisa, cit., p. 179.
Appendice

Atena. Il femminile non è una donna

Nel mito esiodeo la donna, come ci ha mostrato Loraux,


viene concepita come punizione divina. Attraverso la
donna gli uomini esperiscono la propria condizione di
mortali e sono posti innanzi alla divisione irreparabile tra
maschile e femminile. Gli esseri umani si scoprono così
scissi in uomini e donne, andres e gynaikes e, tutti
insieme, irrimediabilmente mortali e lontani dagli dei.
Degli anthropoi. L’introduzione della donna nella sfera
umana è un castigo e un depotenziamento dell’uomo il
quale godeva del favore e della compagnia degli dei. Si
potrebbe però avanzare una lettura diversa,
complementare a quella di Loraux, che prende le mosse
dalla concordanza tra il mito esiodeo e la versione
platonica del mito dell’origine della differenza sessuale.
Nel Simposio, Platone narra lo stato originario dell’essere
umano, il quale è descritto da una figura sferica, due
schiene e quattro fianchi a formare un cerchio: un solo
essere, doppio, costretto a rotolare, dotato di quattro
mani, quattro gambe, due volti. L’essere umano così
formato possedeva gran forza e una grande arroganza che
attirò presto la punizione divina. Zeus, Padre degli dei,
dispose che l’essere umano venisse indebolito tramite la
divisione in due parti uguali e (quasi) simmetriche,
immettendo così nel mondo umano la differenza sessuale.
Nel dialogo platonico, così come nel racconto di Esiodo,
la differenza sessuale viene introdotta nel mondo umano
per punire l’arroganza umana e per indebolirne la forza.
Gli esseri umani, una volta sessuati, sono deboli e mortali.
La differenza sessuale è una punizione.230 La divisione
subentra a depotenziare l’essere originario, separando il
principio del maschile da quello del femminile. Sullo
sfondo c’è, ancora una volta, quel desiderio di unità e di
assorbimento delle differenze che alimenta il pensiero
classico, divenendo poi centrale in tutto il pensiero
occidentale radicato ancora nell’idea dell’Uno e di
soggetto unico. La forza dell’essere umano viene nel mito
divisa a metà lasciandolo così nella condizione di
impotenza che lo caratterizza come mortale e distante
dagli dei. Verrebbe dunque da chiedersi se l’introduzione
nel mondo della differenza sessuale, spartiacque che
divide la storia umana dalla dimensione eterna del divino,
sia qualcosa che caratterizza solo gli esseri umani in
quanto tali, lasciando gli dei immuni alla sessualità.
Risulta possibile, per un uomo greco, pensare la divinità
al di là della differenza sessuale?
La differenza sessuale diviene criterio di
identificazione delle personalità olimpiche in modo del
tutto differente rispetto alla rigida demarcazione che
descrive nel mondo umano. La questione della
caratterizzazione sessuale delle divinità olimpiche viene
affrontata da Nicole Loraux a partire dalla ferma
constatazione di un continuo debordamento del divino
rispetto alla sessualità specifica del dio o della dea.231 In
particolare riguardo alle dee, commenta Loraux, il
femminile non ne esaursice l’identità. Una dea, infatti, può
essere chiamata “dio” senza che questo comporti alcuna
contraddizione. In greco, spiega Loraux, vi sono due modi
di riferirsi a una divinità femminile: chiamandola dea
(thèa), forma femminile di theòs, o usando direttamente il
termine al maschile, pur preceduto dall’articolo femminile
(he theòs).232 Ci sono dee, ma la loro componente divina
viene espressa quasi sempre al neutro (to theiòn) o al
maschile, come se il divino fosse sempre e solo
declinabile al maschile. Il divino, perciò sembra porsi al
di là della differenza sessuale.
Nel passaggio dal mondo umano a quello divino, il
femminile subisce numerosi mutamenti, in virtù dei quali
tra la donna umana e la dea viene a stabilirsi una distanza
abissale. Lungi dal rappresentare un sistema simbolico di
archetipi femminili, le dee si pongono a distanza ben
precisa dalla femminilità umana. Un esempio di tale
distanza può essere rintracciato, da un lato, nella
partheneia delle dee, statuto costante e perenne,
impossibile da pensare nel mondo umano – in cui viene
punita duramente, basti pensare a Ippolito punito per aver
disdegnato l’amore e la fisicità del rapporto sessuale, o
ad Atalanta –; ma si pensi anche all’unione tra Zeus ed
Era, ammissibile nel mondo divino ma incestuosa e
antisociale nel mondo umano. La donna, nonostante venga
creata a immagine e somiglianza della divinità, si pone
rispetto alle dee a una distanza inconciliabile.
L’imitazione delle dee, spesso postulata dal mondo
umano, non garantisce una vicinanza. La scelta di una
perenne partheneia, commenta Loraux, diviene esempio
eclatante dell’essenza divina, per la quale essere una dea
non è essere una donna. «La dea non è una donna»,233
spiega Loraux: decisamente, la condizione femminile
esiste solo nel mondo umano.
Tra la condizione umana e il mondo divino si assiste
dunque a uno spostamento significativo del femminile, una
messa a distanza che rende impossibile teorizzare la
femminilità della dea come archetipo di un tipo femminile
o come suo compimento. Tra la dea e la donna vi è un
vuoto non percorribile, che rende la dea totalmente altra
rispetto alla donna. Questa mancanza di legami si
condensa nella figura della dea parthenos, impossibile
per il mondo umano, dove la verginità è solo uno stato
temporaneo.
Tra le dee vergini del mondo olimpico – Estia,
Andromeda, Atena – quest’ultima presenta tratti
caratteristici che la rendono perfettamente al di là della
sua sessuazione, al di là della differenza sessuale e,
dunque, perfettamente in linea con l’ideologia civica della
polis che protegge e che porta il suo nome, Atene. In
Atena il movimento che sgancia il femminile dall’essenza
divina (sempre maschile o, a volte, neutra) è evidente. La
non coincidenza della dea con la sua sessuazione viene
ribadita nell’immaginario civico da numerose
rappresentazioni e immagini volte a scioglierla da
qualsivoglia fissità di genere legata al suo essere donna.
Del corpo di Atena e della sua evanescenza si è già
trattato nel secondo capitolo: priva di materialità
corporea, il corpo di Atena sfugge all’occhio umano ed è
sempre colto attraverso i simboli della dea: il peplos,
l’egida, la corazza. Lontano dalla carne della donna
umana e dalla corporeità di Afrodite, il corpo nudo della
dea è un adynaton, impossibile da vedere. Ulteriori
elementi possono esser rintracciati nel racconto della
nascita di Erittonio, primo autoctono del suolo ateniese,
nato dalla Terra resa fertile da Efesto nel tentativo di
possedere la bella Parthenos; in questo racconto Atena
assume chiaramente su di sé i ruoli fondanti della messa al
mondo e dell’educazione della progenie ateniese: Atena è
madre, padre e nutrice, nonostante questi ruoli vengano
apparentemente distribuiti tra le figure di Gea, Efesto e le
figlie di Cecrope, a cui venne affidato il compito di
nutrire il piccolo Erittonio. Atena, in realtà, assume su di
sé e contemporaneamente trascende tutti e tre i ruoli.234
Atena si distingue dagli altri dei per la sua nascita,
totalmente slegata dalla riproduzione sessuata e totalmente
affidata al Padre. Infatti, spiega Loraux, se è vero che i
casi di riproduzione per partenogenesi sono frequenti tra
le divinità, l’eccezionalità di Atena risiede nell’esser nata
unicamente dal proprio padre. Zeus, dopo essersi unito a
Metis, dea dell’astuzia di cui l’Ulisse omerico sarà
campione, figlia di Teti e Oceano, la ingoia su consiglio di
Gea, per evitare la nascita di un figlio più forte del padre.
Da tale gesto nacque Atena, direttamente dal cranio del
Padre. Non solo, dunque, Atena è figlia nata da uno e non
da due, ma essa nasce dal Padre e non dalla Madre. Atena
nasce senza madre, da un padre che realizza in tutto e per
tutto quel sogno che Loraux rintraccia come desiderio
insopprimibile del maschio greco: la riproduzione
sganciata dalla sessualità, in particolare da quella
femminile. In questo senso, commenta Loraux, è facile
comprendere il motivo per cui la nascita di Atena non
cessa mai di essere l’oggetto più rappresentato
dall’immaginario civico.235 Zeus, con la propria
“maternità” mina le leggi della riproduzione sessuata e
destabilizza l’ordine nella coppia parentale,
appropriandosi di un ruolo biologicamente non suo. Sua
figlia, d’altro canto, troverà l’essenza della propria gloria
proprio in questa nascita eccezionale che la rende,
inappellabilmente, «la vera figlia di Zeus».236 Da questa
nascita particolare deriverà la particolare devozione che
la figlia riserva alle cause del padre e, con esse, a quelle
dell’uomo in generale. Un punto in particolare delle
Eumenidi eschilee risulta essere particolarmente
significativo per illustrare tale divina propensione; nel
terzo episodio, al momento conclusivo del giudizio in
assemblea, Atena afferma:

È mio compito la scelta del giudizio conclusivo. Il mio voto: ecco,


l’aggiungo dalla parte di Oreste. Non c’è madre che mi abbia dato
alla vita. Il mio favore va sempre dalla parte maschile – purchè non
si tratti di nozze – dal fondo del cuore.237

Un femminile mascolinizzato, arrestato nella partheneia


fin dalla nascita; dea guerriera, vergine ribelle alla
maternità e al desiderio sessuale, Atena incarna in sé
stessa la ricchezza di un femminile senza donne e la
perfezione del maschile. Per i cittadini della polis
scegliere la dea è scegliere la protezione di una dea
guerriera e la legge del Padre da lei incarnata. Per questa
ragione nel mito le donne di Atene scegliendo la dea
contro Poseidone scelgono inconsapevolmente di
rinunciare al riconoscimento nel corpo civico. Scegliendo
il Padre dietro la figlia, hanno votato per una legge
maschile, che le esclude dalla cittadinanza e toglie loro
voce – e nome – all’interno del suolo civico.
Nell’ideologia civica, Atena assume i tratti del
femminile ideale. Giovinetta in armi, desiderata e mai
raggiunta dal desiderio divino di Efesto, la dea
rappresenta il femminile di cui il pensiero civico si nutre,
sganciato dal corpo della donna mortale, dalla differenza
sessuale, fantasmi della città. La dea protegge il maschile
e la sua legge, risolvendo tutte le contraddizioni del
pensiero classico. Parthenos dedicata all’andreia, al di
là di una precisa presenza corporea e di una appartenenza
vincolante a un genere, Atena si colloca al di là
dell’opposizione tra maschile e femminile, risolvendo
nella sua figura, tutte le contraddizioni che la differenza
sessuale immette nel sistema di pensiero greco
dell’Uno.238
Atena assume su di sé e incarna l’ideologia della polis,
divenendo contemporaneamente sessuata, bisessuata e
asessuata, realizzando così l’ideale greco di una politica
pura, sganciata dal richiamo alla corporeità e alla
materialità messo in atto dalla differenza sessuale. Atena
diviene dunque il punto di partenza per una riflessione
circa la natura del politico intesa come luogo di de-
sessuazione, in cui i tratti fondamentali della posizione
sessuata della cittadinanza stessa vengono fatti scivolare
in un’ambigua indeterminatezza. Il politico che nasce da
questo movimento è un politico neutro, sganciato dalla
differenza sessuale ma che nel contempo si appropria di
alcuni tratti caratteristici del femminile e del maschile.
Creando uno spazio omogeneo e uniforme, si ritorna così
al pensiero dell’Uno, come fosse l’unico esito del gioco
politico tra il sé e l’alterità. Oltrepassando la differenza
sessuale, si mettono in atto quei meccanismi di
omologazione coercitiva del soggetto unico da cui
discendono delle precise pratiche politiche. In questo
senso, Atena è davvero la più civica delle divinità
olimpiche.

Note

230 F. Héritier, Maschile e femminile, cit., pp. 124-125.


231 N. Loraux, Che cos’è una dea?, in G. Duby, M. Perrot, Storia delle
donne in Occidente, Laterza, Bari, 1994, p. 14 (ed. or., Qu’est-ce qu’une
déesse?, in G. Duby, M. Perrot, Histoire des femmes en Occident, Plon, Paris
1990-1991).
232 Ivi, p. 18.
233 Ivi, p. 24.
234 N. Loraux, The children of Athena, cit., p. 64.
235 Ivi, p. 130.
236 Ivi, p. 133.
237 Eschilo, Eumenidi, cit., p. 145.
238 N. Loraux, The children of Athena, cit., p. 64.
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L’autrice

Federica Castelli è dottoressa di ricerca in Filosofia


politica. La sua ricerca ruota attorno ai temi della forza e
del conflitto in politica, con particolare attenzione
all’esperienza del corpo sessuato nel contesto delle
rivolte e al rapporto tra protesta e spazio urbano. Fa parte
della redazione della rivista DWF e di IAPh Italia,
sezione italiana dell’Associazione Internazionale delle
Filosofe. È autrice di Corpi in rivolta. Spazi urbani,
conflitti e nuove forme della politica (Mimesis, 2015).

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