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G

DIZIONARIO IDEOLOGICO
DI
PAGANESIMO
con eliminazione delle voci "inutili"

di
Vittorio Fincati

(IN COSTRUZIONE)

elenco delle abbreviazioni


bab. = babilonese; ber. = berbero; etr. = etrusco; fen. = fenicio; lat. = latino; gr. =
greco; mic. = miceneo; sem. = semitico

ADONE
(sem. Adon [Signore]) – Demone mortale della vegetazione il cui vero nome ci è
rimasto sconosciuto, prototipo dell’elemento maschile che ciclicamente muore e
risorge all’ombra di una perenne Dea Madre. Infatti trascorreva parte della sua
esistenza nelle regioni inferne, in compagnia di Persefone, e parte sulla terra, dove
era l’amante di Afrodite*. La sua morte archetipale, avvenuta in illo tempore, cioè in
una dimensione psichica e metaterrena, era dovuta alla ferita infertagli da un
cinghiale mentre andava a caccia. Dal suo sangue, che imbeve la terra e l’acque,
scaturisce ad ogni primavera tutto il rigoglio della vegetazione, che viene sintetizzato
nel mito da diversi fiori. Il suo culto, così come quello di tutti i suoi omologhi nel
mondo mediterraneo, era vissuto e celebrato intensamente e con partecipazione da
tutto il popolo, che ne rievocava il vigore generativo e la morte con forme di
entusiasmo e lamentazioni rituali che hanno lasciato traccia nelle tradizioni popolari
anche dopo la fine del politeismo. Le sue feste, le Adonie, celebrate in maniera
organica solo nel mediterraneo orientale mentre in Grecia in modo parziale,
avvenivano con grande concorso dell’elemento femminile che in Lui vedeva il
necessario strumento per per sviluppare la propria identità. Relitto estremamente
deformato del culto del Signore, è quello di Gesù di Nazareth, il cui mito, snaturato,
è fin troppo conosciuto per essere qui ricordato. Anche la figura di Anchise, padre di
Enea e amato da Afrodite, può essere ricondotta al significato di Adone.
ADRANO
Presso l’Etna si venerava un antichissimo dio, Adrano, cui era sacro il cane che
veniva allevato in gran numero nel suo santuario. Poiché il nome Adrano significa
letteralmente inattivo si può supporre che si trattasse di uno speciale culto in cui si
sacrificavano cani con il compito di blandire e chetare la pericolosa e magmatica
potenza del vulcano.
AFRODITE
(gr. Αphrodite) - Dea sottomarina mediterranea pre-greca della bellezza e della
seduzione femminile. Originariamente compagna del paredro sottomarino Nerite, fu
sposa del fuoco tellurico (Efesto/Vulcano) e amante di Ares/Marte, secondo il mito
sarebbe nata dalla spuma del mare (aphròs) - un chiaro simbolo che designa lo
sperma, essendo il mare stesso un simbolo di mascolinità. Con maggiore evidenza
questo significato ci è dato da un mito, quello di Urano, il cui membro virile caduto
in mare in seguito alla castrazione operata da Crono, avrebbe generato la dea senza il
concorso femminile. Nata in tal modo già formata e bellissima approdò secondo
alcuni nell’isola di Citera, tra il Peloponneso e Creta; secondo altri a Cipro. Nella
greca Afrodite si assommano sicuramente due diverse componenti: una proto-
mediterranea, che la fa nascere dal mare, e l’altra orientale, quale dea discesa dal
cielo. A quest’ultima componente bisogna collegare la speculazione effettuata dai
filosofi neoplatonici che parlarono di una Afrodite Urania e di una Afrodite
Pandemia. Era considerata la signora dei giardini e la sovrana del mondo vegetale e
selvatico ma anche degli animali in esso viventi, confondendosi così per certi versi
con la figura di Artemide. In latino è invece curiosa l’assonanza con la parola
venenum. In suo onore si celebravano le Afrodisie, feste semi-ufficiali cui
partecipavano in gran numero le Prostitute. Contrariamente a quanto si può pensare,
uno dei suoi Centri di culto, - oltre a quelli più noti - fu Roma, e Giulio Cesare
vantava di discendere direttamente dalla Dea, ma i Romani nel deformarono ben
presto le prerogative limitandola al ruolo di Genitrix. Il loro amore per Venere era
dovuto forse unicamente al fatto che appunto era stata la madre di Enea. Vedi anche
la voce VENERE. Celebrata ed invocata con diversi appellativi: Anadiomene,
Pelagia, Pontia, Euploia, Dione, Citerea, Cipride, Anteia, Melaina, Pafia ecc. Le sono
sacre la conchiglia, il mirto, la rosa, la mela, la rondine, la colomba, il cigno,
l’airone, il pettine, le isole di Citera e Cipro.
ALFABETO
Prima del tradizionale alfabeto fenicio importato in Grecia da Cadmo (e
successivamente perfezionato da Palamede e altri con varie modifiche) vigeva il
primitivo alfabeto sacro risalente alla remota antichità e di esso abbiamo solo sparse
reliquie. Si trattava dell’alfabeto cosiddetto pelasgico, con un minor numero di
lettere, strettamente legato al calendario e ad una particolare sequenza arborea, così
come pure è per l’antico calendario celtico che comunque, secondo gli antichi
mitografi irlandesi, deriverebbe da quello sacro mediterraneo. Pertanto l’ordine delle
lettere sarebbe del tutto diverso da quello a noi comune, in quanto ogni consonante
rappresenterebbe una lunazione e le vocali le stagioni. Ci sono dei riferimenti che
documentano in varie località della Grecia l’inizio dell’anno in diversi periodi, il che
fa pensare che il computo degli anni procedesse seguendo una più ampia
progressione astronomica, legata a cicli di lunazioni o a coincidenze luni-solari.
Questa ipotesi, che testimonia il passaggio dal sillabario all’alfabeto, potrebbe venire
avvalorata dal fatto che alcuni sillabari/alfabeti hanno fino a 50 diversi tipi di segni o
lettere, come il sanscrito o il Lineare-A… e 50 è un numero appartenente al
simbolismo astronomico. La scrittura Lineare-B possiede addirittura 88 segni
fonetici.
AMAZZONI
Primordiali donne guerriere e misantrope che erroneamente si riteneva si tagliassero
un seno per poter meglio tirare con l’arco (particolare non documentato infatti
dall’iconografia antica). A volte viventi singole a volte riunite in comunità
stazionavano in varie regioni, dove in epoca storica se ne mostravano anche alcune
tombe, simili, pertanto, a dei Cavalieri erranti medievali. Le loro divinità erano
naturalmente Ares e Artemide, poiché prediligevano una vita fatta di caccia e di
guerra. Per perpetuarsi si accoppiavano una volta l’anno con gli uomini di una vicina
popolazione. Se dall’unione nascevano figlie queste rimanevano con le madri, se
maschi andavano agli uomini. Probabilmente costituivano una tribù realmente
esistita in epoche primordiali, in quanto sono citate nel corso di tutta la mitologia, e
legate al Vecchio Mondo Aborigeno, poiché presero le difese dei Troiani contro i
Greci. Inoltre pare che fossero le fondatrici della città di Efeso, sacra ai culti
femminili, dall’Artemide efesina alla Madre di Dio cristiana. Un gruppo di queste
donne guerriere, le Alie, provenienti da isole dell’Egeo, prese parte alla spedizione di
Dioniso contro gli Argivi e Perseo. Morte in battaglia, vennero sepolte,
significativamente, di fronte al tempio di Artemide Antea. Figure di donne amazzoni,
peraltro non identificate espressamente come tali, si possono identificare in varie
figure elencate nella mitologia, come Camilla, vergine guerriera citata nell’Eneide.
ANTINEA
(ber. Athinah) – mitica regina del Sahara prima che questo si desertificasse circa nel
10.000 a.C. Il popolo della regina Antinea, antenati dei Guanci delle Canarie e degli
attuali Berberi e Tuareg, sarebbe quindi migrato verso le regioni del fiume Niger e
del Nilo, dando origine alla civiltà egizia assieme a popolazioni di origine etiopica
(Aramei) – con il che si spiegherebbe il carattere razzialmente composito del popolo
egizio. L'Egitto ha tratto da queste due migrazioni gli elementi che l'hanno reso
famoso e dalla cultura di origine berbera hanno preso i forti connotati "matriarcali"
che hanno differenziato l'Egitto rispetto ai popoli semitici e africani. La stessa figlia
di Cleopatra e Antonio, Selene, andò sposa ad un famoso re berbero: Giuba II. I
Faraoni furono quindi gli eredi delle grandi regine della Tritonide – questo il nome
che si potrebbe assegnare al regno di Antinea in base al fiume e ai laghi che una
volta, secondo i geografi greci, vi scorreva. Questo fiume lungo 2000 km sarebbe
disceso dai monti dello Hoggar-Tassili (tra Algeria e Libia) e il suo corso rimane
ancor'oggi segnato dai letti dei wadi Igargar e Rhir, attualmente ridotti ad acquitrini e
corsi sotterranei. Sarebbe sfociato nella regione del Golfo della Sirte, prima che
quest'ultima si formasse in seguito allo sprofondamento di zone una volta non
sommerse dal Mediterraneo. Esistono raffigurazioni rupestri che ci mostrano alcune
regine della Tritonide, come l'Antinea di Gerawah, descritta da Henri Lothe e
l'Antinea di Sawarah. Ancora in epoca storica, ci è nota l'ultima regina dei Berberi,
Cahena dei monti Auras, che nel VII secolo tentò di opporsi all'avanzata musulmana
nel Maghreb. Il culto di Atena (Athinah?) Tritonide in Grecia e l'importazione
dell'ulivo potrebbero essere un retaggio di quell'antichissimo passato.
ANTIPOLITICA vedi alla voce POLITICA
APE
La mitologia assegna ad Aristeo il merito di aver trasmesso agli uomini l’arte
dell’apicoltura; ciò non significa che prima di lui il genere umano non avesse saputo
trarre vantaggio dal lavoro delle api. Prima dell’agricoltura e dell’allevamento
l’uomo viveva dei proventi della caccia, della pesca e della raccolta di prodotti vari,
tra cui il miele contenuto nei favi delle api selvatiche. Le isole e i paesi rivieraschi
del mediterraneo, un tempo più verdeggianti di quanto non lo siano oggi, fornivano
abbondante messe di questo prodotto. L’uomo preistorico dovette considerare le
caratteristiche del miele e dell’insetto che lo produceva e le utilizzò come simboli
delle proprie concezioni religiose, magiche e trascendenti. Diversamente da ciò, non
sapremmo spiegarci tutti i miti e le storie con le api e il miele, che hanno interagito
con le vicende umane dei popoli protomediterranei. Una di queste storie è racchiusa
nell’Odissea di Omero, là dove il poeta descrive una simbolica grotta (Od. 13, 102-
112):
In capo al porto vi è un’olivo dalle ampie foglie: vicino è un’antro amabile, oscuro,
sacro alle Ninfe chiamate Naiadi; in esso sono crateri e anfore di pietra; lì le api
ripongono il miele. E vi sono alti telai di pietra, dove le Ninfe tessono manti
purpurei, meraviglia a vedersi; qui scorrono acque perenni; due porte vi sono, una,
volta a Borea, è la discesa per gli uomini,l’altra, invece, che si volge a Noto, è per
gli Dei e non la varcano gli uomini, ma è il cammino degli immortali.
Tutto il testo citato è stato minuziosamente ed esotericamente commentato dal
neoplatonico Porfirio di Tiro. Ci limiteremo pertanto a ricordarne il senso: la caverna
è un’immagine del cosmo; essa è oscura perchè i misteri non sono in evidenza ma
allo stesso tempo amabile perchè vi si tessono e intrecciano le forme vitali. A
quest’ultime sono preposte le ninfe dell’elemento acqueo, le Naiadi. La tessitura di
manti purpurei è un simbolo della nascita corporea. La porta di Borea è l’uscita dalla
vita umana, verso un nuovo ciclo metempsicotico, destino comune a quasi tutti gli
uomini. La porta di Noto, quella divina, è riservata agli iniziati, a coloro che hanno
saputo svincolarsi dai lacci della materia bruta. Come fare per imboccarla? Il segreto
è tutto nell’immagine delle api che immagazzinano il miele nell’oscurità della grotta.
Per “api” gli antichi hanno simboleggiato esclusivamente quelle anime che non
tendono verso la generazione carnale: “Però non chiamano api indistintamente tutte
le anime che scendono nella generazione — scriveva Porfirio - ma solo quelle
destinate a ritornare di nuovo al luogo di origine”. Queste anime/api mettono da
parte, cioè nell’incorporeo, il ‘miele’ ed in tal modo accumulano l’energia necessaria
al Corpo di Gloria per imboccare la porta di Noto. Cosa intendevano gli antichi per
“miele”? Porfirio lo dice quasi esplicitamente: “il piacere che deriva dall’unione
sessuale”. L’espressione è esatta ma al tempo stretto generica quanto basta per
lasciare al simbolismo tutta la sua plurivalenza. Don Juan, citato da Castaneda,
conferma ai nostri giorni che il “guerriero”, leggi l’”iniziato”, per conquistare il
supremo bene - la libertà -deve risparmiare energia sessuale. Che poi questo
risparmio si possa attuare attraverso le stesse strade che servono ad altri per
dissiparla, è forse la ragione per cui si è tenuto riservato per tanto tempo
l’argomento. In greco “melissa” (=colei che da il miele) significa “ape”, ed era anche
il nome di una confraternita di sacerdotesse di Demetra; della stessa Luna che era
considerata presiedere alla generazione; e di un gruppo di ninfe - a testimoniare la
valenza erotica di questo particolare contesto mitologico. Ancor prima di Omero, nel
mondo cretese, le tombe avevano forma di favo, quale ‘alveare’ delle anime/api e
molte raffigurazioni, dal culto di Hermes a quello di Mithra, ci rappresentano l’anima
come un’ ape; ma solo quelle degli iniziati. Virgilio (Geor. 4,281) tramanda a
riguardo un curioso mito che, interpretato letteralmente, ha fatto credere ancor più
che gli antichi avessero una mentalità rozza e primitiva, per via del fatto che noi
moderni, con la nostra mentalità rozza e sofisticata allo stesso tempo, non siamo in
grado di concepire che ci si possa esprimere per allegorie poco democratiche, cioè
non destinate a tutti. Questo mito, cui abbiamo già accennato trattando del toro, narra
che le api nascerebbero dalle carcasse in putrefazione dei tori! Ma il toro è la luna,
archetipo di feracità e fecondità. Da questa luna/toro o bue scaturiscono le anime/api
che si dirigono verso un diverso ciclo di esistenza. Dato per certo che l’ape è l’anima
trasumanante, il miele che queste ripongono e sebano nei favi non può che essere
l’energia che attua il passaggio anima-corpo-anima e che è veicolata, alla nascita, dal
liquido seminale. In sanscrito “miele” si dice “madhu”, che significa pure “effetto”,
conseguente all’attività dell’anima/ape che “ronzando” — questo verbo si riferisce
ad uno stato di coscienza alterata — raccoglie il miele caduto dal cielo sui fiori—
tale era la credenza sull’origine del miele , e lo ripone nell’alveare (=corpo). Nel
mito omerico commentato da Porfirio gli insetti che ripongono il miele nei favi/corpi
vanno a significare che è contenendo e non disperdendo il miele’ che l’essere
incarnato può aspirare ad una vita immortale. Come si credeva che le api nascessero
dalle carcasse dei bovidi in decomposizione, così si pensava che il miele cadesse dal
cielo, secondo una significativa allegoria. Essendo l’essenza che veicola la vita, il
‘miele’ è anche la dolcezza pericolosa della seduzione erotica, come aveva scritto
Porfirio, dell’ebrezza che avvolge nell’oscurità o che porta all’illuminazione della
conoscenza. In un frammento orfico (154 Kern) la Notte suggerisce a Zeus il modo
per attaccare il padre Crono:

quando tu lo veda sotto le quercie dalle alte foglie


ubriaco per il frutto del lavoro delle api ronzanti.

Porfirio così commenta: “Per i teologi la dolcezza del miele, con la quale Crono
viene tratto in inganno per essere poi castrato, rappresenta il piacere che deriva
dall’unione sessuale”. Secondo un mito, Afrodite si unì con Anchise mentre
ronzavano loro intorno delle api. La stessa Cybele, l’Afrodite frigia del monte Ida,
era adorata come ape regina ed i suoi sacerdoti si castravano (“emasculabantur”
scrive Servio) in un’estasi mistica. Anche la cretese Melissa o Melitta era la dea nel
suo aspetto di ape regina, di governatrice e dispensatrice di anime. Come tale aveva
un paredro a lei associato nel culto e che spesso soccombeva, dovendo rappresentare
l’eterno ciclo di nascita e morte, cui~ solo la dea sovrastava assieme a coloro che
erano partecipi dei suoi riti misterici. Pare che uno dei principali luoghi di culto della
dea-ape fosse in Sicilia, sulle falde del monte Erice. Noi sospettiamo che in tempi
pre-classici tale luogo fosse situato nell’arcipelago maltese; Malta, in greco, significa
d’altronde “quella del miele”. In tale arcipelago vi sono imponenti resti di templi
megalitici consacrati alla dea in cui si possono riscontrare, come noi abbiamo fatto di
persona, delle straordinarie similitudini col disegno degli alveari e della vita al loro
interno. Cicerone dovette scrivere un’invettiva contro il (mal)governatore dell’isola,
Verre, che aveva fatto man bassa di tutto il pregiatissimo miele che ivi si produceva:
fu forse il primo caso di “mani pulite” storicamente accertato...
APOLLO
(bab. Abullu) – Divinità solare purificatrice e saettatrice di origine orientale (figlio
della dea licia preellenica Leto) penetrata tardivamente nell’Ellade dalle coste e dalle
città dell’Asia Minore ed assurta al rango di divinità primaria tanto da riuscire ad
offuscare il rango dello stesso Zeus. Il suo influsso fu talmente forte da impiantarsi
nei santuari religiosi della precedente civiltà minoica, come Delfi e àDelo,
spodestandone le precedenti divinità e assumendone le prerogative, specialmente
quelle oracolari. Ciò è testimoniato direttamente nell’Inno Omerico ad Apollo (III.
391-ssg). In origine fu divinità ostile ai Greci, tanto che fu alleato dei Troiani, e il
suo oracolo a Delfi fu favorevole ai Persiani. Lo stesso mito della sua nascita, col
rifiuto delle terre di ospitarne la culla, testimonia dell’iniziale avversità del mondo
greco. Gli erano sacri l’arco, la cetra e il canto, le ecatombi, il numero sette (quasi
tutte le sue feste cadono nel settimo giorno del mese lunare), il cigno, la pastorizia, il
lupo, il topo, nonché, per usurpazione, il lauro, il giacinto e il delfino. Infine la
palma, poiché sua madre partorì alla sua ombra. Questo ultimo particolare testimonia
però, assieme al numero sette, di un’origine non solo anatolica ma anche
mediorientale del dio (in Palestina è attestata infatti una dea Lat). Secondo R.
Graves, per via di alcune consonanze mitologiche, “Apollo Iperboreo è, in sostanza,
l’Horus greco”, I Miti Greci p.69). A Roma non godette mai di particolare favore se
non sotto Augusto che lo eresse a sua divinità protettrice. Assieme a Zeus, fu il
maggior stupratore di ninfe di tutta la storia mitologica.
ARIANNA
ARPIE
Demoni femminili raffigurati in sembianze sia umane che di uccello, erano
l’equivalente greco di Lilith.
ARPOCRATE
Dio del silenzio e del segreto iniziatico. Le stesse caratteristiche di indicare il
silenzio le possiede anche la vetusta divinità latina Angerona. La sua statua era
infatti rappresentata con la bocca cucita o con il dito indice sulle labbra, a intimare il
silenzio. L’idea che in tal modo volesse invitare a non rivelare il nome segreto di
Roma è peregrina. In realtà trattasi di un simbolo sessuale, come è anche a riguardo
di Arpocrate, rinforzato dal fatto che la sua statua era posta nel tempio della dea
Volupia, dea del piacere, e dall’etimologia del suo nome dal verbo angerere,
sollevare, drizzare…
ARTEMIDE
(lat. Diana) – Originariamente divinità armata femminile della caccia e della vita
silvestre in seguito divinità lunare più in generale, è l’alter ego di Ares. Il suo nome
significherebbe dea-orsa ed impersona quell’aspetto della lunarità analogo ai
fenomeni della crescita, della velocità, della forza e del rapido mutamento. E’ la
diretta continuatrice dell’antichissima Signora degli Animali e delle Piante (Potnia
Theròn kai Phitòn) cretese e venerata ad Efeso con l’appellativo di Domatrice di Tori
(Tauropòlia). Ad essa nel mito sono riferite caratteristiche di crudeltà ed efferatezza
che rimandano alle estreme leggi della vita silvestre e inurbana. Una delle
pochissime divinità serbatasi sempre casta, a raffigurare l’estrema purezza e forza
della natura incontaminata, è la divinità tutelare delle Amazzoni e delle moderne
autentiche streghe. Ad Artemide è collegata la figura di Atteone, su cui ha
scritto Pierre Klossowski. Cominciando il suo libro Il Bagno di Diana, si domanda
con rimpianto dove sia finita tutta quell’umanità che in tempi lontanissimi viveva e
percepiva direttamente con la propria coscienza i fatti della mitologia. La risposta
che egli ci da, è che possiamo ritrovare la loro esperienza tuffandoci nei meandri
della nostra memoria psico-immaginale dove, evocando il mito di Diana e Atteone, si
auspica che “possano restituire, non fosse che per un istante, il loro senso occulto
agli alberi, al cervo assetato, all’onda, specchio del nudo impalpabile”. Klossowski è
un moderno mitografo, anche se ermetico, che sa offrire al lettore spunti di carattere
veramente magico-iniziatico nella sua nuova e stupenda esegesi del mito di Diana e
Atteone. Egli sa cogliere l’aspetto occulto e il significato riposto del mito: “(Atteone)
intuiva nell’inutile caccia un senso più recondito? Se il regno dei cieli appartiene ai
violenti, Atteone mosse il primo passo sulla via della saggezza nell’attimo di scostare
le fronde della siepe ardente, primo veggente in marcia, armato e mascherato”. Il
nostro esegeta vede in Diana-Artemide la dea dell’ ESTERNO, colei che “si muta in
perpetua eccitatrice delle emozioni asservite all’INTERNO ove si accalcano quanti -
uomini o demoni torturati da tali emozioni - conoscono la Dea ma, fingendo di
ignorare il suo volto divino, l’adorano a rovescio”. Una interessante ipotesi di
Klossowski è che Atteone abbia vissuto la sua vicenda prima imaginalmente e poi,
costretto da una logica intrinseca e da un impulso, sia andato alla ricerca
dell’esperienza, vivere quella realtà immaginale nella sua concretezza. “Atteone
poteva conoscere la propria leggenda e accedere coscientemente al delirio? Oppure
la leggenda lo aveva da sempre preceduto e il suo delirio era troppo simulato,
studiato e circospetto, tanto da impedirgli di accedervi?”. E ancora: “E’ possibile che
un quadro precorra quanto potrebbe accaderci? Ciò presupporrebbe una misteriosa
concordanza, tra le immagini e le nostre imprevedibili intenzioni. A meno che
l’impatto dell’immagine sia così forte da costringerci a ricostituirla nello spazio
quotidiano”. “Trovare la via che porta a questo spazio assoluto! Mi è parso a volte
di scorgere, lassù sul roccione, il dorso del vecchio Pan, anch’egli appostato. Ma, da
lontano, sembrava un masso o un tronco secco. Non si riusciva più a distinguerlo,
sebbene l’eco del suo flauto risuonasse ancora. Il dio s’era fatto melodia. Ormai
fluiva nell’aria trepida, dove lei sudava, dove si spandeva il profumo delle sue
ascelle e del suo grembo, mentre lei si spogliava”. “Il suo arco ci dissuade dal calare
nelle regioni inferiori, in cui essa regna nondimeno fruibile. La sua mezzaluna ci
guida nell’ascesa verso le regioni superiori, dove non fruita Lei risiede”. “Ma perché
frustare a sangue gli efebi con la sua bella mano?” “Semele, Agave e Atteone furono
preda della stessa passione, cioè dell’estasi. Perciò le due donne e il loro nipote
Atteone disprezzano la liturgia istituita, che adegua e modera nella vita quotidiana il
contatto con l’eternità degli Dei e lo preserva da qualsiasi eccesso. Essi confondono
il culto col destino: sprofondare nel Dio o nella Dea rappresenta la loro religione”.
Nel libro di Klossowski ci sono solo allusioni alla via segreta e occulta di Diana che
però il finale rivela in modo ambiguo, lasciando al lettore il compito di trarne le
conclusioni:
(primo finale)
“Sia che iniziasse proprio allora Atteone, o che, avendolo già iniziato, l’avesse
ammesso a partecipare a quest’ultimo rito, sia che ponesse termine alla teofania, con
quel gesto comunque scoprì la vulva vermiglia, le sue labbra segrete. Atteone vede
schiudersi le labbra infernali proprio quando l’onda lo acceca e lo costringe a
impennarsi. Il suo pensiero culmina allora nella subitanea fioritura delle corna
cresciute in fronte: tanto è sconvolto dall’evento che fa un balzo in avanti. Non
stupisce neppure di posare d’un tratto le braccia mutate in zampe e le mani in zoccoli
forcuti sulle spalle divine, di sentir fremere il proprio ventre villoso contro i fianchi
madidi della dea dalla pelle smagliante. Fremito identico a quello di Diana, appena
un mortale ardisce toccarla, quando afferra per il muso una bestia lasciva, con una
mano che sa bella e insieme assassina, e la bestia le lambisce il palmo. L’onda
s’increspa alle zampate dell’uomo-cervo e ai guizzi della dea, che stringe le lunghe
gambe e le allarga via via. La creatura cornuta ansima, l’inerme cacciatrice geme.
Urla con la voce delle ninfe e, urlando, ride. Con la sua goffaggine di animale neofita
lui la strapazza e lei gli sfugge. Su di lei scivolata, e in lei, egli ripiomba. Ahimè!
Com’è vicina la meta, com’è lontana! Lo infiamma questa cappa di silenzio, avversa
al suo bisogno di parlare. Ma Diana sospende astutamente la metamorfosi, lascia
sussistere alcune parti umane. Gambe, torso e testa di Atteone sono belluini, il suo
braccio destro è già una zampa villosa e la mano destra uno zoccolo forcuto, ma
serba intatti il braccio e la mano opposti, quasi lei esitasse a mutarli o volesse
provocarlo. Commossa dalla visione, pervasa dall’ardore del cervo, fino a che limite
potrà avventurarsi la dea? Oserà lasciargli sulle spalle d’uomo-cervo la mantella
ondeggiante di cacciatore, gli lascia ancora il corno a tracolla, e questo oscilla, urta
le cosce della bagnante ora volta di schiena. Con la destra mutata in garretto, prima
posata sull’omero, egli struscia quel dorso e tenta di reggersi all’anca. Poi,
annaspando oltre il fianco, quindi sul ventre, cerca invano di raggiungere il pube. Per
un attimo, lei tollera l’assalto. A palpebre basse, le labbra increspate da un sorriso,
sopporta ch’egli le stringa il seno con la mano sinistra ancora intatta, che glielo
stuzzichi, benché sia atterrito. La dea si volta allora di scatto e, come sbirciandolo,
alza un braccio, e subito lui ficca l’avido muso nell’ascella esposta, poi timoroso le
lecca il capezzolo. Freme il corpo di Diana. Non si era mai incarnata in un corpo così
meraviglioso... Un gran cervo, bianco come la neve, separava Atteone dalla
divinità: e gravando sulla schiena della dea delle selve, il re cornuto entra nel suo
regno. Ma effimero è il suo regno. Le ninfe lo hanno accolto giubilanti ed egli
avanza tranquillo verso di loro che lo blandiscono in mille modi e scherzano ar-
meggiando attorno alle sue corna, alla fronte, al collo, e tosto ai fianchi e al ventre,
mentre lui scuote la testa e scalpita innocente. Poi, coronato d’alloro, lo conducono
al cospetto della dea. Due ninfe preparano la Cacciatrice, le rialzano la veste sino al
petto e, quando Diana apre le cosce, le accostano il cervo così smaniante che devono
trattenerlo. La dea delle selve riceve infine il re cornuto. Ma la corsa nuziale finisce
con la morte gloriosa dell’eroe: ha appena fatto gemere la Regina che già la grotta
rintrona dei latrati della sterminata muta. I cani affondano le zanne nel suo pelame e
lo dilaniano, mentre il re irrora del suo sangue ilfulgido corpo della Vergine. Allora
intervengono le ninfe per le ultime abluzioni della dea, ma le grazie di Diana
svaniscono nella luce purissima da lei stessa irradiata. Ben presto, sulla fronte ora
invisibile, solo il diadema indicherà la sua presenza: mezzaluna splendente che sorge
dai crinali dei poggi, quindi sospesa alla volta smeraldina della sera.”
(secondo finale)
«Cagna sfrontata! » torna a gridare. Un sorriso sembra fiorire sui volto della divina,
muoverle appena le gote. E come se Diana lo avesse trafitto senza un gesto con il
dardo più acuto. Lui le strappa con una mano l’arco d’argento, con l’altra le afferra il
polso della mano librata sulla faretra. Comincia poi a percuoterle le orecchie con
l’arco e, mentre lei china il capo per schivare i colpi, la cintura si scioglie, la tunica
cade, le frecce crollano dalla faretra. Le scopre infine il culo e glielo fustiga con
l’arco a più non posso, tanto che l’arma d’argento sembra danzare da sé sulle natiche
di Diana. Difatti, dalle sue tenebre, seminascosto dalle sue lunghe mani d’ombra,
spunta il corno luminoso della mezzaluna; emerge turgido, via via che piovono
sempre più fitte le staffilate. Appena le terga dell’idolo si schiudono, Atteone vi si
getta a capofitto. Eccolo giunto al traguardo della sua vocazione: fronte piatta, bocca
squarciata, mascelle irte di zanne, infine cane lui stesso!... La mezzaluna stilla fra le
zanne, scivola, sfugge, sale in cielo... Gli ultimi insulti affogano nella bava... Visto
che è un cane, abbaia — o morte gloriosa del Cervo! ... quando la mezzaluna
brillante, sorgendo dai crinali dei poggi, va a sospendersi alla volta smeraldina
della sera.
ATLANTIDE
Ricordo mitizzato di un’antichissima sede primordiale, posizionata ad Occidente
delle cosiddette Colonne d’Ercole, tardivamente identificate con lo stretto di
Gibilterra ma, probabilmente, localizzate molto più da presso al territorio greco. Per
una più esatta approssimazione geografica sarebbe peraltro interessante analizzare il
significato della radice del nome Atlante, Atalanta e del rito dell'altalena. Infatti
questi termini ruotano tutti attorno all’antica civiltà cretese. Atlante era un titano,
cioè un dio primevo, identificato in una montagna (da notare il significato
dell’aggettivo italiano alto che deriva dal verbo greco alo, io nutro, nel senso di
faccio crescere, significato che è alla base anche del nome Altea). Atalanta era
connessa con Artemide e con tutti i luoghi dell’Ellade in cui la dea compiva le sue
ierofanie. Figlia di un cacciatore cretese, Iasio o Iasione, che l’aveva abbandonata nei
boschi e allevata da uno degli animali sacri ad Artemide, l’orsa, Atalanta divenne
ben presto una vergine guerriera che uccise anche due ®Centauri che tentavano di
violarla. Eccelleva nella disciplina della corsa, da cui la parola atlas = infaticabile,
irresistibile. Atalanta partecipò alla caccia del cinghiale devastatore del territorio di
Calidone, e ciò è estremamente significativo, poiché questo mito si riconnette alla
vicenda che identifica Calidone con Atlantide[1]. Il cinghiale nel simbolismo ha
sempre rappresentato la casta guerriera maschile nordica, contrapposta, idealmente, a
quella femminile amazzonica. Se identifichiamo quindi Atalanta come originaria di
Creta, come vedremo anche analizzando la parola altalena, la sua lotta contro il
cinghiale calidonio non è altro che la famosa guerra condotta dalla civiltà minoica
contro gli invasori achei, e quindi possiamo identificare agevolmente nel continente
atlantideo nient’altro che quella civiltà, localizzata nell’Egeo e in Creta. Forse
Atlante era poi il nome dell’alta montagna che un tempo costituiva l’isola di Thera o
Santorini, probabile centro sacrale e pilastro della cultura egeo-cretese. Del resto
nella scrittura Lineare B è stata riscontrata la parola Atlunus, nome di regione che si
riferisce alla parte centrale e orientale di Creta, assai simile ad Atlantide![2] Molte
raffigurazioni minoiche ci mostrano una figura rituale femminile assisa sopra un
altalena. Questa altalena, che nel suo veloce oscillare ricorda la velocità di Atalanta,
è molto curiosamente aggangiata a “due colonne”. Se dunque le cosiddette colonne
d’Ercole fossero state, come sostengono alcuni studiosi accademici, i riferimenti
geografici, i confini naturali, oltre i quali si stendeva la civiltà egeo-cretese,
simboleggiata dalla donna divina Atalanta, Atlantide appunto, non ci resterebbe che
da indentificare geograficamente queste due “colonne” per avere l’esatto
posizionamento di questo misterioso “continente”.[3] Del resto regina di Calidone
era Altea… (si noti che Altea è l’inversione fonetica di Atlas…), con il che si va a
confermare quanto già detto circa l’identificazione di Calidone con Atlantide.
Amaltea era invece una ninfa, figlia del re Melisso di Creta, che nutrì lo Zeus ideo
col latte di una capra. Dal corno accidentalmente spezzato di questa capra derivò la
Cornucopia o Corno dell’Abbondanza. Non è forse vero infatti che dalla civiltà
cretese atlantidea è derivato tutto il patrimonio mitico e ideale della civiltà europea
classica? Era peraltro anche il riferimento ad una condizione quasi paradisiaca
dell’umanità, ad un’età andata, una specie di età dell’oro che, col tempo, venne
identificata anche in un’isola dei morti. Era già nota come Isola Beata[4]. Secondo
alcuni, il riferimento omerico al mitico popolo dei Feaci e all’isola di Scheria, non
sarebbe altro che un riferimento a Creta. Non ci pare del tutto fuori luogo
l’assimilazione fonetica che si può fare fra Atlantide e Atena, Atene. Non solo queste
due parole hanno un elemento verbale in comune con Atlantide ma, come ci ricorda
la mitologia, Atene stessa fu in guerra un tempo con Atlantide. Si può supporre che
la città di Atene e l’Attica più in generale fossero un tempo dominio minoico, che
dovessero un tributo (di cui al mito di Teseo e del Minotauro) e che in seguito si
ribellò in concomitanza con un’afflusso di popoli nordici e del cataclisma di
Santorino. A nostro giudizio infatti la dea Atena – conosciuta da un sigillo di Cnosso
come Atana Potjnia (Signora Atena) – non è altro, al pari di Artemide, che la
grecizzazione dell’originaria Grande Dea cretese, quindi con la indoeuropeizzazione
di molte sue caratteristiche pre-greche. Del precedente periodo minoico di Atena
sono rimasti l’attributo del serpente e della civetta, nonché l’egida, uno scudo fatto di
pelli di capra con l’insegna della gorgone Medusa, l’appellativo di glaucopide
(daglio occhi di civetta), il figlio anguiforme ®Erittonio e la caratterizzazione
guerriera della Dea, che lascia ipotizzare attorno al suo culto la presenza di una
specie di donne-amazzoni. Inoltre Eratostene nei suoi Catasterismi, riferisce la
notizia che il Dio minoico del mare, Poseidone, volle un giorno cercarsi una sposa e
la trovò nella nereide Anfitrite. Costei però rifiutò le sue profferte, rifugiandosi da
Atlante. Qui venne raggiunta da un delfino, emissario del Dio, che la convinse ad
andare in sposa. Il testo greco dice testualmente: “la sua ricerca lo condusse sulle
sponde delle isole di Atlante”. Non è questo un ulteriore conferma che una delle
isole egee era la sede del mitico Atlante?
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[1] R. Guénon: Simboli fondamentali della Scienza Sacra…
[2] F. Woudhuizen: The Language of the Sea People. p.78-79 Najade Press,
Amsterdam 1992.
[3] Sono state date, a riguardo, i nomi dei due lunghi promontori che formano il
golfo peloponnesiaco della Laconia.
[4] Diodoro Siculo (V,81,7) definisce Isole dei Beati, le isole egee prospicienti la
Turchia, ed anche Ellanico di Lesbo, nel perduto scritto denominato Atlantide, parla
di Isole dei Beati.
Si veda anche l'articolo sul nome Atlantide pubblicato in DOCUMENTI.
ATTIS
(gr. Αttes) – prototipo frigio del mito vegetazionale del Dio che muore e risorge
annualmente al cospetto della Grande Madre (terra). E’ chiamato anche Papas o Zeus
Papa ed anche Altissimo (Hypsistos); da qui la confusione di alcuni che hanno
supposto un antico culto monoteista di ispirazione giudaica. Al contrario, è vero che
la Chiesa cattolica si è appropriata di alcune sue caratteristiche, così come hanno
fatto gli stessi Ebrei. Robert Graves riferisce la notizia che “in un’iscrizione di
origine ebraica trovata a Roma si legge: Ad Attis, il Dio altissimo (Hypsistos) che
tiene unito l’universo[1]. Il suo culto originario è di carattere frenetico e orgiastico a
carattere cruento, con episodi di automutilazione che giunge anche all’evirazione.
Per tale motivo nell’antica Roma le sue pratiche religiose, introdotte all’epoca delle
guerre puniche su decreto dell’oracolo di Delfi, erano sottoposte ad una severa
legislazione e lo stesso mito viene descritto dagli autori classici in forme attenuate. Il
suo culto fu omologato, nel tempo, con quello di Men, Sabazio, Mithra e Sole.
“I seguaci del dio frigio Attis in occasione dell’equinozio di primavera erano soliti
tagliare un grande albero di pino silvestre e di rendergli degli onori particolari, come
se fosse il dio stesso. Per quale motivo si assimilava Attis al pino? Ovidio ci
riassume sinteticamente le vicende del giovinetto Attis nel quarto libro dei Fasti. A
causa della sua imberbe giovinezza aveva destato l’amore della Gran Madre, che in
Frigia era nota come Cybele. Questa lo aveva avvertito di serbarsi sempre casto e lui
stesso giurò che se avesse trasgredito male gliene incogliesse. Disgraziatamente ebbe
commercio carnale con la ninfa del fiume Sàgari, suscitando così l’ira della Madre
idea che gli uccise l’amante, recidendo la pianta alla cui vita la ninfa era legata e
gettando lo stesso Attis in preda alla frenesia, al punto che, infierendo su se stesso, si
mutilò delle parti virili. Fin qui Ovidio: altri importanti dettagli li apprendiamo dai
mitografi e dalle fonti letterarie. Una di queste è l’imperatore Giuliano che, nel suo
Inno alla Madre degli Dei, riferisce del fanciullo Attis nato sulle sponde del fiume
Gallo. Con una omofonia simbolica l’imperatore accosta gallo con galassia,
invitandoci a considerare che Attis ha origine in quella zona ultramondana che è al
limite tra l’eterno immutabile ed il contingente mutevole. Il pileus, cappello conico
blu intarsiato di stelle col quale il dio veniva raffigurato e che è diventato
nell’immaginario popolare il berretto del mago, ci dice che egli viene subito dopo la
zona delle stelle fisse assumendo come principio del suo proprio dominio le funzioni
di tutti gli dei, che si vedono rivolte al mondo visibile (171 A). Egli è, dunque, il
principio che innesca il processo della generazione del mondo. Il nome stesso
dovrebbe derivare da una radice designante l’idea di preminenza e sovranità: “padre”
o “capo” o “alto” come riscontriamo nel nome dinastico frigio Attalo. Del resto, gli
Attalisti erano i membri di una confraternita devota a Dioniso. Essendo volto alla
generazione del mondo Attis non poteva rimanere fedele all’amore platonico di
Cybele ma doveva, per intrinseca necessità, concupire una ninfa la quale, anche
nell’esegesi di Porfirio di Tiro, è preposta a favorire l’ingresso delle anime nel
circolo della generazione. Che a ciò fosse preposta l’amante di Attis lo testimoniano,
nel mito, l’antro in cui avviene l’amplesso traditore ed il pino alla cui vita era legata
la ninfa. Si trattava quindi, per la precisione, di una amadriade. Perché poi i Frigi
adorassero il pino più di tutti gli alberi, è questione che possiamo solo tentare di
indovinare. Forse l’aspetto della sua cima di un verde cupo non mutevole, che
incoronava le catene di alti colli e si elevava d’autunno sopra il morente splendore
dei boschi nelle valli, poté apparire ai loro occhi come la sede di una vita più divina,
qualcosa che sfuggiva alle tristi vicissitudini delle stagioni, costante ed eterno come
il cielo che s’incurvava quasi a toccarlo. Cybele troncando il pino uccide la ninfa,
arresta il processo discensivo. Autoevirazione e abbattimento del pino non sono che
una sola immagine ma che cela quei “riti segreti” citati da Giuliano e pertinenti
l’autorigenerazione. Infatti, la ragione stessa del culto di Attis non è tanto quale
rievocazione e celebrazione di un fatto cosmologico per cui Attis è soggetto alla
Madre e ne è l’auriga. Sempre egli spasima di desiderio per il mondo della
generazione e sempre egli recide la spinta illimitata mediante la causa prima delle
forme che ha i suoi limiti definiti (171 D) – quanto la possibilità che si offriva agli
affiliati al suo culto di liberare l’Attis interiore onde conoscere l’amore cybeleo, non
contaminato da “nome” e “forma”. Senza entrare nei dettagli di questa via misterica,
di cui peraltro poco si potrebbe dire, possiamo adombrare l’atmosfera ovi si
svolgevano gli arcaici riti di Attis e della Mater Magna: Quando la tempesta soffiava
sulle cime del Berecinto e dell’Ida, era Cybele che, trainata da leoni ruggenti,
percorreva il paese lamentando la fine del suo amante. Il corteggio dei suoi fedeli si
precipitava dietro di lei attraverso i macchioni, emettendo dei lunghi gridi
accompagnato dallo stridore dei flauti, dai colpi sordi di tamburello, dallo
scoppiettare delle nacchere e dal frastuono dei cembali di rame. Inebriati dal clamore
e dal chiasso degli strumenti, esaltati dai loro slanci impetuosi, essi cedevano,
esausti, sperduti, ai trasporti dell’entusiasmo sacro. Il grido in questione era: HYES
ATTIS! HYES ATTIS! Il Frazer suppone che HYES sia una forma frigia del greco
HYES, porco; quindi PORCO ATTIS! Un’esclamazione rituale che, da quegli
antichi Misteri si sarebbe perpetuata nella omologa bestemmia cristiana contro il
padreterno. In realtà la parola Υης non è altro che un attributo che significa pluvio,
irrorante, anche in senso sessuale. E’ quindi una vera e propria esclamazione di
benedizione!”(cit. da Ierobotanica).
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[1] R. Graves: La Dea Bianca, p.385
BACCO
(gr. Bàkchos) – Epiteto di Dioniso (e a Roma si designava costantemente con tal
nome) ma in realtà è il nome per antonomasia di tutte le divinità maschili
mediterranee le quali conferivano l’esperienza dell’estasi associata a pratiche
sessuali attraverso l’assunzione di piante con poteri stupefacenti, in genere dai loro
frutti, da cui anche l’italiano bacca, che designa in generale tutti i frutti selvatici di
piccola taglia, compresa però la vite. Per quanto il culto di Bacco fosse stato
introdotto in Roma assai presto – stante la sua identità con il dio latino Libero (lett.
Colui che libera) -,i Romani non ne tolleravano le caratteristiche (furono gli Oracoli
Sibillini ad ordinarne l’importazione), specie per gli aspetti di libertà sessuale che
comportavano. Nel 186 a.c. il Senato emise una legge che proibiva le licenziose feste
del dio, e scioglieva le confraternite misteriche dionisiache con una severità tale da
assomigliare alle successive persecuzioni della Chiesa contro le eresie. In origine i
Baccanali erano feste misteriche riservate alle sole donne – dette baccanti - e pare
che fu proprio in Italia, grazie all’intervento della sacerdotessa Annia Pacullia che
tali feste si allargarono agli uomini, assumendo pertanto una esplicita
caratterizzazione orgiastica. Baccanale viene dal verbo greco baccheuo, “celebro le
feste di Bacco”. Quest’ultimo è un comune appellativo del Dio Dioniso e significa “il
dio dei frutti selvatici” (bacche). Le feste di Bacco comportavano l’uso del sesso e
delle sostanze inebrianti, derivate originariamente e ancor prima dell’importazione
della vite, dall’assunzione di frutti con proprietà euforizzanti. Col nome di baccharis
e di bacchar i Greci designavano rispettivamente il ciclamino e l’asaro, due piante
tipiche del sottobosco umido. Il ciclamino è stato identificato con la famosa erba
moly che servì ad Ulisse per sconfiggere le malie della maga Circe. L’asaro ha delle
sottili radici fortemente profumate che ricordano l’odore del patchouli. Libero, detto
anche Padre Libero, veniva festeggiato il 17 marzo con le feste Liberali, che i
Romani associarono al giorno in cui i ragazzi diventavano adulti ed era divinità
agreste pre-urbana. In suo onore, a Lavinio e non certo a Roma, si portava in
processione un fallo. Il verbo libare, designava la caratteristica principale di Libero,
cioè quella di bere delle sostanze stupefacenti, in quanto in tal modo il dio liberava il
mistico dalle costrizioni dell’opaca corporeità. E’ infatti di Cicerone l’espressione
“certas bacas sacerdotes libanto” riferentesi all’azione di offrire agli dei determinate
bacche selvatiche. Da libare o da liberare deriva anche il verbo latino libére, che
significa provar piacere, da cui anche l’aggettivo libidine. L’idea di liberare si
riferiva anche alla morte, vista come liberazione dal corpo e, non a caso, la dea latina
della morte era Libitina, così come la dea della gioia era Libenzia e quella del piacere
e dei vigneti: Libentina. A Libero era associata una controparte femminile, Libera,
analoga ad Arianna e Kore del mito greco.
Continuare anche alla voce DIONISO.
CANE
“Tu, cane, sarai della fulgida Ecate, effigie” (Euripide). Il cane abbaia alla luna così
come il gallo canta al sole, comportamento naturale che è servito da base agli antichi
per sviluppare nel simbolismo dell’analogia le loro concezioni sacrali. L’analogia
cane-luna emerge da molteplici riferimenti cultuali e mitologici, a partire da quello
con la dea lunare della morte, Ecate, per finire a quello con Artemide, nella vicenda
di Atteone, un episodio assai noto della mitologia. Non c’è dubbio che Artemide,
nella vicenda di Atteone, sia considerata anch’essa una dea di morte; in ciò la
contraddizione è solo apparente: la Grande Dea Bianca - la luna - veniva contemplata
sotto un triplice aspetto, analogo alle tre fasi visibili del satellite. Come Vergine
(luna crescente), come Madre (luna piena), come strega (luna calante) ed in virtù di
questa triplicità le era sacro il trifoglio. Tuttavia, poichè era sempre la stessa entità,
diversamente considerata, i suoi aspetti potevano interagire tra loro, trasferendo
all’una le caratteristiche dell’altra. Ciò spiega perchè Artemide (crescente) è anche
Ecate (calante), allorchè causa la morte di Atteone. Il cane è sempre stato associato a
quest’ultimo aspetto lunare, essendo Ecate il potere mortifero e distruttivo che
permea la vita intera. La dea a volte veniva raffigurata con testa canina o
accompagnata da una muta di cani. Anche il dio egizio dell’oltretomba, Anubis, era
effigiato con aspetto cinocefalo - per l’esattezza con la testa di uno sciacallo, che è
un canide. L’imbalsamatore egizio indossava una maschera a testa di Anubi nel
preparare le mummie, perché appunto il cane l’avrebbe guidata nel cammino
ultramondano. Spesso, sui sarcofagi, veniva istoriato il cane, quale preposto
all’ingresso del morto in un altra modalità di esistenza. Nell’antichità e fino a tempi
recenti i cani sono stati spesso temuti quali profanatori delle sepolture, in quanto
divoratori di cadaveri, ma in alcuni paesi i morti venivano proprio fatti divorare dai
cani supponendo che ciò gli avrebbe permesso di accedere più rapidamente al Regno
dei Morti. Il guardiano dell’Ade era il cane Cerbero, tricipite in virtù del rapporto
con la luna e pertanto signore del processo trasformativo dalla vita alla morte. Per il
fatto di essere in rapporto con la morte nel suo aspetto dissolutivo esso è stato
considerato spesso come un animale estremamente impuro e ciò anche in culture
monoteiste, come l’Islam. Una delle cause della sua impurità è stata invece
considerata, dallo scrittore cattolico Jean-Paul Roux, la predilezione per il
“cunnilinctus” della femmina, così come avviene per il giaguaro e il coyote.
Tornando a Cerbero, non è a caso che Ercole, allorchè vuole catturarlo, non può far
altro che propinargli una focaccia soporifera: solo il sonno, la quiescenza ed il
rallentamento dei dinamismi vitali possono permettere all’eroe di accedere nel
sotterraneo mondo dello psichismo dell’ anima della terra. E’ questa anche
l’opinione di un valente studioso del secolo scorso, il Bachofen: “molti riferimenti
rivelano con la massima chiarezza il legame del cane con la maternità procreatrice
e con le tenebre telluriche”. Marija Gimbutas così esprime il suo autorevole parere:
“Nel corso dei millenni i cani e i capri compaiono nell’arte in modi che mostrano
come siano coinvolti nel processo del divenire, in quanto stimolatori attivi della
forza vitale (. . .) la ricorrente iconografia del cane con falci di luna e lune piene
rivela il suo ruolo influente nel favorire i cicli lunari e il cambiamento delle fasi
lunari”. E’ quindi evidente il suo significato sessuale. Vediamo ora brevemente il
mito di Atteone. Costui si trovava a cacciare coi suoi 50 cani in una selva nei pressi
di Orcomeno (uno degli accessi antichi al mondo infero), allorchè ebbe la ventura di
imbattersi nella giovane e bellissima dea Artemide, Diana per i latini, mentre costei
faceva il bagno nuda in uno specchio d’acqua. Poichè Atteone rivelò maldestramente
la propria presenza nel tentativo, evidentemente, di possederla, la dea gli aizzò
contro la sua stessa muta dopo averlo trasformato in cervo, da cacciatore a cacciato.
Il misero venne sbranato vivo dai cani. Nel mito e in teologia il cane è un’entità
minore, ciecamente obbediente alla volontà dei suoi signori: Atteone, quand’egli è
valente nella caccia ma soprattutto Artemide che di questa disciplina è maestra.
Quando la dea ordina essi si slanciano contro la vittima, specie se questa assume i
tratti (cervo) del principio vitale maschile che deve soccombere ciclicamente, e la
fanno a brani, cioè la scindono, la scompongono nei suoi costituenti primitivi. Il
neoplatonico Porfirio vide nei cani dei “daimoni” cioè, nel senso greco e non in
quello cristiano, delle forme di coscienza istintive, anche extrapersonali,
estremamente specializzate e magneticamente attratte da ciò che gli è analogo. Il
numero 50 è un numero lunare - vedi per esempio nel folclore irlandese la sua
associazione con il numero 3 - e corrisponde pressappoco alle cinquanta settimane
dell’arcaico anno lunare, cioè alla gamma completa delle epifanie lunari, rispetto
all’influenza delle dodici costellazioni dello zodiaco (=cerchio dei viventi) . Da un
punto di vista strettamente iniziatico, quale sembra essere la vicenda di Atteone, il
vedere Artemide nuda corrisponde alla percezione del mondo astrale in tutta la sua
potenza; il farsi scoprire dalla dea manifesta l’impreparazione dell’ iniziato di fronte
alle possibilità ed ai pericoli di questo mondo; i cani che lo sbranano sono la
personificazione degli ostacoli che non si è in grado di superare ed il numero ciclico
50 è — senza contraddizioni con quanto appena detto — la gamma completa di
questi “daimoni” che ci si attira addosso. Il Kremmerz li ha chiamati “simili nature”,
i quabalisti “qliphot”, i cristiani “demoni” o “diavoli” e i cinesi “influenze erranti”. I
cani sono dunque quegli psichismi che giungono nell’astrale al momento della
“seconda morte” di un individuo - umano, animale o vegetale che esso sia - ma
sopratttutto gli psichismi messi in moto dall’uomo durante la sua esistenza corporea.
Gli antichi, con la conoscenza delle arti magiche, sapevano comunque trarre partito
anche da tali situazioni. In virtù della sua ‘lunarità’ il cane veniva impiegato nella
divinazione: i greci lo squartavano e ne esaminavano il fegato; i romani lo
crocifiggevano o lo appendevano per le spalle ad una forca. Essi stessi però, pare che
avessero scordato il vero motivo del rito, poichè tramandarono che fu a causa del
loro silenzio, quando il celta Brenno assalì il Campidoglio, che decisero di punirli in
quel modo. Sempre i romani sgozzavano cuccioli a Mana Genita, la dea del ciclo
mestruale, e questi cuccioli erano inoltre adatti nei sacrifici espiatori. Un cane nero
era il sacrificio più adatto alla dea Ecate. All’opposto della simpatia che noi moderni
dimostriamo per i cani, gli antichi erano meno sensibili e non si preoccupavano di
imbandire a tavola cani giovani; ciò avveniva nei banchetti agli dei e nelle feste per
l’assunzione di qualche carica pubblica. Sulle pareti di casa vigeva l’uso di spalmare
sangue di cane, per cacciare il malocchio mentre, con i corpi di quelli sacrificati ad
Ecate ci si strofinava, al fine di purificarsi. Il cane era anche considerato come
l’immagine della materia che tutto concepisce in se stessa e ciò ha una rispondenza
simbolica nella lingua greca, ove i termini “kuon”, “kuein”, “kuamos”, significano
“cane”, “concepire”, “fava”. Tre parole legate alla generazione e al divenire, come
attesta anche Esichio: “Il nome cane si riferisce all’organo genitale femminile”
(confronta il latino cunnus, vulva); ed Eliano: “Nel diritto, l’adultero viene chiamato
cane”. Molti oggi sono gli Atteoni che si cimentano con l’astrale. Ad essi siano di
auspicio i versi di Gustav Meyrink: dalla luna dalla rugiada argentea / dalla luna
calante, / guardami / guardami, / tu che a me hai sempre pensato, tu che là hai
sempre abitato.
Dio dalla testa di canide (cinocefalo) era l’egizio Anubi, preposto al culto dei morti
che accompagnava nel viaggio ultraterreno (Hermanubis) e alla custodia delle tombe
e delle mummie. Il suo culto era legato ad aspetti piuttosto oscuri, praticati ancora in
epoca classica da confraternite dedite esclusivamente al suo culto.
CAPELLI e PELI
In un brano di Clemente alessandrino (Protrettico, 2,22,5) si legge: “e inoltre gli
ineffabili simboli di Ghe Themis: l’origano, la lucerna, la spada, il pettine femminile
e cioè, in linguaggio eufemistico e mistico, l’organo femminile”. Se dunque il
famoso vescovo di Alessandria d’Egitto, profanando forse per la prima volta nella
storia un simbolo misterico, ci ha rivelato che il pettine è un simbolo dell’organo
sessuale femminile, noi siamo indotti a ritenere che, poiché questo strumento serve a
pettinare i capelli, quest’ultimi sono se non un simbolo dell’organo sessuale maschile
quantomeno un generico segnacolo di sessualità, intendendo con quest’aggettivo la
capacità copulativa dell’individuo adulto. D’altronde già la conchiglia marina è
sempre stata riconosciuta quale simbolo genitale femminile (si pensi alla nascita di
Afrodite) e, non certo a caso una sua specie, la conchiglia di San Giacomo o cappa
santa, è scientificamente nota con il termine di pecten Veneris ovvero pettine di
Venere. La stessa Venere del Botticelli è raffigurata, oltre che approdare a terra
assisa su una conchiglia anche nell’atto di pettinarsi o lisciarsi i capelli. Dobbiamo
quindi vedere in essi un altro simbolo del sesso femminile, come modernamente
l’epoca borghese ci ha abituato a credere? No davvero, altrimenti non avrebbe avuto
senso l’idea di fare del pettine un simbolo della vagina: l’idea di assimilare ad un
coito tra uomo e donna l’unione tra il pettine e i capelli non è tanto lontana dalla
realtà, anzi vi è aggiunto un che di misticamente superiore: il pettine discrimina e
ordina i tanti capelli che altrimenti si ingarbuglierebbero a tal punto da assumere la
forma di un incolto cespuglio. L’elemento maschile viene quindi “vagliato” e tenuto
in soggezione; questo è il significato precipuo. Quest’idea della discriminazione o
ordinamento dei capelli è così pertinente al sesso femminile, d’altronde, che si
associa a quell’altro, anch’esso femminile, del telaio e della tessitura: la maga Circe
riesce ad attirare ed ammaliare (coire con) i compagni di Odisseo mentre cantava
intenta a lavorare sul telaio; la soggezione maschile è testimoniata dal fatto che i
compagni di Odisseo vengono mutati in porci, animali simbolo della Dea. Anche nel
telaio si usava una specie di pettine e i fili di tessuto si possono paragonare a dei
capelli. Al coito sacro, allo ieròs gamos, si riferisce pure la tessitura a cui è intenta la
stessa Penelope e al termine della cui lavorazione dovrà sposare uno dei Proci. Ma il
notturno disfacimento del lavoro fatto di giorno sta a significare che Penelope è,
come ha sostenuto Robert Graves, una Madre Eterica e Afroditica, l’archetipo della
natura femminile libera e orgiastica, la quale rifugge dal legame e dall’asservimento
al maschio. E’chiaro che il racconto omerico è già una indoeuropeizzazione
patriarcale di questo oscuro retaggio protomediterraneo. Pertiene alla religione
femminile palustre, avversaria di quella Demetrica della coltivazione e coltura della
terra. Non a caso le piante di questa “religione” sono le filiformi e le capillari: i
giunchi e le canne. Indirettamente la mascolinità dei capelli ci è data anche
dall’iconografia delle divinità fluviali (i fiumi sono sempre stati visti come forze
maschili della natura), tutte raffigurate con chiome fluenti o con lunghi peli sul
corpo. A quest’ultimo riguardo è significativo notare come per lo scrittore Eliodoro,
autore delle Etiopiche, dei lunghi peli sul corpo fossero simbolo di natura sregolata e
promiscua, fallica e, a riprova di ciò, citava il fatto che Omero, nato secondo una
tradizione da un adulterio, avesse il corpo ricoperto di lunghi peli, assimilati pertanto
ai capelli. “Del resto, i capelli hanno una relazione particolare col principio
afroditico della natura che domina nell’accoppiamento palustre, selvaggio e non
matrimoniale. Senza intervento umano, senza seme, senza aratro, essi scaturiscono
spontaneamente e senza comando dall’umidità profonda, e i capelli e la canna
palustre ringiovaniscono incessantemente, rinnovandosi eternamente. Perciò i
giunchi del Nilo si chiamano “capelli di Iside”, perciò le ninfe portano una corona di
canne” (J.J. Bachofen: Il Simbolismo Funerario degli Antichi, p.353, Napoli,
Guida 1989). Allorchè si tagliavano i capelli, infatti, le ciocche tagliate venivano
offerte alla Grande Madre, alle acque e ai fiumi. Il Bachofen fa anche notare che
l’uso di tagliare e offrire i capelli, unitamente al fatto di indossare sul capo rasato il
pileus, il famoso berretto frigio di forma conico-ovale, sono una forma rituale di
consacrazione alla Madre Terra, in quanto il pileus rappresenterebbe l’uovo cosmico,
matrice da cui tutto si genera e si forma e a cui tutto ritorna. Conformarsi all’uovo
significa accettarne la superiore legge cosmica, legge di promiscuità e libertà
naturale assoluta. “Così il copricapo diviene un simbolo della nascita dall’uovo e
della libertà necessariamente connessa con questa (...) la testa rasata coperta dal
copricapo a forma di uovo rappresenta l’uomo racchiuso, per così dire, nel grembo
materno della materia, da cui vien fuori nascendo; in tal modo egli diviene partecipe
della libertà che la materialità materna concede ad ogni creatura”. “I capelli, come il
loto, nascono dalla materia generativa grazie alla sola forza materiale, senza
intervento dell’uomo; essi sono creati dall’umidità che compenetra il corpo umano, e
sono perciò considerati sede della forza, come in Sansone, Niso e Ferelao, per lo
stesso motivo sono doni particolarmente graditi dai fiumi, detentori della natura
fallica”. Il taglio dei capelli (rasatura) che veniva fatto nell’antichità non ha nulla
dunque a che vedere con le motivazioni borghesi odierne, ma aveva invece il
significato dell’offerta di una primizia all’ente produttore di quel Bene. Esso è
specialmente il segno di un reintegro del devoto (vedi i sacerdoti rasati di Iside)
nell’Uovo Cosmico da cui, per compartecipazione, traggono una forza ancor
maggiore. Non a caso la tonsura dei sacerdoti cattolici può forse riandare ad un
significato analogo, per quanto incompreso e probabilmente ereditato da vecchi
collegi sacerdotali pagani. Nella mitologia ebraica è nota la storia di Sansone, la cui
forza virile risiedeva appunto nei capelli. Allorchè la filistea Dalila glieli tagliò
Sansone perse ogni vigore. Nella mitologia romana abbiamo però un esempio ancora
più significativo, quello di una vestale che, accusata di avere violato il voto di
castità, per provare l’incontrario, riuscì a disincagliare una nave semplicemente
aggiogandola e trascinandola con i propri capelli. In questo caso particolare, si
potrebbe ipotizzare che le Vestali fossero in epoca molto arcaica un collegio di
ierodule, cioè di prostitute sacre, per cui la violazione della castità andrebbe intesa
come violazione dell’obbligo di concedersi a tutti a favore di un legame individuale.
Infatti, nelle società arcaiche, l’obbligo di osservare un Tabù, si riferisce al fatto di
doverlo violare solo in forme rituali e consacrate. Nell’immaginario popolare
ancor’oggi l’uomo che porta i capelli lunghi è considerato persona “stragavante”,
“originale”, libero cioè di avere rapporti sessuali senza vincolarsi ad un rapporto
istituzionale o fisso; ad una specie di zingaro o di artista o poeta “eccentrico”. Nel
passato l’uomo aveva generalmente i capelli lunghi e non certo per mancanza di
barbieri che, come ci ricorda la parola stessa, sono nati quali tagliatori di barbe. La
barba è sempre stata tagliata con maggiore frequenza dei capelli per via della sua
scarsa comodità nel portarla e comunque è sempre stato un segnacolo di anzianità o
di maschia saggezza piuttosto che di mascolinità. I baffi invece, presi in se stessi e
comunque qui nel mondo occidentale, specie in epoca ottocentesca, sono stati visti
quali segno di burbera e spesso grottesca ribellione di una mascolinità tutta
infagottata nell’artificioso formalismo moralista e borghese di quell’epoca. Oggi, che
siamo in un’epoca di discrete libertà individuali e sessuali, di contrappasso c’è il
culto dell’uomo rasato e praticamente glabro - non certo per esigenze commerciali
dei produttori di rasoi elettrici - così come la stessa donna contemporanea che
vediamo sempre più spesso con i capelli tagliati corti, per assimilarsi al maschilismo
sterile dei maschi in cravatta. La pelosità è comunque una caratteristica di
sessuazione fallica mentre la mancanza di peluria lo è di quella femminile. Lo
riscontriamo in Oriente, dove la donna e specialmente quella deputata ai piaceri
dell’alcova è spesso depilata negli stessi organi sessuali. I giapponesi, popolo per
molti versi maschilista, è un grande estimatore di vagine rasate! Nelle Leggi di
Manu, un testo indù assai lontano dai principi dello shivaismo, “si sconsigliano i
legami matrimoniali con famiglie ove i corpi sono fortemente pelosi, perché questo
rivela una sregolata sensualità” (Bachofen). Si può dire comunque, generalizzando e
lasciando da parte particolari prescrizioni ritualistiche, che le popolazioni aderenti al
principio patriarcale hanno osservato il costume di tagliare e regolare la lunghezza
dei capelli, mentre quelle legate al principio della Mater Magna ne coltivavano la
lunghezza indiscriminata, che paragonavano alla crescenza spontanea e rigogliosa
della vegetazione palustre. Non ci sembra qui il caso di dilungarci su un altro
simbolo genitale femminile non meno (o forse più) significativo del pettine: la
forcina. Da quest’ultima potrebbe proprio essere derivato il primo. La forcina ricorda
la forma dell’ostio genitale femminile. Non ci sembra macchinoso supporre che il
pettine sia derivato dalla successiva e molteplice associazione di più forcine, il cui
scopo è quello di tenere ferme le ciocche dei capelli.
CARTAGINE
Città fondata nell’814 a.C. dai coloni fenici di Tiro e non distante dall’odierna
Tunisi. I Cartaginesi, amalgamatisi ben presto con la popolazione locale, dettero vita
ad un impero di carattere commerciale – non imperialistico, quindi, come quello
romano – che prosperò finchè venne a scontrarsi con la potenza romana. I
Cartaginesi erano alla continua ricerca di risorse commerciali, specialmente di
carattere minerario, e non avevano in vista l’assoggettamento di popoli e territori.
Loro missioni giunsero a toccare le isole britanniche, colonizzare l’isola di Madeira,
nell’Oceano Atlantico, ed una di esse, guidata dall’ammiraglio Annone, si spinse fin
nel Golfo di Guinea! Si limitarono infatti al possesso di punti strategici lungo le rotte
dei loro traffici e solo in seguito allo scontro con Greci e Romani si videro costretti
ad occupare militarmente vaste porzioni di territorio. Contrariamente a quanto vuole
una interessata storiografia, che ha in Virgilio il suo capofila, i Cartaginesi
intrattennero buoni rapporti diplomatici con i Romani finchè quest’ultimi non
decisero di immischiarsi nelle lotte tra i Siracusani e i Cartaginesi, e cioè non prima
del 264. Secondo alcune fonti i Fenici possedevano un emporio adiacente il guado
sul Tevere dove poi sarebbe sorta Roma. Essi avrebbero innalzato l’ara maxima in
onore di un loro Dio. Nel 343 avevano inviato in segno di amicizia una corona d’oro
del peso di 25 libbre al popolo romano. In realtà acerrimi nemici dei Cartaginesi
furono i Siracusani, che condussero contro di essi guerre lunghe e depauperanti.
Contro l’egemonia greco-siracusana i Cartaginesi trovarono un valido alleato negli
Etruschi. Il grosso dell’esercito punico era formato da mercenari di ogni estrazione,
persino greci, liguri e anche dei romani. Quest’ultimi si batterono valorosamente
all’assedio di Cartagine morendo per ultimi. Il nerbo dell’esercito era però costituito
dalla “Sacra Schiera”, formata da 2500 tra i più selezionati cittadini. Pur
commercianti, i Cartaginesi annoverarono fra loro insigni figure che all’occorrenza
sapevano destreggiarsi egualmente bene sia con la spada che con l’aratro. Oltre ai
ben noti Amilcare, Asdrubale e Annibale vi fu Magone, definito “padre
dell’agronomia” dal romano Columella. Il Senato di Roma sentì il bisogno di
ordinare la traduzione dei 28 libri del trattato di Magone sull’agricoltura! Oltre al
commercio dei minerali, che i Cartaginesi sapevano lavorare fin nella produzione di
gioielli di ottima fattura, essi andavano famosi per la qualità delle stoffe di porpora,
dei pellami nonché per la fornitura di merci esotiche, come elefanti, schiavi e altri
prodotti dell’Africa. Il Dio più importante di Cartagine era Baal Shamin, Il Signore
del Cielo, affiancato da Baal minori analoghi alle deità del pantheon greco. Al suo
fianco prese successivamente grande rilevanza – forse per il distacco di Cartagine
dalla madrepatria semitica e la contiguità col mondo mediterraneo della Potnia – la
figura della Dea Tanit. Eshmun, Reshef e Astarte avevano anch’essi un notevole
culto. Una pratica caratteristica della religione punica era quella dell’immolazione di
vittime umane, compresi i neonati. Queste forme problematiche della loro religione
sopravvivevano ancora alla fine dell’Impero Romano, travisate sotto forma di culti
latinizzati. L’influsso della spiritualità egiziana era anch’esso presente, specie negli
aspetti più vicini all’ambito della magia. Al contrario dei Cartaginesi, che non furono
mai spietati con gli avversari, i Romani si comportarono molto barbaramente con
loro, in quanto volevano essere gli unici superbos che non si potesse debellare
(Virgilio).
[si veda anche alla voce ELISSA]
CIPRESSO
Abbiamo visto in precedenza che la maga Canidia per comporre il filtro stregonico
col quale affatturare Varo, abbisognava per il fuoco di legna di cipresso ("cupressos
funebris"), in quanto già da allora quest'albero era associato con la morte o, meglio,
con la vita nelle tombe. La mitologia infatti fa nascere la pianta dalla vitalità esangue
del giovane Ciparisso - nunc arbor, puer ante scrive Ovidio - così metamorfosato per
aver ucciso erroneamente un cervo sacro da lui amato nell'isola di Ceo. Quest'isola
delle Cicladi aveva visto un'altra metamorfosi: quella del cadavere della figlia di
Alcidamante, Ctesilla, in bianca colomba. Se fosse vera l'ipotesi che le isole di Ceo,
Chio e Cipro - quest'ultima sacra a Venere - derivano il loro nome dal cipresso, si
potrebbe asserire che, grazie ai caratteristici miti di morte per amore che si
riscontrano in molte di queste isole, quest'albero sia in relazione non con la morte in
generale, ma con la morte prematura per accidente passionale. Naturalmente, da un
punto di vista oggettivo, sarebbe vero il contrario e che, cioè, a causa del particolare
potere magico della pianta, sono stati inventati i miti che ne documentano la
simbologia. Nell'aromaterapia magica dell'americano Scott Cunningham infatti,
l'essenza di cipresso "is excellent for smoothing transitions of all kinds, particularly
the loss of friends and loved ones or the endings of relationships"; mentre in quella
empirica del francese R. Tisserand " dato il suo effetto astringente e la sua capacità
di arrestare la produzione e l'eliminazione dei liquidi organici, a livello psichico
probabilmente è in grado di arrestare la fuga di idee, di calmare più che di
stimolare". Il cipresso dunque veicola un'energia vitale, animica, mercuriale-
saturniana, che funge da mediatore e collegamento con una vita che si spegne, con
un empito venereo in dissoluzione. Ecco spiegato, ierologicamente, il bisogno di
Canidia di utilizzare legna di cipresso, in quanto la vis coeundi della pianta avrebbe
supportato e veicolato nell'astrale collettivo il gluten animico del fanciullo,
permettendogli di aderire, successivamente, all'astrale di Varo per mezzo
dell'assunzione orale del filtro. E' da notare, infine, che stiamo parlando del cipresso
di specie horizontalis, l'unico che nei tempi arcaici vegetava spontaneamente e che è
piuttosto diverso da quello che ben conosciamo ai nostri giorni: la varietà
piramidalis, dall'aspetto affusolato e svettante verso il cielo, al quale bisogna
riconoscere un ulteriore simbolismo ed un'altra signatura. Quest'ultimo è stato creato
dalle continue selezioni che gli hanno apportato gli uomini con la coltivazione, forse,
proprio per evidenziarne meglio il successivo simbolismo. E' comunque assai
difficile ricostruire il simbolismo del cipresso, in quanto la pianta affonda le sue
radici nella più vetusta antichità mediterranea - è infatti parola cretese. Secondo lo
ierobotanico francese J. Brosse il cipresso sarebbe da ricollegare ad un primitivo dio-
albero a cui era sacro, come animale totem, il cervo. Quest'ultimo, del resto, ha
sempre simboleggiato il ciclo di morte e rinascita, raffigurato dagli Antichi con storie
di amore drammatico e la vicenda di Ciparisso, come noi appunto abbiamo
rimarcato, vi fa riferimento.
CIRCE
Antica figura, superstite retaggio di un’epoca remotissima in cui il Mediterraneo era
popolato da figure ieratiche a metà fra l’umano e il divino, erranti o sedentarie ma
comunque remote da ogni assembramento sociale. Figlia del Sole e dell’Oceanina
Perse viveva nell’isola orientale di Aiàie in un Palazzo in mezzo al bosco. Questi dati
ce la fanno ritenere come una figura ed una località del mondo egeo-cretese di
impronta minoica. Più tardi la sua sede fu configurata nel promontorio circeo, a Sud
di Roma. Queste due localizzazioni non sono comunque antitetiche, in quanto sia le
sacerdotesse cretesi che quelle pelasgico-marsiche erano note come dominatrici di
serpenti ed esperte nel confezionamentro di filtri e pozioni, il serpente potendo
raffigurare anche la forza tellurica primigenia. Il fatto di essere dominatrici di
serpenti le ha tramutate in seguito, nell’ottica greco-latina, in dominatrici di uomini,
poiché l’uomo è detentore del potere serpentino ed in esso si identifica nel
simbolismo. La mentalità patriarcale ne ha poi fatto degli uomini-porci, non potendo
consentire che il sacerdozio femminile possa essere anche di impronta solare. Il
nome Circe significa cerchio, da cui falco, poiché questo predatore di serpenti
volteggia in cerchio nell’aria quando è a caccia, e deriva probabilmente dalla forma
greca kyklos, da cui ancora il nome dell’arcipelago egeo delle Cicladi. Era in
quest’ultimo che si trovava l’isola di Aiàie?
Dee dei serpenti analoghe a Circe sono la marsica Angizia e la sabina Angerona, che
derivano verosimilmente il loro nome da Anguis, serpente. Tra gli uomini, che
detenevano pur’essi il potere di dominare i serpenti, Virgilio (VII, 750) ricorda un
sacerdote di Angizia, un tal Umbrone,
“…fortissimo sacerdote della gente Marruvia
che soleva col canto e con la mano infondere il sonno
ad ogni sorta di vipere e ai serpi dall’alito velenoso,
ammansendone l’ira e guarendone i morsi con arte sicura”.
COLOMBA
(gr. kòlymbos) In tutte le mitologie del Mediterraneo centro-orientale fino a quelle
mesopotamiche, si parla di un immane diluvio che avrebbe sommerso tutte le terre,
lasciando in vita solo alcuni superstiti, in genere preavvisati da qualche dio. Essi
sarebbero stati informati poi della fine del diluvio da una colomba, che faceva la
spola tra una mitica arca e le terre nuovamente emergenti. Vediamo dunque che la
funzione non soltanto simbolica che gli antichi hanno dato al nostro volatile —
pensiamo all’uso dei piccioni ‘viaggiatori’ — è quello di mediatore, di tramite fra
due mondi separati, il corporeo e l’animico, tanto che si può caratterizzarlo come
animale mercuriale’.Autori magici come Cornelio Agrippa lo assegnano a Venere,
avendo a mente il suo comportamento “lascivo”., ma ciò è errato sia per quanto
abbiamo detto della lascivia come concetto negativo della mentalità monoteista, sia
perchè si tratta, in ogni caso, di un aspetto contingente. Non a caso, in alcune
illustrazioni il famoso caduceo di Mercurio è sormontato da una colomba,
appollaiata sulla cima della verga. Nell’isola di Creta gli archeologi hanno rinvenuto
reperti che effigiano la Dea su un’altalena fissata a due pilastri; alla loro sommità vi
è posato un gatto o una colomba, volendo simboleggiare con questo ‘gioco’ il
passaggio e lo scambio di quelle energie elettro-magnetiche che tengono in contatto i
due mondi. Anche gli sciamani di varie culture spesso si dondolano e non certo per
trastullarsi in giochi infantili ma, come ènostra opinione, per accedere con un mezzo
pratico ad un diverso stato di coscienza. Il passaggio ad un’altra dimensione è stato
popolarmente inteso come il transito per “l’altro mondo”, quello dei defunti. In
quest’ottica il colombo — anche detto “piccione” o “palombo” - rappresenta l’anima
del morto. Essa, iniziaticamente, è quella più sottile corporeità che può sostituirsi al
corpo fisico quando l’uomo abbandona la vita corporea. Nelle credenze popolari, fin
dalla preistoria, questo volatile è un simbolo di morte; veniva adoperato nei riti
oracolari — come quello antichissimo di Dodona — ed era segnacolo di sventura in
quanto presagio di morte e anima di morti legati alla terra. Poichè gli indoeuropei ed
il cristianesimo associano il colore nero alla morte, il piumaggio generalmente scuro
di tali uccelli si presta benissimo all’analogia. “Colombo” deriva dal greco
“kòlymbos” che attua una radice *kel denotante ciò che è privo di luce. Anche nella
lingua russa, come ci ricorda la lituana Gimbutas, è rimasto il senso funereo: “golub”
= colombo e “golubec” = lapide. Non è certo una coincidenza se i contenitori di urne
cinerarie nell’antica Roma, i “colombari”, avevano forma di piccionaie. Prima che
giungessero le proto-invasioni barbariche, quelle degli indoeuropei per intenderci,
gli antichi popoli del mediterraneo veneravano nel colombo a piumaggio bianco, la
Dea Bianca, primordiale Signora della Vita. La morte, per questi popoli, più che un
nero baratro era un evento trasformativo a cui ben si attagliava il colore bianco del
cangiamento lunare. “L’uso delle ossa e dei colori bianco e giallo come simboli della
morte rimase nelle credenze europee a fianco del nero” (M. Gimbutas). l’uso di
dipingersi la faccia di bianco nel corso di celebrazioni rituali, tra gli antichi e i
primitivi, si può ricollegare allo stesso ordine di idee. Nella mantica etrusca era un
uccello assai utilizzato e non certo per rendere responsi di natura spiritica, quanto per
fungere da supporto a influenze di natura extra-corporea che si fosse voluto far
accedere nell’ambito della coscienza di veglia. E’ forse per questo motivo che nel
Corano esso viene descritto come il depositano dei segreti di re Salomone. Una
tradizione di origine mesopotamica rielaborata dai greci, racconta che Afrodite
nacque da certe uova trovate e covate da delle colombe. Il significato allegorico del
mito è che l’eros è il tramite offerto all’uomo per attingere quell’altra dimensione di
cui le colombe sono una velata riproposizione. Anche in magia evocatoria, la
colomba svolgeva un ruolo importante sullo stesso piano fisico: il suo sangue fa da
veicolo alla manifestazione di potenze non umane. Ecco, per altri versi, perchè gli
ebrei vietano di cibarsi di animali dalle cui carni non è stato estratto il sangue: in
esso sarebbe contenuta l’anima infera, intendendo con tale termine quella parte della
nostra ‘lunarita’ che ci lega al mondo terrestre del divenire - il greco Ciclo della
Generazione
CRETA
Isola posta al centro del Mediterraneo, culla della civiltà minoica. “Quanto a Creta,
essa si allunga tra est e ovest, con un fianco rivolto a sud ed uno a nord, ed è
nobilitata dalla fama delle sue cento città. Dosiade pensa che abbia preso il nome
dalla ninfa Crete, figlia di Esperide, Anassimandro la ricollega invece al re dei
Cureti, Filistide di Mallo e Cratete riferiscono che dapprima era chiamata Aeria e
poi, in seguito, Curetide; e alcuni hanno ritenuto che il suo nome Isola dei Beati sia
dovuto alla mitezza del clima. In larghezza non supera mai le 50 miglia, ed ha la
massima estensione nella sua zona centrale; in lunghezza ammonta a 270 miglia, e in
circonferenza a 589; incurvandosi sul mare Cretese, che da lei prende il nome,
presenta il massimo sviluppo da quel lato, e spinge in fuori ad oriente il promontorio
Samonio, che guarda a Rodi, e ad occidente il promontorio Fronte di Montone,
rivolto verso Cirene. Le sue città notevoli: Falasarna, Elea, Cisamo, Pergamo,
Cidonea, Minoio Aptero, Pantomatrio, Anfimala, Ritimna, Panormo, Citeo,
Apollonia, Mazio, Eraclea, Mileto, Ampelo, Ierapitna, Lebena, Ierapoli, e,
nell’entroterra, Gortina, Festo, Cnosso, Polirreno, Mirina, Licasto, Ramnunte, Licto,
Dio, Asio, Piloro, Ritio, Elato, Fere, Olopisso, Laso, Eleuterne, Terapne, Maratusa,
Tiliso; ma di altre 60 città, all’incirca, sussiste il ricordo. I monti sono il Cadisto,
l’Ida, il Dictinneo, il Corico. L’isola dista, a partire dal promontorio chiamato Fronte
di Montone, sino al promontorio cirenaico di Ficunte, 125 miglia, secondo i dati di
Agrippa; a partire da Cadisto, 80 miglia sino a capo Malea nel Peloponneso; a partire
dal promontorio Samonio sino all’isola di Carpato, 6o miglia in direzione est;
quest’ultima è sita in posizione intermedia fra Creta e Rodi. Le altre isole circostanti
sono, verso il Peloponneso, le due Conci e le due Mile; sul lato nord, avendo Creta
alla destra, e di fronte a Cidonea, vi sono Leuce e le due chiamate Budri; di fronte a
Mazio, l’isola di Dia; di fronte al promontorio Itano, Onisia e Leuce; di fronte a
Ierapitna, Crisea e Gaudo. Nella stessa zona giacciono Ofiussa, Butoa, Ramnunte, e,
una volta doppiata la Fronte di Montone, si trovano le tre chiamate Acusagoro. Di
fronte al promontorio Samonio stanno Foci, Platie, Stirnidi, Nauloco, Armedonte e
Zefire.” (Plinio, Storia Naturale, IV,58)
DELFINO
(gr. delphys) Animale-totem del dio egeo-cretese Delfine. I Greci per screditare
l’antico nemico minoico trasformarono il dio in un mostro, un drago serpentiforme
che stazionava presso la fonte di Delfi, poi trasformata in santuario mantico
apollineo. Lo stesso Apollo ne assunse o meglio ne prevaricò le caratteristiche
assumendo l’epiteto di Delfinio e facendosi festeggiare a primavera nelle principali
città portuali della Grecia. Nell’Inno omerico ad Apollo è descritta simbolicamente la
modalità con cui i Cretesi colonizzavano le località egee di loro interesse. Un delfino
faceva da guida ad un personaggio mitico o a degli uomini o ne salvava dalle acque,
facendo sì che si stabilisse in un determinato luogo. Delfi era appunto uno dei più
antichi centri e luoghi di culto soggetti alla thalassokratìa minoica. Nella leggenda di
Arione, salvato da un delfino, si può scorgere un rimasuglio di questo simbolismo,
che è invece più esplicito nelle vicende di altri personaggi, eponimi di città e popoli,
come Ikadio appunto per Delfi e suo fratello Iapige, per il popolo degli Iapigi,
stabilitisi in Puglia. Secondo un altro mito, fu Delfo figlio del dio del mare
Poseidone, che l’aveva generato assumendo sembianze di delfino, a fondare il centro
sacrale di Delfi. Questo era considerato l’ombelico del mondo dai Greci ed aveva lo
stesso valore che ha oggi La Mecca per i Musulmani o Gerusalemme per gli
Ebrei. “Nulla è più vicino alla natura divina del delfino” (Oppiano: Alieutica 1,647).
Di animali cari all’uomo ce ne sono tanti ma quando si nomina il delfino è difficile
che non venga alla mente un pensiero di affettuosa simpatia. Forse sarà per l’odierno
rispetto verso la natura o per i documentari che ce lo mostrano vicino all’uomo in
molteplici occasioni. Noi ne dubitiamo, considerando che dietro le belle immagini di
delfini che divertono i bambini o ‘collaborano’ ad imprese scientifico-militari vi è la
costrizione e l’ammaestramento. Donde viene, dunque, la simpatia tra questo cetaceo
e l’uomo? Ci sono prove documentate di salvataggi da parte dei delfini di persone in
difficoltà e, parallelamente, ci ripugna l’idea di mangiarne le carni. La spiegazione
che noi vogliamo proporre è certamente sconcertante per il lettore impregnato di
mentalità moderna, tuttavia era il convincimento comune agli iniziati delle antiche
civiltà mediterranee: il divino e l’umano non sono separati, non sono due realtà a se
stanti. Tra questi due termini esiste un continuum che si manifesta attraverso una
possibile spansione della coscienza, la quale abbraccia pure il mondo animale,
vegetale e minerale. L’animale, la bestia, può essere veicolo d’unione verso il mondo
divino, il mezzo attraverso cui un ente divino si manifesta all’uomo o attraverso cui
quest’ultimo può attingere un dio. Può anche accadere il fenomeno inverso, tuttavia:
se l’iniziato non è in grado di reggere il confronto e di partecipare della divina
natura, è il dio stesso che lo relega in una delle sue dimensioni condizionate. E’ così
che nel mito del rapimento di Dioniso da parte dei pirati, questi, una volta sconfitti
dal dio, vengono trasformati in delfini e gettati nel mare; il mare dello psichismo
terrestre. A proposito di Dioniso ripetiamo come lo studioso K. Kerényi lo definì:
“archetipo della vita indistruttibile”. Che altro si potrebbe aggiungere? Basta pensare
alla forza che spinge i germogli a frantumare l’asfalto per venire alla luce o al conato
irresistibile della pulsione riproduttiva per farsene un’idea ben precisa. Il delfino
riecheggia pienamente le prerogative dionisiache, riferendosi in particolar modo alla
forza fecondatrice che trionfa sulla morte. Già l’origine della parola è illuminante:
deriva dal greco DELPHYS = utero o vagina. Poichè i delfini vengono visti guizzare
sopra le onde del mare, che è simbolo di mascolinità - ricordiamo a questo proposito
che Venere nasce dalla spuma del mare - essi rappresentano il frutto dell’atto
fecondatore nell’esplosione di tutte le forme vitali; un po come raffigurato dal
Botticelli col dipinto della “Primavera”, dipingendo Flora nell’atto di spargere fiori
dalla cornucopia che tiene in grembo. Il trionfo sulla morte è stato espresso in diversi
episodi mitici, tra i quali quello di Arione è il più famoso. Erodoto riferisce a
riguardo che un aedo suonatore di cetra, Arione appunto, inventore del ditirambo -
un canto corale in onore di Dioniso a carattere orgiastico - si stava recando da
Taranto all’isola di Lesbo, allorchè i marinai della nave sulla quale viaggiava
decisero di rapinarlo e di gettarlo in mare. Arione li supplicò di lasciarlo almeno in
vita ma riuscì solo ad ottenere, quale ultimo desiderio, di poter intonare ritualmente
un carme sacro, dopodichè si gettò in mare. Qui un delfino lo prese sul dorso e lo
trasse a riva. I dettagli che concernono la vicenda di Arione, allorchè intona l’inno
magico, ci fanno subito pensare agli arcani riti misteriosofici, connessi con la musica
e la danza dionisiaca. Riti che, celebrati al sicuro nei templi, utilizzavano il
canovaccio mitologico per propiziare esperienze estatiche e trascendenti. Un
santuario di Arione è attestato nell’isola di Creta così come ex-voto e monete a lui
dedicati, raffigurandolo fendere il mare a cavallo di un delfino. Infatti il mare,
concepito come profondità abissale, è paragonato al mondo astrale, nel quale si può
‘affogare’ se non si dispone di un Corpo di Gloria che ci guidi e ci tenga a galla.
Enalo, Fineide, Falanto, Icadio e Melicerte sono esseri mitici analoghi ad Arione e
che vennero salvati da delfini. Divinità marine erano spesso raffigurate in groppa a
delfini ed in alcune città il Fanciullo dell’Anno Nuovo era visto giungere dal mare in
groppa ad uno di essi. Il tema della cavalcatura ci conduce all’aspetto ‘trionfale’ del
mito arioneo allorchè si vuole significare il dominio, da parte del ‘myste’, della
forza, sia generativa che astrale. Difatti il nome Arione deriva da una radice, cui è
collegato pure il Marte dei greci, esprimente la preminenza della forza polluitiva. Il
delfino è anche connesso con il famoso santuario di Delfi, sacro ad Apollo. I rapporti
mitici tra l’animale ed il dio sono dovuti al fatto che il culto di Apollo si sovrappose,
in epoche remotissime, ad uno precedente tellurico-pelasgico, mediterraneo,
usurpandone per convenienza le caratteristiche. A Delfi, prima di Apollo, si onorava
l’oracolo della Madre Terra, un drago di nome Delfine e del di lei compagno Pitone.
L’oracolo vaticinava da una fenditura della roccia, da cui il nome Delfine, per la
somiglianza con una vagina. Nell’antichità i delfini erano presenti in numerose
raffigurazioni dell’arte cretese ed egea, al punto che l’animale, assieme al polipo, era
l’emblema della potenza politico-religiosa dell’isola di Minosse. Anzi, stando
all’Inno Omerico ad Apollo e tenendo presente che il dio si è accaparrato prerogative
non sue, furono cretesi i primi sacerdoti delfici, a testimonianza dell’espansione del
centro sacrale di Cnosso in tutto l’Egeo. Il delfino appare anche nel simbolismo
sepolcrale assieme ad un altro simbolo di vita e rinascita, le uova. E’ inoltre
connesso con il simbolismo del numero 7, considerato come l’espressione
matematica della perfezione, del compimento, di ciò che viene alla luce, che la
fecondazione ha ridestato alla vita. Chi si ricorda il celebre film “Ben Hur”, nella
scena della corsa delle quadrighe, avrà notato che ad ogni giro di pista venivano
calati i 7 simboli delle uova e dei delfini, posti su un’altana come contagiri. I giochi
circensi delle corse dei cavalli, prima che si profanassero, avevano un significato
rituale, identico a quello della forza generatrice e della gestazione creatrice. Ogni
giro di pista rappresentava il compimento di un ciclo vitale, per cui un uovo veniva
calato e così un delfino, quale guizzo seminale della quadriga della vita nel mondo
del divenire, per ogni giro compiuto ce n’era pronto un altro, un altro uovo, un altro
delfino. Il percorso ellittico della pista sanciva i limiti cosmici entro cui la spinta
vitale doveva estrinsecarsi. Dalle gabbie, non senza significato dette carceres - di cui
il ‘canapo’ del Palio di Siena è uno sbiadito ricordo - i cocchi volavano con impeto
ribollente per estinguersi poi alla meta, tornando a ciò da cui avevano avuto origine.
Riconsiderare la scena del film o assistere al forsennato dinamismo del Palio alla
luce di queste considerazioni, potrebbe permettere all’uomo moderno di
riapprossimarsi in maniera nuova agli antichi riti misterici dei nostri antenati. Forse
la quadriga con Dioniso, Arione e il delfino non si è persa nelle brume del tempo ma,
doppiata la meta, ci corre incontro per una nuova partenza.
DELO ð Iperborei
DIDONEðElissa
DOTTRINE MISTERICHE
I cosiddetti Misteri dell’antico mondo mediterraneo costituivano una dottrina ed una
pratica in forza delle quali l’individuo non era più soggetto senziente e passivo della
Vita, ma ne diventava parte attiva e agente. Questa originaria concezione col tempo
si deformò, in seguito all’influsso di dottrine orientali, fino a giungere, per ultimo,
allo Gnosticismo e allo stesso Cristianesimo; dottrine che postulavano la necessità di
separazione e allontanamento dal corpo per ritrovare una supposta scaturigine
“celeste”. Questa concezione ha fatto credere all’erronea esistenza di un’immortalità
dell’anima trascendente e al fatto che i popoli pre-omerici non vedessero dopo la
morte che il nulla. In realtà era ben chiara la concezione della possibilità di una
trasmigrazione della coscienza e non quella assurda di una reincarnazione, che si
attuava tramite pratiche sciamaniche. E’ comunque difficile tracciare una linea di
demarcazione tra le originarie pratiche sciamaniche e quelle catartiche successive di
importazione orientale all’interno dei culti misterici. Si potrebbe ritenere che la
demarcazione più autentica possa essere quella tra Misteri che si rifacevano ad una
figura umana, come l’Orfismo o il Pitagorismo e Misteri direttamente gestiti da un
Dio, come quelli di Dioniso. Non è trascurabile il fatto dell’importanza che si dava
dai primi alla testa o al teschio, né al fatto di seppellire una testa umana recisa
nell’atto di fondare una città; poiché tale atto potrebbe avere un significato
ideologico preciso. Diamo un elenco dei più noti culti misterici dell’Antichità:
- Misteri di Iside e Osiride
- Misteri di Adone
- Misteri di Mithra
- Misteri di Cibele e di Attis
- Misteri di Artemide
- Misteri del Senato e di Bellona
- Misteri etruschi
- Misteri di Zeus Còmyro
- Misteri di Kotys, Bendis e Brauronia
- Misteri di Samotracia
- Misteri dei Cabiri,
- Misteri dei Coribanti e dei Grandi Dei
- Misteri di Kronos e dei Titani
- Misteri di Zeus
- Misteri di Ecate
- Misteri dei Dioscuri
- Misteri di Antinoo
- Misteri di Driope
- Misterio di Era
- Misteri di Sagra e Alimunte
- Misteri delle Chariti
- Misteri di Afrodite
- Misteri di Dioniso
- Misteri di Atena
- Misteri di Demetra e Kore

Tra le dottrine misteriche l’ORFISMO fu una delle più antiche ma, forse per questo,
anche più imperfettamente conosciute. Pare derivasse dai carmi di Orfeo (che non ci
sono giunti) o da quelli di Museo. Pare che principi dottrinali importanti fossero la
necessità dell’astensione dai cibi carnei, la metempsicosi, il compimento di atti
rituali purificatori. L’elemento innovativo era che l’orfismo si fondava su un’ampia
messe di testi scritti, il che farebbe pensare ad un’origine orientale, comunque
estranea alla più antica spiritualità mediterranea, la quale coltivava l’immediatezza
con la Natura e non la mediazione razionalizzante delle scritture. La vicenda mitica
che vede Orfeo fatto a pezzi dalle donne che lo accusano di misoginia è senz’altro
significativa per quest’ottica che vede la Liberazione nell’allontanamento dalla
Materia. Per quanto riguarda la figura di Museo, poco si può dire di autentico tranne
che non si può non collegare il suo nome con quello delle Muse, figlie di
Mnemosyne (la Memoria) e la loro relazione col mondo dell'ispirazione razionale.
Museo potrebbe essere la versione e l’appropriazione “nordico-aria” del preesistente
culto delle Muse, che venivano venerate originariamente sui monti. Ciò potrebbbe
far pensare che si trattasse di una sorta particolare di ninfe, le Oreadi. Con la
razionalizzazione o se si preferisce con il venir meno dell’ispirazione razionale, le
Muse vennero cultuate solamente nel museo (gr. Mousaion), che da esse trae il
nome, che altro non è che la tomba dell’ispirazione razionale. A Roma le Muse
venivano assimilate alle latine Camene. Infine non si può non mettere in rapporto
Museo/Muse con quella radice semantica che designa la razionalità, e da cui
vengono parole come memoria, mese, misura, Minosse, Mosè, Menes ecc. Agli
antipodi temporali dell’Orfismo ma con esso imparentato per il fatto di avere nel suo
Iniziatore una figura “umana” è il DIONISISMO trae invece la sua scaturigine dalla
ierofanìa che fece di se stesso agli uomini Dioniso, dio dell’ebrezza e dell’estasi
mistiche. Era questo un culto assolutamente in-urbano, tanto che i riferimenti mitici
ci mostrano come la possessione dionisiaca inducesse i seguaci ad abbandonare le
costumanze cittadine e a recarsi a folleggiare nei boschi. Inoltre tale culto induceva
le donne ad abbandonare il regime di sudditanza patriarcale che le vedeva
“prigioniere” della casa e della famiglia. Tali motivi indussero la società greca
nordico-aria ad ostacolare per quanto potè l’affermarsi del culto di Dioniso. Da dove
veniva tale culto? Apparentemente dalla Tracia e dall’Anatolia ma in realtà ogni
regione dell’ecumene mediterraneo aveva un suo Dioniso autoctono, un dio
particolare dell’immedesimazione pànica con la natura. Il ritrovamento del suo nome
in una tavoletta micenea fa pensare che la sua origine, con tale nome appunto, fosse
cretese. Apparentemente sradicato dall’Ellade in seguito alle invasioni achee e
doriche, questo dionisismo stanziale greco riemerse prepotentemente, sull’onda di
spinta offerto da un dionisismo tracio-anatolico, poiché si tratta di un impulso
primario dell’essere umano. Le più antiche feste ufficiali del dionisismo erano le
Antesterìe (= feste dei fiori) mentre i suoi seguaci in epoca classica, stante il suo
culto privato, si riunivano in specifiche confraternite, i Thiasi. Il culto classico e
misterico di Dioniso è però notevolmente snaturato rispetto ai suoi presupposti
originali, come bene ha evidenziato in un suo libro R. Merkelbach[1]. Era diventato
una specie di agriturismo da sagra paesana, del tutto inoffensivo dal punto di vista
ideologico. L’originario dionisismo, come via misterica e pre-misterica, consisteva
nell’immedesimazione e nella spersonalizzazione del myste con l’energia maschile
della natura a primavera, libera e indiscriminata. Il Dio era visto assumere svariate
metamorfosi di potenza, vagare per i boschi accompagnato da un celebre corteo,
formato da umani ed esseri semi-ferini, al suono di ritmi selvaggi ed in preda
all’esaltazione bacchica, tanto che quest’ultima non era esente, talvolta, da fenomeni
estremi di efferata crudeltà. Tuttavia questi ultimi episodi potrebbero trovare una
loro ragione in un influsso orfico ed esotico, estraneo al dionisismo più originario.
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[1] R. Merkelbach: I Misteri di Dioniso. ECIG, Genova 1991: “La vita dei campi
come l’immaginavano i mysti di Dioniso era una vita di pace, prosperità e felicità.
Volevano essere pienamente felici sotto tutti gli aspetti, in lieta compagnia con gli
amici, mangiando bene e bevendo meglio, godendo delle gioie dell’amore, riposando
comodamente e liberandosi dal fracasso e dalle preoccupazioni della vita quotidiana.
Ciò che volevano era, in termini greci, tryfé. I dizionari traducono questo vocabolo
con crapula, voluttà, mollezza, lussuria. (…) Se si vuole comprendere la religione di
Dioniso bisogna sospendere ogni giudizio morale.2 (p.81)
ELISSA
(dal fen. Alizah = la gioconda) Più conosciuta come Didone era la regina fondatrice
di Cartagine. La sua vicenda è troppo nota per essere qui ripresa mentre ci
soffermeremo sugli aspetti forse più genuini del suo mito, messi in secondo piano
dalla notorietà dell’invenzione di Virgilio. Contrasta con l’origine del suo nome la
vicenda tragica della sua vita. Probabilmente la sua figura si confonde con quello
della sorella Anna che una tradizione pre-virgiliana riferita da Varrone identifica
come amante di Enea e per quest’ultimo uccisasi. Per altri Anna sarebbe giunta in
Italia ma, respinta dai Latini, sarebbe morta nelle acque del fiume Numicio
diventandone la ninfa-amante. Veniva identificata alla dea Anna Perenna che si
festeggiava nei pressi di Roma la prima lunazione di primavera con cerimonie
orgiastiche. A differenza dell’Iliade e dell’Odissea, il poema di Virgilio è anche
un’operazione politica volta a costruire il mito imperiale e fatale di Roma, su
ispirazione di Ottaviano Augusto. L’Eneide è infatti un’Odissea il cui approdo finale
è costituito dalla potenza di Roma mentre l’opera omerica più modestamente si
conclude con il ritorno dell’eroe greco alla dimensione della vita tradizionale nella
rustica e “ristretta” isola di Itaca. Uno dei “capitoli” del lavoro virgiliano è
consacrato alla figura di Didone e ciò serve a colui che ha venduto il proprio càlamo
al potere dominante per elaborare vieppiù il mito romano. Per fare ciò Virgilio ha
dovuto stravolgere l’originario mito fenicio della Regina Didone (Elissa) e
configurare una vicenda in cui venisse esaltata la concezione patriarcale e
“prussiana” della vita. L’originaria vicenda di Didone si riferiva al mito di
fondazione della città di Cartagine, di cui ella è protagonista, incarnando con
sacralità e pienezza il potere regale, ed è una donna coraggiosa, giusta ed
intelligente. Un principio di potenza ed energia femminile sta nell’atto fondativo di
Cartagine. Virgilio fa irruzione nello scenario figurativo di quest’ordine simbolico e
lo riconfigura frapponendo due tipi diversi di fondazione: quello di Cartagine con
quello di Roma. La vicenda amorosa fra i due protagonisti, anziché sfociare
nell’esito tradizionale dell’unione complementare di una potente e feconda Diade
maschile-femminile, abortisce nell’ideale politico avulso dalla Natura, che vede in
Didone le tentazioni della lussuria africana e orientale, di quella presunta vanitas
levantina concettualizzata dal francese Dauge. Ma Didone non è come Virgilio l’ha
voluta presentare ai suoi lettori. E’ vero che questa presentazione è sottilmente
indiretta, cioè visibile solo attraverso l’atteggiamento di Enea - poiché nel poema la
regina cartaginese, in se stessa, appare piacevolmente come una regina potente e
generosa -, ma non per questo meno evidente. Didone è tutt’altro che una femmina
lussuriosa ma una donna fedele alla memoria del marito e la regina sapiente che
viene indotta alla passione amorosa da Dei favorevoli ad Enea. Il suo suicidio sulla
pira non può essere dettato dalla passione ma è un atto rituale di grande dignità -
quando è vissuto consapevolmente e non al modo coatto degli omicidi rituali delle
donne indù di una volta, focalizzando nella giusta luce quella che per noi politeisti
non matriarcali è una venerata Antica Madre. Nel mito originario di Didone, uccisasi
sulla pira per non andare in sposa ad un re locale, nonchè esportatrice dalla fenicia
Tiro del culto di Ercole (anch'esso uccisosi su una pira funebre), si può ravvisare la
stessa origine del sacrificio umano cartaginese del fuoco.
http://www.queendido.org/
ERITTONIO
(gr. Erichtonios) - Il dio Vulcano, un giorno che si trovò di fronte alla dea Atena, fu
colto dal desiderio di possederla. La resistenza della dea fu tale, o il parossismo del
dio così veemente, che non ci fu coito e Vulcano eiaculò (P. Grimal scrive
cripticamente che si trattò di “un desiderio di Efesto per Atena”...) su una coscia
della dea. Quest’ultima, ripugnata, raccolse quello sperma con un fiocco di lana e lo
gettò sulla terra. La Terra ne restò ingravidata e generò appunto Erittonio,
dall’aspetto deforme come il padre e, pare, addirittura anguimorfo, rappresentando in
tal modo, anch’esso, il fuoco o sole tellurico. Il nome di Erittonio (“terra dell’erica”)
può forse derivare dal fatto che questi, allorchè fu gettato da Atena sulla terra, cadde
su un monte ricoperto di erica, pianta altamente mellifera e quindi connessa,
pur’essa, con il simbolismo spermatico (miele). Il Mistero sessuale racchiuso dal
mito di Erittonio può essere l’origine del culto segreto eleusino, per quel che
concerne il divieto di mostrare apertamente il contenuto della mistica cesta, in
riferimento alla vicenda delle Cecropidi. In questo mito, infatti, Erittonio era stato
allevato nascosto dentro una cassa dalle tre figlie di Cecrope, con il divieto di
guardare all’interno. Cos’è che non si doveva guardare? Forse la simbolizzazione
dell’atto autocratico che aveva portato alla nascita di Erittonio e della stessa Atena?
Erittonio era venerato ad Atene sotto forma di serpente e la tradizione vuole che
avesse ricevuto in dono da Atena due gocce di sangue della Gorgone, una malefica e
l’altra benefica. Questo è un altro dettaglio che fa di lui il Signore dell’energia
tellurica bivalente. Con la secolarizzazione del processo mitico, Erittonio venne
umanizzato nella figura di Eretteo, re di Atene.
EUROPA
(lett. Dall’ampio volto cioè la luna piena) – Fanciulla di stirpe cananea o africana
rapita da Zeus sotto forma di toro bianco dalla città di Tiro e condotta per mare
nell’isola di Creta, dove generò Minosse. Qui avrebbe sposato il re degli isolani,
Asterione, (curiosamente era anche il nome del ðMinotauro) che adottando la
progenie da lei avuta da Zeus avrebbe dato inizio alla civiltà minoica. Quindi il mito
ci vuole palesare che questa civiltà nacque dal fecondo incrocio di elementi pre-
ariani e pre-semitici con la popolazione stanziale presistente. Da notare che la radice
della parola Tiro è la stessa di Toro e che il padre di Europa, Agenore, sarebbe lì
giunto proveniente dall’Egitto, all’epoca di grandi spostamenti di popolazioni in tutta
l’area mediterranea centro-orientale.
FARFALLA
Tra gli esseri animati la farfalla è quella che presenta il caso più singolare in quanto a
capacità di mutare aspetto; da verme incapace di muoversi dentro un bozzolo a
stupendo insetto, quello che noi tutti ammiriamo ormai solo lontani dai luoghi
abitati, associandolo ad agresti ricordi d’infanzia. La farfalla è l’esempio forse più
strabiliante di metamorfosi, ovvero la capacità di mutare aspetto conservando però la
capacità di protrarre l’esistenza senza una soluzione di continuità. Certamente gli
antichi si devono essere domandati se anche l’uomo, in qualche modo, non avesse
potuto mutare di forma, abbandonando quella corporea per assumerne altre di diversa
natura. Forse da quest’interrogativo è sorta l’attuale credenza nella reincarnazione
che, tuttavia, si limita a postulare il passaggio dell’individualità umana in una
indefinita serie di un’unica forma: quella corporea. E’ problematico risolvere la
questione affermando l’esistenza del trapasso di una coscienza in un’altra nascita o,
invece, la captazione di parti dell’individualità di un defunto da parte di un nuovo
essere. I nostri antenati, tuttavia, osservando che i popoli si riproducono nel tempo
così come gli animali e le piante, mantenendo pressochè integre le caratteristiche
originarie, tennero per certo che almeno la seconda possibilità fosse indubitabile.
Quale animale meglio della farfalla poteva sancire nel simbolismo tale dottrina?
Come oggi noi diamo somma importanza all’accumulo del denaro così una volta, nel
mondo politeista, era massima cura per le società celebrare e perpetuare il costante
procedere della Vita, il suo rigenerarsi in forme differenti ma della stessa essenza.
Abbiamo già detto di quest’idea trattando della leggenda che dalle carcasse dei
bovidi in putrefazione sortivano alla vita sciami di api. In effetti, a prima vista,
allorchè si vede della carne in avanzata putrefazione, ricoperta da nugoli di mosche e
vermi, viene spontaneo pensare che quella poltiglia ributtante è proprio il focolaio da
cui si sprigionerà, seppure virulentemente, dell’altra vita. Così la stessa archeologia
ci ha restituito molte raffigurazioni di api associate stranamente con le teste taurine e,
ancor più, con le farfalle. Quest’ultime hanno propiziato senza volerlo l’insorgere di
un comico equivoco: la loro stilizzazione con le antenne e le teste a forma di casco a
fatto credere a molti sprovveduti che si trattasse di antichissime raffigurazioni di
extraterrestri; ne sarebbero prova le inconfondibili antenne-radio! D’altronde è
risaputo che chi ha delle fissazioni ideologiche, coniuga le manifestazioni della vita
adeguandole a queste fissazioni, cosicchè è in grado di spiegare tutto in base alle
proprie idee preconcette. Ne èstato il caso per un brillante scrittore di esoterismo:
Renè Guénon, che ci è venuto in mente proprio perchè non ha saputo riconoscere il
simbolo della farfalla nell’ascia cretese. I cretesi avevano stilizzato la figura della
dea-farfalla in una forma tale che,successivamente, questa si eraconfusa con la
raffigurazione di una doppia ascia. Così come accade talvolta che si smarrisca il
ricordo della funzione di un simbolo, al punto che questo poi assume tutt’altro
significato, così è avvenuto per la ‘labrys’ cretese, che tuttavia ha conservato la
traccia di quest’inversione simbolica nelle testimonianze archeologiche. Il Guénon
l’ha invece voluta assimilare all’ascia semplice, che lui ritiene essere un simbolo
della folgore che scende e frange. L’immagine della dea-farfalla, archetipo della vita
indistruttibile, è attestata nell’inconscio collettivo attraverso le figurazioni delle
gentili abitatrici dei boschi, le Silfidi, spiriti aerei che qualcuno ha anche creduto di
poter fotografare. E’ sufficiente scorrere un libro illustrato di fiabe per sincerarsene.
La dea nella sua epifania come farfalla è stilizzata da una retta verticale (il ‘manico
dell’ascia’), con le braccia a forma di ali di farfalla aperte ai lati. Una probante
iconografia è riportata nel libro da noi spesso citato: Il Linguaggio della Dea, di
Marija Gimbutas che così scrive (p. 275): “La farfalla, era una delle numerose
manifestazioni sotto forma di insetto della Dea nelle cui mani era la magica
trasformazione dalla morte alla vita. Nelle credenze popolari la farfalla è diventata
oggi creatura demoniaca. Se uccidi una farfalla, uccidi una strega, dice un proverbio
serbo”. Pur sapendo che i serbi sono capaci di prendersela anche con le farfalle, il
loro “sacrificio” è attestato in forma allegorica già nell’antichità, come ci mostra una
base marmorea conservata nei Musei Vaticani: uno dei suoi lati raffigura due
Amorini che, piangendo, bruciano una farfalla...
FIUMI e LAGHI
Nell’antichità i corsi d’acqua avevano tutti una caratterizzazione divina maschile a
differenza delle sorgenti e delle polle, viste come femminili. L’idea mascolina deriva
dalla similitudine che spontaneamente doveva collegare all’idea dell’irrorazione
spermatica fecondante, così come, in latino flumen, “fiume” è analogo a “fulmen”
“fulmine”. In ciò si nota agevolmente l’idea comune di ciò che scorre, saetta e guizza
con maschile velocità, a differenza della calma e della placida quiete di molti luoghi
sorgivi che, spesso, danno luogo al fenomeno dell’impaludamento. Ovunque c’è
ristagno di acque lì vi aleggia un principio femminile. La palude, il lago sono da
sempre la residenza di una divinità femminile.
Acheloo è il dio del fiume più importante della Grecia, che nasce dal Pindo e si getta
nello Ionio. Contese ad Eracle la mano di Deianira e nella lotta che ne seguì l’eroe
gli spezzò un corno, dato che il dio aveva assunto in una fase della lotta le sembianze
di un toro. Le ninfe delle acque tramutarono questo corno nel Corno
dell’Abbondanza (Cornucopia), lasciando così denotare il valore fecondativo e
moltiplicativo di quel potere acqueo. Era venerato nell’Ellade come il protettore di
tutte le acque limpide e fresche e immaginato con testa taurina in sembianti umane.
L’Acheronte è il principale dei tre fiumi degli inferi, in cui confluiscono gli altri due.
Alfeo è il nume del maggior fiume del Peloponneso. In illo tempore si invaghì della
ninfa Aretusa ed in seguito ispirò lo scrittore Pierre Klossowski con una Rivelazione
che merita di essere trascritta per il suo alto valore teologico: "Fu quando Alfèo dalla
barba stillante gli sorse davanti, dopo aver offerto una forma intelligibile. Così si
rivolse all’ozioso cacciatore: “Lascia, Atteone, che mi preoccupi nel vederti
perplesso. Grazie alla mia lunga esperienza fluviale, potrò forse impartirti qualche
consiglio. Il momento è propizio più di quanto tu non creda. Ho concupito prima di
te, e come tanti prima di te, l’imprendibile Cacciatrice, l’inafferrabile Vergine,
sebbene essa sia partecipe della divinità, mentre io sono soltanto il dio di un fiume.
Se per conversare gli dei amano assumere l’aspetto dei mortali, riflesso della loro
essenza, a volte per affrontarsi piace loro travestirsi altrimenti. Impari fu per me la
lotta: stanco della mia fluidità, mi era dato disporre soltanto delle sembianze in cui
mi vedi, mentre lei poteva sottrarsi ad ogni mia blandizia con innumerevoli sortilegi.
Provocando i miei più torvi pensieri, continuava ad apparirmi tuttavia sotto l’ aspetto
dell’agile fanciulla che guatavo appostato ai margini del suo territorio di caccia. E fui
tanto pazzo, credendo volesse lusingarmi, da prendere perciò la forma di un mortale,
deciso a sedurla. Una notte mi confusi nella ronda delle sue ninfe, ma, con malizia
infantile, lei aveva già parato la mia mossa: tutte le ninfe si erano bruttato il volto di
argilla, sicchè andai cercandola invano, vagando dall’una all’altra, e le passai spesso
davanti senza distinguerla, lei che di me si beffava e sorrideva sotto quella maschera
di terra. Tornato al greto dei miei umili esordi, la vidi un giorno comparire da ninfa
Aretusa. Si accostò esitante, si tolse i panni ed infine si affidò alle mie acque ancora
lente, all’ombra dei salici e dei pioppi. Non ressi a vederla nuda, ma velata dalla
nudità tangibile di Aretusa, mentre turbava con le mani e le cosce la fluida pace dei
miei umori repressi. Per cui cedetti di nuovo al folle desiderio di mutarmi in uomo e
di offrire la mia virilità. Nuda, lei fugge, ma l’immagine della mia nudità imprime
alle mie membra lo stesso moto impetuoso dei flutti che ora scorrono veloci. Ardisco
invocarla col nome convenuto: Aretusa, le grido, dove fuggi, Aretusa? E intanto
straripo. Più attraversiamo valli e pianure, tra rocce e poggi boscosi, più supero
ostacoli, più il paesaggio favorisce la mia corsa amorosa. A volte mi espando, a volte
mi assottiglio e sprofondo nel mio letto. La inseguo fino in fondo alle caverne dove
si era nascosta ansimante, e forse mi aspettava: abbandonando l’incantevole aspetto
che mi aveva oltremodo eccitato, accetta allora l’omaggio della mia vera natura. Le
sue forme si liquefanno diventando trasparenti, si mischiano alle mie: la distinguo
ora per l’impetuosa corrente che mi trascina, ma mentre placa così il mio tumultuare
sotterraneo, eccola scavare precipizi e scorrere tutta sino a Ortigia, lungo altre oscure
voragini. Là risale alla luce e si ritrova limpida e casta. Da questa mia avventatezza,
da questo mio straripare, trassi, Atteone, il seguente, proficuo insegnamento: il
desiderio culmina quando la forma cui aspira si dissolve. Per ridurci al nostro moto
tranquillo, il potere divino trasforma l’oggetto del nostro desiderio, ma fa sì che si
riveli in quel potere medesimo e che muti simultaneo a ciò che perseguiva. Sta per
cogliere l’oggetto trasformato, ma questo è così intrinseco al gesto di afferrarlo che il
desiderio si placa, si affida alla sua legge: legge che non consiste nel trattenersi o
rinunciare a espandersi al punto di stagnare, bensì nel trionfare di se stessi,
scaturendo in eterno. Così ho superato la prova più grave cui debba sottoporsi un dio
fluviale, il pericolo di inaridirsi, ovvero di chiudersi in un tetro mutismo. Vittorioso,
continuo a muggire: e Aretusa è la mia ricompensa”. (P. Klossowski : Il Bagno di
Diana, p 79. ES, Milano 1993)
GALLO
(gr. alektryon) Quando si parla del gallo nel mondo antico il primo ricordo che viene
alla mente è senz’altro quello dell’episodio in cui Socrate, poco prima di morire,
raccomanda ai suoi fedeli di sacrificare un gallo ad Esculapio. E’evidente il
significato, per analogia, dell’animale che annuncia il sole che succede alle tenebre
notturne e il significato di rinascita spirituale che gli viene così connesso, non solo,
ma anche di trionfo della verità sulla menzogna e l’ingiustizia come, da ultimo, è
attestato nei Vangeli con il canto del gallo che smaschera la menzogna di Pietro.
Tuttavia quest’animale non fa parte della più antica storia mediterranea e pare che
abbia fatto la sua comparsa nel mondo greco ben dopo Omero, giunto al seguito
dell’esercito persiano invasore, tant’è che il primo nome con cui venne conosciuto fu
quello di uccello persiano o uccello di Media. Comunque verso il 500 a.c. il gallo
entra a far parte del simbolismo, così come ci testimonia la documentazione
archeologica in una città della Magna Grecia: Locri Epizefiri. E’ lo stesso periodo in
cui si ha anche la prima testimonianza letteraria sull’esistenza dell’animale, in
Teognide (I, 864). L’animale era connesso fin dall’inizio con una facoltà oracolare -
legata al simbolismo persiano-mazdeo della vittoria del Bene sul Male -, tanto che
nella Storia degli Animali di Claudio Eliano (IV, 29) è riportata la curiosa notizia che
l’uccello “ai raggi lunari appare invasato dalla divinità”. Una delle sedi oracolari era
l’antro di Trofonio, in Beozia, connesso con i culti tellurici e dedicato ad uno Zeus
Trophonius analogo ad Hermes. Anche nell’isola di Creta il gallo oracolare era
connesso al culto oracolare in una grotta di Zeus Ideo, come testimoniano degli
stateri d’argento rinvenuti a Festo e databili al 322-300 a.c., ed anche un frammento
di una tragedia di Ione (V secolo a.c.), in cui il gallo viene esplicitamente qualificato
con l’aggettivo di ideo e associato ad una danza sacra (Ateneo IV, 185-85). Questa
danza pare che abbia attinenza con la notizia summenzionata da Eliano circa i
movimenti frenetici dell’animale sotto l’influsso dei raggi lunari. Il verbo usato da
Eliano, skirtào, è infatti analogo alla moderna parola che designa una celebre danza,
il sirtaki. Un’altra danza era invece eseguita sulla falsariga dei movimenti di un altro
uccello, la pernice. Il gallo rientra nel novero degli animali oracolari, cioè
preannunciatori di eventi non, come per gli uccelli in genere, in base al loro volo, ma
in base al loro canto (alektryonphonìa in greco e gallicinium in latino). Plinio (X,
49,24), riferisce infatti che i canti dei galli hanno virtù oracolare “se avvengono fuori
dell’ora consueta o la sera: cantando per intere notti, predissero agli abitanti della
Beozia quella loro famosa vittoria contro gli Spartani”. Cicerone tuttavia, contestava
questa facoltà che, pur essendo egli anche Pontefice, fu osservare che non è
inconsueto da parte dell’animale il cantare anche di notte, per motivi del tutto
empirici.
GATTO
Lo scrittore francese J.L. Bernard ha ritenuto con abbondante fantasia nonché con
una certa confusione interpretativa (J.L. Bernard: Il Fuoco e la Piramide. Moizzi,
Milano 1977, p.138), che il gatto domestico non fosse altro che una selezione operata
dai sacerdoti egizi al fine di avere un animale “magico”. E’ comunque vero che
questo piccolo felino (di colore nero nella fattispecie) è sempre stato visto
nell’immaginario popolare come l’animale tipico della strega. Tuttavia fino all’XIª
Dinastia del gatto domestico non c’era traccia in Egitto, che era invece popolato,
nelle boscaglie lungo il Nilo dal gatto selvatico inaddomesticabile. Quest’ultimo,
cibandosi per lo più di serpenti, era considerato un animale “solare” ed in questo
senso venerato. Oggi pochi di noi vedrebbero nel gatto un animale solare ma, in base
alla tradizione conosciuta in Europa, ne facciamo un animale più che altro analogo a
Venere e alla Luna. Ed in questo senso anche gli egizi, quando selezionarono il gatto
egiziano da due varietà orientali - di cui l’attua le gatto abissinico è il tipo che più gli
si approssima -, fecero altrettanto rendendolo animale sacro alla dea Bastet e, come
per l’Ibis, ne mummificarono a migliaia. “Bastet, dea venerata particolarmente a
Bubasti, è associata fin dall’antichità alle dee leonesse Tefnut e Sekhmet. Durante
l’Antico Regno era rappresentata con una testa leonina. Da una iscrizione di
Ramesse IV sappiamo che durante la festa di Bastet la caccia al leone era proibita. La
dea era considerata madre del dio-leone Miysis, ‘dallo sguardo feroce’, so-
prannominato ‘signore dei massacri’. Nel Medio Regno il gatto divenne l’animale
sacro di Bastet, e dal Nuovo Regno in poi la dea fu raffigurata con una testa di gatta.
Il suo carattere si fece sempre più gentile; fu associata alla luna, e nei miti divenne
l’occhio della luna. L’antico aspetto di divinità ‘furente’ passò alla dea Sekhmet, che
incarnò così il lato negativo e distruttivo di Bastet.” (M. Lurker: Dizionario dei
simboli e delle divinità egizie. Ubaldini, Roma 1995). Era di taglia considerevole
rispetto a quelli moderni che conosciamo e venIva impiegato dagli egiziani per delle
battute di caccia, nonché per compiti di guardia al pari di un cane! Il gatto egiziano è
da tempo scomparso: Bernard riferisce che sopravvive, probabilmente cambiato,
nell’isola balearica di Ibiza, dove l’avrebbero importato i Fenici. E’ più probabile
che gli egizi avessero notato il fatto che l’animale è un sorprendente conduttore di
particolari energie psichiche umane nonchè capace di “digerire” i ristagni fluidici, gli
psichismi larvali. Da sempre, comunque, è stato associato con determinate energie
erotiche, tant’è vero che nel linguaggio comune, per evidenziare la vivacità sessuale
di una donna, si dice che “è una gatta”. Bernard, sempre così fecondo di teorie
indimostrabili, sostiene addirittura che le pratiche sessuali tantriche siano derivate
dall’arte sacra erotica egiziana. E’ vero peraltro che nell’Antichità esistettero degli
speciali collegi di sacerdotesse (prostitute sacre) esperte di erotismo e in Egitto
queste si raccoglievano attorno alla figura di Bastet, la dea-gatta. Sono passati alla
storia gli aspetti più stregoneschi di questi sodalizi. Ecco cosa ne scrive Bernard (cit.
p.170): “In Egitto, la stregoneria di Bastet si inscriveva in una magia naturale assai
ben più vasta e complessa: intercorreva un’alleanza di tipo animistico tra la
confraternita delle cortigiane e l’anima felina, sulla fattispecie dei gemellaggi
animistici dell’Africa nera (uomini-leoni, uomini-pantere). Il legame telepatico
conferiva alla donna una possibilità di divinizzazione dell’erotismo poiché l’anima
felina si ricollega al cuore del cielo (il Leone zodiacale), e inoltre le apportava una
sensualità altamente raffinata e crudele e senza dubbio, anche talune facoltà
paranormali. Il gatto si sdoppia nel sonno; un sonno profondo, letargico,
caratteristico di un animale che viene considerato magnetico per eccellenza. In altri
termini, il gatto possiede un doppio estremamente dinamico e abbastanza autonomo
che egli si rivela in grado di proiettare al di fuori del corpo. Le nostre fattucchiere di
epoca medioevale pretendevano in questo modo di viaggiare durante il sonno dopo
essersi istupidito il corpo con farmaci e tisane a base di droghe. Ognuna di loro
possedeva un gatto con il quale stringeva un patto di alleanza — un gatto stregone,
da considerare sotto un risvolto quasi umano. Le tradizioni dell’Egitto moderno
evocano ancora le singolari sacerdotesse di Bastet, alcune delle quali finivano per
incarnare fisionomie da gatto: occhi verdi, viso triangolare... Da parte loro, i Negri
dell’Africa centrale e meridionale si dicono convinti dell’esistenza di tribù di donne-
gatto che vivono all’interno di foreste impenetrabili: una specie di Amazzoni di
tutt’altra natura scese a compromesso con il gatto; ma con il gatto selvatico.
Provviste, al pari di quest’ultimo, di una ferocia totale e a loro modo cariche di
sensualità, giungono al punto — si dice — di rapire i maschi per poi violentarli!
Senza ricorrere a paragoni con i satiri mitologici dagli attributi femminili, ma
prendendo a testimonianza le tradizioni connesse al culto di Ptah, le stesse
sacerdotesse di Bastet ci appaiono di una sensualità largamente superiore alle
correnti facoltà amatorie umane”.
GIGANTI
Esseri violenti e primitivi figli di Gea, la terra, dalle straordinarie dimensioni e dalla
forza possente e spesso antropofaghi. Alcuni di essi erano detti Centimani. Tra i
Giganti si annoveravano i Ciclopi, il più famoso dei quali è Polifemo[1], dotati di un
unico occhio frontale. L’origine dei Ciclopi è piuttosto oscura; probabilmente erano
dei collegi/corporazioni di fabbri e forgiatori, in stretta relazione con divinità
vulcaniche e residenti presso isole vulcaniche (la parola greca Kyklops potrebbe
riferirsi alla forma del cratere vulcanico). Tutti questi Giganti prima che l’ideologia
nordico-aria li relegasse al ruolo di divinità inferiori e ottuse dovettero forse essere
divinità aborigene mediterranee presistenti e conosciute col nome di Titani e
Titanesse. Tra i più noti Giganti vi fu Anteo, il cui trasparente nome (lett. fiore) lo
identifica chairamente come una divinità greca pre-ellenica. Come tutti i Giganti
traeva la sua forza dal contatto con la Madre Terra ma Ercole lo uccise tenendolo
sollevato dal suolo e strozzandolo.
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[1] Polifemo fu anche capace di innamorarsi ma, haimè, la ninfa Galatea non
corrispose il suo amore, come ci narra Tocrito nell’Idillio XI – la versione forse più
antica del tema narrativo de “la bella e la bestia”.
GIORNI
Nel calendario romano erano chiamati giorni alcionii quelli immediatamente
successivi al solstizio invernale. In questi giorni venivano sospese tutte le liti e le
contese fra cittadini, in analogia con la credenza che in quei giorni gli alcioni, uccelli
marini, si riposassero dalle loro fatiche.
IBIS
L’uccello sacro degli egizi, l’ibis e le sue varietà, era famoso perché considerato, a
torto o a ragione, un gran divoratore di serpenti. Per analogia lo si considerò quindi
come il simbolo di quella natura umana che tende a sbarazzarsi della propria parte
più terrestre e inferiore, anche se questa “inferiorità” non era concepita nei termini
moralistici con cui la si può intendere. Comunque questo aspetto era accentuato dal
fatto che l’animale si cibava anche di carogne e di qualsiasi sudiciume mentre, per
bere, cercava solo acqua limpida, cosicchè i sacerdoti egizi, per le loro lustrazioni,
adoperavano non acqua pura ma acqua in cui si era dissetato un ibis, ritenendo che
fosse consustanziale all’animale un potere catartico. L’ibis era l’immagine
teriomorfa del dio Thot (Mercurio), in quanto rappresentavano il potere di passaggio
da una natura materiale ad una natura più spirituale. Per spirituale si deve intendere
non qualcosa di astratto e sfumato – come nell’interpretazione di noi moderni – ma
semplicemente il dominio delle forme. Sulla sommità del capo del dio Thot, infatti,
campeggiava sempre la falce di luna crescente. In Egitto questi uccelli venivano
allevati in massa in un lago, uccisi, mummificati e venduti ai pellegrini affinchè
potessero porli accanto alla sepoltura dei propri defunti o tenerseli in casa come
ricettacolo di sacralità! Una spiegazione più esoterica potrebbe vedere in queste
mummificazioni di accompagnamento un rito per fornire all’astrale del defunto una
maggiore forza energetica. Ciò non è così fantasioso come si potrebbe pensare,
poiché certi sacrifici umani avevano proprio questo scopo anche se popolarmente si
davano spiegazioni del tutto errate, come nel caso di servitori uccisi per
“accompagnare e servire” il loro padrone.
IEROPORNIA
Gli Antichi spiegavano la nascita e l’esistenza della prostituzione sacra con un
racconto mitico e, precisamente, con una vendetta. Al tempo in cui la Lidia viveva
anni di pace e prosperità, nacque tra gli uomini l’idea di disonorare delle donne
straniere. Tra esse c’era Onfale, la futura regina delle Amazzoni. Costei non si perse
d’animo e attaccò la Lidia con un esercito, sconfiggendone la nazione. Per
vendicarsi, costrinse le figlie dei Lidi a prostituirsi nel luogo stesso in cui questi
avevano violentato le donne straniere (Ateneo: 50,13). Naturalmente si tratta di una
“spiegazione’ artefatta ideata per andare incontro all’abito mentale dei greci dei
tempi cosiddetti classici. La realtà è che questa cerimonia era l’eco di più antichi
rituali rigenerativi, in cui la donna-sacerdotessa era vista congiungersi anche con
figure zoomorfiche, come dovette accadere già nell’antica Creta, dove
l’accoppiamento fra donne e minotauri non aveva nulla di sorprendente, si pensi a
Pasifae. In ogni caso l’effettiva unione sessuale tra la donna e l’animale era
puramente simbolica: essa si presentava nuda di fronte al toro e tutto finiva lì. Solo
in seguito a incomprensioni del simbolismo si potè assistere ad un effettivo
accoppiamento, cosa che risulta soricamente grazie alle severe proibizioni che alcuni
popoli antichi prevedevano nei confronti del delitto di bestialità. Nella Grecia
continentale la prostituzione sacra non ebbe lunga vita, tranne che nella città portuale
di Corinto, grazie ai fitti scambi commerciali intrattenuti con le città del
mediterraneo orientale, dove la sacra prostituzione era accettata da tutti senza
scandalo. Questa sopravvisse fino al 146 a.c., quando i Romani distrussero la città.
Altri luoghi famosi erano Paphos, a Cipro, il monte Erice in Sicilia e Locri in Italia.
In epoca storica le prostitute sacre esercitavano la porneia allo scopo di mettere da
parte la dote necessaria per sposarsi. Anche in questo caso riteniamo che si tratti di
un “adattamento” verificatosi in seguito a profondi mutamenti dell’ordine sociale e
religioso. In origine alla base della pratica rituale doveva esserci senz’altro un
significato magico-religioso. Comunque, in epoca storica, la porneusis, come anche
veniva chiamata, era conosciuta pure per la sua virtualità pronuziale. Che in origine
non vi fossero motivazioni di carattere...economico, lo si evince da ciò che riferiva il
geografo Strabone (Geografia: 11,14,16) a riguardo di un tempio in cui si
consacravano non solo ragazzi e ragazze di condizione servile ma anche le figlie
vergini dei cittadini più abbienti e rispettabili! Giunto il momento del matrimonio,
nessun uomo considerava sconvenientemente la possibilità di maritarsi con una di
loro. Tra i Cananei della Palestina la prostituzione sacra era un rito di fecondità
indispensabile e correntemente praticata fuori degli stessi templi, nelle campagne per
esempio, come pratica di supporto per la buona riuscita degli innesti delle piante da
frutto. Solo con la formazione del popolo d’Israele la pratica venne proibita. E’
infatti scritto nel Deuteronomio (23,18-19): Non vi sia prostituta fra le figlie
d’Israele, nè vi sia prostituto tra i figli d’Israele. Non portare mercede di meretrice
o prezzo di cinedo nella casa del Signore, tuo Dio, per alcun voto, perchè ambedue
sono in abominio al Signore, tuo Dio. Da ciò si evince che in precedenza c’era
l’usanza di portare al tempio il denaro o l’offerta ricevuta in cambio dello ieròs
gamòs. Erodoto (Storie: 1,199), ci informa dettagliatamente su com’era,
esteriormente, la prostituzione sacra a Babilonia: “D’altro canto, la più riprovevole
delle abitudini che ci sono fra i Babilonesi è questa. E’ obbligo che ogni donna del
paese, una volta durante la vita, postasi nel recinto sacro ad Afrodite, si unisca con
uno straniero. Molte che disdegnano di andare mescolate alle altre, in quanto
orgogliose della loro ricchezza, si fanno condurre al tempio da una pariglia su un
carro coperto, e là se ne stanno, avendo dietro di sè numerosa servitù. Per lo più il
rito si svolge così: se ne stanno le donne sedute nel sacro recinto di Afrodite con
una corona di corda intorno al capo: sono in gran numero, perchè mentre alcune
sopraggiungono altre se ne vanno; tra le donne si aprono dei passaggi, delimitati da
corde e rivolti in tutte le direzioni, per i quali si aggirano i forestieri e fanno la loro
scelta. Quando una donna si asside in quel posto, non torna più a casa se prima un
qualche straniero, dopo averle gettato del denaro sulle ginocchia, non si sia a lei
congiunto all’interno del tempio. Nell’atto di gettare il denaro, egli deve
pronunciare questa frase: “Invoco per te la dea Militta”. Militta è il nome che gli
Assiri danno ad Afrodite. La quantità di denaro è quella che è. Non c’è da temere,
infatti, che la donna lo rifiuti: non le è permesso, perchè quel denaro diventa sacro.
Essa segue il primo che glielo getta e non rifiuta nessuno. Dopo essersi data a
quello, fatto un sacrificio espiatorio alla dea, se ne torna a casa, e da quel momento
non potrai offrire mai tanto da poterla avere. Le donne che sono dotate di un bel
viso e di una figura slanciata se ne tornano presto. Quelle, invece, che sono brutte
rimangono lungo tempo senza poter soddisfare la prescrizione di legge; alcune,
infatti, aspettano anche tre o quattro anni. L’attesa di tre o quattro anni era dovuta al
fatto che la porneia avveniva solo in alcuni giorni dell’anno! Erodoto ci ha riferito
delle usanze ormai “secolarizzate” dei suoi tempi, in cui è evidente lo stato di
sudditanza della donna, ma la prostituzione sacra, come abbiamo visto e vedremo più
oltre nel caso dei Cananei e degli Etruschi, era ben altra cosa. Cionondimeno, in virtù
del principio di analogia che regolava la vita del mondo antico, nei templi vi era
posto anche per una prostituzione un po meno sacra, cui sovrintendevano le
ierodule, ovvero le “sacrestane”. A Corinto, a detta di Strabone, ce n’erano più di
mille che ospitavano i pellegrini che dalla città e dal Peloponneso si recavano ad
Atene. Il santuario di Afrodite era infatti situato sull’Acrocorinto, un’altura strategica
per il passaggio dei traffici di terra. Per dare un’idea del buon nome e della notorietà
di quel tempio, basti citare il fatto che il corinzio Xenofonte, vincitore delle
olimpiadi del 464 a.c., donò al tempio cinquanta schiave, per ringraziare Afrodite
della vittoria! Pindaro, scrivendo la 5ª Olimpica, parla di Afrodite (cioè del suo
tempio) come di colei “che permette alle giovani donne ospitali di far cogliere senza
affanno sul loro amabile letto il frutto della loro tenera giovinezza. Come abbiamo
scritto anche in Sicilia, sul monte Erice, si esercitava la porneusis sacra; Quegli
stessi romani che, per motivi militari, avevano raso al suolo Corinto, rispettavano
invece l’istituzione templare sacra a Venere Ericina. Sempre Strabone (6,272) ci
ricorda che sulla collina sacra di Erice, si trova un tempio di Afrodite pieno di
schiave che i Siciliani e gli stranieri offrono alla Dea dopo aver fatto un voto. “In
Grecia, la prostituzione rimase a lungo legata al sacro. Le prostitute che
partecipavano ai culti erano venerate al pari delle Dee. Contribuivano al
rafforzamento delle credenze, al rispetto degli Dei, a volte anche alla prosperità
delle città grazie ai doni che le venivano fatti (Violaine Vanoyeke: La Prostitution en
Grèce et à Rame. Les belles Lettres, Paris 1990). Un’eco del senso magico dei sacri
accoppiamenti l’abbiamo dai riferimenti a queste ierodule come a delle vere e
proprie ministre di culto. Ad esse ci si rivolgeva con rispetto per avere delle
preghiere e dei sacrifici in aiuto ad imprese politiche e militari, come in occasione
delle guerre persiane contro il re Serse. Quando la battaglia arrise ai Greci, le
ierodule di Corinto vennero onorate come dee; si eressero statue ed ex voto in loro
onore, i loro nomi furono scolpiti in un’epigrafe posta nel tempio assieme a
un’epigramma che gli dedicò il poeta Simonide. Più di duecento anni dopo la
distruzione del tempio di Corinto, i cristiani eressero sul posto una chiesa. San Paolo,
nella Lettera ai Corinzi, li rimprovera per averlo fatto su dei luoghi.... infami.
Sacerdotesse o semplici ierodule che fossero, le ministre di Afrodite erano rispettate
in tutta la Grecia certamente di più di quanto non lo fossero le donne normali. Non
c’era festa o cerimonia ove non fosse reclamata la loro presenza. Avevano posti
riservati nei teatri assieme alle più alte cariche della magistratura. Gli erano in
particolar modo consacrate le feste Afrodisie e le Adonie. A Roma abbiamo le
‘Floralia’ e le due ‘Vinalia’, entrambe feste orgiastiche, cui concorrevano le ierodule
con la nudità rituale; retaggio degli antichi riti agrari a sfondo magico-sessuale. “La
prostituzione non è in questo caso che un mezzo per favorire la fecondità. Con
l’eccitazione sessuale, si stimola la fertilità generale”(Cit. supra). Anche le feste di
Bona Dea, in origine erano celebrate nei campi come matrimoni collettivi e magico-
orgiastici.. Non è neanche da escludere che quelle festività riservate alle sole donne,
come quelle di Bona Dea a Roma, fossero in realtà la sopravvivenza di antiche
cerimonie di iniziazione omosessuale femminile, non prive di relazione con il mondo
della magia. Ad Atene le prostitute frequentavano assiduamente i Filosofi. Pare che
Epicuro impartisse i suoi insegnamenti ad almeno sei cortigiane. Aristotele ebbe un
figlio da una di queste, Erpillide. Il famoso libro di Aristotele “Etica Nicomachea”,
così spesso commentato da arcigni quanto severi professori, era dedicato appunto a
questo figlio: Nicomaco. Spesso Socrate interrompeva volentieri i propri discorsi per
andare a contemplare le grazie di Teodotea. Nei banchetti i Filosofi erano soliti
circondarsi di queste cortigiane. Un particolare tipo di prostituzione sacra, il cui
ricordo stesso si è quasi estinto, era la sodomia rituale degli uomini, che il mito ci
ricorda essersi esercitata a Sicione, nel Peloponneso. Qui gli uomini si prostituivano.
Pare che quest’uso fosse stato istituito da Dioniso: Dioniso si era determinato a trar
fuori dall’Ade sua madre Semele, dopo che era stata com busta dalla folgore di Zeus;
perciò vagava alla ricerca di un ingresso al regno infero. Giunto nei pressi della
palude di Lerna, incontrò un certo Prosimno, a cui chiese come tro varIo. Costui gli
indicò le profondità del lago Alcionio ma, in cambio, pretese di consumare col Dio
un atto contro natura. Tornato dall’Ade, Dioniso si accinse a tener fede alla promessa
ma, nel frattempo, Prosimno era morto, deciso ad adempiere all’obbligo contratto,
anche se in memoriam, il figlio di Zeus piantò sul tumulo di Prosimno un nodoso
ramo di fico, dopo averlo intarsiato a mo di fallo e, incredibile dictu, ci si sedette
sopra acciocchè l’ombra del defunto godesse di lui”.In quel luogo, in seguito, si
andavano a prostituire numerosi Greci. Gli Antichi accordavano alla sodomia un
valore religioso e ne facevano il simbolo della virilità trascendente: lo conferma il
testo di un’iscrizione ritrovata in un tempio di Apollo... “Crimone ringrazia gli Dei
per aver sodomizzato Bathycle, cogliendone così la sua purezza. Non a caso il
famoso Battaglione Sacro dell’esercito tebano, corpo assai temuto, era costituito da
amanti omosessuali, che tramite i loro rapporti sessuali si scambiavano coraggio e
valore. Roberto Calasso, l’ultimo mitologo in ordine di tempo, ne ha adombrato il
significato nel libro “Le Nozze di Cadmo e Armonia” (Cap.VII).
IPERBOREI
Favolosa popolazione nomade allocata in una zona imprecisata a Nord della Tracia.
Erroneamente nel passato si è interpretato il significato del loro nome come ‘abitanti
dell’estremo Nord’, dando così la stura al mito dell’origine nordica del dio àApollo.
In realtà gli iperborei apollinei non sono altro che gli abitanti mitizzati dell’isola
egea di Delo, così come testimonia l’Inno Omerico ad Apollo (III.147-155). Fin dal
2000 a.C. nell’isola egea di Delo, centro sacrale di un culto pre-ellenico e solo dal
XII-IX secolo del culto apollineo, avveniva una sorta di pellegrinaggio sacro, col
trasporto di offerte votive da regioni lontane, comprese quelle danubiane: “I rapporti
fra Delo e l’Europa centrale sono indipendenti da Apollo, e più antichi di lui. Basti
ricordare che la civiltà danubiana deriva dall’Asia anteriore e dal mondo
mediterraneo, e non ha mai perduto il contatto con le terre d’origine” (F. Càssola,
Inni Omerici, p.89 Mondadori 1975). Una di queste offerte, se non addirittura il
simulacro di fondazione del culto della madre di Apollo, Leto o Latona, era una
palma (Teognide, 5-7). L’isola di Delo fu abitata già dal 3000 a.C. da popolazioni di
origine anatolica. “Delo era il centro del culto iperboreo che si estendeva, pare, a
sud-est fino alle regioni nabatea e palestinese, a nord-ovest fino alle isole
britanniche, e comprendeva anche Atene” (R. Graves, i Miti Greci, p.69, Longanesi
1979).
LABIRINTO
(mic. dapuritojo – gr. labirinthos). La fonte letteraria più antica che ci dica cosa è il
labirinto è Omero, il quale spiega che Dedalo costruì per Arianna un recinto per la
danza. Un commentatore di Omero aggiunse che serviva per compiervi la danza del
labirinto. Luciano scrisse in seguito che il labirinto era una danza cretese.
Nell’antichità la danza era una cerimonia ed un rito di straordinaria importanza, tanto
che ve ne erano di svariatissime, ed ognuna celebrava un particolare evento rituale
degno di venire fissato nell’esperibilità umana appunto danzandolo.
Successivamente – e ben prima di Erodoto – il ricordo di quella antica danza cretese
dell’epoca minoica andò sclerotizzandosi e deformandosi sempre più, fino ad
assumere i contorni della leggenda mitologica che tutti conosciamo. Prima di Omero
ci è giunto un altro documento scritto concernente il labirinto, ed è datato al 1400
a.C. circa, proveniente dalla Creta che era stata già invasa o influenzata dai greci di
stirpe achea: è scritto infatti in lingua micenea, la famosa “lineare-B”: “un’anfora di
miele alla Signora del Labirinto”. Si tratta della registrazione di un tributo dovuto ad
una figura ieratica o a un collegio di sacerdotesse; il che ci fa capire che in origine il
labirinto era il luogo – forse molto diverso dallo stereotipo tradizionale - dove questa
sacerdotessa presiedeva al rito della danza labirintica. In cosa consisteva questa
danza? Era forse una specie di corrida primitiva e cruenta? Non si può non
identificare nelle rovine di Cnosso il vero e proprio labirinto. Ciò non per le ragioni
di carattere etimologico, forse sbagliate, addotte dall’Evans – che lo volle far
derivare dalla parola labrys e dalle doppie ascie che numerose vi si rinvennero – ma
per tutta una serie di elementi concordanti e convergenti, spiegate da R. Castleden
nel suo libro Il Mistero di Cnosso. Chi osservasse una pianta topografica del sito di
Cnosso potrebbe notare che tutto l’edificio è stato costruito attorno ad un grande
spiazzo centrale, quello dove si celebravano le danze e le cerimonie con i tori.
L’edificio poi ha una tipica struttura templare che mal si sarebbe prestata per
utilizzazioni militari o politiche. Cnosso non era altro che il Labirinto, sede del
potere ieratico della Signora (Potnia) e del culto del toro. Forse, più che una danza,
come scrisse Omero molti secoli dopo, si trattava di una specie di corrida, come si
può vedere da una celebre raffigurazione cretese, nella quale dei giovani – forse
vittime sacrificali - dovevano cimentarsi, volenti o nolenti, a braccia nude contro
l’animale. Su questo particolare, quasi in contemporanea con le prime scoperte
archeologiche sull’isola, scrisse un racconto Demetrio Mereshkowskji: Tuthankamen
a Creta (La Nascita degli Dei).
LAURO
(lat. laurus gr. daphne) - Al dio Apollo furono consacrati determinati attributi non
perché questi gli siano stati analogici ma in quanto “bottino di guerra” sottratto ad
altre divinità, del tutto diverse da lui. Il santuario oracolare di Delfi rappresenta uno
di questi esempi, cui si ricollega la stessa pianta del lauro o alloro, impiegata nei riti
locali. La mitologia, del resto, è abbastanza chiara quando evidenzia, con le sue
narrazioni, l’assoggettamento, da parte di popoli da poco affaciatisi sul
Mediterraneo, delle popolazioni locali pre-esistenti (Pelasgi); quindi con la
sostituzione e/o la trasformazione della “vecchia religione”. Questo è un argomento
ancora vergine, appena sfiorato dagli studiosi specialisti, che meriterebbe una
trattazione molto più ampia di quella che gli hanno tributato, meritoriamente, autori
come Robert Graves, Alain Daniélou e Martin Bernal. La “marcia trionfale” di
Apollo nel suo cammino distruttore e pervertitore delle precedenti culture politeiste è
simile alla vittoriosa avanzata di un esercito in guerra. Ne schematizziamo le tappe
principali:
Uccisione del serpente Pitone e conquista dell’oracolo della Madre Terra a Delfi.
Conquista del Monte Parnaso e assoggettamento delle divinità locali (Muse).
Conquista della valle di Tempe e appropriazione del culto del lauro.
Uccisione del gigante Tizio.
Uccisione del satiro Marsia.
Sconfitta in duello musicale del dio Pan.
Uccisione di Giacinto (tramite il vento dell’ovest).
Sterminio dei Ciclopi.
Stupro e tentativo di stupro di numerose ninfe, tra le quali Dafne, ninfa del lauro. Per
quanto riguarda dunque il lauro, bisogna dire che il “trasporto” di questa funzione
simbolica dal primitivo culto pelasgico alla sfera d’influenza apollinea è stridente, in
quanto le caratteristiche della pianta non collimano affatto con quelle del dio figlio di
Zeus e Latona. Se la figura di Apollo è certamente complessa e variegata, nondimeno
si può concordare che egli è un dio celeste, solare, luminoso ed i Greci hanno sempre
valorizzato queste prerogative. Ora, - poiché la legge intrinseca del simbolismo (il
principio di analogia) vuole che il simile vada con il simile – non si può affermare
che la pianta del lauro abbia alcunché di solare o luminoso; è invece la pianta più
raffigurata in assoluto nelle decorazioni tombali etrusche (Anche nell’arte culinaria
l’alloro è l’accompagnatore per eccellenza di pietanze tutt’altro che solari, come gli
inferi “fegatelli”). L’albero, nel suo sguardo d’insieme, risalta per il suo fogliame
verde scuro piuttosto cupo. Inoltre, esso produce delle bacche, nere a maturazione, e
peraltro trascurate dagli uccelli, a fronte di una minuscola fioritura giallo-verdastra.
Sono particolari che concorrono a farne un “albero della Morte” o, perlomeno, legato
ai culti tellurici del fuoco infero. Di questi riti non propriamente apollinei vi è ampia
traccia nella mitologia. La parola greca per lauro è “dafne” che potrebbe significare
“del coloro del sangue” o “sanguinaria”, imparentando la specie ad antichi collegi di
sacerdotesse che celebravano sacrifici cruenti ed orgiastici. Non a caso Apollo è
considerato un “domatore” delle Muse e delle Ninfe. Pare che l’uso del lauro fosse
rigorosamente di pertinenza femminile, tramite la masticazione o l’inalazione. In
epoca classica, quale retaggio dimenticato e inoffensivo di quegli antichi e
sanguinosi culti, la sacerdotessa delfica, ormai ridotta ad una sola e sminuita al
livello di una semplice profetessa, veniva affiancata da un sacerdote che la faceva
cadere in “trance” bruciando ai suoi piedi grandi d’orzo, canapa e alloro. E’
comunque storicamente documentato che nell’antichità c’erano “masticatori
d’alloro” (daphnefagoi) - è da ritenere che le foglie venissero masticate e non
ingoiate in quanto la pianta, in forte dose, è un emetico, cioè induce il vomito. Come
si sa, il lauro è l’emblema dei poeti, che ne hanno “laureato” il capo – intendendo
“poeta” nel senso antico di “vate”, cioè di ispirato. Con l’avvento di Apollo
quest’ispirazione, che i Greci chiamavano “manìa”, ha ricevuto esclusive
connotazioni razionali, per cui “laureato” è chi oggi conduce fino al termine gli studi
universitari ma, in origine, quest’ispirazione era ben poco razionale. Come spiegare,
altrimenti che il pitagorico Empedocle considerasse il masticare lauro come una cosa
nefanda? La ripugnanza del filosofo – “astenersi sempre dalle foglie dell’alloro” fu
uno dei suoi precetti – può essere spiegata con le stesse sue parole, riportate da Aulo
Gellio, e che già furono di Pitagora, sull’astenersi dall’uso delle fave. In entrambi i
casi si trattava di evitare ciò che stimola l’eros e il commovimento dell’animo.
Proprio ciò che, invece, era tipico dei riti dionisiaci e tellurici. L’inno omerico a
Dioniso, citando il dio che “si aggirava per le valli selvose tutto cinto di edera e di
alloro” evoca in questi attributi vegetali un loro uso orgiastico. Euripide definisce
pure Apollo “bacchico amante del lauro”, in quanto il dio si è appropriato delle
caratteristiche del culto delfico a lui assoggettato. Si tratta comunque di
testimonianze a favore dell’uso psicotropo della pianta; uso che è giunto fino a noi
nella credenza riferita dal mitografo Fulgenzio che, mettendone una foglia sotto il
cuscino, si avrebbe avuto in sogno prescienza di fatti futuri. Tornando alla mitologia,
essa ci permette di intravedere i fatti storici del passato senza che i vincitori di allora
siano stati in grado di cancellare ogni riferimento che potesse essergli sgradito. Il
mito, per significarci che Apollo non riuscì a sradicare del tutto il centro sacrale
pelasgico di Delfi, ci narra che Zeus, corrucciato per l’uccisione di Pitone, custode
dell’antro oracolare della Madre Terra, avesse ordinato ad Apollo di purificarsi
dell’omicidio nella valle di Tempe che, guarda caso, era ricca di allori. Inoltre Zeus
gli ordinò di istituire dei giochi in memoria dell’ucciso, i famosi giochi pitici.
Tuttavia Apollo si rifiutò di presiedervi e andò a purificarsi a Creta. Il viaggio
nell’isola è una forma figurata di sottomissione del dio alla religione da lui
combattuta. Infatti, la grande isola dell’Egeo riveste un ruolo importante in un’altra
vicenda mitologica, quella del tentato stupro di Dafne. Per i mitografi greci essa era
una sacerdotessa della Madre Terra che, per sfuggire alla violenza sessuale del dio,
ne aveva invocato il soccorso. La dea operò un prodigio e trasportò all’istante Dafne
dalla valle di Tempe a Creta, lasciando al posto della sua consacrata un albero di
alloro. Perché Creta? Perché l’isola è stata il centro e la culla di quella civiltà
pelasgica che dominò a lungo il mondo mediterraneo centrale e ancor oggi, a
distanza di così tanti secoli, dimostra la sua vitalità in tanti aspetti della nostra civiltà
occidentale moderna. A questa antica cultura e non ad Apollo deve essere, dunque,
riferito l’alloro e, non facciamogli torto, alle scatenate sacerdotesse delfiche!
LAZIO
Regione dell’Italia centrale sede stanziale del popolo nordico-ario dei Latini. Trae il
nome probabilmente dal fatto che si trattava di una regione, inferiore a quella attuale
amministrativa e che andava dal Tevere al capo Circeo, relativamente pianeggiante
(lat. Latus, ampio). Come i Greci avevano la montagna sacra dell’Olimpo così i
Latini avevano la loro, il Monte Albano, sui colli Albani.
LUCERTOLA
Simbolo di morte e rinascita, sacra a Ermete e Serapide.
LUPO
Si può considerare il lupo come un cane non addomesticato, un animale più legato di
questo all’aspetto selvaggio della Natura. I caratteri del lupo saranno perciò quelli
del cane, ma potenziati e privi di quelli per così dire “domestici” attribuiti al primo.
La non domesticità dell’animale ha permesso anche di farne un animale totem, cioè
un animale in grado di fungere da “veicolo” per le imprese psichiche degli sciamani.
Questa caratteristica giunse fin nell’antica Roma, dove esisteva un collegio di
sciamani chiamati luperci, una festività da loro celebrata: i giorni lupercali, ed un
vetustissimo luogo di culto, memore dei giorni in cui i lupi si aggiravano ancora sui
colli della futura Roma: il lupercale. Proprio da questo gruppo di sciamani, secondo
una possibile interpretazione del mito, sarebbero venuti fuori i due gemelli, Romolo
e Remo, allevati da una “lupa” E’ da notare come nel linguaggio la parola “lupa”
designi una prostituta e in quel caso si trattava di una “ierodula” o prostituta sacra,
associata al culto del lupo. Del resto l’associazione di oscuri e arcaici riti sessuali
con i sacerdoti luperci si è trasmessa fin nel mondo della fiaba, nella storia di
Cappuccetto Rosso: “La fiaba di Cappuccetto Rosso rimanda non solo al timore
ancestrale che esso suscita, ma anche al comportamento predatorio dei maschi che
seducono le fanciulle ingenue: il colore del cappuccio della ragazza lascia intendere
una maturità sessuale da poco scoperta” (N. Saunders: Animali e Spiritualità EDT,
Torino 2000). Questi sciamani partecipavano alla festa dei Saturnali addobbati con
pelli di lupo flagellando ritualmente le donne desiderose di gravidanze che gli
passavano dinnanzi: dimenticato retaggio di una pratica di ieropornia cruenta.
MARE
(lat. Mare, gr. Als) Probabilmente a causa della sua costituzione salata o per il suo
perenne movimento, è simbolo di mascolinità. Il mare è stato visto come il teatro ove
si svolgevano miti e agitavano divinità. Specialmente nelle culture rivierasche e
isolane il mare è stato visto come una dimensione ultraterrena, l’equivalente del cielo
o della terra per i popoli continentali. Per tale motivo divinità primordiali datrici di
vita abitavano negli abissi profondi e venivano alla sua superficie in particolari
fenomenologie, rapportandosi con gli esseri umani. Signore e re del mare era
Poseidone ma in epoca più antica dovettero essere Okeanos, Nereo, Forco,
Proteo,tutte figure primordiali di “Vecchi del Mare” della vetustissima religione
mediterranea preindoeuropea. Proteo si diceva che vivesse nell’isola di Faro,
prospiciente il Delta del Nilo mentre altri lo dicevano regnare su Karpathos, tra Creta
e Rodi. Queste localizzazioni non fanno che confermare l’idea di una originaria
talasso-teologia. Proteo come gli altri suoi simili era dotato di virtù oracolare e
metamorfica ed in ciò andava a costituire il contraltare maschile del lignaggio
oracolare delle Sibille. A differenza di quest’ultime, doveva essere costretto a
vaticinare con la forza, e nel tentativo di sottrarsi a questa costrizione assumeva una
varietà di forme. Era quindi il Signore delle Forme (proteiforme), colui che
presiedeva al mondo del Divenire. La veggenza di Proteo veniva resa a
Mezzogiorno, ora “sacra” e “magica” per eccellenza nel mondo mediterraneo, specie
nel periodo della canicola, nel quale la coscienza ordinaria si apriva a percezioni
straordinarie a causa del forte caldo. Nerite era figlio di Nereo, giovane bellissimo e
amasio di Afrodite. Per il suo rifiuto di abbandonare le acque del mare e seguire la
bella dea nella sede dell’Olimpo, venne trasformato in un volgare mollusco dalla
stessa Afrodite. Qui è evidentissimo il significato della sottomissione della Vecchia
Religione ad opera delle nuove stirpi nordiche adoratrici del cielo.
Tra le divinità femminili, oltre alle varietà di ninfe, (tra cui le cinquanta figlie di
Nereo, le Nereidi tra cui Anfitrite sposa di Poseidone e madre di Tritone e Aretusa
amata dal dio-fiume Acheloo), vi erano Eurinome, madre delle Chariti e salvatrice di
Vulcano assieme a Teti, sposa di Okeanos, le Gorgoni con la celebre Medusa,
MESI
Antesterione – ottavo mese dell’anno ionico-ateniese (febbraio-marzo)
Munichione - dodicesimo mese dell’anno ionico-ateniese (marzo-aprile)
Pianepsione
MINOTAURO
(lett. Toro di Minosse) – Asterio o Asterione, figlio adulterino di Pasifae, moglie di
Minosse, e di un toro bianco venuto dal mare. A causa del suo orrido aspetto (corpo
umano con testa taurina) venne rinchiuso nel Labirinto. Ad esso gli Ateniesi
dovevano inviare in sacrificio di sudditanza, periodicamente, sette giovani e sette
vergini. Tutto il mito concernente il Minotauro non è altro che la simbolizzazione
(sincretismo) del periodo di massima potenza politico-sacrale, detta anche
thalassokratia, della civiltà egeo-cretese. Questo periodo, che raggiunse il suo apice
prima dell’eruzione che distrusse l’isola minoica di Santorino, era rappresentato dal
culto del toro che divenne l’emblema per eccellenza di quella civiltà. Pertanto
Minotauro non era altro che il potere di Minosse (analogo al titolo dinastico
convenzionale Faraone per gli Egiziani) irraggiantesi attraverso il simbolo taurino
dalla sede labirintica, cioè, probabilmente, dal Palazzo di Cnosso. La sua uccisione
ad opera di Teseo testimonia del crollo della potenza navale minoica e delle prime
invasioni achee dell’isola. L’aspetto solo difensivo della potenza minoica era
simbolizzato dal mostro Talos, in cui si può riconoscere una più antica
simbolizzazione di questa stessa potenza, sia per la radice del nome, che riconduce al
tema della parola Atlantide, che per la sua possibile identificazione con un
primigenio dio tutelare precedente la diffusione del culto del toro, che è di probabile
origine mesopotamica ed egizia (Pernice).
MITHRA
(gr. Mithras) – divinità di antiche origini indo-iraniche, rielaborata in forma
peculiare e “mediterranea” in Anatolia ed infine nell’Impero Romano, la quale ha
dato origine al mithraismo, più che una religione un culto misterico tipico dei militari
e per ciò stesso escludente le donne. Dal cristianesimo vennero poi ripresi
numerosissimi elementi del mithraismo, quasi per contrastarne la fortuna ed il favore
di cui godeva tra le classi militari e governative. Ma anche oggi Mithra fa paura se è
vero che in alcuni dizionari di mitologia, come quelli del Ramorino o del Grimal le
voci Mithra e Mithraismo sono del tutto assenti! Il suo carattere di fedele compagno
ed esecutore lo fece diventare dio emblematico della classe militare e come tale – in
forma di culto misterico e non più di religione – penetrò nell’esercito imperiale
romano, quale Sol Invictus Mithra, diffondendosi largamente. La caratteristica
militare del culto di Mithra è ripresa dalla sua mitologia originaria indo-iranica, la
quale ne fa un subordinato esecutore dell’autorità suprema, il Sole, con il quale
collabora. Nel mondo ellenistico e romano la componente cosmologica si
ridimensiona e viene affiancata dall’interpretazione condizionata che si adatta molto
bene alle truppe, le quali trovano in questo culto un modo per esprimere anche
ritualmente la loro fedeltà alla suprema autorità politica. Questo dato venne
probabilmente assunto già con la politica antiromana di Mitridate, re del Ponto, il cui
stesso nome riecheggia quello del Dio, e con la successiva resistenza armata che vide
i suoi epigoni nei famosi “pirati” della Cilicia sconfitti da Pompeo. Eliminata
l’opposizione armata, il mithraismo divenne per Roma infine la migliore “religione”
possibile, in grado di sostenere l’immenso apparato gerarchico-militare che reggeva
le sorti dell’Impero. Tuttavia quest’ultimo vide sempre il mithraismo come un corpo
estraneo, con i suoi simboli orientali che ricordavano da vicino il grande nemico di
Roma, la Persia, e, per quanto ottimamente accetto, cercò sempre di accostarlo in
forma subordinata a culti maggiori e più tradizionali, come quello del Sole. Tuttavia,
accanto a tutto ciò rimase anche l’aspetto esoterico-iniziatico il quale, per la sua
stessa essenza, rimase sempre appannaggio di una ristretta cerchia di persone e non
riuscì mai ad incidere nella componente sociale dell’impero. Non a caso, il
Mithraismo ebbe la sua ultima fioritura soltanto in seno ad una ristrettissima classe
senatoriale romana, avulsa da ogni contesto, nel IV secolo, in un momento in cui le
religioni pagane avevano seccato tutte le loro radici all’interno dell’anima viva delle
masse popolari a favore del cristianesimo. Exotericamente, si trattava di una
concezione di carattere prettamente manichea, extramediterranea, la lotta dell’anima
tra il Bene e il Male, il mondo della Materia e il mondo dello Spirito – simbolizzati
dalle figure mitologiche di Cautes e di Cautòpates, uno reggente una fiaccola alzata,
l’altro una fiaccola rovesciata (analoghi ma non identici agli ellenici Eros e Anteros)
- concezione che spianava la strada, assiema ad altri fattori, all’avanzare della
religione cristiana. I suoi Misteri venivano celebrati sotterraneamente, nei cosiddetti
mithrei, la cui volta però era istoriata a rappresentare il cielo stellato, escludento
pertanto qualsiasi caratteristica ctonica al culto. Il capo assoluto degli iniziati
mithraici era detto Pater Patrum, denominazione che poco curiosamente è stata
ereditata e assunta dai Papi. I 7 gradi iniziatici erano così denominati: Corax,
Crypticus, Miles, Leo, Perses, Heliodromus, e infine Pater. Sul mithraismo, dato il
grande fascino che ancora esercita, esiste una vastissima letteratura.
MONTAGNE
Le montagne vennero generate in illo tempore da Gaia, “grato soggiorno alle dee
Ninfe che hanno dimora sui monti ricchi d’anfratti” (Esiodo). Nell’antica religione
cretese i monti hanno sempre rivestito una connotazione maschile mentre le caverne
che si aprono al loro interno sono state viste come organi femminili di generazione.
Una categoria particolare di montagne, i vulcani, accentuavano le caratteristiche
maschili in corrispondenza con la loro natura magmatica, eruttiva e sismica. I primi
templi vennero edificati sulle cime montane come “recinti”, spazi sacri al cui interno
si celebravano le epifanie divine. Attorno alle montagne, ricche di selve, acque e
animali, si sviluppò l’originaria vicenda mitologica, con le innumerevoli storie degli
esseri divini, tutte manifestazioni e apparizioni di una natura selvaggia non ancora
assoggettata all’uomo. Sulle montagne regnava come Sovrana incontrastata la Gran
Madre, nota con svariati nomi, da Cibele a Dictynna, non bisognosa del maschio, e vi
scorreva impegnato nelle cacce il Cacciatore primordiale, chiamato sia Oreste, che
Nimrod o Zagreo. Vi stazionavano congegazioni straordinarie, come quelle dei
Telchini, dei Cureti, dei Dattili, dei Satiri, dei Fauni, dei Panischi, dei Ciclopi, delle
Driadi o delle Oreadi, dei Centauri e tutti quanti gli Esseri prima di venire condotti
dall’uomo nelle città ed ivi cristallizzati in statue di fissa pietra. Tra le montagne più
importanti della mitologia antica vi sono il Ditte e l’Ida di Creta, l’Ida della Frigia,
l’Olimpo in Tessaglia, il Parnaso delle Muse e il Citerone di Apollo, l’Elicona, il
Tmolo, il Berecinto, il Pangeo, l’Etna, Vulcano nelle Eolie e, senza che vi sia più un
solido ricordo mitologico, anche il Vesuvio e l’Atlante cioè il nome del vulcano di
1500 m. che, probabilmente, esplose nel 1500 a.C. circa nell’isola di Santorino
determinando il collasso della civiltà minoica.
NINFE
(gr. Νymphai - lat. Nymphae) - Energie sottili della natura polarizzate in senso
femminile e divinizzate antropomorficamente come seducenti fanciulle, corrispettive
dei maschili Satiri. Il latini le chiamavano anche Lymphae (da “linfa”), con il che si
evidenzia meglio il loro carattere di energie occulte e latenti, celate dietro l’aspetto
manifestato della natura. Essendo delle energie di polarità negativa la mitologia le ha
sempre raffigurate perenni vittime degli assalti erotici dei loro corrispettivi poli
positivi; quasi tutte le divinità maschili hanno avuto, chi più chi meno, a che fare con
queste creature equoree e diafane. Da succube delle divinità maschili esse però
diventavano incube di quegli uomini che si lasciavano sedurre dalla loro malìa,
ovvero attrarre dall’iper-polarizzazione del loro elemento occulto, l’acqua. Questo
pericolo è stato descritto simbolicamente nell’episodio di Odisseo e le Sirene o
ancora con Calipso[1], in quello della morte dell’argonauta Hylas e conosciuto sotto
il termine tecnico di ninfolessìa (TEOLESSÌA). In latino il verbo lymphare significa
“fare impazzire”, poiché il pericolo più immediato di un incongruo contatto con le
ninfe è quello di smarrire la ragione. Un commentatore di Teocrito spiega però, con
molto acume, che la ninfolessìa non è altro che lo spavento che prova chi,
impreparato, ha un contatto con una ninfa[2]. Tuttavia non era rara l’eventualità di
essere invasati dalle ninfe, nel senso positivo di godere di una virtù profetica,
vaticinante e addirittura di una condizione dello spirito caratterizzata da uno stato di
euforica felicità. “Sono esistiti dei santuari mantici dove la ninfolessìa ha
probabilmente giocato un ruolo: si incontravano in effetti numerosi ninfolettici,
secondo la testimonianza di Plutarco, nella regione del Citerone dove la Grotta di
Pan e delle Ninfe funzionava come santuario divinatorio”[3]. Celebre è il caso di
quegli uomini che grazie al loro contatto con una ninfa – come nel caso di Numa con
Egeria – godettero di una saggezza inusuale. Nel culto erano venerate assieme al loro
corrispettivo archetipico maschile, il dio Pan, nei pressi di sorgenti, grotte, alberi. In
epoca romana gli venne consacrato un apposito santuario, il ninfèo. Le ninfe non
erano e non sono immortali ma di solito vivono alcune migliaia di anni. Alcune di
esse, come le Amadriadi, hanno la vita legata a quella della pianta o della sorgente
cui sono gemellate ma sarebbe più corretto dire l’inverso. Gli si sacrificavano agnelli
e capretti, nonché latte, olio, miele e offerte rustiche. Alle ninfe la Grecia non tributò
mai alcuna forma di culto: esse facevano parte del culto privato e godevano
dell’affezione di tutti. Nel mondo romano le ninfe erano invece associate al culto del
dio delle fonti, Fonto, la cui ricorrenza cadeva il 13 ottobre ed avevano un tempio sul
Campo di Marte.
Con caratteristiche a volte inquietanti era raffigurate tra gli Etruschi col nome di
Lases.
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[1] Nympha era d’altronde, secondo una tradizione, il nome stesso dell’isola di
Calipso, mentre nymphaea è il nome dato ad una bella pianta lacustre dotata di virtù
sedative.
[2] “In definitiva, che egli sia ispirato, che scompaia o sia folle, l’uomo preso dalle
ninfe lascia il mondo normale, esce dai limiti della vita umana. Trasportato in un
altro mondo, altrove, il ninfolepto diviene un essere sovrumano, superculturale, che i
Greci possono qualificare col termine di sacro”. Ph. Borgeaud: Recherches sur le
dieu Pan, p.162, Genève 1979.
[3] Ph. Borgeaud, cit.
ORE e STAGIONI
(gr. Horài) – Al contrario di quanto possa far pensare il loro nome le Ore non
designarono subito il periodo temporale da noi conosciuto come tale – del resto
“fuori luogo” nel Mondo Antico – bensì il più ampio spazio temporale dell’ordinato
svolgersi dei fenomeni naturali e del succedersi delle Stagioni; erano cioè le divinità
del TEMPO. Come Stagioni, variavano di molto: da due fino a sette (I nomi ce li
tramanda Galeno (17,17): Ear, theros, epòra, phthinoporon, sporetòs, cheimòn,
phutalìa) e di durata difforme. Erano figlie di Zeus e di Themi, quindi divinità pre-
indoeuropee e mediterranee, raffigurate come bellissime giovani danzanti, ornate di
fiori, che tenevano in grembo i prodotti delle stagioni rispettive. Custodi delle porte
dell’Olimpo, cioè della dimensione metafisica, erano dette “serene” negli Inni
Omerici. Solo successivamente il loro numero fu portato a 12, allorchè presero a
designare anche le ore della giornata. Un discorso particolare va riferito invece
all’ora di Mezzogiorno, spazio temporale dalle caratteristiche particolari, in quanto
era un “porta” per l’irruzione nella coscienza di particolari fenomenologie
metarazionali. L’ora di Mezzogiorno è una porta attraverso la quale il mondo umano
comunica col mondo divino. Fu detto infatti da Servio che quasi tutte le divinità
appaiono in quest’ora (Commento alle Georgiche IV,401) e, tra queste, la stessa
Ecate. Non c’è dubbio che l’ora meridiana sia stata in Grecia l’ora religiosa per
eccellenza, come ci ricorda Roger Caillois nel suo studio su I Demoni Meridiani e a
cui ci riferiremo inserendone i brani tra virgolette. L’ora del mezzogiorno è stata
infatti per lungo tempo l’unica ora chiaramente identificabile prima dell’ausilio degli
strumenti scientifici. Nessun’altra poteva venire determinata con esattezza e men che
mai la famosa mezzanotte, la quale solo con il cristianesimo, che ha suddiviso
moralmente il tempo, divenne l’ora durante la quale si adunano i demoni. In realtà i
daimones comparivano proprio al suo opposto orario, allorchè il tempo, una fluidità
difficile da fermare, poteva venire “arrestato” o materializzato proprio in quel
mentre, grazie ad un semplice palo infisso nel terreno (in seguito diventato uno
strumento chiamato gnomone). Quando l’ombra che esso proiettava diveniva più
corta del palo medesimo, si era allora nell’ora in cui più alto rifulgeva il sole, il
punto in cui la giornata poteva venire divisa in due parti: quella della luce ascendente
e quella della luce discendente, con tutto il suo corollario di significati. Se nella
prima parte si compivano i sacrifici agli Dei superi, nella seconda si sacrificava a
quelli inferi e ai Mani. “In effetti il mezzogiorno capta le energie sovrannaturali
sparse nella natura”. Il meriggio era però anche un tempo pericoloso poiché, per il
motivo segnalato da Servio, il mondo umano e quello divino si confonevano e si
univano. L’ombra era considerata il simbolo dell’anima e, quando la prima si
accorciava fin quasi a scomparire, era segno che cominciavano a vacillare anche i
confini dell’individuazione e si aprivano gli inquietanti scenari della possessione e
dell’invasamento divino: la ninfolessìa e il timor panico. Ancora secoli dopo la
caduta del mondo classico il profeta Maometto proibiva ai suoi seguaci di
cominciare una preghiera esattamente a mezzogiorno, perché gli infedeli in tale
momento adorano il Sole (E. Westermarck: Survivances païennes dans la civilisation
mahométane). Il mezzogiorno corrispondeva analogicamente nella dimensione del
tempo anche all’Estate e al Sud nella dimensione dello spazio: due forme di
considerare una sola porta, una via a doppio senso di marcia, accesso dal o ingresso
nel mondo divino del Ciclo della Generazione, del Mondo delle Forme.
Conseguenza dell’ora del mezzogiorno nell’antichità era considerata l’assenza di
vento, la bonaccia sul mare, la calura insopportabile, il silenzio nel quale piombava il
mondo animale e l’immobilità di quello vegetale. In questo lasso di tempo facevano
il loro ingresso Dei e divinità minori, nonché anime erranti, Incubi e Succubi, tutti
quanti alla ricerca di Vita. Esse vengono nutrite con i sacrifici ma, in mancanza, si
abbeverano vampiricamente alla vitalità degli esseri viventi: “la natura profonda
delle Sirene non rappresenta altro che l’antico vampirismo animico, succubi assetate
di sperma umano”. Di ciò erano ben consapevoli anche gli antichi, stando al disegno
dell’anfora attica n°1684 del Museo di Berlino: un uomo eiacula gocce di sperma
rosse di sangue in direzione di una farfalla, vale a dire di un’anima. Mezzogiorno, la
siesta degli spagnoli ovvero l’ora sesta, è così l’ora cardine durante la quale
avvengono tutte le aggressioni degli esseri demonico-divini, dalle Sirene a Pan, alle
Ninfe e alle Sfingi, come è documentato nella letteratura. Da qui tutta una serie di
prescrizioni tramandatesi anche nel folklore: a mezzogiorno non bisogna soffermarsi
in prossimità di fontane, di sorgenti e corsi d’acqua, o all’ombra di certi alberi, quali
pioppi, fichi, noci, carrubi e soprattutto platani, o ancora fissare con troppa insistenza
il folto dei boschi. Il pericolo è quello di cadere nel dormiveglia, quella condizione
anch’essa intermedia che permette la possessione delle Ninfe o delle Nereidi.
“Coloro che si addormentano a mezzogiorno rischiano di subire, nel corso di incubi
di un genere del tutto particolare, l’aggressione di esseri demoniaci, aggressione che
comporta turbe fisiche e mentali ben definite. Queste turbe sono attribuite a Pan e
alle Ninfe o ai loro sostituti. Se attribuite a Pan, si ha a che fare con un complesso di
sensazioni e rappresentazioni che costituiscono l’incubo propriamente detto, nel
senso antico del termine. Se attribuite alle Ninfe e, in epoca ellenistica, a creature che
all’origine avevano già per conto loro rapporti stretti con l’ora di mezzogiorno, e che
ora assumono caratteristiche simili a quelle delle Ninfe (ossia le Sirene), sembra che
ci si trovi piuttosto di fronte a un altro fenomeno onirico (ονειρογμός, somnium
Veneris) già definito dagli antichi e dotato di proprie ripercussioni mitologiche. I due
temi sono d’altronde pressocchè paralleli, entrambi fortemente tinti di erotismo.
Sono in sostanza i corrispondenti antichi delle credenze, quasi universalmente
attestate, negli incubi e succubi”.
Il suono degli strumenti musicali, ma a volte lo stesso frinire delle cicale, possono
indurre lo stato semi-onirico, quello del “sonno insonne” com’è chiamato da Sofocle,
talchè è detto negli Idilli di Teocrito (I, 15): “Nell’ora meridiana non è lecito, o
pastore, non è lecito suonare la siringa: temiamo Pan”. L’ora meridiana non è però
temibile per gli iniziati chè, anzi, ne ricercano l’esperienza, in quanto determina la
fecondazione sovrannaturale della psiche: “Ora, mezzogiorno non è solo l’ora in cui
è pericoloso disturbare Pan, ma anche quella della sua apparizione nei sogni
profetici, tanto che sono stretti i suoi rapporti con essa. In tal caso l’apparizione del
Dio è favorevole e costituisce un esempio della pratica ben nota dell’incubatio”. Lo
attesta anche una iscrizione trovata nell’800 in Italia:
A Te, suonatore di flauto, compositore di canti, demone benefico, santo Signore
delle Naiadi che spargono l’acqua dei bagni, Hygeinos ha consacrato quest’offerta,
perché essendoti, o Signore, in persona accostato a lui, l’hai guarito da una
dolorosa malattia. presentandoTi tra le mie greggi non in sogno, ma a metà del
giorno.
“Vi è ancora un’altra caratteristica di Pan che si lascia accostare all’ora di
mezzogiorno e alle abitudini dei pastori: il fatto che egli passi per l’inventore
dell’onanismo. Un cenno di Suida a proposito del proverbio il Lidio si trastulla a
mezzogiorno non permette di ignorare che l’abbandono caratteristico dell’ora di
mezzogiorno fosse particolarmente propizio ad abitudini siffatte”. Dice Suida:
Riguarda gli intemperanti: in quanto in quelle ore si danno alla sfrenatezza. Infatti i
Lidi si procurano il rapporto sessuale con le proprie mani, pieni del piacere amoroso;
il proverbio è uguale a ‘il capraio nella calura’ dacchè in quelle medesime ore i
caprai sono dediti alla libidine. “Dunque i caprai, in ciò simili ai Lidi, praticano
l’onanismo all’epoca del calore di mezzogiorno. E’ quindi molto interessante notare
come Pan sia ritenuto l’iniziatore di tale manovra di cui insegna l’uso ai pastori”. Ma
al di là del semplice evento ludico c’è quello iniziatico del tema della “fecondazione
soprannaturale” ovvero del matrimonio con l’essere spirituale o amante invisibile di
cui ha scritto anche Elemire Zolla, tema che “può essere legittimamente collegato
con l’ora di mezzogiorno”.
ORGIA
dal verbo greco ergon “agisco” fino al sostantivo plurale orghia: “le Azioni per
eccellenza”, culto misterico e, per estensione, cerimonia sacra. Si trattava di
cerimonie sessuali che celebravano la vitalità della natura, come indica anche il
verbo orgáo: sono pieno d’umore, fecondo, lussureggiante, rigoglioso, sono in
calore, desidero ardentemente. Vedasi anche Organon: “organo”, nel senso di
strumento per compiere un’azione e che in italiano ha conservato anche una
sfumatura sessuale, indicando il pene. Anche l’organo, inteso come canna dello
strumento musicale, rimanda a quest’ultimo significato. Solo con il paganesimo
romano classico (vedi Baccanali) e poi col cristianesimo le Orge hanno assunto una
connotazione scandalosa mentre prima erano tutt’uno con una normale cerimonia
religiosa.
PERNICE
(gr. Perdix) Lo scrittore inglese Robert Graves, colui che assieme a Marija Gimbutas
e ad Alain Danielou, si può considerare come l’ideologo del ritorno al politeismo
proto-mediterraneo, sostiene che prima che i greci tirassero fuori la favola del
minotauro, i cretesi venerassero al posto del toro un volatile, la pernice. Si rievocava
evidentemente un periodo estremamente antico quando gli uomini, prima
dell’agricoltura, erano ancora dei cacciatori e dei raccoglitori. Nel 1986, allorché mi
recai per la prima volta nell’isola di Creta ebbi modo di assistere a quella che, più
tardi, seppi essere la ‘Danza della Pernice’. In un locale caratteristico di una rinomata
località della costa egea, ogni sera alcuni abili pastori inscenavano a beneficio dei
turisti una singolare e a prima vista grottesca danza, con tanto di piatti fracassati
secondo l’uso popolare greco delle festività. Il grottesco era che questi uomini —
barba, baffoni e cipiglio poco raccomandabile - danzando al ritmo del bouzuki
mimavano le cadenze di un uccello, venendo poi applauditi per l’abilità posta nello
scansare i piatti che gli venivano rotti quasi tra i piedi. Il ritmo e i movimenti
avevano un che di avvolgente tanto che, se al posto della pista da ballo, vi fosse stata
una radura, la danza avrebbe sortito sugli astanti un effetto quasi psichedelico. Più
tardi, mi accorsi che la danza cui avevo assistito si riferiva all’imitazione dell’antico
rituale d’accoppiamento della pernice. La pernice è un’uccello di passo, non
stanziale, che emigra in primavera, stagione in cui si accoppia. Nell’antichità l’isola
di Anafi, al largo di Santorini, era famosa come luogo di transito delle pernici prima
del loro approdo a Creta. Aristotele e Plinio lo consideravano animale sacro a
Venere, causa la lascivia nell’accoppiarsi, cosicché un antico testo cristiano (Il
Fisiologo, 18) la paragona al demonio, poiché cova anche le uova di altre specie
nell’illusione di ampliare la propria prole. Tanta era ritenuta essere la lascivia
dell’animale che si riteneva avere anche dei rapporti omosessuali con gli altri
maschi, cosicchè esso è diventato pure il simbolo degli omosessuali – che, riteniamo,
non sono però al corrente di tale fatto! (“Quando vogliono simboleggiare la
pederastia raffigurano due pernici; questi uccelli, infatti, perduta la compagna,
abusano gli uni degli altri” Orapollo: I Geroglifici, II, 95). Dal fatto invece che
l’uccello ami stanziare sul terreno e volare basso – per quanto in grado di trasvolare i
mari – si è ricavata l’analogia di un animale “tellurico”, pertinente cioè all’elemento
Terra e, sempre osservando un’analogia naturale, la si è associata alla dionisiaca
pianta della vite. In alcuni di questi autori classici impregnati di mentalità
monoteistica trapela la futura acredine cristiana nei confronti della maternità genuina
così come la stigmatizzazione di “lasciva” per quelle nature che indulgono con
spontaneità ai doveri della ‘carne’. La pernice è dunque l’uccello in cui risaltano le
tendenze alla diffusione della Vita, alla sua espansione indiscriminata e all’Eros che
ne supporta l’azione. La sua danza d’amore colpì l’immaginazione degli antichi
abitatori del Mediterraneo, fino in Palestina come vedremo, e questa danza si usò
rappresentare in onore alle divinità ‘orgiastiche’, quali Venere o Dioniso, prima che
l’imporsi dell’agricoltura portasse in trionfo il culto del toro. La pernice maschio, per
attirare le femmine, esegue una particolare danza a spirale, convergendo verso il
centro di un’area da lei stessa stabilita ed emettendo contemporaneamente un suono
di sfida nei confronti degli altri maschi. Il movimento è zoppicante, in quanto essa
tiene sollevata una zampa per poter colpire l’eventuale rivale con lo sperone. Le
femmine si radunano starnazzanti ed eccitate attorno al luogo della danza al punto
che, nel passato, gli uomini ne facevano larga strage abbattendole a bastonate, poiché
erano talmente prese dalla magia del ritmo da non curarsi d’altro. Questo rituale
naturale ispirò il mito del labirinto che, in origine, non era nient’altro che un
percorso rituale, una figura danzata; l’equivalente dei disegni di molti tappeti antichi
dei popoli nomadi. Lo stesso Omero è, al riguardo, esplicito: “Un recinto per la
danza... Dedalo a Cnosso costruì un tempo per Arianna chioma bella”. Il minotauro
prese poi il posto dell’antico eroe Perdice (pernice) che, al centro del suo ordito,
tesseva la trama dei passi di danza al fine di catturare nei meandri della vita
condizionata Arianna, l’antica Signora cretese della Natura. Chi volesse in qualche
modo rivivere il ‘pathos’ della vera Danza della Pernice, dovrebbe assistere ad una
festa rurale, come ce ne sono ancora in Grecia. Esiste però un resoconto che può
darcene una qualche idea; è il romanzo dello scrittore cretese contemporaneo P.
Prebelakes: Il Cretese, di cui riportiamo alcuni passi al termine di queste note. Forse
al culmine del rito-danza vi era un sacrificio cruento, fors’anche umano. Comunque
fossero andate le cose, gli Achei invasori ne approfittarono inventando la favola del
Minotauro e del sacrificio di sette giovinetti e di sette vergini ateniesi, dati in pasto al
mostro, nell’orrida costruzione denominata “labirinto”. Il mito ci parla anche di
un’altra figura mostruosa, Talo, un essere metallico che compiva instancabilmente il
giro dell’isola, via mare, a guardia del dominio di Minosse. Era indubbiamente una
reminiscenza del tempo in cui la flotta cretese dominava i mari, passato alla storia
col nome di “talassocrazia cretese”. Ma prima di questa deformazione mitica operata
dai greci Talo non era altro che una delle figurazioni del dio-pernice, col suo
incessante danzare intorno. Inoltre Talo sembra essere un accorciativo di Tantalo (lo
zoppicante), come la pernice maschio quando è pronta a colpire un rivale. Secondo
un’altro riferimento mitico, il fabbro Talo era il nipote di quel Dedalo costruttore del
labirinto. Un giorno lo zio lo uccise, mosso dall’invidia, facendolo rovinare giù
dall’acropoli di Atene. Mentre lo zio Dedalo scappava a Creta, l’anima di Talo
sfuggiva dal corpo sotto forma di pernice. Guarda caso Icaro, figlio di Dedalo, era
morto anch’esso, annegato nello stesso mare dell’isola di Anafi. In più, una pernice
fu vista volare sul luogo della sua morte. Icaro, in cretese Ikadios, significa pernice.
Come si vede ce n’è quanto basta da permettere a chi ne fosse interessato di cercare
di ricostruire la disastrata (per colpa dei Greci) mitologia cretese. In Palestina veniva
celebrata la festa cananea e poi ebraica della “Pesach” che, derivando da un tema
verbale *psch, significa “danzare zoppicando”. Contro questa festività e contro altre
vestigia dell’antico politeismo delle popolazioni della Palestina si scagliarono a più
riprese i Profeti d’Israele, poiché già con la storia del vitello d’oro, il popolo ebraico
aveva mostrato di voler tornare al primitivo politeismo. In origine, quindi, anche in
Palestina la festa della prima lunazione di primavera, la t’Pesach/Pasqua”, era
un’antica cerimonia orgiastica. Infatti che altro significato potrebbe avere l’usanza di
regalare a Pasqua delle uova, se non un retaggio incompreso di quell’antica festa?
Esse sono il frutto materiale del fecondo amplesso scaturito dal rito naturale
orgiastico: la danza d’amore della pernice. Anche l’usanza greca di rompere piatti e
bicchieri potrebbe ricollegarsi ad un rito analogo. Nella nostra epoca solo il Gurdjieff
sembra aver posto l’attenzione sul valore sacrale della danza ed è un peccato, perché
è forse proprio la danza rituale quella che più di ogni altro può ricongiungerci con le
parti della nostra anima che ci siamo dimenticati nella preistoria. Ha scritto Karoly
Kerényi: “E’ probabilmente negli strati più profondi della natura umana, dove la
danza affonda le sue radici, che occorrerà cercare.., ed è in danze di origine
preistorica che ci si dovrà attendere l’espressione più immediata di quel rapporto che
ci lega a tutti gli altri esseri viventi.., nella danza del labirinto era ben tangibile un
anelito verso la liberazione, un profondo desiderio di levarsi in volo, di fuggire via..,
e il racconto della fuga di Dedalo dal labirinto con ali che egli stesso aveva costruito,
forniva poi pienezza di espressione a quel desiderio”.

Brani di P. Prebelakes, tratti dal suo romanzo “Il Cretese”, contenuti nel volume di
K. Kerényi, “Nel Labirinto”, Boringhieri, 1983:

“Il liuto suonava, invitandoli alla danza, i palikaria si strinsero le cinture, vi


annodarono i fazzoletti e si raccolsero sotto il grande albero. Le donne sciolsero i
fazzoletti che portavano sul capo e li lasciarono cadere sulle spalle. Si formò il
cerchio della danza. Un vecchio vigoroso passò in testa, e calcando con fierezza il
terreno così intonò il suo canto: “La danza del cinque è la mia preferita! Tre passi
avanti e due indietro!” Uomini e donne presero allora a danzare, mano nella mano.
Incominciarono lentamente, trascinando il passo, e condussero presto tutta la fila
verso destra, quasi volessero saggiare il terreno o misurare lo spazio a disposizione
per la danza. I vecchi presero coraggio e si unirono alla schiera. L’uomo che guidava
la danza intonò il suo canto; gli altri lo ripresero dalla sua bocca, facendogli eco. Ben
presto il danzatore si volse, per incoraggiare gli altri danzatori, e lanciò un
ringraziamento al suonatore di liuto. Lo strumento incominciò a suonare piano, come
se volesse godersi l’armonia fin dai primi assaggi. Si potevano chiaramente
distinguere i passi della danza: tre in avanti e due all’indietro; e il cerchio dei
danzatori si stringeva e si allargava, come se respirasse. “Suona, suona, suonatore di
liuto, ti pagherò bene! Tieni, ecco una ragazza della fila: io te la dono.” La schiera
dei danzatori si arrestò all’improvviso su una linea obliqua, quasi si fosse accorta
della bellezza di quel respiro. Il primo e l’ultimo della fila si presero per mano, e così
il cerchio si chiuse. Si stringeva e si allargava. Era come le onde, che cantando si
spandono sulla sabbia e poi di nuovo si ritraggono. Continuarono a muoversi come
fa il mare, fin quando il loro animo fu sazio. Risuonò allora il liuto, concitato. i passi
si fecero più veloci; i piedi si incrociavano, battevano il terreno, fermi sullo stesso
posto. Le donne approfittarono dell’occasione e come piccole pernici due o tre belle
danzatrici forzarono il cerchio, corsero in avanti e con la mano sinistra tagliarono la
fila dei danzatori. Si muovevano a piccoli passi, rapidissimi; i loro corpi oscillavano
come onde. Danzavano con maestria tale da far perdere la testa. La gente osservava
rapita, senza fiato, tutta questa bellezza. “Beato chi le possiede! Certo dovrò vivere
ed essere felice tanto quanto dureranno le montagne!” — grida un vecchio, e le sue
parole mettevano le ali ai piedi. Volò nell’aria, come un uccello, un verso che fece
arrossire la prima:

Tu che guidi la danza, gioiello della sua punta,


fregata verde-oro in mezzo al mare!

Si udì un altro verso per la seconda:

Desidero il cipresso, dal legno odoroso:


simile a te, ragazza, per maestà e grazia!

Le donne parvero formare un muro intorno ai danzatori, e si fermarono aspettando


che la fila arrivasse vicina a loro, per ghermire la schiera. Cantavano i versi in coro e
battevano ritmicamente le mani. Le lodi che uscivano dalla loro bocca erano una
scala che saliva dalla terra al cielo. Nella prima coppia di versi, la danzatrice era una
fregata color verde-oro; nella seconda, un cipresso odoroso. La paragonarono ancora
a un “albero di limone due volte fiorito” e a un “melo carico di frutti”. Ogni coppia
di versi conteneva lodi sempre più esaltate. La salutavano come “colei che fiorisce
come il gelsomino e pro fuma come la cannella”. Per il suo fascino, mio caro, non ci
sono parole. Era più bella dell’aurora, più dorata e più splendente del sole; era un
arcangelo del cielo, la liturgia del giovedì santo, il Vangelo della domenica di
Pasqua! Con mano leggera è possibile raschiar via la patina cristiana. Dei fenomeni
relativi al culto cristiano hanno sostituito una ninfa o una dea”.
PICCHIO
(lat. picus- gr. keleòs)
L’antico popolo dei Latini, quello stesso che, in parte, fornì il sangue alla schiatta
romana salvo poi da quest’ultima farsi umiliare e assoggettare, non ha mai avuto,
come qualcuno potrebbe supporre, la lupa quale animale-totem. Quest’ultima è
appunto il simbolo della città di Roma, probabilmente da un’idea etrusca, vista anche
l’analogia con la Chimera di Arezzo. L’animale che, invece, è alle origini sacrali del
popolo latino è il picchio in quanto in esso si identificò l’eroe eponimo da cui discese
quel popolo. Peraltro, secondo la leggenda, fu un picchio che sorvegliò dall’alto tutta
la vicenda del salvataggio e della cura di Romolo e Remo. In alcuni ambiti del
Mondo Antico ci fu il fenomeno delle “Primavere Sacre”. Allorchè vi era la necessità
di allontanare una parte della propria popolazione (per motivi di sopravvivenza o di
altra natura) era invalsa l’usanza di farsi guidare, per la localizzazione di una nuova
sede stanziale, dai movimenti “casuali” di un qualche animale. Nel caso del popolo
preindoeuropeo dei Piceni o di quello Latino ciò avvenne grazie al picchio, uccello
ben noto per alcune sue caratteristiche, tra cui quella di costruirsi il nido
“picchiettando” il fusto di un albero; da qui il nome. Era anche credenza che il
ritmico picchiettare dell’uccello sugli alberi, ed in special modo sui salici, tipici
dell’elemento acqueo, fosse in grado di attirare la pioggia. In base a questa analogia
fiorirono diversi miti concernenti l’arte magica di invocare le pioggie, che in quei
tempi remoti erano indispensabili più di oggi per lo sviluppo dell’agricoltura.
Tuttavia questa della pioggia è una prerogativa secondaria del picchio, il quale è,
prima di tutto, un uccello regale, prototipo dell’elemento maschile paredro della
Grande Dea, quindi sacro a Marte. Narra infatti Ovidio, nel XIV libro delle
Metamorfosi, che Picus, re di Laurento, era un uomo di grande forza e straordinaria
bellezza: “Egli aveva affascinato col suo volto le Driadi nate sui monti del Lazio,
per lui sospiravano le Dee delle fonti, le Naiadi dell’Albula e quelle del Numicio,
quelle dell’Aniene e quelle dell’Almone dal brevissimo corso o del Nare impetuoso o
del Farfaro dall’onda scura e quelle che vivono nel regno boscoso di Diana Scitica
e nel lago di Nemi”. Tuttavia Picus aveva occhi solo per una ninfa di nome Canente,
cioè una ninfa abile nell’arte magica del canto: “Col suo canto era solita smuovere le
selve e i sassi e ammansire le belve, frenare i lunghi fiumi, trattenere gli uccelli
errabondi”. Ovidio ci riporta dunque in un’epoca primordiale, in un tempo che
potremmo definire psichico per via delle possibilità sciamaniche che vi erano di
interagire col mondo della natura. In quest’epoca non era raro che uomini riuscissero
a stabilire un rapporto sottile con essa, rapporto che venne in seguito idealizzato
sotto forma di mito, quello di un uomo che sposa una ninfa o Dea. Canente non era
però la Grande Dea, la Potnia, Signora assoluta delle selve e degli animali, ma solo
un’espressione condizionata di essa. La Dea vera e propria era Circe, figlia del Sole,
la quale imbattutasi per caso in Picus se ne invaghì perdutamente. Ovidio è un vero
maestro nel suscitare e rievocare stati d’animo fiabeschi ma talvolta è di pregiudizio
per l’interpretazione corretta del simbolismo mitologico. Circe è probabilmente
un’aggiunta poetica al mito primitivo che vedeva in Canente, appunto, la vera
Signora. In ogni caso, Picchio respinge le profferte di Circe e viene da questa, per
vendetta, trasformato nell’omonimo uccello: “Lui scappa, ma con stupore si accorge
di correre più veloce del solito. Si vede addosso delle piume, e sdegnato di dover
così tutto a un tratto andare ad abitare, nuovo uccello, nei boschi del Lazio,
sforacchia con duro becco le selvatiche querce e stizzito infligge ferite ai lunghi
rami. L’oro che prima era borchia e mordeva la veste, diventa piuma: il collo gli
s’inanella di giallo oro. E l’unica cosa che gli rimane com’era, è il nome: picchio”.
Canente, distrutta dal dolore, errò per i boschi del Lazio alla ricerca di Picus finchè,
per lo strazio, si dissolse nell’aria come un canto che si perde nel vento. Entrambi
“muoiono” dunque, anche se in realtà è sempre il maschio che muore e risorge
all’ombra della Dea immortale. Il padre di Picus sarebbe stato Saturno, dio dell’Età
dell’Oro ma anche qui si tratta di un abbellimento virgiliano, poiché secondo una
tradizione il suo vero padre sarebbe stato il Dio Stercolo (cioè lo sterco), a
significare – come ne è anche il caso per il fondatore del popolo etrusco, Tages – che
egli era nato dalla Terra. Dunque Picus era il re del Lazio primitivo e dei suoi
abitanti ma, secondo alcuni, quale re dei boschi, era anche una divinità oracolare (e
con lui si confondono, forse, due altre antichissime divinità latine: Picumno e
Pilumno). Anche gli etruschi utilizzavano il picchio come uccello oracolare, assieme
alla gazza che del resto in latino è detta pica. Da Canente fece in tempo ad avere un
figlio, Fauno, altro essere primordiale con doti oracolari che fu padre di Latino, il
famoso re che reggeva il Lazio al tempo della venuta del troiano Enea. Con Latino
inizia la “storia” del Lazio e contemporaneamente la “morte” dell’età aurea dei
Latini, poiché Roma, come è noto, secolarizzò tutto quanto con le sue strade e con le
sue legioni!
POLITICA
(gr. politèia) – Questo termine che in origine, nel mondo greco, designava la
condizione di essere cittadino di una comunità urbana etnicamente e spiritualmente
definita e, di conseguenza, il diritto di concorrere al governo della propria città, si è
snaturato nel tempo fino ad assumere il significato massimamente generico oggi in
voga. Già con la fine del governo delle città-stato, in Grecia ed altrove, era venuto
meno il significato stesso di politica, in quanto la polis non esisteva più come
comunità etnica autogovernantesi. Le successive forme di governo non hanno mai
più riguardato la politèia, in quanto si riferivano al governo di estensioni territoriali
più ampie o al governo di singoli individui o gruppi. E’ pertanto del tutto improprio,
da parte dei pagani odierni, occuparsi e riferirsi alla politica. Non esistendo più una
comunità organica di individui che seguono l’antica Tradizione, i pagani odierni
sono posti di fronte ad un duplice compito: da una parte rigettare la cosiddetta
politica moderna (così come la sua ipocrita sublimazione detta metapolitica),
dall’altra occuparsi e darsi attivamente all’antipolitica. L’antipolitica è
essenzialmente un’attività inerente l’epoca attuale, quella del post-paganesimo. I
pochi pagani superstiti, da soli o in piccoli gruppi consortili, debbono estrarre tutte le
conseguenze del seguente enunciato filosofico: non lavorare per la società, non
aiutare la società, non cercare di migliorare la società. Non lavorare per l’umanità,
non aiutare l’umanità, non cercare di consorziarsi all’umanità. Vedere nella società
e nell’essere umano la selvaggina o la verdura di cui pascersi per sopravvivere.
Non rispettare nessuno.Ogni attitudine compassionevole è un semplice vezzo
individualistico. Solo noi, in quanto pagani tradizionali, possiamo definirci esseri
umani politicamente democratici.
PRIAPO
(gr. Priapos) - Come per altre divinità rappresentanti il fuoco o sole tellurico, anche
Priapo era di aspetto sgradevole ed era stato abbandonato dalla genitrice, la dea
Venere, che l’aveva concepito con Dioniso, nella cittadina di Lampsaco per il suo
aspetto non conforme: era dotato infatti di orecchie caprine e di un fallo smisurato.
Lampsaco era famosa nell’antichità proprio per il culto che i suoi abitanti tributavano
al dio. Ad esso si sacrificavano asini, ritenuti simbolo di lussuria. Quando il suo
culto si estese oltre i ristretti confini dell’Ellesponto, in Grecia e Italia, Priapo
divenne il nume tutelare di orti e giardini (lo era anche Venere del resto), ove la sua
statua era posta al centro, quale custode e propiziatore di fertilità. Era infatti sempre
raffigurato itifallico ed in genere in forma lignea; legno di fico, per la precisione. Il
dio veniva raffigurato spesso impugnante un falcetto o, meglio, una specie di roncola
per la potatura, il cui significato sublunare e sessuale non può sfuggire. In suo nome
erano composte delle poesie erotiche a carattere sconcio, dette priapee, in gran voga
nel mondo antico. E’da notare la curiosa somiglianza fonetica del nome Priapo con
quello del re troiano Priamo, fecondissimo padre di 50 figli, unitamente alla
vicinanza geografica delle due città.
PROSTITUZIONE e P. SACRA ðIEROPORNIA
ROMBO
(gr. rombos) Nell’Antichità le esperienze iniziatiche e trascendentali avvenivano
tutte in un particolare stato di coscienza alterata – detto manìa, entusiasmo ecc. – il
quale era indotto dall’assunzione di sostanze inebrianti, da danze, da pratiche
erotiche e, non da ultimo, dal suono di particolari strumenti “musicali”. Uno di questi
era il cosiddetto rombo. “Il rombo è formato da una sottile tavoletta di osso o di
legno, con un foro nel quale passa una lunga funicella che viene tenuta tra il pollice e
l'indice con la quale si fa roteare lo strumento. Per il suo attrito con l'aria, la forma
affusolata produce un sibilo grave dapprima, quando la rotazione è lenta ma che
diventa sempre più acuto via via che il movimento si accelera. (...) I suoni prodotti
dai rombi hanno qualcosa di spaventoso che spiega verosimilmente perché tutti i
popoli che li hanno conosciuti li abbiano impiegati nei misteri o nelle cerimonie in
onore di Cibele e di Dioniso” - da cui appunto il verbo rombare (A. Bélis, Musica e
“trance” nel corteggio dionisiaco, in D. Restani (a c. di), Musica e mito nella Grecia
antica, Il Mulino, 1995, pp. 271-281)
“Anche la religione frigia di Cibele ebbe carattere orgiastico e tumultuoso. Anche in
Frigia l’esaltazione religiosa era fomentata da una musica assordante, ottenuta
specialmente con timpani, cembali e nacchere (crotali). E’ interesante notare attestato
fra gli strumenti musicali del culto di Cibele anche il rombo. Col rombo e col
timpano i Frigi propiziano Rhea (= Cibele). leggiamo in uno scolio ad Apollonio
Rodio” (R. Pettazzoni: I Misteri, p.35. Giordano, Cosenza 1997. Il rombo era detto
anche berecinto, dal nome della montagna sacra alla Gran Madre). Lo scolio, cioè
quelle note che gli antichi copisti mettevano a margine dei testi che copiavano, ci
testimonia appunto che lo stato di coscienza alterata o divino trasporto – ovvero
Rhea o Cibele nella dimensione umana – era prodotto dal suono di questo e di altri
strumenti. L’azione del rombo aveva una sua applicazione anche in magia ed in
particolar modo nella magia erotica, tanto che si riteneva Venere come inventrice
dello strumento. In tal caso si usava il rimbyon, un piccolo rombo a forma di rotella
metallica a quattro raggi. Questa differente forma ci permette di capire che il rombo
era tale per il rumore che produceva e non per la sua forma, che poteva essere
molteplice. Pare che un tipo di rombo, descritto da Luciano, fatto di rame, avesse la
forma di un fuso, analogo alla forma della lana quando vi viene raccolta intorno.
Questo dettaglio ci pare molto significativo in riferimento ad alcune figure greche di
maghe o streghe intente a filare la lana: un altro sempio di magia erotica in cui è in
azione una specie di vortice sonoro? Questo strumento serviva a instillare
l’attrazione erotica nelle persone, pronunciando mentre rotava una frase ad effetto: “e
come gira questo rombo di bronzo per virtù di Afrodite, così abbia egli a girare
dinnanzi alla nostra porta” (Teocrito: Idilli, 2, 30). La congiurazione veniva
potenziata da un ritornello. Si tratta di una magia causata da una sorta di “vortice
sonoro”, lo stesso, mutatis mutandis, di quello che avviene in Tibet col gesto di far
ruotare con le mani i cilindri contenenti le preghiere o, in Israele, con l’inclinare
metodicamente il busto in avanti mentre si prega: “Nei fotogrammi dell'estasi, ciò
che maggiormente colpisce è il movimento del corpo del monaco. Tutta la colonna
vertebrale e le spalle si muovono all'unisono in maniera ondulatoria, mentre la mano
destra non sembra coinvolta nel flusso delle altre membra ma, in maniera abile e
decisa, fa ruotare un mulino da preghiera, con la teca di metallo e il filo mobile alla
cui estremità è fissato un piccolo peso. In questo caso, non c'è né il tamburo, né lo
specchio di rame, entrambi in uso presso i Bonpo, ma un oggetto utilizzato ancor
oggi dai monaci buddhisti tibetani. Sappiamo che la teca di questo mulinello
contiene dei mantra e che far ruotare il perno equivale a una loro lettura completa,
che può avere in alcuni casi, oltre al valore della preghiera, anche un senso
apotropaico e di esorcismo. Si tratta, in ogni caso, di un oggetto che, anche se di
piccole dimensioni, crea un vortice sia sonoro sia visivo, che accompagna tutta la
trance. Ora, noi sappiamo che, negli stati alterati di coscienza avviene un fenomeno
di moltiplicazione sinestetica, tale per cui un elemento esterno, anche minimo, può
provocare sensazioni molto intense, potremmo dire ingigantite o moltiplicate.
Possiamo quindi pensare che, al di là dei suoi significati simbolici di carattere
religioso o cosmologico, il mulinello possa assecondare, nelle sue valenze rotatorie,
il viaggio estatico, facilitando l'ingresso in quel vortice o tunnel oltre il quale
iniziano ad apparire le immagini allucinatorie. È questa una dinamica assai nota in
ambito neurologico. Questo movimento rotatorio ci rimanda all'uso del rombo, uno
strumento che risale alla preistoria e che è presente presso molte popolazioni tribali
con differenti funzioni. Fra gli Apache, ad esempio, lo sciamano possiede piume
d'aquila, un rombo e una corda magica. In Australia, presso gli Aranta, l'uso del
rombo è legato a diverse funzioni magiche e ai riti di pubertà. Al giovane, condotto
nella foresta, prima della circoncisione viene ad esempio fatto ascoltare un suono
prodotto dal ciuringia: "Facendolo girare con un filo - scrive Emmanuel Anati -
provoca un suono che secondo gli aborigeni ha il potere d’incantare: gli uomini
vanno in estasi e gli animali si bloccano, lasciandosi cacciare" (Gabriella Brusa
Zappellini: “Vortici sonori - Esseri piumati e trance sciamanica: un'ipotesi
interpretativa” (Relazione tenuta al XVI Valcamonica Symposium (24-29 novembre
1998), Centro Camuno di Studi preistorici. Capo di Ponte, Brescia). “Un’abbondante
documentazione ceramografica ha permesso al filologo inglese Gow di descrivere
con precisione l’aspetto tecnico di un oggetto che le mezzane di un tempo
maneggiavano segretamente per appagare i desideri degli innamorati. Ha la forma di
una rotella attraversata al centro da due fori; questa rotella viene tenuta con una
corda che si fa entrare da un foro e uscire dall’altro, lasciando alle due estremità un
tratto abbastanza lungo. Tirando i due capi della corda, si mette in moto la rotella,
che girando produce un ronzio o un sibilo strano”. Il rombo naturalmente può venire
mosso anche dagli uomini, come ne fu il caso per Giasone, allorchè, come ci ricorda
Pindaro, volle “incantare” Medea. Nel caso di Giasone alla rotella a quattro raggi
venne legato un uccello torcicollo o torquilla. Questo uccelletto era infatti sacro a
Venere per alcune sue caratteristiche. Si univano così al roteare del rombo anche il
fremere forzato della bestiola e il grido stridulo che essa emette. Sia lo strumento che
l’uccello erano chiamati iynx in greco. Anche su un'idra di Populonia, attribuita al
“pittore di Meidias”, è rappresentato questo strumento di magia. Lo tiene nella mano
sinistra Hímeros, il Desiderio, nell'atto di porgerlo ad Adone, riverso sulle ginocchia
di Afrodite che, alle sue spalle, ingioiellata gli accarezza i bei capelli. Dinanzi ad
Adone, Peitho, la dea della Persuasione amorosa, indica con la mano destra un
uccellino, un Iynx appunto, appoggiato sulle dita della sua mano sinistra
(interessante è qui il gioco degli sguardi: Afrodite guarda il Desiderio che guarda
Adone, che a sua volta guarda la Persuasione che guarda l'uccellino). Di
quest'oggetto magico abbiamo una bella rappresentazione anche su un cratere a
forma di campana del IV secolo a.C. (Pescara, collezione Moccia), che mostra
Afrodite seduta su un grande cigno. Le sta dinanzi la dea Peitho, la Persuasione
amorosa, che con estrema grazia fa ruotare fra le dita sottili un Iynx. Alla figura del
rombo si può ricollegare, per certi versi, il mito di Issione: “Il castigo inflitto a
Issione, è di venir trasformato in strumento di seduzione magica. Con le braccia e le
gambe fissate a una ruota che gira nell’aria…”. Non ci pare poi fuori luogo associare
il rombo alla figura geometrica con lo stesso nome, e ipotizzare che anche con tale
forma esso sia stato usato, per quanto non ci siano documenti diretti che lo
comprovino. Indirettamente, invece, sì. Siccome i misteri orfici trattano, nel loro
simbolismo, del rombo e siccome il suo simbolismo pare sia stato accolto dalla
scuola pitagorica, se ne può inferire che esso venisse adoperato con cognizione di
causa: “La matematica applicata alla fisica dei suoni era appunto una disciplina
tradizionalmente coltivata dai Pitagorici”. Successivamente l’uso sacrale del rombo
scadde in quello ludico di gioco per bambini. Tuttavia proprio i simboli ridotti al loro
lato più profano possono richiamare alla mente significati superiori; molti antichi
giochi infantili non facevano altro che riprodurre dei simboli (fra i giocattoli di
Krishna indù bambino c'è una girandola). Così nel mito orfico dell’ammazzamento di
Dioniso fanciullo vediamo che il dio viene attirato e preso prigioniero dai Titani
proprio con l’allettamento di alcuni giochi di tal fatta, fra cui, appunto, un rombo o
girandola. “Possiamo, a mio avviso, ipotizzare che il prototipo preistorico del rombo
avesse a che vedere, in modo stretto, con una dimensione ornitomorfa. È nota
l'importanza che riveste l'uccello nelle culture sciamaniche, per la sua simbologia
legata al volo estatico e per le sue connessioni con la vertigine. Piume, costumi di
uccelli, versi e richiami di uccello sono elementi costanti e onnipresenti nello
sciamanismo. Se pensiamo al mito greco che riconduce l'invenzione dell'iynx alle
vicende del viaggio degli Argonauti nelle zone del Mar Nero, potremmo allora
pensare che questo strumento di magia sia giunto in Grecia, attraverso la Scizia,
proprio dalle culture centro-asiatiche, trasfigurato poi dalla fantasia di un mito che
ha, peraltro, come figura centrale Medea (la maga, incantatrice di serpenti, che
distillava i suoi filtri color zafferano dal croco caucasico) e modificato nell'uso,
inclusa una diversa modalità rotatoria. Ciò che, in ogni caso, lo caratterizza è la sua
connotazione ornitomorfa, che è presente in maniera evidente nell'eredità greca.
Potremmo allora dedurre che i più antichi mulinelli usati dagli sciamani fossero
dipinti con figure di uccelli, che in alcuni casi ne potessero addirittura avere la forma
e che la loro funzione prioritaria fosse creare un vortice legato alla dimensione della
trance. Pensiamo ad alcuni ritrovamenti del Paleolitico superiore. Nella zona fra il
fiume Dnieper e il Don, non lontano da Kiev, sono state trovate numerose statuette
animalistiche, e fra queste sei statuette di uccello d’osso di mammut; sotto le ali di
una statuetta compare l'incisione della svastica, cioè la schematizzazione di un
vortice, la geometrizzazione di un mulinello. Reperti analoghi - statuette di oche e di
anatre che vengono fatte risalire a circa 25.000 anni fa - sono presenti a Mal'ta, a
nord del Lago Baikal. Queste sculture ornitomorfe, la cui altezza oscilla tra i 10 e i
15 centimetri, sono perforate. Ora, se è del tutto ragionevole ipotizzare un loro uso
come pendagli (attestato da una sepoltura rituale in loco), questo non esclude che si
possa trattare anche di mulinelli della trance sciamanica. In questo caso la stessa
svastica, come le diverse immagini di vortice, potrebbe derivare da una
schematizzazione dell'originario movimento rotatorio del rombo-mulinello”. Ma che
rapporto c’è – al di là del suo uso magico - fra il rombo e gli altri strumenti ludici e la
morte di Dioniso? Stando a dei paralleli che sono stati fatti con altre antiche culture
umane (il Pettazzoni ha citato in particolare gli Aborigeni dell’Australia), si può
affermare che il rombo è in connessione con rituali di rigenerazione spirituale, e
l’analisi del mito della morte di Dioniso lo conferma abbondantemente.
ROSPO
Pochi sanno che la parola ‘buffone’ deriva dal latino ‘bufo’, cioè il rospo, le cui
sgraziate movenze sono servite da modello per dare un epiteto ai saltimbanchi del
medioevo. Questo batrace non interessa qui per i suoi richiami alla tradizione
folcloristica ma per il significato magico e sacrale che gli è sempre stato attribuito.
Un significato prevalentemente oscuro e diabolico, almeno per la tradizione popolare
derivata dalle credenze medievali. C’è del vero? In parte è senz’altro così, poichè si
tratta di un animale a vita prevalentemente notturna, che predilige l’acqua stagnante
e melmosa, rifuggendo il sole e la luce. Il suo aspetto, generalmente ributtante, è
servito ad accostarlo con tutto quanto era ‘ai margini nella società medievale o che
non si instradava nei sentieri stabiliti dalle idee religiose imperanti in quella fosca
epoca. Inoltre il rospo era prediletto da streghe e stregoni, tanto da essere un
componente importante di riti, filtri e pozioni. Ai nostri tempi l’esoterista inglese
Aleister Crowley ‘battezzò’ un rospo e poi lo crocifisse, evidentemente nel tentativo
di redimerlo da secoli di ‘demonicità’. Non ci pare che il suo tentativo sia riuscito,
anche perchè non crediamo che la genia dei rospi ci tenga poi tanto a questa
redenzione e, difatti, esso è tutt’ora considerato l’incarnazione di energie ‘malefiche’
e telluriche. Tuttavia il mondo delle fiabe e sparsi riferimenti mitologici ci ricordano
che rospi e ranocchi spesso vengono in aiuto dei protagonisti della fiaba, agli eroi di
un mito: gli conferiscono poteri magici, li salvano da situazioni pericolose, li
arricchiscono, gli confidano segreti. La fiaba è qualcosa di meraviglioso, di
venerando. E’ con commozione che osserviamo stupiti il ‘miracolo’ con cui la natura
è riuscita a far passare gli antichi misteri pagani attraverso quella fantasmagoria di
orrori ed inni alla stupidità umana che fu il medioevo. Essa ce li ha ritrasmessi puri e
immacolati, superni, irraggianti luminosità. Tuttavia è rimasto come ieri inalterato il
velo allegorico, divenuto nel passato delle persecuzioni cristiane anche velo di
segretezza. Il rospo, come tanti altri simboli fiabeschi è come una stella: palesa la sua
luce ma non si fa toccare. Chi è il rospo, allora? E’ il Guardiano della Soglia, il
“demone repellente” che sbarra l’accesso al mondo infero ma che lo dischiude a chi è
in grado di superarne tutti gli ostacoli. Mondo infero che, come quello dantesco,
conduce al Paradiso. Il fatto di ritrovarlo come componente di tanti intrugli magici a
carattere sessuale ci ricorda che uno dei mezzi per varcare la soglia di questo mondo
è proprio il sesso. Naturalmente basta riandare all’antico mondo mediterraneo per
averne delle conferme.La più famosa prostituta del mondo antico,un’ateniese
soprannominata “Fryne”, portava quest’appellativo proprio perchè si congiungeva
con gli uomini alla maniera dei rospi (in greco “fryne”), metodo che per sua natura
non permette alle donne di restare incinte e che i greci hanno mostrato di prediligere
sopra ogni altro. Per Robert Graves invece, studioso appassionato degli antichi
misteri celtici e mediterranei, il rospo appartiene simbolicamente agli arcaici rituali
dei funghi del genere “Amanita”, estremamente tossici. Ora, proprio la parola inglese
“toadstool”, prima di assumere l’odierno significato di fungo non mangereccio o
velenoso, significava esattamente sgabello di rospo”. In effetti alcuni tipi di rospi
contengono nel loro corpo una sostanza psicotropa che è pure presente in alcune
specie di piante e, da sempre, sono stati in rapporto con i funghi ‘allucinogeni’.
Anche in certi miti greci compare l’associazione fungo-rospo. La città di Argo,
fondata dal dionisiaco Foroneo, aveva come emblema un rospo, mentre quella di
Micene stava a significare, nel suo nome, “la città del fungo” (in greco “mykes”).
Non è azzardato pensare ad antichissime culture umane in cui l’orgia e le sostanze
inebrianti fungevano da trampolino per esperienze trascendenti. Di tali culture già in
epoca classica si andava perdendo la memoria storica. Ne permaneva l’eco nella
‘Festa del Tempio di Dioniso alle Paludi’, a Sud dell’acropoli di Atene, uno dei
santuari più antichi del dio. Il geografo Strabone, all’epoca di Cristo, scriveva che
questo santuario era ormai desueto e sorgeva all’asciutto, essendosi ritirata la palude.
Nelle “Rane” di Aristofane i batraci così cantano in onore di Dioniso:

Figli palustri delle fonti,


Facciamo risuonare il concorde suono
Degli inni, il mio canto armonioso,
Koax, Koax
Che intorno al Nisèo Dioniso,
Figlio di Zeus, levammo a Limna,
Quando la schiera del popolo ebbro
Nei sacri rituali delle brocche
Danza nel mio recinto.

In quel capolavoro di amore per il mondo antico che è il libro “Il Simbolismo
Funerario degli Antichi”, lo studioso svizzero J.J. Bachofen, nella seconda parte
dell’opera, traccia mirabilmente i lineamenti del simbolismo della vita palustre, cui
sono collegati i rospi e le rane. Ad esso, rimandiamo il lettore che volesse saperne di
più. Comunque, perchè il rospo era detto in greco “fryne”? Riteniamo che la risposta
possa darcela quella parola dialettale italiana, di carattere osceno, che designa
l’organo sessuale femminile. Infatti il rospo, fin dalle epoche preistoriche, veniva
preso a simbolo dell’utero e della vagina nonchè - ricollegandoci con quanto detto
sul Guardiano della Soglia - alla morte. “Nel corso della preistoria le immagini della
morte non offuscarono quelle della vita: esse sono combinate coi simboli della
rigenerazione, l’utero in quanto tale o analoghe forme animali - pesce, rana, rospo,
porcospino e tartaruga hanno svolto una funzione per quasi tutta la preistoria post—
paleolitica come pure dopo, nel periodo storico” (M. Gimbutas). In diverse culture
dell’america precolombiana, cioè precristiana, il rospo ha mantenuto tutto il suo
significato cosmologico, a dispetto delle sue sembianze insignificanti. “Più di quasi
tutte le altre specie animali - scrive Peter T. Furst - i rospi mostrano una drammatica
metamorfosi: da esseri acquatici vegetariani che respirano attraverso le branchie, in
quadrupedi carnivori che vivono principalmente sulla terra, alcuni di loro dotati di un
potente veleno che può uccidere (leggi: capace di trasformare in un altro stato
d’esistenza), con un habitat che va dai ruscelli e pantani fino alle cime degli alberi
più alti. Queste creature,~. pertanto, sembrano rappresentare i trattiu fondamentali
del pensiero degli indiani americani: trasformazione più che creazione dal nulla,
spiegazione di tutti i fenomeni nel loro ambiente naturale e sovrannaturale;
interpretazione del dualismo e degli opposti complementari; il ciclo della morte e
della rinascita”. Una teologia, come si vede, che non ha bisogno delle complicate
elucubrazioni dei nostri Dottori e che si basa su ciò che ciò dice la natura stessa. Gli
antichi alchimisti avevano una sola parola d’ordine: “Segui la natura”. In essa c’è la
spiegazione di tutto. L’ingestione del veleno dei rospi propiziava l’apertura di
squarci su una dimensione più vasta della coscienza che veniva personificata nel dio-
rospo atzeco Tlaltecuhtli. Se non è più un mistero l’associazione rospo-fungo
“amanita”, in francese detto “crapaudin”, cioè “creatura del rospo” è altresì evidente
che in origine l’uomo, prima di conoscere gli effetti psichedelici dei funghi ne avesse
fatta esperienza già prima, attraverso l’assimilazione del veleno dei rospi. Si tratta
della bufotenina, stupefacente di breve durata e attivo a dosi relativamente alte,
presente pure nel fungo “Amanita citrina”. La bufotenina è contenuta anche nei semi
di una mimosa americana, la “Piptiadena peregrina” e nella comune “Arundo donax”.
Ai nostri giorni il veleno dei rospi, secreto dalla ghiandola parotide, viene utilizzato
dagli stregoni amerindi per le fatture d’amore, dopo essere stato privato della sua
tossicità. Pare anche che esso, assieme ad un veleno estratto da un pesce, concorra
nel rituale afro-americano di animazione degli “zombi”. Nonostante questi
preoccupanti riferimenti, amici lettori, la prossima volta che vi imbatterete in un
rospetto, dissolvete la vostra espressione di disgusto e pensate a tutto ciò che di
grande l’animale rappresenta. E’ il solo atto rituale che vi chiede Tlaltecuhtli, dio del
mondo incantato!
SALUTE
La dea Salus dei Latini originariamente era dello stesso genere della dea Fortuna.
Solo in seguito assunse la caratterizzazione più limitata di dea della guarigione,
divenendo simile alla greca Igea. Igea era infatti la continuazione ateniese della
cretese Eyleithia, ben precedente al culto di Asclepio (lat. Aesculapius), e che in
seguito a lui venne associata nel culto. L’arte della medicina venne insegnata agli
sciamani nordici penetrati in Grecia, impersonati dalla figura eroica di Asclepio, dal
centauro Chirone, saggio abitatore di boschi che impersonava la sapienza pre-greca.
Questo fatto è confermato da un altro dato mitico, poiché Asclepio aveva ricevuto il
sangue della Gorgone Medusa. Con il sangue del lato destro di questa Gorgone egli
era in grado di far resuscitare le persone, mentre con quello del sinistro esse
morivano. E’ qui chiara la capacità di manipolare i due fluidi magnetici universali
ereditata da una divinità precedente. Non a caso Asclepio è uno degli dei più giovani
che esistano, non tanto perché dio della medicina, ma perché il suo culto è attestato
in epoca relativamente tarda. Al suo insegnamento si rifaceva il collegio di medici-
iniziati degli Asclepiadi, attivo nei suoi templi, come a Epidauro, Atene, Cos,
Pergamo e Roma. Ippocrate stesso, a Cos, ne fu il diciassettesimo indegno erede. Era
venerato sotto forma di serpente e se ne percepiva l’aiuto nella pratica
dell’incubazione notturna all’interno dei suoi templi.
SATIRI
(gr. Satyroi) - divinità silvestri raffigurate in sembianze semiferine, generalmente con
la parte inferiore del corpo simile a capri e con quella superiore umana, per quanto
con il volto di forma camusa, bicorni, le orecchie allungate e villose ed il mento
caprino. I satiri sono sempre raffigurati itifallici e affaccendati nel tendere agguati a
donne e ninfe ma il significato del loro nome (da cui anche l’italiano saturo, “pieno”)
fa intravedere la possibilità di un significato misterico, connesso con oscuri riti
sessuali. Il satiro generalmente folleggia per boschi e contrade montuose,
accompagnandosi con il suono di strumenti musicali quali il flauto e la siringa*,
talvolta in compagnia delle ninfe* o al seguito di cortei dionisiaci. Oggi è più
difficile potere scorgere questi spettacoli più di quanto non lo fosse già
nell’antichità. E’ tuttavia possibile catturarne qualcuno, col sotterfugio di versare una
buona quantità di vino in una fonte dove si supponga che questi venga ad
abbeverarsi. L’episodio ci è stato tramandato da Filostrato[20]. Noi riteniamo che
però il vino sia un sostituto del sangue e che questo serviva per farne apparire
sensibilmente le sembianze. Analoghi ai satiri erano i panischi, i sileni e, tra i latini, i
fauni.
SERPENTE
“Nell’antica Europa il serpente è chiaramente una creatura benevola. Nelle mitologie
indoeuropee e del Vicino Oriente il serpente simboleggia i poteri del male” (Marija
Gimbutas). Proprio perché fra tutti gli animali è quello che rimane sempre a stretto
contatto con la terra, il serpente è stato rappresentato nelle antiche civiltà come il
segnacolo dell’energia tellurica, della forza vitale animale. Non a caso, ci sembra, il
termine latino anguis, serpente, è praticamente identico a sanguis, sangue. La stessa
radice è presente in Angitia, dea dei serpenti di cui si celebra ancora il culto nella
Marsica, a Cocullo, sotto le vesti della Madonna. Non deve essere stato estraneo al
suo significato anche la somiglianza del serpente con gli intestini ed il cordone
ombelicale. Ne rafforza il valore simbolico il fatto che quest’animale si riproduce
attraverso le uova, esse stesse un segno della forza vitale tutta pronta a dispiegarsi.
Serpi ed uova sono di frequente associati nelle rappresentazioni simboliche come
ben chiaramente scrive il Bachofen: “Dei due aspetti della vita l’uovo ce la
rappresenta ancora chiusa nello stato fetale, i serpenti invece la mostrano nel
movimento della vita che ha raggiunto la luce. L’uovo è l’immobile fondamento
originario, i serpenti rappresentano lo sviluppo continuo di tutto il mondo tellurico;
l’uno è la materia, gli altri sono la forza che muove, nella sua polarità. I serpenti
portano a esteriore manifestazione ciò che l’uovo racchiude in se stesso”. Si spiega
allora il perché in alcuni casi il serpente è visto essere il padre delle uova, come nel
caso del dio egizio Kneph. Si può ben dire che non esista popolo antico, d’Oriente o
d’Occidente, che non l’abbia celebrato ed onorato in qualche modo. Solo la Madre di
Cristo schiaccia la testa della povera bestiola e il libro sacro dei monoteisti giudeo-
cristiani ce lo rappresenta come il nemico del genere umano. Perché? Il serpente è,
più particolarmente, la personificazione della forza fallica, della virilità fecondante,
dell’elettromagnetismo, della vitalità che anima tutto l’essere umano persino nei suoi
aspetti intellettuali. La sessuofobia maniacale di quei monoteisti, tutta tesa ad
annullare l’uomo, ad estinguerne le capacità di conoscenza, si è scagliata contro il
serpente proprio perché è ostile ai significati che questo compendia. Non è un caso
se in greco la parola gheras designa sia la vecchiaia che la scaglia di serpente! La
Genesi, nella vicenda della Tentazione, esprime goffamente questo tentativo ove, nel
gustare la mela - leggi: l’approccio sessuale con Eva (= la vivente) - il serpente
indica il modo per rendersi simili a dio, poiché nella primitiva redazione il dio del
Giardino era proprio il serpente. Da ciò ne consegue, ma la Genesi su questo è
mutila, che dio sosterrebbe la propria divinità tramite il congiungimento erotico con
una dea, Eva. Non è questo il luogo per discutere di esegesi biblica anche perché è
evidente che si tratta di un testo corrotto e manomesso all’origine della sua
aggregazione nei Libri (= tà biblìa, in greco). Sarebbe comunque interessante
ricostruire la struttura originaria politeista della Genesi. Non è neanche il luogo dove
si possano analizzare tutti quei riferimenti che concorrono a delinerare la figura di
Jahvè così come l’hanno artatamente raffazzonata gli ebrei e i loro continuatori
cristiani, un dio “geloso”, una specie di sotto-demiurgo incapace, omosessuale e
misogino. Robert Graves nel suo impareggiabile libro “La Dea Bianca” scrive che
“in epoca proto-cristiana la setta giudaica degli Ofiti, in Frigia, venerava il serpente,
sostenendo che lo Jahvè post-esilico non era altro che un demone, il quale aveva
usurpato il regno del serpente saggio, l’Unto”. Anche nei miti politeisti un favoloso
serpente è visto come il custode di giardini al cui interno si cela la possibilità di
reintegrarsi nella originaria natura divina. In tal caso il serpente può assumere la
figura più inquietante del drago (serpente alato) ma in realtà è un rafforzamento del
significato trascendente che inerisce alla forza tellurica. Certo, non sarebbe ozioso
domandarsi perché gli splendidi giardini del Rinascimento europeo, per lo più ideati
da architetti italiani, fossero strutturati secondo la complicata trama del motivo
labirintico che raffigura il movimento sinusoidale del procedere del serpente. Il
custode del giardino, serpente, drago o mostro (Minotauro), pare che significhi
sempre la stessa cosa. Nello schema ideologico evoluzionista di J.J. Bachofen
troviamo che il serpente rappresenta, da una parte, il “cattivo” e, dall’altra, il
“buono”, elementi che sono separati unicamente da uno iato di eventi storici. Noi,
politeisticamente, vediamo queste due polarità moralisticamente quantificate dal
Bachofen, compresenti in se stesse, a prescindere da fuorvianti qualificazioni
temporali. “Da un lato troviamo l’impurità della materia tellurica, il serpente e la
canna, che hanno origine nella melma delle oscure profondità, e sono testimonianze e
simboli dell’accoppiamento caotico della terra e dell’acqua (...) Il serpente sembra
così elevarsi al più alto livello di spiritualizzazione. Nel suo aspetto materiale
inferiore il serpente rappresentava l’acqua tellurica e la sua forza generativa
operante nelle oscure profondità della terra (...) ora, invece, il serpente è
rappresentato come animale della luce, e quindi è spesso provvisto di una cresta di
gallo o anche, come la fenice, di un’aureola luminosa attorno al capo; esso diviene,
infine, al più alto grado di spiritualizzazione, il simbolo del nous, che è causa
originaria di tutte le cose, increato, eterno, non soggetto a vecchiaia. Per questo
aspetto, il serpente diventa un’espressione delle più alte idee misteriche, e un
simbolo della partecipazione alle speranze supreme dell’iniziazione (...) Il serpente
diviene un segno evidente della fiducia nell’immortalità e nel passaggio a un più alto
e divino stadio dell’esistenza, che gli antichi consideravano come il consolante
significato della dottrina misterica”. Ecco spiegata la presenza dell’ animale (ureus)
a mò di corona sulla fronte dei Faraoni egizi mentre come bracciale, al braccio
sinistro, denota il favore e l’abbondanza della forza vitale. Anche l’abitudine che
hanno i serpenti di cambiare la pelle (la muta), è servita a testimoniare la vittoria
sulla morte, la rinascita e la metamorfosi. Marija Gimbutas: “Non il corpo del
serpente era sacro ma l’energia emanata da questo animale che striscia o si
raggomitola, energia che trascende i suoi limiti e influenza il mondo circostante (...)
Il serpente era qualcosa di primordiale e di misterioso, emerso dagli abissi delle
acque dove la vita comincia. Il suo rinnovarsi stagionalmente, col mutare pelle e
cadere in letargo, ne ha fatto il simbolo della continuità della vita e il legame con gli
inferi”: (Il Linguaggio della Dea. Cap. 14. Neri Pozza, Vicenza 1998). Un
simbolismo che probabilmente non è di origine indoeuropea, è quello dei due
serpenti raffigurati nel larario della villa romana di Iulia Felix a Pompei. Questa
pittura riferisce la diversa concezione politeista riguardo alla morte e ai defunti.
Mentre il cristianesimo segrega i morti in quella specie di lazzaretto che è il campo
santo, isolandoli dalla comunità dei viventi (e quindi dalla Natura) fino ad un
improbabile “giorno del giudizio”, l’antica religione li vede ancora “vivi” e agenti a
beneficio della comunità, purchè siano eseguiti i riti appropriati, in grado di
risollevarli dal letargo della vita larvale. Nella parte superiore del dipinto si presenta
la scena di un sacrificio ai Lari domestici, cioè agli antenati defunti, con lo scopo di
tenerseli propizi. Nella parte inferiore si vedono due serpenti che da direzioni
opposte lambiscono con la lingua delle uova poste sull’altare. Il significato di questa
duplice scena è stato esaminato dal Bachofen ne “Il Simbolismo funerario degli
Antichi” ma non ci pare che l’illustre studioso ne abbia saputo proporre una sintesi
pregnante. A nostro giudizio, lo sconosciuto patrizio che commissionò ad un artista il
dipinto, era un iniziato ai misteri che voleva offrire un soggetto di meditazione agli
ospiti che entravano nella Domus - il larario veniva posto subito dietro l’ingresso
delle abitazioni - oltre che adornare con grazia il suo tempietto. La meditazione forse
era la seguente: col sacrificio del maialino si fornisce, tramite lo spargimento di
sangue, nuova vitalità agli antenati (Lari), significato che è pure riproposto dalla
scena dei due Lari che travasano il vino ai lati della scena sacrificale. Queste energie
“infere” rianimate dal sacrificio soprastante stimolano lo schiudersi delle uova poste
sull’altare - sono cioè fautori di nuova dynamis polarizzata, benevola e prospera,
destinata ai membri della Familia sacrificante. Nella mitologia greca vi è un dio
protomediterraneo associato al fallo e al serpente. Si tratta di Hermes, originario
dell’Arcadia, regione che ha mantenute fino in epoca “classica” dei retaggi di epoche
antichissime. Non a caso la sua immagine di culto era un cippo, con un volto da una
parte ed un fallo raffigurato dall’altra. Simbolo di questo Hermes, come molti
sapranno, è il caduceo, cioè un bastone attorno al quale si attorcigliano contrapposti
due serpenti: le due polarità della forza tellurica. Esiste però anche un caduceo con
un solo serpe arrotolato; questo è l’attributo di Asclepio, dio della medicina, a
significare un uso specifico di questa forza. Oltre trecento anni fa, riferisce sempre la
Gimbutas, nel 1604, un missionario gesuita riferiva con stupore del culto del
serpente in Lituania: “qui sono tanto pazzi da credere che la divinità sia presente nei
rettili. Perciò li proteggono perché nessuno faccia del male a quelli che tengono in
casa. Sono così superstiziosi da credere che il male ricadrà su loro se si mancherà di
rispetto a questi rettili. Capita di incontrare serpenti che succhiano il latte dalle
mucche. Alcuni di noi (sacerdoti) a volte abbiamo cercato di cacciarne uno, ma
invariabilmente il contadino cercava invano di dissuaderci. Quando le sue preghiere
cadevano nel vuoto, afferrava il rettile con le mani e correva a nasconderlo”.
Certamente in questo tipo di rituali si può parlare di nekrophilìa, alimentando così le
preoccupazioni di coloro che vedono nei riti del paganesimo - così come in quelli
della stregoneria medievale - un sistema operativo per entrare volontariamente in
contatto con i demoni. Ma di che sorprendersi? Portare la luce del sole nel mondo
sotterraneo dei trapassati è uno dei più bei gesti d’amore che il genere umano abbia
potuto mai compiere verso se stesso, almeno fino al giorno in cui la visione del
mondo dei viri lucifugi - come li chiamava Rutilio Namaziano - ha portato le tenebre
anche qui sopra da noi.
TORO
(gr. tauros) Animale sacro ed emblematico che in un determinato periodo configurò
un particolare ciclo di civiltà e, segnatamente, quella cretese, passato alla storia per il
mito fantastico del Minotauro. Era il simbolo per eccellenza della forza maschia
lunare, tant’è vero che come toro bianco era l’animale metamorfico di Poseidone e di
Zeus fecondatori. Con questa forza si misuravano i giovani nelle taurokatapsìe, gare
in cui si catturavano tori con l’ausilio di cavalli e di funi o a mani nude. Queste
potevano mutarsi in tauromachie che, come dice il nome, erano dei combattimenti
all’ultimo sangue contro l’animale. Sopravvivenza di tali agoni sono le moderne
Corride. La civiltà cretese ha lasciato traccia figurata di questi eventi in bellissimi
affreschi. Platone riferisce che il più importante ufficio divino degli Atlantidei
(Cretesi) era infatti il sacrificio del toro, col cui sangue si aspergevano cose e
persone. Non a caso, nella deformazione che venne fatta in seguito dei simboli
ieratici di quella civiltà, il sangue di toro passò ad essere considerato come un veleno
senza rimedio, mentre il culto indoeuropeo di Mithra vedeva nel toro la forza
tellurica da sconfiggere e dissipare. Il primo fra tutti i generi di sacrifici offerti agli
dei dagli uomini, con Prometeo, fu un toro e tale cerimonia è considerata come la più
importante dei sacrifici pagani. Infatti, nelle religioni misteriche il sangue taurino ha
una virtù catartica, purificatrice e costituisce una specie di battesimo tellurico. Il
taurobolio, pratica comune ai culti di Cibele e Attis, consisteva nello scendere in una
fossa coperta da una grata. Su quest’ultima veniva sgozzato un toro il cui sangue
“docciava” sul miste che in tal modo veniva considerato consustanziale alla divinità
adorata. Questo battesimo di forza tellurica è confermato, nel suo significato, dal
fatto che spesso assieme al toro si giugulava anche un caprone (criobolio). Non è un
caso se nel culto di Mithra invece, l’uomo-dio è assiso sopra e non sotto al toro,
nell’atto di effonderne il sangue, volendo significare con ciò l’allontanarsi da ogni
commistione col mondo ctonio della Vita. Nel tempio labirintico di Cnosso il
sacerdozio taurino era affidato a delle donne così come ad Efeso si venerava una
Artemide raffigurata adorna di genitali recisi di tori, erroneamente ritenuti dei seni.
La mancanza di una separazione vera e propria tra mondo divino e mondo umano e
tra quest’ultimo e i mondi minerale, vegetale e animale, la stessa possibilità di
‘passare’ attraverso queste modalità di coscienza, permette di comprendere le
‘stranezze’ e le ‘assurdità’ dei miti, dei riti e delle consuetudini di quelle remote
epoche. Per quanto possa sembrare inverosimile, quegli antichi erano persone più
pratiche e concrete di noialtri. Quando volevano esaltare e celebrare la Vita - l’unica
cosa che permette a me di scrivere e a voi di leggermi e per la quale non c’è bisogno
di tirare in ballo teologie o metafisiche — essi si indirizzavano a ciò che ne era
l’essenza stessa: il toro, così come sul mare lo era il delfino, nel mondo vegetale lo
stesso concetto era rappresentato dall’edera e dalla vite; in quello minerale dai
terremoti e dalle eruzioni vulcaniche. Il toro è l’animale più rappresentato del mondo
antico. Basti dire che è presente nelle più antiche raffigurazioni dell’uomo dei
primordi, così come nei suoi manufatti e nei suoi simboli. Quando parliamo del toro
ci riferiamo non solo alle fasi dell’umanità in cui predominavano le culture stanziali
o sedentarie ma anche a quelle che pare siano le più antiche, le culture dei popoli
cacciatori e raccoglitori; in tal caso il toro è stato rappresentato anche dal bisonte, dal
bufalo, dal capro e dal cervo. La mitologia greca ci narra di numerosi episodi che
vedono coinvolti tori divini, in specie nell’atto di possedere e fecondare più o meno
fragili creature umane, come le cretesi Europa e Pasifae. L’animale è generalmente
visto come come la maschia forza fecondante che tramite la violenza ha ragione
dell’elemento femminile. Questa concezione deriva da una storicizzazione del
tessuto mitologico in seguito all’invasione della regione mediterranea da parte di
stirpi cosiddette “indoeuropee”, portatrici di una mentalità patriarcale, monoteista,
astratta e piuttosto bellicosa. In realtà, sussistono degli elementi mitici che
permettono di guardare oltre la deformazione apportata dall’ideologia religiosa di
quei popoli conquistatori. In primo luogo, si parla quasi sempre di un toro bianco;
l’analogia con la luna è evidente ed è riconosciuta già in un testo iranico
(indoeuropeo: Bundahisn, 1-49) in cui il toro è detto “bianco e lucente come la luna”.
Inoltre, il disco bianco o il triangolo sulla fronte, assieme alle corna, sono
un’esplicita riproposizione della falce lunare. Nelle figurazioni della religione
mitraica, il toro è rappresentato come la stilizzazione di una falce di luna posta in
orizzontale mentre in astrologia, infine, il segno zodiacale del toro è quello della
massima esaltazione lunare. Riferimenti che sarebbe troppo lungo commentare ma
che vanno dai celti agli egizi e dagli ebrei ai sumeri, portano a stabilire che il vigore
e la fertilità del toro sono incentrati sulle corna lunari e femminili. In molte culture
c’era l’usanza di seppellire corna di toro nei pressi delle tombe quale segno di
rinascita e vittoria sulla morte. Il toro violentatore sarebbe dunque una forzatura del
simbolismo, confortando così la tesi di coloro che vogliono omologare toro e vacca,
toro e bue, quali simboli di fecondità. A rendere quasi probatorio il concetto
sopradetto ci ha pensato una studiosa inglese, Dorothy Cameron, la quale si è
domandata perchè il simbolo taurino e in specie il bucranio - cioè il teschio con le
corna - è così preminente fra quelli che indicano il fluire della Vita? Marija Gimbutas
ha così sintetizzato la risposta: “Sembra che la risposta a questa domanda si trovi
nella straordinaria somiglianza dell’utero femminile e delle trombe di Falloppio con
la testa e le corna del toro. Questa somiglianza probabilmente era stata scoperta con
lo sviluppo del processo di scarnificazione nella sepoltura. Nella figura 411 [vedi ill.
seguente] si può notare che le trombe di Falloppio sono spinte in avanti nel corpo
femminile e possono essere volte verso l’alto o verso il basso; normalmente sono
rivolte verso il basso ma quando il corpo giace sul dorso si volgono verso l’alto,
come probabilmente è stato osservato durante il processo di scarnificazione. Se
notiamo che nell’arte neolitica alcune rappresentazioni della testa del toro mostrano
le corna sormontate da rosette o stelle, allora la somiglianza risulta ancora
maggiore”. A riprova c’è la figura 412 del libro della Gimbutas, ‘Il Linguaggio della
Dea’, che noi riproduciamo e che raffigura un vaso antropomorfo: la testa taurina è
posta proprio sull’addome. E’ il caso di fare un’altra citazione da quest’ottimo testo
dichiaratamente politeista: “Appare dunque chiaro che la preminenza del toro in
questo sistema simbolico deriva non dalla forza e mascolinità dell’animale, come nel
simbolismo indoeuropeo, ma piuttosto dall’accidentale somiglianza della sua testa
con gli organi riproduttori femminili (...) il geroglifico egizio per l’utero riproduce il
teschio a due corna della mucca. Tutto ciò è più che verosimile, per il dato di fatto
che assai spesso le culture conquistatrici fanno propri, modificandoli, i simbolismi
dei conquistati, come ci ricorda la famosa espressione latina “Graecia capta ferum
victorem cepit”. Così i temi dominanti della figura mitologica del toro risentono di
questo problema, a partire dalle storie che concernono l’isola di Creta, centro
ideologico e sacrale della civiltà politeista mediterranea. I conquistatori achei di
Creta dettero pertanto una caratterizzazione eminentemente belluina ai miti del toro
e, quando vollero screditare l’antica cultura soggiogata, crearono di sana pianta la
mostruosa figura del minotauro, oppure la storia della Settima Fatica di Ercole, in cui
il dio trasporta a forza il toro cretese in Grecia e lì lo sacrifica. Il tutto fu possibile
perchè il toro era l’animale sacro per eccellenza fra i cretesi. Chi, come noi, ha
visitato l’isola di Creta, può notare l’onnipresenza di questo simbolo, dai ‘souvenirs’
per turisti ai resti archeologici e alle insegne pubblicitarie: il centro sacrale di Cnosso
accoglie oggi come una volta i visitatori esibendo sulla sommità del ‘Palazzo’ le
corna taurine, maestosamente edificate in pietra. I vasi cerimoniali per le offerte sono
spesso foggiati a mo di testa di toro, per non parlare dei dipinti che lo raffigurano in
contesa con giovani acrobati. Da Creta potrebbe essere derivata la famosa ‘ corrida’
spagnola e così pure quella provenzale e portoghese — ove non si uccide il toro —
in ricordo di antichi riti e cerimonie, anche se completamente desacralizzate e sfogo
ormai di una sanguigna animosità. Fino al secolo scorso non era infrequente la
partecipazione alla ‘corrida’ di donne-torero; non si può vedere in ciò il retaggio di
un antico sacerdozio femminile del toro? Anche in Italia abbiamo un retaggio del
toro e proprio nel nome stesso della nazione: pare infatti che significhi “terra del toro
o del vitello”, così come la città di Torino, fondata dalla tribù celta dei Taurini.
VENERE
(lat. Venus, etr. Turan) – Antichissima dea italica pre-romana, più tardi assimilata
all’ellenica Afrodite. Tardivamente accolta nel pantheon romano (il suo primo
tempio a Roma risale al 295 a.c.), divenne in seguito, dapprima con Silla e poi con
Pompeo e Giulio Cesare che l’aveva retoricamente assunta quale capostipite della
sua dinastia Iulia, divinità tutelare dello stato romano, raggiungendo il suo apice
sotto Traiano, che identificò il suo culto con quello della stessa dea Roma. A parte
questi artifici retorici la vera Venus era una dea assolutamente diversa, una dea
molto simile a Circe ed altre figlie del Sole. Per farsene un’idea basta riferirsi alla
sua festa ufficiale che coincideva con le due feste del vino, in primavera ed estate.
Del resto è molto curiosa la correlazione tra le parole VENUS – VINUM –
VENENUM – VENA – VENATUS [1] che fanno pensare possa trattarsi di una
antica divinità della magia amatoria e della seduzione, analoga appunto al mondo
marsico degli incantatori di serpenti e quindi di Angizia, Angerona e Circe, come
suggerisce anche la radice della contermine città sannita di VENAFRO. Rimanendo
sempre nell’ambito del simbolismo fonetico vediamo che l’azione del venerare, lungi
dall’avere il significato superstizioso e devozionale che ha assunto, non era altro che
la particolare rituaria nei confronti di Venus la quale poteva elargire al seguace la
venia, cioè il suo favore e i suoi doni (solo successivamente “chiedere venia” ha
preso il significato rovesciato di chiedere perdono). Il compito principale di Venus,
come quello della sua analoga siciliana Venere Ericina, era quello di dispensare il
piacere sessuale e la fecondità che ne poteva conseguire. Con la solita impudica
abitudine di stravolgere i significati delle cose a loro favore, i Romani, antesignani in
ciò dei Gesuiti, avevano anche una Venere Verticordia (volgitrice di cuori),
introdotta nel culto su suggerimento dei Libri Sibillini allo scopo di indurre le donne
di Roma a contrarre matrimonio, dal momento che preferivano trascorrere la vita nei
piaceri anziché nella servitù della stirpe patrilineare.
------------------------------
[1] Anche la caccia (Venatus), in quanto disciplina di tendere agguati agli animali
selvatici, di attirarli nelle insidie dei cacciatori (Venatores), rientra nel significato
complessivo sopra accennato.
VENTI
(gr.anemoi) – demoni dell’aria sottoposti al controllo di Eolo, figlio di Poseidone e
loro re. A differenza di quest’ultimo, i Venti erano oggetto di devozione popolare.
Dimoravano assieme ad Eolo nell’arcipelago delle Eolie. Una importante
“Sacerdotessa dei Venti” è ricordata in una iscrizione cretese (Knossos Corpus,
Tavoletta Fp (1)1). Ai venti pare che si sacrificassero vittime umane e più tardi,
agnelli bianchi o neri, a seconda che essi fossero benefici o meno. Erano
rappresentati come uomini anziani alati e dai lunghi capelli. Ecco i loro nomi:
Borea o Aquilone, da Nord
Zefiro o Favonio, da Ovest
Noto o Austro, da Sud
Africo o Libeccio, da Sud-Ovest.
Euro o Argeste o ancora Volturno, da Sud-Est.
Subsolano o Apoliotes
Grecale o Cecia, da Nord-Est
Schirone, da Ovest-Nord-Ovest
Accanto ai Venti i Greci o perlomeno i loro poeti… onoravano anche le più miti
Aure, cioè le brezze.
VULCANO
(lat. Volcanus - gr. Hephaistos) - Dio del fuoco tellurico, distruttivo e dell’ardore
sessuale. Figlio di Hera, che l’avrebbe generato, secondo Esiodo, senza il concorso
del maschio. Un riferimento all’assenza del partner ne fa anche il DIO DELLA
MASTURBAZIONE. Quando tentò infatti di violentare Atena (nata anch’essa....)
questa si oppose a tal punto che il dio eiaculò su una sua coscia. Il seme, caduto
dall’Olimpo sulla Terra, dette vita a Erittonio. Tradizionalmente era fatto risiedere
nell’isola vulcanico-egea di Lemno, nei pressi della quale fu precipitato perché nato
deforme ( ðzoppìa) dalla propria madre Hera o da Zeus. Caduto in mare fu accudito
e svezzato dalle dee pelasgiche Teti ed Eurinome. In realtà era il preistorico dio dei
vulcani, il sole che si ingrotta (come attesta la sua caduta per un giorno intero
dall’Olimpo) venerato come tale nei principali centri vulcanici del mediterraneo
occidentale. Abilissimo forgiatore, di aspetto sgradevole era però legittimo marito di
Venere, da cui era regolarmente tradito. Aveva al suo servizio gli dei-fabbri Cabiri.
Fu anche colui che creò la prima donna, Pandora, dopo averla tratta dall’argilla. Era
festeggiato dai Romani il 23 Agosto con le VOLCANALI. Nel rito privato romano si
gettavano nel suo fuoco piccoli pesci vivi. Secondo R. Graves il Vulcano dei Romani
deriverebbe da un Velcano cretese cui sarebbe ricondotta anche la figura del Vulcano
greco, Ephaistos, per via dei suoi ricollegamenti mitici con Talo. Questa tradizione è
stata definita da Pierre Grimal, chissà perché, “aberrante”. Graves fa di Efesto e
Vulcano degli dei solari, volendo ricondurre l’antica usanza di uccidere il Re divino
gettandolo da una rupe, al mito della zoppia e della caduta dei primi. Il fatto di venire
gettato giù dall’Olimpo e di venire salvato da due dee protomediterranee può invece
significare che il culto di Vulcano era in origine tipico delle culture politeiste
preindoeuropee, soffocate da Dori ed Achei, e sotteraneamente protrattosi (custodia
in una grotta del mare, per nove anni, da parte delle dee. Nove è un numero lunare).
Il egittimo matrimonio di Vulcano con Venere, dea dell’eros, rafforza il significato
misterico sessuale del culto del dio, legato, secondo Graves, alle orge sessuali
connesse con i misteri della metallurgia e la danza della pernice. Vulcano, noto per le
sue scappatelle amorose con deità bellissime, non è il prototipo della bellezza
maschile ma quello del suo potere di seduzione.
ZOOFILIA
Nel Mondo Antico era pratica non inusuale il commercio sessuale con gli animali,
sia da parte delle donne che degli uomini. Entrambe le azioni sono documentate in
numerose raffigurazioni archeologiche e nei racconti mitici. Anzi, è proprio la
teologia politeista che ha dignificato questa consuetudine, nelle storie degli dei che si
trasformano in animali per avere ragione della ritrosia di dee, ninfe e donne. Del pari
è notissima la vicenda della cretese Pasifae che ebbe commercio carnale col toro
poseidonico. Un non diverso significato doveva avere la storia dei sette giovani e
delle sette vergini che gli Ateniesi dovevano inviare a Creta per essere sacrificati al
Minotauro (=uomo-toro). Se si dovesse credere alle spiegazioni dell’antropologia, -
che illustra il rapporto sessuale degli uomini con gli animali come una perversione
causata, da una parte, dalla impossibilità di contatti umani e dall’altra, con lo stimolo
dato dalla visione degli accoppiamenti naturali delle bestie - non si riuscirebbe a
spiegare perchè nel l’Antichità veniva dato un rilievo così importante a questo tipo di
rapporti, fino ad immischiarvi gli stessi Dei. Da un punto di vista politeista, - cioè la
comprensione sintetica del mondo antico pre-cristiano -, la bestialità ovvero il
rapporto sessuale con animali, può essere spiegato in modi complementari.
Innanzitutto l’isolamento in cui nei tempi antichi vivevano moltissimi individui,
spingeva naturalmente molti a compiere questi atti - considerati i limiti che ha la
masturbazione in termini di gratificazione psichica - con una frequenza tale da
rasentare la normalità e da non riscuotere un eccessivo biasimo da parte della società.
Solo col cristianesimo si ebbe una generale condanna del sesso con gli animali, che
associò la bestialità con la lussuria, cioè la ricerca del piacere ad ogni costo. Quella
che oggi è considerata una perversione, a causa della sua rarità, una volta era
considerata solo un comportamento estremo e selvatico. Il fatto però che vede
coinvolti gli Dei in questo genere di sessualità deve spingerci a considerare se non
esistevano degli elementi oggettivi che facevano di questa pratica un atto quasi
religioso. Già il primo ...storico della Storia, il greco Erodoto, riferiva degli
accoppiamenti donna-capro che avvenivano in Egitto durante una solenne festività
religiosa. “Ai miei tempi, in quella circoscrizione è avvenuta questa mostruosità: un
montone si univa con una donna apertamente e tale fatto era divenuto di pubblico
dominio (Storie 11,46). Per quanto già Erodoto la consideri una mostruosità, è lo
stesso storico che ce ne offre da lungi la spiegazione: “Pur essendo a confine con la
Libia, l’Egitto non è molto ricco di animali; ma tutti quelli che vi si trovano sono da
loro considerati sacri, tanto quelli che vivono con l’uomo, quanto gli altri. Se
volessi spiegare per quali motivi sono stati consacrati, dovrei scendere a parlare
delle cose divine, e rifuggo più che mai dal diffondermi su tale argomento...”
(11,65). Dunque si vede bene che Erodoto era al corrente del motivo oggettivo che
motivava la bestialità, un motivo sacro, divino e religioso, del quale si rifiuta di
parlare, vincolandosi a quel segreto che è sempre stato rispettato dagli Antichi circa i
loro Misteri. Essendo mutati i tempi ed i costumi, noi possiamo tentare di invstigarne
il motivo senza lo scrupolo religioso di Erodoto. Un indizio ci viene dalla curiosa
predilezione che gli Egizi avevano di raffigurare i propri Dei in maniera
teriomorfica, cioè in forma animale o semi-animale. “Donde provenivano queste
divinità dalle teste leonine, di falco, d’ibis, di sciacallo, di tartaruga di scorpione, di
scimmia, di serpente, di coccodrillo, di scarabeo, d’ippopotamo?Si avverte che un
grande enigma si celava - e si cela - dietro queste maschere d’animali; tutt’altro
enigma, in verità, di quello “totemico” elaborato dall’immaginazione sbrigliata e
“scientifica” di sir James Frazer. La “maschera animale” possiede un’espressione
fissa e determinata, eternamente attuale. Questa fissità pietrificata accomuna
l’espressione della testa animale a certe regioni dello spirito, caratterizzate dalla
perennità. Notiamo pure che, l’antico abitatore del Nilo, viveva in una epoca in cui i
legami dell’uomo con la natura non erano ancor stati sciolti. Il mondo non era, per
lui, così diviso come lo è ora per noi; non esistevano frontiere invalicabili tra la
pietra e l’uomo, tra la pianta e l’uomo; quanto all’animale, esso partecipava con
piena naturalezza alla grande famiglia umana” (Commento di G. Kolpaktchy a “Il
Libro dei Morti degli Antichi Egiziani”. Ceschina, Milano. 1956. p. 42-3).
Terminiamo qui questa citazione, che meriterebbe di essere riportata per intero, a
causa della sua potenza di concisione espressiva. Dunque gli Egizi paragonavano la
fissità del volto animale “a certe regioni dello spirito caratterizzate dalla
perennità”. Dobbiamo ritenere pertanto che il mondo animale - così come, per altri
versi, quello vegetale - costituiva una VIA DI ACCESSO al mondo divino, via che
poteva essere percorsa anche grazie a quella particolare forma di magia sessuale che
era la bestialità. Ecco che ci si mostrano nella loro vera luce tutti quei miti e quei
racconti che vedono uomini, donne e Dei congiungersi sessualmente attraverso la
forma animale, e con gli stessi animali! Indubbiamente alcuni racconti sono
certamente simbolici ed esagerati, come i rapporti donna-toro, anche se qualcosa di
vero, in forma ridotta, può essserci veramente stato. Non è questo il luogo, ma
sarebbe interessante studiare il mito di Pasifae, del toro e del Labirinto visto come il
luogo delle Sacre Nozze Umanimali. Il mondo giudaico-cristiano ha invece sempre
visto la bestialità come un crimine “mostruoso”, per dirla con Erodoto. Nell’Esodo
(22,19), molto caritatevolmente, sta scritto: “Chiunque giace con una bestia sarà
messo a morte”. Il versetto precedente non è meno caritatevole: “Non lasciare
vivere la fattucchiera”. Il seguente, poi, vota all’anatema “chi sacrifica agli Dei’. Il
Levitico (20,15) è ancora più becero: “Chi pecca con un animale sia messo a morte
e sia ucciso anche l’animale. La donna che peccherà con un animale sarà messa a
morte con esso, e il loro sangue sia sopra di essi”. Parola del Signore.
ZOPPÌA
E’ molto diffusa nella mitologia la raffigurazione di divinità zoppe o che vengono
rese tali. Il caso più celebre è quello del dio Vulcano che divenne tale per essere stato
precipitato giù dall’Olimpo da Giove. In realtà tutte le divinità zoppe sono
strettamente connesse con i culti tellurici e lasciano intravedere il fatto che colui che
è stato reso zoppo, lo è stato per essersi avvicinato troppo a determinate energie,
dalle quali è stato sì menomato ma da cui ha peraltro ricevuto un potere. Nel mondo
palestinese è nota la vicenda di Giacobbe che, dopo essere stato colpito ad una
coscia, in seguito alla lotta con l’Angelo del Signore, ne riceve la veggenza dei
mondi superiori ma anche di Saulo di Tarso, accecato da Dio e poi divenuto suo
mentore. Così, pure Anchise, amato da Afrodite.
Con il fenomeno della zoppia devono essere connesse certe danze rituali, che
riecheggiano i movimenti amorosi di certi animali durante il corteggiamento, come la
danza della Pernice.

G
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*
DIZIONARIO IDELOGICO DI PAGANESIMO
sezione dedicata a
PIANTE E VEGETALI
(elaborazione dal libro Gli Orti di Priapo)
© by Vittorio Fincati

Voci finora pubblicate


ACONITO – AGNOCASTO – AROMI, PROFUMI, RESINE – ASPARAGO – BELLADONNA –
CANNA – CAPELVENERE – CICUTA – CIPRESSO – EDERA – ELLEBORO – EPHIALTION
– FAVA – FERULA – FICO – FINOCCHIO – FUNGHI – GIACINTO – IPPOMANE –
LATTUGA – LAURO – LENTISCO – LINO – LOTO – MANDORLO – MANDRAGORA –
MELO – MELOGRANO – MENTA – MIRTO – MOLY – MIRRA – NARCISO – NINFEA e
NENUFARO – NOCE – OLEANDRO – OLMO – ONTANO – ORCHIDEA – PANCRAZIO –
PAPAVERO – PEONIA – PERO – PINO e RESINE – PIOPPO – PLATANO – QUERCIA e
VISCHIO – ROSA – RUTA – SALICE – SCILLA – SEDANO – SILFIO – SMILACE – VIOLA –
VITE

ACONITO
Molto molto tempo fa Ercole ebbe la ventura di imbattersi nel famoso cane infernale Cerbero; nella
furia della lotta la bestia tricipite sbavò con tale foga, nel tentativo di liberarsi dalla stretta dell'eroe,
che alcuni spruzzi di quella bava caddero nei campi circostanti una regione sul Mar Nero, e da essa
nacque la velenosa pianta dell'aconito (Aconitus Napellus). Era anche detta erba di Ecate, poiché
questa lugubre divinità sarebbe stata la prima a farne uso. Esperta di veleni era anche la famosa
Medea, d'altronde figlia di Ecate, la quale tentò di avvelenare Teseo propinandogli una coppa di
vino affatturato con dell'aconito. Ovidio dice che deriva il suo nome dal fatto che nasce tra le rocce
(dal greco aconè, roccia). Tutte le specie del genere aconitum, ferox, vulparia, napellus, ecc. sono
fortemente velenose e i galli ed i germani erano soliti intingere la punta delle armi nel succo di
queste piante, così come abbiamo riferito anche per l'albero del Tasso. Anche i condannati a morte
veniva giustiziati con esso, trovandolo più rapido come effetto della cicuta.

AGNOCASTO
Nella città di Atene le donne sposate erano use ricoprire il proprio letto con le fronde
dell’Agnocasto detto anche Vetrice, in occasione delle feste Tesmoforie. Ciò al fine di non venir
indotte in tentazioni carnali poiché, come dice Plinio (24,62) “Venerem impetus inhibent”. Le
Tesmoforie erano caratterizzate dalla castità rituale delle partecipanti. “Le sue virtù anafrodisiache
vanno di pari passo con la sua efficacia nei fenomeni di mestruazione e lattazione”1[1]. Alessandro
di Tralle attribuiva ai semi presi in pozione la proprietà di diminuire la produzione di sperma. Nel
medioevo era conosciuta col trasparente pseudonimo di pepe dei monaci o degli eunuchi. Veniva
impiegato nei riti gastromantici assieme a “abbondante storace e incenso maschio” (Alcifrone L.
19).

AROMI, PROFUMI, RESINE


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Per Bachofen “la goccia di resina trasparente e viscosa, così odorosa nel fuoco, mostrava all’uomo
la forza della potenza solare che si congiungeva con l’acqua”. L’alto significato religioso e l’uso
rituale di essa, per Bachofen, sono da ricercasi negli accostamenti analogici che gli antichi facevano
con il mondo divino. “Perciò alcuni alberi resinosi, come gli abeti bianchi e quelli rossi, sono
particolarmente sacri a Dioniso (…). Per gli antichi, tutti i liquori di pregio con la forza del sole trae
dai frutti della terra, sono lacrime della gente divinità della natura (…). Con la resina bella e
splendente la natura piange lacrime di lutto sul destino di morte che governa il suo mondo”2[2].
Quest’interpretazione dello scrittore elvetico ci pare molto romantica e poco corrispondente ai
principi simbolici che governano le associazioni analogiche degli antichi. Alle resine va attribuito
un significato sessuale. D’altronde porsi nell’ottica di una natura che è destinata a morire vuol dire
non inquadrare il vero pensiero degli antichi che nella morte vedevano un evento trasformativo,
quindi proprio una perenne affermazione della vita. Una vita che si cercava di conservare il più pura
possibile. Plutarco, nel suo scritto su ‘Iside e Osiride’ (372 D) riferisce che i sacerdoti egizi
“bruciavano tre offerte al Sole: all’alba resina (incenso), a mezzogiorno mirra e al tramonto il
cosiddetto ‘Kiphy’ “. tuttavia lo scrittore di Cheronea interpreta solo fisiologicamente il valore di
questa triplice fumigazione (383 B): “L’atmosfera della quale e nella quale viviamo non mantiene
sempre una composizione costante: di notte si raddensa e grava sul corpo, e porta l’anima alla
depressione e all’ansia, rendendola vorrei dire fumosa e pesante. Per questo, non appena si alzano,
essi subito bruciano della resina (incenso), e in questo modo migliorano l’aria e la purificano
rendendola più leggera: lo spirito vitale che regge il nostro corpo viene così rianimato dal suo
appassimento, in quanto l’odore della resina ha in sé qualcosa di intenso e di eccitante. A
mezzogiorno poi, quando sentono che il sole aspira dalla terra un’esalazione densa e pesate e la
mescola all’atmosfera, essi bruciano della mirra (…). Quello che conta è il potere aromatico della
maggior parte degli ingredienti (del Kiphy), che sprigionano un dolce vapore e un’esalazione
salutare: in questo modo l’aria si ricambia e il corpo, dolcemente cullato da questo piacevole alito,
acquista una disposizione favorevole al sonno, mentre le tristezze e la tensione delle preoccupazioni
quotidiane si allentano e si sciolgono come nodi”. Citando un passo perduto di Aristotele, Plutarco
afferma che gli aromi, penetrando il cervello, che per sua natura sarebbe freddo e congelato (sic),
giovano parimenti alla contemplazione, visto che essi sono di natura calda e dolce. Certo è
innegabile l’effetto puramente fisico che gli aromi contro le epidemie ed infezioni oltre quello di
modificare gli stati di coscienza e del comportamento. D’altronde gli stessi medici antichi, come
Ichesio, sapevano che i profumi di rose, mirra e cotogne erano adatti alle riunioni conviviali della
sera; quello ottenuto dai fiori di vite, l’enante, schiariva lo spirito; quelli di maggioranza, serpillo,
zafferano, nardo e mirra a goccia contrastavano le eccessive libagioni (Ateneo XV 689 cd). Tuttavia
gli egizi, come i sacerdoti di tanti altri popoli, effettuavano le fumigazioni allo scopo che lo
scoliasta di Eschine aveva così chiaramente enunciato: attirare gli Dei. L’incenso venne adoperato
nella liturgia cristiana solo nel V secolo. Evidentemente non ci si era scordati che fu per non averne
bruciato in onore degli Dei che i cristiani vennero condannati e giustiziati. Successivamente, nella
consacrazione di re e sacerdoti, si adoperò il “balsamo del santo crisma”, composto di olio d’oliva e
storace, oppure di “balsamo di Gilehad”, cioè il rarissimo balsamo di Giudea. L’incenso era
chiamato dai greci anche col nome libanotos, da cui ancora la parola ‘olibano’, ma ciò non è altro
che una caratterizzazione che identifica l’incenso col nome del paese, il Libano, dove giungevano le
carovane che poi lo imbarcavano sulle navi fenicie. Libanotis invece era uno dei nomi del
rosmarino mentre la libanomanzia era una forma di divinazione che si attuava tramite
l’osservazione delle forme che assumevano le volute del fumo d’incenso. A questo riguardo è
interessante riportare la precisazione di un famoso testo teurgico (De Mysteriis, 157,11): “Le
esalazioni delle offerte hanno affinità con il dio, non con l’anima dell’adepto”. Fumi e profumi
venivano adoperati anche in occasioni profane, come i banchetti, per quanto sia dimostrabile che
potessero avere anche un carattere di genere differente, tipo il convito dei platonici. In queste
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occasioni si fruttavano, verosimilmente, le proprietà euforizzanti, stimolanti l’intelletto o


l’immigrazione, favorendo la coesione psichica tra i convitati. Ecco perché si riteneva l’odore del
fieno greco, che per noi è praticamente puzzolente, come “soave e delicato”. Ma anziché attirare gli
Dei, li si avesse voluti in qualche modo cacciare? Il mondo politeista del passato forniva all’uomo
anche questa opportunità, bastava suffumicare con odori opposti a quelli loro tradizionalmente
tributati. Il Papiro di Berlino (6,3-5) è molto chiaro: “pestare insieme miele, olive fresche, sale del
nord, ordina di donna in stato mestruale, sterco di asino, sterco di gatto, sterco di maiale, la pinta
ewnek…. così da fare una massa compatta e la si usi per fare suffumigi intorno all’uomo”3[3]. Dal
banchetto e dal simposio si poteva giungere fino alla baldoria e all’orgia, tipo quella che vide la
morte del macedone. Paul Faure sostiene a riguardo una singolare ma non trascurabile tesi: “L’uso
profano ed esagerato di resine, balsami, aromi ed unguenti da parte di stirpi ed esseri che
dominarono su genti e paesi li portò in breve alla rilassatezza dei costumi e alla degradazione fisica
e psichica; così sarebbe avvenuto per Tolomeo XIV° e Cleopatra che, d’altronde, dette il suo nome
al famoso vino di Cleopatra. “Fu così ce a forza di drogarsi i greci finirono per intossicarsi e
degenerare? Sarebbe troppo facile attribuire ad un unico fattore la decadenza di un popolo, ad una
malattia o ad una catastrofe naturale. E’ certo però che il ‘ratafia’ ha causa più vittime tra gli
indigeni delle Americhe di quanto non abbiano potuto i proiettili dei fucili europei e che il ‘peyotl’
e la ‘marijuana’ hanno abbrutito più messicani e colombiani, alterando gli spermatozoi umani, di
quanto il tabacco abbia fatto col cancro alla gola e ai polmoni tra i fumatori (…) “Bisogna
ammettere che un buon numero di capi di stato e di nuovi ricchi che vivevano tra gli effluvi delle
resine, bevevano vini aromatizzati alla cannella o al gin e grondavano di baccar, di costo e di nardo,
avessero un comportamento da drogati. La cosa pare assodata per Sardanapalo, Creso, Dario III,
Alessandro, gli ultimi tolomei, Nerone, Eliogabalo (…) “Sfortunatamente, di tutto ciò i nostri storici
non vogliono saperne niente. E’ troppo poetico, immateriale e soggettivo per essere preso sul serio
voler spiegare la politica orientale dei faraoni della XVIII dinastia, di Salomone, di Alessandro
Magno o di Marco Antonio con un bisogno incontrollato di fumigazioni e di oli profumati (…)
Supporre, anche solo per un istante, che un certo numero di capi di stato, di principi, in Egitto, in
Persia, in Siria, ad Alessandria o a Roma, siano morti nel fiore dell’età per essersi intossicati con
allucinogeni, afrodisiaci, con oppio o vini profumati pare sacrilego, fuori del tempo, estratto
artificiosamente dal contesto. “Pertanto cosa fossero il ‘saoma’ della religione avestica, il vino di
palma di Touthankamon e quel liquore contenuto in un astuccio di corno che, misto a vino
aromatizzato, si portò via Alessandro all’età di trentadue anni, sono domande che valgono se non
altro la pena di esser poste unitamente con quelle sull’impiego delle pipe trovate negli scavi della
Cipro preistorica”4[4]. Se gli aromi usati nei sacrifici hanno una direzione di efficacia ‘verticali’, i
profumi veri e propri ne possiedono una ‘orizzontale’, avendo il fine di armonizzare o sovrapporre
la personalità dell’uomo a quella dei suoi simili. Così Plinio (13,2) attribuendo ai persiani l’uso
primevo dei profumi, afferma che essi ne sono addirittura impregnati “e ricorrono ad essi come
espedienti per estinguere il fetore causato dal loro sudiciume”… come si può constatare emerge
dalle parole pliniane la mutua avversione tra romani e persiani anche se, in verità, più avanti si trova
scritto che allorché Alessandro si impadronì della reggia di Dario III la prima cosa che fece, tra
tante ricchezze, fu di impadronirsi del ‘necessaire’ del re con tutti i suoi profumi! Abituati come
siamo alle essenze sintetiche potrebbe destare meraviglia sapere che nell’antichità andavano per la
maggiore i profumi allo zafferano, alla maggiorana, al giaggiolo, alla rosa, al fior di vite, alle
cotogne, all’origano, all’henné – oggi noto solo come colorante per capelli -, quello antichissimo al
narciso. Con tali erbe venivano composte miscele anche molto complicate come il ‘profumo di
Mendes’, il ‘Metepion’, il ‘Rhodinon’, il ‘Melinon’ e il ‘Megalion’. Una libbra di tali miscele
poteva giungere a costare fino a 400 dollari romani – a fronte di una paga giornaliera per un operaio
di 25 – o più, come ne era il caso per il ‘Foliatum’, il più caro in assoluto. L’impero romano,
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all’epoca di Plinio, importava aromi e spezie dall’Oriente per un valore di cento milioni di sesterzi
annui, nello stesso periodo a Pompei, un sesterzio era sufficiente per conciliare il pasto con la
cena… Erano in voga anche i profumi in polvere o pastiglie, per coprire quest’ultime l’alito cattivo,
e l’imperatore Otone, amico e successore di Nerone, si spalmava fiananco le piante dei piedi con
profumi in pasta. Il mito, con la storia di Leucotoe narrata a Ovidio, sintetizza la concezione
dottrinale delle resine quali agenti di trasformazione. Nelle ‘Metamorfosi’ (IV, 190) Orcamo scopre
l’amore tra la propria figlia Leucotoe ed il Sole e decide di sottrarla per sempre al dio celeste
seppellendola viva nel terreno, ove il Sole non può raggiungerla né scaldarla con l’abbraccio dei
propri raggi. Visto vano ogni tentativo di riportarla in vita, il dio escogita allora un artificio per
riportare a sé l’amata creatura: la trasforma nella pianta dell’incenso. “Al supplizio inflitto dal padre
a una figlia sedotta per separarla dall’amante e fissarla nella posizione più lontana dal sole,
corrisponde la metamorfosi di un corpo destinato alla putrefazione nel suo contrario, in una pianta
aromatica: il suo prodotto, nato da sole e destinato a raggiungerlo, permette ai due amanti di
ricongiungersi più strettamente uniti di prima”. Non è difficile qui risconoscere in Leucotoe l’anima
umana e nel Sole il Sé immortale che nella vita corporea gli è disgiunto. Uno dei mezzi atti a
stimolare questa riunificazione sono appunto le sostanze aromatiche tra cui primeggiano le resine.
Gli effluvi dell’incenso separano in un certo qual modo la mente dalle vibrazioni che gli
provengono dal circostante mondo materiale, e la predispongono alla contemplazione e alla teurgia.
Diversamente, se volessimo ricollegarci vieppiù col ‘Ciclo della Generazione’, con questo mondo di
perenne trasformazione di forze di identica sostanza in forze sempre diverse, adopereremo ciò che
con tale mondo è intimamente connesso: Enea rievoca i mani del padre Anchise effondendo il caldo
sangue di una pecora nera. Alcune sette gnostiche bruciavano sperma e sangue mestruale al fine di
richiamare in vita delle forme larvali o, ancora, con bruciamenti di bile animale, come attesta
Porfirio (De Antro 11 e 18). Pare che il dittamo di Creta entrasse quale componente basilare “per le
manifestazioni magiche materiali di tutti quei ‘monstrua’ che non sono di genere animale”5[5].

ASPARAGO SELVATICO
La bella Perigune, per sfuggire a Teseo, si nascose un giorno in una macchia di canne e di asparagi
selvatici. Qui implorò i vegetali di non farla vedere a Teseo e, se questi l’avessero fatto, gli promise
che mai più li avrebbe tagliati o bruciati. I suoi discendenti, gli Iossidi, ereditarono da Perigune la
promessa e a queste due piante tributarono un vero e proprio culto. I beoti, invece, cingevano con
questi asparagi selvatici, i cui turioni eduli sono amari al gusto, i fianchi delle proprie spose
promesse. Il Baumann spiritosamente arguisce che forse ciò avveniva perché questi asparagi amari,
se sapientemente coltivati, possono diventare dolci. In realtà essi sono omologhi nel simbolismo
alle canne, in quanto tipica vegetazione palustre, come attesta anche Galeno. Per Dioscordie gli
asparagi in generale impediscono a uomini e donne di generare figli, se se ne beve la radice decotta.
Il nostro riferisce incredulo la superstizione che queste piante nascerebbero dove si seppelliscono
corna di montone polverizzate. Per Plinio (XX 108) Venerem stimulant. E’ dunque una pianta con
proprietà falliche, come d’altronde testimonia la forma del turione commestibile, e come tutti gli
afrodisiaci favorendo l’amplesso tende parimenti ad ostacolare il concepimento, come vedremo più
avanti. Quelli selvatici godono di maggiori virtù e sempre Plinio: “Per ottenere un effetto
afrodisiaco viene prescritto di bere l’acqua di cottura nella quantità di un’emina (circa 0,27 l); i
semi esplicano la medesima azione, uniti ad aneto, in dose di tre oboli (circa 2,25 gr) per ciascun
componente.”

BELLADONNA
Tra le piante orgiastiche gli antichi greci ne annoveravano una che aveva il potere di far perdere il
pudore alla dose di una dracma, offrendo nel contempo visioni ed allucinazioni con tutta l'apparenza
del reale. Plinio (21,178), che riporta la notizia, avverte che la dosa doppia provoca pazzia
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irreversibile e tripla morte immediata. Questa pianta, chiamata con numerosi aggettivi, potrebbe
forse essere il solano furioso, di cui parlano Teofrasto, Galeno e Dioscoride. Questo solano, a sua
volta, potrebbe essere identificato con la nostra belladonna.

CANNA PALUSTRE
Analizzando delle rappresentazioni sepolcrali concernenti il mito di Ocno, Bachofen si domanda
perché la scena sia ambientata fra alte piante palustri. Questo Ocno era occupato ad intrecciare una
corda mentre il capo opposto, appena formato, veniva mangiato solertemente da un asino. La scena
ci fa capire che i due continuano nelle loro rispettive azioni indefessi e senza un termine temporale:
quello che Ocno intreccia l’asino subito se lo mangia. Tralasciando l’asino che distrugge, il nostro
Ocno non fa altro che simbolizzare l’unione delle due polarità primordiali, figurate dai due capi che
egli intreccia, maschile e femminile, da cui sortisce la corda o materia esistente6[6]. La vegetazione
palustre, che fa da sfondo alla scena, “ci mostra il materiale con cui viene intrecciata la corda, e
pone così una necessaria e intima connessione tra il rozzo tessuto della corda e lo stadio più
profondo della creazione naturale". Ora, questo materiale è una canna palustre, il giunco, schoinos
in greco e spartum in latino. Tuttavia Bachofen sostiene che il nome non deriva dall’azione
materiale dell’intrecciare cordami o vimini, dal latino iungere, congiungere, ma da quella allegorica
“largamente diffusa di forze naturali che intrecciano, filano, tessono”. E’ invece proprio l’unione
sessuale del maschile col femminile operata dal demiurgo Ocno a dar nome al giunco, poiché la
pianta palustre sarebbe il prototipo per eccellenza di ogni generazione. Difatti, apparentemente, le
piante palustri sembrano quasi che non si propaghino tramite l’attività mascolina
dell’inseminazione ma che si autogenerino sortendo dal fondo oscuro e limaccioso della palude
grazie alla commistione di due elementi: Terra e Acqua, l’uno secco, l’altro umido. “Nella palude
l’acqua e la terra appaiono connesse in modo così indissolubile, che l’idea di un unione sessuale
androgina nasce quasi spontaneamente… nelle paludi la materia tellurica sembra accoppiarsi con se
stessa”. In realtà la forza maschia che innesca la vita nelle innumeri forme contenute nell’ “acqua”,
opera occultamente, non vista, nella mota nera del fondo palustre. Il fango, in molti simbolismi,
racchiude l’idea della maschilità generativa. Il significato della vita palustre che si genera
spontaneamente “deriva dall’attività completamente indipendente della grande forza materiale, che
respinge ogni intervento umano, e compie da sé – in un circolo interno – l’opera della creazione,
della propagazione della specie e della loro conservazione, senza essere arata, seminata o mietuta”.
Radamanto, fratello di Minosse, fu un famoso legislatore cretese. Tuttavia per aver ucciso un
parente dovette fuggire sul continente, in Beozia, e ivi morì. Venne sepolto ad Aliarto sulle sponde
del lago Kopaide, in un canneto. Gli abitanti della cittadina denominarono la sua sepoltura alea.
Zeus per premiarlo della sua esemplare rettitudine lo nominò giudice dei morti. Si diceva che il suo
spirito faceva frusciare profeticamente le canne, a mo’ di oracolo. Anche nel mito di Mida abbiamo
i giunchi sorti sulla buca scavata dal suo barbiere che rivelano a tutti il segreto delle orecchie
d’asino. Quest’animale è, principalmente, simbolo del sesso maschile nel suo aspetto più carnale.
Le orecchie asinine sul capo del re frigio evidenziano che l’uomo era totalmente preso dalla natura
fallica e polluitiva del suo sesso. Volerla celare, coprendola col berretto, reprimerla dove non può
essere repressa, nella testa, significa semplicemente potenziarla. Così, quando il barbiere insufflò
nella terra questa natura fallica, essa risorse endemicamente nella vegetazione palustre che, per le
caratteristiche sue proprie, è la più adatta ad esprimere “la sregolatezza della generazione eterica”.
La casta ninfa Syringa un giorno rischiò di essere vittima della bramosia del dio arcade Pan. Per
evitare di perdere la sua verginità l’amadriade, ormai sul punto di soccombere, giunta sulle rive del
fiume Ladone in piena pregò le sue sorelle di tramutarla in una canna e così fu. La melodia
lamentosa prodotta dal vento frusciando tra le canne piacque però al capriforme, che decise di
riprodurlo fabbricandosi con esse uno strumento a fiato: lo zufolo o flauto di Pan. In Plinio (24,85)
la canna ha molteplici proprietà. Non manca quella afrodisiaca: la radice pestata fresa e allungata
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con vino “suscita Venere”. Si potrebbero citare altri miti attinenti alle canne, come quella parlante
della favola di Psiche in Apuleio, o di altre piante palustri ma tutte, invariabilmente, richiamano lo
stesso significato: “La rigogliosa vegetazione delle umide profondità rappresenta il desiderio
invincibile e inappagato della materia verso l’unione sessuale e una sempre rinnovata fecondità.
Così l’eterismo manifesta non soltanto la sua caoticità, ma anche l’inesauribilità del suo istinto
all’unione erotica”. Anche per lo sparto, pianta palustre a forma di giunco, si può dire che conferma
il carattere eterico della vita e delle vegetazione dei pantani. Dal greco speirein, seminare, esso trae
il significato di ciò che “conosce solo la madre, mentre la potenza attiva maschile è invece
identificata con un seminatore individualmente indeterminato”, da cui anche il termine latino
spurius, figlio illegittimo. Bachofen conforta le sue tesi sulla vita paustre contrapponendo ad essa
quella campestre della dissodazione e ordinata seminazione, della coltivazione della terra in cui, per
mano dell’uomo e di tecniche e regole precise, la vegetazione è condotta e disciplinata. Come nelle
paludi tutto è promiscuo e disorganizzato al contrario nei campi vi è ordine, selezione. Partendo da
questo assunto e uscendo dai canoni classici di interpretazione, Bachofen fonda l’antitesi palude =
prostituzione, campi coltivati = vita matrimoniale monogamica. “La creazione palustre è il simbolo
della promiscuità sessuale extramatrimoniale e senza regole, mentre la coltivazione è il simbolo
della vita cereale- matrimoniale”. Così non è un caso se già Eliodoro (Aethiologica 3.14.3) riferiva
che Omero, nato da un adulterio, aveva i peli delle gambe lunghi e fluttuanti come canne palustri,
riportando la relazione palude=eterismo a tempi remoti. Se queste tesi possono avere un loro valore
intrinseco non per questo possono applicarsi alla vita delle antiche società mediterranee, dove più
che contrapposizione vi era commistione di principi e comportamenti. Il limite dell’esegesi
bachofeniana sta nell’aver voluto trasferire ai simboli un contenuto moralistico che essi possono
avere solo in via del tutto subordinata.

CAPELVENERE
Per quanto non sia una pianta palustre, essa può essere messa in relazione col mondo della acque e
della generazione. Predilige i luoghi ombrosi, dove penetra appena la luce, per cui è specialmente
consacrata a Plutone; si abbarbica sulle pareti di roccia che hanno il fenomeno dello “stillicidio”
dell’acqua, vegeta nel tratto iniziale dei pozzi, delle grotte, vicino le cascate. Pianta connessa
inevitabilmente con le ninfe delle acque deve il suo nome alla leggiadria delle sue fronde e dei suoi
esilissimi gambi neri: in francese è nota come capillaire. Teocrito (13,42) riferisce che il
capelvenere era tra le piante della fonte ove si recò l’argonauta Hylas in cerca d’acqua per la nave.
La ninfa Driope si innamorò del giovane e lo trascinò con sé in una grotta subacquea. Non è questo
l’unico caso in cui la mitologia ci narra di giovani attirati sott’acqua dalle ninfe e ivi periti. In effetti
il contatto con le ninfe non è scevro di pericoli, se non si è coraggiosamente preparati. La coscienza
poteva subirne un trauma e, tra gli antichi, chi veniva ammaliato da esse era detto lymphaticus
(forsennato) o nympholeptus (invasato). Il famoso timor panico era analogo o identico al timor
linfatico.

CICUTA
Tra le piante non arboree la cicuta mena vanto del fatto di aver cagionato la morte di Socrate, il
famoso ateo o corruttore di giovani7[7]. Tuttavia era adoperata anche a fini iniziatici, come
separando artificiale in determinate operazioni psichiche. Il cristiano Ippolito nella sua
Confutazione di tutte le eresie (5,8,39-40), riferiva riguardo lo ierofante di Eleusi, che questi si
rendeva impotente con la cicuta allo scopo di staccarsi da ogni generazione carnale. Un curioso uso
della cicuta è quello fornito dal medico pitagorico Anassilao. Costui nel 28 a.C. venne espulso
dall’Italia con l’accusa di praticare le arti magiche. Ebbene egli raccomandava l’uso di impacchi di
cicuta sui seni, fin dal principio della giovinezza; in tal modo sarebbero stati sempre ben sostenuti.
Se in ciò non vi è nulla di magico forse ce n’è di venefico, vuoi per le fanciulle, vuoi per qualcuno
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più adulto8[8]… Comunque Plinio (25,154) gli dà credito soggiungendo che la pianta possiede
proprietà rinfrescanti ed astringenti, che ferma il latte alle puerpere e, applicata sui testicoli
nell’adolescenza “extinguit Venerem”. La moderna farmacognosia conferma questa proprietà
consigliando anche l’uso di una pomata di cicuta, fatta con 5 grammi di estratto e 60 di sugna. Per
le sue proprietà calmanti, è stata consigliata nella spermatorrea e nella ninfomania. Altra pianta
funebre, sorella minore della cicuta, è il prezzemolo. Era considerato di malaugurio poiché serviva
a procurare gli aborti: un antico proverbio inglese afferma infatti che “il prezzemolo prospera
nell’orto dei cornuti”… Dopo il disastro delle guerre persiane gli ateniesi sostituirono, in segno di
lutto, corone di olivo con corone di prezzemolo.

CIPRESSO
Quando il tracio Orfeo si ritirò sulle vette solitarie del monte Emo mettendosi a suonare la cetra per
commemorare la perdita dell’amata Euridice – come racconta Ovidio – al suono delle struggenti
note accorsero estasiati smuovendo le radici persino gli alberi, e tra essi il cipresso. In realtà il
cipresso non fu sempre così come noi oggi lo conosciamo poiché, in illo tempore, fu un giovinetto,
amato da Apollo9[9]. La mitologia infatti fa nascere la pianta dalla vitalità esangue del giovane
Ciparisso - nunc arbor, puer ante scrive Ovidio - così metamorfosato per aver ucciso erroneamente
un cervo sacro da lui amato nell'isola di Ceo10[10]. E' comunque assai difficile ricostruire il
simbolismo del cipresso, in quanto la pianta affonda le sue radici nella più vetusta antichità
mediterranea - è infatti parola cretese. Secondo lo ierobotanico francese J. Brosse il cipresso
sarebbe da ricollegare ad un primitivo dio-albero a cui era sacro, come animale totem, il cervo.
Quest'ultimo, del resto, ha sempre simboleggiato il ciclo di morte e rinascita, raffigurato dagli
Antichi con storie di amore drammatico e la vicenda di Ciparisso, come noi appunto abbiamo
rimarcato, vi fa riferimento. Pianta nota fino ad un certo punto poiché, infatti, il cipresso piramidale
o maschio è piuttosto recente, botanicamente parlando. Ad esso è sempre preesistito quello
orizzontale o femmina, di aspetto totalmente diverso e diffusissimo una volta nel mediterraneo.
Plinio (16,139) ricorda che è consacrato all’infernale Dite “e perciò viene collocato presso le
abitazioni in segno di lutto”. Ugualmente si piantavano “ferali cipressi” di fronte alle pire funebri
(En. 6,216) ove si appendevano le insegne dei defunti; le are funebri erano fatte pur’esse di “atra
cupressus” (En. 2,64). In un brano di Orazio, la maga Canidia per comporre il filtro stregonico col
quale affatturare Varo, abbisognava per il fuoco di legna di cipresso, cupressos funebris, in quanto
già da allora quest'albero era associato con la morte o, meglio, con la vita nelle tombe. Oggidì essi
adornano i cimiteri ed i viali che vi conducono: per tale ragione furono definiti “odiosi” dal poeta
Orazio che, evidentemente, non aveva in vista il simbolismo resurrettivo della nobile pianta.
Essendo nata da un fatto luttuoso non poteva non essere presente negli stessi inferi; in una laminetta
orfica trovata ad Ipponio si legge:
Di Mnemosyne è questo sepolcro. Quando
ti toccherà di morire
andrai alle case ben costrutte di Ade: c’è alla
destra una fonte,
e accanto a essa un bianco cipresso diritto;
là scendendo si raffreddano le anime dei morti.
A questa fonte non andare neppure troppo vicino
Il cipresso infernale è bianco poiché lui, sempre virens, quiggiù è privo della linfa vitale, anch’esso
è larvale e fatuo e la fonte che gli è da presso è quella dell’oblio della propria individuazione,
bevuto alla quale l’anima “cancellerà” la propria impronta, andando a confluire nel gran vortice
della generazione. Virens, verdeggiante, in latino è analogo a vir, uomo in senso eminente, a ver,
primavera e a vis, forza. Quindi al di là del più esteriore simbolismo funebre il cipresso è testimone
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di resurrezione, di continuità della vita e quindi di fertilità. Ne è prova tuttora l’usanza, in Grecia ma
in origine pre-greca, di piantare un cipresso quando nasce una femmina. Tra le piante più antiche
relative all’arte di guarire, il cipresso era già presente in un testo assiro di trentacinque secoli or
sono, ov’era citato per il trattamento delle emorroidi. I medici orientali infatti, - riferisce M.
Messeguè – inviavano alcuni pazienti nell’isola di Creta che, al pari della Turchia, lussureggiava
quasi di cipressi, al fine di migliorare il loro stato respirandone gli effluvi balsamici. A causa degli
uomini oggi Creta è quasi priva di boschi e particolarmente spoglia di cipressi. Nel XVI secolo
Mattioli poteva ancora scrivere: “la propria patria de i cipressi è l’isola di Candia (Creta); perciochè
quivi in ciascun luogo, che si muova la terra, senza seminarvene il seme, vi produce la natura i
cipressi”. Oggi se ne trovano relitti giganteschi di antiche foreste nell'originaria varietà orizzontale,
all'imbocco settentrionale delle gole di Samarià, nella parte sud-occidentale dell’isola e che, inoltre,
sono le più lunghe gole di tutta l’Europa. Appartenendo alla famiglia delle conifere rientra sotto
l’egida di Saturno. L’effetto coagulante saturniano si avverte nella risoluzione quasi portentosa di
tutte le affezioni che denotano una pulsione marziana abnorme: emorragie, metrorragie, emorroidi,
varici, perdita di elasticità dei vasi sanguigni ma, anche, per la cura di tossi spasmodiche e
l’incontinenza uterina. La qualità mercuriana della sua essenza balsamica, come per le conifere in
genere, agisce sulle altre affezioni delle vie respiratorie (raffreddori, influenze). Saturno è analogico
alla quiete, alla stasi o al lento movimento, tardambulonem, quindi è fattore di calma e l’essenza di
cipresso, veicolando questo principio, può giovare come sedativo: “dato il suo effetto astringente e
la sua capacità di arrestare la produzione e l’eliminazione die liquidi organici, a livello psichico
probabilmente è in grado di arrestare la fuga di idee, di calmare più che di stimolare”11[11]. L’effetto
migliore lo si ottiene con la pianta fresca, poiché l’essiccamento diminuisce la proprietà astringente.

EDERA
In uno dei documenti letterari più antichi riguardanti Dioniso, l’Inno Omerico XXVI, il dio è
definito “coronato di edera” e, poco oltre, “tutto cinto di edera e di alloro”. Gli stessi seguaci
partecipavano al corteo inghirlandati di edera ma anche con altre piante, come il finocchio e le
foglie di pioppo, la vitalba e la salsapariglia. Anche l’Apollo delfico era chiamato “Apollo ornato
d’edera, eccitato d’eccitazione bacchica, profeta”, poiché si trattava di una sovrapposizione
apollinea su un preesistente culto dionisiaco. Come si può vedere da altri riferimenti è chiaro che la
vite, l’uva e il vino gli furono attribuiti solo in un secondo momento e non riuscirono mai a
soppiantare il ricordo della sua caratterizzazione prevenicola. La facilità con cui gli si potettero
attribuire diverse specie vegetali si deve al fatto che queste svolgevano una stessa funzione, erano,
come vedremo, piante inebrianti e orgiastiche che ben si adattavano ai rituali misteriosofici della
“religione” dionisiaca. Uno degli appellativi col quale Dioniso era conosciuto, Bacco, ci conferma
che la divinità si omologava alle più svariate piante inebrianti: il termine greco bacchos “indicava
solo i tralci o i rami di varie piante che gli iniziati portavano” e derivava da un’arcaica parola
mediterranea indicante la bacca, il frutto dei cespugli e delle piante selvatiche. Per esempio, in
greco baccharis designava il ciclamino e bakkaris la bàccara, il cui odore al dire di Dioscoride,
procurava il sonno. Il bacchar, confuso dai greci con l’asaro, in italiano anche baccaro o nardo
selvatico, è invece il baccar o nardo rustico di Plinio che sarebbe, secondo Andrè, l’Helichrysum
sanguineum. L’edera o èllera dunque, prevale tra le piante che hanno preceduta nel simbolo la vite,
ed era componente essenziale del tirso, sorta di scettro e emblema che i seguaci di Dioniso
impugnavano durante le loro sacre cerimonie. Dobbiamo aprire un’ampia parentesi sul tirso poiché
esso racchiude in sé l’essenza stessa del dionisismo. La stessa parola tirso, dal verbo thyo (infurio,
agito) denota un significato orgiastico. Col tirso le baccanti infuriavano per le selve e, talvolta,
uccidevano uomini o bestie per poi farli a brani e divorarli ancora palpitanti. In origine pare che
questo strumento fosse dotato all’apice di una punta acuminata o mucrone. Il culto orgiastico di
Dioniso si caratterizzava per il traumatico ampliamento della coscienza procurato da mezzi violenti
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quali la musica, la danza, l’orgia, il canto, le sostanze inebrianti e la stessa violenza omicida. Nel
tirso sono simboleggiati il sesso e gli inebrianti. La pigna che sormonta il tirso è un segno
trasparente del sesso maschile. L’edera che le si involge intorno, come in natura fa con i tronchi
degli alberi, ne rappresenta la potenza non individuata, analogamente al serpe della Genesi
attorcigliato all’albero della Vita. Cogliere l’edera, cingersene il capo, equivale a dimostrare di aver
padroneggiato questa forza, per quanto, come già diceva Platone (Fedone 69): molti sono i portatori
di tirso (nartephori), ma pochi quelli invasi (bacchoi) dal nume. L’edera doveva avere una funzione
precipua come pianta inebriante, assunta con un modo conosciuto solo agli iniziati e che non è mai
stato svelato. Robert Graves ritiene che si trattasse di una bevanda inebriante primitiva e cioè della
birra di abete rinforzata con un succo di edera e addolcita con idromele. In effetti ci sono molti
indizi per ritenere che le più antiche orge dionisiache fossero a base di vegetali fermentati, delle
birre molto lontane dalle nostre… delle “tragedie” a base di spelta[19]. Già nel IV secolo si era
addirittura persa l’idea di un’origine previnicola di Dioniso stando a questi versi dell’imperatore
Giuliano:
sono i celti che, per mancanza d’uva
ti hanno fatto con dei semi
E’ dunque Demetrio, non Dioniso
che ti si deve chiamare o meglio figlio del frumento
o Bromo, ma non Bromio!
Una varietà di edera, quella a frutti rossi, era detta dionisia. Pausania (2, 13, 4) riferisce di una festa
del taglio dell’edera in Fliunte e Longo sofista di “mangiatori di edera”. L’edera ha influenza sul
sistema nervoso e specialmente i frutti, assunti sconsideratamente, avvelenano dando eccitazione
febbrile, forte acceleramento del polso, delirio accompagnato da stupore, allucinazioni e perdita
della coscienza. Sono gli stessi sintomi che, in forma attenuata, dovevano denunciare i seguaci del
dio nel corso delle loro cerimonie rituali. In fitoterapia l’edera trova applicazione nelle
sintomatologie mercuriali quindi, nelle affezioni dell’apparato respiratorio, nei reumatismi, negli
stessi squilibri mentali, quelli che non sono funzionali ad un uso iniziatico del vegetale. Areteo
(Malattie acute, V, 1.10) ed Alessandro di Tralle consigliano le instillazioni di succo d’edera come
terapia delle crisi di delirio, mentre la posizione presa sconsideratamente, afferma Plinio, mentem
turbat. L’ Hedera Chrysocarpa Walsh., quella detta di Nisa o Dionisia, cresce attualmente quasi solo
nel Nepal e sarebbe stata portata in occidente da Dioniso di ritorno dal suo celebre viaggio e, come
dice Plinio, preserverebbe dall’ubriachezza (a crapula tutos praestant). Le bacche della varietà
“bianca” assunte in posizione avrebbero la facoltà profilattica di rendere gli uomini sterili e ciò non
sarebbe stato privo di utilità pratica se si pensa che i riti dionisiaci avevano carattere
preminentemente sessuale. Solo assai recentemente i farmacologi stanno studiano delle piante, tra
cui quella del cotone, che godrebbero della già menzionata proprietà e che spazzerebbero l’idea che
nell’antichità non si avessero soluzioni anche per questo problema. Dalla linfa che si ottiene
incidendo i vecchi tronchi di edera si ricavava una tintura colorante rossa con la quale ci si
dipingeva il volto, quale segno di vigoria generativa. L’usanza rimase, inconsapevole del suo stesso
simbolo, nell’atto di dipingere il volto dei duci vittoriosi durante il trionfo o di imbellettare quello
dei sovrani inglesi, fino a tempi relativamente recenti. L’edera era anche sacra ad Attis ed i suoi
sacerdoti se ne tatuavano, ciò perché in fondo il dio frigio non è che una variante locale di Dioniso.
Inoltre era sacra alla Madre Terra, Rhea, avendo la sua foglia cinque punte e rappresentandone,
quindi, la sua mano creatrice. Su questo argomento avremo modo di tornare più avanti. Non è
nemmeno il caso di dilungarsi sulla storia di Cisso e sul perché gli abitanti dell’assira Susa si
chiamassero Cissi: Kissòs in greco era il nome dell’edera.

ELLEBORO
Il grande veggente Melampo doveva i suoi poteri divinatori a dei serpenti che gli avevano leccato
dormiente le orecchie. Forse non fu un caso se gli venne attribuito l'elleboro poiché, come si vedrà,
si tratta di un vegetale i cui poteri interessano la sfera psichica. Un riferimento mitologico ce ne dà
l'indizio: Melampo avrebbe guarito dal furore dionisiaco le figlie di Preto, re di Tirinto, facendogli
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bere il latte di alcune capre che avevano brucato degli ellebori. Questo melampodio corrisponde
all'elleboro nero e con esso Plinio ricorda che si facevano suffumicazioni nelle case per purificarle.
Per estrarlo dal suolo occorreva svolgere dei riti apotropaici e comunque svellerlo il più in fretta
possibile onde evitare che potesse aggredire in qualche modo il rizotomo. Infatti, se
accidentalmente si rompe una parte della pianta e questa viene al contatto della pelle può
provocarne l'ulcerazione. L'elleboro bianco degli antichi è invece il nostro veratro o falsa genziana,
forse più pericoloso ancora di quello nero. Un tempo veniva adoperato, nonostante la sua
velenosità, per favorire la concentrazione mentale. Il filosofo accademico Carneade, di manzoniana
memoria, insegnava l'impossibilità della certezza assoluta. Evidentemente forte nelle proprie
convinzioni, non si preoccupava di andare contro l'opinione corrente, usandone tranquillamente:
"Quando doveva discutere con Crisippo si purgava in precedenza con l'elleboro, perché la sua
mente fosse più sveglia e potesse confutare più prontamente l'avversario. Un tal beveraggio lo può
far appetire soltanto un'attività tutta tesa a solida gloria". Anche Druso, famoso tribuno della plebe,
sarebbe guarito dall'epilessia con una miscela contenente elleboro bianco. I due ellebori
concilierebbero il sonno, compreso quello eterno visto che la procedura usata dagli antichi è
piuttosto azzardata: "Se ne scelgono le radici più sottili, corte, che sono come troncate, e quelle
terminali. Infatti la parte più alta, che è molto carnosa, simile alle cipolle, viene data solo ai cani per
purgarli. Gli antichi sceglievano la radice con la scorza quanto più carnosa possibile, per estrarne un
midollo più sottile; dopo averla ricoperta di spugne umide, una volta divenuta rigonfia, la
incidevano con un ago nel senso della lunghezza, poi mettevano i filamenti a seccare all'ombra e
quindi li usavano. Oggi si somministrano, senza trattarli, i ramicelli che si diramano dalla parte più
spessa della radice". Quello nero è un vero toccasana, sempre al dire di Plinio, che guarisce i
paralitici, i pazzi e financo i reumatismi. Il bianco era considerato ancor più valoroso nella cura di
molti disturbi "sed multum terribilius nigro" tant'era vero che, dopo averlo assunto, ci si affrettava a
vomitarlo e, anche se la terapia era valida, non mancava di produrre conseguenze simili a quelle di
chi inghiottisse candeggina. Plinio parla di "magno terrore famae" cioè di grande terrore che si
accompagnava alla celebrità del farmaco, nondimeno biasimava questi timori asserendo che più se
ne prende meglio lo si smaltisce. I medici lo prescrivevano nella dose di 2-4 dracme ed Erofilo di
Calcedone, fondatore dell'anatomia scientifica, lo paragonava ad un fortissimo condottiero: "infatti -
scrive Plinio - dopo aver stimolato tutto quanto internamente (sic) esce fuori esso stesso per
primo...". I disgraziati che si sottoponevano agli empirismi dei medici antichi venivano "preparati"
sette giorni prima assieme ad una minuzia di discutibili accorgimenti e di dubbie escogitazioni,
come quella di mettere l'elleboro dentro l'incavo di un rafano spaccato per il lungo, in modo da
trasmettere a quest'ultimo le proprie forze attenuate[56]. Se è il caso di ridere dei primitivi tentativi
curativi di persone profane non è da dubitare che collegi di sacerdoti o singoli iniziati sapessero
manipolare con i dovuti accorgimenti questi veleni naturali, riuscendo anche a curare perfettamente
i malati che gli si rivolgevano. E. Zolla ci informa che l'elleboro era infatti utilizzato "nei riti del
santuario di Antigra in Beozia, coi quali erano guariti i tentati di omicidio, i malinconici". Tornando
al mito, è significativo quello che riferisce Plinio, cioè che ne nasceva molto sul monte Eta, in
Tessaglia, e nei pressi di Pira, la stessa zona ove salì sul rogo trasmutatorio Eracle, per liberarsi
della camicia avvelenata del centauro Nesso. Il nero della qualità migliore crescerebbe sul monte
delle Muse, l'Elicona; il bianco sul Parnaso, sacro all'ispirazione divina.

EPHIALTION
Una pianta specifica contro gli incubi notturni era un non meglio identificato Ephialtion, in greco
“che balza sopra”, incubus in latino. Questa pianta si ricollega ai miti dei Giganti, spiriti della terra,
che lottarono contro gli Dei ed in particolare ad uno di essi, Efialte, loro capo. Contro gli incubi
erotici di ogni ora era usanza invocare Ercole salvatore, poiché in una fase di quella lotta salvò Hera
da uno di essi che voleva possederla.

FAVA
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In un elenco di divieti imposti agli iniziati al culto di Dioniso Bromo è scritto di “astenersi dalla
menta che accompagna le specie esecrabile delle fave”, poiché queste sarebbero nate dai Titani,
carnefici di Dioniso fanciullo12[12]. Spiegare un divieto con un mito obbliga a delle stucchevoli
riflessioni che certamente il lettore auspica gli siano risparmiate. E’ per questo motivo che
riportiamo un brano di Laura Simonini, presa dal suo pregevole commento all’Antro delle Ninfe di
Porfirio: “mangiare le fave è dividere il cibo dei morti, uno dei mezzi per mantenersi nel ciclo della
metensomatosi e piegarsi alle forze della materia”. Vogliamo tuttavia dare un quadro d’insieme più
vasto per meglio illustrare il simbolismo delle fave, riportando altre testimonianze: una prescrizione
rituale concernente un culto di Serapide o di Asclepio13[13], trovata nell’isola di Rodi, obbligava
l’iniziato che voleva entrare nel tempio al rispetto di tre regole: non avere rapporti sessuali, non
aver mangiato fave, non aver mangiato il cuore di un animale. Robert Graves scrive che i pitagorici
si astenevano dal mangiar fave per non impedire a un antenato di reincarnarsi. Nel rituale romano
delle lemuria si gettavano fave alle anime dei morti, allo scopo di allontanarle dai viventi con un
cibo appropriato, poiché la fava, come vedremo, ha in sé qualcosa dello sperma umano. Difatti se
una donna avesse mangiato le fave nate dalla germogliazione di una di quelle usate per il rituale,
sarebbe senz’altro rimasta incinta per opra di un trapassato. La parola greca per fava, Kuamos,
deriva dal verbo kueo: ingravido, concepisco. Ancora, in alcuni dialetti italiani, la fava è termine
popolare per indicare il membro virile. Secondo uno scoliasta dell’Illiade (XIII, 589 scolio T e
Eustazio) le fave “servono di punto di appoggio e di scala per le anime degli uomini che sono pieni
di vigore, quando risalgono alla luce dalle dimore dell’Ade”. E’ evidente, gli uomini risalgono
attraverso il fusto cavo della pianta e, pieni di vigore spermatico, ristagnano nel fallico bacello sotto
forma di semi in attesa di reincarnarsi una volta inghiottiti da una donna. (Luciano: Le Vite
all’incanto, 6)14[14]. Se Luciano poteva affermare chiaramente che “sotto tutti gli aspetti, le fave
sono la procreazione stessa”, Detienne conclude ai nostri tempi l’esegesi del simbolo: “la fava
appartiene all’ordine del putrefatto e del marcio. Se questa leguminosa aveva la putredine, se appare
come una orribile mescolanza di sangue e sesso, è perché rappresenta, nel sistema di valori dei
pitagorici, il polo della morte, della morte e delle rinascite necessarie, opposta alla vera vita
riservata agli dei immortali, il cui copro non è fatto di carne umana, comportarsi come bestia
selvaggia, condannarsi ad genere di vita che è all’estremo opposto dell’età dell’oro”. Agli uomini
era vietato seminare fave per via del rapporto che esisteva con le ombre dei morti. Pausania (I, 37,
4) scrive che non si può attribuire a Demetra l’invenzione della coltivazione delle fave ma non ne
spiega il motivo, vincolandosi al segreto cui sono tenuti gli iniziati ai Misteri. Sottintendeva forse
che la dea di Eleusi, avendo a cuore le piante cerealicole che sostenevano la vita, non poteva essere
preposta anche ad un cibo dei morti? Da qui anche il detto orfico che “mangiare le fave è come
mangiare la testa dei genitori”. “Le api poi non si posano sulle fave, che gli antichi consideravano
simbolo della generazione che procede in linea retta senza interruzioni perché solo le fave, tra tutte
le piante seminate, hanno il fusto internamente cavo non ostruito da internodi”. Come per Porfirio,
qui citato, anche per Aristotele il fusto cavo di una fava era una via di comunicazione tra il mondo
dei vivi e le regioni infere. Plinio ancor più esplicito riferisce che in esse si troverebbero le stesse
anime dei morti e sul fiore della fava si leggerebbero delle lettere luttuose (NH 18,118). Un
occultista contemporaneo ha pensato che il divieto si riferisse a quanto già in antico scriveva
Diogene Laerzio (Vita dei Filosofi 8,3): “… perché esse sono piene di vento, influenzano lo spirito
e se ce ne asteniamo, avremo il ventre meno rumoroso e faremo sogni meno agitati e più tranquilli”,
con ciò volendosi intendere che ostacolerebbero le pratiche ascetiche e meditative”15[15]. Un autore
profano16[16] ha forse avuto una vista più acuta: “Queste motivazioni profane non hanno certamente
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niente a che vedere con il segreto insegnamento della setta… largamente usata nelle pratiche
magiche, terapeutiche e divinatorie attuali, la fava, come il fagiolo, è ritenuta l’immagine in
miniatura del neonato, perfino del feto. Si comprende allora perché i sacerdoti della caverna di Zan,
nell’Ida o Foresta cretese, proibivano ai mystes di consumare le fave e perché Ulisse non assaggiava
il frutto saporito del lotos, che cancellava nei suoi compagni ogni ricordo”.Vi sono tuttavia anche
dei cenni che farebbero pensare ad un significato meno funereo circa le fave. Plinio scrive che
“secondo l’antico rituale (prisco ritu) la minestra di fave ha una sua sacralità nei sacrifici agli dei” e
Cicerone (De Divinatione I,62) riferiva che le fave provocherebbero delle visioni. Alcuni autori
antichi, tra cui Aulo Gellio, contestavano il divieto pitagorico, ritenendolo falso. Aristosseno di
Taranto riferiva che Pitagora faceva largo uso di fave…. L’equazione fava=alimentazione carnea ci
è data in forma inequivocabile in un racconto riferito da Porfirio (Vita Pit. 24): un giorno Pitagora
vide in un campo un bue che pascolava in un campo di fave. Subito invitò il mandriano a distogliere
l’animale da una simile attività e, quando il primo lo derise andò lui stesso dal bove, gli parlò
all’orecchio e lo convinse a non brucare più fave; non solo: d’allora fin che visse il bue andò a
vivere nel santuario di Hera, menando vita ritirata. “Distogliere il bue dal mangiare le fave –
commenta Detienne- e indurlo a mangiare gli stessi cibi di cui si nutrono gli uomini, vuol dire
mettere concretamente in pratica il passaggio da uno stato selvaggio a un genere di vita puro e senza
macchia.

FERULA
Ci sono delle piante molto spesso inutili se non dannose da un punto di vista utilitaristico, che
devono la loro fama e conoscenza al fatto di essere state abbinate, da tempo immemorabile, al culto
di qualche divinità od eroe della mitologia. Una di queste è la pianta della ferula (Ferula communis
L.), associata al culto dionisiaco e nota perché portata a mò di scettro dalle seguaci del culto
bacchico sotto il nome di "tirso". In effetti il tirso17[17] (thyrsòs) o nartece (narthex) è propriamente
un bastone, ricavato dal fusto della ferula, adorno alla sommità di un viluppo di edera o altre piante
e qualche volta di una pigna. In tal caso era dotato di una punta acuminata o mucrone divenendo
anche strumento di offesa in mano alle baccanti invasate. Forse dal tirso è derivato il famoso
bastone di Esculapio, dio della medicina, raffigurato con un serpente avvolto in spire. Perché questa
pianta è divenuta l'emblema dei seguaci del culto di Bacco? Come sempre, c'è un motivo pratico e
materiale alla base di quello che poi fu compreso esclusivamente in modo simbolico, come già
ricordava Platone col detto "molti sono i portatori di tirso ma pochi i veri iniziati", alludendo che
non è sufficiente conformarsi alla ritualità esteriore per essere in coscienza dei trasformati dai culti
misterici. La ferula in se stessa, così come gli asfodeli, è pianta tipica di terreni degradati ed aridi,
poveri. E' anche velenosa - se non seccata - e gli animali che ne mangiano contraggono la ferulosi
che li porta a morte in pochi giorni. Possiede però due caratteristiche che nei tempi antichi erano di
non poco conto. Prima di tutto è caratterizzata da un fusto semilegnoso alto mediamente due metri
(ma anche 4-5!), leggero, nodoso, che si presta ad essere adottato in modo rapido come bastone da
viaggio e, all'occorrenza, da offesa/difesa. Poi, questo fusto è cavo all'interno, contenendo solo una
sostanza midollare di lenta combustione ma facile a infiammarsi (nelle piante già secche) senza
distruggere il fusto stesso. Ebbene nell'antichità si era sperimentato che il fusto della ferula si
prestava ottimamente a trasportare al suo intemo questo piccolo midollo infuocato, al fine di
spostare il fuoco di un accampamento - per necessità - da un'altra parte, specie se si doveva guadare
un corso d'acqua, o comunque per trasmettere la fiamma del fuoco in modo pratico e veloce. Queste
due caratteristiche si conformavano benissimo alle necessità del culto dionisiaco delle origini,
quando si celebravano i suoi sacra o mysterii in luoghi selvaggi, scoscesi e spesso di notte. Mezzo
adatto al trasporto di poche cose di prima necessità da avvolgere in un panno e annodare ad
un'estremità del bastone; sostegno durante il cammino; vessillo di identità durante le cerimonie;
arma; dispensatore di fuoco. Quest'ultima proprietà ci è stata confermata leggendariamente con il
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racconto esiodeo di Prometeo che ruba il fuoco agli immortali dalla fucina di Vulcano proprio
accendendo il midollo di una ferula e trasportando così la fiamma sulla terra. Questa erbacea
perenne non passa inosservata durante il suo periodo di fioritura, specie quando si presenta in
distese compatte di individui. Con le sue piccole infiorescenze gialle, svettando anche da un'altezza
considerevole, unitamente all'aspetto di forza che presenta il fusto, non è priva di una sua maestosità
che fa passare in secondo piano la povertà delle sue disponibilità per l'uomo. Ma non è forse questa
"indisponibilità" che può permettere di contemplare in lei l'esperienza di quel fulgore mitico di cui
ha parlato Karoly Kerényi? Sarà difficile potersi avvicinare alla coscienza del regno vegetale
attraverso una pianta foraggiera o una di patate, frutto della selezione industriale e avulsa dalle sue
origini. Tuttavia anche la ferula era conosciuta dall'antica medicina. La pianta contiene specie nelle
sue foglie una gommoresina con virtù antireumatiche. Ma l'Antichità ci ha trasmesso tutte le
conoscenze che si avevano sulle proprietà delle piante? Ne dubitiamo, tenendo conto che i maggiori
compilatori di trattati di botanica parlavano loro stessi per cognizione indiretta. Molto è andato
irrimediabilmente perduto con la scomparsa della tradizione orale. Si può, però, rintracciarne
qualche elemento per analogia con altre specie similari. Ad esempio, molte specie del genere Ferula
sono note per le proprietà delle loro gommoresine, come l'assafetida, il silfio - quest'ultimo oggi
estinto -, il galbano e il sagapeno; spesso con virtù afrodisiaca. Il naturalista romano Plinio riferisce
invece che semen eius in Italia cibus est.

FICO
Macrobio tramanda la credenza che i fichi, a seconda del loro colore, bianchi o neri, fossero di
buono o cattivo augurio. Veranio lo affermava nella sua opera perduta Sulle Parole Pontificali a
riguardo dei bianchi, definendo queste piante arbores felices mentre Tarquizio Prisco, che traduceva
dall’etrusco l’Ostentarium Arborarium, parlava negativamente di quelli neri. Non bisogna tuttavia
essere superstiziosi, cioè credere ai relitti abbandonati di un’antica sapienza che, presi da soli, non
offrono appigli per ragionamenti convincenti. Non è che i fichi neri portino male: poiché per il loro
colore sono analogici alla notte e alle potenze inferne, essi si prestano agli usi rituali che hanno
attinenza con queste potenze o ai fenomeni che da queste derivano. Infatti venivano adoperati per
lavare detergere i “peccati” e vi era perfino un Giove Fagutale (del fico), ovverosia purificatore. Si
credeva che il fico non venisse mai colpito dal fulmine. I pharmakoi o capri espiatori umani
portavano al collo collane di fichi e venivano fustigati con rami di fico e con scille, nel senso che
queste piante "caricavano” e trasmettevano all'espiatore i malanni della collettività. J. Frazer ha
spiegato l’usanza di porgere dei fichi a questi disgraziati. Dopo che se ne erano cibati venivano
percossi per sette volte sui genitali con rami di fico e scille e quindi erano bruciati su un rogo,
dopodiché le ceneri venivano sparse in mare. Il significato originale di quest’antica festa crudele e,
con ogni verosimiglianza, sessuale. Non è del resto una novità che l’eiaculazione può essere
prodotta anche da stimolazioni non propriamente piacevoli senza per questo volersi riferire alla
patologia del sadomasochismo. Noi riteniamo che uno dei motivi di queste tribolazioni18[18] fosse
quello di privare il pharmakos della propria capacità generativa poiché, dovendosi sovraccaricare i
mali della comunità, non poteva certo portare con sé il sommo bene, quello di potersi riprodurre –
oppure -perché gli si trasmetteva vis generativa che poi, venendo bruciato e gettato in mare,
simbolo di mascolinità universale, avrebbe così accresciuto il potere generatore verso la madre
terra. D’altronde anche i “giardinetti di Adone”, una volta appassiti, venivano gettati in mare o nelle
fonti. I gemelli più famosi della storia, Romolo e Remo, prima di venire sfamati da una lupa,
approdarono sotto un fico, ed anche in questo fatto mitico il significato della nostra pianta è
illuminante. Che il fico sia tra le piante il più emblematico segnacolo della sessualità fallica ce lo
testimonia il mito di Dionisio e Polymmno, giunto fino a noi grazie allo scandalo che tale mito
cagionò in due famosi preti: Arnobio e Clemente di Alessandria. Dionisio si era determinato a trar
fuori dall’Ade sua madre Semele, dopo che era stata combusta dalla folgore di Zeus; perciò vagava
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alla ricerca di un ingresso al regno infero. Giunto nei pressi della palude di Lerna, del resto famosa
per la presenza della famosa Idra, incontrò un certo Prosimno, a cui chiese come trovarlo. Prosimno
gli indicò le profondità del lago Alcionio ma, in cambio, pretese di consumare col dio un atto contro
natura. Tornato dall’Ade, Dioniso si accinse a tener fede alla promessa ma, nel frattempo, Prosimno
era morto. Deciso ad adempie all’obbligo contratto, anche se in memoriam, il figlio di Zeus piantò
sul tumulo di Prosimno un nodoso ramo di fico, dopo averlo intarsiato a mò di fallo e, incredibile
dictu, ci si sedette sopra acciocché l’ombra del defunto godesse di lui. Del resto, che l’albero di fico
sia sempre stato inviso ai cristiani ce lo attesta lo stesso racconto evangelico, nell’episodio della
maledizione del fico da parte di Cristo. Costui si è sempre opposto alla copula carnale. Negli
apocrifi, quando gli si domanda fin quando la donna soffrirà, risponde: “fin quando partorirà”. I
teologi certamente in queste parole non hanno voluto vedere una preoccupazione “profilattica”….

FINOCCHIO
Solitamente quando si dà del “finocchio” a qualcuno è per bollarne l’omosessualità. Tuttavia così
facendo si è perso il significato originale, che dovrebbe riferirsi alle capacità sessuali dell’individuo.
Difatti, in Plinio, le foglie del finocchio “stimolano l’appetito sessuale. Ingerito in qualunque forma
il finocchio aumenta la quantità di sperma; è molto indicato per le parti genitali, sia che si applichi
in fomento19[19] la radice bollita in vino, sia che si facciano impacchi di finocchio tritato in olio”. E’
una pianta della forza, talchè, in Giovanni Lido, si narrava che la mitica Fenice costruisse il suo
nido-rogo con cannella, nardo e finocchio. Nel culto dionisiaco si parla dei “bei cortei rumorosi,
dove tutti erano incoronati di finocchio e di foglie di pioppo”, come Demostene e, forse, non senza
un particolare motivo, visto che l’essenza, presa ad alte dosi, procura convulsioni ed ha il potere di
rendere timorosi gli animali. Il finocchio è tra le quattro piante presenti nei cosidetti “giardinetti di
Adone” a testimoniare che la possanza sessuale è sacra all’amante di Venere così come la sua
caducità. Non a caso, a quest’ultimo riguardo, la radice verbale del finocchio (marathon) in greco, è
presente in un verbo (marainesthai) che significa “illanguidirsi, appassirsi, consumarsi, venir
meno”. La pianura ove gli spartani sconfissero i persiani, Maratona, in greco significa “campo dei
finocchi”. Che la presenza dell’aromatica pianta abbia infuso ulteriore vigoria agli uomini di
Leonida? Il significato di “forza” nel finocchio, è rintracciabile nel termine greco, in cui la radice
“mar” si riferisce, come ha dimostrato il Bachofen, all’idea della forza generativa, presente in
numerose altre parole. La varietà selvatica del finocchio coltivato è molto più grande di
quest’ultimo ed ha la particolarità di possedere un fusto cavo all’interno, che veniva usato per
trasportare una face da un posto all’altro, come si faceva con la ferula, per accendere fuochi a
distanza. Prometeo, una volta rubato il fuoco agli dei, lo avrebbe portato via con questo sistema. Il
trionfo sulla caducità dell’esistenza umana celebrato dagli iniziati si fregia quindi delle forze che
sostentano la vita, effigiate dalle frondi di finocchio; le foglie di tremula, il pioppo bianco, invece,
testimoniano l’avvenuto passaggio del fiume Lete, dove si sono dissetati alla Fonte della Memoria.

FIORDALISO
Pare che il fiordaliso fosse l’emblema del re di Cnosso ed era sacro alla Luna nel suo triplice
aspetto; si intrecciava in ghirlande in occasione dei suoi riti o quando si dovevano placare le tre
Erinni o Furie. Gli eroi Alcmeone e Oreste erano raffigurati incoronati con fiordalisi. Riguardo al
termine proprio della parola fiordaliso è da rilevare che non deriva dal francese fleur de lys che vuol
dire fior di giglio, stante anche l’espressione corrente “un teint de lys (o lis)” (= carnagione di una
bianchezza immacolata) ma dal toscano fior aliso come riferisce Mattioli e che noi interpretiamo
come “fiore degli inferi”. Volendo essere precisi, bisogna dire che il fleur-del-lys era il fiore di
Luigi VII di Francia che lo usò come stemma nella sua crociata contro i saraceni. Lys infatti è una
corruzione del nome di quel re (Louis) e pare che fosse l’iris giallo.
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FUNGHI
In un saggio intitolato “Di che si cibavano i Centauri?”, lo scrittore Robert Graves ha ritenuto di
poter dimostrare che gli adepti di antiche congregazioni misteriche, come quella dei Misteri di
Eelusi, assumevano a scopo iniziatico il fungo allucinogeno Amanita Muscaria ed il Panaeolus
papilionaceus. Quest’ingestione sarebbe stata tenuta nascosta con l’ingegnoso sistema di adottare
delle bevande (per esempio ciceone, ambrosia, nettare) di cui le lettere iniziali degli ingredienti
costitutivi andavano a formare la parola “fungo” in greco. Dei riferimenti mitici, tuttavia, non
mancano davvero. La città peloponnesiaca di Micene avrebbe avuto quel nome proprio per il fatto
che il mitico Perseo trovò per terra, dove sarebbe poi sorta la città, un fungo e in greco fungo si dice
mykes. Questa notizia è riferita da un autore classico: Pausania. Graves però non riporta
correttamente il riferimento di Pausania; testualmente, esso è un po’ diverso (2,16,3): “Perseo,
assetato, ebbe l’idea di cogliere un fungo dalla terra: ne scorse [nel fare ciò] dell’acqua, che egli
bevve di gusto, ragion per cui impose alla località il nome di Micene”. Il fatto che un fungo
nasconda una fonte d’acqua, quella stessa detta poi persea e che dissetava la città, non può che
avere un valore simbolico e cioè quello che assegna alle sorgenti il significato di forza vitale
sovrumana. Traducendo, l’esperienza indotta dal fungo allucinogeno è quella stessa che mette la
coscienza a contatto con la forza motrice di tutto l’universo, in molte mitologie rappresentata da
fontane e sorgenti. Ovidio (Met. 7,391) riferisce invece che ad Efire, presso la fonte Pirene – notare
anche qui la presenza di una fonte – ai primordi del mondo degli esseri umani sarebbero nati da
funghi spuntati con la pioggia. Un bassorilievo proveniente dalla Tessaglia, datato al V° secolo a.c.,
ci rappresenta due divinità eleusine, Demetra e Persefone, nell’atto di scambiarsi oggetti sacri, fra
cui un fungo. Una descrizione più probante che però ci offre la mitologia riguardo all’uso sacrale
dell’Amanita proviene dalla descrizione del comportamento delle mènadi o baccanti, le famose
sacerdotesse di Dioniso, paragonato agli effetti che induce sul comportamento l’assimilazione delle
sue sostanze tossiche. Queste donne erano famose perché, in preda al cosiddetto furore dionisiaco,
erano in grado di vagare a lungo per boschi e montagne senza accusare sintomi di stanchezza, in
preda ad accessi di violenza che le mettevano in grado di aggredire animali di grossa taglia ed esseri
umani e di farli a brani con le proprie mani. Dopo, cadevano in uno stato di atonia del tutto opposto
all’agitazione da cui erano state possedute. Ph. De Fèlice, per quanto non riesca a sospettare che
l’Amanita muscaria possa essere stata la droga rituale dell’esperienza dionisiaca, ci dà degli
interessanti ragguagli a confronto di questa identificazione: “… è sufficiente leggere “Le Baccanti”
di Euripide. Vi sono serie ragioni per pensare che l’opera sia stata scritta alla corte del re Archelao,
a Pella in Macedonia, cioè vicino alla culla della religione dionisiaca. Il poeta ha dunque potuto
attingere da una buona fonte le descrizioni che dà delle cerimonie orgiastiche”. Il nostro autore
continua con la suggestiva descrizione di questa cerimonia e con altre interessanti considerazioni,
cui rimandiamo volentieri il lettore. Noi abbiamo però subito colto un simbolo segreto, quando il
De Fèlice parla della Nebris, la maculata pelle di cerbiatto che le baccanti hanno sulle spalle. Non è
forse essa un chiaro rimando alla pellicola rossiccia e maculata che ricopre la cappella del nostro
ovolo malefico? Ancora oggi, nelle raffigurazioni di giochi per bambini, nei ninnoli, nei cartoni
animati e nelle decorazioni natalizie, c’è posto per un unico fungo, dal gambo bianco e dal cappello
rosso punteggiato di bianco…. L’Amanita muscaria! Secondo la tesi di De Fèlice – che noi
sentiamo di condividere – il dionisismo sarebbe originario della regione euro-asiatica settentrionale
e sarebbe penetrato in Grecia attraverso la Tracia con il suo corredo di riti orgiastici e violenti tipici
di una religione di popoli nomadi. Soltanto che in origine la droga inebriante non poteva essere il
vino o una birra di edera e abete, come suppone il De Fèlice, ma proprio il nostro apparentemente
innocuo e simpatico fungo. Solo in seguito alla sua difficoltà di approvvigionamento (la Grecia non
è certo una terra d’elezione per i funghi) questo fu sostituito da altre sostanze inebrianti, come il
vino o l’edera. R. Gordon Wasson20[20] ha dimostrato che la bevanda sacra degli antichi popoli indo-
europei, dalle stirpi doriche e achee della Grecia agli Arya dell’Iran e dell’India, nascosta sotto
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diversi nomi, i più famosi dei quali furono l’Haoma, il soma, il nettare e l’ambrosia, era ottenuta dal
fungo Amanita muscaria.

GIACINTO
(gr. Hyakinthos - mic. Fakinthos)
Il mito di Giacinto è noto, ma la sua notorietà non è altro che la rielaborazione dell’antichissimo
mito originario. La descrizione che ne fa Ovidio (X, 162-219) o l’erudito resoconto che ne dà
Cattabiani nel suo Florario, non colgono il nesso del problema. Anche se le fonti mitografiche
citano la Laconia e il culto spartano amicleo di Giacinto-Apollo, la terminazione -inthus della
parola rimanda incontestabilmente a Creta e al mondo minoico. E’ qui che si deve andare per
risalire al significato originario del mito di questo dio-fiore. Ora, non si è posta la necessaria
attenzione al fatto che le note raffigurazioni parietali di quella cultura descrivono in gran numero
piante simili a gigli; e Ovidio scrive che il Narciso “ha la forma dei gigli, solo che è rosso di colore”
(formam capit quam lilia, si non purpureus color his); si potrebbe quindi pensare al cosiddetto
‘giglio di Costantinopoli’ (Lilium chalcedonicum L.). Tuttavia sia Ovidio che Plinio con più
dettagli, riferiscono che sui petali sarebbero istoriate due volte le lettere greche arcaiche che
traducono l’espressione di dolore “hai!”, in rimembranza dell’afflizione suscitata per la sua morte. I
gigli non hanno di questi segni sui petali ma ce li hanno invece altri fiori molto simili ai gigli: le
orchidee mediterranee. Uno studioso austriaco di flora e mitologia greca, Hellmut Baumann, ha
infatti ipotizzato che “è probabile che gli Antichi abbiano anche designato le orchidee sotto il nome
di yakinthos, una rinomata pianta dell’antichità, che si incontra in numerosi racconti mitici.
Teofrasto (6.8.1) descrive un yakinthos a fioritura primaverile, il cui fiore dura più a lungo degli
altri, cosa che è una caratteristica specifica delle orchidee. Gli aggiunge l’aggettivo di graptos
(scritto, segnato), e lo descrive di colore nero. Infatti il genere ophrys mostra spesso dei segni
curiosi su fondo scuro, mentre quelli conosciuti oggi come giacinti hanno per lo più colori chiari e
nessun segno sui petali”. Non è escluso, e forse è addirittura probabile, che il dio-fiore Giacinto si
rispecchiasse in un’orchidea del genere Ophrys, somigliante ai gigli e che i Cretesi stilizzavano
assieme al giglio e al pancrazio. Del resto Giacinto era il Dio precipuo dell’importante città cretese
di Tìlissos e la stessa Cnosso ne celebrava le feste. Per quanto concerne il racconto delle lettere
segnate sui petali, dobbiamo fare una considerazione: il mito di Giacinto è molto più antico del
tempo in cui la scrittura greca venne affermandosi; ragion per cui questo poetico particolare è solo
una tarda aggiunta che, però, non è del tutto arbitraria. La parte interna dei fiori di queste orchidee,
così come anche di molte labiate, rende l’idea di una bocca spalancata o di una fauce. Qualcuno
forse idealizzò in essa il grido di dolore per la morte del dio-fiore; lamento che in seguito venne
“visualizzato” collegandolo agli strani segni presenti sui petali dell’orchidea. Giacinto è uno dei
tanti paredri della Madre Terra, destinato a morire e risorgere ciclicamente alla sua ombra.
Rappresenta il perenne ciclo stagionale della fioritura, in un epoca addirittura pre-cerealicola, in cui
erano prevalenti la caccia e la raccolta spontanea di frutti e parti vegetali. Questo dato è significato
molto chiaramente dal simbolismo del lancio del disco (dikskos) legato al suo mito. Il disco da
lancio non è altro che la rappresentazione del disco solare; nel mito, quando il disco tocca il suolo -
cioè quando il sole tocca la parte più bassa dell’eclittica, in inverno - Giacinto muore. Già nel
Neolitico il disco era oggetto di culto e proprio in Laconia, ad Amicle, sono stati ritrovati negli
scavi archeologici dei dischi di pietra. Non sappiamo peraltro se il famoso ‘disco di Festo’ possa
essere messo in relazione con le feste rituali di Giacinto. Dio di morte ma anche Dio di
resurrezione, come testimoniavano gli stessi rilievi del santuario di Amicle, dove Giacinto veniva
condotto in cielo da altre divinità. I miti di questo dio-fiore avevano certamente anche un parallelo
iniziatico e trascendente; tendendo a rapportare la coscienza dell’uomo con la natura manifestata e
immanifestata. Non a caso le raffigurazioni di Giacinto variavano da quelle di un efebo bellissimo
con quelle di un uomo barbuto o di un essere androgino. Anche in tempi più “razionali”
Anassagora, Platone e Democrito ponevano le piante tra gli esseri dotati di spirito animale,
attribuendogli sensazioni e percezioni, mentre la scuola aristotelica le riteneva capaci di pensiero e
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conoscenza. Le metamorfosi mitiche uomo-vegetale si svilupparono alle soglie del razionalismo


greco, allorchè non si riuscì più a cogliere immediatamente il potere globale e omnicomprensivo
della Natura. Si introdusse così una figura umana che, morendo, dà vita ad un vegetale. Questa
metamorfosi, però, suggeriva anche l’idea della possibilità del prolungamento della vita umana.

IPPOMANE
In greco hippomenes significa “forza, brama equina” e , con lo stesso nome, si designava un’erba
che aveva la proprietà di rendere furiosi i cavalli. Era anche il nome di un’escrescenza carnosa che
cresceva sulla fronte dei puledri e che veniva usata per confezionare filtri magici.

LATTUGA
Adone nacque nello stesso istante in cui, per divino prodigio, sua madre veniva trasformata in
albero della mirra. Così la spada di Cynira non fece altro che spaccare in due un tronco, facendone
uscire sia Adone che l’aromatica gommoresina. In base ai valori stabiliti dall’analisi del mito
materno si potrebbe definire Adone come un Figlio della Seduzione così come la mirra veniva usata
per confezionare balsami erotici. D’altronde Afrodite e la stessa regina degli inferi, Persefone, si
invaghirono di chi era venuto al mondo, sempre in modo portentoso, praticamente già adulto, nel
pieno di un’ammaliante giovinezza. Non passò molto tempo che il figlio di Myrra perì miseramente,
avendo voluto trasgredire i consigli dell’amante Afrodite, colpito da un cinghiale. I mitografi
tramandano che Adone spirò, curiosamente, in un campo di lattughe. Dal suo sangue, per desiderio
di Afrodite, nacque il fiore detto appunto Adonide o, secondo altri, si sarebbe trattato
dell’Anemone. Dalle lacrime che invece versò la dea nacque la rosa selvatica. Il fatto che Adone sia
morto in mezzo alle lattughe, piante all’opposto della seduzione, testimonia chiaramente che il
codice simbolico del suo mito va classificato tra quelli riferentesi alla psicologia. Tuttavia non
bisogna trascurare altre valenze, compresenti nel mitologhema. Non si può fare, come volle il
Frazer e la sua scuola, di Adone un mito esclusivamente della vegetazione che nasce e poi muore
annualmente. Appunto per questo Marcel Detienne, che ha messo in luce l’aspetto erotico del mito,
non riferisce tutto il mito al contesto della seduzione21[21]. Visto che ci si è avvalsi delle fonti degli
autori classici per la decrittazione del mito, perché rigettare o trascurare quelle stesse fonti quando
queste ci indicano anche altri significati? D’altronde un’interpretazione non ne esclude un’altra. Il
mito è per sua natura sintetico non analitico. L’affidamento di Adone a Persefone, la permanenza di
lui per una parte dell’anno sottoterra sono elementi che fanno di Adone anche un dio del cielo della
vegetazione, di morte e resurrezione, con evidenti analogie col mito cristiano. La parola lattuga
deriva dal latino arcaico lact, latte, significando pianta lattiginosa, con riferimento al liquido bianco
e denso che geme, come sperma, dai fusti foliari e dal caule. In virtù del principio per cui la pianta
agirebbe nel senso opposto a quello da essa simbolizzato – quasi si trattasse di riflettere nel
macrocosmo le virtutes, questo liquida ha proprietà anafrodisiaca, vale a dire che inibisce il
desiderio sessuale. I pitagorici la denominarono pianta degli eunuchi e le dame greche la
chiamavano astytis (a=non styo=sono in erezione). Plinio (19,127) dice che “si oppone al massimo
contro Venere”. In medicina trova applicazione nel trattamento della spermatorrea, dell’eccitazione
sessuale, dell’eretismo, delle mestruazioni dolorose e delle insonnie. La sua azione calmante si
estende, per analogia, anche alla risoluzione di spasmi viscerali, gastralgie, bronchiti pertosse, tosse
nervosa. In uso esterno combatte le infiammazioni della pelle, le scottature, l’acne. Il suo maximum
terapeutico la lattuga lo raggiunge, curiosamente, quando ha prodotto i semi, a differenza della
generalità delle altre piante. Se la lattuga assopisce il desiderio, nella femmina favorisce i processi
di gestazione e sviluppo oltreché giovare nei disturbi del ciclo mestruale. Nel suo lattice sono
compresenti numerosi costituenti energetici, per cui fu anche detta erba dei saggi o erba dei filosofi.
Alcuni esperimenti di laboratorio hanno dimostrato che dei topi nutriti sinteticamente non erano in
grado di sviluppare i propri embrioni fecondati; una volta che fu aggiunta regolarmente lattuga alla
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loro alimentazione, questi riuscirono a portare a termine la gestazione. Nel mito, se questo vegetale
comporta l’importanza, con l’essere il testimone della morte di Adone, è allo stesso tempo
responsabile della nascita di Ebe, la giovinezza, figlia che Giunone concepisce da sola, magiandone
un cespo. Plinio (20,68) conferma che è emmenagogo e impedisce i sogni erotici. Il medico militare
romano Dioscoride, tradotto dal Mattioli, afferma: il seme bevuto caccia via le imaginazioni
libidinose del sonno e inhibisce il coito. Il seme, come quello della domestica, rimuove gli appetiti
venerei, che vengono ne i sogni e sminuisce il coito. Tutto questo fa ancora il succo, quantunque
con minore efficacia. Sempre Mattioli, riassumendo Galeno: ristagna il suo seme bevuto il flusso
dello sperma e però si da egli anchora a coloro che si corrompono in sogno. Era opinione del
medico senese che la lattuga facesse “assaissimo sangue”. In una commedia di Eubulo denominata
Gli impotenti la lattuga viene però definita un “cibo da cadaveri” e vi si riporta le seguenti parole
che l’uomo, a tavola, rivolge alla moglie: Ah! Non mettere in tavola della lattuga, o prenditela poi
solo con te stessa! Poiché è sopra quest’insalata, dice la leggenda, che un tempo vi fu esposto da
Venere Adone, morto, cioè un vero cibo per cadaveri! Il poeta comico Anfide (fr. 20 Kock) riporta
questa battuta: Se ne mangia un uomo (le lattughe) sotto i sessant’anni, quando poi andrà con una
donna si rigenererà tutta la notte senza riuscire a far niente di quello che vorrebbe, anche se ricorre
alla mano per superare l’impedimento che lo trattiene.

LAURO
(gr. daphne) - Al dio Apollo furono consacrati determinati attributi non perché questi gli siano stati
analogici ma in quanto “bottino di guerra” sottratto ad altre divinità, del tutto diverse da lui. Il
santuario oracolare di Delfi rappresenta uno di questi esempi, cui si ricollega la stessa pianta del
lauro o alloro, impiegata nei riti locali. La mitologia, del resto, è abbastanza chiara quando
evidenzia, con le sue narrazioni, l’assoggettamento, da parte di popoli da poco affaciatisi sul
Mediterraneo, delle popolazioni locali pre-esistenti (Pelasgi); quindi con la sostituzione e/o la
trasformazione della “vecchia religione”. Questo è un argomento ancora vergine, appena sfiorato
dagli studiosi specialisti, che meriterebbe una trattazione molto più ampia di quella che gli hanno
tributato, meritoriamente, autori come Robert Graves, Alain Daniélou e Martin Bernal. La “marcia
trionfale” di Apollo nel suo cammino distruttore e pervertitore delle precedenti culture politeiste è
simile alla vittoriosa avanzata di un esercito in guerra. Ne schematizziamo le tappe principali:
uccisione del serpente Pitone e conquista dell’oracolo della Madre Terra a Delfi; conquista del
Monte Parnaso e assoggettamento delle divinità locali (Muse); conquista della valle di Tempe e
appropriazione del culto del lauro; uccisione del gigante Tizio; uccisione del satiro Marsia; sconfitta
in duello musicale del dio Pan; uccisione di Giacinto (tramite il vento dell’ovest); sterminio dei
Ciclopi; stupro e tentativo di stupro di numerose ninfe, tra le quali Dafne, ninfa del lauro. Per
quanto riguarda dunque il lauro, bisogna dire che il “trasporto” di questa funzione simbolica dal
primitivo culto pelasgico alla sfera d’influenza apollinea è stridente, in quanto le caratteristiche
della pianta non collimano affatto con quelle del dio figlio di Zeus e Latona. Se la figura di Apollo è
certamente complessa e variegata, nondimeno si può concordare che egli è un dio celeste, solare,
luminoso ed i Greci hanno sempre valorizzato queste prerogative. Ora, - poiché la legge intrinseca
del simbolismo (il principio di analogia) vuole che il simile vada con il simile – non si può
affermare che la pianta del lauro abbia alcunché di solare o luminoso; è invece la pianta più
raffigurata in assoluto nelle decorazioni tombali etrusche (Anche nell’arte culinaria l’alloro è
l’accompagnatore per eccellenza di pietanze tutt’altro che solari, come gli inferi “fegatelli”).
L’albero, nel suo sguardo d’insieme, risalta per il suo fogliame verde scuro piuttosto cupo. Inoltre,
esso produce delle bacche, nere a maturazione, e peraltro trascurate dagli uccelli, a fronte di una
minuscola fioritura giallo-verdastra. Sono particolari che concorrono a farne un “albero della
Morte” o, perlomeno, legato ai culti tellurici del fuoco infero. Di questi riti non propriamente
apollinei vi è ampia traccia nella mitologia. La parola greca per lauro è “dafne” che potrebbe
significare “del coloro del sangue” o “sanguinaria”, imparentando la specie ad antichi collegi di
sacerdotesse che celebravano sacrifici cruenti ed orgiastici. Non a caso Apollo è considerato un
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“domatore” delle Muse e delle Ninfe. Pare che l’uso del lauro fosse rigorosamente di pertinenza
femminile, tramite la masticazione o l’inalazione. In epoca classica, quale retaggio dimenticato e
inoffensivo di quegli antichi e sanguinosi culti, la sacerdotessa delfica, ormai ridotta ad una sola e
sminuita al livello di una semplice profetessa, veniva affiancata da un sacerdote che la faceva
cadere in “trance” bruciando ai suoi piedi grandi d’orzo, canapa e alloro. E’ comunque storicamente
documentato che nell’antichità c’erano “masticatori d’alloro” (daphnefagoi) - è da ritenere che le
foglie venissero masticate e non ingoiate in quanto la pianta, in forte dose, è un emetico, cioè induce
il vomito. Come si sa, il lauro è l’emblema dei poeti, che ne hanno “laureato” il capo – intendendo
“poeta” nel senso antico di “vate”, cioè di ispirato. Con l’avvento di Apollo quest’ispirazione, che i
Greci chiamavano “manìa”, ha ricevuto esclusive connotazioni razionali, per cui “laureato” è chi
oggi conduce fino al termine gli studi universitari ma, in origine, quest’ispirazione era ben poco
razionale. Come spiegare, altrimenti che il pitagorico Empedocle considerasse il masticare lauro
come una cosa nefanda? La ripugnanza del filosofo – “astenersi sempre dalle foglie dell’alloro” fu
uno dei suoi precetti – può essere spiegata con le stesse sue parole, riportate da Aulo Gellio, e che
già furono di Pitagora, sull’astenersi dall’uso delle fave. In entrambi i casi si trattava di evitare ciò
che stimola l’eros e il commovimento dell’animo. Proprio ciò che, invece, era tipico dei riti
dionisiaci e tellurici. L’inno omerico a Dioniso, citando il dio che “si aggirava per le valli selvose
tutto cinto di edera e di alloro” evoca in questi attributi vegetali un loro uso orgiastico. Euripide
definisce pure Apollo “bacchico amante del lauro”, in quanto il dio si è appropriato delle
caratteristiche del culto delfico a lui assoggettato. Si tratta comunque di testimonianze a favore
dell’uso psicotropo della pianta; uso che è giunto fino a noi nella credenza riferita dal mitografo
Fulgenzio che, mettendone una foglia sotto il cuscino, si avrebbe avuto in sogno prescienza di fatti
futuri. Tornando alla mitologia, essa ci permette di intravedere i fatti storici del passato senza che i
vincitori di allora siano stati in grado di cancellare ogni riferimento che potesse essergli sgradito. Il
mito, per significarci che Apollo non riuscì a sradicare del tutto il centro sacrale pelasgico di Delfi,
ci narra che Zeus, corrucciato per l’uccisione di Pitone, custode dell’antro oracolare della Madre
Terra, avesse ordinato ad Apollo di purificarsi dell’omicidio nella valle di Tempe che, guarda caso,
era ricca di allori. Inoltre Zeus gli ordinò di istituire dei giochi in memoria dell’ucciso, i famosi
giochi pitici. Tuttavia Apollo si rifiutò di presiedervi e andò a purificarsi a Creta. Il viaggio
nell’isola è una forma figurata di sottomissione del dio alla religione da lui combattuta. Infatti, la
grande isola dell’Egeo riveste un ruolo importante in un’altra vicenda mitologica, quella del tentato
stupro di Dafne. Per i mitografi greci essa era una sacerdotessa della Madre Terra che, per sfuggire
alla violenza sessuale del dio, ne aveva invocato il soccorso. La dea operò un prodigio e trasportò
all’istante Dafne dalla valle di Tempe a Creta, lasciando al posto della sua consacrata un albero di
alloro. Perché Creta? Perché l’isola è stata il centro e la culla di quella civiltà pelasgica che dominò
a lungo il mondo mediterraneo centrale e ancor oggi, a distanza di così tanti secoli, dimostra la sua
vitalità in tanti aspetti della nostra civiltà occidentale moderna. A questa antica cultura e non ad
Apollo deve essere, dunque, riferito l’alloro e, non facciamogli torto, alle scatenate sacerdotesse
delfiche!

LENTISCO
Alcuni autori antichi, tra cui Semonide di Amorgo, sostenevano che Omero fosse nativo dell'isola
egea di Chio. Sia o non sia vero è invece certo che l'isola venne citata in una lettera scritta da
Cristoforo Colombo - dal 1346 al 1566 fu infatti sotto il dominio genovese - a proposito della
particolare resina vegetale ivi prodotta, nota in greco moderno come màstika e in italiano come
mastice. Questa resina, prototipo delle famose "gomme da masticare" o chewin-gum, cresce
curiosamente solo in quest'isola, secreta dal fusto di una varietà locale del lentisco (Pistacia
lentiscus L. var. Chia) e, per essere più esatti, solo nella parte meridionale, detta mastikochorìa
(terra del mastice). Quest'alberello, simile ad un piccolo olivo dalla chioma scura secerne appunto
una resina trasparente e soavemente profumata per il cui monopolio nel Medioevo si sono
combattuti accanitamente bizantini, veneziani, genovesi e turchi. Per difendere il monopolio i
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Genovesi fortificarono addirittura dei villaggi sorvegliando in armi sia i contadini isolani che il
mare, dov'erano in agguato corsari e turchi. Era molto apprezzata nell'antichità - tanto da essere
citata anche nel Corano - e si adoperava come correttore e aromatizzante di bevande, e per alcune
virtù terapeutiche. Tuttavia, sotto la dominazione turca, il mastice veniva spedito quasi
esclusivamente peresso l'harem del Sultano, a Istambul, dove le donne ne masticavano direttamente
i grumi rappresi, per profumarsi l'alito. Con questa resina Ippocrate curava le affezioni dello
stomaco, del fegato e dell'intestino, mentre Galeno la considerava un ottimo rimedio contro la
calvizie e i morsi dei serpenti. Attualmente chi si reca a Chio può comprare il mastice direttamente
sotto forma di grani di incenso (infatti si può bruciare) o sotto forma di caramelle da masticare. Non
mancano le specialità medicinali, come una crema cicatrizzante ed un dentifricio.

LINO
(gr. linon)
La prima fibra tessile mai coltivata, fin dai tempi della preistoria, fu il lino, pianta esile, alta circa 40
cm, con poche foglioline e piccoli fiori blù all’apice di uno stelo molto resistente, tanto che con esso
si fabbricarono le prime corazze di guerrieri e cacciatori. Anche i semi erano utilizzati ampiamente
in medicina e per la loro resa in olio. Venne coltivato estesamente nelle piane erbose a consistenza
sabbiosa; non a caso la madre di Lino era Psamate, che significa “sabbia”. La vicenda mitica del
lino è alquanto complessa perché in essa confluiscono temi che la mitologia ha separato ma che in
realtà avevano comune origine. Lino è la personificazione dello spirito maschile vegetativo che
periodicamente sorge e muore all’ombra della perenne Madre terra. Per tale ragione Erodoto poteva
scrivere che “…Lino, il quale, a dir vero, è celebrato pure in Fenicia; non solo, ma anche in Cipro e
altrove; solo il nome cambia, secondo i vari popoli”. Nell’ormai deformato quadro mitico greco,
Lino era un giovinetto che venne sbranato dai cani. Per espiare la sua morte un oracolo prescrisse di
tributargli un culto eroico ed in suo onore venne composto il lino o ailino, un canto lamentoso,
rituale, che ne rievocava la morte straziante. Secondo Frazer infatti il termine ailinos
significherebbe “hai! Lino”, le due parole col quale cominciava quello che anche Omero definiva
“il bell’inno di Lino”. La pratica del sacrificio umano nell’ambito della mitologia delle coltivazioni
– così ben comprovata dal Frazer – (solitamente veniva sacrificata una vittima ignara, un viandante
o un forestiero che passava casualmente nei pressi del luogo della mietitura) può trovare riscontro,
anziché nell’analogia col tema della morte e della rinascita, nel fatto che la più antica coltivazione,
quella del lino appunto, depaupera fortemente il terreno, tanto che dev’essere lasciato alcuni anni a
riposo prima di venire nuovamente riattato a lino. Uccidendo materialmente e poi solo
simbolicamente una vittima umana, si intendeva forse punire lo stesso lino, identificandolo in essa
affinchè col suo sangue potesse rinvigorire i campi isteriliti. Pare che la coltivazione e la rituaria del
lino fosse prerogativa delle donne, tanto che ne è rimasta traccia nel folklore europeo, come
riferisce il Graves: “Lino infatti non fu un ellenico, ma il custode della cultura pelasgica pre-ellenica
(…) è probabile che le donne addette alla raccolta del lino usassero assalire e smembrare un uomo
che rappresentava lo spirito del lino”. Il rito si è poi esteso nel tempo anche ad altre coltivazioni
(frumento, orzo, vite, segale ecc.). Su quest’ultimo aspetto prese ben presto in terra greca il
sopravvento il mito di un Lino analogo al tracio Orfeo, eponimo cantore di melodie e inventore
dell’alfabeto e di componimenti. Secondo un mito, la giovane Aracne fu colei che inventò il filo di
lino per tessere…ma su ciò si vada alla voce RAGNO.

LOTO
Una pianta simile alla ninfea è il Loto ma di dimensioni considerevolmente più grandi e che, da
quanto è stata introdotta in Italia, è quella che possiede le foglie più grandi della nostra flora.
L’anonimo autore del trattato De Mysteriis, attribuito dalla tradizione neoplatonica a Giamblico di
Calcide, paragona il loto a ciò che emerge dal fango, dalla materia caotica, per guardare verso il
sole spirituale: “Vedi perciò nel fango tutto il corporeo, il materiale o la forza nutritiva e genitale o
tutte le specie materiali della natura che si muovono insieme con i frutti instrabili della materia o
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tutto ciò che accoglie il fiume del divenire e con esso ricade o la causa prima, preesistente a guisa di
fondamento, degli elementi d di tutte le potenze degli elementi… Il fatto di star seduto su un loto
simboleggia una superiorità sul fango che esclude qualsiasi contatto con questo e significa una
supremazia intellettuale ed empirea: infatti, circolari appaiono tutte le parti del loto e le forme che si
vedono nei fiori e nei frutti: e a questo solo movimento circolare è congeniale l’attività
dell’intelletto”22[22].

MANDORLO
Il mandorlo, come il noce e il nocciolo ha un evidente significato fallico. Quest’albero nasce dalla
mutilazione del membro dell’androgino Adgestis, che era nato dallo sperma di Zeus, durante una
sua polluzione notturna (Pausania, 7). Dalle mandorle che la ninfa del fiume Sangario raccoglie e
mette in seno nasce, infatti, un fanciullo: Atys. Costui a sua volta si mutila come vedremo, trattando
del mito di Attis. Ciò simboleggia il Ciclo della Generazione, la massima legge che governa il
mondo terrestre: ciò che nasce, muore, ma ciò che muore è la conferma di una nuova nascita.

MANDRAGORA
Nella Bibbia oltre ad esser citata nella Genesi la mandragora è presente anche nel Centico dei
Cantici (7,13) ove si conferma il suo potere afrodisiaco: “Mandragorae dederunt odorem” dice la
Sposa invitando lo sposo a seguirla in campagna. Tuttavia la mandragora, almeno per noi
occidentali moderni, non profuma affatto, anzi puzza proprio, come ha sottolineato Gustav le
Rouge23[23]: “Gli Orientali non hanno lo stesso modo nostro di apprezzare i profumi. Essi non hanno
alcuna repulsione per l’odore nauseabondo e fetido della mandragora e respirano con delizia il
profumo emanato da una specie di valeriana che nessun europeo potrebbe annusare senza provare
un violento disgusto, quasi sempre accompagnato da un forte senso di nausea”. La sua stessa
inalazione del resto non era esente da rischi: Plinio (25,150) scrive che “coloro che non ne sono
informati perdono la parola a causa dell’odore troppo forte”. Un tipo di mandragora era detto dai
greci thridacia, cioè lo stesso nome che essi comunemente davano alla lattuga, per via della vaga
somiglianza che quella mandragora ha con le lattughe dei nostri orti. Anche la mandragora detta
brenthys, secondo Nicandro di Colofone (Fr. 120 Schneider) aveva lo stesso nome della lattuga
sulla quale, secondo il mito, cadde Adone moribondo. Ora quest’ultima pianta non è certo un
afrodisiaco ed il fatto che un dio dell’amore come Adone vi ci muoia sopra è più che significativo.
Tuttavia ci sono degli autori moderni24[24] che scrivono tranquillamente che la lattuga era tra gli
emblemi più significativi del dio fallico Min, sottolineando che si tratta di “una pianta afrodisiaca” e
che “era considerata un afrodisiaco… poiché conservare la potenza sessuale equivale a preservare la
vita”. Evidentemente questo autore non ha ben presente la differenza fra piante afrodisiache e
anagrofisiache. D’altronde, raffigurare, come facevano gli antichi, un dio col fallo in erezione non
era certamente il mezzo più adatto per manifestare idee di continenza… Ammesso che, nel caso del
culto di Min, non si sia trattato proprio di mandragore anziché di lattughe, le aiuole portatili di
lattuga che venivano portate in processione rituale in suo onore, hanno riferimento con il
simbolismo dei cosiddetti “giardinetti di Adone” che non hanno nulla a che vedere con il
contenimento della potenza sessuale.

MELO
La mela è simbolo di dominio universale. E’ curioso rilevare che, ornamento posto nella mano della
statua di Venere, sia passata in quella degli imperatori romani che risalgono alla dea tramite il loro
capostipite, Giulio Cesare. Da essi, in particolare da Caracalla, la mela divenne una sfera, a volte,
con sopra la croce cristiana, che abbiamo vista raffigurata nella mano, assieme allo scettro, di
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moltissimi regnanti. Altri miti, estranei al mondo biblico, vedono nella mela il frutto proibito. Esiste
peraltro tutta una serie di riferimenti mitologici che alluderebbe ad un vegetale vero e proprio,
dotato di proprietà “stupefacenti”25[25]. Per gli elleni il paradiso, ovvero il luogo ultramondano ove
finiscono i beati, era conosciuto come Campi Elisi o Eliso. Lo scolio 173 v 5 all’Ibis di Ovidio
afferma: Theologi Elysium esse dicunt circa lunarum circulum. Robert Graves scrive: Elisio pare
significhi “terra di mele” (alisier era parola pregallica per indicare la sorbola)”. Avallon, la mitica
terra celtica dei trapassati significherebbe “isola delle mele” e l’Averno, cioè l’inferno greco-
romano, deriverebbe dal celtico abellio che significa melo, da cui l’inglese apple e il tedesco apfel.
Presso diverse culture la mela è quindi presente quale elemento caratteristico della sede
ultramondana. A rafforzare questa tesi contribuisce, in molti miti diversi, la presenza di un favoloso
serpente, attorcigliato proprio attorno ad un albero di mele, come nel caso del drago Ladone, che se
la vide con Eracle nella sua dodicesima fatica. A proposito di Eracle, che per primo avrebbe istituito
le Olimpiadi, pare che in premio della vittoria ai giochi si offrisse in dono un ramo di melo con una
mela e solo successivamente, in seguito ad un ordine dell’oracolo di Delfi, questa fosse sostituita
dall’oleastro o olivo selvatico. La relazione sesso-morte paventata nella Genesi, è inseparabile dalla
ierografia della mela. Infatti il suo possesso è, il più delle volte, il risultato di una tenzone, di una
lotta il cui esito è assicurato da un’intelligenza astuta, serpentina; più che dalla forza bruta. Il
serpente della Genesi induce Eva a gustare il frutto; Eracle si appropria dei pomi delle Esperidi,
ingannando il guardiano del giardino, il povero Atlante. Questa intelligenza è quella che occorre per
manipolare felicemente la “materia” in questione. La mela o il frutto che ne fa le veci, viene
concessa all’eroe quale lasciapassare nell’al di là; senza di esso nulla potrebbe essere tentato. In
breve, quell’altro Eros di cui parlavamo è la chiave che permette di entrare nel Palazzo chiuso del
Re. Un esempio: il mito di Tantalo. Le mele, le pere e i fichi che oscillano davanti al viso di Tantalo
e che si allontano da lui quando questi fa il verso di afferrarli, furono considerati dal mitografo
Fulgenzio “frutti del Mar Morto”. Di essi Tertulliano scriveva che appena sfiorata con un dito, la
mela si trasformava in cenere. Nel mito di Ippomene e Atalanta, il figlio di Nettuno invoca la dea
Venere affinché lo aiuti a vincere la gara di corsa contro Atalanta, il cui premio era la vergine
stessa. La dea dell’Eros stacca tre “pomi” d’oro dall’albero che è nel mezzo del giardino a lei sacro,
nell’isola di Cipro, e li dà ad Ippomene col consiglio di gettarli tra i piedi di Atalanta. Così avvenne
e la vergine perse la gara essendosi attardata a raccoglierli. Conseguenza della vittoria di Ippomene
è quella stessa espressa da Ovidio col verbo concubuerunt, cioè “andarono a letto”. Tuttavia avendo
trascurato di onorare Afrodite furono trasformati per dispetto in leoni. In questo mito ogni dettaglio
è significativo. La similitudine con la favola della Genesi è notevole e forse anche più chiari sono i
significati reconditi. Occorre precisare che la parola greca per mela, melon, designa qualsiasi tipo di
frutto tondo che somigli ad una mela, e si applica di conseguenza non solo al frutto del melo, ma
alla melagrana, alla cotogna, alla sorbola, alla corniola e a molti altri. Il latino pomum designa
l’insieme di frutti in miti che potrebbero per questo apparire di differente significato: il senso di essi
è sempre lo stesso. Più della mela vera e propria a simboleggiare l’eros femminile dovette esservi la
cotogna, frutto molto apprezzato dagli antichi per il suo forte profumo e per le qualità alimentari.
Era infatti presente in numerosi dipinti, a Pompei e Oplonti: ad essa fu sempre legata l’immagine
della donna e dell’amore e, da quando Paride l’assegnò ad Afrodite, è sacro a questa dea. Molte
raffigurazioni fanno pensare infatti che il famoso pomo della discordia fosse appunto una mela
cotogna, così come i pomi delle Esperidi. Il legislatore ateniese Solone aveva prescritto per il
cerimoniale delle nozze che la sposa gustasse una cotogna prima di congiungersi con l’amato. La
pianta del cotogno era già conosciuta in epoca omerica; il suo centro di diffusione era nell’isola di
Creta e nei dintorni di una sua città, Cydonia, ne cresceva la varietà più apprezzata, che in seguito
darà anche il nome per la classificazione botanica della specie: Cydonia vulgaris Pers. Per alcuni
scrittori i famosi mangiatori di loto (lotofagi) che incontrò Odisseo all’inizio delle sue
peregrinazioni si sarebbero nutriti di una sorta di mela selvatica, che dà un sidro inebriante. Si tratta
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della giuggiola selvatica che d’altronde è un “frutto dei morti”, essendo di colore rosso. I lotofagi
non erano forse gli stessi trapassati, la cui condizione specifica è di essere senza memoria? Per loto
gli antichi intendevano più generi di piante tra cui, appunto, il giuggiolo, che cresceva nel territorio
dei lotofagi, l’odierna Libia. “Laggiù il loro sapore è così gradevole al palato che essi hanno dato il
nome sia al popolo di quella regione sia alla regione stessa, che è troppo ospitale, visto che fa
dimenticare agli stranieri la loro patria” (NH 13,105). Altro frutto connesso col simbolismo delle
mele è la sorba o sorbola o mela acidula, dal colore giallo rossiccio e poi bruno a forma di una
piccola pera. Anche da essi è possibile ottenere una bevanda fermentata, così come i congeneri
baccarello, sorbo degli uccellatori e sorbo montano. Eagro, padre di Orfeo, significa sorbola
selvatica al dire di Graves e questo nome sarebbe connesso al culto della dea Alis o Elis, una
divinità trasformatrice, al pari di Circe – facendo anche osservare che in francese sorbola si dice
Alisier26[26].

MELOGRANO
Il melograno che così frequentemente è associato al papavero nel mito di Demetra non ha affatto
proprietà soporifere, al contrario è spesso associato a Venere, in quanto i suoi frutti spaccati alla
maturità simboleggiano materialmente la matrice della generazione. Infatti melagrana in greco si
dice sida che designa in primo luogo l’organo sessuale femminile[40]. Si è detto che la morte è
intrecciata alla vita: una specie di faccia di Giano, ecco perché fa parte del mito. Hades dette il
melograno da mangiare a Kore, in una variante del mito il succo con quattro chicchi (le quattro
stagioni), per trattenerla nel mondo della generazione, per impedirle di ritornare alla vita “olimpica”
che ella prima conduceva con sua madre. Infatti fino al recente passato questo frutto è stato
ampiamente celebrato per le sue proprietà afrodisiache e molti sorridevano di questa credenza
poiché non sanno che questo potere è dato solo da un suo prodotto derivato, oggi praticamente
sconosciuto, il vino di melagrana, ottenuto dalla fermentazione del succo. “Il succo rosso si può far
fermentare molto bene, e dà un aromatico vino fruttato. Possiede, se consumato in adeguati
quantitativi, un piacevole effetto eccitante” (C. Rätsch, cit. p. 120). Il modo per prepararlo
artigianalmente è il seguente: si sgranano i chicchi separandoli dalla pellicola bianca amarissima. Si
pigiano fino a che cacciano fuori tutto il succo dentro un vaso di terracotta e li si lasciano a
fermentare. Finita l’effervescenza si travasa, in modo da separare il residuo dal liquido e, per
conservarlo, si versa sopra uno strato di olio. Si può anche indurre la fermentazione esponendo il
vaso, anche di vetro, al sole. Un’aggiunta apocrifa ad un Mattioli stampato nel 1929 fornisce
ulteriore incentivo a chi volesse ingaggiare un combattimento amatorio: “Un raffinato medicamento
per chi soffre di pigrizia sessuale e per riattivare i luoghi segreti in uomini e donne: prendi le bucce
della mela granata (o la corteccia dell’alloro) e una spugna da bagno (naturale), disseccali entrambi
e riducili in polvere, e con essa cospargi la parte”. Nella buccia è presente un certo numero di
alcaloidi, tra cui l’isopellieretina, che incrementa l’eccitabilità dei riflessi nervosi. Le ghiande e
soprattutto le rosse corniole (Cornus Mas L.), come ancora le fave e le giuggiole, sono un frutto dei
morti. Graves ci ricorda che “un tabù primitivo riguardava i cibi di colore rosso, che potevano
essere offerti soltanto ai morti”, ritenendo che i frutti o fiori di questo colore nascessero dalla morte
di un semidio o di un mortale. Cibarsi di questi frutti equivale simbolicamente ad essere partecipi
della vita larvale e fatua delle ombre, rinunciando a quella olimpica27[27]. Infatti Ade, allorché gli dèi
decretarono che Kore dovesse tornare alla luce del sole dagli inferi dove era stata trattenuta contro
la sua volontà, in compagnia di sua madre Demetra, pur di trattenerla cosa fece: le mise a forza in
bocca i rossi grani della melagrana “affinché ella non rimanesse per sempre lassù, con la veneranda
Demetra… (I.O. 2,373)”. L’inno omerico stabilisce dunque un rapporto di consequenzialità fra la
permanenza agli inferi e l’ingestione di quei frutti. Anche la melagrana è dunque legata al sangue e
alla morte. Tramite i suoi grani maturi, che sono davvero sanguigni, Persefone resta per una parte
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dell’anno legata al regno dei morti. Tardivamente associata alla fertilità, essa era il simbolo di
Demetra e Kore prima ancora che queste venissero associate all’orzo e al frumento, cioè nel periodo
miceneo. Propriamente essa rappresenta il sangue, l’omicidio e lo stupro verginale, quindi un
simbolo di forza vitale che, posta in mano della dea, la identifica con la Signora della Vita.

MENTA
La pianta della menta non fu sempre così come noi la conosciamo. In un tempo assai remoto e che
si potrebbe definire un tempo psichico, essa era una ninfa. Lo scrittore Oppiano, ricordando nel
trattato della pesca l’uso della menta come ingrediente per la preparazione di un tipo di pastura per
la pesca dei muggini, riferisce che la ninfa Mintha era figlia del fiume infernale Cocito, il “fiume
del pianto”. Vivendo in quelle sotterranee regioni divenne l’amante favorita del re degli inferi,
Hades. L’idillio si sarebbe protratto nel tempo se il dio non avesse deciso di condurre nel proprio
talamo la bella figlia di Demetra, Kore dalle lunghe trecce, per farne la sua sposa legittima. Il mito
racconta che Mintha, abbandonata dal proprio amante, proferisse in urla spaventose – non a caso era
figlia del Cocito – e facesse tali minacce nei confronti della rivale che la scalzava dal letto del re
degli inferi, da suscitare la collera della potente Demetra. La ninfa perì miseramente, senza poter
attuale le sue rivalse – aveva detto che avrebbe ben saputo come riconquistare le attenzioni del re –
calpestata e straziata. Impietositosi, Hades la tramutò lì per lì in una pianta odorosa, la menta
appunto, con la caratteristica di risorgere più vigorosa qualora la si calpesti o la si tagli, infestando il
terreno su cui cresce. E’ quasi il segnacolo che la forza dell’eros non può essere interrata nel corpo
ed ogni volta che l’ideologia demetrica la reprime, essa rispunta alla vita endemicamente. I greci la
conoscevano anche col nome di hediosmos, “dal buon odore”. Il rapporto Hades-Mintha-Demetra
va oltre il mito per il fatto che uno dei pochissimi templi di Poseidone – è questo l’altro nome di
Hades e che significa “sposo della terra” – sorgeva ai piedi del monte Minthe, in Elide, che prende
il nome da Mintha ed era contornato da un bosco, sacro alla dea delle messi. Pare di leggere in
questa topografia sacra che l’eros è infero, inconscio, scaturisce da Ade, e Demetra vi preside per
organizzarlo ed irregimentarlo. Questo rapporto si palesa in base alle seguenti considerazioni:
Mintha-ninfa è un’amante, una concubina, come tale Mintha-pianta non può che ricalcare queste
caratteristiche già riconosciute dagli antichi medici: Galeno affermava che “muove agevolmente gli
appetiti di Venere”. Le minacce di rivalsa che la ninfa si accingeva a mettere in opera si attuarono
nelle vesti di ninfa-pianta, essendo stata distrutta per tempo. Sopravvisse in sordina, quale
ingrediente del Ciceone, la bevanda sacra dei Misteri di Eleusi. Il primo bibliotecario ufficiale della
biblioteca di Alessandria, Zenodoto di Efeso, ci ha riferito che Mintha una volta era chiamata
“Iynx”. Questa parola greca ha tre significati: uno strumento sonoro di magia erotica; l’uccello
torcicollo (Iynx Torquilla L.) anch’esso utilizzato in questo tipo di magia; una maga esperta in filtri
amorosi. Vi è un’equitazione menta=seduzione erotica non solo nel campo vegetale ma pure in
quello psicologico e fisico-magico contenuti in questo nome. Il mito in questione è ancora più
significativo di quello di Myrra, che vedremo più avanti, poiché nel primo sotto le specie della
rinascita della menta calpestata si va a significare la superiorità – almeno per quegli ambienti che
avevano sviluppato questa versione del mito – dell’amore eretico e libero su quello convenzionale e
regolamentato che, nel secondo già ci appare interpolato da punti di vista “demetrici”. Inoltre è di
Marcel Detienne l’osservazione che “mentre eccita il desiderio sessuale, la menta lo allontana dalla
sua funzione generatrice che ricalca l’opinione degli antichi che in molti afrodisiaci vedevano anche
degli antifecondativi che proteggevano quasi il piacere dalle indesiderate conseguenze dell’atto
genesiaco. Dioscoride: “messa nella natura delle donne avanti al coito, non le lascia ingravidare”.
Inversamente le piante anafrodisiache, come le lattughe, inibiscono il desiderio ma favoriscono i
processi di gestazione e sviluppo. Il mito palesa un’antitesi ideologica e culturale tra l’ideale della
seduzione e del piacere (Mintha amante) e quello della continenza e del matrimonio (Kore
sdegnosa); antitesi idealizzata in un contesto atemporale ma che in realtà rappresentò un mutamento
storico sviluppatosi per secoli. Kore o Persefone, così come fu chiamata dopo che andò sposa ad
Ade, è invece una sposa legittima e come tale destinata ad essere madre feconda di figli legittimi.
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La sua supposta facoltà antigenerativa opponendosi allo sviluppo naturale della vita ha fatto sì che
la menta fosse una delle piante, come il prezzemolo, adoperata nei rituali funebri che, tra l’altro,
esplicava molto bene coprendo il puzzo delle carni in decomposizione. Dobbiamo precisare che la
menta di cui stiamo trattando, quella definita da Linneo piperita, cioè pepata, per via del suo sapore
pungente, è la stessa che alcuni botanici pretendono sia comparsa per la prima volta in Inghilterra
nel 1696. Ciò sarebbe avvenuto attraverso una triplice ibridazione: la menta silvestre e quella
“rotondifoglia” avrebbero generato la “verde” che, poi, si sarebbe ibridata con quella “acquatica” e
da quest’ultima unione avremmo avuto la nostra menta. Non sta a noi entrare nel merito del
problema ma facciamo osservare che altri botanici come il Murr considerano la menta citata già da
Dioscoride e Teofrasto come la “piperita”. Per via dell’odore penetrante e gradevole che rinfresca e
lascia, come dicevano gli antichi, la “bocca buona” profumando l’alito, la menta rientra nel novero
delle piante preposte a favorire e stimolare i connubi tra gli opposti sessi. Per Ippocrate una forte
dose di menta provocherebbe spermatorrea ed impotentia erigendi. Nell’inibizione della
generazione bisogna considerare la qualità di pianta “fredda” che molti autori le hanno dato. Il
freddo è analogo all’oscurità e alla morte, a tutto ciò che si oppone alla vita. Mintha vive nell’Ade
ed è figlia di un fiume infernale. La sua opposizione a Demetra e Kore è anche quella fra i cereali
che sostentano la vita e le piante utili sono per cose “futili”, come ritenevano certi antichi. Non a
caso i lessicografi greci avevano stabilito una corrispondenza fra il termine Mintha e minthos,
indicante lo sterco e gli escrementi, così come potrebbe esistere col latino mentula, membro virile,
poiché se la nostra pianta oscilla fra qualità “fredda” e “calda” è per la duplicità della sua natura,
che ne fa una specie “mercuriana”: con la qualità “calda” stimola la sessualità, con quella “fredda”
ostacola la procreazione. Letteralmente si tratta invece del Pulegio.. La menta propende comunque
verso la sterilità, poiché non si riproduce per seme, ma attraverso gli stoloni o per talea, quindi
“estendendo” in qualche modo se stessa nello spazio circostante. Difatti, nel culto della feconda
Demetra era fatto divieto di introdurre la menta nelle vivande, come ha ricordato il Brelich. Era,
inoltre, il condimento principe nel consumo delle fave – cibo dei morti – e rientrava nella
composizione del ciceone – la bevanda rituale di coloro che “morivano” alla vita profana
nell’iniziazione elusina. Pare che il ciceone fosse una vera e propria droga rituale, una soluzione
idroalcolica di menta-pulegio, e orzo, maltizzata, che conteneva un fungo parassita, la claviceps
paspali, parente dell’LSD-25 ottenuta dalla claviceps purpurea ma di circa venti volte meno attiva.
Comunque la stessa mentha pulegium a dosi molto elevate può agire a mo’ di stupefacente… E’
così probabile che il kykeon, bevuto dopo un lungo e severo digiuno, producesse una sensazione di
estrema eccitazione su cui le immagini e i riti dei misteri dovevano avere un profondo effetto.
Dunque una pianta dell’amore infero, poiché non sposava l’atto sessuale con la generazione dei
figli. Ippocrate la associò, nelle sue prescrizioni sul morbo sacro, al divieto di indossare un mantello
nero, né di mangiarla, tantomeno in tempo di guerra, né di coltivarla. Un frammento orfico ci narra
infatti che un tempo la menta “era un grande albero, carico di frutti” – forse analogo all’albero della
tentazione di Eva – Quest’albero, riferisce il mito orfico, fu preso in odio da Demetra che si trovava
a passare da lì disperata per la perdita dell’amata Kore e la condannò da allora in poi alla perpetua
sterilità. Fu così che nacque la calaminta, dal greco “cattiva menta”. La frigidità della menta
paradossalmente può venire incontro per favorire il rapporto sessuale. Possiede infatti una leggera
azione anestetica locale che già si manifesta se viene assaporata sulla lingua: usando l’essenza in
diluizione inferiore all’uno per cento, applicata direttamente sul glande, esplica azione anestetica
poiché uno dei suoi componenti chimici, il mentolo, eccita le terminazioni nervose superficiali che
trasmettono la sensazione del freddo e di quelle sensitive in generale con conseguente analgesia.

MIRTO
Questa pianta nella sua stessa parola racchiude il significato di “pianta della morte”. Lo conferma la
notizia riportata da Teofrasto che la pianta del mirto fu vista per la prima volta sul tumulo funebre
di Elpenore, compagno di Odisseo. Egli mentre vagava ubriacoo sul tetto della casa di Circe era
caduto giù ammazzandosi. Non essendosi accorti della sua scomparsa i compagni non gli avevano
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dato sepoltura e solo allorché l’eroe itacese lo incontrò fra le ombre del Tartaro, gli promise onori
funebri. Vi è dunque un collegamento intenzionale del mirto con una delle dee di morte e
trasformazione, Circe, ed era pianta che veniva abitualmente adoperata nei riti purificatori dopo che
vi era stato spargimento di sangue e nelle cerimonie funebri. Quando Virgilio lo definisce
“materno” è appunto perché la Madre Terra è colei che accoglie nel proprio grembo gli esseri umani
al momento della morte. Il fatto che fosse sacro anche a Venere – oltre che dea dell’amore anche
madre primordiale di tutto il mondo tellurico – venendo usato negli atti a lei preposti, come il
connubio, ci testimonia che era pianta consacrante l’atto di un passaggio o di una trasformazione o,
ancora, di una fusione tra le due natura: vuoi che si trattasse di celebrare il regresso dallo stato
umano a quello porcino (vi è identità simbolica fra la “porcificazione” dei compagni di Odisseo e la
morte in stato di “ebrezza” di Elpenore), vuoi che si trattasse di unioni erotiche28[28] tramite l’uso di
unguenti o incensazioni; che dell’uscita dell’anima da un corpo29[29] o, comunque, una presa di
contatto con una realtà diversa, come la purificazione dopo un fatto cruento. Quei greci che
abbandonavano la propria città natale per fondare una colonia portavano seco rami di mirto,
volendo significare che si lasciavano alle spalle un periodo irripetibile della loro vita. Un’iscrizione
concernente i Misteri di Ecalia, ritrovata in Messenia, vietava di confezionare corone di mirto, che
invece erano quasi d’obbligo nei vari Misteri di Dioniso. Come interpretare questo divieto? I
Misteri di Ecalia, erano in onore di Apollo Carneio, come ci riferisce Bachofen, quindi rifuggivano
da qualsiasi elemento che potesse essere in relazione col mondo della generazione e della morte,
come invece era il caso per il mirto. Walter Otto ha sostenuto la tesi che Afrodite si sia appropriata
del mirto solo successivamente e che, in origine, sarebbe stato appannaggio di Dioniso che
l’avrebbe poi partecipato ad Hades, in cambio della liberazione di Semele. A nostro giudizio nulla
impedisce che quest’arbusto dai fiori bianchi e dalle bacche nere sia potuto appartenere in egual
modo ai tre Dei senza rapporti di successione cronologica. In genere, è difficile che una pianta
“funebre” non sia anche una pianta di trasformazione, poiché gli antichi à checchè ne dicano i
moderni manipolatori di religioni – vedevano nella morte un fatto trasformativo, mai un
annullamento. Questa metamorfosi è evidente nel caso di Elpenore che si commuta in mirto: certo
non si tratta di una resurrezione in senso cristiano o, peggio, di una reincarnazione in senso
teosofistico ma di un cambiamento di stato ontologico dall’umano al vegetale che è, appunto, il
significato letterale del termine “metamorfosi”. L’uso erotico del mirto testimonia anch’esso delle
facoltà di tramite e assottigliamento dei termini fisici e psichici di una individualità che, per la sua
mediazione, tende a conglobarsi con quella del sesso opposto. D’altronde questa facoltà teleologica
propria alle piante aromatiche è presente anche ai livelli più banali, come nella culinaria e nella
cosmesi, dove il mirto dava il nome all’un tempo famosa “Acqua degli Angeli”. La parte dei
Mediterraneo compresa tra l’isola di Creta, il Peloponneso, le Cicladi e l’Eubea veniva un tempo
chiamata “mare mirtoo”, in onore di Mirtilo, figlio di Hermes e auriga di Enomao. Questo Mirtilo
(del mirto) rispecchia bene il significato funebre in senso soltanto negativo della trasformazione: ci
sono molti miti in cui l’eroe muore in seguito ad una caduta o una ferita patita dal cocchio su cui si
trova: Ippolito o, in forma un po’ diverse, Anfiarao coll’auriga Batone e Fetonte. Mirtilo venne
estromesso dal cocchio da Pelope e da questi precipitato nel mare a cui trasmise il nome. Come è
detto esplicitamente nella mitologia indostana, il carro o cocchio è la rappresentazione della
personalità psichica e mentale dell’individualità umana, i cui cavalli, l’uno bianco e l’altro nero, ne
rappresentano le inverse polarità. L’auriga di questo carro da guerra è il Sé immortale, a volte
coronato di un sole raggiante. Essere sbalzati da esso vuol dire perdere “nome e forma”, rinunciare
all’olimpicizzazione, che era lo scopo delle iniziazioni misteriche30[30] e perdersi nella grande
corrente delle forme detta dai greci “Ciclo della Generazione”, ove era possibile confluire in
modalità di esistenza non più umane ma animali se non addirittura vegetali, come nel caso
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mitologico citato. La storia di Mirtilo è la seguente: egli era l’auriga di Enomao, la cui foglia
Ippodamia era stata offerta in premio a colui che avesse saputo vincere e uccidere Enomao in un
duello sui carri da guerra. L’amante di Ippodamia, Pelope, promise lo “ius primae noctis” con la
giovane a Mirtilo se questi avesse tradito Enomao. Quest’ultimo alfine perì ma non senza aver
avuto il tempo di maledire l’auriga traditore. La maledizione voleva che fosse lo stesso Pelope a fra
morire l’auriga e così avvenne, col pretesto che questi aveva tentato di violentare la recalcitrante
Ippodamia. Per tradire Enomao, Mirtilo aveva manomesso i mozzi delle ruote del carro del suo
signore. Ora la ruota è un simbolo solare equipollente all’auriga stesso; perdere le ruote è perdere la
giusta direzione, smarrirsi nell’oceano psichico. Ciò avvenne anche perché la lunare Ippodamia (la
figura femminile è vista in molti miti come fonte di salute e fortuna) parteggiava per Pelope.
Mirtilo, non riuscendo ad ottenere Ippodamia perse e si dissolse nel mare Mirtoo. Pelope, come
riferisce il mito, vinse ed ottenne l’apoteosi.

MOLY
Omero così ce ne parla: la radice era nera, al latte simile il fiore, moly la chiamano i numi.
Strapparla è difficile per le creature mortali, ma gli dèi tutto possono (Od. 10,304). Nel passato in
molti si sono industriati nell’identificare la portentosa erba moly di Hermes, sulla falsariga delle
scarne parole di Omero: Teocrito, Eustazio, Filostrato, il patriarca Fozio, hanno preferito darle una
connotazione retorico-allegorica; Massimo di Tiro, Tolomeo Efestione e Plinio il Vecchio una
botanica. Quest’ultimo (NH 25,26) così riassume la questione: “L’erba più famosa di tutte, in base
alla testimonianza di Omero, è quella che, secondo lui, gli dèi chiamano moly: egli ne attribuisce a
Mercurio la scoperta e la spiegazione dell’uso contro i peggiori avvelenamenti. Dicono che oggi
nasca nei pressi del Feneo e sul Cillene, in Arcadia; e pare sia quel tipo descritto da Omero, con la
radice arrotondata e nera, grossa come una cipolla, e con le foglie della scilla; si estrae però senza
difficoltà. Gli autori greci hanno disegnato il suo fiore di colore giallo, mentre secondo Omero era
bianco. Ho trovato, tra i medici esperti di erbe, uno i quale sosteneva che essa nasce anche in Italia,
e che lui e la poteva portare dalla Campania nel giro di qualche giorno, dopo averla raccolta in zone
sassose e disagiate; la radice sarebbe lunga 30 piedi, e neppure nella sua interezza ma strappata”. Ci
sembra evidente che già all’epoca di Teofrasto, che Plinio riassume, c’era incertezza
sull’identificazione di questa moly e che, probabilmente, più di una pianta aveva questo nome. Fra
gli studiosi moderni G. de Vitofranceschi propende ad identificare moly con una specie di aglio
(Allium Moly) “molto diffuso in tutte le regioni dell’Europa meridionale: di solito viene coltivato a
scopo ornamentale per la bellezza della sua infiorescenza”. Così pure J. Allegro, trattando del dio
fenicio Moloc, afferma che questo nome “è filologicamente connesso a quel gruppo di erbe
mucillaginose chiamate Malva, alla pianta magica Moly (Aglio selvatico) e al greco mukès, fungo.
L’archeologo francese Paul Faure, citando una variante del mito di Procri, riferisce che quest’ultima
“avrebbe guarito Minosse dalla sua impotenza con l’aiuto di una pianta: il misterioso ‘moly’ o
radice di Circe, l’erba di vita che avrebbe permesso a Ulisse di sfuggire ai malefici
dell’incantatrice… era forse una liliacea, una varietà di genziana, un’orchidea, una mandragora
officinale?”. Rober Graves ci informa che “i grammatici non hanno potuto stabilire che cosa fosse
l’erba moly di Ermete, Tzete (scoli a Licofrone 679) dice che gli speziali la chiamano ‘ruta
selvatica’; ma la descrizione che ce ne dà l’Odissea fa pensare piuttosto al ciclamino selvatico che è
un fiore raro, dai petali bianchi, dal bulbo scuro e dal profumo intenso. In seguito gli scrittori
classici chiamarono moly una specie di aglio dai fiori gialli che si supponeva crescesse (come la
cipolla, il pancrazio e il vero aglio) quando la luna era in fase calante, e servisse chiunque come
amuleto contro l’influsso nefasto di Ecate”. Il ciclamino selvatico è propriamente il Cyclamen
Neapolitanum v. album L., detto anche pan porcino, poiché i maiali sono ghiotti del suo bulbo. I
botanici hanno poi dato il nome scientifico di Circaea Luteziana L. a quella che tradizionalmente
era conosciuta nelle campagne come erba maga ma, anch’essa, non corrisponde alla descrizione che
ce ne dà l’Odissea. Un po’ tutti vedono in un’agliacea dunque la famosa moly, seguendo
pedissequamente quegli antichi che già allora parlavano per sentito dire, senza aver visto il persona,
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per quanto Dioscoride e altri chiamassero circea la mandragora. Nella vicenda dell’Odissea l’erba
moly ci viene presentata come la sostanza o, se vogliamo, la facoltà che permette ad Odisseo di
superare la malia di Circe: a questi si contrappongono i “farmachi tristi” usati dalla maga per
trasformare i suoi malcapitati. Tuttavia, analizzando dettagliatamente il simbolico racconto, Circe
non risulta essere una strega ma una Dea e col suo aiuto Odisseo riuscirà a penetrare nelle regioni
dei morti e, poi, a proseguire nel suo cammino iniziatico. Innanzitutto, pesando le parole di Omero,
leggiamo che Circe era intenta a tessere una tela “grande e immortale, come sono i lavori delle
dee”, cantando soavemente. Ora, facendoci venire in mente i telai di pietra posti nell’antro delle
ninfe di cui tratta Porfirio, la tela senza fine che tesseva Penelope, il canto delle sirene, non può non
venirci il dubbio che si tratti in realtà della rappresentazione di una grande Dea Madre che tesse il
filo formale della Vita. La sua sede, l’isola Eea, era anche un’isola dei morti, posta in terre lontane e
coronata di alberi funebri: salici, pioppi, ontani. I maiali erano sacri a questo tipo di dee,
rappresentando l’anima dei profani pronta per essere riutilizzata a formare nuove vite nel ciclo della
generazione. Anzi, esistevano pure delle dee-scrofe come Forci (da cui abbiamo il latino Orcus e
l’italiano porco), divoratrici di cadaveri. Maiali venivano sacrificati a Demetra e Persefone
facendoli precipitare in voragini naturali. I porcari dell’antichità godevano fama di veggenti o magi.
Non a caso fu il porcaro Eubuleo, nel mito a rivelare per primo che Kore era stata rapita da Ade e
portata fra i morti. Lo stesso porcaro di Odisseo, Eumeo, è definito “simile a un dio”. I compagni di
Ulisse sono trasformati in maiali, non in lupi o leone com’era successo, perché si vuol far
significare che essi sono anime di morti (solo la mente resta umana), materia bruta in mano alla
Grande Dea trasformatrice. … e a loro Circe ghiande di leccio e di quercia gettava e corniole a
mangiare, come mangiano i porci che a terra si voltolano. Fra i molti tentativi di interpretazione
forse nessuno, tranne l'Allegro, si è posto il problema di ricercare il significato etimologico della
parola moly. L'autore americano aveva posto un parallelo fra la nostra pianta e il nome del dio
Moloc. In un altro passo del suo libro riferisce che "moly, più esattamente la pianta 'chiavistello',
era un altro nome fallico de ''Eringio". I botanici dell'antichità consideravano l'Eringio pianta
bisessuata, componendosi di due nomi, uno significante Hermes e l'altro Caino. Con ciò ci troviamo
alla frontiera fra le mitologie elladiche e quelle semitiche, di cui Allegro è esperto conoscitore.
Plinio (22,20) riferisce come "la sua radice assomigli ai genitali dei due sessi, e che la radice
maschio si trovi raramente, ma se capita agli uomini di trovarla, essi facciano innamorare di sé". Si
tratta del Calcatreppolo (Eryngium Campestre L.) che in una sua varietà coltivata, come afferma
Andrè, presenta rigonfiamenti, appendici e cercini cicatriziali anulari dalla forma spesso strana, che
può ricordare gli organi sessuali maschili e femminili. Questa pianta, il cui nome greco significa
"che fa ruttare" non è considerata afrodisiaca dai farmacologi mentre gli antichi ritenevano tali tutte
le piante in grado di provocare "ventosità". In un racconto egizio appartenente alla letteratura di
genere religioso “distruzione e Salvataggio del Genere Umano”31[31] si può trovare – a nostro
giudizio – la vera origine del racconto omerico dell’erba moly che Odisseo avrebbe dovuto
adoperare contro Circe e che farebbe pensare veramente all’identificazione del moly con la
mandragora.

MIRRA
La parola greca Myrra o Smyrna è di origine semitica e vuol dire semplicemente pianta profumata,
tant’è che la stessa radice designa anche un’altra specie botanica nota per il suo profumo
nell’antichità: il Mirto, chiamato dai greci Myrtos o Myrrine. Ciò vale anche per il Macerone
(Smyrnium Olusatrum), pianta una volta coltivata negli orti tra le aromatiche ed oggi abbandonata.
Nel mondo antico la mirra era infatti considerata il profumo per eccellenza, sia per l’uso sacrale che
profano che se ne faceva ed aveva il valore che oggi corrisponde a quello della valuta. In contrasto
con altri autori noi poniamo questa gommoresina sotto il simbolo di Venere, in quanto l’uso che ne
veniva fatto era precipuamente erotico, sia sul piano umano che extraumano. Fisiologicamente i
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profumi agiscono sull’animus delle persone attraverso il sistema sanguigno, ove sono condotti dalla
respirazione. L’aroma venereo di questo vegetale si otteneva facendo evaporare l’essudazione
spontanea che geme dal tronco e dai rami dell’arbusto su delle braci. Da questa materia si
ricavavano degli unguenti profumati che venivano poi conservati in recipienti di onice o di piombo
onde, con la loro pesantezza ed opacità, non ne disperdessero l’essenza. Provenendo da remote
regioni dell’Arabia e dell’Africa orientale fin dall’antichità c’è stata incertezza sull’identificazione
della mirra. Lo stesso Dioscoride di Anazarbi ne enumera diverse specie nel suo De Materia
Medica: la migliore la indica in quella detta troglodytica, poiché proveniva da una regione a nord
dell’Etiopia così chiamata perché i suoi abitanti vivevano in caverne. Essa si caratterizzerebbe per
essere la sua essudazione di color verde, trasparente ed amara al gusto. In ogni caso è da preferirsi
quella che sia fragile al tatto dal colore uniforme e che, rotta, mostri alcune venature biancastre;
amara ed acuta, profumata. Questa mirra eletta da Dioscoride si può identificare con la
Commiphora Opobalsamum, mentre quella abitualmente reperibile sul mercato nazionale, qualora
non venga sofisticata con mirre indiane, come quasi sempre succede, è la Commiphora Abyssinica,
dal colore giallo rossiccio. Il nucleo del mito è costituito dal’innnamoramento della giovane Myrrha
per il proprio genitore. Il fatto che essa rifiutasse tutte le profferte amorose dei vari pretendenti per
dirigersi solo verso il padre ci pone, mitostoricamente, in un’ottica ben precisa che travalica i
confini del singolo mito e collegandosi armoniosamente con altri ci porta nell'habitus mentale e
ideologico della seduzione. Quest'ultima non è diretta verso l'unione istituzionale del matrimonio,
così cara ai greci del periodo classico, finalizzata alla procreazione di figli legittimi e del nucleo
famigliare ma verso l'eros fine a se stesso. E' l'ideologia di un diverso modus vivendi,
predominante, per quanto riguarda i rapporti sociali, nella più vetusta antichità e in tutti i periodi in
cui rigoglioso il politeismo. Fu così che l'autore anonimo noto come Pseudo-Democrito poté
affermare: "Le cortigiane le abbiamo per il piacere le spose per una discendenza legittima e una
custode fedele del focolare" (Contro Neera, 162). L'amore verso il padre è il caso limite per
eccellenza che la mitologia ci ha voluto offrire proprio per delineare senza possibilità di equivoci il
campo psichico e ideale della seduzione erotica, quale principio paradigmatico col quale si può
coniugare un intero modo di vita. Una versione del mito di Myrrha, quella tramandataci dal
grammatico Servio (Ad Aen. 5,22), riferisce che la figlia Cynira non venne tramutata nell'arbusto
della mirra bensì in quello del già menzionato mirto, anch'esso dal grato aroma e sacro a Venere, ab
antiquo. Nell'antica lingua greca mirto voleva dire sia mirto che clitoride che sesso femminile, come
ci riferisce Rufo di Efeso. La variante di questo mito non fa che omologare talune piante profumate
al principio stesso della seduzione e allarga il campo visuale ad altri miti che si concatenano fra
loro, non casualmente ma per affinità "elettive". Marcel Detienne in un poderoso studio su miti
della seduzione erotica, tutti legati al tema di profumi e degli aromi, rivela che "gli aromi destinati a
scopi erotici permettono di unire degli esseri normalmente separati, di congiungerli con la forza del
loro profumo". Si tratta di veri e propri conduttori di magnetismo che permettono di porre in
relazione sintonica erotica due persone, molto più di quanto possa avvenire con la forza dello
sguardo. A riprova ricorderemo che nell'antica Grecia come altrove non c'era amplesso se non era
preceduto dal rituale della profumazione; gli stessi sposi si incoronavano con rami di mirto il giorno
delle nozze. In un frammento sofocleo la Venere che si presenta al giudizio di Paride appare coperta
di profumi ed in questi Euripide vede la "potenza del desiderio", ciò che innesca il processo
attrattivo destinato all'unione degli amanti. Un ultimo riferimento tra i tanti: l'unico rimedio che
riesce a vincere la resistenza del dio Vulcano riottoso a tornare sull'Olimpo è una frizione, a base di
mirra praticatagli da Dioniso che riesce a trascinarlo sulla cima grazie all'incantamento ottenuto col
profumo. Questa proprietà seducente, questa capacità di commuovere gli animi verso la passione
erotica è dunque insita nella stessa sostanza organica nota come mirra. Da questa, previa
trasformazione, se ne può ricavare un opportuno stimolo. E' giunto il momento di esaminare
partitamente il mito di Myrrha, basandoci sulla versione di Ovidio (Met. X,48). Come abbiamo
detto la vergine Myrrha rifiuta le proposte matrimoniali di vari pretendenti non avendo occhi altro
che per suo padre, Cynira re di Cipro; una passione contro natura o, se si preferisce, contro una
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certa natura alla quale Myrrha evidentemente non appartiene. Infatti l'amplesso si consumerà, con
l'aiuto della fida nutrice, nella notte in cui ricorrevano le feste Thesmophorie, sacre a Demetra,
caratterizzate dalla castità rituale delle partecipanti: le donne sposate. E' una evidente
contrapposizione di significato che non si sarebbe potuto esprimere meglio. Accortosi alfine
dell'identità della sua amante, Cynira tenta di ucciderla ma questa riesce a fuggire. La fuga si
protrae per nove mesi fino in Arabia finché, ormai prossima al parto, la giovane supplica gli dei di
por fine alle sue sventure e questi la esaudiscono mutandola nel noto vegetale. In virtù di un divino
prodigio il frutto che ella portava in grembo viene salvato e dalla corteccia che già secerne la mirra,
ovvero le lacrime della sventurata madre, sortisce anche il piccolo Adone, figlio di quell'amore
incestuoso: "Sebben col corpo ogni sentir l'è tolto, piange, e un tepido umor dall'arbor gronda: la
sudata tuttor lacrima egregia da Mirra ha il nome, e senza fin si pregia". Il mito a questo punto
prosegue con la triste vicenda di Adone, non meno sventurato della madre. In realtà è tutto un
intreccio di miti che se all'apparenza sembrano disuniti tra loro sono invece intessuti di un intimo
significato, quello della seduzione e dell'eros. Innanzitutto Cynira è re di Cipro, isola sacra a
Venere; non basta: c’è quasi una genealogia che lega Cynira alla dea. Suo padre, Pafo, era nato
dalla statua di Venere mutata in Galatea. Ciò era avvenuto perché Pigmalione, nonno di Cynira e
innamorato di Venere, non potendo giacere con la dea se ne portò in camera da letto il simulacro, e
questa, commossa, operò il miracolo. Quindi l’eros, il piacere e la seduzione, nel segno di Venere
sono alla base del mito, con tutta una logica di corrispondenze. Inoltre, non è certo un caso se il
nome greco Kyniras deriva dal verbo Kinyromai (lamentarsi) in quanto questo ha un preciso
rapporto col tema della seduzione erotica e erotico-magica. In origine “le lamentazioni rituali
avevano un significato sessuale”32[32]. Infatti il tema verbale greco pare derivi dalla voce ebraica
qinah, lamentazione, a sua volta da un’originale voce sumerica giunura, pene eretto. Pare accertato
che la lamentazione rituale e funebre negli antichi culti della fertilità avesse la funzione di
risvegliare ciò che era morto, per il compimento di un ciclo. Tra l’altro i Cyniradi erano un collegio
sacerdotale cipriota dedito al culto di Venere e Cynira, oltre che essere considerato un musicista fu
anche l’introduttore della prostituzione sacra a Cipro. Ce n’è abbastanza per dar modo al lettore di
fare le sue deduzioni e di considerare l’antico lamento nient’altro che un “canto del pene”.
Rimandiamo comunque gli studiosi interessati al capitolo “lamentazioni religiose” del libro di
Allegro, ove sono illustrati estesamente i collegamenti fra lamentazione ed erezione. Il tema
semantico di Kyniras lo ritroviamo ancora nell’ebraico Kinnor, apra, in greco Kìnyra,
“propriamente lo strumento musicale che aveva il potere di provocare lo stimolo sessuale nell’uomo
e nel dio”; era infatti adoperato dalle cortigiane e dalle etère ed il suo suono lamentoso
“commoveva le viscere” (Isaia 16; XI – 23,16). Dunque il lamento, che poteva potenziarsi in urlo,
aveva un effetto erotico. Se Cynira è il pene in erezione, Myrrha essendone la figlia è l’impulso
erotico che sfocia nell’orgasmo. Non è infatti la nutrice (colei che alimenta) a portare la fanciulla
nel talamo paterno? Se tutto ciò dovesse parere azzardato e fantasioso a più di un lettore pensi
quest’ultimo al fatto che secoli su secoli si sono frapposti fra due mentalità: quella tradizionale e
quella moderna, facendo credere a quest’ultima, rinchiusa tra i muri del tempo, di essere l’unica
figlia dello spirito umano, mentre potrebbe esserne solo quella illegittima.

NARCISO
Nella mitologia è un dato comune che

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