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FURIO JESI. RAINER MARIA RILKE. da IL CASTORO, NUMERO 54, GIUGNO 1979. ...

giornate
come queste non appartengono alla morte cosí come non appartengono al la vita.
Appartengono... oh, terra di nessuno, se esiste uno Spirito di Nessuno, un Dio di
Nessuno sopra di voi, ebbene, allora appartengono a lui, a questo essere invisibile
e sinistro ... Ci si stringe a pensieri minimi, si beve e ci si ubriaca di rifiuti;
si razzola nel fango, poi si cammina imbrattati di ricordi preziosi; si gocciola
sudiciume su terra sacra, si prendono cose, onorate e intatte finora, nelle proprie
mani s udate e gonfie, e tutto diventa comune, comune a tutti, valido per tutti.
Nella vita personale come in quella sociale è una continua rinuncia, una cessione
di ogni cosa che ci appartenga, e a quale prezzo7 A quale prezzo: se non ci foss e
questo interrogativo, chi non getterebbe via le proprie cose e se stesso insie me,
se non comprendesse, non intuisse, che quel pochissimo che sopravviverà in pur
ezza, necessita, per seguitare a elevarsi, di queste fondamenta? Noi, taluni di
noi, avvertiamo da tempo fila di continuità che non hanno nulla a che fare con le
comuni vicende storiche... "(Lettera alla principessa Maria von Thurn und Taxis -
Hohenlohe, 1915). Il forte ponte, internamente tremante, del Mediatore ha solo un
senso quando si sia riconosciuto l'abisso tra noi e Dio; ma appunto quell'abisso è
pieno del buio di Dio, e quando alcuno lo prova, discenda egli e ululi in quel
baratro (è piú neces sario questo che valicarlo) (Lettera a llse Jahr, 1922). Chi,
nel seno del lavoro poetico, è iniziato ai miracoli inauditi delle nostre pro
fondità o almeno usato da essi in qualche maniera come cieco e puro strumento, dov
eva giungere a svilupparsi nella meraviglia una delle piú essenziali applicazioni
del suo animo. [...] Del resto appartiene alle inclinazioni originarie della mia
costituzione di accogliere il mistero come tale, non come qualcosa da svelare, ma
come il mistero, che è cosí segreto fin nel suo centro piú intimo e dappertutto, co
me una zolla di zucchero è zucchero in ogni particella. E' possibile che accolto
cosi, si sciolga in certe circostanze nella nostra esis tenza o nel nostro amore,
mentre altrimenti di solito otteniamo solo uno sminuzz amento meccanico del piú
nascosto segreto, senza che veramente si trasformi in noi (Lettera a Nora
Purtscher-Wydenbruck, 1924) Penso che tutti i popoli debbano av ere dei momenti di
schietto nazionalismo per acquistare coscienza di sé o semplice mente per
conoscersi... Il popolo ha bisogno di quel furore nazionalista per toccare il suo
cuore mister ioso, per sentirsi una cosa sola [...] Avrei potuto fare in Italia o
in Francia, se vi fossi nato, quello che mi sarebbe stato difficile altrove:
servire il pae se con convinzione ed entusiasmo come soldato, italiano o francese,
in spirito f raterno, fino all'estremo sacrificio. Questo acceso nazionalismo dei
due paesi mi sembra unito al gesto, all'azione, a un esempio visibile. Nel vostro
paese [l'Italia] ancor piú che in Francia, il sangue e veramente uno è in certi
momenti l'idea portata da quel sangue non puo essere che una. L'idea romana è una
di quelle rare idee che in certe svolte della storia poterono acquistare un valore
universale... (Lettera ad Aurelia Gallarati-Scotti, 1926). Gravemente, malato,
dolorosamente, miserabilmente, umilmente malato, mi trovo pe r un attimo nella
dolce consapevolezza d'aver potuto essere raggiunto, perfino s u questo piano non
situabile e cosí poco umano, dal vostro Invio e da tutti gli in flussi che mi reca.
Penso a voi, poeta, amico, e cosi facendo penso ancora il mondo povero rammento di
un vaso che si ricorda d'essere terra. (Ma questo abuso dei nostri sensi e de l
loro dizionario da parte del dolore che lo sfoglia!) (Lettera a Jules Supervie lle,
21 dicembre 1926, una settimana prima della morte). 1. Sebbene sulla sua tomba sia
scolpito uno stemma gentilizio, ed egli si dichiaras se discendente di una nobile
famiglia della Carinzia, Rilke non era di origine a
ristocratica. Era nato a Praga da una famiglia della piccola borghesia impiegatizia
dell'imper o absburgico. E considerando i Suoi sforzi, tra la malafede e la
mitomanìa, di attribuirsi un'ar istocratica prosapia, viene naturale ricordare
l'aneddoto secondo il quale la ma dre d, Rilke, in modeste condizioni economiche,
afflitta da ambizioni di prestig io, conservava con gran cura delle bottiglie vuote
di vini di gran pregio, debit amente etichettate, per travasarvi, quando riceveva
ospiti, il vino comune che e ra in grado di comperare. Rilke è figlio di quella
piccola borghesia, economicamente vicina al proletariato e tuttavia lontana da esso
per ambizioni, sentimenti, dellberata ripulsa, non de lla grande borghesia che
poteva ancora far proprie le parole di Goethe, poco com mosso della patente di
nobiltà ottenutagli dal duca di Weimar: noi patrizi di Fran coforte ci eravamo
sempre sentiti pari ai nobili . Le immagini del luogo dell'infanzia di René Rilke
(cos lo chiamavano allora i fami liari, per un vezzo analogo ai francesismi de.
tedesco viennese) sono quelle di un intérieur borghese, in una citta ormal provinc
iale dell'impero austro-ungarico. Lo spazio che esse definirono per lui non è, come
per Kafka, un angolo dell'antico quartiere ebraico ( dentro di noi piú reale della
nuova città , disse Kafka a Gusta v Janouch), ma un appartamento della piccola
borghesia dei funzionari dello stat o, arredato con modesti mobili e vecchi
oggetti. E significativo che Rilke, quando ripensava nella maturità alle stazioni
piú importa nti del suo itinerario nel mondo, non menzionasse di solito Praga, pur
conservan do intatto il senso di affettuoso riguardo per qualche arredo della casa
praghes e: un tavolinG da lavoro, uno scrittoio, una poltrona, i giocattoli
bellissimi m a intoccabili che il padre gli regalava (impedendogli però di
adoperarli e di sciu parlih L intérieur si trovava isolato, contrapposto alla città
che traspariva come d a un vetro . Sebbene sia improbabile che il piccolo René
fosse già consapevole dello stacco che i suoi genitori ponevano tra il nucleo
familiare, la casa, e la città come grande e sterno in cui venivano frustrate le
loro ambizioni sociali, sembra credibile che egli piú o meno inconsapevolmente
rimanesse segnato da quell'atmosfera; ed è soprat tutto importante che, divenuto
adulto, egli abbia conservato l'impronta del sist ema di valori su cui si fondava
lo stile di vita della piccola borghesia ambizio sa e frustrata, caratteristico
della sua famiglia. Il vetro che separa l'intérieur dalla città, Praga, appare (sia
pure per il tramite di una non rara immagine poetica) in una delle prime poesie del
Rilke ventenne, compresa nella raccola Larenopfer [Sacrificio ai Lari]: Nella
vecchia casa. Davanti a me, in ampio giro, ho tutta Praga. Passa col suo passo
felpato laggiú, nel fondo, l'ora del crepuscolo. Come da vetro la città traspare.
Alta soltanto, ecco la cupola della torre di San Nicola si leva innanzi a me, ch
iara, verdastra. E accenna, lontano, qua e là una luce nell'afa rumorosa della
città. E mi par che dica una voce Amen nella vecchia casa. La città è remota, e non
priva di elementi negativi ( nell'afa rumorosa ); il centro spirituale è la vecchia
casa (il titolo stesso della raccolta era, appunto, Sacri ficio ai Lari):
l'intérieur già ora si rivela antico spazio del passato, chiuso e is olato nel
presente della città. Lo stesso intérieur della casa natale, d'altronde, doveva
allora riuscire al giova ne Rilke molto meno sereno e concorde di quanto risulti
dalla superficie delle p rime poesie. Esse erano, come Rilke avrebbe ammonito a
posteriori, tentativi falliti di sosti tuire definitivamente la realtà d'oggi o di
ieri con una tra- 5 sfigurazione piú alt a e pura (Lettera a Robert Heinz Heygrodt,
12.1.1922).
In quanto tali, Rilke le ripudiò radicalmente negli anni della maturità: Tutto fin
da principio [...] mirava a quella trasfigurazione (e appunto perché era incapace
di trasfigurazione, e quindi non poteva dar nulla, devo biasimare e ri fiutare come
erroneo ogni accenno a quell'apparente produzione della mia gioventú) (Lettera a R.
H. Heygrodt, cit.). Erano i primi tentativi, falliti, del processo di
trasfigurazione ~sostituzione) del reale che Rilke avrebbe in seguito portato ad
esiti estremi. Proprio nella attuazione di quel processo Rilke, negli anni a
venire, avrebbe mo strato quanto durassero profondi in lui i connotati piccolo-
borghesi. Da un lato, ostilità verso l'esterno, riferimento costante all'intérieur,
lontananza dagli uomini, assenza e anzi negazione di qualsiasi impegno sociale;
d'altro la to, identificazione dell'arte con l'atto di trasfigurare il reale, ed
esercizio di quell'attività trasfiguratrice in termini tali da soddisfare una
frustrata volo ntà di possesso, di prestigio, di autorità. Ai suoi esordi, il
processo di trasfigurazione fu tentato da Rilke per i dati de l reale che avevano
segnato la sua infanzia e la sua adolescenza: l'esiguità, la c hiusura e la
grettezza dell'ambiente familiare, i rigori e le assurdità subiti per cinque anni
nella scuola militare in cui il padre lo aveva posto, ancora bambin o, affinché
risollevasse il prestigio della famiglia. Questi dati del reale determinarono in
Rilke traumi di cui egli portò sempre la tr accia. Ma quanto piú il processo di
trasfigurazione si sviluppò, quanto piú i tentativi di tr asfigurazione divennero
validi, apparve evidente che il mondo esiguo, individual e, dell'infanzia e
dell'adolescenza di Rilke, costituiva un modello minuscolo e completo del
macrocosmo che si apriva dinanzi al poeta: da portavoce malgré soi de lle
frustrazioni e delle ambizioni della piccola borghesia della provincia absbu rgica,
Rilke, senza perdere l'impronta dei traumi infantili, divenne una delle v oci piú
genuine e significative della tarda cultura borghese europea. Impegnato con estremo
rigore nel processo di trasfigurazione del 6 reale, Rilke, negli anni della
maturità, non solo rifiutò come erroneo ogni riferimento alla sua prima produzione,
ma espresse la sua ripugnanza e la sua opposizione ~> verso qu alunque rievocazione
e interpretazione degli stessi dati biografici della sua pr ima giovinezza. Dalle
prime opere e dalle circostanze dell'infanzia e dell'adolescenza avrebbero ripreso
corpo e verità i dati del reale, alla cui trasfigurazione (sostituzione,
esorcizzazione) era dedicata la sua vita. Egli doveva essere consapevole di quali
stretti rapporti da microcosmo a macroco smo esistessero fra l'ambiente della sua
giovinezza a quello della maturità, e del la possibilità che un'indagine sul
microcosmo portasse alla luce le radici del mac rocosmo. Non si trattava,
d'altronde, di una mistificazione, poiché la trasfigurazione era, almeno agl; occhi
di Rilke, effettivamente avvenuta: ripristinare, mediante un' indagine, il reale
trasfigurato sarebbe stato, per il poeta e per tutti, pericol oso e orrido come una
caduta nel vuoto. Di qui, anche, l'insistenza di Rilke nel dichiararsi privo di
interesse verso og ni scritto critico sulle sue opere (comprese quelle in cui la
trasfigurazione era, a suo parere, riuscita ), e in particolare verso ogni
interpretazione di opere d'arte soccorsa da indag ini biografiche sull'autore. Il
processo di trasfigurazione --egli intendeva bene--sarebbe stato irreversibil e
solo se se ne fossero considerate isolatamente le singole tappe, in sé conchiuse ,
e non l'intera vicenda, non le linee ausiliarie di congiunzione , dalle quali
avrebbe riacquistato verità, orrida, l'intero io dell'autore: Credetemi, io sarei
pronto, anzi risponderebbe piú di tutto alla mia natura, a ese guire ogni nuovo
compito del mio cammino sotto nuovo nome ( ~ ) L'indiscreta pub blicità del nostro
tempo dispone di vari apparati per cogliere e misurare l'autore dietro il suo
schermo, e gli stessi artisti sono andati incontro, anzi hanno pr evenuto in tutti
i modi la curiosità piú aggressiva.
Non s'è riconosciuto, mi pare, il pericolo che, con questo continuo denudare chi c
rea, sovra~ta a tutti coloro che vanno formandosi,--o forse (per dirlo con maliz
iai si vuole questo pericolo, per finirla una buona volta con questo superfluo mét
ier. Con tali scoprimenti la condizione della stessa opera d'arte si fa sempre piú
prob lematica. Il pubblico da molto tempo ha dimenticato che essa non è un oggetto
che gli si off ra, ma un oggetto posto sinceramente in un'esistenza e durata
immaginarie, e che il suo spazio, proprio lo spazio della sua durata, non è
identico che in apparenz a allo spazio dei pubblici movimenti e scambi (Lettera a
Robert Heinz Heygrodt, 12.1.1922). ~ indubbio che questo atteggiamento fosse
parzialmente motivato dai traumi subit i da Rilke nell'infanzia e nell'adolescenza,
che avevano suscitato in lui l'orro re verso ogni esperienza grezza dell'io, non
trasfigurata . Ma nell'affermare la sostanziale estraneità all'io dei risultati
della trasfiguraz ione , egli appare condizionato dalla qualità borghese, piccolo-
borghese, di quei traumi: dalla necessità di superare, mascherandole, le esigenze
dell'io frustrato (possesso, prestigio, autorità) che trovavano soddisfazione
nell'attività artistica. In questo modo, d'altronde, portando alle estreme
conseguenze il suo condizionam ento borghese, Rilke consacrava a tal punto
l'attività artistica da riconoscerle u n'oggettività--di là dall'io dell'artista--
che esulava completamente dagli schemi de lla cultura borghese. Se, come scrisse
Lukács a proposito di Storm, Professione borghese come forma di v ita [...] è il
dominio dell'ordine sullo stato d'animo, del duraturo sull'effimero , del lavoro
sereno sopra la genialità la quale si nutre di sensazioni , l'arte di Rilke è
profondamente anti-borghese nella misura in cui quell' ordine è profondamen te
extra-umano, quel lavoro , anziché sereno è un essere tragicamente afferrati dall
'inconoscibile. L'effettivo rapporto fra uomo e opera--ammonisce Rilke--consiste in
una costante , solitaria, imperscrutabile maturazione del poeta, ed è conchiuso
nella realtà inef fabile dell'essere il poeta strumento cieco e puro di una forza
talmente ampia d a abbracciare il visibile e l'invisibile, dunque da riuscire
inconoscibile al po eta stesso. Questo aspetto fondamentale dell'estetica di Rilke
è stato colto specialmente nell o studio di Heidegger ( Wozu Dichter? , in
Holzwege, Frankfurt a. M. 1950) dedic ato al poeta e scritto alla luce della
persuasione che l'umiliante caduta dell'a rte nel mondo di oggi, nell'epoca
dell'Occidente (dell'occaso, del tramonto), co nsista innanzitutto nel venire
l'arte intesa come espressione della vita dell'uo mo . Sebbene non tutte 8 le
conclusioni di Heidegger concordino con quanto possiamo i mmaginare ~he Rilke
pensasse, è estremamente probabile che il poeta avrebbe approv ato questa condanna
della sconsacrazione subita dall'arte. Inoltre, configurando nel colloquio fra il
pensatore e il poeta il colloquio del l'essere con se stesso in cui consiste la
automanifestazione dell'essere, Heideg ger esclude l'uomo non pensatore né poeta
dalla manifestazione della poesia come l inguaggio dell'essere; ma in ultima
analisi egli tende all'esclusione dell'uomo in generale da quello stesso colloquio,
alla reificazione del pensatore e del po eta, impietrati, riconosciuti cose,
strumenti che, soli, l'essere usa nel suo co lloquio con se stesso. Sempre, Rilke
considerò come cosa se stesso, nel momento in cui si riferiva alla realtà piú sacra
del suo io, cioè al suo essere strumento di una forza che gli dettava la poesia. La
sua realtà piú sacra consisteva nell'essere una cosa; il suo mondo piú vero era que
llo delle cose, non degli uomini: ... il mio mondo comincia con le cose; e cosí
anche il piú piccolo degli uomini è già te rribilmente grande in esso, anzi quasi
eccessivo (Lettera a Ilse Jahr, Si può intendere, quindi, fino a qual punto Rilke
considerasse inutili e svianti i tentativi di accedere alla comprensione dei suoi
rapporti con la sua opera per
la via delle indagini biografiche o comunque storiche. Procedere per quella via
significava evidentemente concedere qualche credito al fatto che l'arte fosse
espressione della vita dell'uomo anziché delimitazione, con torno, dell'essere
strumenti di una forza inconoscibile, cose in un mondo di cos e. Ciò permette,
inoltre, di cominciare a comprendere perché Rilke abbia collegato alla sua infanzia
immagini di cose e di interni arredati da cose, ben piú che di ester ni popolati,
di città. L'infanzia ebbe per Rilke la particolare importanza di essere il momento
in cui egli si trovò oggettivamente piú vicino agli strati inferiori della piramide
di esis tenze ancestrali della quale il suo io era al vertice. Quegli strati (le
esistenze degli avi) erano fasi dell'incessante maturazione ch e proseguiva ín lui
e che in lui sarebbe divenuta margine, bordo, del suo essere c osa, strumento
dell'inconoscibile, poeta. Durante l'infanzia egli si era trovato nello stato
intermedio, sospeso fra la ma turazione che urgeva, inarrestabile, dalle esistenze
dei padri, e il non ancora compiuto suo essere cosa, poeta, del quale essere la
maturazione sarebbe stata m argine, orlo esterno, nella fase ultima, SCGpO--forse--
del suo lungo durare. Durante l'infanzia egli non era ancora una cosa, ma solo
predestinato e prossimo a divenirlo; e le cose, anziché gli uomini, dovevano essere
suoi modelli e maestr i: non per una scelta fatta da lui solo, bambino, ma per la
scelta che doveva es sere sua quale risultato della lunga maturazione nelle
esistenze dei padri. L'impulso che spinse Rilke a lasciare Praga appena possibile e
che determinò il ve ro e ptoprio nomadismo di tutta la sua vita, deve essere
riferito all'urgere del le fasi conclusive del suo dover essere cosa, strumento
dell'inconoscibile, poet a. La permanenza a Praga corrispose al primo apprendistato
presso le cose, uscire d a Praga fu andare incontro al dover essere cosa. I luoghi
privilegiati dell'itinerario furono, come i luoghi deputati delle Sacre
Rappresentazioni, quelli che per il loro arredo di cose della natura e di cose
fabbricate erano piú disposti ad accogliere il poeta quale cosa fra le cose. Il
lungo e variato itinerario di Rilke di paese in paese non è un viaggio tra gli
uomini ma un viaggio attraverso scenari vuoti, arredati da cose: attraverso un m
utevole paesaggio terrestre di città e di regioni che, per il Rilke divenuto cosa,
strumento dell'inconoscibile, fu un intérieur visibile dell'invisibile, cosí come p
er il Rilke bambino l'appartamento praghese era stato un intérieur di apprendistat
o presso le cose, circondato dalla estranea città degli uomini. Per il fatto
d'essere stato lo scrupoloso proseguimento della maturazione che ur geva dai padri,
Rilke, uscendo dal suo primo apprendistato a dover essere cosa, intraprese fra le
cose e non fra gli uomini l'itinerario della sua vita post-inf antile. Ebbe luogo,
cosí, una vicenda di solitudine. Ma una vicenda di solitudine che ricorda quella
del protagonista de La nube purp urea di M. P. Shiel, 10 il quale, unico
sopravvissuto alla nuvola micidiale che ha ucciso tutti gli u omini, percorre le
grandi città della terra improvvisamente deserte di vivi, intat te, e gode dei
piaceri e degli onori che gli offrono in esse le cose ormai abban donate a lui
solo. L'uomo rimasto solo sulla terra è prossimo a divenire una cosa intatta fra le
cose rimaste intatte, poiché non dispone piú delle barriere poste dai rapporti
sociali a lle reificazione del suo io. Ad essere privo di quelle barriere, Rilke
era stato destinato e preparato dalla vicenda di maturazione in atto nelle
esistenze dei padri era stato istmito dall' apprendistato infantile presso le cose.
Tanto, dunque, era lontana la sua solitudine da quella degli europei enfants du
siècle, partecipi del millenarismo degli anni sul volgere del secolo: anni per i q
uali il grande Ottocento era trascorso e il dopo si rappresentava come un ultimo
spazio, suscitatore di interrogativi angosciosi, zona di irregolarità e di solitu
dine dell'artista, il non invidiabile e quasi scandaloso depositario della consa
pevolezza circa le sorti finali dell'umanesimo ottocentesco. La lontananza fra la
solitudine di Rilke, situazione di una cosa che non si inte rroga ed è strumento
dell'inconoscibile, e la solitudine lamentata dai dolenti ere di dell'Ottocento,
diviene palese se confrontiamo uno dei testi emblematici di q uel lamento, la
Ballade des ausseren Lebens rBallata della vita esteriore] di Hu go von
Hofmannsthal: E strade corrono fra l'erbe, e luoghi stanno qua e là, pieni di faci,
d'alberi, di stagni e minacciosi, inariditi a morte. A che scopo ci sono? e uguali
fra loro mai? e sono innumerabili? Perché si alterna no riso, pianto e pallore? A
che ci serve tutto ciò e questi giochi, a noi, che pur siamo grandi e soli in et
erno, e pellegrini mai non cerchiamo quale meta? con una dichiarazione di Rilke: Io
sono (e questo sarebbe infine l'unico punto in me, dove potrebbe attecchire u na
lenta saggezza) del tutto senza curiosità di fronte alla vita, al mio 11 futuro ,
agli dèi... Che ne sappiamo noi delle stagioni dell'eternità e se sia veramente
tempo di racco lta! (Lettera a Nora Purtscher-Wydenbruck, 11.8.1924). Con le sue
primissime pubblicazioni, Rilke, come disse poi, aveva soprattutto sp erato di
trovare fra il pubblico chi mi potesse aiutare ad accostarmi a quei movimenti
spirituali da cui a Praga mi credevo abbastan~a escluso, anche se mi fossi trov ato
in circostanze migliori delle mie (Lettera a Hermann Pongs, 17.8.1924). Perciò
appena gli fu possibile, verso la metà del 1896, egli lasciò Praga e si trasferí a
Monaco. Rilke giungeva, ventenne, con un patrimonio di cultura molto modesto, nella
nuov a Firenze eretta da Massimiliano Il, et è naturale che subisse in qualche
misura l 'influenza degli entusiasmi estetici di coloro che erano persuasi di
rivive~vi u n secondo Rinascimento: si pensi alla novella ironicamente rivelatrice,
Gladius Dei, di Thomas Mann, rientrato in quegli stessi anni dall'Italia a Monaco
quasi come un secondo Lutero tornato da Roma, un Lutero attuale e lettore di
Nietzsche (K. Kerényi, Thomas ~ann zwischen Norden und Suden in Neue Zurcher
Zeitung , 4.7. 1965, p. 3). I rapporti, abbastanza limitati durante quel primo
soggiorno, di Rilke con gli i ntellettuali di Monaco, indicano anche orientamenti
diversi. Jakob Wassermann gli mise in mano come una specie di compito opere che
giudicava indispensabili per rimediare al suo pressapoco lirico : innanzitutto
Turgheniev , che, certo, guidava in direzione molto diversa dal neo-Rinascimento
monacense, e Jacobsen, Niels Lyhne e le Sei novelle. Anche Jacobsen pareva
destinato a volgere Rilke verso il Nord (la Danimarca embl ematica del futuro
Malte), piú che verso il Sud che precariamente riviveva nella M onaco kitschig
della 12 fine del secolo. E tuttavia proprio una delle Sei novelle, La peste di
Bergamo, accennava al Sud : ma non a un Sud che fosse sereno contraltare della
sfolgorante Monaco , bensí a un orrido quadro italiano del passato (la Bergamo
Vecchia minacciata dalla peste ), in cui si compiva una tragica crisi del
cristianesimo incapace di salvare dal le angosce terrene. Mentre in Gladius Dei
Thomas Mann evocava ironicamente un secondo Savonarola che , a Monaco, suscitava
uno scandalo per una Madonna a suo parere troppo sensuale, ne La peste di Bergamo
compariva un frate, paurosa parodia del Savonarola, il q uale trasfigurava
demonicamente il cristianesimo dinanzi alla popolazione di Ber gamo, che invano
aveva proclamato la Vergine podestà della città in perpetuo: Allora [al momento
della ~rocifissione]--predicava il frate--il figlio unigenito
di Dio si adirò nel profondo del suo cuore e vide che le moltitudini della terra
non erano degne della sua redenzione. Liberò i suoi piedi, facendoli passare di
sopra alla teste dei chiodi; strinse le mani intorno a quegli altri chiodi e li
strappò via [...] E la croce rimase vuota laggiú, e la grande opera della
redenzione non venne mai compiuta. Non c~è nessun mediatore fra noi e Dio: non c'è
nessun &esú che sia morto per noi sull a croce... (J. P. Jacobsen, La s~`gnora
Fonss e altre novelle, trad. it. Milano 1952, p. 100). Questo testo doveva riuscire
particolarmente importante per Rilke, il quale si t rovava allora sul ripido
cammino discendente dal culmine della sua commozione tu tta cattolica ( raggiunto
fra le agitazioni di quel duro periodo della scuola mi litare, che aveva preteso da
me, pur in mezzo a cinquecento ragazzi, un'esperien za della solitudine smisurata
per la mia età Lettera a Hermann Pongs, 17.8.1924). L'ammonimento espresso in
termini cosí duri da] <~ pagano Jacobsen, avrebbe trovat o singolare corrispondenza
e sviluppo nelle successive fasi dell'esperienza reli giosa rilkiana: verso la fine
della sua vita Rilke scriverà: Il forte ponte, internamente tremante, del
Mediatore, ha solo un senso quando si sia riconosciuto l'abisso tra noi e Dio; ma
appunto quell'abisso ~ pieno del bu io di Dio, e quando alcuno lo prova, discenda
egli e ululi in quel baratro (è piú ne cessario questo che valicarlo) (Lettera a
Ilse Jahr, 22.2.1923). Sul limite della crisi che sfocera in questa consapevolezza,
sta l'ambigua tonal ità religiosa delle opere concepite, e in parte scritte, da
Rilke durante il viagg io in Italia (Firenze, Viareggio, riviera ligure, ecc.)
intrapreso nel 1897/98: pensiamo in particolare al Florenzer Tagebuch [Diario
fiorentino], ed anche ai b rani lirici dei Madchenlieder [Canti delle fanciulle] e
dei Gebete der Madchen z ur Marie [Preghiere delle fanciulle a Maria] nei Fruhe

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