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Sophie è consapevole di non sapere tutto dei suoi genitori. Ma non può
davvero immaginare quello che sua madre ha voluto celarle. Se ne accorge
quando organizza una grande retrospettiva sul padre, uno dei più famosi
fotografi che la Gran Bretagna abbia mai avuto. Dagli scatoloni impolverati
pieni di vecchie foto emergono infatti storie, retroscena e segreti inaspettati.
Sono le verità che la madre Barbara ha provato a nascondere per proteggere i
propri figli. Ma il passato non si può cancellare, e toccherà a Sophie
ricostruire quello che le è stato taciuto, una storia che inizia dai
bombardamenti su Londra durante la Seconda Guerra Mondiale e arriva fino
ai giorni nostri. Una storia che rischia di cambiare la sua vita per sempre.
L’AUTORE
Nick Alexander è nato nel 1964 nel Regno Unito. Ha viaggiato molto,
vivendo e lavorando in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Francia, dove
attualmente risiede. Le sue opere hanno venduto oltre un milione di copie e
sono state tradotte in italiano, francese, spagnolo, tedesco e turco. Per
Amazon Crossing ha pubblicato La luce al crepuscolo.
INDICE
INIZIA A LEGGERE
1940 — SHOREDITCH, LONDRA
2011 — SHOREDITCH, LONDRA
1941 — SHOREDITCH, LONDRA
2011 — SHOREDITCH, LONDRA
1944 — SHOREDITCH, LONDRA
1945 — SHOREDITCH, LONDRA
2012 — PICCADILLY, LONDRA
1950 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
2012 — SOUTHWARK, LONDRA
1951 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
2012 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
1951 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
2012 — HOXTON, LONDRA
1951 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
2012 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
1954 — PECKHAM, LONDRA
2012 — GUILFORD, SURREY
1962 — PECKAM, LONDRA
1963 — HACKNEY, LONDRA
2012 — TRAFALGAR SQUARE, LONDRA
1968 — HACKNEY, LONDRA
2012 — BRIGHTON, EAST SUSSEX
1968 — HACKNEY, LONDRA
2012 — OLD HOLBORN, LONDRA
1969 — LLANELWEDD, GALLES
2012 — SHOREDITCH, LONDRA
1970 — EMBANKMENT, LONDRA
2012 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
1971 — HACKNEY, LONDRA
2012 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
1976 — COSTA DI NORFOLK
1977 — HACKNEY, LONDRA
2013 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
1979 — HACKNEY, LONDRA
2013 — BERMONDSEY, LONDRA
1982 — HACKNEY, LONDRA
2013 — BERMONDSEY, LONDRA
1983 — HACKNEY, LONDRA
2013 — BERMONDSEY, LONDRA
1983 — HACKNEY, LONDRA
2013 — BERMONDSEY, LONDRA
2013 — GUILFORD, SURREY
2013 — POWYS, GALLES
POST SCRIPTUM 1969 — LLANELWEDD, GALLES
POST SCRIPTUM 1968 — LAMBETH, LONDRA
RINGRAZIAMENTI
«Non pensare di sapere quali battaglie ho dovuto affrontare per arrivare dove
sono oggi. Non pensare di poter neanche lontanamente immaginare quali
sofferenze abbiamo dovuto patire, quali segreti abbiamo dovuto nascondere.
Tu pensi di sapere tutto, ma non sai niente. Non mi conosci; non conosci
nessuno. Perché questa è la vita. È pensare di sapere tutto, di conoscere tutti,
per poi scoprire, con l’avanzare degli anni, che non era così. Che non avevi
capito niente.»
1940 — SHOREDITCH, LONDRA
Barbara segue la madre fuori dal rifugio appena finito, poi si ferma sotto
la luce grigia dell’alba a osservare lo smog e le fiamme rosse che illuminano
l’orizzonte in ogni direzione, come tanti tramonti.
A parte i tramonti di fuoco e la puzza di fumo che pervade ogni cosa,
tutto sembra identico nelle immediate vicinanze, e quella mattina, come ogni
mattina, è incredibile che sia così. Il rumore dei raid notturni è incessante e
spaventoso, ed è difficile immaginare, mentre si sta sdraiati nell’oscurità, che
possa rimanere qualcosa all’esterno del rifugio.
«Forza» le dice Minnie. «Andiamo a toglierti questi vestiti bagnati.»
Barbara, toccandosi la manica della camicia da notte, si accorge di avere
ancora addosso l’umidità penetrante del rifugio, che ha impregnato il tessuto.
La madre la tira con uno strattone oltre il piccolo orticello. «E Glenda?» le
chiede Barbara, cercando di guardare la porta aperta alle sue spalle.
«Lasciala dormire» dice Minnie. «Vi aspetta una giornata molto dura.»
Sì, una giornata molto dura. Perché oggi è il giorno dell’evacuazione dei
bambini. La “guerra per finta” è terminata; nessuno ha più alcun dubbio che il
pericolo sia reale, e Minnie, sotto la pressione crescente di allontanare le
ragazze dall’inizio della guerra, ha finito col cedere. Il solo pensiero la
terrorizza. È spaventata a morte per loro, non ha idea di dove andranno, né di
cosa le aspetti nel Galles… Ma ha paura anche per se stessa. I raid aerei sono
così inquietanti che le fanno venire da vomitare, e la sua vita, adesso che
Seamus è partito (e chissà se è ancora vivo? Non è arrivata nessuna
lettera…), è triste. Almeno con le bambine vicino, deve farsi forza. Ma cosa
ne sarà di lei dopo che se ne saranno andate?
Mentre Barbara mangia pane e margarina, Minnie la osserva e si chiede
come andrà quella giornata, si chiede addirittura se ne sarà capace; capace di
mettere così tanta distanza fisica tra lei e il sangue del suo sangue.
«Glenda è una dormigliona» dice Barbara, parlando con la bocca piena.
«Lasciala riposare» ripete Minnie. Sì, lasciala riposare, pensa. Lasciala
riposare fino all’ultimo. Barbara è troppo piccola per capire cosa significhi
davvero essere evacuati, ma Glenda, e questo lei lo sa, si metterà a sbraitare.
Sono alla stazione dei treni e Barbara, a cui è stato confidato un segreto,
è sorpresa che sua sorella sia anche solo presente.
Ci sono bambini ovunque: gruppi, come bestiame, che si fanno strada
tra fiumi in movimento di altri bambini, scortati da un improbabile
assembramento di insegnanti, gente grassa, anziani e donne incinte, che è
stato messo insieme per viaggiare insieme a loro.
Glenda ha il broncio, tira dei calcetti alla sua piccola valigia marrone,
ma Minnie nota che non sta ancora facendo scenate.
Sa che invece Barbara è tesa, incerta se considerarla un’avventura o un
trauma, mentre guarda sua madre, sua sorella, tutti intorno a lei, in cerca di
indizi per capire come reagire. Solo Minnie comprende l’enormità di questa
separazione per tutte loro. Solo Minnie si sta preparando al dopo.
Alla loro destra, una ragazzina si mette a strillare e a scalciare mentre
viene sollevata e messa su un vagone. Barbara ruota la testa e osserva la
ragazzina che con voce tremante grida: «Non ci vado, non ci vado! No!».
Stringe e allenta le dita intorno alla trama ruvida del cestino che contiene i
suoi vestiti. La fibra grezza le punge la pelle.
Un uomo con un portablocco si dirige verso di loro. «Signora Doyle!»
dice, in modo plateale.
«Signor Wallace» risponde Minnie, imitando il tono fastidioso della sua
voce.
«Noto con piacere che abbiamo finalmente deciso di usare il buon
senso» dice l’altro con arroganza.
«Se per lei mandare i propri figli chissà dove per essere cresciuti da
chissà chi significa “usare il buon senso”, allora sì, signor Wallace, abbiamo
finalmente deciso di usare il buon senso» ribatte Minnie, rendendosi conto
solo in seguito che le ragazze l’hanno sentita. Ma in quei frangenti non riesce
proprio a trattenersi. Non è il genere di persona a cui piace che le venga detto
cosa deve fare, ed è proprio quello che sta facendo Grenville Wallace da
quando ha lasciato il piccolo e sudicio, nonché carissimo, emporio di
quartiere per diventare un ufficiale di evacuazione. Il suo atteggiamento è già
quasi sufficiente a farle girare i tacchi e tornarsene a casa.
Un treno alle loro spalle fischia, sbuffa e comincia, sferragliando, a
uscire dalla stazione, e Barbara osserva la sfilata di volti schiacciati contro i
finestrini unti. Alcuni sembrano felici ed eccitati, mentre altri sono rigati
dalle lacrime, hanno gli occhi arrossati. Non sa cosa pensare.
«Non ho tutto il giorno per discutere i pro e i contro della politica
governativa, signora Doyle» sta dicendo l’uomo, agitando la penna in aria in
modo teatrale. «Allora, è solo questa, giusto?» chiede, con un cenno della
testa verso Barbara.
«No, sono…» dice Minnie, voltandosi verso il punto in cui dovrebbe
esserci Glenda. «Dove…?» mormora, allungando il braccio per avvicinare la
valigia di Glenda prima di scrutare tra le orde di persone intorno a loro.
«Dov’è andata tua sorella?» chiede, con un’espressione molto corrucciata.
Barbara scrolla le spalle e si fissa i piedi.
«È andata a cercare un bagno?» chiede Minnie.
Barbara scuote la testa.
«Maria Vergine santissima» dice Minnie, mentre afferra il mento di
Barbara obbligandola a guardarla. «Ha detto qualcosa?»
Barbara annuisce in modo vago.
«Signora Doyle!» dice l’uomo.
«Può aspettare un attimo?» gli dice Minnie, poi, rivolgendosi a Barbara:
«Cos’ha detto? Dimmi cos’ha detto».
«È un segreto» sussurra Barbara.
«Quale accidenti di segreto?» chiede Minnie, e Barbara, che conosce fin
troppo bene quel tono di voce, sa che non le conviene girarci intorno.
«Ha detto che non ci va nel Galles. Per niente al mondo.»
«Signora Doyle!» dice l’uomo, e Minnie scruta l’orizzonte ancora una
volta prima di voltarsi verso di lui.
«A quanto pare fa fatica a controllare la prole. Forse i gallesi se la
caveranno meglio! Ma, nel frattempo, c’è questa piccola questione dei fogli
da compilare e di cosa dovrei scriverci. Quindi abbiamo solo Barbara qui, che
viaggia da sola, giusto?»
«Non lo so» dice Minnie. «Scusi, mi… mi dia un momento.»
Minnie comincia a farsi strada tra la folla, fermandosi a chiedere alla
gente: «Avete visto una ragazzina? Avete visto mia figlia? Ha i capelli
castani e un cappotto azzurro. È alta così. Lei l’ha vista? Lei ha visto mia
figlia?».
Le persone intorno a lei o la ignorano (sono troppo indaffarate) o la
guardano come se fosse pazza. Perfino Barbara si rende conto che aspettarsi
una risposta a quella particolare domanda, quel giorno, con tutte quelle
schiere di bambini, in effetti è un po’ folle.
L’uomo con il portablocco afferra la mano di Barbara. Inizialmente,
quel gesto le sembra rassicurante, quindi glielo lascia fare. Ma quando lui fa
per tirarla verso un vagone del treno, Barbara comincia a dimenarsi. «No!»
dice, poi: «Mamma!». Ma Minnie non sta guardando. È persa nella ricerca
spasmodica dell’altra sua figlia, rincorre le ragazze che da dietro somigliano
un po’ a Glenda e le afferra per le spalle per farle girare verso di lei.
«Mamma!» la chiama di nuovo, poi, imitando la bambina che ha visto
prima, dice: «Non ci vado. No!». Ma poiché, così facendo, non ottiene il
minimo risultato, si mette a urlare. Minnie avverte il suo grido lacerante a
livello inconscio, si blocca all’istante e quando si volta vede la figlia più
piccola, sollevata da terra, che viene passata da Grenville Wallace a un uomo
calvo, dall’aspetto viscido, con un completo elegante. Vede le sue gambe che
si agitano e comincia a correre verso di lei tra la folla, sbattendo contro un
bambino che cade per terra; mentre lui si mette a piangere lei farfuglia un
parola di scusa da dietro le spalle, ma continua comunque a correre.
Wallace cerca di bloccarle il passaggio, dicendo: «Signora Doyle! Per
l’amor del cielo! Tutto questo è assolutamente irreg…».
Ma Minnie lo spinge via, si allunga con uno scatto oltre l’uomo calvo e
afferra la mano di sua figlia proprio mentre sta per essere risucchiata
nell’oscurità del treno; con uno strattone la tira fuori, a fatica, e la riporta
sulla banchina. «Non andrà nel Galles da sola, maledizione!» dice Minnie,
esterrefatta. «Non ci andrà senza sua sorella! Cosa le salta in mente?»
«Se non parte oggi, non partirà più» dice il signor Wallace. «Stia pur
certa che me ne occuperò personalmente. Migliaia, milioni di bambini da
evacuare, e lei pensa di poterci far perdere tempo in questo modo?»
«Non mi ci mandare» dice Barbara singhiozzando. «Ti prego, non mi ci
mandare, mamma. Farò la brava. Ti prometto che farò la brava.»
«E comunque adesso è sulla lista» dice l’uomo, agitandole il
portablocco in faccia.
«Be’, la può anche togliere da quella maledetta lista» gli dice Minnie.
«Mettiti lì vicino alla valigia di Glenda» ordina a Barbara, staccando la mano
dalla sua e spingendola dall’altro lato della banchina, lontano dal treno. «E
smettila di piangere, per la miseria!»
Barbara si fa strada tra un fiume di bambini che camminano nella
direzione opposta e mette la mano sulla valigia mentre osserva la lite tra sua
madre e quell’uomo. Non riesce a sentire quello che Minnie gli sta dicendo,
ma c’è qualcosa di stupefacente nella sua postura, con le mani sui fianchi,
mentre gliene canta quattro. È fiera di lei.
«Bene» dice Minnie, dopo che l’uomo, con una scrollata di spalle e una
mano agitata in modo sprezzante sopra le spalle, ha rivolto la sua attenzione
ad altro e lei è tornata da sua figlia. Prende la valigia e si incammina verso
l’uscita.
«Allora non saremo evacuate?» le chiede Barbara.
Minnie si ferma e, in un modo che non le appartiene, si piega davanti a
lei. «Tu vuoi essere evacuata? Vuoi prendere quel maledetto treno e andare
nel Galles? Perché credimi, ragazzina, è questione di un attimo. Basta che tu
lo dica.»
«No!» dice Barbara, mettendosi a piangere.
«Allora smettila di fare la frignona! Ti riporto a casa.»
«E Glenda?» le chiede, cercando di guardarsi alle spalle mentre
attraversano la folla riecheggiante della stazione.
«Ha dodici anni. Sa come trovare la strada di casa» dice Minnie. «E
quando ci arriverà, avrà quello che si merita. Accidenti a lei!»
All’improvviso Minnie si ferma, perciò Barbara alza gli occhi verso la
madre. «Dov’è la tua roba?»
Lei si guarda la mano vuota e cerca di ricordarsi quando ha perso di
vista il suo cestino. «Quell’uomo» dice, indicando alle loro spalle. «L’ha
messo sul treno.»
«Gesù! Ci mancava solo questa» dice Minnie. «Ormai non lo
recupereremo più. Tutto tempo sprecato. E adesso io cosa dovrei metterti
addosso? Cose da non credere! Come se non fossero tempi già abbastanza
duri! Ti conviene comportarti bene, ragazzina. Ti conviene comportarti
davvero bene. Te lo giuro, piangi una sola volta, e ti ritroverai su quel treno
per il Galles, e non sarà solo per il periodo della guerra, sarà per sempre!»
Barbara chiude forte gli occhi per fermare le lacrime, che sono sul punto
di scendere, e così facendo non si accorge di un piccolo dislivello davanti a
sé. Inciampa e sua madre la tira per non farla cadere.
«Cammina bene!» le dice.
Barbara è seduta da sola, con le gambe incrociate, sul lettino che hanno
portato nel rifugio. Invece di leggere, come dovrebbe, sta osservando il
riflesso della candela su una pozzanghera che si è appena formata sul
pavimento. Aspetta di sentire le prime bombe arrivare. La sirena antiaerea ha
suonato da cinque minuti.
La porta si apre e compare Glenda. «È tremendo lì fuori» dice, mentre
comincia a sfilarsi il cappotto bagnato, poi esita un momento, e alla fine se lo
toglie. «È tremendo anche qui. Allora, dov’è la mamma?»
«A prendere la zuppa» dice Barbara. «Ha detto che non mi devo
muovere.»
«Mapledene Road è stata colpita» annuncia Glenda.
«Sul serio?»
«È caduta nel giardino sul retro di qualcuno. Sono esplose tutte le
finestre. E anche il rifugio è saltato in aria. Però loro non erano dentro.»
Barbara fissa la sorella attonita, poi guarda le pareti di lamiera ondulata
e cerca di immaginare loro che saltano in aria.
«Non preoccuparti» dice Glenda, mentre si siede sul bordo del letto e si
toglie le scarpe. «Non succede mai due volte nello stesso posto.»
«Eccole che arrivano» dice Barbara, piegando la testa verso il fischio
lontano di una bomba incendiaria.
Glenda annuisce, aspetta l’esplosione (è molto distante), poi incrocia le
gambe e le si siede davanti. «Oh, sorella mia» dice, con tono drammatico.
«Cosa farò adesso?»
Barbara chiude il libro, una copia sgualcita di Little Black Sambo, e alza
lo sguardo verso Glenda, le cui sopracciglia corrucciate, alla luce della
candela, risaltano in maniera esagerata. «Cos’è successo, sorella?» le chiede.
«Domani Johnny verrà evacuato. La terza casa dopo la loro è stata
colpita e sua madre dice che restare qui è troppo pericoloso.»
Barbara annuisce con aria seria. Johnny è il ragazzo di Glenda, e anche
se lei non lo ha mai visto, anche se, perfino in quel momento, dubita della sua
esistenza, ha sentito molto parlare di lui. «Andrà nel Galles?»
Glenda scuote la testa. «Non tutti vanno in Galles, scema.»
«Questo lo so» mente Barbara. «Era solo una domanda.»
«Oh, è la cosa peggiore del mondo quando ti lasciano» dice Glenda.
«Voglio morire.»
«Oh, sorella!» dice Barbara, spalancando le braccia e stringendola in
modo goffo.
«Lui era la sola cosa che mi dava la forza di resistere» dice Glenda, una
frase che ha sentito di nascosto, quella mattina, dalla sua insegnante, la
signora Richardson, mentre si disperava.
«Non piangere» le dice Barbara, che si sta godendo non poco il suo
ruolo di confidente in quel melodramma.
«Non posso farci niente» dice Glenda, indietreggiando quel tanto che
basta a Barbara per vedere che è riuscita a produrre una sola, vera lacrima. La
capacità di produrre lacrime a richiesta è un talento che Glenda possiede, e
forse questa è una delle ragioni per cui Minnie non ci fa quasi mai caso.
«Non devi piangere» le dice Barbara. «Se la mamma ti vede, ti manderà
nel Galles.»
«Forse dovrei piangere» risponde Glenda. «Almeno così rivedrei
Johnny.»
«Ma lui non è nel Galles» dice Barbara, confusa.
Si sente il fischio di un’altra bomba, seguito a poca distanza da
un’esplosione lontana e poi, senza preavviso, un boato sorprendente, che
scuote la terra e fa traballare il letto, sfarfallare la luce della candela, e perfino
increspare il pavimento. Poi cala un silenzio di tomba, e soltanto dopo una
trentina di secondi, quando iniziano a recuperare l’udito, le ragazze si
rendono conto che il silenzio non è dovuto al fatto che il mondo ha cessato di
esistere, ma che per qualche momento erano diventate sorde.
Rimangono immobili, con le gambe incrociate una davanti all’altra,
finché Glenda, che sembra davvero nel panico, tira giù le gambe dal letto e
comincia a infilarsi le scarpe.
«Dove stai andando?» chiede Barbara. «La mamma ha detto…»
«La mamma ha detto, la mamma ha detto» ripete Glenda.
«Ha detto di non muoverci. Ha detto che non dobbiamo farlo nella
maniera più assoluta.»
«È dalla mamma che sto andando» dice Glenda. «E se fosse stata
colpita?»
Barbara si morde il labbro inferiore. Non sa cosa fare. Non sa cosa dire.
Quando la porta si spalanca e compare Minnie, Barbara lascia andare il
respiro che stava trattenendo. «L’avete sentita?» dice Minnie, fiondandosi
dentro al rifugio. «Per poco non rovesciavo la zuppa. Giuro che
quell’esplosione mi ha scompigliato i capelli.»
Appoggia la pentola su un piccolo sgabello, poi si volta e chiude la
porta. «Siete state coraggiose?» chiede, e Barbara si volta giusto il tempo
necessario per asciugarsi una lacrima, una lacrima di vero sollievo, che le ha
rigato la guancia. «Sì» dice. «Stiamo benissimo, non è vero sorella?»
«Allora, Genna mi ha detto che Anthony Marsden era tuo padre» dice
Brett. «Ti sei offesa perché non lo sapevo, o ti stavi solo prendendo gioco di
me?»
«Mi stavo solo… divertendo un po’ a tue spese» dice Sophie, mentre si
chiede com’è successo che sia andata via dalla galleria con Brett. È perché
adesso lo trova attraente, o è solo per via di quel terzo bicchiere di vino? O
peggio ancora, c’entra con il fatto che è il critico d’arte del Times? E se fosse
un insieme di tutte quelle cose? Sarebbe una giustificazione plausibile?
«Ha smesso di piovere» dice Brett, chiudendo l’ombrello. «A questo
punto potremmo anche camminare. Sempre se stiamo andando da me. Io
abito a Hoxton, perciò da qui saranno una decina di minuti.»
Sophie lo guarda e pensa di fingersi scandalizzata, pensa di dire: E
perché sei giunto alla conclusione che io stia venendo a casa tua? Ma poi lui
le rivolge di nuovo quel sorriso/ghigno (un sorriso lascivo, ecco l’aggettivo
giusto) e senza rendersene conto gli dice: «Ma certo, camminiamo. Mi piace
camminare, e poi sono stata tutto il giorno al chiuso».
Fa freddo ed è umido, ma c’è qualcosa di molto piacevole in quelle
serate dal sapore quasi invernale, nei riflessi delle luci sui marciapiedi
bagnati, nel rumore delle auto che tagliano l’aria e dei tacchi che picchiettano
sull’asfalto, a cui Sophie non riesce a resistere. Londra sembra molto più se
stessa con l’avvicinarsi dell’inverno, quando le strade brillano per la pioggia.
«Mi è giunta voce che anche tu sei una fotografa» dice Brett.
«Immagino non sia facile essere all’altezza del cognome che porti.»
«No, non lo è» dice Sophie. «Ma io mi occupo principalmente di moda.
Quindi è, insomma, tutto un altro mondo.»
«Ah!» dice Brett, mentre chiude il primo bottone della giacca, solleva il
bavero per ripararsi dal freddo e si sistema la cravatta, che così spunta un po’
di più dal colletto della camicia.
«Ah?»
«Sai, moda. È solo che stride un po’ con il tuo discorso. Su Arakis. Mi
sarei aspettato che fotografassi bambini denutriti, o lesbiche, o roba del
genere.»
«Sì, be’…» concorda Sophie, scioccata dal fatto che Brett abbia
scoperto così in fretta il suo punto debole, l’unico punto che può davvero
farle venire voglia di piangere. «Dobbiamo fare tutti dei compromessi, non
credi?» prosegue. «E siamo tutti pieni di contraddizioni. Fa parte dell’essere
umani.»
«Immagino di sì» dice Brett, dubbioso. «E non ti porti dietro
l’attrezzatura?»
«Come, scusa?»
«Tutti i miei amici fotografi hanno sempre con loro la macchina
fotografica.»
«Oh, io ho questa» dice Sophie, tirando fuori la sua Leica compatta
dalla tasca interna, per poi rimetterla dentro. «Ma non mi porto dietro quella
grande, a meno che non stia andando a fare un servizio. Perché? Volevi che ti
fotografassi?»
«Forse» dice Brett, sollevando un sopracciglio mentre le rivolge un altro
sorriso lascivo e impertinente.
Barbara sta tornando da scuola. Sono tutti in gran fermento perché gira
voce che quel giorno la guerra finirà, e così li hanno mandati via prima. Ha lo
stomaco sottosopra, come fosse pieno di farfalle, anche se, a parte il fatto che
non cadranno bombe e che un uomo di cui si ricorda a malapena, chiamato
“papà”, dovrebbe tornare presto a casa, non sa davvero cosa aspettarsi. Ma
essere uscita prima da scuola rafforza la sua sensazione che quella sia una
giornata davvero speciale.
Sono le tre in punto quando svolta l’angolo per imboccare Willow
Street e da una casa sul marciapiede opposto si sollevano grida di festa, come
per darle il benvenuto. Alla sua sinistra si spalanca una finestra e compare il
busto di una donna. «È finita!» grida, sorridendo in modo un po’ folle. «La
guerra è finita!»
Una coppia che cammina verso di lei si blocca di colpo e si volta a
guardarla. «Cos’hai detto?» chiede l’uomo, con un tono forse incredulo, o
forse arrabbiato per lo scherzo di pessimo gusto.
«Davvero!» urla lei. «L’ha appena detto Winnie per radio. È finita!»
Barbara si ferma e la donna si rivolge anche a lei. «È tutto finito,
piccola!» le dice. «Puoi ricominciare a sorridere! Possiamo ricominciare a
sorridere tutti.»
E anche se Barbara non sa bene perché, sorridere è esattamente ciò che
fa. Si gira di nuovo verso la coppia. I due si stanno fissando negli occhi.
«Oh, Derek!» dice la donna. «È possibile che sia vero?»
Da un’altra casa si solleva una nuova ondata di grida gioiose, e sul viso
dell’uomo spunta un gran sorriso. «Sembrerebbe proprio di sì» dice.
Gli occhi della donna si illuminano mentre lui le circonda la vita con il
braccio e i due iniziano, senza dire una parola, a ballare un valzer in mezzo
alla strada.
«Devo dirlo alla mia mamma!» dice Barbara.
«Sì» risponde la donna alla finestra. «Sbrigati! Vallo a dire alla
mamma!»
Barbara si butta la cartella sulla spalla e si mette a correre. Mentre
avanza su Willow Street, la gente comincia ad affacciarsi sull’uscio delle
case, tutti con una gran voglia di condividere quel momento eccezionale.
«È finita» sente dire ancora e ancora mentre passa. «La guerra è finita!»
«Abbiamo battuto quei bastardi» dice un uomo che sta spingendo una
carriola, poi, notando Barbara, aggiunge: «Scusa la volgarità, tesoro».
«Non fa niente!» gli dice Barbara ridendo, senza fermarsi.
La porta del loro edificio è aperta e si sono radunati tutti negli spazi
comuni. Ci sono almeno una ventina di persone ammassate sulla prima rampa
di scale e le conversazioni concitate creano un frastuono assordante.
«Hai sentito?» le chiede il suo amico Benjamin, quando la vede.
«Sì» risponde Barbara. «Sì, ho sentito.»
Mentre cerca di passare in mezzo a un gruppo di donne, Mildred, che
cucina per tutti loro, le afferra il braccio e le dice: «La guerra è finita, tesoro.
Dovresti andare a chiamare la mamma».
«Sì!» risponde Barbara. «Sì, ci sto andando!»
Quando spalanca la porta, trova Minnie immobile alla macchina da
cucire, come se fosse sospesa nel tempo.
La radio è accesa e il conduttore del notiziario sta elencando, uno dopo
l’altro, i luoghi da cui le potenze dell’Asse si sono ritirate nelle ultime
ventiquattro ore. In quel momento sta parlando delle Channel Islands.
Barbara non sa dove si trovino, ma le sembrano di estrema importanza.
Minnie ha la mano sinistra sul bavero di una giacca verde militare, e
quella sinistra sulla manovella della macchina da cucire. Sta fissando,
apparentemente sotto shock, la radio. Ha il viso rigato dalle lacrime.
Barbara non l’ha mai vista piangere prima d’ora. «Mamma!» dice. «È
finita. La guerra è finita. Devi venire fuori.»
Senza muovere il resto del corpo, Minnie gira la testa verso la figlia più
piccola. Mentre la guarda con le sopracciglia aggrottate, continuano a
scenderle le lacrime, cadendo sulla giacca che stava cucendo.
«Mamma!» la esorta Barbara, sperando si svegliarla dallo stato di
trance.
Minnie aggrotta le sopracciglia ancora di più. «Non so cosa fare» dice.
«Vieni fuori, mamma!»
«Ma devo rammendarla questa giacca oppure no?» le chiede, con una
voce che sembra provenire dall’oltretomba. «È questo che non riesco a
capire.»
Barbara scuote la testa. «No, mamma, non serve. È finita» dice. «Non
avranno più bisogno di uniformi. È tutto finito.» Le toglie con delicatezza la
mano dalla macchina da cucire. «Vieni fuori» le dice di nuovo. «Sono tutti
fuori. Vieni a vedere!»
La torta, una volta glassata, è la più luccicante, la più rosa, la più liscia
che Barbara abbia mai visto. Non sapeva che sua madre fosse così brava a
cucinare.
Quando alle sei e mezza Glenda torna a casa, Barbara le riferisce
all’istante la novità. Ma invece di portare il dolce in tavola come lei aveva
sperato, Minnie attraversa la stanza e sistema la teglia in cima all’armadio.
«Se una di voi due la tocca, vi darò una di quelle lezioni, che ve la
ricorderete…» dice. «Questa è una torta speciale per un’occasione speciale.»
È solo quando Minnie va in bagno, quella sera, che Barbara riesce a
chiedere a Glenda, con la quale condivide ancora il letto, per chi è, secondo
lei, quella torta.
«Credo sia per papà» sussurra Glenda. «Mi sa che l’hanno congedato.
Mildred ha detto che stamattina è arrivato un telegramma, o roba simile.»
Barbara resta sveglia fino alle prime ore del mattino con una strana
sensazione addosso, un misto di eccitazione e paura, generata dal potenziale
ritorno di suo padre, ma quella notte Seamus non torna, e non c’è traccia di
lui nemmeno il giorno successivo, quando lei rientra a casa.
Nonostante il tanto celebrato cambio al governo, il razionamento
prosegue e addirittura peggiora, la stanza a Willow Street continua a essere la
loro casa, Minnie trascorre sempre le giornate a fissare fuori dalla finestra, e
la teglia resta in cima all’armadio, senza che nessuno la tocchi. Né Barbara né
Glenda osano più accennare alla torta, né tantomeno a loro padre.
2012 — PICCADILLY, LONDRA
«Gesù!» esclama Sophie. Hanno appena messo piede nella prima sala
della mostra di David Hockney e lei è già sopraffatta dalle dimensioni dei
quadri.
«Non sono proprio piccoli, eh?» dice Brett.
«Il titolo della mostra è A Bigger Picture. Un quadro più grande» dice
Sophie «quindi immagino che fossimo stati avvertiti.»
Davanti a loro c’è un enorme dipinto di una foresta autunnale: quindici
metri per tre di tronchi viola, arancioni e rossi che si sollevano da un suolo
frondoso e vibrante, quasi fluorescente.
«Non ti era mai capitato di vedere uno dei grandi Hockney?» le chiede
Brett, lanciando una breve occhiata al programma prima di riposare lo
sguardo sul quadro.
«Non dal vivo» dice Sophie, piegandosi a esaminare la qualità della
pittura prima di indietreggiare per poter osservare l’intera scena senza dover
ruotare la testa. «Insomma, lo abbiamo studiato al college, ma questo è
così… è gigante.»
«Io ho visto i suoi lavori sul Grand Canyon allo Smithsonian» dice
Brett. «Anche quelli erano un po’ in CinemaScope. Mi pare ce ne sia uno
anche qui, da qualche parte.»
Sophie si guarda in giro e nota di nuovo che la galleria è vuota. Poter
visitare una mostra da soli è qualcosa di molto speciale e il pensiero che Brett
sia riuscito a farla passare con il suo tesserino da giornalista le suscita un
moto d’affetto nei suoi confronti.
«Allora, fotografa tutti quelli grandi» le dice. «Magari uno con me
davanti per mostrare le dimensioni. Sì, l’idea mi piace. E poi alla fine
vedremo cosa usare.»
Sophie annuisce e si porta la Nikon davanti all’occhio, poi si perde per
qualche secondo negli aspetti tecnici del mestiere. Ma quando abbassa la
macchina fotografica e rivede la scena autunnale senza la cornice del mirino,
avverte un’insolita sensazione salirle dal petto. Non riuscendo a capire
immediatamente cosa l’abbia provocata, accarezza la fotocamera e ci pensa
su per un attimo: sì, si sta davvero commuovendo, ed è una reazione emotiva
al quadro. «Oddio, è bellissimo» dice con voce roca, scuotendo la testa, e
Brett, che è già passato a quello successivo, si gira verso di lei e le sorride in
modo ironico.
«Ti stai davvero mettendo a piangere?» le chiede.
«Sì, un po’. È strano» dice Sophie. «Credo che non mi sia mai capitato
prima. Non per un quadro.»
Brett annuisce. «È un tipo davvero intelligente» dice, poi aggiunge:
«Fanne qualcuna anche a questi, d’accordo? Tutti quanti. Io vado nella sala
accanto».
Dopo essersi avvicinata alla parete con le scene boschive più piccole
(ma comunque grandi), Sophie lancia un’altra occhiata al panorama
autunnale alle sue spalle. «È straordinario» mormora. Chissà come si
potrebbe riuscire a ottenere qualcosa di altrettanto stupefacente in fotografia,
si chiede. Le grandi foto di Andreas Gursky sono le uniche ad avvicinarsi, e
anche quelle sono enormi. Quindi forse dipende tutto dalle dimensioni. Forse
facendo un ingrandimento di trenta metri quadri di una semplice foto di un
viso, di colpo si trasformerebbe in arte.
«Sbrigati!» La testa di Brett rispunta da dietro lo stipite. «Abbiamo solo
mezz’ora, ricordi?»
Durante la visita, quel senso di commozione, di destabilizzazione
emotiva, la assale più e più volte, e Sophie riesce ad analizzarlo meglio. È la
stessa cosa che ha provato in un paio di occasioni in cui, non riuscendo a
dormire, si è alzata abbastanza presto da riuscire a vedere una splendida alba.
Si era sentita come sopraffatta, per un attimo, dalla bellezza del creato. È
davvero possibile che i quadri di Hockney abbiano il potere di suscitare in lei
quella reazione, o c’è sotto dell’altro? Non c’entra forse con il fatto che si
trova lì con Brett? Si sta finalmente innamorando?
«Wow» mormora quando, in un’altra sala, davanti una versione da
quindici metri del Grand Canyon, inizia a barcollare, come se le fosse venuto
un vero e proprio attacco di vertigini.
Solo mezz’ora più tardi, mentre stanno andando via, (Brett deve
scrivere un articolo entro mezzanotte), s’imbattono in una giornalista
altezzosa, con un look demodé, e nel suo fotografo barbuto poco più che
ventenne. Brett manda un bacio volante a entrambi.
«Brett, tesoro, merita?» chiede la donna, e Brett si limita a sollevare le
spalle e a dirle: «Buon divertimento!».
Una volta fuori, nella fredda sera di gennaio, Sophie gli chiede: «Chi
erano quei due?».
«Telegraph» dice Brett, abbottonandosi il cappotto.
«Il nemico, insomma?»
«Una specie.»
«Perché hai scrollato le spalle quando ti hanno chiesto cosa ne pensavi?
A te è piaciuta, giusto?»
Brett scrolla di nuovo le spalle. «Non sono ancora in grado di esprimere
un mio punto di vista. E anche se lo fossi, non lo farei con quei due stronzi.»
«Io l’ho trovata bellissima» dice lei. «Una delle mostre più belle che
abbia mai visto.»
«Certo. Ma bellissima» le dice Brett, con un tono sdolcinato, di scherno
«non è un punto di vista.»
«Per me era troppo grande» dice Sophie, scuotendo la testa. «Per poter
osservare tutto a fondo. Se non altro, non in mezz’ora.»
«Ecco» dice Brett «questo è un punto di vista.»
«Scusa?»
«Un quadro troppo grande» dice, agitando un sopracciglio. «Hai
colto?»
Sophie alza gli occhi al cielo. «Sì. Ho colto. E sto congelando.»
«Mangiamo qualcosa?» chiede Brett, controllando l’orologio.
«Volentieri, ho fame.»
«Andiamo da Dolada?» le chiede, facendo un cenno al ristorante
dall’altra parte della strada. «Non ho molto tempo.»
«Va bene» dice Sophie, cominciando a camminare. «Avrei potuto
restarci tutto il giorno lì dentro. Scriverai una recensione positiva, vero?»
«Forse. È probabile. Si tratta solo di capire cosa vuole leggere la gente.»
«È così che funziona?»
«Certo. Hockney è anche incredibilmente fortunato» dice Brett. «È la
prima volta che la Royal Academy offre l’intera struttura a un solo artista.»
«E per giunta quando è ancora in vita.»
«Scusa?»
«Be’, di solito le retrospettive sono riservate agli artisti defunti, no? È
piuttosto raro che succeda quando sono ancora in vita.»
«Tecnicamente non è una retrospettiva» dice Brett, mentre attraversano
il marciapiede verso il bagliore accogliente del ristorante. «Molta di quella
roba è nuova di zecca. Però sì, suppongo tu abbia ragione. Non ne hanno mai
organizzata una per tuo padre?»
«Una retrospettiva?»
«Eh.»
«No» dice Sophie, con aria pensierosa. «Forse dovremmo farlo noi.»
«Sì, forse dovreste» ripete Brett, con convinzione.
Quando entrano nel ristorante, gli occhiali di Brett si appannano così
tanto che per un attimo lui non riesce a vedere nulla, perciò Sophie lo guida,
sorridendo divertita, al tavolo che il maître sta indicando.
«In effetti è strano che nessuno abbia mai messo insieme una
retrospettiva di Marsden» dice Brett, dopo che si è pulito gli occhiali e che
hanno portato i menù.
Sophie scrolla le spalle. «Nessuno lo ha mai nemmeno proposto. Ed è
improbabile che mia madre o Jon organizzino una cosa del genere.»
«Perché?»
«Be’, mia madre è ormai è piuttosto avanti con l’età. E se devo essere
sincera è sempre stata un po’ grezza.»
«Grezza?»
«Forse non è la parola giusta. Intendo dire che non ha un senso artistico
molto sviluppato.»
«Oh, okay. E tuo fratello?»
«È un geometra. Quindi neanche lui si interessa di arte.»
«È strano. Considerato l’ambiente in cui siete cresciuti.»
Sophie annuisce pensierosa. «Papà non parlava molto del suo lavoro. Ed
entrambi hanno tenuto Jonathan a debita distanza da quel mondo. La mamma
voleva che si trovasse un impiego sicuro. E così lui ha fatto. Molto
giudizioso, mio fratello.»
«E tu no?»
Sophie scrolla le spalle. «Io ero piuttosto determinata» dice. «E
comunque, non direi che lavoro proprio nel mondo dell’arte.»
«Non ancora.»
«Non ancora» concorda.
«Fiorentina» dice Brett.
«Scusa?»
«Pizza Fiorentina» le spiega, richiudendo il menù. «Spinaci e uova. Non
si batte. Poi a casa a scrivere Un quadro troppo grande.»
Barbara viene svegliata dalle grida dei gabbiani e per un attimo non
riesce a capire dove si trova. Si sfrega gli occhi e guarda il soffitto azzurrino
ed estraneo sopra di lei, poi gira la testa e vede Glenda che sta dormendo nel
letto accanto al suo.
E tutt’a un tratto si ricorda: è in vacanza. Sorride tra sé e sé e si
stiracchia come un gatto appagato. È la prima volta nei suoi sedici anni di
vita che è in vacanza, e anche se sono arrivate solo la sera prima in treno, sta
già iniziando ad amare la sensazione di un letto diverso con suoni diversi.
Pensa che potrebbe alzarsi e andare a guardare fuori, ma invece si
riaddormenta. A casa non capita di frequente che le sia permesso di rimanere
a letto a poltrire.
Quando si sveglia di nuovo, il sole filtra attraverso la finestra a golfo
macchiata dal sale, e vede la sagoma di Glenda, stretta nella vestaglia, con il
cielo azzurro sullo sfondo.
«Buongiorno» le dice, mentre sbadiglia.
Glenda si volta verso di lei. Sembra diversa senza trucco, ha il viso
gonfio, ma un po’ meno severo, un pochino più dolce.
«È una giornata splendida» dice Glenda. «Pensavo che sarebbe bello
fare una nuotata. Prima di colazione. Che ne dici?»
«Oh! Sì!» esclama Barbara, tirandosi su di colpo. «Facciamolo!»
Non c’è una sola nuvola in cielo quando escono dal Sea View (al
completo) e attraversano la strada principale per scendere i pochi gradini che
portano alla spiaggia di sassi. «Sarà fredda, secondo te?» chiede Barbara.
«Gelata» dice Glenda. «Ma non me ne importa un accidente.»
«Neanche a me.»
Barbara ruota la testa per osservare il panorama: il sole che sorge a
sinistra, l’enorme spiaggia di sassi deserta davanti a loro, il molo a destra… È
tutto così nitido, così pulito, così rigenerante dopo Londra. Sta scoprendo che
basta cambiare un po’ aria per sentirsi una persona completamente diversa.
Si tolgono i vestiti e rimangono con il costume intero che si sono
infilate prima di uscire, poi si prendono per mano, e gridando e correndo
senza mai fermarsi, nonostante il male ai piedi per i sassi, si tuffano
nell’acqua verde e torbida. In effetti è gelida. Il bagno mattutino dura poco
ma è inebriante.
Dopo una tipica colazione all’inglese, accompagnata da un tè amaro,
lasciato in infusione troppo a lungo, e da un succo d’arancia annacquato, le
due sorelle escono di nuovo e camminano sul lungomare in direzione del
molo.
«Adoro i posti di mare» dichiara Barbara. «Credo che mi piacerebbe
vivere qui un giorno.»
«Capisco cosa intendi» dice Glenda. «Ma penso che alla lunga ti
annoieresti. Ci sono molte più cose da fare a Londra che a Eastbourne.»
«Immagino di sì» dice Barbara, anche se non le viene in mente una sola
cosa che preferirebbe “fare” a Londra invece di essere lì quel giorno.
Arrivate a metà del molo, appena superata la bancarella dello zucchero
filato con la musica di un organo, vengono avvicinate da un giovane biondo
che scatta foto ai turisti. «Dai, ragazze» dice. «Dovete assolutamente farvi
fare una foto da portare alla mamma.»
E siccome ha più o meno la sua età e per di più è carino (adora i ragazzi
con la barba, e sono abbastanza rari nell’Inghilterra degli anni Cinquanta),
Barbara gli chiede: «Quanto costa?».
«Per voi, belle signorine, uno scellino» dice lui. «E per quel prezzo ve
ne farò tre, e vi lascerò scegliere quella che preferite. Vi prometto che
sembrerete delle star del cinema.»
«Uno scellino!» dice Glenda, mettendosi a ridere. «Possiamo comprarci
il pranzo con uno scellino.»
«E dai» la prega Barbara, fissando gli occhi azzurri del fotografo.
Sembrano nascondere un sorriso. «La regaleremo alla mamma quando
torniamo.»
«Non possiamo permettercelo» dice Glenda. «Sai che quello che
abbiamo ci basta a malapena per…»
«Per favore?» insiste Barbara.
«Sei penny, allora» dice Glenda, rivolgendosi all’uomo. «Non uno di
più.»
Sul viso dell’uomo spunta un sorriso dolce.
«E ce le fai tenere tutte e tre» aggiunge Glenda. «Tanto a te non
servono.»
«Okay, okay» dice. «Non mi conviene, ma visto che siete entrambe
splendide, voglio accontentarvi.»
Dopo aver scattato le foto, due mentre sono appoggiate alla ringhiera
con il vento che soffia tra i capelli di Glenda, e una mentre posano con un
toro finto a grandezza naturale (messo lì appositamente a quello scopo), il
ragazzo dà alle sorelle il suo biglietto da visita, poi, quando loro riprendono a
camminare lungo il molo, ci ripensa e le raggiunge.
«Te lo ha mai detto nessuno che somigli a Claudette Colbert?» chiede a
Barbara.
«No, per la verità, nessuno» risponde, accorgendosi che sta arrossendo.
«Non dargli retta, sono chiacchiere da adulatore» le dice Glenda. «È
solo in cerca di un po’ di divertimento. Come tutti gli altri.»
«Non dico che mi dispiacerebbe» dice lui, scioccando Barbara che
arrossisce di nuovo. «Ma tu somigli davvero a Claudette Colbert. È
sbalorditivo.»
Barbara lancia un’occhiata a sua sorella e sorride timidamente. «Sul
serio?» gli chiede, e Glenda fa una smorfia.
«Posso farti una foto lì?» le chiede, indicando una panchina sotto un
piccolo gazebo di legno. «La luce è fantastica in quel punto.»
«Non pagheremo per altre foto» gli dice Glenda. «Quindi adesso puoi
anche sparire.»
«Queste sono solo per me» dice l’uomo. ««Per avere un ricordo di
Claudette.»
«Non hai paura di finire il rullino?» chiede Barbara. Sa che i rullini
sono cari.
«Il padre di una mia amica ha un negozio» le dice. «Me li regala. E non
mi fa pagare nemmeno per svilupparli. Dai. Vatti a sedere lì. Solo un paio di
scatti.»
Barbara giocherella con i capelli, poi va alla panchina dall’altra parte
del molo. Quando Glenda fa per raggiungerla, il fotografo le dice: «Un
momento. Lasciamene fare una di Claudette da sola».
«In realtà mi chiamo Barbara» gli dice lei.
«Piacere di conoscerti, Barbara» le risponde, chinandosi sul mirino della
sua Rolleiflex, che ha l’aria di essere una macchina molto professionale. «Io
sono Tony.»
«E io Glenda» gli dice Glenda, con una mano sul fianco. «Non che la
cosa ti interessi.»
«Meraviglioso» dice Tony, e per un attimo Glenda pensa che si riferisca
al suo nome.
«Girati un po’ a destra così il sole… ecco. Fantastico! … Quindi voi
siete sorelle?»
«Sì» risponde Barbara.
«Lo sapevo. Avete entrambe la stoffa da vere star. E adesso girati
dall’altra parte» dice Tony, e mentre Barbara lo fa, vede che Glenda li ha
lasciati soli, e si è già rincamminata lungo il molo.
«Glenda!» grida. «Aspetta!»
Lei la saluta con la mano sopra la spalla senza voltarsi. «Divertiti,
sorellina» dice. «Ma non fare niente che io non farei. Ti aspetto in albergo per
pranzo.»
«Caspita» dice piano Tony, con tono soave e sfacciato. «Buon per me!»
«Glenda!» grida Barbara, ma in realtà è piuttosto contenta che sua
sorella la ignori.
Girano intorno alla punta del molo e Tony compra una porzione di
patatine fritte da una bancarella; sono tagliate spesse, cosparse di sale e di un
aceto pungente, asprognolo. Le mangiano insieme mentre tornano verso la
terraferma. «Le patatine sono sempre più buone avvolte nella carta di
giornale» dice Barbara, leccandosi le dita.
«Hai ragione. Sono più buone.»
«Allora, questo è il tuo vero lavoro?» chiede Barbara, indicando la
macchina fotografica di Tony.
«No. In realtà è solo un hobby» dice Tony. «Ma ci tiro comunque fuori
qualcosa. Soprattutto quando ci sono i weekend lunghi. Se riesco a non
incrociare il fotografo ufficiale, non ho problemi. A volte lui mi caccia via
dalla sua zona. Ma di lavoro faccio il corriere. Consegno i pacchi con la
moto. Cose che sono troppo urgenti per la posta normale.»
«Caspita, hai una motocicletta?»
Tony scuote la testa. «Non è mia, me la danno per fare le consegne. È
un ferro vecchio. Una Royal Enfield sopravvissuta alla guerra. Scoppietta
come una mitragliatrice, e farla partire è un’impresa.»
«Però dev’essere divertente.»
«Non è male, quando c’è il sole» dice Tony. «Ma in inverno è terribile.
A volte devo arrivare fino a Londra. Magari la prossima volta passerò a
trovarti.»
Barbara si guarda i piedi. «Chissà» dice.
«Ti va un tè?» le chiede Tony. Stanno passando accanto a un caffè
frequentato da muratori e manovali.
«Meglio di no» risponde Barbara. «Glenda è un po’ in ansia per i soldi.
Dice che ce li abbiamo contati.»
«Offro io» le dice Tony. «Vieni. Ho sete.»
Mezz’ora più tardi sono sotto casa, e mentre Tony si mette il casco,
Barbara, avendo visto che Minnie li sta osservando dalla finestra, a bassa
voce gli chiede: «Si può sapere cosa caspita le hai detto per farla ridere in
quel modo?».
Tony scrolla le spalle. «Le ho raccontato qualche barzelletta» dice. «Di
mio padre, più che altro. Tua mamma è molto gentile, sai?»
«Barzellette! Quali barzellette?»
«Non lo so…Quella dei due gatti che litigano. Cose così.»
«E che poi fanno pace e uno dice all’altro: mici come prima?» chiede
Barbara, perplessa.
«Sì.»
«Ma era in lacrime.»
Tony scrolla di nuovo le spalle. «Forse era da un po’ che nessuno si
prendeva la briga di raccontarle una barzelletta» dice.
«No» ammette Barbara. «No, forse no.»
«Allora, quando posso rivederti?»
«Non lo so. Immagino che la mamma adesso mi parlerà. Dopo che sarai
andato via.»
«In questo caso sarà meglio che vada.»
«Ti scrivo. Non appena so qualcosa, ti scrivo.»
«E io tornerò appena mi sarà possibile.»
E poi Tony con un colpo al pedale fa partire la moto, mette la marcia e
parte.
Quando Barbara rientra, Minnie si è già messa a cucire.
«Posso avere un altro scone?» le chiede.
«Basta che ne lasci qualcuno per Glenda.»
«Allora, ti è piaciuto?»
«Sì» dice Minnie. «È un ragazzo piuttosto simpatico.»
«Quindi posso continuare a vederlo?»
Minnie si blocca e la guarda. «Scriverò ai suoi genitori» dice. «Voglio
che mi assicurino che dormirete in stanze separate quando vai da loro.»
«Noi dormiamo sempre in stanze separate.»
«Bene» dice Minnie. «Perché come ho detto a Tony, se ti mette nei
guai, ti deve sposare.»
Barbara rimane di stucco e abbasso lo sguardo verso il piatto di scones.
«Mi hai sentito?» le chiede.
«Sì, mamma» risponde Barbara. «Sì. Ti ho sentito.»
2012 — SOUTHWARK, LONDRA
Tony quella sera non rientra, e così, per evitare l’imbarazzo di mangiare
da sola con Joan, Barbara fa una passeggiata fino al lungomare e cena con
una porzione di patatine fritte. L’opuscolo diceva che deve cibarsi di cose
sane e ricche di vitamine se vuole che il suo bambino goda di buona salute,
ma è ancora presto perché abbia importanza, no?
Quando torna alla pensione, Joan le chiede se ha visto Tony. «Non è che
avete litigato, per caso?» le dice.
«Adesso che ci penso mi aveva detto che doveva aiutare Diane a
sviluppare delle foto, o una cosa simile» s’inventa Barbara. «Mi sa che me
l’ero dimenticato. Sì. Sono sicura che mi ha detto qualcosa del genere.»
Joan sembra poco convinta, ma annuisce comunque. «Lo vuoi un po’ di
tè? Posso prepararti qualcosa al volo; non voglio che vai a dormire a stomaco
vuoto.»
«Mi sono presa un fish and chips, grazie» dice Barbara. «Ma credo che
andrò a letto. Penso che una bella dormita mi farà bene.»
Sophie non solleva più il discorso della retrospettiva finché non tornano
a casa. Mentre sua madre prepara il caffè, lei si appoggia al piano della
cucina e fa un respiro profondo, poi, sforzandosi di farla sembrare una
domanda del tutto casuale, le chiede: «Allora, le foto di papà sono ancora in
solaio?».
«È probabile» risponde lei. «Se non si sono trasformate in polvere.» Si
rende conto solo dopo averlo detto che ha appena fornito a sua figlia il
pretesto perfetto per andare a controllare. «Ma sono sicura che non gli è
successo niente» aggiunge.
«Sarà meglio che vada a dare un’occhiata» dice Sophie, cogliendo al
balzo quell’opportunità.
Sua madre fa un’espressione sofferta. «È tremendo lì sopra, Sophie»
dice. «C’è un sacco di robaccia e polvere e cacca di uccelli e…»
«Scommetto che ci sono anche foto di te da ragazza, vero?»
«Non mi va che ti metti a frugare in solaio.»
«E dai, mamma» la prega Sophie. «Mi piacerebbe tanto passare il
pomeriggio a guardare vecchie foto con te. Solo qualcuna.»
«Oh, Sophie! Per salire bisogna andare fuori a prendere la scala» dice
sua madre lamentandosi. Ma sta di nuovo storcendo la bocca, perciò Sophie
sa di avere vinto.
Joan non è una donna ricca, e non ha nemmeno una natura frivola o
spendacciona. La dimostrazione più lampante sta nel suo guardaroba, che è
composto da una serie di vestiti pratici e resistenti, numerose vestaglie facili
da lavare e stirare, e qualche abito degli anni Quaranta, un tempo di certo
carini, ma ormai del tutto fuori di moda.
A Barbara si stringe il cuore nell’istante in cui lei apre l’armadio. «Sono
molto belli» mente, toccando con la punta delle dita un abito rosa a fiori. «Ma
credo che alla fine terrò questo.»
«Non essere sciocca, tesoro» le dice Joan. «Ormai se una di famiglia.
Non devi fare la timida. Scegli pure quello che vuoi. Che ne dici di questo?»
Afferra l’orlo di un vestito di crêpe di rayon con i polsini col risvolto
doppiato, e lo tira verso di sé per mostrarlo a Barbara in tutto il suo
splendore.
«No… davvero…»
«O questo?» dice Joan, puntando il dito su un modello ampio con il
corpino a carré e la gonna plissettata. «È molto carino, vedi. È fatto con la
seta dei paracaduti.» Si allunga per prenderlo.
«No… ehm… che ne dice di quello?» farfuglia Barbara, indicando in
preda alla disperazione l’unico capo senza fiori, senza pizzo, e senza
plissettatura che riesce a vedere.
«Questo?» dice Joan, facendo scorrere gli ometti lungo il bastone finché
non arriva all’abito bianco profilato di blu in fondo all’armadio.
E solo in quel momento, solo quando lei lo tira fuori, Barbara si rende
conto di cosa ha scelto; si rende conto dell’orrore assoluto di quel vestito, che
sembra più un costume di carnevale che una scelta audace.
«Non lo metto da quando ero ragazza» dice Joan. «Ma hai ragione, è
giovanile. Probabilmente si avvicina anche di più alla tua taglia rispetto agli
altri.» Le appoggia addosso il vestito alla marinara e l’aria si riempie
dell’odore di naftalina.
«Oh, magari no» dice Barbara piano, voltandosi di nuovo verso
l’armadio con aria sconsolata.
«Provalo» insiste Joan. «Forza. Scommetto che starai benissimo.»
Spinge il vestito tra le braccia di Barbara. «Da qualche parte dovrebbe esserci
anche il cappellino abbinato.»
«Non lo voglio» dice Barbara.
«Sono sicura che sia qui.»
«Non lo voglio!» ripete Barbara, a voce più alta, scioccando perfino se
stessa per il tono brusco che ha usato. «Chiederò a Glenda di darmi
qualcosa.»
Joan si blocca di colpo e la fissa accigliata. «Se non ti piacciono i miei
vestiti allora…» Sembra ferita. Sembra offesa. Anzi, sembra arrabbiata.
Barbara capitola. «In realtà questo va bene» dice. «È, ehm, molto
carino. Intendevo solo che non voglio il cappello. Tutto qui. Non metto mai i
cappelli.»
Joan si mordicchia la guancia e la guarda dubbiosa.
«Mi scusi, sono solo un po’ dispiaciuta per questa macchia di caffè» si
giustifica.
«Ma certo, si capisce» dice Joan, mentre i tratti del suo viso si
distendono. «Il tuo bellissimo vestito. Povera cara. Allora toglilo subito e
penserò io a metterlo a bagno.»
Sophie fissa la testa calva di Brett che si muove su e giù tra le sue
ginocchia. Vede formarsi una goccia di sudore e la osserva mentre scivola sul
suo sopracciglio. È da più di un anno che escono insieme, e il sesso tra loro
ormai segue una routine ben definita. Non è che si sia stufata di andare a letto
con lui, né che Brett non ci sappia fare tra le lenzuola. Il suo amico Ralph una
volta le ha confidato che si era accorto di essere gay quando aveva scoperto
che baciare una donna nelle parti intime gli provocava conati di vomito.
Sophie ricorda di avergli detto che se il fatto di non apprezzare il sesso orale
significava essere gay, allora la metà degli uomini con cui lei era uscita erano
gay. Deve ammettere che Brett, che adesso sta sfregando la guancia sul suo
interno coscia mentre cerca, leccandola e succhiandola, di mandarla in estasi,
è un amante estremamente generoso. È solo che, come quando uno sente alla
radio una canzone pop per la centesima volta, il sesso con lui non riesce più a
sorprenderla. Inizia così, poi si arriva a quell’altra cosa, che poi porta a
quell’altra ancora. Tra un minuto Brett comincerà a salire più su, baciandole
il seno, successivamente il collo, e in seguito le labbra. Sa dove, quando e
come accadrà ogni cosa. Può addirittura richiamare alla mente, o forse
ricreare, il ricordo (e la premonizione) del sapore dei suoi baci: quel
miscuglio inconfondibile di Brett, di Sophie e dell’olio per massaggi, che le
viene ri-servito attraverso un bocca a bocca.
Nonostante si stia avvicinando all’orgasmo, Sophie pensa a queste cose
e al fatto che, perfino in quel momento, nel bel mezzo di un rapporto
sessuale, riesca a pensare a queste cose. E mentre Brett comincia a salire,
spostando l’attenzione sui suoi capezzoli, si chiede cosa possa voler dire
quella mancanza di coinvolgimento da parte sua.
Ma oggi è distratta, e sa che non è affatto colpa di Brett. Quella mattina
si è svegliata molto più eccitata al pensiero di realizzare una retrospettiva su
suo padre, di quanto non lo sia per qualunque altra cosa che sta succedendo in
quel momento nella sua vita. Pensa, di nuovo, che se vuole che quel progetto
abbia una minima possibilità di andare in porto, ha bisogno di un altro
alleato. Qualcuno con cui scambiarsi idee, qualcuno meno cinico di Brett,
qualcuno più entusiasta di sua madre o di suo fratello, e che conoscesse suo
padre meglio di lei, o se non altro, che conoscesse il suo lavoro meglio di lei.
Brett si ferma, riportandola alla realtà del presente, e lei nota che la sua
erezione, oggi, non è una vera erezione, e all’improvviso capisce che quello
che di solito accade sempre dopo, oggi non accadrà affatto. Quindi Brett ha
ancora il potere di sorprenderla.
«Tutto okay?» le chiede. «Sembri distratta.»
«Scusa. Oggi non sono molto concentrata. Magari potremmo fare una
pausa-caffè e rimandare a più tardi? Che ne dici?»
Brett annuisce, rotola giù dal letto, e se ne va saltellando allegramente
in cucina, da dove, non trovando il caffè, le grida che sta uscendo: l’uomo
che con un gesto altruistico sfida l’alimentari sotto casa per procacciare le
provviste.
Sophie si stiracchia, poi si allunga per prendere il cellulare e controlla
l’ora. Sono quasi le quattro del pomeriggio. Poi, senza pensarci, come se
quello fosse ciò che stava facendo prima che Brett la interrompesse in modo
così sgarbato, telefona a sua madre.
«Ciao mamma, sono Sophie.»
«Ciao tesoro. Stavo proprio pensando a te.»
«Ah sì?»
«Sì. Mi stavo mettendo a fare una torta all’ananas. Ti piaceva tanto
quando eri piccola.»
«Mi piace ancora. E quindi, per chi la fai?»
«Jon. Dovrebbe arrivare tra un po’.»
«In realtà, ti ho chiamato perché anch’io pensavo di venire a trovarti nel
weekend.»
«Sul serio? Come mai?»
«Per vederti, ovviamente. Ma se non vuoi, mamma, basta che tu lo dica.
Non c’è bisogno di fare troppi giri di parole.»
«Non essere sciocca. Lo sai che mi fa piacere.»
«Bene, allora. Domenica magari?»
«Sì. Domenica va bene. Vieni per una ragione particolare?»
«Non proprio. Ma, ehm, in effetti pensavo che potrei dare un’altra
occhiata alle foto in solaio.»
«Oh, no, Sophie. Non dirmi che ci risiamo con questa storia. Non voglio
che mi porti in giro cianfrusaglie per tutta la casa.»
«E dai, mamma. È normale che voglia guardare le foto di papà.
Insomma, io sono una fotografa.»
«È ancora per quella folle mostra a cui hai accennato l’altra volta?»
«Non c’è niente di folle a riguardo, mamma.»
«Quindi, è per quello?»
«Non solo.»
«Mhmm.»
«E… mamma?»
«Sì?»
«Mi stavo chiedendo… Sai, la zia Diane. È ancora viva?»
«Diane?»
«Sì. L’amica di papà.»
«So chi è Diane, cara. Non sono completamente rimbambita. Ma perché
mai…?»
«Pensavo che lei potrebbe aiutarmi.»
«In cosa, di preciso?»
«Con, sai… dei suggerimenti. Cosa mostrare, come mostrarlo… Era
una fotografa, giusto? Se non sbaglio, ogni tanto lo aiutava, no?»
Barbara non le risponde, ma Sophie la sente sospirare a fondo.
«Per caso ti viene in mente un modo per contattarla?»
«No, non saprei.»
«Davvero? Non ne hai proprio idea?»
«No. Proprio no.»
«Mamma!»
«Non parlo con Diane da quando lui è morto.»
«Sul serio?»
«Sul serio.»
«Perché?»
«Non lo so, cara. Probabilmente perché non avevo motivo di farlo.»
«Ah. Quindi sapresti come contattarla? Se avessi un motivo.»
«No. Non lo so. Te l’ho detto. Senti, mi piacerebbe tanto passare tutto il
giorno al telefono con te, ma sta arrivando Jon e io devo mettere questa torta
in forno.»
«Si chiamava Darbott di cognome?»
«Lo sai benissimo.»
«Si scrive con due t?»
«Sophie. Per favore, dimmi che non hai intenzione di intraprendere una
ricerca inutile di Diane.»
«Perché no?»
«Perché… Perché…»
«Sì?»
«Perché immagino che tanto sia morta.»
«Morta?»
«Sì.»
«E perché dovrebbe essere morta, mamma?»
«Perché c’è un limite a quanto un fegato può sopportare, mia cara.»
«Un fegato?»
«Sì. Adesso devo andare, tesoro. Chiamami sabato per farmi sapere se
hai ancora intenzione di passare a trovarmi. Ma togliti dalla testa l’idea di
gironzolare nel solaio. Quindi se è per quello che vuoi venire, puoi anche
evitare.»
«Aspetta un attimo, mamma. Che mi dici di quell’altro amico di papà,
Hugh? O Phil?»
«Oh, Sophie, basta. Adesso basta.»
«Basta cosa?»
«Ho una torta da infornare! Ti saluto, tesoro.»
Barbara apre gli occhi e guarda le tende verdi che circondano il letto.
Non è sicura di come sia arrivata in ospedale. Le sembra che l’abbia
accompagnata un vicino. Sì, un vicino che fa il tassista, esatto.
Alla sua sinistra vede la brocca con i sali reidratanti, e si ricorda sia del
fatto che dovrebbe bere il liquido contenuto all’interno, sia del fatto che ha un
sapore orribile.
Dietro la tenda, sente Joan bisbigliare. Joan che parla, parla sempre.
«Ha perso molto sangue» sta dicendo, e Barbara si ricorda anche di quello.
Si riaddormenta per un po’ e quando si risveglia, Joan sta ancora
parlando. «È così che hanno detto. Che la natura ha voluto essere buona.»
«Ma che cattiveria è mai questa!» È la voce di Tony, e Barbara è
combattuta, da una parte vorrebbe chiamarlo, ma dall’altra vuole rimanere in
silenzio per sentire la risposta di Joan.
«Il bambino non era normale, tesoro» sta dicendo adesso Joan. «Ho
portato qui quel povero esserino perché potessero dargli un’occhiata, e il
dottore ha detto che aveva smesso di crescere da un bel po’, e che anche se
non lo avesse fatto, è stato comunque meglio così.»
«Tony?» lo chiama Barbara, più per interrompere il flusso di
informazioni senza censura che per altro.
«A quanto pare si è svegliata» dice Joan.
Il viso di Tony compare tra le tende, come quello di una marionetta.
«Sono arrivato un attimo fa» dice, girando intorno al letto e prendendole la
mano. «Sono venuto appena l’ho saputo.»
«Mi dispiace tanto» dice Barbara.
«Ehi, non è mica stata colpa tua, no?»
«Almeno lei sta bene» dice la voce di un’altra donna dietro la tenda.
«È Diane?» chiede Barbara.
Tony annuisce. «Ha voluto venire a trovarti. Ti dispiace?»
«Io non voglio vedere nessun altro» dice Barbara. «Solo te.»
«Okay.»
«Mi dispiace tanto, Tony» ripete. «Credo di aver camminato troppo.»
«Non è stata quella la causa» le dice Tony. «Hanno detto che lui aveva
smesso di crescere.»
«Lui?»
Tony annuisce. «È quello che ha detto la mamma.»
«Un maschio!» dice Barbara ansimando, un futuro scoperto solo dopo
che è stato cancellato; la perdita di un figlio all’improvviso reale.
«Tu ti rimetterai» le dice Tony, accarezzandole la mano. «Questa è la
cosa più importante.»
«Ma era un maschio.»
«Sì, be’, possiamo sempre riprovarci.»
Riprovarci! Barbara non sa cosa rispondere a quell’affermazione.
Perché in quel momento non c’è niente che desideri meno. L’espressione
fiduciosa di Tony è troppo da sopportare, quindi chiude gli occhi, e poi pensa
che, in effetti, la miglior strategia è di tenerli chiusi.
Dopo un po’ lui le lascia andare la mano e Barbara sente i ganci della
tenda scorrere mentre Tony torna fuori. «Si è riaddormentata» dice.
«È esausta, povero tesoro» dice Joan. «È la cosa peggiore che possa
capitare a una donna.»
«Sì. Certo.»
«Un duro colpo» dice Diane.
«Se solo lo avessimo saputo prima, sai…» sussurra Tony.
«Be, certo» dice Joan. «Ma la vita è così, amore mio. Non sai mai cosa
ti aspetta.»
«Cosa faccio, mi fermo?» chiede Diane.
«No, vai» le dice Tony. «Anzi, andate tutte e due. Non credo che oggi
sia dell’umore adatto per ricevere visite.»
Barbara apre gli occhi e si trova davanti Joan che gira per la stanza tutta
indaffarata. «Mai vista una confusione simile…» sta dicendo, e lei si sforza
di mettere a fuoco la stanza. Cerca di guardarsi intorno per capire cosa ci sia
fuori posto, poi si rende conto che Joan sta parlando di una delle camere degli
ospiti. «Sono stati qui solo due notti, ma ci sono sacchetti e biancheria intima
sparsi sul pavimento, slip appesi alla maniglia della porta, tazze sporche che
hanno portato su dal piano di sotto. Non voglio neanche immaginare come
siano conciate le loro case. E se dico case c’è una ragione. Perché nessuno mi
toglie dalla testa che non sono sposati, anche se si sono presentati come il
signore e la signora Grady. Chissà cosa avrebbe da dire la vera signora Grady
riguardo al loro viaggetto a Eastbourne. Anche se, a pensarci bene,
probabilmente sarà stata contenta di fare una pausa. Dalle pulizie, intendo.»
Barbara sbatte le palpebre e si sforza di prendere coscienza del
momento, della stanza, del letto immerso nella luce pomeridiana. Cerca di
scuotersi di dosso il sogno confuso che stava facendo, in cui era così bello
essere… Cosa? Accidenti. Non se lo ricorda. Tutto quello che rimane è una
piacevole sensazione, nient’altro.
Prova a concentrarsi sul monologo interiore di Joan, che non si arresta
mentre piega e impila e spolvera e raccoglie i piatti in giro per la stanza. «…
al Beach Cottage…» sta dicendo adesso «… sono addirittura riusciti a
rompere una finestra…»
Barbara sa che deve prestare attenzione perché ogni tanto capita che di
punto in bianco Joan le faccia una domanda. Spesso lei riesce a cavarsela
rispondendo con qualcosa di poco compromettente come ehm, o un vago e
bofonchiato immagino di sì, ma non sempre. In certi casi le domande
richiedono risposte specifiche, risposte che di solito Joan già conosce, spesso
risposte a domande che le ha già fatto in precedenza, più volte.
Come adesso. Joan è seduta sul bordo del letto e le sta toccando la
fronte in attesa di una risposta. Dalla scia lasciata dal passaggio delle sue
parole, Barbara recupera pastiglia di ferro e risponde, affidandosi alla
fortuna: «Sì, l’ho presa a pranzo».
Joan annuisce, a quanto pare soddisfatta. «Bene» dice. «La signora
Davis era diventata anemica dopo aver avuto i gemelli, ma si rifiutava di
prendere le pastiglie. Secondo lei c’era dentro il demonio. Alla fine si è
ammalata di itterizia, e di una forma brutta! Era gialla come un peperone,
giuro su Dio. Aveva anche le palpitazioni. Le era venuto di tutto. Per riuscire
a fargliele ingoiare hanno dovuto ricoverarla. Quindi tu devi prenderle come
ha detto il dottore.»
«L’ho presa» ripete Barbara, anche se sta iniziando a venirle un dubbio.
Col fatto che è sempre a letto, i giorni e le notti si mescolano, si fondono in
un tutt’uno, perciò chi può dire se la pastiglia di cui si ricorda era quella di
ieri o di oggi?
È sicura che Tony fosse con lei quando l’ha presa. Stava per andare a
Londra per una consegna. «Dov’è Tony?» le chiede, più per chiarire la
questione della pastiglia che per informarsi dei suoi spostamenti.
«Tony? È a Londra, lo sai. Ma tornerà in tempo per cena. Ha detto di
aspettarlo, in caso dovesse tardare» risponde Joan. «Adesso, anche se mi
piacerebbe stare qui seduta a chiacchierare con te tutto il pomeriggio, devo
andare dal pescivendolo. Lionel vuole mangiare l’aringa affumicata stasera, e
se non mi sbrigo non ne troverò neanche mezza. Per noi pensavo di prendere
del merluzzo, magari potrei farci una torta salata. Ti va il pesce per cena? Io
non vado pazza per l’aringa affumicata. Non è che sia cattiva, ma è
quell’odoraccio che non sopporto. Finisce sempre che metà degli ospiti si
lamenta per la puzza e l’altra metà mi chiede se posso portargliene un piatto.
Ma a Lionel piacciono, quindi…»
Barbara sbadiglia e mentre Joan scende al piano di sotto ascolta la sua
voce allontanarsi sempre di più. Aspetterà di sentire la porta d’ingresso
chiudersi e poi proverà a vedere se oggi riesce a stare in piedi. Il dottore le ha
detto di rimanere a letto per due settimane, e anche se la prima è già passata,
ogni volta che si alza le gira la testa. E lei vuole alzarsi. Più i giorni passano,
più il bisogno di alzarsi aumenta in modo esponenziale. Deve scappare da
quella casa prima che Joan la faccia impazzire, nel vero senso della parola.
Quando si avvicina il weekend e Lionel e Tony cenano a casa, come
oggi, non è poi tanto male. Joan ha altre persone a cui far sanguinare le
orecchie, altri pesci da intrappolare nella sua rete, o da cucinare. Sono i giorni
infrasettimanali che la preoccupano; giorni interminabili, vuoti e noiosi, in
cui la pensione è deserta come un cimitero. Tony e Lionel non ci sono e Joan,
non avendo altro da fare, si siede a parlare con lei. È una tortura
inimmaginabile.
Sente la porta d’ingresso chiudersi e sposta le gambe sul bordo del letto.
Ha bisogno di ricominciare a uscire, o meglio di uscire di casa entro l’inizio
della settimana. Ed è importante che discuta con Tony della necessità di avere
un posto tutto loro. Deve fuggire dal Donnybrook e, come coppia, adesso che
la strada intrapresa per via del bambino non ha più ragione d’essere percorsa,
hanno bisogno di una nuova destinazione, di altri obiettivi.
Afferra il pomello in ottone in fondo al letto e si tira su, poi aspetta che
arrivi l’attacco di nausea. Dopo una ventina di secondi, quando è passato,
mormora: «Non male». Sta cercando disperatamente di convincere se stessa
che si sta rimettendo. Si sente ancora le gambe molli, ma la nausea è meno
forte, più facile da sconfiggere, non è vero?
Si infila la vestaglia ed esce sul pianerottolo per raggiungere il bagno.
Dovrebbe usare la padella ma deve imporsi di fare dei progressi, anche se il
bagno è lo stesso in cui è successa quella cosa orribile.
Si siede sul water e legge di nuovo il tremendo quadretto, sforzandosi di
non pensare a quella sensazione, l’improvviso bisogno di spingere; cerca di
non ricordarsi il rumore e le sue grida; di non provare quel senso di vuoto
dentro di sé, un vuoto che testimonia in modo così definitivo, così
ineluttabile, che ha fallito nell’unica cosa per cui Tony ha voluto sposarla.
Forse, in effetti, neanche ha voluto. L’unica cosa per cui Tony l’ha sposata,
allora. Se solo lo avesse saputo, ha detto. E Barbara è piuttosto sicura di
sapere cosa intendeva con quella frase. Se solo lo avessero saputo, non
avrebbero mai dovuto imbarcarsi in questa stupida faccenda del matrimonio.
Ma sono sposati, quindi lei deve rimettersi in piedi e renderlo in qualche
modo orgoglioso di quel fatto.
Quando Barbara riapre gli occhi, è calata la sera e Diane sta entrando in
camera. Fra poco Tony sarà a casa. È il suo istinto a dirglielo, perché l’arrivo
di Diane precede quello di Tony come la notte precede il giorno.
«Ciao. Come ti senti?» le chiede Diane, sedendosi sul bordo del letto e
prendendole la mano. Il suo tocco è delicato, la sua pelle vellutata e liscia: un
contrasto sorprendente con il taglio di capelli da maschiaccio e le sopracciglia
folte, con la sua indole pragmatica e i suoi modi bruschi.
«Bene» dice Barbara, soffocando uno sbadiglio. «Ogni giorno un po’
meglio. Cosa ci fai qui?»
«Sono venuta a vedere come stai» dice Diane. «Ho pensato che avessi
voglia di compagnia.»
Quell’affermazione le provoca un’agitazione al petto, si sente confusa e
combattuta perché pensa che sarebbe molto bello se fosse vero, che sarebbe
un po’ troppo bello, bello a livelli esagerati, forse pericolosi. Ma non è vero.
Non è affatto vero. Quindi quella bugia le provoca dolore misto a piacere.
«A che ora torna Tony?» le chiede, puntando dritta alla verità, per
quanto il coraggio le permetta.
«Non lo so» risponde Diane, ma proprio mentre lo dice, il motore della
motocicletta di Tony che scoppietta giù in strada crea un sottofondo ironico
alle sue parole.
Barbara nota che Diane si accorge del rumore e vede lo sforzo che fa
per dare l’impressione di non essersene resa conto. Vede quanta fatica le
costa continuare a mostrare interesse verso quel momento, verso di lei. «Le
medicine stanno facendo effetto?» le chiede.
Barbara annuisce. «Un po’. Oggi sono riuscita a scendere al piano di
sotto. Solo per una tazza di tè. Ma non dirlo a Joan.»
«Certo che no» dice Diane, facendole l’occhiolino e stringendole la
mano, e quell’agitazione nel petto si manifesta di nuovo, solo che questa
volta Barbara toglie la mano. «Sembrerebbe che Tony sia arrivato» dice, ed
entrambe si fermano ad ascoltare la porta d’ingresso, poi la voce di Joan che
lo saluta. Tendono le orecchie per sentire il contenuto della sua risposta, ma
lui è troppo lontano e le onde sonore si perdono nelle scale, impedendo a
entrambe di cogliere qualunque cosa, a parte il suo tono di voce euforico.
Come se volesse confermare quell’euforia, Tony si fionda su per le
scale più veloce che può, compatibilmente con i suoi pesanti stivali da
motociclista. «Ciao!» grida, piombando nella stanza e portando con sé una
ventata d’aria fredda che si solleva dalla trama dei suoi vestiti. Tony grida
spesso quando rientra a casa; a suo dire la motocicletta lo rende sordo. Ha i
pantaloni di pelle da motociclista e una grossa giacca di tela cerata. Barbara
pensa che sia incredibilmente sexy quando indossa gli abiti da lavoro.
Vorrebbe tanto andare a letto con lui mentre è ancora vestito in quel modo,
ma non c’è un modo per dirglielo, e sa che non ci sarà mai.
Diane si alza e gli dà un bacio sulla guancia, arrivando a lui prima che
possa farlo lei. «È andato tutto bene a Londra?» gli chiede.
«Sì, io… In realtà, ho bisogno di parlare con Barbara» le risponde Tony,
e Barbara osserva Diane e vede che continua a sorridere, perfino mentre dal
suo sguardo trapelano tutta una serie di ragionamenti, tutto un miscuglio di
emozioni. «Certo» dice, con aria allegra. «Vi lascio soli.»
Tony chiude la porta dietro di lei e si volta verso Barbara. I suoi occhi
sembrano più azzurri che mai, hanno una sfumatura più fredda, folle.
Barbara si appoggia con la schiena al cuscino e gli sorride, aggrottando
allo stesso tempo le sopracciglia. «Cos’è successo?» gli chiede. «È successo
qualcosa?»
Tony si lecca le labbra e si siede sul letto nel punto esatto in cui era
seduta Diane solo pochi istanti prima. Anche lui le prende la mano e il
contatto è molto diverso. Le sue mani sono fredde e pesanti come due
bistecche uscite dal frigorifero di un macellaio. «In effetti qualcosa è
successo » dice. «E ho bisogno di parlarne con te.»
«Va bene» dice Barbara, notando che non l’ha ancora baciata e
temendo il peggio.
«Allora, non dobbiamo prendere una decisione subito. Perciò non
voglio che ti preoccupi, specialmente in questo momento, col fatto che sei
stanca e tutto il resto…»
«Okay.»
«Ma ho ricevuto un’offerta di lavoro.»
«Sul serio?»
«Ho dovuto portare un pacchetto a Londra. Erano dei rullini. Al Daily
Mirror. E il capo mi ha preso da parte e mi ha offerto un lavoro. Così, come
se niente fosse.»
«Il giornale Daily Mirror?»
«Sì. Fanno anche il Sunday Pictorial. Nello stesso posto. Per ora si
stratta solo di fare delle consegne. Come adesso. Ma la paga è il doppio.»
«Il doppio?»
Tony annuisce. «Quasi il doppio. Più o meno.»
«E devi fare le consegne come adesso?»
«Sì. In moto. Una migliore, credo. Ne ho viste alcune parcheggiate fuori
ed erano della BSA. C’erano un paio di Golden Flash nuove, quelle che
piacciono a me.»
«Sì, ma parlami del lavoro.»
«Come ti ho detto, in realtà si stratta solo di consegne… andare a
prendere i rullini dai giornalisti e portarli di corsa al giornale. Cose così.»
«È un’ottima notizia, non è vero?»
Tony annuisce e scrolla le spalle. «Credo di sì.»
«Potremmo affittare un appartamento tutto nostro» dice Barbara.
«Soprattutto se anche io trovassi un lavoro.»
«Non credo che ce ne sarebbe bisogno. Non con quello che
guadagnerei. Ha detto che sono nove sterline a settimana.»
«Non è che c’è un fregatura?» chiede Barbara. «Ho una strana
sensazione.»
«Non proprio» dice Tony. «Forse. Una specie. Credo. Dipende.»
«Cioè?»
«È a Londra.»
«Sì, me lo hai detto.»
«Tutti i viaggi sono da e per Londra. Quindi io dovrei essere fisso lì.»
«Oh.»
«Perciò dovremmo trasferirci.»
«Oh, ciao» dice Barbara, giocherellando con una ciocca di capelli che
continua a caderle davanti agli occhi. «Oddio. Stavo lavorando… Entra,
entra!»
Diane è sulla porta del loro minuscolo bilocale, ha un bell’aspetto,
rilassato, in tenuta estiva con un vestito a pieghe scollato sulla schiena.
Barbara, che indossa una gonna e un maglione, e ha i capelli legati in una
coda di cavallo, si sente sciatta, trasandata e in disordine.
«Scusa la confusione» le dice, lanciando un’occhiata nervosa alle pile di
vestiti in varie fasi di lavorazione in giro per la stanza. «Ma come ti ho
detto…»
«Non importa» dice Diane. «Dovresti vedere casa mia!»
«E non so quando tornerà Tony.»
«Non importa neanche questo» dice Diane. «Sono venuta a trovare te!»
Barbara sente che sta arrossendo e si odia per questo.
«Come stai?» le chiede Diane. «Come ti trovi a Londra?»
Barbara nel frattempo si è messa a girare per la stanza, sta raccogliendo
le varie pile di tessuti per sovrapporle in un unico mucchio che poi dovrà
riseparare quando Diane sarà andata via. «Sto bene» dice. «Ho un po’ la
sensazione di essermi trasformata in mia madre, ma a parte questo…»
«Perché?»
«Oh, per via di tutto questa roba» dice, gesticolando con il braccio per
indicare la piccola stanza buia, le pile di vestiti, la macchina da cucire, i
pezzettini di filo che si attaccano a ogni cosa come peli di cane.
Diane passa una mano sul velluto della poltrona per togliere i pelucchi
prima di chiederle: «Posso?».
«Ma certo! Certo! Prego. Siediti.»
«Però dev’essere bello poter lavorare da casa, no?» le dice, ma lo fa
dalla prospettiva di qualcuno che va al college, qualcuno che sembra non
dover lavorare affatto, e Barbara ha difficoltà a credere che possa essere
un’opinione sincera.
Diane si allarga il vestito e si siede incrociando le gambe. A Barbara
sembra che abbia perso parecchio peso nell’ultimo anno, e ultimamente si
trucca anche di più. Se solo facesse qualcosa alle sopracciglia,
assomiglierebbe molto a Suzy Parker. «Che bel vestito» le dice Barbara.
«Però è un bel cambiamento rispetto al solito, no?»
«Lo so!» risponde Diane. «È bellissimo, non è vero? È della mia
compagna di stanza. I suoi hanno un negozio di abbigliamento a Oxford e lei
ha così tanti vestiti che non sa che farsene. Per fortuna abbiamo la stessa
identica taglia.»
«Eh, sì, davvero una fortuna» dice Barbara. «Allora, come va il college?
Ti piace studiare arte?»
«È molto più faticoso di quanto mi aspettassi» dice Diane. «Questo è
certo.»
«Davvero?»
Diane annuisce. «Ricerche, libri da leggere, lezioni di disegno dal vero,
tesine…»
«Sei coraggiosa» dice Barbara. «Io non saprei da che parte cominciare.»
«La mia compagna di stanza mi aiuta. Lei è al secondo anno, perciò
quando sono in difficoltà posso chiedere a lei.»
«Sembra la compagna di stanza perfetta» dice Barbara.
«Lo è. Marie è fantastica.» Diane le rivolge un gran sorriso e osserva la
stanza, e Barbara, immaginandosi di vedere la scena con i suoi occhi, si sente
un po’ in imbarazzo, poi, senza capire di preciso perché, prova un po’ di
rabbia all’idea che Diane se ne vada in giro per il college indossando vestiti
di marca mentre lei se ne sta seduta in un appartamento poco più grande di un
monolocale a cucire maniche tutto il giorno. Si domanda come sia successo.
Si domanda dove abbia sbagliato.
«E Tony come sta?» le chiede Diane.
«Bene. In realtà in questo periodo è un po’ stanco e di cattivo umore,
ma non dirgli che te l’ho detto.»
«A volte lui è un po’ così. Lo so.»
«Di recente ha dovuto fare dei viaggi molto lunghi. Lunedì è andato a
Manchester, e ieri nel Dorset, poi oggi di nuovo a Manchester. Credo che si
aspettasse di spostarsi di meno, di restare più nei dintorni di Londra.»
«Cos’è andato a fare a Manchester?»
Barbara scrolla le spalle. «A ritirare un pacco, immagino. O a portarlo.
Non so nemmeno cosa contengano. Non sono neanche sicura che Tony lo
sappia. Ma è tutta roba per il giornale. Rullini, stampe, cose così. In effetti,
mi sa che è arrivato. Che fortuna.»
La porta dell’appartamento si apre con un cigolio, Tony entra a passo
pesante nella stanza, si toglie il casco, poi i guanti. Sposta lo sguardo da
Barbara a Diane un paio di volte, poi dice: «Che sorpresa. Cosa ci fai qui,
Diane?».
C’è qualcosa di finto nel tono della sua voce, nello specifico qualcosa
nel modo in cui ha pronunciato il suo nome che dà a Barbara motivo di
pensare, per un istante, che sia tutto organizzato.
«Ho pensato di passare di qui. Com’è andata a Manchester?» gli chiede
Diane. Se stanno mentendo, lei è molto più brava di Tony.
«Pioveva» dice Tony. «Piove sempre a Manchester. Per fortuna nel
viaggio di ritorno è uscito il sole, quindi mi sono asciugato.»
«Preparo la cena?» propone Barbara. «Ti fermi a mangiare con noi?»
«Ma certo che si ferma» dice Tony. «E poi usciamo a bere qualcosa,
vero? C’è un pub molto carino in fondo alla strada.»
«Sicura, Barbara?» chiede Diane. «Sicura che non ti crei problemi?»
E Barbara vorrebbe rispondere che non le crea assolutamente nessun
problema se si ferma per cena, ma che preferirebbe davvero non uscire a bere
dopo. È stanca. E le secca il fatto che basti la presenza di Diane perché Tony,
all’improvviso, abbia i soldi e il tempo di uscire. A lei non la porta a bere
qualcosa da mesi. «Per una frittata e delle patatine fritte…» dice.
«Hai abbastanza?»
Annuisce. «Ne ho prese sei stamattina.»
«D’accordo, allora» dice Diane, sorridendole. «Grazie. Mia madre dice
che a Eastbourne si fa molta fatica a trovarle.»
«Le uova?»
«Lo dice anche mia madre» concorda Tony.
«È perché non sono più razionate» spiega Barbara. «Quindi stanno tutti
impazzendo un po’. Ma a Londra si riescono a trovare più o meno ovunque.
Bisogna solo andarci la mattina presto.»
Toglie l’ultimo mucchio di maniche dal tavolo e lo aggiunge a quello
barcollante nell’angolo, poi va in fondo alla stanza, dove c’è la cucina, e
accende la piastra. Mentre comincia a pelare e tagliare le patate, ascolta Tony
e Diane che parlano dietro di lei e prova un po’ di gelosia per l’intimità
immediata che si è creata, e per come il tono della conversazione sia
cambiato non appena li ha lasciati soli.
«Prima sono stata a una mostra» gli sta dicendo Diane. Eccone un
chiaro esempio. Perché Diane avrebbe potuto benissimo dire a lei della
mostra se avesse voluto.
«Del Canaletto» continua. «Era veneziano, perciò c’erano tutti questi
bellissimi quadri di Venezia e dei canali… cieli incredibili e riflessi
sull’acqua.»
«Ho visto un fotoreportage di Venezia sul Sunday Post» interviene
Barbara, senza voltarsi. «Dev’essere bellissima. Mi piacerebbe tanto
andarci.»
«Sì» dice Diane. «Sono sicura che sia fantastica.» Poi, rivolgendosi a
Tony, prosegue: «Gli piaceva dipingere all’aperto, mentre la maggior parte
dei pittori lavorava in studio. Dicono sia per questo che i suoi lavori danno la
sensazione di essere molto più reali. Che c’è molta più luce nei suoi quadri.»
«Sembra molto interessante» dice Tony.
«Lo è. Dovresti portarci Barbara. È al British Museum.»
«Non abbiamo molto tempo per le mostre, vero Babs?»
«No» ride Barbara. «Non molto.»
«Io non ho molto tempo per fare viaggi in giornata a Manchester» dice
Diane. «Almeno tu vai in giro. E vedi il resto del paese. Io non sono mai stata
al nord.»
«Immagino di sì» dice Tony, dubbioso.
«E devo scrivere cinquemila parole sul Canaletto entro venerdì»
aggiunge Diane. «Quindi…»
«Cinquemila?» chiede Barbara. «E quante pagine sono?»
«Una ventina, credo» risponde Diane.
«E cosa scriverai?»
«Non lo so ancora. Pensavo di consultare qualche libro in biblioteca per
vedere cosa dicono e di prendere spunto da lì.»
«Ma allora ti piace il college?» le chiede Tony, facendo un verso mentre
si toglie a fatica gli stivali. «Scusa se mi puzzano i piedi.»
«No, non puzzano» dice Diane. «E sì. Il college è fantastico. Tutt’altra
cosa rispetto alla scuola.»
«Bene.»
«Ti trattano molto più come un adulto. E la gente è più divertente, più
interessante. Ma si lavora anche sodo. Devo fare un mucchio di cose in cui
non sono molto brava.»
«Ad esempio?»
«Ad esempio disegnare e…»
«Tu sei brava a disegnare» dice Tony.
«Be’, lo pensavo anch’io finché non ho visto gli altri. E dipingere
paesaggi. Odio i colori a olio. Sono impossibili da usare. E poi devo scrivere.
In quello sono negata. Ed essendo una ragazza, mi sento gli occhi puntati
addosso.»
«Quindi sei l’unica ragazza?»
«No. Nel mio corso siamo in due. E venti ragazzi.»
«Che mi dici della fotografia?» le chiede Tony.
«Alla St. Martin’s la fotografia non è molto considerata. Non la
ritengono una vera arte, credo.»
«In effetti non lo fa nessuno. È un peccato.»
«In America sì, a quanto pare. Se non altro un po’. E di te che mi dici?
Continui a fare foto?»
«Sì» risponde Tony. «Sì, ne sto facendo parecchie.»
Barbara fa una smorfia e si chiede come sia possibile che questo lei non
lo sappia; magari non è vero, magari Tony se lo è inventato, a dimostrazione
del fatto che davanti all’evoluzione artistica di Diane si sente insicuro quanto
lei. «Te ne faccio vedere qualcuna» dice Tony. Barbara smette di pelare le
patate e si volta per controllare dove Tony tenga queste foto di cui lei non ha
mai sentito parlare. Lui prende una cartelletta da dietro la credenza. «Ma sto
avendo problemi con la fotocamera» dice. «Continua a bloccarsi.»
«A bloccarsi?»
«Sì. La manopola per far avanzare la pellicola non gira.»
«Fammi vedere» dice Diane, perciò Tony tira fuori la vecchia Rolleiflex
dalla sua borsa da sella.
«Oh, sì, è proprio bloccata» dice Diane. «In realtà servirebbe una
camera oscura. Quanto sono spesse quelle tende?»
«Non molto» risponde Tony. «Forse è meglio in camera da letto.»
Barbara lancia un’occhiata dietro di sé e li vede sparire. Mentre, senza
sapere il perché, le monta ancora di più la rabbia, continua a pelare le patate,
facendole cadere con violenza nello scolapasta, ma quando li sente
ridacchiare in camera, non ne può più. Si asciuga le mani su un canovaccio e
si avvicina all’arco tra la camera da letto e il soggiorno. Le tende sono state
chiuse ma c’è abbastanza luce per vedere cosa succede. Tony e Diane sono in
ginocchio di fianco al letto, con la testa sotto la trapunta.
«Ecco» sta dicendo Diane, piano. «Senti qui. C’è un po’ di carta o di
pellicola incastrata negli ingranaggi.»
«Io non sento niente.»
«Qui. A sinistra della rotella. Dammi la mano.»
Tony si mette a ridere.
«Ecco, senti?» dice Diane.
«Ah, sì… Credo… sì.»
«Oddio, hai le mani gelate» dice Diane.
«È perché ero in moto.»
«Comunque, ti serve una spilla, o una cosa così. O un ago. Così
possiamo tirarlo fuori.»
«Magari se volete ve lo do io!» dice Barbara a voce alta, e vede con
soddisfazione che la vicinanza della sua voce fa saltare sia Diane sia Tony.
Tony esce da sotto la trapunta con la faccia tutta rossa.
«Ehm, sì. Magari, ehm, tesoro» dice.
«A che mese sei adesso?» le chiede Phil. Phil è un fotografo del Mirror,
il migliore amico che Tony ha sul lavoro, e siccome questa è la quarta
gravidanza di Barbara in dieci anni che li conosce, si rende conto da solo che
non è il caso di chiedere quando nascerà. Perché sa, come lo sanno Barbara e
Tony, che la triste verità è che probabilmente non nascerà affatto.
«Al quarto» dice Barbara, poi, per rispondere a una domanda che non le
ha posto, ma che alleggia nell’aria, aggiunge: «Quindi sì, questa è la
gravidanza che ho portato più avanti. Teniamo tutto incrociato».
Teniamo tutto incrociato. Quel mantra spesso ripetuto, un mantra che
non si avvicina nemmeno lontanamente a descrivere la speranza e la paura, il
terrore e l’ansia che si nascondono dietro a ogni gravidanza.
Questa volta, al suo quarto tentativo, Barbara si sente pronta per
qualunque cosa. Si sente persino pronta per la disperazione di un altro aborto.
Ormai conosce quell’orrore, ha sviluppato con esso un rapporto di familiarità,
addirittura di intimità, quel genere di intimità che può esserci con un parente
subdolo, spregevole. E anche se un orrore con cui si ha familiarità resta pur
sempre tremendo, sapere di poter sopravvivere le permette se non altro di
guardare avanti; di affrontare tutto ciò con speranza.
È pronta anche a sentirsi dire che non potrà mai più riprovarci. I dottori
sembravano dubbiosi perfino riguardo al fatto che sarebbe riuscita a rimanere
incinta dopo l’ultima volta. Il suo utero, dicono, è “sottosviluppato”; è
“danneggiato”. Ma quando ha chiesto al dottore (dai modi piuttosto bruschi)
se andava bene che continuassero a provarci, lui le ha risposto: «Non c’è
niente di male a provarci, mia cara. Solo, non farti illusioni».
E così, loro ci hanno provato. E adesso, si stanno facendo illusioni.
È pronta anche a essere lasciata da Tony se andasse male. Percepisce il
suo bisogno sempre più disperato di avere figli, la sua insofferenza crescente
nei confronti del fatto che lei non riesca a dargliene; ha notato come la sua
incapacità di renderlo padre l’abbia a poco a poco sminuita ai suoi occhi. Si è
accorta che Joan e Lionel hanno iniziato a considerare il matrimonio del
figlio un errore, per la semplice ragione che è “senza frutti”. Un matrimonio
senza frutti con una donna “sterile”. È certa che sia questo che la gente dice
alle sue spalle. Perché Tony dovrebbe scegliere di restare?
Quindi, sì, ha la sensazione che questa quarta volta sarà l’ultima. Lo
vede negli occhi degli altri, lo sente nei loro sospiri. Lo avverte nel profondo;
lo percepisce nelle vibrazioni di uno spazio che non è stato riempito, di un
vuoto che da tempo brama di essere colmato. L’ultima volta. La sua ultima
occasione. Tiene tutto incrociato.
«Tu cerca solo di non stancarti» sta dicendo Phil.
«Oh, non mi stanco per niente» risponde Barbara. «Tony non mi lascia
fare nulla. In questo periodo quasi non esco neanche mai di casa.»
La porta si apre ed entra Tony con un sacchetto tintinnante.
Barbara osserva il sacchetto. Calcola a occhio quanto può pesare, per
capire il numero di bottiglie al suo interno; forse cinque o sei. Tira un sospiro
di sollievo. I ragazzi si faranno davvero solo “un paio di birre” come aveva
detto Tony. Sono trascorsi mesi dalla sua ultima sbronza, e questo la rende
nervosa. Non è da lui lasciar passare tutto questo tempo, e Phil avrebbe
potuto benissimo essere, come lo è già stato molte volte, il catalizzatore che
avrebbe messo in moto Tony. Ma a giudicare dal peso del sacchetto, per
questa sera può stare tranquilla.
«Ti ho preso questa» le dice Tony, passandole una bottiglietta che ha
tirato fuori dal sacchetto.
«Cos’è?» chiede Phil.
«Irn-Bru» spiega Barbara, mentre la prende. «È una bibita gassata che
contiene ferro, perciò fa bene alle ragazze incinte come me, almeno così
dicono.»
«O comunque è quello che sostiene mia madre» dice Tony. «Ne è
convinta al cento per cento.»
«E il fish and chips?» chiede Barbara.
«Ha detto di tornare tra mezz’ora» risponde Tony, lanciando
un’occhiata all’orologio sulla mensola del camino. «Gli sono arrivate un
sacco di ordinazioni. D’altra parte, è venerdì.»
«Perché la gente mangia il fish and chips il venerdì?» chiede Phil,
mentre prende la birra che Tony gli sta passando.
Tony scrolla le spalle. «Perché è la fine della settimana?» dice. «Perché
è troppo stanca per cucinare?»
«Credo che sia una cosa cattolica» si azzarda a dire Barbara. «Mi
sembra che c’entri qualcosa con la Quaresima.»
«Noi mangiamo fish and chips ogni sera» dice Tony. «Spero che non sia
peccato.»
«Non ogni sera.»
«Questa settimana è la terza volta…»
Barbara assume un’espressione colpevole. «Voglie» dice a Phil in tono
confidenziale. «E dicono che è meglio assecondarle. Che è il bambino che
chiede quello di cui ha bisogno per crescere sano e forte. E a quanto pare
quello che lui vuole è il fish and chips. E la salsa tartara. La salsa tartara in
particolare.»
«Be’, brindo a un bambino sano e forte» dice Phil.
Tony va nella zona della cucina e torna con un apribottiglie.
«Oh, prendi i bicchieri» protesta Barbara.
«A Phil non importa, vero?»
Phil scuote la testa e solleva il tappo.
«A me sì!» dice Barbara.
«Vado io» dice Phil, alzandosi.
«Ah, le ragazze!» commenta Tony, ridendo.
«Allora, vi trasferite?» chiede Phil quando torna con il bicchiere per
Barbara. «Avete deciso?»
«Aspettiamo di vedere cosa succede, giusto?» dice Tony.
«Cosa succede con…?»
«Aspettiamo di vedere se questo Babs riesce a tenerlo dentro fino alla
fine» gli dice Tony.
Anche se Barbara sa che lui sta solo facendo finta che quella situazione
non sia dolorosa, sente l’accusa implicita nelle parole che ha scelto di usare.
Perché dopotutto, quanto può essere difficile tenerlo dentro?
«Se arrivo al sesto mese, ci trasferiamo» spiega Barbara. «Abbiamo
deciso così.»
«Ma rimarrete in questa zona?»
«Babs vuole tornare a Shoreditch» dice Tony. «Vuole la sua mamma,
non è vero?»
«Credo che avremo bisogno che ogni tanto lei badi al bambino» spiega
Barbara. «Se mai dovessimo arrivare a quel punto» aggiunge, usando il
periodo ipotetico per motivi scaramantici.
«Allora, forza» dice Tony, rivolgendosi a Phil. «Fammi vedere queste
foto.»
Phil si allunga per prendere una cartelletta verde con le venature
appoggiata accanto alla sedia, sposta l’elastico e la apre. Tira fuori una
ventina di fotografie lucide a colori e comincia a farle girare.
«Adoro quest’odore» dice Barbara, avvicinando al naso l’immagine di
un campo giallo di grano.
La passa a Tony e prende la successiva dalla mano di Phil. È la foto di
una bambina con un vestito azzurro acceso, che accarezza un gatto su una
cassetta delle lettere rosso intenso. «Oddio» dice Barbara. «Che colori!»
«Sono belle» dice Tony.
Guardano immagini di campi battuti dal vento, prati verde fosforescente
e foglie d’autunno arancioni, facendole passare in cerchio finché non tornano
a Phil e nella cartelletta.
«Sono bellissime, Phil» dice Barbara.
Tony la guarda e aggrotta le sopracciglia.
«Be’, lo sono!» insiste.
«Delle mie non lo dice mai» commenta Tony ridendo, ma nonostante il
tono scherzoso, Barbara avverte che c’è rimasto male.
«Vorrei solo che facessi foto a colori» dice. «Sono così carine.»
«Carine…» ripete Tony in modo sprezzante. «Comunque, sono troppo
care e io sto risparmiando per altre cose al momento, cose come culle e
passeggini.»
«È vero, costano molto» concorda Phil.
«E poi i colori sono tutti sbagliati» dice Tony. «Le farò a colori quando
i colori saranno giusti.»
«Dei progressi li stanno facendo» dice Phil. «Queste sono state scattate
con quel nuovo rullino, il Kodacolor X, ed è molto meglio di prima. A me
non dispiacciono affatto, se devo essere sincero. Mi piace il modo in cui tutto
è leggermente stonato. Quasi un po’ surreale.»
«Come un sogno» dice Barbara, accarezzando con la punta delle dita la
foto di un cielo azzurro intenso, striato di rosso dal sole che tramonta. «Piace
anche a me. È come nella realtà ma, insomma, di più.»
«È brava» dice Phil, facendo un cenno con la testa a Barbara e poi
strizzando l’occhio a Tony.
«Già» dice Tony, tracannando la birra. «Io preferisco comunque il
bianco e nero. Secondo me è più artistico. Più drammatico.»
E siccome Barbara percepisce nella sua voce una punta di collera, una
collera che conosce e teme, fa marcia indietro. «Be’, probabilmente hai
ragione tu, Tony» dice, mentre ripassa le foto a Phil. «In fondo, cosa ne
capisco io?» Tony di recente ha venduto qualche foto al Mirror invece di
consegnare solo pacchetti, perciò è importante non minare la sua autostima.
«Buon per te, visto che tanto il Mirror le vuole solo così» dice Phil, che
a quanto pare deve aver pensato la stessa cosa. «E quelle foto che hai fatto a
quella manifestazione erano buone. Molto vere. Senza filtri.»
«Grazie» dice Tony, imbronciato come un bambino di due anni.
1963 — HACKNEY, LONDRA
Due settimane dopo, Barbara se ne sta sdraiata sul letto di casa sua e
ascolta il bambino che strilla.
Tony è andato a lavorare e Minnie non tornerà finché non sarà in pausa-
pranzo, perciò, per la prima volta dal parto, non ci sono testimoni. Per la
prima volta non c’è nessuno che possa vedere che persona terribile è in realtà.
E così resta sdraiata a letto e ascolta il bambino che piange, solo, e come se
fosse divisa in due, si osserva per capire se gliene importa qualcosa.
Il furgoncino del latte passa nella loro via e il bambino si mette a
gridare più forte, più di quanto abbia mai sentito fare a un bambino. Si chiede
se l’uomo che guida il furgoncino può sentirlo. Ritiene che sia probabile.
Un vicino che abita sopra di loro picchia sul pavimento, quindi in un
certo senso dei testimoni ci sono. Qualcuno da qualche parte sa che è una
pessima madre. Sospira e si rotola per scendere dal letto.
Stringe i denti, solleva la camicia da notte e come ogni mattina, prima di
mettersi la vestaglia, controlla la cicatrice. Mentre va in bagno per fare pipì e
lavarsi il viso nota che, stranamente, il rumore delle grida per un attimo si è
placato. Si fissa nel piccolo specchio dell’antina del bagno. Ha un aspetto
tremendo. La gente continua a dirle che la trova bene, ma non è così. Ha un
aspetto davvero orribile.
Il bambino, dopo aver ripreso fiato, comincia a ululare a livelli
assordanti, il che richiede per forza di cose un suo intervento; a suggerirglielo
non è l’istinto materno, ma di sopravvivenza. Quel particolare suono deve
essere stato progettato da Dio, pensa tra sé e sé, perché sia impossibile da
ignorare.
Si passa una mano tra i capelli, che da quando è tornata a casa sono
inspiegabilmente unti, poi cammina piano verso la stanza del piccolo e si
ferma per un attimo sulla porta. Chiude gli occhi e si lascia investire dal
frastuono delle grida, dei boccheggi del bambino che è in iperventilazione. Si
chiede di nuovo se le importi qualcosa. È una persona orribile, non ci sono
dubbi.
Riapre gli occhi e si avvicina alla culla. Il bambino è rosso, di un rosso
scioccante, spaventoso. Gli cola il naso e il mento è lucido per la bava. Ma è
ancora minuscolo; com’è possibile che qualcosa di così piccolo faccia tutto
quel rumore? Com’è possibile?
«Oh, Jonathan» sussurra Barbara, con un tono senza speranza.
E poi accade qualcosa di miracoloso: il bambino smette di piangere.
All’istante. Così, come se niente fosse. E i suoi occhi celesti si spostano su di
lei.
Barbara avverte un brivido lungo la schiena, molto simile a un brivido
di freddo, solo che non fa per niente freddo.
Mentre si domanda perplessa cosa fosse quella strana sensazione,
allunga un braccio e gli sfiora la guancia, e lui fa una bolla di saliva e qualche
versetto. A quel punto le si smuove qualcosa, come dell’acqua che attraversa
un tubo arrugginito; un’emozione, che dev’essere rimasta sotto chiave così a
lungo da risultarle solo vagamente familiare, inizia a crescere dentro di lei.
Si china sulla culla (il dolore dei punti le provoca una smorfia) e solleva
il bambino. È bagnato fradicio e puzza, ma lo prende comunque e lo avvicina
a sé, appoggia la guancia alla sua e comincia a singhiozzare senza controllo.
«Mi dispiace tanto, Jonathan» dice.
Le emozioni che Barbara prova verso il suo piccolo appena nato sono
nuove, inaspettate e (se ne rende conto perfino lei) di un’intensità del tutto
irragionevole.
Quando lui dorme, è sopraffatta dalla fragilità del filo sottile che lo tiene
attaccato a questa vita, alla vita di lei. Trema di paura al solo pensiero che
possa non svegliarsi. Ha sentito di bambini a cui è successo.
Quando lui è sveglio e si dispera, è sopraffatta dal senso di colpa per
non essere in grado di calmarlo, e dubita delle proprie capacità come non
mai. Ma quando è felice, cosa che capita il più delle volte, prova una sorta di
estasi che non riuscirebbe nemmeno a descrivere. Osserva ogni suo minimo
gesto, bramando di essere riconosciuta da lui, mettendosi quasi a piangere
quando sembra che la guardi negli occhi, sussultando quando lui le sorride e
andando in brodo di giuggiole quando lui le afferra un dito.
Non ha mai provato niente di simile, e quel turbinio di emozioni che
l’ha travolta all’improvviso sembra comprendere qualunque combinazione
possibile: sfinimento, gioia, paura, speranza… Non manca niente.
Per le prime tre notti, cercano di dormire tutti e tre nel lettone. Jonathan
li sveglia di continuo, ininterrottamente. Spesso, dal momento in cui Barbara
riesce a farlo riaddormentare a quando lui si risveglia, passa meno di un’ora.
Tony (che sostiene di non chiudere occhio) al mattino va a lavorare con l’aria
stanca e sconsolata. E la sera, al suo rientro, sembra un morto che cammina.
Ora del quinto giorno, tra loro cominciano le liti, riguardo al bambino,
riguardo a dove dovrebbe dormire, riguardo al sonno in generale, e arrivati al
settimo, Tony, imbronciato, va a coricarsi su una brandina nella cameretta di
Jonathan. Perché Barbara si rifiuta di lasciare, non può lasciare il bambino da
solo nella stanza accanto.
Non è che non voglia, è che le è fisicamente impossibile. L’effetto che i
suoi vagiti hanno su di lei le impedisce di ignorarli. Cercare di non andare da
lui quando piange è come cercare di non respirare. E quando non sta
piangendo, ci vogliono meno di cinque minuti perché il terrore di non sapere
se respira ancora le ricopra la fronte di gocce di sudore. Quindi no, non ha
scelta. Deve stare con lui tutto il tempo.
Alla terza settimana, sono tutti d’accordo, lo ha ammesso perfino lei,
che è fuori di testa per il figlio. Ma se non altro, Tony e Glenda hanno
definito la sua isteria una reazione “normale” agli aborti spontanei avuti in
precedenza. Invece Minnie, Minnie la pratica, la concreta, non riuscendo a
farle visita senza discutere i suoi metodi educativi (insiste nel dire che
dovrebbe lasciar piangere il bambino finché non smette) ha iniziato, molto
semplicemente, a non farsi più vedere. E la cosa sorprendente è che a Barbara
non interessa.
In effetti in quel periodo lei non riesce nemmeno a pensare a qualcosa
che non sia il bambino. Tony può dormire sulla brandina o restare da Phil,
tornare a casa ubriaco o non ubriaco… Può essere di buon umore o non di
buon umore, e su di lei ha lo stesso effetto di una goccia di pioggia sul dorso
della mano.
Nella sua quotidianità, tutti quei fattori, fattori che prima erano
fondamentali, cose che le cambiavano la giornata, sono diventati irrilevanti
quanto il tempo.
È come se le fosse stata mostrata una realtà del tutto nuova, ma così
forte, così coinvolgente, così estenuante, che qualunque cosa le sia successa
prima di Jonathan, adesso per lei ha la stessa rilevanza di una storia che forse
ha sentito per radio, e che ricorda a malapena.
Il suo mondo è lì, è il presente. Il suo mondo è Jonathan. Tutto il resto
non conta un bel niente.
Naturalmente si accorge di quanto la cosa sia difficile da sopportare per
Tony; lo vede che si sente tagliato fuori. Ma ritiene che se lui non prova lo
stesso legame viscerale di responsabilità che prova lei, se non riesce a
superare la sua infantile gelosia, allora non c’è molto che lei possa fare. E lo
stesso vale per Minnie.
Il fatto che Tony si stia allontanando, che magari lei lo stia respingendo,
e addirittura che lui potrebbe lasciarli, la preoccupa, a grandi linee, quanto
uno si preoccupa di qualcosa che si è dimenticato di aggiungere alla lista
della spesa. Ogni tanto ripensa alla sua infanzia tristissima senza un padre e
capisce, a livello razionale, che sarebbe una catastrofe, e che probabilmente
dovrebbe comportarsi in modo diverso. Ma nemmeno quelle immagini
cariche di ansia riescono a fare presa nel mare in tempesta dei suoi ormoni.
È come se nel terreno fertile della sua mente, dove i ragionamenti
possono mettere radici, non fosse rimasto un solo spazio libero. È tutto
occupato. Per adesso, anche se è inspiegabile, il mondo esterno non esiste. Ci
sono solo Barbara e Jonathan, Jonathan e Barbara.
A volte l’amore per lui la consuma e a volte è la paura a consumarla, ma
tutto il resto, e tutti gli altri, dovranno solo aspettare che le cose rientrino
nella normalità.
2012 — TRAFALGAR SQUARE, LONDRA
Sophie solleva le borse della spesa e le mette sul piano della cucina,
facendo un sospiro pesante. Brett compare sulla porta dietro di lei e sembra,
per qualche ragione, compiaciuto. Si stiracchia le braccia, si appoggia allo
stipite, e le sorride. «Cibo» dice. «Ottimo! Sto morendo di fame.»
Sophie lo guarda con la coda dell’occhio, solleva un sopracciglio e
comincia a tirare fuori la spesa. Quando Brett si avvicina e sbircia dentro uno
dei sacchetti, gli dà uno schiaffo sulla mano.
«Che donna autoritaria» dice Brett. «Mi piace.»
«A me no» farfuglia Sophie, aprendo una confezione di yogurt prima di
metterli in frigo.
«Ho fatto qualcosa di male, mia padrona?» dice Brett, e in quel
momento è una risposta così sbagliata, ma così sbagliata, che a Sophie viene
da chiedersi se Brett non la conosca neanche un po’.
«Tu…» Si ferma e sospira. «Potresti darmi una mano seriamente»
continua, dopo aver ripreso il controllo della voce. «E potresti perfino fare la
spesa ogni tanto, invece di aspettare a casa con la lingua penzoloni come un
cucciolo maleducato.»
«Ehm» dice Brett, iniziando a tirare fuori a caso la roba dai sacchetti e a
piazzarla in un modo ancora meno utile sul bancone. «Qualcuno è di cattivo
umore.»
«No» dice Sophie. «Qualcuno non lo è.»
«Se vuoi posso portarti a cena fuori» propone Brett. «Ma fare la spesa
non è proprio una cosa che mi appartiene.»
Sophie si ferma, con un tubetto di dentifricio in mano. «Non ti
appartiene?»
Brett scuote la tesa con fare sconsolato.
«E che mi dici delle pulizie?» chiede Sophie, puntandogli contro il
dentifricio. «Fare le pulizie ti appartiene?»
«No, non direi. Immagino sia per questo che ho la donna delle pulizie.»
«Certo» dice Sophie. «Io invece non ce l’ho. Quindi se ogni tanto
potessi raccogliere le cose che lasci in giro, sarebbe grandioso.»
«Sì, mia padrona» dice Brett.
«E smettila con questa stronzata della mia padrona, d’accordo?»
«Sì, mia padrona» la sfotte Brett.
Sophie grugnisce e scuote la testa per la disperazione. Quando Brett
allunga con delicatezza una mano e gliela appoggia sulla spalla, lei si scosta
per farla cadere.
«Hai avuto una brutta giornata, tesoro?» le chiede Brett, con un tono più
sincero.
«Sì, Brett. Ho avuto una brutta giornata.»
«Alla National Gallery?»
«È stato tremendo. Solo a pensarci mi sento male.»
«Okay…» dice Brett, mettendosi sulla difensiva, con le braccia
incrociate. Quando si ritrova a fronteggiare uno dei suoi malumori, Brett
passa velocemente da uno stato di preoccupazione, a uno di compassione a
uno d’irritazione. Le braccia incrociate indicano la fase intermedia. «Allora,
potrei portarti fuori a cena così mi racconti tutto» propone.
«Non ho nessuna voglia di parlarne» gli dice Sophie. «E non mi va
nemmeno di uscire a cena.»
«Vuoi che me ne vada?» le chiede Brett. «Si tratta di questo?»
Sophie scrolla le spalle e scuote la testa. «A dire la verità non lo so che
cosa voglio in questo momento» ammette.
«Che ne dici di un abbraccio?» le chiede, assumendo una posizione più
rilassata mentre si gratta l’orecchio. «A volte un abbraccio può servire in
momenti come questi.»
E siccome Sophie capisce dal suo tono di voce che questa è l’ultima
occasione che ha prima che lui perda le staffe e le dica qualcosa del tipo Be’,
se devi fare così, allora vaffanculo, cosa che lei proprio non vuole, fa un
passo indietro. «Okay» dice. «Proviamo con un abbraccio.»
Barbara sta spalmando il burro sul pane con movimenti lenti, metodici.
Sophie e Tony dormono ancora, e Jonathan sta facendo colazione in sala da
pranzo mentre legge un libro illustrato. Non si può certo dire che sia un
ragazzino chiassoso, ciononostante quei momenti di pace sono rari e preziosi,
piccole oasi tra le grida e la confusione di una casa con dei bambini. Nel
mezzo del turbinio emotivo che sta attraversando la sua vita, ha bisogno di
questi momenti di silenzio tanto quanto dell’aria che respira.
«Cosa stai preparando?» È la voce di Tony e quando Barbara alza lo
sguardo lo vede sulla porta con l’aria assonnata. Il suo momento è finito.
«Panini!» dice. «Hai fame, tesoro?» Aggiunge tesoro per addolcire la
frase. Teme di avere usato un tono duro.
Tony scuote la testa. «No, non proprio» risponde. «Non ancora. Allora,
come mai stai facendo dei panini?»
Barbara smette di spalmare il burro, mette giù il coltello, e si volta verso
suo marito. Ha notato qualcosa di finto nella sua voce e vuole prendersi un
momento per capire cosa significa. «Lo sai perché li sto facendo» dice.
«Sono per Hyde Park. Per quel festival.»
«Sì» dice Tony, continuando ad avere un tono fasullo. «Sì, riguardo a
questo… Credo che ci andrò da solo.»
«Cosa?» gli chiede Barbara, poi: «Perché?».
Tony arriccia il naso. «Non sono sicuro che sia un posto adatto ai
bambini» dice.
Barbara fa una risatina. «Tony, sono Mary Whitehouse e Cliff Richard!
Quanto può essere pericoloso?»
Jonathan è appena arrivato dalla sala da pranzo, e sta sbirciando da
dietro le gambe del padre. «Ciao papà» dice, e Tony si abbassa per
appoggiare la grossa mano sul suo casco di capelli biondi. «A che ora
usciamo?»
«Io… ne stavamo giusto parlando» gli dice Barbara. «Vai a finire di
fare colazione e poi…»
«Ho già finito.»
«Allora va a giocare un po’. Vengo a chiamarti io quando avremo
deciso.»
Jonathan se ne va con un’espressione dubbiosa, ma non aggiunge altro.
«Come ti stavo dicendo» dice Barbara. «Sono Mary Whit…»
«Lo so che in teoria seguono i precetti del cristianesimo eccetera
eccetera» la interrompe Tony. «Ma in realtà non sono così buoni. Ci sono un
sacco di persone che a loro non piacciono, e un sacco di persone a cui loro
non piacciono. Potrebbero esserci dei cortei. Le cose potrebbero mettersi
male.»
Barbara sospira e lascia cadere le spalle. È da quando è nata Sophie che
è tesa come una corda di violino, e la situazione non ha fatto che peggiorare
da quando sua madre si è ammalata. Non ha le energie necessarie per
occuparsi dei (frequenti) cambi di programma di Tony. «Allora possiamo fare
qualcos’altro tutti insieme, per favore?» gli chiede. «Possiamo semplicemente
andare da qualche parte come una famiglia? Ho preparato il picnic e via
discorrendo.»
«Senti» dice Tony. «Perché non porti i ragazzi al parco? Non a Hyde
Park, ovviamente, ma in un altro parco. Io vado a fare qualche foto e poi vi
raggiungo?»
«Un giorno a settimana, Tony» dice Barbara. «Ti vediamo un giorno a
settimana.»
«Lo so. È per questo che mi toglierò questa cosa dalle scatole in fretta e
correrò da voi.»
Barbara fa un sospiro profondo, un sospiro di resa. Non ha proprio le
forze per discutere. «Dove?» gli chiede. «Quando?»
«Che ne dici di Hackney Marshes? Vicino a quella specie di chiosco.»
«Va bene. A mezzogiorno?»
«Facciamo alle tre?»
Barbara dà un’occhiata all’orologio della cucina. Non sono neanche le
nove.
«Devo andare in centro e tornare indietro» la prega Tony. «E ho
bisogno di tempo per fare le foto. È un grosso evento.»
«E io devo essere in ospedale per le cinque. Questo lo sai.»
«Alle due, allora. Alle due va bene?»
Barbara scuote la testa piano, come se cercasse di togliersi di dosso il
malumore, di rimuovere il seme di una brutta giornata, che sta già mettendo
le radici prima delle nove. «D’accordo» dice. «Però non fare tardi, okay?»
Tony mangia una fetta di pane tostato e butta giù una tazza di tè, poi
(Barbara sospetta che sia più per starle alla larga che altro) si precipita fuori
di casa in tempi record. Nell’istante in cui si chiude la porta alle spalle,
Jonathan ricompare. «Papà è uscito!» dice.
«Lo so.»
«Pensavo che andavamo con lui» si lamenta. «Pensavo che andavamo al
parco.» Anche Jonathan si è accorto che Tony cambia spesso programma e
non gli piace più di quanto non piaccia a Barbara.
«Che andassimo al parco» lo corregge. «Prima ha un po’ di lavoro da
fare. Perciò ci raggiungerà a Hackney Marshes.»
Jonathan mette il muso. «Io odio Hackney Marshes» dice.
«Non è vero! Ti piace. Possiamo guardare la gente che gioca a pallone.»
«Io voglio andare a Hyde Park» dice, incaponitosi.
«Lo so. Ma oggi andremo a Hackney Marshes.»
«Ma andiamo sempre a Hackney Marshes. Non andiamo mai a Hyde
Park.»
«Lo so, ma…»
«Io voglio andare a Hyde Park» brontola, spingendo in fuori il labbro
inferiore.
«Anch’io!» sbotta Barbara, con la voce che le trema mentre perde il
controllo. «Ma non andremo a Hyde Park, porca miseria, andremo a Hackney
Marshes. Perciò vai a vestirti! Gesù!»
Jonathan la fulmina con gli occhi, è uno sguardo pieno di odio; poi si
volta e scappa via. Barbara, che si sta già pentendo di aver perso la calma, si
lascia cadere su una sedia davanti al tavolo giallo in formica e si copre gli
occhi con il palmo delle mani. «Sono così stanca» dice tra sé e sé.
Fissa il vuoto per un attimo, poi pensa: Tony non verrà a Hackney
Marshes. Ovvio che non verrà. Non verrà affatto.
Scuote di nuovo la testa, poi mormorando: «Che vada al diavolo» si
alza. Si volta verso la porta e grida: «Jonathan? Jonathan?!» Nessuna
risposta. Avrà messo il muso. I musi lunghi sono una sua specialità. È tale e
quale a lei. «Jonathan» grida di nuovo. «Che ne dici di Finsbury Park?»
Jonathan, ancora scuro in volto ma pronto a farsi convincere, spunta da
dietro la porta della camera da letto. «Finsbury Park?» dice. «Perché non
Hyde Park?»
«Si chiama compromesso» dice Barbara.
«Ma se andiamo a Finsbury Park» dice Jonathan, entrando nello spirito
della negoziazione «posso portare la mia barca?»
«Sì. A patto che la porti tu fino a lì e poi la riporti tu indietro, puoi
prendere la tua barca.»
«Okay, allora» dice Jonathan. Poi: «Mamma?».
«Sì?»
«Sophie puzza tanto. Mi sa che ha fatto la cacca.»
Tony quella sera non torna a casa, e non c’è nemmeno la mattina
seguente quando Barbara esce per accompagnare Jonathan a scuola. Al suo
rientro, il telefono installato di recente sta squillando, e lei armeggia con le
chiavi per aprire la porta in tempo. All’altro capo della linea c’è il Mirror.
«Mi dispiace tantissimo» dice al capo di Tony. «Ha vomitato tutta la
notte. Credo sia un’influenza intestinale. Stavo giusto per chiamarla.»
Ha appena riagganciato quando lui compare in ingresso conciato come
un vagabondo e puzzolente di birra.
«Dove diavolo sei stato?» gli chiede, fuori di sé dalla preoccupazione
più che dalla rabbia.
«Sì ma… non…» dice Tony, sollevando a mezz’aria la mano per farle
segno di non parlare.
Poi si dirige verso il bagno e lei si sposta per lasciarlo passare, e quando
torna si sposta di nuovo. Si ferma davanti a lei. Ha le pupille dilatate, le
palpebre pesanti. Sembra mezzo morto. Barbara lo guarda corrucciata.
«Io…» dice.
«Sì?»
«Senti, io…»
«Sì?» chiede Barbara, sforzandosi di non usare un tono arrabbiato. «Tu
cosa?»
«Non lo so. Credo di voler solo dire…»
«Sì?»
Tony chiude gli occhi, poi barcolla e deve appoggiare un braccio al
muro per recuperare l’equilibrio. Gli viene il singhiozzo. «Grazie» dice alla
fine. «Solo questo.»
«Grazie? Per cosa?»
«Perché ti sforzi sempre di capire» biascica. «Io non ti merito.»
Barbara gli lancia un’occhiataccia. «Ma io non capisco. Non capisco
proprio.»
Tony traballa per un attimo e poi, agitando la mano come per scacciare
una mosca, si gira e si avvia a passo incerto verso la camera da letto. «Allora
lascia perdere» le dice, da dietro la spalla.
Dopo che la porta della camera si è richiusa dietro di lui, Barbara
rimane in piedi a fissare il corridoio vuoto. «Sì, mamma» dice piano. «Sì, è
andato tutto benissimo.»
Barbara torna più in fretta che può in salotto con la ciotola fumante di
stufato per Tony. Nel frattempo lui ha avvicinato una poltrona al camino e si
sta scaldando le mani sopra le fiamme.
«Ti verranno i geloni» lo avverte.
«Non me ne importa proprio niente» risponde Tony, mentre prende lo
stufato. «Ah, fantastico. Grazie.»
Barbara trascina il pouf arancione in vinile accanto al fuoco, lasciando
giusto la distanza necessaria per evitare che si squagli poi, curiosa, dice:
«Allora? Qual è questa notizia?».
«È una buona notizia, Babs» le dice Tony. «Anzi, fenomenale. È
esattamente quello che stavamo aspettando.»
Nella loro vita hanno stretto i denti e aspettato così tante cose. Più soldi,
un appartamento più grande, il primo figlio, e poi una sorellina per lui. Ma
anche se più si ha meglio si sta, Barbara non riesce proprio a immaginare
quale sia nello specifico quella cosa che stanno aspettando adesso.
«Ho un nuovo lavoro» dice Tony, soffiando su un cucchiaiata di stufato.
«Inizio dopo Natale.»
«Ah sì?»
«Farò parte dello staff dei fotografi» continua Tony, tra un boccone e
l’altro. «Ho finito di consegnare pacchi!»
«Sul serio?!»
«Sì. Allora, cosa mi dici, eh?»
Barbara scuote la testa. «Sono strabiliata. È una notizia splendida.»
«Sono stati così contenti delle mie foto quest’anno, che vogliono che mi
ci dedichi a tempo pieno.»
Barbara vorrebbe chiedergli se viaggerà di meno. Vorrebbe anche
chiedergli se guadagnerà di più. Ma sa che quelle sembrerebbero domande
interessate, inopportune. E poi c’è un’altra cosa che la preoccupa, e le serve
un attimo per capire come dirla senza turbarlo. «Allora, quali sono le foto che
gli sono piaciute così tanto?» gli chiede alla fine.
«Ehm, sai… quelle del Festival of Light, a Hyde Park» dice Tony. «E
delle mamme fuori dalla scuola che mostrano le dieci dita per la storia della
decimalizzazione. Dei bambini con le bottiglie di latte vuote con lo slogan
Margaret Thatcher, ladra di latte. Oh, e quelle dello sciopero delle poste.
Non l’hanno detto in modo esplicito, ma credo che più che altro siano queste.
Sono le foto per cui continuavano a darmi pacche sulle spalle.»
Barbara porta a termine il ragionamento nella sua mente e poi,
nonostante la conclusione preoccupante a cui giunge, si sforza di fare un bel
sorriso. «Comunque, è un’ottima notizia» dice, sussultando per aver usato la
parola comunque; una dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, che alcuni
dubbi sono rimasti inespressi.
Per fortuna Tony non ci ha fatto caso, perciò non chiede a Barbara cosa
volesse dire con quel comunque. E così Barbara se la cava senza dover
sottolineare quello che lui di sicuro già sa: che le foto del festival le ha
scattate Diane con il suo nuovo zoom ultrapotente della Nikon. Che le foto
dei bambini con le bottiglie di latte vuote erano, in verità, di Phil (che non era
riuscito a venderle al suo giornale). E che, se le foto della decimalizzazione e
dello sciopero delle poste le aveva fatte lui, l’idea dell’allestimento, in
entrambi i casi, ce l’aveva avuta lei.
Ma non è questo il momento di sottolinearlo. Non è proprio il
momento.
2012 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
«Come possiamo notare guardando solo alcune delle sue fotografie, lei
ha un eccezionale senso della composizione. È una cosa che ha imparato nel
corso dei suoi studi o è un talento naturale che ha sviluppato?»
«Ma certo. Be’, una cosa su cui ci troviamo tutti d’accordo è che
adoriamo le sue meravigliose foto. Quindi, congratulazione per il suo
premio.»
«Grazie.»
«Ora, molto tempo prima del movimento punk, un altro evento musicale
conquistò Londra. Beatlemania. Un nuovo musical che debutterà nel West
End la settimana prossima…»
«Puoi fermarlo adesso» dice Tony. «Non c’è altro. A quel punto una
ragazza mi ha trascinato fuori dallo studio.»
Dave preme il tasto.
«Cosa ne pensate?» chiede Tony. «Me la sono cavata?»
«Sei stato eccezionale» dice Malcolm. «Il perfetto antieroe. Un uomo
del popolo! Ti ameranno.»
Dalla camera da letto, Barbara ascolta i rumori della festa. Una parte di
lei è pentita di aver battuto in ritirata, pensa che sarebbe dovuta rimanere e
impedirgli di trattarla così. Ma non si può vincere con un ubriacone. Mai.
Cos’è che le diceva sempre sua madre? Non lottare con i maiali. Vi
sporcherete di merda entrambi, ma l’unico a divertirsi sarà lui. Un maiale.
Ecco cosa diventa quando beve. Un maiale. E sì, in questi momenti lo odia
davvero.
Guarda il suo vestito colorato appeso alla maniglia dell’armadio e
decide che non lo indosserà mai più. Quel vestito è molto più che un vestito.
È il simbolo di un suo tentativo di cambiare, di compiacere, di essere
accettata nel nuovo mondo di Tony.
Indossandolo, si era immaginata di apparire e di sentirsi sofisticata. Di
mescolarsi tra quelle persone senza imbarazzo, magari di discutere del
programma televisivo o delle fotografie di Tony o, perché no, perfino delle
tecniche da usare nella camera oscura.
Ma stasera ha capito che, nonostante Tony stia riuscendo a inserirsi in
un mondo diverso, questo non basta ad appagare il suo ego. Ha bisogno di
lasciarsi lei alle spalle come fosse una tacca, come qualcosa che può indicare
e dire: «Guarda quanta strada ho fatto!».
L’arte, simile a un’amante diabolica, le sta rubando il marito. Ma alla
pari di tutti gli uomini che hanno un’amante, anche lui ha bisogno di una
moglie da cui tornare a casa. Perché senza una moglie, che gusto c’è ad avere
un’amante?
Sente il tonfo di qualcuno che sbatte contro la parete e si guarda intorno
con fare nervoso, come se qualcuno potesse attraversare il muro, entrare
dritto nella sua mente e scoprire i suoi pensieri da traditrice.
Chiude gli occhi. Le gira tutto, perciò li riapre e si concentra sul
lampadario che pende sopra di lei.
Si ricorda di quanto fossero piccoli i suoi sogni, quanto semplici e
pragmatiche le sue ambizioni. È venuta dal nulla, dal niente, da letti condivisi
e bagni esterni, dalle bombe e dalla fame… E da lì, aveva sognato poco più di
una casa comoda e un uomo gentile, affidabile, al suo fianco. Non desiderava
molto da quest’uomo, solo uno stipendio fisso, dei silenzi senza imbarazzo,
un senso di relativa protezione. E non desiderava molto nemmeno dalla vita:
un po’ di soldi per pagare le bollette, qualche provvista nella dispensa; e
magari, se fosse stata fortunata, l’acqua calda a casa. Erano queste le cose a
cui aspiravano le ragazze della sua generazione che crescevano nell’East End.
Voleva fuggire dalla povertà oppressiva della sua infanzia, soltanto
questo. Voleva crescere dei figli che non conoscessero mai la fame, che
potessero lavarsi o cambiare i vestiti ogni volta che ne avevano bisogno.
Con il loro stereo e il frigorifero pieno, hanno molto più di quanto lei
abbia mai sognato. Ma per qualche ragione che le sfugge, hanno anche molto
meno.
2013 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
Barbara si siede sul bordo del letto scricchiolante e si infila gli stivali.
Fuori soffia un vento forte, e il tappeto sotto ai suoi piedi si solleva e sbatte
contro il pavimento ogni volta che una folata colpisce la casa. Sembra un
tappeto magico che cerca di decollare.
È stato grazie al regalo d’addio di Minnie, un’assicurazione segreta
sulla vita, che hanno potuto versare l’anticipo per quel posto. Non c’è dubbio
che quell’acquisto, una casa tutta loro, fosse la cosa giusta da fare.
Concordavano tutti che dovevano smettere di pagare l’affitto, che dovevano
cominciare a “muovere i primi passi nel mercato immobiliare”. Ma con un
tasso del diciassette per cento sul mutuo, adesso devono davvero tirare la
cinghia, e anche se i ragazzi hanno finalmente ognuno la propria stanza, la
loro situazione finanziaria è tornata quella di quasi quindici anni prima.
Tira su la cerniera del secondo stivale, poi si alza e si guarda allo
specchio, che si è rotto durante il trasloco. Per fortuna lei non è superstiziosa.
Ha un bell’aspetto. Con questo vento avrà freddo, ma una volta arrivati lì
starà bene. Sì, aveva giurato a se stessa che non avrebbe mai più indossato
quel vestito, ma in questo periodo c’è da pensare alle scarpe per i ragazzi, al
silicone per le finestre, al pesce per la cena, o… la lista continua. E i soldi che
entrano non bastano per la metà di queste cose. Un vestito nuovo non è
nemmeno sulla lista.
Stasera accompagnerà Tony a una esposizione privata dei lavori del suo
amico Malcolm. Barbara è stata a molti di questi eventi, e sa cosa aspettarsi.
Ci saranno pittrici intelligenti con pettinature eccentriche e uomini seri, dai
fisici asciutti, che hanno frequentato scuole prestigiose e che, per ragioni
inspiegabili, nel bel mezzo di una frase si fermano per interi secondi, e poi
all’improvviso ricominciano a parlare come un fiume in piena. «E Bar-ba-ra»
le dicono, in modo freddo. «Raccontami (pausa) qualcosa di te. Raccontami
(pausa) come trascorri le tue giornate nella favolosa Londra.»
Lei ha fatto di tutto per non partecipare a questo evento (tranne fingersi
malata, una scusa di cui ha abusato ultimamente) ma Tony continua a
insistere che è importante, che la gente si aspetta che lei ci sia. E poi
dovrebbe essere la loro ultima occasione per vedere Diane.
Sospira, si sistema il vestito (le va un po’ più stretto dell’ultima volta
che lo ha indossato), e poi abbandona la relativa comodità del tappeto per
attraversare le ruvide assi di legno.
Arrivata in corridoio si ferma ad ascoltare i rumori della nuova casa, il
fischio nelle grondaie, uno scricchiolio in soffitta, la televisione al piano di
sotto. Ha un déjà vu, è in un corridoio in cima a delle scale di una casa
diversa, ma pur sforzandosi, in quel momento non riesce a mettere a fuoco
quel ricordo. Per istinto, si volta verso il punto sulla parete dove dovrebbe
esserci la foto. Una foto del matrimonio reale. Oddio, quanto tempo è
passato. Come volano gli anni!
Fa un respiro profondo. Può farcela. Inizia a scendere le scale.
Quando entra in soggiorno, Tony e i ragazzi stanno guardando Grange
Hill, una serie televisiva in cui degli studentelli spregevoli si maltrattano a
vicenda. Non riesce a capire quale sia l’attrattiva. Tony è il primo ad alzare lo
sguardo verso di lei. «Ah, eccola!» dice. «Visto, sei ancora splendida con
quel vestito.»
Barbara accenna un sorriso nell’istante in cui Sophie, sentendo il
commento del padre, stacca anche lei gli occhi dallo schermo. «Oh, caspita!»
dice, ingenuamente. «È il tuo vestito da ballo!»
Barbara sorride e al contempo aggrotta le sopracciglia. Non sa a cosa si
riferisca. «Vestito da ballo?» ripete, e prima ancora di arrivare a capire perché
lo abbia chiamato così, sente una morsa di terrore stringerle il petto.
Sophie annuisce con entusiasmo. «Sì, quello è il tuo vestito speciale.
Per fare la danza degli Zulu. Ahi!» Jonathan le ha dato una sberla sulla testa.
«Che c’è? Cos’ho fatto?» gli chiede.
«Già!» dice Tony. «Perché hai colpito tua sorella in quel modo?»
Barbara si volta e si dirige, per abitudine, in cucina. C’è qualcosa nelle
superfici fredde delle cucine che in momenti come quello la rassicurano, ma
questa non è la sua cucina, questa cucina è misera e triste, è l’ambiente che
più di tutti necessita di lavori. Osserva la vernice che si stacca, il lavello in
pietra scheggiato, e poi va in sala da pranzo, ma la situazione non è molto
migliore.
La danza degli Zulu! Com’è possibile che Sophie se la ricordi? Si sente
infelice, anzi no, terribilmente, totalmente depressa, come se all’improvviso
fosse stata privata di qualunque stato d’animo, eccezion fatta per la
disperazione. Le sembra che niente giunga mai a conclusione; che non si
ottenga mai niente, non in maniera definitiva. E che nessun imbarazzo venga
mai dimenticato. È tutto un nuotare controcorrente, un annaspare e
combattere per tirarsi fuori dal fango, e per di più inutilmente. Ci si ritrova
sempre al punto di partenza. Lei è (e sarà sempre) la Barbara ignorante
dell’East End, che vive in una casa piena di spifferi, squallida, e che indossa
stupidi vestiti fatti con una tenda.
Le gira la testa. Forse si è dimenticata di respirare. Le succede. Si siede
al tavolo da pranzo e cerca di abbassare la cerniera degli stivali. Per qualche
ragione, ha come la sensazione che la stiano strangolando. Deve toglierseli, e
in fretta. Dopo averli lanciati via, torna in camera da letto senza fare rumore,
si chiude a chiave e si sdraia sul letto.
Presto arriverà Tony. Picchierà sulla porta per un po’. Prima si
preoccuperà, poi sarà dispiaciuto, e dopo averla pregata di aprire, si
arrabbierà.
E alla fine se ne andrà, da solo.
La punirà passando la notte fuori. E a lei va più che bene. Che vada da
solo a quella maledetta festa. E che ci rimanga per sempre, se è necessario.
Dopo che i colpi alla porta della camera si sono fermati, e che quella
d’ingresso si è richiusa con un tonfo, Barbara si cambia e torna al piano di
sotto. L’unica cosa che vorrebbe è dormire, ma capisce, dai rumori in
soggiorno, che i ragazzi non sono andati da Anne come previsto, perciò deve
andare a preparargli la cena.
Li trova entrambi incollati, come sempre, alla televisione. «È venuta
Anne» le dice Jonathan. «Era preoccupata perché non ci ha visto arrivare.
Voleva venire su da te ma io le ho detto che stavi dormendo.»
«Grazie» dice Barbara. «È proprio quello che stavo facendo, in effetti.»
«È colpa mia se non sei uscita?» le chiede Sophie. «Jon dice di sì.»
«No, tesoro. Tu non hai colpa di niente. Non mi sentivo tanto bene, tutto
qui. Adesso vi preparo qualcosa e poi voglio che spegniate la tv, d’accordo?»
«Ma c’è The Good Life» protesta Sophie.
«Tanto sono le puntate vecchie. Le avete già viste tutte.»
«Ma è la mia preferita, mamma.»
«Va bene, quando finisce The Good Life, allora.»
Prepara una frittata per i ragazzi (lei non ha fame) e contrariamente al
solito, li lascia cenare davanti alla televisione. Stasera non ha le forze per
combattere futili battaglie.
Si stanno per avventare sul piatto quando qualcuno bussa alla porta.
Alzano tutti lo sguardo. «Forse è Anne?» suggerisce Jonathan.
Barbara scrolla le spalle. «Restate qui. Mangiate» dice. «Vado io.»
Mentre si alza, si sente di nuovo bussare. Si morde il labbro con fare nervoso.
È impossibile che Tony sia già così ubriaco da non trovare le chiavi, no?
Va in corridoio e si chiude la porta del soggiorno alle spalle. Arrivata
all’ingresso vede che fuori, al di là del vetro smerigliato, c’è la sagoma di una
persona, ma è troppo bassa per essere Tony. «Chi è?» dice, riluttante ad
aprire. Non si sa mai cosa può succedere quando si apre la porta di casa con
troppa fretta.
Le risponde una voce che sembra disperata; una voce di donna. «Tony?
Tony?»
Barbara apre la porta e si trova davanti Diane, con il braccio proteso,
pronta a bussare di nuovo. Le folate di vento la fanno ondeggiare, poi
barcolla all’indietro e si appoggia al muro per recuperare l’equilibrio.
Ha i capelli davanti agli occhi, ma recuperare l’equilibrio e tirarsi
indietro i capelli, ubriaca com’è, richiede troppo impegno. Si sposta di lato e
va a sbattere con il fianco contro un vaso che comincia a dondolare, ma lei lo
ferma con la mano incerta. «Tony è in casa? Oh! Barbara!» dice. «Tony c’è?
Doveva darmi un passaggio.»
Barbara fa un passo verso di lei e annusa l’aria. La gente dice che
l’odore di vodka non si sente, ma non è vero, lei riesce a sentirlo da lì.
«Diane!» dice. «Guarda in che stato sei! Cos’è successo?»
Diane, che all’improvviso si rende parzialmente conto della situazione,
cerca di dimostrare di essere sobria mettendosi dritta, ma invece inciampa in
avanti e fa qualche passetto rapido prima di finire un’altra volta contro il
muro. A quel punto, scivola giù, finché non si ritrova, con suo stupore, per
terra. «Lui dov’è?» chiede di nuovo.
«Mamma? Tutto bene?» Jonathan l’ha seguita.
«Torna dentro. Stiamo tutti bene. E fai levare Sophie dalla finestra, per
favore» gli dice.
«Tony è uscito» dice a Diane, dopo che Jonathan ha annuito in silenzio
e ha obbedito. Solleva lo sguardo verso la strada. Un uomo che sta portando a
passeggio un cane le sta osservando. «Credo sia meglio entrare, Diane.»
Diane cerca di alzare gli occhi verso di lei, poi piega la testa all’ingiù e
si sposta i capelli. «No» farfuglia. «Io… io voglio Tony. C’è… c’è una cosa.
Stasera. Io dovrei essere lì. Devo andare a questa cosa. Tutti dobbiamo
andarci.»
Barbara si china per aiutarla, mentre lei sta ancora litigando con i
capelli, per sistemarseli dietro l’orecchio. «Gesù, Diane» dice. «Quanto hai
bevuto?»
«Non molto…» dice. «Un po’ di vodka. Credo. E del vino. Dov’è
Tony?»
Barbara sospira. «Te l’ho detto. È uscito. E non tornerà…» Lascia la
frase in sospeso. Perché Diane ha il mento appoggiato sul petto. Sembra che
si sia addormentata.
Barbara si gratta il sopracciglio, poi mormora: «Oh, signore» e cerca di
rimettere in piedi Diane. Ma è impossibile. È come cercare di sollevare un
blocco enorme di gelatina.
Non avendo altre opzioni, torna dentro e dalla porta del soggiorno fa
segno a Jonathan di raggiungerla. «Tu resta qui, Sophie. Guarda la tv. Stai
qui, ho detto!»
Dopo aver richiuso la porta, gli spiega a bassa voce la situazione. «Mi
dispiace tanto, ma è ubriaca marcia. Puoi aiutarmi a portarla di sopra? Non so
cos’altro fare.»
«Ma certo, mamma» dice, scrollando le spalle. Ha già visto gente
ubriaca. Sa come funziona.
Insieme riescono a rimetterla in piedi e poi, con un braccio di Diane
sulle spalle per uno, raggiungono, un passo alla volta, il piano superiore.
«Perché gli ubriachi sono così pesanti?» chiede Jonathan, dopo che
Diane si è accasciata sul letto, con un’eleganza sorprendente.
«Non lo so. Sarà il peso di tutta quella birra?»
Jonathan le rivolge un gran sorriso. Gli piace quando lui e sua madre si
scambiano quelle battutine. Lo fa sentire grande. Incrocia le braccia, poi
guarda Diane e arriccia il naso. «Io non mi ubriacherò mai.»
Tutt’a un tratto, Barbara si rende conto che suo figlio è diventato un
uomo. È qualcosa che ha a che fare con la sua postura. È così strano il modo
in cui si notano certe cose, come se il cambiamento fosse repentino e non
graduale. «Staremo a vedere» dice a bassa voce.
«Non lo farò.»
«Be’, meglio così. Ora, io devo restare un po’ qui, con Diane, per
assicurarmi che stia bene, d’accordo?»
Jonathan annuisce.
«Quindi puoi andare tu a tenere d’occhio Sophie per me?»
Annuisce di nuovo.
«E sii gentile con lei, capito? È tua sorella, e ha solo dieci anni. Mi
sembra che ogni tanto te lo dimentichi.»
Jonathan fa una smorfia, e di colpo è di nuovo un bambino. «Ehi, io
sono sempre gentile con lei. Anche se è una scema.»
Barbara lo guarda andare via, poi si volta verso Diane e vede che ha
vomitato un po’ sul cuscino. «Davvero, però, bella mia!» dice. «Guarda in
che stato sei!»
Va in bagno a prendere un asciugamano e torna in camera. Mentre le
pulisce la bocca, lei si mette a farfugliare. «Lasangeles» dice. Forse sta
sognando. «Los Angeles!» ripete, più chiaramente.
«Sì. Tra poco partirai. Tony me lo ha detto.»
«Sì, trapoco» dice Diane.
Poi chiude gli occhi per un attimo con la testa che le dondola, e quando
li riapre aggiunge: «Lui non vuole venire. Bastardo».
Barbara, che la sta ancora pulendo, si blocca di colpo. «Chi non vuole
venire?»
Diane quasi le sorride mentre cerca di metterla a fuoco. «A Los
Angeles.»
«Chi non vuole venire a Los Angeles?» Per quanto ne sappia lei, Diane
è single al momento.
«Ti voglio bene ma sei una stupida» le dice Diane. «Dovresti lasciarlo.»
Barbara si alza di scatto e fa un passo indietro, come qualcuno che si sta
allontanando da un serpente. Si copre la bocca con la mano tremante. Si
rende conto che in quel momento, in quel preciso istante, può lasciare che
quel dubbio che si è tenuta dentro per tanto tempo venga a galla. Può
chiederlo a Diane, adesso, se vuole. Nello stato in cui si trova, probabilmente
riuscirà perfino a farsi dare una risposta. Trema mentre esita.
«Dov’è Sophie?» le chiede Diane, con la voce di una bambina di cinque
anni. «Voglio vedere Sophie.»
Barbara scuote la testa. Non può farlo. Non può affrontare tutte le
conseguenze che comporterebbe, in un senso o nell’altro, scoprire la verità. E
comunque, cosa farebbe a quel punto? Lo lascerebbe perché non è stato
completamente suo? Sarebbe come chiudere un rubinetto perché l’acqua non
esce abbastanza in fretta per dissetarti. Si ritroverebbe senza niente, un’altra
volta. E cosa ci avrebbe guadagnato?
«Domani» le dice, con tono glaciale. «Puoi vederla domani, quando
sarai sobria. E poi puoi andartene a vivere in quella cavolo di Los Angeles.»
Dà le spalle al letto, ma poi si volta di nuovo verso Diane, che ha già
ricominciato a russare, con la bocca spalancata. La gente può morire se
vomita nel sonno. Barbara questo lo sa. Dovrebbe girarla su un fianco come
fa con Tony, per precauzione.
Osserva dall’esterno il suo corpo che resta fermo. Vede se stessa che
non la gira. Guarda la Barbara dal cuore di ghiaccio che esce dalla stanza e si
chiude la porta alle spalle.
Sono una persona orribile, pensa. Alza lo sguardo verso il cielo. «Sta a
te» dice. «Decidi tu.»
Tornata in soggiorno, in televisione stanno ancora trasmettendo The
Good Life. Le risate registrate riecheggiano nella stanza.
2013 — BERMONDSEY, LONDRA
Son trascorse diverse ore e sta iniziando a fare buio. Sono in soggiorno
e la nuova macchina fotografica è al centro dell’attenzione.
«Allora, devi premere qui» sta spiegando Sophie. «E puntare questo
coso al centro di quello che vuoi mettere a fuoco. E… vedi… è fatta.»
L’obiettivo indietreggia e avanza con un ronzio, e poi indietreggia di
nuovo prima di assestarsi e produrre un allegro suono acustico.
Tony borbotta e prende la macchina dalle mani della figlia. Se la mette
davanti all’occhio.
Barbara trattiene il respiro. Tony ha un vero problema con la tecnologia,
e quella piccola scenetta di idillio familiare potrebbe dissolversi in un soffio
se lui si arrabbiasse e si mettesse a fare i capricci come un bambino di due
anni. Potrebbe lanciare qualcosa. Rompere qualcosa.
Qualche mese prima erano andati a comprare una macchina nuova, una
Ford Sierra (o lo “stampo per budino”, come insisteva a chiamarla Jonathan).
Il Maggiolone, che ormai aveva quindici anni, stava facendo le bizze.
Il venditore, un uomo con un atteggiamento paternalistico, dopo aver
elencato a Tony (con lo sguardo perso nel vuoto) ogni genere di dettaglio
tecnico sull’auto, e a Barbara ogni genere di cose utili per le donne, come ad
esempio dove riporre la borsetta, gli aveva dato le chiavi per fare un giro di
prova.
Ma i comandi erano diversi da quelli del Maggiolone. Le frecce erano
dal lato “sbagliato” del volante. La retromarcia era nel posto “sbagliato”. E a
pochi metri dal piazzale davanti alla concessionaria, Tony aveva sterzato
bruscamente per immettersi nel traffico, rischiando di fare una strage, prima
di tornare dritto nel garage.
Barbara e Sophie avevano cercato, insieme, di convincerlo che doveva
solo prenderci la mano. A entrambe piaceva la Sierra. Erano tutte e due
stanche di quel Maggiolone inaffidabile e poco spazioso. Perciò avevano
provato a calmarlo. Ma alla fine, quando Barbara, nel tentativo di farlo
ragionare, si era rifiutata, solo per un secondo, di ridargli le chiavi del
Maggiolone, Tony se ne era andato via a piedi parlando da solo come un
pazzo.
«A volte credo che papà sia un po’ fuori di testa» si era azzardata a
commentare Sophie.
«Sì» aveva replicato Barbara, seria. «Anch’io.»
Due settimane dopo, un pacchetto della Pentax più piccolo e più piatto
giace da tre giorni sulla credenza quando Barbara decide, presa
dall’esasperazione, di aprirlo lei.
Dalla busta tira fuori una cartelletta, e dalla cartelletta, una pubblicità su
un foglio di carta fotografica lucida. All’interno c’è anche una lettera.
Sul foglio c’è stampata a tutta pagina una foto in bianco e nero di una
delle navi da guerra della task force in partenza per le Falklands. È davvero
bellissima, una delle migliori che Tony abbia mai fatto; con i militari che si
sbracciano per salutare, le donne in lacrime, i gabbiani che scendono in
picchiata e le bandiere che sventolano; racchiude un po’ tutti i pericoli e le
paure che aleggiano intorno alla nuova guerra della Thatcher.
Barbara è sorpresa. Dato che Tony non le aveva mostrato le foto del suo
viaggio a Portsmouth, lei aveva dedotto che le cose non fossero andate bene.
E quando lui aveva rimandato indietro la macchina fotografica alla Pentax,
accompagnata da una lettera sgarbata, aveva avuto la conferma che le sue
paure erano fondate. Ma questa è spettacolare. È fiera di lui.
Il testo pubblicitario nella parte alta dice: I fotografi migliori non
accetteranno di lavorare con nessun’altra fotocamera. E in fondo alla pagina
c’è un’immagine di Tony con in mano la Pentax ME-F, accompagnata da una
frase virgolettata che di sicuro Tony non ha mai detto. Con la Pentax ME-F
che pensa alla messa a fuoco e all’esposizione, io posso concentrarmi su
quello che faccio meglio: creare semplicemente immagini bellissime.
Barbara prende la lettera.
Gentile Anthony,
acclusa alla presente troverà la pubblicità di luglio della
ME-F, che, come lei ben sa, fa parte di una campagna
pubblicitaria su scala nazionale.
Le ribadisco inoltre, fatto di cui lei è già al corrente, che
nelle pellicole 35mm che ci ha fornito, le immagini erano,
senza eccezione, inutilizzabili, essendo sovraesposte o
sfocate, o in molti casi connotate da entrambi i difetti.
In seguito a un esame scrupoloso da parte dei nostri
tecnici, possiamo confermarle che non è stato riscontrato
nessun difetto nella ME-F che lei ci ha restituito, e
possiamo solo dedurre che quei problemi siano dovuti a un
uso errato della fotocamera da parte sua.
Se fosse interessato a ricevere una dimostrazione guidata
delle funzionalità della ME-F da parte di uno dei nostri
esperti, non esiti a contattarci.
Nel frattempo, per la pubblicità, abbiamo utilizzato una
delle immagini di una sua pellicola 120 scattata con la
Rolleiflex, e l’abbiamo ritagliata perché sembrasse fatta
con una fotocamera 35mm. Inutile dire che questo
espediente non deve essere reso pubblico per nessun
motivo.
Se questa è una soluzione provvisoria accettabile data
l’urgenza della situazione, sono obbligato a ricordarle che
il nostro contratto prevede espressamente che tutte le
fotografie forniteci debbano essere fatte con la ME-F. A
tal proposito gliene manderemo a breve un’altra verificata.
Il mancato rispetto dei termini contrattuali comporterà
l’annullamento dello stesso, inclusi a titolo esemplificativo
ma non limitativo tutte le successive pubblicazioni, tutti i
futuri pagamenti, la sua partecipazione al Pentax Summer
Show, e la cancellazione della mostra individuale
Pentax/Anthony Marsden in programma alla Hayward
Gallery.
Sono certo che troverà la motivazione necessaria per
risolvere le difficoltà riscontrate con l’eccellente
fotocamera ME-F, che è il nostro fiore all’occhiello.
Cordiali Saluti,
Yamada Kuzuyuki
2013 — BERMONDSEY, LONDRA
«Che cos’è che aveva da dirti quel tizio?» chiede Brett a Sophie, alla
prima occasione che ha di incrociarla.
«Ah!» dice Sophie. «Non me lo chiedere. Una storia sul fatto che mio
padre era un tipo sui generis.»
«Eh?»
«Oh, e a quanto pare la foto dei costruttori navali non è affatto di mio
padre.»
«Come scusa?»
«Phil sostiene di averla fatta lui. Dice che a volte si scambiavano le
foto.»
«Wow» dice Brett. «E quella è una delle sue foto più rappresentative.»
«Già. È pur vero che potrebbe anche aver sparato una cazzata. Dovrò
chiederlo a mia madre.»
«Certo» dice Brett. «Be’, eccola. Puoi chiederglielo adesso.»
Sophie si volta e vede Barbara entrare nella galleria. Dopo aver
ispezionato il suo vestito tira un sospiro di sollievo. Quello di sua madre è più
lungo e più formale e più accollato del suo. E ha anche molte meno perline. A
parte il fatto che è un abito nero da sera, non si assomigliano un granché.
«Mamma» dice, quando la raggiunge. «Grazie a Dio sei qui. Tutte
queste persone continuano a venire a salutarmi, e io non ho la più pallida idea
di chi siano.»
Barbara, che ha fatto poco più di un metro dalla porta prima di
bloccarsi, sembra pallida e agitata.
«Ciao, Soph» dice Jonathan.
«Ciao Jon. Niente Judy?»
«No, è rimasta a casa con Dylan. Avevamo preso accordi con una
babysitter, ma poi, al momento di lasciarlo non ce l’ha fatta.»
«E come sta Dylan?»
«Benissimo. È fantastico. E si fa sentire. Devi venire a conoscerlo.»
«Lo farò. Scusa. Con tutta questa faccenda non ho avuto un attimo di
tempo.»
«Ma certo. Be’, tanto adesso Judy non ha molta voglia di ricevere visite,
quindi non c’è fretta.»
«Sì, in effetti mi sembrava di averlo capito quando l’ho chiamata» dice
Sophie. «Questo vestito è splendido, mamma.»
Barbara annuisce a malapena. «Grazie. Anche il tuo.»
«Ti senti bene?»
Annuisce di nuovo. «Le foto sono, ehm, carine» dice a bassa voce.
«Be’, sono contenta.» Sophie aveva sperato in qualcosa di più di carine.
Lancia un’occhiata perplessa a Jonathan che sbatte piano le palpebre, un
gesto che significa, Dalle un momento e le passerà.
«Qualcosa da bere, mamma?» le chiede Jonathan.
Barbara armeggia con la chiusura della borsetta. «Direi proprio di sì.»
«Vino, spumante, o…»
«Vino bianco, per favore.»
Jonathan va a recuperare il vino, e così Sophie prende sua madre a
braccetto e la porta vicino alla prima immagine. «Allora, cosa ne pensi,
mamma?» le chiede. «Bella, no?»
«Sì» risponde Barbara, con tono distratto. Lancia un’occhiata alle sue
spalle. «Quello è Phil?»
«Sì. E l’altro è Malcolm.»
«Oddio» dice Barbara. «Quanto siamo vecchi.»
«Be’, con te il tempo è stato più clemente» dice Sophie. Ma in quel
momento si rende conto, non solo che non aveva pensato a quanto sarebbero
stati vecchi gli amici di suo padre, ma anche che si è rifiutata di notare quanto
stia invecchiando in fretta sua madre. Adesso lo vede. Vede quanto è piccola
e fragile Barbara. «Vuoi andare a presentarti? A parlargli, intendo.»
«Dammi un attimo per riprendere fiato, tesoro. Non è facile da
affrontare.»
«Ti riferisci alle foto? O alle persone?»
«Be’, a tutto.»
Sophie le stringe il braccio. «Okay. Tu resta qui e io vado a prenderti
quel bicchiere di vino» dice.
Al tavolo delle bevande, trova Jonathan intento a parlare con Brett.
«Come ben sai, Brett» sta dicendo Jonathan con tono seccato «non voglio
essere coinvolto.»
Brett si mette a ridere e giocherella con il papillon. «Ma non ti sto mica
intervistando» dice. «Sto solo facendo conversazione.»
«Che succede?» chiede Sophie, prendendo un bicchiere di vino per sua
madre. «Non starete litigando, vero?»
«L’idea che ha Brett di una conversazione somiglia in modo curioso alla
ricerca di uno scoop» dice Jonathan. «Le abitudini sono dure a morire, eh?»
Brett solleva le mani. «Ehi, gli stavo solo chiedendo come mai non ha
seguito le orme di famiglia. Non ho addosso un microfono o roba del
genere.»
Sophie scrolla le spalle. «Secondo me avresti potuto» dice a Jonathan.
«Facevi delle belle foto.»
Jonathan fa una smorfia come se quella fosse la cosa più ridicola che
abbia mai sentito in vita sua. «Quando mai» dice. «Non avevo occhio. Lo
sapevano tutti.»
«Questo non è del tutto vero. Ne ho trovata qualcuna delle tue mentre
frugavo tra quelle di papà. I tre bambini sul muro? Te la ricordi?»
Jonathan annuisce, ma sembra confuso.
«E quella del controllore sull’autobus, che fumava. Era tua, giusto?»
Jonathan annuisce di nuovo. «Certo, ma tu dicevi sempre che ero
negato.»
Sophie fa una smorfia e beve un sorso di vino, ma poi si ricorda che
quel bicchiere era per Barbara, perciò si sente in colpa e la cerca con lo
sguardo, ma vendola parlare con Phil, il senso di colpa diminuisce e ne beve
un altro sorso. «Davvero?» gli dice.
«Sì! Sempre. In continuazione. Ogni volta che facevo una foto.»
«Oh, mi dispiace. Si sarà trattato di rivalità tra fratelli. Probabilmente
volevo liberarmi della concorrenza.»
Jonathan ha un’aria esasperata; sembra che per lui quella discussione sia
importante. Sophie non riesce proprio a capirne il motivo. «Oh, andiamo,
Jon» dice, cercando di uscirne pulita. «Lo sai com’era. La mamma non
faceva che ripetere quanto tu fossi intelligente. Quanto fossi bravo a scuola.
Eri il preferito. Io volevo solo un po’ di… insomma…» Lancia un’occhiata a
Brett in cerca di soccorso.
«Attenzioni?» suggerisce, ma non le è d’aiuto.
«No! Intendevo…»
«Avere l’esclusiva?» propone.
«Sì, in un certo senso. Volevo un orticello tutto per me. Volevo che la
fotografia fosse una cosa mia e non tua. Solo questo.»
Jonathan sta fissando il bicchiere che ha in mano. Sembra sul punto di
piangere. Sophie incrocia di nuovo lo sguardo di Brett e dalla sua espressione
capisce che l’ha notato anche lui.
«Be’» dice Jonathan, sforzandosi di reagire. «Papà a me non lo ha mai
insegnato. L’ha insegnato a te. Quindi evidentemente pensava che tu fossi più
brava.»
«Non me lo ha insegnato» dice Sophie. «Ogni tanto mi trascinava con
lui. Ma non mi ricordo che mi abbia mai davvero insegnato qualcosa.»
«Non ne era capace.»
Si voltano e si ritrovano davanti Barbara. Lei allunga il braccio in
mezzo a loro per prendere un bicchiere di vino. «A quanto pare è self
service» farfuglia. «Grazie, a tutti e due.»
«Scusa. Ci siamo distratti a parlare» dice Jonathan. «A ogni modo, cosa
significa che non ne era capace? Certo che…»
«Oh, era un pessimo insegnante» lo interrompe Barbara.
«In effetti è vero » dice Sophie. «Si innervosiva nel giro di un secondo.»
«Ed era una frana con qualunque cosa di elettronico» dice Barbara.
«Motociclette, mangianastri, automobili…»
«Fotocamere» aggiunge Sophie.
«Oh, sì!» concorda Barbara.
«Gli ho fatto vedere io come usare la Pentax. Te lo ricordi, mamma?»
«Sì.»
«Dovevo avere, tipo, cinque anni.»
«Forse più tredici.»
«Sophie dice che io ero il tuo preferito. Ed è per questo che doveva
sempre avere papà tutto per sé» dice Jonathan.
«Il mio preferito?»
Annuisce.
«Non ho detto proprio così» protesta Sophie.
Barbara sorride. «Noi non avevamo preferenze» dice. «Vi amavamo
entrambi in egual misura.»
«A me non sembrava» dice Sophie. «Io cercavo sempre di essere
all’altezza di qualche miracolo che Jonathan era riuscito a compiere.»
«Ah!» dice Jonathan. «Quella intelligente eri tu. Sophie l’intelligente,
l’artista. La cocca di papà. Sei stata tu a ereditare tutto questo.» Indica
l’esposizione intorno a loro.
«Io questo non l’ho ereditato, Jonathan» dice Sophie, un po’ indignata.
«Mi sono adoperata per far sì che succedesse. E senza aiuto da parte tua.»
«Ragazzi!» esclama Barbara. «Smettetela! Vi amavamo entrambi.»
«Okay, forse» le concede Sophie. «Ma ammetti che ci amavate in modi
diversi. Ammetti che tu avevi un debole per Jon, e papà aveva…»
«Questo non è per niente vero. Amavamo entrambi Jonathan. E
abbiamo voluto disperatamente anche te. Avremmo passato… anzi, no,
abbiamo passato l’inferno per avere un altro figlio. E quando sei arrivata tu,
eravamo tutti e due così felici che abbiamo pianto. Abbiamo pianto sul
serio.»
Sophie scrolla le spalle. «Be’, sarà, ma non era così che sembrava.»
«Quello dipendeva da te» dice Barbara. «Perfino da piccola, niente era
mai abbastanza, vero Jon?»
Jonathan, che è perso nel mondo traumatico di una vita parallela, in cui
avrebbe potuto essere un fotografo, non sta ascoltando. «Cosa?» dice.
«E comunque, cosa vorresti dire con questo?» chiede Sophie. «Che
avete passato l’inferno? In che senso?»
Barbara scuote la testa con aria triste. «Voi ragazzi» dice. «Pensate che
sia tutto così semplice. Pensate che le cose succedano e basta.»
«Ehm, una gravidanza? Be’, sì, non è così complicato, mamma.»
«Ah no?» chiede Barbara, guardandosi intorno in cerca di una via di
fuga. «Oddio! Ma quella è Janet?»
«Sì» dice Brett. «Janet French, a quanto pare. Dice che Sophie si tuffò
nuda nel suo laghetto dei pesci.»
Barbara annuisce a quel ricordo. «È vero! È assolutamente vero. Oddio,
è Janet!» Si allontana. «Ciao, Janet!»
1983 — HACKNEY, LONDRA
Quando Tony torna a casa, con un’aria decisamente poco felice, l’odore
di lasagne al forno ha invaso la cucina. Appoggia la valigetta su una sedia e
sbatte una borsa per macchine fotografiche della Pentax sulla credenza, poi
va ad aprire il frigorifero. Tira fuori una lattina di birra.
«Ciao» dice Barbara, pulendosi le mani sul grembiule. «Allora, com’è
andata?»
«Tu come pensi che sia andata?» chiede Tony, togliendosi il cappotto.
«Non lo so» dice Barbara, impassibile.
«Tira a indovinare. Dai. Tira a indovinare» dice Tony.
Sophie alza la testa dal quaderno dei compiti. «Tu gli hai detto che non
ti piace la macchina e loro hanno detto che devi usarla, e tu hai detto che non
vuoi e l’hanno avuta vinta loro, ed è per questo che l’hai portata a casa» gli
dice. «Ho ragione?»
Mentre Sophie aspetta una risposta, Tony cerca di controllare la sua
rabbia e Barbara si prepara a mettersi al sicuro, cala il silenzio.
«Molto bene» dice Tony alla fine. «Almeno, se non riesci a diplomarti,
puoi prenderti una cavolo di bancarella sul molo di Eastbourne e guadagnarti
da vivere come indovina.»
Barbara si china per guardare nel forno e, sapendo che nessuno può
vederla, alza un sopracciglio. Solo Sophie può fare l’insolente con Tony o,
nel caso specifico, dirgli le cose come stanno, e passarla liscia. C’è qualcosa
nel suo modo di parlare, nel suo atteggiamento diretto, nello sguardo
ingenuo, per cui con lei non riesce proprio ad arrabbiarsi.
«E riguardo alla Francia?» gli chiede piano Barbara. «Ti hanno detto
niente?»
«Devo andare comunque anche in Francia, accidenti.»
«Be’, non fa niente» commenta Barbara. «La faremo diventare una
vacanza come avevamo detto. Sarà bellissimo. Ho sempre voluto andare
all’estero.»
«Io posso perfezionare il mio francese» dice Sophie. «Bonjour
Monsieur. Je voudrais le gelato s’il vous plaît. Non mi ricordo come si dice
gelato… Glass, o grass, o una cavolata così.»
«Sì» dice Tony, rovistando nella valigetta per evitare di guardarle negli
occhi. «A questo proposito. Temo che ci sia stato un cambio di programma.»
Barbara si mette i guanti da forno e si piega per tirare fuori le lasagne,
che le sembrano cotte a puntino.
«Quale cambio di programma?» chiede Sophie.
«Mi mandano con, ehm, un assistente» dice Tony, grattandosi
l’orecchio. «Una persona che mi aiuti con le questioni organizzative. Che
possa risolvere qualunque problema con la fotocamera.»
Barbara porta in tavola le lasagne. «Metti via i compiti adesso» dice a
Sophie. «Li finirai dopo.»
«Come, qualcuno viene con noi?» chiede Sophie, adombrandosi. «Ma
posso aiutarti io con la fotocamera. Lo sai che sono capace.»
«No, lui non viene con noi» dice Tony. «Viene con me. Purtroppo, a
quanto pare saremo solo noi due.»
«Ma scusa, e io e la mamma?»
Tony scrolla le spalle. «Mi dispiace» dice. «Ma è lavoro, tesoro.»
«Mamma?» dice Sophie.
Barbara ha come la sensazione che intorno a lei si stia alzando un muro
di vetro. Come se di colpo fosse separata da quello che sta succedendo in
cucina, isolata, quasi non fosse nemmeno lì, ma stesse osservando tutto
dall’alto.
«Mamma?» ripete Sophie. «Di’ qualcosa.»
Barbara prende il coltello più grande che trova e la paletta, poi si
riavvicina al tavolo. Guarda le lasagne, fumanti al punto giusto. Sembrano
uscite da un libro di cucina. Sembrano un’idea astratta di lasagne, proprio
come lei è l’idea astratta della moglie di un fotografo. Le pare un peccato
tagliarla, svelare tutta la confusione che c’è sotto il primo strato.
«Non stavo ascoltando» dice, ed è una bugia, eppure allo stesso tempo
non lo è. Perché anche se ha sentito le parole, in qualche modo sono rimaste
fuori dal muro di vetro.
«Papà dice che non andremo più in Francia con lui» dice Sophie. «Ci
andrà con un tizio che gli farà da assistente.»
Barbara annuisce. «Ah sì?» dice. «Allora adesso con chi ci vai?»
«Non lo so ancora» risponde Tony. «Non me l’hanno detto.»
«Quindi non sai se sarà un uomo.»
Gli occhi di Tony incrociano quelli di Barbara, poi lui distoglie lo
sguardo. Scrolla le spalle. «Mi dispiace tanto» dice. «Mi farò perdonare con
entrambe. Andremo da qualche altra parte al mio ritorno.»
Barbara passa un dito sulla lama del coltello. Osserva il pomo d’Adamo
di Tony alzarsi e abbassarsi e l’irritazione provocata dal rasoio intorno alla
gola. Sente il peso del coltello nella mano.
«Be’, in effetti è un peccato» dice, voltandosi e infilando la lama nelle
lasagne con un unico gesto, deciso. Guarda il rosso della salsa al ragù
riversarsi sul bianco della besciamella. «In effetti è un peccato» ripete.
2013 — BERMONDSEY, LONDRA
Dopo che il suo cuore ha ripreso una velocità normale, e che sente di
riuscire di nuovo a respirare, Barbara rientra. Sarà gentile e amichevole con
Diane. E poi chiederà a Jonathan di riportarla a casa.
Appena rimette piede dentro la galleria, vede che Sophie è con Diane,
anzi, vede che Sophie le cinge la vita con un braccio. L’immagine di loro due
insieme è semplicemente troppo da sopportare, perciò passa al piano
B. Camminando lungo le pareti della sala, raggiunge Jonathan. Lui sta
parlando con una bella donna, a quanto pare anche lei del Times, perciò
Barbara si piazza accanto a lui, e intanto finge, sentendosi un po’ sciocca, di
osservare una fotografia che ha fatto lei stessa.
Alla fine Jonathan presenta alla donna quella pazza invadente di sua
madre, e a quel punto lei (pensando probabilmente che essere presentata alla
suocera sia un po’ prematuro), grazie al cielo se ne va.
«Jon» dice Barbara, con tono pressante. «Puoi portarmi a casa, tesoro?
Non mi sento molto bene.»
«A casa?» dice Jonathan. «Non sono neanche le nove.»
«Lo so, ma non mi sento affatto bene.»
«Be’, d’accordo, mamma. Tra un po’» dice Jonathan. È abituato agli
allarmismi di sua madre. «Voglio solo chiacchierare con qualche altra
persona. C’è Diane. L’hai vista?» Indica dall’altra parte della sala e Diane,
che sta guardando proprio nella loro direzione, in quel momento si avvicina a
Sophie per sussurrarle qualcosa, e poi la lascia per andare da loro.
«Ciao, Barbara!» dice Diane.
«Ciao» risponde lei, con un entusiasmo palesemente inferiore. Si torna
al piano A, pensa. «Come stai?»
«Come mi vedi» dice Diane.
Jonathan, che per qualche inspiegabile ragione non si sente benaccetto,
tossisce e s’inventa una scusa. «Forse è meglio se, ehm, vado a socializzare»
dice in modo vago.
«Sono così felice di vederti, Barbara» dice Diane.
«Grazie.»
«È una splendida esposizione.»
«Grazie.»
«Sophie ha fatto un lavoro incredibile.»
«Sì. È vero.»
«C’è qualcosa che non va, Barbara?»
C’è qualcosa che non va? Barbara ripete quelle parole nella sua testa
mentre pensa a come rispondere. Cosa risponderebbe a quella domanda il
modello di educazione e decoro che ha deciso di essere? «No. Sì…» farfuglia
confusa, poi: «Senti. Perché sei qui, Diane?».
Adesso è Diane a sembrare confusa. «Qui intendi? O in Inghilterra?»
«Entrambe le cose. L’una o l’altra.»»
«Sono malata, Barbara» dice. «In effetti, sto morendo. È per questo che
volevo vederti.»
Barbara annuisce e riesce sia a mostrarsi sia a sentirsi triste davanti a
quell’affermazione. La sua reazione emotiva la coglie di sorpresa. Forse il
tempo cura davvero le ferite. «È un cancro?»
Diane annuisce e si prende una ciocca di capelli tra le dita. «Motivo per
cui, questa mostruosità.»
«Non l’avevo notata» mente Barbara. «Mi dispiace.»
«Be’… È quello che volevo dire io a te» prosegue Diane. «Che mi
dispiace.»
Barbara fa una risatina. Non lo fa apposta, le scappa. «Ti dispiace?»
Diane annuisce. «Io volevo…» Ma non termina la frase. Barbara ha
sollevato una mano per fermarla.
«Non ce la faccio proprio» dice, continuando, in maniera del tutto
inaspettata, a sorridere. È come se non avesse il pieno controllo dei muscoli
del viso. «Non qui. Non stasera.»
«Ma io…»
«Anzi, forse mai, Diane. Ma di sicuro non qui. Di sicuro non stasera.»
«Ma io so che tu sai» dice Diane. «Tu l’hai sempre saputo e io…»
«Basta!» dice Barbara. Il sorriso è svanito e la sua voce si è alzata più di
quanto volesse. «Per favore, Diane» insiste. «Ormai appartiene tutto al
passato.»
«Ma…»
«È per di più a un passato così lontano. Guardati intorno. La metà della
gente che c’era, adesso è morta. Altri dieci anni, e non ci sarà più nessuno
nemmeno a ricordare. Perciò… perciò non farlo.»
Diane deglutisce e si lecca le labbra. «Va bene» dice. «Pensavo solo…
Ma va bene. Oddio, sono quasi sobria. Dobbiamo assolutamente rimediare.»
Si volta e cammina verso una cameriera che sta passando con un vassoio con
dei bicchieri.
Non hai pianto, pensa Barbara. Non hai gridato. Non hai fatto scenate.
E adesso puoi andartene e dimenticarti che sia mai successo.
Ispeziona la sala alla ricerca disperata di Jonathan, ma è troppo tardi,
perché Diane sta tornando a passo spedito da lei con in mano non uno, ma
due bicchieri di vino. Per scoraggiarla, tenta di intavolare una conversazione
con uno sconosciuto. Ma lui si limita ad annuire in modo cortese e, senza
dubbio spaventato dalla presenza spettrale di Diane, si defila verso l’uscita.
Diane le mette uno dei bicchieri sotto il naso. «Fai cin cin con me» dice.
Barbara non le risponde, scuote soltanto la testa. Vieta alla sua mano di
muoversi di un solo millimetro verso quel bicchiere. Diane lo agita ancora un
po’, rischiando di rovesciare il vino, ma Barbara scuote di nuovo la testa.
«No» dice a bassa voce. «Non posso farlo.»
«Hai detto che appartiene tutto al passato. Allora fai un brindisi con me.
A Sophie. Solo per quella parte della storia. Quella parte della nostra storia.»
«Non posso, Diane» sussurra Barbara. «Mi dispiace.»
«Per favore» dice Diane, continuando a porgerle il bicchiere. Le stanno
venendo gli occhi lucidi e le trema il labbro inferiore, sembra un po’ Sue
Ellen. «Non ti sto chiedendo di ringraziarmi o di perdonarmi, o altro. Fai solo
un brindisi con me a Sophie e non mi rivedrai mai più. Te lo prometto.»
C’è commozione nella sua voce, e Barbara si accorge che anche a lei sta
venendo da piangere, sente le lacrime che piano piano spingono per uscire.
Ha anche caldo, le si stanno formando delle gocce di sudore sulla fronte. Per
evitare ulteriori drammi, annuisce in fretta e prende il bicchiere dalla mano di
Diane.
«A Sophie» dice Diane.
Barbara deglutisce e si asciuga una lacrima dall’angolo dell’occhio. «Te
ne andrai?»
Diane fa sì con la testa. «Me ne andrò.»
«A Sophie, allora» sussurra Barbara.
Fanno cin cin e Diane svuota il bicchiere con due sorsate veloci. «Hai
fatto un ottimo lavoro con lei» dice. «Dovresti esserne fiera.»
«Grazie» dice Barbara, appoggiando un braccio al muro per non perdere
l’equilibrio. Le gira un po’ la testa e quel momento, purtroppo, sembra non
essere finito.
«Sei una santa, Barbara» dice Diane. «Lo sai questo, vero?»
«Adesso puoi smetterla. Per favore, smettila.» Il suo sguardo corre
veloce per la stanza, e vede che Phil e Jonathan la stanno osservando con aria
preoccupata.
Diane sta ancora parlando, nonostante la sua promessa. «Non riesco a
credere che sia venuta su così bene» dice. «Ed è anche una fotografa!»
Il viso di Barbara si sta gonfiando. Sente che sta raddoppiando, che si
sta trasformando in un enorme pallone bollente di imbarazzo.
«Okay» sta dicendo Diane. «Forse non sarei dovuta venire. Ma non è
successo niente, giusto?»
«Per favore, vai via» la prega Barbara. «Hai detto che te ne saresti
andata. Per favore, vai via!»
«Lo farò. Ma sto solo dicendo che è merito vostro, di entrambi»
prosegue, rubando un’ultima occhiata a Sophie. «E somiglia così tanto a
Tony, è stupefacente.»
Barbara ha un sussulto. Apre la bocca per parlare, ma le esce solo un
lamento monotono, strano, qualcosa a metà tra il verso di una mucca straziata
per la morte del vitello e il suono lontano di un corno da nebbia. Scuote la
testa e guarda le sue dita lasciar andare di colpo il bicchiere, che cade a
rallentatore sul pavimento, rompendosi in mille pezzi e bagnandole il piede.
La bolla di plexiglas è tornata. Sono passati anni, più di quanti possa
ricordare, ma adesso è tornata, e fuori dalla bolla, l’immagine distorta di
Jonathan corre verso di lei gridando qualcosa. Mamma, forse. La stanno
guardando tutti. Sessanta persone si sono voltate a fissarla. Forse vorrebbero
che ballasse per loro, forse dovrebbe mettersi di nuovo a fare la danza degli
Zulu, ma non può perché le stanno cedendo le gambe, proprio mentre la
stanza intorno a lei inizia a girare, proprio mentre Diane, che all’improvviso è
circondata dai colori dell’arcobaleno, si copre la bocca e dice: «Mi dispiace.
Pensavo che lo sapessi. Ho sempre pensato che lo sapessi». I colori si fanno
più luminosi, tutto si fa più luminoso ed è avvolto nell’arcobaleno, e una luce
bianca filtra dai bordi, cancellando a poco a poco i volti che la fissano, le
bocche aperte, le foto che ruotano su se stesse, il soffitto che gira in modo
vorticoso. La luce, il bianco celestiale. Grazie a Dio. Sta facendo scomparire
tutto quanto.
1983 — HACKNEY, LONDRA
Dopo che hanno letto senza interruzioni le quattro pagine, Sophie dice:
«Non riesco a credere che Brett mi abbia lasciato per questo. Che verme!».
«Almeno è stato gentile nei riguardi del tuo lavoro» dice Barbara.
«Almeno ha detto che sei tu ad avere un vero talento.»
«Chi se ne importa?» dice Sophie. «Mi ha comunque lasciato per un
paginone sul Sunday Times.»
«Gli uomini fanno questo genere di cose» dice Barbara. «Almeno ti ha
lasciato per un motivo. Almeno non l’ha fatto solo per un capriccio.»
«Perché, questo non è solo un capriccio?»
Barbara scrolla le spalle. «Be’, se lo è, è un capriccio parecchio
crudele.»
«C’è scritto che anche la foto della manifestazione sull’aborto l’hai fatta
tu. È vero?»
Barbara annuisce. «Sì. Dev’essere stato Phil a dirglielo. Era l’unico a
saperlo.»
«E le altre?»
«Oh, le altre erano sue. Non preoccuparti.»
«Tutte?»
«Be’, tranne quelle che ti ho già detto.»
«Dunque, solo quattro su trenta non erano sue, giusto?»
«Sì. Esatto.»
«E qui dice che la foto ai postini è stata inscenata?»
«Sì. Quella fu un’idea mia. Ma fu tuo padre a farla. Comunque, non c’è
niente di male nell’allestire uno scatto. Tu lo sai questo. Lo sciopero era
assolutamente reale.»
«Immagino di sì. E l’estate del sessantasette. Me la ricordo, eravamo in
vacanza. Anche in quel caso fosti tu a dirgli di farla, non è vero?»
«A volte avevo delle buone idee. Tutto qui.»
Sophie sorseggia il tè. «Certo. Ma perché lasciare che fosse papà a
prendersi tutto il merito?» le chiede. «È questo che non riesco a capire.»
Barbara allunga la mano per chiudere l’inserto. «Scusa, ma non ce la
faccio più a guardarlo» dice. «E per rispondere alla tua domanda, credo di
non essermi mai sentita in competizione con lui. Non è mai stata quella la
mia idea di matrimonio. Non venivamo cresciute per pensarla così.»
«Cioè, intendi dire che le ragazze venivano cresciute per essere dei
tappetini?»
«Questo è ingiusto, Sophie. Per me noi eravamo una squadra, solo
questo.»
«Ma che mi dici di Diane? Tu sapevi.»
«Sì. Certo. Cercavo di non pensarci. Ero molto brava a non pensarci.
Ma dentro di me, sì. Certo che lo sapevo.»
«Sapevi che era a Parigi con lui?»
«Sophie, dobbiamo proprio?»
Sophie scuote la testa con aria triste. «Sto solo cercando di capire,
mamma.»
Barbara annuisce e si lecca le labbra. «Va bene. Quello no. Di Parigi
l’ho saputo dopo» dice, a bassa voce. «Ricordati che Diane doveva essere in
America. Finché non ho visto il referto del medico legale per me era lì che lei
si trovava.»
«Il referto del medico legale?»
«Fu Diane a identificare il corpo. Quindi sul referto c’era il suo nome.»
«Oh, mamma» dice Sophie. «È orribile. Non hai mai pensato di
lasciarlo?»
«Certo che ci ho pensato.»
«Ma?»
«Non lo so» dice Barbara. «Di nuovo, non è così che siamo state
cresciute. Ci è stato insegnato che dovevamo far funzionare le cose. A
prescindere da tutto.»
«Ma lui per vent’anni ha…»
«Lo so cos’ha fatto, grazie.»
«Scusa, mamma, ma, insomma… Avresti potuto fare altre cose.»
«Quali altre cose?»
«Non lo so. Avresti potuto avere una vita del tutto diversa. Non avevi
dei sogni?»
«Sogni…» Barbara si mette a ridere. «Una volta mia madre mi disse che
i sogni sono come le farfalle. Se li acchiappi, muoiono.»
«Oh, è un po’ deprimente.»
«Ma vero.»
Sophie ci pensa un attimo, poi dice: «Secondo me non è vero. I sogni si
possono avverare. A volte. Se ci credi a sufficienza. Se sei determinato a
sufficienza».
«Be’, sono contenta che la pensi così. E forse hai ragione. Perché è un
fatto generazionale.»
«Cosa?»
«Avere dei sogni. O almeno, pensare che siano possibili.»
Sophie arriccia il naso davanti a quel ragionamento, poi dice:
«Comunque, tu non volevi lasciarlo? Nemmeno dopo averlo saputo con
certezza?».
«No. Credo di aver pensato che in un certo senso avesse bisogno di lei.»
«Che avesse bisogno di lei?»
«Forse noi avevamo bisogno di lei. Tuo padre aveva bisogno di una
compagna di bevute e quella non avrei mai potuto essere io. C’era una vena
selvaggia in lui. Era quasi come una malattia. La pressione montava, e lui
doveva sfogarsi. Perciò, in un certo senso mi stava bene che perdesse il
controllo con lei e non con me. Teneva quel lato di lui fuori di casa. Lontano
dalla famiglia.»
«Io non avrei mai potuto accettarlo. L’avrei uccisa. O avrei ucciso lui.»
«In realtà io non mi sentivo in competizione con lei. O comunque non
dopo il matrimonio. Avevo vinto io quella battaglia. Diane fece di tutto per
arrivare a lui. Ma alla fine, era me che aveva sposato. Ed era da me che
tornava ogni sera.»
«Ma non ti faceva stare male? Dev’essere stato molto doloroso.»
«Sì. Ma non quanto lo è stato per lei.»
«Io l’avrei comunque uccisa» dice Sophie.
«Be’, se devo essere sincera, non posso dire di non averci pensato. Ma
era complicato, Sophie. Erano gli anni Sessanta e Settanta. La gente aveva
relazioni a tre, a quattro, viveva nelle comuni… Stava cambiando tutto. Tutti
mettevano in discussione qualunque cosa. E Diane era speciale anche per me.
Se non altro, lo è stata nei primi anni.»
«Eravate amiche, quindi?»
«Eravamo più che amiche. Lei era parte della famiglia.»
«Un membro della famiglia che va a letto con tuo marito?»
«Sì, be’… messa così, ovviamente…»
«E hai chiuso i ponti con lei… quando?»
«Parigi fu la goccia che fece traboccare il vaso. Io pensavo che lei
vivesse in America. Pensavo che ormai fosse finita. Perciò Parigi mi ferì.
Tony, insomma… il fatto che era con lei… che non era più tornato… che era
stata lei a vederlo per ultima. Quello mi fece più male di tutto.»
Sophie annuisce. «Io non riesco neanche a immaginarlo. Mi ha detto
che è stata sposata. Per un anno. Tu l’hai mai conosciuto quel tizio?»
«Diane? Sul serio? No, non ne sapevo niente. Una volta si era messa
con un ragazzo. O così diceva. Ma non sapevo che si fosse sposata.»
«Quindi immagino che non abbia mai avuto figli?»
Barbara distoglie lo sguardo. «Non saprei proprio» dice. «Ma ne
dubito.»
«Chissà perché.»
«Penso che lei fosse un po’ come te. Non le sono mai piaciuti molto i
bambini. Preferiva la sua carriera.»
«È comunque un po’ insolito per una donna della sua generazione, no?»
«Sei stata tu a parlare con lei, tesoro, non io» dice Barbara, con un tono
che sembra un po’ irritato.
«Be’, a me non ha citato nessuno. Mi è sembrata molto sola.»
«Si chiama karma, tesoro. Brutto karma.»
Sophie smette di accarezzare la spalla di sua madre, si china in avanti e
si porta le dita alle tempie.
«Lo so che è molto duro da mandare giù, tesoro. Ma non puoi biasimare
le persone» dice Barbara. «Fanno del loro meglio. E spesso con scarsi
risultati. Ma è comunque il meglio che riescono a fare.»
Sophie scuote la testa. «Diane ha detto che tu eri una santa.»
«Detto da una come lei, temo non abbia molto valore.»
Sophie chiude gli occhi e continua a sfregarsi la fronte, perciò Barbara
le chiede: «Ti senti bene?».
Lei scrolla le spalle. «Non ne sono sicura.» Il suo cellulare, che ha
vibrato per tutta la giornata, in quel momento vibra di nuovo, perciò lo
prende dal tavolino e dà un’occhiata, poi aggrotta le sopracciglia e picchietta
sullo schermo. «Ah!» dice.
«Altri giornalisti?» le chiede Barbara.
«Di quelli un’infinità. Ma no, questo era del White Cube. Dicono che la
galleria è impazzita. Hanno venduto tutte le stampe. Vogliono sapere se
posso portare altri lavori.»
«Sul serio?»
«È quello che c’è scritto.»
«Allora è proprio vero che qualunque pubblicità è una buona
pubblicità» dice Barbara.
«A quanto pare» risponde Sophie. Mette giù il telefono e sospira a
fondo. «Possiamo andare a cercare quel cottage nel pomeriggio? Vorrei tanto
vedere quel posto.»
«Quello dove sei nata? Non sono sicura di riuscire a ritrovarlo» dice
Barbara. «E comunque, perché ci vuoi andare? È solo una casetta umida nei
boschi.»
«Non lo so» risponde Sophie, pensierosa. «Mi sento strana. È difficile
da spiegare, mamma. Ma sono giorni che mi sento così, dall’esposizione, se
non addirittura da prima. È come se mancasse qualcosa. Come se una tessera
del puzzle fosse nel posto sbagliato.»
«Quale tessera? Io non vedo nessun puzzle.»
«No? Forse no. Non lo so» dice Sophie. «Forse sono io, ma è come se…
perché non lo hai lasciato? Perché ti facevi andare bene Diane? E poi, perché
lei è venuta anche all’esposizione? Insomma, con il vostro passato e il
resto… E come mai noi continuavamo comunque a frequentarla quando
eravamo piccoli, anche se tu sapevi che andava a letto con papà? Insomma, la
chiamavamo zia, ma tu sapevi. Eppure lei veniva lo stesso a casa. Mi sembra
che mi sfugga qualcosa. Ha senso quello che dico? Immagino che per te non
ce l’abbia.»
«Be’, all’inizio non lo sapevo.» Barbara scrolla le spalle. «A ogni modo,
io te l’ho spiegato come meglio potevo. È probabile che tu sia un po’ sotto
shock. Lo siamo tutti.»
«Non c’era sotto qualcos’altro? Qualche altro scheletro nell’armadio
che mi salterà addosso? Insomma, supponiamo che Brett rintracci tutti e
intervisti tutti eccetera eccetera. E probabilmente lo farà. Non è che tu sei la
sorella segreta di Diane o roba del genere? Questo è davvero tutto, giusto?»
Barbara giocherella con una scatola di fiammiferi sul tavolino,
spingendola con un dito come fosse una macchinina. Sente che Sophie è sul
punto di mettere insieme tutti i puntini. Pensa che se anche lei non dovesse
farlo, potrebbe farlo Brett. Gli basterebbe far ubriacare Diane. Far ubriacare
di più Diane. Quindi forse dovrebbe dirglielo. Anche se hanno giurato tutti
che non lo avrebbero mai detto a nessuno, forse è giunto il momento.
Tony, Minnie, Glenda… si sono portati tutti il segreto nella tomba.
Sono rimaste solo lei e Diane a poter raccontare la storia di come le loro vite
si sono intrecciate per sempre. E hanno giurato che non avrebbero mai dovuto
farlo.
«C’è qualcosa, non è vero?» dice Sophie.
Barbara sospira a fondo. C’è ancora tempo, può ancora confonderla.
Potrebbe dirle una minima parte della faccenda per sviarla. Per esempio
potrebbe dirle cosa contenevano davvero i rullini di Parigi. O potrebbe dirle
delle droghe. Entrambe le cose funzionerebbero.
Ma potrebbe anche dire a Sophie l’unica cosa che per lei avrebbe un
senso; l’unica cosa che la aiuterebbe a capire chi è. Perché anche se alla gente
al giorno d’oggi piace fare finta che tutto dipenda da come si crescono i figli,
Barbara sa che non è così. Lei si rende conto (se ne è sempre resa conto) di
quanto invece dipenda dai geni.
«Mamma?» la esorta Sophie.
«Be’, forse c’è un’altra cosa» dice Barbara.
FINE
POST SCRIPTUM
1969 — LLANELWEDD, GALLES
Barbara è seduta con una coperta avvolta intorno alle spalle. Osserva la
porta del cottage. Aspetta. Accanto a lei il fuoco sfavilla e scoppietta. Il legno
è bagnato. La stanza è umida. Sente la pioggia oltre la porta che cade, cade
sempre.
A parte un breve viaggio al capezzale di sua madre, non esce da quella
orribile casa da mesi. A parte sua madre, sua sorella, Tony e Jon, non parla
con nessuno da mesi. È sul punto di impazzire. Sente che la follia aleggia
intorno a lei, in attesa di prendere il sopravvento. Ma presto sarà finita. E
presto ne sarà valsa la pena.
Non ha mai desiderato così tanto qualcosa.
Pochi minuti dopo le cinque, la porta del cottage finalmente si apre, e
Barbara inspira di scatto, poi trattiene il respiro.
Tony resta immobile sull’uscio, una sagoma contro la luce fioca del
giorno alle sue spalle. Dietro di lui, l’acqua cade a scrosci dalla grondaia
otturata. Sembra che esiti a entrare.
«Tony?» dice Barbara. «Cos’è successo?»
«Non è successo niente» dice, poi aggiunge: «È una bambina».
Entra e chiude la porta con il piede, poi si avvicina e si accovaccia
accanto a lei.
Barbara si piega verso di lui e tira indietro la coperta in cui è infagottata.
Ha un sussulto. «Oddio, Tony, è bellissima!» dice, e di colpo le vengono le
lacrime agli occhi.
Tony annuisce e tira su col naso. «Lo so» dice, con la voce rotta.
Le passa la bambina e Barbara la prende tra le braccia, cominciando
subito a scoprirla.
«Sta bene, Barbara» le dice Tony, faticando a parlare per l’emozione del
momento.
«Lo so. Ma ho bisogno di vederla con i miei occhi» risponde Barbara,
liberandola dalla coperta e sollevandola per permettere alla sua vista
offuscata di esaminare ogni minuscolo dettaglio.
«Ci credi adesso?» dice Tony.
«Sì. È enorme in confronto a Jonathan» dice Barbara, asciugandosi gli
occhi con il dorso della mano.
La bambina fa una smorfia e inizia a piangere, perciò Barbara si alza e
attraversa la stanza per prendere un nuova coperta in cui avvolgerla. Non sa
perché ha bisogno di farlo, ha bisogno di sbarazzarsi di quell’altra coperta,
quella con cui è arrivata.
«Jonathan era prematuro» le ricorda Tony. «Sophie è nata giusta. Siamo
sempre d’accordo per Sophie?»
«Sì» dice Barbara. «Sì, penso di sì. Lei sta bene?» Fa un cenno con la
testa verso il secondo cottage.
«Diane? Sì, sta bene. È esausta ma sta bene.»
«Ed è sempre d’accordo? Non ha cambiato idea?»
Tony scuote la testa. «No» dice. «E tu?»
«Certo che no. Devi tornare da lei?» gli chiede Barbara. Sente
l’esigenza di stare da sola con la bambina.
«La levatrice è ancora qui» dice Tony. «Quindi per un po’ posso
restare.»
«E Jonathan?»
«Non sarà di ritorno per un bel po’. La signora Llewellyn ha detto che
lo avrebbe riportato al tramonto.»
«E tu sei sicuro che neanche lei lo sa?»
«Non lo sa nessuno, Barb. Nessuno tranne noi. E la levatrice,
ovviamente. Ma lei non dirà niente. È stata pagata per non dire niente.»
Barbara annuisce con dolcezza mentre dondola la bambina. «Credo che
dovrei mettermi a letto prima che arrivi Jonathan» dice.
«Sì» concorda Tony. «È una buona idea.»
«Tu faresti meglio ad andare. Dovresti assicurarti che lei stia bene.»
«D’accordo» dice Tony. «Se tu sei sicura di stare bene.»
«Perché non dovrei?» risponde Barbara. «È stato il parto più facile di
sempre.»
Quando la signora Llewellyn riporta a casa Jonathan, Barbara è a letto
senza trucco, e Sophie dorme accanto a lei.
«Vieni a conoscere la tua sorellina» gli dice, e Jonathan si avvicina. «È
molto rugosa» dice, sbirciando.
«I bambini appena nati sono molto rugosi.»
«Anch’io ero così?» chiede, disgustato.
«Sì» risponde Barbara. «Sì, tu eri esattamente così.»
Ed è vero. Hanno i tratti incredibilmente simili. Barbara fatica ad
allontanare quel paragone dalla sua mente. Perché la storia che hanno
inventato, ciò a cui lei ha finto di credere, la grande menzogna a cui tutti, per
ragioni diverse, hanno deciso di prendere parte, ovvero che il padre di quella
bambina è l’ex ragazzo di Diane, Richard, impone che lei non cerchi mai
delle somiglianze. Mai.
POST SCRIPTUM 1968 — LAMBETH,
LONDRA
Tony si sforza di aprire gli occhi. È come se, durante il sonno, sulle sue
palpebre fosse stata spalmata qualche porcheria appiccicosa. Se li sfrega con i
pugni, poi riprova ad aprirli. La desolazione della stanza a poco a poco
prende forma.
Muove la lingua nella bocca impastata e poi riesce a pronunciare il
nome di Diane, ma non riceve risposta.
Si guarda intorno, sempre con una certa fatica a mettere a fuoco, e gli
viene in mente perché si sente così male. Hanno fatto baldoria per due giorni.
I posacenere sono pieni e i mozziconi delle canne hanno fatto nuovi buchi
nella moquette. Il pavimento è cosparso di bottiglie di birra vuote. E i pochi
spazi rimasti sono occupati da piatti sporchi. Il suo maglione, un regalo di
Natale, è per terra davanti a lui. È macchiato di vomito.
Si gira sul fianco in cerca di Diane, pensando che forse stia dormendo
come un sasso. Anche il resto della stanza è pieno di schifezze: altri piatti,
sacchetti vuoti di patatine, dischi sprovvisiti di buste interne, buste interne
senza dischi, tre dosi di LSD avanzate e una canna spenta a metà.
Accanto a lui c’è la copertina di The Doors, e in quel momento si
ricorda che hanno ascoltato un lato di quell’album per quasi ventiquattro ore
di fila. Diane deve aver spento il giradischi. Quindi si è alzata ed è viva.
Qualche granello di cocaina è ancora sparso sulla copertina del disco e lui la
raccoglie con il dito, poi se la passa sulla gengiva. Fa una smorfia per il
sapore amaro, anestetizzante della droga. Stamattina gli farebbe comodo una
botta di energia. Gli farebbe comodo una botta di energia un po’ più forte di
questa. Ma è rimasto solo l’LSD, e quello non l’aiuterà a riprendersi. Non
l’aiuterà affatto.
Diane esce dal bagno. È nuda, a parte l’asciugamano avvolto intorno
alla vita. Ha i capelli bagnati. «Ciao, allora sei tornato nel mondo dei vivi»
dice. Sembra triste.
«Sì» dice Tony. «Però mi sento da schifo.»
«Anch’io.»
Si siede a gambe incrociate davanti a lui. Tony riesce a vedere sotto
all’asciugamano e immagina che, conoscendola, lo stia facendo apposta. Ma
è troppo devastato perché la cosa gli interessi; non ha ancora smaltito la
sbronza, ha male dappertutto e si sente l’influenza, quindi non gliene importa
assolutamente niente di quello che lei ha da offrire stamattina.
«C’è una cosa che ti devo dire» afferma Diane, mordendosi il labbro
inferiore in maniera vagamente dolce.
«Non adesso, Di» risponde Tony. «Di qualunque…»
«Sono incinta» annuncia.
Tony sbatte le palpebre in modo esagerato.
«È così. Sono incinta» ripete.
Tony fa una risata amara. «Mi stai prendendo per i fondelli» dice.
Diane prende un pacchetto di Chesterfield alla sua destra e tira fuori una
sigaretta con le labbra, poi la accende con il suo zippo. Mentre parla la
sigaretta traballa. «No, sono davvero incinta» dice.
Tony emette un lamento, fa una smorfia, e alla fine riesce a mettersi
seduto. «Ma non è possibile. Siamo stati attenti.»
«Mi sembra che una volta non lo siamo stati. Quando eravamo sballati.»
Tony la guarda dritto negli occhi, e anche se sa che è vero, anche se sa
perfino che non è stata solo una volta, dice: «Non credo. Non può essere
mio».
«Sì che lo è» dice Diane. «Non c’è stato nessun altro.»
Tony tira su col naso, si schiarisce la gola, e poi spinge via il maglione
macchiato. Sente la puzza fin da lì e gli sta facendo venire la nausea. «Sei
sicura?» le chiede.
Diane annuisce. «Al cento per cento.»
Tony scuote la testa. «Be’, è una cosa veramente da idioti.»
«Non dire così. Pensavo che avresti detto…»
«Cosa?» la interrompe Tony. «E-vvi-va? Che splendida giornata?»
«Non lo so. Pensavo che saresti stato contento.»
«Contento?» dice Tony, che adesso fatica a contenere la rabbia.
«Contento?»
«Ma è il nostro bambino, Tony» dice Diane. «È…»
Tony si alza. Si mette a cercare la seconda scarpa che non trova.
«Non te ne starai andando?»
«Certo che me ne sto andando. Devo lavorare.»
«Ma ti ho appena detto una cosa molto importante. Non puoi andartene,
tesoro. Ti ho appena detto che sono incinta.»
«Non… non mi parlare, Diane» dice Tony. Si ferma e si volta a
guardarla. È tutto rosso. Sembra arrabbiato. Sembra davvero arrabbiato.
«Insomma, c…. come?» sbotta. «Come diavolo hai potuto anche solo pensare
di farlo, Diane? Come?»
A Diane iniziano a venire gli occhi lucidi. «Non dire così, Tony. Non è
una cosa che ho fatto da sola. E noi staremmo bene insieme. Noi stiamo bene
insieme, tu e io. Lo sai che è così.»
Tony fa un gesto per indicare la stanza. «Guardati intorno» sbraita.
«Guarda che cavolo di casino che c’è. Questo è ciò che tu e io saremmo
insieme. Questo è ciò che siamo insieme. E tuo vuoi portare un bambino in
mezzo a questo? Non ti piacciono neanche i bambini. Cristo Santo!» Si
picchietta la tempia. «Tu sei fuori di testa, bella.»
«Ma tu non ami Barbara» dice Diane, alzandosi e lasciando cadere
l’asciugamano sul pavimento. «Non l’hai mai amata. Non fino in fondo. È me
che ami. L’hai detto tu. Lo hai detto a me. Per questo pensavo che magari…»
Tony si inginocchia per guardare sotto il divano. «Dov’è la mia
scarpa?» le chiede. «Dov’è? E Barbara, per tua informazione, è l’unica idea
decente che io abbia mai avuto.»
Saltella in bagno per cercare la scarpa, e all’improvviso si rende conto
che deve assolutamente fare la pipì. Fatto questo, torna in soggiorno e allunga
una mano verso Diane. «Dammela» dice. «Lo so che ce l’hai tu.»
Diane, che è seduta a gambe incrociate su una poltrona, scuote la testa.
Ha un’espressione fredda, lucida. «Non finché non mi dici che la lascerai.»
«Cosa?» dice Tony, incredulo. «Cosa? Oh, hai nascosto la mia scarpa.
Hai vinto tu! Divorziare da mia moglie? Hai davvero perso il lume della
ragione, vero?»
«Non puoi aspettarti che lo tenga da sola» sbraita Diane.
«Io non mi aspetto che tu lo tenga affatto.»
«Non posso abortire.»
«Ehm, in realtà, puoi. E se non mi dai la mia scarpa, giuro che…»
«Sono cattolica» dice Diane. «E tu lo sai.»
«Sei cosa?»
«Sono cattolica. Non posso abortire.»
Tony resta a bocca aperta per un attimo. «Tu? Cattolica?» dice. «Questa
mi giunge nuova. E sarà una novità anche per quel cavolo di Papa. Cattolica?
Ma finiscila!»
Diane si mette a piangere. Le lacrime si formano e scivolano sulle
guance, e lei non le asciuga, né si volta per nasconderle. Vuole che Tony le
veda. Vuole che condivida il suo dolore. Vuole che cambi idea.
«Non…» dice Tony. «Smettila di piangere, Diane. Smettila di piangere,
accidenti. Lo sai che non lo sopporto quando piangi.»
Ma la sua voce è più dolce, e questo la incoraggia. Piange ancora più
liberamente. E quando le lacrime raggiungono il culmine, aggiunge anche
qualche singhiozzo per aumentare l’effetto. Ben presto, Tony rinuncia a
cercare la scarpa, che lei sa, perché ce l’ha messa lei, che è sotto il cuscino.
Ben presto, si inginocchia accanto a lei, con la fronte appoggiata sulla sua, le
braccia intorno alle sue spalle.
Più tardi, quando Diane ha esaurito tutte le lacrime, quando non riesce
nemmeno più a produrne di finte, quando l’effetto dell’ultima canna è passato
e il livello di alcol che ha in corpo comincia ad abbassarsi, i due parlano in
modo più ragionevole.
«Siamo stati davvero stupidi, vero?» dice Diane.
«Sì» concorda Tony. «Decisamente. E tu sai che non posso lasciare
Barbara. Questo lo hai sempre saputo.»
«A essere sinceri, non credo nemmeno di volere che tu lo faccia» dice
Diane. «Non penso di essere fatta per lavare e stirare, o rammendare calzini.»
«O crescere un figlio.»
Diane tira su col naso. «O crescere un figlio» concorda. «Però non
posso proprio abortire.»
«Diciamoci la verità, Diane. Cosa ci faresti tu con un bambino? Tu li
odi i bambini. E lo sai.»
«Sì. Ma non posso abortire. È una questione d’istinto.»
«Ma pensaci. Pensa a come sarebbe crescere una creatura da sola. Come
ti ho detto, guardati intorno.»
Diane osserva la devastazione nella stanza. La luce fredda del giorno
filtra da una fessura nelle tende, mettendo ancora più in evidenza la sporcizia
e il caos. Scrolla le spalle. «Magari potrei darmi una calmata.»
«Sì. Forse potresti. Ma è quello che vuoi? Tu? Sul serio?»
Diane sospira in modo triste. «Allora lo darò in adozione» dice.
Tony si mette a ridere.
«Che c’è?»
«Oh, stavo pensando all’ironia della sorte» dice.
«L’ironia?»
«Sì. Barbara continua a menarmela che vuole adottarne uno. Perché sai,
non può più averne. E tu sei quella che resta incinta.»
Diane scrolla le spalle. «Allora ti sei risposto da solo» dice piano.
«Risposto a cosa?»
Diane rimane in silenzio. Fa soltanto un cenno col mento, come se la
risposta fosse davanti a lui.
Tony si prende il naso tra le dita per un attimo mentre cerca di capire
cosa intenda, poi sospira con aria disperata e dice: «Tu devi davvero fumare
di meno, Di. Sul serio».
«Ma pensaci.»
«Cerca solo di ragionare, okay? Lo so che è difficile, ma provaci, per
me. Come puoi anche solo immaginare che Barbara accetterebbe?»
«Potrebbe» dice Diane, che sembra del tutto seria.
«Cioè qualcosa del tipo: “Ciao tesoro. Ho messo incinta la mia ragazza.
Pensi che potresti crescere suo figlio?”. Una cosa così?»
«Non dovrebbe neanche sapere che è tuo.»
«Ma certo che saprebbe che è mio.»
«Potremmo dirle che ho un ragazzo. Pensaci. Mi trovo un ragazzo, resto
incinta, e lo dico a Barbara. Magari potrei chiedere a Richard di fare finta di
essere il padre.»
«Chi? Il tuo amico del college?»
«Sì.»
«Ma lui non è… insomma, uno di quelli?»
«Ma Barbara questo non lo sa.»
«Smettila, Diane. Per favore, smettila» dice Tony. «Mi stai tirando
scemo.»
«Potrei convincerla io. So che ci riuscirei. Le piaccio molto. E lei adora
i bambini.»
Tony si alza e scuote la testa. «Me ne vado» dice. Allunga la mano
verso di lei. «Ne riparleremo più tardi, ma adesso dammi la scarpa. Perché se
me ne vado a piedi scalzi, giuro che non mi rivedrai più. E non sto
scherzando, Diane.»
Lei armeggia accanto a sé e tira fuori la scarpa da sotto il cuscino.
Gliela porge, ma non la lascia subito andare. «Pensaci, Tony» ripete.
«Barbara riesce ad avere il bambino che vuole, e noi possiamo andare avanti
come se non fosse successo niente. È perfetto. Per tutti.»
Tony si muove di scatto e le strappa la scarpa di mano. «Come se non
fosse successo niente?» dice. «Sbarazzatene, Diane. Pagherò io. Ma è l’unica
soluzione. Te ne devi sbarazzare.»
«Mi dispiace» dice Diane. «Ma è di mio figlio che stiamo parlando. Ed
è figlio anche tuo. È nostro figlio. È metà tuo e metà mio. Pensa solo a
questo. Pensa a cosa significa. Non esiste, Tony. Non potrei mai fare una
cosa del genere.»
FINE
RINGRAZIAMENTI