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Questo libro è opera di fantasia.

Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti


sono frutto dell’immaginazione dell’autore o utilizzati in modo fittizio.
Qualsiasi somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, vive o defunte, è
puramente casuale.

Titolo originale dell’opera The Photographer’s Wife


Edizione originale in Regno Unito, ottobre 2014

Edizione italiana pubblicata da


AmazonCrossing, Amazon Media EU S.à.r.l.
5 rue Plaetis, L-2338, Luxembourg
agosto 2017

Copyright © Edizione originale 2014


di Nick Alexander
Tutti i diritti riservati

Copyright © Edizione italiana 2017


Traduzione dall’inglese di Silvia Romano

Realizzazione e progetto grafico a cura di PEPE nymi, Milano


In copertina: © Andrea Carolina Sanchez Gonzalez/Alamy Stock Photo

Prima edizione digitale 2017


ISBN: 9781542045162
www.apub.com
IL LIBRO

Sophie è consapevole di non sapere tutto dei suoi genitori. Ma non può
davvero immaginare quello che sua madre ha voluto celarle. Se ne accorge
quando organizza una grande retrospettiva sul padre, uno dei più famosi
fotografi che la Gran Bretagna abbia mai avuto. Dagli scatoloni impolverati
pieni di vecchie foto emergono infatti storie, retroscena e segreti inaspettati.
Sono le verità che la madre Barbara ha provato a nascondere per proteggere i
propri figli. Ma il passato non si può cancellare, e toccherà a Sophie
ricostruire quello che le è stato taciuto, una storia che inizia dai
bombardamenti su Londra durante la Seconda Guerra Mondiale e arriva fino
ai giorni nostri. Una storia che rischia di cambiare la sua vita per sempre.
L’AUTORE

Nick Alexander è nato nel 1964 nel Regno Unito. Ha viaggiato molto,
vivendo e lavorando in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Francia, dove
attualmente risiede. Le sue opere hanno venduto oltre un milione di copie e
sono state tradotte in italiano, francese, spagnolo, tedesco e turco. Per
Amazon Crossing ha pubblicato La luce al crepuscolo.
INDICE

INIZIA A LEGGERE
1940 — SHOREDITCH, LONDRA
2011 — SHOREDITCH, LONDRA
1941 — SHOREDITCH, LONDRA
2011 — SHOREDITCH, LONDRA
1944 — SHOREDITCH, LONDRA
1945 — SHOREDITCH, LONDRA
2012 — PICCADILLY, LONDRA
1950 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
2012 — SOUTHWARK, LONDRA
1951 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
2012 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
1951 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
2012 — HOXTON, LONDRA
1951 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
2012 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
1954 — PECKHAM, LONDRA
2012 — GUILFORD, SURREY
1962 — PECKAM, LONDRA
1963 — HACKNEY, LONDRA
2012 — TRAFALGAR SQUARE, LONDRA
1968 — HACKNEY, LONDRA
2012 — BRIGHTON, EAST SUSSEX
1968 — HACKNEY, LONDRA
2012 — OLD HOLBORN, LONDRA
1969 — LLANELWEDD, GALLES
2012 — SHOREDITCH, LONDRA
1970 — EMBANKMENT, LONDRA
2012 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
1971 — HACKNEY, LONDRA
2012 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
1976 — COSTA DI NORFOLK
1977 — HACKNEY, LONDRA
2013 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX
1979 — HACKNEY, LONDRA
2013 — BERMONDSEY, LONDRA
1982 — HACKNEY, LONDRA
2013 — BERMONDSEY, LONDRA
1983 — HACKNEY, LONDRA
2013 — BERMONDSEY, LONDRA
1983 — HACKNEY, LONDRA
2013 — BERMONDSEY, LONDRA
2013 — GUILFORD, SURREY
2013 — POWYS, GALLES
POST SCRIPTUM 1969 — LLANELWEDD, GALLES
POST SCRIPTUM 1968 — LAMBETH, LONDRA
RINGRAZIAMENTI
«Non pensare di sapere quali battaglie ho dovuto affrontare per arrivare dove
sono oggi. Non pensare di poter neanche lontanamente immaginare quali
sofferenze abbiamo dovuto patire, quali segreti abbiamo dovuto nascondere.
Tu pensi di sapere tutto, ma non sai niente. Non mi conosci; non conosci
nessuno. Perché questa è la vita. È pensare di sapere tutto, di conoscere tutti,
per poi scoprire, con l’avanzare degli anni, che non era così. Che non avevi
capito niente.»
1940 — SHOREDITCH, LONDRA

Barbara si allunga sulla punta dei piedi e si aggrappa con le manine


pallide al davanzale in legno. Un frammento di vernice si stacca cadendo sul
pavimento, e per un attimo lei si distrae a pensare che sopra è verde, eppure
sotto è bianco.
«Guarda!» ripete sua sorella, premendo il dito contro il vetro.
Barbara fissa il suo dito e nota come la luce penetra dall’esterno
brillando attraverso il vetro, e poi si perde a osservare lo strato di sporco che
lo ricopre. Alla fine, sposta lo sguardo su quello che c’è al di là della finestra;
quello che rende sua sorella così eccitata.
In lontananza, molto in alto sopra i tetti, un gruppo di puntini fluttua nel
cielo limpido di settembre. Sono solo puntini al momento, ma dal ronzio che
sente, capisce subito, pur avendo sei anni, che quei puntini sono aerei da
guerra, che sono aerei da bombardamento.
La porta alle loro spalle si spalanca all’improvviso e Barbara si volta di
scatto con fare nervoso e vede sua madre. Non sa se ha fatto qualcosa di
male, ma di questi tempi sembra che capiti spesso; è meglio essere preparati.
«E voi due cosa diavolo ci fate alla finestra?» chiede Minnie con tono
arrabbiato, mentre si toglie il cappotto. «E non ditemi che non avete sentito la
sirena.»
«Ma guarda!» dice Glenda, continuando a indicare.
«Guarda un corno» le risponde lei, ma qualcosa nella voce della figlia
maggiore l’ha incuriosita, perciò entra in cucina e va comunque a dare una
occhiata.
Impensierita dal silenzio improvviso di Minnie, Barbara si volta di
nuovo verso il cielo azzurro oltre il vetro, e si rimette a osservare i puntini.
Adesso sono più grandi; il ronzio più forte. Piega la testa verso il soffitto e
guarda dal basso la madre, sul cui viso ribaltato, la solita espressione seccata,
quasi perenne, si trasforma prima in una smorfia di perplessità, e poi di
preoccupazione.
«Maledetti crucchi» sussurra Minnie dopo un attimo. Poi, con un
sospiro profondo, triste, allontana lo sguardo dalla finestra, dà un colpetto
leggero in testa a Glenda e le dice: «Sotto al tavolo della cucina, signorina.
Adesso!». Afferra la mano sinistra di Barbara e la trascina via.

Barbara si siede con la schiena contro la gamba cilindrica del tavolo e fa


scorrere l’indice lungo la grana del legno sopra di lei. Il ronzio degli
aeroplani adesso è forte e fa un po’ paura, e ben presto a esso si unisce il
rumore scoppiettante dei cannoni antiaereo.
«Decisamente tedeschi, allora» dice Glenda, rivolgendosi alle ginocchia
della madre che sta girando in fretta intorno al tavolo per preparare i panini.
Barbara riconosce dall’odore la crema spalmabile al pesce, quella che le piace
meno in assoluto.
«E chi altro poteva essere?» risponde Minnie, con la voce che risuona in
modo strano sotto al tavolo.
«Pensavo che magari potevano essere i nostri» dice Glenda. «È un po’
presto per i crucchi, no?» I raid aerei finora sono stati quasi esclusivamente
notturni.
Dall’alto compare un piatto a fiori scheggiato, che rimane sospeso sotto
il bordo del tavolo. Sopra ci sono tre panini enormi impilati l’uno sull’altro,
invece dei soliti tramezzini minuscoli.
Barbara, che in questo periodo di razionamento è stata ripresa più volte
per essersi servita senza chiedere il permesso, esita un momento e poi ne
prende uno con delicatezza.
«Ma prendi il piatto, no!» dice Minnie. «Cos’è, vuoi che resti qui finché
non arriva una bomba?»
Glenda allunga il braccio sopra la spalla della sorella e afferra il piatto,
poi le strappa di mano il panino e lo rimette insieme agli altri. «Stupida!» le
sussurra.
«E tu modera il linguaggio!» la riprende Minnie, mentre si china per
raggiungere le due ragazze sul sottile materasso sotto il tavolo. Porta con sé
una brocca di ceramica piena d’acqua e una tazza di latta che dovranno
spartirsi.
«Non sarebbe meglio andare al rifugio?» chiede Glenda. «Perché Mary,
quella che abita qui davanti, ha detto…»
«Non è finito» le dice Minnie. «E tu lo sai.» Il rifugio in giardino
necessita di un’altra giornata piena di lavoro pesante e lei, che non lo ritiene
più di tanto necessario, essendo convinta, così come la maggior parte delle
ragazze della fabbrica, che la minaccia su Londra sia stata ingigantita, è
talmente sfinita al termine della giornata di lavoro che continua a rimandare.
«Non il nostro. Intendevo quello vero. Al circolo della gioventù» dice
Glenda. «Perché Mary che abita qui davanti, sai, quella che ha il nonno che fa
parte del servizio di protezione antiaerea, be’ lui ha detto…»
«Stiamo bene qui» dice Minnie a voce alta, interrompendola. «Adesso
fai silenzio e pensa a mangiare, altrimenti mi mangio anche il tuo di panino e
tu salti la cena.»
In lontananza si sente il boato profondo di una SC-250 e Barbara
rimanda il primo morso, fermandosi ad ascoltare il fragore con il panino
sospeso davanti alla bocca.
«Un’altra volta il porto» dice Minnie. «È sempre il porto. Poveracci. Io
non ci andrei mai a lavorare lì.»
Barbara addenta il panino, e mentre un’altra scarica di fuoco antiaereo
si sovrappone a una seconda esplosione lontana, pensa: crema spalmabile al
pesce. Che schifo. Ma nonostante quel sapore la disgusti, le ore trascorse
sotto il tavolo, stretta tra la madre e la sorella, non le dispiacciono affatto.
D’altra parte, di quei tempi non è che a casa ci sia da divertirsi poi molto.
Si sente un fischio nel cielo sopra le loro teste, seguito da un altro boato,
diverso dal precedente. Barbara vede la madre cambiare espressione e
sollevare gli occhi verso il piano del tavolo, come se potesse rivelarle un
segreto su quel nuovo rumore. Poi Minnie allunga la mano per prendere le tre
maschere antigas accanto a lei e le avvicina, mettendole al sicuro sotto il
tavolo. A quel punto però, c’è un’altra esplosione, solo che questa è molto più
vicina e loro non solo ne sentono il frastuono, ma anche l’urto attraverso il
pavimento, attraverso il materasso. Minnie inspira bruscamente e chiude gli
occhi, Glenda li spalanca, e a Barbara scivola dalle mani il panino, che le
cade sulle gambe.
«Wow!» dice Glenda, sorridendo in modo un po’ folle dopo che il
momento è passato.
Se sua madre avesse condiviso l’eccitazione di Glenda, Barbara avrebbe
potuto seguire il suo esempio, avrebbe potuto pensare anche lei che fosse
divertente. Ma quando cade un’altra bomba, e poi un’altra, e un’altra ancora,
sempre più vicino, il boato sempre più forte, Minnie si rende conto che è tutto
molto diverso dai vecchi raid degli Zeppelin della sua infanzia, in cui i
tedeschi si limitavano a gettare bombe fuori dai finestrini degli aerei, diverso
anche dagli attacchi che hanno colpito Londra finora, e che, per quanto il
vecchio tavolo della cucina sia indubbiamente solido, lì, sotto le assi di legno
di quercia, forse non sono tanto al sicuro come aveva preventivato.
Barbara osserva il viso della madre in cerca di un indizio e la vede
deglutire e leccarsi le labbra. Non può sapere cosa sta pensando, ma riesce a
percepire ciò che prova quasi come se quelle sensazioni fossero le sue, e in
questo caso ciò che avverte è paura. Un pensiero nuovo passa per la sua testa
di bambina di sei anni, uno che non ha mai avuto prima: sua madre potrebbe
non essere infallibile, potrebbe capitare prima o poi che le sue decisioni non
si rivelino giuste. Perfino schiacciata tra la madre e la sorella, all’improvviso
non si sente al sicuro. Comincia a piangere.
«Smettila subito!» le dice Minnie, minacciando di schiaffeggiarla con la
mano libera alzata.
Barbara deglutisce a fatica e mentre si sforza di trattenere la nuova
ondata di lacrime, le sembra che le si stia gonfiando la faccia, che stia
diventando il doppio del normale.
«Piangere non ha mai risolto niente» dice Minnie, e Glenda le ripassa il
panino facendole l’occhiolino di nascosto.
«Dai, mangia, sorellina» le dice con dolcezza. «Andrà tutto bene. Non
permetteremmo mai che ti capitasse qualcosa, ti pare?»

Barbara segue la madre fuori dal rifugio appena finito, poi si ferma sotto
la luce grigia dell’alba a osservare lo smog e le fiamme rosse che illuminano
l’orizzonte in ogni direzione, come tanti tramonti.
A parte i tramonti di fuoco e la puzza di fumo che pervade ogni cosa,
tutto sembra identico nelle immediate vicinanze, e quella mattina, come ogni
mattina, è incredibile che sia così. Il rumore dei raid notturni è incessante e
spaventoso, ed è difficile immaginare, mentre si sta sdraiati nell’oscurità, che
possa rimanere qualcosa all’esterno del rifugio.
«Forza» le dice Minnie. «Andiamo a toglierti questi vestiti bagnati.»
Barbara, toccandosi la manica della camicia da notte, si accorge di avere
ancora addosso l’umidità penetrante del rifugio, che ha impregnato il tessuto.
La madre la tira con uno strattone oltre il piccolo orticello. «E Glenda?» le
chiede Barbara, cercando di guardare la porta aperta alle sue spalle.
«Lasciala dormire» dice Minnie. «Vi aspetta una giornata molto dura.»
Sì, una giornata molto dura. Perché oggi è il giorno dell’evacuazione dei
bambini. La “guerra per finta” è terminata; nessuno ha più alcun dubbio che il
pericolo sia reale, e Minnie, sotto la pressione crescente di allontanare le
ragazze dall’inizio della guerra, ha finito col cedere. Il solo pensiero la
terrorizza. È spaventata a morte per loro, non ha idea di dove andranno, né di
cosa le aspetti nel Galles… Ma ha paura anche per se stessa. I raid aerei sono
così inquietanti che le fanno venire da vomitare, e la sua vita, adesso che
Seamus è partito (e chissà se è ancora vivo? Non è arrivata nessuna
lettera…), è triste. Almeno con le bambine vicino, deve farsi forza. Ma cosa
ne sarà di lei dopo che se ne saranno andate?
Mentre Barbara mangia pane e margarina, Minnie la osserva e si chiede
come andrà quella giornata, si chiede addirittura se ne sarà capace; capace di
mettere così tanta distanza fisica tra lei e il sangue del suo sangue.
«Glenda è una dormigliona» dice Barbara, parlando con la bocca piena.
«Lasciala riposare» ripete Minnie. Sì, lasciala riposare, pensa. Lasciala
riposare fino all’ultimo. Barbara è troppo piccola per capire cosa significhi
davvero essere evacuati, ma Glenda, e questo lei lo sa, si metterà a sbraitare.

Sono alla stazione dei treni e Barbara, a cui è stato confidato un segreto,
è sorpresa che sua sorella sia anche solo presente.
Ci sono bambini ovunque: gruppi, come bestiame, che si fanno strada
tra fiumi in movimento di altri bambini, scortati da un improbabile
assembramento di insegnanti, gente grassa, anziani e donne incinte, che è
stato messo insieme per viaggiare insieme a loro.
Glenda ha il broncio, tira dei calcetti alla sua piccola valigia marrone,
ma Minnie nota che non sta ancora facendo scenate.
Sa che invece Barbara è tesa, incerta se considerarla un’avventura o un
trauma, mentre guarda sua madre, sua sorella, tutti intorno a lei, in cerca di
indizi per capire come reagire. Solo Minnie comprende l’enormità di questa
separazione per tutte loro. Solo Minnie si sta preparando al dopo.
Alla loro destra, una ragazzina si mette a strillare e a scalciare mentre
viene sollevata e messa su un vagone. Barbara ruota la testa e osserva la
ragazzina che con voce tremante grida: «Non ci vado, non ci vado! No!».
Stringe e allenta le dita intorno alla trama ruvida del cestino che contiene i
suoi vestiti. La fibra grezza le punge la pelle.
Un uomo con un portablocco si dirige verso di loro. «Signora Doyle!»
dice, in modo plateale.
«Signor Wallace» risponde Minnie, imitando il tono fastidioso della sua
voce.
«Noto con piacere che abbiamo finalmente deciso di usare il buon
senso» dice l’altro con arroganza.
«Se per lei mandare i propri figli chissà dove per essere cresciuti da
chissà chi significa “usare il buon senso”, allora sì, signor Wallace, abbiamo
finalmente deciso di usare il buon senso» ribatte Minnie, rendendosi conto
solo in seguito che le ragazze l’hanno sentita. Ma in quei frangenti non riesce
proprio a trattenersi. Non è il genere di persona a cui piace che le venga detto
cosa deve fare, ed è proprio quello che sta facendo Grenville Wallace da
quando ha lasciato il piccolo e sudicio, nonché carissimo, emporio di
quartiere per diventare un ufficiale di evacuazione. Il suo atteggiamento è già
quasi sufficiente a farle girare i tacchi e tornarsene a casa.
Un treno alle loro spalle fischia, sbuffa e comincia, sferragliando, a
uscire dalla stazione, e Barbara osserva la sfilata di volti schiacciati contro i
finestrini unti. Alcuni sembrano felici ed eccitati, mentre altri sono rigati
dalle lacrime, hanno gli occhi arrossati. Non sa cosa pensare.
«Non ho tutto il giorno per discutere i pro e i contro della politica
governativa, signora Doyle» sta dicendo l’uomo, agitando la penna in aria in
modo teatrale. «Allora, è solo questa, giusto?» chiede, con un cenno della
testa verso Barbara.
«No, sono…» dice Minnie, voltandosi verso il punto in cui dovrebbe
esserci Glenda. «Dove…?» mormora, allungando il braccio per avvicinare la
valigia di Glenda prima di scrutare tra le orde di persone intorno a loro.
«Dov’è andata tua sorella?» chiede, con un’espressione molto corrucciata.
Barbara scrolla le spalle e si fissa i piedi.
«È andata a cercare un bagno?» chiede Minnie.
Barbara scuote la testa.
«Maria Vergine santissima» dice Minnie, mentre afferra il mento di
Barbara obbligandola a guardarla. «Ha detto qualcosa?»
Barbara annuisce in modo vago.
«Signora Doyle!» dice l’uomo.
«Può aspettare un attimo?» gli dice Minnie, poi, rivolgendosi a Barbara:
«Cos’ha detto? Dimmi cos’ha detto».
«È un segreto» sussurra Barbara.
«Quale accidenti di segreto?» chiede Minnie, e Barbara, che conosce fin
troppo bene quel tono di voce, sa che non le conviene girarci intorno.
«Ha detto che non ci va nel Galles. Per niente al mondo.»
«Signora Doyle!» dice l’uomo, e Minnie scruta l’orizzonte ancora una
volta prima di voltarsi verso di lui.
«A quanto pare fa fatica a controllare la prole. Forse i gallesi se la
caveranno meglio! Ma, nel frattempo, c’è questa piccola questione dei fogli
da compilare e di cosa dovrei scriverci. Quindi abbiamo solo Barbara qui, che
viaggia da sola, giusto?»
«Non lo so» dice Minnie. «Scusi, mi… mi dia un momento.»
Minnie comincia a farsi strada tra la folla, fermandosi a chiedere alla
gente: «Avete visto una ragazzina? Avete visto mia figlia? Ha i capelli
castani e un cappotto azzurro. È alta così. Lei l’ha vista? Lei ha visto mia
figlia?».
Le persone intorno a lei o la ignorano (sono troppo indaffarate) o la
guardano come se fosse pazza. Perfino Barbara si rende conto che aspettarsi
una risposta a quella particolare domanda, quel giorno, con tutte quelle
schiere di bambini, in effetti è un po’ folle.
L’uomo con il portablocco afferra la mano di Barbara. Inizialmente,
quel gesto le sembra rassicurante, quindi glielo lascia fare. Ma quando lui fa
per tirarla verso un vagone del treno, Barbara comincia a dimenarsi. «No!»
dice, poi: «Mamma!». Ma Minnie non sta guardando. È persa nella ricerca
spasmodica dell’altra sua figlia, rincorre le ragazze che da dietro somigliano
un po’ a Glenda e le afferra per le spalle per farle girare verso di lei.
«Mamma!» la chiama di nuovo, poi, imitando la bambina che ha visto
prima, dice: «Non ci vado. No!». Ma poiché, così facendo, non ottiene il
minimo risultato, si mette a urlare. Minnie avverte il suo grido lacerante a
livello inconscio, si blocca all’istante e quando si volta vede la figlia più
piccola, sollevata da terra, che viene passata da Grenville Wallace a un uomo
calvo, dall’aspetto viscido, con un completo elegante. Vede le sue gambe che
si agitano e comincia a correre verso di lei tra la folla, sbattendo contro un
bambino che cade per terra; mentre lui si mette a piangere lei farfuglia un
parola di scusa da dietro le spalle, ma continua comunque a correre.
Wallace cerca di bloccarle il passaggio, dicendo: «Signora Doyle! Per
l’amor del cielo! Tutto questo è assolutamente irreg…».
Ma Minnie lo spinge via, si allunga con uno scatto oltre l’uomo calvo e
afferra la mano di sua figlia proprio mentre sta per essere risucchiata
nell’oscurità del treno; con uno strattone la tira fuori, a fatica, e la riporta
sulla banchina. «Non andrà nel Galles da sola, maledizione!» dice Minnie,
esterrefatta. «Non ci andrà senza sua sorella! Cosa le salta in mente?»
«Se non parte oggi, non partirà più» dice il signor Wallace. «Stia pur
certa che me ne occuperò personalmente. Migliaia, milioni di bambini da
evacuare, e lei pensa di poterci far perdere tempo in questo modo?»
«Non mi ci mandare» dice Barbara singhiozzando. «Ti prego, non mi ci
mandare, mamma. Farò la brava. Ti prometto che farò la brava.»
«E comunque adesso è sulla lista» dice l’uomo, agitandole il
portablocco in faccia.
«Be’, la può anche togliere da quella maledetta lista» gli dice Minnie.
«Mettiti lì vicino alla valigia di Glenda» ordina a Barbara, staccando la mano
dalla sua e spingendola dall’altro lato della banchina, lontano dal treno. «E
smettila di piangere, per la miseria!»
Barbara si fa strada tra un fiume di bambini che camminano nella
direzione opposta e mette la mano sulla valigia mentre osserva la lite tra sua
madre e quell’uomo. Non riesce a sentire quello che Minnie gli sta dicendo,
ma c’è qualcosa di stupefacente nella sua postura, con le mani sui fianchi,
mentre gliene canta quattro. È fiera di lei.
«Bene» dice Minnie, dopo che l’uomo, con una scrollata di spalle e una
mano agitata in modo sprezzante sopra le spalle, ha rivolto la sua attenzione
ad altro e lei è tornata da sua figlia. Prende la valigia e si incammina verso
l’uscita.
«Allora non saremo evacuate?» le chiede Barbara.
Minnie si ferma e, in un modo che non le appartiene, si piega davanti a
lei. «Tu vuoi essere evacuata? Vuoi prendere quel maledetto treno e andare
nel Galles? Perché credimi, ragazzina, è questione di un attimo. Basta che tu
lo dica.»
«No!» dice Barbara, mettendosi a piangere.
«Allora smettila di fare la frignona! Ti riporto a casa.»
«E Glenda?» le chiede, cercando di guardarsi alle spalle mentre
attraversano la folla riecheggiante della stazione.
«Ha dodici anni. Sa come trovare la strada di casa» dice Minnie. «E
quando ci arriverà, avrà quello che si merita. Accidenti a lei!»
All’improvviso Minnie si ferma, perciò Barbara alza gli occhi verso la
madre. «Dov’è la tua roba?»
Lei si guarda la mano vuota e cerca di ricordarsi quando ha perso di
vista il suo cestino. «Quell’uomo» dice, indicando alle loro spalle. «L’ha
messo sul treno.»
«Gesù! Ci mancava solo questa» dice Minnie. «Ormai non lo
recupereremo più. Tutto tempo sprecato. E adesso io cosa dovrei metterti
addosso? Cose da non credere! Come se non fossero tempi già abbastanza
duri! Ti conviene comportarti bene, ragazzina. Ti conviene comportarti
davvero bene. Te lo giuro, piangi una sola volta, e ti ritroverai su quel treno
per il Galles, e non sarà solo per il periodo della guerra, sarà per sempre!»
Barbara chiude forte gli occhi per fermare le lacrime, che sono sul punto
di scendere, e così facendo non si accorge di un piccolo dislivello davanti a
sé. Inciampa e sua madre la tira per non farla cadere.
«Cammina bene!» le dice.

Barbara è seduta da sola, con le gambe incrociate, sul lettino che hanno
portato nel rifugio. Invece di leggere, come dovrebbe, sta osservando il
riflesso della candela su una pozzanghera che si è appena formata sul
pavimento. Aspetta di sentire le prime bombe arrivare. La sirena antiaerea ha
suonato da cinque minuti.
La porta si apre e compare Glenda. «È tremendo lì fuori» dice, mentre
comincia a sfilarsi il cappotto bagnato, poi esita un momento, e alla fine se lo
toglie. «È tremendo anche qui. Allora, dov’è la mamma?»
«A prendere la zuppa» dice Barbara. «Ha detto che non mi devo
muovere.»
«Mapledene Road è stata colpita» annuncia Glenda.
«Sul serio?»
«È caduta nel giardino sul retro di qualcuno. Sono esplose tutte le
finestre. E anche il rifugio è saltato in aria. Però loro non erano dentro.»
Barbara fissa la sorella attonita, poi guarda le pareti di lamiera ondulata
e cerca di immaginare loro che saltano in aria.
«Non preoccuparti» dice Glenda, mentre si siede sul bordo del letto e si
toglie le scarpe. «Non succede mai due volte nello stesso posto.»
«Eccole che arrivano» dice Barbara, piegando la testa verso il fischio
lontano di una bomba incendiaria.
Glenda annuisce, aspetta l’esplosione (è molto distante), poi incrocia le
gambe e le si siede davanti. «Oh, sorella mia» dice, con tono drammatico.
«Cosa farò adesso?»
Barbara chiude il libro, una copia sgualcita di Little Black Sambo, e alza
lo sguardo verso Glenda, le cui sopracciglia corrucciate, alla luce della
candela, risaltano in maniera esagerata. «Cos’è successo, sorella?» le chiede.
«Domani Johnny verrà evacuato. La terza casa dopo la loro è stata
colpita e sua madre dice che restare qui è troppo pericoloso.»
Barbara annuisce con aria seria. Johnny è il ragazzo di Glenda, e anche
se lei non lo ha mai visto, anche se, perfino in quel momento, dubita della sua
esistenza, ha sentito molto parlare di lui. «Andrà nel Galles?»
Glenda scuote la testa. «Non tutti vanno in Galles, scema.»
«Questo lo so» mente Barbara. «Era solo una domanda.»
«Oh, è la cosa peggiore del mondo quando ti lasciano» dice Glenda.
«Voglio morire.»
«Oh, sorella!» dice Barbara, spalancando le braccia e stringendola in
modo goffo.
«Lui era la sola cosa che mi dava la forza di resistere» dice Glenda, una
frase che ha sentito di nascosto, quella mattina, dalla sua insegnante, la
signora Richardson, mentre si disperava.
«Non piangere» le dice Barbara, che si sta godendo non poco il suo
ruolo di confidente in quel melodramma.
«Non posso farci niente» dice Glenda, indietreggiando quel tanto che
basta a Barbara per vedere che è riuscita a produrre una sola, vera lacrima. La
capacità di produrre lacrime a richiesta è un talento che Glenda possiede, e
forse questa è una delle ragioni per cui Minnie non ci fa quasi mai caso.
«Non devi piangere» le dice Barbara. «Se la mamma ti vede, ti manderà
nel Galles.»
«Forse dovrei piangere» risponde Glenda. «Almeno così rivedrei
Johnny.»
«Ma lui non è nel Galles» dice Barbara, confusa.
Si sente il fischio di un’altra bomba, seguito a poca distanza da
un’esplosione lontana e poi, senza preavviso, un boato sorprendente, che
scuote la terra e fa traballare il letto, sfarfallare la luce della candela, e perfino
increspare il pavimento. Poi cala un silenzio di tomba, e soltanto dopo una
trentina di secondi, quando iniziano a recuperare l’udito, le ragazze si
rendono conto che il silenzio non è dovuto al fatto che il mondo ha cessato di
esistere, ma che per qualche momento erano diventate sorde.
Rimangono immobili, con le gambe incrociate una davanti all’altra,
finché Glenda, che sembra davvero nel panico, tira giù le gambe dal letto e
comincia a infilarsi le scarpe.
«Dove stai andando?» chiede Barbara. «La mamma ha detto…»
«La mamma ha detto, la mamma ha detto» ripete Glenda.
«Ha detto di non muoverci. Ha detto che non dobbiamo farlo nella
maniera più assoluta.»
«È dalla mamma che sto andando» dice Glenda. «E se fosse stata
colpita?»
Barbara si morde il labbro inferiore. Non sa cosa fare. Non sa cosa dire.
Quando la porta si spalanca e compare Minnie, Barbara lascia andare il
respiro che stava trattenendo. «L’avete sentita?» dice Minnie, fiondandosi
dentro al rifugio. «Per poco non rovesciavo la zuppa. Giuro che
quell’esplosione mi ha scompigliato i capelli.»
Appoggia la pentola su un piccolo sgabello, poi si volta e chiude la
porta. «Siete state coraggiose?» chiede, e Barbara si volta giusto il tempo
necessario per asciugarsi una lacrima, una lacrima di vero sollievo, che le ha
rigato la guancia. «Sì» dice. «Stiamo benissimo, non è vero sorella?»

La paura è così pervasiva, così costante, che inizia a sembrare normale.


Ma avere paura, anche se perennemente, non significa non averne, e Barbara
vorrebbe essere più forte, come sua madre, o ancora meglio, come sua
sorella, che a quanto pare ne è immune, che sembra ancora eccitata ogni volta
che c’è un’esplosione, ogni volta che una bomba le manca di poco.
Ma il pericolo è innegabile, i segnali ormai sono ovunque. La casa in
fondo alla strada non c’è più, tutti i membri della famiglia che ci vivevano
sono morti; il gazometro dietro l’angolo è in fiamme. Le giornate a scuola,
Barbara le trascorre ascoltando le sirene antiaeree lontane, e ogni tanto, se si
concentra, riesce a sentirle prima di tutti. Ogni tanto le capita anche diversi
minuti prima che la sirena locale li avverta di scendere in cantina, dove,
nonostante i giochi e le canzoncine e i diversivi a cui ricorrono le maestre,
Barbara continua comunque a tendere l’orecchio in cerca di indizi per capire
cosa succede sopra di lei. Sta tentando di captare un segnale segreto che le
permetta di distinguere quel bombardamento dagli altri; sta cercando di
carpire una qualche vibrazione nascosta, impercettibile all’udito, che
potrebbe rivelare che tutto è cambiato, che Glenda e sua madre, questa volta,
non si sono salvate.
Quando le incursioni aeree finiscono, torna a casa nell’oscurità assoluta,
passando accanto a ombre confuse di abitazioni bombardate, a macerie
ancora fumanti, a sagome indistinte che potrebbero appartenere a qualche
amico, solo che è troppo buio per vedere. A volte un edificio in fiamme
illumina la strada, e lei supera con un salto le grosse manichette antincendio,
simili a serpenti, trascinate da vigili del fuoco esausti e anneriti. Cerca di non
notare il giocattolo di un bambino che spunta da sotto un muro crollato, di
non pensare quale sia l’origine della macchia rossa sul marciapiede. La
guerra non censura nulla, perciò lei prova a censurarsi da sola. E adesso deve
girare l’ultimo angolo; trattiene il respiro. La casa ci sarà ancora? Starà
bruciando? O sarà crollata?
Entra e si mette seduta a fissare la porta, aspettando che Glenda e sua
madre la varchino separatamente, sperando che la sirena non suoni prima che
lo facciano. Ed eccole lì, a dimostrare che è successo di nuovo: sono state
risparmiate, un altro miracolo giornaliero nel caos di una Londra bombardata.
Ma oggi qualcosa è diverso. Barbara lo percepisce. Sua madre sta stringendo
la mano di Glenda, che è bianca come un lenzuolo.
«Forza» le dice Minnie. «Prendi le tue cose. Stasera andiamo al
rifugio.» Barbara non chiede il motivo; non vuole sapere cos’è successo,
perché ha imparato che in ogni giornata c’è una dose di terrore sufficiente per
tutti, e che condividerlo con gli altri è superfluo, che condividerlo con gli altri
serve solo ad aggravare il fardello di ciascuno. È un’enorme lezione di vita
che non dimenticherà mai.
Le incursioni aeree della sera prima hanno colpito il loro quartiere
provocando dei morti, perciò il rifugio del circolo della gioventù, nel tunnel a
volta del seminterrato, è strapieno. Ci sono posti a sedere ma niente di più.
Minnie dice a Barbara di badare a sua sorella maggiore e si avvia in punta di
piedi verso l’estremità opposta per farsi dare della zuppa dalle donne del
Servizio Volontario Femminile. Tutti intorno a loro sembrano esausti;
nessuno ha dormito molto la notte precedente.
«Stai bene, sorella?» chiede Barbara, un po’ infastidita dal silenzio di
Glenda. Non ha ancora detto una parola.
Glenda annuisce e sbatte lentamente le palpebre. «Stavano dormendo»
dice a bassa voce. «Tutta la famiglia. Era una inesplosa dalla sera prima,
quindi non erano nemmeno nel rifugio. Non che sarebbe cambiato qualcosa.
È crollato anche quello.»
Barbara annuisce e spera che Glenda non le dica chi è morto. Non le
piace dare nomi e volti a quelle storie, perché sa che, una volta materializzati,
avranno il potere di perseguitarla nei sogni, trasformandoli in incubi.
«Povero Billy» dice Glenda, scuotendo la testa e respirando in modo
affannato per via dello sforzo che sta facendo per non piangere.
Povero Billy, ripete Barbara nella sua testa e poi, nonostante non voglia,
l’immagine del compagno di scuola di Glenda, Billy Holt, prende forma nella
sua mente, subito seguito da quella della signora Holt che spazza il portico. Il
suo pensiero vola alla sorella di Billy, Harriet (con la quale ogni tanto ha
giocato) ma decide, in modo piuttosto razionale, di non fare domande.
Ciononostante, immagina Harriet, a cui ha sempre invidiato i bei vestiti,
sepolta sotto le macerie, il cotone pulito, inamidato, schiacciato sotto il peso
dei mattoni caduti. Si chiede che sensazione si provi.
Minnie torna con delle tazze di zuppa annacquata e Barbara prende la
sua, la stringe tra le mani e conta fino a dodici per rimandare il primo sorso.
Sa per esperienza che il suo desiderio di berla è più potente della capacità che
la zuppa ha di soddisfare effettivamente la sua fame. Le piace aspettare il più
possibile.
«Bevi» dice Minnie a Glenda. Si china in avanti e le toglie i capelli
dagli occhi; una rara dimostrazione d’affetto riservata a occasioni eccezionali
come questa.
Una donna dall’altra parte dello scantinato inizia a intonare a voce alta
Doing the Lambeth Walk, cercando di convincere gli altri a unirsi a lei, ma
quella sera nessuno si fa coinvolgere (non funziona sempre), e così alla fine
del primo verso ci rinuncia, poi mormora: «Allora andate al diavolo», e in
questo modo riesce, se non altro, a suscitare qualche risata.
«Siamo sfiniti, Annie» grida qualcuno, e Glenda, per cui sarebbe stato
difficile sopportare che si mettessero tutti a cantare in coro, si sente sollevata.
Minnie, che sostiene di non riuscire a dormire seduta (anche se le
ragazze gliel’hanno visto fare spesso), va a fare due chiacchiere con la
signora Peters che si trova dall’altra parte del seminterrato.
Nell’angolo più lontano dalla lampada a gas, una coppia si sta
scambiando effusioni di nascosto sotto i cappotti. Barbara osserva per un
attimo le forme in movimento e si chiede cosa si provi a fare quelle cose, poi
sposta l’attenzione sulla donna accanto a loro che sta lavorando a maglia, per
fare quello che sembra un guanto.
Dopo aver finito la zuppa chiude gli occhi e, ignorando le lamentele del
suo stomaco, cerca di immaginare il suo posto preferito del momento, una
fattoria nel Galles.
«In tutte le fattorie ci sono le mucche?» chiede a sua sorella, aprendo gli
occhi per un momento, e Glenda, che di fattorie ne sa quanto la sua sorellina,
dice: «Oh, sì. Ci sono sempre molte mucche. Altrimenti non ci sarebbe latte,
ti pare?».
Rassicurata non solo sulla sua idea di fattoria, ma anche dal fatto che
sua sorella ha ripreso a parlare, chiude di nuovo gli occhi e visualizza nella
sua mente una donna gallese con le gote rosa che munge una mucca e
raccoglie il latte direttamente in una bottiglia. «Portalo nel caseificio, ti
dispiace, Barbara?» dice la donna. «E se ti va un po’ di formaggio, serviti
pure.»
2011 — SHOREDITCH, LONDRA

«Sophie, tesoro!» Genna Wild attraversa con passo leggiadro lo spazio


accecante dell’ampia galleria per andare incontro a Sophie, che si sta
togliendo il cappotto bagnato. Dietro di lei, la pioggia cade dal cielo cupo di
una Londra ottobrina.
«Ce l’hai fatta!» le dice Genna, aiutandola a sfilarsi il cappotto mentre
le sorride estasiata, come se lei fosse la persona che più adora sulla faccia
della Terra. «Che gioia!»
«Stai scherzando?» dice Sophie. «Non me la sarei persa per nulla al
mondo. Nemmeno in una serata spaventosa come questa.»
Genna arriccia il naso. «È orribile, vero? Ti accompagno a prendere
qualcosa da bere. Il bianco è veramente speciale. Dal nome sembra tedesco,
ma a quanto pare è alsaziano.»
Mentre cammina dietro Genna, Sophie osserva la folla intorno a lei: una
quarantina, se non addirittura una cinquantina di persone, che hanno sfidato il
maltempo per vedere le fotografie di Arakis o forse, come lei, per il vanto di
essere presenti alla sua mostra.
Quando raggiunge il tavolo delle bevande, inizia a notare le fotografie,
stampe in bianco e nero grandissime, di tre metri, per lo più di donne nude, di
donne nude molto legate. Alla sua destra, l’immagine di una donna legata in
una vasca da bagno smaltata, e alla sua sinistra, di un corpo nudo appeso al
soffitto con una corda.
Odia quelle foto. Questa è la sua prima reazione, e cerca, mentre
sorseggia il vino, di analizzarne il motivo, cerca di capire quanto quella sua
avversione sia politica e quanto sia, be’, gelosia, anche se non è proprio la
parola esatta. Per come la vede lei, quegli scatti sono pornografici;
tecnicamente egregi, con una luce splendida, ma pur sempre pornografici.
«Non sono bellissime?» dice Genna, seguendo lo sguardo di Sophie,
perciò lei arriccia il naso in modo carino e annuisce. Non c’è ragione di
litigare con la proprietaria di una delle gallerie fotografiche di maggior
successo di Londra; non ce n’è proprio ragione.
«Bisogna far girare la voce» dice Genna, voltandosi, per poi precipitarsi
di nuovo all’entrata ad accogliere un nuovo arrivato: un uomo un po’ in
sovrappeso ed estremamente pallido, con un paio di occhiali rotondi e un
abito a scacchi grigio molto bagnato. «Brett!» esclama. «Oh, è meraviglioso
che tu sia riuscito a venire!»
Sophie si sposta sulla destra e si posiziona davanti all’enorme fotografia
di una donna nuda, incinta, anch’essa legata con un gran quantità di corde.
«Che energia!» dice un uomo accanto a lei mentre osserva la foto da
sopra gli occhiali a mezzaluna.
«Sì» dice Sophie, mentre pensa: Sul serio? Dove?
Ma ci deve andare a questi eventi, deve capire cosa succede lì. Deve,
più di tutto, trovare un modo per iniettare un po’ di quell’entusiasmo nella
sua di carriera. Ma come? Come può fare in modo che la gente cominci
improvvisamente a elogiare il suo lavoro? Forse bisogna davvero scioccare,
pensa. Forse dovrebbe cominciare a legare gli uomini e a fotografare loro.
Questo sì che sarebbe un bel cambiamento. No, troppo banale, visto e rivisto.
Ma d’altra parte, non lo è anche questo?
«Sophie, lui è Brett» dice Genna, che è ricomparsa accanto a lei. «Non
credo vi conosciate, vero?»
Giungendo alla conclusione che Genna voglia appiopparle il Barbapapà,
Sophie sbuffa senza farsi notare e stringe la mano fredda e umida di Brett,
sforzandosi di sorridere. Ricorda a se stessa che non è qui per cercare un
uomo. È qui per entrare nel giro e non sarà così ingenua da lasciare che si
noti il suo disprezzo (basato solo sull’aspetto fisico). «Sophie Marsden» dice.
«Brett Pearson» dice l’uomo, ricambiando la sua stretta con la mano
floscia.
Sophie resiste alla tentazione di asciugarsi la mano sul vestito, poi lo
fissa con aria un po’ meditativa. «Brett Pearson» ripete. «Questo nome mi
dice qualcosa.»
Lui scuote le spalle. «Forse l’hai visto sul Times?»
«Ah, giusto! Il nuovo corrispondente critico d’arte.»
«Corrispondente junior. Sì.»
«Fantastico» dice Sophie, pentendosi subito di aver usato un
superlativo. Non deve esagerare. Non deve sembrare Genna. È importante
non dare l’impressione di essere un’adulatrice.
«Marsden» dice Brett, pensieroso. «Lo sai, c’è un fotografo che si
chiama Marsden. Be’, c’era. Anthony Marsden. Conosci i suoi lavori per
caso?»
«Vagamente» mente Sophie.
«È morto molto tempo fa» dice Brett. «Ma era bravo. Molte foto di
denuncia sociale. Negli anni Settanta.»
Sophie strizza gli occhi e scuote la testa in modo vago. «Io, insomma, in
realtà lo conosco solo di nome» dice.
«Allora, cosa ne pensiamo di queste?» le chiede Brett, agitando il
bicchiere verso la foto davanti a loro con una tale veemenza che per poco non
rovescia il vino.
«Non saprei» dice Sophie, mentre per precauzione segue con la coda
dell’occhio il vino che ondeggia, e intanto aspetta che Brett si sbottoni per
primo. «Cosa ne pensiamo?»
«Tre parole, una lettera» dice Brett.
«Come prego?»
«Oh, è… ecco, un gioco» le spiega Brett. «Lo faccio quando non riesco
a farmi un’opinione su un’opera. I primi tre aggettivi che mi vengono in
mente. Ma devono cominciare tutti con la stessa lettera.»
«Non sono sicura di seguirti» dice Sophie. «Comincia tu.»
«Tormentate, tetre e torbide» dice Brett.
«Ah, d’accordo. Ho capito.»
«E i tuoi?»
«Ehm…»
«Senza pensare» dice Brett. «Se no è inutile.»
«Bene, allora… sibilline, strumentali, e, ehm, sterili» dice Sophie. Si
guarda in giro per controllare che Genna non sia nei paraggi, poi fa una
smorfia e si copre la bocca con la mano, come fanno i giapponesi. «L’ho
detto davvero?» chiede. «Del grande Arakis?»
Brett le sorride in modo strano. A Sophie sembra una via di mezzo tra
un sorriso e un ghigno. E con sua sorpresa, la trova una combinazione molto
sexy.
«Credo di capire cosa intendi» dice Brett. «Suppongo sia una linea
sottile.»
«Probabilmente la mia è una reazione esagerata» dice Sophie. «È solo
che sono un po’ stanca del fatto che le donne abusate siano sinonimo di arte.
Mi sembra tutto un po’ anni Ottanta. Non so se mi sono spiegata.»
«Madonna? Erotica? Lasciati andare al piacere, lasciati andare al
dolore?»
«Esatto!»
«Ma adesso è molto in voga» dice Brett. «Ah! Vogue! Hai visto cos’ho
fatto?»
«Sì, come no.»
«Però come la metti con Cinquanta sfumature di grigio e…»
«Con cosa scusa?»
«Cinquanta sfumature. Il romanzo sadomaso?»
«Mi devi perdonare. Non leggo quanto dovrei.»
«Oh, questo puoi anche evitare di leggerlo. A meno che tu non sia
interessata a quel genere di cose. Ma dalle mie parti ha avuto un successo
enorme, e di sicuro tra non molto arriverà anche qui.»
«Terrò gli occhi aperti.»
«Comunque, per quanto riguarda queste, non sono sicuro che siano di
per sé strumentali» dice Brett, mentre si spostano verso la foto successiva,
perfino più scioccante. «Insomma, si presume che lei sia una modella
professionista. Non l’ha obbligata nessuno. Sembra addirittura che ci provi
gusto.»
E all’improvviso, anche se quello è il critico d’arte del Times, Sophie
non riesce a trattenersi. «Dunque, qui abbiamo una donna che viene pagata da
un uomo ricco per spogliarsi, che viene pagata per essere legata nuda, che
viene pagata, per uno schiribizzo del fotografo, per farsi infilare la coda di un
dinosauro di plastica dentro la sua… Dentro di sé! Oh, e che viene pagata,
tanto per dirla tutta, per dare l’impressione, com’è che hai detto? Oh, “che ci
provi gusto”. Proprio così. E questo non è strumentalizzare?»
«Devi perdonare Sophie» dice Genna, mettendosi tra di loro con quello
che sembra il preciso intento di limitare i danni. «È iperpoliticizzata. Tale
padre, tale figlia.»
«Oh, io sono abbastanza d’accordo con lei» dice Brett. «Ma sai, finché
la stampa ne parla, i compratori comprano, i clienti si eccitano e i POS
continuano a sputare fuori quelle piccole ricevute (qui fa un cenno con la
testa verso l’apparecchio nella mano di Genna), chi se ne importa, giusto?»
Per un attimo Genna rimane di stucco, chiaramente indecisa su come
reagire, poi si lecca le labbra, sorride e scoppia a ridere. «Brett! Sei
tremendo!» dice. «Proprio tremendo! Adesso promettimi che non è questo
che scriverai nel tuo pezzo.»
«Ti prometto che non è questo che scriverò nel mio pezzo» ripete Brett,
sottovoce. «Senti, si può avere un altro bicchiere di quel vino bianco?»
«Ma certo!» dice Genna, prendendolo per un braccio e trascinandolo via
da Sophie di peso. «È delizioso, vero?»
Accidenti, si dice Sophie. L’hai fatta grossa.

«Allora, Genna mi ha detto che Anthony Marsden era tuo padre» dice
Brett. «Ti sei offesa perché non lo sapevo, o ti stavi solo prendendo gioco di
me?»
«Mi stavo solo… divertendo un po’ a tue spese» dice Sophie, mentre si
chiede com’è successo che sia andata via dalla galleria con Brett. È perché
adesso lo trova attraente, o è solo per via di quel terzo bicchiere di vino? O
peggio ancora, c’entra con il fatto che è il critico d’arte del Times? E se fosse
un insieme di tutte quelle cose? Sarebbe una giustificazione plausibile?
«Ha smesso di piovere» dice Brett, chiudendo l’ombrello. «A questo
punto potremmo anche camminare. Sempre se stiamo andando da me. Io
abito a Hoxton, perciò da qui saranno una decina di minuti.»
Sophie lo guarda e pensa di fingersi scandalizzata, pensa di dire: E
perché sei giunto alla conclusione che io stia venendo a casa tua? Ma poi lui
le rivolge di nuovo quel sorriso/ghigno (un sorriso lascivo, ecco l’aggettivo
giusto) e senza rendersene conto gli dice: «Ma certo, camminiamo. Mi piace
camminare, e poi sono stata tutto il giorno al chiuso».
Fa freddo ed è umido, ma c’è qualcosa di molto piacevole in quelle
serate dal sapore quasi invernale, nei riflessi delle luci sui marciapiedi
bagnati, nel rumore delle auto che tagliano l’aria e dei tacchi che picchiettano
sull’asfalto, a cui Sophie non riesce a resistere. Londra sembra molto più se
stessa con l’avvicinarsi dell’inverno, quando le strade brillano per la pioggia.
«Mi è giunta voce che anche tu sei una fotografa» dice Brett.
«Immagino non sia facile essere all’altezza del cognome che porti.»
«No, non lo è» dice Sophie. «Ma io mi occupo principalmente di moda.
Quindi è, insomma, tutto un altro mondo.»
«Ah!» dice Brett, mentre chiude il primo bottone della giacca, solleva il
bavero per ripararsi dal freddo e si sistema la cravatta, che così spunta un po’
di più dal colletto della camicia.
«Ah?»
«Sai, moda. È solo che stride un po’ con il tuo discorso. Su Arakis. Mi
sarei aspettato che fotografassi bambini denutriti, o lesbiche, o roba del
genere.»
«Sì, be’…» concorda Sophie, scioccata dal fatto che Brett abbia
scoperto così in fretta il suo punto debole, l’unico punto che può davvero
farle venire voglia di piangere. «Dobbiamo fare tutti dei compromessi, non
credi?» prosegue. «E siamo tutti pieni di contraddizioni. Fa parte dell’essere
umani.»
«Immagino di sì» dice Brett, dubbioso. «E non ti porti dietro
l’attrezzatura?»
«Come, scusa?»
«Tutti i miei amici fotografi hanno sempre con loro la macchina
fotografica.»
«Oh, io ho questa» dice Sophie, tirando fuori la sua Leica compatta
dalla tasca interna, per poi rimetterla dentro. «Ma non mi porto dietro quella
grande, a meno che non stia andando a fare un servizio. Perché? Volevi che ti
fotografassi?»
«Forse» dice Brett, sollevando un sopracciglio mentre le rivolge un altro
sorriso lascivo e impertinente.

Il suo appartamento è bellissimo. Dallo squallido pianerottolo, che


sembra uscito da un film di Mike Leigh, entrano in un salone ampio che è
così bianco, così chic, da sembrare quasi una galleria espositiva.
«Wow!» esclama Sophie, andando dritta sparata verso i grandi
finestroni. «Camera con vista!»
«Eh, già. Si riesce a vedere persino il fiume» dice Brett.
«Ti faccio i miei complimenti.»
«Sono in affitto» dice Brett. «E in condivisione. Quindi non è il caso.»
«Certo.»
«Non sono ancora sicuro di rimanere, perciò…»
«Rimanere?»
«Sì. Potrei tornare a casa.»
«E casa è…?»
«A Manhattan.»
«Giusto. Be’, posso capire che tu sia tentato.»
«Ma Londra per adesso va bene» dice, mentre appende la giacca sullo
schienale di una sedia, si allenta la cravatta color oro e si apre il primo
bottone della camicia. «Allora, qualcosa da bere? Da mangiare? Un bacio?
Qualche diabolico giochino con la corda, magari?»
«Comincia con qualcosa da bere» dice Sophie «e vediamo dove ci
porta.»
«Certo» dice Brett. «Facciamo così.»
1941 — SHOREDITCH, LONDRA

Riescono a vedere le fiamme da tre isolati di distanza, e mentre la


madre si stringe le mani l’una nell’altra, Barbara capisce che è successo
qualcosa di brutto. Tutte e tre stanno pensando la stessa cosa: È casa nostra
quella? Ma mentre camminano nella luce tenue del mattino, nessuno dice una
parola.
Quando si avvicinano all’angolo della loro strada, sentono l’odore del
fumo e vedono le manichette antincendio. Minnie comincia a correre,
trascinandosi dietro sua figlia. Glenda è già davanti a loro.
Svoltano l’angolo e, per un secondo, è come se si fossero sbagliate,
come se non si trovassero nel posto giusto, perché la strada è irriconoscibile.
La casa di fronte, quella dei Robinson, è sparita, c’è solo un cumulo di
macerie. Quella a sinistra della loro, dove vivono (vivevano?) gli Smiths e gli
Havershams, sparita anche quella. E la casa a destra, il numero ventisei, è una
palla rossa di fuoco che si espande scoppiettando, dalla quale si solleva una
colonna ondeggiante di fumo scuro verso il cielo.
«Oh» dice Minnie, e in realtà sta solo rilasciando il respiro, non era una
parola. Perché di parole non ne ha.
Cinque pompieri anneriti stanno puntando le manichette verso
l’incendio. È chiaro che sono lì da un po’ di tempo ormai, poiché non danno
l’impressione di essere trafelati: si sente solo il rumore dei getti d’acqua che
colpiscono le fiamme alla base, getti che, per quanto enormi, sembrano del
tutto insufficienti a svolgere il loro compito. Potrebbero anche spruzzare
petrolio visto il risultato che stanno avendo.
Dopo un intero minuto di paralisi, Minnie dice: «La mia scatola di
latta!» e di colpo si separa dalle figlie. «Restate qui!» ordina alle ragazze,
mentre comincia a correre verso la loro casa, saltando sopra le manichette per
poi aprire il cancelletto del cortile, che sembra assurdo in mezzo a tutta quella
devastazione. Un cancelletto per proteggere da cosa, esattamente?
Immaginandosi l’edificio che crolla, Glenda grida: «Mamma! No!» e
lascia andare la mano di Barbara per correrle dietro.
Il vigile del fuoco più vicino si volta per vedere cos’è quel trambusto e
molla il tubo, che serpeggia e cade a terra, per poi piegarsi su se stesso,
spruzzando per un attimo l’acqua addosso a Barbara, prima di avvolgersi e
sistemarsi contro la ruota di un’autopompa. L’uomo supera con un salto il
muretto di divisione che separa i due giardini e afferra Minnie per un braccio,
proprio mentre lei sta cercando di aprire la porta.
Ne scaturisce uno scontro (una vera e propria lotta) in cui Minnie,
trattenuta da dietro dal vigile del fuoco, si piega e scalcia e grida disperata
che lì c’è la sua scatola di latta mentre cerca, invano, di liberarsi. Intanto
Glenda la tira per un braccio, urlando, in lacrime: «Mamma, ti prego, no! È
pericoloso. Ho paura. Ti prego, mamma, ti prego!».
Barbara resta ferma sul marciapiede bagnato a osservare l’intera scena,
tra la puzza di fumo, il calore delle fiamme sulla faccia, il crepitio del legno
che brucia, e il rumore dei vetri delle finestre che scoppiano per le alte
temperature. Vede il pompiere che alla fine perde la pazienza e tira un
ceffone a sua madre. Vede quando tutto si ferma, Minnie che lascia cadere le
braccia lungo i fianchi, si piega su se stessa e grida a pieni polmoni un lungo
e acuto: «Nooo!» prima di permettere a Glenda, e poi a un addetto alla
protezione antiaerea che è accorso per unirsi alla mischia, di trascinarla via
dalla porta e ricondurla in strada, accartocciata su se stessa come un mucchio
di vestiti abbandonati.
Glenda torna da lei, e il pompiere, senza smettere di tenere d’occhio
Minnie (gli è già capitato che qualcuno facesse un secondo tentativo),
attraversa la strada per parlare con loro.
«Potrete prendere le vostre cose domani, d’accordo?» dice alle due
ragazzine. «Adesso portate via la mamma. È meglio che non rimanga qui
stasera. È meglio che non resti ad assistere.»
«Portarla dove?» chiede Glenda. «Dove dovremmo andare?»
«Ma quella è casa nostra» protesta Barbara con tono arrabbiato, perché
ha la sensazione che quell’uomo cattivo che ha schiaffeggiato sua madre non
abbia capito quel semplice fatto.
«Da un amico, magari» dice il pompiere. «O in un rifugio. E tornate
domani quando l’incendio sarà spento.»
Glenda annuisce con espressione seria. «Grazie» dice, e Barbara la
guarda, sbattendo le palpebre perplessa.
Prendendo sua sorella per mano, Glenda s’incammina verso Minnie, che
nel frattempo si è seduta su un muretto e sta ricevendo una severa ramanzina
dall’addetto alla protezione aerea, ma quando passano accanto alla casa
crollata, la casa dei Robinson, Barbara si blocca.
«Forza!» la esorta Glenda, tirandola per farla muovere, poi le chiede:
«Che c’è?».
Con la mano libera, Barbara indica qualcosa, allora Glenda segue lo
sguardo della sorella, e sul suo viso illuminato dalla luce tremolante si forma
una smorfia. «Oh.»
«Guarda» le dice Barbara.
«Sì. Ehm, vai dalla mamma e io… lo dico al pompiere. Lui saprà cosa
fare.»
Barbara riprende a camminare in modo meccanico, con la testa girata
all’indietro, incapace di distogliere gli occhi da quello spettacolo orrendo.
Alle sue spalle, sente Glenda gridare: «Mi scusi! Mi scusi! Signor
pompiere!».
«Sì?» risponde l’uomo.
«C’è qualcuno incastrato sotto quella porta» dice, con la voce che le
trema per la commozione.
«Cosa?»
«Si vede la mano che spunta. Da quella parte. C’è qualcuno sotto quella
porta.»
«Gesù!» dice il pompiere, camminando all’indietro per poter guardare
meglio mentre continua a indirizzare la pompa verso il fuoco davanti a lui.
«D’accordo, tesoro» dice con calma, senza agitarsi, come se tutto quello
fosse quasi normale routine. «Non ti preoccupare. Li tireremo fuori. Adesso
tu vai da tua madre. Vai!»
Dopo che Glenda ha raggiunto di corsa Barbara e l’ha ripresa per mano,
lo sentono gridare: «Jack! JACK! Ne hanno lasciato uno da quella parte. C’è
un altro corpo. Puoi venire ad aiutarci?».

Quel giorno Minnie non va al lavoro, e le ragazze non vanno a scuola.


Non sapendo cos’altro fare, e con in più la preoccupazione per Minnie,
ancora in una specie di stato di trance che Glenda non ha idea di come
gestire, tornano al circolo della gioventù. Essendo giorno, e poiché non c’è
stato nessun allarme antibomba, il rifugio è quasi vuoto.
Minnie si sdraia su un materasso libero e, per quanto ne sanno le
ragazze, dorme tutto il giorno.
«Cos’ha la mamma?» chiede Barbara.
«È solo stanca» le risponde Glenda. «Ieri notte non ha chiuso occhio.
Non riesce a dormire da seduta. Lo sai.»
Ma Minnie non è stanca. E non sta neanche dormendo. Semplicemente,
ha esaurito la forza d’animo. Perché non è, anche se tutti continuano a fingere
il contrario, una risorsa illimitata. Dato che le ore nel rifugio scorrono
lentissime, Glenda porta Barbara, che sta iniziando a diventare insofferente, a
fare due passi. Camminano senza meta per le strade deserte, alcune non
toccate dai bombardamenti, altre in cui mancano case e negozi, e poche,
come la loro, così irriconoscibili che Glenda teme si siano perse.
A Liverpool Street s’imbattono in una manifestazione di comunisti che
vogliono poter accedere alle stazioni della metropolitana per trovare riparo
dai raid aerei, perciò rimangono lì a guardare e ascoltare i cori finché non
arriva la polizia e comincia a crearsi un gran scompiglio; a quel punto Glenda
decide che è il caso di tornare verso Shoreditch.
Mentre inizia a farsi buio, passano nella loro via. Le fiamme sono state
domate, e la loro casa, benché annerita e senza finestre, è intatta. Con i resti
fumanti del numero ventisei da un lato, e il cumulo di macerie che è il civico
ventidue dall’altro, regala uno spettacolo desolante.
Le ragazze, senza fare commenti, lanciano un’occhiata dall’altro lato
della strada, all’abitazione crollata. Vedono che né la mano né la porta ci
sono più.
Spostando di nuovo lo sguardo su casa sua, Barbara chiede: «Possiamo
entrare?».
«Non si dovrebbe.È pericoloso, credo.»
«Pericoloso?»
«Potrebbe venire giù.»
Barbara annuisce. Notando che Glenda si guarda furtivamente in giro,
dice: «Ma tu vuoi andare a prendere la scatola di latta della mamma?».
«Sì» dice Glenda. «Sì, penso di sì.»
«È nel forno.»
«Lo so. Se non l’hanno fregata. E voglio prendere anche il mio vestito
bello, prima che qualcuno si freghi quello.»
«Il tuo vestito del compleanno?»
«Sì.»
«Mi puoi prendere Lucy Loop?»
«Se la vedo» dice Glenda, lanciando un’altra occhiata a destra e a
sinistra prima di mettersi a correre, superando l’edificio bruciato, per poi
girare verso il retro della casa.

Quando tornano al rifugio, Minnie è ancora sdraiata di schiena a


guardare il soffitto. La gente sta cominciando ad arrivare, e il fatto che abbia
occupato un intero materasso presto scatenerà delle gelosie.
«Ho recuperato la scatola di latta» le dice Glenda orgogliosa, e il viso di
Minnie comincia ad animarsi, come se qualcuno le avesse messo delle pile
nuove. Prima aggrotta le sopracciglia, poi spalanca gli occhi, e alla fine si
mette seduta su e fissa Glenda in modo strano; sembra che le abbia parlato in
una lingua straniera che lei non capisce bene.
«C’è ancora tutto, credo» dice Glenda, porgendole la scatola con un
cenno di incoraggiamento.
Minnie deglutisce, poi strappa la scatola arrugginita della Jacob’s
Cracker dalla mano della figlia.
Toglie il coperchio e comincia a tirare fuori il contenuto: un mazzo di
banconote tenute insieme da un elastico, una mucchietto di foto con gli angoli
spiegazzati, i certificati di nascita delle ragazze, la fascia per capelli di sua
madre, l’orologio rotto di Seamus… E le butta tutte da una parte. Non sono
quelle la sua preoccupazione principale.
E poi trova la sua fede nuziale. Se le infila al dito e dice: «Grazie a Dio.
Non me la leverò più». Alza lo sguardo verso Glenda e riesce ad abbozzare
un sorriso. «Sei una brava ragazza, Glenda» le dice. «Non so cosa farei senza
di te.» E Barbara pensa che vorrebbe essere stata lei a sfidare i pericoli della
casa per recuperare la scatola.
«Possiamo guardare le foto?» le chiede Glenda.
Minnie sospira, poi annuisce e picchietta la mano sulla parte di
materasso libera accanto a lei. «Ma certo» dice, poi, rivolgendosi a Barbara e
notando la bambola sotto il suo braccio, aggiunge: «Anche tu. Porta Lucy
Loop e siediti sulle mie gambe».
Barbara si infila tra le braccia della madre e per la prima volta, quel
giorno, si sente di nuovo al sicuro.
«Questo è stato il nostro primo viaggio» dice Minnie, prendendo la
prima foto sgualcita del mucchio. «Questo qui è il molo di Margate.»
Tutte e tre fissano la foto, in cui una donna semplice ma carina sorride
timidamente, mentre si tiene per mano con un ragazzo di bell’aspetto vestito
tutto elegante con l’abito della domenica.
Barbara allunga la mano e passa il dito sull’immagine del padre, quasi
come se potesse toccarlo, come se questo potesse farglielo sembrare più
reale.
Quella scena è così diversa, così avulsa da tutto ciò che le circonda, che
a nessuna di loro viene in mente qualcosa da dire, perciò restano lì sedute, un
po’ inebetite, la madre e le due figlie. La fissano e si chiedono, ognuna a
modo proprio, se le cose torneranno mai a essere così semplici.
Quando arrivano a casa, la mattina seguente, trovano la parola
PERICOLO! scritta in rosso sulla porta, con le gocce di vernice che colano dalle
lettere.
La signora Haversham e suo figlio Bertie sono in quella che era la loro
abitazione, dove prima c’era il soggiorno, e stanno frugando tra i resti ancora
ardenti per cercare di recuperare qualcosa.
«Alice!» grida Minnie, scavalcando i pezzi di porta bruciata per andare
ad abbracciarla. «Allora state bene. Pensavo che non ce l’avevate fatta.»
«Grazie a Dio eravamo al rifugio» risponde Alice. «Poteva andare
peggio.»
Minnie annuisce pensierosa mentre per la prima volta si rende conto del
vero significato di quella frase. Si guarda intorno, poi alza gli occhi, dove
avrebbero dovuto esserci il soffitto e il tetto, e adesso c’è il cielo. «Mi
dispiace tanto. E gli Smiths?»
«Lei aveva mandato via i piccoli solo la settimana scorsa. Quindi loro
stanno bene. Ma…» In quel momento lancia un’occhiata a Barbara, e con
aria triste scuote la testa.
«Oh, quei poveri bambini» dice Minnie. «Quello che ci stanno facendo
è vergognoso. Vergognoso.»
«Noi stiamo andando a Dorking, da mia madre» dice Alice. «Siamo
felici di lasciare Londra, se ti devo dire la verità.»
Minnie annuisce.
«Dovreste andarvene anche voi» dice Alice. «O almeno manda via le
bambine.»
«Non posso» dice Minnie. «Ho il lavoro, sai? I nostri ragazzi hanno
bisogno di cappotti, qualcuno ci deve pensare.»
«Ho trovato questa» dice Bertie, sollevando una scarpa impolverata.
«Bene» grida Alice, poi, rivolgendosi a Minnie: «Metà delle cose sono
già sparite».
«Sciacalli?»
«Sono solo persone come noi. Persone senza niente. Ma hanno preso il
mio cappotto, quei disgraziati. E per giunta era l’unico che avevo. Li ho
cacciati anche da casa tua.»
Minnie annuisce, fa un sospiro profondo e poi, non venendole in mente
niente da dire che possa essere d’aiuto ad Alice, mormora: «Maledetto
Hitler», e se ne va.
Una volta entrata in casa, dove tutto è annerito e coperto di fuliggine, si
accorge che alcune delle loro cose sono già sparite.
«Possiamo sistemarla?» chiede Glenda.
«No» dice Minnie. «No, non credo.»
«Cosa faremo, mamma? Non possiamo mica vivere qui così.»
«No. No, non possiamo vivere qui» concorda Minnie.
«Potremmo stare nel rifugio scavato in giardino» propone Glenda,
storcendo il naso.
Minnie scuote la testa e osserva di nuovo la stanza, notando solo in quel
momento che tutta la carta da parati sul lato sinistro è bruciacchiata. Passa la
mano sinistra sul muro e sente che i mattoni sono ancora caldi.
Glenda raccoglie una foto incorniciata e toglie la cenere dal vetro con le
dita, scoprendo il viso del padre. «Dove vivremo, mamma?» le chiede.
«Non lo so. Devo parlare con quel tizio dell’amministrazione
comunale» risponde Minnie. «Sentiamo cosa dice.»
«Che faccio, prendo le nostre cose?»
«Sì» le dice Minnie. «Sì, ammucchiale fuori dalla porta. Qualunque
cosa riusciamo a portare. Qualunque cosa possa servirci. O che abbia valore.
E non lasciare che freghino niente.»
«Io posso aiutare» dice Barbara.
«Sì, aiuta tua sorella. E se c’è un bombardamento, andate nel rifugio.»
«Il nostro, o…?»
«Sì. Quello in giardino va bene. Andremo al circolo della gioventù
stasera.»
Minnie va in camera da letto e tira fuori il suo vecchio cappotto di
pelliccia dall’armadio. Lo annusa, poi lo scuote e se l’appoggia sul braccio
prima di uscire di casa. Sbircia dalla finestra bruciata dei vicini. «Ecco,
Alice!» grida, offrendole il cappotto. «Tieni, è per te.»
Alice lascia andare la manica di un maglione che sta cercando di
estrarre dalle macerie. «La tua bella pelliccia?»
Minnie annuisce. «Era di mia madre. Ma adesso è tua.»
«Sei sicura, tesoro?» le chiede Alice, mentre la prende e l’annusa come
se fosse ancora viva.
Minnie annuisce e sbatte lentamente le palpebre.
«Sento che dovrei rifiutare» dice Alice, con la voce rotta dall’emozione.
«Ma la prendo.»
«Bene» dice Minnie. «Mi raccomando, abbiate cura di voi a Dorking.»
«Lo faremo.»
«Io sto andando in comune a vedere se riescono a trovarci una
sistemazione.»
«Certo» dice Alice mentre s’infila il cappotto, e poi aggrotta le
sopracciglia, rendendosi conto della profonda incongruenza di indossare una
pelliccia in mezzo a un cumulo di macerie. «Be’, spero che vi diano un bel
posto.»

L’alloggio che viene loro assegnato è una stanza singola sopra un


negozio coperto di assi di legno in Willow Street. Ogni camera della grande
casa ospita un’altra famiglia rimasta senza un tetto. Poiché dista solo due vie
da Luke Street, riescono a portare a mano i vestiti, le foto e i piccoli oggetti
rimasti.
Minnie e Glenda sono scioccate all’idea di dover vivere in una stanza
singola, ma Barbara (che nei bambini che giocano sulle scale vede, non
squallore e povertà, ma divertimento e compagnia) si sforza di trattenere
l’entusiasmo. Capisce dall’espressione cupa di sua madre che non è
opportuno.
Minnie alterna frasi borbottate come: «Una sola stanza. Non è giusto», a
tentativi fasulli di rassicurare le figlie. «Staremo bene qui, vero ragazze?»
continua a ripetere, mentre gira per la stanza tirando via le foto incorniciate
dalle pareti. Sta togliendo le immagini felici della famiglia italiana che viveva
lì prima dell’internamento, per sostituirle con quelle della sua famiglia che
prende dalla scatola di latta; non è una cosa piacevole.
Quella sera, tornando al rifugio, passano per Luke Street un’ultima
volta. Il pretesto è di recuperare tre cuscini anneriti per potercisi sedere, ma in
realtà Minnie ha soltanto bisogno di rivedere la sua vecchia casa ancora una
volta, per convincersi che la loro vita lì è davvero finita. Solo che sono
arrivate troppo tardi. In casa non è rimasto più niente.

Ben presto, Barbara e Glenda si accorgono di preferire la vita a Willow


Street. La cucina al piano di sotto è una specie di punto di ritrovo per le
persone stanche della guerra, e nel giro di pochi giorni entrano a far parte del
circolo della cena, mettendo a disposizione la loro carta annonaria e
spartendosi con gli altri gli stufati di coniglio che Mildred riesce chissà come
a far comparire dal nulla.
Nel bagno in comune al primo piano c’è un po’ di acqua calda, perciò è
piacevole poterlo usare una volta a settimana per lavarsi da cima a fondo,
rispetto alla fredda vasca esterna di Luke Street. Anche il rifugio antiaereo è
più vicino adesso, e spesso Barbara lo raggiunge di corsa con uno dei suoi
nuovi amici, il piccolo Benjamin, che è zoppo, o Patty, o la “meticcia”
Yasmin.
Barbara si rende conto che sua madre non ha preso altrettanto bene il
cambiamento. Ha notato che sono loro adesso, invece di Minnie, a pulire la
stanza, e sospetta che nelle frequenti occasioni in cui non si presenta al
circolo della gioventù dopo il suono della sirena, non è, come lei sostiene,
bloccata in un altro rifugio perché non ha fatto in tempo, ma semplicemente a
casa, nella sua camera, nel suo letto.
L’amara verità è che, anche quando il suo settimo compleanno passa
come se niente fosse (eccezion fatta per il biglietto di auguri scritto a mano di
Glenda), a Barbara non importa. Si sente più al sicuro ed è più felice, e
mangia senza dubbio meglio da quando si sono trasferite a Willow Street.
Così, quando un giorno (in effetti il giorno prima che i bombardamenti
si interrompano inaspettatamente) Glenda a bassa voce le dice: «Mi sa che la
mamma si è arresa. Mi sa che tocca a noi badare a lei adesso», Barbara si
limita ad annuire.
«Non importa» dice. «Non mi dispiace.»
Ed è vero. Non le dispiace.
2011 — SHOREDITCH, LONDRA

Sophie raddrizza la schiena e si stiracchia il collo, poi afferra di nuovo il


mouse e torna a fissare lo schermo. Seleziona lo strumento “Clona” di
Photoshop e comincia a cancellare il punto nero a destra del naso del
modello. Sportswear Direct si serve dei modelli più a buon mercato che
riesce a trovare, e questa cosa si nota, secondo Sophie, dalla poca cura che
loro hanno, in linea generale, della propria pelle. Senza alcun ritocco, quelle
immagini potrebbero essere usate per pubblicizzare delle creme antiacne. Le
foto del “prima”, s’intende, non quelle del “dopo”.
Brett, alle sue spalle, ripiega rumorosamente il giornale, poi manda giù
quel che è rimasto del caffè e si posiziona dietro di lei per guardare lo
schermo del computer.
«Mhmm. Abbigliamento da pezzenti» dice, con un tono che a Sophie
sembra sprezzante; o forse quel mhmm voleva essere una proposta allusiva?
«Lo so» risponde con un sospiro. «Devo assolutamente trovare qualcosa
di meglio. Odio questa merda.»
«Odiare forse è un po’ esagerato» dice Brett.
«Non hai idea di quanto sia estenuante fare questo schifo ogni giorno»
dice Sophie.
«C’è di peggio. Potresti consegnare la spesa alla gente per la paga
minima salariale» dice Brett.
«Preferirei consegnare la spesa alla gente.»
«Fidati che non è cosi. Ce l’ha duro?» chiede Brett, indicando la
protuberanza dell’uomo nei pantaloni lucidi della tuta dell’Adidas.
«Una calza» dice Sophie. «Una grossa calza.»
«Allora è vero?»
Sophie si avvicina allo schermo e cancella un’altra imperfezione
sull’orecchio destro del modello prima di dire: «Le calze nelle mutande? Per
far sembrare che siano molto dotati? Certo che è vero».
«Sempre?»
«Quasi sempre.»
«Forse dovrei provare» dice Brett, avvicinandosi per appoggiarle
l’inguine sulla schiena.
Sophie lascia andare il mouse e si gira verso di lui. Accarezza il tessuto
dei pantaloni del completo e sente che Brett ha già una mezza erezione. «Non
credo che tu ne abbia bisogno, mio caro» dice, facendo scorrere la mano sulla
sua cravatta liscia per poi scendere fino alla vita e cominciare ad abbassargli
la cerniera.
Brett le allontana la mano con una risata. Guarda l’orologio, poi dice:
«Purtroppo non ho tempo, tesoro. Ho un appuntamento con una tua collega».
«Davvero? Con chi?»
«Colley.»
«Milly Colley?»
«Esatto.»
«Lo dici per farmi arrabbiare!»
«No. Tra poco ci sarà una sua mostra al Beetles. Abbiamo l’esclusiva.»
«Be’, tirale un ceffone da parte mia, d’accordo?»
«Avverto una punta di gelosia…»
«Fa le stesse stronzate che faccio io» lo interrompe Sophie. «Le offrono
lavori migliori solo perché è più carina, tutto qui.»
«In realtà non lo è» dice Brett, mentre le accarezza la guancia con il
dorso della mano, facendola sentire meglio per un attimo. «Ma forse è una
che la dà. Forse è per questo. Te lo farò sapere.»
«Bastardo.»
«È piuttosto brava, Sophie. Dai un’occhiata ai suoi scatti artistici.
Perfino le foto che ha fatto per Top Shop sembrano arte ultimamente. Si sta
muovendo bene. Sul serio, cercala su Internet.»
«Basta!» grida Sophie, alzando una mano. «Vai!» Si volta verso l’uomo
palestrato di Sportswear Direct e Brett, dietro di lei, sospira e comincia a
girare per la stanza; prima stacca l’iPhone dal caricabatteria, poi s’infila la
giacca e fa tintinnare le chiavi.
«Odio la mia vita» dice Sophie, ingrandendo le narici del modello sullo
schermo.
«Grazie» dice Brett, ridendo.
«Non tu. Sai che non mi riferivo a te. Intendo questa roba.»
«Allora fai qualcos’altro» dice Brett, e Sophie si prepara ad ascoltare un
altro dei suoi discorsi da “sogno americano”.
Quando la filippica che si aspetta non arriva, gli chiede: «Se lo facessi,
mi aiuteresti a migliorare la mia immagine?». La sua mano si blocca sul
mouse. Sono settimane che ha quella domanda sulla punta della lingua, ma
adesso l’ha pronunciata. Trattiene il fiato.
«Migliorare la tua immagine come?» le chiede Brett.
«Sai, farmi un po’ di pubblicità. Come una vera artista della fotografia.»
Brett si mette a ridere.
«Non ridere» dice Sophie. «Per la Colley lo stai facendo.»
«Fai dei veri scatti artistici, tesoro» dice «e poi vedremo. Tu fallo e io
cercherò di inventarmi qualcosa».
Fallo, ripete Sophie nella sua testa. Fai degli scatti decenti. Bastardo!
«Ci vediamo qui ce soir?» le chiede Brett.
Sophie gira la testa verso di lui e lo guarda con aria assente; sta ancora
pensando a Milly Colley. «Scusa?»
«Qui? Stasera?» ripete Brett.
«Oh, no. Vengo io da te» dice Sophie. «Starò a casa tutto il giorno a
togliere peli dal naso, perciò ora di stasera avrò bisogno di cambiare aria.»
«Okay. Divertiti. E mi raccomando, cancella tutti quei brufoli» dice
Brett.
Sophie si volta di nuovo verso lo schermo e ascolta il rumore della porta
che si apre e si richiude, poi l’eco della suola delle scarpe sul pianerottolo. Si
morde il labbro e si mette a pensare a Brett.
Perché, anche se non sa come, senza che lo abbiano deciso, hanno preso
a frequentarsi. Da un mese ormai, si vedono quasi ogni sera e lei si chiede di
nuovo come sia potuto succedere.
Brett si discosta così tanto dal suo ideale di uomo. Si è sempre
immaginata con un artista con i dread e i vestiti macchiati di vernice, il che,
ammettiamolo, non potrebbe essere più lontano dall’eleganza repubblicana di
Brett. D’altra parte, però, gli artisti con le macchie di vernice che ha
frequentato si sono dimostrati tutt’altro che l’ideale. Sperava anche in
qualcuno più giovane. Più divertente. Più in forma.
Ma la verità, per quanto strana, è che Brett le piace. Nonostante non sia
quello che cercava, lo trova sexy con i suoi abiti, quasi più che sexy.
Seducente. Un po’ un ragazzaccio. Perverso, forse. E c’è qualcosa nel modo
in cui tira fuori il cazzo dai pantaloni del completo (il suo cazzo
esageratamente grande), senza nemmeno svestirsi, qualcosa nel modo in cui
si aspetta che lei, anzi, dà per scontato che lei lo veneri, che a dispetto di tutte
le sue convinzioni sugli uomini, sulle donne, sulle identità di genere, sui ruoli
e sul femminismo, la intriga parecchio.
Da un punto di vista intellettuale, preferirebbe che non fosse così, ma
tant’è. Arriccia il naso, poi torna a concentrarsi sullo schermo dove ha aperto
Safari, e si mette a cercare “Milly Colley” su Google.
Vedendo gli scatti di moda della Colley, giunge alla conclusione che
non siano molto più buoni dei suoi. Sì, la Colley ha accesso a modelli
migliori che indossano capi migliori, perché, be’, questo è il suo momento,
ma quelle foto potrebbe farle anche lei senza nessuna difficoltà.
Tecnicamente, lei è altrettanto brava.
Poi però clicca su “Foto artistiche”, ed è come un pugno allo stomaco.
Perché Milly Colley ha quel non so che di magico, di elusivo, a cui aspira lei
da quando ha intrapreso la strada della fotografia, ha lo stesso “occhio” che
ha regalato a suo padre la celebrità.
Ne apre qualcuna, poi, immaginando di avere un fumetto sulla testa con
scritto GRRR!, chiude Safari, e l’uomo con il completo lucido torna a riempire
lo schermo.
«Rieccoci, uomo in tuta» dice a voce alta. Si mette a guardare la
protuberanza, poi la ingrandisce e annuisce. «Okay, in effetti è un po’
esagerato» mormora.
Vorrebbe essersene accorta durante il servizio fotografico e aver tolto la
calza, o averne usata una più piccola, perché adesso dovrà passare un quarto
d’ora a massaggiare il suo pacco per ridurlo. Sorride a quel pensiero, e
mentre si appresta a cominciare, le viene in mente di fare la stessa cosa anche
a Brett, quella sera solo, per davvero.
Quando Sophie arriva a casa di Brett, è il suo coinquilino ad aprirle la
porta, un tizio di nome Raoul che installa antenne paraboliche e che fuma
canne in continuazione.
«Vieni, vieni!» le dice, sorridendo timidamente come se non gli
capitasse spesso di vedere delle donne, poi scavalca lo schienale del divano
con un salto piuttosto spettacolare per rimettersi seduto a guardare i Simpson.
Sophie controlla se Brett è in cucina, ma siccome lì non c’è, va in
camera sua, e lo trova sdraiato a pancia in giù, con indosso un paio di boxer,
a scrivere sul portatile.
«Sono arrivata» dice.
«Sì, me ne sono accorto» risponde Brett senza alzare lo sguardo.
«Fammi solo inviare questo file e…» mormora.
«Sei in tenuta molto estiva» dice Sophie.
«È colpa del riscaldamento» risponde lui con fare distratto. «È
assurdo.»
Sophie si toglie il cappotto, poi si siede sulla poltrona e fissa la schiena
di Brett mentre ascolta il rumore dei tasti. Si passa la lingua sulle labbra e
cerca di decidere se dovrebbe sentirsi offesa per il modo in cui l’ha accolta.
Siamo già a questo punto? si chiede. Siamo già al punto in cui quando uno
arriva non merita nemmeno uno sguardo? Non dovrebbe volerci qualcosina
di più di un mese?
Si stiracchia lamentandosi un po’, nel frattempo Brett, con un gesto
plateale, clicca su “invio”, e si rotola sul fianco girandosi verso di lei.
«Giornata dura nell’inferno di Photoshop, tesoro?» le chiede.
«È solo che mi è venuto mal di schiena» risponde Sophie, mentre piega
il collo e se lo tocca con la mano. «Mi sa che la scrivania è troppo bassa.
Forse dovrei prendermi una di quelle strane sedie svedesi. Puoi farmi un
massaggio alla schiena?»
Brett fa quel suo sorriso sbilenco, che come al solito risulta sexy e
inquietante allo stesso tempo. «Certo» dice, spostandosi verso il bordo del
letto.
Mentre si china per aprire un cassetto, Sophie cerca di non guardare le
pieghe bianchicce della pelle intorno alla pancia.
Per prima cosa tira fuori una bustina di polvere bianca e la agita verso di
lei. «Vuoi dare una botta?» le chiede.
Sophie scuote la testa. «Magari dopo» risponde. Si è resa conto che da
quando ha conosciuto Brett fa un grande uso di cocaina e non ne è molto
felice. Aveva deciso di non fargli compagnia quella sera, ma sente che la sua
determinazione sta già scemando.
Brett scrolla le spalle, lascia cadere la busta e tira fuori una boccetta di
olio per massaggi del Body Shop. «Sono preparatissimo a qualunque
eventualità» dice, agitandola verso di lei al posto della coca. «Te lo saresti
aspettata?»
Ma qualcos’altro ha attirato l’attenzione di Sophie. «Quelli cosa sono?»
chiede, girando intorno al letto per aprire del tutto il cassetto. Dentro, nascosti
in fondo dietro ai boxer, ci sono un paio di manette cromate, un collare per
cani e un grosso vibratore rosa.
«Quelli» dice Brett, richiudendo il cassetto «sono per dopo, quando
subentrerà la noia.»
«Quando subentrerà la noia?» ripete Sophie, indecisa se sentirsi offesa
perché sta dando per scontato che subentrerà la noia o lusingata perché pensa
che ci sarà un dopo.
«Allora, lo vuoi questo massaggio o no?» le chiede Brett.
E Sophie lo vuole davvero, quindi annuisce e si trascina sul letto, poi,
visto che le fa male la schiena, si gira leggermente su un fianco per infilare un
cuscino sotto la pancia, sollevando le anche quel tanto che basta per fermare
il dolore.
«Mhmm, interessante» dice Brett, accarezzandole l’interno coscia dal
basso verso l’alto.
«Mi hai promesso un massaggio» gli fa notare Sophie, parlando
attraverso il cuscino.
«Sì, giusto. Mi scusi padrona. Massaggio» dice Brett, fingendosi serio
mentre si unge le mani con l’olio e comincia a lavorarle le scapole.
«Oh, è freddo» dice Sophie. «Ma non ti fermare. Mi piace.»
Non appena sente la protuberanza di Brett premere sul suo sedere
attraverso i boxer, Sophie sa che nessuno dei due si accontenterà di un
massaggio alla schiena. Be’, almeno non è ancora subentrata la noia, pensa.
1944 — SHOREDITCH, LONDRA

Sono solo le dieci, ma Barbara sta già tornando a casa. La sua


insegnante, la signora Pritchard, non si è presentata, e tra i bambini gira voce
che sia morta.
È vagamente consapevole che sopra di lei, nel cielo azzurro di
primavera, stia risuonando il ronzio di una bomba volante, una delle centinaia
che ogni giorno, da mesi ormai, spargono distruzione su di loro. Ha sentito la
sirena antiaerea proprio mentre stava uscendo dal cancello della scuola, ma
non le importa. In quei giorni suonano quasi in continuazione e, a differenza
dei bombardieri, che avevano bisogno del buio della notte per fare il lavoro
sporco, le bombe volanti cadono a tutte le ore. Sembra che nessuno faccia più
caso alle sirene, perché farci caso è semplicemente incompatibile con
qualunque altra attività. Non è possibile andare sempre al rifugio, e dopo aver
interrotto quel meccanismo una volta, è come se fosse inutile rimetterlo in
moto.
Il ronzio continua e la frequenza dei picchi di rumore sopra la sua testa
cominciano a diminuire, ciò significa che il pericolo si sta spostando verso
zone più lontane. Qualcun altro ascolterà lo scoppiettio del carburante che
finisce. Qualcun altro avrà dieci secondi per gettarsi a terra, con le mani sopra
le orecchie. Qualcun altro sentirà l’esplosione squarciare l’aria e poi si alzerà
per continuare a camminare, magari scambiandosi sguardi sollevati con un
passante a indicare la fortuna di essere, ancora una volta, sopravvissuti per un
pelo. Oppure non lo farà. Oppure si unirà alle file dei morti e dei mutilati.
Tutto questo le passa per la testa, ma Barbara se ne rende a malapena
conto, perché la guerra, che ormai va avanti da quasi metà della sua vita, per
lei è la normalità. Non si aspetta che finisca perché non riesce nemmeno a
immaginare cosa potrebbe voler dire.
Quando arriva a Willow Street, trova la sua amica Jean seduta sul
muretto. Jean non va mai a scuola e Barbara non ha mai pensato di chiederle
il perché.
«Sei tornata presto» dice Jean.
«La maestra non è venuta.»
«Vuoi giocare?»
Barbara lancia un’occhiata alle scale e pensa a sua madre lì dentro al
buio. Sarà seduta sulla poltrona, e lei sa esattamente quali vestiti avrà
addosso, la posizione in cui sarà, e che espressione avrà. Lo sa perché da
quando la fabbrica è stata bombardata e lei ha smesso di lavorare, quelle cose
non cambiano mai. La presenza silenziosa di Minnie in quei giorni le provoca
una sensazione strana, una specie di nausea. Pensa che probabilmente
dovrebbe fare qualcosa per aiutare sua madre, ma a parte cucinare, pulire e
fare le commissioni, non le viene in mente altro. «D’accordo» dice.
«Prendo la corda per saltare?»
«Okay.»
Jean corre dentro la casa buia e ricompare con la sua corda. Dopo un
attimo arriva anche Yasmin.
«Neanche tu sei a scuola?» chiede Barbara a Yasmin.
Lei la fissa con i suoi occhioni castani e scuote la testa con aria
tristissima.
«Che facciamo, andiamo alla crepa?» chiede Jean.
«Perché no?» risponde Barbara con nonchalance. La crepa è lo spazio
ricoperto dalle macerie dei tre edifici bombardati nella via accanto, dove a
loro piace giocare. È più eccitante perché è assolutamente vietato.
«Io non ho il permesso» dice Yasmin.
«Allora resta qui, fifona» le dice Jean. «Andiamo» dice a Barbara.
Quando cominciano a camminare, Yasmin esita, poi, com’era
prevedibile, corre per raggiungerle.
«Benjamin è stato colpito dalla scheggia di una bomba» dice Jean.
«L’hanno portato in ospedale. Ma secondo la mamma si rimetterà. È solo la
gamba.»
«Quella zoppa? O quella buona?»
«Non lo so» risponde Jean. «Immagino che sarebbe meglio se è quella
zoppa.»
«Sì, forse sì. Altrimenti sarebbero tutt’e due zoppe, no?»
Barbara apre la porta spingendola con il fianco.
Minnie alza gli occhi dalla macchina da cucire ed esclama: «La cena!
Grazie a Dio. Potrei mangiare un cavallo». La fabbrica bombardata ha
iniziato a mandare del lavoro a cottimo da fare a casa, e il suo umore a poco a
poco sta migliorando.
«Niente cavalli, purtroppo» dice Barbara. «Sono polpette di manzo sotto
sale».
«Impertinente» mormora Minnie, mentre lascia andare il pezzo di
uniforme che stava cucendo e unisce le mani dietro la testa per stiracchiare le
braccia. «Allora, dov’è tua sorella?» le chiede.
«È giù a mangiare» risponde Barbara; una bugia. Come spesso accade
ultimamente, Barbara non sa dove sia Glenda, e poiché la cosa farebbe o
arrabbiare o preoccupare sua madre, a seconda di che umore è, Barbara ha
preso l’abitudine di coprirla.
Minnie toglie dal tavolo la pila di colletti verde militare cuciti e la mette
sul letto per fare spazio ai piatti. «E la verdura?» mormora, quando Barbara li
appoggia.
«Ci sono le carote» le fa notare.
«Sì ma esistono anche altre verdure, no?» chiede Minnie. «Sto iniziando
a domandarmi cosa ci fa Mildred con le razioni di tutti noi. Perché di sicuro
non le cucina.»
«Nei negozi non c’è niente, mamma» dice Barbara. «Uno può avere
tutte le razioni che vuole, tanto non ha importanza. Queste carote vengono
dall’orto di una persona. Un’amica di Sylvia.»
«Non va bene» dice Minnie. «Niente patate, niente frutta, niente uova,
niente formaggio. Non capisco come si aspettano che vinciamo una guerra se
non c’è niente da mangiare. Non mi sorprenderebbe scoprire che Mildred si
tiene il resto per sé.»
«Non lo fa, mamma, davvero» dice Barbara, mettendosi in bocca una
polpetta. «E noi ce la passiamo meglio di molti altri.»
«Carote, carote, e ancora carote, accidenti» dice Minnie. «Non ci
serviranno neanche più i lampioni quando la guerra sarà finita.»

Terminata la cena, Minnie si rimette al lavoro e Barbara scende al piano


di sotto con i piatti. Tre donne stanno mangiando più o meno le stesse cose al
tavolo della cucina: due di loro, Agnes e Sylvia, abitano nella casa mentre
l’altra, con un occhio nero, è senza dubbio una delle “vagabonde” di Mildred.
«Sei sicura che Glenda tornerà a mangiare?» chiede Agnes mentre
Barbara mette da parte il piatto di Glenda e comincia a lavare il suo.
«Eccomi» dice Glenda col fiato corto, dalla porta. «Perciò tieni giù le
mani!»
Barbara si volta e sorride alla sorella. «Ti ho tenuto la cena.»
«E io ho il dolce» dice Glenda, tirando fuori un tubo di M&M’s dalla
tasca.
«Cioccolatini!» esclama Sylvia.
«Non vogliamo sapere cos’hai dovuto fare per procurarteli» commenta
Agnes, e Sylvia le dà un colpetto col gomito mormorando sottovoce:
«Agnes…».
«Be’…» dice. «Non è molto meglio che prostituirsi.»
«Si vede che tu non ne vuoi» ribatte Glenda seccata, ma con un
contegno ferreo.
«Esatto» dice Agnes. «Non ne voglio.»
«Fatti più in là» dice Glenda, togliendosi il cappello prima di infilarsi
sulla panca dietro al tavolo. «Ancora manzo sotto sale, giusto?» chiede,
mentre Barbara le mette davanti il piatto.
«Non cominciare» dice Sylvia. «A meno che non vuoi provarci tu a fare
la spesa.»
«Oh, non mi sto lamentando» le risponde Glenda. «Non mi dispiace
questa roba.»

Quando ha finito di mangiare, Glenda consegna a tutte le donne, Agnes


compresa, una M&M’s. I dolciumi sono considerati un tale tesoro di quei
tempi, che nessuno se lo sogna neanche di poterne ricevere due.
«Oh, sono buoni» dice Sylvia.
Perfino Agnes si ritrova ad annuire.
«La mamma sta cucendo?» chiede Glenda, dopo che l’M&M’s si è
sciolta in bocca.
Barbara fa sì con la testa. «Ha un grossa pila da fare. Colletti. In effetti
dovrei andare ad aiutarla.»
«Ci andremo tutt’e due tra un po’» dice Glenda. «Ma prima vieni fuori
con me, così facciamo due chiacchiere.»
Barbara, ansiosa di conoscere le avventure della sorella, la segue giù per
i gradini che portano nel piccolo cortile, che è stato trasformato, come di quei
tempi è successo alla maggior parte dei cortili, in un orto.
«I nostri ragazzi hanno occupato un posto in Grecia» dice Barbara. «E
quello bravo ha vinto le elezioni in America.» Minnie lascia accesa la radio
quasi ventiquattro ore al giorno, perciò lei raccoglie, senza accorgersene,
migliaia di piccole informazioni riguardanti la guerra, informazioni che il più
delle volte non le dicono quasi nulla.
«Roosevelt?» chiede Glenda.
«Sì. Esatto, quello.»
«Be’, allora va bene. Harry starà festeggiando» dice Glenda. Harry è il
ragazzo che ha al momento.
«Lui com’è?»
«Adorabile» dice Glenda, tirando fuori un pacchetto quasi vuoto di
sigarette dalla tasca. In effetti, Harry, che è vicino ai quaranta, è un po’
vecchio per una quindicenne; sua madre di sicuro non approverebbe. Ma
nella Londra ai tempi della guerra, dove c’è scarsità di tutto, incluso di
uomini, lei si gode i vantaggi.
«Ti ha dato anche le sigarette?»
«No, queste gliele ho fregate» risponde Glenda, facendole l’occhiolino.
«Ma a lui non dispiacerà.»
«Dove siete andati?»
«A ballare al circolo della Croce Rossa» le dice Glenda, accendendosi
la sigaretta con aria da gran donna.
«Oh, che bello.»
«C’era musica americana. Jive. Erano in centinaia a ballarlo. Sono così
bravi.»
«Erano tutti soldati americani?»
«Sì. E c’erano pochissime ragazze, perciò…»
«Hai potuto scegliere.»
«Avrei potuto. Ma nessuno era meglio di Harry. Non sai quant’è bello»
dice Glenda. «Sta benissimo con l’uniforme. È un sergente. E poi siamo
andati nel West End.»
«Avete, insomma…» dice Barbara.
«Primo livello» dice Glenda.
«Primo livello?»
«È così che lo chiamano. Significa baciarsi e basta.»
«Quindi vi siete baciati?»
«Secondo te?» dice Glenda, ridendo per coprire l’imbarazzo, perché è
andata ben oltre il primo livello. In effetti è preoccupata di avere ancora il
segno della porta sul sedere. Fa un tiro di sigaretta e ha un piccolo attacco di
tosse; è da pochissimo che ha iniziato a fumare, e ogni tanto le sembra di non
aspirare nel modo giusto. Ma ha tutta l’intenzione di migliorare.
Barbara si guarda alle spalle per assicurarsi che non le stia ascoltando
nessuno, poi le chiede, a bassa voce: «E bacia bene?».
Glenda annuisce con aria da esperta. «Baciano tutti bene» dice. «Molto
meglio dei ragazzi di qua. Penso che potrei sposarmelo un soldato americano
quando la guerra sarà finita.»
«Potresti sposare Harry» dice Glenda. «Avresti la cioccolata ogni
giorno.»
«Può darsi che lo faccia.»
Barbara si morde il labbro inferiore e trattiene un sorrisino malizioso.
«Ma non farti sentire dalla mamma.»
«Vengono a casa nostra con le tasche piene e una sola cosa in testa»
dice Glenda, imitando la voce di Minnie mentre offre a Barbara un’altra
M&M’s.
Barbara la prende e le ridà il pacchetto. «Sono strepitose» dice.
«Vengono dall’America?»
«Certo che vengono dall’America.»
«Tienine qualcuna per la mamma» dice Barbara. «Ha detto che ha
ancora fame. E sai quanto le piace la cioccolata.»
«Non posso. Se no poi vorrà sapere dove le ho prese.»
«Oh» dice Barbara, aggrottando le sopracciglia. «Non puoi dirle, che ne
so, che te le ha date Maisie?»
Glenda annuisce poco convinta. «Boh, forse. Ma potrebbe non
crederci.»
Da est arriva l’inconfondibile doppio fischio supersonico di una delle
nuove V2, seguito, quasi immediatamente, dal boato dell’esplosione.
Nelle ultime settimane le V1 sono quasi cessate, poiché gli Alleati
hanno occupato le postazioni di lancio in Francia, ma quel terrore speciale,
quasi familiare ormai, è stato subito rimpiazzato da nuove bombe che
arrivano da molto più lontano. A differenza delle bombe volanti, che ronzano
e scoppiettano, i razzi supersonici non danno alcun preavviso; perfino le
sirene antiaeree suonano dopo, e non prima. Davanti a un’abilità tecnica che
ha dell’invincibile, il governo è talmente impreparato che non sa nemmeno
consigliare come comportarsi, perciò tutti i canali ufficiali fanno finta che
quelle esplosioni (fino a dieci al giorno) siano causate dallo scoppio di tubi
del gas. Ma nessuno se la beve davvero.
«Maledetti tubi del gas volanti» dice Glenda, riferendosi ai V2, per i
quali quello è diventato il soprannome più comune. Fa un tiro di sigaretta, poi
tossisce di nuovo mentre la spegne su una roccia.
«Ben dice che sono razzi» afferma Barbara. «I nuovi razzi tedeschi. È
stato l’addetto alla protezione antiaerea a dirglielo.»
«Anche Harry me lo ha detto» mente Glenda. «Quindi dev’essere vero.»
Mentre salgono le scale verso la loro stanza, la sirena suona in ritardo. È
quasi certamente una reazione alla deflagrazione che hanno appena sentito, e
non per lanciare un nuovo allarme. Il fatto di non ricevere un avvertimento,
quando ci si ritrova ad affrontare missili che viaggiano attraverso lo spazio e
si annunciano da soli al momento dell’esplosione, l’impossibilità di fare
qualunque cosa per proteggersi, ha generato un nuovo tipo di terrore, così
acuto, così ingestibile, che sembra siano rimasti solo due modi per reagire. Il
primo, per il quale hanno optato alcuni, è di impazzire. Li si vede vagare per
le strade che parlano da soli o seduti in un angolo a dondolarsi piano piano. Il
secondo, invece, adottato dalla maggior parte della gente, è quello di
assumere, nei confronti degli attacchi dei V2, una nuova forma di fatalismo,
di considerarli qualcosa che va al di là del loro controllo. La filosofia di quel
periodo è: Goditela finché puoi.
«Quando rivedrai Har…»
«Sss!» dice Glenda. Sono quasi arrivate alla porta dietro la quale
Minnie sta cucendo.
«Quando lo rivedi?» sussurra Barbara.
«Stasera» risponde Glenda.
«Stasera?»
Glenda scrolla le spalle. «C’è un altro ballo a Pimlico.»
«Be’, ma non è che devi andare per forza a tutti i balli, no?»
«Domani potrei anche finire al creatore. E comunque, mi ha promesso
un paio di calze di nailon se ci vado.»
«Oh, calze di nailon!» dice Barbara.
«Sgattaiolerò fuori di nascosto dopo che la mamma si sarà abbioccata.»
«Sei così fortunata, Glenda.»
«Presto arriverà il tuo turno.»
1945 — SHOREDITCH, LONDRA

Barbara sta tornando da scuola. Sono tutti in gran fermento perché gira
voce che quel giorno la guerra finirà, e così li hanno mandati via prima. Ha lo
stomaco sottosopra, come fosse pieno di farfalle, anche se, a parte il fatto che
non cadranno bombe e che un uomo di cui si ricorda a malapena, chiamato
“papà”, dovrebbe tornare presto a casa, non sa davvero cosa aspettarsi. Ma
essere uscita prima da scuola rafforza la sua sensazione che quella sia una
giornata davvero speciale.
Sono le tre in punto quando svolta l’angolo per imboccare Willow
Street e da una casa sul marciapiede opposto si sollevano grida di festa, come
per darle il benvenuto. Alla sua sinistra si spalanca una finestra e compare il
busto di una donna. «È finita!» grida, sorridendo in modo un po’ folle. «La
guerra è finita!»
Una coppia che cammina verso di lei si blocca di colpo e si volta a
guardarla. «Cos’hai detto?» chiede l’uomo, con un tono forse incredulo, o
forse arrabbiato per lo scherzo di pessimo gusto.
«Davvero!» urla lei. «L’ha appena detto Winnie per radio. È finita!»
Barbara si ferma e la donna si rivolge anche a lei. «È tutto finito,
piccola!» le dice. «Puoi ricominciare a sorridere! Possiamo ricominciare a
sorridere tutti.»
E anche se Barbara non sa bene perché, sorridere è esattamente ciò che
fa. Si gira di nuovo verso la coppia. I due si stanno fissando negli occhi.
«Oh, Derek!» dice la donna. «È possibile che sia vero?»
Da un’altra casa si solleva una nuova ondata di grida gioiose, e sul viso
dell’uomo spunta un gran sorriso. «Sembrerebbe proprio di sì» dice.
Gli occhi della donna si illuminano mentre lui le circonda la vita con il
braccio e i due iniziano, senza dire una parola, a ballare un valzer in mezzo
alla strada.
«Devo dirlo alla mia mamma!» dice Barbara.
«Sì» risponde la donna alla finestra. «Sbrigati! Vallo a dire alla
mamma!»
Barbara si butta la cartella sulla spalla e si mette a correre. Mentre
avanza su Willow Street, la gente comincia ad affacciarsi sull’uscio delle
case, tutti con una gran voglia di condividere quel momento eccezionale.
«È finita» sente dire ancora e ancora mentre passa. «La guerra è finita!»
«Abbiamo battuto quei bastardi» dice un uomo che sta spingendo una
carriola, poi, notando Barbara, aggiunge: «Scusa la volgarità, tesoro».
«Non fa niente!» gli dice Barbara ridendo, senza fermarsi.
La porta del loro edificio è aperta e si sono radunati tutti negli spazi
comuni. Ci sono almeno una ventina di persone ammassate sulla prima rampa
di scale e le conversazioni concitate creano un frastuono assordante.
«Hai sentito?» le chiede il suo amico Benjamin, quando la vede.
«Sì» risponde Barbara. «Sì, ho sentito.»
Mentre cerca di passare in mezzo a un gruppo di donne, Mildred, che
cucina per tutti loro, le afferra il braccio e le dice: «La guerra è finita, tesoro.
Dovresti andare a chiamare la mamma».
«Sì!» risponde Barbara. «Sì, ci sto andando!»
Quando spalanca la porta, trova Minnie immobile alla macchina da
cucire, come se fosse sospesa nel tempo.
La radio è accesa e il conduttore del notiziario sta elencando, uno dopo
l’altro, i luoghi da cui le potenze dell’Asse si sono ritirate nelle ultime
ventiquattro ore. In quel momento sta parlando delle Channel Islands.
Barbara non sa dove si trovino, ma le sembrano di estrema importanza.
Minnie ha la mano sinistra sul bavero di una giacca verde militare, e
quella sinistra sulla manovella della macchina da cucire. Sta fissando,
apparentemente sotto shock, la radio. Ha il viso rigato dalle lacrime.
Barbara non l’ha mai vista piangere prima d’ora. «Mamma!» dice. «È
finita. La guerra è finita. Devi venire fuori.»
Senza muovere il resto del corpo, Minnie gira la testa verso la figlia più
piccola. Mentre la guarda con le sopracciglia aggrottate, continuano a
scenderle le lacrime, cadendo sulla giacca che stava cucendo.
«Mamma!» la esorta Barbara, sperando si svegliarla dallo stato di
trance.
Minnie aggrotta le sopracciglia ancora di più. «Non so cosa fare» dice.
«Vieni fuori, mamma!»
«Ma devo rammendarla questa giacca oppure no?» le chiede, con una
voce che sembra provenire dall’oltretomba. «È questo che non riesco a
capire.»
Barbara scuote la testa. «No, mamma, non serve. È finita» dice. «Non
avranno più bisogno di uniformi. È tutto finito.» Le toglie con delicatezza la
mano dalla macchina da cucire. «Vieni fuori» le dice di nuovo. «Sono tutti
fuori. Vieni a vedere!»

Quando escono, la strada è piena di gente. Tre uomini stanno facendo


passare un pianoforte malconcio dalla porta della casa di fronte e mentre lo
trascinano, un quarto si è già messo a suonare una versione a un solo dito di
Take Me Back to Dear Old Blighty.
La coppia che Barbara ha visto prima sta ancora ballando, e altre due
coppie, una mista, una composta da due donne, si sono unite a loro.
Barbara tira sua madre fino all’inizio del vialetto, dove si è radunato un
gruppo di donne del loro edificio.
«Oh, non è meraviglioso!» esclama Sylvia, abbracciando
contemporaneamente sia Barbara sia sua madre, anche se in modo goffo per
la differenza di altezza delle due.
«È strano» dice Minnie a bassa voce. «È… è difficile da credere,
davvero.»
Barbara vede in lontananza sua sorella che sta parlando con un giovane
in uniforme.
Lascia andare la mano della madre e corre da lei. «Glenda!» grida
quando la raggiunge. «La guerra è finita!»
«Lo so!» dice Glenda, prendendola per mano. «Vieni. Stiamo andando a
Trafalgar Square.»
«Trafalgar Square? Perché?»
«Vanno tutti lì» le dice Glenda. «Dicono che sarà la festa più grande di
sempre.»
«La festa più grande di sempre» conferma il ragazzo, annuendo
convinto.
Barbara si volta indietro. «E la mamma?» dice.
«Starà benissimo» dice Glenda. «Ormai non può più succederle niente,
giusto? La guerra è finita!» Poi afferra anche la mano del ragazzo e
s’incamminano in fretta e furia.
Mentre attraversano la città, sempre più persone si riversano sulle
strade. Quella sera di maggio, nessuno rimane in casa; l’intera Londra ha
smesso di lavorare. Ovunque Barbara si volti, la gente ride e canta, balla e
agita le bandiere.
«Sono tutti così felici!» dice.
«Ovvio che lo sono!» dice Glenda, ridendo.
«La mamma starà bene?» chiede Barbara.
«Ovvio che starà bene!»
«Sono preoccupata per lei.»
«È con Sylvia e Mildred e gli altri, no?» dice Glenda.
Ma non è questo che intendeva Barbara. Non intendeva, la mamma starà
bene adesso. Intendeva, starà bene in generale.
«Andrà tutto meglio adesso» le dice Glenda. «Vedrai.»
«Sicura?» chiede Barbara.
«Sì. Papà presto tornerà da noi e non ci saranno più i razionamenti.»
«Sì, il razionamento finirà» dice il ragazzo. «Non vedo l’ora!»
«Probabilmente riavremo anche la nostra vecchia casa!» dice Glenda, e
Barbara comincia, per la prima volta, a immaginare come potrebbe essere un
futuro senza la guerra. Mentre corre, inizia anche a saltellare un po’.
Quando riescono ad arrivare a Trafalgar Square, il sole si sta posando
dietro agli edifici, e ci sono una miriade di persone, più di quante Barbara
abbia mai visto. Se non fossero così sorridenti, avrebbe un po’ di paura.
Aiutata dal ragazzo che è con loro, Glenda sale su una buca delle lettere,
poi punta il dito verso est. «Da quella parte» dice, saltando giù e riprendendo
per mano Barbara.
Attraversano la piazza e raggiungono la banda improvvisata di soldati
americani e ragazzi del posto che aveva intravisto Glenda. Stanno suonando
Two O’Clock Jump di Harry James, e così, in uno spazio minuscolo in mezzo
alla folla accalcata, facendosi guidare dalla sorella e poi da un soldato
americano (piuttosto carino), Barbara balla il jive per la prima volta nella sua
vita. L’8 maggio 1945 è una data che non dimenticherà mai.

Sono le cinque di pomeriggio e sta iniziando a fare un po’ meno caldo


quando Barbara arriva a Willow Street.
Sale di corsa le scale, poi si ferma un attimo con la mano sulla maniglia.
Fa un bel respiro e si fionda nella stanza, ripromettendosi che oggi la tristezza
di sua madre non rattristerà lei. È il giorno delle elezioni, e tutti parlano con
entusiasmo dei molti cambiamenti che ci saranno se Clement Attlee dovesse
essere eletto al posto di Churchill. Perfino lei si rende conto che le cose non
possono continuare così. La gente è sfinita, affamata e povera, e molti hanno
iniziato a covare rabbia. Si respira aria di rivoluzione.
Anche se si sono liberate della paura di un’invasione e di un attacco, da
quando la guerra è finita, sembra che loro non abbiano fatto alcun passo in
avanti. Vivono sempre in una stanza singola e, contrariamente a quanto
speravano, il razionamento non è ancora cessato. Anzi, con il ritorno in massa
degli sfollati, la quantità di cibo a disposizione si è semmai ridotta. Il lavoro a
cottimo di Minnie si è concluso, perciò, nonostante Glenda sia stata assunta
come apprendista alla British Home Stores, loro non sembrano meno povere
di prima.
Inaspettatamente, sua madre non è in camera, perciò Barbara lascia
cadere la borsa e corre al piano di sotto, nella speranza che qualcuno sappia
dirle dov’è.
La trova in cucina da sola. È intenta a spargere l’impasto di una torta in
uno stampo, con movimenti lenti, precisi, chinandosi per allineare gli occhi ai
bordi della teglia.
Barbara alza le sopracciglia per lo stupore. Sua madre non ha più bollito
nemmeno un uovo da quando hanno dovuto lasciare la loro vecchia casa.
«Ciao mamma. È una torta quella?»
Minnie solleva lo sguardo verso di lei, ma resta piegata all’altezza della
torta. «Lo sarà. Mi auguro.»
«Caspita. È il compleanno di qualcuno?»
«No» risponde Minnie. «Non che io sappia.»
«Sei riuscita a trovare delle uova?»
«Questa è la ricetta di Elsie della Tottenham Cake. Non servono le
uova.»
Barbara annuisce e osserva la madre che continua a livellare la
superficie con una spatola. «Dev’essere molto liscia?» chiede.
Minnie annuisce. «Dev’essere perfetta» dice piano. Fissa la torta
strizzando gli occhi, la gira e la livella ancora un po’. «Questa torta deve
essere assolutamente perfetta.»
«Posso leccare la ciotola?» chiede Barbara.
«Penso di sì» risponde Minnie, guardando per un momento la ciotola
prima di riconcentrarsi sullo stampo.
Barbara si allunga per prendere la ciotola e passa il dito sul bordo
interno. Raccoglie un po’ dell’impasto appiccicoso e dolce, e se lo mette in
bocca. «Mhmm. È buonissimo» dice. Poi aggiunge: «Dicono tutti che
Clement Attlee vincerà le elezioni».
«Bene» commenta Minnie. «Le cose non possono andare peggio di
così.»
«È per questo che hai fatto una torta? Per le elezioni?»
«Forse sì e forse no» risponde Minnie, con tono misterioso.
«È una sorpresa?»
«A quanto pare» dice Minnie.

La torta, una volta glassata, è la più luccicante, la più rosa, la più liscia
che Barbara abbia mai visto. Non sapeva che sua madre fosse così brava a
cucinare.
Quando alle sei e mezza Glenda torna a casa, Barbara le riferisce
all’istante la novità. Ma invece di portare il dolce in tavola come lei aveva
sperato, Minnie attraversa la stanza e sistema la teglia in cima all’armadio.
«Se una di voi due la tocca, vi darò una di quelle lezioni, che ve la
ricorderete…» dice. «Questa è una torta speciale per un’occasione speciale.»
È solo quando Minnie va in bagno, quella sera, che Barbara riesce a
chiedere a Glenda, con la quale condivide ancora il letto, per chi è, secondo
lei, quella torta.
«Credo sia per papà» sussurra Glenda. «Mi sa che l’hanno congedato.
Mildred ha detto che stamattina è arrivato un telegramma, o roba simile.»
Barbara resta sveglia fino alle prime ore del mattino con una strana
sensazione addosso, un misto di eccitazione e paura, generata dal potenziale
ritorno di suo padre, ma quella notte Seamus non torna, e non c’è traccia di
lui nemmeno il giorno successivo, quando lei rientra a casa.
Nonostante il tanto celebrato cambio al governo, il razionamento
prosegue e addirittura peggiora, la stanza a Willow Street continua a essere la
loro casa, Minnie trascorre sempre le giornate a fissare fuori dalla finestra, e
la teglia resta in cima all’armadio, senza che nessuno la tocchi. Né Barbara né
Glenda osano più accennare alla torta, né tantomeno a loro padre.
2012 — PICCADILLY, LONDRA

«Gesù!» esclama Sophie. Hanno appena messo piede nella prima sala
della mostra di David Hockney e lei è già sopraffatta dalle dimensioni dei
quadri.
«Non sono proprio piccoli, eh?» dice Brett.
«Il titolo della mostra è A Bigger Picture. Un quadro più grande» dice
Sophie «quindi immagino che fossimo stati avvertiti.»
Davanti a loro c’è un enorme dipinto di una foresta autunnale: quindici
metri per tre di tronchi viola, arancioni e rossi che si sollevano da un suolo
frondoso e vibrante, quasi fluorescente.
«Non ti era mai capitato di vedere uno dei grandi Hockney?» le chiede
Brett, lanciando una breve occhiata al programma prima di riposare lo
sguardo sul quadro.
«Non dal vivo» dice Sophie, piegandosi a esaminare la qualità della
pittura prima di indietreggiare per poter osservare l’intera scena senza dover
ruotare la testa. «Insomma, lo abbiamo studiato al college, ma questo è
così… è gigante.»
«Io ho visto i suoi lavori sul Grand Canyon allo Smithsonian» dice
Brett. «Anche quelli erano un po’ in CinemaScope. Mi pare ce ne sia uno
anche qui, da qualche parte.»
Sophie si guarda in giro e nota di nuovo che la galleria è vuota. Poter
visitare una mostra da soli è qualcosa di molto speciale e il pensiero che Brett
sia riuscito a farla passare con il suo tesserino da giornalista le suscita un
moto d’affetto nei suoi confronti.
«Allora, fotografa tutti quelli grandi» le dice. «Magari uno con me
davanti per mostrare le dimensioni. Sì, l’idea mi piace. E poi alla fine
vedremo cosa usare.»
Sophie annuisce e si porta la Nikon davanti all’occhio, poi si perde per
qualche secondo negli aspetti tecnici del mestiere. Ma quando abbassa la
macchina fotografica e rivede la scena autunnale senza la cornice del mirino,
avverte un’insolita sensazione salirle dal petto. Non riuscendo a capire
immediatamente cosa l’abbia provocata, accarezza la fotocamera e ci pensa
su per un attimo: sì, si sta davvero commuovendo, ed è una reazione emotiva
al quadro. «Oddio, è bellissimo» dice con voce roca, scuotendo la testa, e
Brett, che è già passato a quello successivo, si gira verso di lei e le sorride in
modo ironico.
«Ti stai davvero mettendo a piangere?» le chiede.
«Sì, un po’. È strano» dice Sophie. «Credo che non mi sia mai capitato
prima. Non per un quadro.»
Brett annuisce. «È un tipo davvero intelligente» dice, poi aggiunge:
«Fanne qualcuna anche a questi, d’accordo? Tutti quanti. Io vado nella sala
accanto».
Dopo essersi avvicinata alla parete con le scene boschive più piccole
(ma comunque grandi), Sophie lancia un’altra occhiata al panorama
autunnale alle sue spalle. «È straordinario» mormora. Chissà come si
potrebbe riuscire a ottenere qualcosa di altrettanto stupefacente in fotografia,
si chiede. Le grandi foto di Andreas Gursky sono le uniche ad avvicinarsi, e
anche quelle sono enormi. Quindi forse dipende tutto dalle dimensioni. Forse
facendo un ingrandimento di trenta metri quadri di una semplice foto di un
viso, di colpo si trasformerebbe in arte.
«Sbrigati!» La testa di Brett rispunta da dietro lo stipite. «Abbiamo solo
mezz’ora, ricordi?»
Durante la visita, quel senso di commozione, di destabilizzazione
emotiva, la assale più e più volte, e Sophie riesce ad analizzarlo meglio. È la
stessa cosa che ha provato in un paio di occasioni in cui, non riuscendo a
dormire, si è alzata abbastanza presto da riuscire a vedere una splendida alba.
Si era sentita come sopraffatta, per un attimo, dalla bellezza del creato. È
davvero possibile che i quadri di Hockney abbiano il potere di suscitare in lei
quella reazione, o c’è sotto dell’altro? Non c’entra forse con il fatto che si
trova lì con Brett? Si sta finalmente innamorando?
«Wow» mormora quando, in un’altra sala, davanti una versione da
quindici metri del Grand Canyon, inizia a barcollare, come se le fosse venuto
un vero e proprio attacco di vertigini.
Solo mezz’ora più tardi, mentre stanno andando via, (Brett deve
scrivere un articolo entro mezzanotte), s’imbattono in una giornalista
altezzosa, con un look demodé, e nel suo fotografo barbuto poco più che
ventenne. Brett manda un bacio volante a entrambi.
«Brett, tesoro, merita?» chiede la donna, e Brett si limita a sollevare le
spalle e a dirle: «Buon divertimento!».

Una volta fuori, nella fredda sera di gennaio, Sophie gli chiede: «Chi
erano quei due?».
«Telegraph» dice Brett, abbottonandosi il cappotto.
«Il nemico, insomma?»
«Una specie.»
«Perché hai scrollato le spalle quando ti hanno chiesto cosa ne pensavi?
A te è piaciuta, giusto?»
Brett scrolla di nuovo le spalle. «Non sono ancora in grado di esprimere
un mio punto di vista. E anche se lo fossi, non lo farei con quei due stronzi.»
«Io l’ho trovata bellissima» dice lei. «Una delle mostre più belle che
abbia mai visto.»
«Certo. Ma bellissima» le dice Brett, con un tono sdolcinato, di scherno
«non è un punto di vista.»
«Per me era troppo grande» dice Sophie, scuotendo la testa. «Per poter
osservare tutto a fondo. Se non altro, non in mezz’ora.»
«Ecco» dice Brett «questo è un punto di vista.»
«Scusa?»
«Un quadro troppo grande» dice, agitando un sopracciglio. «Hai
colto?»
Sophie alza gli occhi al cielo. «Sì. Ho colto. E sto congelando.»
«Mangiamo qualcosa?» chiede Brett, controllando l’orologio.
«Volentieri, ho fame.»
«Andiamo da Dolada?» le chiede, facendo un cenno al ristorante
dall’altra parte della strada. «Non ho molto tempo.»
«Va bene» dice Sophie, cominciando a camminare. «Avrei potuto
restarci tutto il giorno lì dentro. Scriverai una recensione positiva, vero?»
«Forse. È probabile. Si tratta solo di capire cosa vuole leggere la gente.»
«È così che funziona?»
«Certo. Hockney è anche incredibilmente fortunato» dice Brett. «È la
prima volta che la Royal Academy offre l’intera struttura a un solo artista.»
«E per giunta quando è ancora in vita.»
«Scusa?»
«Be’, di solito le retrospettive sono riservate agli artisti defunti, no? È
piuttosto raro che succeda quando sono ancora in vita.»
«Tecnicamente non è una retrospettiva» dice Brett, mentre attraversano
il marciapiede verso il bagliore accogliente del ristorante. «Molta di quella
roba è nuova di zecca. Però sì, suppongo tu abbia ragione. Non ne hanno mai
organizzata una per tuo padre?»
«Una retrospettiva?»
«Eh.»
«No» dice Sophie, con aria pensierosa. «Forse dovremmo farlo noi.»
«Sì, forse dovreste» ripete Brett, con convinzione.
Quando entrano nel ristorante, gli occhiali di Brett si appannano così
tanto che per un attimo lui non riesce a vedere nulla, perciò Sophie lo guida,
sorridendo divertita, al tavolo che il maître sta indicando.
«In effetti è strano che nessuno abbia mai messo insieme una
retrospettiva di Marsden» dice Brett, dopo che si è pulito gli occhiali e che
hanno portato i menù.
Sophie scrolla le spalle. «Nessuno lo ha mai nemmeno proposto. Ed è
improbabile che mia madre o Jon organizzino una cosa del genere.»
«Perché?»
«Be’, mia madre è ormai è piuttosto avanti con l’età. E se devo essere
sincera è sempre stata un po’ grezza.»
«Grezza?»
«Forse non è la parola giusta. Intendo dire che non ha un senso artistico
molto sviluppato.»
«Oh, okay. E tuo fratello?»
«È un geometra. Quindi neanche lui si interessa di arte.»
«È strano. Considerato l’ambiente in cui siete cresciuti.»
Sophie annuisce pensierosa. «Papà non parlava molto del suo lavoro. Ed
entrambi hanno tenuto Jonathan a debita distanza da quel mondo. La mamma
voleva che si trovasse un impiego sicuro. E così lui ha fatto. Molto
giudizioso, mio fratello.»
«E tu no?»
Sophie scrolla le spalle. «Io ero piuttosto determinata» dice. «E
comunque, non direi che lavoro proprio nel mondo dell’arte.»
«Non ancora.»
«Non ancora» concorda.
«Fiorentina» dice Brett.
«Scusa?»
«Pizza Fiorentina» le spiega, richiudendo il menù. «Spinaci e uova. Non
si batte. Poi a casa a scrivere Un quadro troppo grande.»

Durante la cena, Brett le parla della sua di famiglia: suo padre il


banchiere, sua madre che gestisce un negozio di alimenti biologici nell’East
Village, Connie, sua sorella, sposata con un cristiano evangelista, che adesso
vive nel Wyoming. Ma Sophie lo sta ascoltando solo in parte, perché la sua
mente è in fermento all’idea di fare una retrospettiva di Anthony Marsden.
È soltanto dopo che hanno pagato il conto, mentre camminano per le
strade luccicanti, ghiacciate, che Sophie tira fuori di nuovo il discorso.
«Quanto interesse ci sarebbe, secondo te? In una retrospettiva di Marsden?»
Brett scoppia a ridere.
«Che c’è?»
«Niente, è solo che sapevo che questa cosa sarebbe risaltata fuori» dice.
«E?»
«Quanto interesse mediatico, intendi?»
«Immagino di sì.»
«Parecchio, credo. Ti servirebbero delle stampe dei suoi scatti più
famosi davvero gigantesche, stile Hockney.»
«L’estate del settantasette, Dimostrazione di un aborto, roba del
genere?»
«Sì.»
«Dovrei contattare chi ne detiene i diritti. Molti di quelli sono del
Mirror o del Times.»
«E un po’ di cose che la gente non ha mai visto. Di quelle i diritti
saranno ancora vostri.»
«In realtà questo potrebbe non essere tanto semplice.»
«Sul serio?»
«Mia madre ha bruciato tutto.»
«Sul serio?!»
«A dire il vero no, questo non è esatto. Ma ne ha distrutte alcune. Ha
dato fuoco a tutte le foto del tour della Pentax. Non hai mai sentito questa
storia?»
Brett scuote la testa.
«La Pentax lo sponsorizzò per fare una grande mostra. Negli anni
Ottanta. Ma lui morì prima di finire il servizio fotografico e mia madre
impazzì e bruciò tutto.» Sophie scivola sul marciapiede ghiacciato e Brett
l’afferra per un braccio prima che cada. «Fa’ attenzione» le dice.
«Grazie.»
«È interessante» dice Brett «questa cosa del tour della Pentax.»
E Sophie percepisce nella sua voce un tono diverso, il tono del Brett
giornalista. «Non è uno scoop, Brett» gli spiega. «Questa storia uscì su tutti i
giornali a quell’epoca.»
«Oh» dice Brett, sembrando deluso.
«Ma mia madre ha interi scatoloni di altre foto e di negativi e roba del
genere. Anche Jon ne ha un po’. Quindi sono sicura che potremmo trovare
qualcosa di buono.»
«Forse dovresti cominciare da lì» dice Brett. «Capire se c’è abbastanza
materiale.»
«Pensi che qualche museo importante potrebbe essere interessato? La
Royal Academy of Arts, o la National Portrait Gallery, o il V&A?»
«È possibile» dice Brett. «Era molto famoso. Aiuterebbe, ovviamente,
se tu conoscessi qualcuno in un grande giornale che potrebbe aiutarti a
pubblicizzarla…»
«Qualcuno al Times, per esempio?»
«Per esempio» dice Brett, facendole l’occhiolino. «Ma ripeto, dipende
sempre da quello che riuscirai a mettere insieme. E sarebbe una grossa
impresa organizzare il tutto.»
Proprio davanti a loro, un taxi sta facendo scendere qualcuno. Brett
affretta il passo. «Lo prendiamo?» le chiede.
«Sì» risponde Sophie. «Questo marciapiede è un vero pericolo.»
Dopo che sono saliti a bordo e che l’autista è partito, Sophie dice:
«Immagino che il problema sia tutto lì. C’è moltissimo lavoro da fare e
nessun guadagno».
«Dovrai procurarti uno sponsor. Magari potresti parlare di nuovo con la
Pentax.»
Sophie fa un sorriso. «La Pentax non vorrà nemmeno sentirne parlare.
Ricordati che lui è morto. Il ritorno economico del loro investimento è stato
pari a zero dopo che mia madre ha bruciato le foto.»
«Allora qualcun altro. E dovrai farci rientrare un compenso per te per
coprire le spese di tutta l’organizzazione.»
«Giusto…» dice Sophie, poco convinta.
«Certo» aggiunge Brett, sorridendo con fare ironico, perché sa che
questo è la nota dolente che Sophie sta fingendo di ignorare. «L’ideale
sarebbe trovare un modo di buttarci in mezzo il tuo lavoro, trasformarla in
una cosa padre-figlia e usarla per lanciare la tua nuova carriera da artista, un
po’ alla Milly Colley. Così il gioco varrebbe la candela.»
«Tu dici?» gli chiede Sophie, come se l’idea l’avesse sfiorata solo in
quel momento.
Brett ride e alza gli occhi al cielo.
1950 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX

Barbara viene svegliata dalle grida dei gabbiani e per un attimo non
riesce a capire dove si trova. Si sfrega gli occhi e guarda il soffitto azzurrino
ed estraneo sopra di lei, poi gira la testa e vede Glenda che sta dormendo nel
letto accanto al suo.
E tutt’a un tratto si ricorda: è in vacanza. Sorride tra sé e sé e si
stiracchia come un gatto appagato. È la prima volta nei suoi sedici anni di
vita che è in vacanza, e anche se sono arrivate solo la sera prima in treno, sta
già iniziando ad amare la sensazione di un letto diverso con suoni diversi.
Pensa che potrebbe alzarsi e andare a guardare fuori, ma invece si
riaddormenta. A casa non capita di frequente che le sia permesso di rimanere
a letto a poltrire.
Quando si sveglia di nuovo, il sole filtra attraverso la finestra a golfo
macchiata dal sale, e vede la sagoma di Glenda, stretta nella vestaglia, con il
cielo azzurro sullo sfondo.
«Buongiorno» le dice, mentre sbadiglia.
Glenda si volta verso di lei. Sembra diversa senza trucco, ha il viso
gonfio, ma un po’ meno severo, un pochino più dolce.
«È una giornata splendida» dice Glenda. «Pensavo che sarebbe bello
fare una nuotata. Prima di colazione. Che ne dici?»
«Oh! Sì!» esclama Barbara, tirandosi su di colpo. «Facciamolo!»
Non c’è una sola nuvola in cielo quando escono dal Sea View (al
completo) e attraversano la strada principale per scendere i pochi gradini che
portano alla spiaggia di sassi. «Sarà fredda, secondo te?» chiede Barbara.
«Gelata» dice Glenda. «Ma non me ne importa un accidente.»
«Neanche a me.»
Barbara ruota la testa per osservare il panorama: il sole che sorge a
sinistra, l’enorme spiaggia di sassi deserta davanti a loro, il molo a destra… È
tutto così nitido, così pulito, così rigenerante dopo Londra. Sta scoprendo che
basta cambiare un po’ aria per sentirsi una persona completamente diversa.
Si tolgono i vestiti e rimangono con il costume intero che si sono
infilate prima di uscire, poi si prendono per mano, e gridando e correndo
senza mai fermarsi, nonostante il male ai piedi per i sassi, si tuffano
nell’acqua verde e torbida. In effetti è gelida. Il bagno mattutino dura poco
ma è inebriante.
Dopo una tipica colazione all’inglese, accompagnata da un tè amaro,
lasciato in infusione troppo a lungo, e da un succo d’arancia annacquato, le
due sorelle escono di nuovo e camminano sul lungomare in direzione del
molo.
«Adoro i posti di mare» dichiara Barbara. «Credo che mi piacerebbe
vivere qui un giorno.»
«Capisco cosa intendi» dice Glenda. «Ma penso che alla lunga ti
annoieresti. Ci sono molte più cose da fare a Londra che a Eastbourne.»
«Immagino di sì» dice Barbara, anche se non le viene in mente una sola
cosa che preferirebbe “fare” a Londra invece di essere lì quel giorno.
Arrivate a metà del molo, appena superata la bancarella dello zucchero
filato con la musica di un organo, vengono avvicinate da un giovane biondo
che scatta foto ai turisti. «Dai, ragazze» dice. «Dovete assolutamente farvi
fare una foto da portare alla mamma.»
E siccome ha più o meno la sua età e per di più è carino (adora i ragazzi
con la barba, e sono abbastanza rari nell’Inghilterra degli anni Cinquanta),
Barbara gli chiede: «Quanto costa?».
«Per voi, belle signorine, uno scellino» dice lui. «E per quel prezzo ve
ne farò tre, e vi lascerò scegliere quella che preferite. Vi prometto che
sembrerete delle star del cinema.»
«Uno scellino!» dice Glenda, mettendosi a ridere. «Possiamo comprarci
il pranzo con uno scellino.»
«E dai» la prega Barbara, fissando gli occhi azzurri del fotografo.
Sembrano nascondere un sorriso. «La regaleremo alla mamma quando
torniamo.»
«Non possiamo permettercelo» dice Glenda. «Sai che quello che
abbiamo ci basta a malapena per…»
«Per favore?» insiste Barbara.
«Sei penny, allora» dice Glenda, rivolgendosi all’uomo. «Non uno di
più.»
Sul viso dell’uomo spunta un sorriso dolce.
«E ce le fai tenere tutte e tre» aggiunge Glenda. «Tanto a te non
servono.»
«Okay, okay» dice. «Non mi conviene, ma visto che siete entrambe
splendide, voglio accontentarvi.»
Dopo aver scattato le foto, due mentre sono appoggiate alla ringhiera
con il vento che soffia tra i capelli di Glenda, e una mentre posano con un
toro finto a grandezza naturale (messo lì appositamente a quello scopo), il
ragazzo dà alle sorelle il suo biglietto da visita, poi, quando loro riprendono a
camminare lungo il molo, ci ripensa e le raggiunge.
«Te lo ha mai detto nessuno che somigli a Claudette Colbert?» chiede a
Barbara.
«No, per la verità, nessuno» risponde, accorgendosi che sta arrossendo.
«Non dargli retta, sono chiacchiere da adulatore» le dice Glenda. «È
solo in cerca di un po’ di divertimento. Come tutti gli altri.»
«Non dico che mi dispiacerebbe» dice lui, scioccando Barbara che
arrossisce di nuovo. «Ma tu somigli davvero a Claudette Colbert. È
sbalorditivo.»
Barbara lancia un’occhiata a sua sorella e sorride timidamente. «Sul
serio?» gli chiede, e Glenda fa una smorfia.
«Posso farti una foto lì?» le chiede, indicando una panchina sotto un
piccolo gazebo di legno. «La luce è fantastica in quel punto.»
«Non pagheremo per altre foto» gli dice Glenda. «Quindi adesso puoi
anche sparire.»
«Queste sono solo per me» dice l’uomo. ««Per avere un ricordo di
Claudette.»
«Non hai paura di finire il rullino?» chiede Barbara. Sa che i rullini
sono cari.
«Il padre di una mia amica ha un negozio» le dice. «Me li regala. E non
mi fa pagare nemmeno per svilupparli. Dai. Vatti a sedere lì. Solo un paio di
scatti.»
Barbara giocherella con i capelli, poi va alla panchina dall’altra parte
del molo. Quando Glenda fa per raggiungerla, il fotografo le dice: «Un
momento. Lasciamene fare una di Claudette da sola».
«In realtà mi chiamo Barbara» gli dice lei.
«Piacere di conoscerti, Barbara» le risponde, chinandosi sul mirino della
sua Rolleiflex, che ha l’aria di essere una macchina molto professionale. «Io
sono Tony.»
«E io Glenda» gli dice Glenda, con una mano sul fianco. «Non che la
cosa ti interessi.»
«Meraviglioso» dice Tony, e per un attimo Glenda pensa che si riferisca
al suo nome.
«Girati un po’ a destra così il sole… ecco. Fantastico! … Quindi voi
siete sorelle?»
«Sì» risponde Barbara.
«Lo sapevo. Avete entrambe la stoffa da vere star. E adesso girati
dall’altra parte» dice Tony, e mentre Barbara lo fa, vede che Glenda li ha
lasciati soli, e si è già rincamminata lungo il molo.
«Glenda!» grida. «Aspetta!»
Lei la saluta con la mano sopra la spalla senza voltarsi. «Divertiti,
sorellina» dice. «Ma non fare niente che io non farei. Ti aspetto in albergo per
pranzo.»
«Caspita» dice piano Tony, con tono soave e sfacciato. «Buon per me!»
«Glenda!» grida Barbara, ma in realtà è piuttosto contenta che sua
sorella la ignori.

Dopo aver fatto le foto, Tony e Barbara riprendono a camminare, e una


volta arrivati in fondo al molo si affacciano alla ringhiera e osservano i
mulinelli che vorticano nell’acqua. Nell’aria si sente l’odore delle alghe.
«Il mare è davvero freddo» dice Barbara, infilando un’unghia sotto un
frammento di vernice spessa che si sta staccando dalla ringhiera. «Ho fatto il
bagno stamattina, con Glenda.»
«Devi farlo nel pomeriggio» le dice Tony. «Aspettare che si scaldi.»
«È quello che ho detto anch’io.»
«Allora, voi due siete in vacanza?» le chiede.
«Eh già. Siamo qui solo per tre giorni. È un gran peccato.»
«Ti piace?»
«Sì. È bellissimo. L’aria è così fresca, e poi c’è il mare» dice Barbara.
«Tu vivi qui tutto l’anno?»
Tony annuisce. «D’estate è divertente, ma in inverno un po’ noioso.
Però mi piace quando c’è il mare grosso.»
«Glenda me l’ha detto che in inverno sarebbe noioso. Ha detto a Londra
ci sono più cose da fare. Ma io credo che preferirei comunque vivere qui.»
«Di che zona di Londra siete?»
«Dell’East End. Shoreditch.»
«E dimmi, ce l’hai un ragazzo a Shoreditch?»
Barbara distoglie lo sguardo, chiude gli occhi per un attimo, poi fa un
respiro profondo e risponde: «No. Non ce l’ho. E tu? Ce l’hai la ragazza?».
«No» dice Tony. E sorridendo aggiunge: «In ogni caso, non ancora».

Girano intorno alla punta del molo e Tony compra una porzione di
patatine fritte da una bancarella; sono tagliate spesse, cosparse di sale e di un
aceto pungente, asprognolo. Le mangiano insieme mentre tornano verso la
terraferma. «Le patatine sono sempre più buone avvolte nella carta di
giornale» dice Barbara, leccandosi le dita.
«Hai ragione. Sono più buone.»
«Allora, questo è il tuo vero lavoro?» chiede Barbara, indicando la
macchina fotografica di Tony.
«No. In realtà è solo un hobby» dice Tony. «Ma ci tiro comunque fuori
qualcosa. Soprattutto quando ci sono i weekend lunghi. Se riesco a non
incrociare il fotografo ufficiale, non ho problemi. A volte lui mi caccia via
dalla sua zona. Ma di lavoro faccio il corriere. Consegno i pacchi con la
moto. Cose che sono troppo urgenti per la posta normale.»
«Caspita, hai una motocicletta?»
Tony scuote la testa. «Non è mia, me la danno per fare le consegne. È
un ferro vecchio. Una Royal Enfield sopravvissuta alla guerra. Scoppietta
come una mitragliatrice, e farla partire è un’impresa.»
«Però dev’essere divertente.»
«Non è male, quando c’è il sole» dice Tony. «Ma in inverno è terribile.
A volte devo arrivare fino a Londra. Magari la prossima volta passerò a
trovarti.»
Barbara si guarda i piedi. «Chissà» dice.
«Ti va un tè?» le chiede Tony. Stanno passando accanto a un caffè
frequentato da muratori e manovali.
«Meglio di no» risponde Barbara. «Glenda è un po’ in ansia per i soldi.
Dice che ce li abbiamo contati.»
«Offro io» le dice Tony. «Vieni. Ho sete.»

L’aria dentro il caffè è umida e impregnata dell’odore di fritto delle


colazioni che i lavoratori stanno mangiando. Prendono due tazze di tè carico
e dolcissimo al bancone, poi si vanno a sedere vicino alla vetrata. Tony sfrega
la manica sul vetro appannato per togliere la condensa e permettere a Barbara
di vedere fuori; una carineria che non passa inosservata. «Ecco» dice.
«Grazie.»
«Dove alloggiate?» le chiede.
«In un bed and breakfast. Sul lungomare. The Sea View.»
«Si chiamano tutti così.»
Barbara ride. «È vero! Siamo finite in altri due Sea View prima di
trovare il nostro.»
«Anche mia madre gestisce una pensione. La nostra si chiama
Donnybrook» dice Tony.
«Come mai?»
«Come mai cosa?»
«Come mai Donnybrook?»
Tony scrolla le spalle. «Non ne ho idea. Credo sia un posto da qualche
parte in Irlanda, o giù di lì, ma si chiamava già così quando ci siamo trasferiti
qui.»
«E tuo padre?»
«Lui fa il camionista. Di lunghe tratte. È spesso in viaggio. E la cosa a
me non dispiace.»
«Quindi, non andate d’accordo?»
«È un tipo a posto, credo. Quando è sobrio. Un po’ manesco quando
non lo è.»
«Oh, questa non è una bella cosa.»
«E i tuoi?»
«Mia madre fa la sarta» dice Barbara.
«Quindi cuce e cose così?»
«Sì. Più o meno.»
Tony annuisce. «E tuo padre?»
Barbara sospira e deglutisce.
«Scusa» dice Tony. «Che sciocco che sono. È successo in guerra?»
Barbara si schiarisce la voce. «Non è morto» dice. «Soltanto che non è
mai tornato a casa.»
«È disperso?»
«No. Intendevo che non è mai tornato a casa da noi.»
Tony è perplesso, quindi Barbara cerca di spiegargli l’inspiegabile. «A
dire la verità non ne so molto. Mia madre non vuole che se ne parli. Ma credo
che abbia conosciuto un’altra. Qualcuno ha detto a Glenda che vive ad
Harlow e che fa il muratore, o una cosa del genere. Ha una nuova famiglia
adesso.»
«E tu non vai mai a trovarlo?»
Barbara scuote la testa. «No.»
«Mai?»
Barbara si volta e guarda fuori. Il vetro si sta già riappannando, perciò
lo sfrega con la mano. «Possiamo cambiare discorso, per favore?» gli chiede.
«Scusa» dice Tony. «Io e la mia boccaccia. Mi devo sempre far
riconoscere.»
«Non importa» dice Barbara. «Ma preferirei parlare d’altro, tutto qui.»
«Certo. Allora di cosa vogliamo parlare?»
«Raccontami qualcosa di Eastbourne. Hai molti amici qui?»
«Oh, sì. Un sacco» risponde Tony, sorseggiando il tè. «La gente da
queste parti è molto socievole.»
«Vai a ballare, e cose così?»
«Ogni tanto, d’estate. Fanno delle belle feste al Winter Gardens. E a te
piace ballare?»
«Penso di sì» dice Barbara.
«Magari ti ci potrei portare» propone Tony.
«Chissà» dice Barbara, azzardandosi a fare l’occhiolino.
Anche se non è bello da parte sua, Barbara non torna al Sea View per
pranzo quel giorno. Va a sedersi con Tony in riva al mare, sulla spiaggia
(adesso affollata) di Eastbourne, a tirare i sassi nell’acqua. Salgono su un
mulo insieme. Dovrebbe essere una cosa riservata ai bambini, ma Tony
conosce il proprietario del mulo, che quindi fa loro un favore. E nel momento
esatto in cui cominciano a suonare i rintocchi dell’orologio sulla torre, Tony
dice: «Sono le cinque».
«Eh, sì. È meglio se adesso torno da Glenda. Sarà preoccupata.»
«Allora, posso darti un bacio? Prima che te ne vai, intendo» le chiede
Tony.
Barbara diventa rossa come un peperone, smette di camminare, si toglie
i capelli dagli occhi, e facendo ricorso a tutto il suo coraggio si volta verso di
lui. «Davvero me lo vuoi dare?» gli chiede.
«Certo» risponde Tony. «Sei mozzafiato.»
«Lo pensi sul serio?» gli chiede. «O lo dici a tutte le ragazze?»
Tony annuisce. «È tutta la vita che aspetto di incontrare una ragazza che
somiglia a Claudette Colbert» le dice, in modo melodrammatico. «Forse sei
tu quella che aspettavo.»
Barbara lo guarda dritto negli occhi. «Magari solo un bacino, allora»
dice.

Sul treno di ritorno verso casa, Glenda le dice, a mo’ di avvertimento,


che deve capire che si tratta solo di un flirt vacanziero. Barbara, che sta
guardando l’East Sussex scivolare via, si volta verso la sorella. «Perché dici
così?» le chiede.
«Perché non voglio vederti girare per casa con aria sconsolata» risponde
Glenda. «È stata solo una di quelle storielle che capitano in vacanza.»
«E tu come fai a saperlo?» le chiede Barbara. «Non hai mai avuto una
storiella in vacanza. Anzi, non c’eri neanche mai stata in vacanza.»
«È successo a delle mie amiche, va bene? Tony si è dimenticato della
tua esistenza nell’istante in cui sei salita sul treno. E tu ti dimenticherai di
Tony nel…»
«Ci siamo visti ogni giorno. Mi ha regalato questi fiori» dice Barbara,
facendo un cenno con la testa al piccolo mazzo di rose appoggiato sul sedile
accanto a lei. «Credo di piacergli davvero.»
«Probabilmente quelli li ha rubati dal giardino di qualcuno» dice
Glenda. «E voleva solo portarti a letto, nient’altro. Ancora non sai come sono
fatti gli uomini. Ma imparerai.»
«È una cosa orribile da dire» ribatte Barbara. «Secondo me sei solo
gelosa!»
Glenda scuote la testa con aria saggia e si volta a guardare fuori dal
finestrino. Si stanno fermando in una minuscola stazione di nome Polegate.
Non dice più niente sulla faccenda perché, anche se è assolutamente convinta
che Barbara non sentirà mai più parlare di Tony, lei ha colpito nel segno.
Questa è la prima volta in tutta la sua vita che un uomo rivolge le sue
attenzioni alla sua sorellina invece che a lei. Quindi sì, è gelosa.
Le foto arrivano quel giovedì mattina (con la scusa di mandarle le foto
Tony si è fatto dare il suo indirizzo). Nella busta, insieme alle tre fotografie
piuttosto belle, c’è un foglio con scritto: Penso che tu sia la ragazza più
mozzafiato che ho mai conosciuto. Penso di essermi innamorato di quei tuoi
occhi malinconici alla Colbert. Per favore, dimmi che posso venire a trovarti
presto.
Barbara si guarda allo specchio e si chiede se i suoi occhi sono
malinconici e se è una cosa positiva. Ma il bilocale in cui vivono, sopra la
lavanderia dove lavora sua madre, è squallido, e Barbara si vergogna troppo
per lasciare che Tony lo veda. Quindi si fa prestare i soldi del biglietto del
treno da Glenda, e solo due settimane più tardi, dicendo a sua madre che va a
trovare una nuova amica, Diane, torna a Eastbourne.
Sul treno riflette sul fatto che se sposasse Tony, dovrebbe trasferirsi a
Eastbourne. Così riuscirebbe a sfuggire alle insistenze di sua madre che vuole
a tutti i costi mandarla a lavorare in panetteria, con turni che cominciano alle
tre del mattino, se ne andrebbe da quelle orribili stanze sopra la lavanderia e
vivrebbe vicino al mare, tutto in un colpo solo. Si vergogna un po’ di essere
così calcolatrice, ma niente le è mai sembrato più allettante.
Al suo arrivo, scopre che il Donnybrook è uguale identico al bed and
breakfast in cui alloggiava con Glenda: carta da parati floccata dappertutto e
lenzuola di flanella. Trovandosi su una strada laterale lontana dal lungomare,
non c’è una gran vista, ma dato che Joan, la madre di Tony, è sempre
indaffarata, e che Lionel, il padre, è via per lavoro, Tony può entrare e uscire
dalla sua stanza di nascosto più o meno a suo piacimento. E questo rende quei
quattro giorni e quelle quattro notti i più belli che Barbara abbia mai passato.
Durante il giorno passeggiano sulla spiaggia e trascorrono il tempo nelle
sale giochi sul lungomare in compagnia di due amici di Tony, Hugh e Diane.
Hugh è un comunista convinto, affascinante, dedito al proselitismo e
sempre vestito di tutto punto, mentre Diane (che vive sopra al negozio di
cine-foto e si porta perennemente dietro l’odore del liquido di sviluppo) è un
maschiaccio, una teppistella con i capelli neri dritti come spaghetti, sempre
davanti agli occhi, e delle sopracciglia scure e spesse che avrebbero un gran
bisogno di essere sfoltite.
Ma tra Hugh che cerca in continuazione di rubare un bacio a Diane, e
Diane che ride in maniera disinvolta delle sue avances, stare con loro è molto
divertente. E l’aria e la luce di Eastbourne sono più rinfrescanti e rinvigorenti
che mai.
Barbara teme che Diane abbia delle mire su Tony, ma quando glielo
chiede, lui le dice: «Non essere sciocca. È un’amica. La conosco da quando
avevo all’incirca tre anni».
Ma lei ritiene comunque di avere ragione, e pensa che forse deve solo
accaparrarsi Tony in fretta. Forse deve prenderselo prima che lo faccia Diane.

Quando Barbara arriva a casa la domenica sera, trova Glenda


indaffarata davanti alla piccola cucina a gas a preparare lo stufato, mentre
Minnie sta aggiustando i colletti sgualciti delle camicie che i clienti hanno
portato in lavanderia.
Lascia cadere il borsone e dà un bacio a sua madre sulle labbra.
«Tieni, vacanziera» le dice Minnie. «Prendine qualcuna, ti dispiace?
Solo quelle in cima alla pila. Mancano i bottoni. Altrimenti non le finirò
mai.»
Barbara annuisce, si toglie il cappotto, e dopo aver preso alcune
camicie, si mette a sedere sulla poltrona con la scatola del cucito. È stanca per
il viaggio. Le sarebbe piaciuto bere una tazza di tè prima. Ma sa che non le
conviene discutere.
«Com’era Eastbourne?» le chiede Minnie.
«Splendida» risponde, mentre taglia un filo di cotone e lo infila
nell’ago. «Non faceva caldo come quando ci sono stata con Glenda. Ma c’era
il sole.»
Minnie annuisce e le fa un cenno con la testa, invitandola a continuare.
«La mamma di Diane è stata molto gentile» prosegue Barbara, iniziando
a mentire. «E la loro pensione era quasi identica a quella in cui siamo state
noi, soltanto più lontana dal mare.»
«E quindi non hanno avuto nulla in contrario a ospitarti?» chiede
Minnie, con tono dubbioso.
«No» risponde Barbara, infilandosi il ditale, poi fruga nella scatola di
latta e, trovato il bottone adatto, comincia ad attaccarlo. «E noi abbiamo
aiutato a fare i letti e altre cose. Ho lavato anche i piatti.»
«Ah sì?» dice Minnie, con aria sempre meno convinta.
Barbara si accorge che sta per essere scoperta. Non è facile
infinocchiare Minnie. Deglutisce a fatica e cerca di concentrarsi sul lavoro di
cucito.
«Le metto tutte le carote, mamma?» chiede Glenda, e Barbara capisce
che sta provando a distrarla. Anche lei avverte il pericolo.
«Usa il buon senso» le risponde Minnie, poi rivolgendosi a Barbara:
«Cos’altro hai fatto? Dimmi di più. Raccontami tutto».
«Abbiamo passeggiato sulla spiaggia» dice Barbara, ricordandosi la
sensazione della mano di Tony nella sua. «Siamo andate a sentire la banda
che suonava al Winter Gardens» dice, ricordandosi la sensazione della barba
di Tony mentre la baciava dietro le cabine dello stabilimento. Ho le labbra
ancora rosse? si chiede. «Solo da fuori, naturalmente. Il biglietto costava
troppo. Abbiamo anche camminato sul molo» aggiunge, mentre in realtà lei,
Diane, Hugh e Tony sono stati sotto il molo a scolarsi qualche birra che
Diane aveva rubato a suo padre, e quando l’alcol le ha dato un po’ alla testa,
ha lasciato che Tony le infilasse la mano sotto la camicetta. «Niente di che,
cose che si fanno al mare.»
Minnie annuisce e alza lo sguardo verso di lei, con un’espressione
vagamente turbata.
«La mamma di Diane ha detto che se voglio posso andarci anche il
prossimo weekend» dice Barbara.
Minnie sorride in modo sarcastico. «E con quali soldi?»
«Il papà di Diane ha detto che mi pagherà lui il biglietto» dice Barbara,
e il fatto che Glenda, dietro sua madre, si sia bloccata e le abbia lanciato
un’occhiataccia, le fa capire che si è spinta troppo oltre.
Minnie smette di cucire. Si lecca le labbra, poi posa ago e filo e si fissa
le mani per un attimo, come se volesse controllarsi le unghie. «Puoi andare al
negozio a prendermi dei fiammiferi?» chiede a Glenda, senza alzare lo
sguardo.
«Vado io» si offre Barbara.
«No. Tu resti qui» ordina Minnie. «E tu fai pure con comodo, Glenda.»
«Certo, mamma» risponde Glenda, che si sta già infilando il cappotto,
pronta a uscire. Qualunque cosa stia per succedere, non vuole essere presente.
Nell’istante in cui la porta si chiude, Minnie domanda a Barbara:
«Allora, come si chiama?».
«Chi?» dice lei, fingendo di essere concentrata sul bottone che sta
attaccando. «Il papà di Diane? Si chiama…»
Minnie sbatte il pugno sul tavolo. «Non permetterò che mia figlia mi
menta in casa mia» dice furiosa. «Come accidenti si chiama?!»
«Tony» confessa Barbara. «Si chiama Tony.»
«Tony» ripete Minnie, strizzando gli occhi.
Barbara fissa la camicia e si chiede se si metterà a piangere.
«Bene, vai avanti, ragazzina. Parla!» dice Minnie.

Dopo che Barbara le ha raccontato tutto quello che le viene in mente di


Tony che non riguardi i baci o la birra, Minnie, senza proferire parola, si
rimette a cucire. Vorrebbe che Seamus fosse lì a occuparsi della faccenda. Sta
cercando di decidere come dovrebbe reagire. Le cose con Glenda sono andate
in maniera completamente diversa: mentre non la teneva d’occhio, lei ne ha
combinate di tutti i colori, e quando se n’è accorta, ormai era diventata troppo
indipendente per darle una raddrizzata. Ma Barbara? Barbara è fragile. Lei
ritiene che abbia bisogno di essere protetta.
Barbara aspetta un attimo, poi apre la bocca per chiederle se può
continuare a vederlo. Ma cambia idea e non dice niente. Si rimette a cucire.
Dopo qualche minuto, Minnie rompe il silenzio. «Ti interessa sul
serio?» le chiede. «Ti piace davvero questo ragazzo?»
Barbara si schiarisce la voce. «Penso di sì» risponde.
Minnie annuisce. «Spero che tu non stia facendo niente che una
ragazzina della tua età non dovrebbe fare.»
«No, mamma» dice Barbara. «Lui non ci ha nemmeno provato. È un
ragazzo perbene, rispettoso.»
«Be’, se vuoi cominciare a farti corteggiare, immagino che sarà il caso
di farlo venire qui, così posso conoscerlo» dice Minnie.
«Oh. Va bene. Io, ehm, gli scriverò per chiedergli quando può venire,
allora?»
«Meglio di domenica» le dice Minnie. «Digli di venire domenica
prossima, di pomeriggio. Farò gli scones.» In realtà non sa perché sia meglio
di domenica, né perché debba fare gli scones, a parte il fatto che quello è il
modo in cui i suoi genitori hanno accolto Seamus tanti anni prima. Non ha
idea di come vada gestita la cosa, ma almeno la domenica e gli scones sono
un punto di partenza.
«Non possiamo incontrarlo da qualche parte in città?» le chiede
Barbara, guardandosi intorno.
«Perché? Questa casa non ha niente che non va.»
«Pensavo solo che sarebbe carino se…»
«A meno che tu non pensi che lui sia troppo snob per venire qui» dice
Minnie. «In quel caso forse dovresti trovarti un ragazzo più a modo. Perché
io non ho intenzione di fare cambiamenti solo perché tu ti sei trovata un
piccolo lord.»
«Non è questo, mamma» mente Barbara. «Non è affatto questo.
Pensavo solo che sarebbe carino per te uscire. Per cambiare un po’.»
«No. Può venire qui domenica pomeriggio» dice Minnie. «O non venire
per niente.»

Sono da poco passate le tre quando Barbara sente una motocicletta


accostare sotto casa. Va alla finestra a controllare, poi annuncia: «È lui. È
arrivato». Corre sul pianerottolo, scende le scale di corsa e, passando dalla
lavanderia, va alla porta.
La apre e la campanella si mette a tintinnare mentre il cartello CHIUSO
comincia a dondolare. Tony si sta togliendo il casco e sembra perplesso.
«Pensavo di essermi sbagliato» dice. «Non avevo capito che abitavi proprio
dentro la lavanderia.»
«Sopra la lavanderia; viviamo nell’appartamento al primo piano» spiega
Barbara, indicandolo imbarazzata. «Non è niente di lussuoso, ma per noi è la
nostra casa» aggiunge, una battuta che ha sentito in qualche film e che si è
conservata per quel preciso momento.
«Capisco» dice Tony, seguendola nel negozio buio. «Su c’è solo tua
madre, giusto? O c’è anche Glenda?»
«No, Glenda è uscita. Siamo solo noi. Sono agitatissima.»
«Anch’io.»
«Vieni. È da questa parte» gli dice Barbara, prendendogli la mano e
guidandolo tra i vestiti puliti appesi, i sacchi di vestiti sporchi, dietro al
bancone, e attraverso la porta sul retro.
Se la lavanderia è squallida, non è niente al confronto di ciò che
nasconde quella porta. Il proprietario cinese non ha mai fatto dei lavori a quel
posto, da quando lo ha acquistato alla fine della guerra, e secondo Barbara
doveva avere bisogno di ben oltre una rinfrescata ai muri già da prima. Ma
visto che loro non hanno né il tempo né i soldi per pitturarlo, è così che è
rimasto, squallido. Si chiede se Tony girerà i tacchi e, così com’è venuto, se
ne andrà. Non gliene farebbe una colpa.
Arrivati sul pianerottolo al piano di sopra, Barbara gli indica
l’attaccapanni. «Se vuoi levarti il giubbotto, puoi appenderlo lì» gli dice.
Tony tira giù la cerniera della giacca in tela cerata da motociclista e se
la toglie, scoprendo un completo nero che gli va un po’ piccolo. «Oh, stai
benissimo» dice Barbara, sistemandogli la sottile cravatta nera.
«È di Hugh» mormora Tony. «Me lo sono fatto prestare.»
«Immaginavo. Ma ti sta bene. Allora! Pronto?»
Dopo aver fatto una smorfia di paura e un respiro profondo, Tony le
dice: «Pronto».
Barbara gli dà un bacio sulla guancia, poi mette la mano sulla maniglia,
spinge la porta ed entra, seguita da Tony, nella prima delle due stanze, quella
che funge da soggiorno, cucina, sala da pranzo, laboratorio e camera di
Minnie, e nella quale, per mancanza di armadi e pensili, c’è roba ovunque.
Intorno al lavello ci sono pentole e padelle impilate l’una sull’altra. Accanto
alla poltrona libri e riviste. Vicino al letto singolo i vestiti piegati di Minnie.
E in qualunque altro spazio libero, mucchi e mucchi di capi di ogni genere
provenienti dalla lavanderia, che necessitano di orli o altre riparazioni.
Barbara s’immagina di vedere la stanza con gli occhi di Tony e pensa che sia
tutto finito; è convinta che al termine di quell’incontro la lascerà.
«Allora» la sprona Minnie. «Non ci presenti?»
«Mamma, lui è Tony» annuncia. «Tony, mia madre.»
«Salve, signora Doyle» dice Tony, e Barbara si accorge che gli trema la
voce. «Sono davvero felice di conoscerla.» Fa un passo in avanti e le porge la
mano.
«Questo lo vedremo» dice Minnie, ignorando la mano di Tony, più
feroce che mai. «Mettiti seduto lì» aggiunge, indicando con la testa il tavolo
da pranzo che ha sgomberato quel tanto che basta per fare spazio al piatto con
gli scones e alla teiera. «E tu, signorina» dice, rivolgendosi a Barbara «levati
di torno per un’oretta, d’accordo?»
«Oh» dice Barbara. «Pensavo che avremmo bevuto il tè insieme.»
«Be’, hai pensato male» dice Minnie. «Adesso, sparisci.»
Barbara esce e si chiude la porta alle spalle. Prende il cappotto, ma poi
si ferma sul pianerottolo e rimane lì a origliare. «Allora, tu sei il famoso
Tony» sta dicendo Minnie.
«L’ultima volta che ho controllato sì, signora Doyle» risponde Tony.
Barbara fa una smorfia. Sua madre non apprezzerà una risposta così
impertinente. Neanche un po’.
«E sei venuto qui da Eastbourne con la tua motocicletta?»
«Esatto, signora Doyle. Faceva parecchio freddo.»
Poiché questo scambio di battute è seguito da un momento di silenzio,
Barbara si avvicina ancora di più alla porta e quasi sviene per lo spavento
quando Minnie la spalanca di colpo. «Pensavo che dovessi andare a farti un
giro» dice Minnie, con un tono sorprendentemente calmo.
«Sì, sì. Ehm, stavo a… andando» balbetta Barbara, voltandosi e
correndo giù per le scale.

Una volta fuori ha un momento di esitazione, poi si volta verso la


strada. È una fresca giornata di settembre, il cielo è grigio pallido e c’è un
leggero venticello.
Mentre cammina, pensa a come starà andando la conversazione tra
Tony e sua madre. Se li immagina mangiare gli scones insieme e si chiede se
Tony si macchierà la cravatta con la marmellata; è un gran casinista quando
mangia. Prova a indovinare cosa le dirà Minnie al suo rientro. Mi dispiace, è
un bravo ragazzo, ma non è il genere di persona che voglio che frequenti, è
un’ipotesi che le sembra possibile. O magari, Ci ho pensato, ma adesso sei
troppo giovane per farti corteggiare. Credo che dovresti aspettare qualche
anno. Sua madre dice sempre corteggiare. Ma Tony la aspetterebbe? Certo
che no. Soprattutto con Diane pronta a entrare in scena. Minnie di sicuro avrà
notato il suo colletto sfilacciato e anche che il vestito è di una taglia più
piccola. Su questo, Barbara non ha alcun dubbio. E adesso che Tony sa che
vive in una topaia sopra una lavanderia, vorrà continuare a vederla? Molto
probabilmente no. Le batte il cuore all’impazzata e non le viene in mente
nessun modo sensato di far volare il tempo. Per favore, prega, in silenzio.
Tutta la mia vita dipende da questo.
Quando arriva di nuovo sotto casa, dopo aver vagato senza meta per
un’ora, alza gli occhi verso le finestre, come se potessero rivelarle qualcosa
sull’atmosfera all’interno, ma l’unica cosa che vede è il riflesso del cielo.
Entra in lavanderia, la attraversa e si ferma ad ascoltare in fondo alle
scale. Con sua grande sorpresa, sente Minnie ridere. Non si ricorda di una
sola volta in cui glielo abbia sentito fare. È uno shock scoprire che ne sia
effettivamente capace.
Rimane lì ad ascoltare ancora per un po’, poi, dopo aver controllato
l’orologio per assicurarsi che sia passata un’ora esatta, sale al piano di sopra,
si toglie il cappotto, e bussa timorosa alla porta.
«Entra, tesoro» dice Minnie, e dopo quella risata, perfino la sua voce è
diversa, come se non fosse la sua.
Barbara entra nella stanza e vede sua madre asciugarsi una lacrima e
Tony con un sorriso a trentadue denti. «Ti sei trovata un vero comico» dice
Minnie. «Mi ha fatto sbellicare dalle risate.»
Barbara si sforza di non lasciar trapelare la sua perplessità mentre li
guarda. È un risultato talmente inaspettato, che le sembra una specie di
scherzo. «Be’, vieni qui a mangiare uno scone» dice Minnie. «Tony tra poco
dovrà andare, purtroppo.»
Tony le fa l’occhiolino e solo allora il viso Barbara si distende.

Mezz’ora più tardi sono sotto casa, e mentre Tony si mette il casco,
Barbara, avendo visto che Minnie li sta osservando dalla finestra, a bassa
voce gli chiede: «Si può sapere cosa caspita le hai detto per farla ridere in
quel modo?».
Tony scrolla le spalle. «Le ho raccontato qualche barzelletta» dice. «Di
mio padre, più che altro. Tua mamma è molto gentile, sai?»
«Barzellette! Quali barzellette?»
«Non lo so…Quella dei due gatti che litigano. Cose così.»
«E che poi fanno pace e uno dice all’altro: mici come prima?» chiede
Barbara, perplessa.
«Sì.»
«Ma era in lacrime.»
Tony scrolla di nuovo le spalle. «Forse era da un po’ che nessuno si
prendeva la briga di raccontarle una barzelletta» dice.
«No» ammette Barbara. «No, forse no.»
«Allora, quando posso rivederti?»
«Non lo so. Immagino che la mamma adesso mi parlerà. Dopo che sarai
andato via.»
«In questo caso sarà meglio che vada.»
«Ti scrivo. Non appena so qualcosa, ti scrivo.»
«E io tornerò appena mi sarà possibile.»
E poi Tony con un colpo al pedale fa partire la moto, mette la marcia e
parte.
Quando Barbara rientra, Minnie si è già messa a cucire.
«Posso avere un altro scone?» le chiede.
«Basta che ne lasci qualcuno per Glenda.»
«Allora, ti è piaciuto?»
«Sì» dice Minnie. «È un ragazzo piuttosto simpatico.»
«Quindi posso continuare a vederlo?»
Minnie si blocca e la guarda. «Scriverò ai suoi genitori» dice. «Voglio
che mi assicurino che dormirete in stanze separate quando vai da loro.»
«Noi dormiamo sempre in stanze separate.»
«Bene» dice Minnie. «Perché come ho detto a Tony, se ti mette nei
guai, ti deve sposare.»
Barbara rimane di stucco e abbasso lo sguardo verso il piatto di scones.
«Mi hai sentito?» le chiede.
«Sì, mamma» risponde Barbara. «Sì. Ti ho sentito.»
2012 — SOUTHWARK, LONDRA

Sophie sta andando a fare un servizio fotografico ed è arrivata in


anticipo. Appoggia velocemente la sua attrezzatura in un angolo del
magazzino cavernoso dove si trova lo studio, e tira fuori la Nikon dalla borsa.
Quando raggiunge la sala posa, Ralph, che è gay e superpalestrato (e più
carino della maggior parte dei modelli) sta appendendo dei lunghi lenzuoli
bianchi da usare come fondale. Non si è accorto della sua presenza, quindi
Sophie toglie il coperchio dalla lente senza fare rumore, e si porta la
macchina davanti all’occhio.
Ralph è in cima a una scala troppo bassa e si sta allungando per
raggiungere l’angolo in alto della parete. La camicia di jeans che indossa si è
sollevata, lasciando scoperto un allettante pezzo di pelle sopra i jeans a vita
bassa, e porta anche un paio di stivali da cowboy con dei veri e propri
speroni. Ne verrà fuori una foto sexy, pensa Sophie.
Purtroppo si è dimenticata di mettere la macchina in modalità
silenziosa, quindi il rumore dell’autofocus avverte Ralph della sua presenza.
«Ehi, Sophie» dice, voltandosi con un sorriso. «Che combini?»
«Sss!» dice. «Sto facendo un piccolo reportage.»
Ralph solleva la spillatrice e spara un punto metallico nell’angolo in alto
del lenzuolo. «Bene, allora mi raccomando, mandami le copie.»
«Certo» dice Sophie, zoomando sul suo sedere prima di scattare altre tre
foto. «A proposito, begli addominali. Vorrei che ce li avesse il mio ragazzo.»
«Oh, non ci vuole molto» dice Ralph, scendendo dalla scala. «Basta
abbandonare l’idea di avere una vita sociale e trascorrere tutto il tempo libero
in palestra.»
Sophie si mette a ridere poi, mentre imposta la modalità silenziosa, si
dirige sul retro per sbirciare nella sala trucco.
Dentro ci sono i tre modelli che Now ha scelto per il servizio. Sono due
donne, la feroce Eddi Day, di razza mista, con la quale ha già lavorato, una
creatura nuova, scheletrica, con i capelli biondi leggermente venati di verde, e
un ragazzo, uno di quei tipi bellissimi ma che sembrano stupidi, con delle
sopracciglia spesse talmente dritte che potrebbero essere usate come livella.
Ricorda un po’ Colin Farrell, ma più giovane e con un corpo scolpito.
Sophie solleva la macchina fotografica e fa qualche scatto al Fisicato di
spalle, mentre si incipria il naso davanti allo specchio, uno a Eddi Day che si
controlla le narici, e uno alla mano ossuta della Scheletrica che strappa un
pezzettino minuscolo di brioche e se lo mette in bocca. A giudicare dal fatto
che non ha un filo di grasso, o per meglio dire di carne, quello deve essere il
primo pezzo di cibo che le attraversa le labbra dall’inizio dell’anno.
Senza fare rumore, Sophie si intrufola nella stanza. Vede che il Fisicato
ha notato la sua presenza; le rivolge un sorriso, che è francamente
inquietante, perciò lei si augura che Now non voglia scatti con facce allegre.
Comunque, per sua fortuna lui va avanti a incipriarsi il naso e non dice
niente, perché Sophie sa benissimo che non appena Day si accorgerà di lei,
quella sessione fotografica sarà terminata.
«Com’è andata a finire poi con quel servizio di Monsoon? Ti hanno
scelto?» sta chiedendo Day alla Scheletrica.
«No. Hanno preso una rossa anoressica» risponde lei, e Sophie fa una
smorfia mentre pensa come potrebbe essere una modella che la Scheletrica
considera anoressica. Le vengono in mente immagini di Auschwitz.
Si muove lungo la parete di destra e riesce a fare una serie di foto dei tre
modelli presi tutti insieme di profilo, mentre si guardano ciascuno nel proprio
specchio, ma focalizzandosi su un viso diverso per ogni scatto. Se vengono
bene, potrebbe uscirne un trittico grandioso.
E poi il Fisicato, accidenti a lui, dice: «Allora, che ci devi fare con
queste?». Eddi Day si volta verso Sophie e le lancia uno degli sguardi più
terrificanti che lei abbia mai visto. Nessuno s’immaginerebbe mai che una
modella possa avere un aspetto così spaventoso, pensa Sophie, riuscendo a
scattare altre tre foto mentre abbassa la macchina.
«Che cazzo combini?» le dice Eddi Day, con tono aggressivo.
«Sono solo per me» dice Sophie.
«Non me ne frega un cazzo» dice Eddi Day, inviperita. «Il contratto non
lo prevede.»
«Calmati. Non sono per il servizio» le spiega Sophie. «Te l’ho detto,
queste sono solo per me.»
«Sarà meglio» commenta Eddi. «O ti faccio causa e ti lascio in
mutande.»
La Scheletrica si volta verso di lei e annuisce in maniera esagerata.
«Anch’io» dice.
Il Fisicato scrolla le spalle. «A me non importa» le dice, facendole
l’occhiolino. «Fotografa pure.»

Il sabato mattina, quando Brett arriva a casa di Sophie, il labbro


arricciato in modo raccapricciante di Eddi Day riempie lo schermo del suo
iMac da ventisette pollici.
Brett appende il cappotto, poi si avvicina a Sophie e si china per
baciarle il collo. «Cavolo!» esclama, con una reazione a scoppio ritardato.
«Quella chi è?»
«Eddi Day» risponde.
«E chi sarebbe Eddi Day?»
Sophie scoppia a ridere. «Anche se non te ne rendi conto, lo sai chi è
Eddi Day. Solo che non l’hai mai vista così.»
Fa qualche click con il mouse, e trova una pubblicità online della crema
antirughe della Noméa.
«Oh, il volto della Noméa, eh?»
«Già.»
«Cos’è, sta pensando di darsi al cinema horror per caso?»
Sophie sorride e riporta sullo schermo la foto rubata. «Un po’
scioccante, vero?»
«Per usare un eufemismo. E ha le rughe!» dice Brett, indicando le linee
sottili intorno agli occhi.
«Ha trentacinque anni» dice Sophie. «Ormai devo usare Photoshop con
lei.»
«E fa ancora la modella per le pubblicità delle creme antirughe?»
«Esatto. È per questo che devo ritoccare le sue foto.»
«Allora, cos’è successo?» chiede Brett, andando in cucina a versarsi una
tazza di caffè. «Hai schiacciato il pulsante di scatto inavvertitamente?»
«No, è stato tanto per fare qualcosa di diverso. Per esprimere un mio
punto di vista, come diresti tu» spiega Sophie.
«E?»
«Questa fa parte di un’idea che mi è venuta. Il lato nascosto
dell’industria della moda. È questa la mia grande idea. Be’, se non altro lo è
al momento.»
Brett si appoggia al piano della cucina e sorride. «Ma dai, questa non è
una grande idea. Pensare di poter fare qualche scatto in più mentre stai
lavorando e chiamarlo arte, è solo pigrizia.»
Sophie si lascia andare contro lo schienale e fa girare piano la poltrona,
mettendosi a esaminare la foto. È quasi ammaliata dallo sguardo torvo di
Eddi Day, in particolare dalla bolla di saliva all’angolo del labbro arricciato.
«Dipende tutto dalla spiegazione che dai» dice. «Se la spieghi nel modo
giusto, diventa arte.»
«Mhmm» dice Brett, in modo sarcastico. «Dunque, vediamo. Mi pare
che un certo Anthony Marsden dicesse qualcosa di diverso. Se non sbaglio il
suo slogan era…»
«Be’, quando voleva, mio padre sapeva giocare d’astuzia» lo interrompe
Sophie. «Dire che l’arte non è fatta per essere spiegata, che è fatta solo per
essere guardata… be’, quella era un’astuta spiegazione decostruzionista di ciò
che è l’arte, non credi? Era un doppio bluff.»
«Se lo dici tu.»
«Davvero, Brett, guarda questa foto. Ha un non so che di magnifico,
non trovi? Immaginala in un ingrandimento di tre per tre. Metri intendo, non
piedi. O anche di più. Magari di cinque per cinque. Riusciresti a vedere ogni
singolo poro. Ogni punto nero.»
«Sarebbe fantastico» dice Brett. «E ti farebbe causa lasciandoti in
mutande.»
«In effetti, le sue parole sono state proprio quelle.»
«Eh?»
«È così che ha detto quando ho scattato questa foto. Che se l’avessi
usata mi avrebbe fatto causa lasciandomi in mutande. Be’, in realtà con il suo
accento suonava un po’ diverso. È di Runcorn, non di New York, quindi…»
«Quindi, in realtà non la puoi usare?»
«Non questa, no. Ma probabilmente potrei ottenere l’autorizzazione per
alcune delle altre. Guarda.» Sophie comincia ad armeggiare con il mouse
finché sullo schermo non compare la prima foto dei tre visi presi di profilo,
che ha convertito in bianco e nero con un contrasto molto marcato. «Niente
male, eh?»
Brett si sposta di lato e si piega accanto a lei, e Sophie fa scorrere sullo
schermo le tre foto quasi identiche dei modelli che si truccano, cliccando
prima su un viso e poi sull’altro per portarli a turno in primo piano. «Pensavo
a un enorme trittico.»
«In effetti quando le fai scorrere così una dopo l’altra l’effetto non è
niente male» dice Brett. «Forse dovresti pensare a un video.»
«Sì. Hai ragione.»
«Ma quel tizio si sta davvero incipriando il naso?»
«Eh già.»
«Caspita.»
«E quello è solo il primo strato. Il truccatore è arrivato subito dopo e li
ha ricoperti tutti di fondotinta. Guarda.» Mostra a Brett una serie di foto con
il truccatore che applica il fondotinta con una bomboletta spray.
«Accidenti!» dice Brett, scoppiando a ridere. «Glielo spruzzano
letteralmente addosso.»
«Letteralmente.»
«E il risultato finale?»
Sophie affianca due foto, una di Eddi Day che indossa una gonna nera e
una maglia arancione con le trecce senza maniche, entrambe di Now, e una di
Patrick (è venuto fuori che il vero nome del Fisicato è Patrick Evans) con un
completo grigio preconfezionato, una camicia bianca con il colletto tondo, e
una cravatta stretta rosa.
«Ah!» esclama Brett. «Il fondotinta gli dona. Anche l’abito è carino. Di
chi è?»
«Now» dice Sophie.
«Now?»
«La catena di negozi, sì.»
«I loro vestiti nelle vetrine non sembrano così.»
Sophie sorride e si morde il labbro inferiore. Per una volta è lei
l’esperta, e la cosa le dà una certa soddisfazione. Le piace poter rivelare a
Brett i segreti del mondo della moda. «Guarda questa» gli dice, selezionando
un’altra foto di Patrick di spalle.
«Quelle cosa sono?» chiede Brett. «Mollette?»
«Eh già» dice Sophie. «È in questo modo che riesci a far stare bene un
completo di Now a un modello palestrato. Mollette su tutta la schiena, così il
davanti cade bene. E se guardi attentamente…» Sceglie un’altra foto in cui
Patrick è di spalle. In questa, indossa solo i pantaloni e il panciotto con il
dorso satinato. Sophie zooma sulla cintura dei pantaloni.«Lo vedi, no? Che
hanno dovuto scucirglieli in vita?»
«Perché? Erano della taglia sbagliata? Oppure ha due chiappe
esagerate? Cosa?»
«Quest’anno la moda è più skinny di quanto si erano aspettati. Perciò,
per far sì che questo vestito sembrasse più aderente, hanno messo le mollette
alla giacca per darle un effetto più sciancrato, e hanno usato un paio di
pantaloni di una taglia in meno. Ma per farglieli entrare, hanno dovuto
scucirli.»
«Quindi, se questo tizio andasse in un negozio di Now a comprare lo
stesso vestito…»
«Gli starebbe di merda» conferma Sophie.
«È assurdo.»
«E in più, ovviamente, io devo comunque ritoccare le foto.»
«Altri peli nel naso, eh?»
«No. Ma il sopracciglio sinistro è più folto di quello destro, vedi?
Quindi dovrò pareggiarli. E togliere alcune pieghe qui…» Sophie passa il
dito sull’interno coscia dei pantaloni di Patrick. «E sbiancare i denti a tutti.»
«E poi ci chiediamo perché non siamo come quelli nelle pubblicità»
dice Brett.
«Lo so. E so che queste non posso usarle perché sono modelli
professionisti, ma se facessi la stessa cosa con dei non professionisti… se li
pagassi per le ore di lavoro e facessi degli scatti doppi, cioè, prima di tutti i
trucchetti e dopo… se facessi una serie di foto in cui mostro le mollette e il
fondotinta spray e i ritocchi con Photoshop, non pensi che sarebbe figo?»
«Ehm» dice Brett.
«Ehm?»
«Sì. Ehm.»
«Ehm cosa?»
«Sinceramente?»
«Sinceramente.»
«Va bene, io ci vedo due problemi. Il primo è che si tratta di
un’informazione, non di arte. Sfateresti un mito, il che è interessante… è, è…
perfino liberatorio. Ma non è arte.»
«Di sicuro questo dipende da quanto sono buone le foto…»
«C’è comunque troppa narrazione. È troppo utile. Troppo descrittivo.»
«Oh.»
«Scusa, tesoro.»
«E il secondo problema? Hai detto che erano due.»
«Ah, giusto. Che non lavoreresti mai più nel settore della moda.»
«Sì» dice Sophie. «A questo ci avevo pensato.»
«Quindi…» dice Brett.
«Quindi?»
«Quindi, scopiamo oppure no?» le chiede, con quel suo sorrisetto
lascivo.
Sophie sospira, si gratta un sopracciglio, poi stacca gli occhi dallo
schermo. «Ehm» dice.
«Caspita, che entusiasmo, grazie.»
«Ehi, non puoi sbattermi in faccia i difetti del mio progetto e aspettarti
di…»
«Sbattermi anche te?»
«Esatto.»
«Okay! È un’idea grandiosa!» dice Brett. «È talmente buona, che
scommetto che ti faranno fare una mostra personale alla Tate Modern.»
Sophie gli lancia un’occhiataccia.
«Allora, adesso ti va di scopare?» le chiede Brett.
1951 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX

Tony alza lo sguardo verso Barbara, e ha un’espressione corrucciata. È


piegato di fianco alla motocicletta con una spugna insaponata nella mano.
Barbara ha aspettato fino a quel momento per fare il suo annuncio, perché,
dato che Tony ha le mani impegnate e non può scappare o strangolarla, si
sente un po’ più al sicuro.
«Cosa?» le dice.
«Io credo che tu mi abbia sentito» gli risponde a bassa voce.
«Ti ho sentito» dice Tony. «Ma non capisco dove vuoi arrivare.»
«Sai…» dice Barbara. «Le mie cose. Ce le ho una volta al mese. Ma
questo mese non mi sono venute.»
«Continuo a non capire dove vuoi arrivare» dice Tony. «Stai male? Hai
bisogno di andare da un dottore?»
Barbara si copre la bocca con la mano e sussurra: «Oh, Tony».
«Non starai cercando di dirmi che… non intendi…» Tossice. «Non sei,
insomma…» dice, indicando con il mento la pancia di Barbara. «O sì?»
Lei annuisce vagamente.
«Ah sì?»
«Credo di sì.»
«Ma noi non ci stavamo nemmeno provando» dice Tony.
Barbara si schiarisce la voce. «Lo so. È la stessa cosa che ho pensato io.
Ma non credo che uno debba proprio provarci. Credo che basti fare… sai…
quello che abbiamo fatto.»
«Oh, Cristo!» dice Tony.
«Per favore, non imprecare.»
«Hai ragione. Ma… per la miseria. Così all’improvviso? L’hai fatto
apposta? Per farti sposare?»
Barbara si incupisce e si lecca le labbra. Scrolla le spalle. «Certo che no.
E tu?»
«Non essere stupida. Maledizione, Barbara! Non posso credere che tu
mi stia dicendo questo. Non così.»
«Quindi sei arrabbiato» dice Barbara. «Pensavo che saresti stato
contento.»
«Contento?!» sbraita Tony. «Non so cosa sono, accidenti.»
Barbara si volta e rientra a passo veloce nel Donnybrook, poi corre su
per le scale e va in camera sua. Chiude la porta e si butta sul letto.
Se fosse il tipo che piange, piangerebbe. Ma a differenza di sua sorella,
Barbara non è una che piange. Anche quando vuole, non ci riesce. E siccome
dà per scontato che Tony stia per raggiungerla, e poiché vuole che veda
quanto ci è rimasta male, si bagna il dito e se lo sfrega sulla piega del naso.
Vuole che lui la prenda tra le braccia e le dica che andrà tutto bene.
Anche se sapeva che poteva rimanere incinta, non pensava davvero che
potesse accadere così in fretta, con una tale facilità. Non capiva fino in fondo
il significato dell’espressione “provare ad avere un bambino” però
supponeva, come Tony, che bisognasse quantomeno voler rimanere incinta
perché accadesse. Ma forse, senza saperlo, lei lo voleva.
Quando non le era venuto il ciclo, si era rifiutata di credere che fosse
vero, aveva immaginato che dovesse esserci un’altra spiegazione. Solo che
poi era andata alla libreria di quartiere, con Glenda che le teneva la mano, e
insieme avevano letto quell’opuscolo con le pagine tutte sgualcite. La
stanchezza, la nausea, il seno turgido… la conclusione era stata inevitabile.
Le ultime due settimane sono state tremende. Nella sua mente si sono
alternate visioni emozionanti di un perfetto matrimonio in bianco, al quale lei
e Tony saranno obbligati a ricorrere (Tony le ha ripetuto più volte di non
avere fretta, ma adesso, vuoi o non vuoi, la fretta c’è) a visioni, più frequenti,
di puro terrore: il terrore di una strada buia e dell’aborto clandestino con la
gruccia. O di un viaggio verso un convento da qualche parte nel Galles, come
è successo alla sua compagna di scuola Valery. Perché quelli sono gli unici
scenari a cui riesce a pensare.
Dopo quasi un’ora, Barbara si alza e va alla finestra. Vede la
motocicletta di Tony, ma lui è sparito.
Si butta dell’acqua in faccia e scende in cucina, dove trova Joan che
lava le patate.
«Signora Marsden» dice. «Ha visto Tony?»
Joan fa una smorfia e scuote la testa. «È andato via con Diane, credo. Io
sinceramente pensavo che eri con loro. Li ho visti che si allontanavano e
pensavo che eravate tutti insieme.»
«No. Io ero di sopra a fare un sonnellino» dice Barbara.
«Ti senti bene, tesoro? Sei palliduccia.»
«Credo che mi stia venendo il raffreddore. Mi sa che ho preso freddo
quando ero fuori con Tony che sistemava la moto» mente Barbara.
«Be’, prima di stramazzare al suolo, non è che mi peleresti un po’ di
patate? Ho un sacco di cose da fare oggi e non ho ancora combinato
praticamente niente. Non so da che parte girarmi.»
«Certo» dice Barbara, mettendosi accanto a lei. «Con piacere.»

Tony quella sera non rientra, e così, per evitare l’imbarazzo di mangiare
da sola con Joan, Barbara fa una passeggiata fino al lungomare e cena con
una porzione di patatine fritte. L’opuscolo diceva che deve cibarsi di cose
sane e ricche di vitamine se vuole che il suo bambino goda di buona salute,
ma è ancora presto perché abbia importanza, no?
Quando torna alla pensione, Joan le chiede se ha visto Tony. «Non è che
avete litigato, per caso?» le dice.
«Adesso che ci penso mi aveva detto che doveva aiutare Diane a
sviluppare delle foto, o una cosa simile» s’inventa Barbara. «Mi sa che me
l’ero dimenticato. Sì. Sono sicura che mi ha detto qualcosa del genere.»
Joan sembra poco convinta, ma annuisce comunque. «Lo vuoi un po’ di
tè? Posso prepararti qualcosa al volo; non voglio che vai a dormire a stomaco
vuoto.»
«Mi sono presa un fish and chips, grazie» dice Barbara. «Ma credo che
andrò a letto. Penso che una bella dormita mi farà bene.»

Barbara è sdraiata a fissare le crepe sul soffitto e ad ascoltare il fischio


degli spifferi che si infilano nelle fessure sotto la finestra della sua stanza.
Ha mille pensieri per la testa e non crede che riuscirà a chiudere occhio,
ma quando comincia a calare il buio, la stanchezza prende il sopravvento e la
trascina in un mondo di sogni tormentosi, in cui bambini vengono strappati
dalle braccia delle loro madri e impilati su degli scaffali, come maglioni.
Si sveglia alle prime luci dell’alba e controlla l’orologio: mancano
pochi minuti alle sei. Si alza, si lava la faccia e s’infila i vestiti.
Mentre va verso le scale dà una sbirciatina in camera di Tony (il letto
non è stato toccato) e poi scende per andare in cucina, dove sa che Joan starà
già preparando la colazione. Quando arriva giù trova Tony in piedi sulla porta
a parlare con Joan, che è davanti al piano di lavoro e sta formando delle
polpette di patate con le mani.
Barbara gli tocca piano la spalla e lui fa un salto e si volta verso di lei. È
pallido e ha il viso gonfio. E anche gli occhi arrossati. Puzza di birra.
«Sei stato fuori tutta la notte?» gli chiede.
«Forza, va’ a letto» dice Joan a suo figlio.
«Ma…»
«Vai a letto!» gli ripete, ma con un tono più brusco. «Io e Barbara
dobbiamo fare due chiacchiere.»
Tony annuisce e poi, senza incrociare il suo sguardo neanche una volta,
passa in modo impacciato tra lei e la porta e s’incammina lungo il corridoio.
«È ubriaco?» le chiede Barbara.
«Non stare a pensare a lui» dice Joan. «Ti dispiace lavare questi piatti?»
Barbara osserva Tony girare intorno al corrimano e poi sparire su per le
scale tra il rumore degli stivali da motociclista che sbattono sui gradini. A
quel punto si volta verso Joan. «No» dice. «Ci mancherebbe.»
Sul piano di lavoro a destra del lavello ci sono pile di piatti dal servizio
della sera prima, quindi Barbara ne prende qualcuno e si mette all’opera
mentre Joan, accanto a lei, continua a fare le polpette.
«Allora, Tony pensa che sei incinta» le dice di colpo e senza preavviso.
Barbara rimane lì impalata con il piatto e la spugnetta in mano. Ha la
bocca aperta. Si sforza di richiuderla, deglutisce con fatica e poi si rimette a
pulire il piatto con movimenti lenti, circolari.
«Allora, è così?» chiede Joan.
Scrolla le spalle. «Credo di sì» dice a bassa voce.
«Hai un ritardo?»
Barbara abbassa la testa per l’imbarazzo. In vita sua non ha mai
affrontato una conversazione sul sesso. Né con Minnie, né con Glenda, né
con nessun altro, se è per questo. La volta in cui ci è andata più vicina è stata
quando ha detto a Glenda che quel mese aveva saltato il ciclo, motivo per cui
sua sorella l’ha accompagnata in biblioteca.
«Sì» dice. «Non mi sono venute.»
«Al mattino ti capita di avere la nausea?» le chiede Joan.
Barbara annuisce. «E mi fa un po’ male qui» dice, toccandosi piano lo
stomaco con il dorso della mano bagnata.
«Hai i crampi? Una specie di mal di pancia?»
«Sì.»
«Be’…» dice Joan.
«Allora, è quello?»
«È probabile. Sì» risponde Joan. Fa un respiro profondo, poi continua:
«Tua madre lo sa già?».
Barbara scuote la testa.
«Hai paura di dirglielo?»
Barbara annuisce.
«Ne avrei anch’io» dice Joan, poi: «C’è una donna a Newhaven.
Un’amica di un’amica. Lei… sai… si occupa di queste cose».
Barbara si ferma di nuovo e si volta lentamente verso Joan. Per un
attimo le due donne si scambiano uno sguardo intenso, poi il viso di Joan si
addolcisce e dice: «Oh».
«Oh?»
«Dunque vuoi tenerlo?»
Barbara si lecca le labbra e apre la bocca per dire qualcosa, ma è come
se avesse la gola ostruita, perciò annuisce e basta.
«Sei così giovane, tesoro» dice Joan. «Lo siete entrambi. Non ti
piacerebbe divertirti un po’ prima?»
Barbara si schiarisce la gola. «Ho la stessa età di mia madre quando ha
avuto Glenda» dice, consapevole di usare un tono un po’ battagliero, ma non
riesce a farne a meno.
«E la stessa che avevo io quando è nato Tony» dice Joan. «È per questo
che ti dico che sei troppo giovane. Lo so per esperienza.»
«Io credevo che sarebbe stato contento» dice Barbara, con la voce che le
trema. «Ma lui pensa che l’ho fatto apposta.»
Il viso di Joan si addolcisce di nuovo. Lascia andare il canovaccio che
stava strizzando, si avvicina a Barbara e la prende tra le braccia. «Apposta?»
dice. «Come se fosse qualcosa che puoi fare da sola. Gli uomini! Non
migliorano mai. Uno fa del proprio meglio per tirarli su bene, ma non cambia
mai niente.»
«Pensavo che avrebbe voluto sposarsi» dice Barbara, incoraggiata dal
sostegno di Joan. «Ma lui sembrava solo arrabbiato.»
«È questo che vuoi?» le chiede Joan. «Sposarti?»
Barbara annuisce e affonda il viso nella spalla di Joan.
«Sarà meglio far venire giù Tony e parlare con lui» dice.
Barbara annuisce di nuovo. «Ma credo che sia ancora ubriaco.»
Joan la allontana quanto basta per poterla guardare negli occhi.
«Appunto» dice. «Hai ancora molto da imparare, piccola. Molto. Adesso vai
a chiamarlo e vediamo che cos’ha da dire in sua difesa.»
2012 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX

Sophie suona il campanello e siccome non è sicura che funzioni, bussa


anche alla porta. Sua madre le ha dato le chiavi un anno fa, ma poiché non
sembra piacerle che lei le usi davvero (fa sempre un sacco di scene
sostenendo che per poco non le prendeva un colpo), ultimamente non le ha
quasi mai con sé.
Sente la sua voce al di là del vetro ghiacciato della porta. «Chi è?»
«Sono io! Sophie!» dice, alzando gli occhi al cielo mentre pensa: chi
altro vuoi che sia? Non sono in molti a passare a trovarla, e in più l’aveva
avvisata che sarebbe arrivata alle dieci. Controlla l’orologio. È in anticipo di
un minuto.
La porta si socchiude di pochi centimetri, il movimento limitato da una
sottile catenella dorata che uno qualunque dei malintenzionati di cui parla il
Daily Mail, tanto caro alla madre, potrebbe spezzare con un solo calcio. Il suo
viso spunta attraverso la piccola apertura e Nut, il suo gatto rosso, guarda
Sophie dal pavimento. «Oh, sei tu» dice, e lei non può fare a meno di alzare
di nuovo gli occhi al cielo.
Accarezza Nut, dà un bacio sulla guancia alla madre, ed entra in casa.
«Sì, sono io. Come previsto.»
«Immagino che ti fermerai a pranzo» le dice, mentre chiude la porta e
rimette la catenella; un invito a mangiare insieme mascherato da critica.
«No, ti avevo detto al telefono che ti avrei portata fuori» dice Sophie,
guardandosi intorno e avvertendo quell’inspiegabile senso di nausea che le
provoca tutte le volte l’atmosfera da natura morta di quella casa.
«Non c’è alcuna ragione di sprecare soldi al ristorante» dice sua madre.
«Ho il frigorifero pieno di cose più che buone.»
«Oh, dai, mamma. Usciamo. Non dobbiamo andare per forza in un
posto caro.»
«Spenderemo comunque quanto spendo io per fare la spesa settimanale»
dice, ma storce la bocca, e questo significa che è disposta a lasciarsi
convincere.
Sophie si trattiene per evitare di sospirare. Non ha mai capito
l’ossessione di sua madre per il costo di qualunque cosa, soprattutto perché,
anche se non è mai stata ricca nel senso assoluto del termine, non le risulta
che sia mai stata nemmeno squattrinata. Per quel che ne sa, non ha mai
dovuto arrabattarsi per pagare le cose essenziali. «Senti, primo offro io, e
secondo non siamo obbligate ad andare in un posto costoso. In effetti ho
voglia di fish and chips. Che ne dici?»
«Magari potremmo andare da Qualisea. Lì non dovrebbero spellarci
vivi.»
«Certo. Perché no?» le concede Sophie. Qualisea è il ristorante di fish
and chips più frequentato, più economico di Eastbourne. E si dà il caso che
sia, per tutte queste ragioni, in cima alle preferenze della maggioranza della
popolazione anziana di Eastbourne. Il che, in una città in cui il rischio che si
corre più spesso è essere investiti da uno scooter elettrico per persone con
difficoltà motorie, la dice lunga. Ma Sophie è riuscita a convincere sua madre
a uscire di casa, e di questi tempi è già un gran risultato.
«Allora, come va?» le chiede Sophie, mentre sono per strada e si
dirigono verso il lungomare battuto dal vento.
«Oh, cosa vuoi che ti dica» risponde la madre. «Comme ci, comme ça.»
«Raccontami, che stai combinando?»
«Niente. Le solite cose. Dormo, pulisco, mangio.»
A Sophie, pur non volendo, scappa un verso di disapprovazione, il che
spinge sua madre ad aggiungere: «Si chiama vita, cara. Si chiama
pensionamento. Perciò risparmiami le critiche. Presto succederà anche a te».
Si fermano a un semaforo pedonale e mentre preme il pulsante, Sophie
fa una smorfia. Sua madre non è mai stata una persona molto divertente da
frequentare. Anzi, Sophie non è nemmeno sicura che comprenda il concetto
della parola divertimento. Ma si preoccupa comunque per lei. Tutti gli amici
di suo padre sono spariti alla velocità della luce dopo che lui è morto, e si
direbbe che le uniche occasioni in cui quelli di lei vengono menzionati
ultimamente, sia quando stanno male, oppure, sempre più spesso, quando
muoiono. La sua vita sociale sembra essersi ridotta a livelli così assurdi, che
Sophie ha il sospetto che per sua madre, mangiare, dormire, e guardare la tv
siano, il più delle volte, il massimo dello svago, e lei non può fare a meno di
dispiacersene.
«Ho parlato con Jonathan» dice, cercando di alleggerire la
conversazione. «Mi pare che stia bene.»
«Beata te.»
«Beata me?»
«Be’, di sicuro a me non mi chiama mai.»
«In realtà sono stata io a chiamarlo» specifica Sophie. Sa per certo che
quello che sta dicendo sua madre non è vero. Jonathan è il perfetto figlio
devoto. E sa anche che a Jon dice la stessa identica cosa di lei. Ma lascia
correre. «La prossima volta che ci parlo mi sente» dice. «E mi assicurerò che
ti chiami.»
Sua madre fa un sorrisino sarcastico e non aggiunge altro.
Durante il viaggio in treno di quella mattina, Sophie ha valutato, per
l’ennesima volta, l’ipotesi di dire a sua madre di Brett. Sospetta che quella
notizia, il fatto che sua figlia abbia finalmente un ragazzo, in cuor suo (perché
non lo ammetterebbe mai) la tirerebbe su di morale in modo pazzesco. Ma
visto che non le chiede mai niente della sua vita, per Sophie è incredibilmente
facile non dirglielo; così facile, in effetti, che lei porta avanti quella relazione
da sei mesi e sua madre non ha idea che le cose siano cambiate. E adesso è
questo il problema. Perché se dicesse a sua madre la verità, spalancherebbe le
porte a tutto una vagonata di rimproveri, della serie be’, hai fatto tutto in gran
segreto. Certo, potrebbe mentire e dirle che ha conosciuto Brett poche
settimane fa, ma poi sua madre penserebbe che è solo una storiella
passeggera senza importanza, il che non la tirerebbe affatto su di morale.
Motivo per cui non glielo ha detto fin da subito. E così, non riesce a prendere
una decisione.
Appena superano la Redoubt Fortress, che aveva fatto loro da riparo,
vengono investite dalla forza impetuosa del vento salino. «Oddio» esclama
Sophie.
«Oddio sì» le grida sua madre, mentre si piega in avanti per contrastare
il vento e, in modo piuttosto dolce, le prende la mano. Sophie si ricorda che
un tempo era a suo beneficio, e non della sua fragile madre, che si tenevano
per mano.

Quando entrano da Qualisea, la differenza di temperatura è


impressionante, a tal punto che tutte e due diventano paonazze. «Be’, è stato
corroborante» dice Sophie.
«Sei stata tu a voler uscire» ribatte sua madre.
Una cameriera polacca si avvicina a riceverle. «Salve» dice,
rivolgendosi a sua madre, per poi voltarsi verso Sophie e sorridere anche a
lei. «Il solito tavolo?»
Sua madre annuisce. «Se è possibile» dice.
Raggiungono il tavolo nell’angolo, si mettono sedute e ordinano:
merluzzo e patatine fritte per entrambe, un contorno di purea di piselli e due
tazze di tè. Sophie osserva le capigliature argentate e le mani tremolanti
intorno a loro, e si chiede di nuovo perché ogni tanto non possano andare in
un bel ristorante. Non è mai riuscita a capire cosa c’entri con sua madre
quell’atteggiamento da finta proletaria.
Si tolgono il cappotto e lo appendono allo schienale della sedia, poi sua
madre intreccia le dita e la fissa dritto negli occhi. È una cosa che fa da
sempre e che ogni volta le provoca ansia. È come se stesse guardando nella
sua anima in cerca di segreti nascosti e, secondo lei, è probabile che sia
esattamente ciò che sta facendo.
«Jonathan sta lavorando moltissimo» dice Sophie, non tanto perché sia
più vero del solito, quanto perché sente di dover dire qualcosa.
«È sempre stato un gran lavoratore» replica sua madre, e Sophie si
sforza di non prenderla come una critica nei confronti del suo stile di vita, a
quanto pare dissoluto.
«E Judy continua a sfornare in massa quei suoi orribili quadri» aggiunge
Sophie, per sottolineare, inconsciamente, che anche se lei non è molto
produttiva, almeno non crea delle cagate.
«Sei molto dura» le dice sua madre. «Solo perché tu hai studiato arte al
college, questo non ti dà il diritto di decidere cosa deve piacere agli altri.»
«Non lo faccio» dice Sophie. «Ma so che la povera vecchia Judy non
potrebbe pitturare di bianco una parete bianca.»
«A me piacciono.»
«Sì, lo so» replica Sophie, cercando di non far trasparire la sua
esasperazione. Si chiede per la centesima volta come siano riusciti sua madre
e suo fratello a passare così tanto tempo con quell’indubbio artista che era
suo padre, senza assorbire nemmeno una briciola del suo buon gusto. E la più
grande dimostrazione del fatto che non abbiano appreso nulla dal suo talento,
sta nel loro sbalorditivo apprezzamento per i dipinti mediocri dei nauseanti
paesaggi bucolici della moglie di Jon.
«Allora, racconta» insiste Sophie. «Cos’hai combinato dall’ultima volta
che sono venuta?»
«Te l’ho detto» risponde.
«Hai visto Patti?» le chiede. Patti Smith (non la famosa Patti Smith,
purtroppo) è la vicina di casa di sua madre.
«La sua anca ha ricominciato a fare le bizze.»
«Oh, mi dispiace» dice Sophie.
«Stanno pensando di operarla di nuovo» prosegue, finalmente stimolata
a parlare. «Patti pensa che le sia entrato dentro uno di quei superbatteri
quando l’hanno operata l’altra volta. Sai, per via del fatto che gli ospedali di
questi tempi sono così sporchi.»
Il monologo sulle condizioni dell’anca di Patti dura fino all’arrivo dei
dolci. A quel punto, davanti a una fetta spropositata e molliccia di crostata
meringata al limone, sua madre fa una pausa per riprendere fiato.
«L’altro giorno ho conosciuto il nuovo critico d’arte che fa il
corrispondente per il Times» dice Sophie, dopo aver deciso, per molteplici
ragioni, di dover affrontare quel discorso (o almeno sollevarlo). «È un tipo
carinissimo.»
«Mi fa piacere, tesoro.»
«Mi ha chiesto se qualcuno aveva mai pensato di fare una retrospettiva
dei lavori di papà.»
Sua madre smette per un attimo di mangiare e la guarda dritto negli
occhi. Scuote la testa in modo secco. «No» dice, con aria preoccupata.
«Mai.» Non sembra solo una risposta, ma anche un divieto.
«È strano, no?» dice Sophie. «Insomma, è stata una figura così di spicco
nel mondo della fotografia britannica. Ci si aspetterebbe che a qualcuno fosse
venuto in mente.»
«Non credo che le facciano per i fotografi.»
«Fare cosa?»
«Le retrospettive. È più una cosa per i pittori, no?»
«A volte capita. Per i grandi nomi. Sono stata a quella di Mapplethorpe.
E quello di papà era un nome piuttosto importante. Pensavo che sarebbe bello
organizzarne una.»
Sua madre solleva un sopracciglio.
«Che c’è?» chiede Sophie.
«Be’» dice. «Ci risiamo con un’altra delle tue idee folli. Tra una
settimana sarai passata a qualcos’altro.»
Sophie si passa la lingua sui denti, poi, per evitare di pronunciare le
parole dure che muore dalla voglia di dire, si mette in bocca un altro pezzo di
torta molliccia. Perché lei ha sempre avuto quella reputazione. Jon è il
lavoratore instancabile, il figlio serio, e Sophie la figlia incostante, con la
testa vuota. E che nessuno si azzardi a sfatare quel mito. Aggrotta le
sopracciglia per il quantitativo di zucchero che ha appena ingerito e allontana
il piatto con una smorfia.
«Spero che tu non sia a dieta un’altra volta» dice sua madre.
«Mamma! Ci sono miliardi di calorie nel fish and chips che ho appena
mangiato» dice, scoppiando a ridere. «Non so che genere di dieta starei
seguendo secondo te.»
«Be’, meglio così. Sei troppo magra.»
«Magari. Se c’è qualcuno troppo magro qui, quella sei tu.»

Sophie non solleva più il discorso della retrospettiva finché non tornano
a casa. Mentre sua madre prepara il caffè, lei si appoggia al piano della
cucina e fa un respiro profondo, poi, sforzandosi di farla sembrare una
domanda del tutto casuale, le chiede: «Allora, le foto di papà sono ancora in
solaio?».
«È probabile» risponde lei. «Se non si sono trasformate in polvere.» Si
rende conto solo dopo averlo detto che ha appena fornito a sua figlia il
pretesto perfetto per andare a controllare. «Ma sono sicura che non gli è
successo niente» aggiunge.
«Sarà meglio che vada a dare un’occhiata» dice Sophie, cogliendo al
balzo quell’opportunità.
Sua madre fa un’espressione sofferta. «È tremendo lì sopra, Sophie»
dice. «C’è un sacco di robaccia e polvere e cacca di uccelli e…»
«Scommetto che ci sono anche foto di te da ragazza, vero?»
«Non mi va che ti metti a frugare in solaio.»
«E dai, mamma» la prega Sophie. «Mi piacerebbe tanto passare il
pomeriggio a guardare vecchie foto con te. Solo qualcuna.»
«Oh, Sophie! Per salire bisogna andare fuori a prendere la scala» dice
sua madre lamentandosi. Ma sta di nuovo storcendo la bocca, perciò Sophie
sa di avere vinto.

In solaio (che in effetti è molto sporco) Sophie trova le foto, conservate


perfettamente dentro scatole di legno impilate l’una sull’altra. Non sa chi le
abbia messe via in quel modo, ma ciascuna scatola contiene una serie di buste
di plastica trasparenti, in ognuna delle quali c’è un minuscolo sacchettino di
gel di silice antiumidità.
Prende qualche busta e le passa, una alla volta, a sua madre.
«È tutto asciutto lì sopra?» grida dal basso. «Non ci sono perdite,
vero?»
«No, è tutto a posto» risponde Sophie. «Asciuttissimo.»
Dopo che sua madre ha dichiarato: «Basta così», Sophie richiude la
scatola, poi, prima di scendere, si guarda intorno per vedere cos’altro c’è in
soffitta.
Dietro alle scatole con le foto ci sono delle vecchie valigie impilate. Ne
solleva una per controllarne il peso, poi, sentendo che non è vuota, la tira
verso di sé e, a fatica, fa scattare la leva arrugginita.
«Cosa stai facendo lì sopra?» le chiede sua madre.
«Solo un secondo» dice Sophie, alzando il coperchio della valigia.
All’interno trova il vecchio soprabito di suo padre e le si forma un
groppo in gola. La sensazione di essere avvolta tra le sue braccia, di essere
avvolta dal tessuto di quel cappotto, riporta a galla mille ricordi. Lo annusa
nella speranza di sentire qualcosa da ricollegare a lui, ma sono passati
trent’anni. Ormai l’unico odore che ha è quello della soffitta umida e
impolverata.
Piega il cappotto, lo accarezza delicatamente, deglutisce a fatica, poi lo
appoggia di lato e dà un’occhiata al resto del contenuto della valigia. C’è un
cappello da uomo, un trilby, crede, anche se non ha idea di come faccia a
saperlo e non le sembra di avere mai visto suo padre indossarlo. Poi, Dio solo
sa perché, ci sono delle vecchie tende di tulle, una coperta, un paio di
pantofole da bambino e una vecchia bambola strana vestita alla marinara. La
guarda perplessa, poi, quando sua madre dice: «Sophie! Stai facendo entrare
il freddo», torna alla botola e scende dalla scala.
«Ho trovato questa» dice, passando la bambola a sua madre, che sorride
e accarezza i capelli della bambola.
«Era mia?» chiede Sophie. «Non me la ricordo proprio.»
«No, era mia. Di quando ero piccola» risponde sua madre.
«Caspita. Di che anni è?» chiede Sophie, sollevando i pacchetti con le
foto dal tavolino del telefono dove sua madre li ha impilati.
«Degli anni Trenta» risponde. «Della fine degli anni Trenta. Dovrebbe
essere Shirley Temple.»
«Davvero?»
Sua madre annuisce. «È la bambola Shirley Temple. Andava per la
maggiore. Avevo anche la spilla di Shirley Temple, ma quella è andata persa
quasi subito.»
«Ciao Shirley» dice Sophie ridendo, mentre osserva il viso lucido e
sorpreso della bambola.
«In realtà io l’ho sempre chiamata Lucy Loop» dice sua madre.
«Lucy Loop?»
Sua madre annuisce di nuovo. «Non mi chiedere perché. Non me lo
ricordo più. Comunque sì. L’abbiamo sempre chiamata Lucy Loop. Me la
sono portata dietro per tutta l’infanzia.»

Si siedono, una accanto all’altra, al tavolo della sala da pranzo, con la


pila di buste di plastica davanti a loro. Sophie sorseggia il caffè e nota che
sua madre si sta stringendo le mani l’una nell’altra.
«Questa cosa ti rende nervosa, mamma?» le chiede.
Barbara arriccia il naso. «Un po’. Ci sono molti ricordi lì dentro.»
«Posso farlo da sola se preferisci.»
«No, no. Voglio guardarle. È solo che… be’, è passato un bel po’ di
tempo.»
Sophie si allunga per prendere la prima cartellina in cima alla pila e la
fa scivolare verso di sé, la apre, poi tira fuori il contenuto e lo appoggia sul
tavolo. «Sei stata tu a metterle via così?»
«Sì. Quando ci siamo trasferiti.»
«Hai fatto un buon lavoro.»
«Mi ha aiutato Jonathan.»
Sophie comincia a guardare le foto. Le prime venti sono immagini
piuttosto noiose di paesaggi in bianco e nero, ma poi, all’improvviso, lo
scenario cambia, e si vedono delle persone a Londra. «Caspita!» dice Sophie,
allungando verso sua madre la foto di una donna con una minigonna e un
paio di stivali alti fino al ginocchio. «Gli anni Sessanta!»
«Ah» dice sua madre, e dopo averla osservata la allontana.
«Non è la zia Diane quella?»
«Sì.»
«Era carina.»
«Sì, era carina.»
Sophie dà un’occhiata veloce a un’altra serie di immagini scialbe: la
facciata di una casa, una motocicletta, dei bambini che giocano a pallone per
strada, e poi, quando si ritrova tra le mani una foto di suo padre con un
completo a scacchi scuro che tiene per mano sua madre, si ferma. «Papà stava
bene con l’abito» commenta.
Barbara ride. «È vero. Ma non riuscivo mai a farglielo mettere. Diceva
che con la cravatta si sentiva soffocare.»
«Anche tu stavi bene. Sembri molto felice.»
«Eh sì. Eravamo in vacanza in Scozia. Quella è Edimburgo, credo.»
«Chi ve l’ha fatta questa?»
«Phil, l’amico di tuo padre.»

Sophie finisce di guardare il primo plico, ma a parte tre o quattro


immagini di suo padre, il contenuto è un po’ deludente. Sono quasi tutte foto
sbiadite, e spesso sviluppate male, di edifici anonimi e paesaggi ordinari.
Fa un piccolo sospiro, le riammucchia e le passa a sua madre che le
mette via mentre lei apre un’altra busta.
«Oddio, papà con un completo, di nuovo» dice. «E guarda che pantaloni
a zampa.»
Nella foto si vede suo padre con lo stesso abito di prima. Ha i capelli
lunghi, la barba e una cravatta larghissima.
«Lì eravamo al matrimonio di Phil» dice Barbara. «Dovrebbero
essercene delle altre in cui siamo tutti insieme.»
Sophie dà un’occhiata veloce al resto del materiale finché non ne trova
una di sua madre e suo padre in piedi, dietro agli sposi. Lei porta un lungo
vestito dai colori accesi e un cappello arancione a tesa larga.
«Quelli sono Phil e Jean» dice sua madre indicandoli. «Tu adoravi Phil.
Te lo ricordi?»
Sophie annuisce. «Però il matrimonio no. C’ero anch’io?»
«Sì. Ti sei mangiata metà della torta. Te la sei spalmata dappertutto.»
«Questo vestito è strepitoso.»
«Ne andavo così fiera» dice Barbara. «È la cosa più audace che abbia
mai indossato. Ma credo di averlo messo solo un paio di volte. Forse tre.»
«Come mai?»
«Non lo so. Mi sentivo a disagio, credo. La gente lo commentava
sempre. L’avevo copiato da uno che avevo visto a Londra.»
«L’avevi fatto tu?»
«Sì. Facevo molti vestiti.»
«Non lo sapevo» dice Sophie. «Insomma, mi ricordo di quando facevi le
tende e cose così. Ma non vestiti.»
«Smisi più o meno in quel periodo. Era diventato meno caro comprarli
che farli.»
Sophie appoggia la foto da una parte e si rimette a guardare le altre.
«Oh, l’estate del Settantasette» dice, fermandosi a osservare l’immagine
di una donna in bikini sdraiata su una spiaggia, sotto un sole così cocente che
si sono formate delle crepe nella sabbia, dando vita a delle strane forme.
«Questa però non è la foto, vero?»
«No, non è quella che ha vinto il premio. Ma è stata scattata lo stesso
giorno. Sulla stessa spiaggia.»
«In effetti, questa cosa è parecchio interessante» dice Sophie. «Alla
gente piacerebbe molto vedere alcune di queste. Sai, le foto intorno alla foto.
Tutte quelle che non sono mai arrivate al pubblico.»
«Non lo so» dice Barbara. «Io penso che alla gente piaccia il mito.»
«Il mito?»
«Credere che il famoso fotografo abbia scattato solo qualche decina di
foto davvero memorabili. Non sono sicura che vorrebbero vedere tutte le
altre.»
Sophie guarda sua madre con aria stupita.
«Ma cosa posso saperne io?» aggiunge.
Sophie corruga la fronte. Sua madre ha sempre avuto la capacità di
sorprenderla con un’improvvisa osservazione pertinente. È quasi come se
avesse imparato a fare discorsi banali, solo che ogni tanto se ne dimentica e si
lascia scappare un commento arguto.
«È verissimo, in effetti» afferma Sophie. «Immagino che il punto sia
stabilire se quelle buone bastano per una mostra. Intendo dire, se quelle
buone che la gente non ha ancora visto, bastano per una mostra.»
«Penso che ti accorgerai che non ce ne sono molte» dice Barbara.
«Oddio, questa è vecchissima» dice Sophie, tirandone fuori una tutta
rovinata.
«Ah» dice Barbara. «Non so come sia finita lì in mezzo. Quella è tua
nonna.»
Sophie si china sulla foto per osservarla con attenzione. Una donna
accigliata, con indosso un grembiule, è in piedi davanti a una lavanderia e ha
in mano una sacca con il bucato. «Dà l’idea di non essere stata una molto
tenera» dice Sophie.
«La gente non poteva permettersi di esserlo a quell’epoca.»
«Per via della guerra?»
Barbara scrolla le spalle. «In parte. Ma era tutto più difficile a quei
tempi. Non c’era l’acqua calda, o il riscaldamento centralizzato, né delle vere
e proprie cucine. Molte persone nell’East End non avevano neanche il
rubinetto. Non c’erano i frigoriferi, le lavatrici… Non hai idea di quanto tu
sia stata fortunata a nascere quando sei nata.»
Sophie sospira, poco convinta, e indica la lavanderia alle spalle della
nonna. «A quanto pare la nonna portava la sua roba in lavanderia» dice.
«Quindi non doveva essere così terribile.»
«No» dice Barbara. «No, suppongo di no.»
1951 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX

Barbara allunga la mano e Tony, in modo impacciato, le infila al dito la


sottile fede d’oro. Ha l’aria agitata ed è tutto sudato nell’abito che ha preso in
affitto, ma agli occhi di Barbara è disinvolto ed elegante come un principe.
«Puoi baciare la sposa» dice l’ufficiale attempato, e Tony sorride e si
piega per darle un bacino sulle labbra.
Quando si girano verso la sala, la realtà delle pareti verdine (un po’
lucide), delle sette persone sedute sulle sedie pieghevoli (un po’ arrugginite),
e la luce grigia che filtra a fatica dalle finestre sporche interrompono, solo per
un attimo, l’incantesimo e riportano Barbara coi piedi per terra.
Minnie, fraintendendo l’espressione della figlia, si asciuga l’angolo
dell’occhio e le fa un cenno di incoraggiamento, e Barbara si sforza di
ricambiare il sorriso, deve sforzarsi, perché in quel momento è tutto talmente
diverso da come si era immaginata il giorno del suo matrimonio, che riesce a
malapena a sopportare di guardare. Ma poi, dal grammofono escono le prime
note della marcia nuziale, e Barbara torna a essere una principessa che
trascina lo strascico sul freddo pavimento sontuoso della Cattedrale di
Canterbury, regalando sorrisi agli aristocratici presenti.

Quando arrivano al Donnybrook, i genitori di Tony hanno organizzato


un ricevimento. Il tavolo della sala da pranzo è ricoperto di tramezzini (senza
la crosta), salsicce avvolte nella pancetta e palline di formaggio infilzate negli
stuzzicadenti. Barbara non può fare a meno di notare che sono praticamente
le stesse cose che aveva servito la loro vicina quando era morto suo marito.
«Che splendido banchetto» commenta Minnie.
«Sì, siamo molto orgogliosi di te, mamma» concorda Tony. «Vuole
qualcosa da bere, signora Doyle? Un bicchiere di punch, magari?»
Minnie si piega ad annusare il punch. Lo annusa proprio, e Barbara
arrossisce, mentre si accorge che tutti i presenti stanno guardando sua madre.
«Che tipo di punch è?» chiede poi, e Barbara vorrebbe sprofondare per la
vergogna.
«Al tè alle fragole» risponde la madre di Tony, con una voce impostata,
quella che usa di solito quando arriva un ospite alla pensione.
«Tè alle fragole, davvero?» dice Minnie, dubbiosa, e Barbara prega in
silenzio che si decida una volta per tutte a berlo e che le piaccia.
«Ma se vuole qualcosa di più forte abbiamo dello sherry o dell’eggnog,
oppure posso anche prepararle un gin fizz» le propone Tony, avvertendo la
tensione e cercando di evitare un incidente diplomatico.
«Oh, sì, credo che un bicchierino di sherry sia proprio quello che fa al
caso mio, grazie, Tony» dice, e Barbara si accorge che Joan, che non beve né
ama in modo particolare le persone che lo fanno (incluso suo marito), solleva
un sopracciglio.
«Posso mettere un disco, signora Marsden?» chiede Hugh, il testimone.
«Lo stai chiedendo a me o a Barbara?» dice Joan, ridendo. «Perché
adesso ci sono due signore Marsden.»
«Oh, ma certo! Be’, a lei ovviamente» dice Hugh. «È lei la padrona di
casa.»
«Prego… fai pure» dice Joan, agitando in modo regale il braccio verso
il radiogrammofono di legno nell’angolo della stanza. «Tony ha portato giù
tutti i suoi dischi appositamente.»
Hugh si avvicina al radiogrammofono e alza il coperchio, e Barbara, che
non è a suo agio, va accanto a lui, contenta di aiutarlo per distrarsi. «Si
accende da lì» gli dice, indicando la grossa manopola di bachelite. «Ma ci
mette un po’ a scaldarsi.» Passa la punta del dito sulle stazioni radio: Parigi,
Lussemburgo e Oslo, prima di fermarsi su Hilversum. «Voglio andare in tutti
i posti che ci sono sulla scala» dice.
«Davvero?»
«Non subito ma, insomma, prima di morire.»
«Ah, be’, in questo caso, hai un sacco di tempo.»
«A proposito, dov’è Hilversum?»
«In Olanda, credo» risponde Hugh.
«Oh, metti quello» gli dice Barbara, mentre lui solleva Hop Scotch
Polka dal portadischi.
«Questo?»
«Sì, mi piace tanto» dice Barbara, arricciando il naso. «È molto, non lo
so, felice.»
«E tu sei felice adesso, signora Marsden?» le chiede Hugh, e Barbara,
domandandosi cosa ci faccia la parola adesso in quella frase, sorride e
annuisce con entusiasmo.
«Certo che lo sono» risponde.
«Questo è tutto ciò che volevi?» le chiede, e siccome c’è qualcosa di
strano nella sua voce, Barbara si volta a fissarlo. «Intendo il matrimonio e la
festa» spiega Hugh, con un tono che sembra fintamente casuale, ma che
contrasta con il suo sguardo intenso, quasi rammaricato, e Barbara non ha
idea del perché.
«Certo che sì» risponde, aggrottando le sopracciglia e chiedendosi per
un attimo se forse Hugh non sia l’unico a capire la distanza abissale tra quel
matrimonio dozzinale, organizzato in fretta, umile, e la cerimonia da fiaba
che sognano tutte le ragazze. Ma poi si rende conto che, essendo Hugh un
comunista, è più probabile che si tratti dell’esatto opposto. E che per lui quel
matrimonio sia un’espressione oscena degli eccessi del capitalismo.
«Spero che Tony si dimostrerà all’altezza delle tue aspettative» le dice.
«In realtà io non ne ho» risponde Barbara.
«Allora è facile che lo sarà» dice Hugh in modo cupo. Poi, cambiando
tono, aggiunge: «Comunque stai benissimo». Le appoggia delicatamente la
mano sulla spalla. «Il tuo abito da sposa è molto bello.»
Barbara abbassa lo sguardo verso il suo vestito semplice color avorio.
«L’ho fatto io» dice. «Con un piccolo aiuto di mia madre.»
«Lo so» dice Hugh. «Tony me lo ha detto. È sbalorditivo. Sembra uno
di quei vestiti che si vedono nei film.»
Il radiogrammofono scoppietta, ronza e poi scoppietta di nuovo.
«Questo significa che è pronto» dice Barbara, indietreggiando quel tanto che
basta per far cadere la mano di Hugh dalla sua spalla.
«E tu sei pronta per ballare?» le chiede, mentre solleva il braccio
pressadischi e lo sposta di lato per infilare il disco nel perno.
«Credo di avere bisogno di bere qualcosa prima» dice Barbara.
«Comunque sì. Quasi pronta.»
Con quella strana conversazione che continua a ronzarle per la testa,
Barbara raggiunge l’armadietto degli alcolici dove Lionel, il padre di Tony,
sta preparando dei gin fizz. «Posso averne uno?» gli chiede.
«Certo» le dice Lionel, con un gran sorriso. «Prendi questo. Li sto
facendo per tutti e per nessuno in particolare.»
Un gruppo di amici di Tony compare sulla porta proprio quando la
puntina tocca il disco, e non appena il radiogrammofono comincia a suonare
Hop Scotch Polka, si crea un’atmosfera un po’ più simile a una festa.
Barbara butta giù in fretta il gin fizz, poi, sentendosi di colpo brilla,
accetta la proposta di Tony di ballare, e ben presto Diane e Hugh e Glenda e
James si uniscono a loro, scatenandosi a ritmo di jive nell’angolo dietro il
tavolo da pranzo.
Dopo qualche canzone, notando che Minnie è da sola davanti alla
finestra a fissare la strada, Barbara si allontana dal gruppo e va da lei. «Tutto
bene, mamma?» le chiede.
Minnie si volta e con fare distratto le risponde: «Cosa, cara?».
«Stai bene? Ti diverti?»
Minnie annuisce e le sorride in maniera poco convincente. «Sì, tutto
bene» dice. «E comunque, oggi non si tratta di me. Si tratta di te. Tu ti
diverti?»
«Sì» le risponde.
«Il giorno più bello della tua vita» dice Minnie con un tono piatto. «È
così che si dice.» E di colpo, senza sapere il motivo, Barbara si sente triste.
«Non stai bene, mamma, vero?» le chiede. «È perché non c’è papà?»
«Che cosa è perché non c’è papà?»
«È per questo che sei triste?»
«Ah!» dice Minnie, ridendo. «No, quella è una benedizione, credimi»
continua. «Comunque non sono triste. Sono orgogliosa. Sei bellissima.»
Barbara annuisce. «Bene» dice. «Vai a parlare con Joan, magari. Non
startene qui da sola. Questa dovrebbe essere una festa.»
«Sì» dice Minnie. «Sì, tra un attimo. Tu intanto vai a goderti il giorno
del tuo matrimonio con tuo marito.»
Barbara le accarezza teneramente il braccio, poi, rassegnandosi al fatto
che non è mai riuscita a capire, né tantomeno a influenzare i malumori di sua
madre, torna dall’altra parte della stanza, dove Hugh sta ballando lo swing
con Glenda sulle note di Chattanooga Choo Choo.
«La mamma sta bene?» le chiede Glenda, fermandosi col fiatone
davanti a lei. Barbara accenna un sorriso e scrolla le spalle.
«Pensa a divertirti, tu» le dice, rimettendosi a ballare.

Per le sette, l’alcol ha avuto la meglio sul padre di Tony, facendolo


crollare, e russare sonoramente, sul divano. Secondo Tony, dei due scenari
possibili, questo è di gran lunga il migliore; ma d’altra parte anche lui sta
barcollando, e ha cominciato a biascicare. Tra Barbara, che ha smesso di bere
da due ore, e il suo nuovo marito, si sta alzando in fretta il muro della
sobrietà.
Dopo aver parlato con Minnie, e nel frattempo aver osservato Tony con
la coda dell’occhio, Barbara, su consiglio di sua madre, va in cucina a
preparargli una tazza di caffè bello forte.
Lì, trova Glenda e Diane che chiacchierano con James. A giudicare da
tutto lo sbattere di ciglia e il movimento di anche che è in corso, sembrerebbe
che entrambe stiano flirtando con lui. D’altra parte, con il suo completo blu
impeccabile, i capelli biondi immacolati e gli occhi di un azzurro brillante,
Barbara può anche capirle. Dev’essere lo scapolo più ambito della festa, se
non addirittura di tutta la città.
Accende il fornello a gas e mette a bollire l’acqua, poi si volta e vede
che James sta uscendo dalla stanza, con Diane al seguito.
«Vieni fuori, sorellina» le dice Glenda, prendendole la mano. «Ho
bisogno di parlarti.»
Barbara le va dietro, pensando che anche Glenda voglia commentare lo
stato in cui si trova Tony. «Credo che Tony abbia bevuto troppo» dice,
cercando di batterla sul tempo.
«Mi sembra ovvio» dice Glenda. «È il giorno del suo matrimonio.»
«Gli sto preparando un caffè per fargli passare un po’ la sbornia.»
Glenda solleva un sopracciglio. «Be’, buona fortuna» dice, poi: «E
adesso, parlami di James».
«Lo conosco quanto te» dice Barbara. «L’ho visto ieri per la prima
volta. Tony ha così tanto amici, che è difficile ricordarseli tutti.»
«È molto bello» dice Glenda.
«Eh, sì.»
«Non ti starai pentendo, vero?» le chiede Glenda, con un sorrisino
malizioso.
Barbara si mette a ridere. «Sei tremenda» dice.
«Allora ci ho preso!»
«Ma certo che no!»
Glenda tira fuori un pacchetto di sigarette e lo allunga verso Barbara.
«Io continuo a non fumare» le risponde.
«Invece dovresti. I ragazzi lo trovano sexy» dice Glenda.
«Io no, e nemmeno Tony. Per fortuna.»
Glenda si accende una sigaretta e fa un tiro, poi soffia il fumo verso
l’alto, nell’aria fresca della sera. «Puoi aiutarmi con James?»
«Aiutarti a fare cosa?»
«Ad accaparrarmelo» dice Glenda. «Sono in competizione con Diane.»
«L’ho notato» dice Barbara. «Forse dovresti lasciarlo a lei.»
«E si può sapere perché dovrei farlo?»
Barbara si volta verso la casa per controllare che siano sole. «Prima di
tutto, perché sono entrambi di Eastbourne.»
«E questo cosa c’entra?»
«Tu vivi a Londra, Glen.»
Glenda scoppia a ridere e tossisce, buttando fuori il fumo. «Ma io non
voglio sposarlo, sorellina. Voglio solo baciarlo! Ha delle labbra stupende.»
Barbara guarda di nuovo la porta dietro di loro. «Sei tremenda! Se la
mamma ti sentisse…»
«Tu sai cosa fa? Nella vita, intendo.»
Barbara scrolla le spalle. «Mi dispiace» dice. «Credo che lavori in banca
o qualcosa del genere, ma non sono sicura nemmeno di questo. Però, sul
serio, vorrei che lo lasciassi a Diane.»
«Neanche per sogno.»
«Puoi farlo per me?» dice Barbara piagnucolando.
«Per te? Perché?»
Barbara scrolla le spalle e si sente investire da una vampata di calore.
«Non penserai mica che Diane abbia delle mire su Tony, vero? Sì che lo
pensi! Oh, Barbara. Ma loro sono amici d’infanzia. Sono praticamente
cresciuti insieme.»
«Questo lo so. È soltanto che… Non lo so. Lei mi rende nervosa.»
«Lui ha sposato te, Barbara. Se gli fosse piaciuta Diane, avrebbe avuto
tutte le opportunità che voleva.»
«Immagino che sia così.»
Dalla porta, che è rimasta aperta, arriva il fischio del bollitore, perciò
Barbara sospira e si volta verso la casa. «Farò meglio a occuparmi di quel
caffè» dice. «O Tony sarà così ubriaco da non sapere con chi è sposato.»
«E io farò meglio a occuparmi di quel James» dice Glenda, in modo
insolente.
Quando Barbara torna in soggiorno con la tazza di caffè, tutti gli ospiti
di una certa età sono svaniti in altre parti della casa, lasciando Diane e Glenda
a ballare come due pazze con James, mentre Tony e Hugh stanno discutendo,
da ubriachi, di politica.
Barbara si posiziona pazientemente accanto a Tony, in attesa del
momento giusto per interromperlo, ma lui sembra infastidito, parla in modo
concitato, ampolloso e con un tono di voce molto alto. Non lo ha mai visto
così, e per qualche istante si perde a interrogarsi su uno dei quesiti più vecchi
del mondo: ma quando bevono si mostrano per quello che sono o per quello
che non sono?
Qualunque sia la risposta, non le piace un granché. Rinuncia all’idea
che possa mai esserci una pausa nella loro discussione e gli mette la tazza
davanti. «Tieni, Tony» gli dice. «Ti ho fatto un caffè.»
Tony farfuglia per un attimo, ma riprende subito il suo monologo: «E…
e… comunque, Attlee non è un comunista, perciò che le cose siano
migliorate o peggiorate da quando c’è lui non significa niente. Ma che
paragone mi fai? C’entra come i cetrioli a merenda, Hugh».
«Come i cavoli» lo corregge Hugh. «Si dice come i cavoli a merenda,
amico mio.»
«Ah sì?» chiede Tony, voltandosi finalmente verso di lei.
«Non mi sembra importante» dice Barbara. «Tieni.» Gli sventola di
nuovo il caffè sotto al naso.
Tony dondola un po’ la testa, poi, come se la cosa gli costasse uno
sforzo, si concentra sulla tazza. «Non voglio un caffè, donna» dice. «Perché
mai dovrei volere un caffè?»
«Ho pensato che ti avrebbe aiutato a riprenderti un po’» dice piano
Barbara. «Credo che forse tu abbia bevuto abbastanza, tesoro.»
Tony alza le sopracciglia fin quasi all’attaccatura dei capelli, con
un’espressione di sorpresa esagerata, poi si volta verso Hugh, che lo guarda
divertito. «Crede che abbia bevuto troppo» biascica Tony.
Hugh fa una faccia strana, confusa e guarda Barbara. «Ma tuo marito
non ha mai bevuto troppo» dice ridendo. «Non lo sapevi?»
«Esatto!» esclama Tony, puntando un dito che non riesce a tenere fermo
verso Hugh. «Adesso fa’ sparire questo schifo» dice, rivolgendosi a Barbara.
«E portami una birra!»
Mentre glielo dice, le dà una spinta. Barbara si rende conto che con quel
gesto Tony voleva essere spiritoso, ma è talmente ubriaco che, pur non
volendo, le dà una manata sul gomito. Il caffè si rovescia, cadendole sulla
parte anteriore del vestito. «Oh!» dice Barbara, restando a bocca aperta.
«No!»
Corre in cucina, mette la tazza nello scolapiatti, e prendendo prima un
tovagliolo, poi un canovaccio, cerca di rimuovere la macchia dalla scollatura
dell’abito. Ma così facendo, la macchia sembra solo allargarsi e scurirsi.
«Oddio, no! Ti prego, non adesso, non oggi» mormora.
«È di lana o sintetico?»
Barbara si volta e vede la mamma di Tony in piedi sulla porta. «Lana»
risponde. «È di lana spazzolata.»
«Allora se non vuoi che resti macchiato devi lavarlo subito.»
«È solo caffè» dice Barbara.
«Sì. E non verrà via se non lo lavi subito.»
«Ma è il mio abito da sposa.»
«Abito da sposa o no, resterà comunque macchiato, tesoro» le dice
Joan. «Avevo un completo di lana come quello una volta, e mi ci è caduto del
vino. Non ho più potuto metterlo. E mi sono pentita di non averlo subito…»
«Ma è il giorno del mio matrimonio» la interrompe Barbara.
«Posso prestarti un cardigan o una scialle per nasconderla, oppure puoi
toglierlo e lavarlo. Ma poi non verrà più via. Credimi. Lo so, perché come ti
ho detto, avevo un top di lana come quello una volta, e se la macchia si
asciuga, non riuscirai più a toglierla.»
Barbara si morde la lingua e strizza gli occhi per trattenere
un’improvvisa e inaspettata voglia di piangere. Quello è il capo
d’abbigliamento più bello che abbia mai avuto. È stato fatto con il tessuto più
caro che abbia mai comprato.
«Io ti consiglio di lavarlo subito» ripete Joan.
«Magari… Può prestarmi qualcosa lei?»
Joan annuisce. «Ma certo, tesoro. Vieni di sopra e…»
«Qualcosa di carino? Possiamo cercare qualcosa di carino? Non posso
essere vestita in modo orrendo, non oggi.»
«Sì. Vieni di sopra» le dice. «Vediamo cosa riusciamo a trovare.»

Joan non è una donna ricca, e non ha nemmeno una natura frivola o
spendacciona. La dimostrazione più lampante sta nel suo guardaroba, che è
composto da una serie di vestiti pratici e resistenti, numerose vestaglie facili
da lavare e stirare, e qualche abito degli anni Quaranta, un tempo di certo
carini, ma ormai del tutto fuori di moda.
A Barbara si stringe il cuore nell’istante in cui lei apre l’armadio. «Sono
molto belli» mente, toccando con la punta delle dita un abito rosa a fiori. «Ma
credo che alla fine terrò questo.»
«Non essere sciocca, tesoro» le dice Joan. «Ormai se una di famiglia.
Non devi fare la timida. Scegli pure quello che vuoi. Che ne dici di questo?»
Afferra l’orlo di un vestito di crêpe di rayon con i polsini col risvolto
doppiato, e lo tira verso di sé per mostrarlo a Barbara in tutto il suo
splendore.
«No… davvero…»
«O questo?» dice Joan, puntando il dito su un modello ampio con il
corpino a carré e la gonna plissettata. «È molto carino, vedi. È fatto con la
seta dei paracaduti.» Si allunga per prenderlo.
«No… ehm… che ne dice di quello?» farfuglia Barbara, indicando in
preda alla disperazione l’unico capo senza fiori, senza pizzo, e senza
plissettatura che riesce a vedere.
«Questo?» dice Joan, facendo scorrere gli ometti lungo il bastone finché
non arriva all’abito bianco profilato di blu in fondo all’armadio.
E solo in quel momento, solo quando lei lo tira fuori, Barbara si rende
conto di cosa ha scelto; si rende conto dell’orrore assoluto di quel vestito, che
sembra più un costume di carnevale che una scelta audace.
«Non lo metto da quando ero ragazza» dice Joan. «Ma hai ragione, è
giovanile. Probabilmente si avvicina anche di più alla tua taglia rispetto agli
altri.» Le appoggia addosso il vestito alla marinara e l’aria si riempie
dell’odore di naftalina.
«Oh, magari no» dice Barbara piano, voltandosi di nuovo verso
l’armadio con aria sconsolata.
«Provalo» insiste Joan. «Forza. Scommetto che starai benissimo.»
Spinge il vestito tra le braccia di Barbara. «Da qualche parte dovrebbe esserci
anche il cappellino abbinato.»
«Non lo voglio» dice Barbara.
«Sono sicura che sia qui.»
«Non lo voglio!» ripete Barbara, a voce più alta, scioccando perfino se
stessa per il tono brusco che ha usato. «Chiederò a Glenda di darmi
qualcosa.»
Joan si blocca di colpo e la fissa accigliata. «Se non ti piacciono i miei
vestiti allora…» Sembra ferita. Sembra offesa. Anzi, sembra arrabbiata.
Barbara capitola. «In realtà questo va bene» dice. «È, ehm, molto
carino. Intendevo solo che non voglio il cappello. Tutto qui. Non metto mai i
cappelli.»
Joan si mordicchia la guancia e la guarda dubbiosa.
«Mi scusi, sono solo un po’ dispiaciuta per questa macchia di caffè» si
giustifica.
«Ma certo, si capisce» dice Joan, mentre i tratti del suo viso si
distendono. «Il tuo bellissimo vestito. Povera cara. Allora toglilo subito e
penserò io a metterlo a bagno.»

Il vestito alla marinara, con orrore di Barbara, è della sua taglia. È


rigido e punge, ed è un po’ troppo corto. La pancia non si nota ancora, ma ha
preso qualche chiletto, perciò le stringe anche un po’ sul seno. Ma purtroppo,
nell’insieme, è innegabile che le stia. Si sente ridicola conciata così, ma dato
che il suo abito è già sparito, e che tra qualche secondo sarà a mollo
nell’acqua, non può farci proprio più niente.
Mentre scende lentamente le scale con quel nuovo look, vede che Tony,
Diane, James e Hugh si sono messi a ballare la conga intorno al tavolo da
pranzo. E lei ha come la sensazione che in quella stanza ci siano troppi
rumori, troppa musica e troppe risate alcoliche perché rimanga spazio per
l’aria e teme, irrazionalmente, che se restasse lì soffocherebbe, perciò si
dirige in cucina, dove Glenda sta fumando come sempre, mentre spizzica gli
avanzi.
«Cosa accidenti ti sei messa?» le dice, non appena la vede.
«Non mi dire niente, ti prego» la supplica Barbara. «È l’unica cosa che
sono riuscita a trovare. Non è che hai un vestito da prestarmi, per caso? Tony
mi ha rovesciato il caffè addosso.»
Glenda scuote la testa. «Mi dispiace sorellina» dice. «No, non ce l’ho.
Ma questo non ti sta per niente bene. Sembri una di quelle sgualdrinelle che
bazzicano al porto. Joan deve avere per forza qualcosa che sia meglio di
quello.»
Dato che non riesce a respirare nemmeno in cucina, Barbara si volta e
corre verso l’ingresso. Facendo una smorfia per trattenere le lacrime, esce di
casa e sbatte la porta alle sue spalle. Una donna e un bambino che stanno
passando di lì si girano a guardarla (naturalmente ci sono persone anche fuori
dalla casa, è ovvio!) e Barbara si sente così in imbarazzo in quel momento,
con quello stupido vestito alla marinara, che fatica perfino a mettere un piede
davanti all’altro. Si piega per abbassare l’orlo dell’abito e comincia a
camminare con passo veloce, sentendosi addosso gli occhi della donna e del
bambino dietro di lei.
Il sole sta calando, e i gabbiani volano in cerchio sopra di lei. L’aria
fresca e l’odore di iodio all’improvviso le ricordano che è in una località di
mare. Nonostante tutto, il semplice fatto di sapere quantomeno dove andare,
allevia la sensazione di panico. Gira in Beach Road e si dirige verso il
lungomare.
Un uomo che sta pulendo la vetrina di un pub, vedendola arrivare,
fischia e le grida: «Salve, marinaia!».
«Oh… Vai a quel paese!» mormora Barbara, con la voce che le trema.
L’uomo si blocca con il tergivetro in mano che comincia a gocciolare, e il
sorrisino insolente sul suo viso si spegne, rimpiazzato da un’espressione
preoccupata. «Va tutto bene, tesoro?» le chiede, mentre lei lo supera a passo
deciso.
Quando raggiunge la spiaggia il sole sta tramontando, passando
dall’arancione al rosso mentre scivola nel mare. Incrocia un ragazzo che la
guarda da capo a piedi, e a Barbara viene in mente che il molo sarà più
affollato di qualunque altro posto, che lì sembrerà una specie di elemento di
scena, una sorta di attrazione per i turisti, perciò si volta e comincia a
camminare nella direzione opposta. Ma poi si rende conto che quel giovane
potrebbe pensare che lo stia seguendo, allora si ferma e si siede una panchina.
Si stringe le mani l’una nell’altra, fissandosi i piedi mentre cerca di rallentare
i battiti del cuore; cerca, in parole povere, di respirare.
«Babs?»
Alza gli occhi e si trova davanti Minnie.
«Cosa ci fai qui tutta sola?» le chiede sua madre, preoccupata.
«Oh, mamma!» dice Barbara. Non è mai stata così felice di vederla.
Mentre il suo viso si accartoccia, Minnie alza i lembi del cappotto e si
siede sulla panchina accanto a lei. «Oh, tesoro» le dice, mettendole il braccio
sulle spalle. «Cos’è successo? E cosa accidenti ti sei messa?»
Barbara inspira a fondo l’aria di mare e poi le parole cominciano a
uscirle come un fiume in piena. «Tony è ubriaco e sta ballando con Diane e
mi ha rovesciato il caffè sull’abito, quindi adesso devo andare in giro con
questa cosa oscena, e mi sento una cretina, una vera cretina vestita così e
vorrei non avere mai…» Si ferma di colpo. Si accorge che sembra una
bambina di cinque anni, e sa che sua madre non reagisce bene ad
atteggiamenti infantili come quello.
Minnie la osserva piegando la testa da un lato all’altro. «Non è che sei
ridicola, tesoro» le dice. «È solo che sono rimasta un po’ sorpresa, tutto qui.»
Barbara la guarda con la coda dell’occhio. «Sono ridicola» ripete.
Minnie sospira. «In realtà, lo sai chi sembri? Lucy Loop!»
Pur non volendo, a Barbara scappa un sorriso.
«Sì! Davvero» dice Minnie, prendendo coraggio.
«Ma io non voglio sembrare Lucy Loop il giorno del mio matrimonio»
piagnucola.
«No, lo capisco. Io avevo un vecchio vestito orribile il giorno del mio
matrimonio» le dice Minnie, facendole una confessione con il preciso intento
di calmarla. «Era il vecchio abito da sposa di mia zia, era una roba orrenda,
fuori moda. Pareva uscita da un museo, con tutto quel pizzo e quei nastrini.
Ed era giallo. Sai quando il pizzo diventa giallo con gli anni? Be, era giallo
così. L’ho odiato, quel maledetto vestito.»
Barbara tira su col naso e si pulisce col dorso della mano, perciò Minnie
tira fuori un fazzoletto dalla tasca. «Non lo sapevo» dice. «Non mi avevi mai
parlato del giorno delle tue nozze.»
«È stato un disastro, un vero disastro» dice Minnie. «Sai qual è il
problema dei matrimoni? Che si hanno troppe aspettative. Pioveva a dirotto e
quel vestito schifoso è diventato trasparente, e io ero convinta che tutti
potessero vedermi i mutandoni. E poi mio padre ha fatto una grossa litigata
con tuo nonno, il padre di Seamus, e allora Seamus gli ha dato un pugno.»
«Davvero?»
Minnie annuisce. «Anche se lui era un pugile, gli ha tirato un pugno.»
«Ha picchiato tuo padre?»
«No, l’altro tuo nonno. Suo padre. È svenuto sul colpo.»
«Oddio, mamma. Dev’essere stato tremendo.»
«Comunque tuo nonno era troppo ubriaco, non si reggeva in piedi. Non
credo nemmeno che si sia fatto male. È caduto per terra come una piuma.
Non si fanno mai male quando sono ubriachi. Purtroppo.»
«Anche Tony è ubriaco» le confessa Barbara. «Ho provato a fargli un
caffè come mi avevi detto tu, ma non l’ha voluto.»
Minnie sospira e stringe la spalla della figlia. «Gli uomini fanno così.
Fanno così al loro matrimonio, tesoro. Domani ne pagherà le conseguenze.
Tu assicurati solo di fare molto rumore quando ti svegli. È una cosa che li
manda fuori di testa.»
«Perché papà non è tornato?» chiede all’improvviso Barbara,
rendendosi conto solo dopo aver pronunciato quelle parole di aver fatto la
domanda proibita.
«Non è la giornata per fare certi discorsi» dice piano Minnie.
«Ma sta bene, vero? Non è stato ferito o roba del genere?»
Minnie scuote la testa. «Ha conosciuto una donnaccia, tesoro» dice.
«Ho sentito dire che è un’infermiera. Dell’aeronautica militare.»
«E ha messo su casa con lei come se niente fosse?» le chiede Barbara.
Minnie si stringe il setto nasale con le dita, chiude gli occhi, fa un
respiro profondo e poi li riapre, e dice: «Senti, non è proprio il caso di
pensare a queste cose il giorno del tuo matrimonio».
Barbara ci riflette su un momento e annuisce. «No, immagino di no. Ma
me lo racconterai un’altra volta?»
«Te lo racconterò un’altra volta» dice Minnie.
«Pensi che noi ce la faremo?»
«Tu e Tony?»
Barbara annuisce.
«Che diamine, lo spero bene» dice Minnie. «Certo che ce la farete. Devi
solo farti entrare in quella testolina che le favole esistono solo nei sogni. E i
sogni, tesoro mio, sono come le farfalle. Se li acchiappi, muoiono. Il
matrimonio richiede molto impegno. Non è come nei film. Non è tutto rose e
fiori. È più come… come un lavoro forse, o no, forse più come le montagne
russe. Devi solo tenerti forte. Devi tenerti davvero forte durante tutti gli alti e
bassi. Ma te la caverai. Tu hai lo spirito del Blitz dentro di te, ragazza mia.»
Barbara accenna un sorriso e Minnie le stringe di nuovo la spalla, poi
dice: «Adesso farai meglio a tornare dal tuo maritino. Si starà domandando
dove sei finita».
«Tu non vieni con me?»
Minnie scuote la testa. «Tutto quel bere e saltare non fa per me, sono
troppo vecchia» dice. «Farò una passeggiata sul molo e mi comprerò un
gelato, ecco cosa farò. E poi tornerò e me ne andrò a dormire.»
«Posso camminare con te sul molo?»
Minnie si alza e allunga la mano verso sua figlia. «Ma certo che puoi.»
Barbara prende la mano di sua madre e si tira su. Poi, mentre Minnie la
squadra dalla testa ai piedi, Barbara dice: «Lo vedi. Sono proprio ridicola».
«Ridicola no» dice Minnie. «Ma sarà meglio che ti metta questo.» Si
toglie il cappotto, poi lo regge con le mani per aiutare Barbara a infilarselo.
«Non ho per niente freddo, mamma» dice Barbara. «Tienilo tu.»
«Non è del freddo che sono preoccupata» dice Minnie. «Ma di tutti i
marpioni che ti guarderanno, se giri per il molo vestita così.»
«I marpioni?» ripete Barbara, ridendo.
Minnie annuisce con fare serio. «Fidati» le dice. «Mettitelo.»

Nel carretto tra il tiro al bersaglio con i cocchi e la cartomante, Minnie


compra due coni gelato, poi madre e figlia s’incamminano lungo il molo.
Ormai è quasi buio e il mare sotto di loro è più agitato adesso, ed è
passato da un verde opaco a un nero vagamente sinistro. In netto contrasto, le
luci del molo fanno brillare e luccicare i colori accesi dei chioschi.
«Adoro i posti di mare» dice Barbara, colta da un’euforia inaspettata
quando si rende conto che si sta godendo un momento di svago con sua
madre; un’esperienza nuova e sorprendente. «Adoro l’aria fresca e i gabbiani,
le luci e l’odore dei doughnuts, adoro tutto.»
«Anch’io» dice Minnie. «Avrei sempre voluto vivere al mare.»
«E perché non l’hai fatto?»
«Il lavoro di Seamus era a Londra» dice Minnie. «E oggi il mio lavoro è
a Londra, giusto?»
«Sei ancora in tempo per trasferirti» dice Barbara. «Se lo volessi.»
«Non posso permetterlo. E lo sai» dice Minnie, leccando una goccia di
gelato dal cono.
«Magari un giorno avremo un posto grande come il Donnybrook» dice
Barbara. «Così potresti venire a stare con noi tutte le volte che vorrai.»
«Chi lo sa» dice Minnie. «Considerato che tuo marito è figlio unico, se
giocherai bene le tue carte, un giorno potresti ritrovarti a vivere proprio al
Donnybrook. Assicurati solo di tenerti stretta Tony.»
«Certo che me lo terrò stretto» dice Barbara.
«Il matrimonio non è cosa facile» le ripete Minnie. «Ma anche quando è
al suo peggio, è il male minore. E se te lo dico io, fidati.»

Terminato il giro del molo, Barbara riaccompagna Minnie al


Donnybrook. Quando arrivano, la festa è finita. Sono andati via tutti, trovano
solo Joan, che sta rimettendo in ordine.
«Siete voi» dice Joan, alzando gli occhi dal piatto nel quale sta
raccogliendo il cibo avanzato. «Pensavo che tu eri con Tony.»
«No, io e la mamma abbiamo fatto un giro sul molo» le dice Barbara.
«Sa dov’è andato?»
Joan scuote la testa. «Sono usciti tutti insieme» dice. «Come ho detto,
pensavo che tu eri con loro. Avete mangiato abbastanza? Perché stavo
mettendo via.»
«Sì, grazie» dice Barbara. «Io sono a posto.»
«Anch’io» concorda Minnie. «È stata una festa splendida, Joan. Per
quanto riguarda Tony, sarà al Beach Cottage, no? Secondo me la sta
aspettando lì.»
Joan annuisce. «Sì» risponde. «Sì, immagino di sì.»
Con il cappotto di Minnie ancora addosso (così comodo, caldo,
rassicurante, che è come essere avvolta dentro sua madre), Barbara esce di
nuovo e cammina per le strade poco illuminate verso il Beach Cottage, dove
passeranno la loro notte di nozze. Joan conosce la signora Pie, la proprietaria.
A quanto pare, la signora Pie le deve un favore.
Sul lungomare alcune coppie camminano mano nella mano, emanando
quel genere particolare di felicità che solo le coppie durante una passeggiata a
ridosso del mare, di sera, riescono a emanare. Barbara si chiede se lei sia
come loro adesso. E se lo è, dov’è suo marito? Dov’è il braccio al quale
dovrebbe aggrapparsi?
La signora Pie è fuori ad annaffiare i fiori sui davanzali quando Barbara
arriva. «Ciao, tesoro» le dice. «È andato tutto bene?»
Barbara annuisce e, preoccupata che la signora Pie intraveda il vestito
alla marinara, si stringe nel cappotto. «Sì» risponde. «Sì, tutto bene. Tony…»
«Allora, sarà il caso che ti faccia gli auguri» dice la signora Pie,
puntando il becco dell’annaffiatoio nel vaso successivo, quello sotto il
cartello CAMERE DISPONIBILI.
«Sì» dice Barbara. «Sì, grazie. Tony è qui?»
«Non te lo sarai già perso?» dice la signora Pie, strappando con la mano
libera un rametto secco da un geranio e buttandolo dietro di sé.
«Più o meno» ammette Barbara. «È possibile che sia già in camera?»
«Non è impossibile. Io sono tornata mezz’ora fa.»
«È un problema se vado a controllare?»
«Ma certo che no. È la tua camera.»
«Mi dice qual è per favore?»
«Quella in cima. Non c’è bisogno della chiave. Qui al Beach Cottage
abbiamo solo ospiti perbene.»
Barbara la ringrazia e si avvia su per le scale, fa una sosta al primo
piano per andare in bagno a fare pipì, poi percorre le altre tre rampe per
raggiungere la loro camera. Mentre sale, si ferma a osservare le numerose
foto della famiglia reale che adornano le pareti.
L’ultima foto, sul loro pianerottolo (è possibile che sia davvero una
coincidenza?), è del matrimonio reale del 1947. Elisabetta e Filippo,
impeccabili, bellissimi, opulenti; lo strascico di Elisabetta srotolato sui
gradini, i due che sorridono con eleganza. E chi non sorriderebbe, al posto
loro?
Quando entra in camera, vede che il letto è stato cosparso di petali. Non
petali di rosa, ma di geranio. Mazzi di fiori da giardino occupano il comodino
e la mensola del camino. Accende la luce e nota che la signora Pie ha messo
un centrino rosa lavorato all’uncinetto sul paralume. La luce, filtrando, crea
dei bei motivi sulla parete sopra il letto.
Va alla finestra a guardare il mare: uno specchio che ondeggia. E la
luna, che sta sorgendo, fa risplendere e brillare le onde che si infrangono sulla
spiaggia di sassi.
Si gira di nuovo verso la stanza, un attimo dopo va a sedersi sul letto,
rimbalza sulle molle, e prima di sdraiarsi si alza per togliersi il cappotto e le
scarpe.
Si distende in modo elegante (lo ha visto fare in un film?), poi si
appoggia ai cuscini e immagina Tony che arriva e la trova così. Qual è
l’atmosfera migliore? Quella della lampada con i motivi soffusi, o del chiaro
di luna? Spegne la luce, ha un brivido e la riaccende. Il chiaro di luna rende la
stanza fredda. Con la lampada è decisamente meglio.
Si sposta sul bordo del letto e si tira su per seguire i movimenti della
luna. Il vestito alla marinara le stringe in vita, perciò si alza di nuovo e va alla
cassettiera. Dentro, come promesso, trova la sua camicia da notte e il pigiama
di Tony. Mentre li piega e chiude il cassetto pensa a Glenda, che è stata lì nel
pomeriggio, che fantastica sulla notte di passione che la sua sorellina avrebbe
passato da lì a poco.
Torna alla finestra a guardare fuori. Un uomo cammina da solo sul
lungomare con un cagnolino al guinzaglio. «Dove sei, Tony?» mormora,
accarezzandosi la pancia e immaginando il suo bambino, che tutti le dicono
stia crescendo dentro di lei.
Va alla porta, e dopo aver sbirciato dal buco della serratura, esce sul
pianerottolo. Si ferma ad ascoltare i rumori della casa. Il grido di un gabbiano
in cielo, una radio che riproduce musica da ballo nei piani inferiori, una
coppia di anziani che parla in una delle altre camere… Ma non c’è traccia di
Tony.
Si avvicina di nuovo alla fotografia, e dopo aver lanciato un’occhiata
nervosa giù per le scale, allunga le mani e sgancia la cornice dalla parete, poi
rientra in camera portandola con sé.
La appoggia sulla cassettiera in modo da poterla vedere mentre si toglie
l’orribile vestito e si mette la vestaglia.
Riprende la foto e la sistema sul comodino in modo da poterla guardare
mentre controlla la porta e si sdraia, come farebbe una star del cinema, sul
letto. «Tra poco Tony sarà qui» si dice a bassa voce, ripetendolo finché non si
addormenta.
La mattina seguente, non è Tony a svegliarla, ma la luce del sole.
2012 — HOXTON, LONDRA

Sophie fissa la testa calva di Brett che si muove su e giù tra le sue
ginocchia. Vede formarsi una goccia di sudore e la osserva mentre scivola sul
suo sopracciglio. È da più di un anno che escono insieme, e il sesso tra loro
ormai segue una routine ben definita. Non è che si sia stufata di andare a letto
con lui, né che Brett non ci sappia fare tra le lenzuola. Il suo amico Ralph una
volta le ha confidato che si era accorto di essere gay quando aveva scoperto
che baciare una donna nelle parti intime gli provocava conati di vomito.
Sophie ricorda di avergli detto che se il fatto di non apprezzare il sesso orale
significava essere gay, allora la metà degli uomini con cui lei era uscita erano
gay. Deve ammettere che Brett, che adesso sta sfregando la guancia sul suo
interno coscia mentre cerca, leccandola e succhiandola, di mandarla in estasi,
è un amante estremamente generoso. È solo che, come quando uno sente alla
radio una canzone pop per la centesima volta, il sesso con lui non riesce più a
sorprenderla. Inizia così, poi si arriva a quell’altra cosa, che poi porta a
quell’altra ancora. Tra un minuto Brett comincerà a salire più su, baciandole
il seno, successivamente il collo, e in seguito le labbra. Sa dove, quando e
come accadrà ogni cosa. Può addirittura richiamare alla mente, o forse
ricreare, il ricordo (e la premonizione) del sapore dei suoi baci: quel
miscuglio inconfondibile di Brett, di Sophie e dell’olio per massaggi, che le
viene ri-servito attraverso un bocca a bocca.
Nonostante si stia avvicinando all’orgasmo, Sophie pensa a queste cose
e al fatto che, perfino in quel momento, nel bel mezzo di un rapporto
sessuale, riesca a pensare a queste cose. E mentre Brett comincia a salire,
spostando l’attenzione sui suoi capezzoli, si chiede cosa possa voler dire
quella mancanza di coinvolgimento da parte sua.
Ma oggi è distratta, e sa che non è affatto colpa di Brett. Quella mattina
si è svegliata molto più eccitata al pensiero di realizzare una retrospettiva su
suo padre, di quanto non lo sia per qualunque altra cosa che sta succedendo in
quel momento nella sua vita. Pensa, di nuovo, che se vuole che quel progetto
abbia una minima possibilità di andare in porto, ha bisogno di un altro
alleato. Qualcuno con cui scambiarsi idee, qualcuno meno cinico di Brett,
qualcuno più entusiasta di sua madre o di suo fratello, e che conoscesse suo
padre meglio di lei, o se non altro, che conoscesse il suo lavoro meglio di lei.
Brett si ferma, riportandola alla realtà del presente, e lei nota che la sua
erezione, oggi, non è una vera erezione, e all’improvviso capisce che quello
che di solito accade sempre dopo, oggi non accadrà affatto. Quindi Brett ha
ancora il potere di sorprenderla.
«Tutto okay?» le chiede. «Sembri distratta.»
«Scusa. Oggi non sono molto concentrata. Magari potremmo fare una
pausa-caffè e rimandare a più tardi? Che ne dici?»
Brett annuisce, rotola giù dal letto, e se ne va saltellando allegramente
in cucina, da dove, non trovando il caffè, le grida che sta uscendo: l’uomo
che con un gesto altruistico sfida l’alimentari sotto casa per procacciare le
provviste.
Sophie si stiracchia, poi si allunga per prendere il cellulare e controlla
l’ora. Sono quasi le quattro del pomeriggio. Poi, senza pensarci, come se
quello fosse ciò che stava facendo prima che Brett la interrompesse in modo
così sgarbato, telefona a sua madre.
«Ciao mamma, sono Sophie.»
«Ciao tesoro. Stavo proprio pensando a te.»
«Ah sì?»
«Sì. Mi stavo mettendo a fare una torta all’ananas. Ti piaceva tanto
quando eri piccola.»
«Mi piace ancora. E quindi, per chi la fai?»
«Jon. Dovrebbe arrivare tra un po’.»
«In realtà, ti ho chiamato perché anch’io pensavo di venire a trovarti nel
weekend.»
«Sul serio? Come mai?»
«Per vederti, ovviamente. Ma se non vuoi, mamma, basta che tu lo dica.
Non c’è bisogno di fare troppi giri di parole.»
«Non essere sciocca. Lo sai che mi fa piacere.»
«Bene, allora. Domenica magari?»
«Sì. Domenica va bene. Vieni per una ragione particolare?»
«Non proprio. Ma, ehm, in effetti pensavo che potrei dare un’altra
occhiata alle foto in solaio.»
«Oh, no, Sophie. Non dirmi che ci risiamo con questa storia. Non voglio
che mi porti in giro cianfrusaglie per tutta la casa.»
«E dai, mamma. È normale che voglia guardare le foto di papà.
Insomma, io sono una fotografa.»
«È ancora per quella folle mostra a cui hai accennato l’altra volta?»
«Non c’è niente di folle a riguardo, mamma.»
«Quindi, è per quello?»
«Non solo.»
«Mhmm.»
«E… mamma?»
«Sì?»
«Mi stavo chiedendo… Sai, la zia Diane. È ancora viva?»
«Diane?»
«Sì. L’amica di papà.»
«So chi è Diane, cara. Non sono completamente rimbambita. Ma perché
mai…?»
«Pensavo che lei potrebbe aiutarmi.»
«In cosa, di preciso?»
«Con, sai… dei suggerimenti. Cosa mostrare, come mostrarlo… Era
una fotografa, giusto? Se non sbaglio, ogni tanto lo aiutava, no?»
Barbara non le risponde, ma Sophie la sente sospirare a fondo.
«Per caso ti viene in mente un modo per contattarla?»
«No, non saprei.»
«Davvero? Non ne hai proprio idea?»
«No. Proprio no.»
«Mamma!»
«Non parlo con Diane da quando lui è morto.»
«Sul serio?»
«Sul serio.»
«Perché?»
«Non lo so, cara. Probabilmente perché non avevo motivo di farlo.»
«Ah. Quindi sapresti come contattarla? Se avessi un motivo.»
«No. Non lo so. Te l’ho detto. Senti, mi piacerebbe tanto passare tutto il
giorno al telefono con te, ma sta arrivando Jon e io devo mettere questa torta
in forno.»
«Si chiamava Darbott di cognome?»
«Lo sai benissimo.»
«Si scrive con due t?»
«Sophie. Per favore, dimmi che non hai intenzione di intraprendere una
ricerca inutile di Diane.»
«Perché no?»
«Perché… Perché…»
«Sì?»
«Perché immagino che tanto sia morta.»
«Morta?»
«Sì.»
«E perché dovrebbe essere morta, mamma?»
«Perché c’è un limite a quanto un fegato può sopportare, mia cara.»
«Un fegato?»
«Sì. Adesso devo andare, tesoro. Chiamami sabato per farmi sapere se
hai ancora intenzione di passare a trovarmi. Ma togliti dalla testa l’idea di
gironzolare nel solaio. Quindi se è per quello che vuoi venire, puoi anche
evitare.»
«Aspetta un attimo, mamma. Che mi dici di quell’altro amico di papà,
Hugh? O Phil?»
«Oh, Sophie, basta. Adesso basta.»
«Basta cosa?»
«Ho una torta da infornare! Ti saluto, tesoro.»

Sophie si è appena messa la vestaglia quando Brett ritorna con il caffè.


«Ho preso anche i croissant» dice, appoggiando il sacchetto sul piano della
cucina.
«Devi smetterla di comprare croissant» gli dice. «Sto ingrassando.»
Quello che Sophie intende realmente dire è che deve smetterla di comprare
croissant perché lui sta ingrassando (o meglio, sta diventando più grasso), ma
Brett non lo capisce.
«A me sembri in ottima forma» le dice, facendole l’occhiolino. Apre la
confezione di caffè e ne versa un po’ nel filtro della macchinetta, poi preme il
pulsante di accensione. «Allora, che cos’è che ti distrae tanto?» le chiede.
Sophie sta guardando il panorama fuori dalla finestra. È una bellissima
giornata, il cielo è azzurro e le nuvole si muovono veloci, gettando sugli
edifici ombre che si spostano ancora più velocemente. «Come, scusa?» gli
chiede.
Brett si mette a ridere. «Ecco, appunto!» dice, trionfante.
«Oh, a nulla in realtà» risponde Sophie, riuscendo a recuperare la
domanda di Brett da un registro di memoria temporanea. «Stavo ripensando
alla mostra su mio padre. Mia madre sta reagendo in maniera molto strana.
Tutto qui.»
«Strana?»
«Non è per niente collaborativa, a dire il vero.»
«Avevi detto fin da subito che la cosa non le sarebbe interessata.»
«Lo so. Ma è molto più di questo. Non vuole che prenda le foto dal
solaio. Non mi sa dire come posso mettermi in contatto con nessuna delle
persone che appartenevano al suo passato. Somiglia più a ostruzionismo.»
«Con chi è che vuoi metterti in contatto?» le chiede Brett.
«Un’amica di papà, Diane Darbott. E anche con il suo miglior amico,
Phil. Mia madre sostiene di non avere idea di dove si trovi Diane, il che è
piuttosto inverosimile. Ha detto addirittura che probabilmente è morta. Credo
che stesse insinuando che aveva un problema con l’alcol, ma io non mi ero
mai accorta di niente.»
«Quindi tu la conoscevi, questa Diane?»
«Sì. Era simpatica. Mi piaceva molto.»
«Hai provato a cercarla su Google?»
«Non ancora. Lo farò. Ma non è proprio della generazione di Facebook,
quindi…»
Brett si piega a osservare il caffè che sale, poi si raddrizza di nuovo.
«Magari la mette semplicemente a disagio.»
«Cosa mette a disagio chi?»
«Tua madre. Il mondo dell’arte. Hai detto che è… che parola avevi
usato?»
«Grezza. Però sono stata ingiusta.»
«Certo. Ma forse tutto questo le ricorda troppo il passato. Potrebbe
essere.»
«Oh, di sicuro! Sono certa che si tratti di questo. Ma stiamo parlando di
tanti anni fa. Deve farsene una ragione, perché io devo vedere i lavori che
mio padre ha lasciato.»
«Allora, caffè?» le chiede Brett, agitando la brocca di vetro verso di lei.
«Grazie.»
Brett riempie due tazze e le appoggia sul tavolino della cucina. Poi si
siede e apre il sacchetto di carta con i croissant.
Sophie stringe la vestaglia intorno a sé, poi si mette a sedere, stacca un
pezzettino minuscolo di croissant e se lo mette in bocca. Ma siccome quel
gesto le ricorda la modella scheletrica, che aveva fatto la stessa identica cosa,
si allunga per prenderlo tutto e lo addenta con gusto.
«Questi croissant fanno schifo» dice Brett, con una smorfia.
«Sono di un alimentari a Hoxton» gli fa notare Sophie. «Non di una
pasticceria francese.»
«Questo cosa significa?»
«Significa che siamo in Inghilterra. Vai più sul sicuro a comprare i
crumpets dei croissant da queste parti.»
«Crumpets?»
«Sono una cosa inglese. Come i muffin. O i bagel. In realtà, non
somigliano a niente.»
«I crumpets, eh?»
«Te li farò assaggiare. Sai, continuo a pensare che… mio padre avrebbe
potuto essere strepitoso.»
Brett manda giù un sorso di caffè prima di rispondere. «Lui era
piuttosto strepitoso, Sophie.»
«Certo. Ma avrebbe potuto essere davvero strepitoso, secondo me. Se
solo fosse stato con qualcuno che capiva la sua arte. Mia madre era una brava
moglie, una brava mamma, eccetera eccetera, ma se si trattava del lavoro di
mio padre… be’…»
«Be’?»
«Basta dire che lei era più contenta di portarlo a fare la spesa che di
andare a un servizio fotografico. È per questo che lui passava tutto quel
tempo con Diane. E non ha praticamente mai viaggiato. Quello deve aver
dipeso da mia madre. Avrebbe potuto fare molto di più.»
«Lui c’era arrivato in vetta. Non sottovalutarlo, tesoro. È soltanto
caduto un po’ nel dimenticatoio, tutto qui.»
«Caduto nel dimenticatoio. Mi piace. E di chi è la colpa? Che sia caduto
nel dimenticatoio?»
«Questa è una grossa responsabilità da attribuire a tua madre. Sono
certo che lei abbia fatto del suo meglio.»
«Ah, sì?»
Brett scrolla le spalle.
«Okay, forse sono un po’ cattiva. Ma capisci cosa intendo?»
«Sì, lo capisco.»
Bevono il resto del caffè in silenzio, poi Brett le chiede: «Ti va di finire
quello che avevamo cominciato prima?».
«Scusa? Oh…. a dire il vero non ne sono sicura.»
Brett prende una scatola di latta dalla mensola dietro di lui. «Forse
questa ti aiuterà a trovare lo spirito giusto?» le chiede, tirando fuori una
bustina di cocaina dalla scatola.
Sophie sa che quello che Brett dice è vero, e siccome è il fine settimana
e lei non ha altri piani, e in più si sente anche in colpa per come si è
comportata prima, accetta. «Solo una piccola» dice. «Non voglio essere su di
giri tutto il giorno.»
Brett stacca una cornice dalla parete dietro di lui e la usa, insieme a un
biglietto da visita, per buttare giù le strisce, e non appena hanno sniffato,
Sophie si sente diversa: entusiasta, euforica, sicura di sé e, sì, eccitata.
«Vieni!» le dice Brett alzandosi e sfregandosi il naso, poi la prende per
mano e la guida verso la camera da letto. Va dritto verso il cassetto delle
“birichinate” e Sophie rimane sulla porta, con un’espressione divertita,
mentre Brett tira fuori due paia di manette e il collare per cani. «È ora di
apportare qualche cambiamento, tesoro» dice.
«Questo significa che è ufficialmente subentrata la noia?» gli chiede
Sophie.
«La noia?»
«Quando ti ho chiesto cosa te ne facevi di quella roba, mi hai detto che
erano per quando sarebbe subentrata la noia.»
Brett spinge in fuori il labbro inferiore e scuote la testa. «Io non sono
per niente annoiato, tesoro» dice. Si toglie la felpa, poi aggiunge: «Magari è
solo che adesso mi fido di te abbastanza da condividere questa cosa. Potresti
ragionare in maniera diversa, sentirti lusingata».
«Sì, ma io mi fido abbastanza di te?» chiede Sophie, immaginandosi
legata e alla mercé di Brett e scoprendo, con sua sorpresa, che l’idea non le
dispiace.
«Ma tu non hai bisogno di fidarti» dice Brett, armeggiando con le
manette per poi mettersene una al polso destro e l’altra a quello sinistro.
Sophie lo guarda perplessa: è a petto nudo, con un paio di manette che
penzolano da ciascun braccio. «Non ti seguo» dice. «Io che cosa dovrei fare
adesso?»
«Quello che vuoi» dice Brett, mentre sale sul letto e si sdraia con le
braccia allargate, avvicinando i polsi alle testiera di ferro del letto. «Sono alla
sua mercé, mia padrona.»
«Oh» dice Sophie, di colpo imbarazzata per averci messo tanto a capire.
«Oh, ci sono arrivata adesso!»
«Io non ti sto suggerendo niente» dice Brett. «Ma ci sono vari strumenti
di tortura nel cassetto lì sotto. Quindi se secondo te sono stato cattivo, be’,
potresti darmi una lezione. Farmela pagare, diciamo.»
Sophie sospira e va a dare un’occhiata nel cassetto. Mentre pensa che
non era questo che si aspettava, tira fuori una catenella collegata a delle
piccole pinze in metallo, lancia uno sguardo, un po’ disgustato, a un paio di
palline vaginali e a un morso a palla. «Questo dovrebbe essere per te?» gli
chiede, sollevando un vibratore rosa e muovendolo da destra a sinistra, con
aria divertita.
«Se è questo che vuole, mia padrona» dice Brett, che per qualche
ragione adesso parla con una strana voce meccanica, da film di fantascienza.
«Mhmm» dice Sophie, chiedendosi se, nonostante non sia un suo
desiderio, potrebbe diventarlo, se ci provasse con un po’ di entusiasmo. Ma
non è per niente sicura di volerlo. Quello che vuole, quello di cui ha voglia, è
semplicemente di una sana e lunga scopata. Ecco di cosa ha davvero bisogno.
Si volta verso Brett, sul punto di rovinare la sua fantasia, sul punto di
spiegargli, in modo gentile, che non ci prova nessun gusto a fare la
dominatrice. Ma poi vede il suo cazzo pulsare, sollevarsi, smaniare dentro ai
pantaloni della tuta, e capisce che, solo perché Brett è legato, solo perché ha
un collare per cani, delle pinze ai capezzoli e un morso alla bocca, ciò non
significa che lei non possa ottenere ciò che vuole. Niente affatto.
Gira intorno al letto e attacca le manette, una dopo l’altra, alle estremità
della testiera. «D’accordo, stronzetto» dice, tirandogli giù i pantaloni e
osservando il suo uccello spingersi in avanti. «L’hai voluto tu.»
«Per favore, pietà!» dice Brett.
«Nessuna pietà» dice Sophie, mettendosi a cavalcioni su di lui. «Avrai
quello che ti meriti.»
1951 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX

Barbara adora vivere a Eastbourne. Quella mattina è uscita presto e ha


camminato fino a Holywell (ritiene che il punto in cui la scogliera incontra il
mare sia il posto più bello che abbia mai visto) e adesso sta tornando a casa.
Ma quel pensiero, il fatto che adori vivere lì, le occupa la mente dall’istante
in cui si è alzata e ha aperto le tende.
C’era stato un momento, e più precisamente la prima settimana del suo
matrimonio, in cui non si riusciva a capire se la situazione si sarebbe
appianata oppure no; Barbara aveva davvero temuto che potesse andare tutto
a rotoli. La cosa peggiore era stata tornare, da sola, al Donnybrook, la mattina
dopo il matrimonio; dover affrontare sua madre, sua sorella, i nuovi suoceri, e
spiegare a tutti loro, uno dopo l’altro, che non aveva idea di dove fosse il suo
novello sposo, né di dove avesse trascorso la notte. Erano tutti infuriati per
lei, così infuriati in effetti, che la sua di indignazione era diventata quasi
irrilevante davanti alla palese necessità di calmare ciascuno di loro prima che
Tony tornasse, cosa che alla fine lui aveva fatto, poco prima delle due del
pomeriggio. Sosteneva di essere svenuto, ubriaco, a casa di Hugh. Aveva un
aspetto talmente pietoso che poteva anche essere vero.
Era imperdonabile, avevano concordato tutti. Imperdonabile, era quella
la parola che avevano continuato a usare. Ma messa davanti a una scelta,
ovvero fare le valigie e tornare a Londra (un’opzione più che plausibile, date
le circostanze, aveva ripetuto più e più volte Glenda,) o perdonare e
dimenticare, Barbara aveva scelto di perdonare e dimenticare. La felicità è un
concetto relativo, e dopo aver vissuto una guerra mondiale nell’East End di
Londra, l’assenza di Tony era risultata una piccola scossa sulla sua personale
scala Richter. E oggi, mentre passeggia lungo South Downs Way con le onde
che si infrangono alla sua destra, il sapore di sale sulle labbra e la bambina di
Tony che sta iniziando a dare segni della sua presenza (Minnie ha fatto
dondolare un anello davanti alla sua pancia e ha dichiarato che sarà una
femmina, e Barbara le crede), sa di aver fatto la scelta giusta.
Certo, il comportamento di Tony al matrimonio la preoccupa, e dopo
aver conosciuto suo padre, Lionel, e aver passato del tempo con lui, teme
seriamente di essere entrata a far parte di una famiglia che ha un problema
con l’alcol a livello genetico. Perciò guarda Lionel e cerca di capire. Come
uno studente diligente di botanica, osserva il mondo intorno a sé e prende
appunti nella sua mente su cosa funziona e cosa no. Si è già accorta che
quando sta per cominciare a bere, Lionel diventa irritabile. Ha notato anche
che dopo la prima birra è normale, dopo la seconda strano, e dopo la terza
euforico e prepotente. La quarta lo calma, con la quinta diventa sdolcinato, e
poi, o si addormenta oppure se ne fa una sesta e una settima, nel qual caso è il
momento di scappare, perché può solo finire con un’esplosione di rabbia, o se
si è fortunati, con una vomitata.
Osserva anche Joan, per vedere se ha adottato delle strategie per gestire
il problema, ma a parte un inspiegabile bisogno di parlare in continuazione (è
il silenzio che la spaventa, o i pensieri che potrebbero manifestarsi se tacesse
per un attimo?), sembra che si limiti a mettersi al riparo e a farsi coraggio per
affrontare ogni tempesta come se fosse la prima e, volesse il cielo, l’ultima.
Ma mentre Lionel non è stato sobrio nemmeno una sera dal giorno del
matrimonio, da cui sono trascorse due settimane, Tony, dal canto suo, non ha
più toccato neanche un goccio. È stato divertente, collaborativo, dolce e
devoto come non mai. Glenda le ha detto che deve insistere perché Tony si
scusi per il suo comportamento deplorevole, ma lei non ha mai capito la
necessità di Glenda di ottenere una vittoria schiacciante in questo genere di
cose.
Gli sforzi di Tony di redimersi, le sue costanti attenzioni nei suoi
riguardi, sono tutte le scuse di cui lei ha bisogno.
Quando arriva al Donnybrook, la porta è aperta. Sale i gradini e vede
che Joan sta lavando le piastrelle bianche e nere a scacchi del pavimento.
«Salve. Sono tornata a darle una mano» annuncia, e Joan si ferma e si
volta verso di lei, con la sigaretta in bocca. «Ciao cara» dice. «È andata bene
la passeggiata?»
Barbara annuisce e le sorride con dolcezza. «Sono arrivata di nuovo
fino a Helen Gardens.»
«A furia di camminare non avrai più forze» la ammonisce Joan. «Una
donna nel tuo stato dovrebbe riposare. Quando io ero incinta di Tony…»
«Il dottore ha detto che camminare mi fa bene» la interrompe Barbara.
Joan le ha già raccontato di aver passato tre mesi a letto prima che Tony
nascesse. Molte volte.
«Sì, be’, sono certa che non intendeva nemmeno che devi fare la
maratona ogni giorno. Ai miei tempi…»
«Faccio il giro da dietro?» le chiede Barbara, tagliando corto per paura
di dover ascoltare un altro discorso che comincia con ai miei tempi. «Non
vorrei sporcare, ha pulito tutto.»
Joan scuote la testa, facendo cadere un po’ di cenere dalla sigaretta, che
lei rimuove subito con lo spazzolone. «No, puoi passare, a una condizione.»
«Quale?»
«Che vai dritta in camera tua a riposare.»
Barbara annuisce. «Okay» dice. «Ma la aiuterò nel pomeriggio.»
Joan si asciuga la punta delle dita sul grembiule, fa un ultimo lungo tiro
di sigaretta, con un’espressione visibilmente soddisfatta, e poi la spegne nel
posacenere sul tavolo dell’ingresso. «Mi puoi pelare le patate e le carote» le
dice. «Quello puoi farlo da seduta.»
Mentre Barbara si avvia verso le scale, Joan passa di nuovo lo straccio
sul pavimento dove è passata lei. «Scusi» le dice Barbara, voltandosi.
«Non preoccuparti, vai, vai! Non preoccuparti!» insiste.
Una volta entrata nella camera di Tony (la sua vecchia camera singola è
stata confiscata e messa a disposizione degli ospiti paganti, adesso che è
cominciata la stagione), si slaccia le scarpe e le lancia via. Si massaggia un
piede, poi l’altro, e va ad aprire la finestra. Non c’è la vista mare al
Donnybrook, ma riesce comunque a sentire i gabbiani, a percepire le onde
che si infrangono sulla riva a meno di duecento metri di distanza, e a volte,
quando il vento è nella direzione giusta, riesce perfino a sentirle arrampicarsi
sulla spiaggia e poi affondare nei sassi. Le sembra il rumore di un enorme
gigante lontano che russa.
Si siede, trattiene il respiro e rimane per un attimo ad ascoltare, poi si
lascia cadere sul letto. Fissa il soffitto e si appoggia la mano sulla pancia. È
come se fosse più dura del solito. Forse ha davvero esagerato un po’.
«Scusa» dice, accarezzandosi con delicatezza. «Puoi riposare adesso,
piccola mia.»

Quando si sveglia, il sole si è spostato e i raggi risplendono sul letto. Dà


un’occhiata alla sveglia e si accorge di aver dormito per almeno due ore.
Dovrebbe alzarsi, ma si sente strana, intontita, come se avesse la febbre, e ha
male all’addome. Chiude gli occhi e solleva le ginocchia per vedere se quella
posizione le allevia il dolore, ma dato che non cambia niente, fa scivolare la
mano sulla pancia, poi più giù, finché non sente qualcosa di bagnato.
Deglutisce a fatica, aggrotta le sopracciglia, si morde il labbro inferiore e si
tira su per controllare. Ha gli slip macchiati di rosso, proprio come quando le
veniva il ciclo. Ma è una cosa che adesso non dovrebbe succedere. Se non
altro questo lo sa.
Cerca di immaginarsi mentre chiede a Joan cosa sta succedendo, e il
solo pensiero la imbarazza da morire. Allarga gli slip per dare una sbirciatina.
C’è pochissimo sangue. Magari è normale. Magari è tutto a posto.
Però si sente pienissima, come se avesse fatto indigestione.
All’improvviso ha bisogno di andare in bagno. Sì, forse è per questo. Forse
deve semplicemente fare la pipì.
Si alza, ha un capogiro e deve appoggiare una mano contro il muro per
recuperare l’equilibrio prima di riuscire a raggiungere il cassettone, dove
prende un paio di mutande pulite e un guanto di flanella da usare come
assorbente. Va al lavandino, si lava e si cambia. Adesso che è pulita, sta già
meglio. Per un attimo è come se la paura fosse passata.
Ne parlerà più tardi con Joan, ma almeno non deve farlo subito.
Apre la porta ed esce sul pianerottolo. Sente il rumore del battitappeto al
piano di sotto che picchia contro i mobili della sala da pranzo e cigola.
Quando arriva in bagno si siede, e nota con sgomento che la flanella si è
già rimacchiata di sangue; è rosso vivo, quasi fosforescente. Non le resta altra
scelta che parlarne con Joan.
Legge, per l’ennesima volta, il quadretto ricamato a punto croce sopra il
portarotolo. Se qualcuno fuori aspetta, non lo fa per metterti fretta. Perciò,
amico mio, non ti dilungare, anche ad altri può scappare. Vorrebbe che non
ci fosse, perché per qualche ragione, non riesce a stare lì seduta senza
leggerlo, e non lo ha trovato divertente nemmeno la prima volta. Ormai le dà
quasi la nausea.
Fa per alzarsi, quando le viene un’altra fitta all’addome, così forte che
ha un sussulto. Si rimette seduta e si passa la mano sulla fronte, sulla quale si
stanno formando delle gocce di sudore. «Qualcosa non va» dice piano.
Vorrebbe che ci fosse Glenda. Lei saprebbe cosa fare.
Una nuova ondata di crampi le attraversa il corpo, seguita da un strana
spinta dolorosissima che le parte da dentro. Le esce dell’altro liquido più
viscoso del precedente, e se da una parte la preoccupazione la induce a
guardare per vedere cosa stia succedendo lì sotto, dall’altra ha una nuova
paura, la paura di cosa scoprirebbe se lo facesse. Adesso sta sudando molto.
Si accorge, con sua sorpresa, che sta anche piangendo; le lacrime le rigano le
guance, le cola il naso. Le sembra che il suo corpo si stia liquefacendo, che si
stia sciogliendo come un cubetto di ghiaccio. Acqua, acqua ovunque, pensa.
Forse Joan salirà e troverà soltanto una pozza sul pavimento, e nessuno saprà
mai dov’è finita Barbara.
Adesso sa cosa sta succedendo, e oltre alla paura e ai crampi, al sudore
e alle lacrime, è come se anche il suo cuore si stesse spezzando; i singulti si
fanno reali, tormentati. «Oh, piccola, non ancora» ansima, accartocciando il
viso.
E poi, neanche fosse una risposta, un crampo violento, lancinante, le
strappa le viscere, facendola piegare su se stessa e sussultare forte, mentre
qualcosa scivola fuori da lei, qualcosa di importante, qualcosa di abbastanza
grande perché Barbara lo senta sbattere contro la porcellana della tazza.
«Joan!» inizia a gridare. «Joan! Joan! Joan!» Ma Joan non può sentirla.
Quel maledetto battitappeto al piano di sotto continua a cigolare e mandare
vibrazioni che si propagano attraverso i muri della casa.
E un’altra tornata di crampi le scuote il corpo, ma adesso Barbara è
vuota, spaventosamente vuota, vuota come non si è mai sentita. Deve
guardare. Pensa che sia troppo presto perché il bambino possa essere vivo,
ma in realtà non lo sa. Non ricorda che qualcuno le abbia mai detto quanti
mesi ci vogliono prima che un bambino sia di fatto vivo. Ma quello che è
uscito sembrava grande; sembrava terribilmente, atrocemente grande. Quindi
deve guardare.Non si può mai sapere.
Si sposta un po’ indietro, quel tanto che basta per sbirciare nella tazza.
Ed eccolo lì. Una sacca insanguinata, translucida, un feto deforme.
Resta a fissarlo, paralizzata. Fissa le braccine minuscole, la testa
abnorme, spropositata. Si chiede se sia morto, anzi, se sia mai stato vivo. Si
chiede se è deforme perché c’era qualcosa che non andava, o soltanto perché
è troppo presto. Di sicuro i bambini non ancora nati del libro non erano così.
E poi si chiede, investita da una nuova ondata di lacrime, se sia vivo e stia
soffocando lentamente nella sacca.
Allunga una mano e lo pungola con il dito tremolante. È caldo e molto
più solido di quanto immaginasse. Si aspettava che sembrasse, in un certo
senso, meno reale. Riesce a malapena a vedere attraverso le lacrime ormai,
perciò si sfrega gli occhi con il polso e allunga di nuovo il braccio per cercare
di girare la testa verso di lei, per cercare di capire se quella cosa (è possibile
che una cosa tanto brutta potesse davvero essere il suo bambino?) è viva o
morta. Di colpo il feto scivola giù di un paio di centimetri, facendola
sobbalzare. A quel punto comincia a urlare, e una volta che ha iniziato, non
riesce più a smettere. Grida più forte di quanto non abbia mai fatto. E sotto di
lei, finalmente, il battitappeto si ferma, e sopra le sue urla sente arrivare dal
piano di sotto la voce di Joan. «Barbara? Barbara? Stai bene, tesoro?»

Barbara apre gli occhi e guarda le tende verdi che circondano il letto.
Non è sicura di come sia arrivata in ospedale. Le sembra che l’abbia
accompagnata un vicino. Sì, un vicino che fa il tassista, esatto.
Alla sua sinistra vede la brocca con i sali reidratanti, e si ricorda sia del
fatto che dovrebbe bere il liquido contenuto all’interno, sia del fatto che ha un
sapore orribile.
Dietro la tenda, sente Joan bisbigliare. Joan che parla, parla sempre.
«Ha perso molto sangue» sta dicendo, e Barbara si ricorda anche di quello.
Si riaddormenta per un po’ e quando si risveglia, Joan sta ancora
parlando. «È così che hanno detto. Che la natura ha voluto essere buona.»
«Ma che cattiveria è mai questa!» È la voce di Tony, e Barbara è
combattuta, da una parte vorrebbe chiamarlo, ma dall’altra vuole rimanere in
silenzio per sentire la risposta di Joan.
«Il bambino non era normale, tesoro» sta dicendo adesso Joan. «Ho
portato qui quel povero esserino perché potessero dargli un’occhiata, e il
dottore ha detto che aveva smesso di crescere da un bel po’, e che anche se
non lo avesse fatto, è stato comunque meglio così.»
«Tony?» lo chiama Barbara, più per interrompere il flusso di
informazioni senza censura che per altro.
«A quanto pare si è svegliata» dice Joan.
Il viso di Tony compare tra le tende, come quello di una marionetta.
«Sono arrivato un attimo fa» dice, girando intorno al letto e prendendole la
mano. «Sono venuto appena l’ho saputo.»
«Mi dispiace tanto» dice Barbara.
«Ehi, non è mica stata colpa tua, no?»
«Almeno lei sta bene» dice la voce di un’altra donna dietro la tenda.
«È Diane?» chiede Barbara.
Tony annuisce. «Ha voluto venire a trovarti. Ti dispiace?»
«Io non voglio vedere nessun altro» dice Barbara. «Solo te.»
«Okay.»
«Mi dispiace tanto, Tony» ripete. «Credo di aver camminato troppo.»
«Non è stata quella la causa» le dice Tony. «Hanno detto che lui aveva
smesso di crescere.»
«Lui?»
Tony annuisce. «È quello che ha detto la mamma.»
«Un maschio!» dice Barbara ansimando, un futuro scoperto solo dopo
che è stato cancellato; la perdita di un figlio all’improvviso reale.
«Tu ti rimetterai» le dice Tony, accarezzandole la mano. «Questa è la
cosa più importante.»
«Ma era un maschio.»
«Sì, be’, possiamo sempre riprovarci.»
Riprovarci! Barbara non sa cosa rispondere a quell’affermazione.
Perché in quel momento non c’è niente che desideri meno. L’espressione
fiduciosa di Tony è troppo da sopportare, quindi chiude gli occhi, e poi pensa
che, in effetti, la miglior strategia è di tenerli chiusi.
Dopo un po’ lui le lascia andare la mano e Barbara sente i ganci della
tenda scorrere mentre Tony torna fuori. «Si è riaddormentata» dice.
«È esausta, povero tesoro» dice Joan. «È la cosa peggiore che possa
capitare a una donna.»
«Sì. Certo.»
«Un duro colpo» dice Diane.
«Se solo lo avessimo saputo prima, sai…» sussurra Tony.
«Be, certo» dice Joan. «Ma la vita è così, amore mio. Non sai mai cosa
ti aspetta.»
«Cosa faccio, mi fermo?» chiede Diane.
«No, vai» le dice Tony. «Anzi, andate tutte e due. Non credo che oggi
sia dell’umore adatto per ricevere visite.»

Durante la settimana che trascorre in ospedale, ci sono tre cose, tre


ossessioni, che Barbara non riesce ad allontanare dalla sua mente. La prima è
l’immagine del bambino (la testa enorme, le mani minuscole), così umana,
eppure così sbagliata. La seconda è la frase: La natura ha voluto essere
buona. È la cosa più crudele che abbia mai sentito. E la terza è Tony che
afferma: Se solo lo avessimo saputo prima.
Barbara non si azzarda a chiedergli cosa intendesse dire con quella frase
finché non viene dimessa e sono in macchina insieme per tornare a casa.
Tony se lo fa ripetere due volte prima di affermare, con un’aria losca: «No.
Non posso aver detto una cosa del genere. Non posso averla detta di certo».
Ma lei sa che lo ha fatto. Lo sa e non ha alcun dubbio.

Barbara apre gli occhi e si trova davanti Joan che gira per la stanza tutta
indaffarata. «Mai vista una confusione simile…» sta dicendo, e lei si sforza
di mettere a fuoco la stanza. Cerca di guardarsi intorno per capire cosa ci sia
fuori posto, poi si rende conto che Joan sta parlando di una delle camere degli
ospiti. «Sono stati qui solo due notti, ma ci sono sacchetti e biancheria intima
sparsi sul pavimento, slip appesi alla maniglia della porta, tazze sporche che
hanno portato su dal piano di sotto. Non voglio neanche immaginare come
siano conciate le loro case. E se dico case c’è una ragione. Perché nessuno mi
toglie dalla testa che non sono sposati, anche se si sono presentati come il
signore e la signora Grady. Chissà cosa avrebbe da dire la vera signora Grady
riguardo al loro viaggetto a Eastbourne. Anche se, a pensarci bene,
probabilmente sarà stata contenta di fare una pausa. Dalle pulizie, intendo.»
Barbara sbatte le palpebre e si sforza di prendere coscienza del
momento, della stanza, del letto immerso nella luce pomeridiana. Cerca di
scuotersi di dosso il sogno confuso che stava facendo, in cui era così bello
essere… Cosa? Accidenti. Non se lo ricorda. Tutto quello che rimane è una
piacevole sensazione, nient’altro.
Prova a concentrarsi sul monologo interiore di Joan, che non si arresta
mentre piega e impila e spolvera e raccoglie i piatti in giro per la stanza. «…
al Beach Cottage…» sta dicendo adesso «… sono addirittura riusciti a
rompere una finestra…»
Barbara sa che deve prestare attenzione perché ogni tanto capita che di
punto in bianco Joan le faccia una domanda. Spesso lei riesce a cavarsela
rispondendo con qualcosa di poco compromettente come ehm, o un vago e
bofonchiato immagino di sì, ma non sempre. In certi casi le domande
richiedono risposte specifiche, risposte che di solito Joan già conosce, spesso
risposte a domande che le ha già fatto in precedenza, più volte.
Come adesso. Joan è seduta sul bordo del letto e le sta toccando la
fronte in attesa di una risposta. Dalla scia lasciata dal passaggio delle sue
parole, Barbara recupera pastiglia di ferro e risponde, affidandosi alla
fortuna: «Sì, l’ho presa a pranzo».
Joan annuisce, a quanto pare soddisfatta. «Bene» dice. «La signora
Davis era diventata anemica dopo aver avuto i gemelli, ma si rifiutava di
prendere le pastiglie. Secondo lei c’era dentro il demonio. Alla fine si è
ammalata di itterizia, e di una forma brutta! Era gialla come un peperone,
giuro su Dio. Aveva anche le palpitazioni. Le era venuto di tutto. Per riuscire
a fargliele ingoiare hanno dovuto ricoverarla. Quindi tu devi prenderle come
ha detto il dottore.»
«L’ho presa» ripete Barbara, anche se sta iniziando a venirle un dubbio.
Col fatto che è sempre a letto, i giorni e le notti si mescolano, si fondono in
un tutt’uno, perciò chi può dire se la pastiglia di cui si ricorda era quella di
ieri o di oggi?
È sicura che Tony fosse con lei quando l’ha presa. Stava per andare a
Londra per una consegna. «Dov’è Tony?» le chiede, più per chiarire la
questione della pastiglia che per informarsi dei suoi spostamenti.
«Tony? È a Londra, lo sai. Ma tornerà in tempo per cena. Ha detto di
aspettarlo, in caso dovesse tardare» risponde Joan. «Adesso, anche se mi
piacerebbe stare qui seduta a chiacchierare con te tutto il pomeriggio, devo
andare dal pescivendolo. Lionel vuole mangiare l’aringa affumicata stasera, e
se non mi sbrigo non ne troverò neanche mezza. Per noi pensavo di prendere
del merluzzo, magari potrei farci una torta salata. Ti va il pesce per cena? Io
non vado pazza per l’aringa affumicata. Non è che sia cattiva, ma è
quell’odoraccio che non sopporto. Finisce sempre che metà degli ospiti si
lamenta per la puzza e l’altra metà mi chiede se posso portargliene un piatto.
Ma a Lionel piacciono, quindi…»
Barbara sbadiglia e mentre Joan scende al piano di sotto ascolta la sua
voce allontanarsi sempre di più. Aspetterà di sentire la porta d’ingresso
chiudersi e poi proverà a vedere se oggi riesce a stare in piedi. Il dottore le ha
detto di rimanere a letto per due settimane, e anche se la prima è già passata,
ogni volta che si alza le gira la testa. E lei vuole alzarsi. Più i giorni passano,
più il bisogno di alzarsi aumenta in modo esponenziale. Deve scappare da
quella casa prima che Joan la faccia impazzire, nel vero senso della parola.
Quando si avvicina il weekend e Lionel e Tony cenano a casa, come
oggi, non è poi tanto male. Joan ha altre persone a cui far sanguinare le
orecchie, altri pesci da intrappolare nella sua rete, o da cucinare. Sono i giorni
infrasettimanali che la preoccupano; giorni interminabili, vuoti e noiosi, in
cui la pensione è deserta come un cimitero. Tony e Lionel non ci sono e Joan,
non avendo altro da fare, si siede a parlare con lei. È una tortura
inimmaginabile.
Sente la porta d’ingresso chiudersi e sposta le gambe sul bordo del letto.
Ha bisogno di ricominciare a uscire, o meglio di uscire di casa entro l’inizio
della settimana. Ed è importante che discuta con Tony della necessità di avere
un posto tutto loro. Deve fuggire dal Donnybrook e, come coppia, adesso che
la strada intrapresa per via del bambino non ha più ragione d’essere percorsa,
hanno bisogno di una nuova destinazione, di altri obiettivi.
Afferra il pomello in ottone in fondo al letto e si tira su, poi aspetta che
arrivi l’attacco di nausea. Dopo una ventina di secondi, quando è passato,
mormora: «Non male». Sta cercando disperatamente di convincere se stessa
che si sta rimettendo. Si sente ancora le gambe molli, ma la nausea è meno
forte, più facile da sconfiggere, non è vero?
Si infila la vestaglia ed esce sul pianerottolo per raggiungere il bagno.
Dovrebbe usare la padella ma deve imporsi di fare dei progressi, anche se il
bagno è lo stesso in cui è successa quella cosa orribile.
Si siede sul water e legge di nuovo il tremendo quadretto, sforzandosi di
non pensare a quella sensazione, l’improvviso bisogno di spingere; cerca di
non ricordarsi il rumore e le sue grida; di non provare quel senso di vuoto
dentro di sé, un vuoto che testimonia in modo così definitivo, così
ineluttabile, che ha fallito nell’unica cosa per cui Tony ha voluto sposarla.
Forse, in effetti, neanche ha voluto. L’unica cosa per cui Tony l’ha sposata,
allora. Se solo lo avesse saputo, ha detto. E Barbara è piuttosto sicura di
sapere cosa intendeva con quella frase. Se solo lo avessero saputo, non
avrebbero mai dovuto imbarcarsi in questa stupida faccenda del matrimonio.
Ma sono sposati, quindi lei deve rimettersi in piedi e renderlo in qualche
modo orgoglioso di quel fatto.

Quando Barbara riapre gli occhi, è calata la sera e Diane sta entrando in
camera. Fra poco Tony sarà a casa. È il suo istinto a dirglielo, perché l’arrivo
di Diane precede quello di Tony come la notte precede il giorno.
«Ciao. Come ti senti?» le chiede Diane, sedendosi sul bordo del letto e
prendendole la mano. Il suo tocco è delicato, la sua pelle vellutata e liscia: un
contrasto sorprendente con il taglio di capelli da maschiaccio e le sopracciglia
folte, con la sua indole pragmatica e i suoi modi bruschi.
«Bene» dice Barbara, soffocando uno sbadiglio. «Ogni giorno un po’
meglio. Cosa ci fai qui?»
«Sono venuta a vedere come stai» dice Diane. «Ho pensato che avessi
voglia di compagnia.»
Quell’affermazione le provoca un’agitazione al petto, si sente confusa e
combattuta perché pensa che sarebbe molto bello se fosse vero, che sarebbe
un po’ troppo bello, bello a livelli esagerati, forse pericolosi. Ma non è vero.
Non è affatto vero. Quindi quella bugia le provoca dolore misto a piacere.
«A che ora torna Tony?» le chiede, puntando dritta alla verità, per
quanto il coraggio le permetta.
«Non lo so» risponde Diane, ma proprio mentre lo dice, il motore della
motocicletta di Tony che scoppietta giù in strada crea un sottofondo ironico
alle sue parole.
Barbara nota che Diane si accorge del rumore e vede lo sforzo che fa
per dare l’impressione di non essersene resa conto. Vede quanta fatica le
costa continuare a mostrare interesse verso quel momento, verso di lei. «Le
medicine stanno facendo effetto?» le chiede.
Barbara annuisce. «Un po’. Oggi sono riuscita a scendere al piano di
sotto. Solo per una tazza di tè. Ma non dirlo a Joan.»
«Certo che no» dice Diane, facendole l’occhiolino e stringendole la
mano, e quell’agitazione nel petto si manifesta di nuovo, solo che questa
volta Barbara toglie la mano. «Sembrerebbe che Tony sia arrivato» dice, ed
entrambe si fermano ad ascoltare la porta d’ingresso, poi la voce di Joan che
lo saluta. Tendono le orecchie per sentire il contenuto della sua risposta, ma
lui è troppo lontano e le onde sonore si perdono nelle scale, impedendo a
entrambe di cogliere qualunque cosa, a parte il suo tono di voce euforico.
Come se volesse confermare quell’euforia, Tony si fionda su per le
scale più veloce che può, compatibilmente con i suoi pesanti stivali da
motociclista. «Ciao!» grida, piombando nella stanza e portando con sé una
ventata d’aria fredda che si solleva dalla trama dei suoi vestiti. Tony grida
spesso quando rientra a casa; a suo dire la motocicletta lo rende sordo. Ha i
pantaloni di pelle da motociclista e una grossa giacca di tela cerata. Barbara
pensa che sia incredibilmente sexy quando indossa gli abiti da lavoro.
Vorrebbe tanto andare a letto con lui mentre è ancora vestito in quel modo,
ma non c’è un modo per dirglielo, e sa che non ci sarà mai.
Diane si alza e gli dà un bacio sulla guancia, arrivando a lui prima che
possa farlo lei. «È andato tutto bene a Londra?» gli chiede.
«Sì, io… In realtà, ho bisogno di parlare con Barbara» le risponde Tony,
e Barbara osserva Diane e vede che continua a sorridere, perfino mentre dal
suo sguardo trapelano tutta una serie di ragionamenti, tutto un miscuglio di
emozioni. «Certo» dice, con aria allegra. «Vi lascio soli.»
Tony chiude la porta dietro di lei e si volta verso Barbara. I suoi occhi
sembrano più azzurri che mai, hanno una sfumatura più fredda, folle.
Barbara si appoggia con la schiena al cuscino e gli sorride, aggrottando
allo stesso tempo le sopracciglia. «Cos’è successo?» gli chiede. «È successo
qualcosa?»
Tony si lecca le labbra e si siede sul letto nel punto esatto in cui era
seduta Diane solo pochi istanti prima. Anche lui le prende la mano e il
contatto è molto diverso. Le sue mani sono fredde e pesanti come due
bistecche uscite dal frigorifero di un macellaio. «In effetti qualcosa è
successo » dice. «E ho bisogno di parlarne con te.»
«Va bene» dice Barbara, notando che non l’ha ancora baciata e
temendo il peggio.
«Allora, non dobbiamo prendere una decisione subito. Perciò non
voglio che ti preoccupi, specialmente in questo momento, col fatto che sei
stanca e tutto il resto…»
«Okay.»
«Ma ho ricevuto un’offerta di lavoro.»
«Sul serio?»
«Ho dovuto portare un pacchetto a Londra. Erano dei rullini. Al Daily
Mirror. E il capo mi ha preso da parte e mi ha offerto un lavoro. Così, come
se niente fosse.»
«Il giornale Daily Mirror?»
«Sì. Fanno anche il Sunday Pictorial. Nello stesso posto. Per ora si
stratta solo di fare delle consegne. Come adesso. Ma la paga è il doppio.»
«Il doppio?»
Tony annuisce. «Quasi il doppio. Più o meno.»
«E devi fare le consegne come adesso?»
«Sì. In moto. Una migliore, credo. Ne ho viste alcune parcheggiate fuori
ed erano della BSA. C’erano un paio di Golden Flash nuove, quelle che
piacciono a me.»
«Sì, ma parlami del lavoro.»
«Come ti ho detto, in realtà si stratta solo di consegne… andare a
prendere i rullini dai giornalisti e portarli di corsa al giornale. Cose così.»
«È un’ottima notizia, non è vero?»
Tony annuisce e scrolla le spalle. «Credo di sì.»
«Potremmo affittare un appartamento tutto nostro» dice Barbara.
«Soprattutto se anche io trovassi un lavoro.»
«Non credo che ce ne sarebbe bisogno. Non con quello che
guadagnerei. Ha detto che sono nove sterline a settimana.»
«Non è che c’è un fregatura?» chiede Barbara. «Ho una strana
sensazione.»
«Non proprio» dice Tony. «Forse. Una specie. Credo. Dipende.»
«Cioè?»
«È a Londra.»
«Sì, me lo hai detto.»
«Tutti i viaggi sono da e per Londra. Quindi io dovrei essere fisso lì.»
«Oh.»
«Perciò dovremmo trasferirci.»

Dopo che Tony le ha (finalmente) dato un bacio e se n’è andato,


Barbara comincia a valutare i pro e i contro di tornare a Londra. Un posto
tutto per loro. Più soldi. Sfuggire a Joan. Essere al sicuro da Diane. Ma
Londra! Niente vista sul mare, niente gabbiani, niente brezza marina, niente
che abbia a che fare con il mare… Solo smog e sporcizia e la stessa gente
determinata, cupa, tenace con cui è cresciuta. Anche solo immaginarlo la
rende infelice.
Sente Diane al piano di sotto, che a quanto pare è stata aggiornata sulle
novità, alzare la voce. Scende dal letto, poi, nonostante le giri la testa, esce
dalla stanza per ascoltare cosa dice. Diane e Joan stanno parlando una sopra
l’altra. «Il doppio dei soldi non è un dettaglio da poco» sta dicendo Joan.
«Non è che voglio spingerti ad andartene, dico solo che non è un dettaglio da
poco, e a noi farebbe comodo una stanza in più, questo lo sai. Ma parlane
prima con tuo padre, lui…»
E contemporaneamente, c’è la voce di Diane. «… quello che vuoi…»
sta dicendo. «Ma pensa a tutti gli amici che hai qui. Pensa al fatto che a
Londra non conosci nessuno. Pensa a tutte le estati in spiaggia che ti perderai.
Guadagnare di più è una gran cosa, ma secondo me ciò che conta è essere
felici. E io penso che a Londra ti sentiresti solo come un cane.»
«Sarò con Barbara, no?» le dice Tony. «E lei conosce gente anche a
Londra.»
«Barbara?» dice Diane. «Credi davvero che questo ti basterebbe?»
E Barbara si rende conto che sa già, che lo sapeva anche prima che
quella questione venisse sollevata, cosa è necessario fare.
2012 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX

Sophie si siede sul minuscolo pianerottolo, appoggia la schiena contro


la ringhiera e dalla prima delle cinque scatole che ha portato giù per la scala,
tira fuori una busta trasparente contenente le fotografie.
Il pianerottolo non è di certo l’ideale per selezionare i lavori di suo
padre, ma Barbara ha fatto talmente tante storie sul fatto che riempirebbe di
polvere tutta la moquette nuova, che lei ha dovuto capitolare. Sua madre non
è mai stata una persona “facile”; ma invecchiando, le regole e i limiti che le
impone sembrano essere sempre più arbitrari, sempre più variegati e sempre
più difficili da sopportare. Ma sì, guarderà le foto lì sul pianerottolo, poi
rimetterà le scatole in soffitta e passerà l’aspirapolvere. E magari, portando a
compimento quei passaggi così come le è stato ordinato, otterrà
l’autorizzazione a ispezionare il contenuto di altre cinque scatole il prossimo
weekend, e di altre cinque il weekend successivo. E la speranza è, che
quando avrà passato in rassegna tutte e venticinque le scatole, avrà scovato
abbastanza gemme per un’esposizione.
Nel primo plico ci sono una serie di immagini banali decisamente
deludenti. Alcune sono interessanti da un punto di vista documentaristico: un
alimentari degli anni Cinquanta con le cassette di verdure impilate
all’esterno, un uomo su una vecchia motocicletta, un bambino con un paio di
pantaloni rigati alla zuava (ma i bambini si vestivano ancora così negli anni
Cinquanta?), ma in quelle foto non c’è nulla di artistico. Sono degli scatti.
Non sono in nessun modo le fotografie di un fotografo. Passa velocemente in
rassegna il resto del mucchio, poi rimette tutto nella busta di plastica e ne
prende un’altra che contiene stampe più grandi.
Queste sono più promettenti, in effetti qualcuna è di un livello che si
avvicina a ciò che sta cercando. Una, di un piccolo gruppo di fattorie in
mezzo a un grande campo di grano, sembra più il Midwest americano che
l’Inghilterra. Il cielo è particolare e davvero bellissimo, ma dalla foto manca
un angolo: essendo danneggiata, il suo valore dipenderà dal fatto che lei
riesca a trovare il negativo per ristamparla.
Nel plico successivo ci sono una serie di immagini che a Sophie
sembrano tentativi falliti di scatti artistici. Il dettaglio di un mattone su un
muro, una vasca da bagno arrugginita su cui sono cresciute delle erbacce, un
primo piano del gomito di qualcuno… Le ricordano le foto che faceva lei
quando aveva circa dieci anni. Forse sono le foto che ha fatto lei quando
aveva circa dieci anni. Quel ricordo, di quando usciva con suo padre a
scattare foto la domenica mattina, la coglie di sorpresa. Un muscolo dentro di
lei, vicino al cuore (o forse proprio il cuore) ha uno spasmo, e lei fa una
smorfia mentre si sforza di scacciare quell’immagine di suo padre dalla
mente e di trattenere le lacrime, che di colpo le stanno annebbiando gli occhi.
Con il mucchio successivo la fortuna bussa alla sua porta. Si tratta di
foto che raccontano in maniera aggressiva e diretta i primi anni Sessanta, e il
fatto che le abbia scattate suo padre la rende un po’ orgogliosa. Si percepisce
l’entusiasmo di una nuova era: uomini con abiti eleganti, donne vestite con
dei semplici tubini senza maniche. Una in particolare le ricorda un film. È la
sagoma di una donna con un’acconciatura ad alveare alla finestra di una casa
di nuova costruzione, che proietta ombre decise, taglienti, su un prato
immacolato. La fissa per qualche minuto prima che le venga in mente il
titolo. La fabbrica delle mogli sussurra, mettendo la foto da parte.
L’immagine successiva la fa addirittura sorridere. «Sììì!» dice. «Adesso ci
siamo, papà.» La foto mostra due donne in sovrappeso con dei vestiti a fiori
(forse due sorelle) su delle sdraio in una spiaggia di sassi. Accanto a ognuna
di loro c’è una carrozzina con telaio a balestra con tanto di ombrellino
parasole, e sullo sfondo, un molo. Non è Eastbourne, pensa. Forse Hastings?
«Ce ne sono di fantastiche, mamma!» grida eccitata.
Non ottiene risposta. Barbara dev’essere uscita.

Quando Sophie finisce di rovistare nelle cinque scatole, sta calando la


sera. È demotivata per il numero esiguo di granelli d’oro che è riuscita a
setacciare dal fango, e un po’ depressa per l’inevitabile melanconia di aver
passato una giornata piovosa a guardare i lavori di suo padre, che non c’è più.
Riporta le scatole in soffitta, piega la scala, la mette via, e comincia a girare
per casa finché non trova Barbara nella veranda bagnata dalla pioggia.
«Oddio, stai lavorando a maglia» dice.
«Eh sì» le risponde sua madre, senza alzare gli occhi.
«Non credo di averti mai visto lavorare a maglia.»
«È per il bambino» dice Barbara, e Sophie percepisce un tono di accusa
nella sua voce, l’accusa di non averle dato, nel suo ruolo di figlia, dei nipoti.
Analizza in fretta quella frase e si convince che se lo sta immaginando. È per
il bambino, ripete nella sua testa. Ha detto solo questo.
«È rosa» commenta.
«Sì.»
«Hanno saputo il sesso, per caso? Perché l’ultima volta che ho parlato
con Jon…»
«Lo farò a righe» dice Barbara, con un cenno con la testa allo schema
che sta seguendo sul tavolino.
Sophie lo guarda e vede l’immagine di un maschietto e di una
femminuccia con indosso lo stesso identico maglione a righe azzurre e rosa.
«Speriamo che non abbia problemi di identità di genere» dice. «Che il
maglione non lo faccia diventare gay o transessuale o niente del genere.» Ma
si rende conto, non appena ha finito di dirlo, che non è il tipo di umorismo
che sua madre è in grado di comprendere.
«Che sciocchezza» replica Barbara.
«Era una battuta, mamma.»
«Hai trovato qualcosa?»
«Non molto» ammette Sophie con un sospiro. «Sei foto.»
«Come pensavo.»
«Ho guardato solo nelle prime cinque scatole però. Ma a dire il vero,
saranno quasi tutte inutilizzabili se non trovo i negativi.»
«Fammele vedere.»
Sophie trascina il pouf accanto a sua madre e si siede. Barbara appoggia
i ferri, armeggia con gli occhiali bifocali attaccati alla catenella che ha al
collo e se li mette sul naso, poi prende le foto dalle mani della figlia.
«Ah, questa me la ricordo» dice subito. «Ero con lui.»
«Davvero?»
«Questa è Harlow. All’epoca era un paese nuovo. Non esisteva
nemmeno prima della guerra. Eravamo andati lì a vedere se riuscivamo a
trovare mio padre. Tony pensava che avremmo dovuto dirgli del matrimonio
e Harlow era l’indirizzo più recente che eravamo riusciti a trovare.»
«E?»
«E cosa?»
«L’avete trovato?»
Barbara scuote la testa. «In quella casa erano passate diverse famiglie
dopo di lui, e non avevano un suo recapito. La gente si spostava spesso dopo
la guerra, soprattutto i muratori. Andavano dove c’era lavoro.»
«E la donna? Quella alla finestra?»
«Non ne ho idea. Era solo una donna in una casa. L’ho notata io e tuo
padre ha fatto la foto.»
«Ho capito. Ma mi piace la storia che c’è dietro. La ricerca del nonno.»
Barbara si ricorda di qualcosa e arriccia il naso, poi passa la foto a
Sophie scoprendo l’immagine successiva, una fila di poliziotti con gli occhi
fuori dalle orbite e gli elmetti storti, che cercano di non far avanzare una folla
di donne.
«Un concerto dei Beatles» dice Barbara.
«Sul serio? Mi sembrava che fossero tutte un po’ isteriche.»
«Quella sta piangendo» dice Barbara, indicandone una. «Guarda. Si
riducevano in un tale stato. Io non sono mai riuscita a capirlo. Insomma,
Ringo era carino ma…»
«Perciò… di quand’è, metà anni Sessanta?»
«Del sessantatré, credo.»
«Dunque l’anno in cui è nato Jon.»
«Sì.»
«Avevano mandato papà a fare un servizio del concerto? Credi che ne
troverò delle altre?»
Barbara scuote la testa. «A quei tempi faceva ancora le consegne in
moto. Sarà stato mandato lì a ritirare dei rullini, presumo. Quelli del fotografo
che copriva l’evento. Ma aveva sempre con sé la sua macchina.»
«Se era il sessantatré, tu sarai stata a casa con Jon, giusto?»
«Non sono sicura se fosse prima o dopo. Ma era in quel periodo.»
«Be’, in ogni caso, sarai stata a casa con lui. Dentro o fuori dalla
pancia…»
«Suppongo di sì» dice Barbara, mentre passa all’immagine successiva.
«Pensi che troverò una scatola con i negativi prima o poi?»
«Non lo so. Non puoi usare queste?»
«Non se voglio realizzare delle stampe molto grandi» risponde Sophie.
«O almeno, non senza fare una scansione speciale e un gran lavoro di
restauro.»
«Saranno lassù da qualche parte.»
«Oh, sai Diane?» dice Sophie. «L’ho trovata su internet. A quanto pare
è in America, a Portland. Ha un sito di fotografia. Le ho mandato un’e-mail
ma non mi ha risposto.»
«Be’…»
«Ma l’ultimo aggiornamento della pagina web è del 2009.»
«Queste sono le uniche che ti sono piaciute?» le chiede Barbara,
rifiutandosi palesemente di affrontare l’argomento Diane.
«La maggior parte erano piuttosto banali.»
«Come ho detto, la cosa non mi sorprende.»
«Ma ho guardato solo nelle prime cinque scatole. Me ne restano altre
venti. Immagino che quelle buone siano tutte insieme da qualche parte.»
«Temo che potresti ricevere una delusione.»
«Mamma…» dice Sophie con tono lamentoso.
«Non ha fatto così tante belle foto come forse credi tu. Dico solo questo.
E quelle buone sono state usate. Tu le hai già viste quelle buone. Le hanno
viste tutti.»
«Non puoi mostrare almeno un briciolo di entusiasmo? È davvero
chiedere troppo?»
«Sto solo cercando di essere realista, tesoro.»
«E che mi dici del tour della Pentax? Se riuscissi a trovare quelle…»
«Non le troverai.»
«Ma se ci riuscissi, devono essercene centinaia. Era stato via mesi,
giusto?»
«Tre settimane. Ma non troverai neanche una foto di quel tour.»
«Tu come lo sai?»
«Lo so e basta.»
«Perché le hai bruciate?»
«Lo sai cos’è successo.»
«Ma potrei trovare i negativi.»
«No, invece.»
«Perché hai bruciato anche quelli?»
«Davvero non me lo ricordo, tesoro» dice Barbara, ripassandole le foto.
«Sono passati trent’anni.»
«Come fai a non ricordarti una cosa così?»
«Perché sono passati trent’anni!»
«Io invece penso che te lo ricordi perfettamente» dice Sophie,
consapevole del fatto che si sta lasciando trasportare, che sta per dire l’unica
cosa che si era ripromessa di non dire, tuttavia incapace di trattenersi
dall’azionare il detonatore. «Penso che ti vergogni troppo per ammettere di
aver bruciato il lavoro più consistente che uno dei migliori fotografi
britannici abbia mai fatto.»
«Sì!» dice Barbara arrabbiata. «Sì, hai ragione. È probabile che mi
vergogni. E sì, è probabile che li abbia bruciati!»
«Ma perché, mamma? Come hai potuto farlo? Insomma, so che eri…»
Barbara si alza.
«Mamma. Non andartene così. Non ti stavo accusando.»
Barbara va verso la porta, poi si ferma, con la mano sullo stipite. «Lui
per me non era un fotografo, Sophie» dice. «Era mio marito! Ed era appena
morto! Era andato in Francia per fare delle foto ed è tornato in una bara. Ora,
non mi aspetto che tu possa avere la minima idea di cosa si provi ma…»
«Mi dispiace» dice Sophie, riuscendo finalmente a controllare il tono di
voce e a sembrare dispiaciuta. «Voglio solo capire. Di sicuro il fatto di averlo
perso avrebbe dovuto essere un motivo in più per voler tenere le sue foto,
no?»
«Avrebbe dovuto? Come ti permetti di dirmi come avrei dovuto
sentirmi quando mio marito era appena morto?»
«Poteva, allora» dice Sophie.
«Credo che adesso dovresti andartene» dice Barbara, mentre si volta e
scompare nel buio della casa.
Sophie sbuffa, poi si alza, infila le sei foto in una busta e segue sua
madre. La trova in cima alle scale che sta passando la scopa elettrica.
«Lascia. Faccio io. Ti avevo detto che lo avrei fatto.»
«Vai a casa, per favore.»
«Mamma, non stavo…»
«Oggi sei molto astiosa. È già abbastanza difficile vederti frugare tra
tutta quella roba, ma che tu ti metta a sputare sentenze su cose che sono
successe trent’anni fa, cose di cui non sai niente…»
«Mamma, io so perfettamente quello che hai passato, ma…»
«Voi giovani, pensate di sapere tutto, ma non sapete niente, Sophie,
niente.»
«Mamma, credo che tu stia un po’…»
«Non pensare di sapere quali battaglie ho dovuto affrontare per arrivare
dove sono oggi.»
«Battaglie? Adesso stai davvero facendo la tragica, mamma.»
«Non pensare di poter neanche lontanamente immaginare quali
sofferenze abbiamo dovuto patire, quali segreti abbiamo dovuto
nascondere… Tu pensi di sapere tutto, ma non sai niente.»
«Io conosco te, mamma. E so quando ti crogioli
nell’autocommiserazione.»
«Come ti permetti! Tu non mi conosci. Non conosci nessuno. Perché
questa è la vita. È pensare di sapere tutto, di conoscere tutti, per poi scoprire,
con l’avanzare degli anni, che non era così. Che non avevi capito niente. Ah,
un giorno te ne accorgerai!»
«Mamma, adesso calmati. Stavo solo dicendo…»
«E non dirmi di calmarmi. Vai via, per favore. Vattene!»
«Ma mamma, io…»
«Vattene!» grida Barbara. Dà un colpo con il piede alla scopa elettrica
che si accende con un ruggito, e Sophie, che sa riconoscere quando perde,
torna nell’ingresso e prende il cappotto.

Sophie si siede in un vagone e osserva la stazione di Eastbourne


scivolare via dal finestrino. Ritiene ci sia qualcosa di simile ai sogni, nei
viaggi in treno. Le sembra di sognare se stessa seduta su un treno.
Due ragazze in sovrappeso, con una tuta rosa e un piercing all’ombelico
in bella vista piombano nel vagone, masticando un chewing-gum, parlando a
voce alta e dando spettacolo, intenzionate a dare modo a tutti di beneficiare
dei loro ragionamenti arguti.
«… diglielo e basta, cazzo» sta dicendo una. «Digli che non ti piace e
basta, cazzo.»
«Vabbe’» dice l’amica/sorella/cugina. «Mi sa che prima me lo scopo. È
da quando Wayne mi ha lasciato per quella troia di Denise che non mi faccio
una scopata.»
Sophie prega che le ragazze continuino a camminare, invece una di loro
indica due posti dall’altra parte del corridoio all’altezza di dove è seduta lei, e
dice: «Qui?».
Sophie aspetta finché non arrivano a una stazione chiamata Polegate,
dove ha visto molte ragazze come quelle salire e scendere; ma quando, con la
stazione di Polegate che si allontana dietro di loro, una delle due fa partire
una canzone sul suo cellulare (di Rihanna forse?), ci rinuncia. L’immagine di
Sophie su un treno, che le sembrava un sogno, è andata in frantumi. Si è
trasformata in un incubo. Perciò aspetta la fermata successiva, a Lewes (non
deve far sapere alle ragazze che hanno vinto loro), e poi si sposta nel vagone
accanto e si siede davanti a un uomo con un fisico incredibile, che indossa
una camicia bianca immacolata e la cravatta. Purtroppo lui le lancia a
malapena uno sguardo prima di rimettersi a fare le parole crociate.
Circondata finalmente dal silenzio, si mette a pensare a sua madre.
Certo, lei non avrebbe dovuto sollevare il discorso del tour della Pentax. Il
tour della Pentax, così come qualche altro argomento (ovvero suo nonno
sparito dopo la guerra) non devono mai essere toccati. È una regola non detta,
una cosa che sanno fin da quando erano bambini. Forse è un’informazione
scritta nel loro DNA.
E lei sapeva a cosa andava incontro, si era ripromessa di non
menzionarlo, almeno finché non avesse finito di controllare l’archivio. Allora
perché, si chiede mentre lancia un’occhiatina alle cosce muscolose di
quell’uomo, lo ha fatto? Perché deve sempre svegliare il can che dorme?
Certo, una parte di ragione ce l’ha. Se esistessero anche solo i negativi
di quel tour, già così avrebbe materiale a sufficienza per giustificare tutta
l’esposizione.
Prova solo a immaginare! Un’intera raccolta di lavori mai visti. Le
prime (e ultime) foto che uno dei più famosi fotografi britannici abbia mai
scattato fuori dai confini nazionali, alcune forse addirittura nel giorno della
sua morte. Non per essere macabri, ma potrebbero rivelarsi l’anima della
retrospettiva. Il Marsden nascosto, pensa. I pezzi mancanti di Marsden,
magari. Marsden: l’ultimo saluto.
E se invece sua madre stesse dicendo la verità? Se non ci fosse traccia
dell’esistenza di quel tour? Se avesse davvero bruciato tutti i negativi? Ma
anche in quel caso, Sophie ritiene di avere il diritto di sapere come stanno le
cose. Sua madre potrebbe almeno raccontarle, una volta per tutte, cos’è
successo.
E adesso l’ha fatta arrabbiare e questa situazione durerà finché lei non si
scuserà, finché non si pentirà e si metterà a strisciare. Quello che ha appena
fatto le costerà caro, e lo sa. Sua madre può tenere il broncio per anni, se
necessario. Tutto questo potrebbe anche impedirle di avere accesso al resto
delle scatole. Deve portare Jon dalla sua parte. A lui Barbara dà retta. Jon la
farà calmare.
Oddio! Jon! Sua madre proverà subito a chiamarlo e se lei non la
precede… Tira fuori il cellulare dalla tasca e seleziona il nome del fratello
dalla lista dei contatti.
«Ciao, Sophie» dice Jon, rispondendo quasi all’istante. «Sono sull’altra
linea. Ti richiamo.»
«È la mamma?»
«Sì, è la mamma.»
«Ma io ho bisogno di parlarti, Jon.»
«Me lo immagino. Ti richiamo.»
Accidenti! Sophie si passa una mano sulla faccia e grugnisce, inducendo
il tizio con il giornale ad alzare gli occhi verso di lei. «Scusi» mormora.
Lui accenna un sorriso e scrolla le spalle, poi riabbassa lo sguardo sul
giornale, e Sophie ne approfitta per dargli un’altra sbirciatina, questa volta
più lunga. C’è qualcosa di incredibilmente sexy nel candore inamidato della
sua camicia, nella cravatta grigia di seta… qualcosa nel modo in cui i vestiti
gli avvolgono il corpo, nel modo in cui il polso spunta dai polsini doppi. Di
sicuro va spesso in palestra, pensa. È per questo che ha quel fisico. Potrebbe
fare il modello.
Le viene in mente che frequenta Brett e si sente in colpa, perciò si
impone di distogliere lo sguardo, di pensare invece al fatto che sua madre, in
quel momento, è al telefono con Jon.
Ha usato il suo tono di voce speciale, da fratello maggiore, un tono che
dice: Lo so che ci stai provando, sorellina. So che anche la mamma ci sta
provando, ma so che tu ci provi di più. Però io devo, come sempre, fare la
parte di quello ragionevole in mezzo al vostro dramma superfluo e
autoinflitto, perché sono il fratello maggiore. Sono quello con la testa sulle
spalle. Tutto questo conteneva il suo tono di voce e Sophie è piuttosto sicura
di non esserselo immaginato.
Jon prima era diverso. Da bambino era spericolato e aveva una gran
faccia tosta. Nessuno andava più veloce di lui sui pattini. Nessuno si
arrampicava più in alto o si sbucciava le ginocchia più spesso di lui. Da
ragazzino, nessuno riusciva a essere più insolente di lui, e lo faceva in un
modo così arguto, così arguto e sottile, che non ti rendevi conto di ciò che era
successo finché non era tutto finito. E persino allora, non sapevi se ridere o
piangere.
Ma è cambiato da quando ha conosciuto Judy. Judy la sorridente, la
superficiale, la manipolatrice senza talento.
Non è che Sophie abbia qualche ragione particolare per avercela con
Judy, è sempre stata più che gentile con lei. È ciò che ha fatto a Jon che non
riesce a sopportare, la maniera in cui se lo rigira, il fatto che non dica mai ciò
che vuole (passando così per quella a cui va bene tutto) e allo stesso tempo,
con una guerra di basso profilo, discreta, che non lascia scampo, ottenga
sempre esattamente ciò che desidera. «Credi che sia una buona idea mangiare
così tanti latticini?» aveva iniziato a dirgli. «Un altro yogurt? Sul serio?
Okay… be’, fai pure!» «Sei sicuro di non voler provare la soya nel tè?» gli
chiedeva sempre. E solo sei mesi dopo, Jonathan aveva annunciato che era
diventato vegano, e Sophie sapeva che non era successo perché lui voleva
essere vegano né perché credeva nel veganismo. Semplicemente essere
vegano era molto meno faticoso di sentire dalla mattina alla sera Judy che lo
martoriava parlando dei latticini.
E poi c’è l’“arte” di Judy. Jon aveva relativamente buon gusto finché
non si era messo con lei. Sophie sa che lui aveva odiato i suoi orribili quadri
la prima volta che li aveva visti. Lo sa perché era stato lui a dirglielo dopo la
loro primissima uscita. «L’unica cosa che potrebbe creare delle difficoltà, è
che pensa di essere una pittrice» le aveva confidato. «Ma non lo è proprio.»
Judy si riteneva davvero una pittrice e, tanto per cambiare, le
convinzioni di Jon si sono dimostrate la cosa più malleabile del mondo.
Adesso sostiene di credere in lei come artista e nega di aver mai detto il
contrario. «No» dice. «No, la sua arte è una delle cose di lei che mi ha
colpito. Nella maniera più assoluta.» Crede in lei al punto da non avere niente
in contrario rispetto al fatto che lei abbia lasciato il suo lavoro per poter
“dipingere”. Al punto da prestarle i soldi per le sue mostre e pagare per
l’incorniciatura dei suoi quadri. E al punto da aspettarsi che gli amici e la
famiglia presenzino alle sue imbarazzanti esposizioni private da principiante
(l’orrore!), da aspettarsi che Sophie guardi quella che sembra merda su tela e
la riempia di complimenti.
Sophie non riesce a capire se il vero Jon si stia nascondendo da qualche
parte dentro di lui, in attesa che la Psicopolizia svanisca per uscire allo
scoperto, o se Judy sia riuscita ad annientarlo definitivamente. Forse lei non
rivedrà mai più Jon. Forse deve solo abituarsi a quell’idea.
Le squilla il cellulare, perciò lancia un’occhiata al ragazzo carino,
scrolla le spalle in segno di scusa e risponde.
«Oh, complimenti» dice Jon. «Questa volta l’hai fatta grossa.»
«Io…»
«Pensavo che volessi l’aiuto di mamma per l’esposizione.»
«Il suo aiuto? Be’, questo sì che sarebbe bello.»
«Tutti i lavori di papà sono nella sua soffitta. Come pensi di metterci le
mani se non la tieni dalla tua parte? So che per te non è facile, ma in teoria
dovresti trattarla bene.»
«Non è che l’abbia trattata male, Jon. Lo sai com’è fatta. Stavo solo
cercando di scoprire se le foto della Pentax erano…»
«Pensi mai a qualcun altro a parte te stessa?» la interrompe.
«Questo non è giusto. Io sto facendo questa cosa per tutti noi. E per
papà.»
«Non è vero. Lo stai facendo per te. Ma non è questo il punto, Sophie. Il
punto è che lui è morto durante quel tour. È morto, quindi prova a pensare
come dev’essersi sentita la mamma. Prova a immaginare come si è sentita
sapendo che quel tour le ha portato via le ultime tre settimane della sua vita.»
«Ma io…»
«Non ho finito» dice Jon. Non aver finito è una delle sue specialità.
Sophie alza gli occhi al cielo.
«Come pensi che si sia sentita la mamma non avendo potuto dirgli
addio? Queste sono cose dolorose, Sophie. È doloroso per la mamma ed è
doloroso per me. Quelle scatole sono tutto quello che ci è rimasto di lui, e tu
le porti giù dalla soffitta e sparpagli tutto sul pavimento creando una gran
confusione, e poi quando te ne vai lasci tutto in disordine.»
«Non ho lasciato in disordine e se è questo che dice la mamma…»
«La mamma non ha detto niente. Ma me lo immagino.»
«Dai, Jon. Una gran confusione? E queste non sarebbero parole della
mamma?»
«Lei non ha detto niente.»
«Sì, invece.»
«Comunque, non ha importanza» dice. «Il punto è…»
«Sì che ce l’ha. Perché mente per metterti contro di me. Adesso le
telefono e…»
«Tu non le telefonerai» dice Jon. Il tono da fratello maggiore è tornato,
ed è un tono a cui Sophie fa un’incredibile fatica a resistere. «Tu te ne starai
buona e poi il mese prossimo verrai qui a cena così sistemeremo tutto.»
«Mi dispiace, Jon, ma io non voglio venire a cena e non voglio aspettare
un mese. Io voglio guardare le fotografie di mio padre che sono nella soffitta
della mamma.»
«Fidati. Il modo migliore per assicurarsi che ciò accada è se tu vieni qui
e facciamo una bella cena di famiglia tutti insieme, da persone civili. Sai
come funziona, Soph. Sai come funziona con la mamma.»
Sophie sospira a fondo. «Se lo faccio, tu mi sosterrai? Starai dalla mia
parte?»
«Dalla tua parte? Questa non è una guerra. E se è così che la pensi
allora devi…»
«Riguardo all’esposizione. Mi sosterrai? Le dirai che è una buona idea?
Che pensi che dovrebbe aiutarmi?»
«Forse.»
«Forse?»
«Onestamente non sono sicuro che sia una buona idea.»
«Davvero?»
«Davvero.»
«Perché?»
«Non lo so.»
«No, sentiamo. Perché non sarebbe una buona idea?»
«Non lo so. È solo una sensazione. Un’intuizione.»
«Un’intuizione?» ripete Sophie. Perché se dietro alle parole una gran
confusione c’era la chiara firma di sua madre, intuizione può essere solo una
cosa che ha detto Judy, un sospetto confermato dalla sua frase successiva.
«Noi pensiamo solo che andrai incontro a una delusione» dice.
«Pensiamo solo che è meglio lasciare certe cose come stanno.»
«Quali cose è meglio lasciare come stanno?»
«Non lo so.»
«Non lo sai?»
«No.»
«Capisco» dice Sophie, a questo punto arrabbiata quasi quanto lo era
quando se n’è andata da casa della madre. «E comunque, noi chi?» Ha
sempre odiato il “noi” di Jon. Le è sempre sembrato molto meno personale,
molto meno onesto di “io”.
«Noi?»
«Hai detto: “Noi pensiamo”.»
«Oh, io e Judy.»
«E Judy ha un’opinione riguardo a questa cosa perché…?»
«Lei è nel mondo dell’arte, Sophie» dice Jonathan. «Sa come
funzionano queste cose.»
Sophie rimane a bocca aperta. Assume un’espressione sbalordita, senza
trattenersi perché tanto Jonathan non può vederla.
«Sophie?» la chiama.
Ma Sophie è senza parole. O meglio, niente di ciò che le viene in mente
sarebbe ammissibile, e per una volta riesce a mordersi la lingua.
«Sophie?» dice Jonathan. «Mi senti?»
E questo le suggerisce un’idea. Dopotutto, lei è in treno.
«Jonathan?» finge.
«Sì?»
«Jonathan?»
«Sì, sono qui.»
«Jonathan. Oh, guarda, sono in treno. Non so tu, ma io non ti sento. Ti
richiamo dopo da un telefono fisso.»
Interrompe la comunicazione e lancia un’altra occhiata al tizio davanti a
lei. Si sta passando il dito bellissimo e curato intorno alle labbra mentre
osserva il cruciverba.
In quel momento il treno fa una curva, e un breve raggio di sole
attraversa il vagone; la peluria bionda sul dorso della sua mano brilla sotto la
luce e i suoi gemelli di diamante mandano dei piccoli segnali morse color
arcobaleno. Sophie s’immagina di essere seduta sulle sue gambe e di
accarezzargli il petto, di far scivolare le braccia intorno al colletto
immacolato. S’immagina quelle splendide mani che le slacciano la camicia.
Si domanda se Brett sia a casa. Non le dispiacerebbe farsi una scopata. Sì, è
ciò di cui ha bisogno.
1954 — PECKHAM, LONDRA

«Oh, ciao» dice Barbara, giocherellando con una ciocca di capelli che
continua a caderle davanti agli occhi. «Oddio. Stavo lavorando… Entra,
entra!»
Diane è sulla porta del loro minuscolo bilocale, ha un bell’aspetto,
rilassato, in tenuta estiva con un vestito a pieghe scollato sulla schiena.
Barbara, che indossa una gonna e un maglione, e ha i capelli legati in una
coda di cavallo, si sente sciatta, trasandata e in disordine.
«Scusa la confusione» le dice, lanciando un’occhiata nervosa alle pile di
vestiti in varie fasi di lavorazione in giro per la stanza. «Ma come ti ho
detto…»
«Non importa» dice Diane. «Dovresti vedere casa mia!»
«E non so quando tornerà Tony.»
«Non importa neanche questo» dice Diane. «Sono venuta a trovare te!»
Barbara sente che sta arrossendo e si odia per questo.
«Come stai?» le chiede Diane. «Come ti trovi a Londra?»
Barbara nel frattempo si è messa a girare per la stanza, sta raccogliendo
le varie pile di tessuti per sovrapporle in un unico mucchio che poi dovrà
riseparare quando Diane sarà andata via. «Sto bene» dice. «Ho un po’ la
sensazione di essermi trasformata in mia madre, ma a parte questo…»
«Perché?»
«Oh, per via di tutto questa roba» dice, gesticolando con il braccio per
indicare la piccola stanza buia, le pile di vestiti, la macchina da cucire, i
pezzettini di filo che si attaccano a ogni cosa come peli di cane.
Diane passa una mano sul velluto della poltrona per togliere i pelucchi
prima di chiederle: «Posso?».
«Ma certo! Certo! Prego. Siediti.»
«Però dev’essere bello poter lavorare da casa, no?» le dice, ma lo fa
dalla prospettiva di qualcuno che va al college, qualcuno che sembra non
dover lavorare affatto, e Barbara ha difficoltà a credere che possa essere
un’opinione sincera.
Diane si allarga il vestito e si siede incrociando le gambe. A Barbara
sembra che abbia perso parecchio peso nell’ultimo anno, e ultimamente si
trucca anche di più. Se solo facesse qualcosa alle sopracciglia,
assomiglierebbe molto a Suzy Parker. «Che bel vestito» le dice Barbara.
«Però è un bel cambiamento rispetto al solito, no?»
«Lo so!» risponde Diane. «È bellissimo, non è vero? È della mia
compagna di stanza. I suoi hanno un negozio di abbigliamento a Oxford e lei
ha così tanti vestiti che non sa che farsene. Per fortuna abbiamo la stessa
identica taglia.»
«Eh, sì, davvero una fortuna» dice Barbara. «Allora, come va il college?
Ti piace studiare arte?»
«È molto più faticoso di quanto mi aspettassi» dice Diane. «Questo è
certo.»
«Davvero?»
Diane annuisce. «Ricerche, libri da leggere, lezioni di disegno dal vero,
tesine…»
«Sei coraggiosa» dice Barbara. «Io non saprei da che parte cominciare.»
«La mia compagna di stanza mi aiuta. Lei è al secondo anno, perciò
quando sono in difficoltà posso chiedere a lei.»
«Sembra la compagna di stanza perfetta» dice Barbara.
«Lo è. Marie è fantastica.» Diane le rivolge un gran sorriso e osserva la
stanza, e Barbara, immaginandosi di vedere la scena con i suoi occhi, si sente
un po’ in imbarazzo, poi, senza capire di preciso perché, prova un po’ di
rabbia all’idea che Diane se ne vada in giro per il college indossando vestiti
di marca mentre lei se ne sta seduta in un appartamento poco più grande di un
monolocale a cucire maniche tutto il giorno. Si domanda come sia successo.
Si domanda dove abbia sbagliato.
«E Tony come sta?» le chiede Diane.
«Bene. In realtà in questo periodo è un po’ stanco e di cattivo umore,
ma non dirgli che te l’ho detto.»
«A volte lui è un po’ così. Lo so.»
«Di recente ha dovuto fare dei viaggi molto lunghi. Lunedì è andato a
Manchester, e ieri nel Dorset, poi oggi di nuovo a Manchester. Credo che si
aspettasse di spostarsi di meno, di restare più nei dintorni di Londra.»
«Cos’è andato a fare a Manchester?»
Barbara scrolla le spalle. «A ritirare un pacco, immagino. O a portarlo.
Non so nemmeno cosa contengano. Non sono neanche sicura che Tony lo
sappia. Ma è tutta roba per il giornale. Rullini, stampe, cose così. In effetti,
mi sa che è arrivato. Che fortuna.»
La porta dell’appartamento si apre con un cigolio, Tony entra a passo
pesante nella stanza, si toglie il casco, poi i guanti. Sposta lo sguardo da
Barbara a Diane un paio di volte, poi dice: «Che sorpresa. Cosa ci fai qui,
Diane?».
C’è qualcosa di finto nel tono della sua voce, nello specifico qualcosa
nel modo in cui ha pronunciato il suo nome che dà a Barbara motivo di
pensare, per un istante, che sia tutto organizzato.
«Ho pensato di passare di qui. Com’è andata a Manchester?» gli chiede
Diane. Se stanno mentendo, lei è molto più brava di Tony.
«Pioveva» dice Tony. «Piove sempre a Manchester. Per fortuna nel
viaggio di ritorno è uscito il sole, quindi mi sono asciugato.»
«Preparo la cena?» propone Barbara. «Ti fermi a mangiare con noi?»
«Ma certo che si ferma» dice Tony. «E poi usciamo a bere qualcosa,
vero? C’è un pub molto carino in fondo alla strada.»
«Sicura, Barbara?» chiede Diane. «Sicura che non ti crei problemi?»
E Barbara vorrebbe rispondere che non le crea assolutamente nessun
problema se si ferma per cena, ma che preferirebbe davvero non uscire a bere
dopo. È stanca. E le secca il fatto che basti la presenza di Diane perché Tony,
all’improvviso, abbia i soldi e il tempo di uscire. A lei non la porta a bere
qualcosa da mesi. «Per una frittata e delle patatine fritte…» dice.
«Hai abbastanza?»
Annuisce. «Ne ho prese sei stamattina.»
«D’accordo, allora» dice Diane, sorridendole. «Grazie. Mia madre dice
che a Eastbourne si fa molta fatica a trovarle.»
«Le uova?»
«Lo dice anche mia madre» concorda Tony.
«È perché non sono più razionate» spiega Barbara. «Quindi stanno tutti
impazzendo un po’. Ma a Londra si riescono a trovare più o meno ovunque.
Bisogna solo andarci la mattina presto.»
Toglie l’ultimo mucchio di maniche dal tavolo e lo aggiunge a quello
barcollante nell’angolo, poi va in fondo alla stanza, dove c’è la cucina, e
accende la piastra. Mentre comincia a pelare e tagliare le patate, ascolta Tony
e Diane che parlano dietro di lei e prova un po’ di gelosia per l’intimità
immediata che si è creata, e per come il tono della conversazione sia
cambiato non appena li ha lasciati soli.
«Prima sono stata a una mostra» gli sta dicendo Diane. Eccone un
chiaro esempio. Perché Diane avrebbe potuto benissimo dire a lei della
mostra se avesse voluto.
«Del Canaletto» continua. «Era veneziano, perciò c’erano tutti questi
bellissimi quadri di Venezia e dei canali… cieli incredibili e riflessi
sull’acqua.»
«Ho visto un fotoreportage di Venezia sul Sunday Post» interviene
Barbara, senza voltarsi. «Dev’essere bellissima. Mi piacerebbe tanto
andarci.»
«Sì» dice Diane. «Sono sicura che sia fantastica.» Poi, rivolgendosi a
Tony, prosegue: «Gli piaceva dipingere all’aperto, mentre la maggior parte
dei pittori lavorava in studio. Dicono sia per questo che i suoi lavori danno la
sensazione di essere molto più reali. Che c’è molta più luce nei suoi quadri.»
«Sembra molto interessante» dice Tony.
«Lo è. Dovresti portarci Barbara. È al British Museum.»
«Non abbiamo molto tempo per le mostre, vero Babs?»
«No» ride Barbara. «Non molto.»
«Io non ho molto tempo per fare viaggi in giornata a Manchester» dice
Diane. «Almeno tu vai in giro. E vedi il resto del paese. Io non sono mai stata
al nord.»
«Immagino di sì» dice Tony, dubbioso.
«E devo scrivere cinquemila parole sul Canaletto entro venerdì»
aggiunge Diane. «Quindi…»
«Cinquemila?» chiede Barbara. «E quante pagine sono?»
«Una ventina, credo» risponde Diane.
«E cosa scriverai?»
«Non lo so ancora. Pensavo di consultare qualche libro in biblioteca per
vedere cosa dicono e di prendere spunto da lì.»
«Ma allora ti piace il college?» le chiede Tony, facendo un verso mentre
si toglie a fatica gli stivali. «Scusa se mi puzzano i piedi.»
«No, non puzzano» dice Diane. «E sì. Il college è fantastico. Tutt’altra
cosa rispetto alla scuola.»
«Bene.»
«Ti trattano molto più come un adulto. E la gente è più divertente, più
interessante. Ma si lavora anche sodo. Devo fare un mucchio di cose in cui
non sono molto brava.»
«Ad esempio?»
«Ad esempio disegnare e…»
«Tu sei brava a disegnare» dice Tony.
«Be’, lo pensavo anch’io finché non ho visto gli altri. E dipingere
paesaggi. Odio i colori a olio. Sono impossibili da usare. E poi devo scrivere.
In quello sono negata. Ed essendo una ragazza, mi sento gli occhi puntati
addosso.»
«Quindi sei l’unica ragazza?»
«No. Nel mio corso siamo in due. E venti ragazzi.»
«Che mi dici della fotografia?» le chiede Tony.
«Alla St. Martin’s la fotografia non è molto considerata. Non la
ritengono una vera arte, credo.»
«In effetti non lo fa nessuno. È un peccato.»
«In America sì, a quanto pare. Se non altro un po’. E di te che mi dici?
Continui a fare foto?»
«Sì» risponde Tony. «Sì, ne sto facendo parecchie.»
Barbara fa una smorfia e si chiede come sia possibile che questo lei non
lo sappia; magari non è vero, magari Tony se lo è inventato, a dimostrazione
del fatto che davanti all’evoluzione artistica di Diane si sente insicuro quanto
lei. «Te ne faccio vedere qualcuna» dice Tony. Barbara smette di pelare le
patate e si volta per controllare dove Tony tenga queste foto di cui lei non ha
mai sentito parlare. Lui prende una cartelletta da dietro la credenza. «Ma sto
avendo problemi con la fotocamera» dice. «Continua a bloccarsi.»
«A bloccarsi?»
«Sì. La manopola per far avanzare la pellicola non gira.»
«Fammi vedere» dice Diane, perciò Tony tira fuori la vecchia Rolleiflex
dalla sua borsa da sella.
«Oh, sì, è proprio bloccata» dice Diane. «In realtà servirebbe una
camera oscura. Quanto sono spesse quelle tende?»
«Non molto» risponde Tony. «Forse è meglio in camera da letto.»
Barbara lancia un’occhiata dietro di sé e li vede sparire. Mentre, senza
sapere il perché, le monta ancora di più la rabbia, continua a pelare le patate,
facendole cadere con violenza nello scolapasta, ma quando li sente
ridacchiare in camera, non ne può più. Si asciuga le mani su un canovaccio e
si avvicina all’arco tra la camera da letto e il soggiorno. Le tende sono state
chiuse ma c’è abbastanza luce per vedere cosa succede. Tony e Diane sono in
ginocchio di fianco al letto, con la testa sotto la trapunta.
«Ecco» sta dicendo Diane, piano. «Senti qui. C’è un po’ di carta o di
pellicola incastrata negli ingranaggi.»
«Io non sento niente.»
«Qui. A sinistra della rotella. Dammi la mano.»
Tony si mette a ridere.
«Ecco, senti?» dice Diane.
«Ah, sì… Credo… sì.»
«Oddio, hai le mani gelate» dice Diane.
«È perché ero in moto.»
«Comunque, ti serve una spilla, o una cosa così. O un ago. Così
possiamo tirarlo fuori.»
«Magari se volete ve lo do io!» dice Barbara a voce alta, e vede con
soddisfazione che la vicinanza della sua voce fa saltare sia Diane sia Tony.
Tony esce da sotto la trapunta con la faccia tutta rossa.
«Ehm, sì. Magari, ehm, tesoro» dice.

Dopo aver aggiustato la macchina fotografica e aver mangiato, Tony


mostra a Diane (e per casualità, a Barbara) le sue foto. Sono scatti di edifici
fatti di mattoni e di ringhiere arrugginite, di gente anonima in coda alla
fermata dell’autobus, di uomini con addosso cartelli pubblicitari per
reclamizzare l’Evening Standard, di cani randagi che frugano nelle
pattumiere a Salford… La verità è che Barbara non capisce quelle foto. Non
riesce a vedere il senso di fotografare quelle cose, né riesce a immaginare chi
potrebbe volerle guardare. Di sicuro lei non ne vorrebbe nessuna sulle sue
pareti.
Diane, dal canto suo, le definisce non male anche se mancano un po’ di
intensità o magnetismo, qualunque cosa voglia dire. Promette di portare a
Tony dei libri dalla biblioteca che, dice, lo ispireranno.
E poi Tony chiede a Barbara se viene al pub con loro e lei risponde di
no, che pensa di no, e un attimo dopo, senza fare una piega, se ne sono andati.
Barbara li osserva dalla finestra mentre percorrono la strada poco
illuminata, finché non scompaiono oltre la pozza di luce emanata dal
lampione. Si domanda perché si sia rifiutata di andare con loro. Ha a che
vedere con il fatto che Tony glielo ha chiesto, che non ha dato per scontato
che ci sarebbe andata, facendo sembrare la sua presenza marginale in un
modo che lei non aveva nemmeno immaginato possibile, e per questo lei si è
sentita insultata e in dovere di rifiutare per sottolineare il suo scontento.
Sebbene non sia sicura che qualcuno lo abbia notato.
Sono usciti da meno di cinque minuti e lei si sta già pentendo della sua
decisione, anzi, sta iniziando a pensare che sia una delle decisioni più stupide
che abbia mai preso, che forse è stata manipolata per reagire esattamente così.
Se avesse la minima idea di qual è il pub in cui stanno andando, correrebbe a
raggiungerli subito. Ma non lo sa, e per qualche strana ragione, le piace
sentirsi nel giusto, sentirsi arrabbiata.
Inizia a lavare (con furia) i piatti e, una volta finito, rimetterà in ordine
l’appartamento, e finito quello, si siederà ad aspettare l’orario di chiusura dei
pub, e a quel punto osserverà dalla finestra i numerosi ubriachi barcollare per
la strada. E cercherà di decidere se sperare che Tony sia uno di loro, o che
non lo sia.
2012 — GUILFORD, SURREY

«Per favore, non sbuffare in quel modo. Lo sai quanto mi fa sentire in


colpa questa cosa.»
Jonathan, che sta togliendo le lische da un trancio di salmone con un
paio di pinzette, si tira su, poi si volta a guardare Judy che è comparsa (con
espressione sofferta) sulla porta.
«Non mi ero reso conto di aver sbuffato» dice.
«Be’, lo hai fatto. Era quel tuo modo speciale di sbuffare che significa
che rottura di scatole dover fare tutto da solo.»
«Davvero, no» ribatte Jonathan. «Era un modo speciale di sbuffare che
voleva significare chiunque abbia scritto questa ricetta non ha mai provato a
togliere le lische da un salmone crudo.» Ogni discussione che ha con Judy,
dalla prima all’ultima, nasce per qualcosa che lui non dice, ma che secondo
lei intendeva dire. È fortemente convinta che qualunque affermazione fatta
tanto per fare debba essere stata ideata con uno scopo preciso, come se le
frasi fossero missili da crociera, come se i sospiri fossero droni da
combattimento.
«Mi hai comunque fatto sentire in colpa» dice Judy.
«Se è così, scusami» dice Jonathan, appoggiando le pinzette e
avvicinandosi a sua moglie. «Non era questa la mia intenzione.» Sta facendo
uno sforzo madornale, adesso che è incinta, per evitare discussioni.
Judy indietreggia come se fosse schifata. «Non toccarmi con le mani
sporche di pesce» dice. «Mi sono appena cambiata.»
«Scusa» le dice di nuovo, mentre si mette le mani dietro la schiena e si
piega in avanti sporgendo le labbra per avere un bacio.
Judy gli dà un bacino casto sulle labbra, un gesto sminuito dal fatto che
riparte subito all’attacco. «E continuo a non capire perché dobbiamo
mangiare pesce» dice.
Jonathan, che avrebbe voglia di sbuffare un’altra volta, si trattiene e si
gira verso il tagliere per non farle vedere la sua espressione spazientita.
«Perché per la mamma un pasto non è degno di essere chiamato tale se non
comprende qualcosa di morto» dice Jonathan. «E tu lo sai. È un discorso che
abbiamo già affrontato.»
«È ora che tua madre impari qualcosa di più in fatto di alimentazione.»
«Ha quasi ottant’anni» dice Jonathan, passando un dito sulla fetta di
salmone prima di chinarsi per togliere un’altra lisca. «Quella donna non
imparerà più niente di nuovo ormai, perciò dobbiamo solo assecondare le sue
fisime.»
«I tuoi pregiudizi sono nei confronti delle donne, o delle persone
anziane? Mhmm. Non riesco a decidere…» dice Judy. «Forse di entrambe.»
«Forse sono solo realista?»
«La gente può imparare a qualunque età, Jon. Perfino una donna come
tua madre. Lo sai bene quanto me. È solo che alcune scelgono di non farlo.»
«Be’, lei sono quasi ottant’anni che sceglie di non imparare. Perciò dico
soltanto che in questa circostanza, nel caso specifico di mia madre, è più
probabile una stasi che una trasformazione radicale.»
«Continuo a non capire perché…»
«Judy! Qui si tratta di mettere in tavola carne o pesce, o di passare
mezz’ora a cercare di spiegare perché non c’è una portata “principale”. Perciò
direi che un po’ di pesce è il male minore, d’accordo?»
«Non per il pesce» risponde Judy, con una punta di umorismo.
«No» dice Jonathan sorridendo. «No, suppongo di no.»
«Comunque, il karma è il suo, non il mio» dice Judy. «Io non lo
mangio.»
«Lo so che non lo mangi» dice Jonathan, prendendo il bicchiere di
chardonnay.
«E non ti ubriacare prima di metterti a tavola. Per favore, non ti
ubriacare prima che arrivino.»
«No, stai tranquilla.»
«Non è giusto. Soprattutto quando sai che io non posso bere.»
«Non mi sto ubriacando» dice Jonathan con tono deciso. «È il mio
primo bicchiere e il secondo sorso.»
«Certo» dice Judy, dubbiosa.
«Puoi controllare la bottiglia se vuoi» suggerisce Jonathan. «È in frigo.»
«Oddio, Jon! Mi fai sembrare un’agente della squadra antivino.»
Jonathan ridacchia. «Squadra antivino. Mi piace.»
«Vorrei solo che non ti ubriacassi prima che arrivino. È chiedere
troppo?»
«No, tesoro» risponde Jonathan, sollevando il bicchiere e mettendolo
nell’angolo più lontano del davanzale, per non cadere in tentazione. «Allora,
dimmi una cosa. Se preparo il pesce per la mamma, chi è che avrà il karma
più sputtanato?» le chiede, con un’improvvisa voglia di stuzzicarla e un po’
infastidito, forse per il fatto che il vino non è più a portata di mano.
«Adesso stai facendo lo stupido» risponde Judy. Ed è vero. Si sta
comportando da stupido. Ma gli sembra comunque una buona domanda. Di
chi sarà il karma più compromesso? Del pescatore per averlo pescato? Il suo,
per aver tolto le spine a quella povera creatura? Quello di sua madre che lo
mangerà? O magari quello di Judy, per non averlo fermato, per avergli
permesso di comprarlo con i soldi del loro conto cointestato? Dove si arresta
la catena di causa, effetto e responsabilità?
«A ogni modo» dice Jon, allungandosi per prendere il bicchiere di vino
prima di ricordarsi che non può e di tirare indietro la mano. Per crearsi un
alibi afferra il pepe. «Forse era il salmone ad avere un cattivo karma. Forse in
una vita precedente era stato un salmone molto malvagio. E per questo
motivo è finito sul nostro tagliere.»
«Sei ferrato sull’argomento karma quanto tua madre lo è
sull’alimentazione» dice Judy.
«Sì. Probabilmente hai ragione.»
«Ti chiedo solo di non lasciare che si coalizzino contro di me come
l’ultima volta, d’accordo?»
«Ma certo che no.»
«Io sono tua moglie. E loro sono la tua famiglia. Quindi non mi è
concesso di contrattaccare. Perciò ho bisogno che tu prenda le mie difese.»
«Non ho permesso a nessuno di coalizzarsi contro di te l’ultima volta»
dice Jonathan.
«Be’, lo hanno fatto.»
E questo è vero.
Sophie aveva sferrato un piccolo attacco contro Judy, passando da una
delle strade più facili, l’omeopatia, per colpirla sulle sue sacre convinzioni.
All’inizio si era trattato solo di una piccola scaramuccia ma, incitata dalla
madre (che adora le sue pastiglie) e da un po’ troppo chardonnay, e sostenuta,
a suo dire, dall’intera logica cartesiana occidentale, e subodorando la
vulnerabilità di Judy sull’argomento, Sophie si era scagliata sulla sua preda.
E Jon, nonostante creda vagamente che l’omeopatia funzioni (perché Judy gli
ha detto che con lei ha funzionato e che motivo avrebbe di mentire?) non era
riuscito a prendere le difese di sua moglie. Non era stato in grado, davanti alle
spiegazioni matematiche di Sophie riguardo l’assenza di qualunque principio
attivo nei rimedi omeopatici, di andare in suo soccorso mentre lei annaspava
nel tentativo di spiegare la sua teoria secondo cui l’acqua conserva il ricordo
di essere entrata in contatto, una volta, con una molecola di Thuja, ma a
quanto pare di non averla mai trasmessa, dall’inizio dei tempi, a centinaia di
intestini puzzolenti di mammiferi. Judy era andata a letto presto e gli aveva
reso la vita un inferno per quasi una settimana dopo quell’episodio. E Jon
aveva smesso, in segreto, di prendere i granuli di Thuja 10ch che gli aveva
prescritto il naturopata di Judy (senza nessun cambiamento tangibile alla sua
salute). E da allora non c’erano più state cene di famiglia.
«Prometto che non lascerò che si coalizzino contro di te» dice. «Adesso
vai a metterti comoda.»
«Mi vuoi fuori dalla cucina?»
«No. È tutto il giorno che dici di essere stanca. Perciò penso che
dovresti approfittare il più possibile della quiete prima della tempesta. Solo
questo.»
«In effetti sono stanca. La gravidanza è estenuante.»
«Lo so. Ma non dirlo quando arriva la mamma o dovrai sorbirti tutto il
discorso sulla dieta.»
«Quale discorso sulla dieta?»
«Oh, andiamo. Lo sai. Se dici che sei stanca, lei dirà che sei anemica, e
che il motivo è che sei vegana e poi…»
«Jon, sono sicura che tua madre sappia quanto è stancante essere
incinta.»
«Sì. Ne sono sicuro anch’io. Ma dirà quelle cose comunque. E tu sai che
lei è l’esperta mondiale di gravidanze. E di alimentazione.»
«Lei è l’esperta mondiale di tutto.»
«Hai ragione. Lo è.»
«Com’era con Sophie?»
«Scusa?»
«Quando era incinta.»
«Oh, non me lo ricordo un granché.»
«Ma eri già abbastanza grande. Cos’avevi, cinque, sei anni?»
«Sì, sei. Ma credo di essere stato troppo impegnato a nascondermi nelle
case sugli alberi.»
«Case sugli alberi? Avevate un giardino?»
«No, andammo nel Galles. Per tre mesi. Tornammo dopo la nascita di
Sophie.»
«Nel Galles? Questo non lo sapevo. E perché mai nel Galles?»
«La mamma era stanca, o roba del genere. Credo che il dottore le avesse
prescritto molta aria fresca.»
«Ah!» dice Judy.
«Ah?»
«Visto, pur mangiando mezza mucca al giorno, era comunque stanca al
punto di doversi ritirare nel Galles. Si chiama gravidanza. È estenuante, Jon.»
«Lo so» le dice. «Quindi per favore vatti a sedere!»
«Okay, okay! Vado. Ma se hai bisogno fammi un fischio, d’accordo?»
«D’accordo.»
Jonathan aspetta di sentire il rumore della televisione (un quiz a premi)
e poi avvicina il bicchiere di vino. Lancia un’occhiata colpevole verso la
porta, lo solleva e ne butta giù il contenuto in un solo sorso. Pranzi di
famiglia, pensa. Bleah!

Terminata la delicata operazione di ripiegamento dei bordi della carta


stagnola per sigillare il terzo cartoccio di pesce, Jonathan si tira su e sorseggia
le ultime gocce del suo secondo bicchiere. Si chiede se Judy ispezionerà la
bottiglia. Si chiede se gli darà il tormento. È davvero un agente della squadra
antivino, pensa.
Suona il campanello, quindi grida: «Judy, puoi andare tu? Ho ancora le
mani tutte sporche».
«Okay» risponde lei. «Ma se è la tua famiglia, sono un po’ in anticipo.»
Jonathan s’immagina uno o l’altro membro della “sua famiglia” dietro
alla porta che sente le parole di Judy e aggrotta le sopracciglia, poi va al
lavello a sciacquarsi le mani.
«… no, non è ancora arrivata.» È la voce di sua moglie. «A ogni modo
avevamo detto alle sette e mezza e non sono ancora le sette.»
«Ti trovo bene» replica Barbara, ignorando la stoccata di Judy riguardo
al fatto che è in anticipo. Barbara è brava a incassare, a non offendersi, e
questo è uno dei motivi per cui “va tanto d’accordo” con Judy, a differenza di
molte persone. E Jonathan in questo ha preso da lei, grazie a Dio. «La
gravidanza ti dona, cara!» dice sua madre.
«Me lo dicono in continuazione» risponde Judy. «Sì, appendilo lì.
Entra. Jon è in cucina a combattere con delle cose morte.»
«Cose morte?» chiede Barbara, alzando la voce mentre entra in cucina.
«È solo pesce, mamma» dice Jonathan, asciugandosi le mani con un
canovaccio.
«Ciao, caro» dice Barbara, avvicinandosi per dargli un bacio sulla
guancia.
«Ciao, mamma.»
Judy compare sulla porta dietro di lei, alzando le sopracciglia in modo
spiritoso. «Tua mamma è già qui» dice.
«Sì» risponde Jonathan. «Sì, me ne sono accorto.»
«Stavo giusto dicendo a Judy che la trovo molto bene» interviene
Barbara, spazzando via l’atmosfera pesante. «È radiosa.»
«È vero.»
«In realtà mi sento…» inizia a dire Judy, ma Jonathan incrocia il suo
sguardo, e nonostante sia infastidita dal fatto che nessuno le stia
effettivamente chiedendo come sta, modifica la frase appena in tempo. «…
abbastanza bene» prosegue, spalancando gli occhi verso Jonathan e
scuotendo la testa.
«Be’, è ancora presto ma è una cosa positiva» dice Barbara.
«Jon mi stava raccontando che quando eri incinta di Sophie eri così
stanca che vi siete ritirati nel Galles» dice Judy.
«Non ho detto proprio così» ribatte Jonathan. «Non ho detto che ci
siamo andati perché eri stanca.»
«C’era un’altra ragione?» chiede Judy.
«In Galles? Io… No…» farfuglia Barbara. «Non è che fossi proprio
stanca. Ci serviva una pausa.»
«Che lusso» dice Judy. «Piacerebbe anche a me che Jon mi portasse da
qualche parte per tre mesi.»
«Era solo un piccolo cottage» dice Barbara. «Un piccolo cottage umido.
Di lussuoso aveva ben poco.»
«Sì, ma comunque…»
«Tu non uscivi molto, vero mamma?» le chiede Jonathan. «O mi
ricordo male?»
«No, non molto. Pioveva quasi sempre.»
«Ma anche quando non pioveva, non uscivi mai. Mi ricordo che io
andavo a fare la spesa con papà.»
«Sì, c’era un piccolo negozietto al villaggio.»
«Oddio, eri allettata?» le chiede Judy.
«No, io… per la verità ero andata un po’ fuori di testa» dice Barbara.
«Una specie di agorafobia. Succede a molte donne durante la gravidanza.»
«Almeno questa è una cosa di cui essere grati» dice Judy, guardando
Jonathan. «Non ho l’agorafobia.»
«Facevamo la spesa anche per Diane» dice Jonathan. «Riempivamo due
scatoloni di roba da mangiare. Questo me lo ricordo.»
«Diane?» chiede Judy.
«Era un’amica di papà» dice Jonathan.
«Ed era venuta con voi nel Galles?»
«In realtà era stata lei a trovare i cottage» spiega Barbara. «Erano di una
sua lontana zia, mi sembra. E a volte lei gli faceva da assistente.»
«Qualcosa da bere, mamma? C’è una bottiglia di vino bianco aperto che
non è niente male» dice Jonathan, tirandola fuori dal frigo.
«E lì cos’è successo, Jon?» gli chiede Judy, facendo un cenno alla
bottiglia.
«Ne usato un bel po’ per cucinare» mente Jonathan.
«Per adesso no» risponde Barbara.
«Ovviamente, non bevo neanch’io» dice Judy, accarezzandosi la pancia.
«Oh, ripensandoci, ma sì, dai» dice Barbara, che si becca
un’occhiataccia da Judy. «Non possiamo farlo bere da solo, non ti pare?»
«Sophie è poi riuscita a rintracciarla?» chiede Jonathan, mentre riempie
due bicchieri.
«Diane?»
«Sì. So che voleva mettersi in contatto con lei.»
«No. Non credo ci sia riuscita. E per favore non tirare fuori l’argomento
davanti a lei. Mi sta facendo diventare matta con questa storia di Diane.»
«Cosa faceva di preciso questa Diane?» chiede Judy.
«Sviluppava e stampava alcuni dei suoi rullini. Non era mai stato molto
bravo in quelle cose» dice Barbara. «Non aveva pazienza.»
«Gli affari dovevano andargli parecchio bene se poteva permettersi
un’assistente che viaggiava con lui.»
«No, non direi. Anzi, per niente. Come ho detto, non pagavamo per i
cottage. Perché erano di una sua parente. E lei era una specie di amica di
famiglia, più che un’assistente.»
«Ci spostiamo in sala?» chiede Jon.
Barbara fa strada e Jonathan la segue.
«Io mi servo da bere da sola, quindi?» chiede Judy, ma Jon e Barbara
sono troppo impegnati a parlare per sentirla, perciò sospira, si versa un
bicchiere di Perrier e li raggiunge in sala.
«A che ora ti ha detto che sarebbe arrivata Sophie?» le chiede Jon
quando si unisce a loro.
«Sette e mezza» risponde Judy. «Ho detto a tutti alle sette mezza.»
«Tutti?» chiede Barbara. «Oddio. Chi viene?»
Jonathan si mette a ridere. «Nessuno» dice. «A meno che Judy non
abbia invitato il Manchester United per farmi una sorpresa?»
«No» dice Judy, con un finto sorrisino.
Sulla stanza cala il silenzio, causato dal fatto che ognuno di loro, inclusa
Judy, sta cercando di capire perché lei abbia detto tutti. Jonathan risolve per
primo l’arcano e prova a cambiare discorso in fretta, per evitare che sua
madre colga l’ennesima frecciatina. «Allora… parlami ancora un po’ del
Galles» le dice. «Mi ricordo c’era una casa sull’albero, ma per il resto, ben
poco.»
«In realtà ce n’erano due» dice Barbara. «Tu adoravi quelle case sugli
alberi.»
«E hai avuto Sophie nel Galles?» chiede Judy, come se il Galles fosse il
Sahara, come se lì non ci fossero ostetriche od ospedali.
«A essere sincera, preferirei parlare d’altro» dice Barbara, in modo
secco, controllato. «È stato un periodo orribile per me. Cerco di non pensarci
mai.»
«Orribile? Perché?»
«La mamma ha detto che non ne vuole parlare» sottolinea Jonathan.
«Va bene, va bene. Mi chiedevo solo che cosa fosse così orribile. La
vacanza nel Galles, o avere un bambino? Scusate.»
«La casa era minuscola e umida, e scaldarla era impossibile» dice
Barbara, con un tono un po’ esasperato. «La legna era fradicia perché c’era
una perdita nel tetto, perciò non riuscivamo mai ad accendere il fuoco.
Pioveva quasi sempre e, come ho detto, non stavo bene.»
«Certo» dice Judy. «Capisco.»
«E per favore non tirate fuori il discorso quando arriva Sophie.»
«A ogni modo, come mai Sophie vuole contattare Diane?» chiede Judy.
«Per quell’assurda esposizione» dice Barbara. «Ma è molto probabile
che sia morta.»
«Oh, sarebbe un duro colpo per Sophie» dice Jonathan. «Le piaceva
molto Diane.»
«Sì.»
«Sembra che sia arrivata» commenta Judy, percependo delle vibrazioni
che arrivano dalla veranda e, neanche a dirlo, un attimo dopo si sente suonare
al campanello.
«Vado io» si offre Jonathan, alzandosi subito.
«Be’, grazie!» dice Judy.
«Comunque, ti trovo davvero bene» ripete Barbara, dopo che Jonathan è
uscito dalla stanza.
«Sì» dice Judy. «Me lo hai detto. Grazie.»

Quando Sophie rientra a casa è passata da poco la mezzanotte. Brett,


che le aveva promesso di aspettarla sveglia, chiaramente non lo ha fatto. Lo
sente russare nell’istante in cui apre la porta.
Ci rimane male. È giù di morale, prova un groviglio di emozioni diverse
che non riesce a definire con esattezza, ma si sente insicura, sola, inadeguata,
irritata; tutta una serie di stati d’animo che ben conosce e che solo le cene di
famiglia riescono a suscitarle. Sperava di trovare, al suo ritorno, una spalla
amica e un abbraccio di conforto, qualcosa che le concedesse di pensare che
se in quella famiglia le cose non vanno molto bene, almeno in questa sì.
Si toglie le scarpe e appende il cappotto, poi, a piedi scalzi e senza fare
rumore, va in soggiorno, dove, con sua sorpresa, c’è Brett, che si è
addormentato sulla poltrona. Ha un libro di arte sullo stomaco e gli occhiali
storti sul naso in un modo che le ispira tenerezza. A quanto pare ci ha provato
a restare sveglio, povero tesoro.
Si versa un dito di whisky di Brett, lo butta giù e poi se ne versa un
secondo. Ha trascorso la maggior parte della serata a smaniare dalla voglia di
bere per alleviare la sofferenza di stare ad ascoltare Judy, ma come Jonathan
con i suoi latticini, le è risultato più facile rinunciare a ubriacarsi che tollerare
ulteriori stoccate sul suo consumo di alcol.
Passa dietro a Brett e gli toglie gli occhiali con delicatezza, li piega e li
appoggia sul tavolino e, mentre lo fa, sente un piccolo moto d’amore verso di
lui. Attraversa la stanza e gli si siede davanti. Sorseggia il whisky e osserva i
tratti del suo viso, che la luce della piantana rende spettrali.
Alcuni muscoli, che evidentemente contrae quando è sveglio, adesso
sono rilassati, e la pancia è ancora più ampia di quanto non sia già di solito.
Sembra più grasso e più vecchio. Ma anche più tenero. Dà sempre
l’impressione di essere un po’ costruito quando è sveglio: astuto e forse un
po’ troppo pieno di sé. Quando dorme ha un’aria innocente, come un
bambino e un anziano allo stesso tempo.
S’immagina che si svegli e le chieda com’è andata la serata, e sospira.
Non saprebbe cosa dire se fosse sveglio e potesse parlargli.

La mattina seguente, quando apre gli occhi, si ritrova avvinghiata tra le


braccia calde di Brett. La temperatura del suo corpo sembra essere un paio di
gradi più alta della sua, il che la manda ancora più in estasi mentre fanno
l’amore, è una gran comodità d’inverno e fonte di un fastidioso sudore
d’estate. Sbadiglia e stiracchia le gambe, e Brett le dice: «Sei sveglia?».
«Mhmm, sì.»
«Dunque sei sopravvissuta?»
«Ehm…»
È solo dopo che Brett si è fatto la doccia e vestito che parlano della
serata di Sophie, e quando lui le chiede: «Allora, com’è andata?», lei si rende
conto che durante il sonno dev’essersi messo in funzione un meccanismo
inconscio che le ha permesso di elaborare i fatti della sera precedente.
«Benissimo e malissimo allo stesso tempo» dice.
«Okay…»
«Malissimo perché è stato un supplizio quasi continuo, e benissimo
perché ha dato i suoi frutti.»
«I suoi frutti? Quindi sei riuscita a ottenere il loro appoggio per
l’esposizione?»
Sophie scoppia a ridere. «No. Non ho sollevato il discorso nemmeno
una volta. Jonathan mi aveva dato istruzioni precise di non parlarne e aveva
ragione. In quanto figlio preferito, lui sa molto meglio di me come prendere
la mamma.»
«E allora come ha fatto a dare i suoi frutti?» le chiede Brett, sollevando
il colletto della camicia e stringendo la cravatta.
Sophie sorseggia il caffè prima di rispondere. «Il trucco con mia madre,
come sostiene giustamente Jon, è di non farle capire che hai bisogno di
qualcosa da lei. Se non ti serve, te lo darà gratis.»
«Perché?»
Sophie scrolla le spalle. «Non lo so, forse perché negandolo non ci
guadagna niente.»
«Certo» dice Brett. «Non fa una piega. Un po’ alla Woody Allen, ma
comunque non fa una piega. E quindi di cosa avete parlato?»
«Del lavoro di Jon, dei diritti umani… o animali, va be’, insomma, dei
pesci…»
«Dei diritti dei pesci?»
«Sì. Jon ha cucinato per noi tre il salmone, e credo che Judy non ne
fosse entusiasta. Perciò mentre mangiavamo ci ha deliziato con racconti sulle
orribili condizioni in cui vivono i salmoni negli allevamenti intensivi.»
«Carino.»
«A essere sinceri, probabilmente ha ragione, ma è così fastidiosa che
non riesci a evitare di fare l’avvocato del diavolo.»
«Mia sorella è così» dice Brett. «Solo che, a differenza di Judy, lei ha
sempre torto.»
«Oh, di solito Judy ha torto su molte cose» dice Sophie. «Intendevo solo
che probabilmente ha ragione sui salmoni. Ma non capisco bene cosa si possa
mangiare di questi tempi. È un po’ tutto un casino, non è vero?»
«Riso integrale, forse?»
«A quanto pare. Ci ha fatto vedere i suoi ultimi dipinti, ovviamente.»
«Ovviamente. E?»
«Per dirla in parole povere, bleah.»
«Non mi sembra che sia stata una serata molto divertente.»
«No. Be’, si sapeva che non lo sarebbe stata. Ma è servita ad appianare
le cose con la mamma, perciò il weekend prossimo posso andare da lei e
continuare come se non fosse successo niente. Quindi, in quel senso almeno,
missione compiuta.»
«Bene» dice Brett, mettendosi la giacca. «Scusa, ma…»
«Lo so, devi scappare.»
«Devo scappare.»
Sophie appoggia la tazza di caffè, si alza, si stringe la vestaglia e si
avvicina a Brett. Gli sistema il colletto. «Speravo che ci saremmo fatti una
scopata» dice.
«Non posso. Ho una riunione editoriale alle nove.»
«Okay. Ci vediamo stasera.»
«Ci vediamo domani.»
«Accidenti, me n’ero dimenticata, devi andare a Liverpool per
quell’esposizione privata.»
«Eh sì.»
Sophie lo accompagna all’ingresso, gli passa la tracolla in pelle, poi lo
saluta con un bacio e dopo che è uscito chiude la porta.
Si volta verso l’appartamento rimasto in silenzio poi, mentre il suono
dei passi di Brett si allontana dietro di lei, osserva la sua casa. Per qualche
ragione non le sembra familiare. Le sembra strana, come se fosse il set di un
film, forse come se fosse il set di un film di Kubrick. Il senso di vuoto della
sera prima è tornato, solo che stamattina le è più chiaro da cosa nasce.
Passare del tempo con la sua famiglia la fa sentire una bambina… No, non
una bambina ma un’imbrogliona… forse come una bambina che finge di
essere un’adulta. Perché non si sente grande come Jon e Judy, o come sua
madre, o perfino Brett? È un’artista fasulla, nell’appartamento di un’artista
fasulla, con un ragazzo fasullo. Fa un sospiro profondo, poi aggrotta le
sopracciglia mentre si sforza di ricordare prima che giorno è, poi quali siano i
suoi impegni da artista fasulla di quel giorno.
«Lunedì» mormora, poi: «Merda!». Va di corsa in cucina e controlla
l’ora: 8.04. «Merda, merda, merda!» dice a voce alta. In quel momento
dovrebbe essere dall’altra parte di Londra; ha un servizio fotografico alle
nove. Ha un servizio fotografico molto vero, a un orario molto preciso.
1962 — PECKAM, LONDRA

«A che mese sei adesso?» le chiede Phil. Phil è un fotografo del Mirror,
il migliore amico che Tony ha sul lavoro, e siccome questa è la quarta
gravidanza di Barbara in dieci anni che li conosce, si rende conto da solo che
non è il caso di chiedere quando nascerà. Perché sa, come lo sanno Barbara e
Tony, che la triste verità è che probabilmente non nascerà affatto.
«Al quarto» dice Barbara, poi, per rispondere a una domanda che non le
ha posto, ma che alleggia nell’aria, aggiunge: «Quindi sì, questa è la
gravidanza che ho portato più avanti. Teniamo tutto incrociato».
Teniamo tutto incrociato. Quel mantra spesso ripetuto, un mantra che
non si avvicina nemmeno lontanamente a descrivere la speranza e la paura, il
terrore e l’ansia che si nascondono dietro a ogni gravidanza.
Questa volta, al suo quarto tentativo, Barbara si sente pronta per
qualunque cosa. Si sente persino pronta per la disperazione di un altro aborto.
Ormai conosce quell’orrore, ha sviluppato con esso un rapporto di familiarità,
addirittura di intimità, quel genere di intimità che può esserci con un parente
subdolo, spregevole. E anche se un orrore con cui si ha familiarità resta pur
sempre tremendo, sapere di poter sopravvivere le permette se non altro di
guardare avanti; di affrontare tutto ciò con speranza.
È pronta anche a sentirsi dire che non potrà mai più riprovarci. I dottori
sembravano dubbiosi perfino riguardo al fatto che sarebbe riuscita a rimanere
incinta dopo l’ultima volta. Il suo utero, dicono, è “sottosviluppato”; è
“danneggiato”. Ma quando ha chiesto al dottore (dai modi piuttosto bruschi)
se andava bene che continuassero a provarci, lui le ha risposto: «Non c’è
niente di male a provarci, mia cara. Solo, non farti illusioni».
E così, loro ci hanno provato. E adesso, si stanno facendo illusioni.
È pronta anche a essere lasciata da Tony se andasse male. Percepisce il
suo bisogno sempre più disperato di avere figli, la sua insofferenza crescente
nei confronti del fatto che lei non riesca a dargliene; ha notato come la sua
incapacità di renderlo padre l’abbia a poco a poco sminuita ai suoi occhi. Si è
accorta che Joan e Lionel hanno iniziato a considerare il matrimonio del
figlio un errore, per la semplice ragione che è “senza frutti”. Un matrimonio
senza frutti con una donna “sterile”. È certa che sia questo che la gente dice
alle sue spalle. Perché Tony dovrebbe scegliere di restare?
Quindi, sì, ha la sensazione che questa quarta volta sarà l’ultima. Lo
vede negli occhi degli altri, lo sente nei loro sospiri. Lo avverte nel profondo;
lo percepisce nelle vibrazioni di uno spazio che non è stato riempito, di un
vuoto che da tempo brama di essere colmato. L’ultima volta. La sua ultima
occasione. Tiene tutto incrociato.
«Tu cerca solo di non stancarti» sta dicendo Phil.
«Oh, non mi stanco per niente» risponde Barbara. «Tony non mi lascia
fare nulla. In questo periodo quasi non esco neanche mai di casa.»
La porta si apre ed entra Tony con un sacchetto tintinnante.
Barbara osserva il sacchetto. Calcola a occhio quanto può pesare, per
capire il numero di bottiglie al suo interno; forse cinque o sei. Tira un sospiro
di sollievo. I ragazzi si faranno davvero solo “un paio di birre” come aveva
detto Tony. Sono trascorsi mesi dalla sua ultima sbronza, e questo la rende
nervosa. Non è da lui lasciar passare tutto questo tempo, e Phil avrebbe
potuto benissimo essere, come lo è già stato molte volte, il catalizzatore che
avrebbe messo in moto Tony. Ma a giudicare dal peso del sacchetto, per
questa sera può stare tranquilla.
«Ti ho preso questa» le dice Tony, passandole una bottiglietta che ha
tirato fuori dal sacchetto.
«Cos’è?» chiede Phil.
«Irn-Bru» spiega Barbara, mentre la prende. «È una bibita gassata che
contiene ferro, perciò fa bene alle ragazze incinte come me, almeno così
dicono.»
«O comunque è quello che sostiene mia madre» dice Tony. «Ne è
convinta al cento per cento.»
«E il fish and chips?» chiede Barbara.
«Ha detto di tornare tra mezz’ora» risponde Tony, lanciando
un’occhiata all’orologio sulla mensola del camino. «Gli sono arrivate un
sacco di ordinazioni. D’altra parte, è venerdì.»
«Perché la gente mangia il fish and chips il venerdì?» chiede Phil,
mentre prende la birra che Tony gli sta passando.
Tony scrolla le spalle. «Perché è la fine della settimana?» dice. «Perché
è troppo stanca per cucinare?»
«Credo che sia una cosa cattolica» si azzarda a dire Barbara. «Mi
sembra che c’entri qualcosa con la Quaresima.»
«Noi mangiamo fish and chips ogni sera» dice Tony. «Spero che non sia
peccato.»
«Non ogni sera.»
«Questa settimana è la terza volta…»
Barbara assume un’espressione colpevole. «Voglie» dice a Phil in tono
confidenziale. «E dicono che è meglio assecondarle. Che è il bambino che
chiede quello di cui ha bisogno per crescere sano e forte. E a quanto pare
quello che lui vuole è il fish and chips. E la salsa tartara. La salsa tartara in
particolare.»
«Be’, brindo a un bambino sano e forte» dice Phil.
Tony va nella zona della cucina e torna con un apribottiglie.
«Oh, prendi i bicchieri» protesta Barbara.
«A Phil non importa, vero?»
Phil scuote la testa e solleva il tappo.
«A me sì!» dice Barbara.
«Vado io» dice Phil, alzandosi.
«Ah, le ragazze!» commenta Tony, ridendo.
«Allora, vi trasferite?» chiede Phil quando torna con il bicchiere per
Barbara. «Avete deciso?»
«Aspettiamo di vedere cosa succede, giusto?» dice Tony.
«Cosa succede con…?»
«Aspettiamo di vedere se questo Babs riesce a tenerlo dentro fino alla
fine» gli dice Tony.
Anche se Barbara sa che lui sta solo facendo finta che quella situazione
non sia dolorosa, sente l’accusa implicita nelle parole che ha scelto di usare.
Perché dopotutto, quanto può essere difficile tenerlo dentro?
«Se arrivo al sesto mese, ci trasferiamo» spiega Barbara. «Abbiamo
deciso così.»
«Ma rimarrete in questa zona?»
«Babs vuole tornare a Shoreditch» dice Tony. «Vuole la sua mamma,
non è vero?»
«Credo che avremo bisogno che ogni tanto lei badi al bambino» spiega
Barbara. «Se mai dovessimo arrivare a quel punto» aggiunge, usando il
periodo ipotetico per motivi scaramantici.
«Allora, forza» dice Tony, rivolgendosi a Phil. «Fammi vedere queste
foto.»
Phil si allunga per prendere una cartelletta verde con le venature
appoggiata accanto alla sedia, sposta l’elastico e la apre. Tira fuori una
ventina di fotografie lucide a colori e comincia a farle girare.
«Adoro quest’odore» dice Barbara, avvicinando al naso l’immagine di
un campo giallo di grano.
La passa a Tony e prende la successiva dalla mano di Phil. È la foto di
una bambina con un vestito azzurro acceso, che accarezza un gatto su una
cassetta delle lettere rosso intenso. «Oddio» dice Barbara. «Che colori!»
«Sono belle» dice Tony.
Guardano immagini di campi battuti dal vento, prati verde fosforescente
e foglie d’autunno arancioni, facendole passare in cerchio finché non tornano
a Phil e nella cartelletta.
«Sono bellissime, Phil» dice Barbara.
Tony la guarda e aggrotta le sopracciglia.
«Be’, lo sono!» insiste.
«Delle mie non lo dice mai» commenta Tony ridendo, ma nonostante il
tono scherzoso, Barbara avverte che c’è rimasto male.
«Vorrei solo che facessi foto a colori» dice. «Sono così carine.»
«Carine…» ripete Tony in modo sprezzante. «Comunque, sono troppo
care e io sto risparmiando per altre cose al momento, cose come culle e
passeggini.»
«È vero, costano molto» concorda Phil.
«E poi i colori sono tutti sbagliati» dice Tony. «Le farò a colori quando
i colori saranno giusti.»
«Dei progressi li stanno facendo» dice Phil. «Queste sono state scattate
con quel nuovo rullino, il Kodacolor X, ed è molto meglio di prima. A me
non dispiacciono affatto, se devo essere sincero. Mi piace il modo in cui tutto
è leggermente stonato. Quasi un po’ surreale.»
«Come un sogno» dice Barbara, accarezzando con la punta delle dita la
foto di un cielo azzurro intenso, striato di rosso dal sole che tramonta. «Piace
anche a me. È come nella realtà ma, insomma, di più.»
«È brava» dice Phil, facendo un cenno con la testa a Barbara e poi
strizzando l’occhio a Tony.
«Già» dice Tony, tracannando la birra. «Io preferisco comunque il
bianco e nero. Secondo me è più artistico. Più drammatico.»
E siccome Barbara percepisce nella sua voce una punta di collera, una
collera che conosce e teme, fa marcia indietro. «Be’, probabilmente hai
ragione tu, Tony» dice, mentre ripassa le foto a Phil. «In fondo, cosa ne
capisco io?» Tony di recente ha venduto qualche foto al Mirror invece di
consegnare solo pacchetti, perciò è importante non minare la sua autostima.
«Buon per te, visto che tanto il Mirror le vuole solo così» dice Phil, che
a quanto pare deve aver pensato la stessa cosa. «E quelle foto che hai fatto a
quella manifestazione erano buone. Molto vere. Senza filtri.»
«Grazie» dice Tony, imbronciato come un bambino di due anni.
1963 — HACKNEY, LONDRA

Barbara se ne sta sdraiata a fissare il soffitto mentre aspetta che quello


che deve succedere succeda.
Accanto a lei la flebo scende goccia dopo goccia nel tubicino attaccato
al suo braccio. Il punto in cui è infilato l’ago le fa male perché prima, facendo
ricorso alle ultime riserve di rabbia, l’ha strappato via per tentare la fuga. Ma
non è servito a niente. Non sapeva dov’era l’uscita, perciò l’hanno beccata,
l’hanno fermata, e con un inserviente da una parte e un’infermiera dall’altra,
è stata riaccompagnata a letto. Le hanno detto che se ci riprova la legheranno,
ma lei è comunque troppo stanca per lottare ormai. E così se ne sta lì sdraiata,
distrutta, ad aspettare che quello che deve succedere succeda.
Sono trascorsi tre giorni da quando l’hanno portata di corsa in ospedale,
tre giorni da quando l’hanno aperta e hanno tolto quello che c’era dentro.
Dicono che era un bambino, dicono che è un maschio. Ma lei non ci crede.
Non glielo fanno vedere. Non glielo fanno tenere in braccio. Quindi come
può crederci? Ma qualcosa glielo hanno tolto, di questo è certa. Dietro la
brutta cicatrice che divide a metà il suo stomaco, avverte un vuoto familiare,
quella triste mancanza che conferma che la gravidanza è finita.
La ferita le fa male. Le provoca un dolore continuo, pulsante, che in
seguito al suo tentativo di fuga è diventato un’agonia opprimente. Si
rimarginerà, dicono. Il bambino sta bene, dicono.
Sente dei passi che si avvicinano al centro della corsia; un paio di tacchi
pesanti che sbattono sulle piastrelle. Un’altra infermiera severa, addestrata
per la guerra, senza dubbio pronta a esercitare su di lei un nuovo atto di
malevolenza. Barbara fissa il soffitto nella speranza che continui a
camminare e non si fermi.
Sopra di lei compare il viso di Glenda. «Ciao» dice. «Indovina chi ho
appena visto.»
Barbara deglutisce a forza poi dice: «Non ti ci mettere anche tu…».
«Anch’io?»
«Nemmeno tu vuoi dirmi la verità.»
Glenda scoppia a ridere. Scoppia proprio a ridere, poi dice la stessa cosa
che continuano a dire le infermiere, la stessa cosa che continua a dire Tony, la
stessa cosa che le ha detto sua madre. «Il bambino sta bene.»
Ci sono dentro tutti.
«È piccolo» prosegue Glenda. «È minuscolo, rugoso come un
vecchietto, ma sta bene. È ancora nell’incubatrice, ma uscirà presto. Te lo
porteranno presto.»
Ma Barbara sa che non è vero, per una ragione molto semplice: se fosse
vero, glielo avrebbero già fatto vedere. Nessuno l’avrebbe sottoposta
all’agonia di non sapere, al trauma di non poter creare un legame, se non
fosse per risparmiarle una terribile, terribile verità.
S’immagina varie versioni di quella verità. Un bambino con una testa
enorme come quello dell’aborto spontaneo. Un bambino con un braccio solo,
senza braccia. Un bambino ritardato, un bambino con la sindrome di Down,
un bambino che è già morto…
«È bellissimo» dice Glenda, accarezzandole le mano, e la crudeltà di
quelle menzogne, il tradimento di sua sorella, è talmente grande che Barbara
non riesce a guardarla.
«Non ti credo» sussurra, sforzandosi di girare la testa per impedire a
Glenda di vedere che ha le lacrime agli occhi.
Barbara non saprebbe dire quanto rimanga Glenda al suo fianco. Quelle
ore, quei giorni vissuti nell’attesa che le venga rivelata la verità, si allungano
come una gomma da masticare, perciò è difficile riuscire a tenere il conto.
Ma a un certo punto nota la sua assenza, e dopo che l’infermiera le ha dato la
pastiglia, si abbandona al sonno, il suo unico rifugio dalla disperazione di
quel momento, l’unica via di fuga da quell’incubo vivente.

Quando si sveglia fuori è buio (è ancora lo stesso giorno?), e Tony è


seduto accanto a lei. «Barbara» sta dicendo. «Barbara!»
Apre gli occhi e cerca di combattere l’effetto dei farmaci per metterlo a
fuoco. I contorni sono vaghi e confusi, ma è incredibilmente bello.
«Barbara» ripete «lui è qui», e per un attimo lei pensa che si stia
riferendo a suo padre. Il che dev’essere per forza la prova che la fine del
mondo è vicina. Riesce a portarsi una mano sul viso; riesce a sfregarsi gli
occhi.
«Guarda» le dice Tony, e adesso vede il suo viso sorridente, raggiante,
radioso. Segue la curva del suo braccio fino al dito puntato, poi oltre, fino alla
culla accanto a lui.
Con la vista ancora annebbiata, si gira un po’ verso Tony e osserva la
culla. Dentro c’è un fagotto bianco. Il momento della verità è arrivato. Il suo
cuore comincia a battere forte. Cerca di tirarsi su ma il taglio all’addome
glielo impedisce. Si rimette nella posizione di prima, fa una smorfia di dolore
e poi ci riprova.
«Aspetta» le dice Tony. Si alza e spinge la culla con le rotelle accanto al
suo letto per fare in modo che, dalla sua nuova posizione semiseduta, possa
vedere.
È avvolto nella coperta dell’ospedale, perciò riesce a vedere ben poco,
solo i tratti arrossati, rugosi. Ma ha due occhi, un naso e una bocca. Barbara
sussulta. È un inizio.
Ansimando per il male che le provocano i punti, si allunga e cerca di
rimuovere la coperta. È certa che nasconda qualcosa.
«Cosa stai facendo?» le chiede Tony, aggrottando le sopracciglia. «Lo
sveglierai.»
«Devo vedere» dice Barbara, con una voce che somiglia a uno squittio
assurdo.
«Barbara!»
«Fammi vedere. Devo vedere cos’ha che non va» dice ansimando.
«Non ha niente che non va» dice Tony.
«Mostramelo! Fammi vedere!»
Tony la fissa a lungo negli occhi e gli si stringe il cuore. Perché
percepisce in lei la follia. La follia, ma anche una sofferenza quasi
insopportabile. «Va bene, va bene» le dice. «Guarda.»
Mentre Barbara trattiene il fiato, lui si piega sulla culla e lo libera con
delicatezza dalla coperta. Quando lo solleva, controllando con aria colpevole
alle sue spalle che non lo veda nessuno, lui si agita. Scalcia. Ha due gambe.
Muove le braccia. Due anche di quelle. Le gambe hanno i piedi. Le braccia
hanno le mani. Barbara lo fissa e gli conta le dita. Cinque e cinque e cinque e
cinque… Allunga le braccia verso il bambino.
«Non puoi tenerlo. Deve stare…»
«Dammelo.»
«Hanno detto…»
«Dammelo.»
Tony fa una smorfia rassegnata, compassionevole. «Ecco. Guarda»
dice, passandole il piccolo in fasce. «Sta bene, Barbara.» Gli vengono le
lacrime agli occhi mentre la osserva appoggiarsi il bambino al petto.
«Davvero. Ma stai attenta…»
«È molto rosso.»
Tony tira su col naso. «Hanno detto che è normale. È perché è
prematuro. Passerà.»
«È tutto gonfio.»
«Anche quello passerà.»
«È così piccolo.»
«Te l’ho detto. Pesa poco meno di due chili» le dice Tony. «Ma non
avrà problemi, Babs.»
«È il mio?» chiede Barbara, quasi incapace di credere, dopo tre giorni di
paure, che quello sia il suo bambino; le sembra di non avvertire il profondo
legame materno che dovrebbe instaurarsi se quello fosse davvero suo figlio.
Tony annuisce. «È nostro. E sta bene.»
Barbara si morde il labbro inferiore e gira il bambino per guardarlo in
faccia.
«Te lo ripeto da giorni» dice Tony. Si avvicina al letto e, con difficoltà,
si sistema accanto a loro per poterli circondare con le braccia entrambi. Il suo
viso si illumina di orgoglio e gioia di altre cento emozioni che non riesce
nemmeno a decifrare. «Stai bene, non è vero Jonathan?» dice, allungandosi
per accarezzargli la guancia, e lui fa un piccolo verso, poi comincia a
piangere. «Abbiamo un figlio, Barbara» dice, stringendole la mano.
«Abbiamo un maschietto.»

Il bambino va e viene. A volte le dicono che è perché lei ha bisogno di


riposare, e altre che è perché il bambino è troppo stanco. Ma come un giorno
finisce e un altro rinizia, così il bambino e le persone in visita vanno e
vengono, e ogni arrivo e ogni partenza provocano in Barbara un nuovo flusso
di emozioni che però non sono mai, teme, quelle giuste.
«Te ne accorgerai» le aveva detto Glenda, quand’era ancora incinta.
«Vedere il proprio bambino è la cosa più meravigliosa che possa capitare a
una ragazza. Lo dicono tutti.»
Ma cosa fare se non è quello che si prova? Barbara non era lì durante la
nascita. Be’, era presente, ma non era cosciente. E il bambino non era con lei
nemmeno al suo risveglio, anzi, non lo ha visto per giorni. E adesso sembra
tutto sbagliato. Non riesce a capire esattamente perché, ma sembra tutto
sbagliato.
Si agita quando lo portano via da lei e, sì, è terrorizzata ogni volta che
qualcuno lo prende in braccio; questo è vero. Ma si agita anche quando lo
portano da lei, ed è terrorizzata anche quando è lei a prenderlo in braccio.
Teme, anzi no, è convinta che quello non sia davvero il suo bambino e che se
invece lo è, allora dovrebbe provare qualcosa di più, molto di più. Sì, tutti
continuano a ripeterle che quello è Jonathan Michael Marsden, ma…
Quindi il bambino va e viene e le sensazioni prevalenti di Barbara nei
confronti della nascita di suo figlio sono ansia, confusione e dolore. E questo
alimenta a sua volta il circolo vizioso di ansia e confusione e dolore, perché
tutto ciò che la circonda le dice che non sono quelle le cose che dovrebbe
provare.
Certo, non esiste un modo ragionevole di manifestare il suo disagio, non
senza apparire la madre peggiore, più egoista che abbia mai dato alla luce un
bambino. E d’altra parte, sarebbe la verità, no? Perciò, oltre a tutto il resto,
oltre al fatto di essere esausta, talmente tanto che si sente come se l’avessero
drogata, oltre al dolore fisico e agli attacchi d’ansia, così devastanti che teme
di soffocare, Barbara si ritrova a dover fingere.
Culla il bambino contro il seno e sorride a Tony, imitando la gioia di
essere madre che ha visto sfoggiare dalle altre donne in corsia. Chiama
Glenda “la zia Glenda” e Minnie “la nonna” e il bambino “Jonathan”, anche
se tutte quelle cose la fanno sentire una bugiarda, anche se tutte quelle parole
la fanno sentire falsa.
E senza sapere come, ogni giorno riesce a non pronunciare la sola frase
che avrebbe senso. Non si accascia in un angolo. Non piange. Non dice:
«Aiutatemi!». Non dice: «Io non ce la faccio». Almeno in questo, si mostra
forte.

Due settimane dopo, Barbara se ne sta sdraiata sul letto di casa sua e
ascolta il bambino che strilla.
Tony è andato a lavorare e Minnie non tornerà finché non sarà in pausa-
pranzo, perciò, per la prima volta dal parto, non ci sono testimoni. Per la
prima volta non c’è nessuno che possa vedere che persona terribile è in realtà.
E così resta sdraiata a letto e ascolta il bambino che piange, solo, e come se
fosse divisa in due, si osserva per capire se gliene importa qualcosa.
Il furgoncino del latte passa nella loro via e il bambino si mette a
gridare più forte, più di quanto abbia mai sentito fare a un bambino. Si chiede
se l’uomo che guida il furgoncino può sentirlo. Ritiene che sia probabile.
Un vicino che abita sopra di loro picchia sul pavimento, quindi in un
certo senso dei testimoni ci sono. Qualcuno da qualche parte sa che è una
pessima madre. Sospira e si rotola per scendere dal letto.
Stringe i denti, solleva la camicia da notte e come ogni mattina, prima di
mettersi la vestaglia, controlla la cicatrice. Mentre va in bagno per fare pipì e
lavarsi il viso nota che, stranamente, il rumore delle grida per un attimo si è
placato. Si fissa nel piccolo specchio dell’antina del bagno. Ha un aspetto
tremendo. La gente continua a dirle che la trova bene, ma non è così. Ha un
aspetto davvero orribile.
Il bambino, dopo aver ripreso fiato, comincia a ululare a livelli
assordanti, il che richiede per forza di cose un suo intervento; a suggerirglielo
non è l’istinto materno, ma di sopravvivenza. Quel particolare suono deve
essere stato progettato da Dio, pensa tra sé e sé, perché sia impossibile da
ignorare.
Si passa una mano tra i capelli, che da quando è tornata a casa sono
inspiegabilmente unti, poi cammina piano verso la stanza del piccolo e si
ferma per un attimo sulla porta. Chiude gli occhi e si lascia investire dal
frastuono delle grida, dei boccheggi del bambino che è in iperventilazione. Si
chiede di nuovo se le importi qualcosa. È una persona orribile, non ci sono
dubbi.
Riapre gli occhi e si avvicina alla culla. Il bambino è rosso, di un rosso
scioccante, spaventoso. Gli cola il naso e il mento è lucido per la bava. Ma è
ancora minuscolo; com’è possibile che qualcosa di così piccolo faccia tutto
quel rumore? Com’è possibile?
«Oh, Jonathan» sussurra Barbara, con un tono senza speranza.
E poi accade qualcosa di miracoloso: il bambino smette di piangere.
All’istante. Così, come se niente fosse. E i suoi occhi celesti si spostano su di
lei.
Barbara avverte un brivido lungo la schiena, molto simile a un brivido
di freddo, solo che non fa per niente freddo.
Mentre si domanda perplessa cosa fosse quella strana sensazione,
allunga un braccio e gli sfiora la guancia, e lui fa una bolla di saliva e qualche
versetto. A quel punto le si smuove qualcosa, come dell’acqua che attraversa
un tubo arrugginito; un’emozione, che dev’essere rimasta sotto chiave così a
lungo da risultarle solo vagamente familiare, inizia a crescere dentro di lei.
Si china sulla culla (il dolore dei punti le provoca una smorfia) e solleva
il bambino. È bagnato fradicio e puzza, ma lo prende comunque e lo avvicina
a sé, appoggia la guancia alla sua e comincia a singhiozzare senza controllo.
«Mi dispiace tanto, Jonathan» dice.

Quando le lacrime si placano, riesce a portarlo in bagno, dove gli toglie


il pannolino sporchissimo prima di pulirlo e mettergli il talco. Mentre lo
cambia, lui la fissa con gli occhi spalancati; Barbara non sa se sia una forma
di accusa o di amore. Ma non piange neanche una volta.
Alla fine lo porta in sala da pranzo e dopo essersi messa seduta lo
attacca al seno. «Mi dispiace tanto, Jonathan» dice, mentre lui comincia a
succhiare. «La mamma è stata via. Ma adesso è tornata. Tornata per sempre.»

Le emozioni che Barbara prova verso il suo piccolo appena nato sono
nuove, inaspettate e (se ne rende conto perfino lei) di un’intensità del tutto
irragionevole.
Quando lui dorme, è sopraffatta dalla fragilità del filo sottile che lo tiene
attaccato a questa vita, alla vita di lei. Trema di paura al solo pensiero che
possa non svegliarsi. Ha sentito di bambini a cui è successo.
Quando lui è sveglio e si dispera, è sopraffatta dal senso di colpa per
non essere in grado di calmarlo, e dubita delle proprie capacità come non
mai. Ma quando è felice, cosa che capita il più delle volte, prova una sorta di
estasi che non riuscirebbe nemmeno a descrivere. Osserva ogni suo minimo
gesto, bramando di essere riconosciuta da lui, mettendosi quasi a piangere
quando sembra che la guardi negli occhi, sussultando quando lui le sorride e
andando in brodo di giuggiole quando lui le afferra un dito.
Non ha mai provato niente di simile, e quel turbinio di emozioni che
l’ha travolta all’improvviso sembra comprendere qualunque combinazione
possibile: sfinimento, gioia, paura, speranza… Non manca niente.
Per le prime tre notti, cercano di dormire tutti e tre nel lettone. Jonathan
li sveglia di continuo, ininterrottamente. Spesso, dal momento in cui Barbara
riesce a farlo riaddormentare a quando lui si risveglia, passa meno di un’ora.
Tony (che sostiene di non chiudere occhio) al mattino va a lavorare con l’aria
stanca e sconsolata. E la sera, al suo rientro, sembra un morto che cammina.
Ora del quinto giorno, tra loro cominciano le liti, riguardo al bambino,
riguardo a dove dovrebbe dormire, riguardo al sonno in generale, e arrivati al
settimo, Tony, imbronciato, va a coricarsi su una brandina nella cameretta di
Jonathan. Perché Barbara si rifiuta di lasciare, non può lasciare il bambino da
solo nella stanza accanto.
Non è che non voglia, è che le è fisicamente impossibile. L’effetto che i
suoi vagiti hanno su di lei le impedisce di ignorarli. Cercare di non andare da
lui quando piange è come cercare di non respirare. E quando non sta
piangendo, ci vogliono meno di cinque minuti perché il terrore di non sapere
se respira ancora le ricopra la fronte di gocce di sudore. Quindi no, non ha
scelta. Deve stare con lui tutto il tempo.
Alla terza settimana, sono tutti d’accordo, lo ha ammesso perfino lei,
che è fuori di testa per il figlio. Ma se non altro, Tony e Glenda hanno
definito la sua isteria una reazione “normale” agli aborti spontanei avuti in
precedenza. Invece Minnie, Minnie la pratica, la concreta, non riuscendo a
farle visita senza discutere i suoi metodi educativi (insiste nel dire che
dovrebbe lasciar piangere il bambino finché non smette) ha iniziato, molto
semplicemente, a non farsi più vedere. E la cosa sorprendente è che a Barbara
non interessa.
In effetti in quel periodo lei non riesce nemmeno a pensare a qualcosa
che non sia il bambino. Tony può dormire sulla brandina o restare da Phil,
tornare a casa ubriaco o non ubriaco… Può essere di buon umore o non di
buon umore, e su di lei ha lo stesso effetto di una goccia di pioggia sul dorso
della mano.
Nella sua quotidianità, tutti quei fattori, fattori che prima erano
fondamentali, cose che le cambiavano la giornata, sono diventati irrilevanti
quanto il tempo.
È come se le fosse stata mostrata una realtà del tutto nuova, ma così
forte, così coinvolgente, così estenuante, che qualunque cosa le sia successa
prima di Jonathan, adesso per lei ha la stessa rilevanza di una storia che forse
ha sentito per radio, e che ricorda a malapena.
Il suo mondo è lì, è il presente. Il suo mondo è Jonathan. Tutto il resto
non conta un bel niente.
Naturalmente si accorge di quanto la cosa sia difficile da sopportare per
Tony; lo vede che si sente tagliato fuori. Ma ritiene che se lui non prova lo
stesso legame viscerale di responsabilità che prova lei, se non riesce a
superare la sua infantile gelosia, allora non c’è molto che lei possa fare. E lo
stesso vale per Minnie.
Il fatto che Tony si stia allontanando, che magari lei lo stia respingendo,
e addirittura che lui potrebbe lasciarli, la preoccupa, a grandi linee, quanto
uno si preoccupa di qualcosa che si è dimenticato di aggiungere alla lista
della spesa. Ogni tanto ripensa alla sua infanzia tristissima senza un padre e
capisce, a livello razionale, che sarebbe una catastrofe, e che probabilmente
dovrebbe comportarsi in modo diverso. Ma nemmeno quelle immagini
cariche di ansia riescono a fare presa nel mare in tempesta dei suoi ormoni.
È come se nel terreno fertile della sua mente, dove i ragionamenti
possono mettere radici, non fosse rimasto un solo spazio libero. È tutto
occupato. Per adesso, anche se è inspiegabile, il mondo esterno non esiste. Ci
sono solo Barbara e Jonathan, Jonathan e Barbara.
A volte l’amore per lui la consuma e a volte è la paura a consumarla, ma
tutto il resto, e tutti gli altri, dovranno solo aspettare che le cose rientrino
nella normalità.
2012 — TRAFALGAR SQUARE, LONDRA

Sophie si sfrega i palmi sudati sui pantaloni neri e lancia un’altra


occhiata alla porta in fondo alla stanza. Brett ha dovuto darsi parecchio da
fare per procurarle questo incontro e lei ha una sola possibilità. Non può
sprecarla.
Avvicina la cartelletta contenente i lavori di suo padre perché, per
quanto assurdo, toccarla (ricordare a se stessa che la cartelletta è lì accanto a
lei, a portata di mano) la rassicura.
Il dottor Nicholas Penny. Il curatore della National Gallery, in persona.
Riesce a malapena a credere che stia per incontrarlo. Controlla l’orologio.
Controlla il telefono. Controlla le e-mail. Controlla di nuovo l’orologio. È
passato solo un minuto.
Pensa alla cartelletta dentro la cartelletta: dieci delle migliori foto che
lei abbia mai fatto. Si chiede di nuovo se avrà il coraggio di mostrargliele.
S’immagina mentre se ne va senza aver aperto la seconda cartelletta. Sa che
potrebbe non avere le palle.
Di certo Brett non l’ha aiutata, visto che non ha preso una posizione,
cosa non da lui, riguardo al fatto di mostrare o meno quelle foto. «È possibile
che trovino interessante l’idea di una cosa padre-figlia» le ha detto, lasciando
chiaramente intendere che, d’altra parte, è possibile anche il contrario.
Alla fine la porta si spalanca e compare qualcuno che non è il dottor
Nicholas Penny: una giovane donna con un caschetto e un gran sorriso
professionale. Si avvicina a Sophie, che si alza e le stringe la mano.
«Sophie Marsden, giusto?»
«Sì, sono io.»
«Claire Freeman» dice la donna. «Prego! Da questa parte.»
Percorrono il lungo corridoio al di là della porta e arrivano in un piccolo
ufficio pieno zeppo di roba. Sophie si aspetta che quella donna la lasci sola; si
aspetta che vada a chiamare il dottor Penny. Invece si siede alla scrivania.
«Prego» le dice. «Si accomodi.»
Maledizione, pensa Sophie. Mi ha sbolognato alla sua segretaria.
«Lei è la figlia di Anthony Marsden, giusto?»
«Sì. Conosce i suoi lavori?»
«Un po’.»
Quindi non li conosci, pensa Sophie.
«Allora, cosa posso fare per lei?» le chiede Claire.
«Io…» Mi aspettavo di incontrare il dottor Penny, dice tra sé e sé.
Valuta la possibilità di pronunciare quella frase, ma decide di non farlo.
Vorrebbe solo sapere chi è questa Claire Freeman, ma non esiste un modo
cortese di chiederlo. Avrebbe dovuto controllare la lista dello staff della
National Gallery in modo più accurato, ma l’appuntamento era con Penny,
quindi si è preparata solo su di lui. «Io… volevo fare due chiacchiere con voi
per sapere cosa ne pensate riguardo all’idea di organizzare una retrospettiva
su mio padre» dice Sophie.
«Certamente.»
«Abbiamo esaminato tutti gli archivi e ci sono molte fotografie che la
gente non ha mai visto. Riteniamo che potrebbe venirne fuori una mostra
eccezionale.»
«Sì, ne sono sicura» dice Claire. Sta ancora sorridendo, e Sophie lo
prende come un buon segno.
«Ne ho portate alcune con me» dice Sophie. «Vuole dargli
un’occhiata?»
«Ehm, va bene…» dice Claire. Con un’espressione confusa, si alza e
gira intorno alla scrivania per avvicinarsi a lei.
Sophie fa un respiro profondo e apre la cartelletta. Ha passato intere
settimane a selezionare, cambiare, ordinare e riordinare quelle foto. Ma
adesso è piena di dubbi, è convinta di aver scelto quelle sbagliate.
«Oddio, che scatto splendido» dice Claire, tirando verso di sé la prima
stampa: un gruppo di bambini in mutande che gioca sotto lo spruzzo di un
tubo dell’acqua rotto. «Immagino che sia molto orgogliosa.»
«Sì, un po’» ammette Sophie. «Questa è del 1964.»
«Al giorno d’oggi, se ne stanno tutti a casa a giocare alla Playstation»
dice Claire.
«Esatto!» Sophie fa scivolare la seconda foto sopra la prima e Claire
sospira. È una foto meravigliosa di un punk, con tanto di spille da balia come
piercing e capelli a punta, che sale su un Intercity 125 “nuovo di zecca” negli
anni Settanta.
«È fantastica» dice Claire. «Di sicuro aveva buon occhio.»
Incoraggiata, Sophie continua a passarle le stampe, a una a una, e Claire
le osserva e fa dei versi di apprezzamento. Tuttavia, il tempo che dedica a
ogni foto si riduce sempre di più. Quando arriva all’ultima, nota la piccola
cartelletta sul fondo, la accarezza e alza lo sguardo verso Sophie. «E qui cosa
c’è?»
«Oh, queste sono solo alcune delle mie» dice Sophie, con più
nonchalance possibile.
«Anche lei è una fotografa? Ma certo!» dice Claire, facendo scivolare il
dito sotto l’elastico. «Posso?»
Sophie deglutisce a fatica e annuisce, felice che almeno sia stata lei a
chiederglielo, che almeno non abbia dovuto obbligarla a guardarle. Claire
apre la cartelletta e compare la prima immagine, il trittico di Sophie: le tre
foto dei tre modelli, tuttora il suo lavoro preferito di quegli ultimi dodici
mesi. «È fantastica» dice Claire, poi, appoggiando l’unghia sul mento di Eddi
Day: «Mi ricorda qualcuno».
«Sì, è una modella abbastanza conosciuta.»
Claire annuisce e dà un’occhiata veloce al resto delle foto. «Sì» dice,
quando arriva alla fine. «Sì, sono molto carine. Davvero carine.»
«Grazie» dice Sophie. Carine. Ahi!
«Allora!» dice Claire, tornando dall’altro lato della scrivania. «Ho
controllato il nostro database e a quanto mi risulta noi abbiamo una sola foto
di suo padre. Risulta anche a lei?»
«In realtà io pensavo che non ne aveste neanche una» ammette Sophie.
«Sa qual è?»
«È di una manifestazione, una manifestazione per l’aborto, credo. Le
dice qualcosa?»
«Certo. È piuttosto famosa; quell’anno si aggiudicò il primo premio di
fotogiornalismo.»
Claire annuisce e il suo sorriso si spegne, rimpiazzato da qualcosa che
somiglia a una smorfia di preoccupazione. Apre la bocca per parlare, poi la
richiude e si sfrega la mascella prima di dire: «Mi dispiace, Sophie. Ma se lei
credeva che non avessimo nessuna foto di suo padre, allora sono un po’
confusa sul motivo della sua visita oggi».
«Mi scusi?»
«Io pensavo che volesse organizzare un prestito.»
«Un prestito?»
«Dei lavori di suo padre. Per la sua retrospettiva. Ma visto che qui da
noi ce n’è solo uno…»
«Oddio, no!» dice Sophie. «Come dicevo, non sapevo… perciò non mi
era passato per la mente.»
«Capisco.»
«No, io…» Sophie si schiarisce la voce, un po’ mortificata di dover
spiegare in modo esplicito il motivo della sua visita. Aveva sperato che fosse
ovvio. «Pensavo che l’idea potesse interessare alla National Gallery» dice.
«Interessarci?»
«Pensavo che voi, che la National, potesse voler ospitare la
retrospettiva.»
Le sopracciglia di Claire si sollevano quasi fino all’attaccatura dei
capelli, ma poi, mentre comprende il senso di quelle parole, ripiombano giù.
«Oh, capisco…» dice.
«L’anno prossimo avrebbe compiuto ottant’anni, quindi io… noi
abbiamo pensato che sarebbe un’occasione perfetta. E abbiamo pensato che
la National sarebbe il posto perfetto.»
Claire annuisce lentamente. «Mhmm» dice. «Sì. Certo.»
Sophie giocherella con la cartelletta per riempire i secondi di silenzio
imbarazzante.
«Quindi sarebbe nel 2013?» dice alla fine Claire. «La ricorrenza?»
«Sì.»
Claire fa una strana faccia, come se stesse trattenendo un sorriso, poi
scrolla le spalle mentre spiega: «Mi dispiace doverle dire, Sophie, che noi
programmiamo le nostre mostre alla National con molti anni di anticipo.
Quindi se i lavori di suo padre fossero qualcosa che vorremmo esporre, temo
che ci servirebbero due o tre anni di preavviso. Come minimo».
«Oh» dice Sophie. «Be’, non c’è ragione che debba essere per forza nel
2013. Il 2014, o il 2015 andrebbe bene. Magari anche dopo.»
«Sì… Senta, Sophie.» E Sophie conosce quel tono di voce. E capisce
che la cosa non andrà a buon fine. «Se devo essere del tutto sincera, non
credo che i membri del consiglio di amministrazione sarebbero favorevoli»
dice Claire.
«D’accordo. Non c’è problema. E posso sapere il motivo?» chiede
Sophie, cercando di non sembrare ferita o aggressiva.
«Se fosse stato un esponente della fotografia artistica…» dice Claire.
«Ma non è questo il caso, Sophie, giusto? Lui era un giornalista. Uno molto
bravo, ma comunque un fotogiornalista.»
Sophie si passa la lingua sui denti, ma no, non riesce a trattenersi.
«Claire» dice. «Senta, non so quanto conosca il mondo della fotografia, ma
forse potrei parlarne con il dottor Penny? Era lui che mi aspettavo di
incontrare oggi.»
«Temo che il dottor Penny abbia delegato me» dice Claire. «Mi dispiace
molto che ci sia stato un fraintendimento in merito alla sua visita. Se lo avessi
saputo, non le avrei fatto perdere tempo.» Guarda l’orologio sulla parete. «E
temo che adesso sia io a non avere più tempo.»
«Il fatto è» dice Sophie, consapevole di sembrare disperata ma incapace
di andarsene senza sferrare un ultimo colpo «che non esisteva la fotografia
artistica negli anni Cinquanta e Sessanta. La fotografia non è stata considerata
una forma d’arte da nessuna scuola fino agli anni Settanta. Perciò…»
«Questo lo so anch’io» dice Claire, sorridendo a denti stretti. «Non sono
così arrugginita in storia dell’arte. Adesso mi perdoni, ma devo proprio
andare. Se posso aiutarla in qualunque altro modo, non esiti a contattarmi.»
Claire fa scivolare il suo biglietto da visita sulla scrivania, Sophie se lo
mette in tasca, prende la cartelletta e quando si alza, Claire la sta già
aspettando con la porta aperta.
«Oh, be’, grazie comunque per il tempo che mi ha dedicato» dice
Sophie.
«Si figuri. Se ha bisogno sono qui. Si ricorda dov’è l’uscita, vero?»
«Sì.»
«Arrivederci, allora» dice Claire. «E buona fortuna per la sua
retrospettiva.»
Una volta uscita in strada, Sophie si ferma per riprendere fiato. Si
accorgere di essere un bagno di sudore. Si chiede se Claire se ne sia accorta.
Mentre si mette la mano in tasca per prendere un fazzoletto, il biglietto da
visita cade per terra. Si asciuga le sopracciglia, poi si piega per raccoglierlo.
C’è scritto: CLAIRE FREEMAN. M.A. FRPS. CURATRICE DEL DIPARTIMENTO DI
FOTOGRAFIA, NATIONAL GALLERY.
FRPS. MEMBRO DELLA ROYAL PHOTOGRAFIC SOCIETY! M.A. Un master in
arte! Curatrice di fotografia!
Sophie sente la sua voce dire: «Non so quanto conosca il mondo della
fotografia», e si ricopre da capo a piedi di sudore. «Oddio!» mormora. «Oh,
Sophie!»

Sophie solleva le borse della spesa e le mette sul piano della cucina,
facendo un sospiro pesante. Brett compare sulla porta dietro di lei e sembra,
per qualche ragione, compiaciuto. Si stiracchia le braccia, si appoggia allo
stipite, e le sorride. «Cibo» dice. «Ottimo! Sto morendo di fame.»
Sophie lo guarda con la coda dell’occhio, solleva un sopracciglio e
comincia a tirare fuori la spesa. Quando Brett si avvicina e sbircia dentro uno
dei sacchetti, gli dà uno schiaffo sulla mano.
«Che donna autoritaria» dice Brett. «Mi piace.»
«A me no» farfuglia Sophie, aprendo una confezione di yogurt prima di
metterli in frigo.
«Ho fatto qualcosa di male, mia padrona?» dice Brett, e in quel
momento è una risposta così sbagliata, ma così sbagliata, che a Sophie viene
da chiedersi se Brett non la conosca neanche un po’.
«Tu…» Si ferma e sospira. «Potresti darmi una mano seriamente»
continua, dopo aver ripreso il controllo della voce. «E potresti perfino fare la
spesa ogni tanto, invece di aspettare a casa con la lingua penzoloni come un
cucciolo maleducato.»
«Ehm» dice Brett, iniziando a tirare fuori a caso la roba dai sacchetti e a
piazzarla in un modo ancora meno utile sul bancone. «Qualcuno è di cattivo
umore.»
«No» dice Sophie. «Qualcuno non lo è.»
«Se vuoi posso portarti a cena fuori» propone Brett. «Ma fare la spesa
non è proprio una cosa che mi appartiene.»
Sophie si ferma, con un tubetto di dentifricio in mano. «Non ti
appartiene?»
Brett scuote la tesa con fare sconsolato.
«E che mi dici delle pulizie?» chiede Sophie, puntandogli contro il
dentifricio. «Fare le pulizie ti appartiene?»
«No, non direi. Immagino sia per questo che ho la donna delle pulizie.»
«Certo» dice Sophie. «Io invece non ce l’ho. Quindi se ogni tanto
potessi raccogliere le cose che lasci in giro, sarebbe grandioso.»
«Sì, mia padrona» dice Brett.
«E smettila con questa stronzata della mia padrona, d’accordo?»
«Sì, mia padrona» la sfotte Brett.
Sophie grugnisce e scuote la testa per la disperazione. Quando Brett
allunga con delicatezza una mano e gliela appoggia sulla spalla, lei si scosta
per farla cadere.
«Hai avuto una brutta giornata, tesoro?» le chiede Brett, con un tono più
sincero.
«Sì, Brett. Ho avuto una brutta giornata.»
«Alla National Gallery?»
«È stato tremendo. Solo a pensarci mi sento male.»
«Okay…» dice Brett, mettendosi sulla difensiva, con le braccia
incrociate. Quando si ritrova a fronteggiare uno dei suoi malumori, Brett
passa velocemente da uno stato di preoccupazione, a uno di compassione a
uno d’irritazione. Le braccia incrociate indicano la fase intermedia. «Allora,
potrei portarti fuori a cena così mi racconti tutto» propone.
«Non ho nessuna voglia di parlarne» gli dice Sophie. «E non mi va
nemmeno di uscire a cena.»
«Vuoi che me ne vada?» le chiede Brett. «Si tratta di questo?»
Sophie scrolla le spalle e scuote la testa. «A dire la verità non lo so che
cosa voglio in questo momento» ammette.
«Che ne dici di un abbraccio?» le chiede, assumendo una posizione più
rilassata mentre si gratta l’orecchio. «A volte un abbraccio può servire in
momenti come questi.»
E siccome Sophie capisce dal suo tono di voce che questa è l’ultima
occasione che ha prima che lui perda le staffe e le dica qualcosa del tipo Be’,
se devi fare così, allora vaffanculo, cosa che lei proprio non vuole, fa un
passo indietro. «Okay» dice. «Proviamo con un abbraccio.»

Più tardi, mentre il tonno si sta cuocendo in padella, Sophie prepara


l’insalata e intanto riflette sul suo malumore, cercando di analizzare il motivo
per cui è stata dura con Brett. Il problema è l’appuntamento alla National
Gallery, perché quando le va storto qualcosa, intacca tutto il resto. Le succede
così da sempre, perciò in parte capisce il meccanismo che scatta dentro di lei,
anche se fa ancora fatica a controllarlo.
Nei giorni buoni, tutto sembra andar bene. Nei giorni buoni, sa che
prima o poi entrerà a far parte del mondo della fotografia artistica, sa che la
retrospettiva su suo padre sarà un successo senza precedenti, e che l’elegante
e malizioso Brett, con i suoi gusti sessuali piccanti, la sua lista infinita di
ristoranti meravigliosi, e i suoi contatti quasi illimitati nel circuito dell’arte, è
l’uomo perfetto per lei. Ma nei giorni no, come oggi, sa con altrettanta
certezza che la retrospettiva non avrà mai luogo, che lei è una fotografa di
quart’ordine a cui è capitato di avere un padre famoso, e che il flaccido e
grasso Brett è troppo pigro in casa e troppo perverso in camera da letto
perché lei possa mai costruire una relazione seria con lui. E che niente di tutto
ciò ha importanza perché tra quarant’anni saranno comunque morti entrambi.
Forse è bipolare ed è in depressione. È possibile essere un “po’”
bipolari? Non è la prima volta che quel pensiero le sfiora la mente. Ma è
anche possibile che sia semplicemente immatura. Magari un giorno riuscirà a
diventare saggia e a trovare la serenità, giusto prima di esalare l’ultimo
respiro.

Dopo aver messo la cena in tavola, Sophie racconta a Brett com’è


andata alla National Gallery.
«Dovresti sempre informarti sullo staff prima di appuntamenti come
quello» commenta Brett. «È importantissimo sapere chi dovrai incontrare.»
«Grazie, Brett» dice Sophie, con tono sarcastico. «Credo di essermene
resa conto da sola.»
«Comunque, su col morale» dice. «Ci sono altri musei.»
«Tipo?»
«Ne abbiamo già parlato. C’è il Victoria & A…»
«Hanno detto di no.»
«Davvero?»
Sophie annuisce mentre prende la forchetta e si mette a disegnare dei
cerchi nell’aceto di lampone rimasto nel piatto. «Hanno risposto per posta.
Sono stati cortesi. Ma hanno detto di no.»
Brett arriccia il naso. «C’è il Wapping Project.»
«Hanno detto di no anche loro. Ho parlato con… come si chiama?»
«Jules Wright?»
«Esatto. È stata gentile. Ma categorica. È un “no”.»
«Forse avresti dovuto lasciare che la chiamassi io.»
«Ho aspettato che la chiamassi tu. Non l’hai fatto.»
«Stavo per farlo ma… comunque… Oh, e ho parlato con il mio contatto
alla Tate. Ma secondo lui non vorranno ospitarla nemmeno loro.»
«Lo vedi? È un disastro.»
«Allora dovrai farla in una galleria privata» dice Brett. «Va bene
comunque, no?»
«Immagino che non ci sia alternativa.»
«Ma per far sì che il gioco valga la candela dovrete mettere in vendita le
foto. Pensi che potrebbe essere un problema per la tua famiglia?»
Sophie scuote la testa. «Forse potrebbe addirittura stuzzicare un po’
l’interesse di mia madre.»
«Dici?»
«Con mia madre non si può mai sapere. Ma non si è mai mostrata
allergica ai soldi.»
«Bene allora» dice Brett. «Parlerò con il mio amico Mike Rowes. Lui
conosce Jean Jopling.»
«E chi sarebbe questa Jean Jopling, se posso chiedere?»
«Ehm, nessuno di speciale. È solo la proprietaria del White Cube.»
«Oh. Wow! Oh, Brett! Sarebbe fantastico.»
«Visto, non sono del tutto inutile» dice Brett.
«No, lo so questo» risponde Sophie, sforzandosi di abbozzare un
sorriso, il primo di tutta la giornata. «E ti sono riconoscente per l’incontro di
oggi. Anche se ho mandato tutto a puttane.»
«Probabilmente non sarebbe cambiato nulla» dice Brett, per cercare di
consolarla. «Probabilmente sarebbe stato comunque un no. Sapevo che non
c’era da farsi illusioni.»
«Avresti potuto dirmelo prima che ci andassi. Non ci sarei rimasta così
male.»
«Non volevo smontarti prima ancora che ci parlassi.»
«Suppongo che sia stato giusto così» dice Sophie.
«E mi dispiace per il disordine e per la spesa» dice Brett. «Posso pagarti
una donna delle pulizie, se vuoi.»
«No, grazie. E poi sono stata un po’ ingiusta. Nemmeno io faccio molto
a casa tua. Quindi dispiace anche a me. È stata solo una brutta giornata.»
«Comunque» dice Brett «lo capirei se tu volessi punirmi.»
Sophie viene di nuovo sommersa da pensieri negativi. Perché il sesso
con Brett sta diventando sempre più strano, gli scenari sempre più
ingarbugliati e gli arnesi necessari per farlo eccitare sempre più numerosi. È
come possedere un’automobile con un sistema di accensione che richiede di
volta in volta un passaggio ulteriore. E lei non riesce a fare a meno di pensare
che arriverà inevitabilmente il momento in cui, non potendone più, riporterà
indietro l’automobile e dirà: Non fa per me. Mi può dare qualcosa di più
semplice? Qualcosa che si mette in moto appena giro la chiave?
«Credi che prima o poi ci ricapiterà di farlo nel modo classico?» gli
chiede.
Brett sembra sorpreso. Si piega verso di lei come se avesse davvero
capito male. «Scusa?» le dice.
«Intendo, insomma… senza tutto l’equipaggiamento» dice Sophie. «O il
sesso normale è stato rimosso dalla lista per sempre?»
Brett aggrotta le sopracciglia, deglutisce, poi si lecca le labbra. «Stasera
sei proprio di umore strano» dice.
«Lo so. Ma voglio comunque una risposta.»
«Allora la risposta è sì, certo che possiamo. Possiamo farlo in
qualunque modo vuoi.»
«Bene» dice Sophie.
«Io sono il tuo schiavo del sesso. Sono a tua totale disposizione. Basta
che parli.»
Sophie lo fissa dritto negli occhi e sospira piano. È come se avesse
avuto una rivelazione. Le sembra di aver appena visto il suo futuro, ed è
senza Brett. Si domanda se dovrebbe assecondare il suo istinto e sganciare la
bomba adesso. Sarebbe così facile.
Ma Brett ha avvertito il pericolo. «Va bene, scusa» dice, deciso a evitare
che la situazione degeneri. «È stato stupido da parte mia. Sei stanca. Sei di
cattivo umore. E hai avuto una brutta giornata.»
Sophie annuisce vagamente.
«E hai solo voglia di un bacio, un abbraccio e di farti una bella,
tranquilla, banale scopata. Giusto?»
Wow, ci sei andato vicino, pensa Sophie. Si schiarisce la voce. «Sì.
Possiamo riassumerla così» dice.
Brett si alza. «Vieni» dice, allungando una mano verso di lei.
E non tanto perché le va, ma più che altro perché non ha la forza di
combattere, Sophie la prende e si lascia portare in camera da letto.
1968 — HACKNEY, LONDRA

Barbara sta preparando un pasticcio di pesce. Si piega per pareggiare lo


strato di patate con una forchetta e si sforza di mantenere la concentrazione
su ciò che ha davanti. Perché oggi sta succedendo qualcosa di strano, ma non
riesce bene a capire di cosa si tratti e non vuole pensarci troppo.
Diane sta andando a cena da loro per presentargli il suo nuovo ragazzo
(non era mai successo prima) e nell’aria si respira un’atmosfera di attesa che,
per qualche motivo, sembra esagerata, visto che alla fine si tratta solo di
sedersi a tavola e mangiare un pasticcio di pesce con degli amici. Perfino
Jonathan, che oggi ha deciso, chissà perché, di starle avvinghiato alle
ginocchia mentre lei cucina, pare essersene accorto.
Tony, che è uscito un attimo a comprare “da bere”, sembra entusiasta e
irritato in egual misura, e il sospetto che si ubriacherà a livelli indicibili la fa
stare ancora più in ansia. In passato ha notato manifestarsi in lui un certo
nervosismo subito prima di una sbornia, come se l’alcol fosse una valvola di
sfogo che gli impedisce di implodere. Ed è passato un po’ di tempo
dall’ultima volta… Stasera potrebbe essere una di quelle sere.
«Devo prendere il burro dal frigo» dice a Jonathan, scompigliandogli i
capelli. Lui ridacchia e mette i piedi sopra i suoi, si aggrappa alle sue cosce e
dice: «Allora vai». Insieme, camminano fino al frigorifero, poi fanno il
percorso contrario con Jonathan che per tutto il tempo fa dei versi da robot.
Barbara taglia il burro a pezzetti e lo distribuisce sullo strato di patate, e
intanto si chiede se Tony continuerà a ubriacarsi adesso che né Phil (che si è
trasferito in Scozia) né Diane sono più disponibili. Non può evitare di pensare
che il fatto che Diane abbia un ragazzo sia un nuovo inizio anche per lei e
Tony. E non vuole fare passi falsi. Non vuole perdere quel treno.
Arrivano alle sei e mezza. Richard è alto, molto magro e ha un’aria
nervosa. I suoi occhi si spostano sui i loro visi quasi cercassero qualcosa, poi
proseguono verso la stanza come se volessero raccogliere informazioni per
fare un rapporto di polizia. Ma è un bel ragazzo. A Barbara ricorda Dirk
Bogarde in Un dottore in alto mare. Nota la sua camicia bianca, immacolata,
la cravatta annodata con precisione, e per un attimo pensa che vorrebbe che
Tony si vestisse meglio.
Richard non è per niente il genere di persona con cui si aspettava che si
sarebbe messa Diane, ma d’altra parte (se ne accorge solo adesso) la sua
trasformazione da ragazzaccio che si atteggia ad artista, a elegante signorina,
si è conclusa. Ha capitolato anche sulle sopracciglia, che sono state sfoltite.
Stasera indossa un costoso abito nero, semplice, con uno scollo a V, sopra
una camicia bianca con il collo ampio, e un paio di sandali bianchi col tacco.
Accanto a Richard/Dirk, vestito in maniera impeccabile, sembrano una
coppia appena uscita dall’ultimo film di Hollywood. Barbara al confronto si
sente molto sciatta e si ripromette di farsi dei vestiti nuovi, più alla moda.
Tony stringe la mano a Richard e gli dà una pacca sulla spalla in modo
goffo. «Allora, tu sei il famoso Richard di cui abbiamo sentito tanto parlare!»
sta dicendo, il che è strano, perché Barbara non ha sentito affatto parlare di
lui.
Da tre settimane si sono trasferiti in questo nuovo appartamento in
affitto, più grande, e la sala da pranzo, che puzza di vernice, è ancora un
lavoro in corso d’opera. Barbara ha pitturato le pareti di turchese da meno di
quarantotto ore, e ha trovato il paralume a fiori in un negozio di seconda
mano solo quella mattina. Tony dice che non gli piace quella tonalità di
azzurro e che odia il paralume, e in tutta onestà nemmeno lei è molto
contenta del risultato finale. Non è come se lo era immaginato, ma è anche
vero che nella vita ben poche cose lo sono davvero. E comunque, è sempre
meglio che intrattenere gli ospiti circondati da una carta da parati che si
stacca dai muri sotto una lampadina nuda. Il tavolo da campeggio, preso in
prestito dai vicini, è stato coperto con una tovaglia e ha un aspetto dignitoso,
e adesso hanno tre sedie, quindi Tony è l’unico a doversi sedere su una cassa.
«Dunque, ho saputo che sei un architetto» dice Tony, a dimostrazione
del fatto che lui ha veramente sentito parlare di Richard. «Dev’essere
interessante.»
«Sì» risponde Richard. «E Diane mi ha detto che anche tu sei un
fotografo.»
«Non proprio» risponde Tony. «Non come Diane. La mia in verità è
solo una passione.»
Diane si mette a ridere. «Non dargli retta» dice. «Gli hanno pubblicato
delle foto sul Mirror. È bravo, vero Barbara?»
«Sì. Decisamente.»
«Me ne hanno pubblicata qualcuna» dice Tony. «In realtà io sono solo
un fattorino.»
«Fattorino!» dice Richard, cercando di usare un tono entusiastico.
«Almeno puoi andartene in giro! Io passo tutto il giorno in ufficio. È
terribile.»
Il suo tentativo coraggioso di far sembrare l’umile impiego di Tony
interessante ha l’effetto opposto a quello desiderato, e rimane sospeso
nell’aria, mettendo tutti a disagio per qualche secondo. «Ma a breve mi
licenzierò» dice Tony, dopo un silenzio imbarazzante. «Voglio dedicarmi a
tempo pieno alla fotografia. L’idea è questa. Farò un corso serale.»
Barbara percepisce la sua sofferenza, e anche se a lei non aveva mai
accennato niente, anche se dubita che sia in grado di portare avanti il suo
progetto, dice: «Dovresti farlo. Io te lo dico in continuazione. Le capacità non
ti mancano di certo».
Tony le lancia un’occhiata sorpresa. «Be’, grazie!» dice.

Barbara porta in tavola dei pompelmi tagliati a metà con ciliegie


candite, seguiti dal pasticcio di pesce. Tony, Diane e Richard divorano tutto
come se non mangiassero da mesi; bevono molte bottiglie di pale ale; eppure,
nonostante l’ottimo cibo e nonostante l’alcol, l’atmosfera resta gelida.
Barbara non riesce a capire cosa ci sia di preciso che non va, ma la
conversazione è forzata, i silenzi frequenti e pesanti. Quando serve il crumble
di mele, è esausta solo per i continui sforzi di trovare qualcosa da dire; perciò
appena Jonathan, nella stanza accanto, si mette a piangere, prova un sincero
senso di sollievo e si dilegua per occuparsi di lui.
Diane e Richard non si fermano molto. Alle dieci, con la scusa poco
convincente di doversi svegliare presto, si stanno già infilando il cappotto e
stanno salutando, poi, a braccetto, s’incamminano lungo il vialetto.
«Be’, è stata una bella serata» dice Barbara, dopo aver richiuso la porta.
«Ah sì?» risponde Tony, che è a malapena sobrio.
Barbara scrolla le spalle. È chiaro che Tony vuole giocare a carte
scoperte. «No, non proprio» ammette. «È stata terribile.»
«Non sopporto i tipi così leccati» dice Tony.
«Mi era sembrato che lui ti piacesse» dice Barbara. Dopo aver assistito
per tutta la sera ai suoi tentativi di ingraziarsi Richard, è un po’ confusa.
«Architetti del cavolo» dice Tony. «Hai visto come ha reagito quando
gli ho detto che faccio il fattorino? Oh, dev’essere molto interessante
andarsene in giro tutto il giorno.»
«Probabilmente stava solo cercando di essere gentile» dice Barbara.
«Si crede chissà chi, questo è il suo problema.»
«Oh, non è così male, mi pare.»
«Io penso che Diane potrebbe trovare molto di meglio di quel
viscidone.»
«Sembra che a lei piaccia» dice Barbara. E per poco non aggiunge: ed è
un bel ragazzo, ma per fortuna si trattiene. Non l’avrebbe presa bene. Deve
muoversi con accortezza quando ha bevuto. «Sono abbastanza carini
insieme» dice invece, con tono riflessivo.
«Bah» dice Tony, mentre apre un’altra birra e se ne va in soggiorno.
«Sei geloso» sussurra Barbara, dietro di lui.
«Sono cosa?» le grida Tony.
«Niente» dice Barbara. «Dicevo solo che me ne andrò a letto. Jonathan
mi ha svegliato presto stamattina.»
«Certo» risponde Tony. «Io mi finisco queste birre.»

Barbara è seduta su un cuscino nell’angolo della stanza. Dalla finestra


entra uno spiffero di aria fredda che le arriva dritto alla schiena, ma per
adesso non ha intenzione di spostarsi. Vuole evitare a tutti i costi di fare il
minimo rumore. In mezzo alle sue gambe, Jonathan sta giocando con un
sottomarino giallo limone, lo muove lungo le righe del tappeto mentre fa
vibrare le labbra per imitare il suono di un motore che scoppietta.
Il divano viola (di seconda mano), che hanno comprato recentemente
tramite un collega di lavoro di Tony, è occupato da quattro ragazzi che Tony
ha conosciuto al nuovo corso di fotografia. Sono, da sinistra verso destra:
Dave il moro (con un maglione spesso a trecce color beige), la graziosa
Alison, la hippy e taciturna Wendy e il giudizioso Malcolm.
Tony sta offrendo gli stuzzichini (miniwürstel, pezzi di ananas e cubetti
di formaggio infilzati in stecchini di legno) che ha preparato lei prima.
«Il punto è» dice Dave «che una fotocamera riesce a far notare alla
gente cose che altrimenti non noterebbe. Tutti i piccoli dettagli.»
«Una fotocamera è un po’ come un coltello da burro» dice Alison, con
gli occhi spalancati.
«Un coltello da burro?»
«Sì» dice. «Un coltello da burro caldo che, insomma, taglia porzioni di
realtà e le conserva per dopo.»
«Caspita, mi piace» dice Malcolm. «Un coltello caldo che taglia
porzioni di realtà.»
«Cosa ne pensate del fatto che la settimana prossima fotograferemo
nature morte?» chiede Alison. Sembra sempre un po’ stupita dal suono della
sua voce. Barbara si chiede se sia perché la sorprende che improvvisamente, e
in modo del tutto inaspettato, alle donne sia concesso di esprimere concetti
così complessi. Nessuna di loro se lo aspettava, e il caso vuole che alcune
siano più preparate di altre.
«Io credo di preferire la gente e i luoghi» dice Tony. «Non mi convince
l’idea di fotografare delle ciotole di frutta.»
«Pensi davvero che è di quello che si tratta?» chiede Dave, infilandosi
in bocca uno stuzzicadenti su cui prima c’era del cibo. «Di ciotole di frutta?»
Tony scrolla le spalle. «Di solito sono quelle le nature morte, no?»
«Ehi, anche le ciotole di frutta hanno dei diritti» dice Alison.
«Anche la frutta ha dei diritti!» concorda Malcolm, e tutti scoppiano a
ridere, e Barbara, anche se non capisce la battuta, abbozza un sorriso e
rivolge l’attenzione su suo figlio. «Sei contento del tuo nuovo sottomarino?»
sussurra.
Jonathan alza gli occhi verso di lei, il suo viso si illumina e annuisce
entusiasta, e per un attimo sono solo Barbara e Jonathan, Jonathan e Barbara,
e va tutto bene. «Questo è Ringo» le dice, sussurrando per imitarla mentre
indica una delle persone nel sottomarino.
«Giusto» dice Barbara. «Bravo.»
«… non vedo l’ora di fare lezione nella camera oscura» sta dicendo
Tony quando lei si ricollega con il mondo esterno. «Mi è capitato di
sviluppare dei negativi insieme a un’amica; suo padre ha un negozio di
cinefoto. Ma sarà utile imparare bene tutte le tecniche.»
Malcolm sta osservando un foglio ciclostilato pieno di scritte viola.
«Qui dice che studieremo mascheratura e bruciatura» dice. «Chissà cosa
sono.»
«Sono dei modi per cambiare l’esposizione di parti diverse della
stampa» gli dice Tony. «La mascheratura è quando usi qualcosa di opaco per
ridurre l’esposizione, e la bruciatura è il contrario. Almeno credo.»
Jonathan sbatte il sottomarino sul piede di Barbara e a voce alta dice:
«Bum!», così tutti si voltano verso di loro.
«Sei comoda lì, Barbara?» le chiede Alison, dopo che l’esplosione del
sottomarino ha fatto cadere il velo che la rendeva invisibile. «Sicura che non
vuoi fare cambio e metterti sul divano?»
Barbara sorride e scuote la testa. «Sto bene qui con Jonathan» dice, con
il cuore che le batte forte adesso che tutta l’attenzione si è spostata su di lei.
«Tony mi ha detto che ti fai i vestiti da sola» dice Alison, in modo
spontaneo.
Barbara annuisce e prova a deglutire. Ha la gola secca. «Sì» dice con
voce roca. «Ogni tanto.»
«Che brava» afferma Alison. «A me piacerebbe tanto saper fare
qualcosa di così pratico. Io non so nemmeno attaccare un bottone. Devo
chiedere a mia madre di farlo.»
«Io… Credo che andrò a controllare la quiche» dice, mentre si alza e si
tira giù la sua banalissima gonna acquistata in negozio.
«Allora cucina anche!» commenta Malcolm.
«Ma certo» dice Tony. «Barbara è un’ottima cuoca, non è vero?»
Barbara accarezza la testa di Jonathan e per un momento quel gesto la
tranquillizza, le permette di respirare in modo quasi normale mentre passa
accanto agli amici intelligenti di Tony, sorridendo con pudore. Una volta sola
in cucina, si aggrappa al bordo freddo del lavello e fissa il cortile fuori dalla
finestra, bagnato dalla pioggia appena caduta. Cerca di fare dei respiri
profondi. Si sforza di rallentare i battiti del cuore. Sta avendo uno dei suoi
“attacchi”, ma se l’è cavata. Le sembra che non se ne sia accorto nessuno.
Mentre la conversazione nella stanza accanto continua, prende un
canovaccio, lo inumidisce sotto il rubinetto e si picchietta la fronte. Tony sta
cambiando sotto i suoi occhi, e ha la sensazione che si stia creando una
distanza tra loro, si è accorta che sta imparando a sostenere nuovi generi di
conversazione. In quel momento lo sente dire: «Il fatto è che la fotocamera
rende la produzione di immagini democratica. E questo cambierà il modo di
documentare la storia».
Ripete quella frase nella sua testa, finché, al quarto tentativo, capisce
cosa significa. Poi riesce a fare una serie di respiri corti, faticosi, e a quel
punto si piega per tirare fuori la quiche dal forno. È così perfetta, così
simmetrica, così liscia e lucida, che sembra uscita da un libro di ricette.
«Posso farcela» dice ad alta voce. «Sto bene.»
2012 — BRIGHTON, EAST SUSSEX

Appena vede il ristorante, Sophie lascia andare la mano di Brett.


Presentarlo a sua madre la rende nervosa, e vuole scegliere con cura il
momento in cui le spiegherà chi è. Se l’editor di Brett non le avesse detto che
è “essenziale” che la “moglie” (sua madre) partecipi alla cosa, lei sarebbe
stata più che felice di rimandare quell’incontro all’infinito. Ma è essenziale.
Perciò, eccoli lì.
Brett, che stava fissando le onde, si volta e vede il Regency. «Oddio,
Sophie!» esclama. «È quello?»
«Temo di sì» risponde lei. «Ma dovrebbe essere buono. Ha ottime
recensioni su TripAdvisor.»
«Eh?» dice Brett.
«Eh! Non metterti a fare lo snob con me adesso.»
«Pensavo solo che avresti voluto portare tua madre in un posto un po’
speciale, tutto qui.»
«Mia madre ha gusti strani quando si tratta di ristoranti» dice Sophie.
«Questo le piacerà. È perfetto. Vedrai.»
«E sei sicura che non avrà problemi a venire da sola fino a Brighton?»
le chiede.
Sophie fa un cenno con la testa verso il ristorante, dove Barbara, seduta
vicino alla vetrata, sta salutando con la mano. «Guarda. È già arrivata» dice,
salutandola anche lei.
«Bene!» dice Brett, spingendo la porta.
«Mi raccomando, zitto!!!» lo ammonisce Sophie, mentre lo segue e
attraversa l’ambiente spartano per raggiungere sua madre. «Ciao mamma! Ce
l’hai fatta!»
«Certo che ce l’ho fatta!»
«Questo è il mio amico giornalista, Brett.»
Barbara alza gli occhi verso di lui e Sophie nota che lo squadra. Dal suo
sguardo non trapela niente. «Salve, Brett» dice, con tono piatto.
«Salve, signora Marsden.»
«Se la mettiamo così, conviene che mi dici il tuo di cognome» dice
Barbara.
«Mi scusi?» le chiede Brett mentre si siede, si toglie la giacca e la
appende sullo schienale.
«Ti sta solo dicendo che dovresti chiamarla Barbara» gli spiega Sophie,
mettendosi seduta anche lei. «Brett è americano, mamma. Non usano il
sarcasmo.»
«Ehm, scusa?» dice Brett. «Sì che lo usiamo.»
«Be’, il mio non era sarcasmo» dice Barbara.
«Okay. Non lo era. Allora, com’è stato il viaggio, mamma?»
«Lento.»
«Lento?»
«Non ho mai capito perché la gente anziana deve essere così anziana»
dice. «L’autobus si fermava ogni cento metri, e tutte le volte c’era un
pensionato che doveva salire, ma nemmeno a uno era venuto in mente di
tirare fuori il portafogli o l’abbonamento prima che il controllore glielo
chiedesse. Perciò ogni fermata è durata dieci minuti, e l’intero viaggio più di
due ore.»
«Ti avevo detto che potevamo venire noi a Eastbourne. Te l’ho
proposto, mamma.»
«No» dice Barbara, prendendo il menu. «Va bene qui. Ci vengo così
poco a Brighton ultimamente. Ho cambiato aria. E poi sai qual è il detto…»
«Qual è il detto?» chiede Brett, con aria un po’ distratta mentre cerca un
fazzoletto in tasca per pulirsi gli occhiali.
Barbara lancia un’occhiata a Sophie e fa una smorfia; un sorriso
smorzato. Sembra che voglia dirle: Non sei riuscita a trovarti niente di
meglio, cara?
«È americano, mamma» ripete. «E il detto è» prosegue, rivolgendosi a
Brett «che cambiare fa bene quanto una bella dormita.»
«Oh, d’accordo» dice Brett, annuendo con aria perplessa. Sophie è quasi
certa che non ci stia capendo niente.
«Questo posto è molto più caro del Qualisea» afferma Barbara,
studiando il menu.
Sophie trattiene a stento un sorriso. «Sei sterline? Per un fish and chips?
Stai scherzando? È quanto si paga a Londra per un caffè.»
«Da Qualisea costa quattro e cinquanta. È… ehm…»
«Il venticinque per cento in meno» dice Brett, chiaramente intenzionato
a dimostrare di non essere stupido. «O un terzo in più, a seconda di come la si
vuole guardare.»
«Sì, esatto» dice Barbara. «Un terzo in più.»
«Qui siamo a Brighton. E c’è la vista sul mare.»
«Immagino che tu abbia ragione» ammette Barbara, e Sophie vede la
fatica che fa per avere un atteggiamento positivo. La osserva combattere
contro il suo demone, mantenendo un’espressione impassibile, finché non
riesce finalmente a sconfiggerlo, si lecca le labbra e dice: «Sì, be’, è molto
carino. Vale la pena spendere un po’ di più per poter stare seduti a guardare le
navi, non credi?».

Il cibo è abbastanza buono (semplice, cucinato bene), ma la


conversazione non va secondo i piani. Barbara sembra piuttosto contenta di
parlare delle origini americane di Brett, o del suo lavoro al Times, o dei suoi
gusti in fatto di abbigliamento (approva e vorrebbe che più uomini si
vestissero in modo elegante, gli dice). Ma ogni tentativo di spostare la
conversazione sul padre di Sophie, sui suoi lavori, o sulla retrospettiva, viene
prontamente respinto, prima cambiando discorso e poi, se quello non
funziona, con un rifiuto categorico di affrontare l’argomento.
«Non lo so, ma parliamo d’altro» dice Barbara, quando le viene chiesto
quali scatti avrebbe piacere che fossero inclusi.
«Preferirei davvero non pensarci» dice quando le domandano chi, tra le
conoscenze di Tony, potrebbero invitare a una potenziale esposizione privata.
«Molti di loro sono morti. È questo il fatto.»

Dopo una passeggiata in centro e un caffè da Costa, Sophie e Brett


riaccompagnano Barbara sul lungomare, e quando l’autobus numero dodici
su cui è salita si infila nel traffico del weekend, la salutano con la mano.
«Eh!» dice Brett, la sua esclamazione universale.
«Te l’ho detto che non ne era entusiasta» dice Sophie.
«Non entusiasta?» scoppia a ridere Brett. «Quello, tesoro, si chiama
boicottaggio.»
«Pensavo che con la tua presenza sarebbe andata meglio, ma semmai è
stato peggio.»
«A volte nemmeno il mio charme riesce a far vacillare una donna. Che
vuoi che ti dica?» Le prende il braccio e lo stringe un po’. Si voltano e
tornano verso le Lanes, dove si trova il loro alberghetto chic. Sophie sbuffa e
gli chiede, dubbiosa: «Posso farla anche senza di lei, no?».
Brett scrolla le spalle. «È come ha detto il mio editor. Puoi. Ma almeno
il cinquanta per cento delle opportunità di dare risalto all’evento passa
attraverso l’utilizzo della “donna che lo conosceva meglio di tutti”.» Solleva
le dita per indicare le virgolette intorno al titolo.
«Utilizzo…» ripete Sophie, facendo una smorfia.
«Tesoro, sai cosa intendo.»
«Sì. Certo. Allora, adesso che si fa?»
«In che senso che si fa?»
«Nel senso di adesso. Oggi. Un altro caffè? Torniamo in albergo?»
«Vorrei andare in un negozio che ho visto prima» dice Brett. «Vicino
alle Lanes.»
«Okay. Che genere di negozio?»
Brett la prende per mano. «Lo vedrai.»
«Oh, per favore, dimmi che non è quello squallido sexy shop con tutti i
vibratori in vetrina.»
«Non insistere» dice Brett. «Lo vedrai!»
Sophie s’incupisce ma quando Brett, qualche minuto dopo, si ferma
davanti a una piccola gioielleria, le rispunta il sorriso. «Oh!» dice.
«Non essere delusa» scherza Brett. «Al sexy shop possiamo andarci una
volta usciti da qui.»

Dopo che Brett ha comprato una collana di turchesi poco costosa ma


carina per Sophie e un paio di gemelli per sé, e che l’ha presa in giro
fingendo di voler dare un’occhiata a dei vibratori giganti, i due tornano in
albergo. Dato che in camera il segnale wi-fi non arriva, Brett scende al piano
di sotto con il suo portatile per controllare le e-mail, mentre Sophie si sdraia
sul letto e cerca di pensare a una strategia per motivare sua madre, ma invece
si addormenta.
Quando si sveglia, il computer di Brett è ricomparso, ma lui è ancora
fuori, quindi gli manda un messaggio per chiedergli dov’è e telefona a sua
madre.
«Ciao Sophie» risponde Barbara. «Sono arrivata in questo istante. Senti
già la mia mancanza?»
«Volevo solo assicurarmi che non avessi avuto problemi a tornare a
casa.»
«Nessuno. Come puoi vedere.»
«Sei stata bene oggi?»
«Sì. In effetti è stato bello fare qualcosa di diverso. Brighton mi è
sempre piaciuta.»
«E che mi dici di Brett. Lui ti è piaciuto?»
Segue un silenzio spettrale, perciò alla fine Sophie dice: «Oddio! Lo
prenderò come un no, giusto?». Capisce che sua madre dall’altra parte del
telefono si sta trattenendo, si sta quasi letteralmente mordendo la lingua.
«Andiamo, sputa il rospo.»
«È solo che…» dice Barbara. «Senti… Sembra abbastanza simpatico.»
«Ma?»
«Ma penso che non dovresti dargli troppa confidenza.»
Sophie stacca il telefono dall’orecchio e lo guarda con aria perplessa
prima di riprendere la conversazione, chiedendole: «Cosa intendi con non
dargli troppa confidenza?».
«E comunque, a cosa ti serve un giornalista?»
«Scusa?»
«Lo sai come sono fatti. Sono solo interessati a pescare nel torbido. E se
hai davvero intenzione di fare questa sciocca retrospettiva, allora credo che
non dovresti coinvolgere Brett nella faccenda. Dico solo questo.»
Diversi pensieri passano per la mente di Sophie, tra cui: Quale torbido?
E: Mia madre non si fida di Brett. E ancora: Io mi fido di Brett? Ma avverte
anche una piccola scossa di adrenalina, perché si rende conto della cosa più
importante di tutte, cioè che per la prima volta sua madre ha preso in
considerazione la possibilità che l’esposizione si faccia davvero. Ed è una
vittoria epica.
«Brett non c’entra proprio niente con l’esposizione» dice alla fine, un
commento scelto appositamente per rimarcare che ha accettato l’esposizione
come un dato di fatto. «Insomma, a parte avermi messo in contatto con
alcune persone del settore… Ma la cosa finisce lì.»
«Io ho avuto un’altra impressione» dice Barbara. «Io ho avuto
l’impressione che stesse organizzando tutto lui.»
«Non è affatto così.»
Un altro silenzio.
«Mamma?»
«Allora non capisco perché l’hai portato.»
«Scusa?»
«Perché portare un giornalista a conoscermi se non c’entra niente con
questa cosa?»
«Oh!» Sophie si mette a ridere. «Oddio, scusa.»
«Cosa c’è di così divertente?»
«È il mio ragazzo, mamma. Mi dispiace. Avrei dovuto dirti… Ma
pensavo che ci fossi arrivata.»
«Brett è il tuo ragazzo?»
«Sì.»
«E da quando?»
«Da… un po’ ormai. È per questo che te l’ho fatto conoscere.»
«Ho capito» dice Barbara. «In realtà, adesso devo andare» aggiunge,
con tono imbarazzato.
«Mi dispiace tanto, mamma» dice Sophie. «Non è colpa tua. Avrei
dovuto essere più chiara.»
«Certo che non è colpa mia. Ma stanno bussando alla porta. Devo
andare.»
«Davvero?»
«Sì. Davvero. Ci sentiamo. Ciao.»
E in men che non si dica, sua madre riattacca.
Sophie abbassa il telefono e lo guarda di nuovo con aria perplessa. «Ma
che le è preso?» chiede, senza rivolgersi a nessuno in particolare.
Proprio in quel momento, la porta della camera si socchiude con un
cigolio e da dietro spunta, ad altezza uomo, un pene viola di plastica. Sophie
si accorge che è attaccato a un’orrenda maschera di gomma che indossa Brett.
«Bleah!» esclama. «Ma che vi prende a tutti, oggi?»
«Come scusa?» le chiede Brett, la voce attutita dalla maschera.
«Dio, ci credo che non si fida di te» dice Sophie. «Cos’è quell’affare?»
Brett chiude la porta dietro di sé e solleva la maschera appoggiandosela
sopra la testa, e così facendo il pene punta verso l’alto come un assurdo
cappello di carnevale. Lui agita le sopracciglia e sorride, con aria
compiaciuta. «Si chiama la Trivella Vulcanica!» annuncia, in modo plateale.
«Allora, dimmi un po’, sei pronta per essere trivellata, tesoro?»
1968 — HACKNEY, LONDRA

Barbara è in ginocchio davanti alla griglia del camino e sta piegando i


giornali a soffietto come le ha insegnato sua madre. Minnie passerà a trovarla
nel pomeriggio (la lavanderia è chiusa per una riparazione al sistema di
riscaldamento dell’acqua) e in fondo in fondo Barbara sa che sua madre sarà
contenta se, al suo arrivo, vedrà che ha piegato la carta per accendere il fuoco
nel modo appropriato. Il desiderio di compiacere i propri genitori sembra non
scomparire mai del tutto, nemmeno quando uno è diventato genitore a sua
volta.
Attraverso le assi di legno, sente Tony sotto di lei imprecare per la
“maledetta polvere di carbone”. Ne hanno appena consegnati tre sacchi
(l’ordine minimo) e li hanno sistemati nello scantinato, che da poco è
diventato anche la camera oscura di Tony. Jonathan, che è stato scontroso
tutta la mattina, è perso nel mondo dei Lego e Barbara ne sta approfittando.
La settimana prossima comincerà la scuola, e benché lei lo ami ancora con
un’intensità smisurata, e la spaventi il vuoto che si creerà in casa con la sua
assenza, in parte non vede l’ora, pur vergognandosene, che quel momento
arrivi. Ha intenzione di sfruttare le prime settimane per dare gli ultimi
ritocchi al soggiorno e alla sala da pranzo, e poi si cercherà un lavoro part-
time. Avrebbe tanto voluto dargli un fratellino o una sorellina, ma le
circostanze le hanno imposto di cambiare i suoi piani. Per di più, se non
inizierà a guadagnare qualcosa anche lei, dovranno aspettare anni prima di
poter risistemare le camere da letto o comprare la moquette, e questo nella
migliore delle ipotesi.
«Non va! Non va, accidenti!» grida Tony, e Barbara si volta per
controllare l’effetto delle sue urla su Jonathan: lui si ferma, aggrotta le
sopracciglia, ma poi, per fortuna, riprende a giocare.
Barbara riempie il camino di giornali, ci appoggia sopra dei legnetti,
sempre tanto difficili da trovare, in cima mette qualche pezzo di carbone e
poi, rimpiangendo un po’ il fatto che Minnie non vedrà mai come erano
piegati bene i fogli, accende un fiammifero. «Tra poco ci sarà un bel
calduccio» mormora.
Di sicuro Tony si lamenterà. Ha già detto che usare il camino a
settembre è uno spreco di soldi, ma dopo tre giorni di pioggerellina continua,
Barbara non ha soltanto voglia di accendere il fuoco. Ne ha bisogno.
Sente i passi di Tony rimbombare sui gradini di legno. La porta dello
scantinato si spalanca con una tale forza che sbatte contro il muro, e quando
Barbara alza lo sguardo dalle fiamme che si stanno pian piano sollevando, lui
è in cima alle scale, tutto rosso e ha un’aria arrabbiata «Non ne posso più»
dice. «Vado al Ladywell a farmi un pinta.»
«Non funziona, tesoro?» gli chiede lei.
«No, non funziona, porca miseria. Mi piacerebbe tanto sapere come si
fa a lavorare sommersi dalla polvere di carbone.» E senza aggiungere altro,
scompare, tirandosi dietro la porta.
Barbara trattiene il respiro per un attimo e poi, sollevata, lo rilascia. In
effetti è strano, perché lui le manca sempre quando è a lavoro, eppure la
verità è che le piace più l’idea di averlo intorno che la sua reale presenza. È
sempre così teso, sempre sul punto di arrabbiarsi, se non proprio arrabbiato.
Perciò prova un gran sollievo ogni volta che lui esce di casa, come se il
pericolo incombente fosse passato. Tony non l’ha mai picchiata. Se è per
questo non ha mai alzato neanche un dito su lei o su Jonathan. Ma lei convive
perennemente con la sensazione che potrebbe capitare. Sembra sempre che
possa succedere da un momento all’altro.
Mette il parascintille davanti al fuoco, poi va in cucina a farsi un tè.
Quando è pronto torna con la tazza in soggiorno, e vede che Jonathan si è
addormentato con la faccia contro i mattoncini di Lego colorati sparsi sul
pavimento. Probabilmente dovrebbe metterlo in una posizione più comoda,
ma è stato nervoso tutta la mattina, e quel momento di pace (lo scroscio
dell’acqua nelle grondaie e lo scoppiettio del fuoco) le sembra il paradiso.
Perciò lo lascia stare, e sorseggia il tè fissando le fiamme.
Più tardi, dopo che Minnie è venuta e andata (con l’ombrello sotto un
braccio e Jonathan sotto l’altro) Barbara scende nello scantinato. In effetti c’è
polvere di carbone ovunque. Sulle bacinelle di sviluppo dei negativi, sul
piano di lavoro, su tutto l’ingranditore preso in prestito. «Per forza non
funziona» mormora, chiedendosi perché Tony non lo abbia pulito prima di
cominciare. Non è mai riuscita a capire l’incapacità di suo marito di avere
pazienza, il suo costante bisogno di arrivare di corsa al traguardo. Si dà un
gran da fare per mantenerli ed è rapidissimo nei lavoretti di casa, Barbara non
ha mai conosciuto nessuno in grado di batterlo. Le mogli degli altri uomini
sono gelose della velocità con cui riesce a mettere una mensola; molte di loro
aspettano mesi per cose simili. Ma non chiedergli di carteggiare il telaio di
una finestra prima di ripitturarlo o di pulire un pennello dopo averlo usato, o,
come in questo caso, di togliere la polvere di carbone prima di provare a
sviluppare un costoso rullino, perché tanto è inutile. Nell’ultimo periodo dice
sempre più spesso di voler diventare un fotografo professionista, ma a meno
che non impari ad avere un po’ di pazienza, Barbara ha seri dubbi che possa
succedere. Secondo lei correre su e giù per il paese a bordo di una
motocicletta gli si addice molto di più.
Tira un negativo appeso a un filo verso di sé. Ci sono impressi dei volti
spettrali, ma dato che sono molto vaghi, non è in grado di dire a chi
appartengano.
Prende un foglio delle istruzioni. C’è scritto: Liquido di sviluppo Ilford.
Legge il testo da cima a fondo. Sembra la ricetta di una torta: aggiungere un
tanto di questo e un tanto di quell’altro. Mescolare. Controllare la
temperatura. Aspettare tot minuti. Quanto può essere difficile?
Decide di pulire lo scantinato. Sì, toglierà tutta la polvere e poi, se Tony
sarà sobrio e le permetterà di farlo (nessuna delle due cose è probabile),
magari cercherà di aiutarlo a riprovarci. Forse insieme ci riusciranno.

Barbara ha avuto un’idea, una di quelle idee folli, ingegnose che


necessiterebbe dell’autorizzazione di qualcuno pratico in quelle cose perché
possa essere realizzata, se solo esistesse qualcuno là fuori che può autorizzare
una cosa del genere. Ma le uniche persone a cui Barbara può chiedere
consiglio la dissuaderebbero; questo lo sa. E qualcosa le dice che molto
probabilmente farebbero bene.
Non c’è niente di per sé che non vada nel suo piano, e non sa con
esattezza nemmeno perché quell’idea le sembri tanto diabolica. Ma ancora
prima di metterlo in atto, è così che si sente, diabolica. Diabolica ed eccitata,
come il possessore di un biglietto di seconda classe che vede l’opportunità di
infilarsi in un vagone di prima.
E stanno suonando al campanello, ed è Diane, che è pericolosa nel vero
senso della parola.
A volte Barbara pensa a Diane e vorrebbe che la frequentassero di più.
E a volte pensa che vorrebbe essere Diane, perché c’è qualcosa di
entusiasmante in lei, di audace e spericolato e seducente. Ma altre volte, in
effetti la maggior parte delle volte, vorrebbe tenerla il più lontano possibile
dalla sua famiglia. E in questo momento, nonostante le mille incertezze di
Barbara, Diane si è presentata a casa loro come le è stato chiesto, perché alla
fine dei conti è l’unica persona che lei conosce ad avere il potere di mettere in
atto il suo piano.
«Ciao!» dice Barbara, tirando con forza la porta per aprirla; si è gonfiata
per via di tutta la pioggia caduta. «Entra! Entra! Sembri congelata!»
Diane, che indossa un tailleur-pantalone grigio con un dolcevita, un
basco viola e sfoggia un nuovo taglio a caschetto, ha un aspetto fantastico.
Un tempo, Barbara riusciva a consolarsi con il fatto che, se anche non era
intelligente quanto Diane e nemmeno altrettanto divertente, almeno era più
carina. Ma le cose non stanno più così da qualche anno ormai; la
dimostrazione, nel caso ce ne fosse bisogno, di quello che possono fare dei
vestiti alla moda e un buon parrucchiere.
«Sono congelata!» dice Diane.
«Dov’è il tuo cappotto?» le chiede Barbara, facendole strada in
soggiorno. «Non ce l’hai?»
«Non sono riuscita a trovare niente che stesse bene con il resto»
ammette Diane, con una smorfia d’imbarazzo. «Sono stupida, lo so! Me ne
sono pentita nell’istante in cui sono uscita di casa. Non ho scampo, mi
prenderò anch’io quell’influenza che c’è in giro.»
«Be’, d’altra parte siamo a novembre.»
«Ho visto un bel trench da British Home Stores, in effetti. Avrei dovuto
comprarlo. È solo che… insomma… British Home Stores… Comunque…
Che carino qui» dice, facendo un cenno con la testa al fuoco acceso mentre si
guarda in giro. «È accogliente adesso che lo hai risistemato.»
«Grazie. Be’, tu scaldati un po’» dice Barbara, sentendosi
all’improvviso nervosa, convinta, in quel momento, di stare commettendo
uno sbaglio enorme. Con un disperato bisogno di fuggire dalla situazione
troppo intima del soggiorno, dice: «Ti faccio una tazza di tè bollente. Non
muoverti!».
«Certo» dice Diane, nonostante la segua in cucina. «Allora, che
succede?» le domanda, mentre si toglie il basco e si smuove i capelli. «Ho
pensato che ci fosse sotto qualcosa se mi hai chiesto, insomma, di venire
quando Tony è a lavoro.»
«No, niente di che» dice Barbara. «Volevo solo parlarti di una cosa.»
«Parlarmi?»
«Sì.» Barbara si schiarisce la voce, poi si concentra sui movimenti da
fare per sciacquare la teiera, prendere le foglie di tè con il cucchiaino… Sente
che sta per avere una delle sue crisi in cui le manca l’aria. Deve solo
focalizzare l’attenzione su dei gesti meccanici, e se la caverà. Sa per
esperienza che se esegue dei semplici compiti finché non le passa, riuscirà a
continuare a respirare.
«Allora, di cosa si tratta?» le chiede Diane. «Qual è questo segreto?»
«Probabilmente è una stupidaggine. Insomma, non so neanche se è
possibile.»
«Spara.»
«Be’, voglio parlarti delle foto. Dello sviluppo. E della stampa e tutto il
resto.» Fissa l’interno della teiera e si fa coraggio prima di alzare lo sguardo
verso Diane, sforzandosi di avere un’espressione neutrale. Una parte di lei si
aspetta che le scoppi a ridere in faccia.
Diane sembra soltanto confusa. «Non capisco» dice.
Barbara fa un respiro profondo, poi si butta. «Tony sta avendo molte
difficoltà da quando tuo padre ha chiuso il negozio» le spiega.
«Me lo immaginavo.»
«Con quello che costa, non possiamo proprio permetterci di pagare per
lo svuiluppo e la stampa» prosegue.
Diane annuisce. «Quel genere di cose costa molto. Ma pensavo che
Tony avesse allestito una camera oscura. Nello scantinato mi pare?»
«Sì. Ma con scarsi risultati. Vengono tutte troppo scure o troppo chiare
o troppo graffiate o troppo qualcosa. Sta solo sprecando soldi per la carta e i
prodotti, senza ottenere niente che valga la pena mostrare.»
«Tony è fatto così, purtroppo» dice Diane. «Non sono cose difficili, ma
lui non riesce, o non vuole, seguire le istruzioni.»
«È proprio questo il punto» dice Barbara, versando l’acqua dal bollitore
nella teiera.
«Ma non capisco come posso aiutarti» dice Diane. «Lui è sempre stato
così. Mi sembra difficile che cambi.»
«Mi chiedevo se…»
«Sì?»
«Tu potresti… pensi che sia possibile… Insomma, non sono sicura di
esserne in grado ma…»
«Oh!» Dalla sua espressione si nota che ha capito. «Vuoi che te lo
insegni?»
Barbara la guarda timorosa. «È una sciocchezza, vero?» dice,
imbarazzata.
«No! Ma certo che no.»
«E probabilmente tu non hai neanche tempo…»
«Barbara» dice Diane. «Io…»
«Sai una cosa? Facciamo finta che non ti abbia chiesto niente.»
«Sarei felice di mostrarti come si fa» dice Diane.
«Davvero? Dici sul serio?»
Diane annuisce con enfasi.
«Potrei anche essere negata.»
«Te la caverai benissimo.»
«Insomma, non sono una fotografa o niente del genere, ma so seguire le
istruzioni. So seguire le ricette e anche gli schemi per i lavori a maglia. È un
paragone stupido… Intendo solo che, se qualcuno me lo spiega, riesco a fare
quasi tutto. Quindi ho pensato che magari…»
Diane trattiene un sorriso. «Sarai bravissima, Barbara» dice. «Sul
serio.» E all’improvviso sembra rendersi conto di qualcosa e si mette a
ispezionare la stanza con aria perplessa.
«È a scuola» dice Barbara.
«Oddio, ma certo!» esclama Diane, come se le avessero appena svelato
un mistero. «Allora hai tutto il tempo del mondo.»
«Per adesso, sì. Anche se dubito che durerà. Tieni.» Le passa una tazza
di tè che Diane stringe tra le mani e si porta alle labbra.
«Mhmm. Grazie» dice. «Allora. Fammi vedere questa camera oscura.»

Il mercoledì e il venerdì diventano i giorni di fotografia. Sviluppare una


pellicola è molto più complesso di quanto Barbara immaginasse. Deve
imparare a mischiare i chimici, a leggere le tabelle della temperatura, a
calcolare i tempi di sviluppo… Deve caricare la pellicola in una tank nel buio
assoluto con le mani dentro un sacchetto, e imparare la sovraesposizione e la
sottoesposizione sia nella fotocamera che nell’ingranditore.
Ma le piace, anzi, non le è mai piaciuto tanto fare qualcosa. Dopo anni
di letargo cerebrale a fare la mamma a tempo pieno, si sente come se si stesse
risvegliando, come se la mente, dopo un lungo sonno, fosse in fermento,
scoppiettando e sobbalzando per rimettersi in movimento.
È contenta di passare ore sotto la luce rossa della camera oscura, è
entusiasta (più di quanto vorrebbe ammettere) di trascorrere del tempo da
sola con la bella, intelligente, spiritosa Diane, è felice di vederla, per una
volta, come una sua amica, e non di Tony.
Nonostante Diane le porti la carta e i prodotti, e anche se fanno sempre
grande attenzione a lasciare lo scantinato esattamente come lo trovano, in due
occasioni Tony per poco non le scopre. Una volta perché Barbara si
dimentica di spegnere la piccola stufetta elettrica. «Stavo pulendo» dice «e
avevo freddo.» E l’altra quando, rientrato a casa prima, trova Diane in cucina,
con una scatola di carta fotografica in mano. «Che tempismo» afferma Diane,
porgendogliela senza fare una piega. «Ti ho portato un po’ di carta per fare
pratica.»
Barbara non è sicura del perché tenga nascosto a suo marito quello che
sta facendo. Con Diane si giustifica dicendo che vuole fargli una sorpresa.
Ma non è questa la verità, o almeno, non è tutta la verità. Ha paura che Tony
metta fine alla sua nuova avventura. Non sa per quale motivo dovrebbe fare
una cosa simile, ma ha la sensazione che potrebbe succedere. E poi si sente
stranamente in colpa per il fatto di passare del tempo da sola con una delle
sue più vecchie amiche. Comunque riescono a mantenere il segreto. Anche se
a fatica. E un mercoledì di dicembre, mentre fissano, fianco a fianco,
l’immagine che sta lentamente comparendo nel bagno rivelatore, Diane dice:
«Credo che il mio lavoro qui sia finito».
«Scusa?»
«Ce l’hai fatta» dice Diane. «È perfetta. Le ultime tre settimane tutto è
stato perfetto. Devi solo esercitarti con la mascheratura e la bruciatura e fare
qualche doppia esposizione. Ma sei già più brava di Tony in tutto. Lo penso
davvero.»
Barbara fissa la foto che si sta sviluppando per evitare di guardare
Diane. Perché se la guardasse adesso, sentirebbe il bisogno di abbracciarla. E
se la abbracciasse, sentirebbe il bisogno di baciarla. Con sua sorpresa, non è
più in conflitto con quei desideri. Ha avuto il tempo, lì nella camera oscura,
di imparare ad accettarli. Non sa da dove arrivino e ha deciso che non le
importa. Ama Diane, la ama davvero, ma in un modo diverso da quello in cui
ama Tony, in un modo in cui una donna può amare solo un’altra donna.È
qualcosa che ha a che fare con la sensazione di avere un’alleata, e ha legato
con lei in quelle ultime settimane come non le era mai successo con nessuno.
Ma conosce i limiti di ciò che è possibile e ciò che non lo è. Sa in che
direzione si muove la sua vita, e baciare Diane semplicemente non è sulla sua
strada. «Questo non lo dire a Tony» si raccomanda.
«Non me lo sognerei neanche» risponde Diane, mettendosi a ridere.
«Forse gliene parlerò nel weekend» dice Barbara, spingendo il foglio
nel bagno rivelatore. «Di tutto questo, intendo.»
«Non farlo» dice Diane. «Aspetta che abbia quasi finito un rullino e poi
sviluppalo. Non crederà ai suoi occhi.»
«Ma se non venisse bene?»
Diane le dà un colpo con il fianco. «Non succederà» dice. «Ci
riuscirai.»
«E se si arrabbiasse?»
«Dovresti toglierla e fissarla adesso» le suggerisce, indicando la foto.
«Sì. Stavo per farlo.»
«E se si arrabbia, allora è uno stupido» dice Diane.
Barbara mette il foglio nel bagno d’arresto, poi nel liquido di fissaggio.
«Ehm» dice. «No comment.»
«Perché non ti è concesso commentare. Ma a me sì. Comunque, credo
che all’inizio sarà infastidito. Ma poi sarà solo un enorme sollievo.»
«Lo spero.»

Asciugano la stampa di Barbara e poi rimettono in ordine la camera


oscura prima di salire in soggiorno. «Sono contenta che tu abbia imparato
così in fretta» dice Diane «perché adesso dovrò sparire per un po’ e non potrò
aiutarti fino al mio ritorno.»
«Non so come ringraziarti» dice Barbara, con una voglia improvvisa di
piangere. «Sono stata davvero bene in questi pomeriggi insieme.»
«Anch’io. Ed è il meno che potessi fare. Davvero» dice Diane.
«Mi dispiace che…» La sua mente elabora la frase di Diane con qualche
secondo di ritardo. «Cosa vuol dire che devi sparire per un po’?» le chiede.
«Niente di più di quello che ho detto» risponde Diane, infilandosi il
cappotto.
«Ma perché?»
«È una cosa che devo fare e basta» risponde Diane, avvicinando la
mano tremante alla bocca prima di riprenderne il controllo.
«Se me ne parli, magari posso aiutarti» dice Barbara, preoccupata.
«In realtà, credo che nessuno possa farlo.»
Barbara le tocca la spalla. «Diane» insiste. «Dimmi cosa c’è che non
va.»
«Non posso, davvero.»
«Ma noi siamo amiche, giusto?»
«Certo che siamo amiche.»
«Allora?»
Diane sospira con aria triste, poi arriccia il naso. Deglutisce a fatica e le
vengono gli occhi lucidi. «Oh, Barbara!» dice, con la voce spezzata. «Richard
mi ha lasciato e io sto malissimo…»
«Oh, povero tesoro!» dice Barbara, prendendola tra le braccia. Le
accarezza la schiena mentre Diane si lascia andare a un pianto a dirotto sulla
sua spalla. Sente le sue lacrime scenderle sul collo.
«Oh, su, su. Non piangere» dice. «Passerà, vedrai. Da che mondo è
mondo non c’è donna che non sia riuscita a dimenticarsi di un uomo. Noi
superiamo sempre queste cose. E poi tu non sei sola. Hai noi.»
«Sei così coraggiosa, Barbara» dice Diane tra i singhiozzi, muovendo la
testa da un lato all’altro, e mentre lo fa il suo naso sfrega delicatamente sulla
guancia di Barbara. «Ti ammiro così tanto. Vorrei essere forte come te.»
«Forte?» dice Barbara. «Io?»
«Sì» dice Diane, tirando su col naso. «Sei fantastica.»
Barbara si mette a ridere e si sposta quel tanto che basta per poterla
guardare negli occhi. «Tu sei molto più fantastica di me» dice. «E lo sai.»
Diane alza lo sguardo e poi, prima che Barbara se ne renda conto, si
avvicina e la bacia sulle labbra.
Barbara si mette di nuovo a ridere, ma questa volta dall’imbarazzo. «E
questo per che cos’era?» le chiede.
«Perché ne avevo voglia» dice. «Perché penso che tu sia incredibile.»
Quel bacio è stato così inaspettato che Barbara per un attimo rimane
paralizzata. Aggrotta le sopracciglia e si lecca le labbra, e Diane, senza
smettere di fissarla, fa la stessa cosa.
«Bene» dice Barbara, allontanandola con delicatezza. «Ti va una tazza
di tè?»
«Ma c’è un’altra cosa che devo dirti. Una cosa importante.»
«Be’, non vedo il motivo per cui non possiamo farlo davanti a una tazza
di tè, ti sembra?» chiede Barbara, di colpo brusca e pragmatica.
«No» risponde Diane, dubbiosa. «Immagino di no.»

Barbara aspetta con eccitazione il momento giusto. Aspetta che i vari


corpi celesti si allineino. Aspetta, nello specifico, che il rullino di Tony nella
macchina fotografica sia finito, o almeno quasi finito. Aspetta che lui sia di
buon umore. Aspetta un segnale che le dica che il suo nuovo progetto di vita
(essere la moglie e l’assistente part-time di Tony) verrà accolto
positivamente. Questa potrebbe essere la nuova direzione che serve al loro
matrimonio.
Il suo momento arriva quattro giorni prima di Natale. Si sveglia presto
per controllare la Rolleiflex, e visto che sono rimaste solo due pose,
sostituisce il rullino con uno nuovo e lo riporta nella stessa posizione. È uno
spreco, ma almeno Tony non se ne accorgerà.
Quella mattina freme nell’attesa che lui esca per andare a lavoro, ed è in
un tale stato di agitazione mentre veste Jonathan, che lui comincia a frignare,
e durante il tragitto verso la lavanderia, non fa altro che piangere.
«Oggi capiti male» le dice Minnie. «Non ho tempo di tenertelo.»
«Per favore, mamma. Devo fare una cosa importante» la prega Barbara.
«È una sorpresa per Tony.»
Minnie storce la bocca. «Va bene, ma non tutto il giorno» dice.
Tornata a casa, sola nel freddo dello scantinato, Barbara si impone di
respirare. «Puoi farcela» dice. «Devi solo evitare di fare pasticci.»

Sono le nove di mattina del giorno di Natale e Barbara è in piedi dalle


cinque, ufficialmente perché è stata svegliata da Jonathan, ma in realtà era
così eccitata che non sarebbe comunque riuscita a rimanere a letto molto più
a lungo.
Tony, esausto dopo una settimana di lavoro più pesante del solito e una
serie di viaggi lunghi, al gelo, è a letto con il raffreddore. Jonathan ha aperto
l’ultimo dei suoi regali e poi si è messo a giocare, cosa piuttosto seccante,
con le coloratissime scatole che li contenevano, invece che con i giochi
comprati con tanti sacrifici.
Il pacchetto piatto, rettangolare di Tony è ancora sotto l’albero poco
addobbato, e Barbara gli lancia continue occhiate, come se volesse
controllare che sia ancora lì, che non se lo è sognato.
È quasi ora di pranzo quando Tony finalmente si alza, con il naso rosso
e gli occhi lucidi. È più interessato alla colazione che al Natale, perciò
Barbara frigge le uova e il bacon prima di andare in soggiorno e tornare con il
pacchetto.
«Per me?» le chiede Tony, rivolgendole un sorriso gentile mentre tira su
col naso.
Barbara annuisce.
«Sei un tesoro» le dice. «Cosa farei senza di te?»
«Spero ti piaccia» dice Barbara, con tutto il cuore.
«Ce n’è uno anche per te lì sotto.»
«L’ho visto. Lo apro dopo.»
Tony soppesa la scatola con una mano. «Mhmm. Carta fotografica?»
«Quasi» sussurra Barbara.
Tony fa un mezzo sorriso, sorseggia il tè, e poi comincia a strappare la
bella carta con i disegni degli agrifogli, che nasconde una banale scatola di
cartone della Ilford. Fa l’occhiolino a Barbara (che sta trattenendo il fiato) e
solleva il coperchio.
«Oh!» dice con aria sorpresa, ruotando la scatola di novanta gradi. Fissa
la stampa, la parte ricurva di un edificio di duro cemento sotto un cielo
grigio, reso ancora più minaccioso dal fatto che Barbara ha mascherato i
bordi superiori per dare l’impressione che si stiano avvicinando dei brutti
nuvoloni. «È il Bull Ring di Birmingham» dice Tony.
Barbara annuisce. «Se lo dici tu.»
Tony aggrotta le sopracciglia, solleva la foto e passa all’immagine
successiva, quella di due donne con vestiti moderni che escono da un centro
commerciale cariche di sacchetti. «Ma queste sono…»
«Le tue foto, sì» dice Barbara. «Non sono bellissime?»
Tony annuisce ma continua ad avere un’espressione perplessa. «Non
capisco» dice, scuotendo un po’ la testa.
«È la tua sorpresa di Natale.»
«Hai fatto stampare le mie foto?» le chiede Tony, mentre guarda le altre
otto rimaste.
Barbara si siede davanti a lui, senza riuscire a controllare le mani, che si
stringono l’una nell’altra. «Non proprio» dice.
«Non proprio cosa?» le chiede Tony, con un tono un po’ irritato. Prende
un fazzoletto dalla tasca della vestaglia e si soffia il naso.
«In verità le ho sviluppate io per te» dice Barbara. «Le ho anche
stampate.»
Tony fa un sorrisino sarcastico. «In che senso?»
«Be’, visto che non puoi più portarle al negozio dei Darbott, ho
pensato…»
«Ah, le hai fatte fare a Diane?» dice Tony, risollevato.
Barbara scuote la testa. «No. Mi sono fatta insegnare da lei come si fa.»
«Ti sei fatta insegnare da Diane» ripete Tony, in modo secco.
Barbara annuisce e si mordicchia l’angolo della bocca. «Le ho fatte qui.
Al piano di sotto. Nella tua camera oscura.»
Tony spinge in fuori il labbro inferiore con aria scontenta mentre dà
un’altra rapida occhiata alle foto. «Sono venute bene» dice. «E le hai fatte da
sola? Senza aiuto?»
Barbara annuisce di nuovo. «Ho pensato che adesso potrei aiutarti»
dice. «Adesso che Jon è a scuola e tu ti dedicherai di più alla fotografia e…»
Ma il sorriso sul viso di Tony si è spento del tutto.
«Non sembri contento. L’idea non ti piace?»
«È solo che non capisco perché pensi che abbia bisogno del tuo aiuto»
dice Tony.
«Non lo penso, io…»
«Sono perfettamente in grado di svilupparmele da solo.»
«Certo che lo sei, ma…»
«Allora faccio fatica a capire perché tu e Diane avete deciso di ficcare il
naso nella mia camera oscura.»
«Giusto» dice Barbara, mentre le si formano delle gocce di sudore sul
labbro superiore.
«E hai usato tutte le mie cose? Tutta la mia attrezzatura? È roba costosa,
lo sai?»
«Lo so. Ma Diane ha portato i suoi chimici e la carta, perciò…»
«Che carina che è stata» dice Tony.
«Io… Sarà meglio che vada a lavare i piatti» dice Barbara mentre si
alza, sentendo l’urgenza di concentrarsi su qualcosa che non sia quella
piccola catastrofe. Perché sta iniziando a provare una rabbia che la spaventa.
«Tra poco arriva mia madre» mormora. «Devo preparare il pranzo.»
Tony annuisce. Ha un’espressione dura. «Credo che farò…»
«… un salto al Ladywood per una pinta?» suggerisce Barbara,
terminando la sua frase.
«Dovresti piantarla di occuparti delle cose degli altri e diventare una
cavolo di indovina» dice Tony, con rabbia. E poi si alza talmente di scatto
che fa cadere la sedia.
Quando Minnie arriva, mezz’ora più tardi, dice a sua figlia: «Oh, ha
solo bisogno di tempo per abituarsi all’idea. Gli uomini non digeriscono le
novità in fretta come noi, tesoro».
E il tempo le darà ragione. Ci vorrà un mese prima che Tony smetta di
lanciarle frecciatine e sei prima che riesca a chiederle, a denti stretti, un
consiglio. E poi, a distanza di un anno da quel regalo sventurato, le farà
addirittura le sue scuse e le dirà che aveva torto. Ma a quel punto, Barbara
sarà talmente occupata che non gliene importerà un accidente.
2012 — OLD HOLBORN, LONDRA

Peter Dawkins, il caporedattore della collana World of Art, della casa


editrice Thames e Hudson, sta guardando le stampe. Sophie si gira verso
Brett, che da cui si è fatta accompagnare per avere un sostegno, e lui le fa
l’occhiolino in modo discreto.
«Sì, sono molto, molto carine» dice di nuovo Dawkins. «E devo
ammettere che il pacchetto nell’insieme, le foto di tuo padre, qualche testo
biografico, e un alleato di fiducia al Times per promuovere il tutto, è più che
allettante.»
«E anche le foto della figlia» aggiunge Brett, e Sophie lo adora per
essere andato in suo soccorso nel preciso istante in cui a lei manca la voce.
«Sì» dice Dawkins, grattandosi la testa.
«È un pacchetto» gli ricorda Brett. «Questo è ciò che le stiamo
offrendo. Il padre, la figlia, gli aneddoti di chi conosceva l’uomo, e una
buona pubblicità sul Times.»
«Questo lo capisco» dice Peter Dawkins. «Certo che lo capisco.» Si
gratta di nuovo la testa e chiude la cartelletta contenente le foto di Tony, poi
riprende quella con le foto di Sophie. «Ehm» dice.
«Cos’è che non la convince?» chiede Brett, giocherellando con i gemelli
mentre si piega in avanti sulla sedia, in un atteggiamento molto franco. «Mi
dica quello che sta pensando.»
«Posso essere del tutto sincero?» dice Dawkins.
«Ma certo.»
«Queste sono buone» dice, picchiettando il dito sulla pila di foto di
Sophie. Si tratta della sua nuova serie di scatti artistici, tutti fatti attraverso
vetri rigati dalla pioggia, appannati o sporchi. L’immagine direttamente sotto
il suo dito è quella di una donna con l’ombrello sul lungomare di Eastbourne
battuto dalla pioggia e dal vento, che lei ha fotografato attraverso la vetrata
bagnata di una fermata dell’autobus. «Mi piacciono, Sophie. Davvero.»
«Questa è un’ottima notizia, non è vero Sophie?» dice Brett.
Sophie annuisce. Sta aspettando il ma. Sa che ci sarà un ma.
«Ma il fatto è questo» dice Dawkins, confermando le sue paure. Riapre
la prima cartelletta e sceglie l’immagine in bianco e nero di un manifestante
della campagna per il disarmo nucleare coperto di fango, sdraiato davanti al
cingolato di un convoglio di missili da crociera. E le affianca la più delicata
delle immagini di Sophie, un prato disseminato di fiori di campo, incorniciato
in un cuore disegnato con un dito su un finestrino molto appannato di
un’automobile. Sophie lo odia per aver scelto proprio quella. È legata in
modo particolare a quella foto, la prima della sua nuova serie; in effetti l’ha
scattata nel preciso momento in cui ha avuto l’idea di quella serie. Lei e Brett
avevano appena fatto l’amore in quell’automobile, motivo per cui il finestrino
era così appannato.
Peter Dawkins gira le due immagini verso di loro. «Capite cosa sto
dicendo?» chiede.
«No» risponde Brett. «Non proprio. Cosa sta dicendo?»
«Non fa niente, Brett» interviene Sophie, ritrovando finalmente la voce.
«Io ho capito. Vieni. Andiamocene di qui. Tanto è inutile.»
Brett solleva una mano. «No. Aspetta» dice, alzandosi e raggiungendo
Dawkins dall’altro lato della scrivania. «Temo di doverla accusare di essere
un pochino sleale» gli dice Brett, e Sophie si meraviglia della capacità con
cui riesce a dire una cosa del genere senza sembrare arrabbiato, maleducato e
nemmeno vagamente aggressivo.
«Mi lasci scegliere un paio di immagini diverse…» prosegue Brett,
rovistando tra le due pile. Prende una delle foto più delicate di Tony: una
donna con un paio di hot pants su una bicicletta Chopper negli anni Settanta;
la affianca a una scattata da Sophie attraverso il vetro appannato di un
ristorante di fish and chips, in cui una vedova, che si sente palesemente sola,
stringe una tazza di tè.
«Okay» dice Peter Dawkins. «Sì, capisco cosa intende.»
«Sto soltanto dicendo…» insiste Brett «stiamo soltanto dicendo, che
secondo noi queste immagini possono stare bene insieme, se scelte con un
certo criterio».
«Sì, suppongo che potrebbero. Ma…»
«E quello che noi stiamo cercando è un editore che lo sappia fare nel
miglior modo possibile. Perché questo è il nostro progetto. E perché Sophie
detiene i diritti delle immagini di Anthony Marsden.»
Peter Dawkins si schiarisce la voce. «Certo» dice. «Credo di avere un
quadro più chiaro della vostra proposta adesso.»
«Bene» dice Brett.
«Io, ehm, ho bisogno di qualche giorno per discuterne con i miei
collaboratori. Devo sentire anche cosa ne pensano loro.»
«Per noi va benissimo, vero Sophie?» dice Brett. «Un po’ di tempo fa
comodo anche a noi. Abbiamo, com’è ovvio che sia, altri editori da
incontrare.»
Dawkins alza lo sguardo verso di loro. «Ah sì?»
«Certo.»
«Posso chiedervi chi?»
Mhmm, pensa Sophie. Brett, inventati qualcosa.
«Ovvio che può» dice Brett. «Ma non credo che saremmo propensi a
dirglielo in questa fase. Comunque, sono sicuro che lei conosce gli attori
principali nel mercato dei libri d’arte quanto noi.»
«Sì. Sì, immagino di sì» dice Peter Dawkins. «Io, ehm, cercherò di farvi
avere una risposta il prima possibile.»
«Sarebbe fantastico» dice Brett. «Tu avevi ancora qualcosa da chiedere
a Peter, Sophie?»
Sophie, che è rimasta po’ intontita dopo aver assistito a quel particolare
incontro di boxe, si limita a scuotere la testa.
«Allora possiamo andare» dice Brett.

Una volta fuori, Sophie si infila le cartellette in mezzo alle gambe


mentre si abbottona il cappotto. È una bella giornata di novembre, con il sole
e l’aria frizzante. Dopo essersi chiusa il cappotto, si butta addosso a Brett e
gli dà un bacio sulla guancia.
«E questo per che cos’è?» le chiede.
«Per essere stato brillante» gli dice. «Per essere stato fantastico. Per
aver impedito a quello stronzo di calpestare il mio ego.»
All’improvviso Sophie si rende conto che c’è qualcuno dietro di loro, e
quando si volta vede Peter Dawkins, che ha appena finito di scendere le scale
in pietra, e si sta abbottonando anche lui il cappotto. «Oh, che situazione
imbarazzante» dice in modo arrogante. «Le posso assicurare, mia cara, che
non avevo nessuna intenzione di calpestare l’ego di nessuno.» Poi
mormorando un: «Vi auguro buona giornata» s’incammina per le strade di
Old Holborn.
Sophie sospira piano, poi si rannicchia tra le braccia di Brett.
«Ah!» esclama Brett. «Complimenti, Sophie. Davvero, complimenti
vivissimi.»
1969 — LLANELWEDD, GALLES

Jonathan sta guardando fuori dalla finestra con il naso schiacciato


contro il vetro appannato, poi si volta e domanda: «Mamma? Perché piove
così tanto nel Galles?».
Barbara, che sta facendo dei vestitini a maglia per neonati, dai colori
neutri, si mette a ridere, e quella risata è un vero toccasana. Il cottage è freddo
e umido e per niente confortevole, e lei ha molte cose per la testa. A occhio e
croce, saranno passate tre settimane dall’ultima volta che ha anche solo
sorriso.
«Hai ragione» dice. «Il Galles è molto piovoso. Lo sai, quando io era
piccola, noi facevamo finta che essere mandati nel Galles fosse una specie di
punizione.» Si rende conto che spesso parla a Jonathan di cose che lui non
può capire fino in fondo.
Minnie, sua madre, la prende in giro per questo. «Il modo in cui parli a
quel bambino!» dice. «Non è mica tuo marito.»
Ma Barbara pensa che gli faccia bene. E i fatti le stanno dando ragione.
La gente ha già iniziato a dire che Jonathan è molto intelligente.
«Succedeva durante la guerra» prosegue. «E tutti i bambini a Londra
venivano mandati nel Galles per sfuggire alle bombe. Noi eravamo
felicissime di non essere state mandate via. E poi una mia amica fu mandata
nel Galles perché era stata un po’ monella. E così diventò quasi un gioco
nella nostra famiglia. La zia Glenda mi diceva sempre: “Riga dritto, sorellina,
o per te ci sarà Il Galles”. Lo chiamavamo sempre Il Galles. Non so perché.»
Jonathan, che la sta osservando, e sembrerebbe anche che la stia
ascoltando con attenzione, in quel momento la fissa in modo inespressivo.
«Io credo di preferire Londra» dice.
«Non è quello che hai detto ieri.»
«Sì, invece.»
Barbara scuote la testa. «No. Tu hai detto che la casa sull’albero era il
posto più bello del mondo.»
Jonathan ci riflette sopra. «In effetti la casa sull’albero è molto bella»
ammette. «Posso andarci?»
«Non prima che smetta di piovere. Non ha un tetto vero e proprio.»
«Possiamo andare a comprarne uno al negozio?»
«Uno di cosa?»
«Un tetto vero e proprio.»
Barbara sorride. «Quando torna chiederemo a papà se sa come
aggiustarlo.»
Jonathan aggrotta le sopracciglia. «Finché papà non fa un tetto per
l’albero, credo di preferire Londra» dice.
«Perché non giochi con i tuoi giocattoli? Potresti costruire qualcosa con
i Lego.»
«Okay» risponde Jonathan, allontanandosi dalla finestra. «Cosa posso
fare?»
«Fammi… un uccellino!» gli dice Barbara.
«Un uccellino?»
«Esatto. Scommetto che ci riesci. Sei bravissimo con i Lego.»
Jonathan storce la bocca, un’espressione che ha imparato da Minnie.
«Un uccellino è difficile» dice. «Ma ci provo lo stesso.»
Barbara lo osserva tra un punto e l’altro finché lui non si siede sul
tappeto con i suoi Lego, e poi si perde nel rumore della pioggia e dei ferri da
maglia; nei pensieri vaghi e nebulosi che occupano la sua mente in momenti
come quello. Cerca di immaginare il bambino con indosso i vestitini che sta
facendo. Le sembra impossibile che tra un mese lui o lei sarà nato. Si chiede,
per la millesima volta, se sarà un maschietto o una femminuccia. Lo amerà in
ambedue i casi, ma in cuor suo le piacerebbe che fosse femmina. Le sembra
assurdo volerne uno di entrambi, come se fosse una collezione di francobolli
e non una famiglia. Ma è comunque quello che desidera.
Si chiede come stia sua madre. Se ci siano novità dall’ospedale. Ha
troppa paura di pensarci, perciò si rimette a pensare al bambino. Si chiede se
sarà carino. Se lei lo amerà, o la amerà, quanto ama Jonathan. Si chiede a chi
somiglierà. Jonathan è tale e quale a lei. Lo dicono tutti. Salta all’occhio
anche adesso, in quel cottage, mentre lei lavora a maglia e lui sta facendo un
uccellino che sembra un treno. Non ha neanche un briciolo dell’energia
sfrenata di Tony. Adora il fatto che Jonathan somigli a lei, che sia come lei.
Ma a volte vorrebbe che qualcuno dicesse a Tony che somiglia a lui, che è
come lui, solo per rassicurarlo.
La pioggia s’intensifica, va e viene a ondate, e adesso sta battendo sulla
finestra. Madre e figlio alzano lo sguardo verso quel rumore. «Papà si
prenderà un sacco d’acqua» dice Jonathan.
«Hai ragione. Sarà fradicio.»
«Cos’è fradicio?»
«Molto, molto bagnato. Come quando tu esci dalla vasca.»
«Posso giocare con la sua macchina fotografica?» le chiede Jonathan, a
quanto pare annoiato dalla sfida, effettivamente ardua, di fare un uccellino
con i Lego.
«Lo sai che non puoi» gli risponde. Invece non può saperlo. Negli
ultimi tempi ogni tanto è capitato che Tony gli lasciasse guardare il mondo
sottosopra attraverso il mirino. Lei lo ritiene uno sbaglio. Per diverse ragioni,
è convinta che sia uno sbaglio. Innanzitutto, è una macchina costosa, fragile,
e loro non possono permettersi di comprarne un’altra. E poi, (non che
potrebbe mai dirlo a Tony) non vuole che Jonathan venga “contaminato”
dalla fotografia e che si perda dietro a quelle sciocchezze. Vuole che da
grande impari una professione vera che gli garantisca un stipendio vero. Non
vuole che debba arrabattarsi per pagare l’affitto come fanno loro. Non vuole
che fissi un frigorifero quasi vuoto, chiedendosi cosa si può cucinare con due
patate, cinque fagiolini, un uovo e una fetta di bacon (la risposta è frittelle di
patate).
Tony non ha lo stesso rapporto con i soldi che ha lei. Lui non ha mai
dovuto lasciare la sua casa perché era stata bombardata, o restare sveglio tutta
la notte per finire un lavoro a cottimo solo per poter pagare la bolletta della
luce. Non è mai dovuto andare a scuola con un paio di scarpe così logore da
riuscire a sentire la temperatura del marciapiede sotto ai piedi. Perciò non ha
paura come lei di essere povero. Non è terrorizzato come lei di essere
affamato, infreddolito o bagnato dalla testa ai piedi. E non ha problemi a
suggerire, in un modo del tutto rilassato, che sarebbe “divertente” e una bella
“scommessa” intraprendere una nuova carriera.
Barbara sospira e lancia un’occhiata a Jonathan, che sta già smontando
l’uccellino. Una scommessa. Un nuova carriera. Proprio quando la famiglia si
sta allargando. Proprio quando ci sarà un’altra bocca da sfamare. Minnie le ha
detto di dire semplicemente di no, ma lei sopravvaluta l’influenza che sua
figlia ha sul marito. E inoltre sottovaluta il desiderio di sua figlia di rimanere
sposata. Perché è quella la scommessa di Barbara. È quella la sua carriera.
Sì, se resteranno insieme, andrà tutto bene. Se Tony non li lascerà,
Jonathan non dovrà mai conoscere la povertà in cui è cresciuta lei, non dovrà
mai sapere nemmeno che quel genere di povertà esiste. E non è forse già
abbastanza ambizioso, passarsela un po’ meglio, da una generazione all’altra?
La porta d’ingresso si spalanca e la sagoma curva, luccicante di Tony in
una cerata (l’hanno trovata nella legnaia) compare sull’uscio. «Porca vacca»
dice, mentre richiude la porta con il piede e molla una cassetta mezza piena di
verdura sul tavolo di legno grezzo. «Piove come l’Arca di Noè là fuori.»
Barbara solleva un sopracciglio per la parolaccia e l’altro per la
metafora sbagliata. Lei cerca sempre di stare attenta a ciò che dice davanti a
suo figlio. Jonathan assorbe tutto come una spugna, e i grandi piani che ha
per lui non includono solo il fatto che non dovrà mai patire la fame, o soffrire
il freddo, ma anche che da grande parli come si deve. Tutti i lavori prestigiosi
vanno alla gente che parla bene.
Lei stessa ha dovuto cambiare il modo in cui parla, e non è stato facile,
ma ci sta riuscendo per il bene di Jonathan. “Darsi delle arie” lo definisce
Minnie, ma a Barbara non importa, perché qualcuno deve farlo e,
ammettiamolo, non saranno di certo Minnie o Tony a fare quello sforzo.
«Niente, quella cavolo di pellicola 120 non è ancora arrivata» dice
Tony, appendendo la cerata gocciolante dietro alla porta. «Ma ha detto che
dovrebbero portargliela domani.»
«Tanto non è che con questo tempo puoi andare in giro a fare foto»
sottolinea Barbara.
«Anche questo è vero.»
«Allora, lei come sta?» chiede Barbara. Di comune accordo, lei non
viene nemmeno più chiamata per nome. Si rende conto che è una cosa strana,
ma non vuole pensare alla natura di quella stranezza, proprio come non vuole
pensare più di tanto a lei. Il che è probabilmente egoista da parte sua.
Tony scrolla le spalle. «Sta bene» risponde. «Stanca. E un po’
infreddolita. Non riusciva ad accendere il fuoco, ma adesso ha risolto. Oh, è
arrivata questa per te.» Tira fuori dalla tasca una busta inzuppata e si avvicina
per dargliela, e Barbara posa i ferri per prenderla dalla sua mano ancora
bagnata. L’indirizzo è scritto con la grafia inconfondibile di sua madre, un
miscuglio di lettere minuscole e maiuscole. La appoggia sulla mensola del
camino, poi si rimette a lavorare a maglia.
«Be’, non la leggi?» le dice Tony, mentre si piega davanti alla stufa e
apre la porticina per smuovere la legna.
«Non subito» dice Barbara. «Ho bisogno di prepararmi mentalmente.»
«Prepararti mentalmente per cosa?»
«Non lo so.»
«Non vedere sempre tutto nero. Potrebbero essere buone notizie.
Potrebbe non essere niente.»
«Questo lo so» dice Barbara, tagliando corto. «La aprirò tra un po’.
Quando tu sai chi sarà andato a letto.»
Jonathan, che in quel periodo è convinto di avere due nomi, Jonathan
Marsden e Tu sai chi, si sente chiamato in causa e alza lo sguardo.
Si aspetta che sua madre si rivolga a lui, visto che ha fatto il suo
“nome”, ma siccome non lo fa, le dice: «Mamma, possiamo chiedere a papà
del tetto?».
Barbara accenna un sorriso. «Jonathan vuole sapere se c’è modo di
aggiustare il tetto della casa sull’albero.»
«Ci piove dentro» spiega Jonathan. «Perciò non posso giocarci.»
«Ti piace davvero tanto quella casetta, eh?»
Il bambino annuisce. «Magari potrei vivere sempre lì» dice, speranzoso.
«Non puoi vivere sempre lì» gli dice Tony. «Ma quando smetterà di
piovere, vedremo cosa si può fare. Vedremo se riusciamo a inventarci
qualcosa.»
Jonathan arriccia il naso come se Tony avesse detto la cosa più sciocca
che avesse mai sentito. «Se smette di piovere, non ci servirà un tetto,
stupido» dice, e Barbara si chiede se Tony si arrabbierà con suo figlio per
essere stato così impertinente. Ma Tony sorride a denti stretti e, con aria
orgogliosa, dice: «È sveglio, il ragazzino».

Dopo cena, Barbara mette a letto Jonathan e poi va a prendere la lettera


dalla mensola, che nel frattempo si è asciugata. Tony, che dev’essersene
dimenticato, è concentrato nella lettura di un libro sulle tecniche di sviluppo e
stampa, il che le darà l’agio di affrontarne il contenuto da sola.
Quando alla fine lui alza lo sguardo, vede che Barbara sta fissando le
fiamme dietro al vetro della stufa, con la lettera sul grembo.
«Allora, cosa ci racconta la suocera?» le chiede.
Barbara fa un profondo respiro prima di rispondere: «Devo andare da
lei».
«Cosa?»
«È un cancro, Tony.»
«Non fare la sciocca.»
«Non sto facendo la sciocca. È quello che le hanno detto in ospedale. Le
hanno detto che ha il cancro.»
«Sì ma, insomma, non puoi andare da lei» dice Tony con dolcezza.
«Devo per forza.»
Tony appoggia il libro e si avvicina a lei. Si accovaccia accanto a sua
moglie e le prende la mano. «Non puoi, Barbara. Ne abbiamo parlato.»
«Sì, ma quando ne abbiamo parlato non aveva il cancro.»
Tony sospira e le bacia il dorso della mano. «Lei cosa dice? Sta male?»
«Non lo so. È per questo che devo andare.»
«Ma se ci vai, dovrai dirglielo.»
«Ovviamente.»
«Quindi non puoi. Aspetta solo un mese e…»
«Non posso aspettare un mese.»
«Accidenti, Barbara» dice Tony. «E se lo dicesse a tutti?»
«Non lo farà» risponde Barbara. «Non lo dirà ad anima viva.»
2012 — SHOREDITCH, LONDRA

Sophie agita le dita della mano protesa. «Dammela» dice.


Davanti a lei, Brett sta sventolando una lettera in alto sopra la testa.
«Prima voglio parlarti» dice.
«Dammela!» ripete Sophie, con tono brusco.
«Sì, ma calmati» le dice Brett. «Dobbiamo fare due chiacchiere veloci e
poi…»
«Quella lettera è indirizzata a me. È stata recapitata nella mia casella
della posta. Perciò fammi il santo piacere di darmela. Poi potremo parlare di
tutto quello che vuoi.»
Brett alza gli occhi al cielo e, sospirando per l’esasperazione, come se la
stesse dando vinta a una bambina di tre anni, abbassa il braccio e le porge la
lettera. «Sei impossibile» dice, mentre Sophie gliela strappa dalla mano e se
ne va dall’altra parte della stanza. Si butta sul divano e accarezza la busta.
Sopra c’è scritto, con caratteri eleganti, Thames and Hudson Publishing.
Sbuffa piano, poi la apre e tira fuori la lettera (carta di prima qualità,
pregiata… sarà un buon segno?). Chiude gli occhi per un attimo, poi spiega il
foglio. «In seguito al nostro interessante incontro …» mormora, scorrendo
velocemente lo sguardo tra le righe fitte. «Bla, bla… le offriamo… Oh!» Si
volta verso Brett. «Cavolo! È un sì!»
Brett annuisce con aria distesa e sorride. «Sì» dice. «Lo so.»
«Come lo sai?»
Lui scrolla le spalle. «Sono un grande, tutto qui.»
Sophie aggrotta le sopracciglia, poi torna a concentrarsi sulla lettera.
«Contratto accluso… bla bla… condizioni standard… sei per cento del
prezzo di copertina, più, ehm, compenso per la riproduzione ai titolari dei
diritti…» Sophie alza di nuovo gli occhi verso Brett. «Sei per cento. È
buono? Mi sembra un po’ miserino.»
Brett scrolla di nuovo le spalle. «È il minimo. Ma dipende da quanto
pagano per i diritti d’immagine. La maggior parte di quelli sono tuoi,
quindi…»
«Di mia madre» lo corregge Sophie.
«Sì» dice Brett. Si schiarisce la voce. «Il che ci porta giustappunto a
quello di cui dobbiamo parlare.»
«Tranquillo» dice Sophie, con tono sprezzante. «Le parlerò.»
«Le parlerai» ripete Brett.
«Le spiegherò che è un mio progetto e che lei può avere una parte, o
qualcosa, dei proventi dell’esposizione, ma che le royalties sul libro sono
mie.»
«Sì. Però credo che tu ti stia dimenticando una cosa» dice Brett.
«Cosa?»
«Credo che tu ti stia dimenticando di me.»
«Di te?»
«È merito mio se hai concluso l’affare con la casa editrice, Sophie.»
«È merito nostro.»
«In realtà tu l’avevi quasi mandato a monte» le ricorda Brett. «Se poi
non lo avessi chiamato per scusarmi per il tuo…»
«Tu cosa?»
«Gli ho telefonato. Ho dato la colpa al fatto che sei un’artista, e come
tale hai un temperamento suscettibile. È stato molto gentile, considerato che
gli avevi dato del coglione.»
«Dello stronzo» dice Sophie.
«Cosa?»
«Gli ho dato dello stronzo, non del coglione.»
«Oh, be’, allora è tutto un altro paio di maniche» dice Brett.
Sophie sente montare dentro di sé la rabbia, mista a un pizzico
d’imbarazzo. Scuote la testa, si alza e attraversa la stanza per posizionarsi
davanti a Brett. «E comunque, come ti sei permesso di contattarlo?» dice.
«Non solo non me lo hai chiesto. Non me lo hai neanche detto!»
«Era necessario, Soph. E sapevo che la cosa non ti sarebbe piaciuta.
Quel che conta è che ho salvato questo stramaledetto accordo, non ti pare?»
Sophie apre la bocca per dire qualcosa di offensivo, ma recupera il
controllo per un attimo e la richiude. «Allora, quanto vuoi?» gli chiede alla
fine. «Qual è la tariffa corrente per fare una telefonata e dire: “Le chiedo
scusa per la mia ragazza, ma è una stronza isterica?”.»
«Adesso sei sleale» dice Brett.
«Sleale. Ecco la tua parola preferita del momento.»
«Hai ragione. Mi piace. Mi piace il modo in cui la lingua sbatte sul
palato. Però, se la gente smettesse di esserlo, io sarei più che felice di
smettere di usarla. Comunque, se ti calmi un attimo, ho un’altra bella notizia
per te. Ti ho trovato una galleria. Una galleria da urlo. E il proprietario ha già
acconsentito in linea generale a ospitare l’esposizione.»
Sophie si blocca. È per metà furiosa e per metà eccitata, e non sa da
quale parte propendere. «Davvero?» dice.
«Eh sì.»
Si morde il labbro inferiore; l’eccitazione sta avendo la meglio. «È il
White Cube?»
«Non te lo dico.»
«È quella, vero? È il White Cube. Dimmi che è il White Cube!»
Brett fa una risatina. «Non te lo dirò finché…»
«Dio, io adoro il White Cube. Sei un genio, Brett.»
«Okay, senti. Non è il White Cube.»
«Sul serio?»
«Sul serio.»
«Allora quale? È…»
«Prima dobbiamo parlare. Dobbiamo discutere del mio coinvolgimento
in questo progetto, Sophie. Gli sto dedicando molto tempo. Ti ho procurato
un incontro dietro l’altro. Ti ho fatto avere quel maledetto accordo per il libro
(fa un cenno verso la busta nella sua mano) offrendomi di spingerlo sul
Times. E ho convinto il proprietario della galleria dicendogli che l’accordo
per il libro era cosa fatta. Non starebbe succedendo niente di tutto questo
senza di me.»
«Va bene, va bene, Brett. Quindi vuoi essere pagato. Ho capito. E io che
pensavo che lo stessi facendo per amore.»
«No, Sophie» dice Brett. «Questo non è amore. L’amore è lì» dice,
indicando la sua camera da letto. «Questa parte qui, è lavoro. Quindi sì, certo
che voglio essere pagato. E voglio un contratto scritto e firmato prima di
spingermi oltre.»
«Un contratto?»
«Voglio l’esclusiva per le interviste a te, a tua madre e a Jonathan. E
voglio l’esclusiva per negoziare i diritti d’immagine sul Sunday Times. Se
riesco a fare in modo che accada, tu verrai pagata. Tolta la mia parte,
ovviamente.»
«Ovviamente!»
«E voglio il venticinque per cento di tutti gli altri proventi.»
Sophie sbatte le palpebre in maniera esagerata e spalanca la bocca,
fingendosi indignata. Fa un passo indietro. «Tu sei fuori di testa» dice.
«È più che giusto…»
«Giusto?!» dice, allibita. «Il venticinque per cento? Questo non è giusto,
questa è una rapina alla luce del sole.»
Brett sorride sarcastico. «Non lo è per niente, Sophie. Credo che sia
piuttosto generoso considerato…»
«No. La risposta è no.»
«No?»
Sophie annuisce. «Esatto. Sto dicendo di no alla tua proposta. Sentiamo,
adesso come la metti?»
Brett scrolla le spalle. «Va bene» dice. «Non sarà un problema
cancellare la prenotazione alla galleria.»
«Non oseresti.»
«Sì invece. Se è questo che vuoi. E senza la galleria salterà l’accordo
per il libro. Puoi sempre ripartire da zero con l’intera faccenda e fare tutto da
sola. Finirai con qualche pagina fotocopiata in una piccola galleria merdosa
che nessuno riesce neanche a trovare, ma in fondo, a me che me ne importa?»
«Magari lo farò.»
«Bene. Fai pure.»
«Okay. Credo che adesso dovresti andartene.»
«Come scusa?»
«Visto che questa, quella che io pensavo fosse una relazione, è in realtà
un rapporto di lavoro, e visto che il nostro incontro d’affari è concluso, credo
che te ne dovresti andare.»
«Non capisco.»
«Allora te la faccio semplice. Vattene affanculo a casa tua, Brett.»
«Oh» dice, senza scomporsi. «D’accordo. Per quanto mi riguarda, stavo
pensando più a una sveltina seguita da una cena al ristorante per festeggiare,
ma se hai deciso di fare così…»
Sophie per un attimo va in crisi. Dentro di lei si sta svolgendo una
specie di incontro di wrestling tra due parti che si affrontano per decidere chi
deve comandare. A volte le succede. È come se in quei momenti il suo corpo,
e nello specifico la bocca, fosse posseduta da una forza aliena, il cui unico
desiderio è di portare ogni discussione al limite, in maniera distruttiva e
definitiva. Quello che vorrebbe davvero adesso, è esattamente ciò che
propone Brett. Sesso, festeggiamenti, felicità. Ma quella parte perde il
combattimento, e senza rendersene conto lei gli sta dicendo: «Vattene
affanculo, Brett. Porta il tuo enorme ego schifoso il più lontano possibile da
me prima che mi metta a vomitare, okay?».
«Il mio enorme ego schifoso, eh?» ripete Brett, continuando più o meno
a sorridere, anche se il suo sguardo è pieno di rabbia. Prende la sua borsa, tira
fuori dei fogli spillati e li appoggia sulla scrivania di Sophie. «Questa è la
bozza del contratto» dice. «Chiamami quando sarai rinsavita.»
Cammina a passo pesante verso l’ingresso poi, con grande imbarazzo,
deve tornare indietro, una volta le chiavi, una seconda per il cellulare, e una
terza per il cappotto, prima di riuscire finalmente a raggiungere alla porta.
«Sai una cosa, Sophie?» dice, con la mano sulla maniglia.
«Oh, vuoi chiudere quella bocca e andartene?»
Brett brontola qualcosa e scompare. Senza sbattere la porta.
1970 — EMBANKMENT, LONDRA

Barbara è all’inizio di Waterloo Bridge, dal lato di Embankment. Sta


spingendo avanti e indietro la carrozzina di Sophie mentre aspetta l’arrivo di
Tony.
In lontananza si vede il Big Ben, sua figlia dorme beatamente, e lei sta
incontrando suo marito per fare un picnic in una bellissima giornata di
giugno… Eppure l’unica cosa a cui riesce a pensare è sua madre. Domani
hanno un appuntamento (lei, Glenda e Minnie) con il chirurgo, e Barbara sa
già, perché le basta guardare sua madre, che ci saranno brutte notizie. Lo
vede dal suo colorito pallido che, nonostante l’asportazione radicale a cui si è
sottoposta (e d’altra parte, per una donna non esiste asportazione più radicale
di quella) non sono “riusciti a toglierlo tutto”.
È dal giorno dell’operazione che si aspetta brutte notizie, e oggi le
risulta difficile pensare a qualunque cosa se non che a quest’ora, domani, ne
avrà ricevute delle altre.
Sente Tony che la chiama e si volta mentre lui sta attraversando la
strada per raggiungerla. «Ciao!» dice, con il fiato un po’ corto. «Come stanno
le mie ragazze oggi?»
Barbara si sforza di sorridere. La grande tristezza che provoca in lei lo
stato di salute di sua madre lo irrita. Non glielo ha mai detto, ma sa che
secondo lui, la gioia per la nascita di Sophie dovrebbe in un certo senso
essere più importante della malattia di sua madre. Lo capisce da come insiste
nel ripetere che probabilmente Minnie se la caverà. Lo vede dal modo in cui
schiva qualunque discussione sul cancro di Minnie spostandola su un
argomento diametralmente opposto, ovvero quanto sia adorabile Sophie.
Tony non è capace di affrontare la morte o le malattie. O meglio, il suo modo
di affrontarle è ignorarle. Quindi, la risposta che Barbara gli dà è: «Stiamo
bene. Dorme da quando siamo salite sul treno».
«Pensavo che avessimo deciso che era meglio l’autobus.»
«Era strapieno, Tony. Non riuscivo a salire con la carrozzina. Ne ho
aspettati tre e poi ci ho rinunciato. E così abbiamo preso il treno per Charing
Cross.»
«Quello è per il pranzo?» le chiede, indicando il cestino sotto la
carrozzina.
«Sì. Panini con formaggio e verdure sottaceto, scones e marmellata.»
«Che bontà» commenta. «Ma non dovevi. Ti avevo detto che non ce
n’era bisogno.»
Quella mattina Tony le aveva detto, dimostrandosi come al solito un
irresponsabile in fatto di soldi, che le avrebbe portate a mangiare da qualche
parte. Ma così evitano di spendere. E non corrono il rischio di finire in un
pub. «Ho pensato che sarebbe stato più carino fare un picnic» dice Barbara.
«È una giornata così bella.»
«Che ne dici dei giardini?» chiede Tony, indicando l’altro della strada.
«E se andassimo a St. James’ Park?» propone Barbara. «Abbiamo
tempo, vero?»
Tony dà un’occhiata all’orologio. «Certo» dice.
Manca una settimana alle elezioni politiche, e non c’è mai tanto da fare
a Fleet Street come in quei giorni, ma si prenderà comunque un’ora per il
pranzo. Vorrà dire che stasera finirà un po’ più tardi. Barbara ha ragione. È
una bellissima giornata. S’incamminano.
Quando arrivano a Trafalgar Square, è in corso una manifestazione di
sostenitori, messi insieme alla buona, del Partito Laburista. Ci sono vari
gruppi che gridano e sventolano bandiere, ma i loro messaggi sono diversi e
confusi, e non danno l’impressione di essere spinti da un reale interesse.
«Possiamo andare a dare un’occhiata?» chiede Tony, accarezzando la
borsa con la macchina fotografica.
«Ma certo» risponde Barbara, girando la carrozzina e indirizzandola
verso la Colonna di Nelson.
Mentre si avvicinano al corteo, Tony si piega sulla macchina fotografica
e comincia a scattare. «Sembra che non ci sia nessun altro della stampa» dice,
fotografando un hippy con un cartello con scritto: LABURISTI SÌ. VIETNAM NO.
«È tutta roba un po’ vista e rivista, no?» dice Barbara. «Secondo me la
gente non ne può più di queste elezioni. E poi, lo sanno tutti che vinceranno
ancora i laburisti.»
«Pare che non sia così sicuro come dicono. È la voce che gira tra i
ragazzi al giornale.»
Camminano intorno alla manifestazione e Tony fa una foto a una
ragazza carina con un altro cartello: IVA AL 20 PER CENTO? NO GRAZIE!
«Guarda» dice Barbara, indicando un gruppetto di femministe alla loro
destra. Tony segue il suo sguardo e vede una donna con dei lunghi capelli
biondi e un bambino di pochi mesi legato al petto. Impilati ai suoi piedi ci
sono dei cartelli in attesa di essere distribuiti, e su quello in cima c’è scritto:
Tenete la religione fuori dal mio utero. Sì ai diritti delle donne. Sì all’aborto.
Vota laburista.
«Alcune di noi farebbero qualunque cosa per un bambino, e altre
vogliono solo sbarazzarsene» dice Barbara. «Se ci pensi è strano.»
«È vero» dice Tony, girandosi per scattare una foto a un gruppo di
poliziotti che scende da un furgone.
Sophie, svegliata dai cori, comincia a piangere. «Dobbiamo andarcene
di qui» dice Barbara. «C’è troppa confusione per lei.»
«Certo» concorda Tony. «Solo un momento.»
«Io m’incammino da quella parte» dice Barbara, indicando a ovest. «Tu
raggiungici.»
«Va bene. Arrivo subito.»
«Prima di venire via, credo che dovresti fotografare quella lì» dice
Barbara, con un cenno della testa.
«La ragazza con il bambino?»
«Sì.»
«Perché?»
«È un po’ strano che una donna con in braccio un bambino manifesti a
favore dell’aborto» risponde Barbara. «Sarebbe una bella foto. Tutto qui.»
«Tu dici, eh?» replica, sembrando convinto solo in parte. È ancora un
po’ rigido quando c’è di mezzo la fotografia, tende ancora a oscillare tra un
atteggiamento da macho infastidito e uno di cortese incoraggiamento ogni
volta che Barbara ha un’opinione in quel campo. «Tieni» dice, allungando la
macchina fotografica verso di lei. «Falla tu.»
Barbara la prende. Non capisce se voglia sfidarla o spronarla, o forse un
po’ tutte e due le cose. «Guarda che sono capace» gli dice.
«Lo so che sei capace. Quindi falla.»
Lei alza una mano per proteggersi gli occhi dalla luce del sole e lo
guarda perplessa. Non è ancora sicura di cosa dovrebbe fare. Sembra che lui
sia di buon umore oggi, ma ci vuole un attimo, lei lo sa bene, perché la cosa
cambi.
«Allora, dai» le dice Tony, perciò lei rinuncia a cercare di capire, scrolla
le spalle e, mettendo il freno alla carrozzina con il piede, si avvicina al
gruppo di donne.
2012 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX

Barbara gira il tè con il cucchiaino e si prepara mentalmente prima di


tornare in sala da pranzo, con la tazza in mano. Pensierosa, si siede davanti al
raccoglitore azzurrino. La sta provocando, la sta sfidando.
Sorseggia il tè. Un minuto in più che male può fare, giusto? Non ci sono
testimoni, non c’è nessuno lì che possa vedere quanto tempo ci mette a
trovare il coraggio per fare un salto nel passato. Dopotutto, è il suo di passato.
Fa un respiro profondo, e muove quasi la mano verso il raccoglitore, ma
non ci riesce. Un pensiero la sorprende: Ma non poteva aspettare che fossi
morta? E poi, di scatto, prima che quell’altra parte di lei possa interferire,
solleva la copertina.
Quindi sono queste quelle che hai scelto, pensa, rivolgendosi nella sua
mente a Sophie. Dimmi quali foto preferisci e ti dirò chi sei. Lo disse
qualcuno una volta. Forse Phil?
La prima ritrae una donna con un paio di hot pants su una bicicletta.
Le scorrono davanti agli occhi delle immagini. Un ginocchio sbucciato.
Un aquilone. Un’altra bicicletta, diversa. Quelle biciclette… Jonathan ne
voleva tanto una. Tutti i ragazzi la volevano. Com’è che si chiamavano? Il
nome le sfugge. Ragazze carine in bicicletta mezze nude. In parole povere,
gli anni Settanta. Sorride tra sé e sé, e ritrovando per un attimo un pizzico di
coraggio, passa alla seconda.
Questa volta si tratta di un uomo; un uomo su una macchina sportiva.
Indossa una camicia bianca, una cravatta e le bretelle. Le bretelle. Sua madre
aveva una foto di suo padre con le bretelle. Nessuno porta più le bretelle. Che
senso avevano? Perché non usare semplicemente una cintura? L’uomo nella
foto sta fumando un sigaro. Sembra spavaldo e ricco, ed è abbastanza
orrendo. Com’è che li chiamavano? Yuppies! Sì, esatto. Yuppies. Giovani,
rampanti e qualcos’altro. Gli anni Ottanta, dunque. Gli anni della Thatcher.
Lei e Tony se la passavano bene negli anni Ottanta, ma per la maggior parte
della gente fu un periodo terribile.
Gira la pagina. Un coppia di punk, con un taglio alla moicana, che si
baciano sul molo di Brighton. Era accanto a lui quando Tony la scattò, e il
ricordo di qualcosa di dolce, stucchevole, forse l’odore dello zucchero a velo,
la investe. Sì, c’era anche lei. Sophie li stava pregando di salire sulla giostra
con le tazze rotanti, e alla fine loro avevano ceduto. Un grosso errore. Aveva
vomitato su tutto il passeggino.
Gira un’altra pagina e inspira in modo brusco. Quella foto la coglie di
sorpresa. Per un attimo si era dimenticata del motivo per cui questa cosa la
rendesse tanto nervosa. Ma eccolo lì. Il passato che sfreccia verso di lei come
un treno merci. Il 1969 o 1970? Non ne è sicura. Comunque era l’anno delle
elezioni. L’anno della vittoria inaspettata di Edward Heath del Partito
Conservatore. Uno dei peggiori governi della storia, non è questo che diceva
la gente di Heath? Se solo avessero saputo cosa sarebbe venuto dopo, forse ci
sarebbero andati un po’ più morbidi con lui.
Le viene in mente Tony mentre la scattava. O era stata lei? Sì, ha il
sospetto di essere stata lei. Crede (ma non è sicura) di averla fatta per ripicca
a un suo sgarbo, reale o immaginario. Perché chi se lo ricorda, a quarant’anni
di distanza, quali malumori erano giustificati e quali no?
Osserva la foto e ha un leggero capogiro. Sì, l’ha fatta lei. E l’ha anche
sviluppata. Tony era indaffaratissimo, correva su e giù per la nazione a
ritirare rullini e articoli dai giornalisti che seguivano i cortei per le elezioni.
Quindi lei l’aveva sviluppata nello scantinato, ed era stata la prima volta che
lui le aveva chiesto di farlo. Sophie, che era al piano di sopra nel lettino, non
aveva smesso di piangere un attimo. Sì, adesso le sta tornando in mente tutto.
Si ricorda Tony che annunciava, entusiasta, di aver venduto una foto, si
ricorda di aver comprato il Mirror e di essersi sentita al settimo cielo vedendo
la sua foto pubblicata. Aveva nascosto quel giornale. Si domanda quando lo
abbia perso. Probabilmente a un certo punto era stato usato per accendere il
camino.
Ha la gola secca, perciò beve un sorso di tè. Riesce ancora ad avvertire
la strana atmosfera che c’era in casa in quel periodo, generata dal fatto che si
rifiutavano, non potevano, parlare di quella foto. Sapevano entrambi chi
aveva premuto il pulsante di scatto, e anche che l’altra persona sapeva la
verità. Era stata l’unica foto di tutto il lotto che aveva fatto lei, e l’unica che il
Mirror aveva scelto di pubblicare. Le elettrici temono un inasprimento dei
diritti. Ha ancora quel titolo davanti agli occhi. Trascorreva ore a guardare
orgogliosa quella pagina di giornale. La tirava fuori e la fissava: la sua
passione segreta.
Dopo aver fatto quell’annuncio Tony era sparito, in teoria per
festeggiare, ma in realtà perché aveva bisogno di affogare la verità, una verità
che tornò a perseguitarli quasi sette mesi dopo, quando quella stessa foto
vinse un maledetto premio. Ma a quel punto ormai loro due fingevano,
perfino in privato, perfino tra marito e moglie, che fosse stato Tony a
scattarla. Non ricorda quando fu presa la decisione di mentire l’uno all’altro,
di mentire a se stessi. Sembrava che fosse successo in modo naturale. Era
necessario, tutto lì. Riscrivere la storia era risultato sorprendentemente facile,
e nel giro di un paio d’anni lei faticava a ricordare di preciso chi avesse fatto
quella foto. Ma doveva essere stata una scelta, perché adesso di sicuro se lo
ricorda.
Certo, all’epoca (quindi era il 1970) lei aveva cose ben più importanti di
cui preoccuparsi. Nel quadro generale della loro vita, poco contava chi avesse
davvero premuto quel pulsante.
Ha un sussulto. Questo non se lo aspettava. Non si aspettava che la
sensazione della mano ossuta di Minnie potesse saltare fuori di colpo dal
cassetto della memoria ed essere così reale. L’ultimo contatto fisico con sua
madre. Ricorda di aver pregato le infermiere di darle più morfina, di aver riso
in modo isterico (nel vero senso della parola) quando la capoinfermiera
l’aveva informata che iniettarle altra morfina l’avrebbe uccisa. Le vengono
gli occhi lucidi, le si appanna la vista, mentre l’orrore assoluto della lenta
morte di Minnie scorre sopra l’immagine offuscata di una Trafalgar Square
grigiastra.
Si asciuga una lacrima e perfino quel gesto le suscita un ricordo, la
sensazione fisica del pianto di allora, non generato dalla tristezza, ma da un
sollievo profondo per il fatto che fosse finalmente finita.
Si rende conto che sta trattenendo il respiro e si sforza di rilasciarlo. È
troppo doloroso. Tutta questa situazione è troppo dolorosa da sopportare per
il suo cuore. Sarebbe stato davvero meglio se Sophie avesse aspettato che lei
non ci fosse più, ma come avrebbe potuto anche solo avvicinarsi a capirlo? In
fin dei conti, lei l’ha sempre protetta da tutto questo, al punto da farne il
lavoro della sua vita.
Sapeva che sarebbe stato difficile, sì. Era consapevole che certe foto
avrebbero riportato a galla ricordi specifici di momenti particolari. È per
questo che le ci è voluta una settimana per sedersi ad aprire quel raccoglitore.
Ma no, non era preparata a questo. Non aveva previsto che ogni immagine
avrebbe richiamato un’altra immagine che a sua volta l’avrebbe fatta
sprofondare in sensazioni (gli odori, i suoni, i sentimenti) che hanno segnato i
momenti più duri, più orribili e più importanti dei suoi ottant’anni di vita su
questo pianeta. Non si aspettava di essere trasportata indietro nel tempo.
Ma adesso non si può più tornare indietro. Quella nave è salpata e di
sicuro lei non può fermarla. L’esposizione senza dubbio si farà. Chiude gli
occhi per un attimo e si stiracchia il collo prima di riprendere a guardare
velocemente le altre foto.
Si ferma su un’immagine di Sophie, forse a cinque anni, sulla spiaggia.
Ha in mano una paletta di plastica e fissa dritto l’obiettivo. È cresciuta in
mezzo alle macchine fotografiche, era perfettamente a suo agio intorno a
loro, e lì ha un’espressione così neutrale; la sua innocenza ancora integra.
Una bambina bellissima. Lo è ancora. Barbara sospira.
Forse è giunto il momento di raccontarle parte della verità. Non tutta,
certo. Molto tempo fa presero tutti insieme la decisione che non sarebbe mai
dovuto succedere, che non sarebbe mai potuto succedere. Ma se le dicesse
solo quel tanto che basta per metterla in guardia? Per evitare che Brett ficchi
il naso in giro? Per essere sicuri che il resto, la parte importante, quella che ha
il potere di danneggiare le vite di chi è vivo, non venga fuori?
Mentre continua a fissare quei grossi occhi scuri, si rende conto che il
problema non è tanto Brett, ma Sophie stessa, che è come un segugio. Falle
sentire anche solo un leggero odore di intrigo, e non smetterà di scavare
finché non avrà dissotterrato tutto. Non c’è dubbio, meglio non dire niente.
1971 — HACKNEY, LONDRA

Barbara sta dando da mangiare a Sophie al tavolo della cucina. Ha il


naso sporco e le sta venendo il raffreddore. Ha le gote rosse, sembra
arrabbiata e pronta a fare i capricci; è solo questione di tempo. Jonathan, che
è seduto accanto a lei ed è quasi guarito dal raffreddore, sta disegnando dighe
e fiumi nel purè di patate.
«Se continui a giocarci così, diventerà freddo» gli dice Barbara. La
sorprende quante volte si debbano dire le cose ai bambini perché se le
ricordino. E questo vale perfino per quelle che riguardano un pericolo
(avvertimenti su qualcosa con cui ci si può scottare, o tagliare). A volte si
stanca di ripeterle prima che le imparino, e si rassegna a guardarli scottarsi o
tagliarsi, così almeno possono scoprirlo da soli.
«È il Tamigi» dice Jonathan. «Guarda.»
«Sì» dice Barbara. «Bello. Adesso mangia!»
La porta dello scantinato si apre. Tony, fatto piuttosto raro, è a casa per
pranzo, ma non per stare con Barbara o per passare del tempo con i bambini,
bensì per usare la camera oscura. C’è uno sciopero dei dipendenti postali e lui
spera di vendere alcune foto che ha fatto.
«Il tuo piatto è in forno» gli dice. «Ma stai attento. È bollente.» E
quante volte glielo ha detto? E quante volte lui si è comunque scottato?
Tony le passa davanti, tocca il piatto e in modo poco convincente dice:
«Ahi», prima di prendere un canovaccio che usa per portarlo in tavola. Ci
appoggia di fianco un provino a contatto e poi, mentre osserva le file di foto
che ci sono sopra, comincia a mangiare.
«Allora, com’è andata?» gli chiede Barbara.
«Non bene, temo. Sono tutte annebbiate» dice Tony, con la bocca piena
di pasticcio di carne.
Barbara passa il cucchiaio sulla bocca di Sophie per pulirla, poi si piega
in avanti per guardare le foto.
«Non è…» dice Barbara, poi: «Lascia perdere».
«Cosa?» chiede Tony.
«No, niente. Non ne sono sicura.»
«Forza» dice Tony. «Davvero.»
«Ehm, sono i negativi che hanno questa patina bianca? O solo il provino
a contatto?»
«Entrambi.»
«Allora non hai fissato la pellicola abbastanza a lungo.»
«L’ho lasciata sei minuti pieni» dice Tony. «Forse un po’ di più.»
Barbara si chiede cosa voglia dire quel forse. I minuti sono cose reali.
Ne sono passati sei oppure no. Se lo avesse fatto lei, saprebbe esattamente
quanti minuti sono passati. «La temperatura era giusta?»
«Quella del bagno di sviluppo, sì» dice Tony. «Per il fissaggio non
credo che abbia importanza.»
«Ehm» dice Barbara, rimettendosi a dare da mangiare a Sophie. «Be’,
mi sa che potrebbe avercela.»
«Forse era un po’ freddo» dice Tony. «Però, che giramento di scatole.
Pensavo davvero di riuscire a venderle queste.»
Barbara riempie la boccuccia di Sophie che sembra un bocciolo di rosa,
poi mette giù il cucchiaio e solleva di nuovo il foglio per poterlo osservare
più da vicino. «Oh, c’è proprio una patina bianca. Quello è un ufficio di
smistamento?»
«Sì. Quello grande a Bethnal Green. Non c’è modo di toglierla, vero?»
«La patina? No, non credo. Non se è sui negativi. Magari potresti
tornare lì e rifarle.»
«Ma saranno andati tutti a casa ormai» dice Tony. «Che scocciatura. Mi
piacevano tutte quelle scatole non consegnate impilate alle loro spalle.»
«Sì. L’idea era buona» dice Barbara. Poi, prendendo in mano la
situazione, aggiunge: «Però se tu ci tornassi, potresti farne una con i pacchi in
primo piano e chiedere a uno degli scioperanti di sedercisi sopra. Magari
anche mettergli in mano una tazza di tè e ai piedi uno di quei cartelli con le
scritte ».
«Cioè, intendi dire di inscenarla?»
«Perché no?» dice Barbara. «Verrebbe fuori una bella foto, non credi?»
«Può essere. Comunque non credo di avere il tempo di tornarci adesso.
Devo andare col furgone a Manchester, poi a Liverpool e poi a Rugby» dice
Tony.
«Ti ci vorrà un’eternità.»
Tony annuisce. «Le poste sono in sciopero» dice. «Quindi al momento è
l’unico modo per fare arrivare le consegne.»
«Ma andrebbe bene qualunque ufficio di smistamento. Sono sicura che
hanno tutti del personale in sciopero. E pile di scatoloni.»
«Sì, immagino di sì. È solo che mi piaceva davvero tanto quello in
Bethnal Green. La luce era buona.»
Sophie comincia ad agitare come una pazza le braccia, perciò Barbara
restituisce a Tony il provino a contatto e ricomincia a darle da mangiare. «Mi
pare di capire che tornerai tardi, giusto?» gli chiede senza voltarsi.
«Non prima delle otto o le nove» dice Tony, che ha già finito di
mangiare e si sta alzando. «Non ti preoccupare per la cena. Mi prenderò
qualcosa per strada.»
«Be’, guida con prudenza.»
«Lo faccio sempre.»

Alla fine, è quasi mezzanotte quando Tony rientra a casa.


Siccome Barbara sospetta che abbia bevuto, finge di dormire, addirittura
di russare un po’, per essere più convincente. Dopo circa un minuto, Tony,
che è sveglio come un grillo, le sussurra: «Barbara? Stai dormendo?» e visto
che sembra sobrio e di ottimo umore, lei si stiracchia e sbadiglia in modo
plateale per fargli credere di essersi svegliata in quel momento.
«Ciao» gli dice. «Sei tornato.»
«Ho venduto quella foto» le dice subito. «Ho venduto tutto il rullino.»
«Quale foto?» gli chiede Barbara. «Quale rullino? Ci sei tornato?»
All’improvviso si ricorda che dovrebbe essere mezza addormentata, perciò
sbadiglia di nuovo.
«Sì. Quella lì che mi hai detto tu. Con gli scioperanti sugli scatoloni,
che bevono il tè e tutto il resto.»
«Come hai fatto a svilupparle? Dove le hai sviluppate?»
«Non l’ho fatto. Le hanno comprate alla cieca. Gli ho dato il rullino
direttamente dalla fotocamera. Come fanno quelli delle agenzie. Gli ho
spiegato cosa c’era sopra e loro l’hanno preso. Hanno detto che era proprio
quello che volevano. Ce n’era di sicuro qualcuna spettacolare, te lo do per
certo.»
«È una notizia fantastica.»
«Eh, sì» dice Tony, orgoglioso. «Si vede che si fidano di me, se
prendono le mie foto senza neanche guardarle.»
«Sì. Dev’essere senz’altro così.»
Tony la fissa dritto negli occhi per un attimo. Sembra che il suo sguardo
contenga una domanda.
«Cosa?» dice Barbara, ridendo.
«Lo so che è tardi e che sei mezza addormentata» dice Tony. «Ma non è
che per caso ne hai un po’ voglia?»
Barbara fa una risatina imbarazzata, sia perché sono passati mesi da
quando hanno fatto l’amore l’ultima volta (hanno praticamente smesso di
farlo dopo che è nato Jonathan e poi non hanno mai più ripreso davvero) e sia
perché la risposta, con sua sorpresa, è sì. Ne ha “un po’ voglia”.
Per farglielo capire, visto che non potrebbe mai dire di sì al sesso, si
allunga e gli dà un bacio sulle labbra.
«Mhmm» mormora Tony, spostandosi verso il suo lato del letto e
facendo scivolare un ginocchio oltre le sue gambe. «Grazie a Dio. Perché
sono arrapato da morire.»

Barbara sta spalmando il burro sul pane con movimenti lenti, metodici.
Sophie e Tony dormono ancora, e Jonathan sta facendo colazione in sala da
pranzo mentre legge un libro illustrato. Non si può certo dire che sia un
ragazzino chiassoso, ciononostante quei momenti di pace sono rari e preziosi,
piccole oasi tra le grida e la confusione di una casa con dei bambini. Nel
mezzo del turbinio emotivo che sta attraversando la sua vita, ha bisogno di
questi momenti di silenzio tanto quanto dell’aria che respira.
«Cosa stai preparando?» È la voce di Tony e quando Barbara alza lo
sguardo lo vede sulla porta con l’aria assonnata. Il suo momento è finito.
«Panini!» dice. «Hai fame, tesoro?» Aggiunge tesoro per addolcire la
frase. Teme di avere usato un tono duro.
Tony scuote la testa. «No, non proprio» risponde. «Non ancora. Allora,
come mai stai facendo dei panini?»
Barbara smette di spalmare il burro, mette giù il coltello, e si volta verso
suo marito. Ha notato qualcosa di finto nella sua voce e vuole prendersi un
momento per capire cosa significa. «Lo sai perché li sto facendo» dice.
«Sono per Hyde Park. Per quel festival.»
«Sì» dice Tony, continuando ad avere un tono fasullo. «Sì, riguardo a
questo… Credo che ci andrò da solo.»
«Cosa?» gli chiede Barbara, poi: «Perché?».
Tony arriccia il naso. «Non sono sicuro che sia un posto adatto ai
bambini» dice.
Barbara fa una risatina. «Tony, sono Mary Whitehouse e Cliff Richard!
Quanto può essere pericoloso?»
Jonathan è appena arrivato dalla sala da pranzo, e sta sbirciando da
dietro le gambe del padre. «Ciao papà» dice, e Tony si abbassa per
appoggiare la grossa mano sul suo casco di capelli biondi. «A che ora
usciamo?»
«Io… ne stavamo giusto parlando» gli dice Barbara. «Vai a finire di
fare colazione e poi…»
«Ho già finito.»
«Allora va a giocare un po’. Vengo a chiamarti io quando avremo
deciso.»
Jonathan se ne va con un’espressione dubbiosa, ma non aggiunge altro.
«Come ti stavo dicendo» dice Barbara. «Sono Mary Whit…»
«Lo so che in teoria seguono i precetti del cristianesimo eccetera
eccetera» la interrompe Tony. «Ma in realtà non sono così buoni. Ci sono un
sacco di persone che a loro non piacciono, e un sacco di persone a cui loro
non piacciono. Potrebbero esserci dei cortei. Le cose potrebbero mettersi
male.»
Barbara sospira e lascia cadere le spalle. È da quando è nata Sophie che
è tesa come una corda di violino, e la situazione non ha fatto che peggiorare
da quando sua madre si è ammalata. Non ha le energie necessarie per
occuparsi dei (frequenti) cambi di programma di Tony. «Allora possiamo fare
qualcos’altro tutti insieme, per favore?» gli chiede. «Possiamo semplicemente
andare da qualche parte come una famiglia? Ho preparato il picnic e via
discorrendo.»
«Senti» dice Tony. «Perché non porti i ragazzi al parco? Non a Hyde
Park, ovviamente, ma in un altro parco. Io vado a fare qualche foto e poi vi
raggiungo?»
«Un giorno a settimana, Tony» dice Barbara. «Ti vediamo un giorno a
settimana.»
«Lo so. È per questo che mi toglierò questa cosa dalle scatole in fretta e
correrò da voi.»
Barbara fa un sospiro profondo, un sospiro di resa. Non ha proprio le
forze per discutere. «Dove?» gli chiede. «Quando?»
«Che ne dici di Hackney Marshes? Vicino a quella specie di chiosco.»
«Va bene. A mezzogiorno?»
«Facciamo alle tre?»
Barbara dà un’occhiata all’orologio della cucina. Non sono neanche le
nove.
«Devo andare in centro e tornare indietro» la prega Tony. «E ho
bisogno di tempo per fare le foto. È un grosso evento.»
«E io devo essere in ospedale per le cinque. Questo lo sai.»
«Alle due, allora. Alle due va bene?»
Barbara scuote la testa piano, come se cercasse di togliersi di dosso il
malumore, di rimuovere il seme di una brutta giornata, che sta già mettendo
le radici prima delle nove. «D’accordo» dice. «Però non fare tardi, okay?»
Tony mangia una fetta di pane tostato e butta giù una tazza di tè, poi
(Barbara sospetta che sia più per starle alla larga che altro) si precipita fuori
di casa in tempi record. Nell’istante in cui si chiude la porta alle spalle,
Jonathan ricompare. «Papà è uscito!» dice.
«Lo so.»
«Pensavo che andavamo con lui» si lamenta. «Pensavo che andavamo al
parco.» Anche Jonathan si è accorto che Tony cambia spesso programma e
non gli piace più di quanto non piaccia a Barbara.
«Che andassimo al parco» lo corregge. «Prima ha un po’ di lavoro da
fare. Perciò ci raggiungerà a Hackney Marshes.»
Jonathan mette il muso. «Io odio Hackney Marshes» dice.
«Non è vero! Ti piace. Possiamo guardare la gente che gioca a pallone.»
«Io voglio andare a Hyde Park» dice, incaponitosi.
«Lo so. Ma oggi andremo a Hackney Marshes.»
«Ma andiamo sempre a Hackney Marshes. Non andiamo mai a Hyde
Park.»
«Lo so, ma…»
«Io voglio andare a Hyde Park» brontola, spingendo in fuori il labbro
inferiore.
«Anch’io!» sbotta Barbara, con la voce che le trema mentre perde il
controllo. «Ma non andremo a Hyde Park, porca miseria, andremo a Hackney
Marshes. Perciò vai a vestirti! Gesù!»
Jonathan la fulmina con gli occhi, è uno sguardo pieno di odio; poi si
volta e scappa via. Barbara, che si sta già pentendo di aver perso la calma, si
lascia cadere su una sedia davanti al tavolo giallo in formica e si copre gli
occhi con il palmo delle mani. «Sono così stanca» dice tra sé e sé.
Fissa il vuoto per un attimo, poi pensa: Tony non verrà a Hackney
Marshes. Ovvio che non verrà. Non verrà affatto.
Scuote di nuovo la testa, poi mormorando: «Che vada al diavolo» si
alza. Si volta verso la porta e grida: «Jonathan? Jonathan?!» Nessuna
risposta. Avrà messo il muso. I musi lunghi sono una sua specialità. È tale e
quale a lei. «Jonathan» grida di nuovo. «Che ne dici di Finsbury Park?»
Jonathan, ancora scuro in volto ma pronto a farsi convincere, spunta da
dietro la porta della camera da letto. «Finsbury Park?» dice. «Perché non
Hyde Park?»
«Si chiama compromesso» dice Barbara.
«Ma se andiamo a Finsbury Park» dice Jonathan, entrando nello spirito
della negoziazione «posso portare la mia barca?»
«Sì. A patto che la porti tu fino a lì e poi la riporti tu indietro, puoi
prendere la tua barca.»
«Okay, allora» dice Jonathan. Poi: «Mamma?».
«Sì?»
«Sophie puzza tanto. Mi sa che ha fatto la cacca.»

Finsbury Park quel giorno sembra una cartolina stereotipata dell’estate


inglese. La luce del sole che macchia i prati, bambini che corrono intorno ai
rami degli alberi, giovani coppie sdraiate insieme a fissare il cielo. Barbara si
accorge con sua sorpresa di sentirsi felice, e si chiede perché si fosse
incaponita a volere che Tony andasse con loro. Perché ostinarsi tanto? si
chiede. Non è molto più semplice la vita quando si decide di volerla così
com’è, invece di cercare di piegarla per adattarla a quello si vuole?
Solleva Jonathan, anche lui adesso di tutt’altro umore, e lo rimette giù
oltre la ringhiera del laghetto delle anatre; fa finta di non notare le
occhiatacce della donna anziana sulla panchina. Lo osserva mentre mette la
sua barca in acqua. «Mi raccomando, non perderla, figlio mio» gli grida, e
quella parola, figlio, oggi le sembra una benedizione. Si sente come una
madre con il figlio che fa salpare la barca nel lago in un libro per bambini.
«Se va in mezzo, non riusciremo più a riprenderla» lo avverte.
«Non succederà» dice Jonathan. «Il vento oggi è contrario.» E siccome
quella è, nonostante l’inizio poco promettente, una buona giornata, la barca
disegna un meraviglioso arco e torna verso la riva.
Barbara tira fuori Sophie dal passeggino e si china con lei in braccio
perché possano tirare insieme il pane alle anatre. Sente la donna sulla
panchina brontolare, proprio mentre Sophie ridacchia felice.
Alla fine, incapace di sopportare oltre quel comportamento anarchico, la
donna dice: «Suo figlio non dovrebbe stare dall’altra parte della ringhiera. Ed
è scritto bello chiaro di non dar da mangiare alle anatre». Ovviamente lei non
ha idea di quanto sia inaspettata la sua felicità in quel momento, né di quanto
sia preziosa, ma d’altra parte, come potrebbe?
Decide che non permetterà a quella donna di rovinarle la giornata.
«Salve» risponde. «Che splendida giornata, vero?»
«Se il custode del parco vi vede non sarà contento» dice la donna.
«Neanche un po’.»
«No» dice Barbara. Poi: «Vieni, Jonathan. Andiamo dall’altra parte. Di
là è più bello».
Dopo aver fatto salpare barche, sfamato anatre, e lasciato cuocere
anziane inacidite nel loro brodo, si sistemano all’ombra di un pioppo. Barbara
stende un plaid perché Sophie possa gattonare liberamente mentre lei scarta i
panini.
«Quello è per papà?» chiede Jonathan, indicando il terzo involucro.
«Era per papà» ammette Barbara. «Ma adesso avanza. Se hai fame
possiamo dividercelo.»
«Non viene?»
«No, non viene» dice, mentre si chiede, sentendosi in colpa, se in quel
momento Tony stia andando a Hackney Marshes.

Arrivano in ospedale alle cinque. Minnie sta dormendo; Glenda è seduta


accanto al suo letto.
«Come sta?» sussurra Barbara, stringendo con delicatezza la spalla della
sorella.
Glenda lancia un’occhiata a Jonathan che le sta osservando con
attenzione e le risponde scuotendo la testa in modo quasi impercettibile.
«Nonna?» la chiama Jonathan. «Vuoi vedere la mia b…»
«Sss!» lo ammonisce Barbara. «Sta dormendo. Lo vedi che sta
dormendo?»
«È un momento strano per dormire» replica Jonathan, abbassando la
voce. «È ammalata?»
«Lo sai benissimo che è ammalata. È molto ammalata, per questo sta
dormendo.»
«Morirà?» chiede.
Barbara per un attimo rimane senza parole.
«Allora?» insiste lui.
«Tutti muoiono prima o poi» risponde a bassa voce Glenda, andando in
soccorso della sorella. «Nessuno vive per sempre. Senti, perché non andiamo
giù a giocare in quel giardinetto? Lì possiamo parlare senza disturbare la
nonna.»
«In verità io sono venuta per vedere la mamma» dice Barbara. Non ha
nessuna voglia di parlare con Glenda oggi. Non vuole sentirsi raccontare del
suo nuovo, fantastico ragazzo, e non vuole nemmeno dover spiegare perché
Tony non è con loro.
«Va bene» dice Glenda, in tono comprensivo. «Tu stai qui con la
mamma per un po’ e io porto i bambini a fare due passi. Che ne dici?»
Barbara guarda sua sorella e sbatte lentamente le palpebre. «Grazie,
Glen» dice.
Dopo che la zia Glenda è scomparsa con i suoi figli, Barbara si siede al
suo posto e prende la mano della madre. «Mamma?» dice, accarezzandola
piano. «Mamma?»
Glenda ritiene che dovrebbero lasciarla dormire ogni qualvolta lo
desideri, il che ormai è quasi sempre, ma Barbara vuole approfittare il più
possibile del suo tempo con lei; ha bisogno di quel tempo con lei. L’idea che
all’improvviso il tempo sia qualcosa di limitato e che presto potrebbe finire le
risulta insopportabile. «Mamma?» dice, a voce un po’ più alta, e Minnie apre
gli occhi e si gira verso di lei. Il bianco dei suoi occhi è giallo e il suo sguardo
spento, velato. «Barbara?» dice con voce roca.
«Come ti senti oggi, mamma?»
Minnie tarda un attimo prima di riuscire a parlare. «Stanca» dice alla
fine.
«Hai male?»
Minnie ride. È sola una risata debole, ma comunque una risata vera e
propria; anche i suoi occhi sorridono. E Barbara riesce di nuovo a respirare,
perché per un attimo sua madre è tornata. «Non ne hai idea» dice Minnie.
«Vuoi che ti chiami un’infermiera?»
Minnie scuote la testa. «Me la conservo per dopo» dice. «Me la
conservo per la fine.»
«Cosa ti conservi?»
«La morfina» risponde. «Dicono che sia una cosa meravigliosa.»
«Oh, mamma!»
Minnie sta ancora sorridendo, ma c’è una tristezza nel suo sguardo che è
inconfondibile. «Dov’è tuo marito?» le chiede.
«Tony? Lui, ehm, è dovuto andare a lavorare.»
Minnie annuisce e la fissa dritto negli occhi con aria interrogativa. «Ma
state ancora insieme?»
«Certo che stiamo ancora insieme.»
Minnie annuisce. «Allora alla fine è andato tutto bene?»
Barbara sa a cosa si riferisce. E sì, per gli standard di sua madre, è ovvio
che lo pensi. È solo che… «Sì» risponde. «Sì, mamma. È andato tutto
benissimo.»

Tony quella sera non torna a casa, e non c’è nemmeno la mattina
seguente quando Barbara esce per accompagnare Jonathan a scuola. Al suo
rientro, il telefono installato di recente sta squillando, e lei armeggia con le
chiavi per aprire la porta in tempo. All’altro capo della linea c’è il Mirror.
«Mi dispiace tantissimo» dice al capo di Tony. «Ha vomitato tutta la
notte. Credo sia un’influenza intestinale. Stavo giusto per chiamarla.»
Ha appena riagganciato quando lui compare in ingresso conciato come
un vagabondo e puzzolente di birra.
«Dove diavolo sei stato?» gli chiede, fuori di sé dalla preoccupazione
più che dalla rabbia.
«Sì ma… non…» dice Tony, sollevando a mezz’aria la mano per farle
segno di non parlare.
Poi si dirige verso il bagno e lei si sposta per lasciarlo passare, e quando
torna si sposta di nuovo. Si ferma davanti a lei. Ha le pupille dilatate, le
palpebre pesanti. Sembra mezzo morto. Barbara lo guarda corrucciata.
«Io…» dice.
«Sì?»
«Senti, io…»
«Sì?» chiede Barbara, sforzandosi di non usare un tono arrabbiato. «Tu
cosa?»
«Non lo so. Credo di voler solo dire…»
«Sì?»
Tony chiude gli occhi, poi barcolla e deve appoggiare un braccio al
muro per recuperare l’equilibrio. Gli viene il singhiozzo. «Grazie» dice alla
fine. «Solo questo.»
«Grazie? Per cosa?»
«Perché ti sforzi sempre di capire» biascica. «Io non ti merito.»
Barbara gli lancia un’occhiataccia. «Ma io non capisco. Non capisco
proprio.»
Tony traballa per un attimo e poi, agitando la mano come per scacciare
una mosca, si gira e si avvia a passo incerto verso la camera da letto. «Allora
lascia perdere» le dice, da dietro la spalla.
Dopo che la porta della camera si è richiusa dietro di lui, Barbara
rimane in piedi a fissare il corridoio vuoto. «Sì, mamma» dice piano. «Sì, è
andato tutto benissimo.»

È la settimana prima di Natale e le previsioni danno neve. Barbara non


riesce a decidere se augurarsi che si sbaglino oppure no. Adora la neve,
eppure quasi in egual misura detesta quella robaccia orrenda. Se nevicasse,
potrebbe giocare con Jonathan e Sophie nel minuscolo giardino che dividono
con i vicini. Se nevicasse tanto, potrebbero perfino fare un pupazzo di neve, il
primo della loro vita. Se nevicasse, Tony forse non riuscirebbe ad andare a
lavoro.
Nelle ultime settimane sta facendo tantissimi straordinari e lei sta
(finalmente) iniziando a sentire la sua mancanza. Il Natale è vicino e ha una
gran bisogno di avere suo marito lì con lei, davanti al camino.
Il problema è che, ovviamente, hanno bisogno dei soldi che arrivano
con tutti quegli straordinari, perciò, tutto sommato, forse è meglio che non
nevichi. Mantenere due figli, tra i vestiti e il mangiare, costa una fortuna, e
anche se Barbara ha da poco iniziato a fare delle riparazioni per un negozio di
abbigliamento da uomo del quartiere, quello che porta a casa è poco più di
una paghetta. Con l’inflazione quasi al dieci per cento, è diventato tutto
carissimo, specialmente da quando hanno introdotto il sistema monetario
decimale e i negozianti hanno arrotondato i prezzi.
Sono le nove di sera, i bambini sono a letto e Tony, tanto per cambiare,
non è ancora tornato. Mentre finisce di stirare gli orli che ha appena cucito al
pantalone di un completo a quadri molto costoso, cerca di immaginare chi
potrebbe indossare un abito del genere, chi potrebbe permettersi, di quei
tempi, un abbigliamento così da dandy. È più meno della taglia di Tony e si
chiede se avrebbe il coraggio di provarlo. Le piacerebbe tanto vederlo vestito
in quel modo, tutto elegante.
Finito di stirare, dice ad alta voce: «Almeno altri dieci scellini li
abbiamo guadagnati». Si impone di calcolare a quanto corrispondano con il
nuovo sistema, poi dice: «Be’, almeno altri cinquanta centesimi li abbiamo
guadagnati». Parla da sola sempre più spesso ultimamente, e la cosa la
preoccupa un po’. Richiude l’asse da stiro e dopo averla riposta, va alla
finestra a guardare la strada su cui è calato il buio, cercando di non pensare a
Minnie. Il primo Natale senza sua madre. Sì, ha bisogno che suo marito resti
a casa per Natale. Non si è mai sentita tanto sola.
Dal fondo della strada arriva lo scoppiettio di un motore e lei si gira,
sperando che sia il rumore della motocicletta di Tony, ma è solo una Austin
Allegro con un tubo di scappamento malandato. Si stupisce di essersi
sbagliata. Ormai pensava di riuscire a distinguere la moto di Tony a
chilometri di distanza, molte volte ancora prima di sentirla.
La Allegro le passa davanti e subito dietro c’è Tony. Svolta nel vialetto
di casa, la saluta con la mano e ondeggia, e lei, anche se non è sicura che
possa vederla attraverso la visiera appannata, ricambia il saluto. Si allontana
dalla finestra e va ad aprire la valvola di tiraggio del camino, osservando la
brace diventare rossa. Tony sarà congelato.
La porta si apre, si richiude con un tonfo, e a quel punto Tony compare
sull’uscio del soggiorno, portando con sé un aria gelida che si diffonde per la
stanza. «Ho un freddo bestiale» dice, poi: «Ciao».
«Hanno detto che stasera potrebbe nevicare» dice Barbara.
Tony si toglie il casco, la giacca, e poi, uno a uno, i vari strati di
maglioni. «Non ho dubbi» dice. «Si sente l’odore nell’aria.» Finito di
svestirsi, raggiunge Barbara davanti al camino. «Allora, tu come stai?» le
chiede. «Com’è andata la tua giornata?»
Barbara odia quella domanda, com’è andata la tua giornata. Le sembra
sempre un trabocchetto, addirittura una trappola. Perché mentre Tony può
dire: Sono andato in moto a Liverpool e ho consegnato questa cosa, e poi
sono andato a Derby e ho consegnato quest’altra cosa, l’unica cosa che a lei
viene in mente per giustificare la sua esistenza è un infinito e noiosissimo
elenco di piccole mansioni meccaniche che occupano la sua giornata di
madre. Ho accompagnato Jonathan a scuola, ho cambiato le lenzuola dei
letti dei bambini, ho lavato i piatti… Sembrano, prese individualmente,
troppo insignificanti da menzionare, eppure nell’insieme, troppo numerose da
elencare. E così finisce sempre col dire: Oh, non ho fatto niente di che. Il
solito o qualcosa del genere. E poi passa il resto della serata a pensare che
Tony se la immagina a bere il tè e mangiare biscotti tutto il giorno. E
ovviamente sì, ha fatto anche quello. C’è qualcosa di male?
«Lo sai… Le solite cose» dice. «E la tua invece?»
«Fantastica» dice Tony, mettendole le braccia intorno alla vita e
stringendola forte, come se dovessero ballare un valzer.
Barbara aggrotta la sopracciglia. Quel genere di manifestazioni di
entusiasmo sono rare in casa Marsden, e le dimostrazioni d’affetto ancora di
più. «Che cosa ti serve?» dice, ridendo.
«Non mi serve proprio niente» risponde Tony.
Barbara fa scivolare le mani dietro la sua schiena e le appoggia sulle
tasche posteriori dei pantaloni in pelle da motociclista. Ne infila una nella
tasca e si gode, per un attimo, la sensazione della pelle fredda che gli fascia il
sedere. «Oddio, Tony, sei congelato.»
«Allora abbracciami» dice. «Riscaldami.»
Barbara lo stringe forte ma poi le vengono i brividi. «Non ce la faccio.
È come abbracciare un cubetto di ghiaccio» dice con tono dispiaciuto,
staccandosi da lui. «Forse dovresti farti un bagno caldo. Non vorrei che ti
prendessi un raffreddore.»
Tony risponde al suo suggerimento con una smorfia, poi annusa l’aria in
modo esagerato. «È odore di zuppa, questo?» le chiede.
«Stufato.»
«Oddio, sei meravigliosa. Sognavo di trovare lo stufato mentre venivo a
casa.»
«Te lo prendo io. Tu resta qui davanti al fuoco.»
«Sì, poi ho anche una notizia da darti» dice Tony.
Barbara si ferma, con la mano sulla maniglia. «Una notizia?»
«Eh, sì» dice Tony. «Portami la cena e ti racconto tutto.»

Barbara torna più in fretta che può in salotto con la ciotola fumante di
stufato per Tony. Nel frattempo lui ha avvicinato una poltrona al camino e si
sta scaldando le mani sopra le fiamme.
«Ti verranno i geloni» lo avverte.
«Non me ne importa proprio niente» risponde Tony, mentre prende lo
stufato. «Ah, fantastico. Grazie.»
Barbara trascina il pouf arancione in vinile accanto al fuoco, lasciando
giusto la distanza necessaria per evitare che si squagli poi, curiosa, dice:
«Allora? Qual è questa notizia?».
«È una buona notizia, Babs» le dice Tony. «Anzi, fenomenale. È
esattamente quello che stavamo aspettando.»
Nella loro vita hanno stretto i denti e aspettato così tante cose. Più soldi,
un appartamento più grande, il primo figlio, e poi una sorellina per lui. Ma
anche se più si ha meglio si sta, Barbara non riesce proprio a immaginare
quale sia nello specifico quella cosa che stanno aspettando adesso.
«Ho un nuovo lavoro» dice Tony, soffiando su un cucchiaiata di stufato.
«Inizio dopo Natale.»
«Ah sì?»
«Farò parte dello staff dei fotografi» continua Tony, tra un boccone e
l’altro. «Ho finito di consegnare pacchi!»
«Sul serio?!»
«Sì. Allora, cosa mi dici, eh?»
Barbara scuote la testa. «Sono strabiliata. È una notizia splendida.»
«Sono stati così contenti delle mie foto quest’anno, che vogliono che mi
ci dedichi a tempo pieno.»
Barbara vorrebbe chiedergli se viaggerà di meno. Vorrebbe anche
chiedergli se guadagnerà di più. Ma sa che quelle sembrerebbero domande
interessate, inopportune. E poi c’è un’altra cosa che la preoccupa, e le serve
un attimo per capire come dirla senza turbarlo. «Allora, quali sono le foto che
gli sono piaciute così tanto?» gli chiede alla fine.
«Ehm, sai… quelle del Festival of Light, a Hyde Park» dice Tony. «E
delle mamme fuori dalla scuola che mostrano le dieci dita per la storia della
decimalizzazione. Dei bambini con le bottiglie di latte vuote con lo slogan
Margaret Thatcher, ladra di latte. Oh, e quelle dello sciopero delle poste.
Non l’hanno detto in modo esplicito, ma credo che più che altro siano queste.
Sono le foto per cui continuavano a darmi pacche sulle spalle.»
Barbara porta a termine il ragionamento nella sua mente e poi,
nonostante la conclusione preoccupante a cui giunge, si sforza di fare un bel
sorriso. «Comunque, è un’ottima notizia» dice, sussultando per aver usato la
parola comunque; una dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, che alcuni
dubbi sono rimasti inespressi.
Per fortuna Tony non ci ha fatto caso, perciò non chiede a Barbara cosa
volesse dire con quel comunque. E così Barbara se la cava senza dover
sottolineare quello che lui di sicuro già sa: che le foto del festival le ha
scattate Diane con il suo nuovo zoom ultrapotente della Nikon. Che le foto
dei bambini con le bottiglie di latte vuote erano, in verità, di Phil (che non era
riuscito a venderle al suo giornale). E che, se le foto della decimalizzazione e
dello sciopero delle poste le aveva fatte lui, l’idea dell’allestimento, in
entrambi i casi, ce l’aveva avuta lei.
Ma non è questo il momento di sottolinearlo. Non è proprio il
momento.
2012 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX

«Allora, mamma» dice Sophie. «Cosa ne pensi?»


Sono sedute nel soggiorno di Barbara. Il caminetto a gas sibila davanti a
loro e il gatto Nut sta gironzolando per la stanza, indeciso su quale sia il
posto più comodo dove mettersi. Sul tavolino c’è il contratto di Brett;
nell’ultima settimana Sophie è giunta alla conclusione che in fin dei conti sia
un piccolo prezzo da pagare. L’unica alternativa è cancellare tutto. Ma in
realtà quello che lei pensa è irrilevante, perché è piuttosto convinta che sua
madre metterà il veto al coinvolgimento di Brett, facendo affondare la sua
nave. Si sta preparando ad abbandonarla.
«Riguardo a cosa?» chiede Barbara. «Riguardo a Brett, al contratto o
alle foto?»
Sophie scrolla le spalle. «Be’, in un certo senso sono tutte legate l’una
all’altra, no? Ma cominciamo da Brett. Non ti piace. Ho ragione?»
«Non mi dispiace, Sophie. È solo che non capisco perché dobbiamo
coinvolgere un giornalista in questa cosa. Non mi fido di loro. In generale,
voglio dire.»
«Tranne quelli che lavorano per il Daily Mail?»
«Non fare la sciocca. Sai perfettamente cosa intendo.»
«Sì, ma non è che papà avesse una vita segreta in cui era un serial killer,
mi pare?» dice Sophie. «Non è che Brett scoprirà che ha ucciso Kennedy o
roba del genere!»
«Stai continuando a fare la sciocca.»
«Però anche tu sai perfettamente cosa intendo io.»
«Tutti hanno degli scheletri nell’armadio, Sophie. E io voglio solo
evitare che il suo nome venga infangato per soddisfare il bisogno di un
giornalista di farsi pubblicare un articolo.» Sophie si gratta il naso e aggrotta
le sopracciglia, e Barbara teme che stia per smascherarla. Forse si è spinta
troppo oltre.
«Mamma» dice Sophie. «Stai dicendo che c’è qualche cosa di specifico
nascosto nell’armadio di papà? Qualcosa che Brett potrebbe davvero
scoprire? Qualcosa che magari mi hai tenuto nascosto?»
Barbara si mette a ridere. «E adesso sei completamente ridicola» dice.
«Bene, allora! Perché fai tutte queste storie?»
«L’hai detto tu stessa più volte. S’inventano le cose. Scrivono cose non
vere.»
«Ma non su papà. Non su un fotografo morto da un sacco di tempo e
mezzo dimenticato.» Barbara la fissa con uno sguardo triste, e Sophie si
rende conto di essere stata a dir poco indelicata. «Scusa, mamma. Mi sono
espressa male. Intendevo soltanto che Brett non ha motivo di inventarsi delle
cose sul conto di papà. Non ci guadagnerebbe niente. E, dopotutto, è il mio
ragazzo. Non farebbe mai una cosa del genere. Non a me.»
«Mi dispiace dovertelo dire, cara, ma quello è ben altro che una lettera
d’amore» sottolinea, con un cenno della testa al contratto.
«No… Be’…» Sophie deglutisce con la stessa fatica che ha dovuto fare
per digerire il contratto di Brett. «Gli affari sono affari, suppongo.»
«Non puoi proprio farla senza di lui?»
Sophie sospira con aria sofferta. «Potrei» dice. «Ma dovrei organizzarla
in una piccola galleria che nessuno ha mai sentito nominare e pagare per
stampare il libro, invece di avere una casa editrice che paga noi per farlo. E il
Times non promuoverebbe l’evento con tanta enfasi… E senza tutte queste
cose, lo scenario cambierebbe totalmente. Questo è ciò che lui ha da offrirci.»
«Capisco.»
«E se ci pensi bene, il venticinque per cento di Brett è la nostra garanzia
che non farà niente per infamare papà. Perché vorrà che sia un successo
quanto noi.»
Barbara annuisce. «Immagino di sì. E Jonathan cosa ne pensa? Gliene
hai parlato?»
«Ha detto di fare ciò che ritengo sia meglio» dice Sophie. «In realtà non
credo che la cosa gli interessi molto. E, se devo essere sincera, mi dispiace.»
Dopo aver testato le altre opzioni (il grembo di Barbara, per terra
accanto al fuoco, il cuscino rosso di velluto) Nut salta sulle gambe di Sophie,
gira due volte su se stesso e poi comincia a fare le fusa, facendo vibrare tutto
il corpo.
«A proposito, mi è piaciuta la scelta che hai fatto delle foto» dice
Barbara.
«Ah sì?»
«È stata difficile per me guardarne alcune. Molto difficile, in certi casi.
Ma credo che sia una buona selezione.»
«Saranno bellissime su un libro, vero?»
«Sì.»
«Ma sono ancora un po’ poche. Me ne servirebbe un’altra decina.»
«Pensi che le troverai? Perché ormai le hai guardate praticamente tutte,
no?»
Sophie annuisce. «Magari prenderò qualcuna di quelle scartate e le
inserirò comunque. So che te l’ho già chiesto, ma sei proprio sicura che non
ce ne siano in giro altre?»
Barbara si passa la lingua sui denti e poi, convinta della sua decisione, si
alza e va alla credenza. Torna con due buste portafoto azzurre e le passa a
Sophie. «Tieni» dice. «Resterai delusa, ma so quanto ci tenevi a vederle,
perciò le ho fatte stampare.»
Sophie ha l’aria scioccata. «Mamma?»
«Sono di Parigi. Ma sono pessime.»
«Non ci credo! Queste non sono… Sono quelle?»
Barbara annuisce. «Del tour della Pentax.»
«Ma pensavo avessi detto…»
«Non volevo che diventassero di dominio pubblico, tutto qui. Avanti.
Dai un’occhiata.»
Sophie fa scendere il gatto dalle ginocchia (per qualche ragione le
sembra di potersi concentrare meglio) e si sistema i capelli dietro l’orecchio.
«Oddio!» dice, sfilando le foto dalla prima busta. «Sapevo che non avevi
distrutto i negativi. Lo sapevo.»
«Le ho portare a stampare da Tesco, non aspettarti un granché» dice
Barbara. «Ma puoi farle ingrandire se vuoi.»
«Ma certo. Oddio, mamma, è una cosa fantastica.»
«Su questo, ho qualche dubbio.»
Davanti alla prima foto, Sophie rimane perplessa. «A colori!» dice. «E
in formato trentacinque millimetri.»
«Erano per la Pentax» le ricorda Barbara. «Decidevano tutto loro.
Questo era parte del problema.»
Mentre guarda una prima decina di immagini, Sophie aggrotta sempre
di più le sopracciglia. «Sembrano foto scattate in vacanza» commenta alla
fine, mostrando a sua madre un’immagine della cattedrale di Notre Dame con
un’inquadratura pessima.
«Lo so.»
«E la metà sono pure sfocate, accidenti.»
«Sì, lo so.»
Foto dopo foto, il suo sconforto aumenta. «Com’è possibile che siano
tutte sfocate? Era ubriaco per caso?»
«È molto probabile» dice Barbara, poi aggiunge: «Ma il problema
principale era la macchina. Non riusciva a usarla».
Sophie sorride in modo sarcastico. «E quanto poteva essere difficile?»
dice. «Insomma, guarda qui!» Ne solleva un’altra: due donne sedute in una
tipica brasserie parigina. La luce è splendida, il bar elegante, e le donne sono
icone perfette e bellissime della vita parigina, con un’aria un po’ da stronze.
Stanno perfino fumando delle Gitanes, e il pacchetto giace in mezzo al
tavolo. Se non fosse per il fatto che il punto focale è su un vaso in primo
piano e tutto il resto è sfocato, avrebbe potuto essere una foto di Henri
Cartier-Bresson.
«Se mi ricordo bene» spiega Barbara, cercando di risparmiare a Tony
quella figuraccia postuma «era una delle primissime macchine con
l’autofocus. La Pentax stava cercando disperatamente di promuoverla. Ma
tuo padre la odiava. Diceva che lo faceva diventare pazzo».
Sophie annuisce. «In effetti me lo ricordo» dice. «Non aveva un
obiettivo enorme, pesante, con dentro un sacco di pile? E faceva bip in
continuazione?»
Barbara annuisce. «Sì, credo che fosse quella. Poco dopo hanno smesso
di produrla.»
«Avrebbe potuto spegnere quel cavolo di autofocus e basta» dice
Sophie, che adesso è arrabbiata. «Sono tremende.»
«Oh, lo sai che tuo padre non andava d’accordo con la tecnologia.»
Sophie guarda velocemente il resto delle foto. «Dio, mamma» dice.
«Sono davvero spaventose. Non se ne salva una.»
«E questo, tesoro mio, è il motivo per cui le ho tenute nascoste. Spero
che adesso tu capisca.»
«Fin troppo bene… Gesù. Non ne ha fatta neanche una con la sua
Rolleiflex?»
«No» dice Barbara, guardandosi i piedi. «Nessuna.»
«Un cappuccinooo!» annuncia il barista. Lo dice con una tale enfasi,
neanche fosse appena riuscito a trasformare il caffè in oro. Il che, si rende
conto Sophie in quel momento, per certi versi è proprio quello che Starbucks
ha trovato il modo di fare. «E un fantasticooo doppio espresso!!!»
«Grazie» dice Brett, con un tono un po’ brusco. Essendo americano,
dev’essere abituato a un servizio eccellente, pensa Sophie. Poi prende la tazza
e si guarda intorno. È ora di pranzo e sono a Soho, perciò gli unici posti
disponibili sono quelli in fondo al locale, vicino ai bagni. «A quanto pare
dobbiamo metterci lì» dice Brett, sconsolato.
Una volta seduti, lui si liscia la cravatta e sorseggia il caffè prima di
dire: «Allora, mi volevi parlare?».
«Sì» dice Sophie.
«A che proposito?»
«Ci ho ripensato» afferma. «Accettiamo le tue condizioni. Be’, io e mia
madre intendo. Jonathan non vuole avere niente a che fare con l’intera
faccenda.»
«Accettate le mie condizioni» ripete Brett. «Ti riferisci al fatto che
voglio tutto nero su bianco, giusto?»
«Sì.»
«Ah.»
«Ah?»
«Non pensi che sia il caso di scusarti?»
Sophie scrolla le spalle.
«Mi hai mandato affanculo, Sophie» le ricorda Brett. «Hai detto che ho
un ego schifoso.»
Sophie fa una risatina e il risultato è che il cappuccino le finisce su per il
naso.
«Ti sembra che io stia ridendo, Sophie? Mi vedi sorridere?»
Sophie sospira e scuote leggermente la testa. «Comunque, quello che
stavo…» dice, ma viene interrotta.
«Andiamo, Sophie» insiste Brett. «Scusati.»
Sophie fa un bel respiro. «Hai la minima idea di quanto questo sia
difficile per me, Brett? Insomma, venire qui e dirti che avevo torto? Non puoi
mostrare… che ne so… un po’ di compassione?»
Adesso è Brett a fare una risatina. «Non credo che questo sia un mio
problema, Sophie. Credo che tu ti ci sia messa da sola in questo casino.
Adesso chiedimi scusa così possiamo voltare pagina.»
Sophie sbuffa. «Va bene! Scusa, Brett.»
«Dillo in modo credibile.»
Sophie ride di nuovo. È più forte di lei. «Mi sembra di parlare con mia
madre! Perché non ti rilassi?»
«Hai ferito i miei sentimenti, Sophie» dice Brett.
Sophie nota che quando le parla con serietà e franchezza, Brett usa
spesso il suo nome, e nota anche che è una cosa che lei detesta. Le sembra un
atteggiamento paternalistico. «Senti, Brett» dice. «Tu hai ferito i miei di
sentimenti chiedendomi di firmare un contratto. Adesso, per favore, possiamo
metterci una pietra sopra?»
Brett scrolla le spalle. «Quindi non sei capace di scusarti. Qual è la
novità?»
«Possiamo?»
«Va bene. Fa’ come vuoi.»
«Allora, siamo a posto? Possiamo andare avanti? Con il progetto?»
«Suppongo di sì» dice Brett, riluttante. «Ma che mi dici di Jonathan?»
«Non è che andrà a parlare con qualcun altro. Avrai comunque
l’esclusiva. È solo che lui non vuole essere coinvolto. Gli sta per nascere un
bambino e vuole stare tranquillo, tutto qui.»
«Pensi che sarebbe disposto a firmare una dichiarazione in cui lo
attesta? Che non parlerà con nessun altro?»
«È probabile» dice Sophie. «Ma posso garantirti personalmente che non
corri nessun pericolo.»
«Va bene» dice Brett. «E tuo madre adesso è d’accordo, eh?»
«Diciamo così. Non mi aspetto chissà quale aiuto, ma almeno non mi
metterà i bastoni tra le ruote. Il che è già qualcosa.»
«Concordo in pieno.»
«Ehi, guarda queste» dice Sophie, prendendo le foto dalla borsa. «Alla
fine mia madre me le ha date. Non possiamo usarle, ma è una dimostrazione
del fatto che ha cambiato un po’ idea.»
«E queste sarebbero?»
«Queste sono le famose foto della Pentax.»
«Oh!» dice Brett, aprendo la prima busta. «Pensavo che fossero andate
tutte distrutte.»
«Quella è la storia ufficiale. Ma…»
«E non possiamo usarle perché?»
«Dai un’occhiata.»
Brett le guarda velocemente. «Le ha fatte tuo padre?»
«Piuttosto scioccante, eh?»
Brett fa un’espressione confusa. «Sembra che qualcosa sia andato storto
con la macchina fotografica.»
«Era una Pentax ME-F. L’ho cercata in Rete. La primissima fotocamera
con l’autofocus. Doveva essere un’invenzione rivoluzionaria ma, in realtà, fu
solo un grosso fallimento. La tecnologia non era ancora abbastanza
all’avanguardia, e molte avevano problemi tecnici. Mio padre non era l’unico
che le odiava.»
«Mhmm» dice Brett. «Ma dubito che siano stati in molti a ottenere un
risultato così disastroso.»
«Già.»
«Dio, sono proprio terribili!» Brett si mette a ridere e Sophie non può
fare a meno, nonostante sia fondamentalmente d’accordo con lui, di sentirsi
offesa.
«Vale la pena che continui a guardarle?» chiede Brett.
«No, credo di no» dice Sophie, allungando la mano per farsele ridare.
Sfila due foto dalla seconda busta e le passa a Brett. «Ho pensato che forse
queste potrebbero andare» dice. «Ce ne serve qualcun’altra e almeno qui
l’effetto flou sembra intenzionale.»
«Sì, capisco cosa intendi» dice Brett, dubbioso. «Ma se usiamo queste,
qualcuno immaginerà che ce ne sono altre. La gente vorrà vederle tutte.»
«Possiamo semplicemente dire che abbiamo ritenuto che non valesse la
pena mostrarle, no? Si renderanno conto anche loro che abbiamo fatto una
selezione.»
«No» dice Brett. «Io dico di buttarle.»
«Buttarle?»
«Esatto. Avere un padre che era un famoso fotografo fa più notizia di
averne uno mediocre che ha fatto qualche scatto fortunato.»
«Oh, andiamo, Brett. Mio padre non era un tipo mediocre che ha fatto
qualche scatto fortunato.»
«Be’, chiunque veda queste penserà che alla fine lo era.»
Sophie inizia a sentire caldo. Le sta montando la rabbia. «Brett, non
puoi dire una cosa così come se niente fosse. È di mio padre che stai
parlando.»
«Sophie, dico solo quello che vedo qui.»
«Sai che c’è? Se è davvero questo che pensi, allora forse è meglio per te
se ne resti fuori.» Rimette le foto in borsa e si alza. «Forse dovremmo
dimenticarci dell’intera faccenda.»
«Sophie!» dice Brett. «Stai avendo una reazione eccessiva.»
«Certo che sto avendo una reazione eccessiva, accidenti. Lui era mio
padre. Ed è morto!»
«Ehi, mi dispiace. Non volevo insinuare nulla, okay?» le dice Brett, ma
Sophie si sta già mettendo il cappotto. Sa che Brett ha ragione, ma ha preso
una direzione e non sa come cambiarla.
Brett si alza e le tocca con delicatezza il braccio. «Sophie. Mi sto
scusando. Mi dispiace. Adesso, per favore, per favore, siediti cazzo.» Si
guarda intorno e Sophie, seguendo il suo sguardo, si rende conto che la
stanno fissando tutti. Rimane con il cappotto addosso, nel caso debba
andarsene di corsa. Però riesce (a fatica) a rimettersi seduta.
«Dio!» dice Brett.
«Mi dispiace. Ma tu non puoi dire cose di quel tipo su mio padre.»
«Questo lo so» dice Brett. «La patria e la famiglia.»
«La patria e la famiglia?»
«Esatto. La gente può dirti qualunque cosa sul posto da cui proviene. Su
tutto ciò che di brutto che le è capitato. Sul loro paese o sui loro genitori, o
quello che è. E le è concesso dirti quelle cose, e a te è concesso ascoltare. Ma
non devi mai, mai mostrarti d’accordo con loro. E per nessun motivo devi
unirti a loro e criticare anche tu.»
Sophie si passa una mano tra i capelli. «Sì» dice. «Sì, in sintesi è più
meno così. Non c’è problema se sono io a dire che sono orribili. Ma questo
lascialo fare a me, okay?»
«Comunque» dice Brett. «Siamo d’accordo su una cosa. Non possiamo
usarle.»
«Sì» dice Sophie. «Sì, su questo siamo d’accordo.»
Le vibra il telefono, perciò lo tira fuori dalla tasca e osserva lo schermo.
«Oh mio Dio» dice.
«Cosa?»
«Judy ha partorito!»
«Ah!» dice Brett.
«È un maschio. Dylan. Povero stronzetto.»
«Smettila.»
«Non so cosa sia peggio» dice Sophie. «Chiamarsi Dylan o avere Judy
come madre.»
1976 — COSTA DI NORFOLK

«Papà» dice Jonathan con voce lamentosa. «Adesso c’è un’intera


colonna di macchine dietro di noi.»
Imbarazzato, come sempre, dal fatto che quando sono in vacanza, Tony
al volante se la prenda comoda, Jonathan è in ginocchio sul sedile posteriore
del Maggiolone a guardare gli automobilisti frustrati dietro di loro. Tony ha
solo due stili di guida: rilassato e aggressivo. Personalmente, Barbara
preferisce di gran lunga quello rilassato, ma in quel momento le è impossibile
prendere le sue difese.
«Sto andando a sessanta» dice Tony, lanciando un’occhiata al
tachimetro. «Non c’è nulla di male ad andare a sessanta.»
«Solo che il limite è novanta» dice Jonathan.
«È un limite, Jon, significa che non devi superarlo. È il massimo, non il
minimo. Giusto, Barbara?»
Barbara non gli risponde. Continua a fissare fuori dal finestrino e Tony
rimane in silenzio per qualche minuto prima di rivolgerle di nuovo la parola.
«Quindi ce l’hai ancora con me?» le chiede a bassa voce. «Per ieri sera?»
Barbara non gli risponde nemmeno questa volta.
Sophie, che è seduta dietro di lei, grida (con una forza spaventosa):
«Spiaggia!».
«Sì, Sophie» dice Barbara. «Sì, è una spiaggia enorme.»
«Cosa faccio, lo prendo come un sì?» le chiede Tony.
«Prendilo come vuoi. Ormai non m’interessa più» risponde Barbara.
«Decisamente un sì allora» sussurra Tony.
Tony la sera prima non è tornato a casa e Barbara si è preoccupata
molto. Sapendo che dovevano partire presto per Norfolk, non è riuscita a
convincersi che fosse “solo” un’altra delle tante assenze di Tony. E quando
alla fine, alle otto del mattino, lui è ricomparso, a dimostrazione che sì, era
solo un’altra delle tante assenze di Tony, non ce l’ha fatta a perdonarlo. E più
o meno la pensa ancora nello stesso modo.
«Non riesco proprio a capire qual è il problema» le dice Tony,
provocando un altro sospiro di Barbara. «Parlami!» dice. «Questa dovrebbe
essere una vacanza. Dovremmo divertirci.»
Barbara si lecca le labbra, poi gira la testa verso di lui e gli parla a voce
bassa. «Il problema, Tony» dice «è che ero preoccupata. Il problema è che
non sapevo se saresti tornato a casa oggi, domani, o magari mai».
«Ma io sono arrivato a casa in tempo. E adesso siamo qui, no?»
«Il problema» prosegue «è che tu continui a non dirmi dove sei stato.»
«Te l’ho detto. Ho dovuto fare un servizio su a nord. Mi sono fermato a
dormire da Phil.»
«E il problema,» dice Barbara «è che questa non è la verità. E lo
sappiamo entrambi.»
«C’è un’altra spiaggia» grida Sophie, indicando di nuovo con il dito. È
passata un’ora da quando si sono rimessi in viaggio, dopo essersi fermati per
il pranzo, e lei sta iniziando ad annoiarsi. In macchina fa un caldo
insopportabile, ancora di più sui sedili posteriori, e siccome le hanno
promesso di andare in spiaggia, la spiaggia è quello che vuole.
«Chiama Phil» dice Tony. «Fattelo dire da lui. Te lo confermerà.»
Barbara si volta a guardarlo e alza la mano per scrivere un titolo di
giornale immaginario sul parabrezza. «Migliore amico di bevute conferma
discutibile scusa alla moglie!» dice. «Da prima pagina!»
«Sei impossibile quando fai così.»
«Io sono impossibile?»
«Mamma!» dice Sophie, che adesso sta indicando un punto dietro di
loro. «Cos’aveva che non andava quella spiaggia?»
«Già» dice Jonathan. «A me sembrava okay.»
«Com’era?» chiede Tony, sollevato di poter cambiare discorso. «Non
l’ho vista.»
«Arsa dal sole» risponde Barbara, continuando a muoversi per il fastidio
che le provoca la pelle sudata a contatto con il vinile del sedile.
«Quindi proseguo?»
Barbara si morde un’unghia mentre dibatte con se stessa. La spiaggia
che hanno appena superato poteva non essere l’ideale per le esigenze di
Sophie (fare castelli di sabbia), ma era assolutamente perfetta per quelle di
Tony, ovvero testimoniare con delle foto vendibili che quella è “l’estate più
calda degli ultimi trecento anni”.
«Tra poco ci sarà un’altra spiaggia» dice Tony, e sia Jonathan sia
Sophie mugugnano.
Darsi la zappa sui piedi da soli. A Barbara viene in mente quella frase,
una delle preferite di Minnie. Le succede spesso in quei giorni che qualcosa
la faccia pensare a lei, e si chiede se sua madre sia in qualche modo presente
e le stia parlando, o se si tratti solo di ricordi casuali che saltano fuori dal
passato. A volte le sembra che entrambe quelle interpretazioni siano vere, che
portino più o meno alla stessa conclusione: quelli che non sono più con noi
rimangono con noi proprio attraverso i ricordi che abbiamo di loro. E i
ricordi, forse, sono più che semplici registrazioni nella nostra memoria, sono
la vera essenza della gente che abbiamo conosciuto e dei posti in cui siamo
stati, che restano a lungo dopo quell’evento, come viaggiatori del tempo,
come fantasmi.
In questo caso Minnie avrebbe ragione. Come famiglia loro hanno
bisogno che a Tony le cose vadano bene: hanno bisogno che lui faccia le
fotografie giuste e hanno bisogno che le venda. E se lui non intende dirle
dov’è stato (e dopo venticinque anni di matrimonio, sa che non lo farà) e se
lei non intende lasciarlo (e dopo venticinque anni sa anche questo), allora
sabotare l’aspetto professionale di questo viaggio che, come Tony le ha
assicurato, sarebbe stato pagato con quelle foto, non ha alcun senso. Sarebbe
davvero darsi la zappa sui piedi da sola.
Si volta verso di lui. Si avvicina per fare in modo che sia l’unico a
sentirla. «Ti odio in questo momento» sussurra.
Tony la guarda con la coda dell’occhio, poi si riconcentra sulla strada.
Aggrotta le sopracciglia. «Cosa?» le dice.
Lei si avvicina di nuovo e lo ripete. «In questo istante, in questo
momento, ti odio davvero. Voglio solo che tu lo sappia.»
«Gesù!» esclama Tony, con un’espressione davvero ferita.
«Ma…» aggiunge, a voce più alta. «Dovresti fare inversione e tornare a
quell’ultima spiaggia che abbiamo superato.»
«Cosa?» le chiede di nuovo.
«Torna indietro a quell’ultima spiaggia» ripete, provocando le grida di
gioia di Jonathan e Sophie.
«Perché?» le chiede, sospettoso delle sue motivazioni, temendo che
magari possa aver visto una scogliera da cui buttarlo giù.
«È splendida» gli dice lei. «Arsa dal sole, con delle spaccature che
creano l’effetto di un pavimento crepato. Ed è piena di ragazze arrossate e
mezze nude. È esattamente quello che hai detto che stavi cercando.»
Tony guarda nello specchietto, mette la freccia e accosta. La fila di
guidatori frustrati li supera, e adesso che il Maggiolone dall’inferno si è tolto
di mezzo, raggiungono in fretta una velocità che Jonathan considererebbe più
ragionevole.
«Davvero?» le chiede Tony. «Non è che mi stai facendo un dispetto?»
«Torna indietro, papà» dice Jonathan.
«Sì, dai» concorda Sophie. «Torna indietro.»
Barbara annuisce e sorride, sbattendo le sopracciglia con fare
sprezzante. «Torna indietro, tesoro» dice. «Lo vedrai tu stesso. Tutto quello
che ti ho detto è la pura verità.»
1977 — HACKNEY, LONDRA

Barbara guarda l’orologio della cucina. «Sarà meglio che ti sbrighi»


dice a Jonathan. «O farai tardi.»
«Tanto ho educazione fisica» dice Jonathan. «Non è importante.»
«Tutto è importante.»
«Voglio solo vedere come sta con il completo nuovo» dice Jonathan.
«Se ti stai riferendo a tuo padre, lo hai già visto con un completo al
matrimonio di Phil» dice Barbara, anche se lo trova perfettamente
comprensibile. Anche lei freme dalla voglia di vedere Tony con il suo abito
nuovo.
«Sì, ma mai con un completo bianco» dice Jonathan, con l’insolenza
tipica degli adolescenti. «Non l’ho mai visto vestito come uno dei Bee Gees.»
«Non ti azzardare di dirla a lui una cosa del genere!» lo avverte
Barbara. «È già abbastanza nervoso. E non è bianco. È crema.»
«Sembrerà lo stesso uno dei Bee Gees» dice Jonathan.
«Per favore! Adesso vai a scuola. Lo vedrai stasera.»
Ma è troppo tardi. Tony è in corridoio e si dirige verso di loro
calpestando il pavimento con la suola spessa delle sue scarpe nuovissime.
«Sei sicura che mi devo mettere la cravatta?» chiede a Barbara, cercando di
allargare il colletto della camicia.
Si bloccano tutti a guardarlo. Come un fermo immagine generato dal
semplice fatto che i suoi vestiti sono diversi. È una sensazione strana, fuori
dal tempo.
«Mi piace!» dichiara Sophie. «Secondo me stai benissimo, papà.»
Continuando a toccarsi la grossa cravatta, Tony le rivolge un sorriso
finto modesto e le fa l’occhiolino. Sophie è una vera cocca di papà, e lui può
sempre contare su di lei per un commento incoraggiante quando ne ha
bisogno.
Barbara, che nel frattempo gli è andata incontro, concorda. «Sei
splendido» gli dice, raddrizzandogli la cravatta e sistemandola meglio dentro
il gilet. «Sembri un fotografo che ha vinto un premio.»
«Mi sento come se mi avessero condannato a morte per impiccagione»
dice Tony.
«Adesso sai cosa si prova, papà» dice Jonathan, che deve indossare la
divisa scolastica ogni giorno. Non riesce a capire perché faccia tutte quelle
storie.
«Dubito che a te la cravatta dia tanto fastidio. Visto che la porti intorno
al ginocchio.»
«E comunque, le cravatte sono da sfigato» dice Jonathan, con tono
scherzoso. «Nessuno dei Bee Gees se la mette.»
Barbara gli lancia un’occhiataccia e lui le sorride con aria di sfida.
«Sì, ma io non sono mica nei Bee Gees» dice Tony. «Non sto andando a
Top of the Pops. Devo partecipare a una cavolo di trasmissione in cui si
discute di arte.»
«Okay» interviene Barbara. «Basta così. Jon, tu vai a scuola.
Immediatamente! Sono quasi le otto e mezza!»
Jonathan si alza, prende la borsa da ginnastica e si avvicina al padre a
passo di jive. Lo osserva in modo plateale dal basso in alto, poi dice: «Sei un
grande, papà» e canticchiando Stayin’Alive con una voce stupida, se ne va
verso l’ingresso facendo ondeggiare le anche.
«Cretinetto impertinente» dice Tony, dopo che la porta si è chiusa.
«Ha quattordici anni, Tony. Sono tutti così a quattordici anni.»
«Sarò così anch’io a quattordici anni?» chiede Sophie.
«No» dice Tony. «Tu a quattordici anni sarai un angelo, proprio come
adesso. Sarai un angelo per sempre.» Guarda di nuovo Barbara. «Secondo me
è troppo, no? Avrei dovuto prendere quello azzurro.»
«No, davvero, sei perfetto. Abbiamo guardato la puntata di Aquarius
insieme la settimana scorsa. Hai visto com’erano vestiti.»
Tony ha paura e la sta riversando tutta su quello stupido vestito. Ma
conoscere la causa del suo timore non è sufficiente a tranquillizzarlo. Guarda
Sophie che lo sta ancora fissando in adorazione dal tavolo della cucina.
«Cosa ne pensi, cucciola?» le chiede.
«Puoi accompagnarmi a scuola?» risponde lei. «Voglio che vedano tutti
quanto sei bello e famoso.» Il che, ovviamente, è la cosa migliore che potesse
dire.
«Mi piacerebbe tanto tesoro, ma non posso» le dice Tony, dando
un’occhiata all’orologio. «Devo essere a Wembley per le dieci.»
«Per favore?»
«Potremmo accompagnarla a scuola e poi proseguire fino alla stazione
di Hackney» suggerisce Barbara. In realtà, anche lei vuole godersi Tony il
più possibile oggi. Anche lei vuole essere vista in giro con suo marito vestito
in quel modo, vuole condividere con lui la gloria per la vincita del premio.
«Va bene» dice Tony. «Ma ci conviene muoverci.»
Sophie si è alzata da tavola e ha preso la macchina fotografica di suo
padre. «Posso farvi una foto?» chiede.
Tony alza gli occhi al cielo. «Solo una però» dice. «Ti ricordi come si
fa?»
«Certo che me lo ricordo» dice Sophie, togliendo il coperchio.

Dopo che Tony ha sollevato da terra Sophie davanti al cancello della


scuola, l’ha fatta volteggiare in aria (e a otto anni, sta diventando difficile), e
l’ha rimessa giù perché si unisse alla moltitudine chiassosa di bambini,
Barbara lo prende a braccetto e i due s’incamminano verso la stazione.
«Io continuo a sentirmi un cretino vestito così» dice Tony, nonostante
sia un po’ lusingato dalle occhiate di ammirazione dei passanti. «Sembra che
stia andando a un matrimonio. Che stia andando al mio matrimonio.»
«Devi preoccuparti meno di come sei vestito e pensare di più a quello
che dirai. Perché, credimi, sei perfetto.»
«E cosa diavolo dirò?» le chiede. «Sai quanto odio tutte quelle stronzate
da intellettuali.»
«Be’, questo non lo dire. Ma sono certa che andrà bene, sul serio.»
«Allora mi dica, signora Marsden» dice Tony, facendo finta di
intervistarla. «Cosa rappresenta questa foto? Quale dei suoi desideri più
profondi stava cercando di esprimere?»
«Smettila. Andrà bene!»
«Ma vorranno farsi dire un sacco di sciocchezze» insiste Tony. «E io
non sono bravo a riempirmi la bocca di paroloni. Lo sai.»
«Tony! Basta!» dice Barbara, stringendogli il braccio. «Ti stai agitando
per niente. Lo hai già vinto il premio. Pensano già tutti che sei eccezionale. È
per questo che ti hanno invitato.»
«È facile per te. Non sei tu a dover affrontare l’inquisizione spagnola in
tv, davanti a tutta la nazione.»
«Non puoi dire che sono soltanto foto?» dice Barbara. «Di’ che sono
foto, e che di una foto non si dovrebbe parlare, la si dovrebbe guardare.»
Tony fa una risatina sarcastica. «Ma sì» dice. «Certo. La prenderanno
benissimo.»

Barbara porta in sala da pranzo l’ultimo piatto, sedano ripieno di stilton.


Spinge di lato le uova alla diavola e riposiziona il vassoio con le mini quiches
per fare spazio al sedano. Indietreggia e ammira la tavola, poi sospira
soddisfatta. È perfetta.
«Mamma, sta iniziando!» grida Jonathan dal soggiorno.
Un attimo dopo, compare Sophie sulla porta. «Mamma!» dice, tutta
agitata. «Stanno facendo partire la videocassetta. Vieni!»
Barbara la segue in soggiorno, ma è quasi troppo affollato perché riesca
a entrare. I vicini hanno occupato il divano, e gli amici di Tony del vecchio
corso di fotografia sono seduti per terra a gambe incrociate. Ci sono anche
volti nuovi, persone che evidentemente Tony conosce bene ma che lei non ha
mai visto prima: due giornalisti del Mirror, un pittore, un poeta, uno chef…
Stanno tutti bevendo. Stanno tutti fumando. E un leggero odore dolciastro
nell’aria le fa venire il dubbio che non si tratti solo di sigarette. Sembra di
stare in un ashram, ma Barbara si è riproposta di restare calma. Si è
riproposta di socializzare e divertirsi, per una volta.
Dave, che ha portato il videoregistratore, è stravaccato per terra, e sullo
schermo è partita la sigla di Aquarius. Sophie, che conosce a memoria il testo
di The Age of Aquarius, sta cantando.
Malcolm continua a parlare. «È davvero incredibile che sia tutto su
quella specie di rullino» sta dicendo. «Quand’è che è andato in onda?»
«Domenica sera» dice Tony. «Alle dieci e mezza.»
«E tu l’hai registrato dalla tv?»
«Non io, Dave» dice Tony.
«Sss!» dice Sophie, e sono tutti felici che sia stata lei ad azzittirli.
Sullo schermo, Peter Hall sta introducendo gli ospiti.

«Questa sera avremo qui con noi Steve Leber, il co-produttore di un


nuovo musical intitolato Beatlemania e Anthony Marsden, che è la prima
persona ad aver vinto il premio di fotogiornalista dell’anno due volte di fila.
Ma intanto diamo il benvenuto a Wolfgang Büld, che ha realizzato un
documentario sul movimento punk di Londra. Buonasera Wolfgang!»
«Salve.»
«Allora, prima di tutto, è giusto chiamare quello dei punk un
movimento? O sarebbe più accurato definirlo una moda?»

«Io intanto andrei a mangiare qualcosa» dice Malcolm. «A me interessa


solo vedere il nostro Tony.»
«Posso mandarlo avanti fino a dove c’è il pezzo di Tony se volete» dice
Dave, con il dito su uno dei tasti cromati del videoregistratore.
«Si può?»
«Certo» dice Dave. «Si possono fare un sacco di cose con questi
aggeggi.» Spinge il tasto e sullo schermo le immagini scorrono rapide.
«Che buffo» dice Sophie. «Mi piace quando va veloce.»
«Ce ne prendiamo uno anche noi, mamma?» chiede Jonathan.
«Un videoregistratore? No. Costano una fortuna, non è vero Dave?»
«Questo l’ho preso in affitto» dice Dave. «Comunque sì, per comprarlo
ci vogliono un sacco di soldi.»
«Eccolo!» Jonathan, che non ha staccato gli occhi dalla televisione
nemmeno per un secondo, sta indicando lo schermo, dove Tony ondeggia da
un lato all’altro, gesticolando a velocità triplicata.
Dave manda indietro e avanti più volte, finché non trova il punto esatto,
poi blocca l’immagine.
«Ti sei tolto la cravatta» commenta Jonathan.
«Faceva un caldo infernale» dice Tony. «Le luci… stavo sudando come
un maiale.»
Barbara sospira. Con il colletto della camicia aperto sui revers della
giacca, sembra davvero uno dei Bee Gees, e non era quello il look a cui
aspiravano.
«Pronti?» chiede Dave. Sulla stanza cala il silenzio assoluto. La gente
smette persino di masticare le noccioline che ha in bocca.
«È un peccato che non abbiate la tv a colori» dice Malcolm, provocando
uno Sss! generale.
Finalmente Dave preme il tasto e il video riparte con un primo piano di
Tony che sembra a disagio, poi vengono mostrate una serie di foto con cui ha
vinto il premio: una donna su una spiaggia arsa dal sole, un punk con un
taglio alla moicana che sale su un treno Intercity 125, una manifestazione
davanti al numero 10 di Downing Street…

«Come possiamo notare guardando solo alcune delle sue fotografie, lei
ha un eccezionale senso della composizione. È una cosa che ha imparato nel
corso dei suoi studi o è un talento naturale che ha sviluppato?»

Barbara, in fondo alla stanza, vede Sophie afferrare il braccio di


Jonathan mentre aspetta che suo padre risponda. Vorrebbe avere anche lei
qualcuno a cui aggrapparsi. Invece stringe lo schienale di una poltrona.

«È più… una cosa naturale, direi.»

Segue qualche secondo di silenzio. L’intervistatore sta chiaramente


aspettando che Tony elabori la sua risposta, e alla fine lui lo fa.

«Insomma, io non ho frequentato nessuna scuola d’arte, o cose del


genere. Mi piace solo fare fotografie.»
«Splendido! E cos’è che la spinge? Dove trova l’ispirazione?
Prendiamo questa foto…»

L’uomo mostra in camera la foto della spiaggia.

«È un commento alla società moderna? Tutti questi corpi cotti al sole


sono lì per dirci qualcosa sull’idea di svago nei tempi moderni?»

Sullo schermo, Tony tossisce e si gratta il collo. Fa una smorfia come se


stesse quasi soffocando. Quando inizia a parlare tutti in soggiorno riprendono
a respirare.

«Io… Io… Senta, a essere sinceri, tutto questo parlare di arte mi ha un


po’ stancato. L’arte, mi riferisco all’arte visiva naturalmente, be’, è fatta per
essere guardata, no? Se la gente ha voglia di lunghe discussioni può
ascoltare la radio o leggere un libro.»

Peter Hall è visibilmente seccato.


«O guardare la televisione, ah ah. Ma sono sicuro che dopotutto i
nostri telespettatori ci stiano guardando nella speranza che lei ci parli delle
foto che le hanno fatto vincere il premio.»

«Sì. Ma io non sono un presentatore televisivo, giusto? Io sono un


fotografo. Perciò preferirei che la gente guardasse i miei lavori e basta. È
questo lo scopo della fotografia. Niente abbellimenti. Per me, una
fotocamera è come un coltello da burro che taglia porzioni di realtà e le
conserva per dopo. Il messaggio di una foto è quello che comunica alla
persona che la guarda. L’arte visiva è visiva. Esiste proprio per questo. È lì
per essere guardata, non spiegata. Quindi perché non guarda la mia foto e
mi dice cosa rappresenta secondo lei? È molto più interessante di quello che
rappresenta secondo me.»

«Ma certo. Be’, una cosa su cui ci troviamo tutti d’accordo è che
adoriamo le sue meravigliose foto. Quindi, congratulazione per il suo
premio.»
«Grazie.»

La telecamera zooma sul viso di Peter Hall. Sembra sconvolto.

«Ora, molto tempo prima del movimento punk, un altro evento musicale
conquistò Londra. Beatlemania. Un nuovo musical che debutterà nel West
End la settimana prossima…»

«Puoi fermarlo adesso» dice Tony. «Non c’è altro. A quel punto una
ragazza mi ha trascinato fuori dallo studio.»
Dave preme il tasto.
«Cosa ne pensate?» chiede Tony. «Me la sono cavata?»
«Sei stato eccezionale» dice Malcolm. «Il perfetto antieroe. Un uomo
del popolo! Ti ameranno.»

Barbara lascia a malincuore la calma della sala da pranzo e si impone di


ributtarsi nella mischia. Si sente a disagio, è in imbarazzo, ma portare i piatti
la aiuta. Avere uno scopo le consente di dimenticarsi del movimento
meccanico da compiere per mettere un piede davanti all’altro, di dimenticarsi,
quasi, di quanto sia complicato respirare.
In soggiorno c’è il doppio della gente di prima; solo posti in piedi.
Jonathan sta mettendo i dischi nel loro nuovo stereo (Barbara gli ha
detto che può mettere quello che vuole tranne i Bee Gees) e le persone
bevono e gridano sopra la musica. Un paio di tizi si stanno facendo le canne e
qualcuno sta iniziando a muovere le anche al ritmo di Don’t Go Breaking My
Heart, di Elton John e Kiki Dee.
Barbara fa un giro della stanza con il vassoio di mini quiches, poi, come
chi è rimasto a lungo sott’acqua e risale in superficie a prendere fiato, torna al
porto sicuro della sala da pranzo, dove si versa un bicchiere di sherry più
abbondante del solito, e lo butta giù. Sembra che con gli altri funzioni. Perché
non con lei?
Quando va di nuovo in soggiorno, trova Diane sulla porta d’ingresso.
«Wow!» dice, quasi costretta a urlare per farsi sentire. «Questa sì che è una
festa!»
«Sì! Non sapevo nemmeno che saresti venuta! Un bastoncino di
sedano?»
Diane lancia un’occhiata al vassoio con disprezzo, come se Barbara
fosse completamente impazzita, il che in quel momento potrebbe anche
essere vero. «Ma certo che non vuoi un bastoncino di sedano!» dice.
Diane scrolla le spalle e ne prende uno. «Perché no» dice. «Mangiamoci
un bastoncino di sedano. Scateniamoci!»
«È una vita che non ti vediamo.»
Diane morde il sedano, poi lo mastica prima di rispondere. «Lo so. Mi
dispiace. È stata… insomma… dura per me.»
Barbara annuisce con aria gentile. «Lo capisco» dice. «Lo capisco
benissimo. È stato un periodo difficile per tutti.»
«Comunque…» dice Diane, palesemente alla ricerca di un nuovo
argomento. «Adoro il tuo vestito! Dove lo hai comprato?»
Barbara arrossisce e si guarda i piedi, infilati in un paio di stivali di
vinile un po’ piccoli ma piuttosto carini che ha comprato in un negozio di
seconda mano. «Che resti tra noi» dice «ma l’ho fatto io. L’ho copiato da uno
che ho visto a Carnaby Street.»
«Non mi starai dicendo che l’hai tinteggiato tu, vero?»
Barbara annuisce. «Eh sì» risponde. «Quello del negozio aveva dei
colori molto più accesi, era tutto arancione e verde… ma io volevo qualcosa
di più sobrio.»
«Be’, ti sta d’incanto» dice Diane. «Sul serio!»
«Grazie» risponde Barbara, abbassando di nuovo lo sguardo per un
attimo. «Anche tu stai molto bene. Sei abbronzatissima e in forma.»
«Sono appena tornata dalla California» dice Diane. «Non ho ancora
smaltito il jet lag.»
«Dalla California?»
«Mi piace da morire. A dire la verità sto pensando di andarci a vivere. È
proprio come nei film. Sono tutti trendy e alla moda, e tutti fatti. E San
Francisco… me ne sono innamorata!»
«Oddio!» dice Barbara. «Che bello.»
«Non sarebbe un problema, vero?»
«Cosa non sarebbe un problema?»
«Se io mi trasferissi lì?»
«Per me?»
«Per voi due.»
«Diane!» dice Barbara. «E perché mai?»
«Bene… Perché è molto probabile che lo faccia. Oh, ho visto Tony in
tv. È stato la sera che sono tornata, in effetti. Se l’è cavata bene.»
«Sì, è vero. Lo abbiamo visto prima, su uno di quegli affari, un
videoregistratore.»
Diane si sposta i capelli. «Questa cosa di schierarsi contro il sistema è
molto in voga anche in America. È stata una buona mossa.»
«Contro il sistema?»
Diane annuisce con convinzione. «Sì, sai, quando ha detto “parlare di
arte mi ha stancato”. Come se non si trovasse in una trasmissione che tratta di
arte! Avrei potuto morire. Ma è stato astuto. Ha funzionato.»
«In realtà, è stata una mia idea.»
«Ah sì?»
«Sì. Stavamo andando alla stazione e Tony era nel panico perché non
sapeva come rispondere alle domande che gli avrebbero fatto. E io gli ho
detto “Tu di’ semplicemente che sono foto. Che di una foto non si dovrebbe
parlare, la si dovrebbe guardare”.»
«Be’, è stata un’ottima mossa. La gente adora questo genere di cose.
Oh! Eccolo qui! L’uomo del momento. Caspita, come sei figo!»
Barbara si volta e vede che Tony è accanto a lei. In effetti è proprio
figo. Ma lui scuote la testa e nega. «Figo? No, per niente» dice, sorridendo a
Diane, e riuscendo poi, non si sa come, ad avere un’espressione del tutto
diversa quando rivolge lo stesso sorriso a lei.
Tony prende Diane per un braccio. «Non startene lì sulla porta» dice.
«Vieni, unisciti alla festa. E raccontami dell’America!»
Mentre Tony la trascina via, lei si volta. Fa l’occhiolino a Barbara e in
segno di pace per averla piantata in asso, dice: «Stai davvero benissimo con
quel vestito!».
I complimenti di Diane e lo sherry all’improvviso cominciano a fare
effetto, e quando ricomincia a muoversi tra la gente, Barbara si sente a suo
agio. È un’esperienza insolita per lei, ed è uno shock rendersi conto di quanto
sia bella quella sensazione, che sollievo sia avere tutt’a un tratto
l’impressione di stare bene col proprio corpo. Di solito si sente come una
bambina piccola e impaurita, nascosta dentro una grande macchina che cerca
di guidare in giro per la stanza senza conoscerne i comandi.
«Bastoncino di sedano?» offre alla sua destra. «Oh, ciao Malcolm!
Bastoncino di sedano? Ciao Jenny! Come stai?»
«Adoro il tuo vestito!»
«Oh, grazie! Qualcuno vuole un bastoncino di sedano?»
Quando arriva in fondo al soggiorno il vassoio è quasi vuoto, perciò si
volta per tornare in cucina. Lo stereo sta suonando The Things We Do For
Love, lei si sente ubriaca e forse un po’ fatta (si può essere fatti per aver
respirato il fumo delle canne di qualcun altro?), Tony non è più con Diane ma
con Jules, e i 10cc stanno cantando l’amore. Va tutto bene.
«Jules, conosci Barbara?» dice Tony, prendendola per un braccio
mentre lei gli passa accanto. È rosso come un peperone, il che di solito è un
segnale che si sta ubriacando a livelli pericolosi.
«Sì» dice Jules, sorridendo in modo benevolo. «Certo. Bellissimo
vestito, Barbara.»
«L’ha fatto lei» dice Tony. «Con un vecchio lenzuolo! Non è
incredibile?»
Il sorriso di Barbara si smorza un po’. «In realtà io…»
«Babs è straordinariamente creativa» la interrompe Tony. «Tutte le mie
idee migliori me le suggerisce lei. In effetti, non credo che farei mai una
pensata intelligente senza di lei. Non è vero, Babs?»
Barbara apre la bocca per rispondere, ma non le viene in mente niente
da dire. Il buon Tony è svanito ed è tornato quello cattivo. Anche la breve
apparizione della sofisticata, affascinante Barbara, è svanita, lasciando alla
guida la piccola bambina terrorizzata, che muove a caso i pedali della
macchina mentre sbanda per la stanza. «Un bastoncino di sedano?» mormora,
mentre si allontana da Tony e si fa strada tra la gente con passo incerto.
Tornata in cucina, lava il vassoio prima di andare in sala da pranzo per
un altro bicchiere di sherry e una manciata di palline di formaggio. Qual è il
problema se ha fatto quel vestito con una vecchia tenda? E se lo ha
tinteggiato da sola? Come si permette!
In quel momento, le note della sua canzone preferita di quel periodo,
Money, Money, Money degli Abba, le vengono in soccorso. Accidenti a lui!
pensa. Io me la godrò questa festa.
In soggiorno si sono creati due gruppi, quelli che bevono nella parte
anteriore, e quelli che ballano, ammassati intorno allo stereo.
Osserva Sophie girare su se stessa come una trottola mentre si scatena a
passi di rock and roll con Diane, e quella scena per un attimo le suscita
gelosia, ma poi ricorda a se stessa che Diane presto potrebbe partire. È ovvio
che voglia sfruttare al massimo quell’occasione. È una cosa normalissima.
Si avvicina un po’ a loro e chiude gli occhi per isolarsi da tutto. Lascia
che il suo corpo cominci a ondeggiare. Le piace il modo in cui il vestito si
muove intorno a lei. Le piace il modo in cui la musica e il pavimento, aiutati
dallo sherry, sembrano morbidi e accoglienti, come un materasso al sole.
Money, money, money… Sorride. Che carica dà questa canzone!
Qualcuno le dice: «È una ballerina fantastica!».
Apre gli occhi e vede Diane che balla davanti a lei, ancheggiando
lentamente. Con i suoi bellissimi capelli neri e lisci, sembra un giunco sul
fondale marino che fluttua nella corrente. «Ti riferisci a Sophie?»
Diane annuisce e sorride. «Sì. È strepitosa!»
«Oh, lo so» dice Barbara. «Le piace da morire. Ieri mattina sono
rientrata e l’ho trovata che ballava come gli Zulu.»
«Come chi?»
Barbara si mette a ridere. «Come gli Zulu» ripete, dandosi dei colpetti
sulla bocca con la mano mentre gira su se stessa e batte un piede seguendo la
musica.
«Oh, che buffo!» dice Diane.
«Credo che lo abbia visto in tv» dice Barbara, faticando ad articolare le
parole. È proprio brilla, non c’è dubbio. «Sarei rimasta a guardarla per ore.
Girava e girava…»
«Cosa state facendo?» Tony si è avvicinato a loro, ma non sta ballando.
Tony non balla mai, anzi, non ne è capace. Anche se Barbara i primi tempi
aveva provato a insegnarglielo, è stato impossibile. Gli manca proprio il
senso del ritmo.
«Barbara mi sta mostrando la danza degli Zulu» dice Diane, ridendo in
modo allegro.
«Fammi vedere.»
Lei scrolla le spalle, poi si mette a ridere e ripete la danza. «Le stavo
solo spiegando cosa…»
«Ah! È fantastico. Malcolm!» grida Tony. «Guarda che roba! Rifallo!»
Barbara aggrotta le sopracciglia, ma ripete il movimento un’altra volta.
«Stavo solo mostrando a Diane come Sophie…» riprova a spiegargli, ma lui
se ne va barcollando e ridendo di gusto.
«Lascialo perdere» dice Diane. «È ubriaco.»
«Sì, lo so» risponde Barbara. Ma lei non può lasciar perdere, e non
perché le ha rovinato quel piccolo momento di felicità, ma perché sa che ha
riso di lei in quel modo apposta, proprio per rovinarglielo.
Senza perdersi d’animo, decisa a non dichiararsi sconfitta, Barbara balla
fino alla fine della canzone, ma ormai le è passata la voglia. Torna in sala da
pranzo dove si mangia un mini würstel, poi va in cucina a bere un bicchiere
d’acqua del rubinetto. Ma visto che adesso lì c’è gente, e lei vuole soltanto
stare da sola, esce nel cortile sul retro.
Con il rumore della festa alle sue spalle, respira l’aria fredda della sera e
osserva la luna, che con un effetto spettacolare sembra appesa al melo dei
vicini.
Si siede su un muretto e si sforza di fare dei respiri profondi finché,
dopo almeno una decina di minuti, se non di più, il respiro riprende un ritmo
regolare.
Mentre si alza per tornare in casa, Sophie corre fuori seguita da
Jonathan, che cerca di acciuffarla. Si nasconde dietro le sue gambe.
«Jonathan mi vuole chiudere in camera» dice, senza fiato.
«Papà ha detto che deve andare a dormire» le spiega Jonathan. «Dice
che c’è troppa confusione per una bambina di otto anni.»
Barbara accarezza i capelli della figlia. «In effetti non mi sembra una
cattiva idea. È quasi mezzanotte.»
«Ma io sto bene. Non ho sonno. Voglio ballare.»
«Senti» le dice Barbara. «Facciamo così, balliamo un’altra canzone e
poi ti metto a letto.»
Sophie la guarda. «Due canzoni?» dice. «No, tre canzoni.»
«Okay, altre tre canzoni.»
Tornati in soggiorno, la musica si è fermata. «Dov’è il nostro disc
jockey?» grida Tony. «Forza, ragazzo!»
«Ecco, papà, vado subito» risponde Jonathan, infilandosi tra chi stava
ballando e all’improvviso si è ritrovato in un mare di silenzio.
«Metti qualcosa di africano» dice Tony.
Barbara si stizzisce. Ha già capito dove vuole arrivare. «Tony» protesta.
«Africano?» chiede Jonathan.
«Sì. Tua madre ci farà vedere la danza degli Zulu, vero Barbara?»
In quel momento la metà della gente si volta a guardarla. Alcuni hanno
quell’espressione esaltata, tipica di chi è ubriaco, ma altri, pochi per la verità,
e per la maggior parte donne, sembrano tristi, come se provassero pena per
lei… Non riesce a decidere cosa sia peggio. La compassione, probabilmente.
Sente che sta diventando paonazza.
«Cosa dovrei mettere?» chiede Jonathan. Non ha ancora capito cosa stia
succedendo.
«Qualunque cosa» gli dice Barbara. «Io per stasera ho finito di ballare.»
Sophie le tira il braccio. «Mamma!» piagnucola. «Me l’hai promesso.»
«Sì! Forza, Babs!» grida Tony. «Muoiono tutti dalla voglia di vedere
come ballano quei cavolo di Zulu!»
Barbara osserva i visi intorno a lei, stuzzicati dalla curiosità, poi lancia
un’occhiata inferocita a Tony. Ma lui è troppo ubriaco per decodificare il suo
sguardo. O per preoccuparsene. Si limita a fissarla con aria maliziosa.
«Fai una cosa, metti i Bee Gees» dice Barbara a Jonathan. «Sono
perfetti per come è vestito tuo padre.»
Guarda Tony, sperando che la sua frecciatina, rubata a tradimento al
figlio, abbia avuto effetto. Ma a differenza del suo ego, quello di Tony non è
fragile. Lui se ne sta lì con il suo abito color crema e continua a ridere di lei.
Barbara non è neanche sicura che l’abbia sentita o che abbia capito la sua
battuta.
Dalle casse escono le prime note di Stayin’ Alive e Tony inizia a gridare
e a battere le mani. «Bar-ba-ra, dan-za zu-lu, Bar-ba-ra, dan-za zu-lu»
canticchia, e due dei suoi stupidi amici ubriachi si uniscono a lui.
Barbara spinge Sophie verso il centro della pista da ballo. «Tu balla,
tesoro» dice. «Io vado a letto.»
Sophie la guarda in modo adorabile. «Ma possiamo fare la danza degli
Zulu insieme» le dice.
Mentre lei si volta per andarsene, una mano la raggiunge per fermarla. È
Jonathan.
«Li ho messi, mamma.»
Lei si sforza di sorridere. «Grazie, tesoro.»
«Lo odio» dice, lanciando un’occhiataccia a Tony, che è dall’altra parte
della stanza a ridere di gusto. «Lo odio così tanto che potrei ucciderlo.»
«Grazie» gli dice Barbara. «Ma non sarà necessario. Goditi la festa.
Buonanotte.»

Dalla camera da letto, Barbara ascolta i rumori della festa. Una parte di
lei è pentita di aver battuto in ritirata, pensa che sarebbe dovuta rimanere e
impedirgli di trattarla così. Ma non si può vincere con un ubriacone. Mai.
Cos’è che le diceva sempre sua madre? Non lottare con i maiali. Vi
sporcherete di merda entrambi, ma l’unico a divertirsi sarà lui. Un maiale.
Ecco cosa diventa quando beve. Un maiale. E sì, in questi momenti lo odia
davvero.
Guarda il suo vestito colorato appeso alla maniglia dell’armadio e
decide che non lo indosserà mai più. Quel vestito è molto più che un vestito.
È il simbolo di un suo tentativo di cambiare, di compiacere, di essere
accettata nel nuovo mondo di Tony.
Indossandolo, si era immaginata di apparire e di sentirsi sofisticata. Di
mescolarsi tra quelle persone senza imbarazzo, magari di discutere del
programma televisivo o delle fotografie di Tony o, perché no, perfino delle
tecniche da usare nella camera oscura.
Ma stasera ha capito che, nonostante Tony stia riuscendo a inserirsi in
un mondo diverso, questo non basta ad appagare il suo ego. Ha bisogno di
lasciarsi lei alle spalle come fosse una tacca, come qualcosa che può indicare
e dire: «Guarda quanta strada ho fatto!».
L’arte, simile a un’amante diabolica, le sta rubando il marito. Ma alla
pari di tutti gli uomini che hanno un’amante, anche lui ha bisogno di una
moglie da cui tornare a casa. Perché senza una moglie, che gusto c’è ad avere
un’amante?
Sente il tonfo di qualcuno che sbatte contro la parete e si guarda intorno
con fare nervoso, come se qualcuno potesse attraversare il muro, entrare
dritto nella sua mente e scoprire i suoi pensieri da traditrice.
Chiude gli occhi. Le gira tutto, perciò li riapre e si concentra sul
lampadario che pende sopra di lei.
Si ricorda di quanto fossero piccoli i suoi sogni, quanto semplici e
pragmatiche le sue ambizioni. È venuta dal nulla, dal niente, da letti condivisi
e bagni esterni, dalle bombe e dalla fame… E da lì, aveva sognato poco più di
una casa comoda e un uomo gentile, affidabile, al suo fianco. Non desiderava
molto da quest’uomo, solo uno stipendio fisso, dei silenzi senza imbarazzo,
un senso di relativa protezione. E non desiderava molto nemmeno dalla vita:
un po’ di soldi per pagare le bollette, qualche provvista nella dispensa; e
magari, se fosse stata fortunata, l’acqua calda a casa. Erano queste le cose a
cui aspiravano le ragazze della sua generazione che crescevano nell’East End.
Voleva fuggire dalla povertà oppressiva della sua infanzia, soltanto
questo. Voleva crescere dei figli che non conoscessero mai la fame, che
potessero lavarsi o cambiare i vestiti ogni volta che ne avevano bisogno.
Con il loro stereo e il frigorifero pieno, hanno molto più di quanto lei
abbia mai sognato. Ma per qualche ragione che le sfugge, hanno anche molto
meno.
2013 — EASTBOURNE, EAST SUSSEX

Barbara accarezza la copertina lucida del libro. È solo una prova di


stampa, ma è bellissima. Passa il dito sui contorni in rilievo delle lettere,
come un non vedente che legge in braille. Anthony Marsden.
Anche se non saprebbe spiegarlo, le sembra strano, quasi si trattasse di
un errore di stampa, che non ci sia il suo nome accanto a quello di Tony. È
come se lei fosse stata tagliata fuori da quella storia, una storia che era così
palesemente la loro storia.
È anche vero che, in un certo senso, è stata lei a lasciare che accadesse;
in un certo senso, è dipeso molto da lei se è stata tagliata fuori dalla vita di
Tony, nonostante lei, la sua, l’avesse già accantonata, a beneficio di quella di
lui. Il suo è stato (e se solo se ne fosse resa conto prima) un viaggio verso
l’oblio diviso in due fasi. Ma lei non è esente da colpe, questo lo sa. Ci sono
stati dei momenti precisi in cui ha fatto un passo indietro invece di avanzare,
momenti in cui si è trovata davanti a un bivio, in cui avrebbe potuto scegliere
di imporsi, di puntare il piede, di pretendere un risultato diverso. Ma lei non
l’ha fatto, giusto?
A poco a poco ha messo da parte la sua vita a beneficio di quella di
Tony e poi, a poco a poco, ha permesso che venisse messa ai margini anche
di quella vita.
Tony non è stato sempre un mostro. Per la maggior parte del tempo le
cose tra loro andavano in maniera accettabile; lei e Tony si comportavano
come un motore ben oliato, come se il loro matrimonio fosse un’azienda e
loro una coppia di soci che la gestiva. E non è così che vanno i matrimoni,
nella maggioranza dei casi? Se non altro, quelli buoni. A volte, forse tutte le
volte che mostrava il suo lato oscuro, Tony si rendeva conto di quello che
stava succedendo e cercava di rimediare. «Fai un corso serale» la esortava.
«Impara a disegnare.» «Lascia che ti compri una fotocamera tutta per te!»
Ma se poi lei provava a cimentarsi in una qualunque di quelle cose, lui,
per un motivo che non è mai riuscita a capire fino in fondo, si sentiva a
disagio; era come se provocasse in lui un senso di imbarazzo perché era
troppo brava, o perché non era brava abbastanza. Forse era semplicemente
perché, essendo un uomo cresciuto negli anni Quaranta e Cinquanta, aveva
una mentalità per cui gli risultava difficile stare al passo coi tempi. Sì,
c’erano donne intorno a lui che facevano cose intelligenti. Ma non erano sua
moglie.
Da lì nascevano i dispetti, le frecciatine, le critiche sarcastiche. Tutte
cose che su di lei avevano sempre, dato il suo fragile ego, un impatto molto
più forte di qualunque parola di incoraggiamento. E questo di sicuro non
poteva essere colpa di Tony.
Così aveva iniziato a vergognarsi di se stessa. Era stata una cosa
talmente graduale che non se ne era accorta mentre succedeva, ma il risultato
finale era stato quello. A poco a poco aveva cominciato a vergognarsi di chi
era, delle sue origini, della sua classe sociale, della sua famiglia, dei suoi
amici…
Se ad esempio Glenda, sua sorella, si presentava a casa loro con il suo
modo colorito e volgare di esprimersi, lei sussultava ogni volta che apriva
bocca, e poi sussultava di nuovo quando si accorgeva che, nel risponderle, le
tornava l’accento di un tempo.
Un paio di volte (davvero non di più) aveva chiesto a Glenda di non dire
parolacce davanti ai bambini, ma quel paio di volte era stato sufficiente.
Glenda, che era più che fiera di essere com’era, non aveva intenzione di
permettere a nessuno di intaccare la sua autostima.
Le viene in mente Glenda che la chiama la Principessina sul pisello, e
guarda fuori dalla finestra, in giardino, mentre cerca di ricordare quando era
successo, qual era stato il motivo. Tazzine e piattini. Sì, era stato per delle
tazzine e dei piattini. Aveva usato tazzine e piattini per servire il tè, invece di
usare delle semplici tazze, e Glenda le aveva detto: «Oh, ma guardala, la
Principessina sul pisello. Mio marito è un fotografo e io bevo tè solo in
tazzine di porcellana finissima». Avevano riso. Ma sapevano entrambe che
non era una battuta e che non stavano affatto parlando di tazzine e di piattini.
E quello aveva segnato, a grandi linee, la fine del suo rapporto con Glenda, o
se non altro, l’inizio della fine.
Avevano continuato a sentirsi al telefono per un po’. E Barbara (Tony
stava lavorando) era andata al matrimonio di Glenda con Billy, l’australiano.
Ma quando aveva ricevuto la notizia che era morta, lei non sapeva nemmeno
che fosse malata, anzi, non sapeva neanche in che continente vivesse. E
questo la dice lunga su quanto si fossero allontanate.
Glenda non era stata l’unica con cui Barbara aveva tagliato i ponti.
Amici, vicini di casa, altre mamme della scuola; nessuno di loro sembrava
mai all’altezza di sostenere una conversazione con Tony e i suoi amici. Si
ricorda con un brivido di una vicina (Anna, forse?) che era entrata nel loro
soggiorno. Tony e Phil stavano discutendo di arte moderna, e Anna si era
presa la libertà, si era permessa di fare un commento. «Io di arte non ci
capisco niente» aveva detto «ma so cosa mi piace. E di sicuro non è un
mucchio di mattoni impilati uno sopra l’altro.»
La cosa buffa è che quella era più o meno la stessa cosa, espressa con
un vocabolario più elevato, che stavano dicendo Tony e Phil riguardo alla
disposizione di mattoni acquistata dalla Tate, che aveva generato tanto
scalpore. Ma Barbara aveva notato l’occhiata che si erano lanciati i due
uomini quando aveva parlato Anna, e aveva avuto un brivido, proprio come
ce l’ha adesso, di qualcosa di simile a vergogna.

Nonostante lei avesse essenzialmente rinunciato ai suoi di amici, quelli


di Tony non erano mai stati suoi amici. Si fingeva, e neanche troppo, che
fossero anche amici di lei. Dicevano sempre, andiamo da Tony. Oppure, Tony
e Barbara, mai Barbara e Tony.
E così, sospesa nel limbo tra gli amici di Tony, che era convinta si
considerassero migliori di lei, e i suoi, che con i loro pregiudizi e
atteggiamenti sprezzanti la facevano sentire in imbarazzo, in effetti la sua era
stata una vita solitaria. Erano sempre stati Barbara e i bambini, e nonostante
questo, Sophie era diventata, con l’età, molto simile a Tony. Al punto che
parlare con lei (misurarsi con lei) era diventato faticoso quanto parlare con gli
amici di suo marito. Sì, per gran parte della sua vita erano stati lei e Jonathan
a fare da gregari all’intelligente Sophie, con le sue doti artistiche, e
all’imprevedibile Tony.
La più grande paura di Barbara, crescendo, era stata di ritrovarsi da sola,
ma aveva finito col sentircisi comunque. È quasi come se fossero stati propri
i suoi sforzi per evitare di essere sola a far sì che quella solitudine si
manifestasse.
Accarezza un’altra volta il nome in rilievo di suo marito sulla copertina,
poi sospira e apre il libro. Ed eccolo lì. Una fotografia in bianco e nero a tutta
pagina, scattata nel 1977. È una fotografia bellissima di un uomo bellissimo.
Barbara lo fissa negli occhi per un momento. «Dove sei, Tony?» mormora.
«Dove sei adesso?»
Legge la piccola didascalia. Anthony Marsden. Autoritratto. 1977.
Fa un sorriso amaro e volta la pagina. Perché la didascalia di quella
fotografia (che ricorda in modo vivido di avere scatto lei stessa) dice
praticamente tutto.
1979 — HACKNEY, LONDRA

Barbara si siede sul bordo del letto scricchiolante e si infila gli stivali.
Fuori soffia un vento forte, e il tappeto sotto ai suoi piedi si solleva e sbatte
contro il pavimento ogni volta che una folata colpisce la casa. Sembra un
tappeto magico che cerca di decollare.
È stato grazie al regalo d’addio di Minnie, un’assicurazione segreta
sulla vita, che hanno potuto versare l’anticipo per quel posto. Non c’è dubbio
che quell’acquisto, una casa tutta loro, fosse la cosa giusta da fare.
Concordavano tutti che dovevano smettere di pagare l’affitto, che dovevano
cominciare a “muovere i primi passi nel mercato immobiliare”. Ma con un
tasso del diciassette per cento sul mutuo, adesso devono davvero tirare la
cinghia, e anche se i ragazzi hanno finalmente ognuno la propria stanza, la
loro situazione finanziaria è tornata quella di quasi quindici anni prima.
Tira su la cerniera del secondo stivale, poi si alza e si guarda allo
specchio, che si è rotto durante il trasloco. Per fortuna lei non è superstiziosa.
Ha un bell’aspetto. Con questo vento avrà freddo, ma una volta arrivati lì
starà bene. Sì, aveva giurato a se stessa che non avrebbe mai più indossato
quel vestito, ma in questo periodo c’è da pensare alle scarpe per i ragazzi, al
silicone per le finestre, al pesce per la cena, o… la lista continua. E i soldi che
entrano non bastano per la metà di queste cose. Un vestito nuovo non è
nemmeno sulla lista.
Stasera accompagnerà Tony a una esposizione privata dei lavori del suo
amico Malcolm. Barbara è stata a molti di questi eventi, e sa cosa aspettarsi.
Ci saranno pittrici intelligenti con pettinature eccentriche e uomini seri, dai
fisici asciutti, che hanno frequentato scuole prestigiose e che, per ragioni
inspiegabili, nel bel mezzo di una frase si fermano per interi secondi, e poi
all’improvviso ricominciano a parlare come un fiume in piena. «E Bar-ba-ra»
le dicono, in modo freddo. «Raccontami (pausa) qualcosa di te. Raccontami
(pausa) come trascorri le tue giornate nella favolosa Londra.»
Lei ha fatto di tutto per non partecipare a questo evento (tranne fingersi
malata, una scusa di cui ha abusato ultimamente) ma Tony continua a
insistere che è importante, che la gente si aspetta che lei ci sia. E poi
dovrebbe essere la loro ultima occasione per vedere Diane.
Sospira, si sistema il vestito (le va un po’ più stretto dell’ultima volta
che lo ha indossato), e poi abbandona la relativa comodità del tappeto per
attraversare le ruvide assi di legno.
Arrivata in corridoio si ferma ad ascoltare i rumori della nuova casa, il
fischio nelle grondaie, uno scricchiolio in soffitta, la televisione al piano di
sotto. Ha un déjà vu, è in un corridoio in cima a delle scale di una casa
diversa, ma pur sforzandosi, in quel momento non riesce a mettere a fuoco
quel ricordo. Per istinto, si volta verso il punto sulla parete dove dovrebbe
esserci la foto. Una foto del matrimonio reale. Oddio, quanto tempo è
passato. Come volano gli anni!
Fa un respiro profondo. Può farcela. Inizia a scendere le scale.
Quando entra in soggiorno, Tony e i ragazzi stanno guardando Grange
Hill, una serie televisiva in cui degli studentelli spregevoli si maltrattano a
vicenda. Non riesce a capire quale sia l’attrattiva. Tony è il primo ad alzare lo
sguardo verso di lei. «Ah, eccola!» dice. «Visto, sei ancora splendida con
quel vestito.»
Barbara accenna un sorriso nell’istante in cui Sophie, sentendo il
commento del padre, stacca anche lei gli occhi dallo schermo. «Oh, caspita!»
dice, ingenuamente. «È il tuo vestito da ballo!»
Barbara sorride e al contempo aggrotta le sopracciglia. Non sa a cosa si
riferisca. «Vestito da ballo?» ripete, e prima ancora di arrivare a capire perché
lo abbia chiamato così, sente una morsa di terrore stringerle il petto.
Sophie annuisce con entusiasmo. «Sì, quello è il tuo vestito speciale.
Per fare la danza degli Zulu. Ahi!» Jonathan le ha dato una sberla sulla testa.
«Che c’è? Cos’ho fatto?» gli chiede.
«Già!» dice Tony. «Perché hai colpito tua sorella in quel modo?»
Barbara si volta e si dirige, per abitudine, in cucina. C’è qualcosa nelle
superfici fredde delle cucine che in momenti come quello la rassicurano, ma
questa non è la sua cucina, questa cucina è misera e triste, è l’ambiente che
più di tutti necessita di lavori. Osserva la vernice che si stacca, il lavello in
pietra scheggiato, e poi va in sala da pranzo, ma la situazione non è molto
migliore.
La danza degli Zulu! Com’è possibile che Sophie se la ricordi? Si sente
infelice, anzi no, terribilmente, totalmente depressa, come se all’improvviso
fosse stata privata di qualunque stato d’animo, eccezion fatta per la
disperazione. Le sembra che niente giunga mai a conclusione; che non si
ottenga mai niente, non in maniera definitiva. E che nessun imbarazzo venga
mai dimenticato. È tutto un nuotare controcorrente, un annaspare e
combattere per tirarsi fuori dal fango, e per di più inutilmente. Ci si ritrova
sempre al punto di partenza. Lei è (e sarà sempre) la Barbara ignorante
dell’East End, che vive in una casa piena di spifferi, squallida, e che indossa
stupidi vestiti fatti con una tenda.
Le gira la testa. Forse si è dimenticata di respirare. Le succede. Si siede
al tavolo da pranzo e cerca di abbassare la cerniera degli stivali. Per qualche
ragione, ha come la sensazione che la stiano strangolando. Deve toglierseli, e
in fretta. Dopo averli lanciati via, torna in camera da letto senza fare rumore,
si chiude a chiave e si sdraia sul letto.
Presto arriverà Tony. Picchierà sulla porta per un po’. Prima si
preoccuperà, poi sarà dispiaciuto, e dopo averla pregata di aprire, si
arrabbierà.
E alla fine se ne andrà, da solo.
La punirà passando la notte fuori. E a lei va più che bene. Che vada da
solo a quella maledetta festa. E che ci rimanga per sempre, se è necessario.

Dopo che i colpi alla porta della camera si sono fermati, e che quella
d’ingresso si è richiusa con un tonfo, Barbara si cambia e torna al piano di
sotto. L’unica cosa che vorrebbe è dormire, ma capisce, dai rumori in
soggiorno, che i ragazzi non sono andati da Anne come previsto, perciò deve
andare a preparargli la cena.
Li trova entrambi incollati, come sempre, alla televisione. «È venuta
Anne» le dice Jonathan. «Era preoccupata perché non ci ha visto arrivare.
Voleva venire su da te ma io le ho detto che stavi dormendo.»
«Grazie» dice Barbara. «È proprio quello che stavo facendo, in effetti.»
«È colpa mia se non sei uscita?» le chiede Sophie. «Jon dice di sì.»
«No, tesoro. Tu non hai colpa di niente. Non mi sentivo tanto bene, tutto
qui. Adesso vi preparo qualcosa e poi voglio che spegniate la tv, d’accordo?»
«Ma c’è The Good Life» protesta Sophie.
«Tanto sono le puntate vecchie. Le avete già viste tutte.»
«Ma è la mia preferita, mamma.»
«Va bene, quando finisce The Good Life, allora.»
Prepara una frittata per i ragazzi (lei non ha fame) e contrariamente al
solito, li lascia cenare davanti alla televisione. Stasera non ha le forze per
combattere futili battaglie.
Si stanno per avventare sul piatto quando qualcuno bussa alla porta.
Alzano tutti lo sguardo. «Forse è Anne?» suggerisce Jonathan.
Barbara scrolla le spalle. «Restate qui. Mangiate» dice. «Vado io.»
Mentre si alza, si sente di nuovo bussare. Si morde il labbro con fare nervoso.
È impossibile che Tony sia già così ubriaco da non trovare le chiavi, no?
Va in corridoio e si chiude la porta del soggiorno alle spalle. Arrivata
all’ingresso vede che fuori, al di là del vetro smerigliato, c’è la sagoma di una
persona, ma è troppo bassa per essere Tony. «Chi è?» dice, riluttante ad
aprire. Non si sa mai cosa può succedere quando si apre la porta di casa con
troppa fretta.
Le risponde una voce che sembra disperata; una voce di donna. «Tony?
Tony?»
Barbara apre la porta e si trova davanti Diane, con il braccio proteso,
pronta a bussare di nuovo. Le folate di vento la fanno ondeggiare, poi
barcolla all’indietro e si appoggia al muro per recuperare l’equilibrio.
Ha i capelli davanti agli occhi, ma recuperare l’equilibrio e tirarsi
indietro i capelli, ubriaca com’è, richiede troppo impegno. Si sposta di lato e
va a sbattere con il fianco contro un vaso che comincia a dondolare, ma lei lo
ferma con la mano incerta. «Tony è in casa? Oh! Barbara!» dice. «Tony c’è?
Doveva darmi un passaggio.»
Barbara fa un passo verso di lei e annusa l’aria. La gente dice che
l’odore di vodka non si sente, ma non è vero, lei riesce a sentirlo da lì.
«Diane!» dice. «Guarda in che stato sei! Cos’è successo?»
Diane, che all’improvviso si rende parzialmente conto della situazione,
cerca di dimostrare di essere sobria mettendosi dritta, ma invece inciampa in
avanti e fa qualche passetto rapido prima di finire un’altra volta contro il
muro. A quel punto, scivola giù, finché non si ritrova, con suo stupore, per
terra. «Lui dov’è?» chiede di nuovo.
«Mamma? Tutto bene?» Jonathan l’ha seguita.
«Torna dentro. Stiamo tutti bene. E fai levare Sophie dalla finestra, per
favore» gli dice.
«Tony è uscito» dice a Diane, dopo che Jonathan ha annuito in silenzio
e ha obbedito. Solleva lo sguardo verso la strada. Un uomo che sta portando a
passeggio un cane le sta osservando. «Credo sia meglio entrare, Diane.»
Diane cerca di alzare gli occhi verso di lei, poi piega la testa all’ingiù e
si sposta i capelli. «No» farfuglia. «Io… io voglio Tony. C’è… c’è una cosa.
Stasera. Io dovrei essere lì. Devo andare a questa cosa. Tutti dobbiamo
andarci.»
Barbara si china per aiutarla, mentre lei sta ancora litigando con i
capelli, per sistemarseli dietro l’orecchio. «Gesù, Diane» dice. «Quanto hai
bevuto?»
«Non molto…» dice. «Un po’ di vodka. Credo. E del vino. Dov’è
Tony?»
Barbara sospira. «Te l’ho detto. È uscito. E non tornerà…» Lascia la
frase in sospeso. Perché Diane ha il mento appoggiato sul petto. Sembra che
si sia addormentata.
Barbara si gratta il sopracciglio, poi mormora: «Oh, signore» e cerca di
rimettere in piedi Diane. Ma è impossibile. È come cercare di sollevare un
blocco enorme di gelatina.
Non avendo altre opzioni, torna dentro e dalla porta del soggiorno fa
segno a Jonathan di raggiungerla. «Tu resta qui, Sophie. Guarda la tv. Stai
qui, ho detto!»
Dopo aver richiuso la porta, gli spiega a bassa voce la situazione. «Mi
dispiace tanto, ma è ubriaca marcia. Puoi aiutarmi a portarla di sopra? Non so
cos’altro fare.»
«Ma certo, mamma» dice, scrollando le spalle. Ha già visto gente
ubriaca. Sa come funziona.
Insieme riescono a rimetterla in piedi e poi, con un braccio di Diane
sulle spalle per uno, raggiungono, un passo alla volta, il piano superiore.
«Perché gli ubriachi sono così pesanti?» chiede Jonathan, dopo che
Diane si è accasciata sul letto, con un’eleganza sorprendente.
«Non lo so. Sarà il peso di tutta quella birra?»
Jonathan le rivolge un gran sorriso. Gli piace quando lui e sua madre si
scambiano quelle battutine. Lo fa sentire grande. Incrocia le braccia, poi
guarda Diane e arriccia il naso. «Io non mi ubriacherò mai.»
Tutt’a un tratto, Barbara si rende conto che suo figlio è diventato un
uomo. È qualcosa che ha a che fare con la sua postura. È così strano il modo
in cui si notano certe cose, come se il cambiamento fosse repentino e non
graduale. «Staremo a vedere» dice a bassa voce.
«Non lo farò.»
«Be’, meglio così. Ora, io devo restare un po’ qui, con Diane, per
assicurarmi che stia bene, d’accordo?»
Jonathan annuisce.
«Quindi puoi andare tu a tenere d’occhio Sophie per me?»
Annuisce di nuovo.
«E sii gentile con lei, capito? È tua sorella, e ha solo dieci anni. Mi
sembra che ogni tanto te lo dimentichi.»
Jonathan fa una smorfia, e di colpo è di nuovo un bambino. «Ehi, io
sono sempre gentile con lei. Anche se è una scema.»
Barbara lo guarda andare via, poi si volta verso Diane e vede che ha
vomitato un po’ sul cuscino. «Davvero, però, bella mia!» dice. «Guarda in
che stato sei!»
Va in bagno a prendere un asciugamano e torna in camera. Mentre le
pulisce la bocca, lei si mette a farfugliare. «Lasangeles» dice. Forse sta
sognando. «Los Angeles!» ripete, più chiaramente.
«Sì. Tra poco partirai. Tony me lo ha detto.»
«Sì, trapoco» dice Diane.
Poi chiude gli occhi per un attimo con la testa che le dondola, e quando
li riapre aggiunge: «Lui non vuole venire. Bastardo».
Barbara, che la sta ancora pulendo, si blocca di colpo. «Chi non vuole
venire?»
Diane quasi le sorride mentre cerca di metterla a fuoco. «A Los
Angeles.»
«Chi non vuole venire a Los Angeles?» Per quanto ne sappia lei, Diane
è single al momento.
«Ti voglio bene ma sei una stupida» le dice Diane. «Dovresti lasciarlo.»
Barbara si alza di scatto e fa un passo indietro, come qualcuno che si sta
allontanando da un serpente. Si copre la bocca con la mano tremante. Si
rende conto che in quel momento, in quel preciso istante, può lasciare che
quel dubbio che si è tenuta dentro per tanto tempo venga a galla. Può
chiederlo a Diane, adesso, se vuole. Nello stato in cui si trova, probabilmente
riuscirà perfino a farsi dare una risposta. Trema mentre esita.
«Dov’è Sophie?» le chiede Diane, con la voce di una bambina di cinque
anni. «Voglio vedere Sophie.»
Barbara scuote la testa. Non può farlo. Non può affrontare tutte le
conseguenze che comporterebbe, in un senso o nell’altro, scoprire la verità. E
comunque, cosa farebbe a quel punto? Lo lascerebbe perché non è stato
completamente suo? Sarebbe come chiudere un rubinetto perché l’acqua non
esce abbastanza in fretta per dissetarti. Si ritroverebbe senza niente, un’altra
volta. E cosa ci avrebbe guadagnato?
«Domani» le dice, con tono glaciale. «Puoi vederla domani, quando
sarai sobria. E poi puoi andartene a vivere in quella cavolo di Los Angeles.»
Dà le spalle al letto, ma poi si volta di nuovo verso Diane, che ha già
ricominciato a russare, con la bocca spalancata. La gente può morire se
vomita nel sonno. Barbara questo lo sa. Dovrebbe girarla su un fianco come
fa con Tony, per precauzione.
Osserva dall’esterno il suo corpo che resta fermo. Vede se stessa che
non la gira. Guarda la Barbara dal cuore di ghiaccio che esce dalla stanza e si
chiude la porta alle spalle.
Sono una persona orribile, pensa. Alza lo sguardo verso il cielo. «Sta a
te» dice. «Decidi tu.»
Tornata in soggiorno, in televisione stanno ancora trasmettendo The
Good Life. Le risate registrate riecheggiano nella stanza.
2013 — BERMONDSEY, LONDRA

Quando Sophie arriva alla galleria, si ferma davanti all’edificio e lo


fissa. Le sembra quasi impossibile che, entro sera, le sue foto saranno appese
lì dentro, accanto a quelle di suo padre. Tamburella nervosamente il piede e si
domanda se ha bevuto troppi caffè. Ma no, non è questo. In realtà sta
cercando di resistere alla tentazione di mettersi a saltare come una bambina di
dieci anni.
Certo, non è il vecchio White Cube. Non è il meraviglioso edificio degli
anni venti nel centro di Hoxton che lei amava tanto. Quel White Cube non
esiste più.
No, questo è quello nuovo e molto più grande, a Bermondsey,
un’enorme costruzione in cemento in stile tedesco degli anni Settanta, e
diviso al suo interno in più gallerie. E dunque, fare un’esposizione in una
delle gallerie del nuovo White Cube ha lo stesso lustro che farla nel vecchio
White Cube? No, forse no. Me è comunque una delle gallerie private più
prestigiose di Londra. È comunque un signor risultato.
«Grazie Brett» dice a bassa voce, mentre attraversa il piazzale per
raggiungere l’entrata.
Appena mette piede nell’atrio, un hipster carino, con la barba e tatuato,
vestito con un paio di pantaloni giallo acceso e una camicia di jeans, le va
incontro. «Sophie?» dice, passandosi una mano tra i capelli sistemati con
molta cura.
Sophie annuisce. «Tu devi essere Paul, giusto?»
«Esatto. Paul Jelly, a tua disposizione» dice. «Sono qui per aiutarti ad
appendere.»
«Pensavo che fossi io ad aiutare te.»
«Ah!» dice Paul Jelly. «Ti piacerebbe. Vieni, da questa parte!»
Superano il bookshop (Sophie s’immagina il suo libro in vetrina) e
attraversano un paio di mostre; quella di uno scultore, quella di un pittore e
quella di un altro scultore.
Mentre si avvicinano a una porta oscurata che si trova dietro al cartello
ALLESTIMENTO IN CORSO, quasi non riesce a respirare.
«Allora» dice Paul, spingendo la porta. «Staremo qui. Tutto il giorno!»
«Oh, mio Dio!» esclama Sophie, entrando. Gira la testa per osservare
l’ampiezza luminosa della sala. «È enorme!»
«È la più grande che abbiamo» dice Paul, con orgoglio. «Ma a giudicare
dalle dimensioni degli imballi, direi che non avrai problemi a riempirla.
Giusto?»
«Quindi sono arrivate?»
«Certo. Le stanno disimballando proprio adesso. Vieni.»
Superano un’altra porta e imboccano un corridoio che conduce all’area
delle consegne, dove ci sono altri due ragazzi giovani e spaventosamente
belli che stanno lavorando. Oh, avere di nuovo vent’anni! pensa Sophie.
«Ehi, ragazzi» dice Paul. «Questa è Sophie. Sophie, Jake e Joe.»
Sophie saluta con la mano. «Ciao Jake. Ciao Joe.»
«Sophie è l’artista» dice Paul.
«Solo metà sono mie.»
«Quelle a colori, giusto?» dice Jake/Joe.
«Esatto. Le altre sono di mio padre. Lui le faceva praticamente tutte in
bianco e nero.»
«Immagino che all’epoca non ci fossero quelle a colori, no?» dice
Jake/Joe. «Perché mi sa che sono, insomma, proprio vecchie, eh? Tipo, di
prima che io nascessi.»
Sophie sorride e annuisce. «Sì, ehm, alcune sono quasi vecchie quanto
me» dice.

L’allestimento porta via tutto il giorno. Jake e Joe disimballano e


portano le stampe a una a una nella South Gallery, e a una a una Paul e
Sophie le appendono.
Sulla parete quadrata a sud, mettono un autoritratto alto quattro metri di
suo padre, e sulla parete opposta, uno di dimensioni identiche di Sophie.
Il suo è a colori, scattato alla luce spietata di una lampada da studio
fotografico da cinquecento watt. Non è affatto una di quelle foto che
nascondono i difetti, e di certo non è uno scatto di moda. Ma è bellissima. E
proprio come sperava lei, ogni singola ruga la rende reale, ogni poro della
pelle la rende umana.
Lungo le pareti laterali, alternano le cupe foto giornalistiche di Tony a
quelle dai colori vivaci di Sophie. Un’immagine in bianco e nero di bambini
sporchi che giocano con la canna dell’acqua, poi quella di una bambina
gioiosa, sospesa nell’aria mentre rimbalza su un castello gonfiabile verde
fosforescente. La famosa donna sulla spiaggia è appesa accanto a file e file di
turisti rossi come un peperone, sdraiati uno di fianco all’altro su una spiaggia
di Benidorm. Vicino a dei pendolari tristi sotto la pioggia di Londra che
aspettano in coda un autobus a due piani, c’è un fiume umano sfocato che si
riversa fuori dalle scale mobili ultramoderne di Canary Wharf.
Lo spazio è perfetto e le foto stanno benissimo lì dentro, ma a poco a
poco, come la schiuma che evapora in una coppa di champagne, l’eccitazione
di Sophie si dissolve nell’aria.
Più foto appendono, più una voce nella sua testa prende coraggio, si fa
forza, si fa insistente. A ogni commento di Paul, Wow, adoro i colori in
questa, Sophie oppure, Oddio, questa sì che è un’immagine felice, lei perde
un po’ di sicurezza.
E quando arrivano all’ultima stampa, una composizione di tre metri per
tre di foto più piccole, si accorge che tutte le sue certezze sono
completamente svanite. Si sente un’imbrogliona, come una bambina che
gioca a un gioco da grandi, o una femminuccia che gioca a un gioco da
maschi. Si sente, in definitiva, come una figlia che si nasconde dietro al
talento reale del padre.
E non è questa la verità? Che è qui solo perché è la figlia del grande
Anthony Marsden? Non è forse per contratto che il White Cube sta
mostrando interesse nei suoi confronti? Cos’è lei, se non il semplice prezzo
da pagare per poter ospitare ciò che tutti vogliono davvero vedere: le foto di
suo padre?
Si pente di aver optato per quelle immagini. Avrebbe dovuto fare degli
scatti in bianco e nero. Avrebbe dovuto scegliere qualcosa di più forte, più
d’impatto, più triste. È tutto troppo festoso (non nel senso positivo che
intende Paul Jelly). Troppo colorato. Troppo vivace e luminoso, troppo
allegro. E mentre appende l’ultima stampa, sa esattamente cosa penserà la
gente: Che spreco. Che peccato che non sia brava quanto lo era suo padre!
Cammina verso il centro della sala e si lascia cadere sulla rigida panca
bianca. Si copre gli occhi con il palmo delle mani nella speranza che quando
li riaprirà sarà cambiato qualcosa, che non vedrà più solo un errore
madornale, forse il più grande che abbia mai commesso.
Paul (l’adorabile, l’amichevole, l’entusiasta Paul) va a sedersi accanto a
lei. «Io trovo che l’effetto sia spettacolare » dice. «Tu no?»
Sophie si toglie le mani dagli occhi e guarda, ma è perfino peggio di
prima. Le sue manie di grandezza risaltano sui muri con colori pirotecnici.
Non riesce a vedere altro, e all’improvviso le viene voglia di piangere, di
urlare, di fare la pazza, di strappare tutte le foto dalle pareti e calpestarle.
In quel preciso istante, la porta della sala si apre e Paul si alza di corsa
per raggiungere quel visitatore arrivato in anticipo e mandarlo via. «Stiamo
allestendo. Mi dispiace ma non può entrare…»
«Non preoccuparti, Paul» dice Sophie. «È il mio ragazzo. Ciao Brett.»
Brett fa qualche passo e si guarda intorno un paio di volte, quasi non
credesse ai suoi occhi. «Wow!» dice. «È proprio… come… wow!»
«Figo, eh?» dice Paul.
«Oh, fighissimo. Allora, avete appeso tutto, mi pare?»
«Secondo me l’effetto è grandioso» dice Paul. «Ma non sono sicuro di
cosa pensi Sophie. Mi sembra che ci sia qualcosa che non la convince.»
Brett le lancia un’occhiata perplessa, poi, professionale come sempre,
invece di andare da lei, fa un giro e si ferma per qualche secondo davanti a
ogni coppia di immagini. Quando arriva in fondo alla sala, guarda i due
autoritratti sulle pareti opposte e poi, alla fine, raggiunge Sophie, seduta al
centro. «Allora, cosa c’è?» le chiede.
Sophie si morde il labbro e scuote la testa. Brett si accorge che ha gli
occhi lucidi.
«Paul… è Paul, giusto? Sì, Paul. Pensi che potresti…»
«Certo» dice Paul. «Vi lascio soli.» È ben contento di svignarsela.
Dopo che se n’è andato, Brett si siede sulla panca e le mette un braccio
intorno alle spalle. «È per tuo padre?» le chiede.
Sophie scuote la testa e si asciuga una lacrima, poi dice, a fatica: «Non
sono all’altezza».
«Scusa?»
«Le mie foto. Sono le migliori che io abbia mai fatto ma… sono
comunque… solo sciocchezze da femminuccia accanto a quelle di mio padre.
Mi sono impegnata tanto, Brett, ma guarda. Guarda.»
«Credo che tu stia…»
«Voglio togliere tutte le mie. Dico sul serio, Brett. Posso? Posso farlo?»
Brett scoppia a ridere di gusto, in maniera spontanea.
«Lo prendo come un no, quindi» dice Sophie, tirando su col naso.
Lui la stringe a sé e ridacchia di nuovo. «Non è per questo che sto
ridendo, tesoro. Penso che le tue foto siano meravigliose.»
Sophie lo guarda con la coda dell’occhio. E poi si mette a piangere
senza più trattenersi. Si libera dalla sua stretta per prendere un fazzoletto
dalla borsa. «Invece no, Brett» dice, tra le lacrime. «Sembrano foto carine di
una rivista. E accanto a quelle di mio padre, l’effetto è anche peggiore. La
gente penserà che li sto prendendo per i fondelli.»
Brett le accarezza la schiena per qualche secondo, e poi all’improvviso
si alza. Sophie si chiede se se ne stia andando. Non sempre riesce a
sopportare i suoi momenti di crisi.
Invece lui si piazza al centro della sala e fissa una parete. Dopo circa un
minuto, si gira di novanta gradi e fissa la parete opposta. Solo dopo aver
osservato la sala dalle quattro diverse angolazioni, si volta di nuovo verso
Sophie, che lo sta guardando con l’espressione terrorizzata della vittima
davanti al boia.
«Senti, capisco cosa intendi» dice Brett.
Sophie si rimette a piangere.
«Ehi, basta. Non ho finito. Dio, Sophie! Per l’amor del cielo!»
Sophie riesce a fermare le lacrime e alza di nuovo lo sguardo verso di
lui.
«Capisco cosa intendi, ma ti sbagli. È questo che stavo per dire.»
Sophie si gratta il naso con il dorso della mano. «Tu credi?»
Brett annuisce. «Se il mondo fosse grigio…» dice pensieroso. Lancia
un’occhiata alle stampe e poi ricomincia a parlare, più lentamente. «Se il
mondo fosse in bianco e nero e tutto sporcizia e miseria, allora avresti
ragione. Ma non lo è, Sophie, non è così. È anche colore, e vita, e gioia. È
fatto di bambini sorridenti che giocano sui castelli gonfiabili e anziani felici
che mangiano il gelato. E la giustapposizione che hai creato qui, tra le
immagini di tuo padre e le tue, è così… così gioiosa, Soph. È l’unica parola
che mi viene in mente. Il mondo va avanti e le cose migliorano. È
incoraggiante. È fantastico. Io non mi aspettavo tutto questo. Ma sono
sbalordito. Sono… sono commosso, in realtà. Sul serio. Ecco. Sono
commosso.»
Sophie scoppia a piangere a dirotto per la terza volta, ma questa volta
sono lacrime di sollievo. Si alza, lascia cadere la borsa per terra, e corre tra le
braccia di Brett. «Dio, Brett» dice. «Non hai idea di quello che significhi per
me. È da stamattina che tremo di paura.»
Brett la abbraccia e poi la allontana per guardarla negli occhi. «Che
sciocchina che sei» dice. «Hai fatto tutto quello che volevi, qui. E anche di
più. Non hai niente di cui aver paura. Resteranno a bocca aperta.»
«Lo pensi davvero? Non lo dici tanto per dire?»
Brett scrolla le spalle. «Andiamo, su. Mi conosci, tesoro» dice.
«Quando mai io dico le cose tanto per dire?»
1982 — HACKNEY, LONDRA

È domenica mattina. Tony e Sophie sono seduti a tavola e aspettano la


colazione che Barbara sta finendo di cucinare.
«Perché non lo apri, papà?» gli chiede Sophie. Anche lei, come Barbara,
non ama particolarmente le lettere non aperte, ma considera un pacco non
aperto un affronto all’umanità.
«Lo farò quando sarò pronto» le risponde Tony, lanciando un’occhiata
nervosa al pacco sulla credenza.
«Secondo me Sophie ha ragione» dice Barbara, prendendo in mano la
situazione. «Se lo apri oggi, puoi portartela a Portsmouth.»
«Ah!» dice Tony. «Non andrò a un evento tanto importante come quello
di Portsmouth con una fotocamera nuova di zecca. Questo è poco ma sicuro.»
Il pacco arriva dalla Pentax. Contiene una macchina fotografica, una
strepitosa macchina fotografica del tutto innovativa che mette a fuoco da sola,
che calcola il tempo di esposizione e stabilisce la velocità di otturazione.
Purtroppo, a Tony non piacciono molto le cose strepitose e nuove, e sono
giorni che il suo nervosismo nei confronti di quel pacco è palpabile.
«Per favore, aprilo» lo prega Sophie. «È lì da anni.»
«Te l’ho detto un milione di volte di non esagerare» scherza Tony.
«Okay, da settimane allora.»
«Giorni» dice Tony. «È arrivato sabato.»
«In realtà è arrivato sabato scorso, quindi è più di una settimana»
commenta Barbara, dai fornelli. «Perché non lo fai aprire a Sophie? Le
piacerà scoprire come funziona.»
Senza dirlo apertamente, hanno deciso di lasciare che Sophie segua le
orme di suo padre. Barbara ha fatto tutto quello che era in suo potere per
spingere Jonathan in un’altra direzione. La fotografia a quei tempi sembrava
una strada pericolosa per cercare di guadagnarsi da vivere. Sembrava offrire
poco più della promessa di un’altra generazione di stenti. Ma mentre salvava
Jon dal mondo illusorio dell’arte (adesso è al college, e sta studiando per
diventare geometra) le cose sono cambiate. All’improvviso la fotografia è
diventata importante. E quello del fotografo, un vero lavoro con cui ci si può
mantenere. La cucina nuova di zecca intorno a loro, le uova, il bacon, i
funghi in padella, il frigorifero dietro di lei (pieno zeppo)… Sì, tutte queste
cose ne sono la riprova.
«Okay» dice Tony, che finalmente capisce l’inevitabilità di scartare la
fotocamera, e in più vede una via di fuga dalla responsabilità di far
funzionare lui stesso quell’aggeggio maledetto. «Okay, Soph, è tutta tua.
Divertiti. Ma io non ne voglio sapere niente finché non è pronta. E non
romperla.»
«Dopo colazione» dice Barbara, mentre si avvicina alla tavola con la
padella.

Son trascorse diverse ore e sta iniziando a fare buio. Sono in soggiorno
e la nuova macchina fotografica è al centro dell’attenzione.
«Allora, devi premere qui» sta spiegando Sophie. «E puntare questo
coso al centro di quello che vuoi mettere a fuoco. E… vedi… è fatta.»
L’obiettivo indietreggia e avanza con un ronzio, e poi indietreggia di
nuovo prima di assestarsi e produrre un allegro suono acustico.
Tony borbotta e prende la macchina dalle mani della figlia. Se la mette
davanti all’occhio.
Barbara trattiene il respiro. Tony ha un vero problema con la tecnologia,
e quella piccola scenetta di idillio familiare potrebbe dissolversi in un soffio
se lui si arrabbiasse e si mettesse a fare i capricci come un bambino di due
anni. Potrebbe lanciare qualcosa. Rompere qualcosa.

Qualche mese prima erano andati a comprare una macchina nuova, una
Ford Sierra (o lo “stampo per budino”, come insisteva a chiamarla Jonathan).
Il Maggiolone, che ormai aveva quindici anni, stava facendo le bizze.
Il venditore, un uomo con un atteggiamento paternalistico, dopo aver
elencato a Tony (con lo sguardo perso nel vuoto) ogni genere di dettaglio
tecnico sull’auto, e a Barbara ogni genere di cose utili per le donne, come ad
esempio dove riporre la borsetta, gli aveva dato le chiavi per fare un giro di
prova.
Ma i comandi erano diversi da quelli del Maggiolone. Le frecce erano
dal lato “sbagliato” del volante. La retromarcia era nel posto “sbagliato”. E a
pochi metri dal piazzale davanti alla concessionaria, Tony aveva sterzato
bruscamente per immettersi nel traffico, rischiando di fare una strage, prima
di tornare dritto nel garage.
Barbara e Sophie avevano cercato, insieme, di convincerlo che doveva
solo prenderci la mano. A entrambe piaceva la Sierra. Erano tutte e due
stanche di quel Maggiolone inaffidabile e poco spazioso. Perciò avevano
provato a calmarlo. Ma alla fine, quando Barbara, nel tentativo di farlo
ragionare, si era rifiutata, solo per un secondo, di ridargli le chiavi del
Maggiolone, Tony se ne era andato via a piedi parlando da solo come un
pazzo.
«A volte credo che papà sia un po’ fuori di testa» si era azzardata a
commentare Sophie.
«Sì» aveva replicato Barbara, seria. «Anch’io.»

Per certi versi, Barbara capisce il suo disagio. Il nuovo videoregistratore


ha il potere di far perdere la pazienza anche a lei. Ma almeno lei ci prova a
usare quell’aggeggio infernale. Anche se si dimentica di premere il pulsante
per registrare, o se sbaglia il giorno, o il canale, almeno ogni tanto dei
tentativi lei li fa (soprattutto se non c’è Sophie a cui chiedere). Tony non ci si
avvicina nemmeno a quell’affare.
Adesso lui sta guardando nel mirino della Pentax, e l’autofocus continua
ad avanzare e indietreggiare, avanzare e indietreggiare, e la cosa sta
innervosendo tutti.
«Cosa stai inquadrando?» gli chiede Sophie, con un tono irritato.
«Lo vedi cosa sto inquadrando» dice Tony. «Sto inquadrando di là.»
«Ma nella parte centrale. Cosa c’è nella parte centrale, dove c’è il
segmento?»
«Le tende.»
L’obiettivo fa Bzzz. Poi Zzzb.
«Ecco perché» dice Sophie. «Devi dargli una linea dritta da mettere a
fuoco. Prova con gli infissi.»
«Ma che senso ha?» chiede Tony, rivolgendola invece verso la
televisione. «Se io volessi mettere a fuoco le tende? Se avessi un desiderio
irresistibile di fotografare quelle cavolo di tende?» Abbassa la macchina.
L’obiettivo continua ad agitarsi da solo, ronzando come una vespa in una
scatola. «E adesso cosa sta facendo?»
«Devi spegnere l’obiettivo» dice Sophie. «Altrimenti si consumano le
pi…»
«Be, io la odio ’sta cavolo di cosa. Puoi prendertela tu.»
«Davvero?» Sophie ha un’aria contenta.
«In realtà, non può» gli fa notare Barbara. Poi resta in silenzio per un
attimo. Ripensandoci, è meno rischioso rivolgersi a sua figlia che a suo
marito in quel momento. «Scusa, Sophie» prosegue. «Ma tuo padre è stato
sponsorizzato per fare delle foto con questa fotocamera. Gli serve.»
«Se vuoi sapere come la penso, è troppo pignola. Preferisco la mia
vecchia Rollei» dice Tony.
«Sì, ma la Rolleiflex non ti sta sponsorizzando.»
«Non m’interessa» ribatte Tony. «È una cagata, ecco cos’è.» E poi la
butta con disprezzo sul divano.
«Attento, papà, vale centinaia di sterline.»
«Non per me» dice Tony, alzandosi. «Per me non vale un bel cavolo di
niente.»
«Tony, insomma!» protesta Barbara. Ma lui se n’è già andato.

Due settimane dopo, un pacchetto della Pentax più piccolo e più piatto
giace da tre giorni sulla credenza quando Barbara decide, presa
dall’esasperazione, di aprirlo lei.
Dalla busta tira fuori una cartelletta, e dalla cartelletta, una pubblicità su
un foglio di carta fotografica lucida. All’interno c’è anche una lettera.
Sul foglio c’è stampata a tutta pagina una foto in bianco e nero di una
delle navi da guerra della task force in partenza per le Falklands. È davvero
bellissima, una delle migliori che Tony abbia mai fatto; con i militari che si
sbracciano per salutare, le donne in lacrime, i gabbiani che scendono in
picchiata e le bandiere che sventolano; racchiude un po’ tutti i pericoli e le
paure che aleggiano intorno alla nuova guerra della Thatcher.
Barbara è sorpresa. Dato che Tony non le aveva mostrato le foto del suo
viaggio a Portsmouth, lei aveva dedotto che le cose non fossero andate bene.
E quando lui aveva rimandato indietro la macchina fotografica alla Pentax,
accompagnata da una lettera sgarbata, aveva avuto la conferma che le sue
paure erano fondate. Ma questa è spettacolare. È fiera di lui.
Il testo pubblicitario nella parte alta dice: I fotografi migliori non
accetteranno di lavorare con nessun’altra fotocamera. E in fondo alla pagina
c’è un’immagine di Tony con in mano la Pentax ME-F, accompagnata da una
frase virgolettata che di sicuro Tony non ha mai detto. Con la Pentax ME-F
che pensa alla messa a fuoco e all’esposizione, io posso concentrarmi su
quello che faccio meglio: creare semplicemente immagini bellissime.
Barbara prende la lettera.

Gentile Anthony,
acclusa alla presente troverà la pubblicità di luglio della
ME-F, che, come lei ben sa, fa parte di una campagna
pubblicitaria su scala nazionale.
Le ribadisco inoltre, fatto di cui lei è già al corrente, che
nelle pellicole 35mm che ci ha fornito, le immagini erano,
senza eccezione, inutilizzabili, essendo sovraesposte o
sfocate, o in molti casi connotate da entrambi i difetti.
In seguito a un esame scrupoloso da parte dei nostri
tecnici, possiamo confermarle che non è stato riscontrato
nessun difetto nella ME-F che lei ci ha restituito, e
possiamo solo dedurre che quei problemi siano dovuti a un
uso errato della fotocamera da parte sua.
Se fosse interessato a ricevere una dimostrazione guidata
delle funzionalità della ME-F da parte di uno dei nostri
esperti, non esiti a contattarci.
Nel frattempo, per la pubblicità, abbiamo utilizzato una
delle immagini di una sua pellicola 120 scattata con la
Rolleiflex, e l’abbiamo ritagliata perché sembrasse fatta
con una fotocamera 35mm. Inutile dire che questo
espediente non deve essere reso pubblico per nessun
motivo.
Se questa è una soluzione provvisoria accettabile data
l’urgenza della situazione, sono obbligato a ricordarle che
il nostro contratto prevede espressamente che tutte le
fotografie forniteci debbano essere fatte con la ME-F. A
tal proposito gliene manderemo a breve un’altra verificata.
Il mancato rispetto dei termini contrattuali comporterà
l’annullamento dello stesso, inclusi a titolo esemplificativo
ma non limitativo tutte le successive pubblicazioni, tutti i
futuri pagamenti, la sua partecipazione al Pentax Summer
Show, e la cancellazione della mostra individuale
Pentax/Anthony Marsden in programma alla Hayward
Gallery.
Sono certo che troverà la motivazione necessaria per
risolvere le difficoltà riscontrate con l’eccellente
fotocamera ME-F, che è il nostro fiore all’occhiello.
Cordiali Saluti,
Yamada Kuzuyuki
2013 — BERMONDSEY, LONDRA

Sophie solleva un bicchiere di vino dal tavolo. È la sera dell’esposizione


privata e tra meno di mezz’ora la gente comincerà ad arrivare.
«Forse dovresti andarci piano con il vino, tesoro» dice Brett.
Sophie fa una smorfia. «Ehm, penso di essere abbastanza grande per
decidere da sola quanto bere, Brett.»
«Sicura?»
«Oddio! Smettila. Mi sembri la moglie di Jonathan.»
Brett scrolla le spalle e si tocca il papillon. Indossa un completo da sera,
e gli dona molto. In effetti, Sophie quasi non riesce a credere che stia così
bene da togliere il fiato. «Fa’ come vuoi» le dice.
Per quanto Sophie odi che le venga detto cosa fare, è abbastanza
intelligente da capire quando Brett ha ragione. Perciò, come atto di ribellione,
manda giù un altro bel sorso di vino, e poi smette di bere.
A parte Sophie e Brett, al momento sono presenti solo altre quattro
persone: due cameriere con un accento est-europeo dell’azienda di catering,
Sarah Stone del White Cube che entra ed esce con passi leggiadri, e un
addetto alla sicurezza che pare uscito da Men in Black. La sala, che è appena
stata tirata a lucido, sembra più grande del solito.
«Vorrei solo che quest’attesa finisse» dice Sophie. «Sono così nervosa
che mi reggo a malapena in piedi.»
Brett le accarezza il braccio con il dorso della mano in modo delicato.
«Te la caverai benissimo» dice. «Proprio benissimo.»
«Immagino che il pienone vero ci sarà domenica, quando uscirà il
paginone.»
«Credo che stasera ci sarà un bel po’ di gente, tesoro. D’altra parte, hai
invitato mezza Londra.»
«Non vorrei neanche che non ce ne fosse troppa. Quella donna del
Mirror non mi ha più risposto per farmi sapere quanti colleghi era riuscita ad
avvisare. Immagina se venissero tutti!»
«Sophie!» dice Brett. «Rilassati.»
«Non ci riesco» dice Sophie. «Non ne sono capace. Sono fatta così. In
realtà, ho troppo freddo per rilassarmi. Si gela qui dentro. Mi sarei dovuta
vestire più pesante.»
Brett cerca di metterle una mano sulle spalle nude, ma lei è così
stressata e rigida, che quella posizione non può proprio funzionare. «Poi
l’ambiente si scalderà» dice, lasciando cadere il braccio lungo il fianco. «Per
la fine della serata, io starò sudando e tu starai bene. E comunque, anche se
non succede, anche se ti prenderai l’influenza, ne sarà valsa la pena. Perché
con questo vestito sei davvero splendida.»
«Spero che il vestito di mia madre non sia troppo simile. Perché da
come me l’ha descritto, sembrava esattamente uguale. Nero, senza spalline,
con una decorazione di perline sul davanti… Ci manca solo che sembriamo
gemelle.»
Brett scoppia a ridere. «Sarebbe carino.»
«Non lo sarebbe per niente, Brett» dice Sophie. «Ma non mi aspetto che
un uomo possa capirlo.»

Un minuto dopo le sette, la gente inizia ad arrivare. La prima persona a


varcare la soglia è una donna. Ha l’età della madre di Sophie con due occhi
azzurri intensi e un bastone da passeggio. «Salve» dice, guardandosi intorno
con fare nervoso mentre attraversa la sala vuota. Sembra un topo che cerca di
assicurarsi che non ci siano gatti nascosti. «Credo di essere un po’ in
anticipo.»
«In realtà, è puntualissima!» dice Sophie, controllando l’orologio e
sfoderando il suo sorriso più caloroso.
«Sono Janet French» dice la donna, arricciando il naso. «Tu sei…? Non
sei Sophie, vero?»
Sophie annuisce. «Sì, sono io.»
«Immagino che non ti ricorderai neanche di me» dice Janet. «Venivi a
giocare nel nostro giardino. A Lewes. Ogni tanto vi fermavate da noi
andando a Eastbourne.»
«Oh, per caso avevate delle altalene in giardino?»
Janet si mette a ridere. «Sì, esatto. E un grosso laghetto con i pesci. Una
volta ti sei tolta i vestiti e ti ci sei tuffata dentro.»
Sophie ride. «Be’, di sicuro questo non me lo ricordo.» Vede arrivare un
altro gruppo di persone anziane e lancia un’occhiata alle spalle di Janet,
mentre dice: «Questo è Brett, il mio ragazzo».
«Salve, Janet.»
«Mi scusi, ma come conosceva mio padre?»
«È stato al Mirror» dice Janet. «All’inizio. Quando lui faceva ancora le
consegne con la motocicletta. Mi ha contattato Sally Reed. Sembrava che
stesse provando a rintracciare tutta la vecchia squadra. Spero non ti
dispiaccia.»
«Assolutamente no» dice Sophie. «Io sono riuscita a mettermi in
contatto con Phil. Se lo ricorda? Sì? Be’, ha detto che avrebbe pensato lui alla
squadra del Mirror. E siccome conosce anche alcuni degli amici di mio padre
che frequentavano con lui il corso serale…»
Janet sta guardando le file di bicchieri di vino. «Pensi che potrei…?»
dice, indicandole con la mano.
«Ma certo!» risponde Sophie. «Sono lì apposta.»
Dopo che Janet, con un bicchiere in mano, ha iniziato a girare per la
sala ancora scandalosamente vuota, Sophie si avvicina a Brett. «Vorrei tanto
che mia madre arrivasse» gli sussurra all’orecchio. «È un po’ imbarazzante
che io non riesca nemmeno a riconoscere le persone.» Fa un cenno con la
testa verso due uomini con i capelli bianchi che si sono uniti alla folla
all’entrata. «Non so neanche chi sono loro. A meno che quello sia Phil. In
realtà, potrebbe. Aspetta.» Attraversa la sala per accogliere i nuovi arrivati.
«Salve!» dice a quell’uomo. «Lei per caso è Phil?»
Lui si mette a ridere. «Sophie!» dice. «Oddio, eri alta così l’ultima volta
che ti ho visto.» Indica con la mano un punto poco sopra la vita di Sophie. «E
comunque no. Io sono Malcolm. Lui è Phil.» Indica l’uomo accanto a lui, che
è talmente incurvato che fatica a guardarla negli occhi.
«Ops» dice. «Scusate! È passato così tanto tempo.»
Per quanto strano, Sophie non aveva pensato che gli amici di suo padre
sarebbero stati tutti così vecchi. Si era immaginata (stupidamente, è chiaro)
che fossero rimasti com’erano al momento della sua morte.
Di colpo si rende conto che suo padre sarebbe così vecchio se fosse
ancora vivo, e sente una fitta di dolore per la sua assenza, per tutti quegli anni
persi.
«Barbara c’è?» chiede Phil, sforzandosi, con la schiena piegata, di
guardarsi intorno.
«Non è ancora arrivata» dice Sophie. «Ma sarà qui tra poco. La sta
accompagnando Jonathan.»
Malcolm, che sta ispezionando la sala, indica (con sorprendente vigore)
una delle foto. «Non è quella per caso?» chiede.
Phil si volta di lato per riuscire a vedere l’immagine. «Sì!» dice. «Ah,
grazie a Dio! L’hai inclusa.»
Sophie segue il suo sguardo. «Quella dei costruttori navali?» chiede. «In
che senso, quella?»
«Eh» dice Malcolm, con tono allegro. «Lascerò che sia Phil a
raccontarti questa storia.»
Phil offre il gomito a Sophie. «Vieni con me, cara» dice. «Ti rivelerò un
piccolo segreto.»
Sophie prende il suo braccio e insieme si avvicinano lentamente alla
foto, una stampa in bianco e nero enorme di uomini sospesi con delle funi,
che fissano dei pannelli su una nave da guerra.
«Ah, ma certo» dice Sophie. «Vuoi dirmi che questa è stata usata per la
copertina di un disco, vero?»
«No, cara.»
«Ah no? Ero sicura che…»
«Sì, era sulla busta interna» la interrompe Phil. «Credo che il nome del
cantante fosse Robert Wyatt. Ma non è questo che stavo per dirti.»
Sophie incrocia lo sguardo di Brett dall’altra parte della sala. Lui le fa
l’occhiolino e lei solleva il sopraciglio e si china per sentire la voce di Phil,
che si è ridotta praticamente a un sussurro.
«Lo sai dov’è stata fatta?» le chiede Phil.
«Da qualche parte in Scozia, mi pare?»
«Sì. A Clydeside.»
«Credo di ricordarmelo.»
«E indovina chi non ci ha mai messo piede?»
«Ehm… non saprei. Margaret Thatcher, forse?»
Phil le dà un colpetto, in modo un po’ sconcertante, al torace. «Tuo
padre» dice.
«Scusa?»
«Tony. Non è mai stato a Clydeside. Neanche una volta.»
Sophie si mette a ridere. «Almeno una volta dev’esserci stato per
forza.»
Phil scuote la testa.
«Oddio!» esclama Sophie. «Non mi dire che l’ha scattata qualcun
altro?»
«Sss! Abbassa la voce, Sophie. Se davvero lo vuoi sapere, sono stato
io.» Phil non riesce a nascondere l’orgoglio per quel fatto.
«Ma come? Lui vinse un premio con questa. La usarono per farci dei
poster per il disco. Era dappertutto.»
«È una cosa che non sa nessuno» dice Phil. «E non ti preoccupare. A
me sta bene così.»
«Ma è una cosa terribile. Perché mio padre…?»
«Non era riuscito ad andare a fare il servizio fotografico. Presumo fosse
rintanato da qualche parte» dice Phil. «Perciò gliene diedi una delle mie. A
quei tempi capitava spesso che ci scambiassimo le foto. Funzionava così tra
chi lavorava per i giornali.»
«Ma è nel libro, Phil. Abbiamo le stampe di questa in vendita nel
bookshop. E se i diritti sono tuoi…»
Phil le accarezza il gomito. «Non preoccuparti, Sophie. Tutti pensano
che fu tuo padre a farla. Ed è così che dovrebbe essere. E poi tuo padre mi
ripagò per questa molto tempo fa. Quindi non ci sono conti in sospeso.»
Sophie sta fissando la fotografia. «Oddio, se l’avessi saputo, avrei
evitato di includerla» dice. «Mi dispiace tanto, Phil.»
«Io sono proprio contento che tu non l’abbia fatto» dice Phil, ridendo.
«Mi hai reso davvero felice.»
All’improvviso Sophie ripensa a una cosa che lui le ha detto che le
sembra strana. «Phil, cosa intendevi quando hai detto che probabilmente era
“rintanato” da qualche parte?»
Phil si mette a ridere, ma quella risata si trasforma quasi subito in un
attacco di tosse.
«Phil? Ti senti bene?»
Quando alla fine smette di tossire, dice: «Ah, be’, è meglio non stare a
rivangare certe cose. E adesso, berrei volentieri qualcosa».
«Sì» dice Sophie, portandolo via dalla foto dello scandalo. «A questo
punto, anch’io. Ma devi dirmelo. So che lo farai.»
Phil si mette a ridere di nuovo. «Oh, non è niente di che, davvero. Tuo
padre era un tipo un po’ sui generis. Ma d’altra parte immagino che questo tu
lo sapessi già.»

«Che cos’è che aveva da dirti quel tizio?» chiede Brett a Sophie, alla
prima occasione che ha di incrociarla.
«Ah!» dice Sophie. «Non me lo chiedere. Una storia sul fatto che mio
padre era un tipo sui generis.»
«Eh?»
«Oh, e a quanto pare la foto dei costruttori navali non è affatto di mio
padre.»
«Come scusa?»
«Phil sostiene di averla fatta lui. Dice che a volte si scambiavano le
foto.»
«Wow» dice Brett. «E quella è una delle sue foto più rappresentative.»
«Già. È pur vero che potrebbe anche aver sparato una cazzata. Dovrò
chiederlo a mia madre.»
«Certo» dice Brett. «Be’, eccola. Puoi chiederglielo adesso.»
Sophie si volta e vede Barbara entrare nella galleria. Dopo aver
ispezionato il suo vestito tira un sospiro di sollievo. Quello di sua madre è più
lungo e più formale e più accollato del suo. E ha anche molte meno perline. A
parte il fatto che è un abito nero da sera, non si assomigliano un granché.
«Mamma» dice, quando la raggiunge. «Grazie a Dio sei qui. Tutte
queste persone continuano a venire a salutarmi, e io non ho la più pallida idea
di chi siano.»
Barbara, che ha fatto poco più di un metro dalla porta prima di
bloccarsi, sembra pallida e agitata.
«Ciao, Soph» dice Jonathan.
«Ciao Jon. Niente Judy?»
«No, è rimasta a casa con Dylan. Avevamo preso accordi con una
babysitter, ma poi, al momento di lasciarlo non ce l’ha fatta.»
«E come sta Dylan?»
«Benissimo. È fantastico. E si fa sentire. Devi venire a conoscerlo.»
«Lo farò. Scusa. Con tutta questa faccenda non ho avuto un attimo di
tempo.»
«Ma certo. Be’, tanto adesso Judy non ha molta voglia di ricevere visite,
quindi non c’è fretta.»
«Sì, in effetti mi sembrava di averlo capito quando l’ho chiamata» dice
Sophie. «Questo vestito è splendido, mamma.»
Barbara annuisce a malapena. «Grazie. Anche il tuo.»
«Ti senti bene?»
Annuisce di nuovo. «Le foto sono, ehm, carine» dice a bassa voce.
«Be’, sono contenta.» Sophie aveva sperato in qualcosa di più di carine.
Lancia un’occhiata perplessa a Jonathan che sbatte piano le palpebre, un
gesto che significa, Dalle un momento e le passerà.
«Qualcosa da bere, mamma?» le chiede Jonathan.
Barbara armeggia con la chiusura della borsetta. «Direi proprio di sì.»
«Vino, spumante, o…»
«Vino bianco, per favore.»
Jonathan va a recuperare il vino, e così Sophie prende sua madre a
braccetto e la porta vicino alla prima immagine. «Allora, cosa ne pensi,
mamma?» le chiede. «Bella, no?»
«Sì» risponde Barbara, con tono distratto. Lancia un’occhiata alle sue
spalle. «Quello è Phil?»
«Sì. E l’altro è Malcolm.»
«Oddio» dice Barbara. «Quanto siamo vecchi.»
«Be’, con te il tempo è stato più clemente» dice Sophie. Ma in quel
momento si rende conto, non solo che non aveva pensato a quanto sarebbero
stati vecchi gli amici di suo padre, ma anche che si è rifiutata di notare quanto
stia invecchiando in fretta sua madre. Adesso lo vede. Vede quanto è piccola
e fragile Barbara. «Vuoi andare a presentarti? A parlargli, intendo.»
«Dammi un attimo per riprendere fiato, tesoro. Non è facile da
affrontare.»
«Ti riferisci alle foto? O alle persone?»
«Be’, a tutto.»
Sophie le stringe il braccio. «Okay. Tu resta qui e io vado a prenderti
quel bicchiere di vino» dice.
Al tavolo delle bevande, trova Jonathan intento a parlare con Brett.
«Come ben sai, Brett» sta dicendo Jonathan con tono seccato «non voglio
essere coinvolto.»
Brett si mette a ridere e giocherella con il papillon. «Ma non ti sto mica
intervistando» dice. «Sto solo facendo conversazione.»
«Che succede?» chiede Sophie, prendendo un bicchiere di vino per sua
madre. «Non starete litigando, vero?»
«L’idea che ha Brett di una conversazione somiglia in modo curioso alla
ricerca di uno scoop» dice Jonathan. «Le abitudini sono dure a morire, eh?»
Brett solleva le mani. «Ehi, gli stavo solo chiedendo come mai non ha
seguito le orme di famiglia. Non ho addosso un microfono o roba del
genere.»
Sophie scrolla le spalle. «Secondo me avresti potuto» dice a Jonathan.
«Facevi delle belle foto.»
Jonathan fa una smorfia come se quella fosse la cosa più ridicola che
abbia mai sentito in vita sua. «Quando mai» dice. «Non avevo occhio. Lo
sapevano tutti.»
«Questo non è del tutto vero. Ne ho trovata qualcuna delle tue mentre
frugavo tra quelle di papà. I tre bambini sul muro? Te la ricordi?»
Jonathan annuisce, ma sembra confuso.
«E quella del controllore sull’autobus, che fumava. Era tua, giusto?»
Jonathan annuisce di nuovo. «Certo, ma tu dicevi sempre che ero
negato.»
Sophie fa una smorfia e beve un sorso di vino, ma poi si ricorda che
quel bicchiere era per Barbara, perciò si sente in colpa e la cerca con lo
sguardo, ma vendola parlare con Phil, il senso di colpa diminuisce e ne beve
un altro sorso. «Davvero?» gli dice.
«Sì! Sempre. In continuazione. Ogni volta che facevo una foto.»
«Oh, mi dispiace. Si sarà trattato di rivalità tra fratelli. Probabilmente
volevo liberarmi della concorrenza.»
Jonathan ha un’aria esasperata; sembra che per lui quella discussione sia
importante. Sophie non riesce proprio a capirne il motivo. «Oh, andiamo,
Jon» dice, cercando di uscirne pulita. «Lo sai com’era. La mamma non
faceva che ripetere quanto tu fossi intelligente. Quanto fossi bravo a scuola.
Eri il preferito. Io volevo solo un po’ di… insomma…» Lancia un’occhiata a
Brett in cerca di soccorso.
«Attenzioni?» suggerisce, ma non le è d’aiuto.
«No! Intendevo…»
«Avere l’esclusiva?» propone.
«Sì, in un certo senso. Volevo un orticello tutto per me. Volevo che la
fotografia fosse una cosa mia e non tua. Solo questo.»
Jonathan sta fissando il bicchiere che ha in mano. Sembra sul punto di
piangere. Sophie incrocia di nuovo lo sguardo di Brett e dalla sua espressione
capisce che l’ha notato anche lui.
«Be’» dice Jonathan, sforzandosi di reagire. «Papà a me non lo ha mai
insegnato. L’ha insegnato a te. Quindi evidentemente pensava che tu fossi più
brava.»
«Non me lo ha insegnato» dice Sophie. «Ogni tanto mi trascinava con
lui. Ma non mi ricordo che mi abbia mai davvero insegnato qualcosa.»
«Non ne era capace.»
Si voltano e si ritrovano davanti Barbara. Lei allunga il braccio in
mezzo a loro per prendere un bicchiere di vino. «A quanto pare è self
service» farfuglia. «Grazie, a tutti e due.»
«Scusa. Ci siamo distratti a parlare» dice Jonathan. «A ogni modo, cosa
significa che non ne era capace? Certo che…»
«Oh, era un pessimo insegnante» lo interrompe Barbara.
«In effetti è vero » dice Sophie. «Si innervosiva nel giro di un secondo.»
«Ed era una frana con qualunque cosa di elettronico» dice Barbara.
«Motociclette, mangianastri, automobili…»
«Fotocamere» aggiunge Sophie.
«Oh, sì!» concorda Barbara.
«Gli ho fatto vedere io come usare la Pentax. Te lo ricordi, mamma?»
«Sì.»
«Dovevo avere, tipo, cinque anni.»
«Forse più tredici.»
«Sophie dice che io ero il tuo preferito. Ed è per questo che doveva
sempre avere papà tutto per sé» dice Jonathan.
«Il mio preferito?»
Annuisce.
«Non ho detto proprio così» protesta Sophie.
Barbara sorride. «Noi non avevamo preferenze» dice. «Vi amavamo
entrambi in egual misura.»
«A me non sembrava» dice Sophie. «Io cercavo sempre di essere
all’altezza di qualche miracolo che Jonathan era riuscito a compiere.»
«Ah!» dice Jonathan. «Quella intelligente eri tu. Sophie l’intelligente,
l’artista. La cocca di papà. Sei stata tu a ereditare tutto questo.» Indica
l’esposizione intorno a loro.
«Io questo non l’ho ereditato, Jonathan» dice Sophie, un po’ indignata.
«Mi sono adoperata per far sì che succedesse. E senza aiuto da parte tua.»
«Ragazzi!» esclama Barbara. «Smettetela! Vi amavamo entrambi.»
«Okay, forse» le concede Sophie. «Ma ammetti che ci amavate in modi
diversi. Ammetti che tu avevi un debole per Jon, e papà aveva…»
«Questo non è per niente vero. Amavamo entrambi Jonathan. E
abbiamo voluto disperatamente anche te. Avremmo passato… anzi, no,
abbiamo passato l’inferno per avere un altro figlio. E quando sei arrivata tu,
eravamo tutti e due così felici che abbiamo pianto. Abbiamo pianto sul
serio.»
Sophie scrolla le spalle. «Be’, sarà, ma non era così che sembrava.»
«Quello dipendeva da te» dice Barbara. «Perfino da piccola, niente era
mai abbastanza, vero Jon?»
Jonathan, che è perso nel mondo traumatico di una vita parallela, in cui
avrebbe potuto essere un fotografo, non sta ascoltando. «Cosa?» dice.
«E comunque, cosa vorresti dire con questo?» chiede Sophie. «Che
avete passato l’inferno? In che senso?»
Barbara scuote la testa con aria triste. «Voi ragazzi» dice. «Pensate che
sia tutto così semplice. Pensate che le cose succedano e basta.»
«Ehm, una gravidanza? Be’, sì, non è così complicato, mamma.»
«Ah no?» chiede Barbara, guardandosi intorno in cerca di una via di
fuga. «Oddio! Ma quella è Janet?»
«Sì» dice Brett. «Janet French, a quanto pare. Dice che Sophie si tuffò
nuda nel suo laghetto dei pesci.»
Barbara annuisce a quel ricordo. «È vero! È assolutamente vero. Oddio,
è Janet!» Si allontana. «Ciao, Janet!»
1983 — HACKNEY, LONDRA

Barbara mescola il contenuto nella padella e si asciuga le lacrime


provocate dalla cipolla con il dorso della mano. Controlla Sophie dietro di lei
che, con la penna in mano, è imbambolata a guardare fuori dalla finestra.
«Allora, stai facendo i compiti o stai solo sognando a occhi aperti?»
Sophie gira la testa, come uno zombie, verso sua madre. «Eh?»
«Mi sembrava, infatti» dice Barbara. «Datti da fare, ragazzina.»
«È matematica. Io odio la matematica.»
«Sono gli ultimi giorni, Sophie. A quest’ora la settimana prossima sarai
in vacanza. E la settimana dopo ancora, saremo tutti in Francia. Quindi stringi
i denti e cerca di finire.»
«Cosa vuol dire?»
«Stringere i denti?»
«Sì.»
«Significa fare una cosa anche se non ti piace.»
«Questo lo so» dice Sophie. «Intendevo, perché si dice stringere i
denti?»
«Credo che sia perché quando uno fa uno sforzo stringe la mascella» le
spiega Barbara. «Adesso forza, i compiti!»
Guarda l’orologio della cucina. È nervosa. Vuole che Sophie finisca i
compiti prima che Tony torni dal suo incontro con quelli della Pentax. Teme
che al suo rientro ci sarà aria di burrasca e, in un certo senso, preparare le
lasagne, che richiede giostrarsi fra quattro padelle diverse, è il suo modo di
stringere i denti. È il suo modo di provare a pensare ad altro.
Sophie sta mordicchiando la penna e fissa il foglio pieno di numeri
davanti a lei. «Odio le equazioni simultanee» mormora. «Non servono a
niente.»
«Be’» dice Barbara, mescolando un po’ la besciamella e un po’ le
cipolle. «Prima le fai, prima le finisci.»
«Facile per te» dice Sophie. «Tu non sai neanche cosa sono le equazioni
simultanee.»
Barbara fa una smorfia davanti quell’affermazione, poi affetta e taglia a
cubetti un peperone rosso che mette nella padella. Ma non reagisce, perché su
questo Sophie ha assolutamente ragione. Barbara non ha nessunissima idea di
cosa sia un’equazione simultanea. È da quando lei aveva circa otto anni che,
con suo grande imbarazzo, ha smesso di cercare di aiutarla nei compiti.
«Oh, ho capito!» dice Sophie. «La risposta è quarantadue. Ma certo.»

Quando Tony torna a casa, con un’aria decisamente poco felice, l’odore
di lasagne al forno ha invaso la cucina. Appoggia la valigetta su una sedia e
sbatte una borsa per macchine fotografiche della Pentax sulla credenza, poi
va ad aprire il frigorifero. Tira fuori una lattina di birra.
«Ciao» dice Barbara, pulendosi le mani sul grembiule. «Allora, com’è
andata?»
«Tu come pensi che sia andata?» chiede Tony, togliendosi il cappotto.
«Non lo so» dice Barbara, impassibile.
«Tira a indovinare. Dai. Tira a indovinare» dice Tony.
Sophie alza la testa dal quaderno dei compiti. «Tu gli hai detto che non
ti piace la macchina e loro hanno detto che devi usarla, e tu hai detto che non
vuoi e l’hanno avuta vinta loro, ed è per questo che l’hai portata a casa» gli
dice. «Ho ragione?»
Mentre Sophie aspetta una risposta, Tony cerca di controllare la sua
rabbia e Barbara si prepara a mettersi al sicuro, cala il silenzio.
«Molto bene» dice Tony alla fine. «Almeno, se non riesci a diplomarti,
puoi prenderti una cavolo di bancarella sul molo di Eastbourne e guadagnarti
da vivere come indovina.»
Barbara si china per guardare nel forno e, sapendo che nessuno può
vederla, alza un sopracciglio. Solo Sophie può fare l’insolente con Tony o,
nel caso specifico, dirgli le cose come stanno, e passarla liscia. C’è qualcosa
nel suo modo di parlare, nel suo atteggiamento diretto, nello sguardo
ingenuo, per cui con lei non riesce proprio ad arrabbiarsi.
«E riguardo alla Francia?» gli chiede piano Barbara. «Ti hanno detto
niente?»
«Devo andare comunque anche in Francia, accidenti.»
«Be’, non fa niente» commenta Barbara. «La faremo diventare una
vacanza come avevamo detto. Sarà bellissimo. Ho sempre voluto andare
all’estero.»
«Io posso perfezionare il mio francese» dice Sophie. «Bonjour
Monsieur. Je voudrais le gelato s’il vous plaît. Non mi ricordo come si dice
gelato… Glass, o grass, o una cavolata così.»
«Sì» dice Tony, rovistando nella valigetta per evitare di guardarle negli
occhi. «A questo proposito. Temo che ci sia stato un cambio di programma.»
Barbara si mette i guanti da forno e si piega per tirare fuori le lasagne,
che le sembrano cotte a puntino.
«Quale cambio di programma?» chiede Sophie.
«Mi mandano con, ehm, un assistente» dice Tony, grattandosi
l’orecchio. «Una persona che mi aiuti con le questioni organizzative. Che
possa risolvere qualunque problema con la fotocamera.»
Barbara porta in tavola le lasagne. «Metti via i compiti adesso» dice a
Sophie. «Li finirai dopo.»
«Come, qualcuno viene con noi?» chiede Sophie, adombrandosi. «Ma
posso aiutarti io con la fotocamera. Lo sai che sono capace.»
«No, lui non viene con noi» dice Tony. «Viene con me. Purtroppo, a
quanto pare saremo solo noi due.»
«Ma scusa, e io e la mamma?»
Tony scrolla le spalle. «Mi dispiace» dice. «Ma è lavoro, tesoro.»
«Mamma?» dice Sophie.
Barbara ha come la sensazione che intorno a lei si stia alzando un muro
di vetro. Come se di colpo fosse separata da quello che sta succedendo in
cucina, isolata, quasi non fosse nemmeno lì, ma stesse osservando tutto
dall’alto.
«Mamma?» ripete Sophie. «Di’ qualcosa.»
Barbara prende il coltello più grande che trova e la paletta, poi si
riavvicina al tavolo. Guarda le lasagne, fumanti al punto giusto. Sembrano
uscite da un libro di cucina. Sembrano un’idea astratta di lasagne, proprio
come lei è l’idea astratta della moglie di un fotografo. Le pare un peccato
tagliarla, svelare tutta la confusione che c’è sotto il primo strato.
«Non stavo ascoltando» dice, ed è una bugia, eppure allo stesso tempo
non lo è. Perché anche se ha sentito le parole, in qualche modo sono rimaste
fuori dal muro di vetro.
«Papà dice che non andremo più in Francia con lui» dice Sophie. «Ci
andrà con un tizio che gli farà da assistente.»
Barbara annuisce. «Ah sì?» dice. «Allora adesso con chi ci vai?»
«Non lo so ancora» risponde Tony. «Non me l’hanno detto.»
«Quindi non sai se sarà un uomo.»
Gli occhi di Tony incrociano quelli di Barbara, poi lui distoglie lo
sguardo. Scrolla le spalle. «Mi dispiace tanto» dice. «Mi farò perdonare con
entrambe. Andremo da qualche altra parte al mio ritorno.»
Barbara passa un dito sulla lama del coltello. Osserva il pomo d’Adamo
di Tony alzarsi e abbassarsi e l’irritazione provocata dal rasoio intorno alla
gola. Sente il peso del coltello nella mano.
«Be’, in effetti è un peccato» dice, voltandosi e infilando la lama nelle
lasagne con un unico gesto, deciso. Guarda il rosso della salsa al ragù
riversarsi sul bianco della besciamella. «In effetti è un peccato» ripete.
2013 — BERMONDSEY, LONDRA

Quando si sono fatte le otto, il rumore nella galleria riecheggia a tal


punto che tutti devono gridare per farsi sentire, il che, ovviamente, crea un
circolo vizioso. Ci saranno una cinquantina di persone (secondo Brett di più).
Un folta schiera di giornalisti sta chiacchierando al centro della sala, diversi
gruppetti di conoscenti di Anthony Marsden sono sparpagliati in giro, e un
club delle vedove si sta deprimendo in un angolo. Solo cinque persone stanno
realmente guardando le foto.
Anche se sono stati venduti dieci libri, le stampe sono ancora tutte lì, ma
quando Sophie chiede a Sarah Stone come mai, lei si limita a sorridere e dice:
«Be’, non è quel genere di esposizione, no?». Qualunque cosa significhi.
Sophie prende un bicchiere di vino da una cameriera che le passa
accanto e incrocia lo sguardo di Brett dall’altra parte della sala. «Cosa?» gli
chiede mentre le si avvicina. «È solo il terzo. Dalle sei di pomeriggio.»
«Non ho detto una parola, tesoro» dice Brett. «Comunque, per quanto tu
beva, non riuscirai mai ad arrivare ai suoi livelli.» Fa un cenno al gruppetto di
vecchiette.
«Di chi?»
«La tizia al centro, quella con la parrucca. Era già ubriaca quando è
arrivata.» Sophie si sposta verso destra ma non riesce a vederla comunque.
«Vai a dare un’occhiata» la invita Brett. «Quella parrucca non ha prezzo. Non
te la puoi perdere.»
Sophie si fa strada tra la gente e si avvicina al capannello di persone.
Phil, che è un po’ più avanti, si sposta per farla passare, poi, quando si rende
conto che è lei, picchietta sulla spalla della donna con la parrucca. Lei è
intenta a parlare con gran fervore di una fotografia.
«Ehi» le dice. «Guarda chi c’è.»
La donna si volta verso di loro. È talmente smunta che è quasi
impossibile riconoscerla, e sembra molto più vecchia di Phil. Pare rattrappita,
e il cappotto militare e la parrucca, che le sta malissimo, non aiutano di certo.
Ma i suoi occhi scuri, la curva della bocca, il naso camuso… è senza dubbio
lei. «Zia Diane!» grida Sophie, attraversando il gruppo di gente per
abbracciarla, e quando lo fa, si accorge che sotto il cappotto è quasi pelle e
ossa. «Sei venuta!»
«Come avrei potuto mancare?» biascica Diane.
«Non sapevo neanche se avevi ricevuto i miei messaggi» dice Sophie.
«Continuavo a mandare e-mail su quel tuo cavolo di sito web.»
«Ah!» dice Diane. «Stupide e-mail.» Ha un leggero accento americano
e la voce roca di chi fuma una sigaretta dietro l’altra, ma a parte questo, Brett
aveva ragione: è ubriaca persa.
«C’è anche mia madre» dice Sophie, guardandosi in giro. «L’hai…?»
«L’ho vista» dice Diane. «È uscita un attimo a prendere una boccata
d’aria. Tornerà tra un attimo.»
«Oh?» dice Sophie, lanciando un’occhiata verso l’ingresso. «Stai
bene?»
Diane annuisce. «Certo» dice, portando via Sophie dal gruppo. «Adesso
raccontami di te! Stavo guardando le tue foto. Sono molto buone.» Diane la
prende a braccetto in un modo molto naturale, ma Sophie ha il sospetto che lo
faccia più per mantenere l’equilibrio che per affetto. «E adoro il tuo
autoritratto.» Indica con la mano la grossa stampa sulla parete in fondo.
«Grazie» dice Sophie. «Avevo paura che fosse troppo.»
«No, è splendido.»
«E anche quello di papà» dice Sophie, con un cenno verso l’altra
estremità della sala. «L’hai visto? Le ho provate tutte per contattarti, Diane.
Avrei tanto voluto che mi aiutassi a organizzarla. Spero che tu sia d’accordo
con la scelta delle foto.»
«È splendida, Sophie, splendida» dice Diane. «Certo, quella è stata tua
madre a farla, quindi la didascalia è sbagliata, ma non ha importanza.»
«L’autoritratto?»
«Il ritratto» la corregge Diane.
«Sul serio?»
«Ehm. E ovviamente la foto della copertina di Shipbuilding l’ha fatta
Phil. Ma quella non potevi proprio lasciarla fuori.»
«Sì, me lo ha detto. Non ero sicura se credergli o no. Quindi è vero?»
«Oh, sì. Ci scambiavamo spesso le foto. Vedi, tuo padre aveva tutti i
contatti.»
«Più di te?»
«Con i giornali, sì.»
«Be’, per favore, non farne parola con nessuno» dice Sophie. «Oddio,
non riesco a credere che tu sia venuta!»
«Direttamente da Portland, Oregon, mia cara. Fresca fresca
dall’aeroporto.»
«Davvero? Oh, sono così felice, Diane. Mi sei mancata tanto.»
«Anche tu mi sei mancata» le dice. «Più di quanto puoi immaginare.»
Si ferma davanti a una foto di Cliff Richard e Mary Whitehouse.
«Questa è una della mie» dice.
«Nooo!» sussurra Sophie.
Diane annuisce. «Il Festival of light» dice, pronunciando un po’ a fatica
la s e le t. «Che roba orrenda… Tutti i bigotti in un posto solo. Anti-questo,
anti-quello. E comunque, io ho sempre pensato che lui fosse un gay non
dichiarato.»
«Davvero è tua questa?» le chiede Sophie. «Perché siamo a, vediamo,
tre su trenta. Il dieci per cento delle foto sono sbagliate.»
«Sì. Come puoi vedere è stata fatta con un pellicola trentacinque
millimetri» le spiega Diane. «Tuo padre usava solo le centoventi. L’ho
scattata con il mio grosso zoom della Nikon. Dio, amavo quell’obiettivo.
Chissà che fine ha fatto.»
«Oh, ti prego, tienitelo per te» dice Sophie, con tono lamentevole.
Diane le fa l’occhiolino e si porta un dito sulle labbra. «Sarò muta come
un pesce.»
«Dimmi che almeno le altre sono sue.»
Diane dà un’occhiata veloce alle pareti. «Penso di sì» dice. «Sì, credo
che tu possa stare tranquilla.» Si sposta sulla sinistra e si ferma davanti
all’immagine successiva, la foto di Sophie di un gruppo di drag queen che
ridono durante un gay pride. «Ecco, questa mi piace proprio.»
«Grazie. È una di quelle che preferisco anch’io.»
«Sembra che si divertano tanto eppure…»
«Lo so» dice Sophie. «C’è qualcosa di triste, non è vero? Allora, sei qui
solo per l’esposizione? O riuscirò a vederti più spesso?»
«No, purtroppo no.»
«Oh. Mi piacerebbe tanto rivederti. Anche se è solo per una cena, o un
caffè.»
«Sì, certo. Intendevo che purtroppo non sono qui solo per
l’esposizione.»
«Purtroppo?»
«Te ne parlerò più tardi. Ma niente discorsi… seri per adesso, eh?»
«Oh, non è che stai male, vero?»
«No, cara. Mi diverto solo a indossare stupide parrucche» dice Diane.
«Come le tue drag queen lì sopra.»
Sophie le mette un braccio intorno alla vita. «Ma resterai in Inghilterra
per un po’?»
«Le cure là costano una follia, e io non posso permettermele. Quindi sì.
In realtà, non ho scelta.»

Dopo che il suo cuore ha ripreso una velocità normale, e che sente di
riuscire di nuovo a respirare, Barbara rientra. Sarà gentile e amichevole con
Diane. E poi chiederà a Jonathan di riportarla a casa.
Appena rimette piede dentro la galleria, vede che Sophie è con Diane,
anzi, vede che Sophie le cinge la vita con un braccio. L’immagine di loro due
insieme è semplicemente troppo da sopportare, perciò passa al piano
B. Camminando lungo le pareti della sala, raggiunge Jonathan. Lui sta
parlando con una bella donna, a quanto pare anche lei del Times, perciò
Barbara si piazza accanto a lui, e intanto finge, sentendosi un po’ sciocca, di
osservare una fotografia che ha fatto lei stessa.
Alla fine Jonathan presenta alla donna quella pazza invadente di sua
madre, e a quel punto lei (pensando probabilmente che essere presentata alla
suocera sia un po’ prematuro), grazie al cielo se ne va.
«Jon» dice Barbara, con tono pressante. «Puoi portarmi a casa, tesoro?
Non mi sento molto bene.»
«A casa?» dice Jonathan. «Non sono neanche le nove.»
«Lo so, ma non mi sento affatto bene.»
«Be’, d’accordo, mamma. Tra un po’» dice Jonathan. È abituato agli
allarmismi di sua madre. «Voglio solo chiacchierare con qualche altra
persona. C’è Diane. L’hai vista?» Indica dall’altra parte della sala e Diane,
che sta guardando proprio nella loro direzione, in quel momento si avvicina a
Sophie per sussurrarle qualcosa, e poi la lascia per andare da loro.
«Ciao, Barbara!» dice Diane.
«Ciao» risponde lei, con un entusiasmo palesemente inferiore. Si torna
al piano A, pensa. «Come stai?»
«Come mi vedi» dice Diane.
Jonathan, che per qualche inspiegabile ragione non si sente benaccetto,
tossisce e s’inventa una scusa. «Forse è meglio se, ehm, vado a socializzare»
dice in modo vago.
«Sono così felice di vederti, Barbara» dice Diane.
«Grazie.»
«È una splendida esposizione.»
«Grazie.»
«Sophie ha fatto un lavoro incredibile.»
«Sì. È vero.»
«C’è qualcosa che non va, Barbara?»
C’è qualcosa che non va? Barbara ripete quelle parole nella sua testa
mentre pensa a come rispondere. Cosa risponderebbe a quella domanda il
modello di educazione e decoro che ha deciso di essere? «No. Sì…» farfuglia
confusa, poi: «Senti. Perché sei qui, Diane?».
Adesso è Diane a sembrare confusa. «Qui intendi? O in Inghilterra?»
«Entrambe le cose. L’una o l’altra.»»
«Sono malata, Barbara» dice. «In effetti, sto morendo. È per questo che
volevo vederti.»
Barbara annuisce e riesce sia a mostrarsi sia a sentirsi triste davanti a
quell’affermazione. La sua reazione emotiva la coglie di sorpresa. Forse il
tempo cura davvero le ferite. «È un cancro?»
Diane annuisce e si prende una ciocca di capelli tra le dita. «Motivo per
cui, questa mostruosità.»
«Non l’avevo notata» mente Barbara. «Mi dispiace.»
«Be’… È quello che volevo dire io a te» prosegue Diane. «Che mi
dispiace.»
Barbara fa una risatina. Non lo fa apposta, le scappa. «Ti dispiace?»
Diane annuisce. «Io volevo…» Ma non termina la frase. Barbara ha
sollevato una mano per fermarla.
«Non ce la faccio proprio» dice, continuando, in maniera del tutto
inaspettata, a sorridere. È come se non avesse il pieno controllo dei muscoli
del viso. «Non qui. Non stasera.»
«Ma io…»
«Anzi, forse mai, Diane. Ma di sicuro non qui. Di sicuro non stasera.»
«Ma io so che tu sai» dice Diane. «Tu l’hai sempre saputo e io…»
«Basta!» dice Barbara. Il sorriso è svanito e la sua voce si è alzata più di
quanto volesse. «Per favore, Diane» insiste. «Ormai appartiene tutto al
passato.»
«Ma…»
«È per di più a un passato così lontano. Guardati intorno. La metà della
gente che c’era, adesso è morta. Altri dieci anni, e non ci sarà più nessuno
nemmeno a ricordare. Perciò… perciò non farlo.»
Diane deglutisce e si lecca le labbra. «Va bene» dice. «Pensavo solo…
Ma va bene. Oddio, sono quasi sobria. Dobbiamo assolutamente rimediare.»
Si volta e cammina verso una cameriera che sta passando con un vassoio con
dei bicchieri.
Non hai pianto, pensa Barbara. Non hai gridato. Non hai fatto scenate.
E adesso puoi andartene e dimenticarti che sia mai successo.
Ispeziona la sala alla ricerca disperata di Jonathan, ma è troppo tardi,
perché Diane sta tornando a passo spedito da lei con in mano non uno, ma
due bicchieri di vino. Per scoraggiarla, tenta di intavolare una conversazione
con uno sconosciuto. Ma lui si limita ad annuire in modo cortese e, senza
dubbio spaventato dalla presenza spettrale di Diane, si defila verso l’uscita.
Diane le mette uno dei bicchieri sotto il naso. «Fai cin cin con me» dice.
Barbara non le risponde, scuote soltanto la testa. Vieta alla sua mano di
muoversi di un solo millimetro verso quel bicchiere. Diane lo agita ancora un
po’, rischiando di rovesciare il vino, ma Barbara scuote di nuovo la testa.
«No» dice a bassa voce. «Non posso farlo.»
«Hai detto che appartiene tutto al passato. Allora fai un brindisi con me.
A Sophie. Solo per quella parte della storia. Quella parte della nostra storia.»
«Non posso, Diane» sussurra Barbara. «Mi dispiace.»
«Per favore» dice Diane, continuando a porgerle il bicchiere. Le stanno
venendo gli occhi lucidi e le trema il labbro inferiore, sembra un po’ Sue
Ellen. «Non ti sto chiedendo di ringraziarmi o di perdonarmi, o altro. Fai solo
un brindisi con me a Sophie e non mi rivedrai mai più. Te lo prometto.»
C’è commozione nella sua voce, e Barbara si accorge che anche a lei sta
venendo da piangere, sente le lacrime che piano piano spingono per uscire.
Ha anche caldo, le si stanno formando delle gocce di sudore sulla fronte. Per
evitare ulteriori drammi, annuisce in fretta e prende il bicchiere dalla mano di
Diane.
«A Sophie» dice Diane.
Barbara deglutisce e si asciuga una lacrima dall’angolo dell’occhio. «Te
ne andrai?»
Diane fa sì con la testa. «Me ne andrò.»
«A Sophie, allora» sussurra Barbara.
Fanno cin cin e Diane svuota il bicchiere con due sorsate veloci. «Hai
fatto un ottimo lavoro con lei» dice. «Dovresti esserne fiera.»
«Grazie» dice Barbara, appoggiando un braccio al muro per non perdere
l’equilibrio. Le gira un po’ la testa e quel momento, purtroppo, sembra non
essere finito.
«Sei una santa, Barbara» dice Diane. «Lo sai questo, vero?»
«Adesso puoi smetterla. Per favore, smettila.» Il suo sguardo corre
veloce per la stanza, e vede che Phil e Jonathan la stanno osservando con aria
preoccupata.
Diane sta ancora parlando, nonostante la sua promessa. «Non riesco a
credere che sia venuta su così bene» dice. «Ed è anche una fotografa!»
Il viso di Barbara si sta gonfiando. Sente che sta raddoppiando, che si
sta trasformando in un enorme pallone bollente di imbarazzo.
«Okay» sta dicendo Diane. «Forse non sarei dovuta venire. Ma non è
successo niente, giusto?»
«Per favore, vai via» la prega Barbara. «Hai detto che te ne saresti
andata. Per favore, vai via!»
«Lo farò. Ma sto solo dicendo che è merito vostro, di entrambi»
prosegue, rubando un’ultima occhiata a Sophie. «E somiglia così tanto a
Tony, è stupefacente.»
Barbara ha un sussulto. Apre la bocca per parlare, ma le esce solo un
lamento monotono, strano, qualcosa a metà tra il verso di una mucca straziata
per la morte del vitello e il suono lontano di un corno da nebbia. Scuote la
testa e guarda le sue dita lasciar andare di colpo il bicchiere, che cade a
rallentatore sul pavimento, rompendosi in mille pezzi e bagnandole il piede.
La bolla di plexiglas è tornata. Sono passati anni, più di quanti possa
ricordare, ma adesso è tornata, e fuori dalla bolla, l’immagine distorta di
Jonathan corre verso di lei gridando qualcosa. Mamma, forse. La stanno
guardando tutti. Sessanta persone si sono voltate a fissarla. Forse vorrebbero
che ballasse per loro, forse dovrebbe mettersi di nuovo a fare la danza degli
Zulu, ma non può perché le stanno cedendo le gambe, proprio mentre la
stanza intorno a lei inizia a girare, proprio mentre Diane, che all’improvviso è
circondata dai colori dell’arcobaleno, si copre la bocca e dice: «Mi dispiace.
Pensavo che lo sapessi. Ho sempre pensato che lo sapessi». I colori si fanno
più luminosi, tutto si fa più luminoso ed è avvolto nell’arcobaleno, e una luce
bianca filtra dai bordi, cancellando a poco a poco i volti che la fissano, le
bocche aperte, le foto che ruotano su se stesse, il soffitto che gira in modo
vorticoso. La luce, il bianco celestiale. Grazie a Dio. Sta facendo scomparire
tutto quanto.
1983 — HACKNEY, LONDRA

È passata una settimana da quando una donna poliziotto si è presentata


alla porta. È passata una settimana da quando Barbara è caduta in ginocchio,
da quando ha scoperto che a quarantanove anni è diventata vedova. Un
infarto, hanno detto. A Parigi, hanno detto. Il referto del medico legale non
tarderà ad arrivare. Anche il corpo, non tarderà ad arrivare. Un linguaggio
così crudele, parole così dure, ma le cose, perfino quelle brutte, devono
essere descritte.
Da quel momento, il tempo si è allungato in un paesaggio infinito del
nulla, qualcosa che va ben oltre la tristezza. La sensazione che una porta si sia
chiusa lasciando fuori ogni cosa. La sensazione di non provare sensazioni.
Solo un vuoto che deve essere attraversato, solo telefonate a pompe funebri e
ad amici e colleghi di Tony, e qualche vano tentativo di far mangiare a
Sophie e Jonathan qualcosa, qualunque cosa, anche se lei stessa non ci riesce.
Ma alla fine la settimana è passata e il corpo è a casa. Gli uomini, ti
lasciano. Ognuno lo fa a modo proprio, ma ti lasciano. E a volte tornano da
morti.
Sophie entra in soggiorno senza dire niente. Indossa un paio di
pantaloni neri e una polo nera a maniche lunghe. Ha gli occhi gonfi di pianto.
«Non ti sei messa il vestito» le dice Barbara, una costatazione, non una
critica.
Sophie scuote la testa. Va a sedersi accanto a lei. Si appoggia alla sua
spalla. «Non ci voglio proprio andare, mamma.»
Barbara la circonda con il braccio. «Nessuno ci vuole andare» dice. «Ma
ci farà bene. Lo vedrai. I funerali esistono per una ragione.»
Guarda il loro riflesso sullo schermo curvo della televisione. Madre e
figlia in nero. Madre e figlia in lutto. Sembra quasi l’immagine di un quadro
religioso. Sarebbe una buona foto, pensa stupidamente. Ma chi vuole
ricordare momenti come questi?
La porta del soggiorno si apre di nuovo ed entra Jonathan. Indossa un
abito grigio e una cravatta dello stesso colore, annodata male. Barbara si
appunta nella mente di sistemargliela prima che escano di casa. Il suo viso è
quasi dello stesso colore della cravatta. «C’è un poliziotto alla porta» dice.
Barbara aggrotta le sopracciglia e sospira. Non sa perché un poliziotto
dovrebbe venire a casa loro nel giorno del funerale di suo marito, ma di
sicuro un motivo ci sarà. Probabilmente una qualche formalità di cui lei si è
dimenticata.
«Lo faccio entrare?»
Barbara annuisce. «Sì, fallo entrare» sussurra.
Toglie il braccio dalla vita di Sophie, poi si alza e si tira giù il vestito. Il
poliziotto, poco più che ventenne, entra con fare nervoso, il cappello in mano.
«Signora Marsden?» dice.
Barbara annuisce.
«Posso parlarle un momento per favore?»
Barbara riesce a più o meno a sorridere. «Entri.»
«Sarebbe meglio in privato» dice l’uomo.
Sophie alza lo sguardo verso di lei e poi si alza. «Vado» dice.
«Anche tu» dice Barbara a Jonathan con tono gentile. «Aiuta Anna in
cucina. Ti chiamo io se ho bisogno.»
Il poliziotto chiude la porta dietro di loro. Lo fa quasi senza fare rumore,
come se avesse paura di risvegliare il morto. Tira fuori una busta dalla tasca.
«Abbiamo ricevuto, ehm, il referto del medico legale dalla Francia» dice. «Lo
hanno inviato per fax.»
Barbara annuisce.
«Poi arriveranno anche le sue cose» dice il poliziotto.
Annuisce di nuovo. «Sì, lo so.»
«Hanno mandato me perché parlo un po’ di francese. Quindi posso
tradurglielo, insomma. Non sapevamo se sareste stati in grado di leggerlo.»
«Io no» dice Barbara. «Ma dobbiamo farlo oggi? Il funerale è tra due
ore.» Sta cercando di non crollare. E dettagli inaspettati come questo non
aiutano.
«Oh, no. Niente affatto» dice il poliziotto, che sembra sollevato. «Posso
tornare un altro giorno, oppure tradurlo e, ehm, mandarvelo per posta.»
Inizia a rinfilare la busta nella tasca, ma Barbara pensa: Cosa potrebbe
mai esserci scritto che sia peggio di questo? Cosa potrebbe mai esserci
scritto che possa arrecare altro dolore? Se lo leggiamo adesso, almeno il
funerale sarà la fine di tutto.
«Aspetti» dice. «Ho cambiato idea. Facciamolo e non pensiamoci più, le
dispiace?»
Il viso del poliziotto viene attraversato da qualcosa, come l’ombra di
una nuvola che passa sopra un campo. Barbara se ne accorge e si chiede cosa
significhi. «Se il funerale è oggi, allora forse è meglio se…»
«Per favore» dice Barbara, rimettendosi seduta e facendogli segno con
la mano di accomodarsi sul divano accanto a lei. «Ci vorrà solo un minuto,
no? E poi avremo finito.»
L’agente deglutisce e aggrotta le sopracciglia. «Non è… molto
piacevole, temo» la avvisa. «Gli ho dato un’occhiata.»
«Queste cose non sono piacevoli» dice Barbara.
Lui le si siede accanto e Barbara prende la busta dalla sua mano, poi tira
fuori il fax. C’è una sorta di verbale, in francese, compilato con una macchina
da scrivere. È tutto in maiuscolo.
Glielo passa. «Allora» dice.
Il poliziotto si schiarisce la voce. «È sicura che non preferisce…?»
«No» dice Barbara. Le dispiace per lui. È poco più grande di Jonathan.
È troppo giovane per queste cose. Cerca di aiutarlo indicando il modulo.
«Qui c’è scritto quando è successo, immagino?» dice.
Lui annuisce. «Sì. Una e zero cinque. Della mattina, s’intende. La
giornata è scandita in ventiquattro ore. Usano sempre le ventiquattro ore, i
francesi.»
«E qui?» Alcune parole risaltano sulla pagina ma non capisce il
contesto, perciò presume che debbano avere un significato molto diverso in
francese.
«Sì, queste sono le analisi del sangue» dice lui. «Hanno fatto, sa,
un’autopsia, per precauzione.»
«Dunque, era ubriaco?» Barbara ha notato una parola, alcol.
Il poliziotto annuisce in modo gentile. «Sì. Alcol» dice in modo
inespressivo. «E, ehm, tracce di cocaina ed eroina.»
«Eroina?»
«Sì. Temo di sì.»
Barbara si sforza di trattenere una risata inappropriata. Invece tossisce.
«Tony non faceva uso di eroina» dice. «O cocaina. Non faceva uso di
nessuna droga.»
Lui si schiarisce di nuovo la gola. «Sto solo leggendo quello che c’è
scritto, signora.»
Barbara sorride in modo sarcastico. «Allora dev’esserci uno sbaglio.
Devono aver scambiato i risultati.»
«Temo che sia… improbabile» dice il poliziotto, in difficoltà.
«Eroina? No.»
«È molto più comune di quanto lei possa pensare» dice il poliziotto.
«Soprattutto tra la gente con una vena artistica.»
«No. È semplicemente impossibile. C’è stato un errore. Lui era un
fotografo, non un drogato.»
«Mi dispiace, signora Marsden. Io stavo solo traducendo.»
Barbara si concede un momento per guardare fuori dalla finestra, un
momento per riprendere fiato. Fuori c’è il sole e qualcosa in cuor suo le dice
che non dovrebbe esserci. Tutta quella luce le sembra una specie di affronto.
Dovrebbe piovere, pensa, nel giorno di un funerale.
«È stato questo che l’ha ucciso secondo loro?» chiede, con la voce che
oscilla in modo strano. «Gli ha provocato un infarto? Perché hanno detto che
si trattava di infarto. È così?»
«Qui dice che potrebbe aver contribuito» risponde l’uomo, indicando
delle altre parole in francese sul foglio. «Insieme all’alcol e alla cocaina. E
allo… ehm, allo sforzo.»
Barbara si morde la guancia. «Lo sforzo» ripete.
«Sì. Lui, ehm, non era da solo» dice il poliziotto, serrando la mascella
come se avesse mal di denti.
«Non era solo?»
Il dito del poliziotto scorre su un paragrafo e poi si ferma. Annuisce.
«Mi dispiace» dice.
Barbara gli guarda il dito. Sotto l’unghia ha un po’ di sporcizia. E poi
guarda la parola sopra l’unghia. C’è scritto: SEXUEL.» C’è scritto: RAPPORT
SEXUEL.
In modo del tutto inaspettato, sorprendendo perfino se stessa, Barbara
scoppia a ridere. All’inizio sogghigna, poi ridacchia, e alla fine si sbellica
dalle risate. Le scendono addirittura le lacrime. Sa che è fuori luogo, ma non
riesce a trattenersi. «Sta cercando di dirmi che mio marito è morto, ubriaco e
drogato, mentre era a letto con una prostituta?» dice, incapace di arrestare
quella strana risata che le toglie il fiato. «È questo?»
«Signora Marsden» dice il poliziotto. «Mi dispiace, ma deve capire che
io sto solo traducendo quello che ha scritto il medico legale francese. Non sto
facendo altro.»
«Oh, santo cielo» dice Barbara, guardando in un’altra direzione mentre
si asciuga il viso con la manica. «Si sono confusi con qualcun altro, tesoro
mio. Gli piaceva bere ma il resto… il mio Tony non era quel genere di
persona. Il mio Tony non era affatto quel genere di persona.»
«Forse» dice il poliziotto, dubbioso. Osserva il modulo. «È improbabile,
ma non si può mai sapere… la donna, la sua assistente… avrebbe dovuto…
insomma… riconoscere il corpo, all’ufficio del medico legale.»
«La sua assistente?»
Lui annuisce e tira fuori un taccuino. «Sì. Una certa Diane Darbott?»
dice. «Questo nome le dice qualcosa?»
Barbara continua a ridere, ma a poco a poco, nel giro di una trentina di
secondi, la sua risata cambia. Diventa più dura, più rauca, prima di
trasformarsi in uno scroscio di pianto incontrollabile.
«Signora Marsden?» dice il giovane. «Signora Marsden! La prego. Per
l’amor del cielo!»
Alla fine, con un po’ di esitazione, le mette un braccio intorno alle
spalle e Barbara, incapace di fare altro, si volta verso di lui. Preme il viso sul
tessuto ruvido della sua uniforme blu e, sul petto di un agente sconosciuto
poco più che ventenne, si lascia andare al pianto.

C’è una grande partecipazione al funerale. È così che si dice, no?


Grande partecipazione.
Ci sono tutti tranne Diane. Diane, che potrebbe essere tornata in
America o rinchiusa in qualche fetida prigione in Francia. Barbara non lo sa e
non le interessa più di tanto. Però, se deve essere sincera, ha una vaga
preferenza per la seconda ipotesi.
Partecipa allo svolgimento degli eventi in uno stato di stordimento,
ascolta la gente che pensava di conoscerlo, osserva la bara che scivola nel
suolo, come se niente di tutto quello fosse reale. Ringrazia le persone
all’esterno della bolla per essere venute. Scrolla le spalle quando qualcuno le
chiede se Diane “sa”. «Bisogna che venga informata» dice l’uomo. «Erano
molto legati.»
«Sono certa che lo sa» risponde Barbara, senza battere ciglio.
È gentile, distaccata e calma, perché è l’unico modo che conosce per
affrontare la situazione. Jonathan, come lei, è impassibile e serio e
compassato. Solo Sophie piange, a dirotto. Sophie piange abbastanza per
tutti.
Tornati a casa, Barbara serve dei perfetti minisandwich e delle piccole
tortine salate al pomodoro. Ascolta la gente ridere ai racconti della breve
esistenza di Tony, e si sforza di non odiarli perché custodiscono pezzi della
sua vita di cui lei non sa niente. È già stata ad altri funerali. Queste cose
succedono.
Fissa il pacco (le sue cose, consegnate in loro assenza, ritirate da un
vicino) e cerca di superare quella giornata senza mettersi in ridicolo. Perché
potrebbe tranquillamente capitare. Potrebbe perdere il controllo e la
situazione potrebbe degenerare. Se le emozioni prendessero il sopravvento,
potrebbe lasciarsi sfuggire la verità, e i bambini devono essere preservati. E
questo significa che deve sopportare quel segreto da sola.
Dopo che tutti se ne sono andati e che gli avanzi sono stati avvolti nella
pellicola, dopo che i ragazzi sono andati a letto e che le tende sono state
chiuse, trascina il pacco in soggiorno. Prende un paio di forbici e taglia lo
spago.
Strappa la carta marrone che avvolge la valigia di Tony, poi rompe i
sigilli di cera della polizia e la apre.
La prima cosa che trova è il suo maglione. Il suo maglione grigio. Lo
annusa. Lo accarezza. Si concede, in privato, un breve, tenero ricordo.
Perché, ovviamente, non ci sono state solo cose brutte. Perché a prescindere
da come sia morto, è comunque una perdita. È comunque un’inaspettata,
insopportabile, straziante perdita.
Strato dopo strato tira fuori gli oggetti dalla valigia. Non ci sono
sorprese, nessuna scia di profumo, nessun preservativo, nessun indumento
intimo femminile…
In mezzo trova la sua macchina fotografica, la Pentax, arrotolata dentro
un paio di pantaloni, e poi, protetta nella borsa della Pentax, la sua amata
Rollei. Da entrambe sono state tolte le pellicole.
E alla fine, sotto a tutto il resto (forse qualcuno sperava che non
l’avrebbe mai trovata) c’è una grande busta con il timbro della Gendarmerie
Nationale.
Contiene una serie di provini a contatto. La polizia francese deve aver
sviluppato i rullini. Li tira fuori e nota i negativi abbandonati sul fondo.
Essendo solo stampe a contatto, e non ingrandimenti, le immagini sono
piccole, ma riesce comunque a capire cosa c’è sopra: scatti sfocati e banali di
Parigi.
Una donna, su un ponte (non Diane, per fortuna). Due donne in un bar,
che fumano (neanche qui Diane). Un cane, un tram, un treno. La Torre Eiffel
sotto la pioggia.
E poi, dietro agli altri, un ultimo provino di immagini quadrate, in
bianco e nero, fatte con la Rollei: dei nudi, fotografati in maniera eccellente.
L’ascella di una donna sopra su un lenzuolo bianco arrotolato, uno scatto,
mosso, di lunghi capelli neri che si muovono (possibile che sia Diane), e poi
Diane, in questo caso sicuramente Diane, nuda, con un braccio sopra la testa,
sdraiata su una chaise longue. Tony non ha mai, per quanto ne sappia lei,
fotografato nudi prima. E capisce, perfino da quelle immagini in miniatura,
che sono bellissime; forse, per uno scherzo del destino, le foto migliori che
abbia mai fatto.
Nonostante provi una stretta al cuore, non si ferma. Deve guardare, solo
una volta. È come tutto il resto. Deve farlo per poi voltare pagina. Questo,
come nuovo capo della sua famiglia, è il suo compito.
Due mani, appoggiate su un libro; delle dita che giocano con un
orecchino; un corpo nudo, fotografato dal collo in giù, senza peli, (troppo
formoso per essere Diane) davanti a una finestra bagnata dalla pioggia di un
edificio parigino, con in mano una sigaretta che brucia lentamente. Un’altra
immagine di donna, di nuovo Diane, in ginocchio davanti a lei. La donna ha
ancora la sigaretta in una mano, ma nell’altra stringe i capelli di Diane, e la
tira con forza verso di sé.
Barbara distoglie lo sguardo; un riflesso, come quando si allontana la
mano dal fuoco. Come se allontanasse se stessa dalla vergogna.
Vede il camino e, sempre per riflesso, raccoglie i provini a contatto e va
a inginocchiarsi lì davanti. Brucia l’angolo del primo foglio con un cerino,
poi, lentamente, appoggia sopra gli altri. Le fiamme scintillano e si alzano.
Una puzza di bruciato di sostanze chimiche riempie l’aria.
Torna a prendere la busta, poi la butta in cima al resto.
Si chiede dove sia Diane adesso. Non che la cosa aiuterebbe in alcun
modo, ma vorrebbe schiaffeggiarla. Vorrebbe schiaffeggiarla forte, o magari
darle un pugno. Vorrebbe sentire Diane che si affanna per giustificarsi e poi
spingerla da un ponte di Parigi.
Prova a immaginare cosa direbbe Diane.
«Non c’erano droghe. Quelle erano solo foto. Lui è un artista» direbbe,
come se questa fosse una scusa a qualunque cosa. O forse negherebbe e basta.
«Ma non sei nemmeno venuta al suo funerale» direbbe Barbara.
«Questo come me lo spieghi?»
Allunga un braccio e tira via la busta dalle fiamme, ma sta già
bruciando, perciò fa cadere i negativi sulla moquette prima di rimetterla nel
fuoco.
Si rende conto che se vuole avere un briciolo di potere su Diane, deve
rimanere in possesso di quei negativi. E visto il modo in cui le loro vite sono
intrecciate, Barbara potrebbe averne bisogno un giorno. Dopotutto, Sophie
deve essere protetta. Raggruppa i negativi e poi, tenendoli dai bordi (non
perché rispetti il loro contenuto ma perché è così che proprio Diane le ha
insegnato a prenderli) si alza.
Si volta a guardare le immagini, ormai quasi completamente bruciate,
poi rimette tutto nella valigia e la chiude prima di trascinarla nello scantinato.
La nasconde dietro il vecchio go-kart di Jonathan, poi torna in soggiorno,
dove è rimasta solo un po’ di cenere fumante.
Ecco. Finito. Da domani, possiamo iniziare a fare finta che lui fosse
davvero chi pensavamo tutti che fosse, pensa.
2013 — BERMONDSEY, LONDRA

Quando Barbara riprende i sensi, si ritrova sulla poltrona da scrivania


reclinata con le rotelle di Sarah Stone. Sophie le sta tenendo la mano e
Jonathan la osserva. Cerca di mettere a fuoco i loro visi, poi alza una mano
per toccarsi la nuca.
«Hai sbattuto la testa sul muro cadendo» le spiega Jonathan. «Sei
svenuta, mamma.»
«Come ti senti?» le chiede Sophie.
Barbara sbatte le palpebre più volte. «Credo di stare bene» dice. «Non
so cosa mi sia successo. Il caldo, può essere.»
«Ci sono esattamente ventuno gradi» dice Sarah Stone, temendo forse
una denuncia. «Ma abbiamo chiamato l’ambulanza, così potranno visitarla.»
«Non mi serve un’ambulanza.»
«Meglio non correre rischi» dice Jonathan.
«Davvero, sto bene.» Barbara cerca di mettersi seduta, ma la poltrona
molleggiata in qualche modo glielo impedisce, perciò ci rinuncia e si
appoggia di nuovo allo schienale di pelle imbottito.
«Posso portarti qualcosa, mamma?»
Barbara scuote la testa. «No, sto bene. Davvero. È stato solo un
mancamento. Sono cose che succedono quando uno invecchia.»
«Dovresti tornare in sala» dice Jonathan a Sophie. «Resterò io qui con
la mamma finché non arriva l’ambulanza.»
«Non ho bisogno di un’ambulanza!» ripete Barbara.
Sulla porta compare una cameriera. Indica un punto impreciso dietro le
sue spalle. «Un uomo» dice.
«È l’ambulanza?»
La ragazza aggrotta le sopracciglia.
«E una specie di dottore?» chiede di nuovo Sarah, cercando di
riformulare la domanda.
La ragazza scuote la testa. «No. Lui… vuole comprare fotografia» dice,
con un forte accento slavo.
«Oh. D’accordo. Vado io. Ripensandoci, è meglio che venga anche tu,
non si sa mai» dice a Sophie. «Lei è sicura di stare bene, Barbara?»
Barbara agita la mano verso di loro. «Sto bene!»
Rimasta da sola con Jonathan, Barbara gli fa segno di avvicinarsi: «Ho
bisogno che tu faccia una cosa per me, tesoro. Una cosa importante.»
«Certo, mamma. Tutto quello che vuoi.»
«Devi farla andare via. Se ne deve andare. Non lasciare che parli con
Sophie, capito?»
«Diane?»
«Sì.»
«Credo che se ne sia già andata. Ma perché?»
«Ti prego, non fare domande. Accertati solo che sia andata via.»
Jonathan si alza. Fa una faccia perplessa. «Va bene» dice. «Come vuoi.
Posso lasciarti sola, o hai…»
«Per l’amor del cielo. Sto bene!»
«Giusto. Okay. Torno tra poco.»
«Se è lì, accompagnala alla porta, d’accordo? È molto, molto ubriaca,
perciò qualunque cosa dica…»
«Certo. Ho capito.»
Uscito in corridoio, Jonathan trova una folla di coetanei di Barbara che
aspettano notizie.
«Come sta?» chiede Phil.
«Sta bene. Ehm, Phil, sai se Diane è ancora qui?»
Phil scuote la testa. «No, mi dispiace. Se n’è andata da un po’.»
«Okay» dice Jonathan, voltandosi. «Allora va bene.»

Quando Sophie torna nella galleria, Brett le fa un cenno, perciò lei e


Sarah Stone lo raggiungono. «Vi presento Jack Miles» dice Brett. «È
interessato all’acquisto di una di quelle.» Indica una foto di Tony con un
punk che sale su un treno. «Si può fare, vero?»
«Oh, sì, quella è una splendida foto» dice Sophie. «Abbiamo delle
stampe a edizione limitata disponibili di questa, giusto Sarah?»
«Certo» dice Sarah. «Venga con me, Jack, così possiamo provvedere
subito.»
«Poi vorrei parlarle, se è possibile» dice Jack a Sophie.
«Ma certo.»
Dopo che Sarah si è allontanata con lui verso la scrivania nell’angolo,
Brett le chiede: «Allora, come sta tua mamma?».
«Bene, credo. È svenuta, ma sembra si sia ripresa.»
«Certo che tra lei e l’imparruccata tirava proprio una brutta aria» dice
Brett.
«Chi, Diane?»
Brett scrolla le spalle. «Se l’imparruccata è Diane, allora sì.»
«Non chiamarla così, Brett. Per cosa stavano litigando?»
«Vallo a sapere. Ma tua mamma le stava gridando contro, e non
esagero. Le ha detto di andarsene.»
«Sul serio?»
«Eh, sì.»
Sophie si gira su un tacco e scruta la stanza.
«Se la stai cercando, è andata via» dice Brett. «Quasi subito dopo che è
successo, in effetti.»
«Che strano.»
«Ma potrebbe essere ancora qui fuori, immagino. Con gli altri drogati di
nicotina.»
«Vado a vedere» dice Sophie. «Così posso anche controllare se arriva
l’ambulanza.»
Sophie supera il bookshop, attraversa l’atrio ed esce nel freddo della
sera. Si è fatto buio ormai, e il piazzale di cemento è illuminato dal bagliore
arancione dei lampioni.
Un gruppo di visitatori sta fumando proprio fuori dalla porta, e
all’improvviso Sophie pensa che vorrebbe non aver smesso. Si ferma,
valutando l’ipotesi di chiedere a qualcuno una sigaretta, ma poi nota una
piccola sagoma accovacciata dalla parte opposta del piazzale. Non essendo
sicurase si tratti di un senzatetto o di Diane, si avvicina, cercando di fare
meno rumore possibile coi tacchi.
Mentre cammina, Diane alza lo sguardo. Sta fumando, e quando la
raggiunge, sente l’odore dolce, familiare, di marijuana.
«Diane? Dimmi che non ti stai facendo una canna in mezzo alla strada.»
«Ehm» risponde. «Mi aiuta con i dolori. Lei sta bene?»
«Mia madre? Sì, più o meno. È svenuta. Ha anche sbattuto la testa. Ma
credo che si senta meglio. Hanno chiamato un’ambulanza, per precauzione.»
Diane annuisce e butta fuori il fumo. «Bene» dice.
Sophie controlla le piastrelle di cemento accanto a Diane. Sembrano
abbastanza pulite. Si accovaccia accanto a lei e appoggia la schiena contro il
muro. «Tu stai bene? Brett ha detto che stavate litigando.»
Diane sorride. «Non proprio litigando.»
«E che mia madre ti ha detto di andartene, o qualcosa del genere.»
«Quello forse è vero. Non è la mia fan numero uno.» Diane fa un bel
tiro e poi offre la canna a Sophie, che fa un sospiro e poi si arrende. Aspira a
fondo, ed è dolce, come dovrebbe essere (erba di prima qualità, non quella
resina orribile che compra Brett) e mentre butta fuori il fumo dice: «Posso
chiederti una cosa?».
«Certo. Spara.»
«Una cosa personale.»
«Quello che vuoi» dice Diane.
«Tu e papà avete mai, intendo…»
«Sì?»
«Avete mai avuto una storia? Perché io in un certo senso l’ho sempre
pensato. Me lo sono sempre chiesta.»
Diane si mette a ridere, poi tossisce.
«È una cosa divertente?»
«Be’, non abbiamo avuto una storia» dice.
«No?»
«No. Non una storia.»
«Oh. Scusa. Non so perché l’ho pensato. Era solo una sensazione, in
realtà.»
Diane sospira. «L’amore della mia vita, ecco cos’era» dice piano.
Sophie si volta verso di lei incredula. «Scusa?»
«Tuo padre. Era l’amore della mia vita» ripete.
«Sul serio?»
«Era un tipo eccezionale. Non devi essere tanto sorpresa.»
«Ma allora come mai non…? Lui non era… insomma, tu non… Oddio.
Quello che intendo è… Tu a papà non piacevi? O era solo molto fedele a mia
madre?»
Diane si mette a ridere e tossisce di nuovo. «Oh, gli piacevo molto
anch’io, tesoro.»
«Quindi c’è stato qualcosa?»
«Sì. Qualcosa. Immagino che si possa dire così.»
All’improvviso Sophie non è sicura di quanto ancora voglia sapere.
Dentro di lei sorgono sentimenti strani e contrastanti, un miscuglio di rabbia
per il torto fatto a sua madre, di disgusto per il comportamento di suo padre,
eppure, eppure… Ha sempre sentito un richiamo particolare verso Diane. In
un certo senso è eccitata, perfino felice, di scoprire che suo padre avesse una
seconda vita, una vita segreta. «Lo sapevo» dice. «Lo sapevo che doveva
esserci stato qualcosa tra di voi. Quando è successo?»
«Dal sessantatré all’ottantatré» dice Diane. «Più o meno.»
«Cosa? Tutto il tempo?!»
Diane annuisce. «Tranne nel settantasette. C’è stata un’interruzione nel
settantasette.»
«Cos’è successo nel settantasette?»
«Mi sono sposata. Ma non è durata.»
«Perché no?»
Diane fa una smorfia. «Ero ancora innamorata di Tony, immagino.»
«E la mamma? Lei lo sapeva?»
Diane scrolla le spalle. «Barbara? Dovresti chiederlo a lei. Non riesco a
capire come potesse non saperlo, ma d’altra parte…»
«Mi sono appena resa conto di una cosa» dice Sophie.
«Cosa?»
«Tu eri con lui a Parigi. Quando è morto. Eri tu.»
«Meglio non parlare di questo, tesoro.»
«Ma eri tu, vero?»
«Sì. Ma…»
«Solo una cosa.»
«Davvero, Sophie. È meglio evitare. Può soltanto…»
«Solo una domanda» insiste Sophie. «È una cosa che mi sta facendo
impazzire. Le foto che ho visto, erano tremende. Come mai erano così
brutte?»
«Le foto di Parigi?»
Sophie annuisce. «Sì. Le foto della Pentax.»
«Oddio, non sapevo che esistessero ancora. Barbara ha detto a tutti che
le aveva bruciate.»
«Sì, ma non i negativi. Quelli li ha tenuti. Però erano orribili. Non ho
potuto usarne nemmeno una.»
Diane le offre di nuovo la canna, ma questa volta Sophie rifiuta, perciò
la spegne sul marciapiede accanto a lei. «Non so perché. Sarà stato perché
eravamo strafatti.»
«Davvero?»
«Davvero. Anche le mie erano piuttosto brutte. In più, tuo padre stava
anche diventando matto con quella orrenda fotocamera. Perciò…»
«Era davvero così terribile?»
«Faceva abbastanza schifo. E nelle mani di Tony, era un incubo.»
«Ma quindi tu quelle foto non le hai mai viste?»
«La polizia prese i rullini quando lui morì. Erano delle prove. Credo che
li abbiano fatti sviluppare. Ma io non le ho mai viste. Trascorsi tre notti in
prigione, poi fui espulsa. C’erano per caso… ehm… delle foto in bianco e
nero?» Diane giocherella con una ciocca della parrucca. «Fatte con la
Rollei?»
Sophie scuote la testa. «Solo foto a colori mosse della Torre Eifell e
roba così. E perché ti misero in prigione?»
«Come ti ho detto. Meglio evitare certe cose.»
«Ma non era perché sospettavano…»
«Per droga» la interrompe Diane. «Avevamo della droga. Sembrava che
ai poliziotti la cosa non fosse piaciuta molto. Vai a capire.»
«Oddio» dice Sophie. «Quindi lui era troppo fatto per riuscire a scattare
foto decenti? È questa la ragione?»
«E in più, come ti ho detto, la fotocamera era abbastanza pietosa, la luce
faceva schifo (era grigia) e a essere sinceri, a parte qualche eccezione
fortunata, lui non era bravo quanto pensavano tutti.»
«Oh, andiamo. Non puoi dire così. Non di papà.»
«Io lo amavo, Sophie. Amavo tuo padre più di quanto non abbia mai
amato nessuno. Ma non era granché come fotografo. Il suo vero talento era
che riusciva a farsi aiutare da tutti. Barbara era altrettanto brava. Forse anche
di più.»
«Mia mamma? Non essere sciocca.»
Diane annuisce. «Faceva delle buone foto, Barbara. Compresa qualcuna
di cui tuo padre si è preso il merito. Era brava anche nella camera oscura.
Gliel’ho insegnato io. Non essere così sorpresa. Barbara può essere molte
cose, ma non è stupida.»
«In realtà io ho sempre pensato che in un certo senso lei gli avesse
tarpato le ali» dice Sophie. «Quindi questa cosa è un po’ strana.»
Diane ride di nuovo. «Tony non avrebbe combinato niente senza
Barbara» dice. «Era uno scatenato, tuo padre. Fuori controllo. Barbara era
l’unica persona che riusciva a tenerlo a freno. Be’, quasi a freno.»
Sophie corruga la fronte mentre cerca di metabolizzare questa visione
completamente nuova del rapporto tra i suoi genitori. «Lo pensi davvero?»
«Io lo so. Lo vestiva, gli dava da mangiare, puliva il suo vomito, ha
fatto alcune delle sue foto migliori, sviluppava le sue maledette pellicole
quando lui non ci riusciva…»
«Wow» dice Sophie, ancora un po’ incredula. «Non lo sapevo. In realtà
lei non parla molto di lui.»
«Ma tu glielo hai mai chiesto, almeno?»
«No» dice Sophie, riflettendoci sopra. «No, forse no.»
«Barbara è una santa. Davvero. Una cavolo di santa. Non so come abbia
fatto a sopportare tutto quanto. Lui con me era bravo, questo è certo, ma
come marito, be’, era uno schifo, in effetti.»
«Non dire così» dice Sophie. «Lui era tutto per me.»
«Era tutto anche per me» dice Diane. «Ma questo non cambia la verità.
Era un pessimo marito e un fotografo quasi pessimo, la maggior parte delle
volte. E senza il sostegno di Barbara, non avrebbe…» Lascia la frase in
sospeso e i suoi occhi si spostano per mettere a fuoco qualcosa dietro Sophie,
qualcosa che ha notato nascosto nell’ombra.
Quando anche Sophie si volta, Brett esce alla luce del lampione. Ha
un’aria strana, un’espressione impassibile e indecifrabile. «Brett?» dice
Sophie.
«Allora, questo è il tuo ragazzo, eh?» le chiede Diane.
«Sì. Ehm, da quanto tempo eri lì, Brett?»
Brett solleva le spalle. «Non da molto» dice. Indica la galleria. «C’è,
ehm, c’è l’ambulanza. Sono arrivati dalla stradina laterale. Dovresti andare.»
«Sì, giusto» dice Sophie. «Mi puoi lasciare il tuo numero, Diane? Mi
piacerebbe tanto parlare ancora un po’ di queste cose.»
«Certo» dice Diane. «Sarei felice di passare altro tempo con te,
Sophie.»
«Tu vai, tesoro» le dice Brett. «Tua madre ti sta aspettando. Prendo io il
recapito di Diane per te.»

Dopo che Barbara ha mandato via i paramedici in modo brutale,


Jonathan la porta, nonostante lei continui a protestare, a casa sua nel Surrey.
Sentendosi un po’ abbandonata, Sophie va alla ricerca di Brett. Avrebbe
voglia di un abbraccio e di essere rassicurata.
Sono le dieci passate e molta gente ha iniziato ad andare via. Anche
Brett sembra sparito.
Chiacchiera brevemente con Sarah Stone, che la informa di aver
venduto quindici libri e nove stampe, anche se solo tre delle sue. Poi saluta
Phil, e vista la sua età e le condizioni di salute in cui si trova, si emoziona un
po’ al pensiero che sia un addio. A quel punto, accorgendosi che le persone
rimaste in sala sono prese dalle loro conversazioni private, torna fuori nella
speranza di riuscire a farsi offrire una sigaretta. È abbastanza scossa. Forse
fare un’eccezione per una volta potrebbe aiutarla a calmare i nervi.
Fuori fa piuttosto freddo adesso (si è alzato il vento) e c’è solo una
persona a fumare, una delle cameriere.
Quando Sophie le si avvicina, lei ha l’aria preoccuppata. «Hanno
bisogno dentro?» le chiede.
Sophie ride. «No» dice. «Mi stavo solo chiedendo se posso scroccarti
una siga.»
La ragazza sembra confusa, poi, passato qualche secondo, capisce. «Oh,
tu vuoi sigaretta?» dice. «Mi dispiace. È ultima. Tieni.» Le offre quella che
sta fumando, e Sophie la rifiuta con educazione.
«Non importa, in teoria avrei anche smesso» dice. «È solo che… è stata
una serata ricca di emozioni.»
«Per tuo padre morto» dice la ragazza, con una totale mancanza di tatto
che solo il vocabolario limitato può giustificare.
«Esatto. E anche per tutti i suoi amici anziani. Più quelli che non sono
potuti venire perché, insomma, sono morti anche loro. È un po’ tanto, tutto
insieme.»
«Sì» dice la ragazza. «Io capisco questo. Mia madre. Anche lei muore.»
Sophie inspira a fondo l’aria della sera e poi ha un brivido. «Torno
dentro» dice. «Fa troppo freddo per me qui fuori.»
«Vengo anch’io» dice la ragazza, spegnendo la sigaretta sul muro.
«Altrimenti agenzia, loro fanno problemi.» A Sophie piace il suo modo di
arrotolare la r ed è sul punto di chiederle da dove viene, quando nota due
sagome in lontananza. «Sai una cosa, tu entra» dice alla ragazza. «Io vado a
vedere chi c’è lì.»
Preoccupata che una delle persone nell’ombra possa essere Diane,
troppo fatta per rendersi conto di quanto faccia freddo, Sophie attraversa il
piazzale. Ma quando raggiunge le due sagome, si rende conto che in realtà si
tratta di Brett e Malcolm.
«Davvero!» sta dicendo Brett. «È fantastico.»
«Sì» risponde Malcolm. «Quella fu scattata con uno zoom molto
potente, mentre Tony, ovviamente, stava ancora usando la sua vecchia
biottica.» A quel punto vede Sophie e fa una smorfia buffa, imbarazzata.
«Ciao Soph» dice. «Stavo raccontando al tuo ragazzo tutti i segreti di
famiglia.»
«Ah, sì, eh?» risponde Sophie, con un tono da mamma. «Queste cose
non si fanno, Malcolm.»
«Be’, ma ormai Brett fa parte della famiglia, no?»
«Certo che sì» dice Brett, ridacchiando.
«Comunque, sarà meglio che vada» dice, notando nello sguardo di
Sophie un reale rimprovero. «Dovevo andare a casa un’ora fa. Il tuo ragazzo
mi ha tenuto qui a chiacchierare così tanto, che sono mezzo congelato.»
Sophie saluta di nuovo, e di nuovo, nonostante la promessa di rivedersi,
è un momento toccante. È quasi come se ogni volta stesse ridicendo addio a
suo padre.
Mentre rientrano nella galleria, chiede a Brett: «Cosa ti ha detto di
preciso Malcolm?».
«Oh, non molto» risponde lui. «Le solite vecchie cose. Che Phil ha fatto
la foto della nave. Che Diane ha fatto quella del festival. Lo sai, tesoro.»
«Non pensarci nemmeno a usare anche solo una di queste
informazioni» dice Sophie.
Brett ridacchia di nuovo. «Ehi» dice. «Come ha detto quel tizio. Ormai
faccio parte della famiglia.»
Rientrando nella sala, incrociano altri visitatori che stanno andando via,
perciò Sophie si ferma a salutare anche loro. Mentre la serata giunge al
termine, si sente ancora più triste; quasi sopraffatta dalla tristezza.
Dentro sono rimaste solo tre persone. «Quanto tempo ti devi fermare
ancora, tesoro?» le chiede Brett.
«Devo fare due chiacchiere con quel tizio» dice, facendo un cenno con
la testa all’uomo che ha acquistato la stampa, di cui si è già dimenticata il
nome. «Ma poi me ne vado. Sono a pezzi.»
«Vuoi che ti aspetti? Così prendiamo un taxi insieme?»
Sophie scuote la testa. «In realtà» dice «ti dispiacerebbe molto se
andassi da Jon?»
«Sei ancora preoccupata per tua madre, eh?»
Sophie scrolla le spalle. «Un po’. Ma più che altro è che, be’… Sento
che dovremmo stare tutti insieme stasera. Come una famiglia. Non solo per
lei, ma anche per me. Non so se sono riuscita a spiegarmi.»
Brett annuisce. «Certo. Come ti pare. Vuoi che venga anch’io?»
«No, credo di no.»
«Come farai ad arrivare fin là, tesoro?»
«Prenderò un taxi. Sono troppo stanca per pensare a un’altra soluzione.»
«Ti costerà un occhio della testa arrivare nel Surrey.»
«Anche per preoccuparmi di questo sono troppo stanca.»
«Afferrato» dice Brett. «Come vuoi tu.»
«Però sei sicuro che non ti dispiace?»
«No, a dire il vero, è meglio anche per me. Ho ancora del lavoro da fare
per il paginone del Sunday.»
«Pensavo che fosse già bell’e fatto» dice Sophie.
«Oh, più o meno. Ma stasera mi è venuta qualche idea» dice Brett.
«Niente di che. Solo dei piccoli dettagli. Sai come vanno queste cose.»
2013 — GUILFORD, SURREY

Quando Sophie arriva a Guilford, dormono tutti. Vedendo la casa al


buio dal taxi, prende quasi in considerazione l’ipotesi di tornare a Londra e
andare da Brett invece di svegliarli. Ma è anche vero che li ha avvisati con un
messaggio per dire che stava arrivando. Immagina che Judy avrà borbottato a
quell’annuncio, che avrà rotto le scatole a Jon per farlo andare a letto
comunque. Sì, non è colpa sua se Jonathan è diventato uno che a mezzanotte
sta già dormendo.
Paga il tassista e tira dei sassolini alla finestra finché Jonathan, con gli
occhi mezzi chiusi, compare sulla porta. Sostiene che non hanno visto il
messaggio. Ma anche che per loro non è un problema. L’importante è che
non svegli Dylan, per nessun motivo.
Le dà delle lenzuola e una coperta (Barbara è nella camera di Dylan) e
poi, prima di tornare a letto, la bacia sulla fronte come se fosse ancora una
bambina di cinque anni.
Sophie si sdraia a fissare il soffitto del soggiorno e pensa che vorrebbe
essere andata da Brett. Cerca di metabolizzare le rivelazioni di quella serata.
Che suo padre ha avuto un’amante durante tutto il corso della sua vita. Che
lui era un tipo “scatenato”. Che se la spassava. Che forse (perché a questo
non riesce proprio a credere) non era un granché come fotografo. Che sua
madre, con cui lei ce l’ha avuta per tanto tempo, a quanto pare era la roccia a
cui lui si aggrappava.
Come un identikit, da cui si cerca di risalire a un volto, questa sera ha
difficoltà a inquadrare suo padre. Le risulta complicato farsi un’opinione
netta riguardo a chi era davvero. Ed essendo gran parte della sua identità, sia
personale che professionale, legata a quella di lui, ha la preoccupante
sensazione di non sapere nemmeno chi è lei. Si chiede se i dubbi riguardanti
la carriera di suo padre rendano il successo limitato ottenuto da lei un
traguardo maggiore o minore. Forse rendono la natura limitata del suo
successo semplicemente più normale, meno inaspettata? Quindi cos’è lei,
solo una fotografa mediocre di una stirpe mediocre?
Il fatto che sia stato infedele a sua madre con Diane, che lei a volte ha
desiderato fosse sua madre, fa di lui un padre migliore o peggiore?
E poi, cosa deve fare con tutte queste nuove informazioni? C’è almeno
qualcuno con cui può parlarne? Con Jonathan, magari? Con sua madre? Con
Brett?
E c’è anche quell’altra strana sensazione che aleggia dentro di lei, la
sensazione che le sia sfuggito qualcosa, la sensazione di aver sentito e
registrato un’informazione cruciale, e allo stesso tempo di non sapere a che
proposito, né come cercarla.

Viene svegliata da un rumore e si gira sul fianco, quando vede un


leggero bagliore che proviene dalla cucina. Si butta il lenzuolo addosso come
se fosse un mantello e cammina sulla moquette spessa e soffice.
«Mamma» dice piano, dalla porta.
Barbara, che stava guardando dentro al frigorifero, fa un salto. «Oh!»
dice. «Oddio, non sapevo nemmeno che fossi qui.»
«Non volevo stare a casa da sola» dice Sophie. «Non dopo tutto
quello…»
Barbara annuisce con aria pensierosa. «Sì. Capisco cosa intendi. Dylan
mi ha svegliata.»
«È sveglio?»
«No. Ha fatto solo qualche versetto, ma è bastato.»
«Come mai sei in camera con lui?»
Barbara scrolla le spalle. «La mente di Judy si muove in modo
misterioso, per compiere i suoi prodigi.» Agita il cartone di latte verso la
figlia. «Vuoi?»
Sophie sorride. È da quando se n’è andata da casa che non beve un
bicchiere di latte. «Okay» dice.
Si siedono sugli sgabelli al tavolo pieghevole della cucina, una davanti
all’altra. Sorseggiano il latte alla luce fioca della cappa. È piacevole. Intimo.
«Allora, sei stata contenta?» le chiede Barbara.
Sophie annuisce. «Immagino di sì» dice.
«Non sembri troppo convinta.»
«Se devo essere sincera, non mi aspettavo che mi suscitasse così tante
emozioni, mamma. Non avevo considerato quell’aspetto, e non ero
abbastanza preparata.»
«La cosa peggiore per me è stata vedere i suoi vecchi amici» ammette
Barbara.
«Phil e Malcolm? E Janet? Tutti loro?»
«Janet no. Sì, era la moglie di Dave, ma mi è sempre piaciuta. Ho
sempre avuto la sensazione che fosse anche mia amica. Ma gli altri… Non li
ho mai più visti dopo il funerale. Perciò quella è stata una cosa un po’
difficile. In realtà, è stata molto dura.»
«Come mai tu non li hai più cercati?»
Barbara scrolla le spalle. «Erano gli amici di tuo padre, non i miei.
Volevano la compagnia del grande artista pazzo, non della moglie casalinga
del grande artista pazzo.»
Sophie annuisce. Anche se adesso si rende conto di quanto sia crudele,
lo capisce. Per la maggior parte della sua infanzia, l’aveva pensata più o
meno allo stesso modo.
«Mi è giunta voce che tu te la cavavi bene con la macchina fotografica»
dice Sophie. «E anche nella camera oscura. Non mi sembra di averlo mai
saputo.»
«Oh, in realtà era solo così, per gioco. Chi te lo ha detto?»
«In effetti, è stata Diane.»
«Davvero» dice Barbara, con un tono fintamente disinteressato. «E,
ehm, ti ha detto qualcos’altro?»
«No, niente di che» mente Sophie, senza sapere di preciso perché.
Barbara annuisce e sorseggia il latte.
«Lei non ti piace molto, vero?» le chiede Sophie.
Barbara scrolla le spalle. «Non ha niente che non vada, suppongo. Se ti
piace il genere artistoide.»
«Non ci sono altre ragioni per cui non ti piace? Non c’è stata qualche
brutta litigata?»
Barbara aggrotta le sopracciglia. «Niente affatto. Comunque, litigata di
che tipo?»
«Non lo so. È solo una sensazione.»
«No, non siamo mai state molto legate. E lei si trasferì in America anni
fa. Perciò ci perdemmo completamente di vista. Non sapevo neanche che
fosse ancora viva.»
«No» dice Sophie. «Certo.»
«A ogni modo, mi sa che adesso proverò a dormire un altro po’» dice
Barbara, alzandosi. «Presumo che Dylan ci sveglierà tutti presto. A domani
mattina.»
«Okay.»
«Oh, e complimenti per l’esposizione. Non ti ho detto niente, ma penso
che sia stata davvero molto bella. E penso che le tue foto fossero le migliori
di tutte. Di gran lunga.»
«Grazie, mamma.»
«Notte.»

La mattina seguente si sente solo: Dylan questo e Dylan quello.


Nessuno fa il minimo accenno all’esposizione. È come se non ci fosse mai
stata e, dopo aver permesso a Sophie di stringere in un brevissimo abbraccio
il suo nuovo nipote, Jon e Judy scappano per andare a un appuntamento con il
pediatra.
Al termine di una silenziosa colazione, Sophie e sua madre vanno
insieme in stazione. Salgono sullo stesso treno, poi, a Clapham Junction,
Barbara scende per prendere quello diretto a Eastbourne.
L’atmosfera durante il viaggio è tesa, come se l’incapacità di discutere
dell’elefante nella stanza stesse rubando l’ossigeno a qualunque altro
possibile argomento, perciò quando le loro strade finalmente si separano,
Sophie si sente sollevata.
Deve passare alla galleria entro l’ora di pranzo, ma visto che deve
cambiarsi, va prima a casa.
Nell’infilare la chiave nella serratura, viene assalita da un senso di
inquietudine. Si ferma ad annusare l’aria come un animale selvatico, mentre
cerca di capire a cosa sia dovuta quella strana vibrazione che avverte.
Per un attimo si chiede se in sua assenza non sia stata derubata, osserva
la porta per controllare che non ci siano segni di effrazione, poi, dicendo a se
stessa che dev’essere colpa della tensione accumulata, entra in casa.
Ed eccola di nuovo, quella strana sensazione. Rimane sull’uscio a
ispezionare la stanza. Sembra tutto in ordine. Tutto normale. Si richiude la
porta alle spalle.
Si prepara una tazza di tè e la sorseggia mentre guarda fuori dalla
finestra, lanciando di tanto in tanto un’occhiata dietro di sé, per precauzione.
La sensazione che qualcosa non vada, come se l’aria nella stanza fosse della
forma sbagliata, rimane.
Dopo che ha finito di bere il tè va in bagno a farsi una doccia, senza mai
smettere di sbirciare tra le bolle di sapone per controllare che non ci sia un
aggressore nascosto. Il getto potente del soffione lava via quella sensazione, e
quando mette piede sul tappetino si è quasi dimenticata di quel senso di
malessere.
Sfrega lo specchio annebbiato dal vapore e si fissa. Sembra più vecchia
stamattina. Certo, come la maggior parte delle donne, spesso pensa di
sembrare più vecchia di quanto dovrebbe. Quando ci si misura con tutte
quelle bellezze ritoccate in Photoshop sui cartelloni pubblicitari, è
impossibile sentirsi in qualunque altro modo. Ma oggi sembra davvero più
vecchia. È come se fosse passata da una all’altra di quelle caselle che ci sono
sui moduli. Non più 25-44. Adesso forse è 44-60.
«Niente che un po’ di trucco non possa risolvere» mormora, cercando di
imporsi un atteggiamento positivo.
Prende lo spazzolino dalla tazza e ci mette il dentifricio. Lo avvicina
alle labbra. E poi si blocca di colpo. Perché c’è davvero qualcosa che non va.
La tazza è vuota, ecco cos’è.
La tazza è vuota. E la tazza, che di solito contiene due spazzolini e un
rasoio, non dovrebbe essere vuota.
Apre l’armadietto del bagno. Mancano anche la schiuma da barba e il
dopobarba di Brett.
Si gira e riapre piano la porta del bagno, poi osserva di nuovo il
soggiorno, e questa volta si accorge di cosa ci sia che non va, questa volta
capisce perché lo spazio nella stanza è distorto. Il libro di psicologia di Brett
non c’è. Il suo maglione è sparito. E manca la scatoletta dell’erba.
Ha un tuffo al cuore. Cammina, nuda, fino alla camera da letto, e guarda
nell’armadio. La parte di Brett è vuota.
A quel punto, non riuscendo quasi a respirare, tenta di ricordarsi la loro
conversazione della sera precedente, la ripercorre nella mente parola per
parola, in cerca di qualunque minuscolo segnale di conflitto. «È assurdo»
mormora.
Torna in soggiorno e, come un esperto di polizia sulla scena del delitto,
lo ispeziona. È troppo ordinato. Troppo vuoto. E lì, nello svuotatasche, c’è il
mazzo di chiavi di Brett. E sulla tastiera, un Post-it.
Va al computer. Sul Post-it c’è scritto semplicemente SOPHIE. È piegato
in due.
Sospira a fondo, si guarda di nuovo intorno, poi scuote la testa e spiega
il pezzetto di carta.
2013 — POWYS, GALLES

Sophie guarda la campagna ondulata attraverso il parabrezza


immacolato. Osserva il cielo azzurro pallido, le curve verdi delle colline,
osserva quel giorno, in qualche modo familiare, eppure del tutto sconosciuto,
che rimarrà sulla lavagnetta di sughero della sua vita per sempre. Sembra
cinematografico, epico, addirittura. Certi giorni sono così, e si percepisce dal
momento in cui ci si sveglia, che non saranno come tutti gli altri.
Va a una velocità normale, né troppo forte né troppo piano. Non
aggiungerà una tragedia a questa sceneggiatura. Controlla lo specchietto
retrovisore, mette la freccia e supera il tir. Nota le centinaia di musi infelici
che sbucano dalle fessure delle casse, ma cerca di non pensarci; cerca di non
pensare al terrore delle centinaia di animali imprigionati mentre vengono
spediti al macello. Ma quel pensiero si manifesta comunque: Come si fa, solo
perché non riusciamo a capire le loro grida, a considerarlo accettabile?
Forse dovrebbe diventare vegetariana. Judy ne sarebbe contenta.
«Adesso ti senti più a tuo agio con la macchina?» le chiede Barbara,
seduta sul sedile del passeggero, interrompendo le sue riflessioni.
Terminata con successo la manovra, Sophie rientra e toglie la freccia.
«Sì. Nessun problema. In realtà è stata solo la prima mezz’ora» dice. «Passata
quella, è come qualunque altra macchina.»
«Bene» dice Barbara, ricordandosi di Tony e della Sierra molti anni
prima.
Superano un cartello stradale con scritto Llanwrtyd e Sophie lo indica,
poi dice: «Non è lì che sono nata?».
«Non proprio» risponde Barbara. «Tu sei nata a Llanelwedd. I paesi
iniziano tutti con Llan nel Galles. Ma, probabilmente, non è lontano.»
«Magari potremmo cercare quel cottage in cui siete stati. Potrebbe
essere divertente.»
«Sì» dice Barbara. «Immagino che potremmo, se ci interessasse.»
«È strano, in effetti. Insomma, io non sono mai più stata qui da quando
sono nata. Nemmeno una volta.»
«Oh, non lo so» dice Barbara. «Io non ho mai avuto una gran passione
per il Galles. Noi pensavamo che essere mandati in Galles fosse una specie di
punizione. Era un po’ un giochino che si faceva nella mia famiglia.»
«Tu minacciavi noi con il Galles quando eravamo piccoli.»
«Non credo di averlo fatto» dice Barbara.
«Sì, invece.»
«Sarà stato solo per scherzare. Era per via dell’evacuazione dei bambini
durante il Blitz. Noi non volevamo che ci mandassero via, e tua nonna ci
disse che potevamo restare a Londra, a patto che non facessimo drammi.
Perciò, ogni volta che piangevamo o che ci comportavamo male, lei ci
diceva: “Smettila subito, o andrai dritta dritta nel Galles, ragazzina”.»
«Non mi hai mai parlato del Blitz» dice Sophie.
«Non c’è molto da dire. Cadevano le bombe. La gente moriva. Molta
gente è morta. Ma noi siamo sopravvissuti.»
«Devi avere molte storie eccezionali da raccontare. Le cose che hai
visto, i raid aerei e tutto il resto.»
«Ho passato la maggior parte della mia vita a cercare di
dimenticarmelo.»
La voce femminile del navigatore le interrompe. «Al prossimo bivio,
proseguire dritto sulla A483.»
Terminata l’intromissione, Sophie lancia un’occhiata a Barbara.
«Suppongo sia comprensibile» dice. «E come ti senti a tornare in Galles?
Non la vivi come una punizione, vero?»
«No, è bellissimo» dice Barbara. «E almeno non sta piovendo. Tutti i
miei ricordi di questo posto sono di pioggia mista a vento.»
«Sì, con il tempo siamo state fortunate.»
«Però non sono ancora convinta che sia realmente necessario. Scappare
in questo modo.»
Sophie solleva un sopracciglio. «È solo per pochi giorni, mamma. Solo
finché non si saranno calmate le acque.»
«Sì, ma comunque…»
«C’erano tre giornalisti fuori dal mio appartamento stamattina alle
sette» dice. «Tre. A quest’ora avrebbero rintracciato anche te. Se tu vuoi
parlare con il Sun, possiamo sempre tornare indietro.»
«Non essere sciocca. Lo sai che non voglio.» Barbara rovista nel vano
portaoggetti, poi offre a Sophie una caramella al limone.
«No, grazie» dice Sophie. «La magnesia effervescente mi fa tossire.
L’ultima volta che ne ho mangiata una pensavo di morire. Ho quasi distrutto
la macchina.»
«Cosa c’era scritto davvero su quel biglietto?» le chiede Barbara. Il
giallo delle caramelle le ha fatto venire in mente il Post-it.
«Te l’ho già detto.»
«Ma non è possibile che ci fosse scritto solo quello. Non puoi stare con
qualcuno così tanto tempo e poi dire soltanto mi dispiace.»
«Te l’ho detto, mamma» ripete Sophie, con un tono un po’ esasperato.
«Diceva Mi dispiace, Sophie. Questo darà una svolta alla mia carriera.
Perdonami.»
«E nient’altro?»
«Era un cacchio di Post-it, mamma. Non c’era spazio per niente altro.»
«Non c’è bisogno di dire parolacce, tesoro.»
«Be’…»
Barbara arriccia le labbra. «È tutto molto… Non lo so…»
«Squallido?»
«Sì. È un modo molto brutto di comportarsi. Ma io ti avevo detto di non
fidarti di un giornalista. Ti avevo avvertito.»
«Sì, grazie. Stavo aspettando che lo dicessi.»
«Be’, è la verità.»
«Sì, mamma. Lo hai fatto» dice Sophie, seccata. «E quindi?»
Dopo qualche secondo, Barbara le chiede, con dolcezza: «Sei triste? Per
Brett?».
«Sono furiosa. Lo sai benissimo.»
«Certo. Ma intendevo più a livello sentimentale. Per averlo perso.»
Sophie ci riflette su un attimo prima di rispondere. «A dirti la verità,
non lo so. Continuo ad aspettare che arrivi la botta. Forse sono troppo
arrabbiata per essere triste.»
«Magari arriverà in un secondo tempo.»
«Può essere. Ma può anche essere che, forse, non lo amassi davvero
come pensavo» dice Sophie.
«Questo sarebbe un peccato.»
«Non ne sono sicura» dice Sophie. «Lo sarebbe?»
Restano in silenzio per una decina di minuti, entrambe perse nei
rispettivi drammi e nel panorama, poi Barbara le chiede: «Secondo te
riusciremo a trovarne una copia? In Galles, intendo».
«Del Sunday Times?»
«Sì.»
«Oh, mi verrebbe da pensare di sì. A quanto dicono, hanno anche
l’elettricità. E i telefoni!»
«Non c’è bisogno di essere sarcastica.»
«Stavo solo scherzando, mamma. Comunque sì. Hanno il Sunday Times
in Galles. Ma io non sono sicura di volerlo leggere.»
«Neanch’io» dice Barbara. «Però credo che forse dovrei leggerlo. Prima
di tornare, se non altro.»
«Ho la sensazione che sia piuttosto pesante» la avverte Sophie.
«Se c’è scritto solo che alcune foto non erano sue, allora…»
«Per come sono fatti i giornalisti» la interrompe Sophie «dubito molto
che si parli solo di quello.»
«Secondo te cos’altro potrebbe esserci scritto?»
Sophie sospira. «Non lo so, mamma. Dimmelo tu.»
Barbara si volta di nuovo verso il finestrino. «Oddio, il Galles è così
verde» dice. «Dev’essere perché piove tanto.»

Barbara prepara due tazze di tè nella minuscola cucina, poi va nel


soggiorno del cottage preso in affitto. Appoggia le tazze sul tavolino e si
siede sul divano accanto a Sophie. «Allora, cominciamo» dice. «Tanto vale
farlo subito.»
Sophie fissa la copia piegata del giornale davanti a lei, il Sunday Times.
«Sei sicura?» le chiede.
Barbara annuisce. «Sì» dice. «Vai.»
Sophie strappa il cellophane, poi tira fuori l’inserto culturale. Lo gira e
inspira in modo brusco. Lì, sulla copertina, c’è “l’autoritratto” di suo padre
fatto da Barbara. «Oddio!» esclama.
IL PIÙ GRANDE FOTOGRAFO BRITANNICO? c’è scritto nella didascalia. O UN
IMPOSTORE, UBRIACONE E DONNAIOLO?
«Oh» commenta semplicemente Barbara.
Quando Sophie gira la pagina, Barbara mette una mano sulle sue.
«Ripensandoci, forse è meglio che tu non lo legga.»
«Io lo so, mamma.»
«Lo sai?»
Sophie annuisce. «Lo so. Di Diane e papà.»
«Oh. Non me n’ero resa conto» dice Barbara.
«Me l’ha detto lei.»
«D’accordo, allora. Forza. Vediamo quanto è grave la situazione.»

Dopo che hanno letto senza interruzioni le quattro pagine, Sophie dice:
«Non riesco a credere che Brett mi abbia lasciato per questo. Che verme!».
«Almeno è stato gentile nei riguardi del tuo lavoro» dice Barbara.
«Almeno ha detto che sei tu ad avere un vero talento.»
«Chi se ne importa?» dice Sophie. «Mi ha comunque lasciato per un
paginone sul Sunday Times.»
«Gli uomini fanno questo genere di cose» dice Barbara. «Almeno ti ha
lasciato per un motivo. Almeno non l’ha fatto solo per un capriccio.»
«Perché, questo non è solo un capriccio?»
Barbara scrolla le spalle. «Be’, se lo è, è un capriccio parecchio
crudele.»
«C’è scritto che anche la foto della manifestazione sull’aborto l’hai fatta
tu. È vero?»
Barbara annuisce. «Sì. Dev’essere stato Phil a dirglielo. Era l’unico a
saperlo.»
«E le altre?»
«Oh, le altre erano sue. Non preoccuparti.»
«Tutte?»
«Be’, tranne quelle che ti ho già detto.»
«Dunque, solo quattro su trenta non erano sue, giusto?»
«Sì. Esatto.»
«E qui dice che la foto ai postini è stata inscenata?»
«Sì. Quella fu un’idea mia. Ma fu tuo padre a farla. Comunque, non c’è
niente di male nell’allestire uno scatto. Tu lo sai questo. Lo sciopero era
assolutamente reale.»
«Immagino di sì. E l’estate del sessantasette. Me la ricordo, eravamo in
vacanza. Anche in quel caso fosti tu a dirgli di farla, non è vero?»
«A volte avevo delle buone idee. Tutto qui.»
Sophie sorseggia il tè. «Certo. Ma perché lasciare che fosse papà a
prendersi tutto il merito?» le chiede. «È questo che non riesco a capire.»
Barbara allunga la mano per chiudere l’inserto. «Scusa, ma non ce la
faccio più a guardarlo» dice. «E per rispondere alla tua domanda, credo di
non essermi mai sentita in competizione con lui. Non è mai stata quella la
mia idea di matrimonio. Non venivamo cresciute per pensarla così.»
«Cioè, intendi dire che le ragazze venivano cresciute per essere dei
tappetini?»
«Questo è ingiusto, Sophie. Per me noi eravamo una squadra, solo
questo.»
«Ma che mi dici di Diane? Tu sapevi.»
«Sì. Certo. Cercavo di non pensarci. Ero molto brava a non pensarci.
Ma dentro di me, sì. Certo che lo sapevo.»
«Sapevi che era a Parigi con lui?»
«Sophie, dobbiamo proprio?»
Sophie scuote la testa con aria triste. «Sto solo cercando di capire,
mamma.»
Barbara annuisce e si lecca le labbra. «Va bene. Quello no. Di Parigi
l’ho saputo dopo» dice, a bassa voce. «Ricordati che Diane doveva essere in
America. Finché non ho visto il referto del medico legale per me era lì che lei
si trovava.»
«Il referto del medico legale?»
«Fu Diane a identificare il corpo. Quindi sul referto c’era il suo nome.»
«Oh, mamma» dice Sophie. «È orribile. Non hai mai pensato di
lasciarlo?»
«Certo che ci ho pensato.»
«Ma?»
«Non lo so» dice Barbara. «Di nuovo, non è così che siamo state
cresciute. Ci è stato insegnato che dovevamo far funzionare le cose. A
prescindere da tutto.»
«Ma lui per vent’anni ha…»
«Lo so cos’ha fatto, grazie.»
«Scusa, mamma, ma, insomma… Avresti potuto fare altre cose.»
«Quali altre cose?»
«Non lo so. Avresti potuto avere una vita del tutto diversa. Non avevi
dei sogni?»
«Sogni…» Barbara si mette a ridere. «Una volta mia madre mi disse che
i sogni sono come le farfalle. Se li acchiappi, muoiono.»
«Oh, è un po’ deprimente.»
«Ma vero.»
Sophie ci pensa un attimo, poi dice: «Secondo me non è vero. I sogni si
possono avverare. A volte. Se ci credi a sufficienza. Se sei determinato a
sufficienza».
«Be’, sono contenta che la pensi così. E forse hai ragione. Perché è un
fatto generazionale.»
«Cosa?»
«Avere dei sogni. O almeno, pensare che siano possibili.»
Sophie arriccia il naso davanti a quel ragionamento, poi dice:
«Comunque, tu non volevi lasciarlo? Nemmeno dopo averlo saputo con
certezza?».
«No. Credo di aver pensato che in un certo senso avesse bisogno di lei.»
«Che avesse bisogno di lei?»
«Forse noi avevamo bisogno di lei. Tuo padre aveva bisogno di una
compagna di bevute e quella non avrei mai potuto essere io. C’era una vena
selvaggia in lui. Era quasi come una malattia. La pressione montava, e lui
doveva sfogarsi. Perciò, in un certo senso mi stava bene che perdesse il
controllo con lei e non con me. Teneva quel lato di lui fuori di casa. Lontano
dalla famiglia.»
«Io non avrei mai potuto accettarlo. L’avrei uccisa. O avrei ucciso lui.»
«In realtà io non mi sentivo in competizione con lei. O comunque non
dopo il matrimonio. Avevo vinto io quella battaglia. Diane fece di tutto per
arrivare a lui. Ma alla fine, era me che aveva sposato. Ed era da me che
tornava ogni sera.»
«Ma non ti faceva stare male? Dev’essere stato molto doloroso.»
«Sì. Ma non quanto lo è stato per lei.»
«Io l’avrei comunque uccisa» dice Sophie.
«Be’, se devo essere sincera, non posso dire di non averci pensato. Ma
era complicato, Sophie. Erano gli anni Sessanta e Settanta. La gente aveva
relazioni a tre, a quattro, viveva nelle comuni… Stava cambiando tutto. Tutti
mettevano in discussione qualunque cosa. E Diane era speciale anche per me.
Se non altro, lo è stata nei primi anni.»
«Eravate amiche, quindi?»
«Eravamo più che amiche. Lei era parte della famiglia.»
«Un membro della famiglia che va a letto con tuo marito?»
«Sì, be’… messa così, ovviamente…»
«E hai chiuso i ponti con lei… quando?»
«Parigi fu la goccia che fece traboccare il vaso. Io pensavo che lei
vivesse in America. Pensavo che ormai fosse finita. Perciò Parigi mi ferì.
Tony, insomma… il fatto che era con lei… che non era più tornato… che era
stata lei a vederlo per ultima. Quello mi fece più male di tutto.»
Sophie annuisce. «Io non riesco neanche a immaginarlo. Mi ha detto
che è stata sposata. Per un anno. Tu l’hai mai conosciuto quel tizio?»
«Diane? Sul serio? No, non ne sapevo niente. Una volta si era messa
con un ragazzo. O così diceva. Ma non sapevo che si fosse sposata.»
«Quindi immagino che non abbia mai avuto figli?»
Barbara distoglie lo sguardo. «Non saprei proprio» dice. «Ma ne
dubito.»
«Chissà perché.»
«Penso che lei fosse un po’ come te. Non le sono mai piaciuti molto i
bambini. Preferiva la sua carriera.»
«È comunque un po’ insolito per una donna della sua generazione, no?»
«Sei stata tu a parlare con lei, tesoro, non io» dice Barbara, con un tono
che sembra un po’ irritato.
«Be’, a me non ha citato nessuno. Mi è sembrata molto sola.»
«Si chiama karma, tesoro. Brutto karma.»
Sophie smette di accarezzare la spalla di sua madre, si china in avanti e
si porta le dita alle tempie.
«Lo so che è molto duro da mandare giù, tesoro. Ma non puoi biasimare
le persone» dice Barbara. «Fanno del loro meglio. E spesso con scarsi
risultati. Ma è comunque il meglio che riescono a fare.»
Sophie scuote la testa. «Diane ha detto che tu eri una santa.»
«Detto da una come lei, temo non abbia molto valore.»
Sophie chiude gli occhi e continua a sfregarsi la fronte, perciò Barbara
le chiede: «Ti senti bene?».
Lei scrolla le spalle. «Non ne sono sicura.» Il suo cellulare, che ha
vibrato per tutta la giornata, in quel momento vibra di nuovo, perciò lo
prende dal tavolino e dà un’occhiata, poi aggrotta le sopracciglia e picchietta
sullo schermo. «Ah!» dice.
«Altri giornalisti?» le chiede Barbara.
«Di quelli un’infinità. Ma no, questo era del White Cube. Dicono che la
galleria è impazzita. Hanno venduto tutte le stampe. Vogliono sapere se
posso portare altri lavori.»
«Sul serio?»
«È quello che c’è scritto.»
«Allora è proprio vero che qualunque pubblicità è una buona
pubblicità» dice Barbara.
«A quanto pare» risponde Sophie. Mette giù il telefono e sospira a
fondo. «Possiamo andare a cercare quel cottage nel pomeriggio? Vorrei tanto
vedere quel posto.»
«Quello dove sei nata? Non sono sicura di riuscire a ritrovarlo» dice
Barbara. «E comunque, perché ci vuoi andare? È solo una casetta umida nei
boschi.»
«Non lo so» risponde Sophie, pensierosa. «Mi sento strana. È difficile
da spiegare, mamma. Ma sono giorni che mi sento così, dall’esposizione, se
non addirittura da prima. È come se mancasse qualcosa. Come se una tessera
del puzzle fosse nel posto sbagliato.»
«Quale tessera? Io non vedo nessun puzzle.»
«No? Forse no. Non lo so» dice Sophie. «Forse sono io, ma è come se…
perché non lo hai lasciato? Perché ti facevi andare bene Diane? E poi, perché
lei è venuta anche all’esposizione? Insomma, con il vostro passato e il
resto… E come mai noi continuavamo comunque a frequentarla quando
eravamo piccoli, anche se tu sapevi che andava a letto con papà? Insomma, la
chiamavamo zia, ma tu sapevi. Eppure lei veniva lo stesso a casa. Mi sembra
che mi sfugga qualcosa. Ha senso quello che dico? Immagino che per te non
ce l’abbia.»
«Be’, all’inizio non lo sapevo.» Barbara scrolla le spalle. «A ogni modo,
io te l’ho spiegato come meglio potevo. È probabile che tu sia un po’ sotto
shock. Lo siamo tutti.»
«Non c’era sotto qualcos’altro? Qualche altro scheletro nell’armadio
che mi salterà addosso? Insomma, supponiamo che Brett rintracci tutti e
intervisti tutti eccetera eccetera. E probabilmente lo farà. Non è che tu sei la
sorella segreta di Diane o roba del genere? Questo è davvero tutto, giusto?»
Barbara giocherella con una scatola di fiammiferi sul tavolino,
spingendola con un dito come fosse una macchinina. Sente che Sophie è sul
punto di mettere insieme tutti i puntini. Pensa che se anche lei non dovesse
farlo, potrebbe farlo Brett. Gli basterebbe far ubriacare Diane. Far ubriacare
di più Diane. Quindi forse dovrebbe dirglielo. Anche se hanno giurato tutti
che non lo avrebbero mai detto a nessuno, forse è giunto il momento.
Tony, Minnie, Glenda… si sono portati tutti il segreto nella tomba.
Sono rimaste solo lei e Diane a poter raccontare la storia di come le loro vite
si sono intrecciate per sempre. E hanno giurato che non avrebbero mai dovuto
farlo.
«C’è qualcosa, non è vero?» dice Sophie.
Barbara sospira a fondo. C’è ancora tempo, può ancora confonderla.
Potrebbe dirle una minima parte della faccenda per sviarla. Per esempio
potrebbe dirle cosa contenevano davvero i rullini di Parigi. O potrebbe dirle
delle droghe. Entrambe le cose funzionerebbero.
Ma potrebbe anche dire a Sophie l’unica cosa che per lei avrebbe un
senso; l’unica cosa che la aiuterebbe a capire chi è. Perché anche se alla gente
al giorno d’oggi piace fare finta che tutto dipenda da come si crescono i figli,
Barbara sa che non è così. Lei si rende conto (se ne è sempre resa conto) di
quanto invece dipenda dai geni.
«Mamma?» la esorta Sophie.
«Be’, forse c’è un’altra cosa» dice Barbara.

FINE
POST SCRIPTUM
1969 — LLANELWEDD, GALLES

Barbara è seduta con una coperta avvolta intorno alle spalle. Osserva la
porta del cottage. Aspetta. Accanto a lei il fuoco sfavilla e scoppietta. Il legno
è bagnato. La stanza è umida. Sente la pioggia oltre la porta che cade, cade
sempre.
A parte un breve viaggio al capezzale di sua madre, non esce da quella
orribile casa da mesi. A parte sua madre, sua sorella, Tony e Jon, non parla
con nessuno da mesi. È sul punto di impazzire. Sente che la follia aleggia
intorno a lei, in attesa di prendere il sopravvento. Ma presto sarà finita. E
presto ne sarà valsa la pena.
Non ha mai desiderato così tanto qualcosa.
Pochi minuti dopo le cinque, la porta del cottage finalmente si apre, e
Barbara inspira di scatto, poi trattiene il respiro.
Tony resta immobile sull’uscio, una sagoma contro la luce fioca del
giorno alle sue spalle. Dietro di lui, l’acqua cade a scrosci dalla grondaia
otturata. Sembra che esiti a entrare.
«Tony?» dice Barbara. «Cos’è successo?»
«Non è successo niente» dice, poi aggiunge: «È una bambina».
Entra e chiude la porta con il piede, poi si avvicina e si accovaccia
accanto a lei.
Barbara si piega verso di lui e tira indietro la coperta in cui è infagottata.
Ha un sussulto. «Oddio, Tony, è bellissima!» dice, e di colpo le vengono le
lacrime agli occhi.
Tony annuisce e tira su col naso. «Lo so» dice, con la voce rotta.
Le passa la bambina e Barbara la prende tra le braccia, cominciando
subito a scoprirla.
«Sta bene, Barbara» le dice Tony, faticando a parlare per l’emozione del
momento.
«Lo so. Ma ho bisogno di vederla con i miei occhi» risponde Barbara,
liberandola dalla coperta e sollevandola per permettere alla sua vista
offuscata di esaminare ogni minuscolo dettaglio.
«Ci credi adesso?» dice Tony.
«Sì. È enorme in confronto a Jonathan» dice Barbara, asciugandosi gli
occhi con il dorso della mano.
La bambina fa una smorfia e inizia a piangere, perciò Barbara si alza e
attraversa la stanza per prendere un nuova coperta in cui avvolgerla. Non sa
perché ha bisogno di farlo, ha bisogno di sbarazzarsi di quell’altra coperta,
quella con cui è arrivata.
«Jonathan era prematuro» le ricorda Tony. «Sophie è nata giusta. Siamo
sempre d’accordo per Sophie?»
«Sì» dice Barbara. «Sì, penso di sì. Lei sta bene?» Fa un cenno con la
testa verso il secondo cottage.
«Diane? Sì, sta bene. È esausta ma sta bene.»
«Ed è sempre d’accordo? Non ha cambiato idea?»
Tony scuote la testa. «No» dice. «E tu?»
«Certo che no. Devi tornare da lei?» gli chiede Barbara. Sente
l’esigenza di stare da sola con la bambina.
«La levatrice è ancora qui» dice Tony. «Quindi per un po’ posso
restare.»
«E Jonathan?»
«Non sarà di ritorno per un bel po’. La signora Llewellyn ha detto che
lo avrebbe riportato al tramonto.»
«E tu sei sicuro che neanche lei lo sa?»
«Non lo sa nessuno, Barb. Nessuno tranne noi. E la levatrice,
ovviamente. Ma lei non dirà niente. È stata pagata per non dire niente.»
Barbara annuisce con dolcezza mentre dondola la bambina. «Credo che
dovrei mettermi a letto prima che arrivi Jonathan» dice.
«Sì» concorda Tony. «È una buona idea.»
«Tu faresti meglio ad andare. Dovresti assicurarti che lei stia bene.»
«D’accordo» dice Tony. «Se tu sei sicura di stare bene.»
«Perché non dovrei?» risponde Barbara. «È stato il parto più facile di
sempre.»
Quando la signora Llewellyn riporta a casa Jonathan, Barbara è a letto
senza trucco, e Sophie dorme accanto a lei.
«Vieni a conoscere la tua sorellina» gli dice, e Jonathan si avvicina. «È
molto rugosa» dice, sbirciando.
«I bambini appena nati sono molto rugosi.»
«Anch’io ero così?» chiede, disgustato.
«Sì» risponde Barbara. «Sì, tu eri esattamente così.»
Ed è vero. Hanno i tratti incredibilmente simili. Barbara fatica ad
allontanare quel paragone dalla sua mente. Perché la storia che hanno
inventato, ciò a cui lei ha finto di credere, la grande menzogna a cui tutti, per
ragioni diverse, hanno deciso di prendere parte, ovvero che il padre di quella
bambina è l’ex ragazzo di Diane, Richard, impone che lei non cerchi mai
delle somiglianze. Mai.
POST SCRIPTUM 1968 — LAMBETH,
LONDRA

Tony si sforza di aprire gli occhi. È come se, durante il sonno, sulle sue
palpebre fosse stata spalmata qualche porcheria appiccicosa. Se li sfrega con i
pugni, poi riprova ad aprirli. La desolazione della stanza a poco a poco
prende forma.
Muove la lingua nella bocca impastata e poi riesce a pronunciare il
nome di Diane, ma non riceve risposta.
Si guarda intorno, sempre con una certa fatica a mettere a fuoco, e gli
viene in mente perché si sente così male. Hanno fatto baldoria per due giorni.
I posacenere sono pieni e i mozziconi delle canne hanno fatto nuovi buchi
nella moquette. Il pavimento è cosparso di bottiglie di birra vuote. E i pochi
spazi rimasti sono occupati da piatti sporchi. Il suo maglione, un regalo di
Natale, è per terra davanti a lui. È macchiato di vomito.
Si gira sul fianco in cerca di Diane, pensando che forse stia dormendo
come un sasso. Anche il resto della stanza è pieno di schifezze: altri piatti,
sacchetti vuoti di patatine, dischi sprovvisiti di buste interne, buste interne
senza dischi, tre dosi di LSD avanzate e una canna spenta a metà.
Accanto a lui c’è la copertina di The Doors, e in quel momento si
ricorda che hanno ascoltato un lato di quell’album per quasi ventiquattro ore
di fila. Diane deve aver spento il giradischi. Quindi si è alzata ed è viva.
Qualche granello di cocaina è ancora sparso sulla copertina del disco e lui la
raccoglie con il dito, poi se la passa sulla gengiva. Fa una smorfia per il
sapore amaro, anestetizzante della droga. Stamattina gli farebbe comodo una
botta di energia. Gli farebbe comodo una botta di energia un po’ più forte di
questa. Ma è rimasto solo l’LSD, e quello non l’aiuterà a riprendersi. Non
l’aiuterà affatto.
Diane esce dal bagno. È nuda, a parte l’asciugamano avvolto intorno
alla vita. Ha i capelli bagnati. «Ciao, allora sei tornato nel mondo dei vivi»
dice. Sembra triste.
«Sì» dice Tony. «Però mi sento da schifo.»
«Anch’io.»
Si siede a gambe incrociate davanti a lui. Tony riesce a vedere sotto
all’asciugamano e immagina che, conoscendola, lo stia facendo apposta. Ma
è troppo devastato perché la cosa gli interessi; non ha ancora smaltito la
sbronza, ha male dappertutto e si sente l’influenza, quindi non gliene importa
assolutamente niente di quello che lei ha da offrire stamattina.
«C’è una cosa che ti devo dire» afferma Diane, mordendosi il labbro
inferiore in maniera vagamente dolce.
«Non adesso, Di» risponde Tony. «Di qualunque…»
«Sono incinta» annuncia.
Tony sbatte le palpebre in modo esagerato.
«È così. Sono incinta» ripete.
Tony fa una risata amara. «Mi stai prendendo per i fondelli» dice.
Diane prende un pacchetto di Chesterfield alla sua destra e tira fuori una
sigaretta con le labbra, poi la accende con il suo zippo. Mentre parla la
sigaretta traballa. «No, sono davvero incinta» dice.
Tony emette un lamento, fa una smorfia, e alla fine riesce a mettersi
seduto. «Ma non è possibile. Siamo stati attenti.»
«Mi sembra che una volta non lo siamo stati. Quando eravamo sballati.»
Tony la guarda dritto negli occhi, e anche se sa che è vero, anche se sa
perfino che non è stata solo una volta, dice: «Non credo. Non può essere
mio».
«Sì che lo è» dice Diane. «Non c’è stato nessun altro.»
Tony tira su col naso, si schiarisce la gola, e poi spinge via il maglione
macchiato. Sente la puzza fin da lì e gli sta facendo venire la nausea. «Sei
sicura?» le chiede.
Diane annuisce. «Al cento per cento.»
Tony scuote la testa. «Be’, è una cosa veramente da idioti.»
«Non dire così. Pensavo che avresti detto…»
«Cosa?» la interrompe Tony. «E-vvi-va? Che splendida giornata?»
«Non lo so. Pensavo che saresti stato contento.»
«Contento?» dice Tony, che adesso fatica a contenere la rabbia.
«Contento?»
«Ma è il nostro bambino, Tony» dice Diane. «È…»
Tony si alza. Si mette a cercare la seconda scarpa che non trova.
«Non te ne starai andando?»
«Certo che me ne sto andando. Devo lavorare.»
«Ma ti ho appena detto una cosa molto importante. Non puoi andartene,
tesoro. Ti ho appena detto che sono incinta.»
«Non… non mi parlare, Diane» dice Tony. Si ferma e si volta a
guardarla. È tutto rosso. Sembra arrabbiato. Sembra davvero arrabbiato.
«Insomma, c…. come?» sbotta. «Come diavolo hai potuto anche solo pensare
di farlo, Diane? Come?»
A Diane iniziano a venire gli occhi lucidi. «Non dire così, Tony. Non è
una cosa che ho fatto da sola. E noi staremmo bene insieme. Noi stiamo bene
insieme, tu e io. Lo sai che è così.»
Tony fa un gesto per indicare la stanza. «Guardati intorno» sbraita.
«Guarda che cavolo di casino che c’è. Questo è ciò che tu e io saremmo
insieme. Questo è ciò che siamo insieme. E tuo vuoi portare un bambino in
mezzo a questo? Non ti piacciono neanche i bambini. Cristo Santo!» Si
picchietta la tempia. «Tu sei fuori di testa, bella.»
«Ma tu non ami Barbara» dice Diane, alzandosi e lasciando cadere
l’asciugamano sul pavimento. «Non l’hai mai amata. Non fino in fondo. È me
che ami. L’hai detto tu. Lo hai detto a me. Per questo pensavo che magari…»
Tony si inginocchia per guardare sotto il divano. «Dov’è la mia
scarpa?» le chiede. «Dov’è? E Barbara, per tua informazione, è l’unica idea
decente che io abbia mai avuto.»
Saltella in bagno per cercare la scarpa, e all’improvviso si rende conto
che deve assolutamente fare la pipì. Fatto questo, torna in soggiorno e allunga
una mano verso Diane. «Dammela» dice. «Lo so che ce l’hai tu.»
Diane, che è seduta a gambe incrociate su una poltrona, scuote la testa.
Ha un’espressione fredda, lucida. «Non finché non mi dici che la lascerai.»
«Cosa?» dice Tony, incredulo. «Cosa? Oh, hai nascosto la mia scarpa.
Hai vinto tu! Divorziare da mia moglie? Hai davvero perso il lume della
ragione, vero?»
«Non puoi aspettarti che lo tenga da sola» sbraita Diane.
«Io non mi aspetto che tu lo tenga affatto.»
«Non posso abortire.»
«Ehm, in realtà, puoi. E se non mi dai la mia scarpa, giuro che…»
«Sono cattolica» dice Diane. «E tu lo sai.»
«Sei cosa?»
«Sono cattolica. Non posso abortire.»
Tony resta a bocca aperta per un attimo. «Tu? Cattolica?» dice. «Questa
mi giunge nuova. E sarà una novità anche per quel cavolo di Papa. Cattolica?
Ma finiscila!»
Diane si mette a piangere. Le lacrime si formano e scivolano sulle
guance, e lei non le asciuga, né si volta per nasconderle. Vuole che Tony le
veda. Vuole che condivida il suo dolore. Vuole che cambi idea.
«Non…» dice Tony. «Smettila di piangere, Diane. Smettila di piangere,
accidenti. Lo sai che non lo sopporto quando piangi.»
Ma la sua voce è più dolce, e questo la incoraggia. Piange ancora più
liberamente. E quando le lacrime raggiungono il culmine, aggiunge anche
qualche singhiozzo per aumentare l’effetto. Ben presto, Tony rinuncia a
cercare la scarpa, che lei sa, perché ce l’ha messa lei, che è sotto il cuscino.
Ben presto, si inginocchia accanto a lei, con la fronte appoggiata sulla sua, le
braccia intorno alle sue spalle.
Più tardi, quando Diane ha esaurito tutte le lacrime, quando non riesce
nemmeno più a produrne di finte, quando l’effetto dell’ultima canna è passato
e il livello di alcol che ha in corpo comincia ad abbassarsi, i due parlano in
modo più ragionevole.
«Siamo stati davvero stupidi, vero?» dice Diane.
«Sì» concorda Tony. «Decisamente. E tu sai che non posso lasciare
Barbara. Questo lo hai sempre saputo.»
«A essere sinceri, non credo nemmeno di volere che tu lo faccia» dice
Diane. «Non penso di essere fatta per lavare e stirare, o rammendare calzini.»
«O crescere un figlio.»
Diane tira su col naso. «O crescere un figlio» concorda. «Però non
posso proprio abortire.»
«Diciamoci la verità, Diane. Cosa ci faresti tu con un bambino? Tu li
odi i bambini. E lo sai.»
«Sì. Ma non posso abortire. È una questione d’istinto.»
«Ma pensaci. Pensa a come sarebbe crescere una creatura da sola. Come
ti ho detto, guardati intorno.»
Diane osserva la devastazione nella stanza. La luce fredda del giorno
filtra da una fessura nelle tende, mettendo ancora più in evidenza la sporcizia
e il caos. Scrolla le spalle. «Magari potrei darmi una calmata.»
«Sì. Forse potresti. Ma è quello che vuoi? Tu? Sul serio?»
Diane sospira in modo triste. «Allora lo darò in adozione» dice.
Tony si mette a ridere.
«Che c’è?»
«Oh, stavo pensando all’ironia della sorte» dice.
«L’ironia?»
«Sì. Barbara continua a menarmela che vuole adottarne uno. Perché sai,
non può più averne. E tu sei quella che resta incinta.»
Diane scrolla le spalle. «Allora ti sei risposto da solo» dice piano.
«Risposto a cosa?»
Diane rimane in silenzio. Fa soltanto un cenno col mento, come se la
risposta fosse davanti a lui.
Tony si prende il naso tra le dita per un attimo mentre cerca di capire
cosa intenda, poi sospira con aria disperata e dice: «Tu devi davvero fumare
di meno, Di. Sul serio».
«Ma pensaci.»
«Cerca solo di ragionare, okay? Lo so che è difficile, ma provaci, per
me. Come puoi anche solo immaginare che Barbara accetterebbe?»
«Potrebbe» dice Diane, che sembra del tutto seria.
«Cioè qualcosa del tipo: “Ciao tesoro. Ho messo incinta la mia ragazza.
Pensi che potresti crescere suo figlio?”. Una cosa così?»
«Non dovrebbe neanche sapere che è tuo.»
«Ma certo che saprebbe che è mio.»
«Potremmo dirle che ho un ragazzo. Pensaci. Mi trovo un ragazzo, resto
incinta, e lo dico a Barbara. Magari potrei chiedere a Richard di fare finta di
essere il padre.»
«Chi? Il tuo amico del college?»
«Sì.»
«Ma lui non è… insomma, uno di quelli?»
«Ma Barbara questo non lo sa.»
«Smettila, Diane. Per favore, smettila» dice Tony. «Mi stai tirando
scemo.»
«Potrei convincerla io. So che ci riuscirei. Le piaccio molto. E lei adora
i bambini.»
Tony si alza e scuote la testa. «Me ne vado» dice. Allunga la mano
verso di lei. «Ne riparleremo più tardi, ma adesso dammi la scarpa. Perché se
me ne vado a piedi scalzi, giuro che non mi rivedrai più. E non sto
scherzando, Diane.»
Lei armeggia accanto a sé e tira fuori la scarpa da sotto il cuscino.
Gliela porge, ma non la lascia subito andare. «Pensaci, Tony» ripete.
«Barbara riesce ad avere il bambino che vuole, e noi possiamo andare avanti
come se non fosse successo niente. È perfetto. Per tutti.»
Tony si muove di scatto e le strappa la scarpa di mano. «Come se non
fosse successo niente?» dice. «Sbarazzatene, Diane. Pagherò io. Ma è l’unica
soluzione. Te ne devi sbarazzare.»
«Mi dispiace» dice Diane. «Ma è di mio figlio che stiamo parlando. Ed
è figlio anche tuo. È nostro figlio. È metà tuo e metà mio. Pensa solo a
questo. Pensa a cosa significa. Non esiste, Tony. Non potrei mai fare una
cosa del genere.»

FINE
RINGRAZIAMENTI

Grazie a Rosemary, senza il tuo incoraggiamento costante non riuscirei


mai a finire nulla, e senza la tua amicizia questo pianeta sarebbe un posto
molto più buio. Grazie alla Sam Javanrouh Photography per la bellissima foto
di copertina (l’autore si riferisce qui all’edizione originale, N.d.R.) e ad Allan
per il suo occhio di falco nelle revisioni. Grazie a tutti i miei lettori che
continuano a seguirmi e a dimostrare così tanto entusiasmo verso ogni mio
nuovo progetto: mi ripagate di tutti i miei sforzi.
Questo libro è dedicato ai nostri genitori che, tra tutti i traguardi
raggiunti (e quelli mancati), ne hanno passate molte più di quante noi, figli,
potremmo mai immaginare.

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