La osservammo scendere con lentezza estenuante, appoggiati alla grande vetrata del corridoio della scuola, con occhi spalancati ed increduli. Non lavevamo mai vista se non in televisione. Dalle nostre parti era molto rara. Gli adulti alle nostre spalle si lamentavano dei disagi che avrebbe causato, discutevano di quanto tempo ci avrebbe messo il comune prima di decidersi a fare qualcosa, si chiedevano se le scuole avrebbero chiuso in anticipo quel dicembre e quantaltro. Tuttavia, qualcuno trov persino il tempo di lasciarsi andare a commenti malinconici. Mio padre amava la neve, eppure ha vissuto tutta la vita in questo posto, ad attenderla senza che mai arrivasse udii sussurrare uninsegnante, e ricordo di essermi voltato a guardarla. Teneva gli occhi spalancati come noi, a differenza della maggior parte degli altri adulti che, abbagliati ed infastiditi dal bagliore della neve, li tenevano socchiusi. Ma i suoi occhi erano gonfi di lacrime che non uscivano, come, pensai allora, quando qualcuno di noi si faceva male ma si rifiutava di piangere davanti agli altri per la vergogna, anche se gli occhi pizzicavano. Mi sono persino ritrovato a pensarci, da pi grande. Quando la mia prima ragazza mi disse che tra noi due non cera pi nulla, pensai che il mio orgoglio fosse eternamente compromesso, come la mia abilit di amare. E mentre camminavo verso casa, pensai a quellinsegnante, ai suoi occhi spalancati e volti verso il cielo, in modo che nemmeno una goccia del suo dolore potesse uscire dal di dentro in cui laveva rinchiuso. E cos anchio mintestardii e decisi di non mostrare a nessuno la mia sofferenza: ora che mi era stato tolto il diritto di amarla, potevo solo custodire il risentimento nei suoi confronti, e almeno quello sarebbe stato solo mio, soltanto io avrei potuto guardarla passare per strada e lanciarle occhiate colme di rimpianto, e solo per me lei si sarebbe potuta sentire in colpa. Che sciocchi pensieri si fanno quando si soffre. Ma quel dicembre avevo dodici anni ed avevo appena iniziato ad accorgermi dellesistenza delle ragazze, che ancora guardavo a distanza di sicurezza, soprattutto se in carne ed ossa e non stampate su un supporto cartaceo. Sul muro del palazzo ad angolo con la nostra strada era stata disegnata, molti anni prima, una grande fenice con la vernice colorata. Si chiamava Harlowe Road, ma tutti la chiamavano la strada della fenice comunemente, perch Harlowe non stava simpatico a nessuno. Il poveretto aveva come unica colpa quella di essere nato, appunto, in quella via, che ai tempi era abitata principalmente da persone molto povere; arricchitosi grazie al proprio talento (divent piuttosto celebre in tutto il paese come scrittore di racconti), suscit linvidia dei suoi vicini, che iniziarono a spargere dicerie sul suo conto che lavrebbero perseguitato non solo per il resto della sua vita, ma anche molti anni dopo la sua morte, tanto che, un secolo pi tardi, ancora tutti lo odiavamo, bench non sapessimo pi per quale motivo. Era una stradina ben tenuta, sicura. Inevitabilmente, tutti si conoscevano piuttosto bene ed i nostri genitori ci lasciavano giocare fino allora di cena, a patto che non superassimo mai il muro della fenice, che era, col tempo, diventata unentit protettrice. Ricordo le parole di mia madre, che la mattina mi infilava il giubbotto e la sciarpa, riguardo la fenice: Io devo lavorare fino a tardi. Se oggi pomeriggio esci a giocare, ricordati di non superare il muro della fenice, altrimenti lei me lo verr a dire
. Ed io mi immaginavo le riunioni notturne, simili ad assemblee di condominio, tra i
genitori miei e dei miei amici e la fenice, presiedute dalla fenice stessa, che con voce stridula e spaventosa elencava i nomi dei bambini che avevano trasgredito quella fondamentale legge non scritta. Ero un bambino piuttosto ingenuo e tendente allobbedienza. Non oltrepassai il muro senza prima chiedere il permesso ai miei fino ai quattordici anni.