Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Premessa
Per prima cosa vorrei analizzare che cosa è rimasto all’inizio del secondo millennio del sistema
capitalistico post rivoluzione industriale e del suo antagonista, cioè la teoria Marxista contenuta nel
saggio “Il capitale”.
Spesso infatti continuiamo a riferirci a due modelli economici, dei quali pro e contro molto si è
detto fino a che sono venuti a mancare i presupposti per poterne continuare a parlare. Il sistema
capitalistico moderno è molto diverso dalla visione dell’enorme, fumosa e rumorosa fabbrica
ottocentesca, dove un padrone sorvegliava dall’alto della sua guardiola stando attento ad
accumulare larghi profitti per aumentare il capitale di famiglia, accumulo di capitale identificato da
Marx nel concetto di plusvalore. Se adesso andiamo ad analizzare il sistema produttivo moderno
noteremo che tutto è cambiato, dai luoghi di produzione ai canali di vendita, ma che un unico dato
risulta invariato da allora pur avendo conosciuto momenti assai più felici, mi riferisco alla tutela dei
diritti dei lavoratori. Dopo lunghe stagioni di battaglie, si sono nuovamente persi i capisaldi di
quello che in Italia si chiama “Lo statuto dei lavoratori”: 8 ore giornaliere, straordinari pagati, ferie
e gratifiche, stabilità del posto di lavoro, assistenza nella malattia e nella gravidanza, prevenzione
degli infortuni, assistenza agli invalidi del lavoro, assistenza alle famiglie dei morti sul lavoro. Sono
tutti diritti che esistono sulla carta ma che di fatto sono stati aggirati con un principale stratagemma
che si chiama “esternalizzazione del lavoro”.
Ci avevano convinto che la catena di montaggio fosse l’unica soluzione per essere competitivi, e
pazienza se questo comportava l’alienazione dell’operaio e la perdita della conoscenza dell’intero
ciclo produttivo. Anche i sindacati si erano arresi alla frustrazione del lavoratore, a patto purché
questo giovasse alla sua stabilità occupazionale e ad una serie di tutele. Poi a poco a poco sono stati
gli stessi capitalisti a mettere in discussione la fisionomia stessa della fabbrica grande e rumorosa,
almeno nei settori produttivi di cui seguirò a parlare cioè quelli dell’industria manifatturiera dei
1
settori abbigliamento e arredamento. Se parliamo di abiti, di divani, di tavoli e di sedie come di
cucine componibili, non troveremo più una fabbrica nella quale tutto avviene in sede, come invece
si vorrebbe fare intendere nella pubblicità di queste ditte. Ci piacerebbe immaginare una grande
fabbrica che ogni mattina accoglie i suoi lavoratori e li dispone per reparti, al piano di sopra i
pantaloni, giù le camicette, lì il reparto stireria, oppure nel settore arredamento, vedere chi fa le
ossatura dei divani, chi fa le imbottiture e chi cuce le fodere in pelle o in tessuto. Tutto questo esiste
si, ma nella finzione. Se vai in queste fabbriche vedi delle persone operose al lavoro ma se le conti e
confronti questo numero con il fatturato della ditta le stime non tornano, ebbene si il grosso della
produzione è esternalizzato. Recentemente, ad un convegno sull’industria tessile, l’addetto al
marketing di una importantissima griffe di alta moda Italiana ha snocciolato dei dati che hanno
lasciato l’audience perplessa: “abbiamo 2000 punti vendita e 4000 lavoratori”, quando qualcuno ha
fatto notare che questo significava che per ogni punto vendita c’erano 2 lavoratori, questa persona
ha risposto prontamente che i punti vendita (tutti degli enormi show room nel centro delle grandi
città) erano in franchising. A quel punto c’era da obiettare che, passi per agli addetti alle vendite,
qualcuno doveva pur produrre gli abiti per ogni enorme show room? Pensare che tutta la merce
esposta in 400 metri quadrati fosse tagliata e cucita solo da due sarte era un tantino improbabile ed
infatti la risposta taciuta poteva essere la seguente: “così va il mondo, inutile prenderci in giro”. La
gran parte della produzione avviene infatti all’esterno delle fabbriche ufficialmente indicate e
questo si chiama “esternalizzare la produzione”
L’esternalizzazione.
Esternalizzare significa dare lavoro all’esterno della fabbrica, subappaltare ad imprese sempre più
piccole, con un sistema di cottimo (un tanto al capo) in cui il prezzo patteggiato dalla ditta madre è
talmente basso che l’unico modo in cui le ditte esterne possono rientrare nelle spese è quello di
azzerare ogni diritto del lavoratore. Di tutto questo la griffe madre finge di non sapere nulla anche
se basterebbe farsi due domande. Addio mega-fabbriche, addio catene di montaggio, addio anche
sviluppo tecnologico. A che serve infatti investire in macchinari che velocizzino il lavoro (e magari
riducano i rischi di incidenti) se i dipendenti sono disposti a lavorare 20 ore al giorno al prezzo di
quattro?
Quando qualcuno, in un dibattito o in una trasmissione televisiva, si lamenta della pratica diffusa
dell’esternalizzazione, gli industriali rispondono di sentirsi imprigionati in un circolo vizioso dal
quale è impossibile uscire, pena restare fuori dal mercato, e quando si va a ricercare l’origine di
questa pratica essi puntano il dito contro il sistema di tutele ai lavoratori, identificando come
principali colpevoli i sindacati e il sistema contributivo. L’esternalizzazione è infatti una comoda
2
fuga dalle regole: piuttosto che barcamenarsi fra costi e ricavi, fra tasse e contributi assistenziali,
meglio far saltare il tavolo e rivolgersi agli intermediari, quelli che non hanno scrupoli e che si
addossano tutto il rischio. La casa madre resta pulita e il lavoro viene frazionato in piccole e
piccolissime imprese ricreando, ma in modo insano, una fitta rete di botteghe artigiane uguali in
dimensioni a quelle che erano state stritolate dall’avvento dell’industria, ma nelle quali le
condizioni di lavoro sono assai più infime e il datore di lavoro è un subalterno all’industria.
Sembra proprio il fallimento del sistema industriale. E non voglio finire nell’inutile disamina di una
concorrenza sleale in cui la colpa va alle organizzazioni legate ad una specifica etnia. Sono stati
infatti gli italiani i primi ad inaugurare la pratica dell’esternalizzazione della produzione, specie
nell’area del centro-sud e spesso cadendo nella rete della malavita organizzata. E fino a che ci sarà
una parte del mondo più povera e disposta a lavorare in condizioni degradanti, ci sarà sempre un
posto in cui la produzione costerà due soldi in meno che in un altra.
Quindi, piuttosto che parlare di concorrenza sleale e pensare alle strategie per la tutela del marchio
d’impresa, bisognerebbe attivare delle politiche oneste per il riequilibrio del reddito.
Le fabbriche
I luoghi di lavoro hanno ormai perso la loro fisionomia, esistono infatti fabbriche finte, dotate di
impianti elettrici a norma, sistemi di aerazione, mensa, bagni, spogliatoi, macchinette segnatempo,
salette di riunione sindacale, asilo per i figli dei dipendenti e tutto quello che nell’ultimo secolo è
stato studiato per tutelare la dignità e qualità di vita del lavoratore, dove però si produce, diciamo, il
10 per cento del fatturato dell’azienda. Il resto della produzione avviene invece altrove, che si parli
di un laboratorio in India o di un casermone in provincia di Prato, le condizioni sono analoghe:
sottoscala, baracche, diremo topaie, con fili elettrici pendenti, nessuna norma igienica, abiti appena
cuciti accatastati per terra fra la polvere, vetri oscurati perché nessuno si accorga all’esterno di quei
lavoratori, esseri umani costretti a consumare il pasto appoggiandosi alle macchine da cucire, che
non hanno il permesso neanche di andare al bagno, che spesso vivono segregati e dormono negli
stessi locali in cui lavorano. Senza contare il fatto che tanta sciatteria danneggia e sporca la
produzione, spesso destinata ai mercati di lusso. Gli orari giornalieri di lavoro sono poi
insostenibili, fino a venti ore; se un lavoratore si sente male perde il posto, se muore viene gettato in
una discarica, la paga è ovviamente bassissima, sotto i livelli minimi di sussistenza. Possiamo
senz’altro dire che siamo scesi molto al di sotto delle condizioni di lavoro delle fabbriche Inglesi
della rivoluzione industriale del 1860, quelle che usavano il telaio meccanico a vapore.
3
I punti vendita
Anche le nostre città hanno cambiato fisionomia, non c’è più la vecchia merceria sotto casa, non c’è
più l’emporio, ma neanche il bel negozio che ha fatto la storia della città, quello dove andava l’elite
che conta, dove le signore altolocate venivano riverite e magari lasciavano qualche conto in
sospeso, alle cui vetrine tutte le altre si fermavano a guardare speranzose che prima o poi sarebbero
riuscite a comprare almeno un paio di calze. Bei negozi dall’insegna antica, dove ogni settimana si
rinnovava la vetrina secondo l’estro del momento, luoghi storici che nel tempo erano stati
ristrutturati dall’architetto importante ma che comunque fino a dieci anni fa conservavano un segno
distintivo, una propria autonomia creativa. Ebbene, uno ad uno sono stati soppiantati dagli show
room delle grandi griffe, gli stessi in ogni città, stesse insegne e stessi arredi: Prada, MaxMara,
Versace, Armani, tanto che passeggiando nelle zone pedonali delle capitali Europee, come delle
città di provincia, nei centri commerciali sperduti nel centro america o in qualsiasi aeroporto
internazionale, trovi sempre la stessa aria, in modo che ognuno si senta a casa propria ovunque si
trovi, cittadino di un unico mondo globalizzato.
Lasciando quest’argomento di riflessione agli urbanisti e ai sociologi, vorrei però mettere in
evidenza un dato economico: questi enormi show room meravigliosamente arredati e con commesse
belle ed eleganti, sono quasi sempre deserti, mentre la vendita dei capi esposti avviene durante i
saldi di stagione o addirittura negli outlet di periferia delle stesse griffe. In poche parole alcuni di
questi punti vendita sono stati progettati perché restino vuoti, come enormi scenografie
pubblicitarie, billboard da ventimila (e più) euro mensili di affitto, tutti a detrimento del salario di
chi produce i capi di abbigliamento li esposti. Non importa che essi vendano, importa che ci siano,
una sorta di controllo del territorio, una presenza, qualcosa che giustifichi la quotazione in borsa del
marchio che rappresentano, perché è lì che avviene il vero commercio, attraverso finanziarie,
scatole cinesi e paradisi fiscali.
La griffe
Griffe, firma, marchio, sono termini spesso usati invariabilmente come se ognuno valesse l’altro e
ognuno di loro rimanda ad una primogenitura, un atto di proprietà, un brevetto. Infatti chi copia in
tutte le sue parti la borsetta di una famosa casa di moda rischia una pena abbastanza elevata, così
come chi clona il divano di una famosa industria di arredamento, ma perché? Cos’è ormai la firma?
Come si stabilisce la paternità di un prodotto? Chi in realtà, all’interno di una casa di produzione,
opera l’atto creativo di disegnare un abito o un mobile? Questo compito ormai è frazionato e
affidato a giovani creativi, diplomati in costosissime scuole di moda e di design, spesso con un
rapporto di lavoro assai precario con la ditta che detiene il marchio, pagati un tanto a prodotto,
4
senza che ne sia riconosciuta loro la paternità; prendere o lasciare nella speranza un giorno di
affrancarsi ed imporre il proprio marchio, inutile dire che nella maggior parte dei casi questo non
avviene mai. Siamo molto lontani dalla moda parigina dominata da intelligenze creative quali
Poiret, Chanel, Schiapparelli, personaggi a proprio agio nel mondo delle arti figurative, del teatro e
della letteratura, che lì attingevano spunti, che per i balletti russi creavano costumi, che
impiegavano mesi e giorni a studiare il capo perfetto, che mandavano in giro per salotti le amiche
agghindate con i loro abiti per orientare il gusto, perché tutto avveniva nel perimetro cittadino di
una Parigi d’altri tempi e ciò che andava bene a Parigi doveva per forza andare bene al resto del
mondo.
Adesso il marchio porta il nome di qualcuno, magari morto da tanto tempo o che non è mai esistito,
non chiediamo neanche chi sia perché ci piace pensare che ci sia una mente creativa dietro
quell’enorme business. Perché quello che conta non è più la lana bouclé del tailleur Chanel ma
quelle due C che Madame creò senza prevedere quanto sarebbero sopravvissute a lei, due C che
potresti appiccicare ad un prosciutto per poi venderlo al prezzo di una borsetta di coccodrillo. In
questo gioco cosa importa se il capo è cucito male, se i bottoni si staccano alla prima prova in
camerino, se la cerniera lampo si apre appena ti siedi? Hai un capo firmato da mostrare in giro,
questo basta. E la merce ti deve piacere per forza perché è di moda e non hai un’alternativa, anche
se la vita bassa non aiuta il tuo fisico. Così come molta gente arreda il proprio salone con divani
componibili in pelle di colore bianco, salvo poi vivere nel tinello, dove si guarda la televisione
sdraiati nel vecchio sofà, comodo e che non si sporca. L’importante è averlo il divano alla moda,
non importa se si usa o no, non importa se per averlo si pagheranno cambiali per i prossimi dieci
anni, non importa neanche sapere che si sta pagando quattromila euro per una merce che ne vale
quattrocento.
Il marketing
Osserviamo adesso l’ipotetico percorso di un prodotto di design o di alta moda. Diciamo che un
dato prodotto esce da un piccolo laboratorio in subappalto al prezzo di 20 euro, mettiamoci 20 euro
di materiale, mettiamoci un euro di ammortamento della progettazione (che quando tutto va bene,
va al giovane progettista), poi però vediamo quel prodotto sul banco dello show room al prezzo di
400 euro, con una percentuale al titolare del franchising sul prezzo di vendita del 30%. Possiamo
dire che in questo business non ci guadagna l’operaio, né il titolare del piccolo laboratorio, ma
neanche il titolare del punto vendita, ne tanto meno il progettista. A chi giova il fatto che il
lavoratore vive peggio dei suoi antenati del 19simo secolo, i progettisti non riescono ad affrancarsi
5
dalla loro precarietà e i titolari del franchising spesso ci rimettono le spese? Quel è il nuovo
plusvalore, la sacca dove finiscono la maggior parte dei profitti?
Il fatto è che nell’ottocento appena industrializzato quasi bastava produrre per poter guadagnare, poi
il mercato si è saturato in fretta ed è nata la pubblicità così come la intendiamo adesso, prima
affidata ai cartelloni pubblicitari e alle inserzioni sui giornali, poi ricorrendo a giornalisti
“orientati”, poi è arrivata l’industria del cinema con le sue pubblicità occulte ed infine la
televisione. Il gioco è vecchio e oltre al potere della pubblicità, c’è sempre stata la manipolazione
delle case di produzione, basti ricordare che ogni movimento riformatrice per l’affrancamento delle
donne dal corsetto intimo, trovava all’opposto i produttori di corsetti, pronti a mettere in campo
medici e moralisti che sostenevano che il busto fosse una necessità fisiologica della donna. Il
problema è che il gioco ha preso la mano e adesso siamo arrivati al fatto che la fetta di budget da
affidare a quell’ampio capitolo di spesa che va sotto il nome di Marketing è diventato sempre più
ampio, capace di soffocare non solo i diritti dei lavoratori ma anche la qualità del prodotto, sia nella
manifattura che nella progettazione. Diciamo che il sistema è imploso e gli stessi artefici di questo
meccanismo, gli industriali di un tempo, ne sono rimasti stritolati. Adesso per poter sostenere
questo regime bisogna quotare il marchio in borsa ed entrare nel rischioso meccanismo dell’alta
finanza, chi resta fuori è perduto.
Proposta
Nella mia analisi fatta in precedenza, certamente scoraggiante, ho capito due cose.
La prima è che il sistema industriale manifatturiero (le mie riflessioni non riguardano l’industria
pesante), dopo avere soppiantato l’artigianato è tornata a chiedere aiuto a quest’ultimo,
riconoscendo implicitamente che la forma di organizzazione della produzione più conveniente è
quella del vecchio laboratorio artigiano. Non c’è stata un’arresa ufficiale ma sta di fatto che al
momento, almeno per quanto riguarda il marchio Italiano, il novanta per cento della produzione
avviene in laboratori che abbiano una media di venti lavoratori e un titolare.
La seconda cosa che ho capito è che il plusvalore del secondo millennio si annida alla voce
marketing, tutto quello che quindi può essere risparmiato in questo complesso passaggio può essere
destinato al rispetto dei diritti del lavoratore, ad un diverso riconoscimento del contributo del
progettista, alla qualità del prodotto e ad un più corretto rapporto fra richiesta ed offerta. Altri punti
deboli dove si potrebbero studiare fonti di risparmio sono gli affitti dei punti vendita e
l’organizzazione logistica.
E’ quindi da quì che vorrei partire per proporre un nuovo sistema di concepire la domanda e
l’offerta, qualcosa che si sta già sperimentando in esperienze recenti di consumo consapevole in cui
6
il patto fra produttore e consumatore diventa un espediente economico e politico per aggirare il
plusvalore e riequilibrare la ricchezza. Esempi di questo tipo sono il consumo critico, le reti di
acquisto equo e solidale, i gruppi di acquisto solidale (GAS), l’esperienza di addio-pizzo in Sicilia,
la Banca Etica.
La mia proposta è quella di creare una rete che si inserisca nel concetto di “Web 2.0”, che sia
capace di coinvolgere i fornitori di materia prima, i designers, i laboratori artigiani e gli acquirenti,
in una nuvola che possa comprendere altri attori, dagli enti locali a chi si occupa di logistica. Per la
definizione di Web 2.0” rimando all’articolo originale di Tim O’Reilly, Design Pattern e Modelli di
Business per la Prossima Generazione di Software http://www.bitmama.it/articles/14-Cos-Web-2-0.
7
e Modelli di Business per la Prossima Generazione di Software http://www.bitmama.it/articles/14-
Cos-Web-2-0):
Amazon ha fatto della partecipazione degli utenti una scienza. Conta su un numero sempre
maggiore di recensioni da parte degli utenti, invita a partecipare in vari modi su virtualmente
qualsiasi pagina e, ancora più importante, usa l’attività degli utenti per produrre risultati di
ricerca migliori.
La scheda relativa ad ogni articolo, oltre a mostrare le immagini esaurienti del prodotto, è anche
corredata dei commenti di chi lo ha già acquistato mentre vari link ti trasportano ad un mercato
parallelo dell’usato di quel prodotto, altri invece ti suggeriscono i libri graditi a chi gradisce quel
titolo. Insomma una serie di input che fanno dell’acquisto una scelta ponderata e consapevole e di
fatto si sostituiscono al tipo di marketing che abbiamo conosciuto fino a qualche anno fa.
10
una enorme potenzialità di ausilio al commercio capace di entrare in concorrenza al tipo di mercato
fin ora conosciuto.
E’ probabile che in un futuro prossimo quello che adesso è un mercato di nicchia o long tail, possa
addirittura mettere in crisi il sistema di commercio attuale, ciò potrebbe dare una risposta alla mie
riflessioni iniziali ed imporsi come rivoluzione democratica delle regole della domanda e
dell’offerta, questa volta non pianificata da liberi pensatori, ma messa in pratica dalla
partecipazione, sempre usata come sinonimo di democrazia.
11