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Arturo Sanchez-Azofeifa dell'università di Alberta nel Canada, uno degli autori dello studio, pubblicato dalla
rivista Nature, sostiene che l'analisi collega strettamente il cambiamento climatico con la moria di molti rane
e rospi. "Con questo aumento della temperatura, il fungo ha potuto aumentare ed eliminare grandi
popolazioni degli anfibi", ha detto.
La perdita rapida di anfibi - rane, rospi, e salamandre - ha già ridotto di circa un terzo la specie, mentre altre
centinaia sono minacciate.
Con conseguenze drammatiche sulla catena alimentare e l'ecosistema nel suo complesso.
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L'orso bianco è diventato il simbolo di una delle cause principali d'estinzione: l'aumento della temperatura
globale. Il fenomeno sta avendo un impatto disastroso sulle regioni polari: ci si aspetta che entro i prossimi
50 anni i ghiacci del Polo Nord si ridurranno di almeno il 50%. Questo comporterà una diminuzione del 30%
degli orsi bianchi entro i prossimi 45 anni.
Anche in prossimità dei grandi corsi d'acqua, soprattutto africani, numerose specie stanno soffrendo
pesantemente l'azione dell'uomo sull'ambiente. Il comune ippopotamo, ad esempio, è entrato per la prima
volta tra le specie “vulnerabili” (nella Repubblica Democratica del Congo il numero degli esemplari è sceso
del 95%) a causa della caccia indiscriminata per la carne e l'avorio dei denti. La gazzella del deserto, che
vive nel Sahara, considerata a rischio nel 2004, ha visto una riduzione del numero di elementi dell'80% in
soli dieci anni perché viene cacciata dalle popolazioni che vivono ai bordi del deserto. Stando alla World
Conservation Union, entro pochi anni farà la fine di una specie di orice (Oryx dammah) già considerata
estinta. La stessa cosa sta accadendo alla gazzella subgutturosa, che vive in Asia e in Medio Oriente, sia
per la caccia delle popolazioni locali che per la perdita dell'habitat.
Nei mari, sono gli squali e le razze gli animali maggiormente a rischio. Delle 547 specie note infatti, ben il
20% sono considerate vicine alla scomparsa. Il 56% delle 252 specie endemiche d'acqua dolce dell'area
mediterranea sono a rischio d'estinzione e ben sette sono state classificate come estinte.
Ben pochi i casi opposti. Grazie all'azione compiuta in questi anni su molte specie ritenute a rischio
d'estinzione, l'aquila dalla coda bianca, ad esempio, che vive in vari Paesi europei, è passata dall'essere un
animale a rischio a dover essere tenuta sotto costante controllo. “Questo caso e molti altri - ha spiegato
Steiner - dimostrano che con adeguate misure di protezione si può ancora salvare l'ambiente”.
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Un cocktail di veleni colpisce mammiferi e uccelli, compromettendone in modo grave lo stato di salute,
l'abilità a resistere in un ambiente estremo, la capacità di riproduzione, lo sviluppo. In particolare, si è rilevato
che l’esposizione alle sostanze chimiche tossiche interferisce con il sistema ormonale e immunitario,
modifica i livelli di vitamina A e provoca fragilità della struttura ossea. Ciò vuol dire che a essere alterate sono
le principali funzioni vitali: metabolismo, sviluppo, fertilità, determinazione del sesso, funzioni neurologiche,
stimoli della fame e della sete, impulsi sessuali.
Gli orsi polari, per esempio, al vertice della catena alimentare, risultano gravemente contaminati da sostanze
attualmente in uso negli elettrodomestici, come i ritardanti di fiamma bromurati (Bfr) e i composti
perfluorinati, con conseguenti alterazioni del sistema immunitario, ormonale e diminuzione dello spessore
delle ossa. I beluga, che prediligono acque costiere poco profonde e risalgono le foci dei fiumi, aree ad
altissima concentrazione di inquinanti chimici, sono tra le specie artiche più intossicate, tanto che i corpi di
alcuni esemplari trovati morti, provenienti dall'estuario del fiume San Lorenzo in Canada, sono stati smaltiti
come rifiuti tossici.
Per quello che riguarda gli uccelli poi c'è da osservare che molte sostanze chimiche tossiche si concentrano
nel tessuto adiposo e, al momento della deposizione, passano nelle uova, con la conseguenza che
l'embrione già nelle prime fasi di sviluppo è esposto ai contaminanti chimici. L'esposizione alle sostanze
chimiche tossiche insieme ai cambiamenti climatici e alla perdita di habitat genera una miscela micidiale che
mette a rischio la sopravvivenza stessa delle specie artiche.
«L'Artico sta diventando sempre più una sorta di discarica chimica», ha commentato Gianfranco Bologna,
direttore scientifico del WWF Italia. «Molti tra i prodotti chimici tossici che usiamo nelle nostre case finiscono
nell'Artico». Un momento decisivo, in questo contesto che sta assumendo contorni sempre più allarmanti,
sarà quando il Parlamento Europeo, a fine ottobre prossimo, dovrà pronunciarsi su REACH, la normativa
sulle sostanze chimiche.
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La balenottera dell'aletta, uccisa dall'equipaggio della baleniera Hvalur 9 a ovest dell'Islanda, catalogata
nell'elenco delle specie a rischio, è il simbolo della follia
umana. Non solo le balene si stanno estinguendo, ma tutta
la fauna marina.
Dal 1950 al 2003 abbiamo perduto il 65% delle specie pescate all’inizio del periodo considerato. Di quelle
presenti oggi, il 29% per cento è GIà «collassato», sceso a meno del 10%. «Purtroppo stiamo assistendo a
una accelerata riduzione della capacità di sostentamento e riproduzione della quasi totalità delle specie
marine - dice Fiorenza Micheli della Hopkins Marine Station della Stanford University - e le cause sono
ormai chiare».
Eccesso di pesca, distruzione degli habitat lungo le coste, inquinamento con scarichi che avvelenano gli
animali. Non c'è zona del pianeta sfuggita alla distruzione. «Intorno alla Penisola italiana le condizioni sono
tra le peggiori: Adriatico, Ionio, ambienti di scoglio del Tirreno ma anche il Sud del Mediterraneo offrono dati
raccapriccianti».
La pesca a strascico è uno degli interventi più dannosi perché la metà di quanto viene raccolto non serve e
viene eliminato. L'annientamento di molte specie, inoltre, provoca squilibri ecologici su vaste regioni
favorendo le fioriture delle alghe o la crescita abnorme, ad esempio, delle meduse. «Ma siamo ancora in
tempo a intervenire», spiega la scienziata fiorentina d’origine e californiana d’adozione da quasi vent'anni,
«Lo dimostrano — precisa — gli esperimenti condotti in 48 aree protette della Terra dove nel giro di qualche
anno la situazione locale si è invertita e si sono ripristinate anche le aree circostanti».
I rimedi sono noti quanto le cause: riduzione del pescato con l'eliminazione delle reti o la scelta di pesci che
abbiano ritmi di riproduzione più veloce, passando, ad esempio, dalle spigole ai calamari o damolluschi
come la litofaga ai pettini molto diffusi in Atlantico e altrove; avviare iniziative di protezione dei fondali lungo
le rive e soprattutto impedire l'immissione di sostanze chimiche e inquinanti. «È necessario anche -
suggerisce la Micheli -
estendere le aree protette che
favoriscono l'economia
locale».
Quello che è emerso è che nelle aree geografiche dove è maggiore il rischio di estinzione, non tutti i grupppi
sono minacciati allo stesso modo. “È importante - dice il Professore - avere compreso che la situazione è più
complessa di quello che si credeva. Mammiferi uccelli e anfibi sono minacciati da diversi fattori e in differenti
locazioni”.
Ad esempio: in Nuova Zelanda sono più a rischio gli uccelli a causa dell'introduzione di ratti e topi; nell'Africa
orientale la minaccia riguarda in particolare i mammiferi, a causa della caccia e del commercio di carne; nella
foreste tropicali sulòe montagne dell'Australia del nord, sono in declino le rane, e in questo caso ancora non
si conoscono le cause precise.
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'Only 50 years left' for sea fish BBC News 02 novembre 2006
Hansen, che dal dicembre del 2005, dopo un suo intervento in cui invitava a ridurre drasticamente le
emissioni di gas serra, è preso di mira dalla Casa Bianca, ha detto di non parlare per la NASA, e ha predetto
che se le emissioni di gas continueranno a questo ritmo, i riscaldamento globale salirà fino a 3°C, eliminando
metà delle specie viventi di questo pianeta.
Inoltre, lo scioglimento delle calotte polari e il susseguente innalzamento degli oceani provocherà
l'inondazione della Florida, gran parte della Louisiana, e anche della costa est. E anche che è impossibile
dire con precisione quando questo avverrà (ma avverrà).
Ha continuato dicendo che i segni del riscaldamento globale stanno apparendo drammaticamente in
Groenlandia, dove il ghiaccio si scioglie ad una velocità molto superiore a quella di 5 anni fa. Mentre i livelli
degli oceani si stanno innalzando di 3.5 millimetri all'anno. E ancora: “L'ammontare dei gas serra
nell'atmosfera è oggi attribuibile completamente all'intervento umano. Una nuova era glaciale significherà
l'estinzione dell'umanità”.
Inoltre, un altro rapporto dovrà stabilire lo stato dell'annientamento di numerose specie di animali e piante.
Prendono ancora tempo i padroni del mondo. Dicono di volersi impegnare a intensificare il lavoro scientifico
sulla biodiversità, a sensibilizzare l'opinione pubblica e a lottare contro il commercio illegale di piante e
animali.
Gli studi annunciati saranno presentati al vertice del G8 in programma a inizio giugno a Heiligendamm, sulla
costa tedesca del Mar Baltico.
La riunione di Potsdam è in effetti una farsa pensata per imbonire l'opinione pubblica in preparazione del
vertice dei capi di Stato e di governo del G8 in programma fra tre mesi, dove ci sarà un primo confronto
diretto dopo gli impegni assunti dall'Unione Europea riguardo le drastiche riduzioni delle emissioni di gas
serra.
Dinanzi alla residenza di Cecilienhof, nella quale si tengono i lavori, attivisti di Greenpeace hanno inscenato
una dimostrazione di protesta . Un grande striscione giallo con la scritta “G8: Stop talking - Act Now” è stato
issato a bordo della barca dell'organizzazione “Beluga”, che si aggira nelle acque del Wannsee, il lago sulle
cui rive sorge il castello di Ceciliehof.
Tale residenza è nota per aver ospitato tra luglio e agosto 1945, alla fine della seconda guerra mondiale, il
vertice tripartito fra i leader di USA, URSS e Gran Bretagna - Truman, Stalin e Churchill - che nella
cosiddetta conferenza di Potsdam parlarono del nuovo assetto dell'Europa postbellica.
Secondo Greenpeace, ''Bush e i suoi alleati hanno tradito la causa della protezione del clima'', mentre le
emissioni di gas tossici continuano ad aumentare. ''I maggiori paesi industrializzati sono ancora lontanissimi
dagli obiettivi indicati dal protocollo di Kyoto'', ha detto in un comunicato Joerg Feddern, esperto di energia di
Greenpeace.
In testa il Canada, con un +30 per cento rispetto ai livelli del 1990, seguito da Stati Uniti con un +15,7 per
cento, Italia a +12, 3 per cento e Giappone a +7,7 per cento. Le emissioni di gas serra, purtroppo, sono
calate solo nei Paesi dell'ex blocco comunista, per il crollo della loro economia, mentre altrove, come in
Italia, crescono e anche in maniera significativa.
DEFORESTAZIONE IN ACCELERAZIONE
Meno 20mila ettari al giorno,
per un totale di 7,3 milioni di
ettari all'anno. Questa la
perdita netta di foreste nel
mondo secondo il recente
rapporto della FAO “Lo Stato
delle Foreste nel Mondo”. Dal
1990 al 2005, la Terra ha
perduto il 3% del suo territorio
forestale totale (che copre
circa 4 miliardi di ettari, vale a
dire il 30% della superficie del
Pianeta), un calo medio di
quasi lo 0,2% l'anno. Tra il
2000 e il 2005,la perdita più
alta di foreste primarie si è
registrata in Indonesia,
Messico, Papua Nuova
Guinea e Brasile.
Per Greenpeace è più credibile il rapporto che l'Organizzazione per le Foreste Tropicali (Inernational Tropical
Timber Organization - ITTO) ha reso noto qualche mese fa: meno del 5% delle foreste tropicali sono gestite
con pratiche sostenibili, mentre il taglio illegale continua ad intaccare pesantemente le foreste tropicali. «I
nostri più vicini parenti nel mondo animale, gorilla, scimpanzè, bonobo e orango, rischiano di scomparire per
sempre per la perdita del loro habitat – spiega allarmato Sergio Baffoni, di Greenpeace - certo non vivranno
nelle piantagioni di eucalipto. Con loro scompariranno moltissimi altri animali: i due terzi delle specie animali
e vegetali terrestri hanno nelle foreste il proprio habitat. Confondere una piantagione con una foresta intatta
è un tragico errore».
E mentre il rapporto FAO dice che le foreste europee e del
Nord America sono in netta crescita, Greenpeace dice che
anche le foreste boreali sono a rischio. «La Finlandia
incrementa la propria superficie boscata, ma allo stesso tempo
si appresta a distruggere gli ultimi frammenti di foresta
primaria, malgrado gli avvertimenti di tutta la comunità
scientifica del paese - sottolineano gli ambientalisti - in
Canada continua la pratica del taglio a raso, che erode
progressivamente le preziose foreste borali».
La stessa FAO, fa rilevare anche che le foreste sono esposte anche a pericoli come insetti, malattie, specie
invasive e incendi. «I trasporti rapidi, la facilità degli spostamenti e il commercio internazionale in espansione
hanno facilitato la propagazione della devastazione».
Tra l'80 e il 99% degli incendi boschivi sono di natura antropica, dovuti al dissodamento agricolo e ai
piromani , mentre i fulmini sono la causa principale degli incendi non provocati dall'uomo.
È evidente che le foreste saranno colpite profondamente dai cambiamenti climatici, e che i danni causati
dall'aumento degli incendi, dei parassiti e delle malattie sono destinati a crescere.
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ITTO has failed to end tropical forest destruction says Greenpeace 07 maggio 2007
ITTO
Greenpeace International
L'estinzione è un processo naturale. L'evoluzione prosegue il suo cammino, molte specie spariscono e
nuove specie emergono, in un processo dinamico chiamato “background extinction”. Inoltre, la storia
geologica è stata sottolineata da 5 grandi estinzioni di massa, che hanno portato alla scomparsa di un gran
numero di specie, dovuto a possibili eventi drammatici quali possono essere l'impatto con qualche asteroide
o il mutamento del livello del mare. Oggi, molte testimonianze inducono gli esperti a ritenere che vi sia in atto
una “sesta onda di estinzione”, una diminuzione delle specie dovuta soprattutto alle attività umane.
Secondo la World Conservation Union o IUCN (International Union for the Conservation of Nature and
Natural Resources), che raggruppa un consesso internazionale a cui partecipano 83 paesi, 800 ong
(organizzazioni non governative) e 10.000 scienziati ed esperti dediti a preservare la biodiversità della Terra,
attualmente sono 3.071 le specie a rischio. Come dimostra il report “European Mammal Assessment”,
rilasciato dalla World Conservation Union in occasione dell'International Biodiversity Day lo scorso 22
maggio, un sesto delle specie di mammiferi presenti sul suolo e nei mari del Vecchio Continente potrebbe
sparire molto presto dalla faccia della terra se non saranno presi subito provvedimenti: con il documento dell'
“Habitats Directive”, l'Unione Europea ha chiesto agli stati membri di adoperarsi per far sì che entro il 2010 il
processo che sta portando alla perdita della biodiversità venga arrestato.
Più grave ancora sarebbe la situazione dei mammiferi marini, a rischio estinzione per il 22% per cento. Se si
considera poi che per circa la metà di queste specie non si possiedono dati a sufficienza per procedere a
una classificazione, la situazione potrebbe essere anche più catastrofica. Come ai tropici, dove, in media,
una specie su quattro è ufficialmente in pericolo, principalmente a causa della deforestazione, ma anche per
il progressivo degrado degli habitat naturali, l'inquinamento e la caccia. A meno di un cambiamento radicale
dello stile di vita umano, su cui non c'è da sperare, il numero delle specie a rischio è purtroppo destinato a
salire ovunque.
Brutte notizie anche per le balene, sempre a più
rischio a causa dei cambiamenti climatici che
minacciano di stravolgere gli habitat e le fonti di
sostentamento. Oltre le balene, a rischio anche delfini
ed altri cetacei, sempre più minacciati dai cambiamenti
climatici. Lo afferma il dossier “Whales in hot water”
pubblicato dal WWF in collaborazione con la Whale
and Dolphin Conservation Society (WDCS). Per l'organizzazione ambientalista, gli impatti del cambiamento
climatico sui cetacei sono sempre più incisivi: dal raffreddamento delle acque del mare per lo scioglimento
dei ghiacci e l'aumentata frequenza delle piogge, fino a un aumento del livello dei mari, alla scomparsa di
habitat polari e al declino delle popolazioni di krill, piccoli crostacei che rappresentano la principale fonte di
cibo per molte popolazioni di balene. Il mare ghiacciato dell'Artico si riduce ad un ritmo spaventoso (tra il
2005 e il 2006 è andata persa un'area ghiacciata estesa quanto l'Italia) e l'impatto del clima si somma ai
problemi indotti da altre attività umane, come inquinamento chimico o acustico, collisioni con le navi e cattura
accidentale nelle reti da pesca, che uccidono ogni giorno circa mille cetacei.
Con la diminuzione dei ghiacci, è presumibile che aumenteranno anche le attività umane in aree artiche fino
ad ora rimaste intatte. «Balene, delfini e cetacei hanno una certa capacità di adattarsi ai cambiamenti del
proprio habitat - afferma Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia - ma il clima sta cambiando
talmente in fretta che non è chiaro fino a che punto riusciranno a cavarsela. Gli Stati occidentali – continua
Bologna – hanno un dovere ben preciso nei confronti di queste specie». Gli impatti del cambiamento
climatico sono particolarmente gravi nell'Artico e nell'Antartico e i cetacei che dipendono dalle acque polari
per il sostentamento e la sopravvivenza - come belughe, narvali e balene della Groenlandia - saranno
drammaticamente colpiti, afferma il rapporto. Tra gli altri impatti, il WWF cita la riduzione di habitat per
diverse specie di cetacei che non sono in grado di trasferirsi in acque più fredde (come i delfini di fiume),
l'acidificazione degli oceani e un peggioramento delle condizioni fisiche dei cetacei (malattie, capacità
riproduttiva, tasso di sopravvivenza). Il cambiamento climatico potrebbe anche essere il colpo di grazia per le
ultime 300 balene franche del Nord Atlantico.
Ma quale sarà il piano? “Sicuramente ottenere informazioni sulla composizione e la distribuzione delle
specie nei mari italiani - ha aggiunto Greco - oltre a strumenti legislativi per ridurre l'impatto dell'azione
dell'uomo in ambiti come trasporti, pesca e inquinamento”. Quella degli squali infatti è una specie in cima alla
catena alimentare, la cui scomparsa scatenerebbe un effetto domino dall'alto verso il basso con risultati
incontrollabili nell'ecosistema marino. “Gli squali crescono lentamente, generano pochi piccoli e una volta
decimati stentano a riprendersi - spiega Rosalba Giugni, presidente di Marevivo - questo li rende
particolarmente vulnerabili a uno sfruttamento eccessivo e indiscriminato”. E l'Italia, come quarto importatore
di carne di squalo nel mondo ha le sue responsabilità.
Una recente ricerca effettuata da studiosi della Dalhousie University del Canada ha messo in luce una
preoccupante situazione anche per il Nord Atlantico. Gli studiosi hanno preso in considerazione il periodo
che va dal 1970 al 2005 e hanno constatato che i danni sono più gravi di quanto si era precedentemente
stimato: le specie di squalo martello e squalo tigre sono diminuite del 97% mentre lo squalo toro è diminuito
addirittura del 99%. Lo squalo toro, “Charchairas Taurus”, ha un corpo lungo e massiccio che può superare i
tre metri, lo squalo martello, “Sphyrna mokarran”, è uno tra gli squali più antichi ed ha come caratteristica
principale la strana forma del muso che assomiglia ad un martello; lo squalo tigre invece, “Galeocerdo
cuvier”, così chiamato per le sue striature scure verticali lungo i fianchi, possiede un corpo slanciato ed
affusolato che può raggiungere anche i 7 metri. La forte diminuzione di queste tre specie di squalo lungo la
costa atlantica degli Stati Uniti ha portato ad uno squilibrio all'interno dell'ecosistema. Essendo infatti questi
squali dei grandi predatori, la loro progressiva scomparsa ha determinato un aumento di quelle specie
marine che erano loro prede. Per porre rimedio a questa pesante situazione, i ricercatori propongono di
limitare la pesca allo squalo e di vietare la caccia alle pinne sia in acque nazionali che in mare aperto.
Le tigri abitano fra l'India e la Cina sudorientale e tra l'estremo oriente russo fino a Sumatra. «In Cina, dove
un secolo fa viveva la maggioranza delle tigri asiatiche, oggi esistono centinaia di allevamenti di tigri in
cattività, come in Occidente facciamo con i polli, mentre allo stato selvatico non saranno rimasti più di 15
individui», afferma Susan Lieberman, direttrice del programma specie internazionali del WWF. Una tigre, che
uccisa in India e nel Sud Est asiatico (Malesia, Indonesia, Laos, Vietnam) all'inizio vale pochi dollari, nella
rotta del traffico arriva a costare prima intorno ai 500 euro, per poi arrivare a cifre più elevate in Cina,
passando dall'India attraverso Nepal o Bangladesh.
Stilando una classifica dei Paesi dove la specie risulta più a rischio di estinzione, «l'area numero uno è la
Malesia, seguita da India, Nepal e poi dalle foreste della Russia», dice Pandav. La chiave per riportare il
numero di esemplari ad una cifra accettabile sarebbe la conservazione degli ecosistemi, ma anche
l'educazione, soprattutto dei cinesi che si affidano a queste medicine illegali. «La caccia della tigre non è
qualcosa che appartiene alle popolazioni che la praticano - conclude Pandav - ma è il risultato della forte
richiesta attuale da parte della Cina».
Una nuova ricerca pubblicata dal CGIAR (Consultative Group on International Agricultural Research) lancia
l'allarme sul rischio di estinzione che corrono anche specie selvatiche di piante, come la patata e l'arachide,
dovuto agli effetti negativi dei cambiamenti climatici: si rischia la perdita di una fonte vitale di geni, necessari
ad incrementare la capacità di colture agrarie di resistere alle condizioni di siccità e peste. Secondo gli
scienziati che hanno condotto lo studio, nei prossimi cinquanta anni, rischiano l'estinzione circa 31 di 51
(61%) specie di arachidi selvatiche ed 13 di 108 (12%) specie di patate selvatiche. Le colture restanti
saranno limitate ai suoli sempre più marginali, erodendo così ulteriormente la loro capacità di sopravvivenza.
I risultati della ricerca sono stati resi noti durante la Giornata Internazionale di Biodiversità, organizzata dalla
Convenzione sulla Diversità Biologica (Convention on Biological Diversity - CBD). Andy Jarvis ed i suoi
coautori, studiando gli effetti dei cambiamenti climatici su queste tre colture in Africa e Sud America, hanno
avuto la possibilità di considerare come le comuni popolazioni di piante selvatiche si comporterebbero di
fronte ad una larga variazione delle condizioni di coltivazione. Riferisce Jarvis, uno degli autori della ricerca,
che lavora in due centri CGIAR (al Bioversity International con sede centrale a Roma e al Centro
Internazionale per l'Agricoltura Tropicale (CIAT) in Colombia): “I risultati ottenuti indicano che la
sopravvivenza di molte specie selvatiche di colture, e quindi non solamente di patata, arachide e fagiolo,
sono minacciate seriamente. Pertanto, è urgente raccogliere e conservare i semi di piante selvatiche prima
che esse scompaiano. Attualmente, le collezioni esistenti contengono una bassa percentuale di diverse
specie selvatiche nel mondo”.
L'estinzione di specie selvatiche di colture rappresenta una seria minaccia per la produzione alimentare,
essendo custodi di geni caratteristici importanti, fondamentali per la resistenza alla peste e tolleranza alla
siccità. Si tratta di quei geni che i ricercatori utilizzano per migliorare le prestazioni di varietà coltivate. Di
conseguenza, è previsto l'intensificazione dell'utilizzo di specie selvatiche per aumentare il carattere di
tolleranza e resistenza alle malattie delle loro cugine specie coltivate; visto che con i cambiamenti climatici,
farà troppo caldo, troppo freddo, troppo umido o troppo arido, per permettere a molte varietà di colture
esistenti di continuare a produrre ai loro livelli correnti. Di recente, i geni di piante selvatiche hanno permesso
ai ricercatori di sviluppare nuovi tipi di patate commestibili, resistenti alla devastante malattia della ruggine
della patata, e nuovi tipi di grano con più tolleranza alle avverse condizioni di siccità. Allo stesso modo,
attraverso programmi di miglioramento genetico appropriato, specie selvatiche di arachide sono risultate
fondamentali nello sviluppo di nuove varietà, resistenti ai nematodi fitoparassiti e alla peronospora, una
muffa che attacca le foglie. Negli Stati Uniti, il valore delle nuove varietà prodotte è stimato nell'ordine di
svariati milioni di dollari annui.
La coordinatrice di un importante progetto mondiale sulle piante selvatiche, sovvenzionato da più soggetti
internazionali, e con a capo la Bioversity International, Annie Lane, ha affermato che, “l'ironia qui è che i
ricercatori conteranno più che mai su piante selvatiche per sviluppare colture domestiche in grado di
adattarsi ai continui cambiamenti climatici. Ma, proprio a causa dei cambiamenti climatici, rischiamo di
perdere una quantità significativa di queste vitali risorse genetiche, nel momento di maggior bisogno per
garantire la produzione agricola”. Una parte importante degli attuali sforzi del CGIAR è di condurre ricerche
per identificare le piante selvatiche (potenzialmente) minacciate dai cambiamenti climatici, con lo scopo di
anticipare e mitigare gli effetti del riscaldamento atmosferico sull'agricoltura. Negli ambienti locali, nazionali
ed internazionali, i ricercatori del CGIAR stanno mettendo a punto, opzioni innovative per migliorare
l'adattamento di colture agrarie ai cambiamenti climatici. Inoltre, nuove ricerche nei centri CGIAR hanno
come obiettivo principale la conoscenza degli impatti dei cambiamenti climatici sulle risorse naturali, come
l'acqua, la pesca e le foreste e la loro miglior gestione per soddisfare i bisogni delle popolazioni in aumento.
Grave lo scenario anche per il motore idraulico del mondo, il Rio delle Amazzoni, un regolatore climatico per
tutto il pianeta, che riversa nell'oceano circa un quinto dell'acqua dolce che complessivamente vi confluisce:
il fiume subirà un prosciugamento diffuso, con la possibilità che buona parte della foresta pluviale si trasformi
in un'arida savana. Guardando in alto, i ghiacciai dell'Himalaya (Nepal, Cina, India), veri e propri “serbatoi”
che danno acqua a centinaia di milioni di persone, oltre ad una ricca varietà di specie animali, si ritirano di
circa 10 metri all'anno, causando la formazione di laghi precari ad alto rischio inondazione. La conseguenza
sarà che 500 milioni di persone e il 37% del terreno coltivato indiano patiranno la mancanza d'acqua.
“Il WWF fa la sua parte con oltre 2000 progetti di conservazione attiva - commenta Gianfranco Bologna,
direttore scientifico di WWF Italia - si tratta di esempi concreti di attuazione della sostenibilità, ma possono
restare gocce nell'oceano senza adeguate politiche di sostegno per reagire ai cambiamenti che noi stessi
stiamo inducendo nei sistemi naturali”.
Oggi le Galapagos sono abitate, oltre che da iguane e tartarughe, da una crescente popolazione umana che
si guadagna da vivere con la pesca e con il turismo. Ed è questo il problema: l'arcipelago attira un turismo
«ecologico» in aumento, così come è in aumento la popolazione residente, circa 18mila persone, di cui le
autorità stimano che circa 15mila siano immigrati illegalmente. Una missione delle Nazioni Unite, composta
da esperti dell'UNESCO e dell'IUCN, ha constatato che la crescita del turismo rende difficile la salvaguardia
dell'ecosistema: l'espansione di turismo e pesca hanno attirato immigranti dalla costa, la pressione sulle
riserve ittiche è aumentata, aragoste, cetrioli di mare e cernie sono declinati drasticamente negli ultimi 15
anni. Dal continente, inoltre, non sono arrivati solo esseri umani. La missione UNESCO-IUCN ha rilevato la
presenza di almeno 748 specie di piante «aliene», rispetto alle 500 specie native, facendo notare che il 60%
delle 180 specie endemiche di piante sono minacciate. Ci sono poi 490 specie di insetti e 53 di altri
invertebrati di cui 55 minacciano la biodiversità nativa.
Le conclusioni della missione saranno presentate al Comitato Intergovernativo del Patrimonio Mondiale nel
corso della sua prossima sessione, che si terrà a Christchurch, in Nuova Zelanda, dal 23 giugno al 2 luglio. Il
Comitato esaminerà le conclusioni della missione e concorderà le misure da prendere, soprattutto la
possibilità di iscrivere le isole di Darwin come nella lista del patrimonio mondiale in pericolo.
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Un mammifero su quattro e un uccello su otto, un terzo di tutti gli anfibi e il 70% di tutte le piante catalogate
sono in pericolo d'estinzione. È l'ennesimo allarme di
«estinzione globale» che questa volta viene dall'annuale «Lista
Rossa delle Specie Minacciate» a cura dell'Unione Mondiale per
la Conservazione della Natura (IUCN), pubblicata dal quotidiano
francese Le Monde, considerata dagli esperti il più completo
indicatore della biodiversità.
Per discutere la questione, gli specialisti della biodiversità si incontreranno dal 15 al 17 novembre a
Montpellier nell'ambito del Meccanismo Internazionale di Stima Scientifica sulla Biodiversità
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LA SESTA ESTINZIONE
«Questo non è il primo libro nel quale si sostiene che Homo sapiens, diventato com’è la specie dominante
sulla Terra, sta probabilmente causando una catastrofe biologica di immense proporzioni attraverso
l’erosione, a un ritmo allarmante, della diversità della vita. (...) Tuttavia questo libro è effettivamente il primo
ad affrontare il fenomeno considerando Homo sapiens come
nient’altro che una specie, in un flusso di vita che ha una
lunga storia e un lungo futuro. Per conoscere noi stessi
come specie, e comprendere il nostro valore nell’universo
delle cose, dobbiamo prendere le distanze dalla nostra
esperienza, sia in termini di spazio che di tempo».
Nel corso della sua lunga storia si sono avute cinque grandi
estinzioni, la più recente delle quali ebbe luogo 65 milioni di
anni fa, quando in un lasso di tempo incredibilmente breve -
un istante geologico - perirono i grandi dinosauri. Furono
catastrofi inimmaginabili, e in un caso almeno, la cosiddetta
estinzione permiana, la vita corse il rischio di sparire dalla
faccia della Terra: venne spazzato via il 95% di tutte le
specie.
Il perché delle estinzioni - improvviso mutamento climatico, impatto con asteroidi, inadeguatezza evolutiva -
è al centro di vivaci dibattiti, ma il loro svolgimento sembra comunque seguire un copione ben definito.
Anche oggi, la macchina distruttiva opera a pieno regime: ogni anno scompaiono oltre trentamila specie, ma
questa volta non occorre andare lontano per individuare la causa. Il comportamento rapace dell'Homo
Sapiens nei confronti dell'ambiente naturale lacera la complessa trama del vivente e, rompendo antichi
equilibri, mette addirittura in forse le condizioni della sua sopravvivenza.
Senza una decisa correzione di rotta a difesa della biodiversità - ammoniscono gli autori - anche l'uomo farà
ben presto la fine del mastodonte e dello pterodattilo e li seguirà nell'oblio dell'estinzione.
Secondo due grandi ricerche condotte in Inghilterra, la Terra sarebbe sull'orlo della sesta grande estinzione
di massa, simile alle cinque che l'hanno preceduta. Finora, l'ipotesi di un'estinzione di massa si è sempre
basata sull'analisi di dati relativi a limitati gruppi di animali e piante. Ma le informazioni sugli insetti, che sono
circa il 50% delle specie conosciute, sono sempre state molto scarse. Secondo un primo studio, gli insetti
che vivono in Inghilterra si starebbero estinguendo allo stesso ritmo, se non in misura maggiore, di altri
animali più studiati o meno resistenti. Se altrettanto stesse accadendo anche nel resto del mondo - ha
spiegato Jeremy Thomas, direttore del Centro per l'Ecologia di Dorset, in Inghilterra, che ha condotto lo
studio - staremmo assistendo alla più grande estinzione dal tempo dei dinosauri, quando dal 65 al 95% delle
specie presenti sulla Terra scomparvero.
Miliardi di dati. Thomas ha analizzato le informazioni relative a uccelli, piante e farfalle inglesi degli ultimi 40
anni, raccolte attraverso i dati di oltre 20 mila naturalisti. I ricercatori hanno scoperto che il 71% delle specie
di farfalle sono drasticamente diminuite negli ultimi 20 anni. Lo stesso è avvenuto per il 54% degli uccelli e il
28% delle piante studiate. E in alcuni casi (due specie di farfalle e sei di uccelli) si sono completamente
estinti.
Quali le cause? Secondo Thomas, il declino della popolazione è uniforme in tutta l'Inghilterra e sembrerebbe
causato dalla perdita di un habitat "naturale" ormai irrimediabilmente "contaminato" dalle "sporche" attività
dell'uomo. Quest'affermazione sarebbe fortemente supportata, almeno per le piante, da un altro studio,
condotto sempre in Inghilterra, che ha scoperto come l'inquinamento da azoto riduca il numero di specie.
Secondo i dati più aggiornati, il suolo inglese (e quello dell'Europa centrale) ricevono una media di 17
chilogrammi di composti d'azoto per ettaro all'anno. Troppi per i ricercatori, che mettono in guardia:
potrebbero uccidere il 20% delle specie di piante erbose.
L'ULTIMA ONDA
L'avvocato David Burton accetta di difendere a Sidney un gruppo di aborigeni accusati di omicidio. Durante
la preparazione del processo, Burton scopre che i suoi assistiti fanno parte di una setta iniziatica, e finisce
per subire il misterioso fascino di questa cultura a lui sconosciuta. La costruzione del processo coincide con
una serie di drammatiche e inspiegabili perturbazioni climatiche e con l'impressione che l'avvocato ha di
vivere situazioni sognate da bambino. Chris, uno degli imputati, gli spiega che quanto accade si ricollega ai
ritorni ciclici del tempo e gli insinua il dubbio di essere lui stesso un "mulkurul", il messaggero che annuncia
periodicamente la fine del mondo. Quando la causa è perduta, Burton, ossessionato dalle parole
dell'aborigeno e spinto a sondare i segreti della sua mente, scopre nei sotterranei di una centrale elettrica un
antico santuario che conserverebbe i segni premonitori di una catastrofe imminente. Tornato in strada,
Burton assiste impotente all'arrivo di una immensa onda che sommergerà la città intera.
“L'Ultima Onda” condivide con una certa
fantascienza cinematografica la riflessione
angosciosa sulla possibilità di una
prossima fine del mondo. Il tema svolge
una riflessione critica sul significato
dell'esistenza e interroga sulle
contraddizioni strutturali della società
contemporanea. Sviluppandosi tra
sociologia, etnologia e filosofia, il racconto
pone il drammatico contrasto tra due civiltà
solo apparentemente integrate: quella
aborigena legata a pratiche religiose e
magiche fondate sulla sintonia tra uomo e
natura, e quella dei bianchi, permeata di
ignoranza e razzismo, superbamente
puntellata sull'asserito equilibrio tra ragione
ed ordine. La cultura aborigena - tanto più
"diversa" in quanto poco nota al pubblico
occidentale - si colora, nel contesto della
vicenda, come forza sotterranea (il
santuario, significativamente, è nel
sottosuolo della realtà cittadina) umiliata
dalla colonizzazione dei bianchi e dal loro
progresso industriale (sul santuario è stata
costruita una centrale elettrica), ma
umorosamente confusa con la terra e con il
paesaggio (oltre la relativamente piccola
Sydney si aprono paesaggi semidesertici a
perdita d'occhio).
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