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L’INTARSIATORE
Oh che dolce cosa è questa prospettiva!
Paolo Uccello
Se i miei quadri fossero senza mistero, la mia testa sarebbe già presa
dalle idee degli altri. Come si dice, lavaggio del cervello. Ti prendono
l’anima e il corpo. In cambio ti regalano un po’ di commiserazione.
Pretendono anche di prendersi cura di te. Non sono una bestia da ripulire.
Mi sono incazzato quando gli amici pittori mi hanno portato all’ospedale
per farmi lavare. Mi hanno denudato. Un’infamia.
In una cittadina di commercianti un artista non ha vita facile. So come
funziona. Quello è matto ma le sue cose un giorno potranno avere un
valore. Signor Buder mi fa una tarsia, un quadro, o un violino. Qualcuno
apprezza sinceramente i miei lavori, altri vorrebbero un oggetto da tenersi
in casa e che acquisti valore col tempo. I miei mercanti, i miei mecenati
sono il pollivendolo, gli osti, il pasticciere, i medici, avvocati, mobilieri. E i
lavori spariscono nelle case.
Mi hanno fatto una personale quando avevo già sessant’anni, nel 1960,
in fondo a Carruggio dritto, nei locali di un negozio in ristrutturazione,
senza porte, in febbraio, faceva un gran freddo. Me ne stavo in un angolo
come una statua, pochi mi hanno rivolto la parola. Mi sembrava di essere
invisibile. È entrato un collega pittore, che dalla faccia livida non sembrava
felice di vedere la mia personale. A sorpresa, inaspettatamente, dopo anni
sotterranei ero uscito allo scoperto, in pubblico!
Facevo ancora solo tarsie e forse un pittore storceva il naso se erano
incorniciate e appese al muro come quadri. Roba decorativa. La pittura si
sa, è cosa superiore, ma adesso dipingo e allora? Ma non ho risentimenti, i
pittori in una città come questa non hanno vita facile. Chi è scappato a
Milano. Chi si è reso accettabile agli occhi dei benpensanti insegnando alla
scuola d’arte. Fare solo il pittore non era considerato un vero mestiere.
Figurarsi se io potevo insegnare. Non ho imparato da nessuno. C’è voluto
del tempo. Lasciatemi raccontare come ho cominciato.
Non ho cominciato con colori e pennelli. A padroneggiare le forme ho
imparato tagliando le tomaie delle scarpe. In seguito mi sono messo a fare
le tarsie. Tagliare, intersecare i legni secondo le fibre, comporre figure,
forme in uno spazio che in primo luogo esiste nella mia testa. Come giocare
una partita a scacchi. Costretto da una logica, da mosse preordinate. Non si
possono avere pentimenti, niente è casuale, suggerito dal momento.
Alla fine un intarsio può essere una magia che sospende il tempo, blocca
una scena per sempre. Un teatrino, un mondo, chiamatelo come volete di
lune, spiagge, cieli, uccelli, e altri animali, violini, violinisti, arlecchini,
maschere, danzatrici, guerrieri, scene di vita, di lavoro, finestre aperte su
spazi indefiniti. Personaggi, bestie, cose, luoghi li vedo come fossero reali.
Scelgo i piallacci secondo le venature e il colore che ritengo più adatti
alle forme da ritagliare seguendo il modello sulla carta. Le linee di giuntura
devono combaciare alla perfezione, per dare volumi e prospettive tingo le
parti con le aniline. Incollo le figure su una tavola, non posso fare ritocchi.
Con un ferro rovente posso tracciare contorni, linee interne e con la sabbia
ben calda marcare a fuoco eventuali sfumature, ombreggiature più o meno
scure per dare profondità, movimento. Ogni segno deve essere dissimulato
nella composizione finale. Dove gli interventi dovuti agli strumenti si
annullano, scompaiono.
Il mosaico in legno esiste dal Rinascimento, si usava noce, ebano,
fusaggine, bosso, anche rosa, ulivo, palissandro, mogano. Certi legni che
non si trovano nemmeno più. Adesso le tarsie non le posso più fare, ho
difficoltà a trovare i legni adatti. È come non avere i colori, l’intarsio non
s’illumina, ti muore sotto gli occhi. La pittura è viva. Dipingo, devo finire
un Arlecchino per il signor Mario.