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UNDERGROUND

di EMIR KUSTURICA

Sfrenata e surreale, l'opera di Kusturica rappresenta una delle novità più significative degli ultimi vent'anni di
cinema. Un'epopea balcanica iniziata nei circoli underground di Sarajevo degli anni 70

"Se vuoi essere veramente


universale,
parla del tuo villaggio"
Honoré De Balzac

Il cinema di Emir Kusturica è una raffigurazione pagana e surreale del caos. Un caleidoscopio di immagini eccessive e sfrenate,
pervaso da uno humour alticcio e da una livida vena poetica. Veterano del disordine, inteso non solo come chiave artistica ma
anche come stile di vita, il regista di Sarajevo ha attraversato vent'anni di cinema con la fantasia di un bambino e l'animo
selvaggio di un pirata, dipingendo storie di un mondo alla deriva, proprio come il suo (ex) paese, sgretolato dalla violenza,
dalla follia e dall'avidità. La vecchia Trabant divorata da un maiale - una delle sequenze più memorabili di  Gatto Nero, Gatto
Bianco - è in questo senso la metafora "definitiva" della sua visione anarchica e apocalittica delle umane sorti.

Costruiti per cerchi concentrici (la famiglia, la tribù, il clan, intesi come microcosmi di un universo più ampio), i film di
Kusturica non possiedono mai una chiave di lettura univoca e razionale: sono un susseguirsi di voli pindarici sulle ali
dell'immaginazione, un continuo invito al sogno. Basta lasciarsi rapire dalla traiettoria di un palloncino (Arizona Dream), dal
lento incedere di una fiaccolata sul letto di un fiume (Il Tempo dei Gitani), da un velo da sposa che scivola negli abissi del
mare (Underground) per entrare in un universo poetico che non è poi così lontano da quello di Federico Fellini, non a caso
uno dei maestri dichiarati del regista bosniaco. Il perché lo raccontava lo stesso Kusturica in una spassosissima intervista
concessa ad "Avvenimenti" nel 2000: "Non sopporto il naturalismo dei film di Hollywood, dove il personaggio esce dalla
macchina, apre la porta, sale sull'ascensore, esce dall'ascensore, attraversa i corridoi, apre la porta e poi chiude la porta.
Trasporta grossi sacchetti del supermercato e poi li butta nel frigo. Poi dal frigo tirano fuori un gelato. Squilla il telefono. Allora
lui si preoccupa. Risponde al telefono appoggiandolo sulla spalla. Amo i film di Fellini perché non ci sono protagonisti che si
appoggiano telefoni sulla spalla".

Con Fellini, Kusturica condivide anche la visione circense e surreale del cinema ("Credo che il circo sia la forma spettacolare
più forte prima del cinema, una di quelle che lo ha anticipato", spiegherà nel 1998). Ma la chiave grottesca è spesso in
Kusturica metafora di situazioni sociali e politiche legate alla storia del suo paese. Un messaggio che si è rivelato talvolta
ambiguo, al punto da attirare al cineasta di Sarajevo accuse disparate, la più infamante delle quali lo dipinse come "asservito"
all'establishment belgradese dell'era Milosevic e cinico speculatore sulle disgrazie del suo popolo (rom inclusi). Un linciaggio
culturale figlio della stagione dell'odio balcanico che tutto ha travolto e spazzato via, compreso il confine tra arte e
propaganda.
Le zone d'ombra del cinema di Kusturica, tuttavia, nascondono soprattutto la confusione di un uomo divenuto globetrotter per
scelta e apolide per necessità storica: "Quando è sparita la Jugoslavia, io sono diventato invisibile", ama spesso ripetere.

Il 1995 è l'ultimo anno (salvo appendice kosovara) del più cruento conflitto europeo del dopoguerra. Bruciano i Balcani e si
dissolve il loro avamposto multietnico, la Jugoslavia di Tito. 
Emir Kusturica, che attraverso la sua filmografia aveva seminato preziosi tasselli di quel mosaico (il tenero amarcord di "Ti
ricordi di Dolly Bell?", la sinfonia tragica del "Tempo dei Gitani"), ha compiuto quello che i suoi concittadini di Sarajevo gli
rinfacceranno per sempre come un tradimento. E' fuggito prima a Belgrado, coccolato dalle autorità serbe, poi negli Stati Uniti,
dove ha coronato il suo "sogno americano" con "Arizona Dream", sua unica concessione all'odiata Hollywood, quantomeno nel
cast (Johnny Depp, Vincent Gallo, Jerry Lewis, Faye Dunaway).

Scorbutico, refrattario alle liturgie ufficiali, Kusturica è in realtà uno dei registi più vezzeggiati del momento, specie in Europa,
dove ha già fatto incetta di premi (Leone d'oro a Venezia per "Ti ricordi di Dolly Bell?", Palma d'oro a Cannes per "Papà è in
viaggio d'affari"). Gli manca però ancora l'affondo per conquistarsi definitivamente un posto tra i maestri della cinematografia,
accanto al suo nume, Federico Fellini. Per farlo, dovrà tornare nella viscere della sua Jugoslavia. E il percorso a ritroso sarà
intriso di veleni e amarezze.

"Underground" nasce come un affresco corale in chiave grottesca su mezzo secolo di storia jugoslava (come riassunto dal
didascalico sottotitolo, "C'era una volta un paese"). Dalla guerra alla guerra, dall'invasione nazista di Belgrado del 1941 alla
polveriera degli anni 90. E' il manifesto dell'estetica caotica di Kusturica, l'apoteosi della sua debordante fantasia. Il film
gronda di immagini, e la più forte è proprio quella del titolo. "La Jugoslavia è una cantina" - ci dice Kusturica, rievocando la
caverna di Platone, dove gli schiavi vedono solo le ombre deformate della verità. Ma underground è anche sinonimo
delle caves dove studenti, intellettuali e disertori "resistevano" a ritmo di rock al regime titoista, così come dei rifugi dove la
popolazione di Sarajevo cercava scampo al furore dell'assedio.

La brillante sceneggiatura di Dusan Kovacevic affida il Grande Inganno a un artefice: il partigiano Marko (un mefistofelico, e
spassosissimo, Miki Manojlovic), compagno di scazzottate e piccole truffe con Crni o Blacky (Il Nero nella traduzione italiana). I
due condividono tutto, anche la passione per la svampitissima attrice Natalja (una straripante Mirjana Jokovic). Eppure non
potrebbero essere più diversi: Marko è un cinico tecnocrate, destinato a divenire prima pilastro del regime di Tito, poi
contrabbandiere d'armi; Il Nero - memorabile maschera del montenegrino Lazar Ristovski - è una simpatica canaglia, epitome
del machismo balcanico tutto baffoni, muscoli e canotta. Un picaresco donchisciotte impegnato in una titanica sfida
all'umanità. Sarà facile per Marko raggirarlo, imprigionandolo, insieme a una bislacca compagnia, per quindici anni in un
sotterraneo, con la scusa di una guerra immaginaria. Quando Il Nero, ufficialmente morto ed eroe nazionale, riemergerà in
superficie, si ritroverà nel mezzo delle riprese di un film di propaganda che ricostruisce le sue gesta anti-naziste. Così,
grottescamente, l'inganno si protrarrà.

Innumerevoli - si diceva - le metafore: dall'amore di due uomini per la stessa donna (la schizofrenia della condizione
jugoslava) al crocifisso ciondolante nel piazzale devastato dalle bombe (la guerra di religione nei Balcani) dal tunnel che sfocia
nel Danubio (la difficile ricerca della verità) all'isola che si frantuma in arcipelago nel finale (la dissoluzione della Jugoslavia).
Ma tutto il film è un'ubriacatura di immagini, colori e suoni, con la scoppiettante colonna sonora di Goran Bregovic a dettare
un ritmo forsennato, tra fanfare tzigane e cocek da sballo. Tutto è eccessivo, barocco, straripante. Un ibrido visionario di
realismo fantastico à-la Marquez e grottesco panslavo. Sovrabbondanza che, come nel miglior cinema felliniano, non soffoca la
storia, ma ne diviene forza espressiva.
Molte sequenze sono già entrate di diritto nella storia del cinema, a cominciare da quella iniziale: il bombardamento dello zoo
di Belgrado, con gli animali che vagano spauriti tra le macerie. E agli spettatori più attenti non sfuggiranno gli omaggi cinefili
ad altri grandi registi, jugoslavi (Bulajic, Makavejev) e non, incluso il Vigo de "L'Atalante" nel pre-finale.

Coronamento di una magica triade balcanica (con lo struggente "Prima della pioggia" del macedone Milcho Manchevski e il
capolavoro di Théo Angelopulos, "Lo sguardo di Ulisse"), "Underground" codifica - come ha osservato Nevena Daković - due
caratteristiche-chiave di un genere nuovo, il film di guerra post-jugoslavo: da un lato, l'uso di riferimenti mitologici, fatalistici,
antropologici e nazionali sulle cause del conflitto; dall'altro, una struttura narrativa realizzata attraverso un dialogo
permanente tra passato e presente.
Tuttavia, proprio sul versante politico risiedono le sue zone d'ombra: Kusturica pare infatti condividere le ragioni della sua
patria adottiva (la Serbia) confutando la tesi di un disegno egemone di Milosevic e sposando quella del "conflitto tra fratelli"
fomentato ad arte dai leader revanscisti. Tesi già discutibile in sé, al tempo delle granate su Sarajevo, e resa ancor più
stridente dalla marchiana gaffe del finale, quando sul tavolo del banchetto della (impossibile) riconciliazione tra i popoli della
ex-Jugoslavia, viene issato un maiale, escludendo così di fatto l'etnia musulmana. Sarà anche questo a spingere Alain Finkielk
dalle colonne di "Le Monde" a definire il film "la versione rock, postmoderna e alla moda, della propaganda serba più
menzognera". Kusturica replicherà sdegnato, con una sarcastica auto-difesa.

Ma forse è inutile chiamare in causa la politica al cospetto di un cinema che fa dell'iperbole e del surrealismo la sua chiave di
volta. "Underground" resta un'opera epocale, che ha segnato uno spartiacque nella stessa cultura dei Balcani: forse neanche
Ivo Andric nel suo memorabile romanzo "Il Ponte sulla Drina" era riuscito a catturare un'istantanea così abbagliante del suo
popolo. 
Un film che è un necrologio, un'atroce parabola, ma anche un inno alla vitalità sfrenata degli "slavi del Sud".

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